Parla come Dante. Come e perché usare i versi del sommo poeta nella vita quotidiana. Prefazione di Claudio Giovanardi [First ed.]


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Parla come Dante. Come e perché usare i versi del sommo poeta nella vita quotidiana. Prefazione di Claudio Giovanardi [First ed.]

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Grandi Manuali Newton XXX

Di Dario Pisano:

Prima edizione: giugno 2021 © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma ISBN 978-88-227www.newtoncompton.com Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale s.r.l.s., Roma Stampato nell’ottobre 2020 da Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)

Dario Pisano

Parla come Dante Prefazione di Claudio Giovanardi

Newton Compton editori

A tutti i miei studenti, di ieri, di oggi e di domani. La cultura trasforma un giorno di lavoro in un giorno di vita.



Prefazione

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Tra i filologi e i paleografi si è soliti distinguere i copisti per professione dai copisti per passione: questi ultimi, durante il Medioevo e anche oltre, trascrivevano le opere dei classici per puro diletto, per amore della letteratura e dell’arte, spesso raggiungendo risultati eccellenti nel loro faticoso lavoro. Vorrei trasportare questa doppia possibilità tra i cultori di Dante, distinguendo i dantisti per professione dai dantisti per passione. Dario Pisano detiene certamente il primato tra coloro che viaggiano inesausti nelle terzine della Commedia e nelle pagine delle altre opere dantesche, al solo fine di restituire agli altri almeno una parte della gioia inesauribile che gli deriva dal confrontarsi quotidianamente col multiforme lascito del più importante autore (non solo poeta) dell’intera nostra tradizione letteraria. Questo è, a mio avviso, il presupposto da cui dobbiamo muovere nell’addentrarci in questo bel volume. L’idea è quella di un regesto dei versi della Commedia che sono entrati a far parte del linguaggio comune e che tutti usano, magari ignorandone la provenienza. Non si tratta di una pura curiosità, ma piuttosto della dimostrazione della “popolarità” di Dante, mai più raggiunta da nessuno scrittore dopo di lui. I trenta adagi danteschi passati in ras-

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segna nel volume sono oggetto di una particolare cura da parte di Pisano, il quale, forte di una conoscenza onnivora della letteratura italiana (e anche di altri lidi), ci consente di ricostruire il percorso del verso citato sia da un punto di vista intertestuale, sia nel suo depositarsi nella memoria comune. Tale impianto è già perfettamente chiaro nel commento al verso che apre la raccolta: «E quindi uscimmo a riveder le stelle» (Inferno, xxxiv, 139), per il quale Pisano chiama in causa Leopardi, Pascoli, Elsa Morante, Catullo, Sant’Agostino, Ungaretti, tutti testimoni scelti per far capire come la potenza immaginativa di Dante sia affondata nel passato classico e cristiano da un lato, ma abbia anche la capacità di irradiarsi splendidamente nel futuro dall’altro. Secondo Pisano, infatti, Dante, col suo libro-mondo, rappresenta il cardine attorno a cui tutto ruota, lo specchio che restituisce ogni piega dell’umanità, il rimedio medicamentoso più efficace contro la malinconia della finitudine umana. Ecco, con la Commedia, Dante si è innalzato oltre il tempo, ha sconfitto la morte, se è vero che il suo culto (con l’importante apertura verso la dimensione popolare, estranea ad altri grandi poeti, per esempio a Petrarca) è ancora vivissimo a settecento anni dalla fine del viaggio corporale del poeta. Non è il caso, in queste brevi note prefatorie, di soffermarsi sui singoli versi messi a lemma. Sarà il lettore, com’è giusto, a scoprire gli affascinanti e spesso insospettabili percorsi in cui il curatore lo conduce con grande levità di scrittura. Merita invece una considerazione proprio il modo in cui questo libro è stato scritto. La scommessa di Pisano, pienamente centrata, è quella di istruire rinunciando ai fardelli della saggistica accademica, senza però abbassare la qualità

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scientifica delle affermazioni e dei commenti. La densa introduzione che apre il volume è ricca di dati e di spunti di riflessione sulla figura di Dante, non solo come poeta, ma anche come filosofo, scienziato, teologo e dialettologo. Pisano è ben attento ad analizzare Dante iuxta propria principia et tempora, senza cioè cedere mai alla tentazione di attualizzarlo a tutti i costi; egli sostiene, giustamente che definire Dante “attuale” è riduttivo, perché la dimensione che gli compete è quella della sempiternità. In tale quadro profondamente radicato nella dimensione storica, assume particolare rilievo la discussione sul locus communis (veritiero) in base al quale Dante è il padre della lingua italiana; la sottolineatura dell’importanza della scelta del volgare per la Commedia e la riflessione sui motivi che spinsero Dante in tale direzione; la ricostruzione delle fasi alterne della fortuna di Dante, che dopo l’immediato successo (la Commedia fu un vero best-seller ante litteram), conobbe lunghi periodi di oscuramento, sino a rinascere impetuosa nel corso del Novecento, grazie anche al grande lavoro di “marketing” di autori stranieri come Pound, Eliot, Borges, per non citarne che alcuni. Non mancano, infine, considerazioni puntuali, seppur di necessità sintetiche, sulla lingua e lo stile della Commedia, tema al quale chi scrive è particolarmente sensibile. Dopo aver ricordato la vocazione multilingue del “divin Poeta” (uno dei motivi che lo resero indigesto al cardinale Pietro Bembo), Pisano si sofferma giustamente sul Dante onomaturgo. La lingua italiana neonata non poteva soddisfare le esigenze espressive di un poeta impegnato a sondare realtà figurali e concettuali inaudite; la vastità dell’opera, inoltre, lunga 14.233 versi, richiedeva un bagaglio fornitissimo

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di parole ed espressioni, che la lirica amorosa precedente non era in grado di procurare. E quindi Dante fece da sé. Il suo modello creativo prediletto è senza dubbio quello della parasintesi, ovvero dell’aggiunta contemporanea di un prefisso e di una desinenza verbale a una parola di base, che in genere è un nome o un aggettivo. Ma la potenza sperimentatrice di Dante andò oltre e si servì di basi formate da numerali (incinquarsi ‘dividersi in cinque parti’, immillarsi ‘moltiplicarsi per mille’); da pronomi personali (inmiarsi ‘entrare in me’, intuarsi ‘entrare in te’); e persino da avverbi (indovare ‘trovare collocazione nello spazio’, inforsarsi ‘essere in dubbio’). Gli echi di questi originali usi danteschi arrivano fino ai nostri tempi: l’impiego dei verbi parasintetici è una caratteristica, solo per fare qualche nome, di Pirandello, Montale e Luzi. Ma alla disinvoltura con cui Dante maneggia codici linguistici diversi e si fa creator spiritus di nuove parole corrisponde, sul versante dello stile, l’ampia tavolozza dei registri nelle tre cantiche, da quello sublime del Paradiso a quello (spesso) triviale dell’Inferno. Riporto, a comprova di tale vertiginosa escursione, le due terzine proposte da Pisano come vertici estremi di registri opposti, ovvero la celeberrima preghiera alla Vergine che apre il canto conclusivo del Paradiso («Vergine madre, figlia del tuo figlio / umile e alta più che creatura / termine fisso d’etterno consiglio») e quella del canto xxviii dell’Inferno, 25-27 con la descrizione di Maometto («Tra le gambe pendevan le minugia; / la corata pareva e il tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia»). Davvero mirabile che tanta potenza immaginativa e tanta ampiezza di scelte espressive si siano concentrate in un uomo solo. Questo libro, che si offre alla lettura di un’ampia platea di

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lettori non di necessità specialisti di Dante, ma semplicemente curiosi di conoscere il debito contratto dalla nostra lingua letteraria e quotidiana nei confronti del “ghibellin fuggiasco”, rappresenta un tributo intelligente e originale (l’ennesimo, aggiungo)1 che Dario Pisano dedica al nostro classico più importante e, al tempo stesso, alla sua idea di letteratura come distillatrice di balsami odorosi contro la malinconia del vivere. Claudio Giovanardi

1 A Dario Pisano si devono altri due volumi di intento divulgativo su Dante: La Firenze segreta di Dante. Alla scoperta della città accompagnati dal sommo poeta, Roma, Newton Compton, 2017; Nel cammino di nostra vita. Dante, Petrarca e Boccaccio visti da vicino, Milano-Udine, Mimesis, 2017.

INTRODUZIONE

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Se questo libro è scritto nella lingua che state leggendo dipende da Dante Alighieri. Quello che oggi definiamo italiano è infatti la lingua che egli usò nel suo capolavoro, la Commedia (definita «divina» da Giovanni Boccaccio), ossia il toscano nella sua variante fiorentina. Come scrive Carlo Dionisotti, «la Commedia ha significato la vittoria del toscano e la decadenza a dialetto di ogni altra parlata italiana». Quest’anno si celebra il settimo centenario della morte di Dante, il quale nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321 andò a scoprire se tutto quello che aveva immaginato era vero. Gianfranco Contini ha lasciato scritto che «l’impressione genuina del postero, incontrandosi in Dante, non è d’imbattersi in un tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di lui». E quel che intendo fare in questo volumetto è dimostrarlo ai miei lettori.

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Un passaporto per l’eternità

Dante era consapevole di aver scritto versi inobliabili? Probabilmente sì, se rileggiamo questa terzina del canto xvii del Paradiso (vv. 133-135): Questo tuo grido farà come vento, che le più alte cime più percuote; e ciò non fia d’onor poco argomento

La poesia è una magia bianca che neutralizza la magia nera del tempo. Il primo a dircelo chiaramente era stato il poeta latino Orazio (i sec. a.C.), il quale all’inizio di una sua celebre lirica scrisse di aver innalzato con i suoi versi un monumento più duraturo del bronzo («Exegi monumentum aere perennius») che lo avrebbe messo al riparo dalla fuga precipitosa del tempo e dalla serie innumerabile degli anni. In questo modo egli è consapevole che non sarebbe morto del tutto («non omnis moriar»). Per quanto riguarda Dante, tutti ricordiamo uno degli incontri più emozionanti del poema, quello con l’indimenticato maestro Brunetto Latini, verso il quale l’allievo ha un enorme debito di gratitudine. Da lui ha imparato che la poesia è un antidoto alla morte (Inf. xv, vv. 79-84): «Se fosse tutto pieno il mio dimando» rispuos’io lui, «voi non sareste ancora de l’umana natura posta in bando; che’n la mente m’è fitta, e or m’accora la cara e buona immagine paterna

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di voi quando nel mondo ad ora ad ora m’insegnavate come l’uom s’etterna:

Eugenio Montale scriveva: «Forse solo chi vuole si infinita». A Dante è capitato esattamente questo: attraverso la sua opera si è “infuturato” al punto che la sua fama durerà «quanto il mondo lontana». Nel cielo di Marte, d’altronde, Cacciaguida gli ha detto (Pd. xvii, vv. 97-99): Non vo’ però che i tuoi vicini invidie, poscia che si infutura la tua vita via più là che il punir di lor perfidie

A questo proposito, ne approfitto per dissipare preliminarmente alcuni luoghi comuni: innanzitutto Dante non è un poeta attuale (pensiamoci: cosa c’è di più effimero e caduco dell’attualità?). Dante è molto di più e molto di meglio: è perenne, la sua voce appartiene a ieri, a oggi, a domani, appartiene a un sempre. E poi: prima di essere il padre della cultura italiana, giustamente rivendicato come tale dai tanti intellettuali di età risorgimentale, Dante è un grande poeta mondiale, è un faro poetico che illumina la Terra. L’Italia ha offerto Dante al mondo, e il mondo ce lo ha riofferto sotto una luce nuova. Sono stati infatti i grandi scrittori della letteratura mondiale, con il loro «lungo studio e grande amore», a riscoprire la sua opera, dopo secoli di parziale oblio. Jorge Louis Borges, l’Omero del xx secolo, considerava la Commedia dantesca il «miglior libro mai scritto dagli uomini» l’apice di tutta la letteratura. In una pagina dei

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Nove saggi danteschi, lo scrittore argentino scrive che «non leggere la Divina Commedia significa privarci di uno dei più grandi piaceri che la Letteratura ci ha dato. Significa condannarsi a uno strano ascetismo». La poesia è un bene inconsumabile, quella di Dante in modo particolare, se è vero che «simile all’algebra, alla lingua di Shakespeare, al nostro stesso passato, la Commedia è una città che non finiremo mai di esplorare del tutto. La più logora e consunta terzina può, una sera, rivelarmi chi sono io o che cos’è l’Universo». Nella prospettiva di Borges, la Commedia appare come una «miniatura poetica dell’Universo», un microcosmo-libro che «durerà ben oltre le nostre notti e le nostre veglie». Noi italiani – non dimentichiamolo mai – abbiamo la fortuna di poter leggere il poema dantesco in originale, cogliendone appieno la bellezza.

Dante è il padre dell'italiano? Tullio De Mauro ha dimostrato che delle 2000 parole che costituiscono il lessico di base dell’italiano, 1600 sono già in Dante, il quale inoltre raccoglie i materiali lessicali della tradizione, che «col suo sigillo trasmette nei secoli fino a noi». Poniamoci allora la seguente domanda: nel momento in cui attribuiamo all’Alighieri la paternità linguistica dell’italiano non rischiamo involontariamente di commettere una pur lieve ingiustizia verso quei poeti e quegli scrittori vissuti prima di lui e che pure hanno avuto un ruolo nella creazione della nostra lingua letteraria? Cosa ne facciamo

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della tradizione pre-dantesca in volgare? Come scrivono Valeria della Valle e Giuseppe Patota: La prima constatazione da fare è che Dante è l’unico italiano al quale gli italiani hanno attribuito l’epiteto di padre: questa qualifica non è stata data ai creatori dell’unità di Italia come Camillo Benso di Cavour o Giuseppe Garibaldi, e neppure a singoli membri dell’Assemblea costituente della Repubblica Italiana come Alcide de Gasperi o Sandro Pertini. Il titolo di padre è stato attribuito, genericamente, ai padri della patria o ai padri costituenti, ma nessun italiano è come Dante, padre per antonomasia. Forse, a meritare il titolo di padre della lingua potrebbero essere in molti […] il vero padre dell’italiano è Dante: quello che ha fatto lui per la lingua di tutti noi non è paragonabile, per profondità e vastità di risultati, all’opera di nessuno di quelli che lo hanno preceduto e, si potrebbe aggiungere, di nessuno di quelli che sono venuti dopo.

Ripartiamo da qui e domandiamoci: perché il padre dell’italiano è Dante e non, per esempio, Giacomo da Lentini, un poeta che ha vissuto e ha lavorato alla corte di Federico ii, e che – quando l’autore della Divina Commedia non era ancora nato – già ci consegnava dei componimenti, dei piccoli capolavori che manifestano una indiscutibile maturità linguistica e letteraria? A Giacomo da Lentini noi accreditiamo l’invenzione del sonetto (il più perfetto recinto della poesia italiana, quattordici versi endecasillabi raggruppati in quattro strofe, che immensa fortuna avrà nella storia della poesia europea, a partire proprio da Dante per arrivare a Caproni e a Pasolini, passando per Petrarca, Shakespeare, Baudelaire). Non è anche lui uno dei patres della nostra traditio linguistica? E lo stesso discorso potremmo estenderlo ad altri eminenti

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autori del xiii secolo: Guido Faba, insigne prosatore bolognese; Guittone d’Arezzo, il fondatore della lirica civile italiana; per non parlare di Guido Guinizzelli e di Guido Cavalcanti, verso i quali l’Alighieri ha un debito poetico e culturale decisamente cospicuo. D’altronde, quando il pellegrino dell’Oltretomba incontra il poeta protostilnovista Guido Guinizzelli nel canto xxvi del Purgatorio lo saluta con parole estremamente affettuose e riconoscenti, chiamandolo «padre mio» (Pg. xxvi, vv. 91-99): Farotti ben di me volere scemo: son Guido Guinizelli e già mi purgo per ben dolermi prima ch’a lo stremo Quali ne la tristizia di Licurgo si fer due figli a riveder la madre, tal mi fec’io ma non a tanto insurgo, quando io odo nomar sé stesso il padre mio e degli altri miei miglior che mai rime d’amor usar dolci e leggiadre

Allora, preliminarmente, mettiamo in chiaro questo: l’italiano non esce dalla penna di Dante come Minerva dalla testa di Giove. Esiste un eccezionale retaggio linguistico che il poeta fiorentino raccoglie e rielabora, e offre al futuro in una veste nuova. E infatti, in questa come in altre tappe del suo iter oltremondano, Dante avvicina quelli che sono stati i grandi autori della tradizione letteraria duecentesca, i quali hanno inciso notevolmente nella sua formazione culturale.

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Il nostro autore eredita dalla tradizione una lingua ancora giovane, una lingua entrata splendidamente nell’uso letterario solo da pochi decenni, e riservata prima di lui quasi esclusivamente alla sola lirica amorosa, pur con qualche rilevantissima eccezione (basti pensare appunto alla poesia religiosa; alla corda patriottica di Guittone o alle canzoni dottrinarie dei primi stilnovisti). E allora rispondiamo alla domanda di partenza. Dante è indicato come il faber, l’inventor dell’italiano per questo motivo: non è stato il primo a usare il volgare in un’opera letteraria, ma è stato colui il quale lo ha reso capace di un uso letterario senza limitazioni. I poeti e gli scrittori della tradizione anteriore avevano gettato le fondamenta di un edificio linguistico che Dante Alighieri ha elevato. E successivamente, nel corso dei secoli, gli scrittori italiani hanno, ognuno nell’ambito della propria opera, contribuito ad arredare e ad ampliare le stanze di questo edificio linguistico. L’autore della Commedia ha impresso al volgare una straordinaria accelerazione, dimostrandolo capace di toccare tutti gli argomenti, di esprimere tutte le pieghe dell’animo umano. Come scrive Bruno Migliorini, quindi: ove si intenda lingua nel senso di lingua capace di tutti gli usi letterari e civili è indiscutibile che a Dante spettino i meriti di un demiurgo. Prima di lui alla preponderanza schiacciante del latino, e all’uso occasionale delle due lingue di Francia, letterariamente insigni, non si contrapponevano che dialetti in via di dirozzamento, e tentativi sporadici di assurgere all’arte e alla bellezza. Tutta l’opera di Dante ha una carica spirituale nuova e potente, che in breve tempo opera un rivolgimento nell’opinione pubblica in Toscana e

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fuori, e fa d’un balzo assurgere l’italiano al livello di grande lingua, capace di alta poesia e di speculazioni filosofiche.

La scelta del volgare e le critiche a Dante A noi la scelta autoriale di scrivere il poema in volgare può sembrare innocua e poco significativa, ma fu in realtà una iniziativa coraggiosa, che attirò a Dante diverse critiche da parte soprattutto dei classicisti emunctae naris e degli intellettuali più conservatori. All’epoca era il latino la lingua della cultura, scritta e parlata dai doctores illustres, e tale rimarrà almeno fino all’avvento dell’età illuministica nel xviii secolo che porterà alla ribalta il francese. Tant’è che lo stesso Dante scrisse diverse opere in latino, come il De vulgari eloquentia e il De monarchia, proprio per raggiungere i massimi livelli di utenza. Il volgare era considerato una lingua di rango inferiore, che non aveva nessun prestigio culturale. I lettori della prima ora – appena la Commedia incominciò a circolare – si domandarono come mai un’opera così ricca di scienza, di tale densità intellettuale e dottrinaria fosse stata scritta in volgare e non in latino. Un importante letterato dell’epoca, Giovanni del Virgilio (professore di filologia virgiliana all’Università di Bologna), mosse un rispettoso rimprovero all’autore, esortandolo a mutar pelle e a riconvertirsi alla lingua di Cicerone e Virgilio. Il primo grande avvocato difensore di Dante, che colse perfettamente quello che era il suo progetto culturale, fu invece Giovanni Boccaccio il quale, nella sua biografia dantesca (Il Trattatello in laude di Dante) risponde in questo modo alle obiezioni sollevate dalle prime leve dell’Umanesimo:

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Muovono molti, e intra essi alcuni savi uomini, generalmente una quistione così fatta: che con ciò fosse cosa che Dante fosse in iscienza solenissimo uomo, perché a comporre così grande, di sì alta materia e sì notabile libro, come è questa sua Comedia, nel fiorentino idioma si disponesse; perché non più tosto in versi latini, come gli altri precedenti poeti hanno fatto. A così fatta domanda rispondere, tra molte ragioni, due a l’altre principali ne occorrono. Delle quali la prima è per fare utilità più comune a’ suoi cittadini e agli altri italiani. Conoscendo che, se metricamente in latino, come gli altri poeti passati, avesse scritto, solamente a’ letterati avrebbe fatto utile, scrivendo in volgare fece opera mai più non fatta, e non tolse il non potere essere inteso da’ letterati, e mostrando la bellezza del nostro idioma e la sua eccellente arte in quello, e diletto e intendimento di sé diede agli idioti, abandonati per adietro da ciascheduno.

Boccaccio pone dunque l’accento sul desiderio dantesco di allargare il pubblico dei suoi potenziali lettori, operazione resa possibile dalla scelta del volgare. La democratizzazione della cultura e la divulgazione del sapere sono temi cari a Dante. Pensiamo al Convivio, opera incompleta che – nelle intenzioni dell’autore – consisteva in una vera e propria enciclopedia dello scibile medioevale in quindici libri, resa accessibile a tutti proprio grazie alla veste linguistica in volgare. Come scrive nel primo libro di tale opera, sempre a proposito del volgare: «Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce». Delle tante profezie dantesche disseminate nella sua opera, questa è l’unica che si è avverata... La divulgazione della Commedia interessò sin da subito tutti

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i ceti sociali, come si ricava dalle caratteristiche dei codici e da testimonianze coeve: tra queste, alcune famose novelle tardotrecentesche che prendono spunto da storpiature della lezione dantesca in bocca ad ammiratori di scarsa cultura. Franco Sacchetti, scrittore della fine del xiv secolo, racconta per esempio che una volta il poeta passeggiava per Firenze vicino alla bottega di un fabbro quando sentì che questi stava recitando i suoi versi. Il poeta entra nella sua bottega e reagisce stizzito: piglia il martello, e gettalo per la via; piglia le tanaglie e getta per la via; piglia le bilance e getta per la via; e così gittò molti ferramenti Il fabbro, voltosi con un atto bestiale, dice: Che diavol fate voi? Siete voi impazzito? Dice Dante: O tu che fai? Fo l’arte mia, dice il fabbro, e voi guastate le mie masserizie, gittandole per la via. Dice Dante: Se tu non vuogli che io guasti le cose tue, tu non guastar le mie. Disse il fabbro: O che vi guasto io? Disse Dante: Tu canti il libro, e non lo dì come io lo feci; io non ho altr’arte, e tu me la guasti. Il fabbro gonfiato, non sappiendo rispondere, raccoglie le cose, e torna al suo lavorio: e se volle cantare cantò di Tristano e di Lancelotto, e lasciò stare il Dante.

Queste testimonianze precoci della fortuna delle sue terzine sono la prova che l’opera dantesca – come scrive sempre Migliorini – «è assunta quasi a libro santo della nazione, commentato come si commentavano le sacre pagine, e letto nelle scuole di alto livello». La tempestiva diffusione del poema è testimoniata da una eccezionale proliferazione di copie manoscritte e dai numerosi commenti che si susseguono ininterrottamente a partire dalla morte del poeta, destinati a una tradizione plurisecolare.

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Fra i primi commentatori del poema compaiono, oltre ai due figli dell’Alighieri, Jacopo e Pietro, il notaio Graziolo de’ Bambaglioli, Jacopo della Lana, l’autore dell’Ottimo commento, Guido da Pisa; e poi, nella seconda metà del secolo, accanto al Boccaccio (il più profondo studioso di Dante della sua epoca), Benvenuto da Imola e Francesco da Buti. La ricezione di Dante – dopo la felice stagione trecentesca – sarà poi scandita da periodi di opacità, soprattutto tra Quattrocento e Settecento, quando rischierà di subire una battuta di arresto fatale, quasi memorabile. Una data epocale è il 1525, l’anno in cui vengono pubblicate dal cardinale Pietro Bembo (il Quintiliano della letteratura italiana) le Prose della volgar lingua. In questo trattato, che ha un impianto dialogico (siamo in pieno revival platonico e ciceroniano) il volgare si affranca da ogni subalternità nei confronti del latino ed elegge – con un processo di canonizzazione che resterà fermo nei secoli – il Petrarca a motore immobile della poesia italiana. Bembo aveva ragionato così: come gli scrittori latini avevano un modello per la poesia (Virgilio) e uno per la prosa (Cicerone) allo stesso modo noi italiani (nani sulle spalle dei giganti...) ci scegliamo un riferimento per la poesia (Petrarca) e uno per la prosa (Boccaccio). Per Dante non c’è posto... Come si spiega questa clamorosa estromissione? L’antesignano del classicismo rinascimentale non tollerava le audaci insorgenze triviali dantesche; lo accusava di aver usato parole «immonde e brutte». Dante ha operato in maniera che «si può la sua Comedia giustamente rassomigliare ad un bello e spazioso campo di grano, che sia tutto d’avene e di logli e d’erbe sterili e dannose mescolato, o ad alcuna

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non potata vite al suo tempo, la quale si vede essere poscia la state sí di foglie e di pampini e di viticci ripiena, che se ne offendono le belle uve». Da questo momento, Dante cadde in proscrizione. Tra Cinquecento e Settecento si contano solo tre edizioni della Commedia, e ottantaquattro per il Canzoniere di Petrarca. Bisognerà aspettare molti secoli, ossia l’età di Ugo Foscolo e Francesco de Sanctis, perché questa coscienza collettiva muti e Dante riscatti finalmente il suo ruolo fondativo. Nel Novecento poi, incontrerà i suoi lettori più acuti. Come scrive il critico Carlo Ossola, infatti, «tutto il Novecento, cercando una parola universale, ha attraversato Dante». Nel secolo dei totalitarismi e delle guerre mondiali, Dante è stato – per tanti scrittori e intellettuali che hanno vissuto in prima persona le atrocità del Novecento – “il pane che si porta in carcere”. La sua poesia è diventata un amuleto morale, un antidoto alla derelizione e alla brutificazione. Dante è andato in carcere con Antonio Gramsci, in trincea con Giuseppe Ungaretti, in Siberia con Osip Mandel’stam, ad Auschwitz con Primo Levi, in Libia con Mario Tobino. Durante il secolo breve, tutta l’Europa ha riletto Dante per dare un senso al proprio dolore.

Dante e la maternità della lingua italiana Scherzando un po’ con le metafore, possiamo dire che Dante non è solo il padre, ma anche la madre dell’italiano. Una metafora ricorrente nelle tre cantiche è quella del latte della poesia, ampiamente studiata da Maurizio Fiorilla. Una veloce ricognizione: il poeta latino di età flavia Sta-

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zio, quando in Purgatorio incontra il suo idolo letterario Virgilio, grazie al quale si avvicinò alla poesia e alla vera fede, gli rivela che l’Eneide è stata per lui una mamma che lo ha nutrito (Pg. xxi, vv. 97-99): de l’Eneida dico, la qual mamma fummi, e fummi nutrice poetando: sanz’essa non fermai peso di dramma

Nel canto successivo sempre Stazio sancisce la superiorità di Omero dicendo che fu allattato dalle Muse più di qualunque altro poeta (Pg. xxii, vv. 100-102): «Costoro e Persio e io e altri assai» rispuose il duca mia, «siam con quel Greco che le Muse lattar più ch’altri mai

Quando – nella terza cantica – Dante, oramai giunto nel cielo delle stelle fisse, tenterà di descrivere il sorriso di Beatrice, confesserà la propria impotenza: se anche tutte le lingue dei poeti gli venissero in aiuto (quelle che Polimnia con le altre Muse fecero più ricche nutrendole con il loro latte), non raggiungerebbero un milionesimo del vero (Pd. xxiii, vv. 55-60): Se mo sonasser tutte quelle lingue che Polimnia con le suore fero del latte lor dolcissimo più pingue, per aiutarmi, al millesmo del vero non si verria, cantando il santo riso e quanto il santo aspetto facea mero

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Alla fine del Paradiso, Dante si rappresenta dunque come un in-fante, un lattante che bagna ancor la lingua alla mammella. La sua parola creatrice non ce la fa a dare consistenza verbale e figurale all’infinito e allora si arresta sulla soglia dell’inesprimibile (Pd. xxxiii, vv. 106-108): Omai sarà più corta mia favella, pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante che bagni ancor la lingua alla mammella.

Tanti poeti del secolo scorso riprenderanno questa metafora della lactatio poetica: penso a Paul Celan e al rapporto tra lallazione, ossia la produzione prelinguistica dei lattanti e ineffabilità, l’impossibilità di raccontare certe tragedie, come nel suo caso quella dell’Olocausto. E in modo particolare Andrea Zanzotto, il quale ha scritto che la lingua si assorbe insieme al latte materno. Secondo il poeta veneto, il dialetto (questo vecio parlar) ha dentro il suo sapore una goccia del latte di Eva. Nel De vulgari eloquentia Dante aveva scritto: Chiamiamo parlar volgare quello che i bambini acquisiscono con l’uso da chi si prende cura di loro quando cominciano ad articolare le parole; ovvero, come si può dire più in breve, definiamo parlar volgare quello che assorbiamo, al di fuori di qualunque regola, imitando la nutrice.

Al nostro autore possiamo dunque accreditare, insieme alla paternità, anche la maternità poetica dell’italiano.

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«Il poema sacro al quale han posto mano e cielo e terra»

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All’inizio del canto xxv del Paradiso Dante dice che alla stesura del suo poema hanno concorso in pari misura i misteri del cielo e l’esperienza terrena. È un chiaro accenno alla vastità tematica dell’opera, che apparve a un lettore di eccezione come il poeta angloamericano T. S. Eliot «la più ordinata, la più esauriente presentazione di sentimenti che sia mai stata fatta». Naturalmente anche dal punto di vista linguistico il poema è un’opera totalizzante. Questa varietà tematica quasi indelimitabile comporta l’adozione da parte dell’autore di un impianto linguistico inedito. Il poema è una grande enciclopedia degli stili, nel senso che l’autore orchestra continuamente diversi registri espressivi e impasta tra loro gli ingredienti linguistici più eterogenei. Potremmo dire – un poco scherzosamente – che la Divina Commedia è una meravigliosa, ricca insalata mista… La lingua di base è il fiorentino ma gli apporti da altri dialetti sono ingenti: Dante è stato infatti un grande dialettologo; basti pensare alla ricognizione dei dialetti che egli compie nel De vulgari eloquentia, quando si mette a inseguire quella pantera profumata che sfugge in continuazione, ed è una allegoria del volgare illustre. Nel “poema sacro” l’escursione linguistica è vertiginosa: ci sono dei passi pieni di gallicismi e provenzalismi o addirittura integralmente in provenzale, come il discorso di Arnaut Daniel che – nella cornice dei lussuriosi – sigilla il canto xxvi del Purgatorio (vv. 139-148):

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El cominciò liberamente a dire: «Tan m’abellis vostre cortes deman que’ ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; consiros vei la passada folor, e vei jausen lo joiqu’ esper denan. Ara vos prec, per aquella valor que vos guida al som de l’escalina, sovenha vos a temps de ma dolor!». Poi si ascose nel foco che li affina.

Nella terza cantica i latinismi si infittiscono, e capita di imbattersi in una terzina scritta interamente in latino, che contiene le parole pronunciate dal trisnonno del poeta, Cacciaguida (Pd. xv, vv. 28-30): «O sanguis meus, o superinfusa gratia Dei, sicut tibi cui bis unquam celi ianua reclusa?»

Il vulcanismo glotto-poetico di Dante, la sua fame verbale è tale che quando una parola gli manca se la inventa. In questo senso egli è il maggior onomaturgo (inventore di parole nuove) di tutta la letteratura. Qui di seguito riporto un elenco dei principali neologismi danteschi, a cominciare dal fortunatissimo “inurba”, verbo di altissima frequenza nell’italiano contemporaneo: • inurba (Pg. xxvi, v. 69): entrare in città.

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trasumanar (Pd. i, v. 70): andare oltre l’umano incielarsi (Pd. iii, v. 97): ascendere in cielo imborgarsi (Pd. viii, v. 61): incastellarsi insemprarsi (Pd. x, 148): durare per sempre intrearsi (Pd. xii, v. 57) inserirsi come terzo elemento indracarsi (Pd. xvi, 115): diventare feroce come un drago infuturarsi (Pd. xvii, 98): sentirsi proiettati nel futuro inforsarsi (Pd. xxiv, 87): essere in dubbio imparadisare (Pd. xxviii, 3): trasformare in Paradiso inverare (Pd. xxviii, 39): rendere vero immillarsi (Pd. xxviii, 93): moltiplicare per mille intuarsi, inmiarsi, inluiarsi, inmearsi (penetrare in te, in me, in lui, in lei) immegli (Pd. xxx, v. 87): diventare migliori indovare (Pd. xxxiii, v. 138): collocarsi nello spazio

Dante dispone infatti di infinite risorse stilistiche. Oltre al multilinguismo, la Commedia è caratterizzata da un multistilismo, ossia dall’impiego di un’ampia varietà di registri stilistici. Dante ha infatti infinite risorse stilistiche: riesce a essere sia un poeta teologo (in modo particolare nella terza cantica) sia (soprattutto all’Inferno) un “teppista della lingua”, un antesignano del realismo sporco che impiega parole ruvide e disadorne, insorgenze triviali che – dopo di lui – verranno risospinte nel limbo dell’impoeticità, dove rimarranno per molti secoli, prima della riscoperta dantesca in età romantico-risorgimentale. Dante – ci ha insegnato Natalino Sapegno – è d’altronde «un classico senza classicismo», e dopo secoli di fortuna alterna e contrastata soltanto nel Novecento (un secolo che

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ha finalmente imparato che le vie dell’arte sono infinite e capaci di implicare qualunque referente) il suo temperamento linguistico è diventato una guida, un esempio per tanti poeti e scrittori di ogni parte del mondo: James Joyce nel Finnegans Wake; Ezra Pound nei Cantos; Carlo Emilio Gadda in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana altro non sono che gli eredi del multilinguismo della Commedia. In questo senso, possiamo considerare Dante un poeta novecentesco del Medioevo.

Un poema infinito Mi sono particolarmente cari due versi di una lirica dantesca («Io sento sì d’Amor la gran possanza») inserita nel corpus delle Rime: Io non la vidi tante volte ancora ch’io non trovasse in lei nova bellezza

L’autore dice: “ogni volta che io guardo la mia amata trovo in lei nuova bellezza”. E in effetti non ci stanchiamo mai di guardare le persone che amiamo; di leggere nei loro occhi il palpito diverso di ogni giorno. Questi versi che il poeta dedica alla sua amata noi li dedichiamo al suo capolavoro! Ogni volta che rileggiamo la Divina Commedia troviamo qualcosa che ci era sfuggita durante le letture precedenti; una risonanza, una sfumatura, una suggestione. Questa rilettura perenne di Dante, questa esplorazione amorosa del suo libro non finirà mai, perché questo libro durerà, scrive sempre Borges «ben oltre le nostre notti e le nostre veglie».

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In conclusione, questa è la Divina Commedia: la realtà di noi uomini che si svela a sé stessa.

Un poeta sulla bocca di tutti La Commedia dantesca si compone di 14.233 versi. Nelle pagine che seguono intendo passare in rassegna quelli che hanno avuto maggior fortuna nella tradizione successiva, al punto da divenire proverbiali. Non deve sorprendere se la maggior parte dei loci testuali repertoriati provengono dalla prima cantica: è la prova della maggior fortuna incontrata dall’Inferno rispetto al resto del poema. Nel Trecento Giovanni Boccaccio inaugura tra l’altro la pubblica lettura dei canti del poema (incominciata domenica 23 ottobre 1373), tradizione plurisecolare che continua ai giorni nostri a riscuotere grande successo e rinverdita con l’istituzione – promossa dal governo italiano – del Dantedì: la giornata del 25 marzo (la data in cui inizia il viaggio nell’aldilà narrato nel poema) viene commemorata e celebrata la «nostra maggior musa» attraverso iniziative di vario genere, quali appunto letture pubbliche, convegni, conferenze nelle scuole e negli atenei. Gianfranco Contini ha scritto che «la Commedia dantesca è l’unico capolavoro del Medioevo europeo tuttora linguisticamente vivo». Il repertorio che segue ne è l’ennesima prova: Dante è davvero sulla bocca di tutti: in molti, sfogliando le pagine che seguono, scopriranno di avere citato Dante in più di un’occasione senza essersene resi conto. Questa è la prova lampante che noi possiamo anche ignorare Dante; ma Dante non ignora noi...

E quindi uscimmo a riveder le stelle

E quindi uscimmo a riveder le stelle (Inf. XXXIV, v. 139)

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Inauguro la rassegna con l’explicit dell’Inferno, perché questo verso negli ultimi tempi è stato citato numerosissime volte, come augurio di imminente rinascita dopo la tragedia della pandemia. Il protagonista del viaggio oltretombale, dopo essersi inabissato nella fossa delle Marianne della nostra umanità e aver illustrato nei suoi versi le turpitudini più inumane, si lascia finalmente alle spalle la profonda notte infernale e si prepara a scalare la montagna della speranza e della redenzione. Quando era ragazzo, uno dei passatempi preferiti di Giacomo Leopardi era sedersi e alzare gli occhi al cielo: contare le stelle, numerarle a una a una. Nei suoi dialoghi monologanti con gli astri, il poeta rivolgeva ai muti interlocutori tutti gli interrogativi intorno al senso del nascere e del morire. L’eco della nostra umanità finiva così per smarrirsi nella vastità infinita delle costellazioni, indifferenti, nel loro remoto baluginare, al doloroso gioco di esistere. Qualche tempo dopo, Giovanni Pascoli – in una delle sue poesie più famose – aprirà allo sguardo dei lettori un cielo che inonda

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di «un pianto di stelle quest’atomo opaco del male che è il nostro mondo», già descritto dal poeta di Recanati come un «oscuro granel di sabbia / il qual di terra ha nome». Credo che sia Leopardi sia Pascoli avessero a lungo meditato su quell’endecasillabo della Commedia di Dante (Paradiso, c. xxii, v. 151) che raccoglie l’emozione del turista dell’oltretomba nel momento in cui osserva la terra da una sconfinata lontananza ed essa gli appare come l’aiuola che ci fa tanto feroci. Noi uomini siamo stipati in questa nave azzurra sospesa nello spazio, una favilla nell’immenso incendio galattico, e trascorriamo l’esistenza – sempre secondo Leopardi – a «infelicitarci e distruggerci scambievolmente», ignari che il nostro transito esistenziale è un frego effimero sulla lavagna della storia dell’Universo: una traccia che la spugna del tempo cancella. Nascita e morte: verità veloce. Come aveva scritto Elsa Morante, «tutte le vite hanno la medesima fine». La creaturalità dell’esistenza ci accomuna e ci affratella a tutte le altre specie viventi. Il sole – diceva il poeta latino Catullo – muore e rinasce, ma per quanto riguarda gli uomini la prospettiva è un’altra: «cum semel occidit brevis lux / nox est perpetua una dormienda» (quando il sole della vita è tramontato, dovremo dormire una notte lunghissima). Le Confessioni di S. Agostino si aprono con una riflessione sull’uomo, che ovunque vada porta con sé il peso della propria morte (homo circumferens mortalitatem suam). Quel poeta agostiniano che è Giuseppe Ungaretti pone a sé stesso la seguente domanda: «Volti al travaglio come una qualsiasi fibra creata / perché ci lamentiamo noi?». L’esistenza è un dono doloroso e il compito dell’arte è quello di

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medicare questa ferita creaturale. La morte – scrive il poeta statunitense Wallace Stevens – «è la madre della bellezza». La consapevolezza della nostra finitudine ci dona la spinta a vivere e a raccogliere la bellezza intrisa di amarezza che circonda le cose. Possiamo pensare all’arte come a una “contro-creazione” finalizzata a riparare l’esistenza: una reparatio hominis ac mundi. Il compito che Dante si propone nella Commedia è proprio questo: rinnovare l’umanità dell’uomo. Ma che cosa ha rappresentato il libro nella vita del poeta? Esiliato, povero, costretto a vivere ai margini della generosità altrui (il suo primo biografo, Giovanni Boccaccio, ci racconta che egli «con fatica disusata doveva il sostentamento di sé medesimo procacciare») il suo capolavoro fu una sorta di “anti-destino”, che gli permise di rovesciare la sconfitta esistenziale nel più grande trionfo poetico della storia. Il firmamento che Dante ritrova è quello che permette ai marinai di orientare la rotta della navigazione, impedendo loro di smarrirsi nel «grande mare dell’essere». Nei momenti di sconforto, ognuno di noi accarezza questo verso come un talismano. Capita a tutti, prima o poi, di dimenticare qual è la nostra rotta nel mare della vita. Nel De vulgari eloquentia il poeta aveva scritto che proprio grazie alla dolcezza della poesia era riuscito a gettarsi alle spalle l’esilio («postergamus exilium nostrum»). Diceva Pessoa che «la letteratura, come tutta l’arte, è la prova che la vita non basta». La Divina Commedia è dunque una “contro-creazione” che vuole “riparare gli uomini” e ricucire quella ferita di esistere aperta dentro di loro. Nel firmamento della poesia

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universale, l’astro di Dante è il più luminoso, quello che più rifulge nella solitudine e nel buio che circonda la vita, quello che meglio potrebbe orientare la nostra navigazione nell’oceano dell’esistenza. Come scrive Sandro Penna, «ognuno è solo, / ma con vario cuore / riguarda sempre le solite stelle».

Nel mezzo del cammin di nostra vita

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Nel mezzo del cammin di nostra vita (Inf. I, v. 1)

L’incipit del poema è forse il verso più noto della letteratura universale. La terzina iniziale dell’Inferno è così famosa che non ci rendiamo più conto di quanto sia sorprendente. A questi primi versi è affidato il compito di sostenere l’inizio di tutto: del viaggio di Dante, del suo racconto, del poema stesso. Provo a spiegarlo in breve: nessuno dei poemi che Dante conosceva e con cui intendeva confrontarsi – l’Eneide di Virgilio, la Pharsalia di Lucano, l’Achilleide di Stazio – comincia in questo modo. Prendono le mosse tutti, invece, con l’autopresentazione del poeta narratore, il preannuncio dell’argomento del poema e una invocazione alle Muse affinché sostengano l’autore nella sua fatica. All’inizio della Commedia non c’è nulla di tutto ciò: l’autore brucia le cerimonie della poesia classica e proietta il lettore immediatamente in medias res, nel cuore del racconto. L’unico dato che chi legge evince è quello relativo all’età del protagonista, il quale è un uomo di trentacinque anni, giunto dunque a metà del suo cammino esistenziale. Teniamo presente una pagina del Convivio dove Dante

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– sulla scorta di un passo biblico (Salmi 89, 10) per cui la vita umana avrebbe la durata di settanta anni, paragona l’esistenza di un uomo a un arco il cui apice corrisponde al trentacinquesimo anno di età. Dal momento che l’autore nacque nel 1265, l’inizio del racconto della Commedia coincide con il 1300, l’anno del primo giubileo indetto da papa Bonifacio viii, acerrimo nemico di Dante (in questo senso, la Commedia è stata anche definita un poema “antigiubilare”). Tutti i lettori si sono sempre interrogati sul senso dell’aggettivo plurale “nostra”, che è in evidente contrapposizione con il singolare “mi ritrovai” del verso successivo. Dal punto di vista grammaticale, l’autore avrebbe potuto più correttamente scrivere “Nel mezzo del cammin di nostra vita / ci ritrovammo”, oppure “Nel mezzo del cammin di mia vita / mi ritrovai...”. Naturalmente la scelta dell’aggettivo possessivo plurale “nostra” non è casuale ma ha un altissimo valore ideologico e poetologico: consente al poeta di proiettare la sua vicenda individuale su un piano universale. Colui che dice “io” all’interno del racconto vuole essere il rappresentante dell’intero genere umano, l’everyman, l’ogni-uomo. Tutta l’umanità è in cammino insieme a lui, in un viaggio di redenzione individuale e collettiva. Questo libro ha infatti una ambiziosa finalità extra-letteraria, ossia la palingenesi morale del mondo. L’esperienza che l’autore inizia a raccontarci, all’apparenza così centrata su di lui, rivela una portata che va ben oltre l’autobiografia. Nell’epistola a Cangrande, l’Alighieri aveva infatti scritto che il suo obiettivo era quello di «removere viventes in hac

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vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» (rimuovere gli uomini dalla miseria morale del presente e condurli verso uno stato di felicità). E dunque la grande metafora del viaggio viene annunciata subito nell’incipit, dove il poeta fiorentino richiama un passo dell’Antico Testamento, l’inizio del canto di Ezechia (Isaia 38, 10): «Nel mezzo della mia esistenza andrò alle porte dell’Inferno». Come ci ha insegnato un eccezionale lettore di Dante, il poeta statunitense Ezra Pound, il viaggio scandito nelle tre cantiche è in verità un itinerario negli stati della mente, un percorso in interiore homine. La Divina Commedia è appunto questo: la realtà di noi uomini che si svela a noi stessi.

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Fa tremar le vene e i polsi (Inf. I, v. 90)

Il filosofo Thomas Hobbes (1588-1679) pone la paura, il terror vivendi, al centro del suo pensiero politico. Egli diceva che essa era l’unica emozione che aveva conosciuto in vita sua. Siamo tutti figli del Machiavelli e sappiamo benissimo che la paura è un metodo di governo, di manipolazione e controllo delle coscienze. Anche il terrore delle punizioni oltremondane è un instrumentum regni. Il primo a dircelo chiaramente è stato il poeta latino Lucrezio (i sec. a.C.) il quale, nel De rerum natura, aveva celebrato il maestro Epicuro, colui che ha sconfitto quel mostro, la superstizione religiosa, che incombeva terrifico sul genere umano. Molti secoli dopo, un grande studioso del materialismo democriteo e lucreziano, il filosofo Sigmund Freud (1856-1939) erediterà questa riflessione, soprattutto in opere come Il disagio della civiltà e L’avvenire di un’illusione. Dante Alighieri era uno specialista della paura. Nel suo “poema-mondo” l’autore ricapitola ogni aspetto di noi uomini; non c’è dimensione dell’esistenza che egli non abbia illustrato poeticamente, e la paura è una di queste.

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Il verso 90 del canto esordiale della Commedia («ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi») è entrato nella memoria collettiva e viene citato spesso per esprimere la propria reazione emotiva di fronte a un pericolo incombente. Esso è pronunciato dal Dante personaggio, il quale si rivolge a Virgilio, appena giunto in suo aiuto (nel canto successivo spiegherà che è stato mobilitato da Beatrice, la quale lo ha esortato a soccorrere il suo fedele e ad aiutarlo a ritrovare la «diritta via»). Dante – smarrito nella selva oscura (allegoria della vita) – giunge ai piedi di un colle che rappresenta forse l’unica possibilità di salvezza. La strada gli viene però sbarrata dall’arrivo di tre fiere, tre bestie selvagge che incedono minacciosamente verso di lui e lo costringono ad arretrare, risospingendolo verso il buio della selva. Queste tre fiere sono – in ordine di apparizione – il leone, la lonza e la lupa. La Commedia, d’altronde, è un poema allegorico. L’allegoria è una figura retorica che affida a un elemento del testo – oltre al significato letterale – un valore simbolico. Quando Dante descrive il regno animale è fortemente debitore alla tradizione dei bestiari medioevali. I bestiari erano dei repertori che contenevano la descrizione dei vari animali – sia reali sia mitologici – accompagnata da un corredo di interpretazioni moralizzanti. Ogni animale incarnava dunque una caratteristica umana, sia viziosa sia virtuosa. Qual è dunque il valore morale dei primi animali che entrano in scena nel poema dantesco? Il leone probabilmente rappresenta la tracotanza; la lonza è l’incarnazione della lussuria e la lupa personifica la cupidigia. Gli studiosi di Dante non concordano all’unanimità sull’effettivo significato allegorico di questi animali. D’al-

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tronde, si sa, la polisemia è il sale della poesia. La lupa, a ogni modo, è tra le tre fiere quella che incute lo spavento maggiore (vv. 49-54): Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame, questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch’uscia di sua vista, ch’io perdei la speranza de l’altezza

Parecchi secoli dopo, Giovanni Verga terrà presente le terzine dantesche del primo canto quando descriverà uno dei suoi personaggi più memorabili, la Lupa, una donna caratterizzata da una torbida voracità sessuale (proprio come l’animale dantesco, anche la Lupa verghiana «dopo il pasto ha più fame che pria»): Riporto l’incipit della novella dello scrittore catanese: Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna – e pure non era più giovane – era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai – di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata.

Dante, sconfortato, scorge un’ombra in lontananza: è il grande poeta latino Virgilio, l’apparizione del quale suscita

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il suo stupore: mai avrebbe immaginato di trovarsi al cospetto del suo idolo letterario! Il poeta fiorentino implora il suo aiuto (vv. 88-90): Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi.

Virgilio spiega quindi a Dante che per uscire vivo dalla selva dovrà intraprendere un percorso ben diverso, un viaggio nei tre regni oltremondani. Egli lo accompagnerà fino alle soglie del Paradiso terrestre, dove un’altra guida, la Beatrice signora della sua mente, lo prenderà in consegna. La lupa rimarrà in quel posto a vagare minacciosa, fino a quando un veltro (letteralmente un cane da caccia) nelle vesti di giustiziere «la caccerà per ogni villa / fin che l’avrà rimessa nello Inferno» (vv. 109-110). Ancora una volta Dante ci ha regalato le parole adatte per dare consistenza verbale alle nostre emozioni. Leggere la Divina Commedia significa addestrarci nella lettura di quel geroglifico indecifrabile che è la nostra anima.

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Qui si parrà la tua nobilitate (Inf. II, v. 9)

I cultori di memorie dantesche, quando vogliono sottolineare l’eccezionalità dell’impresa che stanno per compiere (di qualunque genere essa sia), citano questo endecasillabo del secondo canto dell’Inferno. Il verso sigilla una terzina che contiene una invocazione alle muse e all’«alto ingegno» (ossia la scienza poetica) formulata dall’autore alle soglie del poema. Dante è infatti sul punto di intraprendere, con la nave della sua mente (che all’inizio del Purgatorio chiamerà «la navicella del mio ingegno»), una navigazione poetica in acque mai solcate da nessuno prima di lui. Riporto la terzina per esteso (vv. 7-9): O muse, o alto ingegno, or m’aiutate; o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, qui si parrà la tua nobilitate.

Possiamo parafrasarla in questo modo: «Oh muse, oh sublime ingegno inventivo, ora soccorretemi; oh memoria in cui si stampò ciò che io vidi, qui si dimostrerà la tua capacità».

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Con l’aiuto delle muse, che venivano invocate dai poeti antichi nel prologo delle loro opere, l’autore dà a questo punto inizio al suo racconto (il primo canto dell’Inferno, come si ripete sempre e giustamente, ha infatti una funzione proemiale: è il vestibolo del grande edificio poetico dantesco). Le muse sono nel mondo classico le nove fanciulle figlie di Mnemosine (la Memoria) e Zeus, alle quali è affidata la custodia di tutte le arti, in modo particolare della poesia. Già Omero si era rivolto a loro per poter svolgere il suo canto. Dante mantiene questo richiamo letterario ai testi antichi: egli riconosce che il vero poeta non può non ammettere la necessità di un intervento soprannaturale che gli permetta di inoltrarsi in un’opera tanto ardua e ai limiti delle possibilità umane. Al verso 8 del secondo canto Dante chiede quindi alla memoria che lo ispira l’aiuto per portare a termine la sua missione temeraria. Ma in che cosa consiste l’eccezionalità del progetto poetico dantesco? Dante è il solo pensatore poetico della storia che sia stato capace di innalzarsi di fronte a un millennio, ricapitolando nel suo “poema-mondo” venti secoli di storia e di cultura. Come scrisse l’autore angloamericano T.S. Eliot, la Commedia dantesca è «la più ordinata e esauriente presentazione di sentimenti che sia mai stata fatta». Dante censisce poeticamente e illustra nelle tre cantiche ogni aspetto della nostra umanità, ogni ingrediente emozionale della vita umana. Non c’è aspetto di noi uomini che egli non abbia esplorato nei suoi versi. Lo scrittore argentino J. L. Borges definì la Commedia

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«una miniatura poetica dell’Universo». E in effetti, in questo senso, il poema è proprio un Triumphus memoriae, una immensa arca dove si deposita tutta la tradizione letteraria antica e medioevale. Fu subito chiaro – già ai lettori della prima ora – che l’autore di una macchina testuale tanto perfetta doveva avere un ingegno sovraumano! A questo proposito, ricordiamo che in margine al commento plurisecolare al poema sacro sono fioriti moltissimi aneddoti relativi alla vita di Dante, il quale è stato ampiamente celebrato soprattutto per le abilità mnemoniche fuori del comune. Dante ricordava tutto, e lo dimostra, tra le altre cose, questo famosissimo racconto. Il poeta se ne stava una volta per i fatti suoi sulla piazza di Santa Maria del Fiore a prendere il fresco, seduto su un muretto. «Or quivi stando una sera, gli si presenta uno sconosciuto, e lo interroga: voi che siete così dotto – gli domanda – mi sapete dire qual è il miglior boccone? E Dante, senza por tempo in mezzo, risponde: L’uovo. Un anno dopo, sedendo egli sullo stesso muricciolo, gli si presenta di nuovo quell’uomo, che più non avea egli veduto, e lo interroga: Con che? Ed egli risponde subito: Col sale». Questo e altri aneddoti ci presentano Dante sotto una luce più affabile e meno arcigna: un Dante umano, troppo umano, nel suo sovraumano estro poetico... Il verso 9 di questo canto («qui si parrà la tua nobilitate») è allora potenzialmente un mantra benefico per chiunque stia sul punto di cimentarsi in un’impresa ai limiti delle sue forze .

Io era tra color che son sospesi

Io era tra color che son sospesi (Inf. II, v. 52)

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Questo verso contiene, come scrive Fabio Dainotti, presidente onorario della Lectura Dantis Metelliana una delle locuzioni più tipiche della proverbialità di Dante, entrata nel linguaggio comune con tono dotto: oggi indica uno stato di incertezza, proprio di chi si trova in una situazione di incerta gravità, in un’attesa prolungata, che può evolversi in senso positivo o negativo; ma può indicare anche lo stato d’animo di incertezza tipico della persona che non sa quale partito prendere e si trova quindi in preda a una certa titubanza e difficoltà decisionale. In ambito scolastico l’espressione si usava riferita ad alunni in bilico tra sufficienza e insufficienza.

Nel contesto dantesco la perifrasi indica la condizione degli abitanti del Limbo «sospesi tra il desiderio di veder Dio e la nessuna speranza» (N. Sapegno). Il termine “limbo” significa “orto, zona marginale”, e indica infatti il primo cerchio dell’Inferno, che sta appunto ai margini dell’Inferno vero e proprio. Nel contesto del secondo canto, il verso è pronunciato da Virgilio che spiega a Dante il senso del suo viaggio, voluto

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PARLA COME DANTE

nell’alto dei cieli da tre donne benedette, le quali hanno ottenuto la concessione della sua salvezza dalla volontà divina. La stessa Beatrice, su intercessione della Madonna e di santa Lucia, è scesa dall’Empireo nel Limbo proprio per affidargli l’incarico di accompagnarlo nell’Oltretomba (vv. 70-72): Io son Beatrice che ti faccio andare; vegno del loco ove tornar disio; amor mi mosse, che mi fa parlare.

L’amico mio, e non de la ventura

L’amico mio, e non de la ventura (Inf. II, v. 61)

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Le parole con le quali Beatrice definisce Dante «l’amico mio, e non de la ventura» formulano una locuzione divenuta proverbiale nella lingua comune, usata spesso in senso scherzoso. In una seguitissima trasmissione sportiva di qualche anno fa, il giornalista Sandro Ciotti aveva l’abitudine di salutare gli spettatori con l’espressione «Amici miei, e non della Ventura», alludendo scherzosamente al cognome della conduttrice che lo affiancava, Simona Ventura. Per intendere il significato autentico del verso dantesco è necessario come sempre valutarlo nel contesto del canto in cui è inserito. Siamo ancora nel pendio collocato tra la selva oscura e il colle luminoso, verso il tramonto (vv. 1-6): Lo giorno se ne andava, e l’aere bruno toglieva li animai che sono in terra dalle fatiche loro; e io sol uno m’apparecchiava a sostener la guerra sì del cammino e sì de la pietate, che ritrarrà la mente che non erra.

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PARLA COME DANTE

Il protagonista, mentre si accinge a intraprendere l’arduo cammino, è visitato da dubbi tormentosi: perché dovrebbe compiere un simile viaggio? Non si tratta di un atto eccessivamente temerario? Prima di lui, soltanto Enea e san Paolo avevano avuto il privilegio eccezionale di entrare – da vivi – nel regno dei morti. Ma ecco le parole che Beatrice aveva rivolto a Virgilio, per mobilitarlo in soccorso del suo fedele amico (vv. 58-63): O anima cortese mantoana, di cui la fama ancor nel mondo dura e durerà quanto il mondo lontana, l’amico mio, e non de la ventura, ne la diserta piaggia è impedito sì nel cammin, che volt’è per paura;

Cosa significa allora questa espressione? Come sempre, navighiamo tra una molteplicità di proposte. Elenco qui di seguito le principali: 1) i commentatori della prima ora intendono “colui che mi ama ma non è amato dalla sorte”. In questo senso l’allusione sarebbe ai guai incontrati da Dante (principalmente l’esilio); 2) “colui che mi amò per me stessa, in maniera disinteressata”. In questo senso essere “amico della fortuna” equivarrebbe a essere “amico interessato”, mentre il poeta – come narrato nella Vita nova – avrebbe amato Beatrice senza mirare ad alcuna ricompensa, trovando dunque la propria beatitudine nel semplice fatto di lodarla; 3) “colui che è mio vero amico, e non di quelli che vanno e vengono secondo la fortuna”; nell’epoca di Dante infatti,

L’amico mio, e non de la ventura

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espressioni del tipo “amico di fortuna” erano frequenti per indicare amicizie opportunistiche e insincere. Personalmente, propendo per la prima, ma anche le altre due sono accoglibili. A ogni modo, nel linguaggio colloquiale citiamo questo verso quando vogliamo apostrofare affettuosamente una persona che fa parte della cerchia ristretta degli amici più fedeli.

Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate (Inf. III, v. 9)

All’inizio del canto terzo dell’Inferno, Dante e Virgilio – i due turisti dell’oltretomba – giungono davanti a una porta sulla cui sommità una iscrizione preannuncia le caratteristiche del luogo, creato dalla giustizia divina per punire i peccatori. Ecco i versi (vv. 1-9): Per me si va ne la città dolente per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore; fecemi la divina potestate, la somma sapienza e il primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterna duro. Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate.

Il sobbalzo psicologico di queste terzine è entrato nel dominio del memorabile.

Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate

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Notate l’architettura retorica, costruita sull’anafora della medesima sequenza verbale, il complemento di moto per luogo “per me” (l’anafora è una figura retorica che consiste nel ripetere uno o più parole all’inizio di versi successivi). Questa strategia retorica permette all’autore di sottolineare l’importanza di quella porta che introduce all’Inferno. La triplice ripetizione ribadisce l’inesorabilità della condanna per chi entra nel «cieco carcere» e sancisce l’eternità della pena. Il verso 9 è formato da un endecasillabo lapidario, epigrafico, che ha incontrato enorme fortuna popolare, venendo ripreso e adattato alle più diverse esperienze narrative. Come scriveva Dino Provenzan: «Non solo non c’è italiano, per quanto ignorante, che non lo abbia a memoria, ma è noto anche a molti stranieri che non conoscono la lingua». Il verso viene spesso citato in tono volutamente iperbolico e scherzoso, amplificandone enormemente il senso in rapporto alla situazione (capita di leggerlo sulla porta di tante aule scolastiche). Nei versi seguenti, Virgilio invita Dante ad armarsi di molto coraggio e ad abbandonare ogni titubanza o esitazione: presolo infine per mano, lo introduce nel regno del male (vv. 16-18): Noi siam venuti al loco ov’io t’ho detto che tu vedrai le genti dolorose c’hanno perduto il ben dell’intelletto

Anche questo ultimo endecasillabo ha incontrato una discreta fortuna popolare. Lo si usa infatti per sottolineare – più o meno ironicamente

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– la scarsa intelligenza di una persona, in espressioni del tipo «mi sembra che costui sia privo del ben dell’intelletto». Nel contesto dantesco, il sintagma designa appunto la luce della ragione, dono di Dio che permette agli uomini di illuminare le tenebre del mondo.

Che fece per viltade il gran rifiuto

Che fece per viltade il gran rifiuto (Inf. III, v. 60)

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Il verso rappresenta una delle cruces più celebri di tutto il poema. Nel corso dei secoli moltissimi lettori e studiosi hanno tentato di risolvere questo enigma e di identificare l’ignoto personaggio a cui Dante allude con una perifrasi entrata nel linguaggio comune e impiegata a rimarcare enfaticamente la decisione di rifiutare offerte grandiose, alle quali sembrerebbe assurdo rinunciare. Tra le tante candidature proposte, la più accreditata rimane quella di papa Celestino v, il cui nome di battesimo era Pietro da Morrone. Nato intorno al 1210 nel Molise, si stabilì in seguito sul monte Morrone, facendo vita eremitica. Trasferitosi poi sulla Maiella, acquistò ben presto fama di santo e operatore di miracoli. Fondò una congregazione di eremiti, inglobata successivamente nell’ordine dei Benedettini. Fu eletto papa nel 1294, dopo che per più di due anni la sede papale era rimasta vacante a causa della rivalità fra le famiglie nobili degli Orsini e dei Colonna. Accettò a malincuore l’investitura e, dopo appena cinque mesi di pontificato, spaventato dagli oscuri intrighi cardinalizi, abdicò. Il suo successore fu l’acerrimo nemico di Dante, Bonifacio viii, il quale lo

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PARLA COME DANTE

relegò nel castello di Fiumone, nel Lazio, dove morì nel 1296. Fu dichiarato santo nel 1313. La condanna da parte di Dante si spiegherebbe con il gesto di rinuncia, dettato da pusillanimità e incapacità di assumersi delle responsabilità. A favore dell’identificazione del misterioso personaggio con Celestino v c’è la netta impressione, ricavata dal testo dantesco, di uno sdegno recente, che non può far pensare che a un contemporaneo. Coloro che si oppongono invece rilevano come Dante non poteva condannare un papa angelico, spirituale, il quale avrebbe rinunciato per senso di responsabilità più che per vigliaccheria, costretto a scegliere fra essere complice di una chiesa mondana e la solitudine della vita ascetica. Secondo altri commentatori, il personaggio innominato sarebbe Esaù, il quale rinunciò al diritto di primogenitura in favore del fratello Giacobbe per un piatto di lenticchie; oppure ancora Ponzio Pilato, il rappresentante dell’autorità romana in Palestina al tempo di Gesù Cristo, il quale cedendo alla pressione del sinedrio (il supremo organo legislativo e giurisdizionale degli ebrei) e della folla, pronunciò la condanna a morte di Gesù, pur ritenendolo innocente. Celestino v, che rimane la candidatura più solida, è un personaggio che verrà ampiamente rivalutato nel corso del xx secolo, soprattutto a partire dall’ultimo romanzo di Ignazio Silone, Avventura di un povero cristiano (1968). Silone vede nel “ gran rifiuto” di Celestino v a esercitare il sommo ruolo religioso la contestazione dell’apparato ecclesiastico, che aveva completamente tradito la purezza del messaggio evangelico. La polemica contro la corruzione della Chiesa è uno dei temi ritornanti nella Commedia dantesca, destinato a enorme fortuna nella tradizione letteraria

Che fece per viltade il gran rifiuto

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successiva (si pensi a certe novelle di Boccaccio, ai sonetti antiavignonesi di Petrarca fino agli aforismi di Francesco Guicciardini contro gli sceleratissimi preti). Anche questa volta Dante si rivela come l’antesignano di un’idea di letteratura impegnata (engagée) che avrà diversi cultori nei secoli futuri. Una letteratura cioè che non si limiti a esprimere la purezza di sé stessa, ma si impegni a denunciare i mali e del mondo e – per citare Salvatore Quasimodo – provi in questo modo a «rifare l’uomo».

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PARLA COME DANTE

Non ragioniam di lor, ma guarda e passa (Inf. III, v. 51)

Questo verso lo citiamo (male) utilizzando il verbo “curar” al posto di “ragionar” quando vogliamo invitare qualcuno a non perdere tempo con persone meschine che non meritano nessuna considerazione. Siamo nel terzo canto, dedicato all’illustrazione del vestibolo degli ignavi. Costoro (i pusillanimi) sono quelle persone rimaste sempre ai margini dell’esistenza. Hanno cioè vissuto la vita non da protagonisti, ma da passivi, inerti spettatori. Non si sono mai presi nessuna responsabilità, neanche l’ombra di una decisione, non hanno dato nessun tipo di contributo (morale, spirituale, culturale) alla società in cui sono vissuti. Dante aveva un temperamento perfettamente agli antipodi rispetto a loro: per l’autore della Commedia vivere voleva dire «essere partigiani» (come scriverà tanti secoli dopo Antonio Gramsci: «Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia.

Non ragioniam di lor, ma guarda e passa

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L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera»). La politica fu per Dante la passione precipua della sua esistenza, una passione che gli fu aspramente rimproverata dal suo primo biografo Giovanni Boccaccio. Secondo l’autore del Decameron, Dante avrebbe dovuto autoesiliarsi dai problemi del suo tempo e limitarsi a coltivare gli interessi poetici e filosofici. Una sorta di torre d’avorio nella quale autoconfinarsi e tenersi al riparo dalle tempeste della storia. Dante però è esattamente sul versante opposto: per lui l’impegno intellettuale è indissociabile da quello civile e politico. La sua carriera politica inizia intorno al 1295: schieratosi con la fazione moderata dei guelfi, nel giro di pochi anni ricopre le più alte cariche pubbliche del suo comune. Per Dante fare politica voleva dire mettere al servizio della comunità tutta la sua intelligenza, in modo da provare a ricomporre le drammatiche lotte fratricide che laceravano la sua «città partita», cioè divisa. Per fare il bene di Firenze – scrive Boccaccio – «pose Dante ogni suo ingegno, ogni arte, ogni studio, mostrando a’ cittadini più savi come le gran cose per la discordia in brieve tempo tornano al niente, e le picciole per la concordia crescere in infinito». Diventa così il principale riferimento per tutti i suoi concittadini al punto che niuna legazione s’ascoltava, a niuna si rispondea, niuna legge si fermava, niuna se ne abrogava, niuna pace si faceva, niuna guerra pubblica si imprendeva, e brievemente niuna deliberazione, la quale alcuno pondo portasse, si pigliava, se egli in ciò non dicesse prima la sua sentenzia. In lui tutta la pubblica fede, in lui ogni speranza, in lui sommariamente le divine cose e le umane parevano esser fermate.

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In conclusione: un temperamento come quello dantesco non poteva che riservare il più livoroso disprezzo verso i codardi, i pusillanimi, taciti complici del male. Lo scrittore portoghese Fernando Pessoa scrive che l’unico modo per essere d’accordo con il mondo è quello di essere in disaccordo con noi stessi. L’agiografia di epoca risorgimentale ha fatto di Dante l’esempio insigne di chi pur di non rinunciare alla propria integrità morale ha accettato di compiere sacrifici enormi, vedendo dissolversi giorno dopo giorno il sogno di rientrare a Firenze. La regola del contrappasso prevede che le anime degli ignavi inseguano per l’eternità una insegna cenciosa. Mentre corrono questa inutile maratona, vengono ripetutamente punti da mosconi e da vespe. Oltre a questo, il loro sangue mischiato alle lacrime viene succhiato via da fastidiosi vermi. Qual è il senso di questa punizione? Poiché durante il loro soggiorno terrestre non hanno inseguito nessun ideale, adesso sono costretti a rincorrere… uno straccio! Vediamo le terzine interessate (vv. 64-69): Questi sciaurati, che mai non fur vivi, erano ignudi e stimolati molto da mosconi e da vespe ch’eran ivi. Elle rigavan lor di sangue il volto, che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi da fastidiosi vermi era ricolto.

Non ragioniam di lor, ma guarda e passa

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Queste anime sono state – durante la vita – così moralmente miserabili che non hanno meritato neanche l’Inferno (vv. 40-42): Caccianli i ciel per non esser men belli, né lo profondo inferno li riceve, ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli.

Dante – nel momento in cui stabilisce che ci sono anime come quelle dei vigliacchi indegne persino di entrare all’Inferno – intuisce dunque che anche per compiere il male è richiesta una certa dose di coraggio. Il poeta ha avuto il merito di “demostrificare il male”, mostrando l’umanità e “l’altezza di ingegno” dei grandi peccatori (basti pensare alle grandi anime di Brunetto Latini, Ulisse, Conte Ugolino). Queste anime – al contrario – sono condannate a un avvilimento senza grandezza. La miseria dei pusillanimi è tale che la guida di Dante, Virgilio, lo invita a non perdere altro tempo con loro. Ed eccoci arrivati alla famosa terzina (vv. 49-51): Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

La tradizione orale del testo ha finito dunque per deformare parzialmente alcuni endecasillabi di possente memorabilità, introducendo delle varianti di trasmissione. Già un grande intellettuale del Trecento, Francesco Petrarca, a più riprese nelle sue lettere tuonava contro coloro i quali – in piazza, sulla

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PARLA COME DANTE

pubblica via – declamavano i versi del grande predecessore senza nessun rispetto filologico: «scripta eius pronuntiando lacerant atque corrumpunt» (citano i suoi versi, li lacerano e li deformano). È l’ennesima testimonianza della fortuna di Dante a ogni latitudine.

Vuolsi così colà dove si puote

Vuolsi così colà dove si puote (Inf. III, v. 95)

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Il canto terzo dell’Inferno ci offre un verso grazie al quale possiamo suggerire in maniera elegante a una persona di non insistere e non fare troppe domande. Si tratta delle parole che Virgilio rivolge a Caronte, il quale aveva invitato Dante a tornare indietro e a non inoltrarsi nell’esplorazione del regno dei morti. Lasciati alle spalle gli ignavi, una nuova scena si apre davanti agli occhi di Dante personaggio, il quale viene colpito dalla vista di un cospicuo gruppo di anime, raccolte presso la riva di un grande fiume. La curiosità lo spinge a domandare a Virgilio chi sono quei dannati e perché sembrano così desiderosi di oltrepassare il fiume. Il poeta latino gli dice che le risposte gli saranno note non appena avranno raggiunto la dolorosa sponda dell’Acheronte. Questo è il primo dei quattro fiumi infernali, avvolto in una debole luce che rappresenta il confine oltre il quale si apre la voragine orribile dell’Inferno. L’Acheronte costituisce un limite invalicabile per i vivi: tutte le anime, dopo il giudizio divino, vi saranno condotte con la barca del demone Caronte.

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PARLA COME DANTE

I versi 82-87 ospitano la celebre descrizione di Caronte, tra i luoghi più memorabili della prima cantica: Ed ecco verso noi venir per nave un vecchio, bianco per antico pelo, gridando: «Guai a voi, anime prave! Non isperate mai veder lo cielo: i’ vegno per menarvi a l’altra riva ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo».

Caronte è un demonio – strumento della giustizia di Dio – psicopompo, ossia con il compito di traghettare le ombre dei dannati (quelle destinate al Purgatorio saranno trasportate dall’angelo nocchiero che le raccoglie alla foce del Tevere). A differenza di altri demoni dell’Inferno, caratterizzati da tratti animaleschi e di bestiale ferocia, è disegnato con fattezze ancora umane: la canizie e la vecchiaia connotano chiaramente la sua figura, per la quale Dante ha tenuto presente la descrizione virgiliana. Il Caronte virgiliano, nel sesto libro dell’Eneide, è un vecchio dall’aspetto lugubre, che traghetta le anime dei defunti oltre l’Acheronte, fiume dell’Ade, lasciando però sulla riva le anime degli insepolti. Nel canto dantesco, il demone non è un semplice calco del modello classico, ma risente dell’impostazione cristiana dell’autore: egli è un ministro della giustizia divina e un’emanazione di Satana, che ammonisce i dannati a lasciare ogni speranza di salvezza perché la loro pena sarà eterna e si consumerà nel ghiaccio e nel fuoco che dominano l’Inferno

Vuolsi così colà dove si puote

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(l’epigrafe sul portale dell’Inferno suonava: «lasciate ogni speranza, voi ch’intrate»). Caronte riconosce in Dante un’anima viva e, abbassando il tono rabbioso della voce, lo invita ad allontanarsi dalle anime dannate. Poi tenta di vietargli il passaggio e costituisce in questo modo uno dei tanti impedimenta, ovvero espressioni di peccato, che cercano di ostacolare il cammino di redenzione del poeta (e dell’intero genere umano). Sempre in questi casi interviene Virgilio a frenare l’arroganza del demone e a costringerlo a rispettare la volontà divina (vv. 94-96): E’l duca a lui: «Caron, non ti crucciare: vuolsì così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare»

Una scena analoga si verificherà all’inizio del canto settimo dell’Inferno, dove la guida del poeta dovrà tacitare un altro mostro infernale, il demone-custode Pluto (vv- 7-12): Poi si rivolse a quella ‘nfiata labbia, e disse: «Taci, maledetto lupo! Consuma dentro te con la tua rabbia. Non è sanza cagion l’andare al cupo: vuolsi ne l’alto, là dove Michele fé la vendetta del superbo strupo.

Il significato è all’incirca il medesimo, ma questi ultimi versi sono senz’altro meno celebri rispetto a quelli del terzo canto infernale («vuolsi così cola dove si puote / ciò che si

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PARLA COME DANTE

vuole, e più non dimandare»), ormai passati alla memoria collettiva e citati ogni qualvolta intendiamo con una certa autorevolezza invitare qualcuno a non farci perdere tempo. Come dirà sempre Dante in un verso celebre del Purgatorio, «che perder tempo, a chi più sa, più spiace».

Or incomincian le dolenti note

Or incomincian le dolenti note (Inf. V, v. 25)

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Il canto quinto dell’Inferno è tra i più amati del poema, letto e commentato a ogni latitudine. Non sorprende quindi che moltissimi suoi versi siano entrati nella memoria collettiva, talora usati in chiave ironica e autoironica, come accaduto a quello che sarà qui oggetto della nostra analisi. Quante volte abbiamo usato le parole «una nota dolente» (in espressioni del tipo: c’è una nota dolente; vuoi sapere l’unica nota dolente?). Il fabbro di questo sintagma è sempre Dante, che lo impiega appunto nel canto quinto dell’Inferno, nell’incipit di una celebre terzina (vv. 25-27): Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto là dove molto pianto mi percuote

Il poeta fa riferimento alle grida dolorose dei dannati, che feriscono le orecchie del poeta, il quale sta oltrepassando la soglia di ingresso al vero e proprio Inferno. Questo verso segna infatti l’entrata nel regno della dannazione eterna (nei canti precedenti il poeta aveva aperto allo sguardo il vesti-

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PARLA COME DANTE

bolo dei pusillanimi e il nobile castello del Limbo). I primi dannati che l’io-agens incontra sono i lussuriosi, ai quali è riservata, secondo la legge del contrappasso, la seguente pena: sono incessantemente travolti da una bufera infernale, che richiama il vento delle passioni al quale non riuscirono a sottrarsi durante la vita (vv. 31-33): Nell’ordinamento morale dell’Inferno, i primi peccati che vengono puniti sono quelli meno gravi, ossia quelli di incontinenza (gola, lussuria, ira, accidia). Il peccato di incontinenza è quello commesso da chi non riesce ad autogovernarsi, ossia a disciplinare razionalmente le proprie passioni autodistruttive. Potremmo dire – con un linguaggio più moderno – che l’incontinente è colui che si abbandona agli stravizi, ignorando il precetto principale della morale antica, tanto caro ad Aristotele, Orazio e Seneca: nihil nimis (letteralmente: nulla di troppo; ossia: non eccedere, non evadere dall’aurea mediocritas). A questi seguiranno – ben più gravi – i peccati di malizia, nell’ambito dei quali la premeditazione malvagia è decisamente superiore. Anche nel Purgatorio il vizio della lussuria sarà quello meno grave, e infatti questa colpa verrà espiata nell’ultima cornice, quella più alta, la più vicina alla cima della montagna (dove è collocato il Paradiso terrestre). Torniamo adesso al girone dei lussuriosi. In questo segmento testuale del quinto canto, Virgilio elenca i nomi di alcune delle anime percosse dal vento infernale: Semiramide, Cleopatra, Elena, Paride, Tristano… Come vedremo più avanti, l’attenzione del protagonista verrà a un certo punto catturata da un’immagine trascendentale di levità, la coppia di amanti che «paion sì al vento esser leggieri», ai quali è dedicata la seconda parte del canto.

Or incomincian le dolenti note

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Pochi versi prima, l’autore aveva descritto il buio dell’Inferno con una sinestesia che è tra le più prodigiose di tutta la letteratura universale (la sinestesia è una figura retorica che incrocia in una stessa immagine elementi lessicali provenienti da ambiti sensoriali diversi). Nessuno infatti, prima di Dante, ci aveva detto che il buio è il silenzio della luce (vv. 28-30): Io venni in loco d’ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto.

È proprio vero: la parola è un veicolo da giorno feriale, una carrozza per tutti, a cui i poeti attaccano i cavalli del sole. Queste dolenti note – da cui eravamo partiti – verranno riprese da uno dei maggiori lettori novecenteschi di Dante, Pier Paolo Pasolini. In una famosa poesia de Le ceneri di Gramsci egli aprirà allo sguardo una scavatrice che, in una squallida «infernale» landa desolata della periferia romana, emette un rumore che ricorda il gemito dei dannati danteschi. Piange tutto ciò che ha fine e ricomincia anche per farsi migliore. La luce del futuro non cessa un solo istante di ferirci.

È una epifania del dolore universale, che accomuna tutte le creature sotto il cielo immenso del vivere.

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Amor ch’a nullo amato amar perdona (Inf. V, v. 103)

Il testo della canzone Serenata rap di Jovanotti riserva una piacevole sorpresa al cultore di memorie dantesche: Amor che a nullo amato amar perdona porco cane Lo scriverò sui muri e sulle metropolitane

Non è solo lui però a citare questo famoso verso della Commedia. Qualche anno prima, Antonello Venditti lo aveva impiegato all’interno di una delle sue canzoni più famose, Ci vorrebbe un amico: E se amor che a nulla ho amato, Amore, amore mio perdona In questa notte fredda Mi basta una parola

Il fenomeno di cui stiamo parlando si chiama intertestualità: con questa parola si intende la famiglia di rapporti – di varia natura – che un testo intrattiene con quelli della tradizione letteraria anteriore o coeva. Fatto sta che sia Venditti sia Jovanotti nelle loro rispettive

AMOR CH’A NULLO AMATO AMAR PERDONA

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canzoni hanno ripreso e rielaborato “a modo loro” uno dei versi più celebri della Commedia dantesca, prelevato dal quinto canto dell’Inferno (vv. 103-105): Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Dopo la sosta nell’ anti-Inferno e nel Limbo, l’autore narra – nel quinto canto – l’ingresso nell’Inferno vero e proprio. Le prime anime dannate che incontra sono quelle dei lussuriosi, le quali nel corso dell’esistenza terrena hanno sottomesso la ragione, la scintilla di divinità che alberga dentro di noi, all’istinto. Queste anime, travolte in vita dal vento turbinoso delle passioni, sono ora per l’eternità – secondo la regola del contrappasso – travolte e percosse da una «bufera infernal», che mai non resta (non cessa), a differenza – secondo un antico commentatore – «del vento naturale del mondo, che resta» (vv. 31-36). La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta. Quando giungon davanti a la ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virtù divina.

Mentre Virgilio elenca le schiere dei lussuriosi, l’attenzione di Dante viene rapita da una immagine trascendentale di levità.

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PARLA COME DANTE

Entra in scena una coppia di amanti accompagnati da una connotazione di ventosa leggerezza (vv. 73-75): I’ cominciai: «Poeta, volontieri parlerei a quei due che ‘nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggeri».

Sono Paolo e Francesca, i due cognati protagonisti e vittime di un amore adulterino dall’epilogo tragico. Molto se ne era parlato nell’Italia dell’epoca. Il nostro maggiore informatore è Giovanni Boccaccio, il quale ci racconta l’accaduto con dovizia di particolari : È adunque da sapere che costei [Francesca] fu figliola di messer Guido vecchio da Polenta, signor di Ravenna e di Cervia; ed essendo stata lunga guerra e dannosa tra lui e i signori Malatesti di Rimini, adivenne che per certi mezzani [collaboratori] fu trattata e composta la pace tra loro. La quale acciò che più fermezza avesse, piacque a ciascuna delle parti di volerla fortificare per parentado.

Quindi: il padre di Francesca volle dare sua figlia in sposa al signore di Rimini, Gianciotto, che era un uomo per nulla avvenente, descritto dalle fonti come «sozo della persona e sciancato». Fu orchestrato un inganno: a Francesca fu fatto credere che sarebbe andata in sposa al fratello di lui, Paolo, il quale al contrario era un uomo bellissimo. Questi va a sposarla per procura. Quando una damigella di Francesca vede da un pertugio Paolo, fraintendendo, dice alla sua signora: «Madonna, quegli è colui che dee esser vostro marito». Francesca si affaccia e mira quest’uomo bellissimo, di cui si innamora subito e perdutamente. Quando si accorge di essere stata ingan-

Amor ch’a nullo amato amar perdona

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nata, dunque, altro non le resta che una rancorosa e tacita rassegnazione. Per i due cognati, però, non tutto è perduto: il marito di Francesca è un signore feudale spesso assente, ragion per cui ai due amanti era riservata la possibilità di passare del tempo insieme. Accade tuttavia che un giorno un servo scopre questa tresca e fa una delazione: avverte il marito di Francesca, il quale – tornato precipitosamente al castello – bussa alla porta della stanza della moglie, la quale stava con Paolo in un momento di intimità amorosa. Questi, allarmatissimo, cerca di mettersi in salvo correndo dentro una botola «per la quale di quella camera si scendea in un’altra […]» dicendo alla donna che nel frattempo andasse ad aprire, per non fare insospettire ulteriormente Gianciotto. Purtroppo, Paolo rimane incastrato. Il marito entra e trova davanti a sé la prova dell’infedeltà coniugale. Prende la spada e si precipita verso il fratello; Francesca si interpone tra loro due e la lama trafigge il petto di entrambi gli amanti, «tignendo il mondo di sanguigno», «e così amenduni lasciatiogli morti, subitamente si partì e tornossi all’ufficio suo. Furono poi li due amanti con molte lacrime la mattina seguente seppelliti e in una medesima sepoltura». Ma vediamo gli endecasillabi con cui abbiamo intrapreso questo discorso (vv. 100-107): Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.

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Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense». Queste parole da lor ci fuor porte.

Francesca affida ai versi la sua autodifesa: il vero responsabile della sua catastrofe esistenziale è Eros, che – come aveva insegnato Guido Guinizelli – nidifica nei cuori sensibili. Al suo potere, nessun uomo può opporre resistenza. Il verso 104 («Amor ch’a nullo amato amar perdona»), passato alla memoria collettiva e così caro anche ai cantautori italiani, lo possiamo parafrasare e interpretare in questo modo: l’Amore non «perdona» nel senso di “non risparmia” (alla stregua del verbo latino parcere costruito con il dativo) a «nullo amato» e cioè a nessuna persona che riceve Amore di «amare», ossia di non riamare a sua volta. Ennesima prova della mirabile arte poetica dantesca, che in poche sillabe riesce a condensare e miniaturizzare temi di enorme rilievo emozionale ed esistenziale, questo verso viene spesso citato proprio per esprimere l’inesorabile fatalità di Eros, al quale, come alla Morte, nessun uomo può sfuggire. La prerogativa della grande poesia, d’altronde, secondo Italo Calvino, consiste appunto nella capacità di rinchiudere il mare in un bicchiere. Un ultimo appunto, per rendere giustizia alla fortuna di questo canto, destinato a riverberarsi lungo i secoli in ogni angolo del pianeta. Riporto qui di seguito una poesia di

Amor ch’a nullo amato amar perdona

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Borges che riscrive l’episodio di Paolo e Francesca, colti nel momento in cui scoprono di amarsi reciprocamente: Lascian cadere il libro, ormai già sanno che sono i personaggi del libro. (Lo saranno di un altro, l’eccelso, ma ciò ad essi non importa). Adesso sono Paolo e Francesca non due amici che dividono il sapore di una favola. Si guardano con incredulo stupore. Le mani non si toccano. Hanno scoperto l’unico tesoro: hanno incontrato l’altro.

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Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria (Inf. V, vv. 121-123)

In una ideale farmacia poetica, questi versi verrebbero offerti a tutti coloro i quali soffrono nel pensare che il meglio della vita è alle loro spalle. Capita a ognuno di attraversare momenti di sofferenza esistenziale durante i quali rimpiangiamo il passato, le età della vita che ci hanno regalato gioia e spensieratezza. Non dobbiamo scoraggiarci, tuttavia, piuttosto accarezzare come un talismano le terzine dantesche. Il loro autore, infatti, è un formidabile terapeuta dell’anima. Gli endecasillabi in questione contengono le parole con cui Francesca da Rimini risponde a Dante, che le aveva domandato di raccontarle quale fu il momento in cui lei e Paolo avevano scoperto di essere innamorati (vv. 118-120): Ma dimmi: al tempo dei dolci sospiri, a che e come concedette Amore che conosceste i dubbiosi disiri?

La terzina è pregna di memoria letteraria. La fonte prin-

NESSUN MAGGIOR DOLORE...

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cipale è un passo di Severino Boezio (475-525) nel quale leggiamo: «Infatti, tra tutte le difficoltà del destino, la più infelice è quella di chi è stato felice» (Libro secondo della Consolatio Philosophiae). Il rimpianto della vita terrena è una costante della prima cantica: per i dannati infatti, il soggiorno sulla Terra è stato il loro tempo migliore e lo rievocano con immagini di struggente bellezza ora che sono persi nell’abisso della dannazione eterna. Nel Purgatorio invece prevarrà una dimensione elegiaca: gli spiriti penitenziali saranno sospesi tra la gioia per il premio futuro che li attende (l’assunzione in Paradiso) e una residuo di nostalgia per gli amici e i luoghi che hanno lasciato nel dolce mondo. Si ricordano, a questo proposito, alcuni strepitosi exploit danteschi come le terzine incipitarie del canto ottavo del Purgatorio, così care, tanti secoli dopo, a Giacomo Leopardi (Pg. viii, vv.1-6): Era già l’ora che volge il disio ai naviganti e intenerisce il core lo dì che han detto ai dolci amici addio; e che lo novo peregrin d’amore punge, se oda squilla di lontano che pare il giorno pianger che si more

I beati in Paradiso si direbbe che hanno oramai archiviato – immersi come sono nella luce di Dio – il ricordo della vita sulla Terra. In realtà, talora anche le anime sante manifestano una animosità e una vivacità di interessi nei confronti di quello che succede quaggiù. Il caso più eclatante

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PARLA COME DANTE

è quello di san Pietro, il quale nel canto ventisettesimo del Paradiso tuona violentemente contro Bonifacio viii, suo indegno successore (Pd.xxiii, vv. 22-27): Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio che vaca ne la presenza del figliuol di Dio, fatt’ha del cimitero mio cloaca del sangue e della puzza; onde ‘l perverso che cadde di qua su, la giù si placa.

Naturalmente, è un san Pietro con una tempra dantesca, che scaglia un violentissimo anatema contro l’acerrimo nemico del poeta, responsabile del suo esilio da Firenze all’inizio del 1302. I versi di Francesco, da cui eravamo partiti, esprimono in tono lapidario la lacerazione interiore che nasce dalla consapevolezza di una felicità perduta irreversibilmente. A questo proposito, mi viene in mente una frase di G. K. Chesterton: «La felicità è uno strano personaggio: la si riconosce soltanto dalla sua fotografia al negativo».

La bocca mi basciò tutto tremante

La bocca mi basciò tutto tremante (Inf. V, v. 136)

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Il verso 136 del quinto canto dell’Inferno è il più erotico di tutta la Commedia. Siamo sempre nel cerchio dei lussuriosi. Dante sta ascoltando il racconto di Francesca da Rimini, la nobildonna romagnola che ebbe una relazione adulterina con il cognato, Paolo. I due furono sorpresi in un momento di intimità dal marito di lei, nonché fratello di lui, Gianciotto, il quale li uccise brutalmente. Dante rivolge a Francesca una domanda molto precisa: in quale istante dell’esistenza lei e Paolo hanno scoperto di amarsi? I versi in questione sono i seguenti (vv. 118-120): «Ma dimmi: al tempo dei dolci sospiri, a che e come concedette amore che conosceste i dubbiosi disiri?»

Eccoci improvvisamente catapultati in una stanza di un palazzo signorile dell’Italia di fine Duecento (vv. 127-129): Noi leggiavamo un giorno per diletto

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di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e senza alcun sospetto.

I due cognati stavano leggendo un romanzo dedicato alle avventure di Lancilotto, cavaliere di Re Artù, assai famoso tra le donne e i cavalieri del raffinato mondo feudale. I due giovani sono da soli e le parole del testo pronunciate ad alta voce risuonano nella vastità della sala. Forse si erano dedicati a quelle lettura altre volte; in ogni caso, non avevano presentimento di quello che sarebbe accaduto. L’amore – come un bravo rigorista – prima di tirare in porta non prende troppa rincorsa... Quando leggemmo il disiato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse. Quel giorno più non vi leggemmo avante.

Come trapela da queste terzine (vv. 133-135), la passione emerge fulminea e fa impallidire i due ragazzi. A un certo punto (come dice Pedro Salinas, in una delle sue poesie, «conoscersi è luce improvvisa») Paolo si lascia ispirare dalla pagina che descrive il bacio tra Lancilotto e Ginevra. Anche lui, rapito dall’emozione, prova a fare altrettanto e bacia a sua volta Francesca. In quell’istante, i due amanti smettono di leggere: l’Amore si era rivelato a sé stesso. Apriamo una breve parentesi su un tema che tanto ha dato

La bocca mi basciò tutto tremante

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alla letteratura di tutti i tempi. C’era una volta un poeta di nome Catullo che chiedeva alla sua amata un numero infinito di baci: «Da mi basia mille, deinde centum / dein mille altera, dein secunda centum / deinde usque altera mille, deinde centum». Scriverà Marcel Proust, che sembra quasi parafrasarlo: «Ogni bacio chiama un altro bacio. Ahi! Nei primi tempi di un amore i baci nascono con tanta naturalezza! Spuntano così vicini gli uni agli altri; e a contare i baci che ci si è dati in un’ora si faticherebbe come a contare i fiori di un campo nel mese di maggio». Passiamo a uno fra i più bei versi lirici scritti nel Cinquecento da Ludovico Ariosto, che ospitano la riesplorazione di un patrimonio di ricordi d’amore: «O mente ancor di non sognare incerta / quando abbracciar dalla mia dea mi vidi / e fu la mia con la sua bocca inserta». In un «avventuroso carcere soave», la camera dell’amata, durante una notte più chiara del più luminoso giorno terreno, al poeta amante, tra sorrisi, carezze, giochi licenziosi e parole sciolte da ogni inibizione, furono elargiti «dolci baci, dolcemente impressi / ben mille e mille e mille e mille volte». Ed ecco che anche qui riecheggiano i versi catulliani. Questo intenerimento memoriale che fa levitare i versi di Ariosto appartiene alla stessa vena ispirativa di quello che è il più antico fra i lirici moderni, il greco Konstantinos Kavafis: «Mirra e delizia della vita mi è il ricordo delle ore / in cui trovai il piacere come lo desideravo / e lo trattenni forte. / Mirra e delizia della vita / a me che disdegnavo ogni piacere dei consueti amori».

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«Colui che la difesi a viso aperto» (Inf. X, v. 93)

Nelle cronache sportive e non solo ricorre spesso un’espressione di fattura dantesca, ossia il complemento di modo “a viso aperto”, utilizzato in frasi come “affrontare l’avversario a viso aperto”, metafora dell’atteggiamento fiero e coraggioso con cui si gareggia o in generale si affronta la vita. Troviamo questo sintagma in una terzina del canto decimo dell’Inferno, dedicato all’esplorazione della vasta pianura che si estende dentro le mura della città di Dite, disseminata di tombe fra le quali sono accesi fuochi che le fanno arroventare. È il luogo in cui sono sepolti gli eretici, che hanno negato l’immortalità dell’anima. Nei versi iniziali, Dante si rivolge alla guida per sapere se gli è concesso di intrattenersi con qualcuna di quelle anime punite nelle tombe infuocate; una di queste, sentendo l’accento toscano, gli chiede di sostare un poco (vv. 22-24): «O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco.

«Colui che la difesi a viso aperto»

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La tua loquela ti fè manifesto di quella nobil patria natio, a la qual, forse fui troppo molesto».

Ecco una delle più celebri apostrofi della Commedia, pronunciata dal ghibellino Farinata, il quale inizia un colloquio con Dante. Il dialogo, caratterizzato da una cordialità pugnace, si trasforma in una breve schermaglia sull’interpretazione delle lotte tra le due opposte fazioni dei guelfi e dei ghibellini a Firenze. Farinata degli Uberti appartenne infatti a una delle più potenti casate ghibelline della Firenze del Duecento. Grazie al sostegno dell’imperatore Federico ii, fu l’artefice nel 1248 della cacciata dalla città dei guelfi. Dopo la morte di Federico (1250) le cose cambiarono: i ghibellini persero terreno e nel 1258 non riuscirono a impedire il ritorno a Firenze dei guelfi. Le famiglie dei guelfi furono esiliate e i loro beni confiscati. Farinata si rifugiò a Siena, da dove organizzò la lotta dei fuoriusciti. Quando – per liberarsi del più potente centro del ghibellinismo toscano – Firenze mosse guerra contro Siena, Farinata, con l’aiuto del figlio di Federico ii, Manfredi, trasformò l’attacco a Montaperti dei fiorentini contro i senesi in una disfatta immane (4 settembre 1260). Le fonti dell’epoca affermano che la sera della battaglia le acque del fiume Arbia avevano assunto il colore del sangue (notizia ripresa da Dante in questo canto). Nel successivo convegno di Empoli, i capi ghibellini della Toscana avevano deciso di distruggere Firenze, e Farinata fu il solo – come narrato dal cronista Giovanni Villani – che

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si oppose risolutamente, salvando la città. L’episodio viene ricordato dallo stesso Farinata ai versi 91-93, quando in un empito di orgoglio dice: Ma fu’ io solo, là dove sofferto fu per ciascun di torre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto.

Firenze deve la propria vita a Farinata, il quale grazie alla sua autorevolezza morale impedì che venisse rasa al suolo. L’amore per la sua patria ha in questo modo prevalso sugli odi di parte. Sono versi giustamente celebri, nei quali vibra una indimenticabile corda patriottica. Viene fuori tutta la grandezza di Farinata, al quale Dante guarda con deferenza ed enorme rispetto, nonostante si tratti di un’anima dannata. Una delle pagine di critica più belle dedicate a questo episodio è quella uscita dalla penna di Francesco de Sanctis, il padre della storiografia letteraria moderna, tra i maggiori responsabili della riscoperta ottocentesca di Dante. Ecco il suo ritratto di Farinata: Quell’ergersi ti dà il concetto di una grandezza tanto più evidente quanto meno misurabile; è l’ergersi, l’innalzarsi dell’anima di Farinata sopra tutto l’Inferno. Così con un colpo solo di scalpello Dante ha abbozzato la figura dell’eroe, e ti ha gittata nell’anima l’impressione di una forza e di una grandezza quasi infinita. […] Dinanzi alla grandezza morale di Farinata, al suo ergersi, tutte le figure diventano secondarie, e lo stesso Inferno ci sta per dar rilievo alla sua grandezza. Nella nostra immaginazione l’Inferno è la base e il piedistallo su cui si erge Farinata.

«Colui che la difesi a viso aperto»

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L’incontro tra Dante e Farinata avviene dunque nel segno della patria comune. Contrapposti per ideologie politiche, i due personaggi si riconoscono comunque: prima nella comune lingua fiorentina, poi nell’appassionato e leale amore per la propria città. E sempre nel segno di Firenze viene pronunciato l’inquietante presagio ai vv. 79-81: Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia della donna che qui regge, che tu saprai quanto quell’arte pesa.

Per la seconda volta, con parole intenzionalmente enigmatiche, viene predetto a Dante l’evento drammatico dell’esilio, che lui stesso affronterà “a viso aperto”.

Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto (Inf. XV, vv. 55-56)

Queste sono le parole che Brunetto Latini rivolge a Dante, invitandolo ad aver fede in sé stesso e a seguire la propria vocazione, che gli consentirà di raggiungere traguardi importantissimi. Versi preziosi, che possiamo dedicare a una persona che desideriamo incoraggiare, invitandola a seguire la propria inclinazione senza tentennamenti. Gli antichi commentatori, quando illustravano questo passo, precisavano sempre che Brunetto Latini era un esperto astrologo e che quindi faceva riferimento alla costellazione dei Gemelli, sotto il cui segno Dante era nato. Secondo le teorie astrologiche, i Gemelli influenzano positivamente gli studi e l’amore per il sapere. È Dante stesso a ribadirlo nel canto ventiduesimo del Paradiso (Pd. xxii, vv. 112-117): O gloriose stelle, o lume pregno di gran virtù, dal quale io riconosco tutto, qual che si sia, il mio ingegno, con voi nasceva e s’ascondeva vosco

SE TU SEGUI TUA STELLA...

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quelli ch’è padre d’ogni mortal vita, quando io sentì di prima l’aere tosco

Ma torniamo a Brunetto Latini. Egli nacque nel terzo decennio del xiii secolo. Fu avviato alla carriera notarile, e si occupò di politica attiva come guelfo; fu anche ambasciatore e magistrato, retore, filosofo, divulgatore della cultura retorica. Avuta notizia della sconfitta di Montaperti (1260), fu costretto all’esilio in Francia. Tornato in patria dopo la battaglia di Benevento, nella quale i ghibellini furono sconfitti, divenne notaio e dettatore ufficiale del Comune di Firenze. Morì nel 1294 e fu sepolto nella chiesa di Santa Maria Maggiore, dove sono ancora i resti del suo monumento funebre. La carriera politica di Dante inizia proprio alla morte di Brunetto, il quale aveva lasciato un vuoto culturale in città che il giovane allievo probabilmente pensò di colmare seguendo le sue orme. Brunetto fu anche un letterato insigne, autore di opere in versi di taglio enciclopedico e di volgarizzamenti che contribuirono a incrementare la diffusione dell’opera ciceroniana. Giovanni Villani scrisse di lui che fu «maestro nel digrossare i fiorentini», fu cioè abilissimo nella trasmissione del sapere. L’incontro narrato nel canto quindicesimo dell’Inferno (Brunetto – ricordiamo – è punito tra i sodomiti) è memorabile anche per l’affiorare di un tema che era già stato trattato dagli autori antichi (segnatamente Orazio) e sarà destinato a enorme fortuna nella tradizione letteraria successiva, ovvero quello della poesia che sconfigge la morte (Ugo Foscolo, in quella Divina Commedia del Romanticismo

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che è il carme Dei Sepolcri, scriverà: «L’armonia vince di mille secoli il silenzio»). Dante ringrazierà Brunetto per avergli insegnato proprio questo: la poesia è un passaporto per l’eternità (vv. 82-87): che in la mente m’è fitta, e or m’accora la cara e buona immagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora mi insegnavate come l’uom s’etterna: e quanto io l’abbia in grado, mentre io vivo convien che ne la mia lingua si scerna.

Come scriverà un marinista del xvii secolo: «Una punta di penna il tempo uccide». E chi più di Dante, che proprio per aver seguito la sua stella è diventato uno dei poeti più famosi di tutti i tempi, potrebbe testimoniarlo?

Ed elli avea del cul fatto trombetta

Ed elli avea del cul fatto trombetta (Inf. XXII, v. 130)

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Ecco uno tra i versi più scandalosi di tutto il poema dantesco, che ha suscitato una reazione di ripulsa nei paladini dello stile classicistico, i quali non riuscivano a tollerare questo genere di insolenze triviali in un’opera di tale densità intellettuale e retorica. È pur vero, tuttavia, come scrive Vittorio Sermonti, che «il verso, inequivocabile, è uno dei più scandalosamente ilari e famosi della Commedia». Qui come in altri luoghi della prima cantica, il nostro sembra un teppista della lingua, un antesignano del realismo sporco (corrente letteraria che avrà un cultore di eccezione nel poeta statunitense del secondo Novecento Charles Bukowski). La verità è che Dante – ci ha insegnato Natalino Sapegno – è «un classico senza classicismo». Molti secoli prima della rivoluzione romantica, egli aveva capito che le vie dell’arte sono infinite e capaci di implicare qualunque referente. Possiamo definire la poesia di Dante l’Editto di Caracalla della letteratura: l’autore estende la cittadinanza poetica a tutti quei temi che non avevano avuto fino a quel momento licenza letteraria, almeno nell’ambito della tradizione illustre.

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Torniamo dunque al verso argomento di questo capitolo, che sigilla un canto ambientato nel cerchio viii, costituito da dieci fosse (bolge) disposte in modo concentrico attorno a un pozzo (il cerchio ix). Il passaggio da una bolgia all’altra è assicurato da ponti o scogli che scendono verso il centro. Questa segmento dell’Inferno ospita i barattieri, ossia coloro i quali hanno approfittato della posizione politica, delle cariche pubbliche, per trarne illeciti guadagni. La pena prevede che questi siano immersi nella pece bollente, impediti a uscirne dai diavoli che li sorvegliano dalle rocce, pronti ad afferrarli e colpirli con i loro uncini. Il senso del contrappasso è il seguente: costoro durante la vita si sono invischiati nella corruzione e adesso sono per l’eternità immersi nella pece, a rischio continuo di venire arpionati e straziati. I diavoli danteschi non sono qui alla loro unica apparizione. Dante li distribuisce infatti strategicamente nei diversi luoghi infernali, assegnando loro la funzione di aguzzini e guardiani. Nella porzione narrativa in questione, l’autore apre alla scena un disturbante gruppo di demoni neri chiamati Malebranche, i quali tormentano un anonimo dannato che tenta di evadere dalla pece. Appena scorgono Virgilio e Dante, si fanno avanti minacciosi, per acquietarsi quando scoprono che il loro viaggio è autorizzato da Dio. Inizialmente, li beffano indicando la strada sbagliata, dopodiché si offrono di condurli fino alla bolgia successiva. L’explicit del canto ci presenta il capodiavolo attraverso un dettaglio anatomico tra i meno nobili del corpo umano, usato come strumento comunicativo. Ecco dunque contestualizzato il verso preso in esame (vv. 136-139):

Ed elli avea del cul fatto trombetta

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Per l’argine sinistra volta dienno; ma prima avea ciascuna la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno; ed elli avea del cul fatto trombetta.

I commentatori, nel corso delle varie epoche, si sono domandati il senso di una simile audacia espressiva. È necessario a questo punto rammentare che Dante fu allontanato da Firenze proprio con l’accusa di baratteria (il peccato castigato in questa microunità narrativa). Aveva quindi probabilmente ragione il commentatore ottocentesco Niccolò Tommaseo, secondo il quale questa deflagrazione grottesca è «la vendetta derisoria che Dante rivolge ai suoi accusatori, ridicolizzandone l’accusa che si pretende seria». In conclusione: Dante dimostra in questo verso che per lui non esistono limiti alla poetabilità del reale. Di conseguenza, egli adopera in maniera disinvolta materiali lessicali che, nella tradizione successiva, verranno risospinti nel limbo della impoeticità.

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Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguire virtute e canoscenza (Inf. XXVI, vv. 118-120)

Questi versi avranno una enorme fortuna nel corso dei secoli e accompagneranno gli uomini nelle ore più buie della loro storia. Voglio qui far riferimento a una delle sue citazioni più illustri, quella dello scrittore ebreo Primo Levi, che nel romanzo autobiografico Se questo è un uomo (1947) dedica un capitolo al canto di Ulisse. Nel lager, mentre era in fila per una ciotola di zuppa di cavolo nero, lo scrittore cerca di ricordare a memoria l’«orazion picciola» di Ulisse, che intendeva insegnare all’amico francese Pikolo. Nella macchina infernale e disumanizzante del lager, solo la poesia di Dante può salvaguardare uno spazio privato di libertà e dignità, impedendo ai prigionieri di trasformarsi in bestie. ll Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare. [...] Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cos’è la Divina Commedia. […] Mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! […] Un buco nella memoria. […] Altro buco. Viene a galla qualche frammento

93 non utilizzabile […]. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi: …Acciò che l’uom più oltre non si metta. «Si metta»: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, «e misi me». […] Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza. Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. CONSIDERATE LA VOSTRA SEMENZA...

Qualche anno prima, un altro grande poeta russo aveva subito una sorte analoga a quella di Primo Levi, ossia Osip Mandel’štam, autore di una ricca produzione in prosa e in poesia, pubblicata a partire dal 1913. Nel 1934 fu arrestato per attività antisovietica e deportato nel gulag presso Vladivostok, in cui morì. La sera traduceva Dante in russo ai suoi compagni di sterminio. Le sue pagine sul canto di Ulisse sono un appuntamento imperdibile per tutti gli appassionati del sommo poeta: «Questo canto è sulla composizione del sangue umano, che contiene in sé il sale dell’oceano». Due esempi su tutti che dimostrano come questi versi che Dante mette in bocca a Ulisse («Fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguir virtute e canoscenza») siano stati per tanti uomini del passato un vero e proprio amuleto morale, un antidoto all’imbarbarimento e alla nullificazione. Cerchiamo di custodirli e offrirli al futuro consapevoli del loro spessore morale e culturale.

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Capo ha cosa fatta (Inf. XXVIII, v. 107)

Questo motto – proferito da un dannato punito nel girone dei seminatori di discordia – significa che una cosa quando è fatta ha una conclusione, quindi non può più disfarsi. In altre parole: quando una decisione è presa, è irreversibile. Per comprenderne appieno il significato, cerchiamo di collocarlo nel contesto originario del ventottesimo canto dell’Inferno, dedicato all’esplorazione della nona bolgia. Siamo all’interno di uno dei momenti più sanguinolenti di tutta la prima cantica. Al pellegrino si offre alla vista uno spettacolo orribile di anime mutilate e insanguinate, in quantità tale da superare quelle delle guerre dell’antichità. Una di loro, spaccata dalla testa fino alle natiche, è Maometto, il quale mostra anche il genero Alì, con il capo squarciato dal mento ai capelli (vv. 28-33): Mentre che tutto in lui veder m’attacco, guardommi e con le man s’aperse il petto, dicendo: «Or vedi com’io mi dilacco! Vedi come storpiato è Maometto!

Capo ha cosa fatta

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Dinanzi a me sen va piangendo Alì, fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

Maometto spiega a Dante che si trova nel cerchio dei seminatori di discordia, i quali vengono puniti in questo modo: poiché hanno provocato scissioni in vita, ora sono spaccati nei loro corpi. Sono i diavoli a ridurli in quel modo, ogni volta che hanno fatto il giro della bolgia e le ferite si sono rimarginate (vv. 34-39): E tutti li altri che tu vedi qui, seminator di scandalo e di scisma fuor vivi, e però son fessi così. Un diavol è qua dietro che n’accisma sì crudelmente, al taglio de la spada rimettendo ciascun per questa risma.

Tra le anime incontrate dal viandante in questo cerchio c’è anche quella del suo concittadino Mosca de’ Lamberti, il quale provocò la discordia tra le fazioni fiorentine. Egli si presenta a Dante con le mani mozzate e la faccia imbrattata di sangue (vv. 103-108): E un ch’avea l’una e l’altra man mozza, levando i moncherin per l’aura fosca, sì che il sangue facea la faccia sozza, gridò: «Ricordera’ ti anche del Mosca, che disse, lasso! “Capo ha cosa fatta” che fu mal seme per la gente tosca».

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Le fonti dell’epoca ci descrivono l’origine di questo motto, il quale sarebbe legato a un celebre episodio della storia fiorentina bassomedievale, che ha come protagonista un ragazzo chiamato Buondelmonte de’ Buondelmonti, reo di aver offeso a morte la famiglia degli Amidei. Costui infatti aveva promesso di sposare una ragazza della loro famiglia, ma poi aveva rotto il fidanzamento perché si era nel frattempo innamorato di una fanciulla che apparteneva alla famiglia rivale dei Donati. Il rifiuto di Buondelmonte fece divampare l’ira degli Amidei, i quali giurarono di vendicarsi e si riunirono per decidere il da farsi. L’idea fu quella di uccidere Buondelmonte: alcuni esitarono sulla decisione presa, che sembrava un po’ troppo drastica. Fu in questo frangente che intervenne Mosca de’ Lamberti, dicendo che una decisione presa va portata avanti fino in fondo, senza tentennamenti. Dopo l’assassinio di Buondelmonte, esplose una faida tra le varie consorterie magnatizie che fu all’origine della divisione della città in guelfi e ghibellini. Nella prospettiva dantesca, Mosca de’ Lamberti – colpevole di aver soffiato sul fuoco delle rivalità interfamiliari – è dunque uno dei maggiori responsabili della degenerazione politica fiorentina, e di conseguenza del suo esilio. In conclusione: il senso con cui si usa oggi questo motto (lo citiamo quando vogliamo esprimere la gratificazione per la conclusione di un’opera) è in parte opposto rispetto alle intenzioni dantesche, in quanto nel contesto originale scandiva la consapevolezza dell’irreversibilità del male compiuto.

Là dove i peccatori stanno freschi

Là dove i peccatori stanno freschi (Inf. XXXII, v. 117)

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Nel registro più colloquiale della nostra lingua, disponiamo dell’espressione “stare freschi” che viene usata per designare la situazione di chi si trova al cospetto di problemi insormontabili. La fonte precisa è un verso del terzultimo canto dell’Inferno, dedicato all’esplorazione del nono cerchio, costituito da una palude ghiacciata dove sono sepolte le anime più ripugnanti, quelle dei traditori. Questo luogo è a sua volta suddiviso in quattro zone (Caina, dove si trovano i traditori dei parenti; Antenora, dove sono puniti i traditori della patria; Tolomea, per i traditori degli ospiti, e Giudecca, dove patiscono la pena infernale i traditori dei benefattori). Tutti costoro sono immersi nel ghiaccio fino al collo, con il viso rivolto verso l’alto e quindi più esposto al gelo. Anche questa volta il meccanismo del contrappasso è chiaro: i traditori hanno mostrato in vita un cuore duro e freddo, così come fredda e spietata è stata la loro premeditazione. Per questo sono condannati – per analogia – a restare immersi nel lago ghiacciato per l’eternità. Il poeta all’inizio del canto dichiara l’inadeguatezza della

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lingua a descrivere un luogo così orribile e invoca nuovamente l’aiuto delle Muse (vv. 1-12): S’io avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco sovra il qual pontan tutte l’altre rocce, io premerei di mio concetto il suco più pienamente; ma perché io non l’abbo, non sanza tema a dicer mi conduco; che non è impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto l’universo, né da lingua che chiami mamma o babbo. Ma quelle donne aiutino il mio verso che aiutaro Anfione a chiuder Tebe, sì che dal fatto il dir non sia diverso.

In seguito, una volta entrato nella seconda zona, quella deputata a punire i traditori della patria, Dante urta con il piede uno dei visi paonazzi per il freddo. Il dannato si lamenta facendo un’allusione alla battaglia di Montaperti, senza però rivelare la propria identità (vv. 79-81): Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste? Se tu non vieni a crescer la vendetta di Montaperti, perché mi moleste?»

Incomincia un aspro battibecco tra Dante e questo dannato che, al contrario dell’atteggiamento degli spiriti incontrati finora, consapevole della sua vita ignominiosa, si rifiuta di rivelargli il proprio nome.

Là dove i peccatori stanno freschi

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Il poeta fiorentino prova addirittura con la violenza fisica a estorcergli qualche informazione, ma niente. Infine un altro dannato (Buoso da Duera) spiega a Dante di chi si tratta: Bocca degli Abati, il traditore dei guelfi fiorentini a Montaperti. Per vendicarsi, quest’ultimo svela l’identità di Buoso e degli altri traditori usando l’espressione oggetto di questo capitolo, che sarà destinata a un’enorme fortuna nella tradizione successiva (vv. 115-117): El piange qui l’argento de Franceschi: “Io vidi”, potrai dir, “quel da Duera là dove i peccatori stanno freschi”.

La diffusione popolare di questo endecasillabo è la prova dell’enorme fortuna che hanno avuto i canti conclusivi dell’Inferno, nei quali l’autore apre allo sguardo i castighi e le tragedie più inumane, che non hanno mai smesso di attirare l’attenzione dei lettori.

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Poscia, più che il dolor, poté il digiuno (Inf. XXXIII, v. 75)

Questo canto è tra i più famosi dell’intero poema, poiché: nella prima parte l’autore apre allo sguardo la tragedia del Conte Ugolino, tra i personaggi più indimenticabili dell’universo letterario dantesco. Ugolino (1210-1289) era nato a Pisa e apparteneva alla nobile e potente famiglia dei Della Gherardesca, alleata delle fazioni ghibelline, dominanti nella città toscana. Egli era però passato alla fazione guelfa e per questo aveva subito anche un esilio, dal quale era presto rientrato, divenendo uno dei capi della flotta marina pisana. Nel 1284 partecipò alla battaglia della Meloria, in cui i suoi concittadini subirono una terribile sconfitta a opera dei genovesi. Già in quell’occasione, Ugolino fu accusato di tradimento. Divenuto in seguito podestà di Pisa e poi capitano del popolo, fu un leader carismatico, la guida indiscussa della città. In questo torno di anni, entrò però in urto con l’arcivescovo Ruggieri, capofazione ghibellino, al punto che fece uccidere un nipote di questi. Accusato di tradimento, Ugolino fu dunque catturato con due dei suoi figli (Gaddo e Uguccione) e due nipoti (Anselmuccio e Nino il Brigata)

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e rinchiuso nella torre dei Gualandi, detta torre della Muda, perché in tempi passati vi si rinchiudevano le aquile in stato di cattività durante il periodo della muda delle penne. Nella prigione, Ugolino e la sua progenie furono segregati per molti mesi, fin quando l’arcivescovo Ruggieri non ordinò di lasciarli morire di fame. Quando ciò avvenne, in segno di damnatio memoriae, le sue case furono demolite e sul terreno venne sparso del sale. Venne anche proibita la costruzione di un qualsiasi edificio sul sito dove sorgevano le proprietà immobiliari della famiglia del conte. Ma veniamo all’Ugolino della Commedia. Egli è una delle ultime anime dannate che l’esploratore dell’oltretomba incontra. È sepolto nel lago di ghiaccio chiamato Cocito, che ospita la peggiore risma dei peccatori: i traditori della patria. Nei suoi versi, Dante ci descrive una lastra di ghiaccio dalla quale emergono solo le teste dei dannati. L’ultima scena del canto precedente è raccapricciante: ci sono due dannati confitti in una buca di ghiaccio, uno dei quali sta rodendo la nuca all’altro (Inf. xxxii, vv. 124-129): Noi eravam partiti già da ello, ch’io vidi due ghiacciati in una buca, sì che l’un capo a l’altro era cappello; e come ‘l pan per fame si manduca così il sovran li denti a l’altro pose là ve ‘l cervel s’aggiugn con la nuca.

Dante vuole sapere il senso di quel gesto così inumano e Ugolino incomincia a raccontare la sua straziante storia,

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sperando che questa possa arrecare nel mondo dei vivi ancora più infamia alla sua vittima. Il conte ha vissuto la tragedia paterna più orribile: ha visto morire i suoi figli e i suoi nipoti rinchiusi insieme a lui nell’orribile torre. Egli non riesce ad accettare la morte di quattro giovani innocenti, colpevoli solo di essere figli discendenti di un avversario tanto odiato. Quando incominciò l’agonia? Erano rinchiusi in quella cella buia da sette mesi quando sentirono i colpi dei chiodi che chiusero per sempre l’ingresso attraverso cui giungeva il cibo. Un segnale inequivocabile: erano stati condannati a morte. Nella tortura del pensiero che non riesce a farsi parola, un raggio di luce penetra nella cella e Ugolino vede i volti dei ragazzi segnati dalla fame, dalla paura, dal pallore che precede la fine. In preda alla disperazione, si morde le mani (vv. 55-58): Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso, ambo le man per lo dolor mi morsi.

L’attenzione si sposta ora sul comportamento dei figli, allarmati dal gesto del padre: nella loro ingenuità e nel loro amore filiale, essi avanzano una proposta assurda: pensando che il mordersi le mani fosse segno di fame, offrono il loro corpo come cibo, quel corpo che egli ha creato e che ora ha il diritto di distruggere, come si veste uno spirito e poi si spoglia (vv. 61-63): Padre, assai ci fia men doglia

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se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia.

Il ricordo di Ugolino si apre a una disperata esclamazione: quella terra che era stata sorda alla loro tragedia, perché non aprì una voragine inghiottendoli e ponendo fine ai loro tormenti? (v. 66: «ahi dura terra, perché non t’apristi?»). Il racconto riprende con la morte dei quattro giovani: Gaddo per primo, e poi, tra il quinto e il sesto giorno, gli altri tre. Impazzito di dolore, il padre brancola come un cieco sopra i loro cadaveri, continuando a chiamarli. Il verso che sigilla il racconto è avvolto nel mistero (v. 75): «Poscia più che il dolor poté il digiuno», a farmi morire – più che il dolore – fu la mancanza di cibo. In realtà, questo endecasillabo si presta a una duplice interpretazione: Ugolino sta dicendo che il desiderio di cibo lo spinse a nutrirsi del cadaveri dei figli oppure che la causa della sua morte non fu il dolore atroce per la morte dei giovani, ma l’inedia, la denutrizione prolungata? Dante stende volutamente un velo di ambiguità e di reticenza. Sta a noi lettori disambiguare il verso, provando a rintracciare le allusioni depositate dall’autore. Un’attenta ricognizione delle scelte espressive compiute dal poeta rivela una insistenza sul campo semantico del mangiare che è probabilmente una spia testuale che avvalora la prima interpretazione. Una bellissima analisi di questo luogo del poema così controverso ce la offre lo scrittore argentino J. L. Borges in uno dei suoi saggi danteschi: L’asserzione “un libro è le parole che lo compongono” rischia di

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sembrare un assioma banale. Eppure, siamo tutti propensi a credere che vi sia una forma separabile dal contenuto e che dieci minuti di dialogo con Henry James ci rivelerebbero il “vero ” tema del Giro di vite. Penso che non sia così; penso che di Ugolino Dante non abbia mai saputo molto più di quanto non dicano le sue terzine. Schopenhauer ha dichiarato che il primo volume della sua opera capitale consiste di un solo pensiero e che non aveva trovato un modo piu breve per trasmetterlo. Dante, al contrario, direbbe che quanto ha immaginato di Ugolino sta tutto nelle controverse terzine. Nel tempo reale, nella storia, ogni volta che un uomo si trova di fronte a più alternative opta per una di esse ed elimina e perde le altre; non è così nell’ambiguo tempo dell’arte, che assomiglia a quello della speranza o a quello dell’oblio. Amleto, in quel particolare tempo, è assennato ed è pazzo. Nella tenebra della sua Torre della Fame, Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa oscillante imprecisione, questa incertezza, è la strana materia di cui è fatto. Così, con due possibili agonie, lo ha sognato Dante e così lo sogneranno le generazioni future.

Libertà va cercando ch’è sì cara,

Libertà va cercando ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta (Pg. I. vv. 71-72)

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Ecco due endecasillabi di possente memorabilità, destinati a incontrare enorme fortuna nella tradizione letteraria successiva. Ugo Foscolo li cita in esergo al suo romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis, rilanciandoli dunque verso l’età risorgimentale, durante la quale Dante avrà una enorme fortuna e assurgerà a pater patriae, baluardo di una italianità indomita e pugnace. Nel contesto del canto esordiale della seconda cantica i versi in questione – pronunciati da Virgilio – sono indirizzati a Catone l’Uticense, il custode del Purgatorio, il quale, vedendo i due turisti dell’oltretomba dirigersi verso di lui, li scambia per due anime dannate dell’Inferno che sono riuscite a evadere dal cieco carcere (vv. 40-41): «Chi siete voi che contro al cieco fiume fuggita avete la pregione eterna?» diss’ei, movendo quelle oneste piume.

Il poeta latino spiega a Catone che Dante è un vivo al quale è stata concessa la possibilità di esplorare i regni oltretombali per consegnare all’umanità un messaggio di

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redenzione. A lui spetta il compito di guidarlo nel suo itinerario oltremondano fino alle soglie del Paradiso terrestre. Dante è dunque alla ricerca della libertà, parola di enorme pregnanza semantica ed emotiva, che va correttamente intesa come emancipazione, affrancamento dal peccato, libertà dello spirito insomma. Catone – continua Virgilio – conosce benissimo questa parola: in nome di questo ideale ha sacrificato la propria stessa esistenza. Il custode del Purgatorio è stato un grande personaggio della storia antica, vissuto nel i sec. a.C., nell’epoca delle guerre civili e fratricide che determinarono il collasso delle istituzioni tardorepubblicane e la transizione verso una nuova forma di governo: il principato. Egli si tolse la vita a Utica, città a nord di Cartagine, dopo che nel 48 a.C. Cesare aveva definitivamente sconfitto Pompeo nella battaglia di Farsalo. Preferì morire, piuttosto che vivere sotto la tirannide cesariana. La notte prima di compiere il gesto definitivo, Catone rilesse il Fedone, dialogo platonico incentrato sull’immortalità dell’anima. L’autore della Commedia aveva a disposizione diverse fonti relative alla guerra civile, la più importante delle quali era il poema di Lucano, Pharsalia, dove la vicenda è narrata in una prospettiva filopompeiana. Lucano ci consegna una vera e propria “anti-Eneide”, che descrive lo sprofondare di Roma nel gorgo della violenza fratricida («bella plus quam civilia»). Vi è un solo personaggio eroico nella Pharsalia, ossia proprio quel Catone custode della legalità repubblicana da sempre impegnato nella difesa del mos maiorum. Catone aveva prima combattuto contro la tirannide di Silla, poi divenne avversario

Libertà va cercando ch’è sì cara,

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di Catilina e infine scelse nella guerra civile tra Cesare e Pompeo quest’ultimo, in quanto unico rappresentante della tradizione repubblicana. L’eroicità di Catone consiste dunque nel rigore e nell’altruismo, e così lo tratteggia Lucano nel secondo libro della Pharsalia: «Questo il carattere, questi i principi immutabili / del duro Catone: / conservare la natura, non uscire dai limiti, / seguire la natura, dedicare la vita alla patria, / credere di essere nato non per sé stesso, / ma per tutta l’umanità». Questo ritratto si tramanda al Medioevo cristiano e si traduce nel primo canto del Purgatorio nella raffigurazione di un veglio illuminato da quattro stelle che rappresentano a loro volta le quattro virtù cardinali (vv. 31-36): vidi presso di me un veglio solo, degno di tanta reverenza in vista, che più non dee a padre alcun figliuolo. Lunga la barba e di pel bianco mista portava, a’ suoi capelli simigliante, de’ quai cadeva al petto doppia lista.

Il motivo per il quale Dante salva Catone ed evita di collocarlo nella selva dei suicidi è dunque il seguente: il suicidio nel suo caso non è stato un gesto meschino, egoistico, ma una scelta ideologica, compiuta da un martire repubblicano disposto a cedere la sua stessa vita pur di non rinunziare alla libertà. Aggiungo inoltre che nella filosofia pagana, soprattutto ellenistica, il suicidio è la prerogativa del sapiens, il quale è il padrone assoluto della propria esistenza e può decidere di uscire dal mondo quando preferisce. Non ha –

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al contrario della massa degli stolti – nessun attaccamento ai beni mondani. Al giorno d’oggi il verso viene usato ancora nell’accezione originaria, in riferimento a chi – mosso da uno spirito filantropico e “illuministico” – combatte contro tutti i lacci dei pregiudizi e le catene dell’ignoranza che continuano a marginalizzare gli uomini in uno stato di minorità, impedendo così (cito le parole della nostra Costituzione) «il pieno svolgimento della persona umana».

Che perder tempo a chi più sa, più spiace

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Che perder tempo a chi più sa, più spiace (Pg. III, v. 78)

“Chi ha tempo non aspetti tempo”, oppure “Mai rimandare a domani quello che puoi fare oggi”. Il verso del canto terzo del Purgatorio è probabilmente alle origini di questa tradizione paremiologica. Siamo nell’Antipurgatorio, e Virgilio chiede a una schiera di anime che incede lentissimamente verso di loro quale sia la strada migliore per salire la montagna. La domanda è sigillata da una sententia destinata a diventare proverbiale. Il significato è semplice: più una persona è saggia, più è consapevole del valore del tempo e si rammarica di perderlo. Il tempo è in effetti il grande protagonista della seconda cantica, mentre è abolito sia all’Inferno sia al Paradiso, dove alle anime sono riservate la dannazione e la beatitudine eterne. Il Purgatorio è infatti una clinica dell’anima «dove l’umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno». Possiamo in un certo senso definirlo il regno dei contratti a tempo determinato, dove le anime espiano le loro colpe in attesa dell’assunzione a tempo indeterminato in Paradiso! Il tempo ha qui una funzione importante, nel

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senso che scandisce il lento processo di guarigione dal peccato e di riabilitazione morale che permette agli spiriti di portare a compimento il processo di purificatio animae e di munditia cordis. Riprendo volentieri un’acutissima osservazione di Riccardo Bruscagli, secondo il quale noi lettori contemporanei – pronipoti di quella grande invenzione novecentesca che è la psicoanalisi – possiamo meglio intendere la straordinaria intuizione dantesca, secondo la quale non basta pentirsi del male compiuto per gettarselo dietro le spalle: occorre appunto del tempo per rielaborare interiormente i propri traumi e rinascere moralmente a vita nova. La meditatio temporis è, d’altronde, uno dei grandi temi della filosofia. Nel mondo antico, la riflessione più acuta è quella di Seneca, il quale in uno dei suoi testi più conosciuti (la lettera che inaugura l’epistolario a Lucilio) scrive che tutte le cose ci sono estranee («omnia aliena sunt»); solo il tempo è in nostro possesso («tempus tantum nostrum est»). Non c’è bene materiale che – una volta perso – non possa essere riconquistato: solo il tempo è irreversibile. In nessun modo è possibile recuperare i giorni perduti. Secondo lo scrittore latino, l’errore compiuto dalla maggior parte degli uomini consiste nell’immaginare la morte come una realtà che sta davanti a noi, mentre essa è dietro di noi: è la somma di tutti i nostri ieri. Il saggio è colui che ne è consapevole e di conseguenza amministra il presente con la massima oculatezza, cercando di vivere proficuamente ogni istante. È questo l’incoraggiamento del poeta di età augustea Orazio, che in una celebre poesia invita la sua interlocutrice a cogliere l’attimo («carpe diem»), ossia ad amministrare il

Che perder tempo a chi più sa, più spiace

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tempo a disposizione con intelligenza, senza preoccuparsi troppo del futuro (Pier Paolo Pasolini scriverà che «la luce del futuro non cessa un solo istante di ferirci»). In una delle sue poesie più belle, il poeta greco K. Kavafis proporrà la seguente metafora: la sequenza dei giorni della vita umana è come una fila di candele: quelle spente sono i giorni del passato, quelle ancora accese i giorni da vivere. Il poeta prova sgomento nel vedere come si allunga velocemente la fila delle candele spente… Stanno i giorni futuri innanzi a noi come una fila di candele accese dorate, calde, e vivide. Restano indietro i giorni del passato, penosa riga di candele spente: le più vicine dànno fumo ancora, fredde, disfatte, e storte.

La consapevolezza della brevità della vita umana, però, non deve essere un pensiero oppressivo, ma un invito a non sciupare la nostra più grande ricchezza: che perder tempo, a chi più sa, più spiace…

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Ahi serva Italia, di dolore ostello (Pg. VI, v. 76)

L’apostrofe all’Italia del sesto canto del Purgatorio è uno dei brani più celebri della seconda cantica, entrato nella memoria collettiva. Una delle più mirabili simmetrie testuali del poema dantesco è quella relativa ai sesti canti di ciascuna cantica, tutti e tre dedicati al tema politico, in una gradatio che va dalla Firenze di Ciacco (Inf. vi) all’Impero di Giustiniano (Pd. vi) passando attraverso la lunga invettiva all’Italia pronunciata – nell’Antipurgatorio – dal poeta Sordello, conterraneo di Virglio. Gli intellettuali risorgimentali hanno amato in modo particolare questo canto, dove vibra una corda patriottica destinata a risuonare a lungo. Sordello ci viene presentato come un’anima appartata e austera (vv. 64-66): Ella non ci dicea alcuna cosa, ma lasciavane gir, solo sguardando a guisa di leon quando si posa.

Egli è il più famoso dei trovatori italiani. Nacque a Goito, presso Mantova, verso la fine del dodicesimo secolo e

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morì a Napoli nel 1269. La sua opera poetica – in lingua provenzale – è cospicua e si compone di canzoni d’amore e di sirventesi (questi ultimi erano un genere caro alla poesia cortese, adibito prevalentemente all’espressione in forma lirica di interessi e passioni politiche e patriottiche). Il suo testo più famoso è un planh (compianto funebre) dedicato alla morte di ser Blacatz, nobile signore di Provenza. All’interno di questo componimento, l’autore deplora la viltà dei signori d’Europa, i quali non sono all’altezza del loro glorioso passato. Questo poeta ha dunque un’indole molto simile a quella di Dante, che infatti proietta in lui sé stesso, innalzandolo a severo fustigatore dell’inettitudine di una classe dirigente indegna del ruolo che ricopre. Secondo Indro Montanelli, infatti, una delle caratteristiche maggiori della personalità di Dante è l’anti-italianità. La sua indole è improntata alla severitas, all’intransigenza rocciosa e respingente, alla coerenza vissuta fino in fondo. Ininterrottamente, Dante vede e rifiuta. Siamo agli antipodi rispetto alla furbizia e alla versatilità opportunistica che connoterebbe un certo carattere nazionale. Nell’invettiva che mette in bocca a Sordello, questa sua caratteristica risulta ben evidente, poiché l’autore assurge a censore impietoso dell’incapacità di re e principi (vv. 76-78): Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchier in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!

L’apostrofe all’Italia si apre con un’esclamazione di dolore, sentimento che pervade l’intero canto. Storicamente,

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il concetto di Italia risale al tempo della Roma classica e il poeta lamenta il ruolo decaduto del proprio paese che – mentre al tempo dell’impero romano dominava tutti i popoli del Mediterraneo e dell’Europa continentale – ora è ridotta a serva di dominatori stranieri, governata da tiranni ignobili e insanguinata da una ininterrotta guerra fratricida (in un verso del canto ventiduesimo del Paradiso, l’autore definirà il nostro pianeta come «l’aiuola che ci fa tanto feroci»). L’ideale supremo di Dante, d’altronde, era la concordia: l’unica soluzione politica risiedeva secondo lui nella ricostituzione, in chiave cristiana, dell’antico dominio romano sotto l’egida dell’imperatore di Germania. L’Italia era infatti priva di una guida politica legittima, per cui il paese appariva ai suoi occhi come una nave senza nocchiero in una grande tempesta. Tutte le sue speranza, Dante le ripose nell’imperatore Arrigo vii, al quale preparò addirittura– mentre era ancora vivo – un seggio in Paradiso! Secondo un modulo di personificazione destinato a grande fortuna nei secoli successivi (da Petrarca a Leopardi), Dante raffigura l’Italia come una donna sventurata, decaduta dal ruolo regale di signora delle nazioni a quello di squallida prostituta: è l’emblema di un paese che ha perduto la sua dignità ed è diventato luogo di prostituzione, in quanto le cariche politiche ed ecclesiastiche si vendono come in un bordello (v. 78). Il problema è la mancanza di un’autorità politica che intervenga a sanare la situazione reintegrando in un progetto più ampio i tanti particolarismi localistici. A partire dal verso 97, l’invettiva si rivolge direttamente all’imperatore, che nell’anno in cui è ambientato il poema era Alberto i d’Austria, eletto nel 1298 e ucciso a tradimento nel 1308.

Ahi serva Italia, di dolore ostello

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A lui Dante addebita la colpa di non interessarsi all’Italia, lasciandola così abbandonata a sé stessa (vv. 112-114): Vieni a veder la tua Roma che piagne vedova e sola, e dì e notte chiama: «Cesare mio, perché non m’accompagne?»

Questo planctus dantesco intorno alle sventure dell’Italia è destinato a una immensa fortuna nei secoli successivi. Francesco Petrarca raccoglierà l’eredità dantesca nel Canzoniere, soprattutto nella grande canzone Italia mia, benché il parlar sia indarno, che piacerà moltissimo a Niccolò Machiavelli, il quale la citerà alla fine del Principe. All’inizio dell’Ottocento, il giovane Leopardi riprenderà questa corda patriottica nella canzone All’Italia, nella quale sin dai primi versi si affaccia la deprecatio per il presente squallido e antieroico («O patria mia / vedo le mura e gli archi / e le colonne e i simulacri e l’erme / torri degli avi nostri / ma la gloria non vedo / non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi / i nostri padri antichi»). Questa tradizione attraverserà infine il Novecento, in modo particolare la poesia di Pier Paolo Pasolini, il quale si scaglia più volte contro l’intera Italia, per esempio nell’epigramma Alla mia nazione: Terra di infanti, affamati, corrotti, governanti, impiegati di agrari, prefetti codini, avvocatucci unti […] Sprofonda in questo tuo bel mare

Questo plurisecolare filone di poesia patriottica influen-

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zerà anche la musica cantautorale. Il lamento di Battiato sulle miserie della povera patria italiana si inserisce perfettamente nel solco di una tradizione che ha il suo archetipo nell’invettiva del sesto canto del Purgatorio: Povera patria Schiacciata dagli abusi del potere Di gente infame, che non sa cos’è il pudore Si credono potenti e gli va bene quello che fanno E tutto gli appartiene Tra i governanti Quanti perfetti e inutili buffoni Questo paese devastato dal dolore Ma non vi danno un po’ di dispiacere Quei corpi in terra senza più calore? Non cambierà, non cambierà Non cambierà, forse cambierà

Ascoltare Battiato e sentire riecheggiare i versi di Dante, chi l’avrebbe mai detto?

Oh vana gloria de l’umane posse

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Oh vana gloria de l’umane posse com’ poco verde in su la cima dura se non è giunta da l’etati grosse! (Pg. XI, vv. 91-93)

La terzina in questione è una delle più intense meditazioni poetiche intorno alla caducità della fama. Ogni tanto capita di citarla per biasimare le stolte ambizioni degli uomini, che sognano una gloria imperitura, ignorando – di fatto – la vanità della fama conseguita sulla Terra. Ci troviamo nel canto undicesimo del Purgatorio, dedicato alla esplorazione della prima cornice, dove sono puniti i superbi. Nella concezione dantesca la superbia ha sempre una posizione di preminenza: nel canto esordiale dell’Inferno la prima fiera che incontriamo è infatti il leone, allegoria di questo vizio. Essa è anche la prima delle tre faville che hanno acceso il cuore dei fiorentini (Inf. vi, vv. 74-75: «superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville che hanno i cuori accesi»). Nella cornice dantesca, i superbi incedono lentamente portando pesanti macigni che li inducono a tenere la testa china. Il contrappasso si spiega in questo modo: se durante il loro soggiorno terrestre hanno tenuto il capo altezzosamente verso l’alto – a causa di un eccessivo amor proprio – adesso

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sono costretti a rivolgere lo sguardo a terra, gravati da un peso opprimente. I versi più famosi del canto sono pronunciati da Oderisi da Gubbio (insigne miniatore della sua epoca) il quale confessa come il suo primato, nell’ambito della sua arte, sia stato perduto a favore di un altro (Franco Bolognese); anche Giotto nella pittura ha ormai soppiantato Cimabue e nella poesia Guido Cavalcanti è subentrato a Guido Guinizzelli, ma già si profila chi li supererà entrambi (forse un’allusione a Dante stesso). In questo senso, la gloria e la fama terrene non sono altro che un alito di vento che soffia ora di qua, ora di là. Il «mondan romore» allude alla eco delle proprie imprese gloriose, destinata a spegnersi presto. La consapevolezza della caducità umana è una costante che si affaccia spessissimo nella riflessione degli scrittori e dei poeti. Che cos’è il nostro passaggio sulla Terra se non un frego effimero, subito cancellato dalla spugna del tempo? La sera, prima di addormentarsi, Giacomo Leopardi era visitato da una malinconia struggente. La quiete altissima della notte gli insegnava l’inanità, la vanità di ogni grande impresa compiuta dagli uomini. Or dov’è il suono di quei popoli antichi? Or dov’è il grido dei nostri avi famosi? e il grande impero di quella Roma, e l’armi e il fragorio che n’andò per la terra e l’oceano? Tutto è pace e silenzio e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona.

Oh vana gloria de l’umane posse

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Queste interrogative incalzanti riprendono il vecchio adagio biblico dell’Ubi sunt così caro al poeta della Commedia. Una ripresa moderna di questo collaudatissimo topos ce la offre Giorgio Caproni (1912-1990), il quale scrive: Non restano testimonianze. Grande che sia o meschino quanto s’è fatto o detto non dura più di nebbia al mattino.

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Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? (Pg. XVI, v. 97)

Questo è un verso di lancinante attualità: cosa ce ne facciamo delle leggi se non le applichiamo? Siamo esattamente al centro numerico della Commedia, nella terza cornice. Dante si trova immerso in una spessa e acre nube di fumo che gli impedisce la vista, tanto che deve appoggiarsi a Virgilio per procedere (vv. 1-6): Buio d’Inferno e di notte privata d’ogne pianeto, sotto pover cielo quanto esser può di nuvol tenebrata, non fece al viso mio sì grosso velo come quel fummo che ivi ci coperse né a sentir di così aspro pelo.

In questo terrazzamento sono puniti gli iracondi, coloro cioè che in vita sono stati accecati dall’ira e che qui avanzano accecati da un fumo acre e soffocante recitando l’Agnus Dei, il contrappasso è il seguente: chi in vita è stato accecato dall’ira ora è soffocato e accecato da un fumo pungente e

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acre. Qui Dante incontra l’anima di Marco Lombardo, il quale gli spiega perché il mondo è privo di ogni valore e pieno di malvagità. Lombardo appartiene alla generazione precedente a quella di Dante. Probabilmente originario della Marca Trevigiana, visse come cortigiano nell’Italia settentrionale. Le fonti d’epoca lo descrivono in questo modo: Fu uomo molto saputo, e ebbe molto le virtù politiche, e fu cortesissimo donando ai nobili omini poveri ciò che lui guadagnava e guadagnava molto, però che era omo di corte e per la virtù sua era molto amato e donatoli molto dai signori.

Dante Alighieri, per bocca sua, espone in questo canto centrale del suo poema la dottrina del libero arbitrio, alla base del suo pensiero. In sintesi: gli uomini sono responsabili di loro stessi e delle scelte che compiono. Il nostro agire non è interamente condizionato dagli influssi astrali, poiché a noi sono stati donati la ragione e il libero arbitrio (vv. 73-78): Lo cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto ch’i’l dica, lume v’è dato a bene e a malizia, e libero voler; che, se fatica ne le prime battaglie col ciel dura, poi vince tutto, se ben si notrica.

L’anima, infatti, è creata da Dio simile a una bambina ignara di tutto, la quale si volge tendenzialmente ai piaceri effimeri se non è corretta, attraverso la legge, dall’autorità dell’imperatore.

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Il vero problema allora è che le leggi restano inapplicate, in quanto il papa si è arrogato anche il potere temporale. Dunque il malgoverno dei papi è la causa che ha reso il mondo malvagio (vv. 103-105): Ben puoi veder che la mala condotta è la cagion che il mondo ha fatto reo, e non natura che ‘n voi sia corrotta.

Ancora una volta Dante guarda al passato, a quella Roma che dette ordine al mondo con le sue buone leggi e che era solita avere due soli, i quali indicavano le due vie della felicità terrena e della beatitudine celeste (vv. 106-108): Soleva Roma, che’l buon mondo feo, due soli aver, che l’una e l’altra spada facean vedere, e del mondo e di Deo

L’autore si scaglia dunque contro le pretese teocratiche del pontefice. Prima di Dante, papa Innocenzo iii, per affermare la pienezza del proprio potere, spirituale e temporale, aveva usato la metafora della luna-Impero che riceve la sua luce dal sole-Chiesa: come la luna brilla della luce riflessa del sole, così l’imperatore riceve legittimazione dal pontefice, il solo al quale sia stato conferito il potere da Dio. L’imperatore si deve dunque collocare in posizione subordinata rispetto al papa, che gli delega l’autorità di governare il popolo in suo nome. Questa linea teocratica venne ripresa e ribadita con ancora più veemenza dall’acerrimo nemico dell’Alighieri, Bonifacio viii.

Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?

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Dante, nel trattato latino De Monarchia, confuterà la teoria del sole e della luna riproponendo la tesi antagonistica dei due soli. L’autore compie una mossa ideologica di straordinaria audacia (non a caso, dopo la sua morte, questo trattato incontrò la condanna del potere ecclesiastico e il suo autore fu accusato addirittura di eresia). Impero e papato sono completamente autonomi nelle rispettive sfere di influenza. Sono le due diverse strade attraverso le quali l’umanità può incamminarsi verso la felicità (in questo mondo, sotto il governo dell’imperatore; nell’altro, seguendo le direttive del papa). Dante si augura inoltre che l’imperatore abbia nei confronti del papa la reverenza di un figlio nei confronti del padre. Tutto questo tenendo presente che il potere laico non riceve la sua legittimazione da quello ecclesiastico, e quindi destituendo di fondamento l’ipotesi teocratica. La meditazione sulle leggi che non vengono applicate è destinata a una enorme fortuna nella tradizione successiva. Pensiamo al primo capitolo dei Promessi sposi nel quale Manzoni descrive l’inanità delle gride, ossia dei provvedimenti legislativi di emergenza che non riescono a tutelare l’incolumità dei cittadini, i quali vengono ripetutamente ricattati dai vari bravi e prepotenti al soldo dei signorotti locali come Don Rodrigo. Non a caso un fine lettore come Leonardo Sciascia accrediterà a Manzoni una disamina lu-cidissima e spietata della società italiana: del tempo in cui il romanzo si svolge, del tempo in cui Manzoni lo scrisse, del tempo in cui noi lo leggiamo. In un’altra occasione, sempre a proposito del romanzo manzoniano, Sciascia ha affermato: La sua opera è generalmente vista come il prodotto di un cattolico

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italiano piuttosto tranquillo e conformista, quando invece si tratta di un’opera inquieta, che racchiude un’impietosa analisi della società italiana di ieri e di oggi e delle sue componenti più significative. Un libro, un’opera che contiene tutta l’Italia, persino l’Italia che più tardi sarà descritta da De Roberto ne I viceré, da Pirandello ne I vecchi e i giovani, da Vitaliano Brancati ne Il vecchio con gli stivali, addirittura l’Italia delle Brigate Rosse.

Nella nostra storia letteraria possiamo così tracciare una linea Dante – Manzoni – Sciascia dedicata a meditare sui limiti della giustizia, e sulla mancata applicazione delle leggi, alle quali, – come dice per primo Marco Lombardo nel celeberrimo verso oggetto di questo capitolo – nessuno pone mano.

Pon giù il seme del piangere e ascolta

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Pon giù il seme del piangere e ascolta (Pg. XXXI, v. 46)

Quando vogliamo invitare una persona a trattenere le lacrime e ad agire in maniera più matura dobbiamo ricordarci di questo verso pronunciato da Beatrice nel Paradiso Terrestre. I canti xxx e xxxi del Purgatorio sono la “Pasqua della Divina Commedia”, poiché in essi Dante narra la resurrezione poetica della sua amata. Finalmente infatti, dopo un’attesa durata molti anni e molti versi, Beatrice – la signora della sua mente – risorge a vita nova, pronta ad accompagnarlo nella più divina storia d’amore di ogni tempo, verso «Amor che move il sole e le altre stelle». È necessario però a questo punto tornare agli esordi della carriera letteraria di Dante, in modo da cogliere la centralità di questo snodo narrativo. Nel suo libro giovanile, la Vita nova, egli aveva narrato la storia del suo amore per questa fanciulla incontrata la prima volta a nove anni, una seconda a diciotto. Il simbolismo numerologico è evidente: l’insistenza sul nove e sui multipli del tre è allusiva al mistero centrale della rivelazione cristiana, quello trinitario. Questo amore si atteggia inizialmente nei canoni della

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tradizione cortese e stilnovistica; l’epifania della donna amata sulle vie della Terra è celebrata in sonetti memorabili (basti pensare a Tanto gentile e tanto onesta pare) che fungono da soste liriche e autocommentative della narrazione autobiografica, in una mistura di prosa e versi che non ha uguali in nessun’ altra letteratura (la Vita nova è l’eccezione narrativa della cultura stilnovistica). La poesia stilnovistica, che ha il suo antesignano in Guido Guinizzelli e il massimo esponente in Dante (il quale nel canto xxiv del Purgatorio conia la definizione di “dolce stil novo”) è caratterizzata, oltreché da una ricerca linguistica orientata a illimpidire il linguaggio poetico italiano, da un’esaltazione del valore morale dei sentimenti umani. Ma torniamo a Beatrice. Mentre, come direbbe Leopardi, «il limitare di gioventù saliva», ella muore, abbandonando così il suo poeta amante. Ecco come il suo primo biografo, Giovanni Boccaccio, descrive questo schiavo d’amore che ha perso ogni coordinata esistenziale (“la bussola va impazzita all’avventura” scriverà molti secoli dopo Eugenio Montale...): Gli giorni erano alle notte iguali e agli giorni le notti; delle quali niuna ora si trapassava senza guai, senza sospiri e senza copiosa quantità di lagrime; e parevano li suoi occhi due abbondantissime fontane d’acqua surgente, intanto che i più si maravigliarono donde tanto umore egli avesse che al suo pianto bastasse […] Egli era, sì per lo lagrimare, sì per l’afflizione che il cuore sentiva dentro, e sì per lo non avere di sé alcuna cura, di fuori divenuto quasi una cosa salvatica a riguardare: magro, barbuto e quasi tutto trasformato da quello che avanti esser solea.

Pon giù il seme del piangere e ascolta

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Alla fine della Vita nova, Dante fa una promessa a sé stesso: tornerà a parlare di Beatrice solo quando avrà trovato i mezzi poetici adeguati a lodarla come merita: «io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna». Il xxx canto del Purgatorio è dunque l’adempimento di quella giovanile promessa. Virgilio ha accompagnato Dante nell’esplorazione della voragine infernale e, a quest’altezza del libro, hanno appena scalato la montagna della redenzione, il Purgatorio. Il grande poeta latino – alle soglie del Paradiso terrestre – rivolge quindi a Dante le ultime parole, incoronandolo signore della propria anima (canto xxvii, v. 142: «perch’io te sovra te corono e mitrio»). Nel giardino edenico si svolge allora una solenne processione, che preannuncia uno dei maggiori culmini emozionali del poema: una donna incede verso il protagonista (vv. 31-33): sopra candido vel, cinto di uliva donna m’apparve, sotto verde manto, vestita di color di fiamma viva.

Ella viene salutata dalle parole che erano state rivolte a Gesù nel giorno della sua entrata a Gerusalemme: «Benedictus qui venis». Dante avverte l’eco dell’antico amore (v. 39: «d’antico amor sentì la gran potenza») e ogni goccia di sangue trema dentro di lui. Allo stesso modo di un bambino che invochi la protezione materna, egli si volge per cercare il supporto di Virgilio, il quale però si è ormai congedato definitivamente, lasciandolo solo con sé stesso. Per la prima volta nel poema, risuona il nome dell’autore, pronunciato da

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Beatrice, al cospetto della quale il peregrin d’amore si ritrova dopo tanti anni. Sono i versi 55-57 del xxx canto del Purgatorio: Dante, perché Virgilio se ne vada, non pianger anco, non pianger ancora; che pianger ti convien per altra spada.

Beatrice accompagnerà Dante nell’esplorazione dei cieli paradisiaci e nella terza cantica, una delle grandi sfide del poeta sarà quella di raccontare lo splendore degli occhi della sua amata, quegli stessi occhi che da ragazzo gli apparivano come «anticipi di cielo sulla Terra». Scrive il grande romanziere contemporaneo Julian Barnes: «È negli occhi che abbiamo incontrato l’altro, ed è lì che ancora lo troviamo». Torquato Tasso, secoli prima, ci aveva dal canto suo ricordato che «gli occhi sono quelli che più godono, e quelli di cui più si gode nell’amore». Beatrice è colei che trasforma la mente di Dante in un Paradiso («imparadisa la mia mente») capace di accogliere tutta la bellezza dell’Universo. Nel xxx canto della terza cantica (mirabile come sempre la simmetria testuale) lascerà infine il posto alla terza e ultima guida di Dante, san Bernardo, il quale pronuncia la santa orazione alla Vergine che apre l’ultimo canto del “poema sacro”. Ma torniamo al verso con cui abbiamo aperto questo capitolo. Nel Novecento, Caproni lo ha preso in prestito per dare un titolo alla sua raccolta lirica dedicata ad Annina, la madre-fidanzata ritrovata dopo un «folle volo», un viaggio nel tempo verso un luogo addirittura di antenascita. Nel seme del piangere, il poeta riorchestra armoniche dante-

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sche e stilnovistiche e accompagna poeticamente questa ragazza, che un giorno diventerà sua madre, per le vie di Livorno, fiorite di occhi che mirano incantati il suo passare. In questo modo, gli archetipi lirici duecenteschi rinascono a vita nova.

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Oh insensata cura dei mortali quanto son difettivi silogismi quei che ti fanno in basso batter l’ali (Pd. XI, vv. 1-3)

I versi incipitari del canto xi del Paradiso non sono conosciutissimi al di fuori della pur vasta cerchia dei lettori attenti del poeta, eppure hanno la potenzialità di entrare nel linguaggio comune e diventare proverbiali. Sono endecasillabi che scandiscono una rapida ed esaustiva deprecazione di tutte quelle ambizioni meschine che allontanano l’uomo dal vero bene. Si tratta per l’appunto di una invettiva contro coloro i quali sprecano il proprio tempo dietro a occupazioni effimere, ignorando quella che è la loro missione esistenziale sulla terra, ossia «perseguir virtute e canoscenza» (Inf. xxvi, v. 120). Nella terzina iniziale Dante utilizza un termine tecnico della filosofia antica e medioevale, “sillogismo”, che designa il tipo fondamentale di ragionamento deduttivo della logica aristotelica, costituito da una premessa maggiore, una premessa minore e una conclusione derivata (l’esempio classico è il seguente. Premessa maggiore: Tutti gli uomini sono mortali; premessa minore: Socrate è un uomo; conclusione: Socrate è mortale).

Oh insensata cura dei mortali

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I versi di cui stiamo parlando ospitano un catalogo di quelle che sono le principali ambizioni umane, accomunate dal desiderio ingovernabile di ammassare ricchezze e titoli onorifici (vv. 1-9): O insensata cura de’ mortali, quanto son difettivi i silogismi quei che ti fanno in basso batter l’ali! Chi dietro a iura, e chi ad aforismi sen giva, e chi seguendo sacerdozio, e chi regnar per forza o per sofismi, e chi rubare, e chi civil negozio chi nel diletto de la carne involto s’affaticava e chi si dava all’ozio.

Essi contengono un repertorio di tutte le tipologie di peccati e di vizi incontrati nel corso del viaggio infernale e purgatoriale. Nel giro di tre terzine, l’autore è riuscito a descrivere con la solita sintesi la fenomenologia umana che gli si è rivelata nei gironi infernali e nelle cornici purgatoriali. Questa è infatti la parafrasi: O insensata preoccupazione degli uomini, quanto sono sbagliati i ragionamenti che ti fanno rivolgere verso le cose terrene! Chi attendeva agli studi giuridici, chi a quelli di medicina, chi si preoccupava di fare carriera ecclesiastica, e chi di ottenere il potere politico con la violenza, con la forza o con l’inganno, e chi pensava a rubare o amministrare la cosa pubblica, chi si affaticava tutto dedito ai piaceri sensuali, e chi se ne stava in ozio. Sono versi, ripeto, che non hanno avuto grande diffusione

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popolare, a causa della cantica nella quale sono inseriti, che è quella che ha da sempre riscosso meno fortuna, per via della grande densità intellettuale e filosofica. Tuttavia mi è parso opportuno approfondirli, perché meriterebbero maggiore attenzione.

Che saetta prevista vien più lenta

Che saetta prevista vien più lenta (Pd. XVII, v. 27)

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Il verso a cui è dedicato questo capitolo letteralmente significa che la freccia, il colpo che ci si aspetta, colpisce con meno forza e provoca minor dolore rispetto agli agguati imprevisti che ci assalgono alle spalle. Per comprenderne meglio la genesi, sarà il caso di contestualizzarlo. Il canto xvii del Paradiso costituisce la terza pala del trittico dedicato all’incontro tra Dante agens e il suo trisavolo Cacciaguida, nel cielo di Marte. Sotto certi aspetti è il più importante dell’intero poema, nel quale il protagonista del viaggio guarda finalmente in faccia il proprio futuro, Nel corso dell’itinerario oltretombale al viator sono state infatti dette «parole gravi» a tale proposito, oscuri presagi su quello che lo aspetta, ma nulla di definitivo. Ecco allora che il trisavolo preannuncia al pronipote l’esilio lontano da Firenze, causato in prima istanza dalla politica papale, ossia dal suo acerrimo nemico Bonifacio viii (al quale, come si ricorderà dal diciannovesimo canto della prima cantica, Dante prepara il posto all’Inferno). Le fonti d’epoca testimoniano che il 17 gennaio 1302

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Dante ricevette una prima condanna per baratteria (ovvero corruzione nell’esercizio di funzioni pubbliche): una multa di cinquemila fiorini e due anni di esilio. Un’accusa infondata, che il poeta respinse con forza. Il 10 marzo dello stesso anno venne emessa una nuova sentenza ai danni di Dante: confisca immediata di tutti i beni e condanna a morte sul rogo. Una sentenza che rendeva l’esilio da Firenze un destino inevitabile. Le parole pronunciate da Cacciaguida sono tra le più vibranti di tutto il poema (vv. 55-60): Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale che l’arco de lo essilio pria saetta. Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e il salire per l’altrui scale.

Per Dante incomincia un lungo, incerto viaggio (che durerà quasi vent’anni) in giro per l’Italia centrosettentrionale alla ricerca di aiuti, protettori che possano offrirgli innanzi tutto un sostentamento di base (Boccaccio scrive che «con industria disusata gli convenia il sostentamento di sé medesimo procacciare»). Il suo sogno è ambiziosissimo: ritornare a Firenze ed essere incoronato poeta nel suo bel San Giovanni, come scrive nell’incipit del canto xxv del Paradiso (vv. 1-9): Se mai continga che ‘l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra sì che m’ha fatto per più anni macro,

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vinca la crudeltà che fuor mi serra del bello ovile ov’io dormì agnello nimico ai lupi che li danno guerra; con altra voce omai, con altro vello ritornerò poeta, e in sul fonte del mio battesmo prenderò il cappello

Nella prima biografia dantesca (Il Trattatello in laude di Dante) Giovanni Boccaccio, primo tempestivo pontefice del culto dantesco, propone una polarità oppositiva destinata a grande fortuna nella tradizione successiva. Nella prospettiva dell’autore del Decameron, Firenze è stata per Dante una matrigna («una perfida noverca») aggressiva e respingente: Ravenna al contrario è stata una mamma benevola e affettuosa, lieta di adottare un orfano tanto illustre. Ecco come Boccaccio tuona contro la città gigliata, violentemente ingrata: Questo merito riportò Dante del tenero amore avuto alla sua patria! Questo merito riportò Dante dell’affanno avuto in torre via le discordie cittadine! Questo merito riportò Dante dell’avere con ogni sollecitudine cercato il bene, la pace e la tranquillità dei suoi cittadini! Colui nel quale poco avanti pareva la pubblica speranza esser posta, ogni affezione cittadina, ogni rifugio popolare, subitamente, senza cagione legittima, senza offesa, senza peccato, da quel rumore il quale per addietro s’era molte volte udito le sue laude portare infino alle stelle, è furiosamente mandato in inrevocabile esilio.

A un certo punto per Dante si affacciò la possibilità di rientrare in patria.

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Correva l’anno 1315. I fiorentini concedono in quell’occasione l’amnistia agli esuli. Le condizioni, però, sono umilianti: pagata una multa e passato un certo tempo in carcere, è riservata loro una vera e propria umiliazione pubblica, la processione fino a San Giovanni, con tutti gli occhi dei concittadini addosso a loro, il capo cosparso di cenere e una candela in mano, chiedendo al santo di essere perdonati per le proprie colpe e riammessi nella comunità. C’è una famosa lettera che Dante scrive a un amico che gli aveva prospettato questa eventualità (lettera che ci è stata tramandata da Giovanni Boccaccio nel suo Zibaldone laurenziano), nella quale il poeta rifiuta sdegnosamente di sottostare all’infamante rito espiatorio. Ecco le sue parole: È proprio questo il grazioso proscioglimento con cui è richiamato in patria Dante Alighieri, dopo aver sofferto l’esilio per quasi tre lustri? Questo ha meritato una innocenza manifesta a chiunque? Questo ha meritato il sudore e l’assidua fatica negli studi? Non è questa la via per ritornare a casa, ma se un’altra via prima o poi da voi o da altri sarà trovata, che non deroghi alla fama e alla rispettabilità di Dante, quella percorrerò con passi non lenti; ma se per nessuna onorevole via si entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai più. Quindi? Forse non potrò vedere ovunque la luce del sole e degli astri? O forse che non potrò dovunque sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza prima restituirmi abietto e ignominioso al popolo fiorentino? Certamente il pane non mi mancherà.

Commentò Boccaccio: «Oh isdegno laudevole di magnanimo, quanto virilmente operasti reprimendo l’ardente desiderio del tornare a casa per via meno che degna ad uomo nel grembo della filosofia nutricato».

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Allontanato da Firenze, l’exul immeritus si trovò costretto a vivere ai margini dell’ospitalità delle grandi famiglie signorili dell’Italia centrosettentrionale, costretto a constatare quanto sa di sale il pane altrui. La Divina Commedia appare dunque come il grido di Dante in faccia al destino.

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E lascia pur grattar dov’è la rogna (Pd. XVII, v. 29)

Questo endecasillabo del diciassettesimo canto del Paradiso ha probabilmente una scarsa notorietà al di fuori della cerchia dei dantisti. Credo però che meriti di essere più intensamente divulgato in modo da entrare anch’esso nel novero dei versi della Commedia di più larga frequenza. Ha infatti da sempre suscitato l’interesse dei lettori, i quali si sono meravigliati di come l’autore inserisca nella cantica sublime del Paradiso parole così ruvide e diciamo pure impoetiche, quali il verbo “grattare” e soprattutto il sostantivo “rogna”. Come ci ha insegnato il filologo tedesco Erich Auerbach, la Commedia dantesca è il grande esempio post-classico di confusione degli stili. Il suo autore si inserisce nel solco della rivoluzione retorica promossa dalla letteratura evangelica e patristica, la quale aveva inaugurato una nuova idea di sublime. Nella prospettiva di Dio, il basso e l’alto si scambiano di posto (gli ultimi saranno i primi). Questo determina una riabilitazione del sermo humilis e la possibilità di orchestrare tra loro registri linguistici eterogenei. La versatilità di Dante è straordinaria. Proprio per questo

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il filologo Gianfranco Contini ha proposto per la lingua della Commedia la categoria di “plurilinguismo”, nel senso che il poeta continuamente reimpasta tra loro ingredienti lessicali diversissimi. Stentiamo quasi a crederci, ma colui che ha scritto, a proposito della pena di Maometto nel canto xxviii dell’Inferno (vv. 25-27): Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e il tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia;

è lo stesso della Preghiera alla Vergine con la quale si apre l’ultimo canto del Paradiso: Vergine madre, figlia di tuo figlio umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio

Il fatto è che nel suo “poema-mondo”, Dante esplora ogni aspetto della nostra umanità e mobilita tutte le risorse verbali a sua disposizione. Ma torniamo al verso dal quale abbiamo preso le mosse. Esso (v. 129: «e lascia pur grattar dov’è la rogna») è pronunciato da Cacciaguida, il quale risponde al suo pronipote, che gli aveva chiesto se nella sua opera doveva essere fedele alla verità, a costo di dire cose per molti sgradevoli (vv. 106-111): Ben veggio, padre mio, sì come sprona lo tempo verso me, per colpo darmi tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;

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per che di provedenza è buon ch’io m’armi, sì che, se loco m’è tolto più caro, io non perdessi li altri per miei carmi.

Cacciaguida lo invita ad abbandonare ogni scrupolo e a rivelare tutto ciò che ha appreso nel corso del suo viaggio. In un primo momento, le coscienze offuscate dal peccato troveranno amare quelle verità, ma occorre tuttavia non tirarsi indietro, lasciando appunto «grattar dov’è la rogna», ossia non curandosi di chi ci rimarrà male poiché quella visione, una volta svelata, sarà in seguito «vital nodrimento» (vv. 130-135): Questo tuo grido farà come vento, che le più alte cime più percuote; e ciò non fia d’onor poco argomento. Però ti son mostrate in queste rote, nel monte e ne la valle dolorose pur l’anima che son di fama note

In questo modo, l’esilio di Dante assume un nuovo significato. Esso non è più una sciagura individuale tale da suscitare solo pietà e compassione in colui che ne viene a conoscenza; in una prospettiva diversa, esso è lo strumento attraverso il quale l’esule ha preso coscienza del male e dell’ingiustizia del mondo. La visione che egli dovrà svelare agli uomini si configura come messaggio di verità e di salvazione. Dante non è più dunque il semplice exul immeritus (appellativo con cui firmava molte delle proprie lettere), ma un profeta portatore di un messaggio univer-

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sale. Nel solco di Enea e di san Paolo, egli si pone quale propugnatore di una spiritualità nuova che deve tradursi in un’epoca di pace e di moralità ritrovata. Il grido del profeta dovrà percuotere «le più alte cime degli alberi», i potenti della Terra. Questa è la ragione per cui gli sono stati mostrati tanti personaggi illustri, veri e propri exempla, tali da imprimersi nella memoria dei destinatari del messaggio, cioè l’umanità intera.

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L’aiuola che ci fa tanto feroci (Pd. XXII, v. 151)

Dopo l’incontro con san Benedetto nel cielo di Saturno, Dante ascende all’ottavo cielo, quello delle stelle fisse, e appena vi giunge Beatrice lo invita a volgere lo sguardo per l’ultima volta in basso verso la Terra. Al poeta si offre il grandioso panorama dell’intero universo celeste (vv. 133-135): Col viso ritornai per tutte quante le sette spere, e vidi questo globo tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante.

Laggiù vede la Terra, che dall’alto dei cieli si mostra in tutta la mediocrità di una piccola aiuola e che pure – nonostante le infime dimensioni – rende tanto feroci i suoi abitanti (vv. 151-154): L’aiuola che ci fa tanto feroci, volgendom’io con li etterni Gemelli, tutta m’apparve da’ colli alle foci; poscia rivolsi li occhi a li occhi belli

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È stata già segnalata la mirabile sintesi dantesca, che in undici sillabe riesce a combinare i due piani ben distinti della descrizione oggettiva e della valutazione morale. Dante conosceva bene questa ferocia degli uomini che non smettono di infelicitarsi reciprocamente. Il mondo che l’autore descrive nei suoi versi è quello del Bel Paese, della penisola italiana da lui definita il giardino dell’impero. Le peregrinazioni compiute negli anni dell’esilio gli rivelarono che tutta l’Italia è, al pari della sua Firenze, funestata ovunque da lotte fratricide. Quali altri poeti, dopo Dante, sono riusciti a descrivere in maniera altrettanto icastica il nostro pianeta? Il primo è Giacomo Leopardi, il quale nella poesia La ginestra, ambientata sulle pendici del Vesuvio, riflette sull’assoluta marginalità dell’uomo nel cosmo. Siamo tutti stipati in una nave azzurra sospesa nello spazio, una favilla dell’immenso incendio galattico, eppure ci crediamo al centro dell’universo, ignari della nostra precarietà e del fatto di vivere in «un oscuro granel di sabbia, il qual di terra ha nome». Qualche tempo dopo di lui, Giovanni Pascoli erediterà questo retaggio dantesco e leopardiano: nella poesia X Agosto, interpreterà la pioggia di stelle cadenti durante la notte di San Lorenzo come il pianto del cielo per la malvagità degli uomini: E tu cielo, dall’alto dei mondi, sereno infinito immortale oh di un pianto di stelle lo inondi quest’atomo opaco del male.

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Concludiamo questa breve rassegna con i versi estremamente ironici di Guido Gozzano tratti da una delle sue poesie più famose, ossia La signorina Felicita: Ecco – pensavo – questa è l’Amarena, ma laggiù, oltre i colli dilettosi, c’è il Mondo: quella cosa tutta piena di lotte e di commerci turbinosi, la cosa tutta piena di quei “cosi con due gambe” che fanno tanta pena...

Il privilegio dei grandi poeti è sempre stato quello di osservare la vita dall’alto, per meglio riconoscere la breve misura del nostro vivere terreno. È grazie a questo slancio anti-gravitazionale che riusciamo a planare sul gorgo dei problemi quotidiani. A questo proposito, vorrei chiudere citando la breve lirica di un grande poeta contemporaneo, Giovanni Campus, il quale ci invita a riflettere sul valore esistenziale della poesia: Prosa avara del vivere, ne leggi ogni giorno una pagina. Tu stesso devi aggiungere i versi, per resistere.

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p. 7 Prefazione 13 La fabbrica della lingua italiana 33 37 40 44 47 49 52 55 58 63 67 70 76 79 82 86 89

E quindi uscimmo a riveder le stelle Nel mezzo del cammin di nostra vita Fa tremar le vene e i polsi Qui si parrà la tua nobilitate Io era tra color che son sospesi L’amico mio, e non de la ventura Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate Che fece per viltade il gran rifiuto Non ragioniam di lor, ma guarda e passa Vuolsi così colà dove si puote Or incomincian le dolenti note Amor ch’a nullo amato amar perdona Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria La bocca mi basciò tutto tremante «Colui che la difesi a viso aperto» Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto Ed elli avea del cul fatto trombetta

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Considerate la vostra semenza: fatti foste a viver come bruti ma per seguire virtute e canoscenza Capo ha cosa fatta Là dove i peccatori stanno freschi Poscia, più che il dolor, poté il digiuno Libertà va cercando ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta Che perder tempo a chi più sa, più spiace Ahi serva Italia, di dolore ostello Oh vana gloria de l’umane posse com’ poco verde in su la cima dura se non è giunta da l’etati grosse! Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Pon giù il seme del piangere e ascolta Oh insensata cura dei mortali quanto son difettivi silogismi quei che ti fanno in basso batter l’ali Che saetta prevista vien più lenta E lascia pur grattar dov’è la rogna L’aiuola che ci fa tanto feroci

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