Per istraforo di perspettiva. Il cannocchiale aristotelico e la poesia del Seicento 0670452494, 0670476605, 8881472074


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Per istraforo di perspettiva. Il cannocchiale aristotelico e la poesia del Seicento
 0670452494, 0670476605, 8881472074

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PlERANTONIO FRARE

«PER ISTRAFORO DI PERSPETTIVA» IL CANNOCCHIALE ARISTOTELICO E LA POESIA DEL SEICENTO

ISTITUTI EDITORIALI E POLIGRAFICI INTERNAZIONALI® PISA • ROMA

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ISBN 88-8147-207-4

INDICE

Premessa

7

Pag.

Nota bibliografica

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I PARTE. RETORICA E TEORIA 1. Preliminari ad una lettura del Cannocchiale Aristotelico

13

2. Il Cannocchiale aristotelico : da retorica della letteratura a letteratura della retorica *

55

3. Contro la metafora. Antitesi e metafora nella prassi e nella teoria letteraria del Seicento

85

II PARTE. RETORICA E POESIA 1. Marino e Tesauro: antitesi, metafora e argutezza

103

2. Bartoli e Tesauro, ovvero la Ricreazione del savio e la ri­ creazione delFingegnoso

122

3. Tesauro teorico e Tesauro poeta. Metafora (di equivoco) e menzogna, o il vero attraverso il velo

131

Indice dei nomi

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PREMESSA

Il libro che qui si introduce costituisce il secondo pannello di un dittico inaugurato nel 1998 con l’anta dedicata alle tragedie del Tesauro (Retorica e verità. Le tragedie di Emanuele Tesauro, Napoli, E si, 1998). Ad entrambi è sottesa la convinzione che la retorica, lungi dal costituire una pura tecnica (di cui vergognarsi e quindi da occultare), rappresenti invece una disciplina dello spirito, Vars cui sono affidati la trasmissione e l’arricchimento humanitas europea. Di questa concezione, ereditata dalla classicità greco-latina e dall’umanesimo cristiano, i Gesuiti fecero il punto di forza della loro opera pedagogica e della loro produzione culturale: la retorica è ars artium, modello di costruzione e di interpre­ tazione delle opere dell’uomo, della natura, di Dio. Ad una retorica intesa come strategia della produzione testuale (di qualunque testo) deve dunque corrispondere una retorica come ermeneutica del globale e del parti­ colare. La cronologia della stampa non rispecchia le fasi della ricerca, essen­ do l’indagine sul Cannocchiale aristotelico iniziata molto prima di quella sulle tragedie: sfasatura dovuta a molteplici ragioni, ma che anche testi­ monia della necessità di verificare nel vivo dei testi la validità dei risul­ tati conseguiti nella ricostruzione di una teoria. Come quel volume na­ sceva a verifica di questi studi, così questo libro sostiene il precedente e ne è rafforzato: interazione tra ricerca teorica e prassi critica, tra retorica come teoria della produzione testuale e retorica come strumento erme­ neutico, che credo feconda e cui non ho voluto rinunciare nemmeno qui. Infatti, ad una prima parte tesa alla individuazione dei nodi concettuali fondanti del Cannocchiale aristotelico ne segue una seconda dedicata alla rilettura di testi campione (del Marino, del Bartoli, del Tesauro stesso) secondo le categorie e gli strumenti retorici in precedenza enucleati. Il sintagma del titolo deriva dal seguente passo del Cannocchiale ari­ stotelico: «La Metafora, tutti a stretta li rinzeppa [gli «obietti» del discor­ so] in un vocabulo: e quasi in miracoloso modo gli ti fa travedere l’un dentro all’altro. Onde maggiore è il tuo diletto: nella maniera, che più cu­ riosa e piacevol cosa è mirar molti obietti per un istraforo di perspettiva, che se gli originali medesimi ti venisser passando dinanzi agli occhi» (p. 301). Il diletto di cui parla qui il Tesauro è, come si vede, inscindibile dalla conoscenza: ad una difesa della retorica (nome, a quel tempo, di ciò che noi chiamiamo letteratura) dalle ricorrenti accuse di immoralità e di indifferenza al vero, è appunto dedicato il Cannocchiale, che anzi intende esaltarne lo statuto peculiare. Il Tesauro si arresta al di qua del limite che segna quella che oggi si chiamerebbe l’autonomia della letteratura. Possiamo rimpiangere che non

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abbia compiuto il passo decisivo, ma non possiamo dimenticare che la sua prudenza non è frutto né di pavidità etica né di insufficienza speculativa. Quel passo l’aveva compiuto il Marino, dei cui trionfi il giovane Emanuele era stato spettatore entusiasta e testimone partecipe: ma nello straordi­ nario virtuosismo tecnico del Napoletano era insito il rischio di screditare quello stesso esercizio retorico (letterario) che egli aveva portato all’apice della raffinatezza. Trentanni dopo la sua morte, la poesia praticata e propugnata dal Marino e dai suoi seguaci stava ripiegando sotto l’avanzata di una riforma che prevedeva la subordinazione della letteratura ai valori vigenti: saranno prima quelli della fede, poi quelli della ragione. Reduce dall’inebriante esperienza del concettismo e consapevole del clima mu­ tato, il Tesauro si cimenta nella non facile impresa di ricordare ai suoi lettori la pari dignità e l’intrinseco legame esistente tra retorica e morale, tra poesia e filosofia, tra bello e vero. Sta in questo sempre pericolante equilibrio tra una neosofistica dimentica del «giovevole» ed un moralismo sordo al «gioviale», in questo apparente anacronismo - rispetto al proprio tempo e, per diversi motivi, anche al nostro - la validità della sua lezione. Dopo aver attraversato la stagione formalista, di cui è stato anzi uno dei protagonisti, Tzvetan Todorov indica, tra le «evidenze che non avrem­ mo dovuto dimenticare», che la «letteratura concerne l’esistenza umana e, a dispetto di chi ha paura delle grandi parole, è un discorso che tende alla verità e alla morale» (Critica della critica. Torino, Einaudi, 1986, p. 185). Il Tesauro non arriva - né potrebbe - a tanta consapevolezza; ma, dopo aver vissuto in prima persona la stagione trionfale della neosofistica mariariana e marinista, riallaccia il legame tra retorica e verità. E lo riallaccia mantenendo e rivendicando i diritti dell’ingegno e dell’arguzia, ricorrendo a tutti i mezzi di una retorica matura e globale: fornendo con ciò stesso un antidoto a quella riduzione «della verità a verifica» e della «morale a moralismo» (cui Todorov attribuisce la scissione del legame tra letteratura e verità) che, inaugurata nel suo periodo, sarebbe poi prevalsa nel ra­ zionalismo sei-settecentesco. E fin troppo evidente che fu questa stessa natura retorica del Cannoc­ chiale aristotelico ad allontanare sdegnati da esso lettori che pure se ne sarebbero potuti giovare (o ad indurli a rinnegare una lettura che forse fe­ cero): tanto potè la cattiva fama caduta sulla gloriosa disciplina. Ora che essa è stata restituita alla sua giusta dimensione, le pagine del Cannoc­ chiale si offrono ricche di suggestioni a lettori contemporanei in cerca di una «cavillazione urbana» da opporre alla «cavillazione dialettica», bi­ sognosi di una logica retorica che, solidale con le ragioni della nostra umanità, temperi e governi la disumanante logica economica che si avvia a dominare i nostri anni.

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NOTA BIBLIOGRAFICA:

Indico le sedi in cui sono precedentemente apparsi i contributi qui raccolti, che sono stati tutti rivisti e modificati, e maggiormente i più antichi. Preliminari ad una lettura del «Cannocchiale aristotelico», «Testo», Milano, 17, gen.-giu. 1989, pp. 32-64 (qui 1.1); Il «Cannocchiale aristotelico»: da retorica della letteratura a letteratura della retorica, «Studi secenteschi», Firenze, XXXII, 1991, pp. 33-63 (qui 1.2); Contro la metafora. Antitesi e metafora nella prassi e nella teoria letteraria del Seicento, «Studi secenteschi», Firenze, XXXIII, 1992, pp. 3-20 (qui 1.3); Antitesi, metafora e argutezza tra Marino e Tesauro, in The «Sense» of Marino, ed. by FRANCESCO GUARDIANI, New York-Ottawa-Toronto, Legas, 1994, pp. 299-321 (qui ILI); Ricreazione del savio e ri-creazione delFingegnoso: tra Bartoli e Tesauro, «Testo», Milano, 26, lug.-dic. 1993, pp. 81-87 (qui IL 2); Il vero attraverso il velo. Metafora (di ecpdvoco) e menzogna in Emanuele Tesauro, in

Centre Interuniversitaire De Recherche Sur La Renaissance Italienne, Figure à Fitalienne. Métaphores, équivocpces et pointes dans la littérature maniériste et baroque, Études réunies par DANIELLE BOILLET et ALAIN GODARD, Paris, Université Paris III Sorbonne Nouvelle, 1999, pp. 307-35 (qui II.3).

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I. 1. PRELIMINARI AD UNA LETTURA DEL CANNOCCHIALE ARISTOTELICO

1.1. I PERCORSI CRITICI

La riapparizione del Cannocchiale aristotelico sul gran teatro della critica novecentesca si deve, come è notorio, a Benedetto Croce. Egli, nel saggio / trattatisti italiani del Concettismo e Baltasar Graciàn, fornì uno schele­ trico ma essenziale riassunto del trattato e non esitò a definirne l’autore come il «maggior rappresentante che ebbe mai la critica letteraria secen­ tistica»1; inoltre, instaurò un rapporto di fruizione personale con il Tesau­ ro, facendosi insegnare a tener ben ferma la distinzione tra «cavilla­ zione dialettica e cavillazione retto rie a», tra vero logico e vero poetico^. Il successivo precisarsi degli interessi del Croce in dire­ zione estetica porterà il filosofo a trascurare la disamina puntuale, iniziata in quella sede, del Cannocchiale aristotelico e ad enfatizzare, invece, quegli elementi che in esso paiono preannunciare l’estetica (del Vico e, per la transitiva, la propria). Questa limitazione dell’ambito di indagine provocò consequenzialmente una miglior fecalizzazione del problema pre­ scelto, e fors’anche qualche incertezza sulla reale portata delle intuizioni precorritrici del Tesauro: al quale, infatti, nel capitolo de\V Estetica del 1908 dedicato ai Fermenti di pensiero del secolo XVII12 3 toccano poche e poco significative righe: provato alla pietra di paragone di una storia dell’estetica (crociana, s’intende), il Cannocchiale aristotelico non regge, al confronto, ad esempio, con il Del bene del Pallavicino. Anche nella più tarda Storia dell'età barocca in Italia, l’accento è posto meno sulla validità dell’intuizione che sul rimpianto per la fallita «esecuzione [del]le due scienze filosofiche auspicate»; ed il resto del Cannocchiale è liquidato in una sbrigativa incidentale4, che, pur lasciando trasparire un giudizio positivo sull’opera, non doveva certo invogliare ad occuparsene.

1. Steso sullo spirare del secolo (la data apposta in calce rimanda al 1898) e letto il 18 giugno 1899 all’Accademia Pontaniana, il saggio fu poi incluso nei Problemi di estetica e contributi alla storia dell'estetica italiana, Bari, Laterza, 1909; cito dalla seconda edi­ zione riveduta, del 1923, pp. 311-48: 321. 2. Ivi, pp. 340-42. 3. BENEDETTO Croce, Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale. Teoria e storia, terza edizione riveduta, Bari, Laterza, 1908. 4. ID., Storia della età barocca in Italia. Pensiero - Poesia e letteratura - Vita morale, Bari, Laterza, 1929: «il Cannocchiale aristotelico, che, oltre a molti particolari notevoli, è già importante per questo tentativo di un organo della conoscenza rettorica o poetica, per questo abbozzo o idea o anche soltanto simbolo di quella che sarebbe diventata un giorno l’estetica» (p. 188; corsivo mio). La citazione a testo a p. 189.

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Considerata la temperie culturale di quegli anni, non stupirà quindi più che tanto che i pochi che si occuparono del Cannocchiale aristotelico0 riproponessero le indicazioni del Croce e limitassero il valore dell’opera a quello di umbrifero prefazio dell’estetica: dal massimo di ossequio del Trabalza5 67 , che riassume e parafrasa il saggio crociano su Graciàn e i concettisti italiani, si giunge, attraverso il Cesareo della Storia delle teorie estetiche in Italia1, al Flora, che accenna qua e là a forzare, pur senza uscirne, la cornice tràdita, ad esempio fornendo una esposizione relativa­ mente estesa, ma più rapsodica che sistematica, dell’intelaiatura del Can­ nocchiale aristotelico ed accennando, da finissimo lettore qual era, ai va­ lori di scrittura dell’opera: «il Tesauro è scrittor barocco, a sua volta, im­ maginoso e facondo»8. L’invito del Marzot a considerare nella loro autonomia i trattati di poeti­ ca (non solo del Seicento), anziché misurarli in base ad un ideologismo estetico9, rimase senza eco per parecchi anni. Il problema, lungi dall’es­ sere risolto, doveva aver perduto d’interesse, ed insieme ad esso anche il Cannocchiale aristotelico, visto che bisognerà attendere quasi dieci anni (dal 1944 al 1953) perché l’opera riappaia agli onori della critica. La lunga incubazione si rivela comunque fruttuosa, sfociando alla fine in quattro saggi, provenienti da ambiti culturali diversi e, come in seguito ad un curioso ma comprensibile fenomeno di diffrazione, indipendenti l’uno dall’altro: mi riferisco ai lavori di Bethell, Mazzeo, Pozzi e Menapace Brisca10.

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5. Spicca l’assenza dell’opera nel volume dedicato al Seicento della seconda edizione della Storia letteraria dTtalia, Milano, Maliardi 1929, affidato ad ANTONIO BELLONI, che pure trova il modo di dedicare qualche riga e un paio di pagine rispettivamente al Tesauro drammaturgo e allo storico. Prova in più che l’edizione non è «completamente rifat­ ta» (come recita il frontespizio) rispetto alla precedente del 1899, sempre del Belloni. 6. CIRO Trabalza, La critica letteraria nel Rinascimento (sec. XV - XVI - XVII), in Storia dei generi letterari italiani, Milano, Maliardi, 1915, pp. 299-303. 7. GIOVANNI Alfredo CESAREO, Storia delle teorie estetiche in Italia dal Medioevo ai nostri giorni ad uso delle scuole medie superiori, Bologna, Zanichelli, 1924. Compare già qui, riferita al Peregrini (p. 39), all’Orsi e al Muratori (p. 40), la qualifica di moderati, riproposta con dovizia di argomentazioni da FRANCO CROCE, I critici moderato-barocchi, «Rassegna della letteratura italiana», Firenze, LIX 3-4, lug.-dic. 1955, pp. 414-39; LX 2, apr.-giu. 1956, pp. 284-98 e LX 3-4, lug.-dic. 1956, pp. 438-70 (poi, col titolo La critica dei barocchi moderati, in ID., Tre momenti del barocco letterario italiano, Firenze, Sansoni, 1966, pp. 93-219). 8. FRANCESCO Flora, Storia della letteratura italiana, nuova edizione riveduta ed ampliata. III. Il Cinquecento (parte seconda). Il Seicento. Il Settecento, Milano, Mondadori, 1956 (19401), pp. 247-54: 248. 9. GIULIO Marzot, L’ingegno e il genio del Seicento, Firenze, La Nuova Italia, 1944, p. 38. 10. SAMUEL LESLIE Bethell, Graciàn, Tesauro and thè Nature of Metaphysical Wit, «Northern Miscellany of Literary Criticism», Aut. 1953, pp. 19-40; JOSEPH ANTHONY MAZZEO, Metaphysical Poetry and thè Poetic of Correspondance, «Journal of thè History of Ideas», New York, XIM 2, Apr. 1953, pp. 221-34; p. GIOVANNI POZZI, Note prelusive allo stile del Cannocchiale Aristotelico, «Paragone», Firenze, IM 46, ott. 1953, pp. 25-39;

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Se per i due di area anglosassone non stupirà troppo l’indipendenza dalle coordinate critiche impostate dal Croce, si dovrà invece sottolineare l’ec­ centricità, che il trascorrere del tempo non ha attenuato, del contributo del Pozzi: dovuta certo più alla decisa, e senz’altro polemica, presa di posizione contro il valore teorico (di teoria dell’estetica) del Cannocchiale. che non all’altra tesi, cui il saggio si consacra, dell’«innegabile valore sti­ listico della prosa tesauriana», visto che il Pozzi dichiara di seguire qui una «fugace, ma precisa osservazione del Croce»11 ed ha forse presente il succitato accenno del Flora. (E, del resto, che la ribellione fosse più con­ tro i crociani che contro il Croce, lo dichiara anche il fatto che le cate­ gorie di «ingegnosità» e «sensualismo» - sia pure private del valore nega­ tivo che hanno nel Napoletano - sono adibite a spiegare le caratteristiche dello stile del Tesauro; insomma, adattando le parole conclusive del saggio ariostesco di un maestro del Pozzi, Gianfranco Contini, «la dire­ zione costante che s’individua nello stile del Cannocchiale aristotelico si trova a coincidere perfettamente con la miglior descrizione caratterizzante che sia stata data fin qui della poetica del Seicento»12.) Nonostante l’acutezza del contributo, le tesi del Pozzi rimasero - e ri­ mangono tuttora - sostanzialmente isolate (in particolare la prima, mentre la seconda riemerge nel mio saggio del 1991 ed è alla base dell’intervento di Bozzola13), tanto è vero che intorno al 1960, quando, sotto la spinta convergente del rinato interesse per il Barocco14 e, in particolare, degli studi che Ezio Raimondi cominciava a dedicare al Tesauro, rinacque un certo interesse per il Cannocchiale aristotelico, ci si tornò a preoccupare LIDIA MENAPACE BRISCA, L’arguta et ingegnosa elocuzione. Appunti per una lettura del «Cannocchiale aristotelico». «Aevum», Milano, XXVIII 1, gem-feb. 1954, pp. 45-60 (gli ultimi due tanto più rimarchevoli in quanto, a mia conoscenza, sono i primi contributi dedicati interamente ed esclusivamente al Cannocchiale aristotelico). 11. POZZI, Noteprelusive.... cit., p. 26. 12. GIANFRANCO CONTINI, Come lavorava l’Ariosto [1937], in ID., Esercizi di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi contemporanei. Firenze, Le Monnier, 1947, pp. 309-21: 321. 13. PlERANTONIO FRARE, Il «Cannocchiale aristotelico»: da retorica della letteratura a letteratura della retorica. «Studi secenteschi», Firenze, XXXII, 1991, pp. 33-63 (qui 1.2). Sergio Bozzola, Appunti per un’analisi stilistica del «Cannocchiale aristotelico», in Stilistica, metrica e storia della lingua. Studi offerti dagli allievi a Pier Vincenzo Mengaldo. a cura di TlNA MATARRESE, MARCO PRALORAN e PAOLO TROVATO, Padova, Antenore, 1997, pp. 153-72 14. Tra le numerose testimonianze a disposizione, citerei almeno gli atti di due congressi, importanti sia in sé sia in quanto vivaci stimoli ad ulteriori approfondimenti: Retorica e Barocco. Atti del terzo Congresso internazionale di studi umanistici. Venezia 15-18 giugno 1954, a cura di ENRICO CASTELLI, Bocca, Roma 1955 e ASSOCIAZIONE Internazionale Per Gli Studi Di Lingua E Letteratura Italiana, La critica stilistica e il barocco letterario. Atti del secondo Congresso internazionale di studi italiani. Firenze, Le Monnier, 1956.

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di liberarlo dall’ipoteca crociana e di contestualizzarlo storicamente: i saggi di F. Croce (di cui va almeno ricordata la sottolineatura dei legami tra il Cannocchiale aristotelico e il barocco cosiddetto «moderato»), Co­ stanzo, Jannaco10 approdano ad una più sicura caratterizzazione dell’ope­ ra, trasferendola, tra l’altro, dall’ambito dell’estetica a quello della poe­ tica. Come si accennava, il rifiorire degli studi sul Cannocchiale aristote­ lico, che dagli anni ‘60 si spinge fino ad oggi, va con tutta probabilità ascritto a merito dei puntuali e precisi studi che Ezio Raimondi dedicò al Tesauro e che si concentrano tra il 1955 e il 1961, lungo un percorso critico che privilegia la messa a punto di problemi particolari e prelimi­ nari a qualsiasi interpretazione, senza con ciò rinunciare a proposte er­ meneutiche16. Si inserisce coerentemente in questo disegno la pubblica­ zione nel 1960 dell’antologia ricciardiana Trattatisti e narratori del Seicento, che rende finalmente accessibile, in una moderna edizione, larghe e significative porzioni del Cannocchiale aristotelico nella stampa 15. FRANCO Croce, Le poetiche del barocco in Italia, in Momenti e problemi di storia dell/estetica, Milano, Marzorati, 1959, I, pp. 547-75; ID., Critica e trattatistica del baroc­ co, in Storia della letteratura italiana. V. Il Seicento, Milano, Garzanti, 1967, pp. 473518; MARIO COSTANZO, Il Tesauro o delUingannevole meraviglia, in ID., Dallo Scaligero al Quadrio, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1961, pp. 67-100 (poi in ID., Critica e poetica del primo Seicento. III. Studi del Novecento sulle poetiche del barocco [18991944]. Alessandro Donati, Emanuele Tesauro, Roma, Bulzoni, 1971, pp. 89-112); CAR­ MINE jANNACO, Tradizione e rinnovamento nelle poetiche delTetà barocca, «Convivium», Torino, XXVII 6, nov.-dic. 1956, pp. 658-72; ID. (con la collaborazione di MARTINO CAPOCCI), Il Seicento, in Storia letteraria d'Italia, Milano, Maliardi, 1966 (seconda edizione riveduta; la prima è del 1963), pp. 48-51. 16. Fornisco l’elenco, in ordine cronologico, delle pubblicazioni di Ezio Raimondi sul Tesauro: Un esercizio petrarchesco di Emanuele Tesauro (letto come comunicazione al secondo Congresso dell’Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana su La critica stilistica e il barocco letterario - 1955 - e non apparso negli atti); Aspetti del grottesco barocco: dal Tesauro al Frugoni, «Convivium», Torino, XXVI 3, mag.-giu. 1958, pp. 261-79; Ingegno e metafora nella poetica del Tesauro, «Il Verri», Milano, II 2, ago. 1958, pp. 53-75; Grammatica e retorica nel pensiero del Tesauro, «Lingua nostra», Firenze, XIX, 2, 1958, pp. 34-39: tutti questi studi furono raccolti nel volume Letteratura barocca. Studi sul Seicento italiano, Firenze, Olschki, 1961, che comprende anche Una data da interpretare (a proposito del «Cannocchiale aristotelico»)’, Trattatisti e narratori italiani del Seicento, a cura di EZIO RAIMONDI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960; Anatomie secentesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966, che contiene l’Introduzione al citato Trattatisti e narratori... e Avventure del mercato editoriale (Note sulla trasmissione a stampa di testi secenteschi). Infine, nel 1982 il Raimondi ha procurato una ristampa di Letteratura barocca..., cit. preceduta da una succosa e importante Introduzione 1981. Dalla metafora alla teoria della letteratura (pp. V-LXXV). La copiosa bibliografia va integrata con ANDREA BATTISTINI - EZIO RAIMONDI, Retoriche e poetiche dominanti, in Letteratura. IH. Le forme del testo. I. Teoria e prosa, Torino, Einaudi, 1984, pp. 5-339: 98-116.

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del 16701'. Questa fondamentale operazione filologica ed editoriale è affiancata da numerosi sondaggi su importanti aspetti dell’opera del Tesauro, che costituiranno il quadro di riferimento della critica suc­ cessiva. Poiché è impossibile - e sarebbe riduttivo - proporre una sintesi dell’ampia tastiera escussa dal Raimondi, mi limito ad indicare due temi tra i più suggestivi e gravidi di conseguenze: la proposta di retrodatazione della genesi ideale del Cannocchiale aristotelico al terzo de­ cennio del secolo, in clima, cioè, di pieno marinismo, e l’assunzione della metafora ad elemento fondante del trattato e della interpretazione del reale che in esso è prospettata. Tasto, quest’ultimo, particolarmente caro al Raimondi, che vi ritorna, precisandolo ed approfondendolo, nefVIntroduzione 1981 alla preziosa ristampa del suo Letteratura baroc­ ca, significativamente intitolata Dalla metafora alla teoria della lettera­ tura: vi si ribadisce la funzione centrale della metafora, che viene per di più assunta a chiave interpretativa della teoria della letteratura sog­ giacente al Cannocchiale aristotelico. Questo della metafora - nel senso ampio, tesauriano, del termine costituisce, accanto al filone «estetico» inaugurato dal Croce, l’altro polo privilegiato dai lettori del Cannocchiale aristotelico, la cui forza d’attra­ zione si fa tanto più evidente quanto più svanisce quella del primo, fino a diventare largamente predominante nell’ultimo trentennio. Si trattò, in­ nanzitutto, di correggere l’interpretazione del Mazzeo, che vide nel furore analogico del Tesauro l’anticipazione di una decadentistica «poetic of corrispondence», sfociante in una metafisica della parola17 18. Una parallela attribuzione di valore ontologico alla concezione tesauriana di metafora è rintracciabile anche nei lavori della Menapace Brisca, dello Jannaco, del 17. Pubblicazione che ebbe il merito, tra l’altro, eli stimolare le ricerche sulla prima edizione dell’opera, risalente al 1654: di essa si era persa qualsiasi traccia, tanto che lo stesso Raimondi era incline a ritenere «spuria» {Trattatisti e narratori..., cit.., p. 7) la notizia che ne tramandava l’esistenza, fino a che nel 1962 il Cope annunciò di averne una copia nella propria collezione (JACKSON I. COPE, The 1654 Edition of Emmanuele Tesauro’s «Il Cannochiale [sic] Aristotelico», «Italica», Chicago, XXXIX 4, Dee. 1962, pp. 273-75). Per una conferma dell’esistenza di tale edizione e per uno status quaestionis utile, anche se non in tutto condivisibile, si veda PASQUALE TUSCANO, Appunti sulle prime stampe del «Cannocchiale aristotelico» di Emanuele Tesauro, «Giornale storico della letteratura italiana», Torino, CLIV, 488, 4° trim. 1977, pp. 562-72. Non mi pare, tutta­ via, che l’edizione sia tanto rara da giustificare i dubbi nati intorno alla sua esistenza, visto che essa è facilmente reperibile, oltre che alla Nationale di Parigi (segnatura Z. 519), in due notissime biblioteche milanesi, l’Ambrosiana (segnatura M. 7687) e la Trivulziana (C. 387). 18. MAZZEO, Metaphysical Poetry..., cit. (sul quale si vedano le osservazioni di RAIMONDI, Letteratura barocca..., cit., p. 8n. e di EUGENIO DONATO, Tesauro’s poetics: Trough a Looking-glass, «Moderne Language Notes», Baltimore, LXXVIII 1, Jan. 1963, pp. 15-30: 25n.).

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Montano19. Più prudenti il Raimondi (meno nei primi saggi che nelYIntroduzione 1981'. «l’ontologia metaforica dello spirito si adatta, si piega, ad una antropologia della moda») e il Costanzo, che insistono piuttosto sulla socialità (cortigiana) dell’arguzia barocca, cui il Tesauro affida un com­ pito di esplorazione della realtà che ha carattere regolistico e tutto intel­ lettuale20. L’ipotesi di un Tesauro che individua nel linguaggio - in quanto «significazione ingegnosa» - «la dimensione unica e insuperabile del rivelarsi dell’essere» viene riproposta nel 1985 dal Moncagatta, ma quasi subito respinta dal Briosi, che insiste invece sul carattere linguisticosemiotico, non ontologico, della teoria retorica del Cannocchiale21. Nel 1972, nel pieno del clima di imperialismo linguistico che fu alla base dell’esplosione semiotica in genere e neoretorica in ispecie, apparve lo studio del Conte dedicato alla Metafora barocca, in massima parte centrato proprio sul Cannocchiale aristotelico. In esso si mettevano par­ ticolarmente in evidenza da un lato l’importanza del fruitore, la cui parte­ cipazione è necessaria alla riuscita del processo metaforico; dall’altra, e soprattutto, il ruolo della metafora come modello interpretativo (non crea­ tivo) dell’intera realtà: «sia Vargutezza sia la Metafora si pongono nel trattato risolutamente come strumenti retorici: nell"interpretazione “ar­ guta” della realtà, Vargutezza e la Metafora diventano modello», linguisti­ co, aggiungiamo noi, della realtà extralinguistica22. Parallelamente, e con sempre maggior impegno e precisione, ci si preoccupava di mettere in luce la natura e i meccanismi della metafora juxta Thesaurum, seguendo due vie. La prima è quella comparativa di un confronto con VAgudeza y arte de ingenio di Graciàn: non più, però, allo scopo di stabilire precedenze e influssi (come in B. Croce e ancora in Garcia Berrio, che approdano a risultati opposti), ma per chiarire, grazie ad una analisi contrastiva (come nei saggi di Hatzfeld e Laurens), le di­ verse caratteristiche delle due opere, pur sullo sfondo comune della trattatistica gesuita, come segnalato in particolare dalla Lase23. La seconda,

19. MENAPACE BRISCA, L'arguta et ingegnosa elocuzione..., cit.; JANNACO, Tradizione e rinnovamento..., cit.; ROCCO MONTANO, L'estetica del rinascimento e del barocco, Napoli, Quaderni di Delta, 1962, pp. 234-37. 20. RAIMONDI, Letteratura barocca, cit., p. LXXII (per la posizione precedente si vadano in particolare le pp. 21-22); COSTANZO, Il Tesauro o dell'ingannevole meraviglia, cit. 21. MAURIZIO MONCAGATTA, La parola in movimento. Un'interpretazione del «Canno­ cchiale aristotelico», «Rivista di estetica», Padova, XXVI, 21, 1985, pp. 9-28: 26. SAN­ DRO BRIOSI, Il mondo come segno e come gioco. Su Emanuele Tesauro, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia. Università di Siena», Siena, X, 1989, pp. 171-85. 22. GIUSEPPE Conte, La metafora barocca. Studio sulle poetiche del Seicento, Milano, Mursia, 1972, p. 155. 23. CROCE, I trattatisti italiani del Concettismo e Baltasar Cracian, cit.; ANTONIO GARCIA-BERRIO, Espana e Italia ante el Conceptismo, Madrid, Revista de filologia espafìola, LXXXVII, 1968 (cap. II: Baltasar Cracian y Emanuelle [sic] Tesauro: comparación

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in reazione alla lettura attualizzante del Mazzeo (che accostava Tesauro a Baudelaire e a Poe), e praticata dalla critica anglosassone (favorita in ciò dalla frequentazione con la contemporanea poesia metafisica), consiste nell’applicare la teoria del Cannocchiale alla prassi poetica del Seicento: strada aperta dal Proctor, che riconosce al Tesauro il merito di essere stato il primo «who has defined thè conceit as a paralogistic enthymeme» e «who succeded in distinguishing thè conceit from other tropes on thè basis of its structure alone», come prova analizzando testi di Góngora e Donne, ma esclusivamente dal punto di vista della loro struttura (para)logica24. Il lavoro di Proctor è alla base dell’intervento migliorativo di Van Hook, il quale si rende ben conto innanzitutto che l’argutezza del Tesauro non è una figura, in secondo luogo che essa è però basata su una figura (oltre che costruita come un paralogismo): analizza quindi testi di Donne e di altri metafisici inglesi secondo le proposte del Tesauro, concludendo che «Critics like Tesauro permit us to distinguish fully elaborat ed conceits, and some of thè epistemological assumptions behind them, from those instances of uncomplicated paradox, sophistry, or metaphor which are merely that figure’s elementary components»2°. E in questa linea, con ulteriori precisazioni e correzioni di rotta, che si inserisce il mio saggio del 1993, che legge i componimenti di Marino alla luce delle teorie del Cannocchiale26. In Italia, gli studi più importanti si devono a Mario Zanardi: dopo una serie di assaggi consegnati ad un articolo del 1980, il critico si dedica all’accurata ricostruzione del retroterra culturale - con particolare atten­ zione alla retorica - del Tesauro e della Compagnia di Gesù da cui nasce il Cannocchiale, e pone fruttuosamente a confronto le proposte teoriche del trattato con la prassi arguta del suo autore nelle Inscriptiones e nei Panegirici. In un saggio successivo, lo Zanardi mette in luce la fonda­ mentale presenza, nella metafora tesauriana, di una componente giocosa, de sus obras teóricas). HELMUT HATZFELD, Three National Deformations of Aristotle: Tesauro, Graciàn, Boileau, «Studi secenteschi», Firenze, II, 1961, pp. 3-21; PIERRE LAURENS, «Ars ingenii»: la théorie de la pointe au dix-septième siècle (B. Graciàn, E. Tesauro), «La licorne», Poitiers, 3, 1979, pp. 185-213; NORMA HAYDEÉ LASE, Una retorica comune alla base del concetto di metafora in Baltasar Graciàn e in Emanuele Tesauro, «Testo», Roma, 27, gen.-giu. 1994, pp. 56-66. Un’utile analisi contrastiva è anche quella proposta da FERNAND HALLYN, Port-Royal vs Tesauro: signe, figure, sujet, «Baroque», Montauban, 9-10, 198, pp. 76-86. 24. ROBERT E. PROCTOR, Emanuele Tesauro: A Theory of thè Conceit, «Moderne Language Notes», Baltimore, LXXXVIII 1, Jan. 1973, pp. 68-94: 89. 25. J. W. VAN HOOK, «Concupiscence of Wit»: The Metaphysical Conceit in Baroque Poetics, «Moderi! Philology», Chicago, LXXXIV 1, Aug. 1986, pp. 24-28: 36. 26. PlERANTONIO FRARE, Antitesi, metafora e argutezza tra Marino e Tesauro, in The “Sense” of Marino, ed. by FRANCESCO GUARDIANI, New York-Ottawa-Toronto, Legas, 1994, pp. 299-321 (qui ILI).

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il che gli permette di rilegarla al gioco e di inserirla nel più vasto oriz­ zonte ludico in cui è stata riconosciuta una delle caratteristiche della ci­ viltà barocca: «la metafora segno distintivo dell’elocuzione barocca è an­ che il suo distintivo ludico»2 z. Rimanevano tuttavia ancora poco chiare alcune questioni di non mini­ ma rilevanza, che chi scrive ha tentato di risolvere nei saggi apparsi tra il 1989 e il 1992: la differenza tra la metafora del Tesauro e la nostra, il rapporto tra metafora (o figura retorica in generale) e argutezza, una più esatta definizione di quest’ultima, infine la necessità di recuperare ad essa tutte le altre figure retoriche (in particolare l’antitesi), che possono entrare a costituirla a pari titolo della metafora. I risultati così raggiunti chiedevano di essere verificati nel corpo vivo della poesia barocca, in particolare di quella del suo più illustre rappresefitante, cioè il Marino: è l’intento sotteso al già citato saggio del 1993^8. Negli stessi anni, Claudio Scarpati centrava invece la propria indagine sul rapporto tra argutezza e verità: dopo aver ri allacciato il Cannocchiale aristotelico alla speculazione cinquecentesca (e soprattutto alla controver­ sia tra i fautori di una poesia intesa come imitazione «icastica» e i soste­ nitori - Iacopo Mazzoni su tutti - di una poesia come imitazione «fan­ tastica»), lo Scarpati rilegge l’opera alla luce della dialettica tra vero e falso, per concludere, sia pure prudentemente, per la «verità» della poe­ sia (e della retorica) proposte dal Tesauro: «La dizione artistica dà vita a una conoscenza sui generis che insegue un traguardo veritativo lungo un itinerario irregolare fondato sul nesso tra esplicito e implicito, tra di­ chiarato e alluso»27 29. Si tratta di un risultato importante, che riconosce 28

27. MARIO ZANARDI, La metafora e la sua dinamica di significazione nel «Cannocchiale aristotelico» di Emanuele Tesauro., «Giornale storico della letteratura italiana», Torino, XCVII 499, 3° trim. 1980, pp. 321-68. ID., Sulla genesi del «Cannocchiale aristotelico» di Emanuele Tesauro, «Studi secenteschi», Firenze, XXIII, 1982, pp. 3-61 e XXIV, 1983, pp. 3-50. ID., Metafora e gioco nel «Cannocchiale aristotelico» di Emanuele Tesau­ ro, «Studi secenteschi», Firenze, XXVI, 1985, pp. 25-99 (la citazione a testo a p. 99). In un contributo successivo, lo Zanardi esamina le «figure armoniche» nelVAristodemo secondo la tassonomia proposta dal Tesauro: Le «figure armoniche» e Eelocuzione barocca delT«Aristodemo» di Carlo de" Dottori, «Studi secenteschi», Firenze, XXX, 1989, pp. 131-59. 28. PlERANTONIO FRARE, Preliminari ad una lettura del «Cannocchiale aristotelico», «Testo», Roma, 17, gen.-giu. 1989, pp. 32-64 (qui 1.1). ID., Il «Cannocchiale aristote­ lico»: da retorica della letteratura a letteratura della retorica, cit. (qui 1.2); ID., Contro la metafora. Antitesi e metafora nella prassi e nella teoria letteraria del Seicento, «Studi secenteschi», Firenze, XXXIII, 1992, pp. 3-20 (qui 1.3); Antitesi, metafora e argutezza tra Marino e Tesauro, cit. (qui ILI). 29. CLAUDIO SGARRATI, La metafora al di là del vero e del falso in Emanuele Tesauro, in CLAUDIO SCARPATI-ERALDO Bellini, Il vero e il falso dei poeti. Tasso Tesauro Pallavicino Muratori, Milano, Vita e pensiero, 1990, pp. 35-71: 70; da leggere assieme a ID., Icastico e fantastico. Iacopo Mazzoni tra Tasso e Marino, in ID., Dire la verità al principe. Ricerche

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dignità etica e conoscitiva alla speculazione del Tesauro, sottraendola definitivamente all’area sofistica dell’indifferenza alla verità in cui l’aveva collocata il Friedrich, fedelmente seguito dal Buck30. Alla medesima conclusione giunge la Bianco, due anni dopo ma, a quanto pare, indipendentemente dallo Scarpati (che non cita), in un libro eccellente, che è una vera e propria summa critica del concettismo euro­ peo, anzi, una «caractériologie du baroque»31. L’insistenza del Tesauro sull’impossibile coincidenza tra significante e significato (già segnalata dal Rigoni come caratteristica essenziale dell’opera32), non conduce il trattatista a cercare rifugio nella sofistica rassegnandosi alla inevitabilità della menzogna, ma, al contrario, a sottolineare come essa, purché arguta, costituisca l’ultimo rifugio di una verità altrimenti indicibile. Sono con­ clusioni che paiono confermate dall’analisi retorica delle tragedie di Tesauro e che trovano il loro fondamento nel De doctrina christiana di sant’Agostino, come ho proposto in un saggio del 199933.

sulla letteratura del Rinascimento, Milano, Vita e pensiero, 1987, pp. 231-68 (già in «Aevum», Milano, LIX 3, set.-die. 1985, pp. 433-58). 30. HUGO FRIEDRICH, Epoche della lirica italiana. Il Seicento, Milano, Mursia, 1976 (ed. orig. 1964), pp. 78-128. AUGUST BUCK, Emanuele ^esauro e la teoria del barocco nella letteratura, «Ausonia», Siena, XXXVIII 3-4, mag.-ago. 1973, pp. 9-25 (è la tradu­ zione, ad opera di Salvatore Persichino, dell’introduzione alla ristampa in facsimile del Cannocchiale aristotelico, Baci Homburg-Beriin-Zùrich, Gehlen, 1968). Dello stesso anno è il libro di KLAUS PETER LANCE, Theoretiker des literarischen Manierismus: Tesauros und Pellegrinis Lehre von der «Argutezza» oder von der Macht der Sprache, Mùnchen, Fink, 1968, che fa del Tesauro un manierista alla Hocke. Propone una correzione di rotta, nel medesimo ambito tedesco, HENNIG MEHNERT, Bugia und Argutezza. Emanuele Tesauros Theorie von Struktur und Funktionsweise des barocken Concetto, «Romanische Forschungen», Frankfurt a. M., LXXXVIII 2-3, 1976, pp. 195-209, che sottrae Tesauro al manierismo per dir così categoriale e l’argutezza alla menzogna: essa sarebbe per Tesauro un puro mezzo stilistico e concettuale per attingere la persuasione tramite il verosimile, legata quindi alla sfera pratica e non a quella conoscitiva (pp. 203-204). Un Tesauro sostanzialmente indifferente al vero propone anche ELENA MAZZOCCHI, La riflessione secentesca su retorica e morale, «Studi secenteschi», Firenze, XXXVIII, 1997, pp. 11-56. 31. MERCEDES BLANCO, Les Rhétoriques de la Pointe. Baltasar Graciàn et le Conceptisme en Europe, Genève, Slatkine, 1992, pp. 343-99. Il giudizio sul libro della Bianco è di ALAIN GÉNETIOT, Pour une histoire de conceptisme en Europe, «XVIIe siècle», Paris, XLIX 3, Jui.-Sep. 1997, pp. 615-23: 623. 32. MARIO ANDREA RIGONI, Tesauro, Emanuele, in Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da VITTORE BRANCA, Torino, Utet, 19862, IV, pp. 290-97: 291. 33. PlERANTONIO FRARE, Il vero attraverso il velo. Metafora (eli equivoco) e menzogna in Emanuele Tesauro, in CENTRE INTERUNIVERSITAIRE De RECHERCHE SUR La RENAISSAN­ CE ITALIENNE, Figures à Vitalienne. Métaphores, équivoques et pointes dans la littérature maniériste et baroque, Etudes réunies par DANIELLE BOILLET et ALAIN GODARD, Paris, Université Paris III Sorbonne Nouvelle, 1999, pp. 307-35 (qui II.3). I rapporti tra la speculazione teorica del Cannocchiale e la prassi tragica del Tesauro sono esaminati, su solide basi filosofiche, dalla Zanlonghi, che insiste sul legame costitutivo

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1.2. Problemi

critici

Se ora, dopo aver percorso i principali itinerari di lettura dell’opera, ci si alza a considerare il posto che il Cannocchiale aristotelico occupa nella sistemazione critico-storiografica della letteratura italiana, non si può non rimanere colpiti dalla contraddizione tra la stima che circonda il trattato e l’effettiva attenzione critica di cui ha goduto: infatti, «la più ampia ed organica opera sull’estetica del barocco [...] non solo italiano ma europeo» (queste parole del Tuscano sono pressoché unanimemente condivise34), citata con lodi e approvazioni in tutti gli studi sul Seicento, presente per­ fino nelle irriverenti antologie scolastiche, ed ora ritenuta degna di ospi­ talità in un Breviario dei classici italiani in cui manca Marino33, beneficia di una bibliografia tutto sommato piuttosto ristretta (anche la quantità è un dato significativo), nella quale non compare nemmeno una monografia. Il successo di stima si tramanda di generazione in generazione, portando seco anche una subordinazione del testo a schemi interpretativi forse non completamente allotri, ma che certo non aiutano a caratterizzarlo nella sua autonomia: il ruolo rivestito negli anni crociani dall’estetica è stato assunto in seguito, volta per volta, dal barocco, dalla semiologia, dalla metafora genericamente intesa. Di fronte alla critica attuale sta il compito, ormai ineludibile, di ricominciare da una paziente e minuta analisi del Cannocchiale aristotelico per approdare infine ad una interpretazione che atra metafora e teatro (GIOVANNA ZANLONGHI, La tragedia fra ludus e festa. Rassegna dei nodi problematici delle teoriche secentesche sulla tragedia in Italia, in Forme della scena barocca, a cura di ANNA MARIA CASCETTA (numero monografico di «Comunicazioni so­ ciali», Milano, XV 2-3, apr.-sett. 1993, pp. 157-240: 223-233). Si veda anche FABIO COLAGRANDE, Argutezza dei «detti» e argutezza dei «fatti»: l’ambiguità di parola come nesso dinamico dell’intreccio drammaturgico nella poetica tragica di Emanuele Tesauro, «Il libro di teatro. Annali del Dipartimento Musica e Spettacolo dell’Università di Roma. Sezione teatro», voi. Ili, a cura di SILVIA CARANDINI e ROBERTO ClANCARELLI, Roma, Bulzoni, 1996, pp. 75-89. Il rapporto tra metafora e arti sceniche in generale (viste come funzionali alla politica assolutistica) è esaminato da SEBASTIAN NEUMEISTER, «Tante belle inuentioni di Feste, Giostre, Balletti e Mascherate». Emanuele Tesauro und die barocke Festkultur, in Theatrum Europaeum. Festschrift fur Elida Maria Szarota, Miinchen, Fink, 1982, pp. 153-68. 34. TUSCANO, Appunti sulle prime stampe..., cit., p. 572. Decisamente fuori dal coro la voce di Gardair, secondo il quale «plutót qu’une défense et illustration de l’esthétique baroque, le C. A. est un hommage enthousiaste à Aristote et à Loyola, à la Rhétorique et aux Exercises spirituels» (JEAN MICHEL GARDAIR, Théorie et art du symbole dans «Il Can­ nocchiale aristotelico» di Emanuele Tesauro, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova, Editoriale Programma, 1993, II, pp. 1229-39: 1238. 35. LUCIA RODLER, Emanuele Tesauro: «Il Cannocchiale aristotelico», in Breviario dei clàssici italiani. Guida all’interpretazione di testi esemplari da Dante a Montale, a cura di Gian Mario Anselmi, Alfredo Cottignoli, Emilio Pasquini, Milano, Bruno Mon­ dadori, 1996, pp. 126-37 (vi sono riportate e analizzate le pp. 266-68 e 279 dell’edizione 1670).

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valorizzi tutti gli aspetti di un testo tanto ricco e complesso (a partire dall’interazione tra teoria estetica e prassi scrittoria) e ne riconosca finalmente l’autonomia. Mi rendo ben conto di aver delineato un traguardo, se non generico, certo ancora lontano: ad avvicinarlo e concretizzarlo potrà servire allora la segnalazione di alcune tappe intermedie, costituite da nodi che ritengo indispensabile affrontare e chiarire preliminarmente e che indico qui in modo piuttosto sommario. Innanzitutto, si fa sempre più evidente la neces­ sità di una edizione, se non critica, almeno moderna del Cannocchiale aristotelico. Di essa beneficiano ormai da molti anni i grandi trattatisti europei contemporanei del Tesauro - Graciàn, Boileau -, mentre in Italia siamo ancora fermi alla meritoria antologia procurata dal Raimondi; e l’unica iniziativa per rendere più facilmente accessibile l’intero testo pro­ viene dalla Germania, dove nel 1968 August Buck ha provveduto ad una edizione fotostatica della stampa torinese del 167036: il volume è esaurito ormai da molto tempo, né risulta che abbia gran diffusione nelle bibliote­ che italiane. Sarebbe, questa, una scorciatoia di notevole utilità, in attesa del compimento di una edizione critica che certo presenta grandi diffi­ coltà e richiede molto tempo37: non solo per quanto riguarda la costitu­ zione del testo, dopo che il Tuscano ha rimesso in discussione Yopinio vul­ gata che ci si dovesse basare sulla stampa del 1670 (con ogni probabilità curata personalmente dall’autore), indicando invece nelle edizioni del 1654, 1663 e 1674 quelle di cui tener conto38; ma soprattutto perché, cre­ do, una edizione del genere dovrebbe essere accompagnata da un com­ mento, la cui vastità e problematicità si impone a chi dia anche solo un’occhiata al testo: basti, per tutte, indicare la questione del reperimento delle fonti, che spaziano dalla classicità ai contemporanei (e qui le diffi­ coltà si acutizzano, per la scarsità dei necessari strumenti) e non sono sempre esplicite. Inoltre, una simile intrapresa potrà difficilmente prescindere da altri due problemi: un confronto con la prima edizione del trattato, la torinese (presso Sinibaldo) del 1654, e un tentativo, almeno, di individuazione del 36. TESAURO, Il Cannocchiale aristotelico. Ristampa in facsimile..., cit.. 37. Ad essa sta attendendo Salvatore Nigro; non si hanno più notizie, invece, dell’edi­ zione annunciata, ormai parecchi annp or sono, in un catalogo dell’editore Longo di Ravenna per le cure di Mario Scotti. E invece uscita proprio in questi giorni (presso L’Artistica di Savigliano) una ristampa anastasica dell’edizione Zavatta del 1670, arricchita da un preziosissimo indice dei nomi (curato da Dionigi Vettero) e dai contributi di Maria Luisa Doglio, Marziano Guglielminetti, Adriano Pennacini, Florence Vuillemier, Pierre Laurens, Dionigi Vottero, Giovanni Menardi (che è anche il coordinatore della meritoria iniziativa). 38. TUSCANO, Appunti sulle prime stampe..., cit.; a proposito dell’edizione del 1674 il RAIMONDI, Anatomie secentesche, cit., p. 106, ne sostiene la totale dipendenza dalla veneziana (Baglioni) del 1663 e dalla romana (Halle) del 1664.

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testo aristotelico usato dal Tesauro. É chiaro, infatti, che la fruizione tesauriana di Aristotele è del tutto personale e mirata, e già il Della Terza e il Proctor hanno messo in luce singolari e significativi fraintendimenti09, ma ulteriori indagini in questa direzione permetterebbero di misurare la reale portata del legame Tesauro - Aristotele e di far emergere gli scol­ lamenti volontari e quindi più significativi in un tessuto che resta di al­ meno formale adesione all’opera aristotelica, pur sostanzialmente asser­ vita ad una interpretazione, soprattutto della Retorica, sub specie argutiae. Il confronto tra le due edizioni del 1654 e del 1670, cioè tra la prima e l’ultima (presumibilmente) rivista dall’autore, dovrebbe contribuire allo scioglimento di alcuni nodi che restano tuttora problematici, a partire da quello della collocazione storica precisa del Cannocchiale aristotelico. Il Raimondi, con convincenti argomentazioni biografiche e testuali (basate, 39. PROCTOR, Emanuele Tesauro: a Theory ..., cit., 72n.; DANTE DELLA TERZA, Le meta­ fore del Tesauro, in Simbolo, metafora, allegoria. Atti del IV Convegno italo-tedesco, Bressanone 1976, a cura di GIANFRANCO POLENA, Padova, Liviana, 1980, pp. 175-89: 185 e 186 (e in ID., Forma e memoria. Saggi e ricerche sulla tradizione letteraria da Dante a Vico, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 222-36). Al FRIEDRICH spetta la presa di posizione più recisa che io conosca: egli nota che le citazioni in margine «concordano quasi completamente con l’edizione latina di Aristotele con commento del gesuita Sylvestris Maurus. Questa, a dire il vero, fu pubblicata a Roma solo nel 1688, ma si basa su parecchie edizioni precedenti che si trovano nella lista di edizioni di Th. Buhle, Aristotilis Opera, I, 1791, pag. 231. Una di esse deve essere abba­ stanza simile al testo del Maurus, come mostrano le citazioni del Tesauro. Quale sia non è stato possibile stabilirlo. Il problema meritava comunque un’indagine, perché, come si deduce anche dalle citazioni del Tesauro, la traduzione in latino che abbiamo ora preso in esame travisa spesso in senso manieristico gli originali greci della Retorica e della Poetica. - Aggiunta 1973: In un nuovo lavoro (G. BREITENBÙRGER, Die Rezeption des aristotelischen Begriffs der Metapher in den Poetiken der italienischen Renaissance, Tesi di laurea, Freiburg 1971, p. 65) è stata avanzata l’ipotesi che il Tesauro abbia letto la traduzione latina della Retorica aristotelica scritta da Giorgio Trapezunfzio] (1523)» (Epoche della lirica italiana. Il Seicento, cit., p. 83n.). «Una verifica» compiuta dal Della Terza «su campioni di traduzioni della Retorica che il Tesauro potrebbe aver avuto sotto gli occhi: i Rhetoricorum Aristotelis libri tres interprete Hermolao Barbaro Daniele. Commentaria in eosdem Daniehs Barbari che sono del 1544 e Marco Antonii Maioragii in tres Aristotelis libros de Arte rhetorica che è del 1572 non ha dato risultati del tutto certi circa il testo o i testi latini che il Tesauro privilegia nella sua discussione. Non è del tutto impossibile che egli mettesse del suo nelle traduzioni abbozzate per il commento e si lasciasse volentieri trasportare dal suo senso e gusto della forma latina» (DELLA TERZA, Le metafore del Tesauro, cit., p. 185). Un aiuto alla ricerca dovrebbe venire dal fatto che il Tesauro adotta una partizione in capitoli, sia pure con qualche differenza rispetto all’attuale: ad esempio, le note 125, 128 e 148 rimandano a Poetica 20 anziché 21; la nota 141 a Retorica III 3 anziché III 2; la 131 e la 144 rispettivamente a Retorica II 29 e III 25, che contano l’uno ventisei capitoli, l’altro diciannove (ho limitato la ricerca al capitolo Della Metafora Semplice e delle specifiche sue Differenze', pp. 280-305). Naturalmente, non si può escludere l’errore di stampa, anche se essi sono molto rari, almeno nel testo.

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queste ultime, su confronti con i Panegirici, in particolare con il Giudicio, del 1625), propone che esso debba situarsi idealmente nel clima del terzo decennio del secolo; e la riscoperta, da parte della Doglio, del manoscritto della Idea delle perfette imprese, composta tra il 1622 e il 1629, che essa considera il primo nucleo del futuro mastodontico trattato, costituisce una buona conferma all’ipotesi su ricordata, che anche gli studi dello Zanardi sulla genesi del Cannocchiale aristotelico si propongono di sostenere40. Tuttavia, se pare ormai assodato, grazie anche a questi fruttuosi lavori di scavo archivistico, che il Tesauro si sia dedicato fin dalla giovinezza alla materia che poi affronterà con tanta ampiezza nel Cannocchiale aristote­ lico, la composizione del trattato «nell’atmosfera del pieno marinismo»41 pare assai più problematica, come ebbe subito a dichiarare, con osserva­ zioni che conservano la loro validità, Franco Croce42. L’interesse degli studiosi del Cannocchiale aristotelico si è appuntato prevalentemente, come abbiamo visto anche nel breve panorama critico offerto in apertura, sulla metafora: né poteva essere altrimenti, non foss’altro per la rilevantissima estensione testuale occupata dal Trattato della metafora: da p. 266 a p. 480 (o 500 se si comprendono, come pare meglio, anche i capitoli dedicati alle «metafore continuate» e agli «argo­ menti metaforici»), vale a dire quasi un terzo dell’intera opera; a questa ipertrofia spaziale fa riscontro un’enfasi definitoria che ben giustifica il corrispondente focalizzarsi delle attenzioni critiche su quest’argomento. Così, l’affermazione che «la metafora costituisce il centro dell’intero siste­ ma, la sua vera unità di misura»43, va senz’altro condivisa nella sostanza, a patto, però, di precisare preliminarmente - come pure è stato fatto, ma non, direi, con la necessaria insistenza - che cosa intenda il Tesauro per metafora, ed i rapporti che legano tra loro metafora e argutezza (la quale resta, non dimentichiamolo, la grande protagonista del trattato). Ma ora preme soprattutto insistere su una ovvietà, gravida però di conseguenze che non mi pare siano state tirate sino in fondo: la metafora 40. RAIMONDI, Una data da interpretare, in Letteratura barocca..., cit., pp. 51-76; EMANUELE Tesauro, Idea delle perfette imprese esaminata secondo gli principii di Aristotele. Testo inedito a cura di MARIA LUISA DOGLIO, Firenze, Olschki, 1970 (apparsa recentemente anche in traduzione francese: ID., L'idee de la parfaite derise, traduction de Florence VUILLEUMIER, préface de FLORENCE VUILLEUMIER et PIERRE LAURENS, Paris, Le Belles Lettres, 1992); ZANARDI, Sulla genesi del «Cannocchiale aristotelico» di Emanuele Tesauro, cit. (1982), pp. 3-61 (dove si propone come «nucleo fondamentale» e cronologicamente primo del Cannocchiale aristotelico non Videa delle perfette imprese ma un perduto trattato latino sull’arguzia di cui ci parla il Tesauro stesso: p. 11). 41. RAIMONDI, Letteratura barocca..., cit., p. 72. 42. FRANCO Croce, Tre momenti ..., cit., pp. 151-54n.; si veda anche FRANCO CONTE, La metafora barocca..., cit., pp. 59-61. 43. RAIMONDI, Letteratura barocca..., cit., p. XLVIII; e CONTE, La metafora barocca..., cit., p. 57.

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del Cannocchiale aristotelico non coincide assolutamente con ciò che noi intendiamo per metafora; e nemmeno, come pure si ripete spesso, con «figura» in generale4445 . Basta una semplice occhiata al testo e agli esempi per accorgersene: da un lato, rientrano sotto di essa, per far solo i nomi più noti, la metonimia, la sineddoche, i vari tipi di antitesi, l’iperbole, l’ironia, l’allusione, la paronomasia, il chiasmo, etc., dall’altro ne restano escluse le figure «patetiche» e quelle «armoniche». Questa constatazione andrebbe tenuta ben presente, innanzitutto per evitare indebite sovrapposizioni del nostro concetto di metafora a quello del Tesauro. Da questo memento potrebbe venire anche un vantaggio ad un esercizio critico molto diffuso e certo ampiamente giustificato, cioè quello di interpretare la poesia barocca attraverso, appunto, il Cannoc­ chiale aristotelico, a sua volta, spesso, letto sulla base di un’idea precosti­ tuita di barocco: l’esatta definizione del significato che il termine “meta­ fora” assume nel trattato contribuirà alla revisione del luogo comune del Seicento come secolo «metaforuto» ed alla sostituzione di un criterio interpretativo, quello della presenza di metafore, se non inadatto certo bisognoso di revisione40. Si innesta qui il problema del rapporto tra metafora e argutezza, nel Cannocchiale aristotelico tutt’altro che perspicuo, come chiarisce un con­ fronto tra le prime pagine dell’opera - nelle quali all’argutezza viene assegnato il ruolo di matrice e di genere comprensivo di tutte le specie di discorsi e di figure - ed affermazioni sparsamente ricorrenti nel testo che il medesimo compito trasferiscono alla metafora, «gran madre di ogni argutezza» (p. 280). Ne tratta ampiamente il Conte, che propone infine di sciogliere la contraddizione risolvendo l’argutezza nella metafora4647(con­ formemente, del resto, alla tesi enunciata nel titolo del proprio libro): ma la proposta non finisce di convincere, visto che la primazia della metafora urta comunque contro la sua collocazione subordinata all’interno delle figure ingegnose (a loro volta, come è noto, specie delle figure retoriche in generale) e contro l’idea progettuale dell’opera, che assegna un ruolo di primo piano all’argutezza. Tanto è presente, e realizzata, quest’esigenza, che il Proctor e il Van Hook ne hanno ricavato una guida al riconosci­ mento formale delle «arguzie» e dei «concetti» dei poeti metafìsici inglesi4 \

44. Vedi, da ultimo, UMBERTO ECO, Metafora, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1977-84 (ora, col titolo Metafora e semiosi, in Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1986, pp. 141-98 - da cui cito), che però parla, prudentemente, di «tendenza a chiamar metafora ogni tropo e ogni figura»: p. 168). 45. Lo sospettava già oltre quarantanni fa P. GIOVANNI DA LOCARNO, o. f. m. Cap. [Giovanni Pozzi], Saggio sullo stile dell’oratoria sacra nel Seicento esemplificata sul p. Emmanuele Orchi, Romae, Institutum Historicum Ord. Fr. Min. Cap., 1954, pp. 3-4. 46. CONTE, La metafora barocca..., cit., pp. 143-59. 47. PROCTOR, Emanuele Tesauro: a Theory..., cit.; VAN HOOK, «Concupiscence ofWit»..., cit.

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È probabile che la soluzione dell’aporia passi attraverso a) il preliminare riconoscimento di due diverse concezioni di metafora, una più ristretta, l’altra estensiva; b) l’accettazione, fino alle estreme conseguenze, del fatto che il Cannocchiale aristotelico «ha una struttura ed un organismo addi­ rittura protoplasmatici»48, ed anche, con ogni probabilità, non monocen­ trici.

1.3. Guida ALLA LETTURA Un tentativo di scioglimento di questo intricato nodo sarà oggetto del prossimo capitolo; per ora intendo offrire, come sussidio propedeutico ad una miglior padronanza del Cannocchiale aristotelico, il modesto con­ tributo di un riassunto dell’opera. Modesto ma non privo di difficoltà e, soprattutto, mi auguro, non inutile: infatti, chiunque si sia avventurato nella lettura, si sarà accorto che la natura del testo giustifica, se non ad­ dirittura postula, una carta in scala, che consenta a chi percorre il trattato di tener d’occhio le direttrici principali sulle quali si trova: poiché l’ampiezza delle regioni interne è tale che si cammina per ore ed ore sen­ za scorgere cartelli indicatori, con la spiacevole sensazione di essersi smarriti mentre ci si attardava ad ammirare i fiori d’ingegno raccolti dal Tesauro. Si aggiunga che l’incauto e coraggioso lettore non può contare nemmeno sulla consueta bussola rappresentata dagli indici: quello dei capitoli manca (almeno nell’edizione del 1670) e quello Delle materie contenute in questo Volume, per ordine Alfabetico, lungo ben trenta pagine (non numerate nell’edizione 1670), ad un esame anche sommario si rivela fuorvi ante, scarsamente sorretto com’è dall’incipiente cartesianesimo: ché alcune voci sono ripetute, molte mancano, la più parte sono inserite sotto lemmi imprevedibili, l’ordine alfabetico non è sempre rigorosamente rispettato49. Converrà dunque riproporre l’elenco dei capitoli e paragrafi

48. COSTANZO, Critica e poetica ..., cit., p. 105. 49. Qualche esempio: Aristotele compare una sola volta («conobbe le Imprese Archetipe, e ne diede gli Esempi»), dopo le voci Asprezze, Argutezza, Armi, Arte; Marino, che secondo i miei spogli beneficia di quindici citazioni (pp. 173, 243, 245, 246-7, 255, 272, 295, 288, 307, 313, 314, 360, 366, 406, 412) è ricordato due sole volte (pp. 243, 247); la mancanza di Dante stride con la presenza di voci quali Anatome sottile fatta dall'Autore di una Inscrittone, che pare simplice a’ Baldanzosi Ingegni; e così via. Tutte le citazioni sono tratte da IL | CANNOCCHIALE | ARISTOTELICO | 0 sia Idea | DELL’ARGVTA ET INGENIOSA ELOCVTIONE | Che serue à tutta l’Arte | ORATORIA, LAPIDARIA, ET SIMBOLICA | Esaminata co’ Principi) | DEL DIVINO ARISTOTELE | Dal Conte e Caualier Gran Croce | D. EMANVELE TESAURO | PATRITIO TORINESE. | Quinta Impressione. IN TORINO, M.DC.LXX. | Per Bartolomeo Zavatta. CON LICENZA DE’ Superiori. Titolo a parte, nella trascrizione distingo u da v, elimino Yh (pseudo)etimologica quando non abbia funzionalità diacritica e riconduco

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che scandiscono internamente il Cannocchiale aristotelico (pur avvertendo subito che anch’esso va maneggiato con cautela, come si vedrà meglio più avanti), in modo da facilitare la fruizione di un’opera il cui carattere enciclopedico ne giustifica ampiamente anche un uso desultorio. Avverto che il Tesauro usa solo due livelli gerarchici: il capitolo e quello imme­ diatamente inferiore ad esso, che potremmo chiamare paragrafo. Ripro­ porrò quindi tipograficamente, con il ricorso a caratteri diversi, la scan­ sione adottata nel Cannocchiale aristotelico, usando invece l’indentazione per chiarire la struttura logica ad essa soggiacente. INDICE

DELL’ARGUTEZZA E DE’ SUOI PARTI IN GENERALE. Capitolo I p 1 Nome dell"Argutezza 4 Prole dell"Argutezza Verbale e Lapidaria 9 Prole deirArgutezza Simbolica 13 Cagioni Instrumentali delle Argutezze Oratorie. Simboliche e Lapidarie. Capitolo II

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Cagioni Efficienti delle Argutezze. Iddio. Spiriti. Natura. Animali e Uomini. Capitolo III Argutezze Angeliche Argutezze della Natura Argutezze degli Animali Arguzie Umane Indice Categorico '

59 66 73 79 82 107

Cagion Formale dellArgutia circa le Figure. Capitolo IV Figure Armoniche

121 124

Delle Figure Patetiche o Concertative. Capitolo V

206

Delle Figure Ingeniose. Capitolo VI

234

Trattato della Metafora. Capitolo VII

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all’uso moderno gli accenti, gli apostrofi (ma non le apocopi) e la divisione delle parole; trascrivo con e (et davanti a vocale) sia et sia &. con -zi- o -ci- (a seconda dei casi) i nessi -ti-, -tti-. ~ci- e con i la j. Riproduco invece fedelmente (tranne che neìYIndice. quando ciò va a scapito della chiarezza) la varietà di caratteri tipografici della stampa, cui il Tesauro pare aver affidato il raggiungimento di particolari effetti visivi (cfr. GIOVANNI POZZI, La parola dipinta. Milano, Adelphi, 1981, p. 157).

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Della Metafora Simplice e delle Specifiche sue Differenze Metafora prima di Proporzione, o sia diSimiglianza Metafora seconda di Attribuzione Metafora terza di Equivoco Metafora quarta d’Ipotiposi Metafora quinta della Iperbole Metafora sesta del Laconismo Metafora settima di Opposizione Metafora ottava di Decezione

281 305 342 365 396 426 434 441 460

Delle Metafore continuate: e prima delle Proposizioni Metafo­ riche, le quali comprendono i più bei Motti Arguti, e l Alle­ goria. Capitolo Vili Degli Argomenti metaforici, e de’ veri Concetti. Capitolo IX

481 487

Trattato de’ Concetti Predicabili, e loro Esempli Concetti Predicabili, della Prima Specie, per Metafora di Proporzione Seconda Specie di Concetti per Metafora di Attribuzione Terza Specie di Concetti per Metafora di Equivoco Quarta Specie di Concetti per Metafora d’Ipotiposi Quinta Specie de’ Concetti per Metafora d’iperbole Sesta Specie di Concetti per Metafora di Laconismo Settima Specie di Concetti per Metafora di Opposizione Ultima Specie di Concetti per Metafora di Decezione

501

504 508 511 517 522 525 528 533

Causa Finale, e Materiale dell’Argutezza. Capitolo X

541

Teoremi Prattici per fabricar Concetti Arguti. Capitolo XI

548

Trattato de’ Ridicoli. Capitolo XII

583

Trattato delle Inscrizioni argute. Capitolo XIII

595

Passaggio dalle Argutezze verbali a quelle de’ Simboli in Figura, o in Fatti. Capitolo XIV Idea delle Argutezze Eroiche, volgarmente chiamate Imprese. Capitolo XV Metodo per trovar la diffinizione della Perfettissima Impresa Del Nome della Impresa Quale Impresa particolare abbia ottenuto applauso maggiore Communi Opinioni degli Autori circa le Imprese Tesi Fondamentale. La Perfetta Impresa è una Metafora

611

624 628 629 631 634 636

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Tesi Seconda. La Perfettissima Impresa è una Metafora di Proporzione Tesi Terza. La Perfettissima Impresa è Metafora di Proporzione performa d'Argomento Tesi Quarta. Questo Argomento è Poetico Tesi Quinta. L’Impresa è un composto di Corpo e di Anima Tesi Sesta. Il Corpo della Peifetta Impresa vuol essere vero, e reale Tesi Settima. Il corpo della Perfettissima Impresa vuol essere Nobile e Bello Tesi Ottava. I Corpi Naturali nella Perfettissima Impresa si preferiscono agli Artificiali Tesi Nona. La Perfettissima Impresa non ammette il Corpo Umano Tesi Decima. Il corpo della Perfettissima Impresa deve esser Mirabile Tesi Undecima. Il corpo della Perfettissima Impresa dev’esser Nuovo, ma Conoscibile Tesi Duodecima. La Proprietà della Perfettissima Impresa vuol essere Apparente, e Attuosa Tesi Terzadecima. La Proprietà della Perfettissima Impresa vuol essere Singolare Tesi Quartadecima. Il Corpo della Perfettissima Impresa dev’esser Facile A Rappresentarsi Tesi Quintadecima. Il Corpo della Perfettissima Impresa sarà Proporzionato Allo Spazio Tesi Sestadecima. Il Corpo della Perfettissima Impresa ricerca l’Unità della Figura Tesi Decimasettima. Il Campo della Figura vuol essere Schietto Tesi Decimottava. Il Concetto della Perfettissima Impresa non è per modo di documento generale; ma di Pensiero Particolare Tesi Decimanona. Il Concetto della Perfettissima Impresa vuol essere Eroico Tesi Ventesima. Il Concetto della Perfettissima Impresa vuol essere Unico Tesi Ventesimaprima. Nella Perfettissima Impresa si deve aggiungere il Motto alla Figura Tesi Ventesimaseconda. Il Motto della Perfettissima Impresa vuol essere acuto e brieve Tesi Ventesimaterza. Il Motto della Perfettissima Impresa vuoTessere Equivoco Tesi Ventesimaquarta. Il Motto della Perfettissima Impresa vuoTessere di Classico Autore Tesi Ventesimaquinta. Il Motto della Perfettissima Impresa, ricerca lAntitesi

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Tesi Ventesimasesta. Il Motto della Perfettissima Impresa vuol esser Latino 669 Tesi Ventesimasettima. La Perfettissima Impresa vuol essere Popularmente Enigmatica 671 Tesi Ventesimottava. La Perfettissima Impresa vuol essere Appropriata 674 Tesi Ventesimanona. La Perfettissima Impresa vuol essere Ingegnosa 677 Tesi Trentesima. La Perfettissima Impresa de’ risguardare alcun Fine Retorico 679 Tesi Ultima: Che nella Perfettissima Impresa si de" guardare il Decoro 681 Epilogo delle Tesi, £ Diffinizione Della PerfettissimaImpresa 684 Censura delle Imprese più famose, eziamdio dell’istrice 685 Conchiusione dell’Arte delle Imprese 692

Trattato degli Emblemi. Capitolo XVI 693 In che convengano, o disconvengano fra loro l’impresa, e l’Emblema 695 Esemplari de’ buoni Emblemi 696 Parti Essenziali del perfetto Emblema, Tema, Figura, e Inscri­ zione 700 Differenze degli Emblemi 702 Mescolanza degli Emblemi con altri Simboli Arguti 706 Morti Raconisii 712

De’ Riversi delle Medaglie. Capitolo XVII

729

Diffinizione, et essenza di tutti gli altri Simboli In Fatto. Capitolo XVIII

731

Inserti varii e ingegnosi di tutte le Specie Simboliche fra loro: e dell’Arte Lapidaria con la Simbolica. Capitolo XVIV

735

Indice delle materie contenute in questo Volume, per ordine Alfabetico

L’impalcatura che sostiene e contiene l’immenso materiale adunato dal Tesauro risponde a criteri diversi da quelli di rispondenza tra le parti, linearità ed organizzazione: a settori caratterizzati da furore classificatorio (come Videa delle Argutezze Eroiche, scandita in brevissimi paragrafi: 37 in 70 pagine), fanno riscontro vastissime zone prive di qualunque suddivisione interna, come nel caso del capitolo quarto. Inoltre, l’articolazione del trattato non sempre coincide con la reale distribuzione della materia: vuoi per 31

impertinenza del contenuto rispetto al titolo e per carenze tassonomiche (ancora il capitolo quarto fornisce esempi illuminanti al proposito), vuoi per mancato rispetto delle gerarchie (ricordo solo il caso del Trattato della Metafora, che, a rigor di logica, dovrebbe far parte del precedente capitolo sesto, dedicato alle figure ingegnose, e non costituire, come invece avviene, capitolo a sé). Incongnienze di questo genere sono disseminate, a livelli più o meno elevati, un po’ in tutto il trattato, così che non sarà inutile una ricostruzione della sua armatura concettuale, che ne metta in evidenza lo svolgimento sotteso, ed anche quelle che noi paiono contraddizioni: che ne costituisca, insomma, un po’ come la fabula rispetto all’intreccio (e si avrà l’occasione di notare che l’applicazione di categorie narratologiche al Cannocchiale aristotelico non è né del tutto immotivata né infruttuosa). Dopo la dedica agli «Illustrissimi Signori Sindici e Conseglieri dell’Augusta Città di Torino», l’opera entra nel merito con il capitolo Dell'Argu­ tezza e de" suoi parti in generale. Il titolo beneficia di una grafica partico­ larmente maestosa, che non si riproporrà altrove, il che fa pensare ad una voluta enfatizzazione di quello che costituisce Targomento principe del Cannocchiale aristotelico, e cioè appunto l’argutezza (e non la metafora, come si è spesso inclini a pensare, forse fuorviati da una lettura anto­ logica del testo). Comunque sia di ciò, alle citatissime lodi introduttive dell’argutezza segue, secondo ortodossia aristotelica, un paragrafo che indaga il Nome dell'Argutezza, per più versi emblematico del procedere tesauriano: sul traliccio razionale ed argomentativo che egli costruisce, fondato sulla convinzione che l’indagine «etimologica» e nominalistica costituisce «Un chiaro Contrasegno, et una oscura Diffinizion delle Cose» (p. 4) fiorisce un accumulo di autori e definizioni la cui caratteristica es­ senziale è la tendenza all’esaustività. In quattro pagine e mezzo compaio­ no una ventina di autori e una cinquantina di definizioni (il conto esatto è impresa disperata, susseguendosi traduzioni, ripetizioni, accavallamenti). Da questa rassegna di auctoritates, il Tesauro fa scaturire due conclu­ sioni, entrambe operanti in tutto il trattato: la prima è che l’arguzia si tripartisce, con andamento in climax, in «Simplici parole Ingegnose». «Proposizioni Ingegnose» e «Argomenti Ingegnosi», la seconda che le arguzie possono essere o «lapidarie» (cioè verbali) o «simboliche», cioè figurate (p. 8). E i due paragrafi successivi esaminano appunto, rispet­ tivamente, la «Prole dell'Argutezza Verbale, e Lapidaria» e la «Prole dellArgutezza Simbolica», chiarendo subito l’immenso e non circoscri­ vibile ambito di quest’ultima, che si potrebbe meglio definire come l’in­ sieme delle arguzie non esclusivamente linguistiche. Con il secondo capitolo inizia l’indagine sulle cause dell’argutezza: strumentale (cap. II), efficiente (cap. Ili), formale (cap. IV), finale e mate­ riale (cap. X), con una progressiva dilatazione che approda, specialmente nel quarto capitolo, all’ipertrofia, con conseguente sfondamento dei con­

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fini definitori. Ma di questo a suo luogo; ora torniamo al secondo capitolo, dedicato alle Cagioni Instrumentali Delle Argutezze Oratorie, Simboliche, e Lapidarie: nel quale il Tesauro insegna che In sei maniere adunque si può significare una Impresa, e qualunque detto arguto e figurato: cioè; per mezzo del concetto mentale e Archetipo; per via della umana voce', per via di scritti caratteri', per via di cenni', per via di rappresentazioni dell'Obietto', e finalmente per una maniera mescolata di queste maniere (p. 16).

L’ordinata esposizione delle «maniere» resiste fino alle «rappresentazioni dell"Obietto», quando la tensione centrifuga e l’esigenza collezionistica hanno il sopravvento e costringono il Tesauro a classificare le «sei specie de’ Corpi figurati, che possono fondar le Arguzie simboliche e consequentemente le Imprese: cioè Corpi Naturali visibili, Corpi artificiali; Corpi Materiali invi­ sibili; Corpi Astratti; Corpi Fabulosi; e Corpi Chimerici» (p. 29), i quali «si posson mettere davanti agli occhi» a loro volta in «sei DIFFERENTI MANIERE»: «cioè, Con un Tipo DIPINTO: con un Tipo SCOLPITO: con un Prototipo MORTO: con un Prototipo VIVO: con un Personaggio RAPPRE­ SENTATIVO: con un’AZIONE RAPPRESENTATIVA» (p. 30), tutti, va da sé, minutamente indagati ed abbondantemente esemplificati. I motivi di interesse del capitolo non risiedono solo nella sua struttura dilatata e centrifuga, ma anche nella comparsa, che il lettore avrà potuto cogliere già nelle brevi citazioni addotte, di un protagonista inatteso e apparentemente non giustificato, vale a dire l’impresa. Essa, classificata in apertura tra la «Prole dell’Argutezza Simbolica» (p. 13), assieme a decine di altri prodotti dell’ingegno, beneficerà, nel prosieguo dell’opera, come è noto, di un intero capitolo, il quindicesimo, quasi un trattato a parte, che ribadisce ancora la dipendenza dell’impresa dall’arguzia (pp. 627, 628). Eppure, in questo secondo capitolo si affollano citazioni che parificano l’impresa all’arguzia e ne fanno il fine della trattazione: «In sei maniere adunque si può significare una Impresa, e qualunque detto arguto e figurato» (p. 16); «in questa maniera di significare una cosa per altra, s’accoglie (come vedremo) tutto l’acume delle Imprese, e di tutte le Arguzie; anzi di tutta quanta è la Poesia» (p. 17), etc. Questo teleologismo impresistico fa capolino qua e là anche altrove (ad esempio, a p. 404), ma è particolarmente insistito in questo settore del Cannocchiale aristotelico (altri esempi alle pp. 17, 29, 30, 42, 43, 46, 50, 51) e pone due problemi, collegati tra loro: quello del rapporto tra impresa, metafora e argutezza e quello dei legami tra la giovanile Idea delle perfette imprese e il Cannocchiale aristotelico (quest’ultimo risolto dalla Doglio, come abbiamo ricordato, con l’ipotesi che 17dea delle pe fette imprese costituisca «il logico presupposto dell’opera maggiore»50). 50. TESAURO, Idea delle perfette imprese..., cit. p. 6. Resta tuttavia da spiegare il motivo per cui i riferimenti all’impresa si infittiscono nel secondo capitolo, visto che da un

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Alla determinazione delle cause materiali («cagioni istrumentali»). segue, nel capitolo III, la ricerca delle Cagioni efficienti delle Argutezze. che il sottotitolo individua subito in Iddio. Spiriti. Natura. Animali. Uomini. Ciascuno di questi produttori di argutezze beneficia di un proprio paragrafo con relativo titoletto: è saltato quello delle Argutezze Divine. comunque presente come titolo corrente: esse, divise in «tropologiche», «allegoriche» e «anagogiche», «tutte son Metaforic/re» (p. 60) e d’infinita lunga [...] più ingegnose [...] che quelle de’ Mortali: peroché nella umana eloquenza il parlar proprio esclude il figurato: ma nella Divina Mitologia, dentro della proprietà LETTERALE, s’involge l’acutezza TROPOLOGICA: e sotto questa, l’ALLEGORICA: e più sotto si concentra l’ANAGOGICA: talché in una paroletta avrai tre Concetti, e in un Concetto tre Metafore (p. 61)

(fanno qui la loro prima comparsa i concetti predicabili, per i quali il Tesauro rimanda «al fine del Capitolo Nono, dopo che avrà favellato di ciascuna specie de’ CONCETTI METAFORICI: p. 66). Mentre le Argutezze Angeliche (ma, in realtà, degli spiriti - anche maligni - in generale), tripartite in «oracoli», «sogni» e «ostenti» (cioè visioni) e le Argutezze degli Animali (pp. 79-81) non sollecitano particolarmente la fantasia del Tesauro, le pagine dedicate alle Argu­ tezze della Natura (pp. 73-78) sono tra le migliori deH’intero trattato, per entusiasmo e vivezza descrittiva del noto, nonché per l’assegna­ zione ad ogni «arguzia» della natura di un valore simbolico. Ciò nonostante, tutte queste arguzie costituiscono solo un preludio alla ben più ampia ed articolata trattazione del vasto ambito delle Arguzie Umane (pp. 82-120): esse, dichiara il Tesauro in apertura, sono il prodotto di tre fattori: «l’INGEGNO, il FURORE, e l’ESERCIZIO» (p. 82). A sua volta, «L’INGEGNO naturale, è una maravigliosa forza dell’intelletto, che comprende due naturali talenti, PERSPICACIA, e VERSABILITA. La Perspicacia penetra le più lontane^ e minute Cir­ constanze di ogni soggetto», mentre «la VERSABILITA, velocemente raffronta tutte queste Circonstanze infra loro, o col suggetto: le annoda o divide; le cresce o minuisce; deduce Luna dall’altra; accenna Fona per l’altra; e con maravigliosa destrezza pon l’una in luogo dell’altra, come i Giocolieri i lor calcoli» (ibid.)01. Una simile caratterizzazione della «versabilità» non può che approdare alla sua sovrapposizione alla metafora («E questa è la Metafora», ibid.) e all’identificazione tra ingegno e argutezza («gli Uomini più ingeniosi, hanno dalla Natura confronto con Videa delle perfette imprese non emergono parentele tra quelle pagine ed una qualche parte dell’opera giovanile. 51. Si apre qui una parentesi sul confronto tra «ingegno» e «prudenza» per la quale rimando a RAIMONDI, Letteratura barocca..., cit., pp. 4-5.

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maggior attitudine alle Argutezze: anzi tanto vale la voce ARGUTO, quanto INGEGNOSO»: p. 83). La disamina dell’ingegno si conclude con una rassegna dei prodotti di esso esemplificati arte per arte: «pit­ tura», «scultura», «architettura», «pneumatica», «vectica», «optica». Il secondo fonte dell’ingegno, il furore, può provenire da «pas­ sione», «afflato» (entusiasmo, rapimento divino), «pazzia»’"; ma al Tesauro preme maggiormente «l’ESERCIZIO», «ultimo e più efficace sussidio di quest’arte» («essendo assai più giovevole e sicuro TEsercizio senza grande ingegno, che un grande Ingegno senza esercizio»: p. 96), che può essere sostenuto in vari modi: «per PRATICA: per LETTURA: per REFLESSIONE: per INDICE CATEGORICO: e per IMITAZIONE» (ibid.). Particolarmente le pagine dedicate alla «let­ tura» e alla «reflessione» mostrano la mentalità impresistica del Tesau­ ro (e del suo secolo): infatti, il trattatista, a partire indifferentemente da un’immagine o da un motto (tratto per lo più, come raccomanderà nel trattato delle imprese, da un’opera poetica), costruisce tutta una serie di imprese. Mentre le altre scaturigini dell’«esercizio» sono intuitivamente comprensibili, più ampio discorso richiede l’indice categorico, cui il Tesauro dedica un paragrafo apposito03. In esso il trattatista invita il lettore a procurarsi un «Libro in foglio grande» e a dividerlo in tante parti quante sono le categorie aristoteliche: «Sostan­ za, Quantità, Qualità, Relazione, Azione, Passione, Sito [luogo], Tempo, Luogo [posizione] e Abito [condizione]» (p. 107). All’interno di esse andranno elencate le «membra» in cui si articola ciascuna categoria: per la quantità, ad esempio, «Quantità di mole: Piccolo, Grande'. Lungo, Corto» o «Quantità Numerale: Nulla, uno, dua, tre, etc. Molti, pochi» (p. 108), etc. Ad ogni «membro» va dedicata una pagina nella quale si elencheranno tutte le cose che vi possono rientrare: così, «Piccolo» comprenderà «Angelo» - perché «sta in un punto» -, «Zenitte», «Nadirre», «Scintilla di fuoco», «Stilla di acqua», «Gemma», «Atomo» p. 109), etc. (la categoria delle sostanze salta, naturalmente, il primo passaggio per approdare direttamente al secondo). Una volta in possesso di questo inventario, sarà facile pro­ durre metafore semplici sostituendo al metaforizzato gli oggetti contigui nell’elenco. Per costruire proposizioni metaforiche, invece, per ogni oggetto andranno elencate, in un terzo indice e categoria per 52. Le belle pagine sulla pazzia sono esaminate ivi, a p. 6. 53. In questo modo, Vindice categorico è posto allo stesso livello gerarchico dei paragrafi precedenti, in particolare di quello dedicato alle Argutezze umane, di cui invece fa parte, costituendo, come si è visto, una modalità dell’esercizio, che è a sua volta uno dei tre mezzi a disposizione dell’uomo per costruire arguzie. Il funzionamento dell’indice categorico è descritto da ECO, Metafora, cit., pp. 168-70 e, in modo ancora più godibile, in Pisola del giorno prima, Milano, Bompiani, 1994, cap. 9.

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categoria, le modalità in cui può manifestarsi: ad esempio, per la quantità, con cosa si misuri o quanto pesi; per la qualità, se sia visibile e quanto da lontano, se sia sensibile; etc. (p. 111). Tuttavia, la spiegazione del funzionamento di questo «Secreto veramente secreto: nuova, e profonda, et inesausta Miniera d’infinite Metafore, di Simboli Arguti, e di ‘ngegnosi Concetti» (p. 107), non risulta immediatamente perspicua: il notevole sforzo (e sfarzo) esemplificativo del Tesauro, più che agevolare la comprensione, pare ad un certo punto acquistare autonomia e costituire il reale motivo della digressione sull’indice categorico, che si chiude con un esercizio latino De Pusione nano (pp. 112-14), prodigioso, se non per la qualità, certo per la quantità delle invenzioni metaforiche. L’imitazione, «Esercizio, più di tutti efficace et ingegnoso» (p. 115), chiude la discussione sull’esercizio, e con essa quella sulle arguzie umane e sulle cause efficienti dell’argutezza, per lasciar luogo al capitolo dedicato alla Cagion formale delUArguzia circa le Figure. Si apre, qui, una trattazione gigantesca, che si chiuderà solo a pagina 541 con l’inizio del capitolo decimo, e che è dettata dalla necessità di distinguere le figure propriamente argute - «le quai consistono nella SIGNIFICAZIONE INGEGNOSA» (p. 121) - da tutte le altre, perché «Ogni Arguzia è un parlar FIGURATO, ma non ogni parlar figurato è un Arguzia» (ibid.). Il che non toglie che non vadano convocate ed esaminate tutte le figure, anche quelle non argute né ingegnose, in quanto «dimestiche ancelle» di «quell’una che fu il nobile obietto di questo libro» (ibid.). Il Tesauro inizia dunque individuando nella nausea del quotidiano e nel desiderio di novità, propri ad ogni uomo in ogni tempo, l’origine delle figure, che definisce come scarti dal grado zero del linguaggio: Conchiudo, le Figure Rettoriche altro non essere, che Un vezzo pellegrino, varian­ te la Orazione dallo Stile cotidiano e vulgare: acciochlell’abbia insegnamento congiunto con la novità: e Puditore in un tempo impari godendo, e goda impa­ rando (p. 124).

Esse si dividono in «armoniche», «patetiche» e «ingegnose», a seconda che il godimento si rivolga rispettivamente al «Senso», tramite «l’Armo­ nica soavità della Periodo», all’«Affetto con la Energia delle Forme vi­ vaci», «Intelletto con la Significazione ingegnosa». Le prime ad essere trattate sono le «FIGURE ARMONICHE» (pp. 124-206), «indirizzate a lusingare il Senso dell’Udito con l’Armonica soavità della Periodo» (p. 124): la limitazione dell’ambito di queste figure alla prosa condiziona tutta la trattazione successiva. Essa si apre con un breve excursus storico, teso a mostrare come dalla cosiddetta «ORAZION PENDENTE» (che «non facea punto fermo, 36

infinché la materia non era interamente finita» [ibid.]: nel qual difetto caddero anche Marco Tullio Cicerone nelle prime orazioni e il Giovanni Boccaccio nelle opere giovanili) nacquero prima quella «supina o ritonda», ad opera di Trasimaco, poi, grazie al successivo perfezionamento dell’arte oratoria operato da Gorgia Di Lentini, quelle «concise» o «concinne», in cui eccelse Cicerone, e che il Tesauro mostra di preferire alle altre: «Or queste son le Periodi ch’io chiamo ARMONICHE e FIGURATE54: Peroché variano la Periodo cotidiana; facendola pellegrina, col vezzo dell’Armonia» (p. 127). A loro volta, le scaturigini dell’armonia del periodo sono individuate in tre caratte­ ristiche, che il trattatista esamina partitamente: la «EQUALITÀ delle Membra», che «è un’armonia risultante dalla simplice misura di una parte della Periodo, all’altra parte» (ibid.), la «CONTRAPOSIZIONE» («Armonia nascente dalla Contrarietà de’ Membretti»: p. 129), infine la «SIMIGLIANZA», «Armonia generata dalla Consonanza del principio, o del fine nell’uno e nell’altro membretto della Periodo concisa» (p. 130). Ma il Tesauro tiene in serbo «un novello e sensibil secreto» (p. 133) per chiarire da dove nasca l’armonia della prosa e quali siano i periodi migliori: si tratta delle tavole metriche, che consistono in una trascrizione spaziale, figurativa, del periodo e dei suoi membri. Ecco un esempio da Cicerone:

Ut

Vel in Negotio,

ì

Vel in Otio,

Cum

Sine

Periculo:

Esse possent,

Dignitate,

(p. 138).

Naturalmente, le tavole metriche rivestono una duplice funzione, con­ formemente alla costante preoccupazione didattica del Tesauro: dalla 54. L’affermazione farebbe pensare che il Tesauro limiti a questo tipo di periodo la qualifica di «figura»: ma a p. 144 sostiene «che la Periodo ri tonda è figurata anch’essa».

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parte del recettore sono un raffinato strumento di analisi delle costruzioni prosastiche (il cui funzionamento il Tesauro mostra in atto, con acute notomizzazioni di brani famosi), sul versante creativo questi schemi grafici sono un utile e pragmatico sussidio alla costruzione di «periodi ARMONICHE E FIGURATE». Il ricettario tesauriano si arricchisce di un’altra portata, dopo il piatto forte dell’indice cate­ gorico. L’incatenamento di più «Periodi concise e concinne» (p. 139) sem­ plici, dà luogo alla creazione di quelle «composite», la cui trattazione il Tesauro esaurisce in poche pagine (pp. 139-42), per passare alla disamina della «periodo SUPINA, o sia RITONDA»: essa, «ad imagine di lubrico Serpe; di un sol membro sinuosamente convolto, e numero­ samente continuato è composta» ed il suo buon esito dipende ancora, anche per simmetria compositiva, da tre fattori: «SCANDIMENTO de’ piedi: BELTÀ delle Parole: e QUANTITÀ proporzionata» (p. 143). Sbri­ gata in un paio di pagine la «quantità» (cioè la lunghezza dell’orazione) con il suggerimento di proporzionarla al contesto in cui opera, il Tesauro passa in rassegna i vari tipi di piedi e clausole, giungendo a risultati critici notevoli33 ed offrendo squarci di fine analisi testuale. L’esame della bellezza delle parole impegna e diverte per trenta pagine (pp. 1 ST­ BS) il nostro trattatista, che la fa derivare dalla «NOBILTÀ degli OG­ GETTI SIGNIFICATI» (e qui infila una sequenza di lessemi, ripartiti in categorie, che sfocia nella traduzione, offerta a mo’ d’esempio, della a Nemesi latina dello Scaligero) e «dalla SONORITÀ delle VOCI SIGNI­ FICANTI» (pp. 154-55): quest’ultima nasce a sua volta dalla «BELTÀ delle SQUILLANTI VOCALI: dalla NETTEZZA delle CONSONANTI: e dalla GRANDEZZA delle PAROLE» (p. 162), il che costituisce pre­ testo, rispettivamente, per un’analisi fonetica e fonosimbolica, con con­ seguente gerarchizzazione, dell’alfabeto italiano55 56, e dei valori fonici delle parole, con un occhio di riguardo, in entrambi i casi, per le onomatopee. Tutti questi suggerimenti e inviti alla perfezione, sono in chiu­ sura temperati dal ricorso all’ammonimento aristotelico «dintorno alla ornatura delle Periodi: ESSERE OTTIMA LEGGE IL TRASGREDIRE ALCUNA VOLTA LA LEGGE» (p. 182). Alla teoria, come nei migliori 55. Tra i quali, il riconoscimento del ruolo del cursus nella prosa latina: cfr. FRANCESCO Di CAPUA, Il ritmo della prosa latina nel «Cannocchiale aristotelico» di Emanuele Tesauro, «Bollettino di filologia classica», Torino, XXXVIII 6, die. 1921, pp. 96-100. 56. Con suggerimenti ortografici intorno all’uso dell’h e delle doppie: il consiglio generale è di seguire, in caso di dubbio, la scrizione latina, ma con un finale omaggio alla dissimulazione, in questo caso onesta: «Egli è vero, che se tutta la corrente del Popolo letterato, seguisse per vecchio abuso una Ortografia ripugnante alla ragion Latina [...] conforterotti a ritenerne per te la teorica; ma nella prassi concederne al Vulgo la sua consuetudine; giudicando tu a modo tuo; e scrivendo a modo altrui» (pp. 176-77).

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manuali, segue la prassi, che consiste nell’analisi di alcune iscrizioni della classicità e contemporanee. L’analisi della «periodo concisa» e di quella «ritonda» è finalizzata alla costruzione della «COMPOSITA», innesto delle due precedenti e quindi di maggior perfezione. Essa, ad un’ora pungendo gli ‘ngegni con VAcutezza della Concinnità', e molcendoli col Numero della Ritondità: dolcemente sonora, e vigorosamente soave; ornata insieme e ordinata; ricrea il Dotto, insegna l’Idioto: dall’uno, e dall’altro esigge un doppio tributo di favorevole applaudimento (p. 196).

Poiché le caratteristiche di essa coincidono con la somma di quelle già esaminate in precedenza, il Tesauro si limita a fornire una abbondante esemplificazione, per lo più da Cicerone e da iscrizioni classiche, che esamina con l’ausilio delle tavole metriche e con la consueta perizia retorica. Un’ottantina di pagine addietro, nel capitolo dedicato alla Cagion for­ male delle Figure, il nostro autore ci aveva indicato la loro tripartizione in armoniche, patetiche ed ingegnose e aveva iniziato a trattare le prime in un paragrafo: ora, invece, sovvertendo la gerarchizzazione iniziale, le Fi­ gure Patetiche o Concertative beneficiano di un capitolo, il quinto (no­ nostante il titolo corrente continui a richiamare alla Cagion formale). Senza di esse, la cui funzione consiste nel «commover VAffetto con la Energia delle Forme vivaci» (p. 124), «ogni Inscrizione, ogni Detto ar­ guto, ogni Argomento, ogni Periodo languirà», perché «Più alto s’imprime un dardo imbelle vibrato da man robusta: che un dardo robusto lanciato da mano imbelle» (p. 206), come il Tesauro si prova a dimostrare esem­ plificando. Ma il fatto che nessuno abbia trattato chiaramente queste figure e che «in questa sola parte» perfino «l’Oracolo nostro ammuto­ lisca» (p. 211), spinge il nostro autore ad affrontare di petto e con spirito classificatorio l’argomento. Egli elenca così, con relativi esempi, ben 71 figure (salvo errore, s’intende, ché le distinzioni non sono sempre chiare), che suddivide secondo le due grandi facoltà dell’animo: 1’«Apprensiva» (che a sua volta dà luogo alla «Cognizione dell’oggetto», alla «Rifles­ sione» e alla «Argomentazione») e 1’«Appetitiva» (distinta in atti della volontà - «risoluta» e «non risoluta» - e in atti della passione - «con­ cupiscibile» ed «irascevole»). Segue una tabella riassuntiva che presenta alcune incongruenze, perché qualche figura prima elencata non vi trova posto; ma soprattutto colpiscono alcune affermazioni conclusive che parrebbero assegnare alle figure patetiche un ruolo necessario alla stesura delle iscrizioni e che non hanno riscontro altrove (ad esempio, si è appena visto come le figure armoniche fossero esemplificate spesso e volentieri appunto con delle iscrizioni). 39

Si va finalmente avvicinando ciò che costituisce il vero interesse del Tesauro, cioè le Figure ingeniose, presentate al lettore con molta so­ lennità: Ora ti vengo io a introdurre ne’ più sacri, et arcani penetrali dell’Arte; dandoti a conoscere quel terzo Genere di FIGURE, le quai chiamammo INGEGNOSE: nobilissimo fiore dell’intelletto: che non più nelVArmonico suono; o nelle Patetiche forme; ma nella SIGNIFICAZIONE INGEGNOSA, ripon la gloria dell’Arte (p. 234).

La differenza tra le figure ingegnose e le altre ricalca quella «tanto fa­ mosa apresso i Greci delle figure LEXEOS, e DIANOEAS», successi­ vamente fraintesa «da Cicerone, e dagli altri Retorici», che le ritra­ scrissero rispettivamente come figure di parola e figure di frase, inse­ rendo di conseguenza la metafora tra le prime, mentre essa appartiene, come ripete il Tesauro sull’autorità aristotelica, alla «figura DIANOEAS, o sia Sententiae», cioè di pensiero (pp. 234-35). Nel vestibolo il Tesauro distingue tra due modi di «rappresentare alla mente umana la cosa significata [...]: o col Vocabulo nudo e propio, il qual non ri­ chieda niun’opera dell’ingegno: o con alcuna significazione ingegnosa, che insieme rappresenti e diletti» (p. 235) e li analizza separatamente. Il fatto che le «PAROLE PROPIE» siano «Quelle [...] che nella età migliore [della lingua] da' migliori componitori, a significar gli obiet­ ti, communemente si adoprano» (pp. 247-48), giustifica bastantemente * i rapidi ma efficaci schizzi, organicisticamente condotti, che il Tesauro traccia delle lingue latina e italiana (la cui «perfetta virilità [...] incominciata nel passato Secolo, va tuttavia maturando»/p. 242), la quale ultima riceve poi l’inconsueto - almeno in questa misura - onore di fornire del materiale esemplificativo, tratto per lo più dal Marino (pp. 245-47). Alla «orazion propia» concorrono anche le «Parole Pellegrine, [...] che Significano veramente gli obietti senza velo di Me­ tafora [...] ma non senza grazia di novità» (p. 249): esse si distinguono in «PRISCHE, FORESTIERE, DERIVATE, MUTATE, COMPOSITE, e FINTE» (p. 250) e nel disegno compositivo del Tesauro sono prope­ deutiche all’empireo dell’argutezza («grado per grado ti guideranno là dove intendo: cioè alle segge dell’Argutezza»: p. 249). Il trapasso alla metafora, che costituisce l’oggetto del capitolo settimo, è assicurato dal tramite delle parole «finte» (i neologismi, quali «expectorare», «accipitrare», «troneggiare», «asineggiare», etc.), le quali «prendono il lor garbo da una più nobil figura; cioè dalla Metafora di pro­ porzione» (p. 265). Et eccoci alla fin pervenuti - per dirla col Tesauro - grado per grado al più alto colmo delle Figure Ingegnose', a paragon delle quali tutte le altre Figure fin qui

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recitate perdono il pregio: essendo la METAFORA il più ingegnoso et acuto', il più pellegrino e mirabile: il più gioviale e giovevole: il piu facondo e fecondo parto dell’umano intelletto (p. 266).

Sono le citatissime parole con le quali si apre il Trattato della Metafora, che costituisce capitolo a sé, pur dovendo rientrare, come appare anche dalla breve citazione, nel precedente Delle Figure ingeniose (il quale, a sua volta, dovrebbe costituire una sottodivisione del cap. IV, sulla cagion formale). Le pagine introduttive si distendono ad illustrare le quattro coppie aggettivali che, abbiamo visto, accompagnano l’apparizione della metafora ed a porre delle prescrizioni all’uso; o, meglio, a toglierle, poiché le «quattro leggi, che l’Autor nostro prefigge alla Metafora» («cioè, ch’ella non sia Impropria, né Ridicola, né Rigonfia, né Lontana»: pp. 273-74), vengono limitate all’ambito oratorio; ed anche l’ossequio, inizial­ mente raccomandato, alla «santa legge del Decoro» serve più ad evitare stridori di metafore inadatte (non aptae) allo stile del componimento in cui si inseriscono che non a proibirne un uso oltranzista, per quantità o qualità. Tanto è vero che l’abbozzo di tipologia delle metafore in relazione al livello stilistico dei vari genera elocutionis, si conclude con uno scatto libertario - anch’esso, a scanso di equivoci, aristotelicamente autorizzato che lo vanifica: chi può rattenere un ingegno, che a bel capriccio si scuote la testiera, o rompe il barbozzale? Certamente l’istesso Autor nostro, come altrove si è detto, a simili spiriti lascia le briglie sul collo, con quelle parole: «Nisi quis consulto ita dicere velit» (p. 276).

A mo’ d’esempio, il Tesauro inserisce qui due suoi esercizi, uno di tradu­ zione di alcune ottave del Virgile travesti dello Paul Scarron, uno creativo, sul soggetto, tipicamente barocco, della Mosca nel calamaio (pp. 276-79). La parentesi poetica prelude ad una ulteriore ripresa del meccanismo trattatistico, che reintroduce la tripartizione, già proposta nelle sue linee essenziali in apertura, tra «METAFORA SIMPLICE, che quasi non eccede la Sfera della prima Operazion dell’intelletto», «PROPOSIZION METAFORICA: la quale altro non è, che una Metafora continuata; ascendente alla seconda Regione dellTntelletto» e infine «ARGOMENTO METAFORICO, il qual è la vera, e nobilissima Arguzia; trascendente alla terza region dell’intelletto; suprema gloria delle composizioni ‘ngegnose» (p. 279). Il paragrafo seguente, che tratta Della Metafora simplice e delle specifiche sue differenze, inizia con una rivendicazione di originalità di cui fa le spese il francese p. Pierre Le Moyne°7 e instaura un serrato dialogo 57. Cfr. RAIMONDI, Anatomie secentesche, cit., pp. 108-109. Ricostruisce la polemica con l’aiuto di inediti, MARIA LUISA DOGLIO, Una «apologia» inedita di Emanuele

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col testo-guida aristotelico, dal quale ricava infine otto tipi di metafora (di somiglianza, di attribuzione, di equivoco, di ipotiposi, di iperbole, di laconismo, di opposizione, di decozione), che analizza in breve e che riprenderà, con didattica dovizia, nei paragrafi successivamente dedicati a ciascuno di essi. La metafora di somiglianza (o di proporzione) consiste nell’usare una parola al posto di una simile, o per specie (in quanto sottoposte ad un medesimo genere: come la tazza e lo scudo sono simili per via del genere comune della rotondità) o per genere (in quanto dipendenti da un genere analogo: così giovinezza e primavera, sottomesse ai due generi subalterni dell’età umana e della stagione, che a loro volta discendono entrambi dal genere comune della «durazion di Tempo»). Aristotele, continua il Tesauro, descrive anche un altro tipo di meta­ fora, «dal GENERE ALLA SPECIE: E DALLA SPECIE AL GENERE» (p. 283), esemplificata con Omero, che usò la specie «decem milia» per il genere «multum»: il trattatista la estende a tutti i casi di contiguità e la battezza «METAFORA DI ATTRIBUZIONE» (in quanto fondata sulla «ANALOGIA ATTRIBUTIONIS» dei dialettici, «i quali ci fanno esempio della Voce SANUM: che significando principalmente la Buona tempe­ ratura del Corpo umano: si comunica a tutte quelle cose, che serbano con essa qualche legame» (p. 284). Se le metafore precedenti «dalla differenza del Concetto mutano il Nome», quella di equivoco «dalla unità del Nome, muta il Concetto» (p. 285): come il Tesauro desume dall’esempio portato da Aristotele, in cui Draco, per via della rigidità delle sue leggi, è inteso come fera piuttosto che come legislator. L’ipotiposi «consiste nel rappresentare il Vocabulo con tanta vivezza', che la Mente quasi con gli occhi corporali vegga l’obietto» (p. 286), secondo l’insegnamento aristotelico, che preferisce «Animo LOTTAN­ TE» ad «Animo QUADRATO» per la maggior vivacità ed energia della prima forma. Se la «forza» dell’ipotiposi sta «neW avvivar l’Obietto», quella dell’iper­ bole consiste nell’ingrandirlo (o anche nel diminuirlo), così da dar luogo, anziché alla chiarezza della metafora precedente, alla meraviglia. L’esem­ pio di Aristotele allegato è «“Hic dolor est MONTIS INSTAR: et AD CAELUM USQUE PERTINGENS”» (p. 288). Il laconismo «con un sol Vestigio [...] ti abozza in iscorcio un’obietto intero: accioché, da quel ch’ella dice, il tuo intelletto velocemente ne voli a quel ch’ella tace» (p. 290). La dimostrazione che segue segna proba­ bilmente se non il punto estremo certo uno dei più significativi della

Tesauro: «L''Italia vindicata», «Lettere italiane», Firenze, XXIX, 1 (gen.-mar. 1977), pp. 59-69.

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divaricazione del Tesauro dal testo dello Stagirita, in quanto il trattatista contamina qui due luoghi di Aristotele, dando vita ad un ibrido tanto funzionale al proprio scopo quanto non aristotelico00. Il Tesauro individua nella metafora di opposizione quella preferita da Aristotele e ne rintraccia le ragioni nel fatto che la «Contraposizione ha certa forza entimematica; che, nonché appaghi, anzi violenta Tinteti” dimento», e che essa appartiene sia alle figure armoniche, per la «pro­ porzionata collocazion delle parole» .> sia alle ingegnose, per «V acuta significazion del Concetto» (p. 292). Si ottiene in vari modi, ad esempio ripetendo due volte la stessa parola («Non oportet PEREGRINUM semper esse PEREGRINUM») o unendo il positivo col negativo (tazza = scudo non di Marte) o con un positivo incompossibile (mare = campos natantes). Infine, la decezione, «figura veramente cavillosa, ma piacevolissima», «Madre di tutte le facetie, et arguti sali», «La cui virtù consiste nel sorprendere la tua opinione, facendoti formar concetto, ch’ei voglia finire in un modo: et inaspettatamente parando in un altro» (p. 294): come aveva già visto (naturalmente) Aristotele commentando la sostituzione di «geloni» (perniones) a «calzari» nel verso «Is lepide incedebat geminos in pedibus gestitans elegantissimos PERNIONES». Gli otto tipi così individuati vengono tutti esemplificati assumendo come unico metaforizzato «Roma», che diventa rispettivamente «Urbium sol», «Capitolium», «Valentia», «Populorum Triumphatrix», «Alter Orbis», «R», «Antichartago», «Romula» (pp. 298-99). Come spesso accade, il moltiplicarsi dei segni formali dell’ortodossia (presenza ossessiva del nume tutelare, circonfuso di sintagmi reverenti, moltiplicarsi di citazioni, etc.) cela l’accentuazione dell’atteggiamento ereticale: lo si è già sorpreso nella personalissima rilettura e risistema­ zione in metafore delle figure aristoteliche, ma lo si coglie con più evidenza - e maggior consapevolezza d’autore39 - nella conclusiva pro­ posta di strutturazione delle otto metafore. Punto di partenza è ancora un assioma aristotelico, più volte ripetuto: «LTMPARAR COSE NUOVE CON FACILTÀ È DILETTEVOLE ALL’UMAN GENIO» (p. 300), di cui il Tesauro rintraccia una modalità privilegiata nella metafora, consistendo la sua essenza nel «farti conoscere un Obietto con faciltà». La conoscen­ za, a sua volta, può essere assoluta (quando l’oggetto è molto chiaro ipotiposi - o molto grande - iperbole) o comparativa, quando l’oggetto viene rappresentato tramite una cosa simile (somiglianza) o un nome si­ mile (equivoco) o tramite una cosa contraria all’oggetto (opposizione) o58 59 58. DELLA Terza, Le metafore del Tesauro, cit., pp. 185 e 186. L’esempio era già apparso a p. 10 elei trattato. 59. Che traspare in uno scatto impaziente: «Che se questa mia teorica distribuzione non ti appagasse, provati tu di ritrovarne un’altra migliore» (p. 305; corsivo mio).

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alla opinione del lettore (decezione) o, infine, tramite una cosa unita all’oggetto in modo palese (attribuzione) o in modo oscuro, non immediato (laconismo). Ecco il grafo riassuntivo proposto dal trattatista: IPERBOLE

Per la Grandezza

r ASSOLUTA

IPOTIPOSI

- Per la Chiarezza

r Nell’Obietto

Maniera di conoscere ì con facilità < un Obietto lontano

/- Per il Simile

COMPARATIVA /

METAFORA DI SIMIGLIANZA

Nel Nome

EQUIVOCO

r All’Obietto

OPPOSITO

L All’Opinione

DECEZIONE

Superficiale, T e Piano

METAFORA DI ATTRIBUZIONE

f Profondo, ed Inviluppato

LACONISMO

Per il Contrario

Per il Congiunto

(p. 304) La stessa subordinazione ad un apprendimento piacevole giustifica il fatto » che le tre virtù principali della metafora siano fatte consistere in brevità, novità e chiarezza. L’esame di esse, alla pari di tutta la trattazione pre­ cedente, congiura a comporre «la vera, e non vulgar Diffinizione della Metafora: cioè; PAROLA PELLEGRINA, VELOCEMENTE SIGNIFI­ CANTE UN OBIETTO PER MEZZO DI UN’ALTRO» (p. 302). Ciascun tipo di metafora gode naturalmente, come si è detto, di un pa­ ragrafo autonomo. Si inizia con la Metafora prima di proporzione, o sia di Simiglianza: poiché essa consiste in «una VOCE INGENIOSA CHE TI FA VELOCEMENTE CONOSCERE UN OBIETTO, PER VIA DEL SUO SIMILE» (p. 306), il Tesauro esamina, categoria per categoria, tutte le cose tra le quali può esistere una qualche somiglianza. Il ricorso alle cate­ gorie aristoteliche si distende qui, con ulteriori suddivisioni ed una mi­ nuta esemplificazione, per parecchie pagine (da p. 306 a p. 341): proba­ bilmente perché il Tesauro, che considera l’uso appropriato di esse un indispensabile sussidio didattico alla costruzione di metafore, alla stessa stregua dell’indice categorico, intende fornire in limine un paradigma tendenzialmente esaustivo, che gli permetta, nella esposizione degli altri tipi di metafora, una trattazione abbreviata. Tuttavia, anche il paragrafo dedicato alla Metafora seconda di Attribuzione si esaurisce, come il prece-

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dente, in un elenco di esempi di metafore, tratti dalle fonti più disparate e suddivisi per categorie. Diversamente articolata l’esposizione della Metafora terza di Equivoco. che sbriga rapidamente il repertorio categorico per dedicarsi all’inventario di tutta una serie di figure che giocano appunto sull’equivoco: tra parola e disegno, tra una lingua e un’altra, tra diversi alfabeti, e così via. Seguono esempi di «Grammaticali Equivocazioni», «che consistono nel Dividere, o Congiugnere, o Troncare, o Accrescere le lettere» (p. 375), o anche mutarle (da quest’ultimo accorgimento nascono, ad esempio, gli anagrammi - letterali e numerici -, l’etimologia arguta, i gerghi, le allitte­ razioni, le paronomasie). Né va dimenticata una figura che il Tesauro mostra di apprezzare particolarmente, cioè «le Serie, e le Ridicole Appli­ cazioni de’ Versi o Detti Altrui; ad un sentimento diverso dalla intenzione del loro Autore» (p. 390). Ma, soprattutto, la metafora di equivoco costituisce il nucleo fondamentale a cui ridurre «i più bei Gruppi Tragici o Comici, che abbian trovato, o trovar possano i Poeti, o Romanzieri. Peroché tutti avran per fondamento uno Equivoco, o di una Persona per un’altra: o di un Azione. o Tempo, o Luogo, o d’altra circostanza per altra» (p. 393): a riprova, il Tesauro si distende in un «esercizio narratologico»60 con il quale rintraccia, in varie opere e distinguendolo per categorie aristoteliche, l’equivoco geneticamente fondamentale. La metafora di ipotiposi «pon sotto gli occhi con Vivezza ogni Vocabulo: e consequentemente, ogni Continuata Orazione, ogni Motto, ogni Con­ cetto. ogni Simbolo, ogni Pittura', e qualunque faceto o tragico ritrova­ mento» (p. 396). Pagato il tributo alla ripartizione per categorie, il Tesau­ ro introduce subito l’argomento che più gli preme, cioè «le più squisite e nobili maniere di adoperar quest’argutissima figura IPOTIPOSI: e’ i più bei frutti d’ingegno, che se ne colgono» (p. 402). Esse sono la «IMAGINE» (o «Similitudine acuta: over, Metafora velocemente spiegata», ibid.), la «ESPRESSIONE» («vivamente rappresentante un concetto reale, per mezzo di un Concetto imaginario», p. 409), la «CONGRUENZA» («Sin­ golarità dhmaginate ma verisimili Circonstanze [...] la qual rende le Narrazioni, le Descrizioni, ed ogni Orazion Verisimile, et evidente», p. 410), la «PARENTESI» («Non quella commune, che necessariamente serve alla intelligenza del concetto: ma quella che ingeniosamente s’inserisce nell’Orazione, per farla Dilucida, o Patetica, o Costumata», p. 413), la «PARTIZIONE» («o sia Enumerazione [...] che ti pon davanti PARATAMENTE l’obietto», p. 415), gli «EPITETI» (p. 418) e infine i «VERBI VITALMENTE ATTUOSI» (p. 424). 60. RAIMONDI, Letteratura barocca, cit., p. LX.

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Assai meno distese ed articolate le trattazioni delle metafore di iperbole (pp. 426-33) e di laconismo (pp. 434-41): per la prima, il Tesauro ri­ manda ancora all’indice categorico come sussidio costruttivo e la distin­ gue in semplice iperbole, proposizione iperbolica e il «superbissimo parto d'ingegno, che desta fra T popolo maravigliosissimi applausi» delle «CONCLUSIONI IPERBOLICHE, ed INCREDIBILI» (p. 430)61. Anche il laconismo, che «consiste nel farti Stendere più che [...] non dice», sog­ giace ad una duplice articolazione, in quanto l’interpretato, cioè la «Proposizion distesa», può rappresentarsi con un’altra frase, «distesa, benché coperta», o con «brevità» (p. 434). La metafora di opposizione costituisce in realtà il pretesto per una trat­ tazione del «MIRABILE», che da essa nasce, in quanto consistente «in una Rappresentazion di due Concetti, quasi Ùicompatibili, e perciò oltre­ mirabili» e che è introdotto dal Tesauro con lodi che spiccano anche nel già sostenuto registro elogiativo del Cannocchiale aristotelico: Ma voglio io qua palesarti il più astruso e segreto: ma il più miracoloso e fecondo Parto clelFumano ingegno: fin qui per le Retoriche Scuole innominato; ma dal nostro autore ben conosciuto nelle Poetiche, dove ha la propria seggia: che generato da questa Figura, molti altri ne genera de5 più belli che volino per le prose, o per le rime. Questi è quegli, che grecamente chiamar possiamo TRAUMA, cioè IL MIRABILE (p. 446).

Esso si ottiene congiungendo «il Positivo col Negativo»: o il Positivo col Positivo: o il Negativo col Negativo» (ibid.) e si ricava da «quattro miniere»: «Natura», «Arte», «Opinione», «Fingimento» (p. 448). A sua volta, il mirabile «ci partorisce di molti ingegnosissimi abellimenti della eloquenza», rappresentati dalla «DIFFINIZION MIRABILE ET ENIGMATICA» e dalle «PROPOSIZIONI MIRABILI ET ENIGMA­ TICHE» (p. 454): queste ultime introducono una serie di figure («riflessionette», «chiuse», «risposte», «sentenze», «motto brieve», «de­ scrizione enigmatica», «enigma») che nelle intenzioni del Tesauro sembrano appartenere ad esse, ma che di fatto finiscono per assumere una autonomia sempre più spiccata (pp. 455-59). La metafora di «DECEZIONE, o sia INASPETTATO» (p. 460) è distinta dal Tesauro in due tipi: «Luna in Fatti, che noi propiamente chiamammo FACEZIA: l’altra in Parole, che chiamar possiamo DICA­ CITÀ» (p. 461) e che costituirà Tunico oggetto della trattazione. Alla consueta, ma brevissima (come per la metafora di opposizione), esem­ plificazione per categorie, segue l’esame delle «varie maniere di praticar» la decozione (p. 465): il nutrito catalogo di figure è tripartito, secondo una 61. E evidente che il climax riproduce, quello, più volte citato, in cui si articolano la metafora e l’argutezza.

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modalità ormai nota, nei casi in cui l’inaspettato è concentrato in una sola parola o si distende in una proposizione o dà luogo ad un «argomento». Alla consueta classificazione «per via di Categorie; e per via di Opera­ zioni dell"Intelletto» (p. 475) il Tesauro ne aggiunge una terza, che sembra ritenere propria ed esclusiva della metafora di decozione: essa, a suo parere, si può distinguere in «RAZIONALE» (quando appartenga ad uno dei tre generi del discorso: dimostrativo, deliberativo e giudiziale), «MORALE» (quando, imitando o rappresentando, fa «veder costumi ridicoli o gravi della persona, in maniera, che Taspettazion dell’ascoltante si vada ingannando, e sorprendendo», p. 477) e «PATETICA» (quando Targomento della figura è rappresentato dagli «affetti»). La trattazione si chiude su un epitaffio in onore (si fa per dire) di Tito Flavio Domiziano, in cui ciascun verso si conclude con una decezione. Con il paragrafo dedicato alla metafora di decezione, ultima delle otto specie rintracciate dal Tesauro, si chiude anche il capitolo VII, cioè il Trattato della METAFORA: si chiude tipograficamente ma non logica­ mente, poiché, come annunciato a p. 279, alla trattazione della metafora semplice, che ha tenuto fin qui impegnato l’autore, dovrà seguire l’esame della proposizione metaforica e dell’argomento metaforico. Ed infatti il capitolo Vili ci parla Delle Metafore Continuate: e prima Delle Proposi­ zioni Metaforiche, le quali comprendono i più bei Motti Arguti, e TAlle­ goria: in realtà, è proprio quest’ultima, definita secondo tradizione come metafora continuata, a costituire l’oggetto del breve capitolo (sei pagine), che pure introduce le figure pertinenti alla seconda «operazione dell’in­ telletto», quindi più argute delle metafore semplici. Ed ancora «più no­ bile, ed ingeniosa», anzi «perfettissima e sopra tutte Tal tre ingeniosissima sarà [la figura] che si fabrica dalla TERZA OPERAZIONE dell"intelletto. Anzi questa sola merta il nome di Arguzia, che nasce AbWArgomento: proprio parto di quella terza facilità della umana mente» (p. 487): il lettore comincia ad intravedere il traguardo che il Tesauro gli aveva indicato all’inizio, anche se dovrà passare attraverso qualche altra tappa. La prima è una riflessione su dieci (o undici)62 esempi di detti arguti, dalla quale si ricava «le Perfette Argutezze, e gli "ngeniosi Concetti; non esser altro che ARGOMENTI URBANAMENTE FALLACI» (p. 489), come il Tesauro dimostra individuando i paralogismi sui quali si fonda ciascuna delle dieci arguzie proposte. Ma allora, si fa obiettare il Tesauro da un complice lettore, se «l’unica loda delle Argutezze consiste nel saper 62. Le «diece Argutezze, che ti ho proposto per Idea» (p. 490) divengono «undici Argu­ tezze ideali» alla pagina successiva per tornare «diece Idee» a p. 498. L’oscillazione è dovuta al fatto che il terzo degli esempi proposti raccoglie in realtà due argutezze ciceroniane contro Gaio Lilinio Verre (p. 488), la seconda delle quali viene lasciata cadere dal Tesauro nella finale tripartizione di esse in «adduttive», «deduttive» e «riflessive» (p. 499).

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ben mentire» (p. 491), «tutte le Sofistiche Fallacie de’ Dialettici, e le vituperate Cavillazioni di Protagora, e di Zenone; saran Motti Arguti, ed ingeniosi Concetti da Epigrammi» (p. 492)? Il nostro autore rintraccia in «due parole» del suo Aristotele, cioè «Enthimema Urbanum», la soluzione, che attraverso la distinzione tra dialettica e retorica consente di affermare che la «Cavillazione Urbana, è differente dalla Cavillazion Dialettica, nella Materia, nel Fine', nella Forma accidentale', e nella Forma essentiale»: infatti, «la Materia Retorica comprende le cose Civili in quanto sian moralmente persuasibili» (e non «le cose scolasticamente disputabili»)', il fine della «Cavillazione Urbana» consiste nel «rallegrar l’animo degli Uditori con la piacevolezza, senza ingombro del vero» (anziché «corromper quasi prestigiosamente l’intendimento de’ Disputanti con la falsità»); la forma materiale è contratta in entimema, anziché distesa. Ma è la «FORMA ESSENZIALE» che permette di riconoscere 1’«Urbanità», in quanto «fallacia» che senza dolo malo, scherzevolmente imita la verità, ma non l’opprime: et imita la falsità in guisa, che il vero vi traspaia come per un velo: accioché da quel che si dice, velocemente tu intendi quel che si tace: et in quell’imparamento veloce (come dimostrammo) è posta la vera essenza della Metafora (pp. 492-94).

Questa serie di premesse consente al Tesauro di trarre la conseguenza della definizione dell’«ENTIMEMA URBANO», cioè della «Perfettis­ sima Argutezza»: «Cavillazione Ingegnosa, in Materia Civile: scherzeB volmente persuasiva: senza intera forma di Sillogismo: fondata sopra una Metafora» (p. 495). Il ritorno della metafora, tanto nella definizione conclusiva quanto nell’esame della forma sostanziale dell’argutezza, riveste una duplice funzione: saldare in unità il discorso del Tesauro, continuamente per­ corso da tensioni centrifughe, e consentire al trattatista di rassicurare il lettore: per costruire entimemi urbani non gli sarà necessario inol­ trarsi nelle «spinosità Dialettiche; per apprender le Maniere degli Argomenti fallaci, che scapezzar potrebbono un cervel di ferro» (p. 497), come le ultime pagine potevano far sospettare, ma gli basterà richiamare le metafore semplici e aggiungervi «un poco di Discorso» (tramite le tre operazioni di «ADDURRE», «DEDURRE» e infine «RIFLETTERE» intorno al soggetto prescelto) per «fabricar gli Enti­ memi Metaforici che [...] desidera» (pp. 497-98). Segue, come di con­ sueto, l’esemplificazione, ancora basata sulle dieci argutezze proposte ad idea. A pagina 66, accennando ai concetti predicabili, il Tesauro dichiarava che poiché essi «consistono nell’Argutezza; e quante sono le specie delle Argutezze, altretante sono le specie di tai Concetti; riverrò a quelle particolarità al fine del Capitolo Nono, dapoi che avrò favellato di

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ciascuna specie de’ CONCETTI METAFORICI». Ogni promessa è debito, e il trattatista inserisce un Trattato de" Concetti Predicabili, e loro esempli, che si apre con la riproposta della definizione già avanzata: «IL CON­ CETTO PREDICABILE, è un Arguzia leggermente accennata dalTIn­ gegno Divino: leggiadramente svelata dalFIngegno umano: e rifermata con Pautorità di alcun sacro Scrittore» (p. 501). Uno schizzo di storia della predicazione63 precede la vera e propria trattazione, condotta per paragrafi, che riconduce i concetti predicabili all’uno o all’altro degli otto tipi di metafore e li sviluppa secondo un identico schema: proposta del «Tema», individuazione dell’«Argomento Ingenioso, o sia Mezzo Termine con cui si prova la Tema», reperimento di una «Difficoltà» (reale o, più spesso, fittizia), «Scioglimento» («siché si faccia vedere, che quel passo il quale parea tanto difficile, o assurdo, è un Argutezza Divina, quando sia ben inteso»), «Applicazione» (del discorso del predicatore al passo scritturale, e di questo al tema) e infine «Autorità» («per confermar quella spiegazion riflessiva, che per altro sarebbe parsa una propria ingeniosità dell’Oratore, sottoposta alla invidia)» (pp. 537-39). L’ultima pagina del Trattato de7 Concetti Predicabili segna anche la fine dell’esame della causa formale dell’arguzia, iniziato col capitolo IV a p. 124 e dilatatosi fino a p. 540: il Tesauro, evidentemente consapevole della difficoltà di orientamento del lettore, provvede a fornirgli un cartello indicatore che consenta di riconoscere il territorio. E lo costruisce con un procedimento entimematico che unisce in pochi passaggi due punti ap­ parentemente lontanissimi: la lode del concetto arguto introduce un ac­ cenno sui due modi di impararli, per natura e per arte; quest’ultimo, privilegiato da Aristotele, e quindi dal Tesauro, consiste nello stabilir teoremi e regole: Ma perché i Teoremi, o Regole Pratiche, son la Forma dell’Arte: ed ogni Forma presuppone la disposizione della Materia, e la cognizion del Fine a cui si indi­ rizza la Operazione, discorreremo nel primo luogo della Causa Finale, e Mate­ riale delTArgutezza (pp. 540-41),

che costituisce il capitolo decimo dell’opera. Il fine dell’arguzia è la persuasione, articolata nei tre generi del discor­ so («DIMOSTRATIVO, DELIBERATIVO e GIUDIZIALE», p. 541), che possono essere «maneggiati» in tre maniere: «RAZIONALMENTE, MORALMENTE, e PATETICAMENTE» (p. 543). Un’altra correzione di rotta riguarda la «MATERIA«delle Argutezze», che è inizialmente fatta coincidere con quella della retorica, cioè con la «materia civile», come si 63. Utilizzato a fini critici per primo dal CROCE, La prosa oratoria e didascalica, in ID., Storia della età barocca..., cit., pp. 427-44, ma sulla validità del quale avanza dubbi il POZZI, Saggio sullo stile dell’oratoria sacra..., cit., pp. 163-78.

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è già visto: ma l’esistenza, nello stesso Aristotele, di contraddizioni in proposito, porta il Tesauro, con uno scatto impaziente, ad estendere la giurisdizione dell’arguzia a «ogni Materia»: perché tutte le arguzie possono rientrare in uno dei tre generi del discorso, perché tutte possono ricevere forma entimematica ed ornamenti oratori, perché «ancor delle cose Fisiche, ed inanimate con certa Analogia possiam favellare, come delle cose umane» (p. 545). E prosegue: In queste maniere, Virgilio con la medesima tromba cantò il suo Eroe, e la Zan­ zara. Claudiano Pistrice. Catullo il Passero. Stazio il Pappagallo. Marziale VApe. e la Formica', tutte materie non Civili, ma trattate come Civili. Anzi le più sottili e sterili Materie delle Scienze Didascaliche, sicome ti motteggiai, può il Retorico Retoricamente trattare; e far fiorir le rose dal ginepraio. Qual Scienza è più sollevata di terra, che VAstronomia? qual più sterile, che la Fisica? Pur l’una da Manilio, l’allra da Lucrezio, fur vestite non pur con la Toga Oratoria; ma col Poetico Manto (p. 545).

Su questo allargamento della giurisdizione arguta, che non mi pare sia stato messo nel giusto rilievo, e che è tanto più significativo in quanto raggiunto in polemica con 1’«autore» per eccellenza, non solo del Tesauro, può ritenersi praticamente concluso il Cannocchiale aristotelico: esso si prolunga, è vero, per altre duecento pagine, le quali però rivestono spesso le sembianze di appendici più o meno necessarie, qua e là ravvivate da brani stilisticamente notevoli. Come si può vedere già nel capitolo XI, che propone diciannove Teoremi Fruttici per fabricar Concetti Arguti, sud­ divisi in teoremi «communi a tutti gli Generi de’ Concetti Arguti» (p. 548; i primi sei) e teoremi propri a ciascuno dei tre tipi di entimema arguto (cioè razionale, morale e patetico: i secondi otto), cui seguono altri di vario tipo. Il Trattato de’ Ridicoli. Gap. XII esamina la materia (che fa consistere nella deformità fisica e morale) e la forma del ridicolo, che dovrà essere «Turpitudo sine dolore. MINIMEQUE NOXIA» (p. 590). Il tutto, inutile ripeterlo, sulla scorta di Aristotele: ed il passo iniziale del trattato può fornire un interessante e poco citato esempio dei rapporti che legano il trattatista torinese al filosofo greco: Color che non hanno in pratica il genio del nostro Autore, han veramente creduto che il Tempo ingordo si divorò una parte del suo bel libro della Poetica; dov’egli distesamente ragionasse del Ridicolo. Peroché leggendo eglino nel primo, e nel terzo, delle Retoriche a Teodette; ch’egli avea nella sua Poetica «Determinato de’ Ridicoli, e delle, lor differenze»: E, dall’altra parte, non leggendo eglino nella Poetica se non se alcune poche parole di quel suggetto nel secondo capitolo: fermamente cresero, che il resto si sia smarrito. Ma nel vero io trovo, che in quelle poche Parole, quel grande Ingegno ha detto ogni cosa: essendone, al modo suo consueto, venuto alla radice: ponendo in chiaro la Diffinizion del Ridicolo:

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sopra la quale un attento Ingegno per se medesimo filosofando, può fabricar di quell’Arte un pien volume (p. 583).

L’escussione di quella che il Tesauro chiamerebbe la «prole» delle arguzie prosegue nel cap. XIII con il Trattato delle Inscrizioni argute, appartenenti al genere «lapidario», che «vuol essere un Componimento mezzano tra 7 Poetico, e TOratorio. Onde ne’ Concetti richiede maggior vivezza che l’Oratoria, e minor che la Poesia: e nello stile un minor metro che la Poesia; e maggior che l’Oratoria» (p. 595). Il tutto è corredato da una ricchissima esemplificazione (pretesto per esercizi di riscrittura e di dilatazione), tratta soprattutto da iscrizioni latine dello stesso Tesauro, che si parifica, in questo modo, e almeno in questo àmbito, agli auctores da lui continuamente chiamati in causa. Si ricorderà che all’inizio dell’opera il Tesauro aveva distinto tra argutezza simbolica e argutezza verbale o lapidaria, finendo, sia pure senza dichiararlo, per concentrarsi esclusivamente su quest’ultima. Il capitolo XIV propone appunto il Passaggio dalle Argutezze Verbali a quelle de" Simboli, in Figura o in Fatti', si tratta in realtà, ancora una volta, di una collezione di figure ingegnose rintracciate in avvenimenti o in rappresentazioni, raggruppate nelle otto bacheche corrispondenti a ciascun tipo di metafora. Il capitolo in questione è indicato come ultimo (p. 610), nonostante ad esso ne seguano ben cinque: la contraddizione si risolve perché da qui innanzi (tranne, in parte, nel capitolo XIX), il Tesauro tratterà di quelli che egli chiama «Simboli», a partire dal più arguto tra essi, l’impresa. Resta, tuttavia, la già notata difficoltà a contenere ed articolare razionalmente la materia, il che dà luogo, qui e altrove, a quella che il Tesauro chiame­ rebbe una metafora di decezione: il lettore è ripetutamente invitato alla lettura dell’ultimo capitolo, per poi scoprire che tale in realtà non è. Come si accennava, la trattazione delle varie argutezze simboliche si apre con «il più Nobile, il più Eroico, il più Ingenioso et Arguto di tutti li Simboli: il qual volgarmente chiamiamo IMPRESA» (p. 623). Né manca, a questa precedenza, una precisa giustificazione didattico-razionale, appoggiata eXauctoritas aristotelica: Peroché questo contiene in sé tutte le Perfezioni degli altri Simboli: e chiunque saprà comporre Imprese', necessariamente saprà compor Gieroglifici, Emblemi, Maschere, Trofei, ed ogni altro Simbolico frutto dellTutelletto. Così TAutor nostro insegna di proposito a compor la sola Tragedia, come parto più eccellente della Poetica (ibid.).

La scelta del metodo da seguire è appoggiata ad una terna di autorità: Ho io giudicato, Amico Lettore, non potertisi in altro modo insegnar quest’Ade, se non proponendoti la IDEA DELLA PERFETTISSIMA IMPRESA [...]. Così

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Platone insegnò la sua Republica per Idea', così Cicerone, il suo Oratore', e così FAutor nostro, la sua Tragedia (p. 624).

Si tratta quindi, dopo una breve rassegna della produzione critica e la consueta ricerca (para)etimologica, di individuare l’impresa che «abbia ottenuto applauso maggiore» (p. 631: è quella di Luigi XII, recante un’i­ strice che scaglia le sue spine con il motto Eminus et cominus) per poter da essa «investigar la Diffinizione della Perfettissima Idea» (p. 634)64. Il Tesauro articola la propria ricerca in trentuno brevi tesi, al termine delle quali può fornire la «Diffinizione della Perfettissima Impresa»: essa consiste in un^Argutezza in Fatto; fondata in Metafora di Proporzione, per forma di Argo­ mento Poetico di Simiglianza: significante un pensiero Particolare, et Eroico: per mezzo di una Figura Reale, Nobile, Unica, Bella: Naturale, ma Mirabile: Nuova, ma Conoscibile: Facile a rappresentarsi, e proporzionata allo Scudo. Con Proprietà Apparente, Attuosa, e Singolare: accennata con un Motto Acuto, Brieve, Contra­ posito, Equivoco; e di Classico Poeta Latino: onde ITmpresa sia Ingeniosa, ed appropriata; ma Populare, e Condecente alle Persone, ed al Suggetto (p. 684).

Quella proposta è la definizione completa; ridotta alla sua «nuda e simplice Essenza», «l'impresa è Un'Argutezza: significante un Concetto Ero­ ico, per mezzo di alcuna Simbolica Figura» (ibid). Con questa pietra di paragone il Tesauro misura tutte le imprese più note, compresa quella di Luigi XII, e in tutte trova qualche difetto: né potrebbe essere altrimenti, *perché non è «opera umana l’accoppiar tutte le Perfezioni preaccennate in una Impresa», così che il Tesauro applica a questo parto dell’ingegno ciò che Cicerone disse dell’eloquenza: «che se non puoi conseguir la Perfetta

64. Il brano citato, assieme ad altri argomenti, è usato da MARIO ANDREA RIG0NI per sottolineare la presenza di elementi neoplatonici nel suo pensiero (Il Cannocchiale e l'idea, «Comunità», Ivrea, XXXII 179, apr. 1978, pp. 337-52; v. anche ID., Tesauro, Emanuele, cit.). Lo Zanardi segnala, invece, la «derivazione aristotelica e non platonica» della nozione tesauriana di «idea» (Metafora e gioco nel «Cannocchiale aristotelico» di Emanuele Tesauro, cit., p. 72n.); e, in effetti, subito dopo il metodo investigativo ridiviene ortodossamente aristotelico, deduttivo-induttivo: «Laonde, sì come il nostro Autore dalle Perfezioni dell’Edippo di Sofocle, investigò la Diffinizione della Tragedia Ideale: e dalla Diffinizione ritornò con un regresso Dimostrativo, a discoprir le imperfezioni del medesimo Edippo: così noi ci serviremo delle prerogative di questa Impresa, per investigar la Diffinizione della Perfettissima Idea: riserbandoci di ritornarne all’ultimo, con la luce del discorso a riconoscere, se in lei si ritrovi alcun difetto» (p. 634). La frase immediatamente successiva fornisce la spiegazione dell’impresa che adorna il frontespizio dell’opera (per la quale vedi RlGONI, Il Cannocchiale e Videa, cit.): «Il che sarà (come dicemmo) col CANNOCCHIAL di ARISTOTELE, trovar le macchie nel Sole» (ibid.). Di «antiplatonismo» di Tesauro parla anche MONCAGATTA, La parola in movimento. Un'interpretazione del «Cannocchiale aristotelico», cit., p. 26.

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Idea, ti sforzi di seguirla più di vicino: e se tutte le Perfezioni adunar non puoi; ne aduni il maggior numero, che tu potrai» (pp. 692-93). In conclusione, il Tesauro sembra voler ancora sottolineare la diversità di questa appendice dedicata alle imprese dal resto del Cannocchiale aristo­ telico, facendosi rimproverare dagli «sciocconi» di non aver fornito una raccolta di simboli e di motti: la risposta è che «noi qui abbiamo intrapreso d’insegnar la Forma; non di somministrar la Materia delle Imprese» (p. 693), per la quale rimanda comunque al capitolo sulla causa efficiente, là dove tratta dell’esercizio e in particolar modo dell’indice categorico. La trattazione dell’emblema, eccedente rispetto al piano originario e affidata al capitolo XVI, è giustificata col fatto che dopo l’impresa niun Simbolo è più gradito nelle Academie, dell’EMBLEMA: anzi, apresso al Popolo, negli Apparati festivi, ne’ fregi delle Sale, negli orna­ menti degli Archi, et in mille altre publiche apparenze, gli Emblemi ricevono maggiori applausi che le Imprese, le quali parlano solamente con gli ‘ngegnosi, di pensieri singolari, e privati; e perciò difficili a penetrare (ibid.).

Il Tesauro fornisce innanzitutto la definizione di emblema: Un Simbolo Populare; composto di Figura e Parole, significante per modo di Argo­ mento, alcun Documento appartenente alla vita umana; e perciò, esposto per fregio, et ornamento ne ’ Quadri, nelle Sale, negli Apparati, nelle Academie; overo impresso ne’ libri con Imagini e spiegazioni per publico insegnamento del Popolo (p. 694)Ó,J

e ne segnala la differenza rispetto all’impresa: essa consiste non solo nella maggior difficoltà, e conseguente aristocraticità, di quest’ultima, ma soprat­ tutto nella necessaria interazione che in essa si verifica tra motto e figura, reciprocamente complementari nell’impresa, ridondanti l’uno rispetto all’al­ tra nell’emblema66. Poi procede alla dimostrazione e alla esemplificazione,

Nel saggio citato, il Rigoni sostiene anche l’impermeabilità del Tesauro alle scoperte scientifiche (utilizzate esclusivamente come «emblemi di critica morale»): tesi più convincente di quella di ElLEEN REEVES, che vede riprodotta nel Cannocchiale la tas­ sonomia scientifica usata da Galileo nella Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (da lei indicate come Letters on thè Sunspots)-. The Rhetoric of Optics: Perspectives on Galileo and Tesauro, «Stanford Italian Review», Stanford, VII, 12, 1987, pp. 129-45. 65. «Dove per Populare, e per Popolo, - aggiunge con precisazione da non dimenticare tu non devi ‘ntendere la ignara Plebe: ma quegli mezzani ingegni, che pure intendono il Latino, e delle lettere umane sono mediocremente infarinati» (p. 694). 66. Il Tesauro elenca altre differenze, meno essenziali: il motto dell’impresa va prefe­ ribilmente ricavato dagli auctores, quello dell’emblema dev’essere originale; la figura dell’emblema non soggiace alle restrizioni di verità, naturalità ed unità che regolano quella dell’impresa. In simile materia, è d’obbligo il rinvio a MARIO PRAZ, Studi sul concettismo, Firenze, Sansoni, 1946 (in particolare il primo capitolo).

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per la quale ricorre abbondantemente alla propria opera, in particolare agli emblemi composti «per abbellimento del delizioso Giardino di Raconigi», che occupano le ultime pagine del trattatello. L’opera precipita rapidamente verso la conclusione, anche tipografica: i Riversi delle Medaglie (che «sono stati gli primi Semi delle Imprese; e perciò più simplici e più chiari, perché sono più populari: passando per le mani della moltitudine nell’umano commercio: e più volte spargendosi al Popolo nelle communi allegrezze, nelle strene, e ne’ pubblici e privati Donativi» (p. 729) sono sbrigati in due paginette; ed il capitolo XVIII (Diffinizione, ed essenza di tutti gli altri Simboli in Fatto) affastella in­ sieme elementi nuovi (come la definizione di «cenno», «ballo», «giochi equestri», «mascherate», «tragedie» - «son Metafore rappresentanti Azioni Eroiche con Abito, e Voce, e Gesto, e Armonia» (p. 732) -, «comedia», «pittura e scultura», «apparati e machine teatrali», «gieroglifico», «arme gentilesca», «trofei», «insegne di onore», «figure iconiche») ed altri già trattati, anche ampiamente (riversi, emblemi, imprese), riconducendoli di nuovo tutti sotto il genere comune del simbolo, che «è una Metafora significante un Concetto, per mezzo di alcuna Figura Apparente» (p. 731). Infine, l’ultimo capitolo propone una serie di Inserti Varii et Ingegnosi di tutte le Specie Simboliche fra loro: e dell Arte LAPIDARIA con la SIMBOLICA, esemplificati con variazioni sulla favola di Ganimede. Il Chiudimento delVOpera è affidato ad una delle migliori pagine tesauriane, che varrebbe la pena di riprodurre per intero, se ovvie ragioni di spazio e di opportunità non consigliassero di limitarsi alle ultime righe, dalle quali meglio emerge, tra l’altro, quel ritratto di sorridente modestia e bonomia che ha ottimamente messo in luce il Raimondi67: Dirai tu pertanto, questo mio Trattato de’ Simboli, essere il vero Simbolo della Temerità', peroché tratta de’ Concetti ’ngeniosi con poco ingegno; e delle Acutezze senza ninno acume: insegna a ben parlare, et è mal parlante: scopre col Cannocchiale aristotelico le Macchie delle Imprese, et è tutto Macchia: talché, se tu volessi fabricare una Impresa sopra questo Libro, potrestù pingere apunto un Libro aperto, che ad altri insegna quel ch’ei non sa. Ma s’egli è vero quel che Plinio il Vecchio per testimonianza del Nipote, solea dire: «Niun Libro esser tanto sciocco, il qual non abbia qualche cosa Ottima, che vaglia la fatica di leggerlo tutto»: e se è vero il detto del nostro Autore: FINIS HABET RATIONEM OPTIMI: chi arà pazienza di legger tutto questo Volume; sicuramente una cosa Ottima, e piacevolissima ci troverà: cioè, I L F I N E.

Segue, come si è già accennato, Vindice delle materie contenute in questo Volume, per ordine Alfabetico.

67. RAIMONDI, Letteratura barocca..., cit., pp. 24-32 e passim.

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I. 2. IL CANNOCCHIALE ARISTOTELICO: DA RETORICA DELLA LETTERATURA A LETTERATURA DELLA RETORICA

Nel primo paragrafo del Trattato della metafora - sezione centrale, topograficamente e contenutisticamente, del Cannocchiale aristotelico - Emanuele Tesauro esibisce con rilievo tipografico «la vera, e non vulgar Diffinizione della Metafora», da lui raccolta al termine di un errabondo eppur controllato viaggio attraverso i frequentatissimi mari della Retorica e della Poetica aristoteliche: «PAROLA PELLEGRINA, VELOCEMENTE SIGNIFICANTE UN OBIETTO PER MEZZO DI UN ALTRO» (p. 302). Salta subito all’occhio, e certamente non stupisce, la dipendenza da Poetica, 1457b 8-9 («la metafora consiste nel trasferire ad un oggetto il nome che è proprio di un altro»)1 del «som­ mo genere» così individuato, che dovrebbe, per definizione, essere comune a tutti gli otto tipi di metafora poco prima esaminati in forma breve dal trattatista. E, in effetti, il «trasferimento» soggiace, con appena qualche forzatura, a ciascuna delle trasformazioni metaforiche del termine Roma che il Tesauro escogita ad esempio per il lettore: «URBIUM SOL» (metafora di somiglianza o proporzione), «CAPI­ TOLIUM» (attribuzione), «VALENTIA» (equivoco: «peroché il Greco nome ROMI, altro apunto non sonava, se non Valentia»), «POPU­ LORUM TRIUMPHATRIX» (ipotiposi), «ALTER ORBIS» (iperbole), «R» (laconismo), «ANTI CARTEAGO» (opposizione), «ROMULA» (de­ cozione) (pp. 298-99). L’esercizio tesauriano merita davvero la quali­ fica di ingegnoso: non tanto per la trasformazione dello stesso tenore in otto veicoli diversi, quanto per aver raggiunto (anche - lo si noti attraverso l’indicazione a priori del metaforizzato) la congruenza tra definizione ed esemplificazione. Altrove, infatti, non tutte le metafore che il Tesauro accatasta con inesorabile stacanovismo rientrano nella griglia definitoria: anche a voler assegnare al termine illatio la più ampia latitudine semantica sopportabile, risulta piuttosto problematico individuarla all’opera in esempi - appena precedenti a quelli citati quali «Carpathii leporem» (laconismo) (p. 291) o «mens amens» (op­ posizione) (p. 293). L’inadeguatezza della formula di matrice aristotelica rispetto alla divisione del genere metafora in otto specie non dovette sfuggire nep­ 1. Debitamente citata dal Tesauro alla nota 125, p. 281: «Translatio est nominis alieni illatio», con il rimando ad Ar. Poet. c. 20 (21 1457b 7 nelle edizioni moderne; le citazioni in italiano da ARISTOTELE, Opere. 10. Retorica. Poetica, tradotte rispettivamente da Armando Plebe e Manara Valgimigli, Bari, Laterza, 1988 [19731]).

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pure al Tesauro: il sospetto nasce non perché egli dichiari l’aporia, ma perché fornisce, subito dopo aver discusso partitamente la definizione di metafora come trasferimento, un’altra «causa formale» (ricordo che ci troviamo all’interno del maxicapitolo - da p. 121 a p. 540 - dedicato all’analisi della «cagion formale» dell’arguzia) della regina dei tropi: «l’essenza della Metafora consiste nel farti conoscere un obietto con faciltà» (p. 303). Anche questa frase, naturalmente, si appoggia ad una asserzione di Aristotele, quella che «a tutti è piacevole appren­ dere facilmente»2- che il Tesauro traduce, e certo tradisce, nell’as­ sioma «L’IMPARAR COSE NUOVE CON FACILTÀ, È DILETTE­ VOLE ALL’UMAN GENIO» (p. 300: la citazione nel vivagno recita «Faciliter discere omnibus a Natura suave est»} -, sostenuta dalla pre­ messa minore, di identica provenienza, che «noi apprendiamo soprat­ tutto dalle metafore»3. La conoscenza di cui qui si parla è, prima ancora che intellettuale, visiva: spetta al Ricoeur il merito di aver dimostrato come già il dettato aristotelico assegni alla metafora il potere di visualizzare le relazioni45 . Uomo del Seicento, cioè del secolo nel quale, come ha brillantemente argomentato il Raimondi, il primato nella gerarchia dei sensi passa dall’udito alla vista0, il Tesauro enfatizza questa carat­ teristica, il che gli permette di fornire, all’esistenza di otto tipi di me­ tafora, da lui proposta fin dall’inizio6, una giustificazione più salda e coerente di quanto non fossero le sparse citazioni da Retorica III 10 e JL1 là addotte ad unico conforto della scelta. Il trattatista pare ben consapevole della novità della propria posizione: infatti, dall’immu­ tabile sfondo dell’osservanza, più o meno di comodo, aristotelica, si distacca qui una presunzione di originalità che sfocia infine nell’orgo­ gliosa dichiarazione posta a commento dello schema conclusivo, che

2. ID.,/retorica, III 10 1410b 9. 3. Ivi, III 10 1410b 13. 4. PAUL Ricoeur, La metafora viva, Milano, Jaca book, 1981 (ed. orig. 1975), pp. 46-48. 5. Ezio Raimondi, La nuova scienza e la visione degli oggetti, «Lettere italiane», Firenze, XXI 3, lug.-set. 1969, pp. 264-305; poi con il titolo Verso il realismo, in II romanzo senza idillio. Saggio sui «Promessi sposi», Torino, Einaudi, 1985 (19741), pp. 3-56. 6. Nel trattato giovanile sulle imprese, il Tesauro censisce invece solo tre tipi di metafora: quelle che «da equivocazione si traggono» (cioè, «quando per con­ venzione si prende un soggetto per l’altro o vero un equivoco per l’altro»), quelle di attribuzione e infine quelle di somiglianza o proporzione, divise in metafora da specie a specie e da genere a genere (TESAURO, Idea delle perfette imprese..., cit., pp. 50-55).

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raccoglie e riordina le otto metafore: «Che se questa mia teorica distri­ buzione non ti appagasse, provati tu di ritrovarne un’altra migliore» (p. 305; corsivo mio). Non resta, ora, che riprodurre sia il grafo finale sia l’argomentazione che lo introduce e spiega, facendo notare come il riconoscimento che essenza della metafora è la conoscenza dell’oggetto, introdotto quasi di soppiatto a scapito della precedente formula, in realtà renda ragione assai meglio di essa del perché le metafore siano proprio otto e perché proprio quelle otto (motivando così una quantità e una tipologia altrimenti al limite dell’arbitrario) e, in secondo luogo, consenta di approdare, come visualizza lo schema, ad una sistema­ zione del materiale non solo chiara e distinta - se non al livello dei referenti, almeno a quello dei segni -, ma anche rispondente all’esi­ genza barocca di traduzione visiva del messaggio linguistico, di interscambiabilità tra linguaggio verbale e linguaggio pittorico': Peroché, sicome l’essenza della Metafora consiste nel farti conoscere un Obietto con faciltà: così due sole maniere vi ha di conoscer facilmente qualunque Obietto lontano: un’ASSOLUTA, l’altra COMPARATIVA. L’Assoluta; se l’obietto è grande sì, che l’occhio vi giunga dalla lungi: come il Colosso di Carete, che sporgeva alto settanta gombiti: e questa è la IPER­ BOLE. Overo, s’egli è sì chiaro, che venga con la sua luce a incontrar l’oc­ chio nostro: come la Luna, che sol tanto da noi si vede; quanto è illuminata dal Sole: e questa è la IPOTIPOSI. La Comparativa; se tu mi rapresenti alcuna cosa Simile, o Contraria, o Congiunta. Con la Simile, io conosco un Uomo per mezzo della sua imagine: e questa è la Metafora di SIMIGLIANZA. Con la Contraria; io comprendo meglio il candore al confronto della Nerezza: e questo è VOPPOSITO. Con la Congiunta: conosco il Cervo per le vestigia: e questa è la Metafora di ATTRIBUZIONE. Ma queste tre maniere Comparative, si sottodividono. Peroché, se la Simiglianza è nel Nome, non nell’obietto: sarà VEQUIVOCO. La Contrarietà, se non è fra gli obietti; ma fra l’obietto, e la Opinion mia: forma la DECEZIONE. Ed il Congiunto, se richiede profonda riflession dell’Intelletto: è il LACONISMO. Talché, se ti vien disiderio di veder queste otto specie diramate in un Tipo, eccolti. 7. Si estende qui alla sfera concettuale quella declinazione secentesca dell’ut pictura poesis, basata sulla comunanza dell’«immagine» alle due arti, che in ambito retorico aveva già beneficiato della suggestiva applicazione delle «tavole metriche», dove il Tesauro postula esplicitamente una corrispondenza biunivoca tra le sfere sensoriali della vista e dell’udito: «Or da questi esemplari, e da queste TAVOLE METRICHE, puoi tu fare, accorto Leggitore, una novella e profittevole osservazione; che tutte le Periodi, le quali formano la Tavola metrica più bella, e con più belle proporzioni dipinta in carta: sicome più appagano l’occhio a vederle; così riescono all’orecchia più armoniose e gradite: servendo l’uno e l’altro senso al senso Commune; e questi all’Animo, composto di proporzioni, e d’armonia. E per contrario, quanto la Tavola è più imbrogliata al vedere; tanto più dura sarà la Periodo ad udire» (p. 200) (cfr. infra, p. 37).

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r ASSOLUTA

Maniera di conoscere ) con facilità \ un Obietto lontano

-- Per la Grandezza

IPERBOLE

- Per la Chiarezza

IPOTIPOSI

/- Per il Simile

L COMPARATIVA /

r Nell’Obietto

METAFORA DI SIMIGLIANZA

L Nel Nome

EQUIVOCO

r All’Obietto

OPPOSITO

L All’Opinione

DECEZIONE

Superficiale, r e Piano

METAFORA DI ATTRIBUZIONE

L Profondo, ed Inviluppato

LACONISMO

Per il Contrario

Per il Congiunto

(pp. 303-304) Abbiamo dunque sorpreso accamparsi fianco a fianco, in un nodo centrale del trattato di Emanuele Tesauro, non solo due differenti definizioni di metafora, ma anche da una parte l’ossequio, tutt’altro che esclusivamente formale, al maestro di color che sanno, dall’altra una ricerca di originalità - atteggiamenti entrambi tipici del secolo a che, se pur non arriva a negare V auctoritas, non rinuncia ai propri diritti. Né si tratta dell’unico caso, ché possiamo sorprendere qualche altra modalità di questa alternanza tra tradizione e innovazione senza uscire dall’incrocio tra l’insieme della metafora e quello dei rapporti Aristotele - Tesauro. E ben noto che il filosofo greco distingue, in Poetica 21, quattro tipi di metafora («La metafora consiste nel trasfe­ rire a un oggetto il nome che è proprio di un altro: e questo trasferi­ mento avviene, o dal genere alla specie, o dalla specie al genere, o da specie a specie, o per analogia»), come viene confermato indiretta­ mente da Retorica III 10 («dei quattro tipi di metafora [...]»)8; ed è quasi altrettanto noto che il Cannocchiale aristotelico ne elenca invece otto, numero conseguito tramite un lavoro che è insieme di conden­ sazione e di amplificazione. Le aggiunte mi paiono meno significative: conformemente alla propria convinzione che Aristotele «usa di addi­ tarci solamente i vestigi delle sue Dottrine» (p. 446), il Tesauro rin­ traccia, da accenni sparsi nei capitoli 10 e 11 del terzo libro della Retorica, quanto serve a proporre sei tipi di metafora: equivoco, 8. Poetica, 21 1457b 8-10. Retorica, III 10 1411a 1.

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ipotiposi, iperbole, laconismo, opposizione, decezione9. Più interessante la rielaborazione operata sulle vere e proprie metafore aristoteliche, che il Tesauro riduce da quattro a due: innanzitutto raggruppando quelle dal genere alla specie e dalla specie al genere sotto le metafore di attribu­ zione, poi trasformando il quarto tipo aristotelico - «per analogia» - in una metafora da genere a genere (non contemplata da Aristotele) che, insieme al tipo che la precede in Poetica 21 - «da specie a specie» - viene rubri­ cata tra le metafore di somiglianza o proporzione («analoga» nel primo caso, «univoca» nel secondo). Mentre la proposta dei sei nuovi tipi di metafora è appoggiata, ogni volta, ad una autorizzazione aristotelica - in alcuni casi forzata, ma mai oltre i limiti consueti alle abitudini del tempo -, l’ardita rimanipolazione del brano espressamente dedicato dal filosofo greco alla metafora non in­ voca il nume tutelare, ma, pur citando ovviamente il passo di partenza, dà come per scontata (e, soprattutto, per aristotelica) quella riorganizzazione del materiale: «Primieramente da lui trov’io riconosciute e celebrate alcune metafore di SIMIGLIANZA: chiamate METAFORE DA UNA SPECIE ALL’ALTRA: E DA UN GENERE ALL’ALTRO» (p. 281); «La seconda maniera di Metafora è quella, ch’ei chiama DAL GENERE ALLA SPECIE: E DALLA SPECIE AL GENERE» (p. 283)10. Una simile ri articolazione della materia metaforica presenta, come appare subito, una messe di problemi di non facile né immediata solu­ zione, a partire da quello della reale estensione, in rapporto alla tassono­ mia retorica attuale nonché a quella contemporanea al Tesauro, del significato del termine metafora e - conseguentemente - dei rapporti che nel quadro tesauriano essa intrattiene con le altre figure retoriche, nomi­ nate oppure no. Sorvolando ad alta quota, almeno per ora, questo perico­ loso vespaio, sottolineerei ancora la novità, per quantità e ripartizione,

9. RICOEUR, La metafora viva, cit., analizza la parentela tra la concezione aristotelica di metafora e quella di proverbio, iperbole ed enigma, motivando così non solo certe affermazioni dello Stagirita («anche le iperboli che hanno successo sono metafore»: Retorica, III 11 1413a 21), ma anche la istituzione, sulla base di esse, di alcuni dei tipi di metafora che troviamo in Tesauro (p. 37n.). Si veda anche il fondamentale GUIDO MORPURGO-TAGLIABUE, Linguistica e stilistica di Aristotele, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1967, pp. 287-98. 10. Rispetto a Poetica, 21 1457b 8-10 c’è anche una inversione gerarchica, in quanto le metafore di proporzione (da genere a genere e per analogia) prendono il primo posto a scapito di quelle di attribuzione (da genere a specie e viceversa). Ciò si spiega con l’affermazione di Retorica, III 10 141 la 1-2: «Dei quattro tipi di metafora hanno successo soprattutto quelle che si svolgono secondo proporzione». Il passo è all’origine di una tradizione sbozzata dal Morpurgo-Tagliabue (Linguistica e stilistica..., cit., p. 267 e n.) e nella quale si inserisce anche il Tesauro, sia nel caso appena esaminato sia quan­ do afferma, ad esempio, che «La Metafora di Proporzione, è più perfetta di qualunque altra Metafora» (p. 638).

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della proposta tesauriana rispetto ai testi aristotelici11, novità evidente­ mente indotta dall’accentuazione del valore conoscitivo della metafora, così ben sintetizzata nello schema che abbiamo riportato, la cui euritmia concettuale e visiva risulterebbe gravemente compromessa da una diffe­ rente tassonomia. Eppure, ancora una volta, il massimo di divaricazione dal testo tutore è incrinato da una serie di atteggiamenti che riconducono, all’opposto, alla matrice di Poetica 21: infatti, l’opera allinea numerose dichiarazioni che sembrano postulare una netta differenza di grado tra le prime due metafore (quelle di attribuzione e di proporzione) e le altre sei, come ha ben visto lo Zanardi11 12. Ciò deriva dal fatto che il Tesauro rinuncia, in questi casi, alla propria proposta di individuare l’essenza della figura nel «far conoscere un obietto con faciltà» (p. 303) e riprende la definizione aristotelica di metafora come trasferimento: essa però si applica con difficoltà alle sei nuove metafore rintracciate dal trattatista, che si vede quindi costretto ad assegnare la preminenza a quelle di pro­ porzione e attribuzione (che ricoprono, ricordiamo, i quattro tipi elencati in Poetica 21). Con il che, l’Aristotele padrone di casa, che ad un certo punto sembrava mandato fuori dalla finestra, rientra, se non dall’ingresso principale, almeno dalla porta di servizio e il vecchio arredo convive con le nuove suppellettili. Queste considerazioni rivestono una qualche importanza in ordine ad una più precisa caratterizzazione del Cannocchiale aristotelico e del suo autore, che normalmente vengono assegnati a due poli opposti: l’opinione prevalente vede nel trattato l’ultimo ed estremo frutto di una secolare a subordinazione a quell’Aristotele il cui prestigio aveva già cominciato a subire, in altri àmbiti, colpi fieri e decisivi; altri critici, invece, enfatiz­ zano la portata del fraintendimento dell’opera dello Stagirita sino a fare del letterato piemontese un non aristotelico sotto mentite spoglie, una sorta di quinta colonna nelle file del nemico13. Entrambe le ipotesi, pur da rifiutare nella loro assolutezza, certamente qui enfatizzata da una neces­ saria ma riduttiva schematicità, hanno tuttavia, come si accennava, del vero: non perché, aristotelicamente, la virtù stia nel mezzo o perché, 11. A dire il vero, il Friedrich (Epoche della lirica italiana. Il Seicento, cit., p. 113) sostiene che «la dottrina sulle metafore del Tesauro [...] segue la suddivisione tradizionale dei tipi-base metaforici in tre generi e otto specie»: ma né lo studioso cita fonti a sostegno né io ho trovato precedenti nella trattatistica. 12. MARIO ZANARDI, La metafora e la sua dinamica di significazione nel «Cannocchiale Aristotelico»..., cit., pp. 340-42. 13. Mi limito a due citazioni, una per ciascuna tendenza: il Tesauro è «plus aristotélicien que le maitre lui-méme» (LAURENS, «Ars ingenii»: la théorie de la pointe au dixseptième siècle..., cit., p. 207); alTopposto, HATZFELD, parlando di Graciàn, sostiene che egli «does not need, like Tesauro, more or less spurious passages from Aristotle’s Rhetorics and Poetics to bolster up his non-Aristotelianism by marginai references to Aristotle» (Three National Deformations of Aristotle..., cit., p. 4).

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irenicamente, il Tesauro sia meno aristotelico di quanto non sembri a quasi tutti e, al contrario, più aristotelico di quanto non paia a pochi altri, bensì perché il Cannocchiale mostra una continua compresenza di due aspetti contraddittori, di modo che il bipolarismo critico di cui si diceva trova il suo primo fondamento nel trattato stesso. Questa caratteristica, che abbiamo fino ad ora cercato di illustrare nell’ambito del rapporto che lo lega ai testi aristotelici, si manifesta a molteplici altri livelli, tanto da invitare a proporre l’ipotesi che essa costituisca una costante strutturale del Cannocchiale aristotelico^ come ora proveremo a dimostrare con prelievi testuali a differenti profondità. In effetti, la convivenza di due elementi in contraddizione non si limita a sottendere il legame tra il trattatista e il suo maestro, anche se da lì prende spesso l’avvio, ma si allarga fino ad informare di sé l’impianto metodologico dell’opera: come notò già il Pozzi, la ricerca dottrinale [...] è condotta come su un doppio registro: col metodo aprio­ ristico di tipo aristotelico-scolastico, rimesso in onore dal rifiorire della filosofia tomistica dopo il concilio di Trento, e col metodo induttivo o, come allora si diceva, «positivo», che procede per osservazioni concrete su dei dati di fatto, inaugurato dai cultori delle scienze fisiche11.

Al primo membro dell’alternanza si ascrive, naturalmente, l’ossatura del trattato, che costringe nelle maglie di un’indagine aristotelicamente con­ dotta per causas tutta una serie di induzioni che, all’opposto, zampillando dall’imponente accumulo di materiale esemplificativo, mettono conti­ nuamente in crisi la petizione metodologica di partenza, non dichiarata ma presupposta. La contraddizione esiste anche laddove il metodo quello per trovar la Diffinizione della Perfettissima Impresa (pp. 628-36) è posto a tema: si tratterà di investigare 1’«etimologia» del nome, poi di esaminare qualche impresa universalmente apprezzata, infine di discutere i pareri comuni degli esperti per finalmente confrontare le singole imprese con la definizione così ottenuta. All’interno di questa ossatura rigidamente deduttiva si insinua tuttavia una dichiarazione nella quale il Tesauro pare rivendicare - naturalmente coonestandolo con il ricorso all’immancabile Aristotele - l’uso di quello che allora si stava proclamando metodo scientifico, accoppiante induzione e deduzione: Laonde, sicome il nostro Autore dalle Perfezioni dell’Edippo di Sofocle investigò la Diffinizione della Tragedia Ideale: e dalla Diffinizione ritornò con un regresso dimostrativo, a discoprir le imperfezioni del medesimo Edippo; così noi ci serviremo delle prerogative di questa Impresa, per investigar la Diffinizione della

14. POZZI, Note prelusive..., cit., pp. 29-30.

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]Jerfettissima Idea: riserbandoci di ritornarne all’ultimo, con la luce del discorso, a riconoscere, se in lei si ritrovi alcun difetto (p. 634)1

Rispetto ad un analogo passo della giovanile Idea delle perfette imprese15 1617 18 che, come è noto, può essere considerata il brogliaccio di questo quindi­ cesimo capitolo del Cannocchiale aristotelico - si riscontra una maggiore enfasi: ma né in un caso né nell’altro queste che sono ormai dichiarazioni metodologiche trovano riscontro nell’impostazione dell’opera. Essa conti­ nua così ad esibire, perfino nelle parti periferiche, la sua irrimediabile bipolarità, del resto operante anche in settori assai più vasti, coincidenti con l’opera intera: basti pensare alla compresenza, già notata dal Pozzi, di materiale «lirico, fantastico» e di una «lingua puramente espositiva»1 z, che, del resto, rientra nella più generale irresoluzione tra teoria e lettera­ tura; o all’incertezza sull’argomento stesso del trattato, come ora vedremo meglio. Il Cannocchiale aristotelico è opera, come si sa e come recita il fron­ tespizio10, dedicata all’«arguta ed ingeniosa elocuzione», cioè intesa a ri­ cercare le fonti e il segreto dell’argutezza: ne costituisce perentoria dimostrazione, tanto per cominciare, l’intelaiatura del trattato, che, dopo un capitolo introduttivo DelVargutezza e dei suoi parti in generale (che vanta il titolo graficamente più maestoso, a sottolineare la preminenza dell’argomento), si articola nella ricerca delle Cagioni Instrumentali (ca­ pitolo II), Efficienti (III), Formali (IV), Finale e Materiale (X) dell’ar­ gutezza appunto; e il filo rosso della straripante esemplificazione di argu­ zie di vario tipo e genere contribuisce alla compattezza del testo. Tuttavia, la messa a tema, anche enfatizzata, di questo argomento, è contestata dall’apparizione, in lacerti ampi e non marginali del trattato, di altri due protagonisti - la metafora e l’impresa - che tendono non tanto a sostituirsi all’arguzia, quanto ad accamparsi accanto e alla pari con essa, incrinando così irrimediabilmente la pretesa dell’opera di proporsi come una strut­ tura monocentrica. La metafora rappresenta senza dubbio il polo alternativo più evidente in questa oscillazione teorica, tanto è vero che una parte non insignificante della tradizione critica sul Cannocchiale aristotelico tende a trasformare in un trattato sulla regina dei tropi un’opera invece esplicitamente consacrata 15. Al passo citato si può affiancare il seguente: «Poiché dunque con l’esempio delVIstrice del re Luigi, e con le Regole di Aristotele, abbiamo stabilita la Diffinizion della Perfettissima Impresa: restaci per chiudimento, di esaminar con l’istessa Diffinizione, le Imperfezioni delle più celebrate Imprese di grandissimi personaggi; anzi dell’i­ strice stesso» (p. 685). 16. TESAURO, Idea delle perfette imprese..., cit., p. 38. 17. POZZI, Noteprelusive..., cit., p. 3. 18. Ma solo a partire dalla stampa del 1663: il fatto sarà discusso più avanti.

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all’esame dell’argutezza. Lo spostamento di interessi è stato senz’altro influenzato dalla sempre risorgente attrazione critica esercitata dalla metafora, ma ha trovato alimento nell’opera stessa del Tesauro. Assai più del pur cospicuo numero di pagine dedicate alla metafora, contano le oscillazioni definitorie che la intrecciano all’argutezza in un alternante rapporto di genere a specie (ad esempio, a p. 4 si arguisce che metafora è iponimo di argutezza: «il nostro Autore, lodando l’arguta Metafora con cui da Euripide fu abellito un Verso di Eschilo; chiamò tutto il genere delle Argutezze, COSMON, e COSMIOTIN»; mentre altrove il rapporto si rovescia; «la Metafora, e conseguentemente l’Argutezza, e tutti i Simboli; son parti e parte della Poesia»; p. 115) o, per usare l’immaginosa termi­ nologia tesauriana, di madre a figlio e viceversa (la metafora è «prole dell’Argutezza» [p. 9], «vera figliuola dell’ARGUTEZZA» [p. 235], per poi divenire altrove «gran Madre di ogni ARGUTEZZA» [p. 279], «fe­ conda genitrice [...] d’innumerabili Argutezze» [p. 116]). Tra le due entità sembra dunque instaurarsi un gioco di rimandi reciproci che non riesce ad approdare ad una sovrapposizione19, nemmeno quando si tocca o si sfiora l’identità lessicale; infatti, se la tripartizione delle metafore in «me­ tafore semplici», «proposizioni metaforiche» e «argomenti metaforici» (p. 279) ripete quella proposta in apertura per le argutezze, divise in «Sim­ plici Parole Ingegnose», «Proposizioni Ingegnose» e «Argomenti Inge­ gnosi» (p. 8), va subito precisato che il ricalco punto per punto è impro­ ponibile: se le metafore semplici possono anche coincidere con le «Sim­ plici parole ingegnose», non siamo però ancora al livello delle argutezze, e queste ultime (gli argomenti ingegnosi) sono molto di più di una metafora, per quanto basate su di esse. L’irresoluzione presente a livello concettuale si riverbera, come è ovvio, sul disegno complessivo dell’opera, dal quale la metafora tende irresisti­ bilmente ad esorbitare. L’ampiezza dello spazio ad essa dedicato (da p. 266 a p. 500, vale a dire circa un terzo dell’intero trattato) costituisce una spia dell’impossibilità di mantenerla nella casella inizialmente asse­ gnatale, che era quella di una - e sia pure la più alta (p. 266) - delle figure ingegnose (che, ricordo, assieme alle armoniche e alle patetiche ar­ ticolano, secondo il Tesauro, l’intero campo retorico). Infatti, la metafora 19. CONTE, La metafora barocca..., cit., che meglio di tutti ha notato l’oscillazione, ha anche ritenuto di poterla comporre identificando tra loro metafora ed argutezza (pp. 14356): ma il tentativo approda ad una serie di affermazioni tutte vere ma nessuna, mi pare, valida per l’intero trattato. Deve essersene accorto anche il Conte, che ricorre spesso a distinguo e precisazioni («argutezza e Metafora tendono a coincidere: però l’argutezza nomina preferibilmente non operazioni ma esiti»: p. 144; «In ogni caso, [se] nel concetto di artificio i due concetti coincidono e mostrano poi via via la loro intima parentela, non pertanto rinunciano ad una loro autonomia»: p. 152) tanto inevitabili quanto cogenti a ricercare ad altri livelli la soluzione dell’aporia.

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allarga in realtà il proprio ambito di azione fino a farlo coincidere pressoché interamente (si tratta solo di vincere la debole concorrenza, che è difficile riportare all’ambito delle figure, delle parole «proprie» e di quelle «pellegrine»: pp. 235 e 249) con quello delle figure inge­ gnose, «a paragon delle quali tutte le altre Figure fin qui recitate perdono il pregio» (p. 266): vale a dire con la zona di pertinenza dell’intelletto. L’allargamento e la sovrapposizione così operate provocano il passaggio da una metafora «specie» ad una metafora «genere» (da metafora a Me­ tafora20), il che porta seco due conseguenze: la prima è il passaggio della figura da una condizione subordinata ad una paritaria rispetto all’argutezza, con le già viste ripercussioni sull’organicità del trattato; la seconda è la convivenza, nel Cannocchiale aristotelico, tra due conce­ zioni di metafora: una «tecnica», più ristretta, coincidente con la defini­ zione tradizionalmente accettata; l’altra, invece, molto più ampia e ge­ nerica, tesa ad inglobare in sé non tutte le figure, come solitamente si dice, ma solo quelle, appunto, ingegnose. Basta una semplice scorsa al Trattato della metafora per rendersi conto di questa seconda tendenza: la Metafora comprende non solo metonimia e sineddoche, ma anche anagrammi (letterali e numerici), rebus, allitterazioni, paronomasie (pp. 365-96), antitesi di frase e di parole, ossimori, chiasmi (pp. 441-60), e così via. Tuttavia, l’indubbia predominanza che assume ad un certo punto la Metafora non può farci dimenticare la presenza della conce­ zione antagonista, che anzi riaffiora nel corso dell’opera ogniqualvolta il discorso si sposti sul versante teorico: l’abbiamo già vista sottesa alla definizione proposta dal Tesauro («parola pellegrina, velocemente signi­ ficante un obietto per mezzo di un altro»: p. 302), ne riscontriamo la validità almeno per i primi due tipi di metafore (proporzione e attribu­ zione: pp. 306 e 342) e la ritroviamo ancora richiamata, ad esempio, in limine alla trattazione dell’impresa (la metafora consiste nel «Signi­ ficare una Cosa per mezzo di un’altra; e non per gli propri Termini»: p. 636). L’incertezza tesauriana tra l’una e l’altra concezione di metafora poteva trovare, ancora una volta, alimento nel testo guida aristotelico, nel quale infatti, come ha visto con chiarezza Paul Ricoeur, lungi dal designare una figura tra le altre, accanto alla sineddoche e alla metonimia, per esempio, come sarà nelle tassonomie della successiva retorica, il termine metafora [...] s’applica a tutte le trasposizioni di termini. La sua analisi prepara, così, una riflessione globale sulla figura come tale. Si può deplorare, per ragioni di chiarezza di vocabolario, che il medesimo termine serva a designare 20. D’ora in avanti, con «metafora» segnalo la figura modernamente intesa, mentre ricorrerò alla maiuscola («Metafora») per indicare la concezione tesauriana, che coincide con quella di figura ingegnosa.

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ora il genere (il fenomeno di trasposizione, cioè la figura come tale); ora la specie (quello che chiameremo, più avanti, tropo della somiglianza)2122 .

Ho fatto ricorso alle parole di un contemporaneo per motivi eli perspicuità immediata, ma resistenza in Aristotele di due concezioni di metafora era cosa ben nota anche nel Seicento, come si desume dal seguente passo dello Stigliani: «Il qual turbamento di figure [...] fu da Aristotele espres­ samente proibito nel trattar della metafora, la quale secondo lui le abbraccia tutte»^; e non sfuggì neppure al Tesauro, come traspare da queste righe: «Dico, che quantunque apresso Aristotele io non trovi spe­ cialmente chiarita la Division di queste ingeniosissime Figure Metafo­ riche; egli è perciò vero, ch’io ne trovo tutte le Specie, spantamente da lui raffigurate e ben comprese» (p. 281). L’oscillazione concettuale è come sintetizzata nel fatto che il Trattato della metafora si trasforma, nei titoli correnti, in Trattato delle figure metaforiche (pp. 266-67 e segg.); e, certo, rispetto al modello il Tesauro enfatizza l’estensione di significato del termine metafora, forse perché la sua opera si svolge soprattutto in margine a Retorica III 10, più che a Poetica 21. Ai fini del nostro discorso interessa però rilevare come il trat­ tato contrasti decisamente una tradizione (bastino due nomi agli opposti poli cronologici: Quintiliano e Trissino) che assegnava alla metafora una ristretta e peculiare casella, delimitata dai territori ricoperti dalle figure concorrenti, e che ne esaltava quindi la valenza specifica rispetto alla ge­ nerica; e la contrasti recuperando proprio la compresenza e l’oscillazione, già aristoteliche, tra i due significati del termine23. Come in una sorta di mise en abyme viene così riprodotta, all’interno del polo metaforico, quella indecisione strutturale tra metafora e argutezza che abbiamo visto costitu­ tiva del trattato. In un’opera che sembra aver fatto della decezione continuata una delle proprie cifre, non solo stilistiche24, il lettore che creda di poter finalmente 21. RICOEUR, La metafora viva, cit., pp. 20-21. 22. TOMMASO STIGLIANI, Dello Occhiale. Opera difensiva scritta in risposta al Cavalier Gio. Battista Marini, Venezia, Carampello, 1627, p. 86. 23. LAURENS, «Ars ingenii»: la théorie de la pointe aux dix-septième siècle..., cit., p. 185: «le titre méme de l’ouvrage de Tesauro indique qu’au-delà de Quintilien et de Cicéron, c’est à Aristote principalement que la spéculation moderne entend se rattacher». 24. Bastino due soli esempi, operanti il primo a livello di organizzazione macrotestuale, il secondo su un’estensione assai più ridotta. Giunto alle soglie del quattordicesimo capi­ tolo, il Tesauro lo indica chiaramente come «ultimo» (p. 610): ma ad esso ne seguiranno, a sorpresa, altri quattro. Allo stesso modo, dopo aver dichiarato che l’impresa migliore è quella fondata sulla metafora di proporzione (p. 637), precisa «che se alla Impresa di PROPORZIONE si aggiugne quella di ATTRIBUZIONE, tanto sarà più arguta» (p. 638) ed ancor più se ad esse si somma l’ipotiposi, come veniamo a sapere a p. 639. Si tratta di casi di epifrasi, che il Tesauro catalogherebbe tra le metafore di decezione.

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riposare, sia pure su un’altalena perpetuamente oscillante tra la metafora e l’argutezza, inciampa in realtà nell’impresa. Essa è introdotta dal Tesau­ ro, tramite una sorta di sillogismo, quando, dopo aver esaurito la tratta­ zione delle argutezze «lapidarie» (cioè, verbali), l’autore passa ad esami­ nare quelle «simboliche» (cioè, in oggetti e azioni: insomma, non verbali): ma poiché non è possibile «dare un perfetto fine a quest’Ade Simbolica; se di tutte le Specie de’ Simboli partitamente non ti ragiono», e poiché l’impresa è «il più Nobile, il più Eroico, il più Ingenioso et Arguto di tutti li Simboli» (p. 623), ecco che ad essa viene dedicato un intero capitolo, parecchio più lungo dell’operetta giovanile (cioè la più volte citata Idea delle perfette imprese) di cui, a detta del trattatista, dovrebbe invece costi­ tuire «un brieve compendio» (p. 628). Così costretta, sia pure piuttosto artatamente, a specie del genere argutezza (simbolica) e ghettizzata in un capitolo apposito, il quindicesimo, l’impresa non incrinerebbe il primato dell’arguzia, se non fosse che essa ricompare frequentemente ed insisten­ temente lungo tutta l’opera, fino ad ergersene, in alcuni luoghi, a prota­ gonista. Privilegiato settore di emersione di questa tendenza è il capitolo secondo (Cagioni instrumentali delle Argutezze oratorie, simboliche, e lapidarie), che non solo presenta un nutrito elenco di imprese antiche e moderne, ma anche allinea lacerti testuali che fanno dell’impresa l’ogget­ to della trattazione e, inoltre, la parificano all’arguzia: «In sei maniere adunque si può significare una Impresa, e qualunque detto arguto e figu­ rato» (p. 16); «in questa maniera di significare una cosa per altra, s’accor glie (come vedremo) tutto l’acume delle Imprese, e di tutte le Arguzie» (p. 17); «non richiedendosi minor sagacità nell’esporre, che nel comporre una Impresa arguta et ingegnosa» (p. 17)2Ù Alle indicazioni offerte dal testo si aggiunga l’incongruenza dell’illustrazione in antiporta, la quale, lungi dall’emblematizzare, come dovrebbe, l’intera opera, si attaglia invece perfettamente al solo trattato delle imprese: infatti, il cannocchiale sorretto da Aristotele e puntato dalla Poesia verso un sole maculato non allude né all’argutezza né tantomeno alla metafora, ma al fatto che, con l’aiuto della definizione della perfetta impresa, sarà possibile rintracciare difetti perfino nella famosissima e celebratissima impresa di Luigi XII25 26. E molto probabile che la remota origine di queste oscillazioni, riguardo al tema dell’opera, tra argutezza e impresa, vada addebitata alla genesi 25. E si vedano anche le pagine 27, 29, 30, 42, 43, 50, 51. 26. Cfr. Il Cannocchiale aristotelico, pp. 634 (dove si registra la prima apparizione del sintagma eponimo dell’opera) e 685: « Poiché dunque con l’esempio dell’Istrice del Re Luigi, e con le Regole di Aristotele, abbiamo stabilita la Diffinizione della Perfettissima Impresa-, restaci per chiudimento, di esaminar con l’istessa Diffinizione le Imperfezioni delle più celebrate Imprese di grandissimi Personaggi; anzi dell’istrice stesso. Che sarà un discoprir col CANNOCCHIALE ARISTOTELICO le macchie nel Sole» (p. 685).

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del Cannocchiale aristotelico, così come la descrive il Tesauro a p. 32i e come ora cerco di schematizzare: 1) il Tesauro compone un trattato latino (che non pubblica e che non ci è pervenuto) sull’arguzia; 2) anni dopo si accinge a darne alle stampe, in italiano, la sola parte dedicata alle imprese; 3) ma è invitato, da «chi è Signor del suo volere», a trattare le arti simboliche e lapidarie, che comprendono tutte le argutezze; 4) di conseguenza, recupera alcuni materiali da quella sua opera latina e stende finalmente il Cannocchiale aristotelico. Se la ricostruzione è esatta, l’oscillazione tra il teleologismo impresistico e quello arguto riflette il coagulo tra due opere nate con intenti diversi; ma ciò che ora più preme sottolineare è che, qualunque sia la causa di questo andirivieni, bisogna a mio parere resistere alla tentazione di comporlo in una superiore sintesi o di ignorarlo, risultando esso costitutivo della natura stessa dell’opera. E il Tesauro pare proprio aver puntato, come farà poi con la Filosofia morale23. sulla possibilità di una duplice (o anche molteplice) lettura, che muta il significato del testo al mutare del punto di vista da cui è osservato. Nel caso di quel «libro aperto» che è il Cannocchiale aristotelico27 29, l’autore 28 sfrutta l’ambivalenza tra impresa e metafora mutando etichetta ad un contenuto - o, per dirla con termini che richiamano una caratteristica barocca segnalata dal Jean Rousset e valida anche in questo caso, facciata ad un interno - che da una stampa all’altra resta sostanzialmente identico (l’aggiunta dei due trattati dei concetti predicabili e degli emblemi, pur importante, non riguarda il nostro discorso) e focalizzando quindi Tattenzione 27. Si apre qui l’intricato contenzioso relativo alla credibilità da attribuire alle dichiara­ zioni del Tesauro, anche se, in effetti, il paziente lavoro di scavo della Doglio, che ha portato, a tacer d’altro, al ritrovamento dell’/dea della perfette imprese «rende piuttosto veridico il sospetto che il Tesauro fosse piuttosto cattivo massaio dei propri scritti» (DELLA TERZA, Le metafore del Tesauro. cit., p. 183) e quindi induce ad accreditarlo del­ la reale stesura delle opere annunciate. 28. Cfr. DENISE ARILO, Il Tesauro in Europa. Studi sulle traduzioni della «Filosofia morale». Bologna, CLUEB, 1987: «Nel breve spazio di un anno, tuttavia, il testo si pre­ sentò con un volto assolutamente nuovo [...]; e, a ben guardare, lo scrittore stesso sembra aver controllato questa polivalenza strutturale, ridefinendo di continuo la propria imma­ gine nei confronti dell’opera e quella dell’opera verso l’epoca stessa» (p. 9); e vedi anche le pp. 32 e 113. All’elenco di traduzioni in varie lingue fornito dalla Aricò, bisogna aggiungerne una del 1825 in armeno, di cui trovo notizia nel catalogo informatico della Library of Congress: ImastasiruEiwn baroyakan / -orineal h-Emmanu-el T'esaurios-e; Targmaneal i H. Vert’an-es vardapet-e Askerean hashakert-e Mkhit’aray metsi Abbayi. Venetik, I Vans Srboyn Ghazaru, 1825 (Filosofia morale di Emanuele Tesauro, tradotta in armeno da Vert’an Asgar, dottore discepolo di Mechitar, Venezia, Convento di san Lazzaro, 1825). 29. «Se tu volessi fabricare una Impresa sopra questo Libro, potrestù pingere apunto un Libro aperto, che ad altri insegna quel ch’ei non sa» (p. 740): suggerisce un accostamento del sintagma al notissimo «opera aperta» la Doglio in TESAURO, Idea delle perfette imprese.... cit., p. 6.

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elei lettore ora su un argomento ora sull’altro: infatti, il Cannocchiale aristotelico, che nella prima edizione recava come sottotitolo Idea delle Argutezze Eroiche Volgarmente chiamate Imprese e di tutta EArte Simbo­ lica e Lapidaria.; diviene, a partire dalla impressione veneziana del 1663, Idea dell’arguta ed ingeniosa elocuzione, che serve a tutta l’Arte Oratoria, Lapidaria e Simbolica30. Non solo: nell’apologià L’Italia vindicata, nata come risposta alle accuse mosse da Pierre Le Moyne nel De l’Art des Devises, del 1666, e databile allo stesso anno (cioè ben dopo il mutamento di sottotitolo), il Cannocchiale è ancora ricordato come «arte delle impre­ se»31, a riprova di una sostanziale, non accidentale, ambiguità. E estremamente interessante notare che le alternanze che abbiamo fino ad ora rintracciate investono tutte due elementi e non più di due: perfino l’oscillazione tra metafora, argutezza e impresa non va letta co­ me una relazione triangolare, ma come un doppio rapporto binario, da una parte tra metafora e argutezza, dall’altra tra argutezza e impresa. Si tratta di una constatazione che può forse avvicinarci alla reale natura dei fatti fin qui censiti, che vengono normalmente, e non senza impazien­ za, rubricati come contraddizioni. Il Friedrich, ad esempio, dopo averne incontrata un’ennesima, esclama: «Ma che cosa significano per lui [Tesauro] le contraddizioni!» 32. Interviene opportuna, a questo punto, una ammonizione dell’Anceschi, sorta in margine all’esame del pensiero del Campanella ma dalla portata più generale: «Non si parli, qui, di contraddizioni. In questo caso, il rilievo della contraddizione come er­ rore che svaluta la ricerca non giova: ci lascia vittoriosi di un testo di una vittoria solo apparente e priva di bottino, e la verità, il senso pro­ fondo, ci sfugge»33. Se il caso del filosofo calabrese si risolve accertando e accettando la «multipolarità» del suo pensiero, per quanto riguarda il 30. Dove andrà notata anche l’introduzione dell Arte Oratoria e soprattutto, per quanto ci riguarda, l’inversione tra arte simbolica e arte lapidaria, certo conseguenza del declassamento dell’impresa, dal 1663 in poi, a comprimaria, ma riflettente, comunque, il fatto che anch’esse, nel testo, sono alternativamente assunte come argomento principale della trattazione, senza che l’irresolutezza venga sciolta in modo definitivo a favore dell’una o dell’altra. La differenza di titolazione è notata anche da MARIO ZANARDI, Vita ed esperienza di Emanuele Tesauro nella Compagnia di Gesù, «Archivum Historicum Societatis Jesu», Roma, XLVIII 83, ian.-iun. 1978, pp. 3-96, a p. 41n., che succes­ sivamente (Sulla genesi del «Cannocchiale aristotelico»..., cit., I, p. 10) la spiega come un recupero della «componente teorica generale dell’opera» rispetto ad una iniziale insi­ stenza sulle imprese nella loro qualità di «principale applicazione della teoria dell’ar­ gutezza». 31. Cfr. MARIA Luisa Doglio, Una «apologia» inedita di Emanuele Tesauro...., cit., p. 67. 32. FRIEDRICH, Epoche della lirica italiana. Il Seicento, cit., p. 125n. 33. LUCIANO ANCESCHI, Le poetiche del Barocco letterario in Europa, in Momenti e problemi di storia delUestetica, Milano, Marzorati, 1959, pp. 435-546: 485 (poi in ID., L'idea del Barocco. Studi su un problema estetico, Bologna, Nuova Alfa editoriale, 1984, pp. 63-163).

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Tesauro occorrerà ricordare che nel Cannocchiale aristotelico è alla retorica - intesa in senso forte, «filosofico», per così dire, e non solo tecnico - che viene assegnato il ruolo di modello interpretativo di tutto il reale : di conseguenza, le innumeri «contraddizioni» che attraversano il trattato vanno ricondotte alla loro matrice retorica, vale a dire Fantitesi, della quale tendono infatti ad assumere forma e caratteristiche, prima tra tutte lo statuto bimembre30. Alcune di queste contraddizioni concettuali / antitesi retoriche sono già state discusse; ne vorrei ora aggiungere una, emblematica della tendenza del Tesauro ad accostare elementi contrapposti, fors’anche nel tentativo di conciliare con ciò stesso la tensione concettuale che li divarica ed oppone. E che può anche derivare da una lunga trafila di discussioni, come è il caso del rapporto tra delectare e docere', il Tesauro, giusta la tendenza barocca, messa in luce dal Morpurgo-Tagliabue, a risolvere i dualismi delle epoche precedenti in soluzioni allo stesso tempo unitarie ed artifi­ ciose34 36, trattando, in un citatissimo passo, delle caratteristiche della meta­ 35 fora accosta, in modo apparentemente aproblematico, come si vede anche dalla successiva disamina dei termini, il «gioviale» e il «giovevole» (p. 266). Concetti carichi, come si sa, di un notevole fardello teorico che non viene preso in esame, come se in realtà il problema consistesse nel sosti­ tuire all’utile e al dilettevole due lessemi legati dalla paronomasia: la quasi identità fonica prevarica sulla diversità di significato e costituisce insieme avvio e traguardo alla risoluzione del dilemma. Se questa solu­ zione sia «artificiosa» e fallace o invece portatrice di una minima scintilla di verità, non è domanda cui sia facile rispondere: ma un autore che ritiene che la Metafora (in questo caso, la paronomasia) «veste le parole medesime di Concetti» (p. 266) doveva avere, in proposito, molti meno dubbi di noi. Questa «intima retorica disposizione all’antitesi» è emblematizzata, come hanno segnalato in parecchi, fin dal titolo: la giuntura Cannocchiale aristotelico è in effetti già un’antitesi, «sul punto di diventare ossimoro»37, 34. Come hanno visto il RAIMONDI (Letteratura barocca..., cit.; in particolare Introdu­ zione 1981. Dalla metafora alla teoria della letteratura, pp. V-LXXV) e il CONTE (La metafora barocca..., cit.), che in verità parlano di metafora, ma nell’accezione più estesa - tesauriana, in un certo senso - del termine, che tende a coincidere con l’intera retorica. 35. Sul significato dell’antitesi nella poesia del Seicento, ed in quella del Marino in particolare, è d’obbligo il rinvio a CARLO CALCATERRA, Il Parnaso in rivolta. Barocco e antibarocco nella poesia italiana, Milano, Mondadori, 1940, pp. 54-57. 36. GUIDO MORPURGO-TAGLIABUE, Aristotelismo e barocco, in Retorica e barocco, cit., pp. 119-95: 193 (opportunamente riedito in ID., Anatomia del Barocco, Palermo, Aesthetica, 1987, pp. 9-103). 37. GIUSEPPE Conte, Retorica e logica nelPestetica barocca, «Sigma», Torino, VII 25, mar. 1970, pp. 54-71: 54; vedi anche RAIMONDI, Introduzione 1981, cit. e ANDREA

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tra «la più esaltante e significativa invenzione della scienza all’inizio del XVII secolo» e quell’Aristotele «nel quale la moderna scienza vide il suo massimo antagonista»38. La presenza sulla soglia di questo segnale costi­ tuisce evidentemente una precisa indicazione dell’importanza dell’antitesi nell’opera, a livello sia di teoresi sia di scrittura (la precisazione dovrebbe essere inutile, visto che l’osmosi, sia pure discontinua, tra teoria e prassi, è una delle peculiarità del Cannocchiale aristotelico^ ma il focalizzarsi degli interessi critici sul contenuto concettuale dell’opera, con la vigorosa ma solitaria eccezione dell’articolo del Pozzi39, restituisce attualità al richiamo). Infatti, il Tesauro insiste ripetutamente sul ruolo della «meta­ fora di opposizione», con una enfasi che non pare riducibile senza scarti al consueto registro elogiativo: essa è la fonte del mirabile (p. 442) e «per sé sola basta a dar lumi al continuato discorso» (p. 441), tanto è vero che «nelle Poesie italiane, molti Versi, paion plausibilissimi per questa sola Figura; che per il Concetto (se attento il consideri) son dissipiti, e scioc­ chi» (p. 445)40; e ne è attirato fino al punto da tradurre in latino il sonetto petrarchesco Pace non trovo e non ho da far guerra41. Al di là delle ovvie motivazioni di gusto, personale e del secolo, la predilezione tesauriana (e secentesca) per l’antitesi si appoggia ad una importante affermazione di Aristotele, che pone la figura allo stesso livello della metafora e del vigore; e che, poche righe sopra, aveva individuato la ragione del successo degli entimemi nella presenza di

BATTISTINI, I manuali di retorica dei Gesuiti, in La «ratio studiorum». Modelli culturali e pratiche educative dei Gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, a cura di GIAN PAOLO BRIZZI, Roma, Bulzoni, 1981, pp. 77-120: 105. Si noti che pure il titolo dell’opera di Graciàn è ossimorico, come ha visto il LAURENS, «Ars ingenii»: la théorie de la pointe aux dix-septième siècle..., cit., p. 194): «‘Arte de ingenio’: le titre à lui seul est prodige, puisqu’il unit, dans ce monstre linguistique qu’est l’oxymore ou le thauma, le deux concepts réputés antagonistes de l’nrs et de 1’ingenium». 38. BUCK, Emanuele Tesauro e la teoria del barocco nella letteratura, cit., p. 19. 39. POZZI, Note prelusive..., cit. 40. E vedi anche le pp. 205, 619, 668-69. Sul «mirabile» vertono le pagine dedicate al Tesauro da ALBERTO ASOR ROSA, Marinisti, prosatori e teorici del Barocco, in ID, La letteratura italiana. Storia e testi. V. Il Seicento. La nuova scienza e la crisi del Barocco, Bari, Laterza, 1974,1, pp. 476-81. 41. Cannocchiale aristotelico, p. 456, dove l’incipit suona Pace non trovo, e non so chi fa guerra. Ha discusso da par suo questa traduzione RAIMONDI, Un esercizio petrar­ chesco di Emanuele Tesauro, in Letteratura barocca..., cit., pp. 77-94. Come è prevedi­ bile, il sonetto (Rerum vulgarium fragmenta, CXXXIV) è uno dei testi su cui poggia la fortuna del Petrarca nel Seicento: lo troviamo anche nella Topica poetica di GIOVANNI ANDREA CILIO, proprio come esempio al lemma Antitheton (citato da CARLO OSSOLA, Apoteosi ed ossimoro. Retorica della «traslazione» e retorica delV«unione» nel viaggio mistico a Dio: testi italiani dei secoli XVI-XVII, «Rivista di storia e letteratura religiosa», Firenze, XII 1, 1977, pp. 47-103: p. 96; anche in Mistica e retorica, a cura di FRANCO BOLGIANI, Firenze, Olschki, 1977).

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metafore per quanto concerne il contenuto e nella maniera antitetica per ciò che riguarda l’espressione (Retorica, III 10 1410b 10-35). Da questo brano derivano, secondo il Morpurgo-Tagliabue, le due correnti nelle quali si arti­ cola Finterò barocco europeo: il marinismo italiano, il preziosismo francese, il cultismo, l’eufuismo sarebbero caratterizzati dal prevalere, nell’entimema (o concetto) del momento metaforico, i tragici spagnoli e francesi dalla predominanza dell’antitesi42. Lo studioso si sene del Cannocchiale aristo­ telico in quanto metatesto e quindi lo utilizza, sulla scorta di una consoli­ data tradizione che ne fa la controparte precettistica del marinismo, come sostegno critico del primo dei due rami individuati. Ma nel trattato i segni di un’attenzione teorica (e, vedremo, di una frequentazione pratica) dell’antitesi sono già numerosi ed incrinano, se non la validità della classi­ ficazione proposta dal Morpurgo-Tagliabue, almeno la collocazione in essa riservata al Tesauro. Il quale giustifica il molo particolare assegnato alle metafore di opposizione con un brano che vai la pena di rileggere: Passomi alla Metafora di OPPOSIZIONE; riconosciuta sopra Faltre dal nostro Autore. Peroché la Contraposizione ha certa forza entimematica; che, nonché appaghi, anzi violenta l’intendimento. Dove tu dei risovvenirti, che il Contra­ posito ha duo riguardi: cioè, la proporzionata collocazion delle parole', e Y acuta significazion del Concetto. Per l’uno ell’è figura Armonica', per l’altro, Ingegnosa'. peroché le cose contrarie poste a confronto, com’egli avvisa; più spiccano, e più risplendono nell’intelletto (p. 292).

Lo spunto iniziale è ancora fornito dal passo di Retorica III 10 ricordato poc’anzi, ma poi il discorso slitta su un altro punto e su di esso si sofferma, cioè l’appartenenza della metafora di opposito, unica tra tutte, a due diversi generi di figure, l’armonico e l’ingegnoso43. Esse, come è noto, sono dedicate rispettivamente «a lusingare il Senso dell’Udito, con FArmonica soavità della Periodo» e «a compiacer ^Intelletto con la Significa­ zione ingegnosa» e si dividono, insieme alle «Patetiche» (intese «a com­ muover YAffetto con la Energia delle Forme vivaci»), l’intero campo delle figure (p. 124). Ora, qui importa sottolineare che mentre le figure inge­ gnose rientrano nell’ambito della elocutio, quelle armoniche, dipendenti come sono dalla «EQUALITÀ delle Membra», dalla «CONTRAPOSIZION de’ Termini» e dalla «SIMIGLIALA delle Consonanze» (p. 127) pertengono per larga parte alla dispositio (tanto è vero che il Tesauro ne può dare una trascrizione spaziale nelle cosiddette tavole metriche). Ne consegue innanzitutto che l’antitesi, operando a cavallo tra dispositio ed

42. MORPURGO-TAGLIABUE, Aristotelismo e barocco, cit., p. 185. 43. Come era già stato anticipato a p. 130: «Ma questa Figura [l’antitesi], perché partecipa di due Generi: cioè ARMONICO, et INGEGNOSO: ad altro agio tornerà a filo».

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elocutio^, può essere assunta a simbolo di una retorica non mutilata, cioè non ridotta al solo troncone elocutivo, come vorrebbe invece l’opinione vulgata; in secondo luogo, stante l’equazione tra dispositio e docere da una parte e elocutio e delectare dall’altra43, l’antitesi si rivela capace se non esattamente di conciliare certo di accogliere in sé i due fini tra i quali si dibatteva l’arte barocca, di riunire, insomma, in una figura retorica il gio­ viale e il giovevole che il Tesauro si era già sentito in dovere di accostare trattando della metafora. Queste potenzialità dell’antitesi spiegherebbero la diffusione e l’im­ portanza della figura nella letteratura barocca; al suo fascino non si sottrae neppure il Tesauro, che non si limita ad assegnarle un ruolo importante nel proprio sistema teorico, ma anche la elegge a chiave di volta della propria retorica in atto, sia a livello concettuale, come abbiamo visto, sia a livello stilistico, come ora vedremo. L’antitesi è, in effetti, una delle figure più frequenti nella prosa tesauriana, dove può assumere varie modalità, che qui esemplifico parcamente basan­ domi sulla classificazione del Lausberg44 46: 45

1. ANTITESI DI FRASE:

«tanto solamente è morto, quanto dall’Argutezza non è avvivato» (p. 2); «sognando insegnano; e mentendo dicono vero» (p. 29); «insegnò ad altri ciò ch’egli non sapeva» (p. 42); «non sappia ciò ch’ella insegna» (p. 73); a«nulla è più artificioso che peccar contra l’arte: nulla più sensato che perdere il senno» (p. 95); «se ti ama felice, non ti abbandona infelice» (p. 88); «per ridersi di color che ne ridono» (p. 182); «se Roma soggiogò la Grecia col ferro: la Grecia minò Roma con le delizie» (p. 254); «Felice Apicella, che più preziosa tomba ebbe in questi versi che nel suo elettro: peroché in quella gemma morì; in questi ella vive» (p. 487); «e come ambidue siano foschi, l’uno fa lume all’altro» (p. 529). 44. Vedi anche HEINRICH LAUSBERG, Elementi di retorica, Bologna, il Mulino, 1968 (ed. orig. 1949), almeno per il chiasmo (il quale però è uno dei mezzi di intensificazione semantica dell’antitesi: p. 213): esso appartiene aVCordo artificialis, elemento della dispositio interna (pp. 41-45) ed è un mezzo della dispositio che esprime l’antitesi. 45. MORPURGO-TAGEIABUE, Aristotelismo e barocco, cit., p. 127. Il rapporto stabilito dallo studioso tra parti della retorica e fini del discorso può essere ulteriormente esteso, seguendo le indicazioni del Cannocchiale aristotelico, e sintetizzato nella seguente griglia: Inventio movere affetti figure patetiche affetto Dispositio docere persuasione figure armoniche senso Elocutio delectare elocuzione figure ingegnose intelletto. 46. LAUSBERG, Trattato di retorica letteraria, cit., pp. 209-18. Altre antitesi censisce BOZZOLA, Appunti per un'analisi stilistica..., cit.

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2. ANTITESI DI GRUPPI DI PAROLE: «nell’altra vita faranno una perpetua antitesi, lagiù i Dannati affitti a immollai Morte: e cola sù i Beati inseparabilmente congiunti a Dio, senza vicende» (p. 62); «dall’orecchia sorda del sasso, all’orecchia viva del Tiranno» (p. 87); «mentre questa udiva il Cielo irato; e quegli il vedeva sereno» (p. 88); «onde splendidamente salirono, precipitosamente ricado­ no» (ibid.)'. «non ne riporteresti laude d’imitatore, ma biasimo d’invola­ tore» (p. 115-16); «mettere immeritamente a catene la Prosa nata libera, come la Prosodia nata schiava» (p. 146); «e quella vita che lor fu tolta in campo dalle spade, ricuperarono dagli scalpelli in una lapide» (p. 185); «molti son belli nel passato, e laidi nel presente» (p. 257); «il qual ridicolo sentimento, partorì talvolta non ridicoli risentimenti» (p. 376); «la scurrilità de’ profani Teatri, e T decoro de’ sacri Pergami» (p. 503).

3. ANTITESI DI PAROLE SINGOLE:

3.1. COORDINATE: «un chiaro Contrassegno, e una oscura Diffinizion» (p. 4); «fuggendo o fugando il nemico» (p. 56); «vecchia nella sostanza, e novella nella forma» (p. 116); «non più ritonda né però mozza: non me­ trica, né senza metro: non ligata, né sciolta dalle poetiche leggi: senza verso, non senza ritmo» (p. 126); «sicome con la stessa materia un con­ certato o sconcertato palagio: così co’ medesimi piedi una sonora o disso­ nante Periodo puoi tu comporre» (p. 154); «ambe restasser vinte e vinci­ trici» (p. 188); «o per troppa inavvertenza, o per troppa avvertenza» (ibid.); «morire il Latino, e nascere l’Italico idioma» (p. 240); «VIronia è Metafora di due faccie, che par lodare, e biasima; concedere, e niega; ingrandire et appiccolisce; ammirare e dispregia; dire e disdice» (p. 387308). 3.2. Legate DA DIVERSO RAPPORTO SINTATTICO: «le cose mute parlano, le insensate vivono, le morte risorgono» (p. 2); «co’ suoi esempli; che son chiari lumi delle oscure teoriche» (p. 16); «e dagli Schiavi fur portate le Arti Liberali» (p. 52); «la verità per sé amara [...] si raddolcisca» (p. 59); «quelle Menti immortali simbolicamente ragionar co’ Mortali» (p. 66); «il Verbo Divino, solo Oracolo della verità; impose eterno silenzio a molti Oracoli mentitori» (p. 67); «contemplando il finto Figlio nel vero; trasse da quelle ossa morte tante vivezze» (p. 90); «per gola di più grande acquisto, perdono l’acquistato» (p. 102); «e di mezzo all’orror nasce il diletto» (p. 157); «con le morte consonanti fa risuonar le vive» (p. 167); «ogni cosa ha detto col suo tacere» (p. 211); «ritornato ci paia di morte a vita» (p. 233); «trovò in quel Monte la caduta vicino alla salita» (p. 241);» pose ogni diligenza nel parer di scrivere senza diligenza» (p. 242);

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«di Femine li fa Mascoli» (p. 250); «trovando in cose dissimiglianti la simiglianza» (p. 266).

3.3. OSSIMORO: «liberalmente scarsa» (p. 28); «copertamente scoperte» (p. 60); «immortai Morte» (p. 62); «scioccamente sapiente» (ibid.); «quel Reo innocente» (p. 69); «discordia concorde» (p. 164); «quella scomposi­ zione è composta» (p. 18); «quel disconserto è consertato» (ibid.); «amata nimica, e odiata ospite» (p. 241); «seriamente ridicolo» (p. 295); «l’oculato Cieco di Adria» (p. 428); «avaramente liberale» (p. 429); «in ma­ niera sordidetta senza sordidezza» (p. 435); «immodestamente modesti» (p. 592); «quel Re, non ancor Re» (p. 655). A volte, le antitesi si prolungano per parecchie righe: più che una scomposizione analitica, è utile in questi casi uno sguardo d’insieme a qualche pezzo (avverto che essi compaiono soprattutto nel Trattato de" Concetti predicabili}: Li rotanti e rotati Globi de" Cieli, rapitori e rapiti: il Sole, core del Mondo: le inestinguibili faci delle Stelle fisse e pellegrine; spettatrici e spettacolo de’ Mortali: le stellate Imagini misuratoci delle Stagioni. Augi et Apogei; seggia sovrana de’ Pianeti negli error lor non erranti: VAura Eterea: le salubri e benigne Influenze degli Asterismi, su i perni delVuno e delTaltro Polo immobilmente moventisi: la Luna, fermaglio e fibbia dell’un Mondo, e dell’altro. Gli Elementi infe­ riori, nel reciproco scambiamento loro immortalmente mortali: i Misti Corpi da loro, e di lor generati. La Sfera delle fiamme: VAereo tratto, palestra de’ Venti, e delle Nuvole: spirabili e spiranti dure: Meteoriche Impressioni: Iride Paciera degli Aerei duelli: Zefiri padri, e Rugiade nutrici de’ Vegetabili, etc. (p. 155-56).

Il Tesauro mostra una predilezione particolare per quella forma speciale dell’antitesi che è il chiasmo, particolarmente nella sua variante compli­ cata (o antimetatesi):

4. CHIASMO (unifico il chiasmo piccolo e quello grande): 4.1. CHIASMO SEMPLICE: «dividendo con Isocrate questa gloria; ch’egli seppe insegnare, non praticare: et Isocrate praticare, non insegnare» (p. 3); «per far della terra un Cielo, scuota le Stelle di Cielo in terra» (p. 73); «a’ modesti Giudici saria paruta villania troppo immodesta» (p. 123); «quantunque la Prosa non abbia un numero certo: ell’ha però un certo Numero» (p. 145);» nel presente son grati, ingrati nel passato» (p. 257); «Forma immortale in mortai Corpo» (p. 156); «piccol Mondo, cui serve il Mondo grande» (ibid.); «con la pietosa voce ingannatrici spietate» (p. 157); «incominciarono i Grechi Schiavi ad insegnar la Lingua Latina a’ Liberi Latini» (p. 238); «piena sempre, e sempre

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vuota di abitatori» (p. 241); «con diletto maggiore un publico lutto» (p. 428); «Donnadragone, o Dragodonna» (p. 515); «ne’ Concetti richiede maggior vivezza che l’Oratoria, e minor che la Poesia: e nello stile un minor Metro che la Poesia; e maggior che l’Oratoria» (p. 595); «significando pensieri nobili con ignobilissimi ordigni» (p. 645). 4.2. CHIASMO COMPLICATO (ANTIMETATESI) (non distinguo tra la variante sintattica e quella semantica): «Sicome le Metafore sono Imagini: così le Imagini son Metafore» (p. 12); «quasi o le Api dagli Uomini, o gli Uomini dalle Api apprendessero il Melificio» (p. 6); «parole dipinte, over pitture parlanti» (p. 18); «scrivere parlando, e parlar scrivendo» (p. 23); «Marito dell’adultera, adultero della Moglie» (p. 21); «le Parole son Cenni senza movimento; e i Cenni son Parole senza remore» (p. 24); «favellasser ta­ cendo, e tacessero favellando» (p. 25); «per forza dell’arte, pareano i sassi cambiati in Donne: e per forza del Dolore, parean le Donne cambiate in sassi» (p. 33); «imparavano a trastullar nella guerra, mentre che guerreg­ giavano ne’ trastulli»; (p. 56); «Roma dunque fia il capo di Toscana, e non Toscana di Roma» (p. 72); «sicome le Arguzie de’ Poeti si chiamai! fiori: così i Fiori della Natura, si chiamano Arguzie» (p. 73); «io non so se allora il Sole si specchiasse in Augusto, o Augusto nel Sole» (p. 75); «per ricrearmi co’ vostri sollazzi; o per sollazzarvi con la mia morte» (p. 84); «fanno incredulo chi non le vede; et a chi le vede, fan creder l’incre­ dibile» (p. 88); «nel vero la favola, e la verità nel fabuloso» (ibid.); «con tanta vivezza delle Statue; e tanto stupor de’ riguardanti; che i riguardanti paiono statue; e le statue riguardanti» (p. 89); «il tesoro rubò il ladro, e non il ladro il tesoro» (p. 92); «rapirono le Muse in Parnasso, anzi che dalle Muse fossero essi rapiti» (p. 93); «i Matti son di bellissimo ingegno: e gli ‘ngegni più sottili [...] son più proclivi ad ammattire» (p. 93); «VEser­ cizio senza grande ingegno, che un grande Ingegno senza esercizio» (p. 96). Limito alle prime cento pagine del trattato l’esemplificazione dell’antimetatesi poiché ritengo che il materiale addotto da una parte sia sufficientemente rappresentativo delle casistiche elencate, dall’altra convinca della intensità con la quale il Tesauro ricorre ad essa. Una simile insistenza che si comunica, per una sorta di osmosi, anche alla critica, la quale evidentemente trova nel chiasmo complesso un efficace modello caratte­ rizzante, per (involontaria?) mimesi, l’oggetto della trattazione - richiede un tentativo di spiegazione che superi le consuete e logore lagnanze sulla facilità di costruzione e sulla sicurezza di effetto della figura4'. Mia opinione47 47. Sull’antimetatesi si veda AUGUSTA LOPEZ-BERNASOCCHI, Una forma particolare di artificio retorico: Uantimetatesi, esemplificata sullo «Stato rustico» di Gian Vincenzo Imperiale, «Lettere italiane», Firenze, XXXIV 2, apr.-giu. 1982, pp. 215-25, con

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è che nel Cannocchiale aristotelico il ricorso ad essa si giustifichi all’in­ terno della più generale e onnicomprensiva impalcatura antitetica del trattato: infatti, l’antimetatesi è una sorta di illimpidimento ed enfatizza­ zione dell’antitesi, una antitesi al quadrato, nel senso che essa funziona come moltiplicatore di quel rapporto di opposizione semantica tra due entità linguistiche che dell’antitesi è la base. Ciò è particolarmente evi­ dente in quegli esempi (non a caso, più numerosi) in cui la coppia di partenza è già antitetica o addirittura ossimorica - «favellassero tacendo e tacessero favellando» ma anche laddove non è così, si instaura inevita­ bilmente una opposizione non solo tra il primo e il secondo sintagma, ma anche, in virtù dell’inversione (sintattica o semantica), tra l’uno e l’altro membro del binomio (e il ricorso al chiasmo instaura anche un’antitesi di posizione): «quasi o le Api dagli Uomini, o gli Uomini dalle Api appren­ dessero il Melificio». Insomnia, per dirla con la formula usata dal Pozzi per sintetizzare il principio-guida dello schema narrativo dell’A Jotìr, «il corrispettivo di ogni cosa ne è anche l’opposto» . E in tal modo uscito dal cappello, come per un gioco di prestigio, il poema che più di ogni altro viene evocato quando si parla del Cannocchiale aristotelico. Non mancano ragioni per così dire esterne a giustificazione dell’accostamento, a partire dal notissimo elogio che il Tesauro bibliografia; ad essa si potrà opportunamente aggiungere GEORG WEISE, Il motivo stilistico dell"antitesi nell'arte e nella letteratura del manierismo e del barocco («Atti e memorie dell’Accademia toscana di Scienze e Lettere La Colombaria», Firenze, XXXIX, 1974, pp. 69-86 [più tavv. I-V], che rintraccia l’antimetatesi - definita empi­ ricamente come «inversione tautologica» (p. 81) - già nella produzione dell’Aretino. Si veda anche il rapido excursus di GIAN PIERO MARAGONI, Ottave in boccio e ottave in fiore: contributo minimo alla storia perinatale della «Strage de gl'innocenti», in The “Sense" of Marino..., cit., pp. 217-34: 222-23. Tra i critici, ricorre a questa figura, molto rara nella prosa contemporanea (ma si veda almeno la rilevante eccezione di Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo), il MORPURGOTAGLIABUE, Aristotelismo e barocco, cit., p. 144 («il piacere di apprendimento si è convertito nell’apprendimento di un piacere»), riecheggiato dal CONTE, La metafora barocca..., cit., p. 99 («esiste - aristotelicamente - il piacere di apprendere, ed esisterà allora - pendant barocco - l’apprendimento del piacere»). 48. Riporto il passo in questione nella sua interezza, anche per far notare come l’in­ trecciarsi delle funzioni narrative che segnano l’inizio e la fine del poema mariniano dia vita proprio ad un’antimetatesi: «Il principio che ha guidato l’autore nella con­ fezione di un così inconsueto schema narrativo può essere così formulato: il corrispet­ tivo di ogni cosa ne è anche l’opposto. Il racconto inizia allo stesso modo come finisce, con un danneggiamento e un trasferimento (bellamente disposti a chiasmo), ma tutto vi è diverso, perché all’inizio è Adone che si trasferisce, alla fine Venere; Adone entra e Venere esce; il danneggiamento del § 1 produce amore e quello del § 15 morte (ma è la stessa macchina che è responsabile dei due esiti diversi, la freccia di Cupido)» (Giovan Battista Marino, L'Adone, a cura di Giovanni Pozzi, Milano, Mondadori, 1976, II, p. 41).

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fa della «Sirena Marina»49, per continuare con le frequenti citazioni, anche solo biografico-aneddotiche, di cui lo onora (pp. 173, 243, 245, 246-47, 272, 295, 307, 313, 314, 360, 366, 406, 412): esse sono tanto più significative in un’opera parca di nomi contemporanei e rivelano una lettura attenta e smaliziata, come laddove si individua nelle Dionisiache di Nonno una fonte del Marino5051 . L’accertamento di questa predilezione del letterato torinese per il poeta napoletano viene a giustificare una persistente tradizione che vede nel Marino l’inauguratore e il massimo esponente del concettismo o secen­ tismo o, appunto, marinismo, e nel Cannocchiale aristotelico la massima cele­ brazione di questa poetica. Dopo che i primi sospetti del Pozzi sono stati confermati dalle analisi della Colombo e del Besomi, che hanno ridotto il ruolo del Napoletano a quello semmai di raccoglitore, e più nell’'Adone che nelle opere precedenti, di una sorta di media del concettismo, mozza delle punte ad esempio di un Casoni o di un Grillo01, si tratta di reimpostare il pro­ blema dei rapporti tra il trattato del Tesauro e il poema del Marino. Tanto più che, come si vedrà meglio nell’ultimo capitolo, il Tesauro rifiuta quell’ascri­ zione della poesia alla sofistica che non pare invece dispiacere al Marino. L’argutezza (meglio che non la metafora) - praticata dal Marino, teoriz­ zata dal Tesauro - costituisce certo un significativo punto di raccordo tra TAdone e il Cannocchiale aristotelico, ma da questo punto di vista il trattato pare risentire piuttosto delle sperimentazioni di fine Cinquecento e primo Seicento e influenzare a sua volta il parossismo antitetico del 49. «Chi più (liticato nella Lirica, e nella Prosa, che la Sirena Marina? che quantunque eia’ Toscani non si annoveri fra gli Autori, come TAriosto; nel qual veramente risplen­ dono tratto tratto molte scintille della Dialetto Boccaccesca: si è nondimeno, che il Marini componeva con arte e studio maggiore: né mai non iscriveva una paroluzza, un articoletto; che non ne avesse reso alta ragione» (p. 243). Imposta un confronto tra il Marino delle Dicerie Sacre e il Tesauro prosatore lo ZANARDI, Sulla genesi del «Cannocchiale aristotelico»..., cit., I, pp. 49-56. Il Donato ave­ va invece collegato Tesauro a Marino sulla base di una identicamente nuova concezione dell’io, che costituisce il fondamento del riassetto dell’universo: «The Baroque poetry of Marino, sanctioned by thè theories of Tesauro, is precisely thè art of a century which may not have had faith in itself, but which had courage enough to attempt to recider thè universe in its own irnage» (EUGENIO DONATO, Tesauro’s poetics: through thè looking glass, «Moderne Language Notes», Baltimore, LXXVIII 1, Jan. 1963, pp. 15-30: 30). 50. «Nel qual genere, ingeniosissimo è il Nonnio nelle sue Dionisiache: libro leggierissimo nel suggetto; ma di ogni arguta Riflession fioritissimo: donde il Marini copiò gli suoi più vivaci e concettosi componimenti: e principalmente apprese quelle sue singolari vivezze» (p. 412). 51. GIAMBATTISTA Marino, Dicerie sacre e Strage degli Innocenti, a cura di GIOVANNI POZZI, Torino, Einaudi, 1960, pp. 15-18 e, più recisamente, p. 462; CARMELA COLOMBO, Cultura e tradizione nelP«Adone» di G. B. Marino, Padova, Antenore, 1967, in parti­ colare a p. 146; OTTAVIO BESOMI, Ricerche intorno alla «Lira» di G. B. Marino, Padova, Antenore, 1968; ID., Esplorazioni secentesche, Padova, Antenore, 1975. Per il Casoni, si veda MARCO CORRADINI, La ricerca metaforica di Guido Casoni, «Aevum», Milano, LXI 3, 1987, pp. 503-16.

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Frugoni e l’enigmistica tardobarocca del Lubrano^2. Altro è il terreno che consente una messe migliore e più abbondante: non quello, che è stato prevalentemente dissodato (e non senza ragione), della metaletteratura, ma quello, appena delimitato dal Pozzi, della letteratura (di una lettera­ tura che, nel secolo che stiamo esaminando, ancora non gode di un proprio statuto specifico e che viene identificata con la retorica). Due elementi almeno ci confortano nella scelta: da un lato, il fatto che il van­ taggio del Cannocchiale aristotelico rispetto ai trattati coevi - ad esempio quelli del Peregrini o del Pallavicino - non è solo concettuale, ma anche stilistico (è concettuale perché stilistico, si dovrebbe forse dire), come prova anche il fatto che, invariabilmente, siano citati quei passi in cui la riflessione teorica è sorretta e trasvalutata da accensioni figurali. In secondo luogo, perché non bisogna dimenticare che, secondo il Tesauro, «l’arguzia si fonda, in ultima analisi, nell’obiettiva impossibilità della coincidenza tra significante e significato» A Se aggiungiamo poi che tutto è arguzia, non stupisce certo che a questa condizione - che il Tesauro vive meno come una frustazione che come la necessaria premessa allo svilupparsi di «tante belle Arti sermonali» (p. 16) - non sfugga nemmeno il discorso critico, l’arte insegnativa, come direbbe il Pallavicino: definire l’argutezza non è possibile se non in modo arguto, della metafora non si può parlare se non metaforicamente52 54. La relativa (relativa rispetto, ad es., 53 aWAgudeza del Graciàn) scarsità di citazioni, cui fa riscontro l’abbon­ danza di esempi fabbricati ad hoc, costituisce significativa conferma dell’identità di statuto tra scrittura letteraria e scrittura “scientifica”: Entrambe non possono fare a meno di essere argute, poiché la verità non può non presentarsi in una forma che nel tra-vestirla ne permette però l’esistenza. E se qui siamo nell’ambito àelV elocutio, nemmeno 1’inventio 52. Sui rapporti tra Frugoni e Tesauro (già sbozzati da POZZI, Note prelusive..., cit., pp. 28-29) si vedano DAVIDE CONRIERI, Poetica e critica di Francesco Fulvio Frugoni, «Giornale storico della letteratura italiana», Torino, XCI 474, Il trim. 1974, pp. 161-92, e LUCIA Rodler, Una fabbrica barocca. Il «Cane di Diogene» di Francesco Fulvio Frugoni, Bologna, il Mulino, 1996; mentre sulla Weltanschauung antitetica del Frugoni lavora BARBARA ZANDRINO, Il mondo alla rovescia. Saggi su Francesco Fulvio Frugoni, Firenze, Alinea, 1984. Non ancora studiati (se si fa eccezione per qualche cenno di CLAUDIO Sensi, Gli emblemi delTinconsistenza e U«arcimondo» della fantasia, «Lettere italiane», Firenze, XXXIV 2, apr.-giu. 1982, pp. 176-214: 220 [poi, modificato, in ID., L’«arcimondo» della parola. Saggi su Giacomo Lubrano, Padova, Liviana, 1983]) i nessi tra Tesauro e Lubrano, forse favoriti dalla mediazione del meno noto padre gesuita Francesco Zuccarone. 53. RlGONI, Tesauro, Emanuele, cit., p. 290. 54. Cfr. Eugenio Donato, Tesauro’s «Cannocchiale aristotelico», «Stanford Italian Review», Stanford, V 2, Fall 1985, pp. 101-14: «To say that Argutezza is better known by its manifestazion than by its birthright - “più conosciuta per sembianti che per natali” is equivalent to stating metaphorically thè impossibility of explaining in a nonmetaphorical way thè metaphoricity of metaphor» (p. 104).

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può esimersi da compromissioni letterarie, tanto è vero che si è potuto sotto­ lineare il carattere narrativo, di «avventura», di inchiesta quasi, del Cannoc­ chiale^. Anche il linguaggio teorico, insomma, è un linguaggio metaforico, arguto; la critica e la teoria sono anch’esse letteratura, retorica. Si tratta, naturalmente, di valori letterari diversi da quelli oggi in voga e, soprattutto, distribuiti nel testo ad intermittenza, con intervalli anche larghi: ciò non toglie che il Cannocchiale aristotelico possa essere considerato opera di retorica almeno allo stesso titolo per cui la si considera opera di metaretorica. Se ci si trasferisce su questo piano, le somiglianze con VAdone si infit­ tiscono: e si tratta di concordanze di non poco conto, in quanto investono la struttura dell’opera. Non può non colpire, ad esempio, il fatto che le accuse di sproporzione e di gigantismo mosse dallo Stigliani al poema del Marino - «vastissimo gigante, ch’abbia in corpo una ossatura nana», «rana, che cammina sui trampoli»06 - si attaglino perfettamente anche al trattato del Tesauro, le cui digressioni sui vari argomenti, come abbiamo visto, esorbitano in continuazione dall’intelaiatura aristotelica che dovreb­ be garantirle: un po’ come nell’Adone la favola dell’amore di Venere per il giovanetto cipriota è continuamente messa in crisi da indugi descrittivi o da narrazioni secondarie. E ancora, per restare alle coincidenze più macroscopiche, quella sorta di poema dopo il poema, o fuori dal poema, che è, secondo il Pozzi, il ventesimo canto dell’Adone, pare corrispondere all’appendice degli ultimi quattro capitoli (XV-XVIII) del trattato, appa­ rentemente non previsti dal piano dell’opera (come ho già ricordato alla nota 24). Ma soprattutto, come si è cercato di dimostrare, il Cannocchiale aristotelico si regge su una struttura antitetica - esibita già nel titolo, così come LAdone dichiara in limine il proprio «senso verace», identicamente antitetico: «Smoderato piacer termina in doglia» - operante a tutti i livelli: da quello macrostrutturale dell’impalcatura concettuale, dove il ricorso alla retorica come chiave interpretativa del reale consente di leggere le contraddizioni come antitesi retoriche, a quello linguistico-stilistico, dove l’antitesi, nelle sue varie forme, è tra le figure dominanti. Ed è assai interessante notare, a questo proposito, che, benché le antitesi possano investire più di due membri (ad esempio con la regressio^1), nel Cannoc­ chiale aristotelico questa modalità non si dia o sia comunque estremamente rara (non ne ho rintracciato alcun esempio: ma il testo è troppo lungo perché mi senta di escludere una distrazione): in tutte le sue occor55. MENAPACE BRISCA, L'arguta et ingegnosa elocuzione..., cit., p. 51. 56. STIGLIANI, Dello Occhiale..., cit., p. 37. 57. LAUSBERG, Trattato di retorica letteraria, cit., pp. 213-14. E si vedano i casi di «opposizione in trinomio» censiti nell’Orchi da GIOVANNI POZZI (Saggio sullo stile dell'oratoria sacra nel Seicento..., cit., pp. 65-66) e quelli di antimetatesi a «sei membri» rintracciati dalla LOPEZ-BERNASOCCHI nello Stato rustico dell’imperiale (Una forma particolare di artificio retorico..., cit., pp. 223-24).

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renze Fantitesi si conferma figura a due fuochi - che trova il proprio potenziamento ed illimpidimento nell’antimetatesi - e il trattato tesauriano si conferma opera costruita sull’andirivieni tra un polo e l’altro sus­ seguente all’impossibilità (alla incapacità) della scelta. Che è poi la stessa caratterizzazione dell Vtóo zie offerta dalla lettura del Pozzi, sfociante infine nel ricorso alla figura geometrica dell’ellisse08: e se per il Marino valgono gli esempi figurativi del Bernini e del Borromini, come non pensare per il Tesauro - pur non negando l’influsso di quei grandi precedenti - alle oj?ere di cui il Guarini, pochi anni dopo, ornerà la capitale dei Savoia0 ? Come referente ideologico della costruzione ellittica elaborata dal Tesauro può benissimo valere quello addotto dal Pozzi per il Marino, cioè «l’irrisoluzione dell’uomo seicentesco di fronte ai due modelli cosmici contraddittori, tolemaico e copernicano»58 60; o forse meglio, 59 generalizzando, tra il mondo vecchio e il mondo nuovo. E anche per la figura retorica che sta alla base del Cannocchiale aristotelico possiamo richiamare in causa Giovan Battista Marino, a proposito del quale i curatori delle Rime marittime si chiedono (ma è domanda retorica, ovviamente), quale sia il «significato di questa disposizione rigorosamente simmetrica di elementi antitetici all’interno di un sistema chiuso. Rivela la relatività delle cose? Mostra come siano cangianti e suscettibili di mutamenti estremi i fatti della vita? Allude al piacere che si capovolge facilmente in dolore, e viceversa?»61. Tutto questo, certamente, con, in più, un aspetto che è segnalato con chiarezza dal frequente ricorso all’antimetatesi: la coscienza del passaggio in atto da un mondo ordinato a 58. Che non è altro che la dilatazione della figura geometrica che meglio di ogni altra può emblematizzare la letteratura del Rinascimento, cioè il cerchio. Riceve così conferma l’ipotesi storiografica di ENZO NOÈ GIRARDI, Il Seicento come momento centrifugo della letteratura rinascimentale, in ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE PER GLI STUDI DI LINGUA E LETTERATURA ITALIANA, Culture regionali e letteratura nazionale, «Atti del VII Congresso» (Bari 31 marzo - 4 aprile 1970), Bari, Adriatica, 1970, pp. 277-89 (poi in Saggi di letteratura italiana, Milano, Vita e pensiero, 1974, pp. 123-33 e in Letteratura come bellezza. Studi sulla letteratura italiana del Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 293-302). Per questa problematica, ovvio il rimando al classico JEAN ROUSSET, La lettera­ tura dell'età barocca in Francia. Circe e il pavone, Bologna, il Mulino, 1985, che attorno al nucleo fondamentale del 1954 raccoglie saggi del 1976 e del 1981. 59. A dire il vero, ANDREINA GRISERI vede nel Guarini una sorta di anti-Tesauro (Le metamorfosi del Barocco, Torino, Einaudi, 1967, pp. 179ss.): presa di posizione che ha suscitato però qualche riserva, tra le quali quella di MANFREDO TAFURI, Retorica e sperimentalismo. Guarino Guarini e la tradizione manierista, in Guarino Guarini e l'internazionalità del Barocco. Atti del Convegno internazionale promosso dall’Accademia delle scienze di Torino (30 settembre - 5 ottobre 1968), Torino, Accademia delle scienze, 1970, I, pp. 667-704: 686. 60. Marino, L'Adone, cit., Il, p. 81. 61. Giovan Battista Marino, Rime marittime, a cura di Ottavio Besomi, Costanzo Marchi e Alessandro Martini, Modena, Panini, 1988, p. 13.

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gerarchicamente, un cosmos, ad un caos ingovernabile che si sottrae ad ogni tentativo assiologico, in cui non resta che limitarsi ad accostare gli elementi antitetici senza né comporre il contrasto né scegliere tra uno di essi: «così era già invilita la nobiltà, o nobilitata la viltà» (p. 577). La cosmologia aristotelico-tolemaica è già caduta senza che quella coperni­ cana abbia potuto prenderne il posto, almeno nella coscienza comune62: se il punto di osservazione delFuniverso da assoluto si è fatto relativo, non stupirà che le cose mutino al cambiare di esso - «parendo verso ai prosatori, e prosa a’ versificatori» (p. 126) - e nemmeno, quindi, che il Cannocchiale aristotelico possa tematizzare indifferentemente l’argutezza o l’impresa solo mutando sottotitolo o permanere nella sua irresoluzione tra argutezza e metafora. Dunque, la vulgata opinione della parentela tra il Cannocchiale aristo­ telico e VAdone si dimostra fondata: non solo, però, sul piano di una generica predilezione per la metafora, bensì sul doppio livello innanzitutto di una rigorosa ricerca dell’argutezza, in secondo luogo di una vera e propria omologia tra le due opere. Ciò da una parte depone a favore della lucidità di penetrazione dei meccanismi testuali posseduta dal Tesauro, dall’altra getta luce riflessa suU’Adone, confermando che i segreti costrut­ tivi di esso investono tanto il macrotesto quanto il microtesto, tanto la dispositio quanto 1’inventio e 1’elocutio. Si legittima così, per questa ine­ dita via, l’assunzione del Cannocchiale aristotelico a paradigma della let­ teratura barocca: non solo a motivo della riflessione teorica che esso pro­ pone, come si è continuato a ritenere, ma anche grazie alla struttura ad ellisse che la veicola; non solo per la sostanza del contenuto, ma anche per la forma da cui esso riceve l’esistenza; insomma, sia grazie alle trovate àeW inventio e ai fuochi d’artificio AeW elocutio, sia grazie ai mezzi della dispositio. Il Cannocchiale aristotelico, allora, non solo è un trattato di retorica generale - nel senso di una retorica chiamata a costruire e a decifrare tutti i fenomeni di semiosi, naturali e artificiali -, ma anche un’opera in cui tutti i livelli retorici sono messi concretamente in atto. Ce n’è abbastanza, credo, per rivedere il luogo comune che vuole già operante nel Seicento la progressiva riduzione della retorica alla sola metafora63. Al contrario, nel 62. CONTE, La metafora barocca..., cit, p. 168: «Il sistema di Tesauro è in partenza sistema aristotelico: tutta la forza delle evasioni e delle deviazioni sospende il sistema aristotelico, ma non è in grado di produrne uno nuovo». 63. Luogo comune sancito dall’autorità di un saggio famoso, e un po’ garibaldino, di Genette, fondato però sul versante classicista del Seicento francese (GERARD GENETTE, La retorica ristretta, in ID., Figure III. Discorso del racconto, Torino, Einaudi, 1976 [ed. orig. 1972], pp. 17-40), che ha coperto altre voci, quali quella del Barilli, il primo a segnalare che le poetiche dell’ingegno tentano «di scongiurare la dissociazione “moderna” tra ragion pura e ragion pratica», proponendosi anzi «come l’estremo sforzo

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trattato del Tesauro tocca l’apice l’inversione di tendenza rispetto al processo restrittivo iniziato nel Cinquecento: più e meglio che i trattati del Peregrini e del Pallavicino, e come quello di Graciàn, il Cannocchiale teorizza e pratica una retorica integrale, culmine di tutte le discipline umanistiche e sede del gioviale e del giovevole, di un bello e di un vero non dissociati. Le considerazioni ora esposte non sono prive di conseguenze in ordine sia al problema della datazione del Cannocchiale aristotelico sia al fatto della sua straordinaria fortuna editoriale (almeno quattordici stampe tra il 1654 e il 170264). Il Raimondi propone di retrodatare la genesi dell’opera al terzo decennio del secolo, quando si incontrano, rafforzandosi a vicenda, il clima culturale del pieno marinismo e l’esperienza biografica dell’insegnamento di retorica nelle scuole dei Gesuiti; e i raffronti testuali tra il Cannocchiale aristotelico e i Panegirici sacri convincono senz’altro del fatto che il Tesauro avesse già da allora pronti sul proprio scrittoio molti dei materiali poi travasati nell’opera maggiore. Ma una così acuta individuazione dei segreti compositivi dell’Atfozze e la loro riproposta, si­ mile nella diversità, nell’organismo del trattato, va ben al di là di una semplice adesione da critico militante: si tratta di una operazione più complessa che non la pressoché meccanica reimmissione in una nuova compagine testuale di brani già scritti o di argomenti già esaminati e che mi sembra richiedere una meditazione ed un impegno molto più lunghi e diuturni di quelli concessi al Tesauro in anni che lo videro quasi intera­ mente assorbito prima dal servizio religioso nell’ordine gesuita, poi da quello politico al principe Tommaso di Savoia Carignano, con l’appen­ dice, al ritorno dalle Fiandre e alla fine della guerra civile piemontese, della stesura e pubblicazione dei Campeggiamenti. Dal 1646 al 1654, silenzio, fino alla stampa appunto del Cannocchiale aristotelico: come non pensare, allora, che il Tesauro si fosse assunto un impegno ben più gra­ voso della semplice ri elaborazione di temi ed argomenti affrontati trentanni prima6a? Tanto più che nel frattempo erano apparse opere quali il Delle acutezze del Peregrini, il Del bene e le Considerazioni sopra Carte dello stile e del dialogo del Pallavicino con le quali non era possibile non confrontarsi, tanto più nel clima culturale profondamente mutato di cui

di una cultura integrata» (RENATO BARILLI, Poetica e retorica, Milano, Mursia, 1979, p. 164; si veda anche il successivo Retorica^ Milano, ISEDI, 1979, dove si ribadisce che nella trattatistica barocca la retorica «afferma per un’ultima volta il suo ruolo, ciceronia­ no più che aristotelico, di sintesi superiore e finale fra tutte le arti e le scienze»: p. 93). 64. TUSCANO, Appunti sulle prime stampe del «Cannocchiale aristotelico»..., cit., p. 563. 65. Anche LUIGI VlGLIANI, Emanuele Tesauro e la sua opera storiografica, «Fonti e studi di storia fossanese», Fossano, CLXIII, 1936, ipotizza che «la preparazione di questo libro [il Cannocchiale aristotelico] sia costata al Tesauro un certo sforzo; poiché negli anni che vanno dal 1646 al 1653 non consta che altro abbia prodotto di nuovo» (p. 238).

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esse erano insieme causa e testimonianza. Obiettando alla retrodatazione proposta dal Raimondi, F. Croce ridimensiona giustamente 1’«isolamento provinciale» del torinese, concludendo che «l’opera di Emanuele Tesauro anziano presuppone un lungo dibattito sui ritrovati del nuovo stile; è un’apologià del moderno che si sviluppa dopo che sul moderno si sono avuti anche dubbi e perplessità»66. In realtà, tanto tempo non era passato invano: tornando alla proprie carte, il Tesauro si distacca con un colpo d’ala dalla trattatistica contem­ poranea e concepisce un’opera che riproduce, con i mezzi della retorica, le caratteristiche del barocco quali egli le aveva scoperte nel poema XAdone61 - più rappresentativo della media di esso, un’opera che si 66. RAIMONDI, Una data da interpretare..., cit.. F. CROCE, Tre momenti del barocco letterario italiano, cit., pp. 151-54. Il Resomi (OTTAVIO RESOMI, Il colore dello spirito. Un ritratto del Tesauro per Cassiano dal Pozzo, in Omaggio a Gianfranco Polena, Padova, Editoriale Programma, 1993, II, pp. 1219-27) ritiene di trovare conferma alla proposta del Raimondi in una lettera inedita del 27 gennaio 1634 in cui il Tesauro comunica all’amico Cassiano dal Pozzo una lista di sue opere «in ordine per la stampa», tra le quali «un giusto volume sopra le Rettoriche di Aristotele, fatica non ancora tentata da alcuno della nostra Compagnia; tra’ quali trattati v’è quello delle Arguzie e delle Imprese, ch’io ritraggo da’ principi del medesimo Aristotele». La lettura integrale della missiva (resami possibile grazie dalla edizione datane da CARLO DE MARCHI nella sua tesi di laurea I letterati nel carteggio di Cassiano dal Pozzo, relatore Claudio Scarpati, Università Catto­ lica, Milano, a.a. 1994-95, pp. 155-58), tuttavia, rende meno necessaria la deduzione: l’elenco dei testi pronti per la stampa, infatti, comprende molte opere, alcune delle quali identificabili con testi effettivamente stampati, altre no (come non ricordare analoghe vanterie mariniane?). Inoltre, nella frase citata, la descrizione di quello che sarebbe divenuto il Cannocchiale aristotelico non coincide con l’opera che noi possediamo: non può coincidere con il «giusto volume» perché il Cannocchiale è dedicato a quell’argu­ tezza che nella lettera è considerata una parte del libro, non il suo argomento principale; né può essere il «trattato» «delle arguzie», perché qui esso è indicato come parte di un «giusto volume» più ampio ed è parificato a quello delle imprese, come non è nel Can­ nocchiale. Insomma, se anche alla data del 1634 il Tesauro aveva - come è ben probabile - accumulato idee e raccolto materiali per la sua opera maggiore, il Cannocchiale aristotelico divenne quale lo possediamo solo in seguito ad una revisione-rifacimento per la stampa del 1654, che dovette essere tale da trasformare considerevolmente un eventuale libro già pronto. 67. La messa all’indice dell’Adone, congiunta allo stato ecclesiastico (prima gesuita, poi dal 1635 prete secolare) del Tesauro, parrebbe costituire una serie obiezione all’ipotesi ora proposta, tanto più che delle molte citazioni del Marino una sola riguarda il poema, ed è inserita in un contesto che pare giustificarne la condanna («Et il Marini dicea, che ADONE “era stato impiccato dopo morte”: perché il suo Poema intitolato l’ADONE, era stato sospeso. Ma Papa Urbano: disse, che “apunto quell’ADONE era pasto da Porci”: argutamente alludendo alla favola di Adone e del cinghiale»: pp. 366-67). Ma, pur in assenza di citazioni esplicite, il florilegio di esempi proposto dal Tesauro non pare immune dalla lettura del poema (ed una ricerca in questo senso sarebbe, credo, tanto faticosa per l’ampiezza dei due testi quanto feconda di risultati). Inoltre, la biografia del Tesauro stesa dallo Zanardi mostra bene quanto egli fosse uomo (e prete) da sfidare ben altri divieti che non quello della lettura di un’opera il cui autore era, per di più, amico e

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propone come l’estrema e persuasiva difesa di una civiltà retorica integrale contro l’ormai irresistibile avanzata scientifica. Da questa doppia ricchezza, concettuale e di scrittura, deriva la straor­ dinaria fortuna del trattato nell’età ad esso contemporanea e l’udienza che continua a ricevere nella nostra, che è stata recentemente definita «neobarocca»: con la propria struttura il Cannocchiale aristotelico parlava agli uomini del Seicento nella loro stessa lingua, fatta di contraddizioni tra vecchia e nuova scienza, tra la cosmologia tolemaica e quella contem­ poranea, tra docere e delectare, tra tradizione e innovazione, tra antichi e moderni.... Insomnia, tra il vecchio mondo e il mondo nuovo recente­ mente scoperto, in un tempo in cui né l’uno né l’altro riuscivano a pren­ dere decisamente il sopravvento e ad imporre o reimporre i propri codici interpretativi. Dietro il velame di un ennesimo trattato di retorica, appa­ rentemente obsoleto, il Cannocchiale aristotelico nasconde la modernità del così seicentesco principio di irresoluzione tra due realtà contraddit­ torie, tradotto retoricamente - cioè nell’unico modo possibile - nell’antitesi.

corrispondente del proprio fratello maggiore Ludovico (che fu parte attiva nella polemica tra il Marino e Ferrante Carli e che prese più volte le difese di Emanuele contro lo stesso generale dell’ordine dei Gesuiti): cfr. ZANARDI, Vita ed esperienza di Emanuele Tesauro..., cit.. Il Cannocchiale aristotelico conserva anche testimonianza di una conoscenza personale del Marino da parte del giovane Emanuele: «E mi ricorda del facetissimo Cavalier Marini; che leggendo una Ode latina di Lodovico Porcelletti, in laude di lui; intitolata alla Oraziana, ODE TRICOLOS TETRASTROPFIOS: mostrandosi forte maravigliato, disse ver noi: “Costui fa questi versi e non crepa?”» (p. 173).

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I. 3. CONTRO LA METAFORA. ANTITESI E METAFORA NELLA PRASSI E NELLA TEORIA LETTERARIA DEL SEICENTO

La definitiva abilitazione del Seicento letterario a oggetto di studio (se non di approvazione) avvenne, come è noto, sotto l’alto patrocinio di Benedetto Croce: ma il padrino era esigente e costrinse il protetto sotto le forche caudine di una doppia progressiva limitazione le cui conseguenze si sono protratte a lungo: cioè la tendenziale identificazione della letteratura se­ centesca col secentismo, o marinismo o concettismo che dir si voglia (es­ sendo le rare eccezioni qualificate comunque per via oppositiva anziché per dignità propria), e quella, solo apparentemente tecnica, tra secentismo e ricorso alla metafora, per lo più astrusa. E se gli studi successivi hanno provveduto a restituire un panorama ben più variegato del secolo, mo­ strando la diversità ed anche la discordanza delle voci che lo percorrono, non pare invece che la seconda equivalenza sia stata messa in discussione con la medesima forza, o almeno con la medesima efficacia. Già il Pozzi oltre quarantanni fa dubitava «della capacità definitoria [il secentismo è quel fenomeno letterario contrassegnato dalla ricerca di metafore] e della fertilità potenziale di tale contrassegno»1, ma ai rari dissenzienti veniva opposta, accanto alla ricchezza elocutoria dei testi, l’antichità e l’autorità della definizione («stil metaforuto» è sintagma citato dallo Stigliani come di conio mariniano12) e, a sigillo definitivo della preponderanza dell’uso, l’ampia giustificazione teorica che della metafora viene fornita nel Can­ nocchiale aristotelico del Tesauro. Proprio dal trattato di retorica più importante e rappresentativo del Seicento conviene allora partire, per avanzare subito il dubbio che ad esso siano state spesso applicate delle lenti polarizzanti, che ne hanno lasciato passare un’immagine forse non deformata ma certo univoca; poiché in realtà le pagine tesauriane denunciano uno stato di cose assai meno ras­ sicurante di quello passato in giudicato, già a partire dalla concezione di metafora che ivi si espone, e che è quantomeno azzardato sovrapporre senza aggiustamenti, come pure si tende a fare, alla nostra. Infatti, come abbiamo visto, il Tesauro opera innanzitutto un notevole allargamento della giurisdizione della metafora, i cui confini egli porta a far coin­ cidere pressoché tout court con quelli delle figure ingegnose (vale a dire di una delle tre classi - le altre due sono le figure armoniche e quelle pa­ tetiche - che articolano l’intero campo retorico), che sono di competenza 1. P. GIOVANNI Da LOCARNO, Saggio sullo stile delToratoria sacra..., cit., p. 3 2. GIAMBATTISTA Marino, Epistolario seguito da lettere di altri autori del Seicento, a cura di ANGELO BORZELLI e FAUSTO NlCOLINI, Bari, Laterza, 1911-1912, II, pp. 271 e 345.

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dell’«intelletto» (p. 124)3. Così, la metafora di cui si cantano le lodi in un citatissimo passo (p. 266), comprende in realtà tutte le figure «DIANOEAS, o sia sententia», cioè quelle che consistono «nella Signifi­ cazione ingegnosa, come il Translato» (p. 235). Esse comprendono otto specie, la cui collocazione sotto il genere metafora può essere ora da noi accettata solo a prezzo di una notevole dilatazione del significato attual­ mente attribuito al termine, come risulta con chiarezza già dal semplice elenco: metafora di proporzione, di attribuzione, di equivoco, di ipotiposi, di iperbole, di laconismo, di opposizione, di decezione (pp. 281-98). A questa concezione estensiva della metafora (metafora = figura ingegnosa) si affianca e oppone l’assegnazione ai primi due tipi (di pro­ porzione e di attribuzione) di un particolare statuto, come se esse fos­ sero più metafore delle altre: e in un certo senso è proprio così, poiché la definizione di metafora come «PAROLA PELLEGRINA, VELOCE­ MENTE SIGNIFICANTE UN OBIETTO PER MEZZO DI UN ALTRO» (p. 302) si adatta a fatica alle altre sei categorie, come abbiamo già verificato recensendo gli otto esempi riportati dal Tesauro a p. 2984. Non a caso, del resto, metafora di somiglianza e metafora di attribuzione coincidono rispettivamente la prima con i trasferimenti da specie a specie e da genere a genere, la seconda con quelli da genere a specie e da specie a genere (che sostituisce l’aristotelica metafora per analogia), cioè con i quattro tipi di metafora espressamente individuati da Aristotele. Tuttavia, nemmeno in questa accezione più ristretta la metafora del trattatista torinese coincide con la nostra, invadendo essa (^, prima ancora, quella di Aristotele) anche l’ambito attualmente assegnato alla metonimia e alla sineddoche: sicché, in ultima analisi, il significato contemporaneo di metafora viene a sovrapporsi a quello che le assegna il Tesauro solo nel caso della metafora di proporzione. Come se lo spostamento di significato subito dal termine non fosse sufficientemente rilevante, il Cannocchiale aristotelico complica ancor più

3. Ad essere precisi, l’ambito delle «figure ingegnose» comprende anche le «parole pro­ prie» Ccluehey> che «nella età migliore da’ migliori componitori, a significar gli obbietti, communemente si adoprano»'. pp. 247-48) e quelle «pellegrine», che «Significano veramente gli obietti senza velo di Metafora [...] ma non senza grazia di Novità» (p. 249) e che si distinguono in «PRISCHE, FORESTIERE, DERIVATE, MUTATE, COMPOSITE e FINTE» (p. 250). Tuttavia, l’evidente impossibilità di ascrivere questi elementi al settore delle figure vere e proprie fa sì che il Tesauro stesso le trascuri quando, riepilo­ gando il «SOMMO GENERE di tutte le Figure Ingeniose» dichiara che esso si articola senza residui nelle otto specie di metafore (p. 300). 4. Li ripeto per comodità del lettore: «Metafora: 1. Di simiglianza: Homo quadratus; 2. Di attribuzione: Regnat gladius; 3. Di equivoco: Ius Verrinum, malum; 4. Di ipotiposi: Pontem indignatus Araxes; 5. Di iperbole: Instar montis equum; 6. Di laconismo: Carpathii leporem; 7. Di opposizione: Mens amens; 8. Di decezione: Vale apud Orcum» (p. 298).

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la non facile vita dell’esegeta suggerendo a più riprese una identificazione tra Metafora e argutezza. Occorre resistere a questa sirena fuorviante e tenersi ben fermi all’albero maestro della tripartizione, che il Tesauro enuncia in apertura e ribadisce poi più volte, in 1. «METAFORA SIMPLICE, che quasi non eccede la sfera della prima Operazion dellTn­ telletto», 2. «PROPOSIZION METAFORICA: la quale altro non è, che una Metafora continuata; ascendente alla seconda Regione dellTntelletto» e 3. «ARGOMENTO METAFORICO, il qual è la vera, e nobilissima Arguzia; trascendente alla terza region dell’intelletto; suprema gloria delle composizioni ingegnose» (p. 279): nonostante le innegabili oscil­ lazioni che venano il trattato, resta indubbio che solo 1’«argomento meta­ forico» raggiunge la vetta dell’arguzia e con essa si identifica. Invece, per motivi che qui sarebbe troppo lungo ed anche inutile elencare, accade di solito che l’interprete moderno sorvoli, più o meno intenzionalmente, sui cambiamenti semantici subiti dal termine metafora ed applichi al significante usato dal Tesauro il significato attuale. Insem­ ina, il fenomeno storico, riscontrato dallo Genette, di una restrizione del campo della retorica, attraverso una sineddoche particolarizzante, alla sola metafora0, trova riscontro speculare in un procedimento che allarga tesaurianamente - la metafora a tutte le figure ingegnose e la fa infine coincidere con l’argutezza. Niente di male se ciò significasse un consa­ pevole recupero del significato secentesco, o almeno tesauriano, del ter­ mine: ma il fatto è che, quando poi si rileggono i testi con una chiave metaforica che si è trasformata in un informe passepartout, si corre il dop­ pio inevitabile rischio da una parte di individuare metafore ovunque, dall’altra di annegare la specificità della metafora in un indistinto mare magnum retorico. Sorge così il sospetto che l’identificazione tra secen­ tismo e metafora di cui si parlava inizialmente, si sia potuta finora appli­ care e sostenere proprio previa dilatazione del significato attualmente attribuito al secondo termine: per metafora non si intende più solo quel «processo linguistico espressivo, e figura della retorica tradizionale, basato su una similitudine sottintesa, ossia su un rapporto analogico, per cui un vocabolo o una locuzione sono usati per esprimere un concetto diverso da quello che normalmente esprimono»5 67 , ma tutto l’insieme dei fatti retorici sopra elencati, cioè le figure ingegnose e l’argutezza‘,

5. GENETTE, La retorica ristretta, cit... 6. Conscio dell’inestricabile ginepraio in cui mi caccerei altrimenti, ricorro alla scappatoia di una definizione vocabolaristica: Vocabolario della lingua italiana, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1986 ss. 7. Posso citare, ad esempio di una tendenza ben diffusa, una nota storia e antologia della letteratura italiana, che nel paragrafo dedicato alla metafora analizza Adone VII 37 (l’ottava dell’usignolo): cioè appunto un brano nel quale si può parlare di metafore solo in senso tesauriano, poiché esse, se ci sono, risultano inestricabilmente intrecciate a

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Resi edotti dalle esperienze precedenti, teniamoci dunque saldamente alle differenze proposte, in particolare a quella tra metafora e argutezza: infatti quest’ultima, che costituisce l’oggetto del desiderio di poeti e trattatisti del Seicento, non coincide certamente, come ora vedremo meglio esaminandone la trattazione fornita dal Tesauro, con la metafora (e nemmeno con la Metafora, anche se di questa si possa servire per otte­ nerla, visto che l’argutezza è «fondata sopra una Metafora» [=figura in­ gegnosa]: p. 495). Punto d’arrivo ed anche compendio della ricerca, iniziata un centinaio d’anni prima, «sulla portata e sui limiti di una eventuale dimensione argomentativa» del linguaggio poetico8, il Tesauro sancisce che l’arguzia deriva dall’argomento (p. 487) e la identifica con l’entimema urbano di Retorica III 10, cioè del capitolo che a suo dire Aristotele «espressamente compose de’ Motti Arguti, che chiamò ASTEIA: cioè, Urbanitates» (p. 5). Lì il filosofo greco, a dire il vero, dichiara, in un passo citato anche dal Peregrini9, che per «ottenere le espressioni spiritose e di successo» «bisogna dunque mirare a queste tre cose: alla metafora, all’antitesi e al vigore»10. Confortati dall’enfasi assegnata alla trattazione della Metafora - circa un terzo dell’intero trattato - e da asserzioni sparse ma importanti «conchiudo l’ENTIMEMA URBANO, essere una Cavillazione ingeniosa, in Materia civile; scherzevolmente persuasiva: senza intera forma di sillogismo: fondata sopra una Metafora (p. 495)» - pare ovvio concludere che della trimurti aristotelica sia sopravvissuta solo la metafora. Ostano, tuttavia, alcune considerazioni: e se la comprensione per il lettore mi induce a non insistere ulteriormente sul fólto che in tutti quei contesti Metafora è sinonimo di «figura ingegnosa», non posso tacere che il terzo ingrediente, il «vigore»11 è caratteristica fondamentale della Metafora tesauriana, né, soprattutto, che il secondo, cioè l’antitesi, viene recuperato, iperboli, perifrasi, sineddochi, metonimie e la cui argutezza deriva più dall’antitesi impostata nel primo distico che dall’invenzione propriamente metaforica (ASOR ROSA, La lirica barocca, in II Seicento, cit., I, pp. 393-94). 8. SCARPATI, Icastico e fantastico. Iacopo Mazzoni tra Tasso e Marino, cit., p. 252. 9. MATTEO PEREGRINI, Delle acutezze che altrimenti spiriti, vivezze e concetti volgarmente si appellano, Ferroni, Genova 1639, p. 8: «Quanto ad Aristotele, egli propose d’inse­ gnare, onde i detti si formino ÓCCTCEUX, Kod EWO%f|RaTa- Urbana, e probata, trasporta il Sigonio; Graziosi, e piacenti molto, può trasferirsi in Toscano. La generai cagione, che gli rende tali, dice egli, si è il far, che l’ascoltante facilmente, e subito impari molto. Soggiugne, che di questa condizione può fargli il Traslato, il Contraposto, e YEnergia, o vogliamo dire cosa presenzialmente in atto di operante significata». 10. Retorica 1410a 7 e 1410b 34-5. ARISTOTELE, Opere. 10. Retorica. Poetica, cit., pp. 160 e 161. 11. Al quale ha dedicato pagine illuminanti MORPURGO-TAGLIABUE, Linguistica e stilistica di Aristotele, cit., pp. 256-86.

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sotto l’etichetta della metafora di opposizione, tra le otto classi elencate dal trattatista; e il recupero avviene con un’enfasi che ho già segnalato nel capitolo precedente e che non è priva di significato. Il ricorso all’autorità del Tesauro per sancire teoricamente il primato della metafora nella poesia del Seicento desta dunque qualche perples­ sità, che un’ulteriore analisi non potrà, credo, che confermare. Spetta allo Scarpati il merito di aver ribadito12 che la fortuna secentesca della meta­ fora poggia sulla analogia che le viene riconosciuta con l’entimema, in quanto essa occulta, come quest’ultimo, una delle proprie premesse cioè o il metaforizzato o la motivazione (o tenor e ground)13 : non può non sor­ prendere, allora, il fatto che molte delle metafore profuse dal Tesauro siano o spiegate o in praesentia - o perché il metaforizzato fa la propria comparsa nel cotesto immediato o perché la metafora, anziché essere inedita, ricicla un topos e si trasforma quindi in catacresi (oppure, come preferiscono i contemporanei, in parlar proprio e non più figurato14). Credo che ad esemplificazione di quest’ultimo caso - e dell’annessa coscienza della perduta metaforicità - basti ricordare la trattazione tesauriana dell’abusata «prata rident»10, mentre a riprova della prima modalità rimando alla sequela di esempi offerti dal Tesauro a sostegno dell’esame della metafora di proporzione (pp. 306 ss.). Ovviamente, la causa

12. Riprendendo una segnalazione di MORPURGO-TAGLIABUE, Aristotelismo e barocco, cit.; SGARRATI, Dire la verità al principe, cit.; ID., La metafora al di là del vero e del falso in Emanuele Tesauro, cit. 13. Metaforizzante, metaforizzato, motivazione e modalizzatore sono termini di GIOVANNI POZZI, usati ripetutamente ad esempio nel commento all’Adone, ma spiegati in La rosa in mano al professore, Friburgo, Edizioni Universitarie Friburgo Svizzera, 1984, pp. 14-17, dove però al posto della prima coppia compare la più comprensiva figurante - figurato. E fin troppo noto che il secondo binomio si completa con vehicle e che fu proposto da IVOR A. RlCHARDS, La filosofia della retorica, Milano, Feltrinelli, 1967 (ed. orig. 1936). 14. Allego una sola citazione ad avvertire della sensibilità figurale del secolo: scrivere «Amore» per «desio» è sì metonimia, «ma questo traslato per lungo uso dei poeti lirici, che se ne servono allo spesso è divenuto proprio, non meno che dicendosi Bacco per il vino, e Venere per la carnai copula è parlar proprio e non figurato» (CAMILLO PELLE­ GRINO, Del concetto poetico, f. 79v. (cito direttamente dal manoscritto, conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli, segnatura XIV D 2, poiché la trascrizione fornita da ANGELO BORZELLI - alle pp. 327-59 di II cavalier Giambattista Marino (1569-1625), Napoli, G.M. Priore, 1898 - non è sempre corretta. Una trascrizione parziale offrono GIULIO FERRONI - Amedeo QUONDAM, La «locuzione artificiosa». Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nelLetà del manierismo, Roma, Bulzoni, 1973, pp. 107-25). 15. «Nessun salutò la eloquenza così di lungi, che sovente non abbia udito quella Rettorica Figura; PRATA RIDENT; per dire Prata vernant. Amoena sunt. Questa veramente Argutezza intera non è, ma simplice Metafora; feconda genitrice però, d’innumerabili Argutezze. Egli è dunque un bel fior rettorico-. ma fiore oggimai sfiorito, e così calpestato per le Scuole, che incomincia putire. Laonde se in un tuo discorso accademico tu pompeggiassi di questa Metafora così nuda; PRATA RIDENT: vedresti rider gli Uomini, e non gli prati. Così ci fa ridere l’udire I liquidi cristalli-, e I raggi di Febo» (p. 116).

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immediata della presenza del metaforizzato va ricercata nella consa­ pevolezza dell’altrimenti inevitabile incomprensibilità della stragrande maggioranza degli esiti metaforici1617 ; ma l’effetto finale è appunto quello 18 se non della scomparsa certamente della riduzione del loro valore di enti­ mema. Il fatto risulta tanto più significativo in quanto il Tesauro incontra su questo terreno la prassi poetica del Marino: Francesco Guardiani ha notato che nelle metafore delTAdo/ie «l’anello del somigliante è sempre immediatamente percepibile e non presenta alcuna difficoltà interpreta­ tiva», «il tertium comparationis è sempre chiaro, è addirittura dichiarato dal figurante»1 \ Entrambe le modalità qui elencate - si tratti di presenza del metaforizzato o di ostensione del ground - avvicinano, come dichiara il Guardiani, la metafora alla similitudine e con ciò stesso tendono a privarla del valore entimematico necessario alla costruzione dell’arguzia. Del resto, se interroghiamo la produzione di uno degli autori che per primi e con maggiore oltranza barino spinto sul pedale del concettismo, vale a dire il Casoni, riscontriamo una tendenza non tanto alla metafora pura e semplice, quanto alla metafora continuata o alla filatessa di meta­ fore (che del primo procedimento sembra costituire una sorta di surrogato tendente ad attingerne le caratteristiche per mezzo dell’accumulo quanti­ tativo)10. Anche l’analisi di un sistema parodico quale quello messo in atto dallo Stigliani neAVAmante disperato e neirAmante stoltisavio si rivela utilissimo per il nostro assunto, in quanto gli elementi parodiati saranno evidentemente quelli che vengono colti come maggiormente innovativi lupetto al sistema tràdito. Il Besomi sintetizza così la situazione: «L’ana­ lisi parodica dello Stigliani si articola in più direzioni, interessando la metafora (metafora ardita, continuata, catena di metafore), altri artifici retorici (paronomasia, anafora, gradatio)^ il campo delle invenzioni lessi­ cali»; ma poi, in sede analitica, fornisce alcune interessanti precisazioni: «Una metafora non è quasi mai presentata unicamente nei suoi due termini essenziali, veicolo e tenore, ma si allarga a metafora continuata»; «Si ha il caso di veicoli metaforici che si allineano a catena o si raccol­ gono a grappolo attorno ad un unico dato reale»; «uno stesso dato reale compare come tenore di metafore principali e secondarie». Come dire, insomma, che la metafora pura e semplice non è ritenuta poi così rappre­ sentativa della «maniera poetastrica» da essere presa più che tanto in considerazione. Si aggiunga che di tutte le metafore censite dal Besomi 16. Ciò permette, tra l’altro, di marcare tecnicamente la differenza tra la metafora del Seicento e quella novecentesca, contribuendo a sciogliere la vexata quaestio della differenza-somiglianza tra l’età contemporanea e il barocco. 17. FRANCESCO GUARDIANI, La meravigliosa retorica deir «Adone» di G. B. Marino, Firenze, Olschki, 1989, pp. 135-36. 18. Cfr. CORRADINI, La ricerca metaforica di Guido Casoni, cit.

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neWAmante disperato solo nove, cioè circa il 5%, sono in absentia («il termine reale, non indicato, è sostituito con quello metaforico»)19. Se ora dal settore della prassi poetica, così rapidamente escusso, ritor­ niamo alla produzione teorica, possiamo notare che, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, nemmeno tra i trattatisti la metafora gode di particolare considerazione: il Peregrini le dedica uno spazio ristretto e comunque subordinato all’acutezza, il Pallavicino addirittura la sottomette alla similitudine20 il trattato del Meninni non la elenca tra le voci ana­ lizzate21. Diverso, certo, il caso del Tesauro: ma abbiamo già esaminato i distinguo e le precisazioni necessari ad un corretto uso del Trattato della metafora. Parrebbe di poter concludere, insomma, che nella ricerca degli elemen­ ti atti a produrre l’arguzia, le metafore pure e semplici non siano ritenute né necessarie né sufficienti (al massimo, nel Tesauro, possono fornire la base «apprensiva» di un’argutezza), con tutta probabilità perché le loro caratteristiche d’uso (essenzialmente in praesentia, o catacretiche per tra­ dizione) ne indeboliscono grandemente il carattere entimematico. Prova ne sia la rarità, proprio negli esperimenti a cavaliere del Seicento, della metafora isolata, che tende invece ad allacciarsi ad altre in catena e, più ancora e con maggior profitto, a divenire metafora continuata. Il secondo procedimento permette, più e meglio del primo, il ripristino o il raggiungi­ mento dell’entimema: ce ne fa consapevoli il Tesauro che identifica il secondo dei tre gradini della scala che conduce all’empireo della perfetta argutezza, cioè la «Proposizion metaforica [...] ascendente alla seconda regione dell’intelletto», appunto con la «metafora continuata»22. E il Me­ ninni sembra ribadirlo quando scrive che «nel sonetto Passa la nave mia. la metafora della nave è assai vaga, essendo continuata»23. Del resto, che 19. OTTAVIO Resomi, Tomaso Stigliarli: tra parodia e critica. «Studi secenteschi», Firenze, XIII (1972), pp. 3-73, poi in ID., Esplorazioni secentesche (da cui cito), cit., pp. 59 e 68-70. 20. Anche se, per la verità, nell’ambito della prosa scientifica: SFORZA PALLAVICINO, Trattato dello stile e del dialogo. Roma, Mascardi, 1662, p. 85. Sul Pallavicino si veda il contributo di ERALDO BELLINI, Scrittura letteraria e scrittura filosofica in Sforza Pallavicino, in SGARRATI - BELLINI, Il vero e il falso dei poeti, cit., pp. 73-189. 21. FEDERICO MENINNI, Ritratto del sonetto e della canzone. Napoli, Passaro, 1677. 22. «Restaci a discorrere l’ultima dote della METAFORA: cioè, la sua FECONDITÀ: potendosi veramente dimostrare, ch’ella (come accennammo) sia la gran Madre di ogni ARGUTEZZA. Ma per procedere in ciò con la vera Metodo; tratteremo nel primo luogo delle Differenze della METAFORA SIMPLICE, che quasi non eccede la Sfera della pri­ ma Operazion dell’intelletto. Di poi, della PROPOSITION METAFORICA: la quale altro non è, che una Metafora continuata; ascendente alla seconda Regione dell’intelletto. E finalmente, dell’ARGOMENTO METAFORICO, il qual è la vera, e nobilissima arguzia; trascendente alla terza Region dell’intelletto; suprema gloria delle composizioni ‘ngegnose» (p. 279). E si vedano anche le pp. 9-10, 117 e 481, nella quale in particolare è segnalata l’identità tra metafora continuata e allegoria. 23. MENINNI, Ritratto del sonetto e della canzone, cit., p. 116.

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essa venga a costituire, ad un certo punto, uno degli elementi di maggior interesse della ricerca poetica del primo Seicento è testimoniato, oltre che dalla lettura dei testi del Casoni e del Rinaldi2425 , dalle dichiarazioni e dalla prassi del Marino, che applica la novità - rivendicandone a sé l’inven­ zione - nella prosa delle Dicerie23. Messa agli atti, dunque, l’inadeguatezza della metafora semplice ai fini arguti e il ricorso invece a quella continuata, occorre anche riesaminare il ruolo giocato dall’altra figura retorica già segnalata da Aristotele come necessaria al conseguimento delVasteion: l’antitesi. La sua particolare frequenza nella poesia barocca è dato troppo noto ed evidente perché lo si debba documentare, anche se ad un certo punto l’attenzione dei critici ha privilegiato la metafora. Ciò è dovuto alla convergente azione di una serie di fattori, che, partendo dalla rinnovata attrazione esercitata dalla meta­ fora nel Novecento, non solo letterario, passano attraverso la persistente vischiosità delle proposte dei primi lettori - nei quali, però, «metafora» ha per lo più il significato esteso che abbiamo segnalato - per arrivare infine alla convinzione che il traslato (o, almeno, un uso così oltranzista di esso) rappresenti l’apporto di novità del Seicento alla linea poetica italiana rispetto alla più tradizionale antitesi. Infatti, come è noto, numerose testi­ monianze collegano pressoché senza soluzione di continuità l’antitesi secentesca con l’archetipo petrarchesco, vale a dire il sonetto Pace non trovo e non ho da far guerra. Tuttavia, anche senza voler assegnare peso critico eccessivo alla fin troppo lapalissiana obiezione che tutte le figure retoriche sono tradizionali, si possono allegare prove a sostenere la me­ desima matrice petrarchesca anche per la metafora: se trovarne nei Rerum vulgarium fragmenta non è difficile per noi, tantomeno lo era per gli 24. Per il quale si veda DANIELA RIGHI, L'indice metaforico di uno scrittore del Seicento, «Lingua e stile» Bologna, XV, 2 (apr.-giu. 1980), pp. 211-32, che esamina appunto le caratteristiche della metafora continuata tanto frequente nei testi del Neghittoso Accademico Spensierato. 25. «Intanto qui in Torino fo stampare certi miei discorsi sacri, i quali ardisco di dire (e scusimi la modestia) che faranno stupire il mondo. Parrà cosa stravagante e inaspettata, massime a chi non sa gli studi particolari ch’io fin da’ primi anni ho fatti sopra la Sacra Scrittura. Ma è opera da me particolarmente stimata ed in cui io ho durata fatica lunghissima. Spero che piaceranno, sì per la novità e bizzarria della invenzione, poiché ciascun discorso contiene una metafora sola, sì per la vivezza dello stile e per la maniera del concettare spiritoso» (GIAMBATTISTA MARINO, Lettere, a cura di MARZIANO GUGLIELMINETTI, Torino, Einaudi, 1966, p. 167). Le indicazioni fornite al Benamati vengono replicate ad uso del Sanvitale, in maniera più sintetica, e dopo la sanzione del successo pubblico: «Qui ho fatto stampare certi miei discorsi sacri, i quali non tanto per l’erudizione e per la purità dello stile, quanto per la nuova maniera della invenzione, poiché ciascuno di essi si raggira sempre sopra una metafora sola, hanno ricevuto qual­ che applauso» (ivi, p. 177). Quanto alla questione della priorità, la precedenza andrà forse restituita alla Magia d'amore (1581) del Casoni (per una breve ma efficace analisi dei rapporti Casoni-Marino, cfr. CORRADINI, La ricerca metaforica ..., cit., pp. 515-16).

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smaliziati lettori di fine ’500 e del ’600, come si evince dalla lettura del sonetto introduttivo del Canzoniere proposta dal Marino nel dialogo Del concetto poetico2627 ; e perfino la metafora continuata (nella quale, come ho insinuato, più che nella metafora semplice, consiste la novità) può van­ tare, come si poteva sospettare dalla citazione del Meninni, autorevoli precedenti anche nel Canzoniere (dal sonetto Passa la nave mia alla canzone CCCXXV segnalata dal Friedrich)^. Se ora si insiste sull’antitesi, non lo si fa certo per negare la vetustà di un procedimento retorico che resta immutato nei suoi meccanismi, ma piuttosto per sottolineare il diverso statuto che nel Seicento la figura as­ sume nell’ambito del sistema retorico - e la conseguente riorganizzazione cui quest’ultimo è sottoposto —: punto di partenza è la meditazione su Retorica III 10 e in particolare sull’affermazione ivi contenuta (e già citata) che l’ottenimento degli asteia passa attraverso il ricorso alla metafora, all’antitesi e al vigore. Il primo teorico a segnalare nuovamente il legame tra argutezza e antitesi, certo memore delle parole del maestro di color che sanno, è, a mia conoscenza, il Trissino, in tempi ancora non sospetti (anche se forse sospettabili), tanto è vero che la proposta, circon­ data da cautelose riserve, rimase senza esito28. La prima importante testimonianza del mutamento di statuto si ha nel dialogo Del concetto poetico, nelle cui pagine finali assistiamo al tentativo, lì consegnato alla bocca del Marino, di «incorporare i feno­ meni antitetici, 1’'ornatus in verbis coniunctis, nella sfera del concet­ to»29 (anche tramite l’instaurazione di una linea Bembo - Della Casa cui il Marino pare richiamarsi in contrapposizione ad altra rappresentata qui dal Pepi, discretamente svillaneggiato); ora, tale proposta se non 26. PELLEGRINO, Del concetto poetico, cit., ff. 75r.-78r. 27. FRIEDRICH, Epoche della lirica italiana. Il Seicento, cit., p. 99. 28. GIAN Giorgio Trissino, La poetica (I-IV), in Trattati di poetica e di retorica del Cinquecento, a cura eli BERNARD WEINBERG, Bari, Laterza, 1970, I, p. 39: «lo acume poi, o vero arguzia non ha parole dai sensi separate, perciò che specialmente consiste in certe parole al sentimento congiunte; e fassi alcuna volta replicando parola già detta in uno sentimento e prendendola in un altro, come è domandando il Petrarca a Laura, “Dimmi ti priego se sei morta, o viva”, et essa rispondendo, “Viva son io, e tu sei morto anchora”. Nasce lo acume dal prendere queste due parole “viva” e “morto” in altro sentimento di quello che le havea dette il Petrarca. Fassi ancora la arguzia pillando in un medesimo senso due parole, le quali siano di sua natura contrarie, com’è “i miei dì fersi morendo eterni”, perché l’essere eterno è contrario al morire, et “Quando mostrai di chiuder, li occhi apersi”, ché l’aprire è contrario al chiudere. Né solamente a li dui predetti modi si fa l’acume, ma ancora ad altri molti, come è con la similitudine de le parole, con la trasportazione, massimamente se dopo una trasportazio­ ne se ne induce un’altra più aspera, com’è: “Prima era scempio, et hor è fatto doppio”. Ma in queste è da usare molta cura e diligentia; perciò che è gran pericolo di non incorrere ne la freddeza». 29. SCARPATI, Iacopo Mazzoni tra icastico e fantastico, cit., p. 265.

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postula certamente fonda il trasferimento dell’antitesi dall’ambito delle figure di parola - dove era solitamente relegata, ancora ad esempio dal De Nores30 - a quello delle figure di pensiero, dalle lexeos alle dianoia^ per dirla col Tesauro31. La fedeltà alla vecchia classificazione e le suggestioni della nuova proposta paiono portare, nel Peregrini, ad una bipartizione delle antitesi o contrapposti: egli, trattando dell’essenza dell’acutezza, la individua nel «legamento», però «artificioso», il quale può essere tra parole e parole, tra cose e parole, tra cose e cose32. Alle tre classi corrispondono - ma, è bene avvertire, non senza residui - rispettivamente l’antitesi, il traslato e l’entimema; poiché l’andamento espositivo, come spesso accade, è in climax, non stupirà che l’approssimazione all’acutezza sia a mano a mano maggiore; e quindi minima nell’antitesi. Ma la natura del materiale censito costringe il Peregrini ad una ulteriore classificazione, essendogli divenuto evidente che l’antitesi non si esaurisce in quella semplice cor­ rispondenza «di sillaba a sillaba, da parola a parola, di membro a membro e di clausola a clausola», cui pertengono ad esempio la paronomasia e la rima, e che resta al di fuori dell’ambito arguto; ma anzi chiama spesso in causa le «cose», grazie al cui peso «la leggiadria potrà divenir virile, e sottoentrar l’efficacia in luogo del vezzo». E commentando esempi tratti da Cicerone, da Sallustio, da Svetonio riconosce a questo secondo tipo di «contrapposti» carattere arguto: in questi ultimi si vede il trovamento del contraposto esser tanto da lontano; e le co^p congiuntamente cader tanto in acconcio Luna dell’altra; che Panificio viene a mostrar particular virtù d’ingegno, e ger conseguente ad aver l’Acutezza non solo verbale, ma reale, e mirabile ancora33.

Poco più avanti, egli assegna quel legamento delle cose che «consiste in una semplice collocazione» delle parole - cioè, par di capire, il legamento tra parole - alla sfera dei sensi e affida invece il riconoscimento del lega­ me tra cose (qui identificato con l’enunciazione entimematica) all’intel­ letto34. Ne consegue una valutazione del contrapposto differente da quella postulata in partenza: esso, infatti, non è più considerato un legamento che riguarda solo le parole (e che quindi non ha nulla a che vedere con l’entimema), ma un legamento che chiama in causa anche le cose. Da

30. GlASON De NORES, Breve trattato delToratore, in Trattati di poetica e retorica ..., cit., Ili, p. 132. 31. Il trasferimento è segnalato come caratteristico elei Seicento da BATTISTINI RAIMONDI, Retoriche e poetiche dominanti, cit., p. 105. 32. Peregrini, Delle acutezze..., cit., p. 33. 33. Ivi, p. 36. 34. Ivi, pp. 39-40.

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questo approdo concettuale discendono due importanti corollari: il primo è che anche il contrapposto (l’antitesi) ha natura entimematica (in quanto, lo ripetiamo, convoca anche le cose, non solo le parole); il secondo è che il contrapposto (l’antitesi) concerne sia la sfera sensoriale sia la sfera intellettiva. Le riflessioni del Peregrini sembrano riecheggiare, una quindicina d’anni più tardi, nelle pagine del Cannocchiale aristotelico, che ribadi­ scono l’appartenenza dell’antitesi sia alle figure armoniche - che sono quelle che «lusingano il senso dell’udito con l’armonica soavità della pe­ riodo» - sia alle ingegnose, che «compiacciono l’intelletto con la significa­ zione ingegnosa» (p. 124). Ma il Tesauro sembra anche sancire definitiva­ mente lo spostamento dei fenomeni antitetici alla sfera dell’intelletto: da una parte perché la trattazione dell’antitesi fra le figure armoniche è molto limitata e rimanda espressamente a quella che con più agio se ne darà tra le ingegnose (p. 130), dall’altra perché propone anch’egli una distinzione tra opposizioni limitate al piano dell’espressione ed opposizioni estese a quello del contenuto: solo le seconde - le uniche, del resto, nella grande congerie di figure convocate, che coincidono con ciò che si intende modernamente con antitesi - meritano il titolo di figure ingegnose: sono cioè Metafore (di opposizione) e concorrono alla costituzione dell’arguzia. La quale, a sua volta, anche nella trattazione del Tesauro è inestricabil­ mente connessa all’entimema: di qui il necessario recupero della natura entimematica dell’antitesi, che dalla Logica aristotelica approda infine alla retorica tesauriana: «la Contraposizione ha certa forza entimematica, che, nonché appaghi anzi violenta l’intendimento» (p. 292)3°. Alla voce dei trattatisti fa adeguato riscontro la prassi degli scrittori, pur se la carenza di indagini analitiche aumenta il grado di alcatorietà di qualsiasi ipotesi. Almeno per il Marino, tuttavia, grazie agli interventi di Pozzi e della sua scuola, possediamo materiali a sufficienza; ed è cosa nota come punto di forza dell’interpretazione dell’Adb/ze proposta dal mae­ stro friburghese sia proprio la struttura a due fuochi oppositivi che regge il poema nell’intero e nei dettagli. La medesima «disposizione rigorosa­ mente simmetrica di elementi antitetici all’interno di un sistema chiuso» è stata rintracciata dai curatori delle Rime marittime35 36; ed un pur sommario esame delle Amorose conferma non solo, come ci si potrebbe anche attendere, la frequenza del ricorso alle antitesi - spesso, ma nemmeno questa è osservazione originale, in una sede fortemente 35. La natura entimematica si manifesta perfino nelle antitesi puramente «armoniche»: «tu osserverai, che ancor la simplice Enunciazione con la Egualità de’ Membri, ha una certa forza Entimematica, che ti appaga l’intelletto, e ti persuade, né sai perché» (pp. 441-42; e v. anche p. 491). 36. MARINO, Rime marittime, cit., p. 13.

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marcata quale è quella conclusiva -, ma anche la sua funzione di elemento strutturante l’intero canzoniere3'. Una straordinaria coerenza di intenti sembra insomma governare il fare poetico del Marino dalle giovanili dichiarazioni consegnate al dialogo Del Concetto poetico alle Rime all’opera infine di tutta una vita. Anche nel settore prosastico è dato individuare interessanti riscontri in ambienti e personaggi che di solito si è portati a ritenere omologhi, in un certo senso, al Marino: così, le Cento novelle amorose degli Incogniti sono costruite, come ha dimostrato il Porcelli, su una sapiente dispositio binaria a membri con­ trapposti o simili, sia tra novelle e novelle, sia all’interno di ciascuna di esse37 38. E il Tesauro ritorna a segnalarsi, stavolta come scrittore in proprio e non più come trattatista, per la particolare frequenza e pregnanza del ricorso all’antitesi in ambito sia di elocutio sia, ancor più significativamente, di dispositio39. In attesa di ricognizioni nel contempo più estese e più analitiche, dalle rapide incursioni qui effettuate nei vasti territori della produzione lettera­ ria e critica del Seicento si potrà comunque trarre qualche conclusione, pur provvisoria, e qualche ipotesi. Il centro del bersaglio su cui si esercita la poesia barocca resta, per un lungo arco di tempo, l’argutezza (o con­ cetto o spirito o vivezza o arguzia etc.), la cui caratteristica fondamentale (o ragion formale) viene fatta consistere - come testimoniano in particolare Peregrini e Tesauro - nell’entimema. Questa strenua ricerca conduce in un primo momento alla valorizzazione e al perseguimento della metafora semplice, sorta di concentrato del sillogismo incompleto e (logicamente) scorretto. Ma il ricorso ad essa pone presto il poeta barocco di fronte ad una contraddizione insanabile tra l’esigenza arguta e quella comunicativa, poiché Teliminazione di una delle premesse - il ground o il tenor - pro­ voca molto spesso la incomprensibilità della metafora, tanto più in un periodo storico in cui il sistema endoxale tramandatosi fin da Aristotele 37. ID., Rime amorose, a cura di OTTAVIO BESOMI e ALESSANDRO MARTINI, Modena, Panini, 1987, p. 42. 38. BRUNO PORCELLI, Le novelle degli «Incogniti»-, un esempio di «dispositio» barocca, «Studi secenteschi», Firenze, XXVI, 1985, pp. 101-39. 39. Cfr. infra, cap. 1.2. Si leggano anche le conclusioni cui perviene, sia pure di pas­ sata, l’Ossola a proposito delVEdipo tesauriano (Tragedia tirata da quella di Lucio Anneo Seneca, Torino, Zavatta, 1661): «tutto è nel testo del Tesauro anfibologia, am­ biguità, gioco di parole, tutto si protende e si risolve in ossimoro, sin dal prologo in musica» (CARLO OSSOLA, «Edipo e ragion di Stato»: mitologie comparate, «Lettere ita­ liane», Firenze, XXXIV 4, ott.-dic. 1982, pp. 482-505, a p. 499; poi apparso come introduzione a EMANUELE TESAURO, Edipo, a cura di CARLO OSSOLA. Commento e note di PAOLO GETREVI, Venezia, Marsilio, 1987, acutamente recensito da STEFANO VER­ DINO, «Rassegna della letteratura italiana», Firenze, XCII 1, gen.-apr. 1988, pp. 18990). Sulle tragedie si veda ora PlERANTONIO FRARE, Retorica e verità. Le tragedie di Emanuele Tesauro, Napoli, E.S.L, 1998 (per l’antitesi, in particolare le pp. 137-48).

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senza modifiche veramente notevoli cominciava a subire le prime forti contestazioni4041 . Ciò contrastava con la richiesta barocca di socialità della parola poetica, di accordo tra produttore e lettore. Per instaurarlo nuova­ mente si finisce per depotenziare le metafore più ardite recuperando in qualche pur surrettizio modo il termine taciuto: ad esempio puntando sul garante della tradizione o addirittura dichiarandolo nel cotesto più o meno prossimo o, molto tipicamente, consegnandolo al titolo; o infine, senza tanti complimenti, lavorando quasi esclusivamente su metafore in prae• 41 sentia . Ora, un entimema senza almeno una premessa taciuta non è più un entimema: una metafora che esibisce tutti i suoi costituenti non solo si av­ vicina sempre più alla similitudine, ma soprattutto vede progressivamente sbiadire il proprio valore entimematico, con il risultato di non potersi più proporre quale elemento fondante l’arguzia. Di qui, scartata o poco fre­ quentata la fuga in avanti del ricorso alle metafore cosiddette ardite (in realtà, contestualmente non spiegate né spiegabili), nascono i tentativi di ripristinare la parentela con l’entimema ricorrendo all’accumulazione dei procedimenti metaforici: avremo allora le filatesse di metafore e, con maggior fondamento logico e miglior esito, le metafore continuate, ad un certo momento vere protagoniste della retorica barocca. La meditazione su Retorica III 10 apriva però anche un’altra possi­ bilità, quella rappresentata dall’antitesi: il ricorso ad essa a fini arguti ne postulava tuttavia la preliminare catalogazione tra gli entimemi, cui sa­ rebbe conseguentemente ed inevitabilmente seguita la sua promozione a figura di pensiero. Il recupero e il potenziamento della larvale struttura entimematica tradizionalmente attribuita all’antitesi la accosta d’altra parte alla metafora, riducendo una distanza che ad un esame ravvicinato e sia pure partigiano - appare eccessiva: anche l’antitesi consiste infatti nel rapporto tra due termini sulla base di un elemento comune - il campo semantico cui pertengono i poli dell’opposizione - sottaciuto42. E si noti, inoltre, che i relata antitetici si situano ai due estremi opposti di un asse di significato, incarnando così al meglio il progetto barocco - relativo alla metafora - della massima distanza tra gli oggetti convocati. Le importanti 40. Inevitabile il rimando a MORPURGO-TAGLIABUE, Aristotelismo e barocco, cit., in particolare alle pp. 133-36. 41. Emblematico, tra i tanti, il caso del Brignole Sale, che nelle Instabilità dell’ingegno e nel Satirico innocente si preoccupa «di rendere intelligibili i propri processi metafo­ rici», ricorrendo addirittura ad incisi esplicativi: cfr. MARCO CORRADINI, La parabola letteraria di Anton Giulio Brignole Sale, «Aevum», Milano, LXIV 3, set.-dic. 1990, pp. 395-430: 402 (ora in ID., Genova e il Barocco. Studi su Angelo Grillo, Ansaldo Cebà, Anton Giulio Brignole Sale, Milano, Vita e Pensiero, 1994, pp. 247-308). 42. Eia evidenziato questa somiglianza, a proposito dell’Adone, il GUARDIANI, La meravi­ gliosa retorica..., cit., pp. 129-43.

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differenze morfologiche che nonostante ciò persistono vengono attenuate dalla prassi e dalla teoresi secentesca: così, ad esempio, se è vero che nell’antitesi il rapporto è sempre in praesentia^ e nelle metafore general­ mente in absentia, abbiamo anche visto quanto raramente si dia quest’ultima modalità; e la predominante finalità arguta dell’uso finisce per revocare in dubbio anche la supremazia (anzi, l’esclusiva) conoscitiva che la speculazione novecentesca assegna alla metafora. Si aggiungano infine altri due elementi: la potenzialità iconica posse­ 44, che non poteva certo sfuggire ad una cultura tanto duta dall’antitesi43 interessata ai problemi della visione, e il fatto che essa, in quanto figura armonica e ingegnosa insieme, pertiene sia elocutio sia alla dispositio e si rivela quindi disponibile, già lo si è visto, anche come elemento di organizzazione macrotestuale, proponendosi inoltre a figura simbolo di una retorica che, lungi dal ridursi al solo troncone elocutivo, intende costituirsi come «l’estrema difesa di una cultura integrata»45. La presenza di un polo metaforico e di un polo antitetico attorno a cui la ricerca dell’argutezza volta a volta si dispone preferenzialmente era già stata segnalata dal Morpurgo-Tagliabue nel suo fondamentale Aristotelismo e barocco. Credo, tuttavia, che vada corretto, anche alla luce di quarantan­ ni di ulteriori studi, il corollario di quell’assioma che stabilisce una ripartizione per generi (e, quasi consequenzialmente, per nazioni) delle due sfere di influenza: posto che «dipende per lo più dal genere letterario, lirico o drammatico, il prevalere del momento metaforico o antitetico del concetto», il critico ne deriva che L’aspetto metaforico e imaginoso, il brillìo verbale, Vornatum è proprio del marinismo italiano come del preziosismo francese, e del cultismo e dell’eufulsmo etc., tutte forme che abbiamo radunato nel genere concettista. Nei tragici spagnoli e francesi, invece, ma particolarmente in Corneille, domina l’antitesi, ràvTlKeqiévoq, la nervatura dialettica, la dispositio del pensiero oratorio46.

43. 0 forse non sempre, se diamo retta ad alcune paradossali antitesi in absentia pro­ posteci dal Tesauro: «Così, perché mentre navighiamo lungo il lito, egli ci par che la Nave sia immobile, e T lito fugga; Virgilio (seguendo la fallace opinione) invece di dire, Navis fugit ; disse Litora diffugiunt', che è un Mirabile della categoria del Movimento» (p. 450). Nei Discorsi dell’arte poetica il Tasso cita, tra le traslazioni dalTanimato alTinanimato il verso «intanto fugge e si dilegua il lito», attribuendolo inesattamente all’Ariosto (Discorsi dell’arte poetica, in ID., Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di LUIGI POMA, Bari, Laterza, 1964, p. 48). Il concetto virgiliano è svolto con ampiezza da Marino, Adone, cit., I 53: «Ed ecco al sospirar d’agevol óra / s’allontana l’arena a poco a poco, / sì che mentr’ei dal mar si volge ad essa / par che navighi ancor la terra istessa». 44. «L’antitesi contrappone spazialmente due membri che sono anche contrapposti con­ cettualmente»: CESARE Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985, p. 58. 45. BARILLI, Poetica e retorica, cit., p. 164. 46. MORPURGO-TAGLIABUE, Aristotelismo e barocco, cit., pp. 149-50 e 184-85.

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Abdico per incompetenza alla discussione del secondo membro del periodo e sorvolo per comodità sugli spostamenti di significato che il termine «marinismo» ha subito dal 1954 a oggi; ritengo tuttavia difficile sostenere la monoliticità del «marinismo» attorno all’aspetto «metaforico e immaginoso». Abbiamo appena visto, infatti, che proprio le opere di coloro che dovrebbero essere i portabandiera di questa tendenza, vale a dire il Marino e il Tesauro, mostrano una forte propensione a militare nell’altro campo. L’ipotesi che la poesia marinana inauguri o, per meglio dire, riprenda una linea antitetica che si oppone a quella metaforica dei suoi più anziani concorrenti41 e che meglio e prima di essa arrivi al traguardo dell’argutezza - facendo comunque sempre salvi i diritti della locuzione47 48 - è tentante: in attesa di ulteriori verifiche - o smentite - ana­ litiche valga averla offerta ed aver nuovamente sottolineato la complessità e vivacità di una poesia da troppo tempo costretta sul letto di Procuste della metafora.

47. Si veda ad esempio come il Casoni dopo una iniziale incertezza tra antitesi e me­ tafore, che nelle sue Ode «non appaiono concorrenziali» incrementi progressivamente, nelle successive edizioni, solo queste ultime: CORRADINI, La ricerca metaforica ..., cit., p. 509. 48. Questa sembra essere la scommessa consegnata alle pagine finali Del concetto poetico-. «Ma non è che da buono Ingegno ed elevato intelletto in una composizione non possa conseguirsi e l’uno e l’altro ornamento e degli antiteti e delle locuzioni» (PEL­ LEGRINO, Del concetto poetico, cit., p. 358-59): cfr. ALESSANDRO MARTINI, Marino postpe­ trarchista, «Versants», Lausanne, 7 (1985), pp. 15-36: 20-21.

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ILI. MARINO E TESAURO: ANTITESI, METAFORA E ARGUTEZZA In apertura del secondo pannello del dittico, che si propone di verificare sui testi la validità delle teorie del Tesauro, non sarà inutile un breve riepilogo degli snodi fondamentali del Cannocchialeche funzioni insieme da richiamo essenziale e da guida alla lettura delle opere poetiche. Il cuore del Cannocchiale aristotelico è costituito dalla trattazione in­ torno alla Metafora, che occupa i capitoli VII, Vili e IX dell’opera, per un totale di 234 pagine sulle 740 (numerate: restano esclusi Dedica e Indice) dell’edizione del 1670. La metafora del Tesauro, tuttavia, non coincide con la nostra, come ormai sappiamo: il trattatista distingue tutte le figure retoriche in armoniche, patetiche e ingegnose1. La metafora rientra nell’ul­ tima classe, quella delle figure ingegnose, «cioè DIANOEAS o sia Sen­ tentiae» (p. 235), vale a dire di pensiero12. Essa viene definita come «PA­ ROLA PELLEGRINA, VELOCEMENTE SIGNIFICANTE UN OBIETTO PER MEZZO DI UN ALTRO» (p. 302) e poi suddivisa in otto classi (ricavate dal riordino della trattazione fornita da Aristotele in Poetica 21 e in Retorica III 10 e 11): metafora di somiglianza (o di proporzione: da specie a specie e da genere a genere), metafora di attribuzione (da specie a genere e da genere a specie), metafora di equivoco, metafora di ipotiposi, metafora di iperbole, metafora di laconismo, metafora di opposi­ zione, metafora di decezione. Come sarà apparso chiaramente anche dalla terminologia esibita, il Tesauro raggruppa sotto la denominazione di me­ tafora un po’ tutte le figure retoriche, purché «ingegnose» (cioè, semplifi­ cando, prodotte dall’intelletto e ad esso destinate): in realtà, solo la me­ tafora di somiglianza coincide con ciò che comunemente si intende per metafora. Non bisogna però credere che ogni metafora (ogni figura ingegnosa) sia argutezza: alla classificazione tipologica ora ricordata, se ne intreccia una assiologica, che distingue tra «metafora semplice» (cap. VII), «proposizio­ ne metaforica« (cap. Vili) e «argomento metaforico» (cap. IX). Cediamo la parola al Tesauro, che così riassume brevemente la differenza, che è anche gerarchica, tra i tre gradi della metafora: 1. «Ora, conciosiaché ogni uman godimento consista nel satisfare ad alcuna delle tre umane facoltà, Senso, Affetto, Intelligenza: ancor delle Figure, altre sono indirizzate a lusingare il Senso delPUdito, con l’Armonica soavità della Periodo. Altre a commuover VAffetto con la energia delle forme vivaci. Et altre a compiacer l’Intelletto con la Significazione ingegnosa. Et eccoti tre supremi et adequati Generi, onde si spandono tutte le Rettoriche Figure: cioè, ARMONICO, PATETICO, et INGEGNOSO» (p. 124). 2. Anche se la riflessione contemporanea tende a cancellare o quantomeno a ridiscutere la tradizionale distinzione tra figure di parola e figure di pensiero, essa resta pertinente per il Tesauro.

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lo li scoprii a carte 279 tre differenze di Metafore di Proporzione. Altre di simplice PAROLA METAFORICA, fabricate dalla prima operazion dellTntelletto, come se per dire Ira tu dicessi Ignis. Altre di PROPOSIZION METAFORICA, più nobilmente nate nella seconda region dellTntelletto, come IgJiis gladio non est fodiendus, per dire; irritanda non est magnorum ira. Le ultime, di AR­ GOMENTO METAFORICO, fabricate nella suprema sfera dellTntelletto, come a dire: «Quaeris cur Saguntum arserit? Romanorum ignem gladio foderat». E questa è la figura più nobile, e più arguta: anzi è la vera Argutezza, che prende il nome àMPArgomento, come ti ho dimostrato a carte 481 (p. 638).

Mi limiterò a poche parole di commento e di integrazione, che segnalino intanto le caratteristiche «formali» (della forma «accidentale» o «mate­ riale»: p. 493) delle prime due entità censite dal Tesauro: la metafora semplice consiste in una Parola argutamente presa per un’altra'. o in poche parole esprimenti una sola notizia', come se tu chiami l’Amore FUOCO: e la Rosa REIN A DEI FIORI. E la Guerra, NAUFRAGIO DELLE REPUBBLICHE (p. 481);

mentre la proposizione metaforica coincide con la metafora continuata o allegoria, come chiarisce bene sia la proposizione del tema ad apertura del capitolo ottavo («Ora qui è mio pensiero di ragionar di piè fermo della Proposizione Metaforica, e dell5ALLEGORIA, la quale altro non è che una Metafora continuata» (p. 482), sia la pratica della trattazione, che si esaurisce appunto nell’esame della metafora continuata o allegoria. La differenza fondamentale, invece (la ragion formale), consiste nel fatto che ciascuno dei tre gradini metaforici utilizza una diversa «opera­ zione» (aristotelica) dell’intelletto: il «concetto» (o «apprensione») pre­ siede alla creazione della metafora semplice, il «giudizio» a quella della proposizione metaforica, infine il «sillogismo» sovrintende alla nascita dell’argomento metaforico. E proprio l’assunzione della graduatoria aristo­ telica a giustificare, per analogia, la gerarchia fra i tre gradi metaforici: «sicome la prima operazione dell’intelletto serve alla Seconda, e la Se­ conda alla Terza: così dalle simplici Parole Metaforiche nascono le Pro­ posizioni metaforiche: e da queste gli Argomenti metaforici» (p. 481). Tuttavia, qui preme soprattutto sottolineare un altro acquisto concet­ tuale, di particolare importanza poiché pertinente al tema dell’opera, che è la trattazione dell’elocuzione arguta e ingegnosa: mi riferisco alla piena identificazione del terzo gradino, cioè gli «argomenti meta­ forici», con le argutezze (designate anche «concetti arguti», «entimemi urbani», «urbanità entimematiche», «argomenti urbanamente fallaci» [pp. 487-89], con variazioni sinonimiche sì ma non prive di signi­ ficato). Essa era già stata proposta ad apertura di libro, ma in modo meno risoluto: 104

questi Mirabili e Pellegrini parti dell’umano ingegno, chiamati Arguzie, com­ prendono primieramente le Simplici Parole Ingegnose', cioè Figurate e Meta­ foriche: di poi le Proposizioni Ingegnose', come le sentenze acute, e figurate. Finalmente, gli Argomenti Ingegnosi', che con maggior ragione chiamar si pos­ sono CONCETTI ARGUTI (p. 8).

Al termine della lunga trattazione, il Tesauro, pur ammettendo che meta­ fore semplici e proposizioni metaforiche costituiscono la base dell’argu­ tezza, riconosce nei soli argomenti metaforici le arguzie degne di tal nome: Queste [proposizioni] adunque sono Argutezze della SECONDA OPERAZION DELL’INTELLETTO: assai più nobili e ingeniose, che non son quelle della prima. Per necessaria consequenza adunque, perfettissima e sopra tutte l’altre ingeniosissima sarà quella che si fabrica dalla TERZA OPERAZIONE dell’intel­ letto. Anzi questa sola merta il nome di arguzia, che nasce àaM argomento : proprio parto di quella terza facultà della umana mente (p. 487).

E questa è altra affermazione che vale la pena di ritenere, poiché signi­ fica, come ha già sottolineato lo Scarpati, che «l’idea di argutezza rimanda a una sostanza ragionativa, a una sorta di discorso implicato, di raccorciamento in cui l’energia discorsiva e semantica si accumula per poi espandersi nella decifrazione»3: con un ancoraggio all’etimo di arguzia (da arguere: dimostrare, argomentare) che oggi si è perso, intendendosi per arguzia: vivacità, sottigliezza, spiritosaggine. Che cosa è dunque questa argutezza, per certi versi simile alla pantera dantesca, che il Tesauro è venuto cacciando per centinaia di pagine? Ascoltiamone le parole definitive e definitorie: «Conchiudo l’ENTIMEMA URBANO, essere una Cavillatione ingegnosa, in Materia Civile: scherze­ volmente persuasiva: senza intera forma di sillogismo: fondata sopra una Metafora» (p. 495). Fin qui la definizione: ancora da arricchire, però, poiché subito prima il Tesauro aveva assegnato all’argutezza un’altra fondamentale caratteristica, la fallacia: «l’unica loda delle Argutezze» consiste infatti «nel saper ben mentire» (p. 491), come il trattatista veri­ fica esaminando, ad uso del lettore, le dieci argutezze proposte ad esem­ pio: tutte fondate su vari paralogismi (ex signo, a falsa analogia, a non causa prò causa, etc. [p. 490]) eliminati i quali si «divelle» «la radice dell’Argutezza» (p. 491). Tuttavia, in tal modo il Tesauro opera un ri­ mando ai luoghi degli entimemi apparenti che presenta, per il lettore, il non lieve inconveniente di un confronto con le «spinosità Dialettiche» della logica: con la conseguenza - della quale il malcapitato giustamente si preoccupa - di dover quindi apprendere, per comporre argutezze, «le Maniere degli Argomenti fallaci, che scapezzar potrebbono un cervel di 3. SCARPATI, La metafora al di là del vero e del falso in Emanuele Tesauro, cit., p. 48.

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ferro» (p. 497). Ed ecco qui allora il colpo d’ingegno del Tesauro, che stabilisce una proporzione tra dialettica e loci da una parte e retorica e figure dall’altra: Dicoti adunque, che sicome il Concetto Arguto è un ENTIMEMA URBANO; cioè Metaforico', così, se 1 Dialettico deriva le sue Cavillazioni scolastiche da’ Luoghi Sofistici: il Retorico deriva le sue Cavillazioni Metaforiche dalle Otto Metafore; che sono invece di Luoghi.

Se il lettore sapeva già trovare metafore semplici (aveva già competenza figurale attiva), il più è fatto: Se dunque fin qui senza tanta Loica, tu apprendesti a fabricar col tuo ingegno le Parole Metaforiche: et indi a continuarle nelle Metaforiche Proposizioni, con l’Allegoria: così col medesimo ingegno; ma aggiuntovi un poco di Discorso', potrai tu fabricar gli Entimemi metaforici che tu desideri (ibid.).

Basterà, una volta posto il tema (o soggetto), applicarvi una delle tre seguenti operazioni dell’intelletto: ADDURRE alcuna ragione di quel Suggetto: [...] DEDURRE da quel Suggetto alcuna consequenza; [...] [RIFLETTERE] sopra due circonstanze di quel Suggetto; che abbiali fra loro alcuna proporzione o sproporzione (p. 498).

Poiché la didattica è componente fondamentale del Cannocchiale aristotelico (dalle istruzione per la compilazione di un indice catego­ rico - quasi un softivare per la generazione di metafore - ai diciannove Teoremi prattici per fabricar concetti arguti), il Tesauro passa subito alla dimostrazione, proponendo dieci argutezze modello che poi esamina partitamente sulla base delle categorie teoriche proposte. Ecco come viene anatomizzato, ad esempio, il motto di Sergio Galba; che contra Libone adduceva molti testimoni, ma tutti suoi dimestici. Onde ripigliato da Libone: «Quando tamdem, Galba, de Triclinio tuo exibis?» rispose tosto: «Quando tu de cubiculo alieno» (p. 488).

Postilla il Tesauro: La Risposta di Galba è Reflessiva: «Quando tandem, Galba, exibis de Triclinio tuo? Quando tu de cubiculo alieno». Dove tu vedi un tragitto del veloce Intelletto a due obietti correlativi. Ma percioché questa Correlazione è imaginata, non vera: ella è perciò una Metafora di Opposizione. Ancor ci vedi congiunta VAdduzione con la Re­ flessione. Peroch’essendo la Tema: Galba non exit de cubiculo [sic: ma leggi triclinio} suo: ci adduce questa finta ragione: «Quia Libo non exit de cubiculo alieno» (p. 499)1.

4. Tra gli studiosi moderni del Tesauro, ha assegnato particolare rilevanza alle stesse pagine qui riassunte e commentate PROCTOR (Emanuele Tesauro. A Theory of thè Conceit, 106

Irresistibile assale a questo punto la tentazione di trasporre la teorizza­ zione del Tesauro sulla prassi poetica del Marino. Data la vastità del ma­ teriale, ho operato su una campionatura, limitando le mie indagini a 155 componimenti, scelti dalle Rime e dalla Galeria', un sonetto ogni tre (a partire dal primo) delle sezioni Amorose. Marittime e Boscherecce (per un totale di 74), ancora un componimento ogni tre (sempre a partire dal pri­ mo di ogni serie) dalle Favole, dalle Historie e dai Ritratti di Prencipi. Capitani ed Heroi (per un totale di 81 testi)0. Occorre innanzitutto segnalare la scarsità di testi non contras segnati dal ricorso all’arguzia: 28 su 155 (con significative differenze: dalle Rime [17] alla Galeria [11], infatti, la percentuale quasi si dimezza e nelle stesse Rime si verifica una notevole sfasatura tra le Amorose [2 su 27] da una parte e le Marittime e le Boscherecce dall’altra [6 su 17; 9 su 30]6. Evidente, nel caso delle Rime amorose l’influsso esercitato da una tradi­ zione che forniva una casistica innumerevole; e nel caso della Galeria l’influenza del soggetto e dell’intento encomiastico. Vediamo qualche esempio, anche per chiarire quali sono i criteri che mi hanno guidato nella discriminazione tra presenza e assenza di argutezza. Particolarmente interessante il sonetto 34 delle Amorose: Al signor Ambrogio Pigino dipintore famosissimo Ben può, FIGIN, de la tua nobil mano lo stil certo divin, l’arte celeste Falle bellezze e le sembianze oneste formar de l’idol mio sommo e sovrano.

Ma quei lumi ombreggiar presume invano, che quasi gemme lucide conteste copre e nasconde la mortai sua veste, con terreni colori ingegno umano.

Può ben uom de la neve il bel candore e del foco il vermiglio in tela espresso ritrar, ma non il gelo e non l’ardore,

cit.), che preferisce però esaminare il versante logico (individuazione del tipo di paralo­ gismo sotteso alle argutezze esaminate) piuttosto che quello retorico e più specificamente figurale. 5. Ho fatto ricorso alle seguenti edizioni, dalle quali ripeto anche la numerazione: Giovanni Battista Marino, La Galena, a cura di Marzio Pieri, Padova, Liviana, 1979, 2 voli.; MARINO, Rime amorose, cit.; ID., Rime marittime, cit.; ID., Rime boscherecce, a cura di JANINA HAUSER-jAKUBOWICZ, Modena, Panini, 1991. 6. Ecco l’elenco completo: Rime: Amorose: 34, 40. Marittime: 1, 25, 28, 31, 37, 49. Boscherecce: 1, 10, 16, 28, 43, 49, 61, 82, 85. La Galeria: Favole: 39, 67. Historie: 12, 25a. Ritratti: 1, llb, 13, 49, 58, 60a, 63.

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e la forma imitar del sole stesso ma ‘1 moto e la virtù del suo splendore in pittura mostrar non è concesso.

La struttura del testo è chiaramente argomentativa: la tesi (il tema) che la pittura può rappresentare le fattezze esterne dell’amata ma non le sue qualità interiori è sostenuta e avvalorata dal ricorso agli esempi della neve, del fuoco e del sole. Soddisfatta dunque l’esigenza argomentativa (ricordiamo ancora che il Tesauro fa derivare argutezza da argumentum), il sonetto in esame lascia però inevasa la qualifica fondamentale di questo argomentare, che deve essere fallace, in quanto «le Perfette Argutezze, e gli ‘ngeniosi Concetti» non sono altro «che ARGOMENTI URBANA­ MENTE FALLACI». Infatti, prosegue il Tesauro, ricercandoti io, «Per qual cagione la gragnuola cada la state, e non il verno»: se tu mi rispondi, «che la seconda Region dell’Aria d’inverno è calda, di estate è fredda per l’antiperistasi: e perciò il vapor colà pervenuto; di state si congela e non d’inverno»: l’è bella veramente, e dotta risposta meteorologica: ma tu non l’annoveraresti fra quelle Risposte Argute: né tu la chiameresti Concetto di Epigramma, benché tu la travesti di poetico metro: peroché la Ragione, per sé medesima, senz’alcun fingimento dell’intelletto, è cosa vera, e concludente (pp. 489-90).

Così, pur essendo quella del sonetto «materia civile» e quindi di stretta pertinenza dell’argutezzaz, argutezza non si dà, poiché l’asserzione che la pittura non è in grado di rappresentare le qualità «è per sé vera e con­ cludente», come veri e concludenti sono gli esempi addotti. Ricordiamo, ancora, che la perfetta argutezza è inoltre fondata su una Metafora («Conchiudo TENTIMEMA URBANO, essere una Cavillazone ingegnosa, in Materia Civile: scherzevolmente persuasiva: senza intera forma di Sillogismo: fondata sopra una Metafora» [p. 495]), naturalmente intesa nel senso ampio che il Tesauro assegna al termine: traslitterando, diremmo che l’argutezza si fonda su una figura retorica che abbia la caratteristica di essere «ingegnosa». Le opere del Marino lasciano tuttavia spazio a numerosi componimenti conclusi da concetti non fondati su figure retoriche: all’interno del mio campione ne ho rintracciati 21, di cui 6 nelle Rime e 15 nella Galeria3. Vediamo anche qui qualche esempio: 7. Vale anche la pena di ricordare che, partito da una limitazione della «materia» dell’argutezza a quella medesima della retorica - vale a dire quella «che in una parola il nostro Autore chiamò MATERIA CIVILE: cioè, V Onesto, TUtile, il Giusto e lor contrari» (p. 545), il Tesauro approda infine ad un allargamento della giurisdizione delle argutezze a qualunque ambito (pp. 545-48). 8. Rime'. Amorose'. 7, 16, 31. Marittime'. 16, 40. Boscherecce'. 67. La Galeria'. Favole'. 7b, 31, 33a, 36, 54, 59, 70a. Historie-. 23, 25b’, 29, 37. Ritratti'. 24a, 25b, 34, 68.

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Rime Marittime. 16. A Tritone e a Proteo

Triton, deh s’hai pietà de’ miei tormenti, gonfia la tromba tua torta ed adonca, e ‘ndietro a suon di rauca voce e tronca richiama i bianchi e procellosi armenti.

Proteo e tu che gli affreni e gli rallenti e guidi fuor de la muscosa conca, che riedano a la cupa ima spelonca da’ lor liquidi paschi ornai consenti. Tornili tranquilli i molli campi azurri, sia la foce d’Eolia in tutto chiusa, restin taciti i venti, e Fonde immote.

Perché dal fremer lor, da’ lor sussurri fatta sorda ormai Lilla, empia si scusa che i miei preghi, i miei pianti udir non puote.

Credo che la differenza rispetto al sonetto citato poc’anzi risulti evidente: in entrambi i casi il testo è costruito su una filigrana dimostrativa, ma in questo caso l’argomentazione (il poeta prega Tritone e Proteo di rendere il mare tranquillo, poiché il suo rumore è ciò che impedisce a Lilla di udire le sue preghiere) si fonda su un entimema (nel senso non di sillogismo fondato su premesse probabili o in cui si tace una delle premesse, ma in quello di sillogismo scorretto), su una cavillazione urbana fonte di piace­ vole inganno: è fin troppo chiaro che non è il rumore del mare a vietare a Lilla di sentire la voce dell’io poetico. Naturalmente, il fatto che l’argutezza non sia basata su una figura retorica non significa che queste ultime siano assenti dal testo in esame, tutt’altro (una ricerca non particolarmente attenta individuerà a colpo d’occhio soprattutto la metafora continuata mare = campo, da cui «ar­ menti», «affreni», «muscosa conca», «cupa ima spelonca», «liquidi pas­ chi», «molli campi azurri»): significa, più esattamente, che la figura non è necessaria allo svolgimento argomentativo, poiché esso si dipana indipendentemente dal ricorso a figure ingegnose. Nella terzina finale, infatti, la sordità di Lilla si darebbe anche se i rumori del mare, anziché antropomorfizzati (consegnati a metafore di ipotiposi, direbbe il Tesauro), fossero espressi letteralmente. Diversa sarebbe la questione se la sordità di Lilla fosse da intendersi e in senso letterale e in senso metaforico (sordità come = durezza): in questo caso l’argutezza non potrebbe pre­ scindere dall’equivoco tra il senso letterale e il senso metaforico di 13. sorda. Ma il verso finale, nonché introdurre un’isotopia metaforica, con­ ferma quella letterale. 109

Nella Galeria. come abbiamo visto, i concetti che non riposano su fi­ gure (e che quindi il Tesauro non considererebbe argutezze) sono oltre il doppio che nelle Rime (almeno relativamente ai campioni esaminati): ciò è dovuto anche al fatto che l’opera si presta, per sua stessa natura, alla sperimentazione di moduli argomentativi specifici. Tipico quello, fondato sul paralogismo dal finto al vero (base della metafora di equivoco, direbbe Tesauro)910 , riassumibile nei seguenti punti: 1. A è dipinto (scolpito) tanto bene da sembrare vivo (premessa taciuta); 2. A è vivo; 3. Allora perché A non si muove (non parla, non piange, non combatte, ecc.)?; 4. Perché una qualche circostanza interna alla raffigurazione o relativa alla fabula (cioè cotestuale o contestuale) non glielo permette. Allego due degli otto casi presenti tra il materiale censito1 : La Galeria. Historie. [25b’j Madonna del Contarmi A pura Verginella stassi nel grembo assiso vivo e vero fanciul di Paradiso. Vive, ma non favella, ché tenera non potè formar la lingua ancor distinte note. Udresti i pianti almeno, se doler si potesse in sì bel seno.

Ibid.. [29] Il martirio di Santa Caterina Vergine del Contarmi B

Questa in ricca tabella bella tra i ceppi e tra le rote imago de la reai di Dio sposa ed ancella, opra è de l’Arte, ed ella fa che viva, e che spiri. Chiedi tu, che la miri, ond’è, che non favella? Non sa la Vergili bella (tanta sente dolcezza in fra i martiri) non che voci formar, tragger sospiri.

9. «Similmente le cose dipinte, e le scolpite, cagionano equivocazione tra ‘1 finto, e ‘1 vero [...]. E da questa fonte nascon tutte le acutezze, che si compongono sopra le Pitture o le Sculture’, venendo tutte a conchiudere un Equivoco tra ‘1 protratto e l’originale» (p. 367). Ciò nonostante, non catalogo questi componimenti tra le argutezze fondate su metafora di equivoco poiché in questi casi l’equivoco costituisce la base su cui si erige la successiva riflessione, che utilizza però altri elementi per attingere il concetto, come gli esempi allegati mostrano chiaramente. 10. Ecco l’elenco completo (avverto che i componimenti qui censiti costituiscono una sotto­ specie delle argutezze non fondate su figura retorica e quindi sono compresi nella serie di cui alla nota 24): Rime’. Amorose-. 31. Coieria’. Favole’. 31, 54. Historie-. 25b’, 29, 37. Ritratti-. 25b, 68.

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La stragrande maggioranza delle argutezze censite nella poesie mariniane deve invece la propria esistenza al ricorso ad un qualche figura retorica (ed è quindi una argutezza con tutti i crismi): ciò avviene in 106 casi su 127. Naturalmente, come è stato tutt’altro che semplice, almeno per me, distinguere tra assenza e presenza di argutezza e individuare le argutezze non fondate su figure (e le scelte risultano spesso tutt’altro che indiscu­ tibili), così altrettanto problematico è il passo successivo: cioè la cata­ logazione delle argutezze a seconda della figura retorica che a volta a volta le fa constare11. Qui si è scelto di privilegiare la tassonomia proposta dal Tesauro, anche se essa presenta notevoli problemi: non solo e non tanto per l’inconveniente della riduzione di tutte le otto classi a specie di un genere metafora onnicomprensivo di tutte le figure ingegnose, ma per l’adozione, da parte del trattatista, di una multiformità di punti di vista che lo porta a collocare la medesima figura retorica ora sotto un’etichetta ora sotto un’altra. Occorre ancora avvertire che alcuni casi restano indeci­ dibili, vuoi per la differenza di sensibilità figurale (ovviamente, a favore del Tesauro) tra l’analista contemporaneo e il trattatista secentesco, che può portare al disconoscimento di una figura (a vantaggio di un’altra o del senso letterale) o addirittura di un’argutezza; vuoi perché l’effetto arguto a volte pare essere consapevolmente affidato al concorso di più figure (possibilità esplicitamente ammessa dal Tesauro: p. 500), complessità qui sacrificata ad esigenze tassonomiche che mi auguro valgano la rinuncia. Esaurite le indispensabili istruzioni per l’uso, ecco i risultati della ca­ talogazione: abbiamo una argutezza fondata sulla metafora di laconismo, una sull’iperbole, 8 che ricorrono all’ipotiposi, 27 all’equivoco, 24 fon­ date sulla metafora di proporzione e infine 45 basate sulla metafora di opposizione (o antitesi, nelle sue varie forme). Prima di esaminare le presenze, converrà censire le assenze: non ho riscontrato casi né di metafora di attribuzione (rientrano qui metonimia e sineddoche) né di metafora di decezione (e il dato è sorprendente, essendo la decezione, cioè l’inganno, la sorpresa una delle caratteristiche della cultura baroc­ ca)11 12. Non stupirà, invece, il predominio delle antitesi e delle metafore, 11. Elenco i componimenti la cui catalogazione ancora non mi persuade del tutto: Marittime'. 1; Boscherecce' 10; Favole'. 33a, 59; Ritratti: 26b, 76. 12. «La virtù» della metafora di decezione «consiste nel sorprendere la tua opinione, facendoti formar concetto, ch’ei voglia finire in un modo: et inaspettatamente parando in un altro. Onde la Novità dell’improvviso obietto ti ricrea: e dove nelle altre argutezze, tu ridi dell’obietto; in questa sola, tu ridi di te medesimo, e del tuo inganno. L’esempio del nostro Autore (più quadrante nel suo idioma per la proprietà del Vocabulo) è questo: “Is lepide incedebat geminos in pedibus gestitans elegantissimos PERNIONES”. Voce grecamente significante quelle piaghe delle calcagna ulcerate dal freddo, che dal vocabulo Francese chiamiamo vulgarmente le MULE. Come se tu dicessi: “Passeggiava gentilmente colui, portando ne’ piedi un bel paio di MULE”: dove tu attendevi, “un bel paio di scarpettine”. (pp. 294-95).

Ili

e nemmeno quello dell’equivoco: ma bisognerà comunque sottolineare la netta prevalenza dell’antitesi e segnalare che queste tre figure si aggiudicano la quasi totalità del materiale arguto, rivelandosi quindi di gran lunga le più produttive ai fini dell’argutezza. Sbarazziamoci dunque subito, con un esempio per tipo, del laconismo, dell’iperbole e dell’ipotiposi. Il laconismo è caratterizzato dall’allusione al non detto e può praticarsi in due modi: «nel primo, significando una Proposizion distesa con altra distesa, benché coperta. Nell’altro, significando la Proposizione distesa con brevità» (p. 434). Ecco l’esempio mariniano, che si situa sotto la seconda modalità grazie alla finale allusione al mito di Salmace e Ermafrodito: La Galeria. Favole. [21] Galathea del Cavalier Giuseppe DArpino

Stese già da le salse a le dolci onde le molli braccia e candidette avea stringendosi al suo vago Galathea, e già n’ardean d’Amor Tacque profonde. Di perle, d’ostro, e d’or, ch’a le feconde mense de l’Ocean furato avea, ricco rnonil di propria man gli fea, quand’ecco il fier Ciclopo in su le sponde.

a

Di sospir’, di minacce un suon rabbioso sparse e turbò de’ duo la cara pace, più del mar che 41 produsse aspro e cruccioso.

Tremò la ninfa timida e fugace, né securo le parve il fondo algoso, ma bramò per celarsi esser Salmace.

Rientrano nella metafora di iperbole tutte quelle figure che ingrandiscono il soggetto e quindi generano meraviglia: dal virgiliano «instar montis Se la descrizione è qui sufficientemente chiara e operativamente fruibile, le pagine che in modo più analitico e con dovizia di esempi trattano della metafora di decezione com­ plicano non poco le cose, rubricando tra esse gli «argomenti inaspettati», da qualunque punto di vista li si consideri: cioè, parrebbe, tutte le argutezze. Si veda il seguente esem­ pio, nel quale io sottolineerei piuttosto la naturalizzazione della metafora: «Più eroica, e più tragica fu quella [argutezza] di Leonida nel procinto della battaglia Persiana: al quale i Lacedemoni impauriti havendo così esaggerato: “Tantus est Hostium numerus, ut Solem jaculis obscurent”: rispose: “Commodius ergo in umbra pugnabimus”. Dove da quelTuom forte, tu non attendevi una Consequenza sì dilicata: ma una generosa et eroica; come questa: “Dunque tanto maggior fia la gloria degli Spartani”. Onde il suo Argomento non fu seriamente eroico; ma eroicamente scherzevole, e faceto, per quell’inganno» (p. 473).

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equum» al tesauriano «alter orbis» creduto di rintracciare nel Marino motivi. Lo propongo comunque alla di metafore adibita a rappresentare che l’argutezza sta nel finale:

(per «Roma»). L’unico caso che ho è per la verità dubbio, per diversi discussione, segnalando che la serie la gelosia non deve far dimenticare

Rime amorose. 79. Alla Gelosia^ con V'altro che siegue

Tarlo e lima d’amor, cura mordace che mi rodi a tutt’ore il cor dolente, stimolo di sospetto a Taltrui mente, sferza de Talrne, ond’io non ho mai pace: vipera in vasel d’or cruda e vorace, nel più tranquillo mar scoglio pungente, nel più sereno ciel nembo stridente, tosco tra’ fior, tra’ cibi arpia rapace:

sogno vano d’uom desto, oscuro velo agli occhi di Ragion, peste d’Averno che la terra aveneni e turbi il cielo: ov’Amor no, ma sol viv’odio eterno, vanne a l’ombre d’abisso, ombra di gelo: ma temo non t’aborra anco l’inferno13.

Più interessante (ed anche più frequentato dal Marino), il terreno della ipotiposi14: d’altronde essa, «ponendo sotto gli occhi con vivezza ogni Vocabulo» (p. 396), tende a trasferire alla sfera della parola quello che è proprio dell’immagine e realizza quindi una esigenza tipica della cultura del Seicento. All’ancora virgiliano «Pontem indignatus Araxes» il Tesauro aggiunge a modello il proprio «Populorum-triumphatrix», sempre detto di Roma, «che ti mette sott’occhi l’azion più gloriosa che il mondo abbia veduta, cioè, il Trionfo» (p. 298). Il Marino appoggia spesso l’ipotiposi a raffigurazioni topiche, come nel sonetto seguente:

13. A meno che non sia più corretto ritenere che qui non si dia argutezza, in quanto essa sarebbe in un certo senso surrogata dalla filatessa di metafore che copre pressoché per intero il sonetto. L’ipotesi di una complementarità tra presenza di argutezze e ricorso a procedimenti figurali particolarmente insistiti (l’ipotesi, cioè, che dove le prime manchino i secondi si presentino in abbondanza) meriterebbe di essere verificata su una vasta campionatura. 14. Otto casi in totale: Rime-. Amorose-. 10, 55, 64. Marittime-. 4, 46. La Galeria’. Ritratti-. 10, 18, 28.

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Rime amorose. 64. Si lagna della crudeltà della sua donna Questa crudel, cui per maggior mia doglia pietosa, come bella, imprima vide l’anima già tra le lusinghe infide presa d’un nodo, il qual non è chi scioglia, deh, mira, Amor, con qual superba voglia sprezza il mio pianto, e del mio mal si ride: mira, come m’impiaga, e non m’ancide, come ognor più di libertà mi spoglia.

Rompi lo smalto, ond’ella il petto ha cinto, tu, possente signor; fa che dal seggio caggia del crudo cor l’orgoglio estinto. Ma da te (lasso) indarno aita i’ cheggio, s’a mio sol danno armato, umile e vinto ne’ suoi begli occhi prigionier ti veggio.

Abbiamo già visto che le tre figure più produttive sono la metafora di equivoco, quella di proporzione e quella di opposizione, che da sole for­ niscono 96 dei 127 casi di componimenti arguti. La trattazione dovrà quindi farsi qui un pochino più analitica, per individuare meglio le mo­ dalità di adibizione. Cominciamo dalla metafora di equivoco, che «dall’unità del Nome muta il Concetto» (p. 285), come si evince dal detto ciceroniano: «Alii negabant mirandum esse, jus tam nequam esse verri­ num», che è tra le argutezze citate ad esempio ed esaminate partitamente nel capitolo nono. Tra il materiale censito si riscontrano ben 27 compo­ nimenti basati su questa figura: 8 nelle Rime e 19 nella Galeria^. La sproporzione si spiega facilmente con l’intento anche encomiastico di quest’ultima opera, che viene spesso raggiunto costruendo una pointe che giochi sul nome dell’autore del quadro o della scultura e/o del personag­ gio ritratto. Ecco un esempio: La Galeria. Historie [7]. Tobia con Rafaello di Rafaello da Urbino Sottrasse a fiera morte, quando le fauci orribil mostro apria, Àngel fido e pietoso il buon Tobia. Ed or con miglior sorte gli dà vita immortale

15. Rime'. Amorose: 25, 67. Boscherecce: 4, 37, 64, 73, 76, 88. La Galeria: Favole: 9, 23a, 42, 48, 51, 57. Historie: 1, 7, 9a, 13b, 18. Ritratti: 15a, 36, 46, 52, 55a, 71, 73, 76.

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pur spiritale Angelico intelletto. Felice giovinetto, eli cui quasi fatale era prescritto aver custodia e zelo un RAFAELLO in terra, un altro in cielo.

Il caso che segue, con l’ambiguità tra vacca - Io e vacca - donna di facili costumi, è particolarmente interessante perché dello stesso tipo dello ius verrinum tanto lodato dal Tesauro: La Galeria. Favole [42]. Mercurio che uccide Argo, di Ventura Salimbeni Dal cieco Amor deluso un occhiuto pastor trafitto e morto in sonno eterno ogni suo lume ha chiuso; anzi quant’occlii in fronte appanna e chiude, tante profonde e crude apre piaghe il suo corpo. 0 poco accorto geloso amante, a vigilare intento! MilFocchi, non che cento tra l’amorose frodi non bastali d’una Vacca esser custodi.

Siamo così giunti alla metafora di proporzione: la prima cosa che colpisce è la relativa scarsità della presenza di metafore diciamo così semplici nella punta arguta: solo 6, contro 15 metafore continuate e 3 metafore «naturalizzate» . Anche in questo caso converrà porre a confronto due esempi, il primo con metafora semplice, il secondo con metafora continuata: Rime boscherecce. 22. AllAure, pregandole di asciugare i sudori della sua ninfa

Un vago vezzo di vermiglie rose che ne’ prati del ciel colse l’Aurora e ‘n cadérle di sen raccolse Flora, poi Tirsi in treccia di sua man compose: 16. La definizione risale a FRIEDRICH, Epoche della lirica italiana. Il Seicento, cit., p. 117: «Noi intendiamo con questo termine una metafora o una catena di metafore nella quale un’immagine venga presa inaspettatamente nel suo significato letterale, come definizione di una cosa reale, e questa cosa ora si agganci realmente ad un fatto o ad un pensiero». Una spiegazione semiotica del medesimo fenomeno fornisce UMBERTO ECO, SulLinterpretazione delle metafore, in ID., I limiti dell"interprelazione, Milano, Bompiani, 1990, pp. 142-61, alle pp. 159-61. Ecco l’elenco completo: 1. Metafora semplice: Amorose'. 61; Marittime-. 43; Bosche­ recce: 7, 22, 25, 79. 2. Metafora continuata: Amorose: 19, 22, 28, 46, 76; Marittime: 19; Boscherecce: 40, 55, 70; Favole: 15, 45; Ritratti: 22, 39, 53, 66. 3. Metafora naturalizzata: Amorose: 37; Boscherecce: 52, 58.

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perché da l’altro sol, che sì noiose fiamme saetta in questa fervid’ora, difendiate il mio sol, che i boschi onora, vi dono Aure soavi, Aure amorose. Glori sì belle entro i begli orti suoi forse non l’ha; né tinte a le sue piaghe Venere in Cipro sì leggiadre e liete. Ma voi sotto il bel piè più vive e vaghe vedrete aprirne, e del bel volto poi più ridenti e più fresche ognor n’avrete.

Rime amorose. 22. Era il giorno nuvoloso, e la sua donna si avea cinto il volto d’un velo

Donna, l’invido vel, che parte asconde di tue bellezze, et al bel crin dà legge, deh squarcia ornai: fa che 1 suo ben vaghegge senz’ombra il cor, che non ha vita altronde. De le chiome sovr’or lucide e bionde sciogli il tesor, ch’avaro fren corregge, sì che per Paure poi libero ondegge, e qual pria nacque, Amor rinasca in onde. B

Ecco, rimira il sol, che farsi adorno suol de’ tuoi raggi, or il suo foco in gelo volge, e s’avolge d’atra nube intorno. Ma forse ombrata ancor t’invidia il cielo, e vuol sua fronte il portator del giorno per somigliarsi a te, cinger d’un velo.

Nel secondo caso l’argutezza - il sole si copre di nuvole per somigliare alla donna che si è messa un velo sul viso - è possibile solo grazie alla metafora continuata per cui la fronte del sole si copre del velo delle nuvole. Ancora più frequente il ricorso alle antitesi, anche se in alcuni dei componimenti censiti resta il dubbio se si dia realmente argutezza17. Si veda il sonetto introduttivo alle Rime amorose: 17. I componimenti con argutezza fondata su antitesi sono 45: Amorose'. 1, 4, 13, 43, 49, 52, 58, 70, 73; Marittime'. 7, 10, 13, 22, 34; Boscherecce'. 13, 19, 31, 34, 46; Favole'. 1, 4, 6a, 12, 18, 25a, 28, 62, 64, 69a; Bistorte: 4, 16, 20a, 26a’, 30a’, 31, 33, 35a; Ritratti: 4, 7, 16b, 20, 26b, 31,42, 43a.

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Altri canti di Marte e di sua schiera gli arditi assalti e le onorate imprese, le sanguigne vittorie e le contese, i trionfi di Morte orrida e fera.

I’ canto, Amor, da questa tua guerriera quant’ebbi a sostener mortali offese, come un guardo mi vinse, un crin mi prese: istoria miserabile ma vera. Duo begli occhi fur l’armi onde trafitta giacque, e di sangue in vece amaro pianto sparse lunga stagion l’anima afflitta.

Tu, per lo cui valor la palma e 1 vanto ebbe di me la mia nemica invitta, se desti morte al cor, dà vita al canto.

Nella maggioranza dei casi, invece, l’argutezza è indubbia e indubbia­ mente affidata all’antitesi, nelle sue varie forme, come in questo madriga­ le delle Favole: [25a] Borea che rapisce Orithia di Federigo Zuccaro

Può dunque, Amor, la tua mirabil face arder Spirti gelati? Mira il Tiranno Thrace, fiero signor degli Hiperborei fiati, tra le più dense nubi come rapisca e rubi nova beltà, ch’è del suo cor rapace; e di sì bel foco arder gli piace, ch’esser fatto non sente di gelato Aquilone Austro cocente.

Fin qui la descrizione e l’esemplificazione. Si tratta ora di ragionare un poco sui dati e quindi innanzitutto di rendersi ragione del motivo per cui equivoco, antitesi e metafora stiano alla base della stragrande maggioranza delle argu­ tezze censite. Dell’equivoco già si è detto: la sua alta concentrazione nella Galeria parrebbe provarne la stretta correlazione con il genere epidittico. Per quanto riguarda antitesi e metafora, invece, gran parte della responsabilità, come era lecito attendersi, risale ad Aristotele, il quale, in Retorica III 10, dichiara che per ottenere le «espressioni spiritose e di successo» «bisogna dunque mirare a queste tre cose: alla metafora, all’antitesi e al vigore»18. 18. Retorica 1410a 7 e 1410b 34-5. ARISTOTELE, Opere. 10. Retorica. Poetica, cit., pp. 160 e 161.

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La tesi che la metafora sia la figura retorica più frequentata dal Marino e più in generale (e con maggiore oltranza, come ormai si sa dopo le analisi del Besomi, della Colombo e di altri) dai concettisti operanti tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento ha validi e numerosi sostenitori. L’antitesi, invece, pur non ignorata (l’imponenza del materiale non lo consente) non ha goduto delle medesime attenzioni, specialmente teoriche: eppure anche queste nostre campionature ne hanno mostrato la maggior frequenza rispetto alla metafora. Che si tratti allora di un problema non di quantità ma di qualità, di caratteristiche intrinseche che renderebbero la metafora meglio atta che non l’antitesi a rendere ragione del concettismo? A me non pare; e ho già insistito (cfr. 1.3) sul fatto che la larvale natura argomentativa che giustificherebbe il (non dimostrato) primato della metafora va riconosciuta anche all’antitesi; qui, i testi di cui stiamo parlando forniscono ulteriori interessanti dimostrazioni della rilevanza, almeno nella teoria del Tesauro e nella prassi poetica del Marino, dell’antitesi. Vediamo un paio di casi interessanti: Rime Marittime. 13. Amorosa desperazione

Se ‘n te sdegno, in me duol più sempre abonda, perfida Lilla, e se tapino e scalzo scorrendo i lidi ognor di balzo in balzo antro non ho, ch’ai tuo furor m’asconda:

a

deh perché, quando in su 1 mattili per l’onda spiego la rete, o la sollevo et alzo, nel procelloso mar non caggio e sbalzo? né meco insieme il mio legnetto affonda? Lasso, che hi van dal mar crudele ornai pietade attendo; e ‘1 foco, ond’io sfavillo, spegner ne l’acque sue non spero mai. Ché, se la pioggia, che sì larga io stillo, il perturba talor, tu tosto il fai col sol degli occhi tuoi piano e tranquillo.

La Galeria. Ritratti. Uomini.\L\ Prencipi, Capitani ed Heroi. [7] Hettore

Io scoglio, io muro, io torre de la patria e del padre contro gli assalti de l’Argive squadre, basti dir, son Hettorre. Al minar di questa viva rocca cade Troia, Asia trema, Ilio trabocca.

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Mal mio cadere è tale, che la gloria immortale del gran Vecchio di Smini a ha stabilita ne la caduta mia la sua salita.

Entrambi i testi, che ho classificato fra le argutezze fondate su antitesi, sfruttano, ai fini della costruzione dell’opposizione, la presenza di altre figure retoriche, in particolare, nei casi in questione, proprio delle metafore. Nel madrigale dedicato ad Ettore è necessario «tradurre» (sit venia verbo) prima la morte di Ettore in una metaforica «caduta» (a meno che si tratti di naturalizzazione della precedente metafora Ettore = torre, a sua volta indotta dalla paronomasia), poi il raggiungimento da parte di Omero della fama poetica (ottenuta grazie al poema in cui di Ettore si parla) in una altrettanto metaforica «salita» perché possa darsi l’antitesi caduta/salita (che è quindi non nelle cose ma nell’ingegno che le accosta, giusta le indicazioni del Tesauro). Analogamente, nel sonetto, il ricorso ad un campo metaforico di natura meteorologica (pioggia = lagrime dell’amante, sole = occhi dell’amata) è ciò che permette di impostare l’antitesi tra un mare (a sua volta meta­ forico: della vita) tranquillo ed uno agitato. L’utilizzazione di metafore a servizio di una più comprensiva antitesi è fenomeno abbastanza frequente, almeno stando alla nostra campionatura (che ne offre 9 casi sui 45 testi con argutezza dovuta ad antitesi19) e non è infatti sfuggito all’attenzione del Tesauro, che lo censisce trattando ap­ punto della metafora di opposizione: Ma voglio io qua palesarti il più astruso e segreto: ma il più miracoloso e fecondo Parto dell’umano ingegno; fin qui per le Retoriche Scuole innominato; ma dal nostro Autore ben conosciuto nelle Poetiche, dove ha la propia seggia: che generato da questa Figura, molti altri ne genera de’ più belli che volino per le prose, ò per le rime. Questi è quegli, che grecamente chiamar possiamo THAUMA, cioè IL MIRABILE: il qual consiste in una rappresentazion di due concetti, quasi ‘ncompatibili, e perciò oltremirabili (p. 446).

Le «miniere» che forniscono l’oro del mirabile sono la «natura», l’«arte», 1’«opinione» e infine il «fingimento», che è quella che qui più interessa in quanto rende conto dei casi appena addotti: L’ultima miniera degli Oppositi Mirabili; è il FINGIMENTO: quando cioè, non per natura dell’obietto [natura]: né per inganno della Imaginazione [opinione]: ma per fecondità d’intelletto: fondiamo in qualche obietto una Metafora Mirabile, di Proporzione, di Attribuzione, di Equivoco o di qualunque altro Genere', indi

19. Amorose-. 4, 43; Marittime-. 13, 34; Boscherecce: 46; Ritratti: 7, 1 6 b , 4 3 a ; Pisto­ ne: 7 (su metafora di equivoco).

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accoppiando termini incompatibili: ne partoriamo per consequente Proposizioni Enigmatiche, Mirabili e Ingegnose (p. 452).

Non lasciamoci distrarre dalla ricchezza delle sollecitazioni offerte da queste righe del Tesauro e torniamo al nostro proposito, che resta quello di riportare l’attenzione sulla rilevanza, per quantità e qualità, dell’anti­ tesi nell’opera poetica del Marino20: dalla giovanile presa di posizione Del concetto poetico, nelle cui pagine finali assistiamo al tentativo, lì conse­ gnato proprio alla bocca del Marino, di «incorporare i fenomeni antitetici, Yornatus in verbis coniunctis, nella sfera del concetto»21 aìYAdone, nel quale, dopo le proposte del Guardiani, l’antitesi non può più essere consi­ derata fenomeno riducibile alla pura elocutio22. Non intendo riproporre le argomentazioni che ho già profuso altrove nella difesa dell’antitesi, anche per non abusare della pazienza del lettore. Precipito quindi rapidamente alle conclusioni che mi sembra di poter trarre e che propongo in modo schematico: 1. Innanzitutto, l’argutezza non è la metafora (né secondo l’accezione tesauriana né nel significato contemporaneo del termine); 2. Lo scopo cui mira la produzione lirica del Marino è la creazione di argutezze (e non di metafore o antitesi o altre figure retoriche, anche se queste non manchino, anzi). 3. L’argutezza può essere raggiunta in vari modi, alcuni dei quali abbiamo esemplificato: in ogni caso, la modalità prevalente sembra essere costituita dal ricorso all’antitesi. 20. Una ulteriore minima prova intertestuale mi è fornita, al medesimo Convegno in cui fu presentata questa relazione, dall’intervento di Alessandro Martini, il quale ha accostato tra loro i seguenti madrigali del Grillo e del Marino (Marino e il madrigale attorno al 1602, in The “Sense” of Marino....cit., pp. 361-93: 373):

Vien, pargoletto, vieni in questo petto, tu sei pur mio core, tu sei pur lo mio amore. Vieni caro, carette, Che per capire in me sei pargoletto.

Pargoletta è colei ch’accende i desir miei; e pargoletto Amore che mi saetta il core. Ma nell’anima io sento e gran foco e gran piaga e gran tormento.

L’argutezza del Grillo è fondata non su figura ma su un paralogismo (ottenuto tramite «adduzione»: Perché Cristo si è fatto «pargoletto» [cioè piccolo, anche di dimensioni]? Per poter entrare nel cuore del poeta). Il tema della divinità bambina, volto da sacro in profano, dà luogo in Marino alla costruzione di una arguzia fondata su una antitesi, quella tra grandezza e piccolezza. 21. SCARPATI, Icastico e fantastico. Iacopo Mazzoni tra Tasso e Marino., cit., p. 265. 22. GUARDIANI, La meravigliosa retorica delTAdone di G. B. Marino, cit., in particolare nel capitolo dedicato alVelocutio; e ID., Il gran teatro del mondo, ovvero il mondo a teatro, in Lectura Marini, a cura di FRANCESCO GUARDIANI, Toronto, Dovehouse Editions Ine., 1989, pp. 325-40.

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Quali conseguenze tirare da questi accertamenti (oltre a quella che essi abbisognano senz’altro di ulteriori verifiche)? Innanzitutto, deve essere chiaro che non intendo rovesciare la tirannia della metafora per instaurare quella dell’antitesi, assegnando ad essa, nell’ambito della poesia del Marino, quanto finora è stato della figura principe. L’intento è piuttosto quello di offrire, anche per questa via, un contributo al recupero della complessità e della ricchezza della retorica mariniana (e tesauriana) in quanto strategia testuale: esaurite le discussioni sulla portata ontologica della metafora secentesca, si dovrà piuttosto da una parte analizzare il suo interagire con altre figure, dall’altra verificare la capacità della intera retorica del Marino di proporsi come «teoria della produzione testuale» (e quindi, dal nostro versante di lettori, come chiave ermeneutica)23. A questa pietra di paragone dovrà essere vagliata la poesia del Marino per saggiare la possibilità di una sua udienza nella cultura contemporanea. In questa prospettiva la «provincia figurale» della negazione/rovesciamento (cui perbene l’antitesi) si rivela, per quanto riguarda il Marino, produttiva almeno allo stesso modo della provincia metaforica, sia nella costruzione di testi singoli, come abbiamo appena visto, sia nella loro disposizione in un macrotesto (è il caso delle Rime marittime) sia, infine, nel poema grande (come parrebbe indicare la coraggiosa interpretazione dell’Adone proposta dal Guardiani).

23. GIOVANNI BOTTIROLI, Retorica della creatività, Torino, Paravia, 1987, p. 28; e ID., Retorica. L'intelligenza figurale nell'arte e nella filosofia, Torino, Bollati Boringhieri, 1993 (con le interessantissime pagine sull’antitesi in dialogo con le proposte di Valesio).

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IL2. BARTOLI E TESAURO, OVVERO LA RICREAZIONE DEL SAVIO E LA RI-CREAZIONE DELL’INGEGNOSO

Bice Mortara Garavelli prosegue nella propria appassionata iniziativa di riproposizione alla cultura moderna degli scritti di Daniello Bartoli, pro­ satore grandemente apprezzato ancora dai massimi scrittori del nostro Ottocento (Leopardi, Giordani, Tommaseo, Carducci1) e poi caduto, al­ meno presso i non specialisti, in un oblio dal quale non sono valsi a trarlo né le sporadiche esaltazioni di qualche autore contemporaneo (ad esempio Manganelli) né i numerosi e sollecitanti interventi di critici di razza (da Anceschi a Raimondi a Basile). Ben venga, quindi, dopo la pubblicazione della Selva delle parole (Parma, Università di Parma - Regione EmiliaRomagna, 1982) e di parte della Cina (esattamente i primi 156 capitoli del libro I: Milano, Bompiani, 1975), questa Ricreazione del savio12, una di quelle operette che il Bartoli componeva a svago e ricreazione dell’im­ mensa (tanto da rimanere, nonostante l’indefesso lavoro, incompiuta) Isto­ ria della Compagnia di Gesù. Protagonisti dell’opera (suddivisa in due libri di sedici capitoli l’uno) sono il savio e Dio, che l’autore si propone di mettere in contatto tra loro mediante le opere, nella qualità di artefice di esse il secondo, in quella di loro decifratore il primo; e seguendo un metodo che nel primo libro è induttivo, nel secondo deduttivo: Or come io nel libro antecedente v’ho di passo in passo condotto salendo per le opere di Dio a Dio loro operatore, rifermandovi in quella indubitabile verità, e credo anche evidente, che egli v’è e ciò ch’è fuor di lui è da lui; così ora da lui scenderò giù a voi, e da questo-principio, dell’esservi Iddio e dell’esser sua opera il mondo, ne andrò traendo conseguenti già non più solo speculativi per istruzion della mente, ma, dirò così, maneschi, e da usare al bisogno per quiete dell’animo, per moderazion degli affetti, per regola della vita3.

Soccorrono allo scopo innumerabili esempi, tratti da auctoritates classiche (innanzitutto Plinio e Seneca) e cristiane, allegate dal Bartoli e poi spesso tradotte o meglio ricreate in una parafrasi amplificante da cui lo scrittore trae effetti stilistici di indubbia efficacia e che risente senz’altro, come fa notare la Garavelli, dell’esercizio omiletico svolto dal 1637 al 1648; non 1. E forse soggiacente perfino a\V incipit dei Promessi sposi: si veda GIUSEPPE BONAVIRI, Come Manzoni deriva dal Bartoli il noto brano del «ramo del lago di Como»., «Italianistica», Pisa, VII 2, mag.-ago. 1978, pp. 346-53. 2. Daniello Bartoli, La ricreazione del savio, a cura di Bice Mortara Caravelle Premessa di MARIA CORTI, Parma, Fondazione Pietro Bembo/Guanda, 1992. 3. Ivi, p. 371.

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nel senso che si debba pensare ad un travaso delle per noi perdute pre­ diche, quanto nel senso che «unico [è] il repertorio di immagini, per­ sonaggi, fatti e detti memorabili ecc.»45 . Repertorio comune, del resto, non solo alle diverse opere del Bartoli ma anche alla cultura secentesca (o si dovrebbe dire gesuitica?) in generale: singolari sono infatti i riecheggiamenti con il tanto più ricco ed esorbitante Cannocchiale aristotelico (uscito in prima edizione, ricordo, nel 1654 a Torino e poi ristampato nel 1655 e 1663 a Venezia, nel 1664 a Roma, nel 1669 a Venezia, nel 1670 a Torino, nel 1674 a Venezia, nel 1675 a Bologna, nel 1678, 1679, 1682 a Venezia. Sono gli stessi anni della Ricreazione, di cui la Garavelli elenca le seguenti stampe: Roma 1659, Venezia 1660 e 1663, Milano 1660, Bologna 1668, Venezia 1669 e 1679, Bologna 1676 fino alla romana, presso Varese, del 1684, ultima prodotta vivente Fautore e, in guanto da lui rivista, messa a testo nell’edizione curata dalla stu­ diosa0). Non è questa la sede per approfondire il delicato tema degli eventuali rapporti tra i due scrittori6, anche se sarebbe interessante verificare se un certo andamento omiletico che si riscontra particolarmente in qualche capitolo (ad esempio il terzo della prima parte) della Ricreazione del savio non dipenda dalla assunzione, giusta le indicazioni del Tesauro, di un concetto predicabile, sia pure con correzioni in senso moderato rispetto alla oltranza arguta del trattatista torinese. Si citano spesso, in effetti, le riserve bartoliane sullo «stile che chiamano moderno concettoso», conse­ gnate all’Uomo di lettere emendato e difeso, ma resta ancora da definire in termini un po’ meno imprecisi questa moderazione del Bartoli (e, chissà, forse anche l’altro polo dell’opposizione). Bene fa dunque la Garavelli a scendere nel concreto dell’analisi, innanzitutto segnalando che comunque i tratti stilistici stigmatizzati in quel brano «segnano - in positivo, per lo più - la lussureggiante ricchezza stilistica e immaginativa dei «pezzi» meglio riusciti»7; poi a proporre una quanto mai necessaria caratterizza­ zione dello stile della prosa bartoliana. 4. Ivi, p. LII 5. Vedi l’esaustiva Nota al testo, che anche risolve con intelligenza e ragionevolezza il problema delle citazioni (reso particolarmente arduo dalla «libertà con cui il Bartoli manipola i testi che cita»: p. LX) e che riporta le varianti della prima edizione (Roma, Ignazio de’ Lazzeri, 1659): quelle formali utili a verificare la coerenza dei ritocchi orto­ grafici, sintattici e stilistici, quelle contenutistiche stimolanti una riflessione «sull’evolversi degli interessi e delle esperienze di studio dell’autore» (LVI). 6. Alla delineazione dei quali aggiunge una tessera ANNA MARIA CANTALUPPI, SulT«Isto­ ria della Compagnia di San Paolo» di Emanuele Tesauro, «Studi piemontesi», Torino, XX 1, mar. 1992, pp. 145-54, la quale segnala Vistarla della Compagnia di Gesù: lAsia (1653) tra le fonti utilizzate dal Tesauro per la «narrazione dell’origine dell’ordine» gesuita nella sua Istoria della Compagnia di San Paolo (Torino, Sinibaldo, 1657). 7. Ivi, p. LII.

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Lo strumento più atto allo scopo si rivela - né si poteva dubitarne - la retorica, che la studiosa (non per nulla autrice di un prezioso manuale) maneggia con abilità pari alla competenza. La Garavelli segnala in primo luogo la dominanza di parallelismi e antitesi «nell’orchestrazione della prosa bartoliana» (p. XLI), spingendosi, poco più avanti, a sostenere che l’ossimoro non è solo, con la sua insistenza, un’acutezza barocca analizzabile sul piano microstrutturale del testo [...], ma impronta l’organizzazione concettuale, le macrostrutture tematiche (il necessario e il contingente ontologicamente opposti ma solidali in quanto l’uno deducibile dall’altro), costituendone due dei motivi base: l’armonia del mondo risultante dalla concordia oppositorum e la proiezione platonica del concreto nell’astratto8.

Queste parole suonano singolarmente affascinanti all’orecchio di chi scri­ ve, che vi trova una sorprendente coincidenza con la predilezione teorica e pratica mostrata da Emanuele Tesauro per l’antitesi, nelle sue varie declinazioni: egli non solo ne esalta l’effetto e l’efficacia nel Cannocchiale aristotelico, ma anche ne fa larghissimo uso, e nel trattato e nelle tragedie, fino a farla diventare una vera e propria matrice generativa del testo. Ora, sullo sfondo di questa somiglianza risaltano le differenze, che mi pare si possano ben esemplificare confrontando il diverso trattamento che il medesimo racconto della Galea di Ateneo riceve nella Ricreazione del savio e nel Cannocchiale aristotelico: Udiste mai raccordare, colà nelle memorie d’Ateneo, quella casa dell’antica Girgehto, celebratissima per l’avvenimento ond’ella s’intitolò la Galea? Cotal sopra­ nome ella prese da una ciurma di giovani che vi s’imbriacarono: con un sì ugual bollire di spiriti e ondeggiar di vino dentro a’ lor capi, che a tutti parve essere in alto mare e correre la più dirotta e furiósa fortuna che imaginar si possa e, se non a gran forza e a grand’arte, impossibile a reggervi, sì che la galea, ché tal parea loro quella casa, vinta dal troppo gran pelago non affondasse. E ben vi si ado­ peravano da valenti, sì pazzo era il correre che qua e là facevano, tutti male in piè e traballanti per lo barcollar che loro pareva far la galea e andar su e giù per gli alti marosi del vino che aveano in capo; e davano stramazzate in terra, benché lor paresse a chi su la corsia, a chi attraverso i banchi. Le grida poi e ‘1 disperare e 1 farsi animo e l’invocar Nettuno, le vere tempeste non ne han di più vere. Non così il comandare, dove tutti a un modo aveano in capo il mestiere: tutti contra­ mastri e piloti; e chi volea mano a’ remi, chi correre a fortuna, chi disarborare, chi ammainare o caricar la vela; e orza, e poggia, e afferra, e sferra, e quant’altro

8. Ivi, pp. XLI-XLII. Si tratta di una proposta interpretativa già avanzata nelVIntroduzione a DANIELLO BARTOLI, La selva delle parole, a cura di BICE MORTARA GARAVELLI, Parma, Università di Parma - Regione Emilia-Romagna, 1982, p. 24: «Volendo sinte­ tizzare in un’etichetta il fine, la meta, delle letture possibili, si potrebbe proporre una formula antitetica, come 1’«uguale e il diverso», consona al barocco bartoliano che è, fondamentalmente, un trionfo - e una composizione - delle antitesi».

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è dell’arte messa in confusione, fin che pur s’accordarono a quell’estremo rimedio del getto: che fu lanciar fuori dalle finestre quanto v’avea in casa di mas­ serizie per fino a’ letti; e ben fermo credevano che tutte le s’ingoiasse il mare; ma a lor gran guadagno, poiché la galea sembrò rilevarsi alquanto, ed essi, tra mezzo vivi per la speranza e mezzo morti per la stanchezza, profondarono in un altissimo sonno: né prima del dì seguente se ne riscossero; e parea loro d’esser già in mar tranquillo e avere intorno un coro di Tritoni, la cui mercé, veggendoli, si credettero salvi: ed erano ufficiali colà inviati dal publico ad intendere che pazzia fosse la loro9.

Tal fu l’ebrezza di que’ Ligornesi, che nella famosa osteria di Montefiascone, preser l’orso nel punto che fra lor divisavano del suo naufragio. Peroché in quella imaginazion riscaldati, incominciarono fantasticare sé essere ancora nella ma­ rina: e conseguentemente cominciò l’ostello parer loro il tempestante vasello; le panche gli stamenali; la mensa la corsia. Quinci con tumultuose voci gridando uno ad altro, «A poggia; a orza; alla boriila; mano alla scotta», altri votavan le botti, credendosi dare alla bomba; altri del tagliere facendo il bussolo, puntavano il vento: altri vomendo addosso al compagno; malediceva!! la nausea della maret­ ta. Tutti finalmente concordando aversi a fare il gitto per isgravar la nave; atte­ sero a gittar dagli balconi chi le stoviglie, chi il desco, e chi le panche; indi le coltre, le masserizie, i forzieri dell’Ostiere; et un di loro gridando, «Questo è un peso troppo intolerabile», gittò la moglie. Nessun perdé manco in quel naufra­ gio10.

Benché non contengano antitesi, i due brani sono stati addotti sia in quan­ to la concordanza era troppo ghiotta perché il critico rinunciasse ad esi­ birla, sia perché il confronto permette una serie di rilievi di grande in­ teresse, a partire dal diverso atteggiamento nei confronti del testo di par­ tenza. Trascuro le notazioni sintattiche per far notare il differente modo in cui i due autori maneggiano il rapporto tra il piano letterale e quello meta­ forico (o, meglio, allegorico, trattandosi qui in realtà di una metafora continuata, cioè di una allegoria). Mentre il Bartoli propone un continuo andirivieni tra lettera e allegoria, la quale risulta quindi controllata conti­ nuamente sulla prima (si vedano la frequenza del verbo «parere», spia lessicale della riduzione dell’allegoria (o metafora continuata) al paragone e l’incorniciatura del brano tra una situazione di partenza ed una d’arrivo entrambe reali (letterali, se si preferisce), il Tesauro abbandona presto la letteralità e si trasferisce senza residui sul piano allegorico, il che gli con­ sente l’approdo a ciò che più gli interessa, vale a dire la battuta (l’argu­ tezza) finale. Le parole sono chiamate non più a descrivere le cose e ad essere verificate e controllate su di esse, ma se ne svincolano per creare altri piani di realtà. 9. BARTOLI, La ricreazione del savio, cit., pp. 531-32. 1 0. TESAURO, Il Cannocchiale aristotelico..., cit., pp. 95-96.

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Lo stesso atteggiamento è dato riscontrare nel trattamento delle antitesi, che anche nel Bartoli sono certamente frequenti, ma non a caso, mi pare, più insistite in quei capitoli ove sono in un certo senso proposte, se non imposte, dal tema, come in I V: £ "armonia del mondo, di parti per naturai discordia dissonanti accordate in naturai concordia e consonanza. Allora, se è certamente esatto sostenere che l’ossimoro «impronta l’organizzazione concettuale, le macrostrutture tematiche»11 della Ricreazione del savio, bisognerà anche aggiungere che questo avviene poiché il Bartoli è con­ vinto che quella figura retorica è la miglior trascrizione di una realtà ad essa anteriore, cronologicamente e ontologicamente: poiché il mondo è fatto di contrari, andrà di conseguenza descritto (secondo mimesi) ricor­ rendo alle antitesi. La medesima precedenza delle res sui verba si coglie anche in lacerti testuali più brevi: [la radice] tanti tronchi e rami e barbe gitta per tutto, che ella sembra un albero capovolto e sepolto: e perciò viva, perché sepolta; altrimenti, a dissotterarla si muore;

Dove il dì mette innanzi il piede, la notte il ritira, e dove questa s’allunga, questo altrettanto s’accorcia; e se han diversi emisperi e van l’uno all’altro in contrario, questa non è contrarietà, è accordo e, se può dirsi, amore: seguitandosi sempre l’un l’altro, già che non possono essere insieme. Similmente nemici paiono d’operazioni e d’ufficio, e sono in ciò sì strettamente congiunti che l’un senza l’altra non procederebbe a nulla. Il dì ha per sue proprie le opere e la fatica, la notte l’ozio e la quiete. Ma si fatica per riposare e si riposa per faticare; così l’un serve scambievolmente all’altro e amendue al terzo, del viver nostro, che va continuo girandosi in questa ruota dell’avvicendare i contrari11 12.

Mi pare che l’aderenza descrittiva alle pieghe del reale, che costituisce uno dei pregi maggiori della prosa del Bartoli, si manifesti anche in un uso delle figure retoriche sempre controllato in base alla loro adeguatezza a rendere la realtà. Si veda, per contro, il procedere del Tesauro, che forza la realtà a produrre antitesi o, addirittura, adibisce la figura retorica a forgiare un referente antitetico, sancendo il distacco tra res e verba quando non il predominio dei secondi sulle prime (e provocando quindi la messa in crisi del principio di mimesi): e troppo pieno sperimento ne fecero gli Spartani nella giornata di Leutre; che per essi fu notte e non giornata (p. 71); di animaluzzi anco negletti vediamo artifici eccedenti l’umano ingegno: come de’ Ragni nel compassar senza seste gli loro sottilissimi stami: dei Bachi della seta, nel fabbricarsi dintorno la morbida Tomba, dove rinascono (p. 79);

11. BARTOLI, La ricreazione del savio, cit., p. XLII. 12. Ivi, pp. 123 e 192.

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[nell’orecchio di Dioniso a Siracusa le parole] per un piccol foro si trasmettevano dall’orecchia sorda del sasso, all’orecchia viva del Tiranno (p. 87).

E nel trattare dei concetti predicabili il Tesauro segnala che gli accorti Predicatori, per render la Tema della Predica più curiosa, e populare, usano la scaltritezza di congiugnere e raffrontar due Temi, che sembrino aver fra loro alcuna contradizione: e farla comparere con termini contrapositi: e poi concordano l’una e l’altra con qualche riflessione ingegnosa e pellegrina (pp. 531-32).

E se la «contradizione» (cioè l’antitesi; ma potrebbe allo stesso modo trattarsi del laconismo o dell’iperbole ecc.) non solo non c’è, ma nem­ meno sembra esserci, poco male: penserà il predicatore (o lo scrittore) a inventarla (non più a trovarla) ricorrendo a qualche «entimema urba­ no»: tramite il ricorso, s’intende, non alla realtà ma all’«ingegno»13. Infatti, l’ultima Miniera degli Oppositi Mirabili; è il FINGIMENTO, quando cioè, non per natura dell’obietto: né per inganno della Imaginazione: ma per fecondità d’intelletto: fondiamo in qualche obietto una Metafora Mirabile, di Proporzione, di Attribuzione, di Equivoco, o di qualunque altro genere; indi accoppiando termini incompatibili: ne partoriamo per consequente Proposizioni Enigmatiche, Mirabili, et Ingegnose (p. 542).

13. Allego a dimostrazione Vincipit del terzo paragrafo del Trattato dei concetti predica­ bili, che ben esemplifica la differenza tra una argomentazione basata sulle «ragioni intrinseche e piane» (quella, cioè, preferita dal Bartoli, anche perché esse ragioni sono già esperite nella Sacra Scrittura e nei Padri della Chiesa) ed una fondata invece sugli argomenti ingegnosi, cui si affida il Tesauro: «Sia la tua Tema, Che i piaceri del mondo sono afflizioni. A chi volesse provar questa Tema con ragioni intrinseche, e piane non mancherebbe materia di un gran discorso, con Argomenti e Autorità sacre, e profane. Percioché, se si parla de’ piaceri del senso, questi son pur fondati nella perturbazion dell’Animo, che è un gran male: e se de’ piaceri della mente, questi sono ordinati al Sommo Bene, che è Iddio: come conchiude anche il Filosofo: “In eo genere voluptatum Deo tantum, ac summum bonum esse”. Ma circa i Primi, vi sarebbe in termini quel Testo dell’Evangelio, dove il Salvatore, avendo parlato della semente suffocata dalle spine; fa questa dichiarazione: “Quod autem in spinas cecidit, hi sunt qui audierunt; et a solicitudinibus et divitiis et voluptatibus vitae suffocantur”. Dove Santo Ambrogio fa questo bel commento: “Chi mai crederebbe, s’io dicessi che le delicie, e le voluttà sono Spine, se non dicesse Cristo medesimo, che mentir non può?”. Ma se tu volessi provar questa Tema con un Concetto Predicabile, et arguto", e farla nuova con la novità di una metaforica Riflessione, fondata nell’EQUIVOCO: facendo tu una ricercata delle Circostanze Categoriche, come si è detto; potresti facilmente osservare con qual Nome appresso a’ Greci, od agli Ebrei, sian chiamate le Voluttà, o le Afflizioni: e troveresti che nell’idioma Ebreo l’Afflizione, si chiama TANNIM: e col medesimo nome apunto si chiama la Voluttà, e i Piaceri mondani» (p. 511). E da qui parte la trattazione del concetto predicabile.

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Credo che a questo punto, assodata la predilezione di entrambi gli scritto­ ri per l’antitesi, sia anche chiaro il differente trattamento ad essa ri­ servato, conseguente alla ben diversa concezione dei rapporti tra parola e realtà: ancorata al tradizionale primato dei realia nel Bartoli, più libera da aggancio referenziali nel Tesauro. Si tratta di una dicotomia che tanto avvicina il Tesauro al Marino quanto ne allontana il Bartoli e che quindi aiuta a comprendere sia le riserve del gesuita ferrarese sullo stile mo­ derno concettoso sia la sua collocazione tra i «classici», non tra i «concettisti», ma che resta piuttosto generica. Credo che le possa essere restituita concretezza e storicità riformulandola nei termini di quella opposizione tra imitazione icastica e imitazione fantastica (che si esercita su immagini mentali, non su oggetti esterni) che Iacopo Mazzoni, propugnando la su­ periorità della seconda sulla prima, aveva reimpostato nella Difesa della Comedia di Dante (B. Raverii, Cesena 1587), ed i cui echi si colgono nel Del concetto poetico del Pellegrino (tra i cui interlocutori vi è il giovane Marino) e si prolungano fino al Muratori Della perfetta poesia: il Bartoli ri­ marrebbe ancorato alla tradizionale imitazione icastica, mentre il Tesauro, sulle orme del Mazzoni (che però non segue quando questi assegna la poe­ sia al dominio della sofistica) si sposta decisamente sul terreno dell’imi­ tazione fantastica1415 . E si veda, al proposito, un’altra concordanza/divergenza ben significa­ tiva: entrambi gli autori citano il rimpianto - attribuito a Momo o a Socrate secondo le diverse tradizioni - che l’uomo non abbia nel petto una finestrella attraverso la quale si possano vedere senza equivoci i suoi pensieri: ma il Tesauro ne approfitta per una esaltazione delle belle arti sermocinali che l’esistenza di una simile finestrella priverebbe di ogni ragion d’essere10, mentre il Bartoli individua il rimedio in una corrispon14. In simile materia è d’obbligo il rimando agli scritti di Claudio Scarpati, che ha discusso da par suo la dimenticata opera del Mazzoni: Icastico e fantastico. Iacopo Mazzoni tra Tasso e Marino, cit.; Vero e falso nel pensiero poetico del Tasso e La metafora al di là del vero e del falso in Emanuele Tesauro, cit.. Per il Muratori, si veda, nello stesso volume, ERALDO Bellini, Il vero e il falso dei poeti in Ludovico Antonio Muratori, pp. 191233, alle pp. 217-20. 15. «E questa Arguzia Archetipa è quella, il cui protratto intendiamo di colorir nell’animo altrui per via de’ simboli esteriori: non essendoci permesso di tramandarlo da spirito a spirito, senza il ministero de’ sensi. E questa fu la sciocca rabbia di Socrate, incolpante la natura del non avere aperto una finestretta in petto agli uomini per veder faccia a faccia l’originale de’ lor concetti, senza interpretamento di lingua mentitrice, le cui tradizioni [sic; «traduzioni»?] sovente son tradimenti. Contro alla qual querela potea compor la Natura il suo apologetico; rispondendo, ch’ella arebbe ad un tempo defraudato gli ‘ngegnosi del diletto di tante belle Arti sermonali» (p. 16). Sul tema si leggano le belle pagine di MARIO ANDREA RlGONI, Una finestra aperta sul cuore (Note sulla metafo­ rica della «Sinceritas» nella tradizione occidentale), «Lettere italiane», Firenze, XXVI 4, ott.-dic. 1974, pp. 434-58. In riferimento a Tesauro, cfr. FRARE, Retorica e verità..., cit., pp. 95-101.

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clenza che comunque si darebbe tra i sentimenti e le loro manifestazioni nel viso («né fa bisogno aver la tanto ricantata finestra di Momo nel petto, dove il sembiante medesimo della faccia è un cristallo per cui l’interno, per altro invisibile, apparisce»1617 ). Con il che si torna a quella inscindi­ bilità tra «fatto di stile e dato etico, singolarmente accostati e saturi uno dell’altro», lucidamente segnalata dalla Corti come caratteristica barto­ li analz. Anche per la corrispondenza ora segnalata, risulta certamente diffi­ cile dire se si tratti di nuovo del ricorso al medesimo materiale topico o se sia sottesa una presa di posizione polemica. Sta di fatto che il Bartoli sembra ben conoscere gli scritti del Tesauro, se nei capitoli finali, dedi­ cati alla confutazione dell’astrologia, inserisce ad un certo punto le se­ guenti righe: «E forse che la sì ricantata e celebre nascita d’Ottaviano Augusto non ha valentissimi autori fra sé in lite, a diffinire s’ella por­ tasse in oroscopo il Capricorno o la Vergine, od anche il Granchio, sei interi segni lontano dal volgarmente creduto?»18. Pur facendo la tara alla diffusione dell’esercizio astrologico, occorre ricordare che nel 1632, in una delle iscrizioni latine composte a celebrare la nascita del principe Francesco Giacinto di Savoia, figlio di Vittorio Amedeo, il Tesauro sostenne appunto la nascita di Augusto sotto il segno della Vergine. Gli rispose un altro gesuita, il p. Monod, con un opuscolo la cui tesi è già nel titolo (Il Capricorno, o sia l'oroscopo di Augusto Cesare, Torino 1633), cui il Tesauro replicò aspramente nella Vergine vero ascendente della natività di Augusto Cesare non dalVincertezza delle medaglie popolarmente cavato, ma dalTora certissima della nascita e dal vero sito del sole astronomicamente dimostrato (Torino 1633)19. Nell’opera del Bartoli mancano, in effetti, riferimenti espliciti sia al Tesauro sia ad altri contemporanei: ma ne adduce convincente ragione la Garavelli, quando, proponendo un suggestivo raffronto tra il Bartoli descrittore di descrizioni (laddove, e gli esempi sono numerosi, riserva 16. BARTOLI, Della ricreazione del savio, cit., p. 296. 17. MARIA Corti, Premessa, ibid., p. XIII. 18. Ivi, p. 623. Nell’Uomo di lettere difeso ed emendato (Roma, Eredi del Corbelletti, 1645, p. 292 [ILVI. 1]) il Bartoli aveva indicato nel Capricorno il segno zodiacale di Augusto. 19. Sull’intera questione informa dettagliatamente MARIO ZANARDI, Vita ed esperienza di Emanuele Tesauro nella Compagnia di Gesù, «Archivum Historicum Societatis Jesu», Romae, XLVIII 93, ian.-iun. 1978, pp. 3-96, alle pp. 65-72. Il Tesauro torna sull’argo­ mento nelle pagine finali del Cannocchiale: «Et il Duca Cosimo de’ Medici dipinse [nella propria impresa] il Capricorno: aggiuntovi il Cornocopia e il Timon da nave; tal qual fu impresso nelle Medaglie di Augusto, col motto “FIDEM FATI VIRTUTE SEQUEMUR”. Volendo dire che, “sicome ad Augusto quell’Ascendente presagì l’imperio della Terra, e del Mare: così egli nato sotto l’istess’Oroscopo adoprerebbe col suo valore di seguire l’istesso Fato”. Sebene (come altrove ho dimostrato) quella erudizione fu error populare: peroché l’ascendente di Augusto non fu quella Bestia bicorne, ma la Vergine» (p. 675).

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spazio alle arti figurative e all’architettura) e il Marino della Galeria. la studiosa ricorda che era naturale per lui (ma questa è universale esperienza) omettere ciò che poteva riguardare unicamente la propedeutica o costituire informazione recente, notizia, dunque, più che sistemazione autorevole, nei settori della cultura di cui, all’occorrenza, citava solo gli autori riconosciuti come canonici20.

Comunque stiano le cose, non intendo certamente porre la questione in termini di precedenza o, peggio che mai, di fonti; quanto, piuttosto, sotto­ lineare la necessità di ulteriori e approfondite letture di testi spesso più citati che noti, anche per la scarsità di edizioni accessibili. Ora che, per merito della Garavelli, la Ricreazione del savio rientra nel circolo della cultura moderna, non potrà che rendere preziosi contributi utilizzata da lettori sagaci e competenti.

20. BARTOLI, La ricreazione del savio, cit., p. XLIX.

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II. 3. TESAURO TEORICO E TESAURO POETA. METAFORA (DI EQUIVOCO) E MENZOGNA, 0 IL VERO ATTRAVERSO IL VELO

La Terza Specie di Metafore da lui [Aristotele] conosciuta e commendata è l’EQUIVOCO. Metafora molto differente dalle due precedenti [di «somiglianza» e di «attribuzione»]. Peroché dove quelle, dalla differenza del Concetto mutano il Nome: questa dalla unità del Nome, muta il Concetto. In quelle, tu parli impropiamente; et io t’intendo nel propio senso: in questa tu parli con Voci propie; et io t’intendo nel senso impropio. Tal è quella di Erodico dataci per saggio dal nostro Autore [Aristotele]. Peroché, tacciando di troppo rigorose le leggi di Dracone', meritamente abrogate, peroché puniva col ferro leggierissimi falli; disse: «Leggi appunto son queste di un DRAGONE, e non di un uomo» (p. 285).

Questa è la definizione di «metafora di equivoco» che il lettore del Can­ nocchiale aristotelico incontra a pagina 285, e il cui fondamento il Tesau­ ro individua nella dialettica tra cambiamento e identità, dove quel che resta identico è il significante, quel che muta è il significato: infatti, essa «dalla unità del Nome, muta il Concetto» (p. 285). Nell’argutezza (fondata in «equivoco») «Leggi apunto son queste di un DRAGONE, e non di un uomo», il «nome generico» «Dragone» (lat. «Draco») muta il suo signifi­ cato da quello di «legislator» in quello di «fera» (ibidQ. La successiva ampia trattazione1, corredata da una straripante quantità di esempi, esamina la metafora di equivoco prima a seconda delle catego­ rie (aristoteliche: Sostanza, Quantità, Qualità, Relazione, Azione, Pas­ sione, Sito [=luogo], Tempo, Luogo [=posizione] e Abito [=condizione]) sulle quali essa può esercitarsi12, poi in base agli elementi sui quali inter­ viene il mutamento. Esso può riguardare in primo luogo le parole o le lettere, poi la costruzione grammaticale, infine «VIntenzion della mente». Nel primo gruppo rientrano le «cifre grammaticali» (come quella dell’aba­ te francese cui fu intimato di cedere l’abbazia, che rispose: «“Trentanni ho io faticato per imparar le due prime lettere dello Alfabeto, A, B; al­ trettanti ne voglio per imparar le due seguenti C, D”. Consistendo l’Equivoco nella pronuncia de’ Caratteri Materiali: A BE. CE DE., che in

1. Essa si estende da p. 365 a p. 396. Ma vale la pena di vedere anche le pp. 511-16 (siamo nel Trattato de’ concetti predicabili), 600-606 (Trattato delle iscrizioni argute’, si tratta di pagine interessanti, perché il Tesauro vi analizza alcune proprie iscrizioni alla luce delle otto «metafore» da lui individuate nel Cannocchiale), 615-16 e 666. 2. Tra gli innumerevoli esempi riportati dal Tesauro, è il caso di ricordarne almeno uno già citato ad altro proposito -, di un equivoco che appartiene alla categoria della sostanza e che consiste nell’attribuire nomi umani ad altre cose: «Et il Marini dicea, che ADONE “era stato impiccato dopo morte”, perché il suo poema intitolato l’ADONE era stato sospeso. Ma Papa Urbano disse che “apunto quell’ADONE era pasto da porci”, argutamente alludendo alla favola di Adone e del Cinghiale» (p. 367).

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Francese fan questo suono: ABATE, CEDI»: p. 372); i «Gieroglilici gram­ maticali» (corrispondenti ai nostri rebus); le «Grammaticali Equivoca­ zioni» (che si ottengono dividendo, congiungendo, troncando o accre­ scendo le parole: il satiro [«satyros»] apparso in sogno ad Alessandro asse­ diale Tiro «fu interpretato con vocabulo spezzato, SA TYROS, cioè TUA TYRUS»: p. 375); gli anagrammi (letterali e numerici); l’etimologia ar­ guta («che vera Etimologia non è: ma ricercata con l’acutezza dell’ingegno dal vichi nome», come di «Tito Labieno, perché ne’ suoi scritti ramosa­ mente lacerava ogni genere di persone, si dicea per Roma; “Non La­ bienus est, sed RABIENUS”»: p. 382); i «gerghi» («quando in iscambio de’ vocabuli communi; ci serviamo de’ Nomi propri, che abbiali con essi alcuna somiglianza di suono». Il Tesauro esemplifica con la lettera di «un bello spirito» che «informò l’Amico delle qualità di certo Giovinaccio, che desiderava essere suo Genero» e che comincia così: «Senza farvi il Gabinio, v’informerò di quel Giovenale, che vorrebb’esser vostro Genesio. Egli è veramente Bruto più tosto che Lepido: e benché sia Crasso come Giovenco: è però Fiacco, più che un Marron Marciano», ecc.3: p. 383-84); infine, le allitterazioni e paronomasie, che assurgono anch’esse al rango di metafore di equivoco. Il mutamento che riguarda la «costruzione grammaticale» è poco fe­ condo di «metafore», limitandosi semplicemente a quelle frasi sintattica­ mente ambigue, quali il motto di una cortigiana - «ONORE A DIO» -, maliziosamente mutato da altri in «ONORE, ADIO» (p. 387). In questa categoria il Tesauro fa rientrare anche «le tergiversazioni degli Oracoli», qiMli il famoso «ibis redibis non capieris» (ibid.). Il terzo e ultimo tipo di mutamento si esercita, come abbiamo visto, svM «Intenzion della mente», e da esso «nascono Enigmi talmente ambi­ gui, che Iddio solo è quegli, che può guardarcene» (ibid.). A questa cate­ goria pertiene innanzitutto l’ironia, «Metafora di due faccie, che par lodare, e biasima; concedere, e niega; ingrandire, e appiccolisce; ammi­ rare, e dispregia; dire, e disdice» (pp. 387-88); poi tutta una serie di equivoci «fondati sopra una Parola, o Frasi di due sensi» (p. 388). Tra essi il Tesauro elenca le «risposte non categoriche, ma tergiversanti» («Elettra ad Egisto, che la interrogò col ferro alla mano: “Putas me Tyrannum?” rispose: “Si bonus es, non puto: sin malus, puto”»: ibid.), gli «Enigmi» («come se tu chiami l’Arco Celeste, Un arco senza corda, e senza strali»: p. 389), «gli Equivochi tra le cose finte e le vere. Onde si formano concetti arguti sopra le Pitture e le Sculture» (ibid.) (come «quel di Marziale sopra i Pesci finti: “Adde aquam; natabunt”: volendo signi­ ficare ch’egli eran Pesci veri»: p. 367; e anche in questo caso il pensiero

3. Inevitabile il rimando ad analoghi divertimenti mariniani: cfr. le lettere II pupolo alla pupola e Lapupola alpupolo, in MARINO, Lettere, cit., pp. 540-43.

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va subito alla serie di variazioni della Galeria mariniana), «le Serie, e le Ridicole Applicazioni de’ Versi o Detti altrui; ad un sentimento diverso dalla intenzione del loro Autore» («Come Seneca, per significar che quan­ do la Mente è sana; tutte le umane azioni, le parole, il vestire, il cammina­ re. serbano suo decoro: e per contro, le corruttele de’ costumi, degli abiti. della eloquenza', son chiari effetti di mente guasta: applica quel che cantò Virgilio delle Api: “Rege incolumi, mens omnibus una est. / Amisso, rupere fidem”»: p. 390), Metafora conseguibile anche con qualche ag­ giunta alla frase di partenza. Fin qui la trattazione tesauriana ha riguardato le metafore di equivoco che si possono ottenere con la parola; ma il Cannocchiale aristotelico è anche un trattato di semiotica, e quindi l’autore non dimentica che «gli Equivochi (sicome dicemmo della Metafora) si posson far co’ Cenni', e con le Azioni; non meno che con le Voci» (p. 392). Anche le opere teatrali in genere, insomma, o perlomeno alcune scene di esse, possono configurarsi come degli equivoci: è questa l’ultima e importante acquisizione del Tesauro, che trasforma la metafora di equivoco in matrice narrativa delle tragedie e delle commedie, e, per analogia, di qualsiasi opera narrativa: Finalmente, da questo Genere (cosa degna di risapersi) vedrai tu nascere i più bei Gruppi Tragici o Comici, che abbiali trovato, o trovar possano i Poeti, o Ro­ manzieri. Peroché tutti avran per fondamento uno Equivoco, o di una Persona per un’altra, o di un’/kmne, o Tempo, o Luogo, o d’altra circostanza per altra. E da questo Equivoco fondamentale, nascono in consequenza molti altri Equivochi episodici. Avviluppamenti, e Peripezie maravigliose, e strane; che togliono la fede al vero, o la danno al falso: e finalmente le inaspettate e piacevoli Agnizioni. quando VEquivoco si chiarisce, e il Nodo si disnoda (p. 393).

Se la metafora di equivoco è un formidabile congegno costruttivo a dispo­ sizione dell’autore arguto, è anche un potente strumento analitico in mano al lettore, a sua volta arguto: ecco dunque che il Tesauro analizza una serie di trame (si tratta in prevalenza di novelle tratte dal Decameron) in ciascuna delle quali è operante l’equivoco della «MORTE NON VERA di alcun Personaggio» (ibid.), riguardante di nuovo, volta per volta, una delle dieci categorie aristoteliche. Basterà un solo esempio: E similmente per Equivoco del LUOGO; Andromaca fa credere a’ Greci, che il suo Bambin sia morto, avendolo sepellito vivo apresso ad Ettore suo padre: onde, con tanti Equivochi, senza dir falso, ingombra il vero. Così Andreuccio, da’ Ladri fu creduto un cadavere; perché il trovarono dentro l’avello, dov’egli era entrato per rubar le spoglie al defonto Vescovo Minutalo (p. 395).

La trattazione analitica delle metafore di equivoco, sorretta da una esem­ plificazione che a volte sembra prendere la mano al trattatista, rischia di

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occultare al lettore i legami che la uniscono alla Metafora. Vale dunque la pena di richiamare due punti essenziali: se caratteristica della Metafora è di «significare un obietto per mezzo di un altro» (p. 302), anche quella di equivoco raggiunge questo obiettivo avvalendosi di significanti identici (o molto simili) tra loro, grazie ai quali viene stabilito un collegamento tra due significati diversi, uno dei quali emergerà sotto l’altro, indicato dalla inadeguatezza contestuale del primo. Ricordiamo, poi, che «l’essenza della Metafora consiste nel farti conoscere un Obietto con faciltà» (p. 303): e la metafora di equivoco adempie al proprio compito cognitivo con­ sentendo di attingere una conoscenza «comparativa» (opposta dal Tesauro a quella «assoluta») dell’oggetto in questione, per il tramite della somi­ glianza del significante equivoco (cfr. lo schema a p. 44). Insomma, il lettore può conoscere 1’«oggetto» «Roma» attraverso il significante equi­ voco Valentia, «peroché il Greco nome ROMI, altro apunto non sonava, se non Valentia» (p. 298). Naturalmente, la metafora di equivoco, come gli altri sette tipi di Meta­ fora, è solo il materiale (non bruto, ma già «ingegnoso») sul quale si edi­ fica la vera e propria argutezza. Che, per essere tale, abbisogna di una struttura argomentativa - sia pure nella forma contratta dell’entimema -, che è di pertinenza della facoltà «sillogistica». Ne consegue che non tutti gli esempi addotti nel Cannocchiale aristotelico (né, come vedremo, tutte le metafore di equivoco presenti nelle tragedie del Tesauro) attingono il vertice dell’argutezza, limitandosi anzi più spesso a presentarsi come «metafora semplice» (prodotto della facoltà del «concetto» o «apprensio­ ne») o come «proposizione metaforica» (prodotto della facoltà del «giu­ dizio»). Un’ultima avvertenza prima di procedere all’esame del materiale poe­ tico: si sarà senz’altro notato che «metafora di equivoco» è nozione che, nonostante qualche parziale sovrapposizione (ad esempio, nel caso del­ l’ironia) non è coestensibile ad alcuna delle figure che attualmente arti­ colano l’ambito retorico. Converrà quindi accantonare la tassonomia mo­ derna per cercare di aderire il più possibile a quella del trattatista se­ centesco. Prenderò qui in esame le tragedie Ermegildo. Edipo. Ippolito, stampate a Torino da Zavatta nel 1661 e la cui prima stesura risale, per testimonian­ za dello stesso Tesauro, a parecchi anni prima: per l’Edipo e per TIppolito probabilmente al 1639-40, per YErmegildo al 1659, quando l’autore tradusse dal latino il proprio Hermenegildus, composto nel 16214. La 4. Dopo la princeps (Ermegildo. Edipo. Ippolito, Torino, Zavatta, 1661; le informazioni relative alla cronologia si desumono dalla dedica dello stampatore), l’unica tragedia ad essere stata ristampata è VEdipo, a cura di CARLO OSSOLA. Commento e note di PAOLO

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fabula delle due tragedie di tema classico ricalca, con poche differenze, quella dell" Oedipus e della Phaedra di Seneca. Meno nota, benché fre­ quentissima sulle scene tra fine Cinquecento e Seicento, la vicenda di Ermenegildo, che quindi converrà riassumere rapidamente nella ver­ sione che ne dà il Tesauro. Ermegildo5, figlio del re goto e ariano di Spagna Leovigildo, sposa la cattolica Ingonda di Francia, che lo con­ verte al cattolicesimo. La matrigna Gosvinda si oppone fieramente a questa conversione, fino ad ottenere da Leovigildo che Ermegildo, la moglie e il figlioletto vengano mandati in esilio. La tragedia si apre con il ritorno in armi di Ermegildo, alla vigilia dello scontro decisivo con il padre, che però viene evitato dalla mediazione del sacerdote (greco, e ariano per convenienza) Cherinto, grazie ai cui buoni uffici Ermegildo viene assunto a collega del re, purché rinunci non a professare la fede cattolica, ma a diffonderla. La notizia getta nello sconforto Gosvinda e Recaredo, fratello minore di Ermegildo, che vede sfumare il regno al­ trimenti a lui destinato. Gosvinda minaccia di cacciare Cherinto, il quale s’ingegna quindi ad ordire, con l’aiuto di Recaredo, una trappola: Recaredo fingerà di essere già cristiano e si farà dare da Ermegildo un segno (un anello con l’effigie di papa Pelagio) che lo conforti nella fede. Ermegildo cade nella trappola e, nonostante l’opposizione di Leovigildo, viene condannato a morte. Vedendo il fratello ormai nelle mani del boia, Recaredo confessa l’intrigo; il re manda dei messi a revocare la sen­ tenza, ma è troppo tardi. Ermegildo viene decapitato, ma risorge a benedire la conversione della Spagna al cristianesimo. Infatti Recaredo, pentito, diventerà cristiano. In tutte e tre le tragedie è frequente il primo tipo di metafora di equi­ voco, basato sulla mutazione delle parole o delle lettere, nella sottospecie della paronomasia: ecco qualche esempio, tratto da Ermegildo (= Er), Edipo (= Ed) e Ippolito ( = Ipp) (i corsivi sono miei). parti del corpo mio, parte dell’Alma. né ferro è il Cor, se la Corazza è ferro.

a’ lumi il lume, alle gote la grana, a’ sensi il senso?

(Er, Protasi, 28)

(Er, I 54)

(Er, II 120-21)

CETRE VI, Venezia, Marsilio, 1987. Scarna anche la bibliografia, per la quale rimando a FRARE, Retorica e verità..., cit. I criteri di trascrizione qui adottati sono gli stessi indicati per il Cannocchiale aristotelico (cfr. nota 49 a p. 27). 5. Il Tesauro giustifica la sincope ricorrendo alla versione spagnola del nome: «Ermenigildo, detto dagli Spagnoli Ermegildez» (pag. non numerata).

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hai già di questo Regno il pegno in mano. Le Leggi alfin son leggi', e chi le legge s’un verso, e chi s’un altro.

Che questi ferri un giorno, altro che ferri non ti daranno, et una fune alfine.

per questo nodo

che due palme, e due alme, annoda in una. Martiri insomnia, e generosi Marti,

Fu ben da’ nostri Re spesso atterrita', atterrata non mai.

e’ 1 mal consiglio con l’esempio cancelli, il dol col duolo.

tutto Yonor, tutto Yorror del Regno Tempo è di amari pianti, e non di amori. *

Onde serva non ho, che non rd osservi?

Ben il potei pregar, ma non piegare. e senza errar giammai, Pianeta errante',

(Er, 11 179)

(Er, II 342-43)

Er, III 114-15)

(Er, HI 669-70) (Er, III 752)

(Er, IV 275-76).

(Er, V 122-23)

(Ed, I 195) (Ed, II 53) (Ed, II 71). (Ed, II159) (Ed, II 449)

che dal Nume deriva il nostro lume.

(Ed, II 578).

v&Wesilio YAsilo aver dovrei?

(Ed, IV 417)

poco torrà la tenebrosa torre'.

(Ed, IV 443)

questa del lutto, e non del letto erede,

la più secreta e più sacrata parte

il sonno agli occhi, et alla niente il senno.

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(Ipp, Protasi 34) (Ipp, I 89) (Ipp, I 219-20)

Niun Scita vagabondo, o fiero Ircano, insegnollo, o insognollo:

e copre tra le frondi le frodi', gema pur nelle gemme ;

né con sasso pesante arcata Quercia battea le mura, et abbattea ripari.

Furie più fiere

(Ipp, I 281)

(Ipp, II 287-88) (Ipp, II 307)

(Ipp, Il 332-33) (Ipp, V 151)

La rapida carrellata, che ha per forza di cose unificato modalità che an­ drebbero esaminate singolarmente e discusse, dovrebbe anche aver evi­ denziato il rischio della ripetititivà, del manierismo, sotteso ad una figura tanto facile a costruirsi. Ed a questo rischio il Tesauro non sempre ha saputo (o voluto) sottrarsi, se si pone mente alla prevalenza di parono­ masie ormai usurate dalla tradizione, o al ripetersi di altre all’interno della stessa tragedia o dall’una all’altra tragedia. Almeno, così pare alla sensibilità moderna, ma il Tesauro doveva vedere in queste figure, per noi insignificanti quando non fastidiose, qualcosa di più, se può sostenere che Di tai Bisticci si pingono ancor talvolta i versi con tanta grazia: che, come il concetto sia sciapito e triviale; il ti faran parere ingenioso et arguto: come quel di Cicerone: «Fortunatam natam me Consule Romam». E quel che fu detto ad una Fanciulla filante all’ombra di una Teglia: «Filia sub Tilia fila subtilia fila». E quell’altro: «Mala mali malo mala contulit omnia mundo». E quel vulgato [vulgato, appunto, ma non per questo meno «arguto»]: «Quid facies facies Veneris cum veneris ante? / Non sedeas, sed eas; ne pereas per eas» (pp. 385-86).

Né sembra sminuire la portata della figura la relativa facilità di pro­ curarsela, visto che lo stesso Tesauro consiglia senz’altro il ricorso all’er­ rato corrige dei libri, ai vocabolari, ai calepini, letti ovviamente in ma­ niera arguta: «se tu leggi nel Calepino Pernix, cioè, veloce: vi troverai vi­ cino Perniciosus, cioè dannoso. Onde di un Ingegno veloce, ma turbu­ lento, qual fu quel di Gracco; potrestù dire: “PERNICI, sed PERNI­ CIOSO erat ingenio”» (p. 386). In alcuni casi, l’incontro tra la sensibilità del lettore moderno e quella del secentista è più facile: si prenda il bisticcio tra «fiera» aggettivo e «fiera» sostantivo, che ricorre due volte ne\FErmegildo («E quale Augello è in nido, o Fiera in selva, / fiera sì, che’ suoi parti abbia in oblio?» [I 51-52]; «Una Fiera dell’altre assai più fiera» [IV 21]; e si aggiunga un caso di

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ripresa del sostantivo: «che tra Fiere il dolor Fiera diviene» [III 474]), confermando il suo carattere di facile stereotipo retorico. Esso spesseggia in misura sospetta neWIppolito, dove alla fine entrambi i termini entrano in una relazione di equivoco col nome stesso di Fedra, confermando così che la regina, lungi dall’essere l’oggetto di questa caccia tragica, come crede equivocando, appunto - il servo Admeto («Ora intendo / perché [Ippolito] lasciò la Caccia: ad altra Fiera...»: Ili 183-84), ne è in realtà la feroce protagonista67 . In tal modo, un equivoco di per sé usurato diventa funzionale all’interpretazione della tragedia; allo stesso modo, quello tra «re» e «reo», entrambi riferiti ad Edipo, mette in luce l’identità tra il signore di Tebe e l’assassino di Laio: «Un Re sì saggio, e sì pietoso è il Reo?» (Edipo, III 342); «più non son Re, ma Reo» (V 93). Ancora all’equivoco per mutazione di lettere appartiene 1’«etimologia arguta», di cui le tragedie offrono due esempi, entrambi riferiti alla corte: in Ermegildo ne viene sottolineata la parentela con il ben più “comico” «cortile» («Corte questa non è, ma ben cortile / di pazzi bracchi, e stu­ diosi veltri»: III 230-31), in Ippolito quella con l’aggettivo «corto» («Ebbe senno chi diede / al Palagio Regai nome di Corte; / ove corta è la sorte, / corto il sommo favor, corta la fede»: V 280-83). Il settore dell’equivoco per mutazione di lettere e di parole non offre altri esempi, e addirittura nessuno ne fornisce la mutazione della costru­ zione grammaticale, mentre ben più ricco campo si rivela quello delle metafore di equivoco per «mutazione àeWIntenzion della mente». Più ricco, certo, ma anche più fluido nei suoi confini interni, tanto che con­ verrà operare con discrezione, rinunciando, ove il caso lo richieda, a proporre rigide tassonomie. Potremmo inaugurare la nostra esemplifi­ cazione con l’ironia, che si direbbe figura non frequente nelle tragedie del Tesauro: se ho visto bene, essa compare solo nel secondo atto AeW Edipo e in un verso della Protasi dell'Ippolito1. Diverso il discorso relativamente all’ironia tragica, in cui le parole di un personaggio inconsapevole - più spesso del protagonista - si caricano del presagio della vicina catastrofe: in questi casi, l’equivoco si deve non tanto alla 6. Ecco i passi da ricordare: «di un fier Tiranno, e questa di una Fiera,», Protasi 50; «d’una fiera beltà barbaro erede / ama le Fiere», I 162-3; «dove caccia le Fiere il Garzon fiero», I 222; «Le Fiere Amor ferisce», I 384; «ma più fiera di lui Fiera non è», I 429; «Ite: non son più Fedra. In questa guisa / quella Fiera mi vuol: così men vado», II 86-7; «d’ogni Fera più fiero», Il 123; «Fiero solo alle Fiere», II 286. 7. Così l’ancella Neera risponde ad Antigone, di cui il Tesauro fa innamorare Creonte: «ANTIGONE: Saprestimi tu dir, fida Neera, / dove così di furto / su’ veloci Corsieri andò Creonte? / - NEERA: Credo, a cangiare amori, / e condur contro Antigone in trionfo / pellegrine beltà d’Elide, o d’Argo» (Edipo, II 1-6). Nella Protasi dell’Ippolito è Venere che minaccia vendetta contro Teseo e Fedra: «Ma giuro al Cielo, e alla tremenda Stige / di rendergli [a Teseo] sì lieto il suo ritorno / che 4 cor si roderà di aver lasciate / quelle Stanze dannate» (vv. 64-66; corsivo mio).

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«mutazione dell’intenzion» del parlante, quanto alla dialettica che si stabilisce tra il sapere limitato del protagonista e quello più esteso del lettore. Più delle altre due tragedie, è VEdipo a ricorrere con una certa frequenza all’ironia tragica, che si concretizza soprattutto nei giuramenti di Edipo e di Giocasta. Edipo Giuro e contesto, chiunque osò con temeraria destra involare al Re Laio il vital lume, priverollo de’ lumi. (II 426-29).

Giocasta Edipo contra lui farà vendetta: io mi serbo a sbranar con le mie mani quell’adultera Madre. (II 648-50).

Tra gli equivoci formati con la «mutazione della Construzion gramma­ ticale» il Tesauro inserisce, come abbiamo visto, «le tergiversazioni degli Oracoli», che esemplifica con effati di grande notorietà, quali il già citato «Ibis redibis non capieris» (p. 387). Nelle tragedie questa particolare declinazione non si dà, ma i due testi di derivazione clas­ sica presentano numerosi oracoli divini, in parole e in fatti, fondati su un equivoco «per mutazione deW Intenzion della mente». Essi sono più frequenti neWEdipo, dove possono giocare sull’ambiguità di base inerente allo stesso protagonista: figlio di Laio e di Giocasta vs figlio di Polibo e di Merope, figlio di Giocasta vs marito di Giocasta, tebano vs forestiero, assassino di Laio vs vendicatore di Laio, ecc. Il loro affollarsi in questa tragedia serve a verificare la capacità di interprete di colui - Edipo, appunto - che, in virtù della vittoria contro la Sfinge, si presenta orgogliosamente nella qualità di solutore di enunciati ambigui: «Propio è d’Edipo sviluppare Enigmi» (II 251-52)8. In realtà, il re tebano, lungi dal cogliere l’equivocità degli effati oracolari che lo riguardano, si preoccupa semmai di narcotizzarne uno dei possibili significati, come si vede bene nel seguente passo, in cui Creonte espone il responso ed Edipo lo chiosa univocamente: 8. Elenco le circostanze in cui i personaggi si trovano alle prese con un qualche enigma: l’oracolo delfico prima a Laio (IV 702-704) poi ad Edipo giovinetto (I 225-27), l’indovinello proposto dalla Sfinge (ricordato però solo indirettamente, nelle vesti del «micidiale enigma»: I 106), il responso di Apollo a Creonte (Il 279-90), l’enigma proposto dall’oratore di Corinto (IV 523-24), infine il verdetto di Laio (III 327-34: benché inequivocabile nell’indicare il colpevole in Edipo, esso abbisogna tuttavia di essere provato - e quindi inteipretato - nei particolari). Per il legame tra oracolo, enigma ed equivoco cfr. anche il Cannocchiale, alle pp. 67-68.

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Creonte «Al Teban regno, e alle Anfionie Squadre tornerà mite il Ciel, FAura serena, se partirà dalla mia Dirce Ismena un Tebano uccisor del proprio Padre».

Edipo Basta. Mercè dei miei paterni Lari, non son io né Teban, né Parricida. Nacqui in Corinto: e per fuggire un’ombra di parricidio, abbandonai Corinto: [...].

Creonte «Ei contro a Laio Imperador di Tebe perduelle [nemico pubblico] distrinse il ferro ingrato».

Edipo Basta: mai non vid’io, mai non conobbi quel Re infelice. [...]

Creonte «E osceno ritornò là onde è nato, noto fin dalle fasce a Febo, e a Febe».

Edipo Qui la Santa Donzella non discorre né meco, né di me. Nacqui in Corinto; di Corinto men venni in questo Regno, né mai più ver Corinto, il piè rivolsi. (Il 305-33).

Ad un personaggio che sembra incapace - ma certo si tratta anche di un inconscio meccanismo di autodifesa - di cogliere l’equivocità, se ne oppone, nell" Ippolito, uno che fa della metafora di equivoco la chiave di volta del proprio parlare e del proprio interpretare i discorsi altrui. Mi riferisco a Fedra, i cui dialoghi con Ippolito e con Teseo mettono in atto una notevole perizia nell’uso di «Parole o Frasi di due sensi», le quali, secondo il Tesauro, stanno a fondamento dei «più vivi Equivochi» (p. 388). Trascelgo solo due esempi, tra i molti possibili: nel primo si scontrano l’ingenuità (rhetorice, l’univocità) di Ippolito e la scaltrezza (rhetorice, la capacità di affidare ad una frase due significati: l’affetto materno e l’amore incestuoso) di Fedra: Ippolito Ognun si parta. Or aprimi ‘1 tuo cor; eccoci soli.

Fedra Così, Ippolito mio, veder potessi come sta questo cor, senza ch’io parli. Spinge le voci al labro una gran forza: una forza maggior le risospinge. Digli tu ciò che voglio, o Nume eterno.

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Ippolito Parla senza timor. Fingimi un sasso. [•••]

Ippolito Ogni tua cura, o cara Madre, in questo sen deponi.

Fedra Questo nome di Madre, è troppo altero. Dimmi Compagna, chiamami tua Serva, spedita Ancella ad ogni tuo comando sempre m’avrai. [...] Questa supplice Ancella in seno accogli; D’una vedova afflitta abbi pietade. [...]

Ippolito Sarai da me con tanto zel servita, ch’esser non ti parrà Vedova e sola.

Fedra Ippolito, mia speme. Hai detto assai, ma non hai nulla inteso.

Ippolito E che vorresti?

Fedra Della tacita mente ascolta i prieghi. Parlar voglio, e non posso. Non m’intendi?

Ippolito Che gran mal sarà questo, o sommi Dei?

Fedra Quel ch’in altra Matrigna esser non suole. Haimi inteso?

Ippolito Non certo.

Fedra 0 semplicetto. Un insano furor misto d’amore dentro mi cuoce, e nelle guance avampa. Intendi or tu?

Ippolito Ora intendo: in te si sveglia del tuo Teseo lontano il casto Amore. (Ili 16-68).

L’impermeabilità di Ippolito all’equivoco costringerà infine Fedra a parlar chiaro (come già la medesima sordità metaforica di Edipo costringe infine l’oracolo a fare il suo nome), cioè a dichiarargli apertamente il suo amore. Tutti ricordano gli sviluppi successivi dell’azione: Ippolito estrae la spada per uccidere Fedra, poi cambia idea e si limita a fuggire. La regina e la nutrice accusano Ippolito di violenza presso Teseo. Il dialogo decisivo è

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un capolavoro di equivocità, in quanto laddove si parla di Ippolito si deve in realtà intendere Fedra, e viceversa: Fedra Al ferro, alle minacce e alla forza quest’alma, questa mente [di Fedra vs di Ippolito] non soggiacque: ma il corpo sì. Deh pur l’ho detto: o Teseo!

Nutrice E per segno del vero, ecco le chiome dalla pudica man [di Fedra vs di Ippolito] stracciate e sparte.

Teseo Chi fu il distruggitor del nostro onore?

Fedra Quel che men crederesti [Ippolito vs Fedra].

Teseo Dillo chiaro.

Fedra Dirlo non oso.

(III 304-11).

In questo secondo esempio, come nel precedente, la metafora di equivoco assolve pienamente a quella che è, secondo Tesauro, la natura di ogni Metafora, e quindi di ogni «argutezza» o «cavillazione urbana»: attraverso il falso mostrare il vero. La «Cavillazione urbana»^ infatti, è «quella solamente, che senza dolo malo, scherzevolmente imita la verità, ma non l’opprime; et imita la falsità in guisa che il vero vi traspaia come per un vele» (p. 494). Occorre attraversare il falso della lettera per arrivare al vero del significato traslato: se Teseo fosse in grado di farlo - se fosse il lettore arguto che sarebbe suo dovere essere - arriverebbe alla verità, che Fedra non può dire se non in quel modo, sotto quel velo che, nell’atto stesso di nascondere, rivela. La Metafora non è dunque menzogna: l’as­ serzione teorica di Tesauro trova conforto nella prassi poetica. Può essere utile, a questo punto, esaminare un altro brano, tratto dalV Ermegildo, in cui equivoco e menzogna sembrano intrecciarsi e im­ brogliare un poco le carte. Ci troviamo nella scena quinta dell’atto terzo, in un momento cruciale per l’intreccio: Recaredo, d’accordo con il sa­ cerdote Cherinto, finge con Ermegildo di essere già cristiano (un cristiano nicodemita, che nasconde la propria fede per timore) e gli comunica il proprio turbamento. Infatti, ormai si avvicina la Pasqua ariana, che si festeggia in data diversa dalla cristiana, e la cui celebrazione porrà Re­ caredo di fronte a un bivio: accettare la comunione, commettendo quindi sacrilegio, o rifiutarla, il che equivale a confessare la fede cristiana e, di conseguenza, ad una certa condanna a morte. Ermegildo tenta invano di confortare il fratello, prospettandogli prima la gloria del martirio, poi la soluzione della fuga; Recaredo, dopo aver rifiutato sia l’una sia l’altra, chiede al fratello un oggetto sacro che lo sostenga nella prova che lo

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attende. Ermegildo gli consegna un anello con l’effìgie di papa Pelagio, anello che verrà poi usato a provare che egli ha tentato di convertire il fratello minore al cristianesimo, contravvenendo quindi al giuramento sancito prima di essere assunto a collega del padre. La lunga scena si fonda su un assunto menzognero: non è vero che Recaredo sia già cristiano. Da questa menzogna se ne diramano altre minori, che non lasciano spazio ad alcuna verità: è falso che Recaredo sia cristiano, è falsa la ricostruzione che egli fa del proprio approdo al cristia­ nesimo, è falsa la sua perplessità riguardo al da farsi nella prossima Pa­ squa, sono false, infine, la sua debolezza di fronte al martirio e la sua ver­ gogna di fronte alla fuga. Il che non toglie, tuttavia, che anche a Recaredo sfugga qualche parziale verità, e che essa sia affidata proprio alla figura di equivoco. Il (finto) turbamento per l’avvicinarsi della Pasqua ariana vela la (vera) disperazione di Recaredo per l’assunzione al trono del fratello («Caro Ermegildo, / questo giorno a te lieto, a me è mortale.»: Ili 705-706); il suicidio effettivamente progettato viene usato a coonestare un giuramento in cui il «dì tanto funesto» gioca di nuovo sul medesimo equivoco appena ricordato («Se non è ver, che in questo istesso luogo / m’ho voluto svenar con la mia spada / per non vedere un dì tanto fu­ nesto»: III 800-802); infine, dopo aver ricevuto l’anello con l’effigie di papa Pelagio, Recaredo esala la propria gioia, in quanto esso lo renderà «re», non della propria debolezza, come intende Ermegildo, ma del regno spagnolo («0 Pelagio mio dolce, o Padre amato, / tu mi fai Re: tu 61 core al cor mi rendi; / tu mi sii fido scudo.»: Ili 847-49). Questa lunga scena, dunque, accosta menzogna e metafora di equivoco, ma le accosta per distinguerne i meccanismi retorici e le responsabilità etiche: mentre la prima è alternativa al vero, la seconda lo contiene in sé, pronta a svelarla all’interprete arguto9. 9. Su questo ordine di problemi, si veda almeno HARALD WEINRICH, Linguistica della menzogna [1966], in Metafora e menzogna: la serenità delibarle, Bologna, il Mulino, 1976, pp. 133-91. Relativamente aMErmegildo, rimando a FRARE, Retorica e verità..., cit., II.7. Può essere utile rileggere l’apologo in cui Graciàn individua nell’argutezza il rifugio della verità: «Era la Verdad esposa legitima del Entendimiento, pero la Mentirà, su gran émula, emprendió desterrarla de su tàlamo y derubarla de su trono. Para esto, óqué embustes no intento? óqué supercherias no hizo? Comenzó a desàcreditarla de grosera, desaliiìada, desabrida y necia: al contrario, a si misma venderse por cortesana, discreta, bizarra y apacible, y si bien por naturaleza fea, procuro desmentir sus faltas con sus afeites. Echó per tercero al Gusto, con que en poco tiempo obró tanto, que tiranizó para si el rey de las potencias. Viéndose la Verdad despreciada y aun perseguida, acogióse a la Agudeza, comunicóla su trabajo y consultóla su remedio. “Verdad amiga, dijo la Agudeza, no hay man jar mas desabrido en estos estragados tiempos que un desengano a secas, mas, iqué digo desabrido!, no hay bocado mas amargo que una verdad desnuda. La luz que derechamente hiere, atormenta los ojos de una àguila, de un lince, Guanto mas los que flaquean. Para esto inventaron los sagaces médicos del ànimo

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Su questo punto essenziale torneremo più tardi; ora preme di conclu­ dere la rassegna delle modalità con cui la metafora di equivoco si concre­ tizza nei testi tragici del Tesauro. L’ultima di esse investe la costruzione del testo, la fabula stessa: ricordiamo che molti dei «gruppi comici o tragici» hanno la propria matrice, secondo Tesauro, appunto nella meta­ fora di equivoco. Tra essi, inutile dirlo, rientra VEdipo, il cui nodo con­ siste nell’equivoco della «MORTE NON VERA di alcun personaggio: che fra’ tutti i Nodi è più Tragico, e più frequente» (p. 393) e che si esercita sulle categorie aristoteliche dell’«azione» e della «passione»: «Così es­ sendo ad Edipo, a Ciro, a Romolo ancor bambini, ordinata la morte, ma non eseguita; fur suggetto di oscuri Oracoli, et intricate Tragedie» (p. 395). Se nel caso deiVEdipo la metafora di equivoco fonda il nodo principale del testo, in altri casi essa si trova alla base di singoli episodi: ad esem­ pio, il rifiuto di Antigone di sposare Creonte per non abbandonare Edipo (IV, se. I) è una metafora di equivoco in parole (Giocasta lo interpreta come dettato da un amore incestuoso per il padre); metafora di equivoco in fatti è invece la fuga di Ippolito dopo l’incontro con la matrigna, fuga che, provocata dal turbamento e dallo sdegno del giovane, verrà letta da Teseo come una ammissione di colpa. A volte, è addirittura un intero testo (a prescindere, evidentemente, dall’estensione di esso) che può configurarsi, nella sua totalità, come una metafora di equivoco: infatti, il Tesauro ci segnala che Sotto il medesimo genere [quello dell’«arguzia composita»] ingegnosissima e piacevolissima Argutezza è, torcere l’altrui Motto ad alcuna significazion diffe­ rente. Peroché la diversa interpretazione genera equivocamente: e l’equivocamento altro non è che metafora significante una cosa per l’altra. Onde nasce, che i me­ desimi detti, i quali nel proprio senso non sarebbero né ingegnosi né arguti; tran­ sportati ad altro suggetto, divengono argutissimi a dire, e piacevolissimi ad udire; per quel conflitto che il senso proprio col figurato movono nella mente (p. 41).

Il Tesauro pare aver sperimentato questa modalità nelTIppolito, costruen­ do la tragedia nella sua interezza come una metafora di equivoco, che si el arte de dorar las verdades, de azuearar los desenganos. Quiero decir (y observadme bien està lección, estimadme este consejo) que os hagàis politica; vestios al uso del mismo Engano, disfrazaos con sus mismos arreos, que con eso yo os aseguro el remedio, y ami el vencimiento.” Abrió los ojos la Verdad, dio desde entonces en andar con artificio, usa de las invenciones, introducese por rodeos, vence con estratagemas, pinta lejos lo que està muy cerca, habla de lo presente en lo pasado, propone en aquel sujeto lo que quiere condenar en éste, apunta a uno para dar en otro, desiumbra las pasiones, desmiente lo afectos y, por ingenioso circunloquio, viene siempre a parar en el punto de su intención» (Agudeza y arte de ingenio, Discurso LV, in Obras completas, Introducción, recopilación y notas de E.fVARISTO] CORREA CALDERÓN, Madrid, Aguilar, 1944, p. 255; trad. it. Palermo, Aesthetica, 1986).

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serve dell’identità del «nome» (in questo caso, la fabula) per puntare l’in­ dice su un oggetto diverso. Credo di aver già dimostrato altrove1011come, traducendo e reinterpretando la Phaedra senecana, il Tesauro intenda trasformare la tragedia antica in tragedia cristiana, imperniandola intorno ad un nuovo sistema valoriale, in cui protagonista non è più la forza irresistibile dell’amore fatale di Fedra, ma il sacrificio dell’innocente Ip­ polito (modellato su quello del Martire per eccellenza, cioè Cristo). Il «nome» (la trama deWIppolito) è rimasto intatto, ma il «concetto» (il sistema valoriale) è radicalmente mutato. Non posso ora riproporre, per non abusare del lettore, le argomentazioni proposte in quella sede: ma se esse sono, come credo, convincenti, non è certo un caso che la tragedia in cui, più che nelle altre, il Tesauro fa ricorso alla metafora di equivoco si configuri essi stessa come un “macro-equivoco”, che attraverso il falso del sistema valoriale antico rimanda al vero dei nuovi valori cristiani. Vero, falso: il ricorso a questa coppia di termini si è ispessito nelle ultime righe del saggio, a mano a mano che il livello testuale preso in consi­ derazione si faceva più generale, e più ampi i cotesti e i contesti interes­ sati. E qui il nostro discorso, che nella prima parte era proceduto per progressive restrizioni di campo - dall’intera figuratica alle figure inge­ gnose, dalla Metafora alla metafora di equivoco - potrà ora tornare ad allargarsi, poiché ciò che vale per le singole Metafore vale per l’argutezza in generale e - con una estensione che non parrà certo illegittima, consi­ derato il secolo che stiamo osservando - per la poesia nel suo complesso. La quale si trova, almeno fin dalla condanna platonica, a controbattere le accuse di coloro che la ritengono compromessa con la menzogna e ne auspicano quindi, se non l’allontanamento, almeno una subordinazione ai valori vigenti, siano essi morali o scientifici o politici11. Il problema del controverso rapporto tra poesia e verità viene riproposto con maggior urgenza dall’esplosione del concettismo, che, sulla scorta delle proposte di Iacopo Mazzoni, punta sull’imitazione «fantastica» più che su quella «icastica», allentando quindi i legami del poeta con il vero e con il verosimile12. Si tratta di uno spostamento sul versante della sofistica che vale non solo per la poesia, ma anche per la critica concettista: entrambe mirano non al convincimento attraverso le «sode ragioni» quanto alla meraviglia, da conseguirsi tramite l’uso spregiudicato dei paralogismi e 10. FRARE, Retorica e verità..., cit., cap. 4.6. 11. «La contesa per la verità» tra il sapere poetico e quello filosofico viene ricostruita, in tre tappe personificate da Platone, da Vico e da Kafka, da FRANCO RELLA, La battaglia della verità, Milano, Feltrinelli, 1986. 12. SCARPATI, Icastico e fantastico: Iacopo Mazzoni tra Tasso e Marino, cit.; Vero e falso nel pensiero poetico del Tasso, cit.; La metafora al di là del vero e del falso in Emanuele Tesauro, cit..

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delle bugie, siano esse probabili, verosimili o anche del tutto improbaili13. A questa concezione della letteratura e della critica si oppone il cosiddetto classicismo barocco, che riceverà nuova forza dall’elezione al soglio pontificio di uno dei suoi più prestigiosi esponenti, il cardinale Maffeo Barberini, dal 1623 papa Urbano Vili. E l’anno che vede il ritorno trionfale del Marino dalla Francia, ma che anche avvia il progressivo de­ clino della poesia da lui patrocinata, sostituita da un’altra che si propone di ripristinare il legame tra letteratura e .morale, tra retorica ed etica, quando non di subordinare, più o meno rigidamente, le prime alle seconde1415 . Nonostante le prolungate resistenze di amici e discepoli del Marino, nel 1654, quando Emanuele Tesauro dà alle stampe il proprio Cannocchiale aristotelico, la marea concettista (per la verità, mai tanto alta da som­ mergere completamente altre idee di letteratura) si è ormai ritirata, e la mutata situazione storica, politica e religiosa sta segnando la rivincita di una poesia moralmente e civilmente impegnata, disposta a concedere di­ ritto di cittadinanza alle argutezze solo a prezzo di una loro subordi­ nazione alle severe leggi della logica, del decoro, soprattutto dell’etica. Il trattatista torinese si trova dunque stretto in una non facile situazione: da una parte, non intende rinnegare un’opera probabilmente concepita nella fervida stagione dei trionfi marini ani, quella stagione che lo aveva visto partecipe e di cui il Cannocchiale voleva essere insieme l’esaltazione e la giustificazione teorica; dall’altra non può certo ignorare il mutato ordine di problemi suscitato dal dibattito in corso, ed in particolare dagli inter­ venti del Peregrini (Delle acutezze, 1639), del Bartoli (L'uomo di lettere difeso ed emendato, 1645), soprattutto - anche per interposta persona, come vedremo - di Sforza Pallavicino. Più che il Del Bene, in cui, co­ munque, «alla poesia, allontanata dalla sfera del vero, viene assegnata quella del nuovo e del meraviglioso, pericolosamente contigua alla falsità e alla menzogna»lb, occorre tener presenti le Considerazioni sopra l'arte 13. Sui legami tra Marino e la seconda sofistica cfr. MARC FUMAROLI, L’àge de Ueloquence. Rhétorique et «res literaria» de la Renaissance au seuil de Lépoque classique, Ge­ nève, Droz, 1980, pp. 213-17. Sulla critica concettista, cfr. FRARE , La «nuova critica» della meravigliosa acutezza, cit., pp. 233-39. 14. Il quadro culturale della Roma barberiniana è delineato con mano ferma e ricchezza di documentazione da ERALDO BELLINI, Umanisti e Lincei. Letteratura e scienza a Roma nelUetà di Galileo, Padova, Antenore, 1997. Si dovranno vedere anche i numerosi inter­ venti di MARC Fumaroli, in particolare quelli raccolti in La scuola del silenzio. Il senso delle immagini nel XVII secolo, Milano, Adelphi, 1995 (ed. orig. 1994). 15. ERALDO Bellini, Scrittura letteraria e scrittura filosofica in Sforza Pallavicino, in SCARPATI - BELLINI, Il vero e il falso..., cit., pp. 73-189: 79. Il Del bene uscì nel 1644 a Roma presso gli eredi del Corbelletti e due anni dopo a Colonia (apud Ioannem Kinchium), in una versione latina approntata dallo stesso Pallavicino, col titolo Philosophiae moralis seu De bono libri quatuor.

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dello stile e del dialogo16, in cui l’uso dei concetti viene severamente limi­ tato non solo nello stile «insegnativo», ma anche in poesia, con contesta­ zioni rivolte proprio ad esempi tratti da opere di Marino. Nel 1648 uscirono, a cura dello stesso Pallavicino, le Rime postume di Giovanni Ciampoli17, contenenti una Poetica sacra: si tratta di un dialogo in versi tra la Poesia e la Devozione il cui tema essenziale è quello della conci­ liazione tra poesia e verità (come non manca di segnalare la nota apposta dal curatore a p. 246: «Si comincia a trattare come possa con la Poesia unirsi la Verità»), che si ottiene privilegiando argomenti di storia sacra e rinunciando alle metafore ardite, che vengono rinchiuse «all’interno della gabbia concettuale del “falso”, regno della menzogna e della bugia»18. Né si possono dimenticare le Vindicationes Societatis lesa, con il loro severo giudizio su Marino, che a Pallavicino sembra canoris nugis auditum fallere, non succo sententiarum, atque argutiarum animos pascere. Quas enim argutias promit, adulterinas ac tanquam supposititias promit, haud ingenuas ac veras, et respectantis oculi acumen non formidantes. Uno verbo, carebat philosophico ingenio19.

La netta condanna del concettismo - di una poesia che non si perita di ri­ correre a figure retoriche manifestamente «fondate in falso» - che veniva da queste e da altre pubblicazioni, dovette stimolare anche il Tesauro a rivedere il proprio trattato, nel tentativo di trovare una soluzione ai pro­ blemi posti dalla nuova temperie culturale. Come era possibile recuperare dignità conoscitiva ad un tipo di poesia che pareva prescindere totalmente da qualsivoglia rapporto con il vero e con il verosimile? Che pareva puntare sull’immaginazione «fantastica» più che su quella «icastica», per usare le categorie del Mazzoni? La letteratura arguta - in primis quella del Marino - era dunque tutta da rifiutare in quanto irrimediabilmente compromessa con la menzogna, come pareva proclamare l’opinione ormai prevalente? 16. SFORZA PALLAVICINO, Considerazioni sopra Carte dello stile e del dialogo, Roma, Eredi del Corbelletti, 1646; ristampate Fanno dopo a Bologna da Giacomo Monti con lievi varianti e con il titolo di Arte dello stile-, infine, rielaborate ed ampliate come Trattato dello stile e del dialogo, Roma, Mascardi, 1662. 17. GIOVANNI CIAMPOLI, Rime, Roma, Eredi del Corbelletti, 1648 (precedute da una prefazione del Pallavicino); andrà tenuta presente, tuttavia, anche l’edizione delle Poesie sacre, Bologna, Zenero, 1648, molto più scorretta ma in cui la Poetica sacra presenta un centinaio di versi in più, con tanto di citazione di sant’Agostino come autorità in tema di trattazione della menzogna (p. 31). 18. BELLINI, Umanisti e Lincei..., cit., p. 127. 19. Vindicationes Societatis lesa quibus multorum accusationes in eius institutum leges, gymnasia, more refelluntur, auctore Sfortia Pallavicino, eiusdem Societatis sacerdote, Romae, Typis Dominici Manelphi, 1649, pp. 123-24. I giudizi del Pallavicino sul Marino sono analizzati da BELLINI, Scrittura letteraria..., cit., pp. 128-35.

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delle bugie, siano esse probabili, verosimili o anche del tutto improbaili13. A questa concezione della letteratura e della critica si oppone il cosiddetto classicismo barocco, che riceverà nuova forza dall’elezione al soglio pontificio di uno dei suoi più prestigiosi esponenti, il cardinale Maffeo Barberini, dal 1623 papa Urbano Vili. E l’anno che vede il ritorno trionfale del Marino dalla Francia, ma che anche avvia il progressivo de­ clino della poesia da lui patrocinata, sostituita da un’altra che si propone di ripristinare il legame tra letteratura e morale, tra retorica ed etica, quando non di subordinare, più o meno rigidamente, le prime alle seconde1415 . Nonostante le prolungate resistenze di amici e discepoli del Marino, nel 1654, quando Emanuele Tesauro dà alle stampe il proprio Cannocchiale aristotelico, la marea concettista (per la verità, mai tanto alta da som­ mergere completamente altre idee di letteratura) si è ormai ritirata, e la mutata situazione storica, politica e religiosa sta segnando la rivincita di una poesia moralmente e civilmente impegnata, disposta a concedere di­ ritto di cittadinanza alle argutezze solo a prezzo di una loro subordi­ nazione alle severe leggi della logica, del decoro, soprattutto dell’etica. Il trattatista torinese si trova dunque stretto in una non facile situazione: da una parte, non intende rinnegare un’opera probabilmente concepita nella fervida stagione dei trionfi marini ani, quella stagione che lo aveva visto partecipe e di cui il Cannocchiale voleva essere insieme l’esaltazione e la giustificazione teorica; dall’altra non può certo ignorare il mutato ordine di problemi suscitato dal dibattito in corso, ed in particolare dagli inter­ venti del Peregrini (Delle acutezze, 1639), del Bartoli (L'uomo di lettere difeso ed emendato, 1645), soprattutto - anche per interposta persona, come vedremo - di Sforza Pallavicino. Più che il Del Bene, in cui, co­ munque, «alla poesia, allontanata dalla sfera del vero, viene assegnata quella del nuovo e del meraviglioso, pericolosamente contigua alla falsità e alla menzogna»10, occorre tener presenti le Considerazioni sopra l'arte 13. Sui legami tra Marino e la seconda sofistica cfr. MARC FUMAROLI, L'àge de Ueloquence. Rhétorique et «res literaria» de la Renaissance au seuil de Lepoque classique, Ge­ nève, Droz, 1980, pp. 213-17. Sulla critica concettista, cfr. FRARE , La «nuova critica» della meravigliosa acutezza, cit., pp. 233-39. 14. Il quadro culturale della Roma barberiniana è delineato con mano ferma e ricchezza di documentazione da ERALDO BELLINI, Umanisti e Lincei. Letteratura e scienza a Roma nell'età di Galileo, Padova, Antenore, 1997. Si dovranno vedere anche i numerosi inter­ venti di MARC Fumaroli, in particolare quelli raccolti in La scuola del silenzio. Il senso delle immagini nel XVII secolo, Milano, Adelphi, 1995 (ed. orig. 1994). 15. ERALDO Bellini, Scrittura letteraria e scrittura fdosofica in Sforza Pallavicino, in SCARPATI - BELLINI, Il vero e il falso..., cit., pp. 73-189: 79. Il Del bene uscì nel 1644 a Roma presso gli eredi del Corbelletti e due anni dopo a Colonia (apud Ioannem Kinchium), in una versione latina approntata dallo stesso Pallavicino, col titolo Philosophiae moralis seu De bono libri quatuor.

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dello stile e del dialogo1617 , in cui l’uso dei concetti viene severamente limi­ 18 tato non solo nello stile «insegnativo», ma anche in poesia, con contesta­ zioni rivolte proprio ad esempi tratti da opere di Marino. Nel 1648 uscirono, a cura dello stesso Pallavicino, le Rime postume di Giovanni Ciampoli1 z, contenenti una Poetica sacra: si tratta di un dialogo in versi tra la Poesia e la Devozione il cui tema essenziale è quello della conci­ liazione tra poesia e verità (come non manca di segnalare la nota apposta dal curatore a p. 246: «Si comincia a trattare come possa con la Poesia unirsi la Verità»), che si ottiene privilegiando argomenti di storia sacra e rinunciando alle metafore ardite, che vengono rinchiuse «all’interno della gabbia concettuale del “falso”, regno della menzogna e della bugia» . Né si possono dimenticare le Vindicationes Societatis lesa, con il loro severo giudizio su Marino, che a Pallavicino sembra canoris nugis auditum fallere, non succo sententiarum, atque argutiarum animos pascere. Quas enim argutias promit, adulterinas ac tanquam supposititias promit, haud ingenuas ac veras, et respectantis oculi acumen non formidantes. Uno verbo, carebat philosophico ingenio19.

La netta condanna del concettismo - di una poesia che non si perita di ri­ correre a figure retoriche manifestamente «fondate in falso» - che veniva da queste e da altre pubblicazioni, dovette stimolare anche il Tesauro a rivedere il proprio trattato, nel tentativo di trovare una soluzione ai pro­ blemi posti dalla nuova temperie culturale. Come era possibile recuperare dignità conoscitiva ad un tipo di poesia che pareva prescindere totalmente da qualsivoglia rapporto con il vero e con il verosimile? Che pareva puntare sull’immaginazione «fantastica» più che su quella «icastica», per usare le categorie del Mazzoni? La letteratura arguta - in primis quella del Marino - era dunque tutta da rifiutare in quanto irrimediabilmente compromessa con la menzogna, come pareva proclamare l’opinione ormai prevalente? 16. SFORZA PALLAVICINO, Considerazioni sopra Carte dello stile e del dialogo, Roma, Eredi del Corbelletti, 1646; ristampate l’anno dopo a Bologna da Giacomo Monti con lievi varianti e con il titolo di Arte dello stile ; infine, ri elaborate ed ampliate come Trattato dello stile e del dialogo, Roma, Mascardi, 1662. 17. GIOVANNI CIAMPOLI, Rime, Roma, Eredi del Corbelletti, 1648 (precedute da una prefazione del Pallavicino); andrà tenuta presente, tuttavia, anche l’edizione delle Poesie sacre, Bologna, Zenero, 1648, molto più scorretta ma in cui la Poetica sacra presenta un centinaio di versi in più, con tanto di citazione di sant’Agostino come autorità in tema di trattazione della menzogna (p. 31). 18. BELLINI, Umanisti e Lincei..., cit., p. 127. 19. Vindicationes Societatis lesa quibus multorum accusationes in eius institutum leges, gymnasia, more refelluntur, auctore Sfortia Pallavicino, eiusdem Societatis sacerdote, Romae, Typis Dominici Manelphi, 1649, pp. 123-24. I giudizi del Pallavicino sul Marino sono analizzati da BELLINI, Scrittura letteraria..., cit., pp. 128-35.

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A dire il vero, una scappatoia esisteva, ed era quella della sovrappo­ sizione ai testi di un senso allegorico: il procedimento, autorizzato da una millenaria tradizione di origine patristica, e frequentemente usato, era sta­ to riproposto dal Tasso per la Gerusalemme liberata. Tuttavia, la più re­ cente - e più “scandalosa” - utilizzazione era quella fattane dal Marino nell’Adone*, ma YAllegoria anteposta ad ogni canto, lungi dal coonestare un contenuto decisamente pagano, dovette rendere ancora più evidente il fatto che il poema non era per nulla costruito secondo un coerente piano allegorico e, soprattutto, che il mito non vi era affatto reinterpretato alle­ goricamente alla luce dell’universo valoriale cristiano, ma goduto di per sé20. Di conseguenza, questa spregiudicata adibizione di uno strumento ermeneutico di cui la civiltà cristiana si era egregiamente servita per ri­ utilizzare la classicità pagana, non solo non salvò YAdone dalla condanna ecclesiastica, ma danneggiò lo stesso strumento dell’interpretazione alle­ gorica, svuotandolo definitivamente del significato che aveva fino allora avuto e rendendolo inoperante o addirittura nocivo agli occhi di chi si preoccupava di ristabilire su più solide basi il pericolante legame tra letteratura e morale. Non è dunque per caso, né per solo influsso dell’in­ cipiente razionalismo d’oltralpe, che letterati come lo Stigliani, il Fioretti, il Pallavicino, il Bartoli rifiutano recisamente - e in qualche caso polemi­ camente - il ricorso all’allegoria, che trova invece dei patrocinatori tra il Marino e i suoi seguaci (ad esempio, Scipione Errico e Angelico Apro’ sio)21. E significativo il fatto che nel Cannocchiale aristotelico l’allegoria a 20. Si tratterebbe, dunque, di una infrazione alla nota distinzione agostiniana tra uti e frui (si veda almeno il De doctrina christiana, in particolare I, xxvii-xxxiii): si deve godere soltanto di Dio, mentre di tutto il resto si deve solamente usare come scala a Dio. 21. Il là all’uso e alla giustificazione dell’allegoria era stato dato dallo stesso Marino nella Dedica àADAdone a Maria de’ Medici: «Oltre che, per essere il componimento ch’io le reco quasi un registro delle sue opere magnanime, delle quali una parte (an­ corché minima) mi sono ingegnato d’esprimere in esso, e per avere io ridotto il soggetto che tratta (come per l’allegoria si dimostra) ad un segno di moralità, la maggiore che per aventura si ritrovi fra tutte l’antiche favole, contro l’opinione di coloro che il contrario si persuadevano, giudico che ben si confaccia alla modesta gravità d’una principessa tanto discreta» (GIAMBATTISTA MARINO, Adone, a cura di MARZIO PIERI, Bari, Laterza, 197577, I, p. 13) Il suggerimento fu accolto, a tacer d’altri, da Scipione Errico nel proemio della Babilonia distrutta (Venezia, Tozzi, 1624), adottato da Giulio Cesare Cortese nella Vaiasseida (Napoli, Ottavio Beltrano, 1628), difeso da Angelico Aprosio nella Sferza poe­ tica (Venezia, Stamperia Guerigliana, 1643, p. 170). Sul versante opposto, il primo attacco all’allegoria risale ovviamente allo Stigliani, il quale, dopo aver elencato alcune «lascivie» dell’Adone, così scrive: «Né qui mi si risponda, che le male azioni s’onestino coll’allegorie fatte in prosa, e poste a’ principii de’ canti; perciocché oltre il non essere ciò vero (il che io disputo altrove) giuro sulla mia fè, che queste qui dell’autore serven­ dosi sempre d’un generalissimo argano, che è il ridurre ogni scelerità ad allusici! di fragilità umana, riescono tanto impertinenti, e tanto stiracchiate, che tutte gli si spezzano in mano a guisa di stringhe fradice, o di correggioli marci» (STIGLIANI, Dello occhiale...,

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rinunci al ruolo di strumento ermeneutico, restando confinata nella definizione strettamente retorica di metafora continuata22: il Tesauro, cioè,

cit., pp. 110-11). Benedetto Fioretti, sotto lo pseudonimo di Udeno Nisiely, estende la riprovazione all’allegoria in generale: «quando mi rimbombano per le orecchie, e feri­ scono il cuore queste allegorie poetiche, subitamente io ripiego le insegne, depongo l’ar­ me, e mi do per vinto: cotanto è il terrore che mi avvilisce, e mi trafigge per queste pedagogomachie allegoriche; le quali a guisa d’una quinta essenza di pazzia, e d’ignoranza, vogliono che quel ch’è contro a Dio, alla Natura e all’arte, sia venerabile, utile, artifi­ zioso» (UDENO Nisiely, Proginnasmi poetici, Firenze, Matini, 1695-97 [1620-16391], III [1627], p. 327). Di queste parole pare ricordarsi Daniello Bartoli, quando contesta le «colpevoli discolpe dei poeti impudici», tra le quali quella che le loro poesie sarebbero «maschere d’allegorie, che cuoprono sensi di purissima filosofia morale»: «i distruttori della vita morale - replica sdegnato Bartoli - vogliono che si creda loro esserne veri maestri». Chiara l’allusione al Marino (come aveva già visto Guglielminetti, in MARINO, Lettere, cit., p. VII): «Ma oggi non è sì privo di senno il mondo, che non sappia che certe allegorie che altri (sua mercè) attaccò a queste poesie (allegorie che quantunque si sti­ rino non arrivali però a coprire le vergogne che in esse si leggono) non furono il disegno sopra di cui si lavorò il poema; si trovarono dopo, fuor d’ogni pensiero dell’autore; Chi­ mere, non allegorie, e sforzi inutili di chi vuol mutare le libidini in misteri» (DANIELLO BARTOLI, L'uomo di lettere difeso ed emendato, Roma, eredi del Corbelletti, 1645, pp. 183-90). Infine, il Pallavicino nega alle «poetiche allegorie» sia una legittimazione ari­ stotelica sia una qualunque funzione didattica (Considerazioni sopra Larte..., cap. XXXI). Questa veloce carrellata può essere proficuamente conclusa citando un intervento di Galileo, suggestivo non tanto per la proposta di un uso “razionale”, per così dire, deH’allegoria, quanto per l’accostamento, e sia pure nella condanna, tra essa e l’anamorfosi: «Ma, Sig. Tasso vorrei pur che voi sapessi che le favole e le finzioni poetiche devono servire in maniera al senso allegorico, che in esse non apparisca una minima ombra d’obligo: altrimenti si darà nello stentato, nel sforzato, nello stiracchiato e nello spropo­ sitato; e farassi una di quelle pitture, le quali, perché riguardate in scorcio da un luogo determinato mostrino una figura umana, sono con tal regola di prospettiva delineate, che, vedute in faccia e come naturalmente e comunemente si guardano le altre pitture, altro non rappresentano che una confusa e inordinata mescolanza di linee, e di colori, dalla quale anco si potriano malamente raccapezare imagini di fiumi o sentici- tortuosi, ignude spiagge, nugoli o stranissime chimere. Ma quanto di questa sorte di pitture, che princi­ palmente son fatte per esser rimirate in scorcio, è sconcia cosa rimirarle in faccia, non rappresentando altro, che un mescuglio di stinchi di gru, di rostri di cicogne, e di altre sregolate figure, tanto nella poetica finzione è più degno di biasimo che la favola corrente scoperta, e prima dirittamente veduta sia per accomodarsi alla allegoria obliquamente vista e sottointesa, stravagantemente ingombrata di chimere e fantastiche e superflue imaginazioni» (Considerazioni al Tasso, in Le Opere di Galileo Galilei. Ristampa della Edizione Nazionale diretta da ANTONIO FAVARO. IX. Scritti letterari, Firenze, Le Mounier, 1933, pp. 129-30). 22. La scelta del Tesauro è tanto più indicativa in quanto nel suo stesso ambiente, e tra i suoi amici, non manca la tendenza opposta: Lorenzo Scoto - l’autore delle allegorie pre­ messe ai canti dell’Adone - stampa nel 1656 la favola pastorale II Gelone (Torino, Zavatta, 1656), con tanto di «Allegorie dell’abate Castiglioni». A testimoniare i legami tra lo Scoto e il Tesauro basti segnalare che l’opera è aperta da un ritratto dello Scoto cui fa da didascalia un epigramma del Tesauro e che è chiusa da una Lettera discorsiva del medesimo autore concernente il Genere Drammatico dedicata al Tesauro, in cui si loda il

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sembra ben conscio che non per questa via si poteva restituire dignità ve­ ritativa alla letteratura concertista.

Il rapporto tra verità e menzogna e la possibilità di una interpretazione al­ legorica che recuperasse il valore veritativo di enunciati apparentemente falsi (falsi, cioè, dal punto di vista della logica e/o della filosofia e/o della morale) era stato oggetto della riflessione di sant’Agostino, quello stesso Agostino nelle cui opere il Tasso trova risposta alla propria ansia di una poesia “vera”23, quell’Agostino che anche Ciampoli, con atteggiamento più rigorista, convoca a condannare qualunque tipo di bugia . Nel De mendacio (395 circa), il vescovo di Ippona insegnava che la menzogna consiste non nella verità o falsità delle cose dette, ma nell’intenzione interiore del parlante: Non enim omnis qui falsum dicit, mentitur, si credit aut opinatur verum esse quod dicit. [...] Quapropter ille mentitur, qui aliud habet in animo et aliud verbis vel quibuslibet significationibus enuntiat Ex animi enim sui sententia, non ex rerum ipsarum veritate vel falsitate mentiens aut non mentiens judicandus .25 est . **

Definita così la bugia, Agostino la condanna pressoché in ogni caso: infat­ ti, anche quelle che ritiene meno gravi (ma comunque da evitare: cioè quelle proferite per sfuggire ad un oltraggio impuro o per salvare la vita), sono consentite solo a patto che non travisino la dottrina religiosa, non danneggino la fama altrui, non facciano del male a nessuno. Il vescovo di Ippona, tuttavia, apre anche alcuni spazi di manovra, poiché non tutto ciò che non è verità è perciò stesso menzogna. Tanto per cominciare, Agostino aveva escluso dalla propria trattazione gli scherzi («ioci»), «quae nunquam sunt putata mendacia: habent enim, evidentissimam ex. pronuntiatione atque ipso iocantis affectu significationem animi nequaquam fallentis, etsi non vera enuntiantis» (II, 2)26; né, aggiunge, vere bugie sono quelle che Cannocchiale. Il Tesauro compose anche un elogio funebre per lo Scoto, raccolto nelle Inscriptiones (Torino, Zavatta, 1670, pp. 520-22). 23. Cfr. SCAPPATI, Vero e falso nel pensiero poetico del Tasso, cit., pp. 30-33. Si veda ora ERMINIA ARDISSINO, Le postille del Tasso alTEpitome di sant Agostino: datazione e riscontri, in Torquato Tasso e TUniversità, a cura di WALTER MORETTI e LUIGI PEPE, Firenze, Olschki, 1997, pp. 301-14: 309-10. La studiosa annuncia anche una prossima edizione delle medesime postille. 24. CIAMPOLI, Poetica sacra, in Poesie sacre, cit., p. 31. 25. De Mendacio, in Patrologia latina, XL, coll. 488-518: III 3. L’opera è stata riedita recen­ temente: Agostino, Sulla bugia, a cura di Maria Bettetini, Milano, Rusconi, 1994. 26. Agostino affronta anche il caso di coloro che «de mendacio volunt piacere hominibus, non ut alicui faciant injuriam vel inferant contumeliam; jam enim supra hoc genus [si tratta appunto degli scherzi] removimus; sed ut suaves sint in sermonibus suis». Le bugie dette a questo scopo, pur deleterie - in quanto comunque peccato - per chi le pronuncia, non danneggiano chi le ascolta: «Quid enim obest, si credat patrem aut

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sembrano trovarsi nella Sacra Scrittura, poiché esse vanno lette in senso figurato, e il senso figurato o allegorico non è bugia: «quidquid autem figu­ rate fit aut dicitur, non est mendacium. Omnis enim enuntiatio, ad id quod enuntiat, referenda est. Omne autem figurate aut factum aut dictum hoc enuntiat quod significat eis quibus intelligendum prolatum est» (V, 7)^'. Teniamo in sospeso, per ora, la prima dichiarazione, riguardo alla na­ tura dei giochi la quale risulterebbe, per così dire, anteriore al dilemma vero/falso, e puntiamo la nostra attenzione sulla seconda. E’ notorio, dopo gli studi di Henri de Lubac, che queste e simili affermazioni di Agostino costituiscono, assieme alle riflessioni di altri padri della Chiesa, tra i quali Origene, la base dell’ermeneutica cristiana, di quel «modo simbo­ lico»20 di interpretazione dei testi che si riassume nella formula dei quat­ tro sensi delle Scritture: esso, come è altrettanto noto, fu ben presto appli­ cato anche ai prodotti letterari e vigeva ancora ai tempi del Tesauro. Si è anche visto come e perché, proprio in quei decenni, la sovrapposizione di un senso allegorico alle finzioni poetiche cominciasse a generare un certo imbarazzo. Agostino ritorna frequentemente sul medesimo argomento, cioè sulla opportunità e anzi sulla necessità di una lettura «figurata» o «alle­ gorica» di quei passi della Scrittura che, in quanto non conformi al crite­ rio morale della verità, non potrebbero spiegarsi altrimenti se non come impossibili bugie: basti qui ricordare il De doctrina Christiana (il cui quarto libro propone i precetti di retorica necessari all’oratore cristiano, realizzando una volta di più la sintesi tra etica e retorica). Vi è un’altra opera, tuttavia, in cui l’interpretazione figurata o allegorica e il problema della menzogna sono strettamente interrelate: si tratta del Contra menda­ cium, scritto nel 420, cioè circa venticinque anni più tardi rispetto al De mendacio. Qui Agostino, dopo aver ribadito che le pretese bugie della Scrittura non sono menzogne ma simboli («non mendacium, sed myste­ rium»), compie un passo decisivo: se le considerassimo bugie, continua, dovremmo ritenere bugie anche le parabole e le frasi figurate, che dicono una cosa per farne intendere un’altra. Non solo: sarebbero menzogne, allora, anche le figure retoriche, e specialmente la metafora. Rileggiamo l’intero passo: avum alicujus virum bonum fuisse, etiamsi non fuit; aut usque ad Persas militando pervenisse, etiamsi a Roma nunquam recessit?» (XI, 18). 27. II passo appena citato è uno di quelli postillati da Tasso: cfr. ARDISSIMO, Postille del Tasso..., cit., p. 309. Si legga anche XV, 26: «Exceptis itaque his factis quae potest quisque ad allegoricam significationem referre, quamvis gesta esse nemo ambigat, sicut sunt fere omnia in libris Veteris Testamenti: quis enim ibi aliquid audeat affirmare non pertinere ad figuratam praenuntiationem?»; e XXI, 42: «Nam Domini omnia in Evan­ gelio, quae imperitioribus mendacia videntur, figuratae significationes sunt». 28. ECO, Il modo simbolico, in Semiotica e filosofia del linguaggio, cit., pp. 199-254; si tratta di una rielaborazione della voce Simbolo dell’Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1977-84.

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Jacob autem quod matre fecit auctore, ut patrem fallere videretur, si diligenter et fideliter attendatur, non est mendacium, sed mysterium. Quae si mendacia di­ xerimus, omnes etiam parabolae ac figurae significandarum quarumcumque re­ rum quae non ad proprietatem accipiendae sunt, sed in eis aliud ex alio est intelligendum, dicentur esse mendacia: quod absit omnino. Nam qui hoc putat, tropicis etiam tam multis locutionibus omnibus potest hanc importare calum­ niam; ita ut et ipsa quae appellatur metaphora, hoc est de re propria ad rem [11011] propriam verbi alicujus usurpata translatio, possit ista ratione mendacium nuncupari. Cum enim dicimus fluctuare segetes, gemmare vites, floridam juven­ tutem, niveam canitiem; procul dubio fluctus, gemmas, florem, nivem, quia in his rebus non invenimus, in quas haec verba aliunde transtulimus, ab istis mendacia putabuntur. Et petra Christus (/ Cor. X, 4), et cor lapideum Judaeorum (Ezech. XXXVI, 26): item leo Christus (Apoc. V, 5) et leo diabolus (I Petr. V, 8), et innu­ merabilia talia dicentur esse mendacia.29

Il capitolo andrebbe riletto per intero, ma ragioni di spazio consigliano di estrapolarne solo i passi più significativi in rapporto alla teoria tesauriana dell’argutezza: Agostino prosegue esemplificando altre figure retoriche usate dalla Bibbia e sottolineando che esse non devono essere considerate menzogne, poiché non c’è menzogna nelle «locutiones actionesque pro­ pheticae ad ea quae vera sunt intelligenda referendae» (ibid.). L’uso delle figure serve a molti scopi: esercitare l’intelligenza del lettore, evitare l’invilimento di verità affidate ad una locuzione disadorna, rinnovare ogni volta la conoscenza anche di oggetti usurati, stimolare la lode e la cu­ riosità del lettore con la loro oscurità (motivazioni che ritornano anche nel Cannocchiale). Così conclude Agostino: Tamen vera, non falsa dicuntur; quoniam vera, non falsa, significantur, seu verbo seu facto: quae significantur enim, utique ipsa dicuntur. Putantur autem men­ dacia, quoniam non ea quae vera significantur, dicta intelliguntur; sed ea quae falsa sunt, dicta esse creduntur (ibid.).

Insomma, se queste locuzione figurate sono ritenute false da alcuni, ciò succede per un deficit interpretativo del lettore, più attento al falso del figurante che al vero del figurato. Dunque, Agostino assimila tra di loro alcuni controversi passi biblici ed il linguaggio figurato, in particolare la metafora (di cui qui si trova la più ampia trattazione riscontrabile nelle sue opere), sottraendoli al dominio 29. Contra mendacium ad Consentium, Patrologia Latina, XL, col. 517-47: X, 24. Si noti che il medesimo passo è utilizzato dal Ménestrier (cui le opere del Tesauro erano familiari; del resto, anche lui gesuita e professore di retorica), per distinguere l’enigma dalla menzogna: CLAUDE-FRANQOIS MENESTRIER, Philosophie des images énigmatiques (1694); cito dall’estratto pubblicato in «Poétique», Paris, 45, Fév. 1981, a cura di MICHEL CHARLES, col titolo Poétique de Lénigme, pp. 28-52: 36-37.

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della menzogna. Si tratta di argomentazioni che il Tesauro, alle prese, come abbiamo visto, con il problema della giustificazione etica della poe­ sia, ed in particolare della poesia concettista, doveva trovare particolar­ mente stimolanti30. Già sappiamo che scopo della trattazione del Tesauro è l’argutezza, la cui esistenza, però, dipende strettamente dalla Metafora: infatti, se non ogni Metafora è argutezza, è altrettanto vero che la «Per­ fettissima Argutezza» è sempre «fondata sopra una Metafora» (p. 495). Le caratteristiche deU’una si riverberano quindi sull’altra: saggiata alle ri­ gorose leggi della logica - quelle stesse che da Peregrini a Pallavicino a Bouhours diverranno sempre più invadenti - la Metafora rientra senz’altro nella sfera del falso; e, di conseguenza, al termine di un serrato confronto tra la «Cavillazione Urbana» (pertinente alla retorica) e la «Cavillazione dialettica» (di giurisdizione della logica) il Tesauro non può non conclu­ dere che «l’unica lode delle Argutezze consiste nel saper ben mentire» (p. 491), quindi nel loro carattere fallace. Nel Contra mendacium? tuttavia, Agostino, come si è visto, negava riso­ lutamente l’ascrizione della metafora e delle altre figure retoriche al re­ gistro della menzogna, perché «non est mendacium quando ad intelligentiam veritatis aliud ex alio significantia referentur» (X, 24). L’argu­ tezza, insomma, sa «ben mentire» (corsivo mio), cioè «senza ingombro del vero»: qui sta il punto, perché sebene ogni Cavillazione sia una fallacia'? non perciò qualunque fallacia sarà Cavillazione Urbana: ma quella solamente, che senza dolo malo, scherzevolmente 30. Il problema dei rapporti tra Tesauro e Agostino è troppo complesso perché lo si pos­ sa risolvere in questa sede. Credo, tuttavia, che si possa dare per scontato che il primo conoscesse le opere del secondo (nel Cannocchiale Agostino è citato alle pagine 62 [«sagacissimo investigatore delle divine argutezze»], 63, 504, 535): Taffermazione che «le XVIIe siècle est le siècle de saint Augustin» (verificata a posteriori dalle indagini raccolte nel numero monografico di «XVIIe siècle», Paris, XXXIV 135, Avril/Juin 1982: Le siècle de saint Augustin? la frase, citata neWIntroduction di Philippe Selliers, p. 99, è di Jean Dagens), può essere estesa senza difficoltà all’ambito italiano. E si noti, comun­ que, che il Tesauro appartiene, in quanto (ex)gesuita, ad una comunità sovrannazionale e che, in quanto piemontese, mantiene stretti rapporti con la cultura d’oltralpe, rafforzati anche dal suo soggiorno nelle Fiandre. E vero, semmai, che esistono diversi tipi di agostinismo: ma, per restare nell’ambito retorico, la teoria del Cannocchiale aristotelico e la prassi tragica (in specie nelYErmegildo: cfr. FRARE, Retorica e verità...? cit., II.7) sembrano proprio accostare il Tesauro, con la sua insistenza sulla necessità delle «belle arti sermonali», al fondamento della retorica agostiniana, indicato in De Doctrina Christiana? I, xii: «Verbum caro facto est», e alla dialettica che ne deriva tra bello e vero, tra retorica e morale. Cfr. anche MARC FUMAROLI, Les jésuites et la pédagogie de la parole? in I gesuiti e i primordi del teatro barocco in Europa? a cura di M. CHIABÒ FEDERICO Doglio, Roma, Torre d’Orfeo, 1995, pp. 39-56; e JEAN LAFOND, Littérature et morale au XVIF siècle? in Critique et création littéraire en France au XVIIe siècle? Paris, C.n.r.s., 1977, pp. 395-406.

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imita la verità, ma non Fopprime: et imita la falsità in guisa, che il vero vi traspaia come per un velo: acciocché da quel che si dice, velocemente tu intendi quel che si tace (p. 494).

Insomma, «l’Entimema Metaforico inferisce una cosa acciocché tu ne intendi un’altra» (ibid.) e «sotto imagine di falso t’insegna il vero» (p. 495): si tratta di bugie non bugie, di menzogne che non mentono perché significano, come è caratteristica della Metafora (e non solo dell’alle­ goria). La definizione di argutezza finalmente raggiunta dal Tesauro al ter­ mine di un lungo periplo insiste, oltre che sul fondamento metaforico e quindi fallace (ma di una fallacia sui generis), anche su un’altra carat­ teristica, cioè sulla urbanità, sulla piacevolezza: l’«entimema urbano», conclude il nostro trattatista, è «una Cavillazione Ingegnosa, in Materia Civile: scherzevolmente persuasiva: senza intera forma di Sillogismo: fondata sopra una Metafora» (ibid.). L’insistenza sul carattere giocoso dell’argutezza si appoggia ad una citazione platonica («Di costoro parlò Platone nell’Eutidemo: paragonandogli a color, che per gioco, sottrag­ gono lo scanno al compagno; e fattoi cader riverso senza detrimento, ne ridono»: ibid.), ma non va dimenticato che in apertura del De mendacio, quindi in sede di definizione del proprio ambito d’indagine, Agostino aveva escluso da esso gli scherzi («ioci»), «quae numquam sunt putata mendacia: habent enim evidentissimam ex pronuntiatione atque ipso iocantis affectu significationem animi nequaquam fallentis, etsi non vera enuntiantis» (II, 2). Il gioco e la metafora, dunque, instaurano una sorta di dbuble bind, di legame contraddittorio con la menzogna: da una parte sono costitutivamente legati ad essa, dall’altra ne sono costitutivamente sciolti, il gioco per l’evidenza dell’intenzione, la metafora per la verità cui rimanda. Il che significa anche instaurare un legame ontologico tra gioco e Metafora, che trattiene entrambi in una zona di verità sui generis31. Si tratta di un rapporto che merita di essere sottolineato, poiché l’insi­ stenza del Tesauro sul carattere sociale, urbano, festevole dell’argutezza ha portato alcuni dei suoi lettori a concludere per un sostanziale disim­ pegno del trattatista dalla sfera dei valori etici e religiosi legati alla poe­ sia, a farne un gran signore un po’ scettico e disincantato, che osserva dall’alto il multiforme affaccendarsi degli uomini e l’infinità varietà dei frutti dell’ingegno. Si vorrebbe qui suggerire, invece, che forse questo richiamo si deve al fatto che, come il Tesauro poteva leggere in Agostino, il gioco, gli scherzi, non sono menzogna, come non è menzogna la Metafora: e quindi il legame tra i due ambiti non solo è teologicamente necessitato, 31. Esamina questo rapporto in una prospettiva più ampia, di antropologia della cultura barocca, ZANARDI, Metafora e gioco nel «Cannocchiale Aristotelico» di Emanuele Tesauro, «Studi secenteschi», Firenze, XXVI (1995), pp. 25-99.

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ma anche va interpretato in senso tutt’altro che riduttivo. Insomma, la Metafora non è un gioco (sia pure nella sua valenza antropologica), men­ tre il gioco è una Metafora. Alle prese con il problema della giustificazione etica della poesia, il Tesauro si trova stretto tra due posizioni: quella del concettismo dei primi due decenni del secolo, vicino parente di una sofistica che svincola Farte della parola da qualunque relazione col vero, e quella del classicismo barberiniano, che propone una poesia religiosa nei contenuti, castigata nella forma e subordinata ad una verità preesistente. Tanto la prima è sot­ toposta al rischio della menzogna e della corruzione del lettore, altrettanto la seconda (si veda il caso emblematico di Ciampoli) corre quello di pre­ sentarsi come inamena e scostante, allontanando quindi il lettore sia da essa sia dalla verità (da quella verità negletta descritta da Graciàn) di cui vuole essere il semplice strumento di trasmissione. Se gli altri trattatisti e filosofi - Aristotele in primis -, sia pure svisati e sfigurati, aiutano il Te­ sauro a riarticolare il campo figuratico e a proclamare la dignità Gono­ citi va dell’argutezza, è nelle pagine del Contra mendacium che il trat­ tatista (ex gesuita e sempre sacerdote) sembra aver trovato la giustifica­ zione teologica all’uso delle Metafore (che dell’argutezza costituiscono la base): la Metafora non è menzogna, ma segno che indica la verità, una verità che il lettore è chiamato a riconoscere ricorrendo agli stessi stru­ menti messi in atto dall’autore, cioè quelli forniti dalla retorica, non dalla logica (o, quantomeno, quelli di una “logica retorica”. Si tratta di una riabilitazione etica della poesia arguta che sembra fornire le basi per il concettismo tanto estremo quanto rigorosamente «trasportato al morale» (per dirla col Bartoli) del più fedele discepolo del Tesauro, cioè Fran­ cesco Fulvio Frugoni, e che pare avere influenzato non poco il tardo con­ cettismo meridionale, dal trattatista Federico Mennini al poeta Giacomo Lubrano.

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INDICE DEI NOMI

Agostino Aurelio, s.: 21, 147, 150, 151, 152, 153, 154 Alessandro Magno: 132 Alighieri Dante: 27 Ambrogio s.: 127 Anceschi Luciano: 68, 122 Anseimi Gian Mario: 22 Aprosio Angelico: 148 Ardissino Erminia: 150, 151 Aretino Pietro: 76 Aricò Denise: 67 Ariosto Ludovico: 98 Aristotele: 22, 24, 27, 42, 43, 49, 50, 52, 55, 56, 58, 59, 60, 61, 62, 65, 66, 70, 86, 88, 92, 103, 117, 131 Asor Rosa Alberto: 70 Ateneo: 124 Augusto Caio Giulio Cesare Ottaviano: 75, 129 Barbaro Daniele: 24 Barbaro Ermolao: 24 Barberini Maffeo: v. Urbano Vili Barilli Renato: 81, 82, 98 Bartoli Daniello: 7, 9, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 146, 148, 149, 155 Basile Bruno: 122 Battistini Andrea: 16, 70, 94 Baudelaire Charles: 19 Bellini Eraldo: 20, 91, 128, 146, 147 Belloni Antonio: 14 Bembo Pietro: 93 Benamati Guidubaldo: 92 Bernini Gian Lorenzo: 80 Besomi Ottavio: 77, 80, 83, 90, 91, 96, 118 Bethell Samuel Leslie: 14 Bettetini Maria: 150

Bianco Mercedes: 21 Boccaccio Giovanni: 37 Boileau-Despréaux Nicolas: 19, 23 Boillet Danielle: 9, 21 Bolgiani Franco: 70 Bonaviri Giuseppe: 122 Bordoni Giulio: v. Scaligero Giulio Cesare Borromini Francesco: 80 Borzelli Angelo: 85, 89 Bottiroli Giovanni: 121 Bouhours Doniinique: 153 Bozzola Sergio: 15, 72 Branca Vittore: 21 Breitenbiirger G.: 24 Brignole Sale Anton Giulio: 97 Briosi Sandro: 18 Brizzi Gian Paolo: 70 Buck August: 21, 23, 70 Buhle Johann Gottlieb: 24 Calcaterra Carlo: 69 Campanella Tommaso: 68 Cantaluppi Anna Maria: 123 Capucci Martino: 16 Carandini Silvia: 22 Carducci Giosuè: 122 Carli Ferrante: 84 Cascetta Anna Maria: 22 Casoni Guido: 77, 90, 92, 99 Castelli Enrico: 15 Castiglioni Valeriano: 149 Catullo Gaio Valerio: 50 Cebà Ansaldo: 97 Cesareo Alfredo Giovanni: 14 Charles Michel: 152 Chiabò Maria: 153 Ciampoli Giovanni: 147, 150, 155 Ciancarelli Roberto: 22 Cicerone Marco Tullio: 37, 39, 52, 65, 94 Cieco di Adria: v. Groto Luigi

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Ciro il Grande: 144 Claudiano Claudio: 50 Colagrande Fabio: 22 Colombo Carmela: 77, 118 Conrieri Davide: 78 Consenzio: 152 Contarini Giovanni: 110 Conte Giuseppe: 18, 25, 26, 63, 69, 76, 81 Contini Gianfranco: 15 Cope Jackson I.: 17 Corneille Pierre: 98 Corradini Marco: 77, 90, 92, 97, 99 Correa Calderón Evaristo: 144 Cortese Giulio Cesare: 148 Corti Maria: 122, 129 Cosimo de' Medici: v. Medici, Cosimo de’ Costanzo Mario: 16, 18, 27 Cottignoli Alfredo: 22 Croce Benedetto: 13, 14, 15, 17, 18, 49, 85 Croce Franco: 14, 16, 25, 83 Dagens Jean: 153 Dal Pozzo Cassiano: 83 D’Arpino Giuseppe: 112 D’Arrigo Stefano: 76 De Marchi Carlo: 83 De Nores Giason: 94 Della Casa Giovanni: 93 Della Terza Dante: 24, 43, 67 Di Capua Francesco: 38 Dionisio I: 127 Doglio Federico: 153 Doglio Maria Luisa: 23, 25, 41, 67 68 Domiziano Tito Flavio: 47 Donati Alessandro: 16 Donato Eugenio: 17, 77, 78 Donne John: 19 Dottori Carlo de’: 20 Dracone: 131 158

Eco Umberto: 26, 35, 115, 151 Erodico: 131 Errico Scipione: 148 Eschilo: 63 Euripide: 63 Favaro Antonio: 149 Ferroni Giulio: 89 Figino Ambrogio: 107 Fioretti Benedetto: 148, 149 Flora Francesco: 14, 15 Folena Gianfranco: 22, 24, 83 Francesco Giacinto di Savoia: v. Savoia, Francesco Giacinto di Frare Pierantonio: 15, 19, 20, 21, 96, 128, 135, 143, 145, 146, 153 Friedrich Hugo: 21, 24, 60, 68, 93, 115 Frugoni Francesco Fulvio: 16, 78, 155 Fumaroli Marc: 146, 153 Galba Sergio Sulpicio: 106 Galilei Galileo: 53, 149 Garcfa-Berrio Antonio: 18 Gardair Jean Michel: 22 Génetiot Alain: 21 Genette Gerard: 81, 87 Gesù Cristo: 145 Getrevi Paolo: 96, 135 Gilio Giovanni Andrea: 70 Giordani Pietro: 122 Giovanni da Locamo p.: v. Pozzi Giovanni Girardi Enzo Noè: 80 Godard Alain: 9, 21 Góngora y Argot e Luis de: 19 Gorgia di Lentini: 37 Graciàn Baltasar: 13, 14, 18, 19, 21, 23, 60, 78, 82, 143, 155 Grillo Angelo: 77, 97, 120 Griseri Andreina: 80 Groto Luigi: 74 Guardiani Francesco: 9, 19, 90, 97, 120, 121

Guarnii Guarino: 80 Guglielminetti Marziano: 23, 92, 149 Hallyn Fernand: 19 Hatzfeld Helmut: 18, 19, 60 Hauser-Jakubowicz Janina: 107 Hocke Gustav René: 21 Imperiale Gian Vincenzo: 75, 79 Isocrate: 74 Jannaco Carmine: 16, 17 Kafka Franz: 145 Labieno Tito: 132 Lafond Jean: 153 Lange Klaus Peter: 21 Lase Norma Haydée: 18, 19 Laurens Pierre: 18, 19, 23, 25, 60, 65, 70 Lausberg Heinrich: 72, 79 Le Moyne, Pierre: 41, 68 Leonida: 112 Leopardi Giacomo: 122 Libone Sertorio: 106 Lopez-Bemasocchi Augusta: 75, 79 Loyola Ignacio de: 22 Lubac Henri de: 151 Lubrano Giacomo: 78, 155 Lucrezio Caro Tito: 50 Luigi XII, re: 52, 62, 66 Maioragio Marco Antonio: 24 Manganelli Giorgio: 122 Manilio Marco: 50 Manzoni Alessandro: 122 Maragoni Gian Piero: 76 Marchi Costanzo: 80 Maria de’ Medici: v. Medici, Maria de’ Marino Giovan Battista: 7, 8, 9, 19, 20, 22, 27, 69, 76, 77, 79, 80, 83, 84, 85, 88, 90, 92, 93, 95, 96, 98, 99, 103, 107, 108, 113, 118, 120, 121, 128, 130, 131, 132, 145, 146, 147, 148, 149 Martini Alessandro: 80, 96, 99, 120 Marziale Marco Valerio: 50, 132

Marzot Giulio: 14 Matarrese Tina: 15 Maurus Sylvestris: 24 Mazzeo Joseph Anthony: 14, 17, 19 Mazzocchi Elena: 21 Mazzoni Iacopo: 20, 93, 88, 120, 128, 145, 147 Mechitar: 67 Medici, Cosimo de1: 129 Medici, Maria de’: 148 Mehnert Hennig: 21 Menapace Brisca Lidia: 14, 15, 17, 79 Menardi Giovanni: 23 Menestrier Claude-Frangois: 152 Mengaldo Pier Vincenzo: 15 Meninni Federico: 91, 93, 155 Moncagatta Maurizio: 18, 52 Monod Pierre: 129 Montano Rocco: 18 Moretti Walter: 150 Morpurgo-Tagliabue Guido: 59, 69, 71, 72, 76, 88, 89, 97, 98 Mortara Garavelli Bice: 122, 123, 124,129,130 Muratori Ludovico Antonio: 20, 128 Neunieister Sebastian: 22 Nicolini Fausto: 85 Nigro Salvatore S.: 23 Nonno: 77 Omero: 42, 119 Orchi Emanuele: 26, 79 Origene: 151 Ossola Carlo: 70, 96, 134 Pallavicino Sforza: 13, 20, 78, 82, 91, 146, 147, 148, 153 Pasquini Emilio: 22 Pellegrino Camillo: 89, 93, 99, 128 Pennacini Adriano: 23 Pepe Luigi: 150 Pepi Sertorio: 93 Peregrini Matteo: 21, 78, 82, 88, 91, 94, 95, 96, 146, 153 159

Persichino Salvatore: 21 Petrarca Francesco: 93 Pieri Marzio: 107, 148 Platone: 52, 145, 154 Plebe Armando: 55 Plinio il vecchio Gaio Secondo: 54, 122 Poe Edgar Allan: 19 Poma Luigi: 98 Porceli etti Ludovico: 84 Porcelli Bruno: 96 Pozzi Giovanni: 14, 15, 26, 28, 49, 61, 62, 70, 76, 77, 78, 79, 80, 85, 89, 95 Praloran Marco: 15 Praz Mario: 53 Proctor Robert E.: 19, 24, 26, 106 Protagora di Abdera: 48 Quadrio Francesco Saverio: 16 Quintiliano Marco Fabio: 65 Quondam Amedeo: 89 Raffaello Sanzio: 114 Raimondi Ezio: 15, 16, 17, 18, 23, 25, 34, 41, 45, 54, 56, 69, 70, 82, 83, 9< 122 Reeves Eileen: 53 Rella Franco: 145 Richards Ivor A. : 89 Ricoeur Paul: 56, 59, 64, 65 Righi Daniela: 92 Rigoni Mario Andrea: 21, 52, 53, 78, 128 Rinaldi Cesare: 92 Rodler Lucia: 22 Rodler Lucia: 78 Rousset Jean: 67, 80 Salimbeni Ventura: 115 Sallustio Crispo Gaio: 94 Sanvitale Fortuniano: 92 Savoia Carignano, Tommaso di: 82 Savoia, Francesco Giacinto di: 129 Savoia, Vittorio Amedeo di: 129 Scaligero Giulio Cesare: 16

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Scarpati Claudio: 20, 21, 83, 88, 89, 91, 93, 105, 120, 128, 145, 146, 150 Scarron Paul: 41 Scoto Lorenzo: 149, 150 Scotti Mario: 23 Segre Cesare: 98 Selliers Philippe: 153 Seneca Lucio Anneo: 96, 122, 133, 135 Sensi Claudio: 78 Sigonio Carlo: 88 Socrate: 128 Sofocle: 52, 61 Stazio Publio Papinio: 50 Stigliani Tommaso: 65, 79, 85, 90, 91, 148 Svetonio Tranquillo Caio: 94 Szarota Elida Maria: 22 Tafuri Manfredo: 80 Tasso Torquato: 20, 88, 98, 120, 128, 145, 148, 149, 150, 151 Tesauro Ludovico: 84 Todorov Tzvetan: 8 Tommaseo Niccolò: 122 Tommaso di Savoia: v. Savoia Carignano, Tommaso di Trabalza Ciro: 14 Trapezunzio Giorgio: 24 Trasimaco: 37 Trissino Gian Giorgio: 65, 93 Trovato Paolo: 15 Tuscano Pasquale: 17, 22, 23, 82 Udeno Nisiely: v. Fioretti Benedetto Urbano Vili, papa (Maffeo Barbe­ rini): 83, 131, 146 Valesio Paolo: 121 Valgimigli Manara: 55 Van Hook J. W.: 19, 26 Verdino Stefano: 96 Verre Gaio Licinio: 47 Vert’an Asgar: 67 Vico Giambattista: 13, 145

Vigliarli Luigi: 82 Virgilio Marone Publio: 50, 98, 133 Vittorio Amedeo di Savoia: v. Savo­ ia, Vittorio Amedeo di Vottero Dionigi: 23 Vuillemier Florence: 23, 25 Weinberg Bernard: 93 Weinrich Harald: 143

Weise Georg: 76 Zanardi Mario: 19, 20, 25, 52, 60, 68, 77, 83, 84, 129, 154 Zandrino Barbara: 78 Zanlonghi Giovanna: 21, 22 Zenone di Elea: 48 Zuccaro Federico: 117 Zuccarone Francesco: 78

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COMPOSTO, IMPRESSO E RILEGATO, SOTTO LE CURE DELLA ACCADEMIA EDITORIALE®, PISA • ROMA, DAGLI ISTITUTI EDITORIALI E POLIGRAFICI INTERNAZIONALI®, PISA • ROMA

★ Gennaio 2001

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