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Italian Pages 133 Year 2006
I PROBLEMI DELLA SOCIOLOGIA
a cura di Luciano Pellicani e Paolo De Nardis
La collana ha anzitutto lo scopo di offrire al pubblico italiano degli specialisti testi di teoria sociale stranieri, classici e contemporanei, ancora inediti in Italia o comunque, se editi, oggi rari e non più reperibili. In secondo luogo vuole promuovere l’analisi di temi epistemologici, teorici ed empirici particolarmente interessanti nel dibattito nazionale e internazionale sulle scienze sociali, con particolare riguardo ai rapporti tra sociologia, storia e cultura, anche attraverso la nuove presentazione di autori italiani spesso trascurati e che invece si ritengono fondamentali dal punto di vista della storia del pensiero sociologico e della fondazione delle scienze sociali nel nostro Paese.
Niklas Luhmann
OSSERVAZIONI SUL MODERNO
ARMANDO EDITORE
LUHMANN, Niklas Osservazioni sul moderno / Niklas Luhmann Roma : Armando, c 1995 136 p. ; 22 cm. - (Sociologia) ISBN 88-7144-522-8 1. Società moderna CDD 301
Titolo originale Beobachtungen der Moderne © 1992 Westdeutscher Verlag GmbH, Opladen
Traduzione di Francesco Pistola
Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 02-01-078
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Sommario
Prefazione
I. Il Moderno della società moderna II. La razionalità europea
III. La contingenza come valore proprio della societàmoderna IV. La descrizione del futuro
V. L’ecologia del non-sapere
Prefazione
La proclamazione del “Postmoderno” ha avuto quantomeno un merito. Essa ha reso noto che la società moderna non crede più di saper fornire descrizioni corrette di se stessa. Anche queste ammettono altre possibilità. Anche queste sono diventate contingenti. Come nel mondo rischioso della metropolitana newyorchese, coloro che vogliono parlarne si affollano, pigiandosi, nei posti a ciò delegati, sotto le luci dei riflettori e davanti alle telecamere. Tutto ciò assomiglia a una sorta di lotta per la sopravvivenza intellettuale. Apparentemente, ne va solo di questo. E nel frattempo succede quello che succede, e la società si evolve allontanandosi da ciò che ha raggiunto, verso un futuro sconosciuto. Forse il termine “Postmoderno” voleva fornire solo una delle varie descrizioni del Moderno, capace di concepire la propria unità solo in senso negativo, come impossibilità di un metaracconto. Ma questa sarebbe forse una rinuncia esagerata, di fronte alle numerose e palesi urgenze attuali. Noi concediamo volentieri che non vi sia una rappresentazione obbligata della società nella società. Ma questa non sarebbe la fine, bensì l’inizio di una riflessione sulla forma delle auto-osservazioni e auto-descrizioni di un sistema, che debbono venire proposte e imposte nell’ambito di un processo, il quale a sua volta viene osservato e descritto. I testi qui pubblicati si fondano sulla convinzione che su tutto questo possa essere detto qualcosa, cioè che sono già disponibili materiali teorici e che basta inserirli in questo tema delle osservazioni del Moderno. Osservazioni sul Moderno: il titolo è volutamente ambiguo, poiché si tratta di osservazioni della società moderna attraverso la società moderna. Non vi è alcun metaracconto, poiché non vi è alcun osservatore esterno. Se noi ci serviamo della comunicazione — e come potremmo fare altrimenti? — noi operiamo sempre all’interno della società. Ma proprio questo determina strutture e conseguenze particolari, che debbono venire chiarite. Proprio questo intento è comune alle riflessioni che seguono. Si tratta di rielaborazioni di conferenze tenute senza una base testuale 7
fissa. Su «Il Moderno della società moderna» ho tenuto a Francoforte nel 1990 una conferenza in occasione del Congresso dei Sociologi. La versione qui pubblicata contiene solo poche varianti rispetto a quella pubblicata negli atti del Congresso dei Sociologi. «La razionalità europea» era il tema di un convegno su «Reason and Imagination», organizzato nell’agosto 1991 a Melbourne dagli editori della rivista «Thesis Eleven» — senza megalomaniche pretese, credo. Nello stesso periodo fui invitato dalla Monash University a tenere una conferenza con Agnes Heller. Il mio contributo rifletteva il titolo del convegno: «Contingenza e Moderno». La conferenza «La descrizione del futuro» venne tenuta nel 1991 a Lecce, in occasione della fondazione di un istituto di ricerca, il quale ha il compito di occuparsi dei problemi complessi del sud dell’Italia. Il saggio conclusivo su «L’ecologia del non-sapere» delinea prospettive di ricerca per un finanziatore non ancora identificato. Non ho modificato le ripetizioni di contenuto tra un testo e l’altro. Esse possono servire anche a chiarire dei nessi, che non è possibile inserire in una rappresentazione gerarchica o lineare. Bielefeld, novembre 1991
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NIKLAS LUHMANN
I. Il Moderno della società moderna
I
Inizio la presente e diffusa analisi del Moderno della società moderna con la distinzione tra struttura sociale e semantica. La mia preferenza per questo inizio — una preferenza la cui giustificabilità non appare evidente fin dal primo momento — può dar luogo a confusione, poiché questa distinzione contiene se stessa. Essa stessa è una distinzione semantica. Parimenti, la distinzione tra operazione e osservazione, da cui essa deriva, è la distinzione di un osservatore. Debbo limitarmi a fornire questa indicazione e ad affermare, semplicemente, che questa forma logica è la base della fecondità delle analisi che sviluppano la loro paradossalità (1). Inoltre questo punto di partenza implica sostanzialmente già tutta la teoria del Moderno. L’analisi infatti inizia non con il riconoscimento di leggi naturali note, e nemmeno con principi di ragione o fatti già assodati o indiscussi. Essa inizia con una paradossia che va risolta in un qualche modo, se si vogliono ridurre le infinite informazioni ad una quantità finita. Con ciò l’analisi reclama per se stessa le caratteristiche del proprio oggetto: il Moderno. Se si inizia con la distinzione tra struttura sociale e semantica, il sociologo non può non rendersi conto che il discorso sul Moderno viene condotto costantemente a livello semantico (2). Da quando ogni discorso sulla “società capitalistica” richiede dei chiarimenti e la discussione sulla (1) Questa presunzione corrisponde al calcolo delle forme di George Spencer Brown, che inizia con una paradossia nascosta, cioè con l’indicazione di porre una “distinction” che consista in distinction e indication, ma che sia da trattarsi come unico operatore; tutto ciò conduce alla paradossia evidente di un “reentry” della distinzione in ciò che è distinto. Cfr. Laws of Form (1569), ristampa New York 1979. (2) Si veda come esempio noto: Jürgen Habermas, Die Moderne - ein unv ollendetes Projek t, in Habermas J., Kleine politische Schriften I-IV, Frankfurt 1981, pp. 444-464; oppure Stephen Toulmin, Cosmopolis: The Hidden Agenda of Modernity , New York 1990.
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“differenziazione” ristagna, perché troppo impegnativa, manca una descrizione strutturale adeguata delle caratteristiche del Moderno. Il concetto di Moderno attraversa un momento critico anche a causa di uno spostamento di attenzione dall’economia alla cultura, su cui anche andrebbero forniti chiarimenti. E così i tentativi di caratterizzare il Moderno portano ad indicare elementi propri delle autodescrizioni sociali. Questo vale ad esempio per l’associazione del concetto di Moderno con le idee proprie dell’illuminismo della ragione. Lo stesso avviene quando si afferma che il Moderno della società è dato dall’importanza che essa attribuisce all’autodeterminazione individuale. In ambedue i sensi si denunciano lunghe serie di delusioni. Jacques Derrida ha parlato di recente di un “goût de fin sinon de mort” di questo “discours traditionnel de la modernité” (3). Altrettanto agilmente si trasferisce la descrizione del Moderno al Postmoderno. Così muta la concezione del futuro. Mentre il Moderno, diciamo, classico collocava nel futuro la realizzazione delle sue aspettative e grazie al “non ancora” del futuro poteva accantonare i problemi relativi all’autoosservazione e all’autodescrizione della società, un discorso del Postmoderno è un discorso senza futuro. Di conseguenza lo stesso problema della paradossia della descrizione del sistema compiuta all’interno del sistema (e quindi della descrizione che concorre a descrivere se stessa), deve essere risolto diversamente; e questo accade, come vediamo, nella forma del pluralismo, se non dell’anything goes. Le analisi fondate meramente sui concetti storici, per quanto istruttive possano essere nel singolo caso, prese di per sé non conducono sostanzialmente al di là di questo stato di cose. Anche se ci si riferisce, come fa Quentin Skinner, a situazioni sociali e politiche che andrebbero affrontate con dei concetti innovativi (4), le cose non cambiano; lo stesso accade se si interpretano le modifiche nell’uso dei termini o l’introduzione di nuovi termini sulla base dei sovvertimenti storicosociali, come fanno Otto Brunner, Joachim R itter o R einhart Koselleck(5). Per il gusto dei sociologi vi sono, alla base di questa operazione, rappresentazioni della società o troppo dettagliate (nel caso di Skinner) o troppo generiche (nel caso di Brunner, Ritter e Koselleck). (3) Cfr. “L’aut re cap ”, Li b er 5 (1 9 9 0 ), p p . 1 1 -1 3 , ci t . da « Le Mo n de» , 29.9.1990. (4) Si veda la discussione in Terence Ball/James Farr/Russell L. Hanson (a cura di), Political Innov ation and Conceptual Change, Cambridge England 1989. (5) Si confronti in quest’ottica il dizionario dei termini storici fondamentali, Historisches Lex ik on zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Stuttgart dal 1972; inoltre Joachim Ritter, Metaphy sik und Politik : Studien zu Aristoteles und Hegel, Frankfurt 1969.
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Per quanto riguarda la storia del termine “modernus”, si può ravvisare con chiarezza un suo uso retorico nell’antichità e nel Medioevo. La distinzione antiqui/moderni serviva allora solo per distribuire lode e biasimo, mentre l’attribuzione a questo o a quello veniva lasciata all’autore e ai suoi intenti retorici. È noto che le cose cambiarono con la stampa e con una maggiore presa di coscienza delle trasformazioni sociali, al più tardi nel Seicento, e che da allora la distinzione venne riferita alla società o a parti importanti di essa, soprattutto alle scienze e alle arti. Ma questa constatazione non ci dice molto di più del fatto che la società, che si chiamerà poi “moderna”, tenta di risolvere i suoi problemi di autodescrizione seguendo uno schema temporale. Essa non è ancora in grado di capire se stessa in maniera sufficiente, e quindi caratterizza la propria novità bollando il vecchio e nascondendo al contempo l’imbarazzo di non sapere cosa stia esattamente succedendo. Quando la società moderna definisce se stessa “moderna”, si identifica servendosi di un rapporto di differenza nei confronti del passato. Essa si identifica nella dimensione temporale. In questo non c’è innanzitutto niente di particolare. Ciascun sistema autopoietico, anche ad esempio quello della coscienza del singolo, può costruirsi un’identità solo richiamandosi costantemente al proprio passato, vale a dire distinguendo l’autoreferenza dall’eteroreferenza (6). Questo richiamo oggi avviene tuttavia non solo tramite l’identificazione, bensì tramite la de-identificazione, la differenza. Che lo vogliamo o no: noi non siamo più quelli che eravamo, e non saremo più quello che siamo. Tutto questo poi distrugge tutte le caratteristiche del Moderno, poiché anche le caratteristiche del Moderno di oggi non sono quelle di ieri e nemmeno quelle di domani, e proprio in questo consiste la loro modernità (7). I problemi della società moderna non vengono considerati come problemi della preservazione delle origini — né nell’educazione, né in altri campi. Si tratta piuttosto di una costante creazione della diversità. Sono dunque necessari dei criteri per questa diversità, non ancora definita per la mancanza di una identità. (6) Si v eda s p eci al men t e p er l a co s ci en za, Wern er Berg man n / Gi s b ert Hoffmann, Selbstreferenz und Zeit: Die dy namische Stabilität des Bewußtseins, in «Husserl Studies», 6 (1989), pp. 155-175 (166 e segg.). (7) In questo senso Franz-Xaver Kaufmann, Religion und Modernität, in Johannes Berger (a cura di), Die Moderne - Kontinuitäten und Zäsuren, Soziale Welt, in Sonderband 4, Göttingen 1986, pp. 283-307 (292), può dire: «I rapporti sociali sono moderni nei limiti in cui la loro mutabilità e conseguentemente la loro transitorietà è implicita nella loro definizione». Ma questa formulazione non si spinge ancora sufficientemente lontano. Essa va trasformata in senso “autologico”, cioè riferita anche alle caratteristiche dello stesso Moderno. Anche a questo proposito va considerato che domani l’odierno apparterrà a ieri.
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Ed è necessario un livello più alto cui collocare l’identità del non-identico. E così continuiamo a richiamarci all’umanità o alla ragione, ma non più nel senso in cui la tradizione viene naturalmente intesa, nella distinzione che viene posta tra l’uomo e le scimmie o i serpenti, bensì nel senso più sfumato di una concettualizzazione di valori che ci consenta di condannare il diverso. È facile vedere, da come questi valori vengono concretamente applicati, quanto poco essi siano adatti a fornire le basi per un giudizio sulla società moderna, o anche solo a descriverne la complessità. L’apparato semantico della vecchia Europa non costituisce più una ricchezza culturale da tutti considerata come intoccabile; tuttavia da essa non ci si vuole distaccare in maniera risoluta. La distanza temporale nei confronti della tradizione è indiscussa — e inaccettabile. Si dovrebbe poter indicare in che punti la società moderna si distingue sul piano strutturale e semantico da quelle che l’hanno preceduta; a tale scopo sarebbe però necessaria una teoria sociale che indichi in che senso questa differenza storica distingua sistemi, i quali però per certi versi sono dello stesso tipo o forse persino identici, proprio in quanto sistemi sociali. La sociologia, prescindendo dagli scrittori di stampo sociologico, ha preso poco parte alla discussione sui criteri del Moderno. In questo vi è un parallelo con la letteratura e le arti figurative, che considerano il Moderno come liberazione dell’individualità e ricerca (anche disperata), su questa base, di una possibile autenticità. Questo impulso di modernità è in questi casi talmente profondo, che senza di esso l’interazione tra produzione e teoria artistica nella sua tipica forma attuale non sarebbe nemmeno lontanamente pensabile (8). In confronto all’intensità con cui vengono vissuti e rappresentati in questo contesto la speranza e il bisogno, l’avanguardismo e il sopravvissuto, e rispetto anche al modo in cui la società moderna cerca in questo ambito di descrivere se stessa, la sociologia ha prodotto poco. Gli slogans — di concetti non è il caso di parlare — che essa produce, hanno tutti le caratteristiche di una unilateralità forzata. Si pensi solo a “società dei rischi” o a “società dell’informazione”. Manca, se si prescinde dai vecchi temi quali la differenziazione e la complessità, un’idea delle caratteristiche strutturali che — palesemente a lungo termine e non solo per il momento — distinguono la società moderna dalle formazioni sociali anteriori. (8) Si veda ad esempio Peter Bürger, Prosa der Moderne, Frankfurt 1988. Cfr. a proposito dell’origine di questo specifico stile del Moderno nel Settecento anche Siegfried J. Schmidt, Die Selbstorganisation des Sozialsy stems Literatur im 18. Jahrhundert, Frankfurt 1989.
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Proprio la sociologia però, tenuto conto della sua lunga tradizione specialistica, non può rinunciare ad un’analisi del rapporto tra struttura sociale e semantica. La continuità sul piano degli sviluppi della struttura sociale (economia monetaria, politica organizzata dallo Stato, ricerca mirante a cambiamenti nella conoscenza, mass-media, Stato di diritto, istruzione scolastica per tutti ecc. — tutti fenomeni specifici dei tempi moderni) è evidente, e con il tempo aumentano le possibilità che essa offre e i problemi che essa comporta. Discontinuità possono esservi solo nella descrizione di questi fenomeni e delle ambizioni e dei rischi che essi comportano. Con il protrarsi dell’evoluzione della struttura sociale si ha dunque una discontinuità, una, diciamo pure spaventosa discontinuità semantica. Ma per questi fenomeni manca una teoria adeguata, una semantica del rapporto tra struttura e semantica, una teoria dell’autodescrizione della società che si riproduce in strutture (9). La proposta forse più interessante si trova nella pubblicazione più recente (all’epoca del Congresso dei Sociologi del 1990) di Anthony Giddens (10). Giddens ravvisa il tratto caratteristico del Moderno in una “time-space-distanciation”: i legami reciproci di spazio e tempo si sarebbero ridotti, diventando contingenti, fondandosi dunque su accordi; e il “reflexive monitoring of action”, cioè l’intrecciarsi di decisioni operative con altre azioni o possibilità di azione, delle condizioni in cui tutto ciò avviene e delle conseguenze che ciò comporta, fanno sì che questa trasformazione abbia effetti “globali” su tutto l’ambito dell’agire. Lo stile di vita è determinato sempre meno da fatti locali. Le conseguenze riguarderebbero le strutture e le semantiche. Ma rimane da stabilire quali fattori abbiano provocato questa riduzione del legame di spazio e tempo (11). Manca una teoria sociale che sia anche solo parzialmente adeguata e non sia moderna nel senso che domani sia già superata. Questa carenza ha forse soprattutto ragioni metodologiche. La sociologia vuole infatti essere prevalentemente una scienza empirica, intendendo però poi il concetto di “empirico” in senso molto ristretto, come propri
(9) A questo proposito si veda anche Niklas Luhmann, General Theory and American Sociology , in Herbert J. Gans (a cura di), Sociology in America, Newbury Park Cal 1990, pp. 253-264. (10) Vedi The Consequences of Modernity , Stanford Cal. 1990. (11) Dal momento che Giddens respinge un’interpretazione della “differenziazione funzionale”, ponendo il concetto di società sul piano dello Stato nazionale e verosimilmente non ritenendo che il “reflexive monitoring of action” debba, in base ad una sorta di legge storica, avere questa conseguenza, rimane invero solo un’interpretazione fondata sullo sviluppo delle tecniche di comunicazione a lungo raggio. In questo caso però il passaggio all’epoca moderna inizierebbe con l’invenzione della scrittura, e il suo primo risultato sarebbe la coscienza della molteplicità dei popoli, sorta nel secondo millennio prima di Cristo in Egitto e in Asia anteriore.
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rilevamento e valutazione di dati, e dunque come interpretazione di una realtà che ci si è costruita da soli. La possibilità di descrivere fatti indiscussi con concetti teorici diversi, di presentarli diversamente ponendo altre distinzioni, non è presa in considerazione. Proprio questo metodo, che invero presupporrebbe una considerevole preparazione teorico-specialistica, potrebbe essere il più fecondo per il tema in questione. Propongo di mettere in pratica, con degli esempi, questo metodo della variazione teorica.
II
Tra le descrizioni della società moderna che la sociologia preferisce, la critica del sistema economico capitalista di Karl Marx occupava un posto di rilievo. Ciò può sorprendere, se si tiene conto dei numerosi anacronismi, e fare l’effetto di un’evocazione di fantasmi; sarebbe infatti difficile pensare di risuscitare la muscolosa metafisica del materialismo. Anche il sostrato umanistico marxista oggi appare problematico, se non come idea guida di politica sociale, quantomeno nel suo riferimento empirico. Ad esempio, l’“alienazione”. Si tratta in questo caso, se non si affrontano le cose in maniera antropologica, bensì sociologica, della tecnica finanziaria dell’economia sia aziendale che politica, cioè della possibilità di calcolare i costi materiali, il costo del credito e quello del lavoro, e su questa base determinare, a livello di contabilità sia aziendale che nazionale, quali imprese sono economicamente redditizie e quali no. È evidente che in questo contesto si prescinde dal fatto che i materiali e le persone “lavorano” in un senso del tutto diverso. Evidente è pure il fatto che a questo livello non importa cosa rappresenti il lavoro per il lavoratore. È evidente infine anche che un conto economico non può che venire effettuato in questo modo, se il lavoro viene compensato con il denaro o con altre prestazioni che hanno carattere economico, cioè se i lavoratori vivono a carico dell’economia. Si tratta dunque di un “prescindere” intrinsecamente necessario! Nello stesso senso andrà intesa la critica husserliana dello stile economico “galileiano” (12). Anche qui si tratta di prescindere da ciò che in concreto motiva la coscienza del singolo a fornire prestazioni. Anche qui vi è una discrepanza di prospettive tra la tecnica e l’individualità umana. (12) In Edmund Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in Husserliana, Vol. VI, Den Haag 1954, tr. it. La crisi della scienza europea e la fenomenologia trascendentale, Milano 1961.
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Il confronto tra Marx e Husserl è possibile solo basandosi su un concetto di tecnica più astratto. Non si tratta ovviamente di macchine con modalità di lavoro meccaniche o elettroniche. Non si tratta nemmeno di produrre semplicemente effetti voluti. Tali concezioni causal-tecnologiche finirebbero per arenarsi nelle secche della critica degli scopi e nella pretesa della sostituzione di altri scopi, come accadde a Starnberg quando si aprì il dibattito sulla finalizzazione. Non si tratta affatto di una critica della società che in questo senso abbia valenza politica. La tecnica, in senso lato, è semplificazione funzionante, è una forma della riduzione della complessità, costruibile e realizzabile, nonostante che non si conosca il mondo e la società in cui ciò avviene: la tecnica viene verificata su se stessa. L’emancipazione degli individui — si noti bene: anche degli individui non ragionevoli — è un effetto collaterale inevitabile di questa tecnicizzazione. Solo un concetto di tecnica così lato può pretendere di contribuire all’autodescrizione della società moderna. Esso rende comprensibile l’accantonamento di punti di vista e riguardi. Parimenti, esso definisce il prescindere dagli effetti sulla psicologia individuale e sull’ambiente. Esso illumina l’aspetto tecnico della scienza, in maniera del tutto indipendente dalle applicazioni delle conoscenze scientifiche ai processi di produzione (13). Esso rende comprensibile il fatto che la società moderna sia incline ad esercitare un’autocritica di tipo umanistico ed ecologico, ma anche che essa, come reazione a ciò, può servirsi solo della tecnica, nel momento in cui per esempio i problemi umani ed ecologici vengono considerati sotto l’aspetto finanziario. Così mutano anche gli imperativi sociali per l’individualità. L’interrogativo non è più: “cosa si deve essere?”, ma :”come si deve essere?”. Se l’individuo viene posto ai margini dalla tecnica, egli acquista la distanza necessaria per osservare il proprio osservare. Egli non sa più solamente di sé. Egli non attribuisce più solo a se stesso un nome, un corpo e una collocazione sociale. In tutto questo si sente minacciato. E in luogo di questo acquista la possibilità di un’osservazione di secondo livello. L’individuo nel senso moderno è colui che è in grado di osservare il proprio osservare. E chi non ci arriva, o non vi viene condotto dal proprio terapeuta, ha la possibilità di leggere romanzi e di proiettarsi su se stesso, come uno, nessuno e centomila (14). (13) Sul rapporto tra tecnica e “restrictedness” nel sistema economico si veda Arie Rip, The Dev elopment of Restrictedness in the Sciences, in Norbert Elias et al. (a cura di), Scientific Establishments and Hierarchies, in Sociology of the Sciences Vol. VI, Dordrecht 1982, pp. 219-238. (14) Cfr. l’omonima opera di Pirandello, la quale tratta dell’osservazione, in Opere, Milano 1986, vol. 2.
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Questa diagnosi non andrebbe respinta troppo rapidamente in quanto pessimistica. La si può considerare in ogni caso come indicazione della possibilità della verifica di sempre nuove combinazioni, di sempre nuove distinzioni, per cui le semplificazioni funzionanti costituiscono un presupposto imprescindibile.
III
L’accentuazione del binomio tecnica-individualità, con il quale noi ci inoltriamo nella nebbia del futuro, non deve continuare ad essere la sola descrizione del Moderno. Questa semplificazione possiamo in ogni caso evitarla. Possiamo, finché si voglia prestare attenzione alla coerenza del design teorico, scoprire ulteriori caratteristiche; e anche in questo senso può valere come punto di partenza un Marx inteso in senso non marxista. Quello che rimane di considerevole nella critica di Marx all’economia-politica dei suoi tempi, è il trasferimento, in un contesto sociale, di un sapere che prima giustificava se stesso con riferimento alla natura. L’ordine economico del capitalismo, secondo Marx, non segue la natura dell’agire economico e la sua tendenza intrinseca alla razionalità individuale e collettiva. Si tratta piuttosto di una costruzione sociale. Il riferimento alla natura viene rappresentato come “reificazione”, e analizzato quindi come momento della costruzione sociale. Alla teoria economica viene contestata la pretesa di rappresentare un’oggettività extrasociale. Essa riflette solo la logica di una costruzione sociale. Anche se si desidera abbandonare tutto il resto, questo andrebbe preservato e condotto al di là di Marx. Nelle scienze cognitive empiriche della seconda metà di questo secolo questa tesi viene sostenuta così generalmente, che essa smette di costituire un fenomeno specificamente economico o anche uno “ideologico”, condizionato da interessi. Ogni cognizione è costruzione, proprio in quanto cognizione. Che la teoria economica serva gli “interessi” dei capitalisti, intesi come classe sociale, è cosa di cui si può dubitare; altrettanto dicasi della versione più recente, secondo cui l’oggettività apparente della teoria economica serve a nascondere i rapporti di forza reali fondati sullo Stato e sul diritto. Su questo piano si può controbattere chiedendo quali interessi si servano lasciando oscuri gli aspetti fondamentali e le prospettive per il futuro. Tali controversie si possono continuare o arrestare. Tuttavia non si dovrebbe rinunciare a comprendere il fatto fondamentale che l’economia capitalistica non si basa su un’oggettività extrasociale, ma su se stessa, e che tutti i riferimenti ad 16
interessi, ai bisogni, alla natura delle cose o ai vantaggi della razionalità, sono riferimenti interni a fatti esterni; essi sono e rimangono dunque dipendenti dalla logica dell’economia monetaria. Questo vale evidentemente anche e innanzitutto per la nuova discussione suscitata da Coase (15) sui costi di transazione e la loro minimizzazione, per la problematica dell’esternalizzazione dei costi come condizione del calcolo della redditività, per l’uso di un concetto non precisato di costi di opportunità nel contesto dei calcoli del rischio (16) e in molti casi analoghi. La stessa concezione viene però formulata anche in riferimento ad altri sistemi funzionali. In questo senso, a proposito del sistema economico, si legge in Steve Fuller (17) «that reference fixing is a social fact, as in the case of a contract or a promise». Anche se oggi ci si accontenta di giustificare la società capitalistica non in riferimento alla natura, ma sulla base del successo, rimane l’elemento portante della teoria marxista e ciò che la distingue dalle teorie economiche ordinarie: l’idea che l’economia elabori da sé la propria autodescrizione, si rappresenti nella propria teoria e sulla base di questa regoli i riferimenti interni ed esterni. Il disastro delle economie socialiste insegna solo che non vi sono eccezioni a questo. La rivoluzione proletaria, che Marx vedeva avanzare, sia come azione parallela su base materiale rispetto al Geist hegeliano, sia legalmente, sia dialetticamente, sia con o senza un’attività elitaria che stimolasse la coscienza, ha dimostrato, in una sorta di costoso esperimento gigantesco, che non vi è alcuna via di ritorno verso rapporti più umani. Ciò che è economico può prodursi solo nell’economia. Se la politica vuole assumere informazioni a proposito, deve consentire all’economia di compiere il suo lavoro; in caso contrario essa vede solo, come in uno specchio, se i propri piani economici sono stati realizzati oppure no, e può poi in ogni caso cercare ancora cause e colpevoli.
IV
Una delle obiezioni più solide alla teoria sociale marxista sostiene che questa sopravvaluta l’economia, e per questo, come si vede oggi, la sottovaluta. Versioni più morbide, come quelle di Gramsci e di (15) I saggi determinanti sono raccolti in Ronald H. Coase, The Firm, the Mark et and the Law, Chicago 1988. (16) Si veda solo Aaron Wildavsky, Searching for Safety , New Brunswick 1988. (17) Social Epistemology , Bloomington Ind. 1988, p. 81.
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Althusser, non hanno cambiato la questione. Per il fatto che tutta la società viene intesa prevalentemente sotto l’ottica dell’economia, manca una comprensione sufficiente della dinamica propria dell’economia e dei suoi effetti su altri ambiti funzionali e sulle condizioni ecologiche dell’evoluzione sociale. Soprattutto però manca una comprensione adeguata di fenomeni paralleli in altri ambiti funzionali e quindi una base per comparare i sistemi e poterne ricavare le caratteristiche astratte del Moderno rintracciabili — più o meno — in tutti i sistemi funzionali. Vorrei dimostrare questo in relazione ad un problema profondo, in cui confluiscono condizioni strutturali e conseguenze semantiche. Se si descrive la società moderna, secondo la tradizione sociologica, strutturalmente come un sistema di funzioni differenziate, ne consegue che i sistemi funzionali articolati mediante differenziazione, divenuti autonomi, si distinguono (all’interno e all’esterno della società) dal loro ambiente. Una tale differenza diventa operativa attraverso la pura continuazione delle proprie operazioni. Ma queste operazioni possono essere, all’interno del sistema, solo controllate, catalogate, osservate, se il sistema — e ciascun sistema in modo diverso — dispone di distinzione tra autoreferenza ed eteroreferenza. Ciò è possibile solo sotto forma di distinzione propria del sistema, poiché altrimenti le definizioni di “auto” ed “etero” perderebbero senso. La distinzione impedisce che il sistema si confonda costantemente con l’ambiente circostante. Essa impedisce anche che il sistema confonda la propria carta geografica con il territorio o tenti di tracciare la propria carta, come ha ipotizzato Borges, in maniera così complessa da corrispondere punto per punto al territorio. Se tuttavia attraverso la distinzione ciò viene impedito, come va concepita l’unità di questa distinzione tra autoreferenza e eteroreferenza? Essa viene applicata operativamente come unità, senza essere osservabile come unità. Il sistema può oscillare tra autoreferenza ed eteroreferenza e mantenersi così aperto l’accesso all’altra delle due distinzioni. Ma l’unità della distinzione rimane in ciò presupposta come unità dello spazio immaginario delle sue possibilità di combinazione (18). Essa non viene definita tale, ma utilizzata “ciecamente” come condizione della possibilità di osservare e definire qualcosa con il suo aiuto (19). Non vi è, in altri ter(18) Si veda, a partire dalla ricerca sulla schizofrenia, anche Jacques Miermont, Les conditiones formelles de l’état autonome, in «Revue international de systémique», 3 (1989), pp. 295-314. (19) Sia la filosofia trascendentale che la teoria dialettica dello spirito oggettivo o della materia, sia Kant che Hegel e Marx avevano esattamente a questo proposito speranze che oggi non condividerebbe nessuno tra coloro che comprenda i nessi
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mini, alcun problema di referenza che sia risolvibile indipendentemente da una radicale separazione tra autoreferenza ed eteroreferenza. O, in termini ancora diversi: non vi è alcun atteggiamento comune (corretto, che corrisponda all’oggetto) nei confronti di un mondo dato a priori. Anche se sul piano operativo è inevitabile differenziare interno da esterno, una teoria (per cui ciò in ogni caso è inevitabile) può tuttavia esprimere il fatto che in ambedue i casi si tratta di referenza, dunque di osservazione. Se si vuol dire questo, bisogna operare (sottolineo: operare!) a livello di osservazione di secondo ordine. Ciò richiede specifiche misure logiche, del tipo di cui si discute oggi nella second order cybernetics (20). L’unità della distinzione tra autoreferenza ed eteroreferenza consiste perciò nella specificità delle condizioni della possibilità di un’osservazione di secondo ordine. Da quest’ottica si vede anche il profitto combinatorio che ne risulta, in quanto le operazioni del sistema osservato sono costantemente aperte a due diverse fonti di informazioni, interne e esterne (21). E così si può rilevare dall’interno una maggiore irritabilità. Si pensi alle operazioni del sistema economico connesse a pagamenti e a prestazioni materiali, esempio questo sul quale torneremo. In tutto ciò rimane impossibile discutere l’unità della forma bilaterale di una distinzione nel momento in cui ci si serve di essa. Essa resta il terzo estraneo, escluso dalla distinzione. Tuttavia si possono distinguere le distinzioni. In luogo di un impossibile controeffetto sull’ultima unità — sia questa la società o il mondo — nel sistema funzionale della società moderna subentra la distinzione fra referenza e codificazione; riferimento nel senso di distinzione tra autoreferenza ed eteroreferenza, codificazione nel senso di distinzione tra valore del codice positivo e valore
della teoria. La coscienza altissima e insuperata dell’architettura teorica che si trova in Kant ed Hegel, mostra tra l’altro che nell’epoca di stravolgimenti attorno al 1800 non si poteva in ogni caso più argomentare in maniera ingenuamente ontologica, ma che d’altra parte non si era nemmeno pronti a rinunciare alla speranza di una metafisica che si riferisse ad un mondo. Le ricostruzioni “transclassiche” della filosofia dialettica di Gotthard Günther aderiscono ancora ad una stretta corrispondenza di ontologia e logica ed esigono — proprio per questo — una logica polivalente per un’adeguata comprensione di tempo e socialità. Vedi Gotthard Günther, Beiträge zur Grundlegung einer operationsfähigen Dialek tik , 3 Voll. Hamburg 1976-1980. (20) Ci limitiamo ad osservare che non si tratta qui più della gerarchia logica dei tipi, che aveva introdotto le proprie distinzioni sul piano operativo (e non dell’osservazione), ma di un’eterarchia dell’osservare di secondo ordine con uno scambio delle distinzioni su cui ci si basa rispettivamente. (21) Si veda a proposito il capitolo “Vielfältige Versionen der Welt” in Gregory Bateson, Natur und Geist: Eine notwendige Einheit, trad. tedesca Frankfurt 1982, pp. 86 e segg.
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del codice negativo. Ambedue le distinzioni dipendono logicamente l’una dall’altra. Si pongono, come si può anche dire, in maniera “ortogonale” l’una rispetto all’altra. Questo significa che ambedue le parti della distinzione referenziale sono accessibili per ambedue i valori del codice. I valori del codice servono cioè come schematismi universali binari e al contempo specifici, che collaborano ad identificare un sistema funzionale, e al contempo sono però anche autoreferenziali ed eteroreferenziali, applicabili sia al sistema che al suo ambiente. Anche in questo caso l’unità del codice rimane un’astrazione non capace di operare. L’applicazione del codice a se stesso conduce a dei paradossi. Il mondo può essere identificato solo attraverso paradossi, quale che sia il codice dal quale si parte, cioè solo come massa di informazioni logicamente infinita (22). E anche in questo caso, un distinguere tra distinzioni, cioè tra codificazione e referenza, è tuttavia possibile. Di questa possibilità, e dello spazio che questa apre alla combinazione, la società deve accontentarsi. Essa non può più riferirsi ad un’idea conclusiva, ad un’unità capace di referenza, ad un metaracconto (Lyotard), che le prescriva forma e misura. E proprio in questo senso è fallita la semantica classica del Moderno. Queste sono innanzitutto solo asserzioni audaci e non immediatamente evidenti in un ambito in cui la sociologia non è abituata ad astrarre. Come si può convalidarle? Come si può motivatamente asserire che esse ci aiutano a fornire una descrizione adeguata del Moderno del sistema sociale della nostra epoca? Che essa corrisponda alla logica del sistema della differenziazione funzionale, è cosa cui ho accennato. In questo senso si tratta di una riformulazione estensiva del concetto di autonomia di sistemi parziali aventi funzioni specifiche, la quale è alla base di tutte le distinzioni che vengono applicate in questi sistemi. Con questo l’onere della prova viene solo trasferito alla questione dibattuta se si possa intendere la differenziazione funzionale davvero come organizzazione di sistemi parziali autonomi, operativamente chiusi, anziché, come si faceva prima, come vantaggio della ripartizione
(22) Le moderne analisi teoriche dell’informazione considerano proprio questa infinità come punto di partenza per delle limitazioni che hanno effetti “creativi”, ma che sono anche instabili nel tempo. Vedi Klaus Krippendorf, Paradox und In f o rm at i o n , i n Bren da Derwi n / Mel v i n J . Vo i g t (a cura di ), Pro g res s i n Communication Sciences vol. 5, Norwood N. J. 1984, pp. 45-71. Per quanto riguarda il tema dell’acquisizione strutturale dato dall’impossibilità di distinguere vedi anche Robert Platt, Reflex iv ity , Recursion and Social Life: Elements for a Postmodern Sociology , in «The Sociological Review», 37 (1989), pp. 636-667. Un’altra possibilità è di distinguere, in tutti i sistemi funzionali, le codificazioni che danno luogo all’identità e la programmazione per una corretta ripartizione dei valori del codice con valore vincolante limitato nel tempo.
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del lavoro con effetti positivi limitati. Invece di continuare a puntare su tale questione, vorrei proporre di analizzare la rilevanza di questa distinzione tra referenza e codificazione per le discussioni teoriche attuali, le quali procedono parallelamente, a causa degli schemi delle discipline accademiche e della distinzione tra sistemi funzionali, cui sono subordinate. Procedendo in questo modo si diventa presto produttivi. Per quanto riguarda innanzitutto la conoscenza in generale e il sistema scientifico in particolare, il problema del riferimento si trova oggi al centro della discussione. Persino di “semiotica” si parla nel frattempo in un senso che non presuppone più rapporti fissi, in senso temporale e intersoggettivo, tra segno e referente (23). Si sposta così tendenzialmente il punto di partenza dalle teorie della corrispondenza alle teorie costruttivistiche. Il nesso di definizione, valido per il positivismo, tra (etero)riferimento, senso e verità è stato messo in crisi dall’efficace critica di Quine (24). Con ciò si può considerare fallito un (temporaneamente) ultimo tentativo di far coincidere per tutti senso ed essere. Ma come conseguenza ci si è inizialmente gettati nella controversia teorica priva di senso tra teorie “realiste” e “costruttiviste”. La solita tiepida risposta ad un problema mal posto è poi che il costruttivismo non è possibile se non è contemperato dal realismo. Questa controversia è sbagliata già solo in base al fatto che nessun costruttivista — né i rappresentanti dello strong programme di Edimburgo, né Piaget o von Glaserfeld, né la teoria evoluzionistica della conoscenza di provenienza biologica o non biologica, né la second order cybernetics di Heinz von Foerster — metterebbe in discussione il fatto che le costruzioni debbano venire realizzate attraverso operazioni concrete che si adattino all’ambiente. Di queste operazioni fanno parte nel sistema scientifico soprattutto le pubblicazioni; la realizzazione di queste pubblicazioni è già stata analizzata in modo più preciso, ed è stata persino definita come “making reference” (25). (23) Cfr. ad es. Dean MacCannell / Juliet F. MacCannell, The Time of the Sign, Bloomington Ind. 1982. Una rappresentazione più nota di questa erosione di ogni referenza (o “rappresentazione”) è Richard Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton 1979; tr. it. La filosofia e lo specchio della natura, Milano 1986. (24) Vedi in particolare l’influente saggio The Two Dogmas of Empiricism (1951), ristampato in Willard van O. Quine, From a logical Point of View, 2a ediz. Cambridge Mass. 1961, pp. 20-46. Il parallelo francese è nella linguistica di Saussure, che esclude risolutamente ogni eterorerefenza, e nelle radicalizzazioni di Derrida. (25) Charles Bazerman, Shaping Written Knowledge: The Genre and Activ ity of the Ex perimental Article in Science, Madison Wisc. 1988, p. 187 e segg.. Questa analisi che muove dalla retorica, che riferisce del riferire e si considera pertanto testo (p. 291), apre anche l’accesso alla ricerca sociologica parallela.
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Non appena si distingue tra problemi di referenza e problemi di codice, i rapporti si ridefiniscono in un nuovo ordine. La distinzione tra verità analitiche e sintetiche deve essere abbandonata, come ha già proposto Quine (26). Essa può direttamente essere sostituita da autoreferenza (=analitico) ed eteroreferenza (=sintetico). Solo così la distinzione tra referenza e codificazione può generare effetti, e si vede che i valori positivi/negativi del codice sono applicabili come vero/falso sia ai contenuti materiali intesi come eteroreferenziali, che a quelli intesi come autoreferenziali. Queste verità che hanno solo senso come analitiche non sono solo il risultato di un’impostazione strumentale, non sono solo un modo di arrivare ad una prova, di creare un modello ecc., prima di iniziare con una ricerca vera e propria, cioè empirica. Esse sono piuttosto l’ambito in cui l’autoriflessione del sistema può riconoscere la propria base paradossale e risolverla con l’aiuto dell’asimmetria tra sistema e ambiente, nel senso di autoreferenza ed eteroreferenza. Nel contesto dell’autoreferenza si può riflettere che anche la distinzione tra autoreferenza ed eteroreferenza costituisce ancora una distinzione propria del sistema, distinzione che noi abbiamo sotto gli occhi come conseguenza dello sviluppo mediante differenziazione e della chiusura del sistema. Da un punto di vista logico ciò conduce alla problematica, nota da Gödel in poi, dell’impossibilità di garantire a se stessi di non cadere in contraddizione. Da un punto di vista di teoria del sistema, questo conduce alla prova di Ashby, secondo cui l’autoorganizzazione non è possibile senza ambiente (27). In matematica ciò spinge a pensare di riferire tutte le forme matematiche ad un’unità originaria di autoriferimento e distinzione (e dunque alla condizione della possibilità dell’osservare) (28). Ma anche senza un tale impiego di argomentazioni, è innanzitutto ragionevole pensare che l’autoreferenza sia possibile come forma se vi è ancora qual cos’al t ro da cui esso possa veni re di st i nt o, ci oè appunt o dall’eteroreferenza. Queste riflessioni liberano infine il codice binario della verità dal suo essere ancorato a sicurezze preconstruttivistiche, siano queste le presunzioni sulla natura o sulla natura dell’uomo (idee), oppure le teorie (26) Ibidem. (27) Vedi W.
Ross Ashby, Principles of the Self-Organizing Sy stem, in Heinz von Foerster / George W. Zopf (a cura di), Principles of Self-Organization, New York 1962, pp. 255-278; ristampato in Walter Buckley (a cura di), Modern Sy stems Research for the Behav ioral Scientist: A Sourcebook , Chicago 1968, pp. 108-118. (28) Vedi Louis Kauffmann, Self-reference and Recursiv e Forms, in «Journal of Social and Biological Structures», 10 (1987), pp. 53-72.
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linguistiche, razionalistiche o consensualistiche che da esse derivano(29). La verità è dunque nient’altro che il valore positivo, il valore di designazione di un codice, il cui valore negativo (valore di riflessione) è la falsità. La peculiarità della conoscenza scientifica consiste allora nel sottoporre tutte le osservazioni, che hanno la pretesa di trasmettere sapere, ad una seconda osservazione, con l’ausilio appunto di questo codice binario e nell’integrare i risultati nel sistema, nei limiti in cui questo è possibile (il che significa solamente: sottoporre a reciproche limitazioni). Con questo tutto ciò che può essere vero e falso viene trasportato sul piano dell’osservazione delle osservazioni, e su questo piano riformulato. A ulteriori garanzie si può rinunciare, così come anche l’economia ha imparato a tutelare il denaro non più con qualsivoglia riferimenti esterni, bensì solo con il controllo (a sua volta monetario, influente sul prezzo del denaro) della quantità di denaro attraverso la Banca Centrale. Se noi ora volgiamo lo sguardo verso altri sistemi funzionali, notiamo problemi del tutto simili. Nel sistema giuridico si discute dall’inizio del secolo su una contrapposizione tra giurisprudenza dei concetti e giurisprudenza degli interessi, come se la teoria del diritto dovesse scegliere tra l’una e l’altra delle due versioni. Nel frattempo questo quadro è stato rivisto in molti modi. Si sa che questa messa in contrasto e la tesi di una svolta storica non soddisfa i criticati giuristi dei concetti (30). Si sa che una concettualità specificamente giuridica è imprescindibile nella prassi della giurisprudenza per pervenire ad astrazioni, a possibilità di confronto dei casi, a regole e a distinzioni giuridicamente rilevanti. Altrettanto chiaro è oggi che una giurisprudenza degli interessi che si fondi su se stessa non tutela affatto tutti gli interessi nella stessa misura, ma solo gli interessi meritevoli di tutela. Ad una prassi che si orienta unilateralmente verso gli interessi resta allora solo la tautologia, per cui solo gli interessi giuridicamente meritevoli di
(29) In particolare su questo sviluppo Ian Hacking, Why Does Language Matter to Philosophy , Cambridge Engl. 1975. Di questo contesto fanno parte anche i tentativi di indebolire criteri di verità razionalistici o consensualistici combinandoli nel modo da renderli razionalmente accettabili. Si veda ad esempio Hillary Putnam, Vernunft, Wahrheit und Geschichte, Frankfurt 1982, oppure Jürgen Habermas, Theorie des k ommunik ativ en Handelns, 2 voll., Frankfurt 1981; tr. it., Teoria dell’agire comunicativ o, Bologna 1986. (30) Cfr. ad esempio Ulrich Falk, Ein Gelehrter wie Windscheid: Erk undungen auf den Feldern der sogenannten Begriffsjurisprudenz, Frankfurt 1989, oppure, per le controversie del nostro secolo, la polemica di Eduard Picker, Richterrecht oder Rechtsdogmatik - Alternativ en der Rechtsgewinnung?, in «Juristenzeitung», 43 (1988), pp. 1-12, 67-75.
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tutela godono della tutela giuridica (31). E corrispondentemente resta la forma consueta della ponderazione di interessi priva di un programma che consenta di valutare giuridicamente. Per noi è ora semplice vedere che abbiamo sotto gli occhi la versione giuridica specifica della distinzione tra autoreferenza ed eteroreferenza (32) . L’orientamento verso i concetti rappresenta l’autoreferenza, l’orientamento sull’effetto di concetti giuridici, costruzioni giuridiche e decisioni concrete in merito ad interessi rappresenta l’eteroreferenza del sistema. Come nel caso della distinzione tra concetto di verità analitica e sintetica, ci si può limitare ad una tale distinzione, come se si potesse scegliere tra una parte e l’altra. Sono in gioco piuttosto ambedue le parti, e conseguentemente il codice lecito/illecito è applicabile in un contesto tanto etero quanto autoreferenziale. Avevamo già visto che vi sono interessi conformi al diritto e interessi non conformi al diritto. I rapporti sono più complicati nel contesto dell’autoriferimento del sistema. Sarebbe inusuale parlare di concetti conformi e non conformi al diritto. La ragione è che i concetti giuridici debbono collaborare a fornire un fondamento alle decisioni conformi al diritto circa il lecito e l’illecito. Essi rendono operativa l’applicazione, in definitiva paradossale, del codice giuridico su se stesso; il sistema infatti ritiene lecito (e non illecito) il poter decidere tra ciò che è lecito e ciò che è illecito. Proprio a causa di questa necessità di rendere invisibile la paradossia e di fornire un’immagine positiva, rimane non chiarito lo stato giuridico dei concetti giuridici (33). Senza dubbio essi costituiscono uno strumento imprescindibile quando si tratta di organizzare la coerenza del
(31) Uno dei maggiori rappresentanti della giurisprudenza degli interessi, Roscoe Pound, si avvicina spesso pericolosamente a questa tautologia. Nella sua opera principale Jurisprudence, 5 voll., St. Paul Minn. 1959, si dice ad esempio: «A legal system attains the ends of the legal order (1) by recognizing certain interests, individual, public and social; (2) by defining the limits within which those interests shall be recognised and given effect through legal precepts and applied by the judicial (and today the administrative) process according to an authoritative tecnique; and (3) by endeavouring to secure the interests so recognized within defined limits» (Vol. 3, p. 16). Evidentemente però i criteri per il riconoscimento o il non-riconoscimento che hanno peso decisivo in giurisprudenza non possono essere di nuovo desunti dagli stessi interessi. La società produce interessi che non sono già a priori divisi in base a questa distinzione. Il sistema giuridico deve quindi offrire di più di una semplice registrazione di interessi. Ma da dove viene questo “di più”? (32) Su ques t o v edi p i ù det t ag l i at amen t e Ni k l as Luh man n , In t eres s e un d Interessenjurisprudenz im Spannungsfeld v on Gesetzgebung und Rechtsprechung, in «Zeitschrift für Neuere Rechtsgeschichte», 12 (1990), pp. 1-13. (33) Sostengo questo, nonostante dall’Ottocento vi siano delle tendenze ad
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decidere e con questa la legittimità del distinguere tra lecito e illecito. La loro funzione dovrebbe essere quella di garantire la coerenza dell’uso della distinzione tra lecito e illecito in casi diversi. Qualora si distinguesse coerentemente tra referenza e codificazione, ciò avrebbe conseguenze di ampia portata per il sistema giuridico e la teoria del diritto. Come nella teoria della scienza, la struttura complessa sarebbe più evidente di un ordine autoreferenziale che sviluppa la paradossia di base; da questo poi si capirebbe anche meglio, in base a quali interni prerequisiti e autolimitazioni il sistema è in condizione di distinguere nel contatto con l’esterno tra interessi legittimi e illegittimi. Un ultimo esempio verrà preso dal sistema economico. La discussione più recente è dominata dal concetto di transazione (34). È naturale vedere nelle transazioni le ultime, non più scomponibili unità del sistema economico (35). Ma il concetto della transazione è a sua volta un concetto complesso, e se si osserva meglio si vede che esso presuppone la separazione tra referenza e codificazione. I riferimenti sono, come sempre, distinti in autoriferimento ed eteroriferimento. L’autoriferimento viene riprodotto attraverso il pagamento in denaro. La procedura di pagamento trasporta la capacità e l’incapacità di pagare del sistema. Essa garantisce che nel momento successivo vi sia di nuovo la capacità di pagare e la necessità di denaro, anche se volta per volta in mani diverse. Il pagamento in tal senso realizza l’autopoiesis del sistema, la possibilità infinita di ulteriori operazioni dello stesso sistema(36). Con il medium del denaro e con le forme in esso inserite
attribuire lo status di fonte giuridica anche alla dogmatica giuridica formulata concettualmente. Vedi ad esempio Neil MacCormick, Legal Reasoning and Legal Theory , Oxford 1978, p. 61; Michel van de Kerchove / François Ost, Le sy stème juridique entre ordre et désordre, Paris 1988, pp. 128 e segg.. Sarebbe forse meglio mettersi d’accordo e stabilire che il sistema giuridico stesso, solo nella fattualità del suo operare come fonte di diritto, è da considerarsi tale. (34) Ciò in realtà prevalentemente solo in relazione a delle differenze nei costi della transazione e senza un chiarimento sufficiente della concettualità implicita (denaro, necessità, temporalità, dipendenza dal codice ecc.) (35) Così ad esempio Michael Hutter, Die Produk tion v on Recht: Eine selbstref eren t i el l e Th eo ri e der W i rt s ch af t , an g ewan dt auf den Fal l des Arzneimittelpatentrechts, Tübingen 1989, p. 131. A mo’ di chiarimento vi è scritto: «Le transazioni sono, viste dall’interno, comunicazioni (pagamenti), viste dal di fuori trasferimenti di prestazioni». Con ciò, quello che noi trattiamo come problema del riferimento, viene rappresentato come problema di un osservatore, che può oscillare tra prospettiva interna ed esterna. E quest’osservatore può anche essere lo stesso sistema economico. (36) Su ques t o p i ù det t ag l iat amen t e Ni k l as Luh man n , Di e W i rt s ch af t der Gesellschaft, Frankfurt 1988.
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(prezzi), il sistema rinvia a se stesso. L’altra parte della transazione muove prestazioni in beni o in servizi. Qui si tratta della soddisfazione di bisogni. E quindi di autoreferenza. I bisogni infatti debbono essere situati all’esterno del sistema economico, anche se la stessa economia crea costantemente nuovi bisogni, ad esempio di investimenti per l’industria. La transazione è sempre, nelle sue due parti, un procedimento economico completamente interno e non qualcosa che potrebbe venire effettuato per metà fuori e per metà dentro. Essa però non sarebbe possibile (come tutte le operazioni in sistemi autoreferenziali chiusi), se non costruisse ambiente, se non rinviasse all’ambiente. Come negli altri casi, si tratta di una costruzione che darà risultati buoni o non buoni all’interno del sistema. Se i bisogni sono stati valutati adeguatamente o inadeguatamente, risulta nella contabilità economica interna, a livello sia aziendale che nazionale e internazionale. Ma si resta ad un controllo delle proprie valutazioni attraverso i propri risultati. Un sistema non apprende mai che cosa i bisogni “siano veramente”. Questa associazione di riferimenti interni ed esterni funziona solo in quanto il sistema dispone di un codice binario. Oggi si discute di questo spesso sotto il punto di vista dei “property rights”. In parole più semplici, si tratta del fatto che si può prendere parte a una transazione solo se qualcosa si ha (cioè denaro o beni), e qualcos’altro non si ha (cioè beni o denaro). Questo codice di avere/non avere è ortogonale rispetto alla distinzione dei riferimenti. Il sistema, come è facile comprendere, potrebbe facilmente non funzionare, se attribuisse l’avere a se stesso e il non avere all’ambiente. La sua prestazione d’ordine si fonda, come nei casi discussi finora, sulla differenza tra le due distinzioni. Solo attraverso ciò si acquista quello spazio combinatorio, inserendosi nel quale il sistema può evolvere e costruire o disfare ordini complessi. E come anche negli altri casi, non viene fornita così alcuna garanzia di razionalità, di progresso, anche solo per un definitivo bilancio globale positivo del benessere sociale. Queste analisi hanno conseguenze considerevoli per ciò che nella società moderna si riesce a concepire come razionalità. I concetti di razionalità della tradizione vivevano di significati dati a priori dall’esterno, perché basati o su una riproduzione delle leggi naturali, o su scopi indicati a priori o su valutazioni per la scelta degli scopi anch’esse aprioristicamente fondate. Con la secolarizzazione della concezione religiosa del mondo e con la perdita di rappresentatività delle impostazioni che detenevano il monopolio del giusto, questi apriorismi perdono il loro fondamento. I giudizi sulla razionalità debbono pertanto essere svincolati dai significati dati a priori dall’esterno, e venire applicati a una unità di auto26
referenza ed eteroreferenza producibile sempre solo all’interno del sistema. Qui, se non prima, diventano chiari i collegamenti con le analisi che vengono attualmente condotte sotto l’infelice pseudonimo di “Postmoderno”. Secondo un giudizio errato, che si continua a sentire, alimentato da alcuni punti deboli della discussione, si arriverebbe così all’arbitrarietà. Gli esempi tratti da singoli sistemi funzionali dovrebbero però bastare, per respingere questa previsione (37). E proprio all’analisi sociologica non dovrebbe risultare difficile dimostrare che nella realtà non è possibile vi sia arbitrarietà. Balza necessariamente all’occhio il fatto che l’analisi che precede tratta di sistemi funzionali molto diversi, la cui autonomia rispetta la chiusura operativa e la diversità specifica, e tuttavia scopre punti di convergenza nelle strutture di base. Nonostante ogni differenza, i sistemi funzionali rimangono comparabili. Ciò si spiega solo in quanto si tratta di sottosistemi di un sistema sociale, che ricevono la loro forma propria attraverso la forma di differenziazione di questi. Da ciò possiamo dunque desumere una peculiarità costante della società moderna, anche se e proprio perché questa pecularità è dimostrabile solo nei sistemi funzionali.
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Se si osservano nell’insieme i risultati di queste analisi, si nota che essi tolgono fondamento al contrasto tra Moderno e Postmoderno. Sul piano strutturale non si può parlare semplicemente di una tale cesura. Si può dire tutt’al più che quelle conquiste dell’evoluzione, che distinguono la società moderna da tutte le società che l’hanno preceduta, vale a dire il pieno sviluppo dei media della comunicazione e la differenziazione funzionale, partendo da modesti inizi hanno raggiunto dimensioni che pongono la società moderna su un piano di irreversibilità. Essa oggi dipende, quasi senza via di uscita, da se stessa. Da ciò consegue, sul piano semantico, un bisogno di recupero. Se per Postmoderno si intende la mancanza di una descrizione del mondo unitaria, di una ragione che vincoli tutti o anche solo un modo di porsi nei confronti del mondo e della società da tutti considerato come giusto, questo è proprio il risultato delle condizioni strutturali, alla mercè delle quali la società pone se stessa. Essa non tollera alcuna idea definitiva, e pertanto non tolle(37) Anche Giddens, ibidem (1990), in particolare a pag. 149 e segg., oppone al co n cet t o di Po s t mo dern o un co n cet t o di Mo dern o radi cal i zzat o e o p t a p er quest’ultimo.
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ra alcuna autorità. Essa non conosce posizioni dalle quali la società potrebbe essere descritta in maniera vincolante per altri all’interno della società. Non si tratta pertanto di una emancipazione verso la ragione, bensì di una emancipazione dalla ragione, e questa emancipazione non deve essere perseguita, bensì è già avvenuta. Chi si ritiene sempre ragionevole e lo dice, viene osservato e decostruito. Ma anche ad una sociologia che dicesse la stessa cosa capiterebbe lo stesso. Quindi ci si può solamente chiedere, se nel corso di una tale osservazione dell’osservare si determinano situazioni peculiari stabili, che nelle condizioni date non mutano più. Ma in luogo dell’uno subentrano semplicemente i molti? L’unità del mondo e l’unità della società si dissolvono irreversibilmente in una molteplicità di sistemi e discorsi? Il relativismo, lo storicismo, il pluralismo, costituiscono le risposte definitive, quelle a cui si pensava quando si parlava ancora di libertà? E questo proprio nel momento storico in cui l’unità della società mondiale è diventata inevitabile, al punto che questa non tollera più due diversi ordini economici, il capitalista e il socialista? Forse si può sviluppare questo paradosso, e risolverlo, distinguendo tra operazione e osservazione (38). L’operazione della comunicazione sociale produce l’unità del sistema sociale, rifacendosi ad altre comunicazioni sociali o anticipandole, e dando così luogo a una differenza tra sistema e ambiente. Essa, eseguendo l’osservazione — la quale deve distinguere questa comunicazione da altre o dal sistema del proprio ambiente riprodotto attraverso essa — esegue un’operazione, che a sua volta si espone a un’osservazione, e così via. L’atto di osservare deve e può scegliere delle distinzioni, e può essere osservato in rapporto alle distinzioni scelte o anche in rapporto a quelle che evita di scegliere(39).
(38) Che con questo si risolva una unità di fondo, ma proprio per questo paradossale, verrà spiegato solo sotto forma di annotazione. Quando infatti si tratta di sistemi sociali, e quindi di comunicazione, ogni operazione è al contempo osserv azione (in relazione alla distinzione tra informazione, atto del comunicare e comprensione) e come esecuzione osservabile dell’osservazione operazione. Simili rapporti concettuali si trovano nel calcolo delle forme di George Spencer Brown, Laws of Form — ristampa New York 1979 — nel rapporto tra distinction e indication. In questo caso il calcolo mostra anche che e come il paradosso, che all’inizio rimaneva non preso in considerazione, possa venire recuperato a un livello adeguato di complessità del calcolo e accolto nella forma con la figura del re-entry nella forma. Per l’applicazione di quest’idea nel contesto terapeutico, nel quale da molto tempo ci si interessa alla ricostruzione dei paradossi, vedi Fritz B. Simon, Unterschiede, die Unterschiede machen: Klinische Epistemologie: Grundlage einer sy stemischen Psy chiatrie und Psy chosomatik , Berlin 1988. Cfr. anche Jacques Miermont, Les conditions formelles de l’état autonome, in «Revue international de systémique», 3 (1989), pp. 295-314. (39) Cfr. in merito Jacques Derrida, De l’esprit: Heidegger et la question, Paris
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Questa è la fonte del relativismo. Ogni osservazione rimane dipendente dalla distinzione, mentre la distinzione non può essere osservata nell’uso. (Essa non possiede una determinazione locale, dice Gregory Bateson (40); essa serve all’osservazione come un punto cieco, dice Heinz von Foerster (41); essa non si trova né dalla sua parte, né da un’altra parte, dunque non si trova da nessuna parte che potrebbe essere utilizzata per un’operazione di richiamo). E poiché sono disponibili distinzioni in gran numero e la stessa cosa può essere distinta in modi molto diversi, non vi è una realtà indipendente dall’osservazione data a priori (42). Per questo abbiamo dovuto distinguere — dovuto distinguere! — tra problemi di referenza e di codice (problemi di definizione e di distinzione). Pertanto rimane, se si vuole comprendere quale sia il caso, solo la possibilità di attenersi all’esecuzione operativa delle osservazioni, cioè di osservare gli osservatori considerando di quali distinzioni essi si servono e quale parte delle loro distinzioni essi contrassegnano (43), per iniziare da lì (e non dall’altra parte) ulteriori operazioni. Quello che viene costruito come realtà è in definitiva garantito solo dall’osservabilità delle osservazioni. Si tratta di una garanzia solida, poiché anche le osservazioni sono osservazioni solo quando vengono eseguite come operazioni; ed esse non lo sono, se non vengono eseguite. La modernità specifica di questa osservazione di secondo ordine consiste solo nel fatto che essa non dipende più da un mondo comune, non è più predisposta ontologicamente, bensì si chiede, anche se non prioritariamente, cosa possa vedere e cosa non possa vedere un osservatore con le sue distinzioni (44). Ci tro-
1987; tr. it. Dello spirito. Heidegger e la questione, Milano 1989; e anche il modo piuttosto semplicistico con cui i marxisti ancora poco tempo fa dicevano di essere stupefatti del fatto che le teorie “borghesi” non ammettono che essi optano per il capitalismo. (40) Cfr. Gregory Bateson, Geist und Natur: Eine notwendige Einheit, Frankfurt 1982, p. 122. (41) Vedi Heinz von Foerster, Sicht und Einsicht: Versuche zu einer operativ en Erk enntnisstheorie, Braunschweig 1985. (42) Cfr. anche Niklas Luhmann, Erk enntnis als Konstruk tion, Bern 1988; dello stesso autore, Die Wissenschaft der Gesellschaft, Frankfurt 1990. (43) Riferito alla distinzione linguistica tra contrassegnato e non contrassegnato. Vedi ad es. John Lyons, Semantics Bd. 1, Cambridge Engl. 1977, p. 305 e segg.. (44) Si tratta, come è facile vedere, di un interesse “autologico”, che coinvolge se stesso. Infatti anche la distinzione poter-vedere/non-poter-vedere è una distinzione con la quale si esclude ciò che con essa non si può vedere. (Ciò sia detto contro la frettolosa speranza di una liberazione totale attraverso una presa di coscienza del non-poter-vedere, dunque in un contesto psicologico: chiedendosi quale sia l’effetto terapeutico).
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viamo nel paese del sospetto del motivo, del romanzo, della critica ideologica, della psicoterapia. Ci troviamo così anche, a prescindere da questi casi particolari già verificati, nell’ambito di quel meccanismo con cui la società moderna esperimenta quelle forme che in queste condizioni possono affermarsi. Quali forme potrebbero essere queste? Anche se l’autodescrizione della società si nutre ormai solo di una rete di ricorsi dell’osservazione di osservazioni, ci sarebbe da attendersi che effettuando queste operazioni emergano valori peculiari, cioè posizioni, che in un ulteriore atto di osservare l’osservazione non mutano più, ma restano stabili (45). Questi valori peculiari nella società moderna non sono tuttavia più oggetti dell’osservazione diretta. Essi non possono essere presentati come identità di cose, poiché un altro osservatore può sempre vedere in maniera diversa. Non li si trova a maggior ragione nemmeno negli ultimi postulati normativi (ragionevolmente motivabili); infatti anche la lista di tali postulati lascia sempre aperto lo spazio al quesito critico di un altro osservatore: Chi dice questo? Al servizio di quali interessi sono? Chi ne ha bisogno? Nell’Ottocento era stato nullificato il vecchio concetto di natura con la distinzione tra essere e validità. Ma questa distinzione nel nostro caso non ci aiuta ulteriormente, poiché in ambedue gli ambiti noi esperimentiamo che sul piano dell’osservazione di secondo ordine tutte le asserzioni diventano contingenti; e che ci si può chiedere, per ogni osservazione, anche per quelle di secondo ordine, quale distinzione essa applichi e cosa, in conseguenza di ciò, resti per lei invisibile. Ciò lascia supporre che i valori peculiari della società moderna debbano essere formulati nella forma modale della contingenza (46). Quello che resta è un minimo di ordine “negentropico”, cioè un ordine con alternative collegate. I valori di questo si trovano in “punti” o anche in “funzioni”, che vengono occupati in modi sempre diversi, ma non arbitrariamente. La stabilità viene poi garantita dal fatto che per qualsiasi cosa noi troviamo vi sono solo limitate possibilità di sostituzione. Si può traslocare, ma solo se si è trovato un altro appartamento. Se non è più possibile o non è più consentito l’uso individuale dell’auto, occorre sostituirla con altri mezzi di trasporto. Non ci si può accontentare, in sostituzione, di sedie a dondolo. Analogamente risulta (45) Vedi con osservazioni prese dalla matematica Heinz von Forster, ibidem, in particolare p. 207 e segg.. Circa l’applicazione al sistema scientifico cfr. anche Wolfgang Krohn / Günter Küppers, Die Selbstorganisation der Wissenschaft, Frankfurt 1989, p. 46 e segg., 134 e segg.. (46) Vedi in merito «La contingenza come valore proprio della società moderna», infra.
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difficile immaginarci la nostra società senza Stato, senza leggi, senza denaro, senza ricerca, senza comunicazione di massa. Le funzioni di questa portata giustificano ordini autosostitutivi. Ed è difficile immaginarsi un ordine sociale del tutto privo di sistemi funzionali sviluppati mediante differenziazione, vale a dire trovare un’alternativa alla funzione della differenziazione funzionale. In via di principio è possibile ovviamente pensare anche a valori peculiari che costituiscano punti di appoggio solo temporanei in questa complessa e profonda situazione. Ma la loro eliminazione condurrebbe ad una “catastrofe”: catastrofe nel senso stretto della teoria del sistema, come passaggio brusco ad altre forme di stabilità. Tra i modi peculiari della società moderna vi è anche il poter pensare e comunicare tutto questo. Ma in tal caso non si tratterebbe solo di equivalenti funzionali, bensì di una “società alternativa”, in un ambito immaginario privo della forza di gravità, in cui tutte le distinzioni sono eliminate e l’unità del sistema riposa in se stessa senza differenza nei confronti dell’ambiente. La società moderna del tipo che noi conosciamo deve la propria dinamica alla forma dei suoi valori peculiari. Tutto ciò che lei pone come identità serve a predisporre possibilità di scambio e di sostituzione, ad attendere opportunità. Di ciò fa parte anche il poter scambiare i fondamenti, nelle descrizioni del mondo e nelle autodescrizioni della società, ad esempio sostituendo il concetto di sostanza con quello di funzione, o l’idea di un apriori come parametro determinante con dei processi storici di autovincolo temporaneo dei sistemi. La conseguenza inevitabile è che, come ha insegnato il Romanticismo, non ci si può più fidare della teatralità del mondo. Questo si intromette in maniera diabolica negli eventi ancora così razionali (48). Il sistema referenziale della poesia assegna a se stesso la priorità rispetto a qualsiasi eteroreferenza, ma solo per lasciarla emergere nella sua ambiguità. E questa a sua volta fu la soluzione di un altro problema, di un problema di tempo. Del futuro infatti si può solo sapere che sarà diverso dal passato. Pertanto ogni induzione è insufficiente, tutte le forme recano un indice temporale, e il presente diventa un valore limite, che è portatore dell’unità della differenza tra passato e futuro, e proprio per questo nel tempo funge da terzo escluso e non può più venire localizzato. E tutto questo si sa, senza che lo sappia la sociologia, da duecento anni. «Noi proveniamo — si legge in Novalis — dal tempo delle forme sempre valide» (49). (48) Cfr. E.T.A. Hoffmann, (49) Frammen t o n . 2 1 6 7
Klein Zaches, genannt Zinnober. s eco n do l a n umerazi o n e del l ’edi zi o n e di Ewal d Wasmuth, Fragmente II, Heidelberg 1957.
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II. La razionalità europea
I
Quale che sia il giudizio che si vuole dare della situazione culturale della società odierna, è certo che ciò che appare specificamente moderno è stato plasmato dalle tradizioni europee. A livello strutturale si può dubitare per molte ragioni se e fino a che punto sia stato realizzato il cambiamento da una differenziazione del sistema sociale da primariamente stratificato a primariamente funzionale. Lo sviluppo in questa direzione è però partito dall’Europa. A livello semantico si possono valutare in maniera diversa la resistenza delle culture antiche, il loro futuro, la loro capacità di risorgere e di imporsi contro la pretesa di essere “moderne” in senso europeo. Ma solo l’Europa ha fornito delle descrizioni del mondo e della società che tengono conto dell’esperienza di un totale rifacimento strutturale della società dal tardo Medioevo. L’etichetta geografica “Europa” è ovviamente una denominazione derivante dall’imbarazzo. Inoltre essa simula unitarietà, laddove a prima vista si vedono solo differenze. Lo sguardo si ferma così solo alla superficie delle manifestazioni. Si tenterà qui dunque di mostrare l’unità distinta della tradizione europea sul tema della razionalità. Si tratta innanzitutto dell’unità dello sviluppo storico-semantico che ha accompagnato il passaggio all’epoca moderna. Questo processo commenta se stesso e oscilla tra autosostituzione (via via con definizioni quali critica, nichilismo, Postmoderno) e rinnovamento utopistico. Ma anche questa “scissione” può ancora essere considerata come unità, vale a dire come processo di apprendimento sul fenomeno non compreso della società moderna. E per noi unità è al contempo unità distinta, in quanto essa si distingue da ciò che ancora oggi rientra in concetti di razionalità di origine extraeuropea. Riprendendo questa autovalutazione, che è ancora da chiarire, si potrebbe arrivare a sostenere che la razionalità europea si distingue da 33
altre semantiche ad essa paragonabili per la sua familiarità con le distinzioni. Ciò può condurre ad una rielaborazione della propria storia, nel senso ad esempio della logica e della teoria della storia di Hegel, ed anche ad una molteplicità di altre distinzioni, che spaccano la razionalità stessa o la distinguono da altri orientamenti verso il mondo del sentimento o dell’immaginazione parimenti legittimi. Questo conduce infine alla tesi secondo cui solo partendo da questa razionalità conscia della distinzione si può osservare e descrivere la differenza della semantica europea rispetto alle altre semantiche del mondo. L’ammirazione per la Cina nel secolo dei lumi non sarebbe dunque stata un caso. E il vantaggio della riflessione della razionalità europea non dovrebbe significare che la riflessione conduce ad una superiorità di cui ci si vuole autoilludere, ad un eurocentrismo che si autovaluta. Sarebbe pensabile anche il contrario, ad esempio come ammirazione per l’ingenuità e autenticità di descrizioni del mondo di altra origine a noi ormai precluse (1). Tutte queste sono tuttavia innanzitutto solo vaghe supposizioni. Molto dipende quindi dal fatto di riuscire o meno, e in che modo, a descrivere concettualmente in maniera più precisa questa caratteristica specifica di una razionalità che si orienta verso la distinzione.
II
La storia della razionalità europea può essere descritta come storia della disgregazione di un continuum di razionalità, il quale aveva collegato l’osservatore nel mondo con il mondo. Se l’osservatore viene visto come essere pensante (animal rationale), si tratta allora della convergenza di pensiero ed essere. Se egli viene visto come essere agente, si tratta della convergenza tra agire e natura, e dunque di scopi dati dalla natura. In ogni caso l’insieme delle cose e dei punti finali dei movimenti (téle) regge ciò che accade al mondo. L’attività dell’intelligenza mira, secondo l’insegnamento aristotelico-tomistico, ad rem, e termina lì. E la possibilità di intendere come ordine visibile ciò che è e accade, o di ricondurlo
(1) Un aspetto di questa necessità (di ripristino) dell’autenticità è trattato da Dean MacCannell, Staged Authenticity : Arrangements of Social Space in Tourist Settings, in «American Journal of Sociology», 79 (1973), pp. 589-603. Ma qui si possono includere anche gli sforzi artistici di raggiungere l’autenticità, la spontaneità dell’espressione, la non-riflessione del venire osservato, gli happenings, le performances, le installazioni ecc. . Cfr. ad esempio le rappresentazioni di Frederick Bunsen in Niklas Luhmann / Frederick D. Bunsen / Dirk Baecker, Unbeobachtbare Welt: Über Kunst und Architek tur, Bielefeld 1990, p. 46 e segg..
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secondo la fede cristiana al sapere e alla volontà del Creatore, consente di dichiarare giusta la convergenza. Ens et verum et bonum convertuntur, come si diceva nella dottrina della trascendenza. Secondo un antico insegnamento non solo l’essere, ma anche la natura contiene elementi la cui essenza consiste nel poter riflettere il proprio essere e la propria natura. Ciò non richiede alcun punto di vista al di fuori dell’essere o della natura. A questo si riferiva l’attribuzione della razionalità. È facile vedere che con ciò è stato descritto un ordine sociale che attribuisce migliori possibilità di razionalità a parti della società, alla vita di città o a quella dei nobili. Questo è riconducibile, sia tramite analogie che tramite un’architettura gerarchica del mondo, ad un quadro generale, nel quale alla ragione è spettata la rappresentazione del tutto nel tutto. La disgregazione di quest’ordine inizia forse già col nominalismo del tardo Medioevo, in ogni caso nel diciassettesimo secolo (2). La crescente complessità strutturale della società condusse, attraverso le spinte ad una maggiore coerenza causate dalla stampa dei libri, a dei dissensi nella descrizione, a delle guerre di verità (3), o anche ad uno scetticismo umano, che intendeva lasciare direttamente aperta la questione della verità. Tuttavia non si poteva lasciare irrisolta la definizione del ruolo della razionalità che doveva essere vincolante per tutti (4). Rorty non era
(2) Sottolineo: la disgregazione. La rielaborazione del concetto di razionalità nel 17esimo secolo, soprattutto ad opera di Cartesio, era già reazione, vale a dire riconsolidamento sulla base della differenza. Perciò non posso ritenere decisiva la differenza tra il 16esimo e il 17esimo secolo su cui tanto insiste Stephen Toulmin in Cosmopolis, The Hidden Agenda of Modernity , New York 1990. Non è ovviamente contestabile il fatto che le guerre civili e lo scetticismo filosofico del 16esimo secolo resero evidente il bisogno di riconsolidamento, e dalla metà del secolo lo avviarono anche, pure se inizialmente non con una nuova concezione della razionalità. Si pensi al Concilio di Trento, all’opera didattica dei gesuiti, alle riforme della giustizia francesi, alla revisione della semantica nobiliare, che inizia in Italia, al lavoro di raffinamento dei concetti giuridici per raggiungere una maggiore eleganza e semplificazione o alla dottrina della ratio status e della sovranità dei centri decisionali dello Stato. (3) Questa formulazione si trova in Herschel Baker, The Wars of Truth: Studies i n t h e Decay o f Ch ri s t i an Hum an i s m i n t h e Earl i er S ev en t een t h Cen t ury , Cambridge Mass. 1952, ristampa Gloucester 1969. (4) Tra le proposte più interessanti in merito alla struttura, ma inascoltata e non rintracciabile quasi nemmeno più nelle biblioteche, vi è quella di Emeric Crucé, Le nouv eau Cy née ou Discours d’Estat, Paris 1623, cit. in base alla nuova edizione di Filadelfia 1909: l’umanità è più importante della spiegazione dei misteri della religione, si dovrebbe credere in Dio ma non alle norme di fede; e si dovrebbe far sì che la nobiltà si occupi di economia, anziché di far valere le proprie ambizioni e di pensare alle guerre.
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ancora nato. I tentativi di ricostruzione si susseguivano. Dal 17esimo secolo si parla (con coscienza critica del problema) di “ontologia” (5). Pensiero ed essere appaiono all’inizio separatamente sotto forma di ontologie condotte parallelamente, così che il pensiero può occuparsi di idee vere e false: del loro essere vere o false, io penso! Gli scopi vengono pensati come selezionabili, così che ci si debba chiedere quali siano i motivi e gli interessi e la natura venga ridotta a parametri esteriori. La fede nella ragione del 18esimo secolo si fonda già su delle differenze. L’illuminismo vede se stesso in un mondo da illuminare. Esso rende irrazionale tutto ciò che gli si contrappone. Accanto alla ragione vi è la storia, accanto a Newton Münchhausen, accanto alla razionalità il piacere, accanto alla modernità caratterizzata dal lavoro, dalla lingua e dalla scienza, vi è la fantasia del Romanticismo, che rappresenta l’unità del mondo solo come teatralità, come incantesimo, del quale si presuppone che ad esso non si creda. La definizione di razionalità passa a manifestazioni di razionalità ad alto livello, che coprono ancora solo fenomeni parziali, che orientano solo sistemi funzionali della società, ad esempio la razionalità dell’economia nel rapporto tra scopi e mezzi o la razionalità scientifica dell’applicazione corretta delle leggi naturali, o la razionalità giuridica della decisione in base a delle leggi, o di esperienze di decisioni concrete fissate in concetti affinché restino. Infine si creano diversi tipi di razionalità — ad esempio, la razionalità dello scopo e la razionalità del valore — senza neppure porsi l’interrogativo in base a quali criteri di razionalità ambedue gli aspetti di queste e simili distinzioni meritino la definizione di razionalità. Siamo a Max Weber e a Jürgen Habermas. Anche in questo caso viene posta alla base, come schema dell’impostazione del problema, la tradizionale distinzione di soggetto e oggetto o la distinzione della fattualità dell’agire e delle pretese normative. E anziché dubitarne, si preferisce accettare una pluralità delle forme della razionalità. Sempre più, dall’Ottocento in poi, ci si è abituati a lavorare con distinzioni, senza porsi l’interrogativo circa l’unità della stessa distinzione. Il narratore mette in scena il racconto — sia romanzo, sia storia del mondo — nel quale egli stesso non appare più e, come si può osservare nel caso di Hegel, non può più apparire (6). Parimenti il fisico nell’“univers auto-
(5) Vedi documentazione in U. Wolf, alla voce “Ontologie” in Historisches Wörterbuch der Philosophie, vol. 6, Basel 1984, col. 1189-1200. (6) Vedi Dietrich Schwanitz, Rhetorik , Roman und die inneren Grenzen der Ko m m un i k at i o n : Zur s y s t em t h eo ret i s ch en B es ch rei b un g ei n er Problemk onstellation der “sensibility ”, in «Rhetorik», 9 (1990), pp. 52-67. È noto che, dopo la parodia di questa nuova apparizione nel testo di Tristram
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mate” (7) della fisica classica non ha più posto; fisicamente non appare più, né come osservatore, né come attore. Innumerevoli distinzioni esplicite, quali materia e spirito, Stato e società, società e comunità, individuo e collettività, capitale e lavoro, servono come strumenti di analisi, con l’opzione lasciata aperta (o derivante apertamente o velatamente) in favore di una delle due parti. Le distinzioni politicizzate basate sul programma della Rivoluzione Francese o del movimento socialista usano lo stesso stile dell’occultamento della questione dell’unità. L’olismo diventa un’opzione intellettuale (8). In questo contesto anche la stessa razionalità può essere fatta diventare la componente di una distinzione, il cui rovescio della medaglia deve essere qualcosa di irrazionale, ad esempio il piacere, la fantasia, l’immaginazione (9). Ma forse che l’irrazionale serve solo come difesa di un inadeguato concetto di razionalità (10)? L’unilateralità dell’attribuzione di razionalità, così come la rinuncia a chiedersi cosa sia dunque l’unità delle distinzioni usate volta per volta, riflettono l’incapacità della società moderna di riflettere la propria unità. Questo può dipendere dalla forma della differenziazione, riferita alle funzioni, la quale non consente più alcun punto di riferimento fisso per la descrizione della società nella società. Alla fine del nostro secolo queste soluzioni intermedie, continuamente scambiate, non soddisfano più. Si parla in termini generalissimi di una “erosion of the validity of former cultural oppositions” e si richiede corrispondentemente un passaggio da quesiti circa il “cosa” a quelli circa il “come” (11). E così non interessa solo ciò
Shandy, soprattutto Jean Paul non ha inteso rinunciare a questa possibilità, a discapito della fluidità della narrazione del romanzo; o anche, nella “Loggia invisibile”, con la conseguenza dell’impossibilità di concludere. (7) Così Ilya Prigogine, La lecture du complex e, in «Le genre Humain», 7/8 (1983), pp. 221-233 (223). In maniera più dettagliata, sulla critica a questa classica concezione del mondo senza fisici Ilya Prigogine / Isabelle Stengers, La nouv elle alliance, Paris 1979. (8) Esso diventa un’opzione che al contempo viene per lo più consigliata come la migliore. Vedi a titolo di esempio Friedrich Schlegel, Signatur des Zeitalters (1823), cit. da Dichtungen und Aufsätze (a cura di Wolfdietrich Rasch), München 1984, pp. 593-728. (9) Si tratta di temi ai quali si interessa Michel Maffesoli. Si veda ad esempio L’ombre de Diony sos: Contribution à une sociologie de l’orgie, Paris 1982; dello stesso autore La connaissance ordinaire: Précis de sociologie compréhensiv e, Paris 1985. (10) «Irrationality tends to be invoked to protect the too narrow definition of rationality», afferma anche Mary Douglas, Risk Acceptability According to the Social Sciences, New York 1985, p. 3. (11) Così nel contesto di una semiotica considerata da un punto di vista interdisciplinare Dean Mac Cannell, The Time of the Sign: A Semiotic Interpretation of Modern Culture, Bloomington Ind. 1982, citaz. p. 18.
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che viene distinto, ma primariamente come viene distinto e chi distingue. In ogni caso, nella misura in cui la riflessività sociale, il mettersi nei panni degli altri, il riguardo per le loro forme di reazione, diventano componenti della decisione in merito all’agire, l’idea di una ragione che possa garantire l’unità e la certezza della visione del mondo ne risulta sepolta (12). Che fine ha fatto dunque l’osservatore? il narratore? il poeta in un mondo già suddiviso? colui che descrive? colui che usa la distinzione per distinguere e definire qualcosa? colui, al quale si potrebbe chiedere: perché così, perché non in un altro modo? Una possibilità è il definirlo come soggetto extramondano. Ciò conduce però solo all’interrogativo su chi lo possa osservare e come lo si possa osservare, se egli non appare nel mondo. Un’altra possibilità è di ignorarlo, poiché è evidente che tutti gli osservatori debbano osservare nello stesso modo, in ogni caso se il loro pensiero è corretto e se il loro agire deve essere ragionevole. Questo conduce alla famosa e oggi quasi non più accettata congruenza di referenza, senso e verità, come da ultimo l’ha rappresentata l’empirismo logico. Con ciò si presuppone che il mondo sia lo stesso per tutti gli osservatori e che esso sia determinabile (e non ad esempio che esso, nei limiti in cui è determinabile, è ogni volta un mondo diverso per osservatori diversi e, nei limiti in cui esso è lo stesso mondo, rimane indeterminabile). Per Husserl vi è ancora un nesso tra la trascendentalità della coscienza come soggetto e la determinabilità del mondo (13), sia che il soggetto garantisca questa determinabilità come aspetto delle prestazioni della sua coscienza, sia che il fenomeno della determinabilità universalmente data consenta l’induzione nei confronti della trascendentalità della coscienza. Il tentativo forse più importante di costruzione postontologica dell’osservatore può essere descritta come filosofia dell’immediatezza. Essa va dal take off della logica hegeliana, alla tesi di un’autorelazione diretta (non riflessa), fino alla filosofia della vita (14), alla filosofia (12) «... the reflexivity of modernity actually subverts reason, at any rate where reason is understood as the gaining of certain knowledge», dice anche Anthony Giddens, The Consequences of Modernity , Stanford Cal. 1990, p. 39. (13) «L’indeterminatezza significa necessariamente determinabilità di uno stile rigidamente prescritto», si legge in Edmund Husserl, Ideen zu einer reinen Ph än o m en o l o g i e un d p h än o m en o l o g en i s ch en Ph i l o s o p h i e, v o l . 1 , i n Husserliana, vol. III, Den Haag 1950, p. 100 (corsivo di Husserl); tr. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Torino 1965, p. 94. (14) Se intende rappresentare l’immediatezza del rapporto esistenziale, la filosofia della vita non può più partire dalla distinzione vita/morte, bensì si mette alla ricerca di altri concetti opposti — come la meccanica, il sistema, eventualmente anche la razionalità.
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dell’esistenza, all’analitica del Dasein di Heidegger, fino alla filosofia del segno, che cerca nella diretta comprensione dei segni la soluzione solo temporaneamente possibile dall’infinito rinvio ad altri segni (15). Dapprima la critica radicale di Derrida alle premesse della presenza tenta di introdurre un superamento di questa tradizione. Con qualche pretesa in meno ci si può anche chiedere se l’immediatezza stessa non venga espressa già sempre tramite la distinzione diretto/indiretto e all’osservare (all’esperimentare, al comprendere) diversamente non può avvenire. Una possibilità ulteriore è il compromesso più facile: mettersi d’accordo sul “pluralismo”. Così si inizia, e si evita, la decostruzione della distinzione tra soggetto e oggetto. A ogni soggetto viene concesso il proprio punto di vista, la propria visione del mondo, la propria interpretazione — come fa Wolfgang Iser — ma solo nei limiti concessi dal mondo, dal testo ecc., altrettanto “oggettivi” (16). Analogamente la nuova epistemologia, cedendo a considerazioni inevitabili, consente il “costruttivismo”, ma non senza un certo riguardo nei confronti della realtà (17). Nella teoria del diritto Ronald Dworkin afferma che i problemi giuridici, anche in “hard cases”, possono avere un’unica soluzione giusta volta per volta, e fonda su questa tesi il ricorso nel diritto a principi morali (18). Come si è poi visto, questo non deve significare, ad esempio, che questa correttezza della soluzione possa essere provata (19). È dunque evidente solamente che un giurista, che prenda sul serio il diritto, debba avere il dono di una sufficiente incomprensione per le opinioni altrui. Difficilmente il razionalismo occidentale, nella sua fase finale, può mettere a nudo le proprie debolezze in maniera più evidente. Infine, una volta messo in dubbio tutto questo, si può arrivare a pensare che l’osservatore non vada osservato. L’osservatore deve definire quello che egli osserva, cioè distinguerlo da tutto il resto, che rimane fuori come “unmarked space”. Egli stesso scompare così in un “unmarked space”, o, per dirla con altre parole, egli può osservare solo dall’“unmarked space”, nel momento in cui egli distingue ciò che osser(15) Così Josef Simon, Philosophie des Zeichens, Berlin 1989. (16) Vedi in merito Stanley Fish, Why no One’s afraid of Wolfgang
Iser, in Stanley F., Doing What Comes Naturally : Change, Rhetoric, and the Practice of Theory in Literary and Legal Studies, Oxford 1989, pp. 68-86. (17) Vedi tra i molti Mary Hesse, Rev olutions and Reconstructions in the Philosophy of Science, Brighton 1980. (18) Vedi Ronald Dworkin, No Right Answer? in P.M.S. Hacker / J. Raz. (a cura di), Law, Morality , and Society : Essay s in Honor of H.L.A. Hart, Oxford 1977, pp. 58-84. (19) Ronald Dworkin, The Law’s Empire, Cambridge Mass. 1986, pp. VIII e segg..
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va da tutto il resto, e dunque anche da se stesso. Non diversamente accadrebbe se egli indicasse in se stesso l’oggetto della propria osservazione. Ciò vale almeno nel caso in cui l’osservare disponga solo di una logica bivalente. Infatti, in questo caso ambedue i valori logici di cui dispone l’osservatore, vengono consumati dal semplice fatto che egli con essi definisca l’una o l’altra parte della distinzione. Per la definizione della distinzione stessa e a partire dalla definizione di ciò che essa usa, mancano allora le possibilità logiche (20). Si debbono quindi trattare le distinzioni e l’osservatore come semplici oggetti, che da parte loro vengono distinti con l’ausilio di distinzioni non esplicabili. Ma se si volesse osservare e descrivere come una distinzione viene applicata in quanto distinzione o come un osservatore in quanto osservatore definisca una e non l’altra parte di una distinzione (anche se potrebbe farlo in maniera diversa), si avrebbe bisogno di un insieme di strumenti logici fortemente strutturati. E fino a questo momento tale insieme non è disponibile, o in ogni caso non lo è in senso estremamente formale. Comunque sia: alla fine del nostro secolo si può formulare il problema in maniera più precisa di quanto sia stato possibile finora (21). Storicamente si vede una chiara corrispondenza tra la supposizione tradizionale di un mondo descrivibile ontologicamente — cioè con l’ausilio della distinzione tra Essere e Non-essere — e di uno strumentario logico solo bivalente. Ciò presuppone una società in cui le differenze tra le descrizioni del mondo e della società non siano troppo grandi e in cui vi siano dei punti fissi indiscutibili — ai vertici o al centro del sistema — dai quali si possano emettere decisioni vincolanti. Il resto è dunque corruzione, errore, abbaglio. Materialmente si vede che nel frattempo si sono sviluppate delle possibilità per cui non vi è ancora una logica, e nemmeno un’epistemologia riconosciuta. Si tratta di possibilità di osservazione di osservatori, possibilità della cibernetica di secondo ordine. Se si rinuncia alla supposizione di un punto di osservazione parallelo su di un mondo comune, ci si deve innanzitutto chiedere se è possibile che qualcuno agisca razionalmente quando viene osservato (22). Per l’osservatore dell’osservatore dovrebbero esserci limitazioni delle sue
Questo è il tema di Elena Esposito, L’operazione di osserv azione: Teoria della distinzione e teoria dei sistemi sociali, tesi, Bielefeld 1990. (21) Si veda in particolare George Spencer Brown, Laws of Form, ristampa New York 1979; Heinz von Foerster, Observ ing Sy stems, Seaside Cal. 1981; Gotthard Günther, Beiträge zur Grundlegung einer operationsfähigen Dialek tik , 3 voll., Hamburg 1976-1980. (22) Cfr. s u quest o di b at t ut i s s imo p ro b l ema Nig l e Ho ward, Paradox es of Rationality : Theory of Metagames and Political Behav ior, Cambridge Mass. 1971. (20)
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modalità di reazione, che l’osservatore di primo ordine con ambizioni razionali possa mettere in conto. In relazione a questo problema la razionalità dipenderà da segni istituzionali o da garantirsi tramite contrattazione, la cui razionalità propria (metarazionalità) difficilmente potrà però trovarsi nella razionalità che essa rende possibile. A ciò si aggiungono problemi assai più radicali, che non hanno a che vedere solo con la divergenza di interessi e scopi, bensì con la struttura dello stesso osservare. Un osservatore può osservare un altro osservatore (che può essere egli stesso) in relazione a ciò che egli può vedere e a ciò che egli non può vedere. Riferito agli strumenti di osservazione, cioè alle distinzioni di cui si serve un osservatore per definire ciò che egli osserva, si perviene così ad un relativismo teorico della differenza. Si vede ciò che si può definire con determinate distinzioni, le quali specificano ambedue gli aspetti (ad esempio buono/cattivo; più/meno; prima/dopo; manifesto/latente). Non si vede ciò che nel contesto del distinguere non funge né dall’uno né dall’altro aspetto, bensì da terzo escluso. L’osservatore stesso è sempre il terzo escluso. Egli è, come dice Michel Serres (23), il parassita delle sue osservazioni. Ma proprio questo può essere visto e definito a sua volta da un altro osservatore (un critico dell’ideologia, uno psicoanalista, in breve: un terapeuta), anche se sempre come ulteriore osservatore, che vede solo quello che vede, e non vede quello che non vede (24). In questo modo si possono tematizzare anche i danni della razionalità, il male che nasce proprio dal calcolo razionale e dalle migliori intenzioni; il “rational fool” (25) o, per dirla con Paul Valéry: la «méchanceté de celui qui a raison» (26). Finora non si è riusciti a far sì che questo interesse all’osservazione di ciò che un osservatore non può osservare venga fatto oggetto di studio di teoria della conoscenza. La cosiddetta “disputa per la sociologia del sapere” venne condotta dietro il presupposto di cui si era già discusso a suo tempo nel Teeteto: che vi possa essere solo una verità, così che le asserzioni, che le asserzioni vere definiscono false, non danno luogo a due verità, ma potrebbero contribuire in ogni caso a chiarire gli errori. (23) Le Parasite, Paris 1980. (24) In merito anche Niklas
Luhmann, Wie lassen sich latente Struk turen beobachten? in Paul Watzlawick / Peter Krieg (a cura di), Das Auge des Betrachters Beiträge zum Konstruk tiv ismus: Festschrift für Heinz v on Foerster, München 1991, pp. 61-74. (25) Amartya K. Sen, Rational Fools: A Critique of the Behav ioral Foundations of Economic Theory , in «Philosophy and Public Affairs», 6 (1976-77), pp. 317344. (26) Da Mélange, cit. da Oeuv res, Vol. 1, Paris (éd. de la Pléiade) 1957, p. 329.
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Anche la psicoanalisi non è mai stata riconosciuta come teoria della conoscenza, ma nel migliore dei casi come scienza di una prassi terapeutica. Corrispondentemente sono considerati meritevoli di critica il “relativismo”, lo “storicismo” ecc., e la molteplicità “postmoderna” (in verità però: moderna) dei discorsi, il deconstruttivismo e l’“anything goes” possono attirare l’attenzione solo come “gaia scienza”, e stilizzarsi anche come tale. Comunque queste forme di rappresentazione nel frattempo sono così diffuse che ci si può chiedere se il problema non sia piuttosto dalla parte della teoria della conoscenza e dei suoi strumenti logici, allorché queste manifestazioni vengono ancora trattate come devianti.
III
Forse vi sono dei blocchi epistemologici derivanti dalla tradizione che impediscono si vada avanti (27). Di questi potrebbero far parte le seguenti supposizioni: 1. che la conoscenza in sé sia razionale; 2. che l’apprendere lo stato del sistema insegni ciò, e migliori il suo adattamento all’ambiente, e non lo peggiori; 3. che più comunicazione e comunicazione socialmente riflessa (ad esempio nel contesto ampio di dinamica di gruppo) contribuisca all’accordo, anziché avere l’effetto opposto; 4. che la razionalità potrebbe venire concepita sotto forma di un programma, ad esempio come massimizzazione dell’utile o come accordo ragionevole. Già la nota problematica dell’aggregazione sociale delle preferenze individuali fa apparire opinabili queste tesi. Lo stesso vale se si considerano le ristrette condizioni della “quasi-decomponibilità” (near-decomposability), cioè, secondo la più recente terminologia, la “reconstructability” dei sistemi (28). Può darsi che ci leghi a queste premesse un senso di razionalità non ancora sviluppato. Ma cosa si dovrebbe fare allora quando la discrepanza nei confronti delle moderne strutture della società fa sì che da queste premesse ricaviamo sempre più delusioni? Se il conoscere, l’apprendere, il comunicare costituiscono volta per volta un operare con le distinzioni, e dunque secondo la nostra terminologia un osservare, si potrebbero compiere progressi esigendo razionalità in (27) Il concetto di ostacles épistémologiques deriva da Gaston Bachelard, La formation scientifique: Contribution à une Psy choanaly se de la connaissance objectiv e, Paris 1938, ristampa 1947, p. 13 e segg.. (28) Vedi in merito il n. 1 vol. 4 (1990) della «Revue international de systémique».
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particolare a proposito delle distinzioni. Ci muoviamo pertanto non da una specifica forma di programma (v. sopra n. 4), per la quale non possono essere fornite ragioni ulteriori che conducano all’evidenza (29), bensì dalla collocazione dell’osservare a un livello di secondo ordine. Iniziamo l’analisi tornando di nuovo al vecchio continuum della razionalità europea. Lo avevamo caratterizzato in relazione a due distinzioni: come armonia tra pensare ed essere e tra agire e natura. Finché il mondo viene presupposto come ordine, come kósmos, come creazione, come armonia, l’attenzione si rivolge all’armonia e al suo eventuale insuccesso, che va poi trattato come errore o come difetto. Pensare e agire sono poi volta per volta oggetti di una logica a doppio valore, che osserva il proprio oggetto con l’aiuto della distinzione tra valore positivo e valore negativo. Se invece si osserva la distinzione tra pensare ed essere o tra agire e natura, ideata per la convergenza (e “per ideata per la convergenza” dice che non si può trattare della distinzione tra un valore positivo e uno negativo), si nota qualcosa di sorprendente. Per raggiungere la convergenza con l’essere, il pensare stesso deve essere. Esso non deve volatilizzarsi nella pura autoreferenza di un soggetto extramondano, ma deve lasciarsi condizionare. E l’azione, per raggiungere la convergenza con la natura, deve essere essa stessa natura, cioè deve realizzare la sua propria natura e non solo la volontà, che vuole qualsiasi cosa essa voglia. La parte riferibile all’uomo di queste distinzioni principali, il pensare o rispettivamente l’agire, era privilegiata rispetto all’altra parte: essa stessa era ciò da cui essa si doveva distinguere. Nonostante tutta l’accentuazione dell’unità del mondo come natura o come creazione e nonostante tutte le teorie che hanno cercato di realizzarla, vale a dire le teorie della rappresentazione dell’essere nel pensare o dell’imitazione della natura nell’atto artistico, nella vecchia concezione del mondo europea era insita una “rottura della simmetria”. Per l’osservatore era prevista una posizione privilegiata. Il continuum della razionalità era pensato come asimmetrico. La posizione preferita però, che contiene se stessa e il proprio opposto, era quella dell’uomo intento a costruire il mondo. In tal senso la vecchia tradizione europea ha ragione a considerarsi “umanistica”. Questo è osservabile anche da un punto di vista di teoria del sistema. Le perdite di simmetria nell’attuale teoria dei sistemi sono notoriamente considerate come condizioni della costruzione evolutiva di strutture sistemiche complesse (30). Da un punto di vista della teoria della distinzione ciò significa che la distinzione nel distinto può esservi di nuovo, Un’obiezione contro questo concetto di razionalità può essere vista anche nel fatto che esso ha dato luogo a due diverse versioni: massimizzazione dell’utile e intesa ragionevole, tra le quali non vi è ponte possibile. (29)
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e precisamente dall’una, ma non dall’altra parte. La distinzione rientra in se stessa. Essa compie, nella concettualità del calcolo delle forme di George Spencer Brown, un “re-entry” della forma nella forma (31). Anche la semiotica più recente si trova proprio in questa situazione. Essa si fonda sulla distinzione tra segno e significato. Ma essa sa anche, da Saussure in poi, che questa distinzione non ha alcuna referenza esterna, bensì descrive solo il modo di funzionare della lingua, il modo di elaborare le distinzioni. Ma si deve in base a questo accettare l’arbitrarietà di trattare retoricamente i segni privi di referenza? Oppure la soluzione consiste nel fatto che proprio la distinzione tra segno e significato può essere adoperata solo con le necessarie ridondanze e a seconda delle tradizioni? (32) Ma allora si dovrebbe poter definire l’unità di questa distinzione come temporalmente e materialmente non applicabile. Questo ci conduce alla forma, per noi nel frattempo divenuta usuale, della definizione di segno come differenza tra segno e significato. Anche il segno costituirebbe pertanto una distinzione, che riappare di nuovo in se stessa (33). Da ciò ora si desume un potenziale autocritico, autodecostruttivo di una tale “second semiotic”, che è costretta ad applicare a se stessa la sua distinzione principale, altrimenti non potrebbe definire la propria forma (34). Vedi in merito all’irreversibilità come rottura della simmetria tra passato e futuro Ilya Prigogine, Vom Sein zum Werden: Zeit und Komplex ität in den Naturwissenschaften, trad. tedesca, München 1979; dello stesso autore, Order out of Chaos, in Paisley Livingston (a cura di), Disorder and Order: Proceedings of the Stanford International Sy mposium (Sept. 14-16 1981), Saratoga Cal. 1984, p. 41-60. (31) Vedi ibidem (1979), p. 56 e seg., 69 e segg.. In Spencer Brown invero la portata di questo concetto non è del tutto visibile. Ulteriori usi diventano possibili se ci si rende conto che l’autoreferenza è determinato dal distinguere, così come al contrario il poter distinguere è determinato dall’autoreferenza. Poi si può dimostrare che il copiare la forma nella forma è alla base anche del fenomeno della simmetria e del fenomeno della ripetizione e quindi di ogni infinito ordinato, se cioè il processo circolare viene ripetuto sufficientemente spesso, in modo che i percorsi perdano la loro distinguibilità. Vedi Louis H. Kaufmann, Selfreference and Recursiv e Forms, in «Journal of Social and Biological Structures», 10 (1987), pp. 53-72. (32) Vedi le obiezioni a Saussure di Roman Jakobson, Zeichen und Sy stem der Sprache (1962), cit. da Roman Jakobson, Semiotik : Ausgewählte Tex te 19191982, Frankfurt 1988, pp. 427-436; tr. it. Segno e sistema del linguaggio in, dello stesso autore, Lo sv iluppo della semiotica, Milano 1987, pp. 99-109. (33) Dal punto di vista della formulazione tecnica questo si può evitare — ma con ciò il problema non è risolto, ma reso solo invisibile — se si definisce il segno come distinzione tra significante e significato (signe, signifiant, signifié) (34) Vedi Dean MacCannell / Juliet F. MacCannell, The Time of the Sign: A Semiotic Interpretation of Modern Culture, Bloomington Ind. 1982. Similmente già Julia Kristeva, Semeiotik è: Recherches pour une Sémanaly se, Paris 1969, ad es. p. (30)
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Sono dati sorprendenti, enigmatici, che dissolvono tutte le categorie con cui la tradizione ha lavorato su una supposta base ontologica, in quanto le leggono come distinzioni (35). Il pensare, che deve distinguersi dall’essere, per poterlo osservare e definire, è esso stesso la distinzione tra pensare ed essere. Esso “è” “pensare”. E l’agire, che la natura confronta con un procedimento, il quale senza l’intervento di un’azione non potrebbe avvenire, e quindi mira alla devianza, determina esso stesso la distinzione tra agire e natura. Potrebbe darsi che in questa figura del reentry della forma nella forma si nasconda il problema centrale della razionalità europea e al contempo la ragione, in base alla quale la distinzione dovette diventare riflessiva — e pertanto instabile — nella sua parte di re-entry, e abbia portato infine alla luce quelle figure assolutistiche del pensiero e della volontà in cui la semantica europea del soggetto compie la rottura con la propria tradizione e al contempo conferma a se stessa che così non può andare. Ma cos’è esattamente che non ha funzionato? Forse è solo l’umanesimo di questa tradizione, il suo essere legato a concetti antropologici, che non sopporta l’impulso del re-entry. Forse il pensare e l’agire sono inadatti a sopportare in sé il ritorno di ciò da cui dovrebbero distinguersi. Forse è solo l’individualismo antropologico, acuitosi dal Settecento in poi, che fa apparire incomprensibile come qualcuno possa agire razionalmente, dovendo presupporre che altri seguano la stessa regola, per i quali proprio la violazione della regola dovrebbe essere razionale (36). E forse è solo la plausibilità in via di sparizione delle descrizioni umanistiche del mondo e della società che ci ha condotti in questa strettoia. Forse l’uomo esplode solo nella presunzione di essere soggetto del mondo, e poi lascia dietro di sé miliardi di individui concreti che come tali vanno di nuovo presi sul serio. E forse è stata l’ultima 19, 21 e segg., 278, allo scopo di superare la struttura del segno con una “sémanalyse” orientata verso la sua pratica (il suo lavoro) operativa(o), senza con questo rinunciare ad essa. (35) Che vi siano tentativi di restituzione fondati sull’argomentazione secondo cui proprio questo renderebbe visibile che non si può fare a meno di metafisica, è un fatto di cui si deve tener conto. Vedi solo per il caso del “segno” Josef Simon, ibidem (1989); o con riferimento alla filosofia trascendentale Gerhard Schönrich, Zeichenhandeln: Untersuchungen zum Begriff einer semiotischen Vernunft im Ausgang von Ch.S. Peirce, Frankfurt 1990. (36) Qui anche le teorie dettate dall’imbarazzo pongono un istinto sociale naturale, una “simpatia” naturale, un’adesione alle regole coordinata e garantita dall’“immaginazione”, con cui Hutcheson, Hume e Smith cercarono di fornire una spiegazione. Una volta di più si vede qui quali sforzi debbano venire compiuti per sostenere un concetto di razionalità fin dall’inizio insufficiente.
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pretesa esterna nei confronti dell’uomo, quella di essere emancipato, il che presuppone che lo si veda come schiavo e non nella sua individualità. Osserviamo innanzitutto il calcolo delle forme, dal quale prendiamo la figura del re-entry. Spencer Brown usa (e ciò consente l’integrazione di aritmetica e algebra) un solo operatore, il mark. Questo definisce l’unità operativa di distinction e indication, cioè l’unità di una distinzione, in cui la stessa distinzione costituisce una parte. Ma questo viene introdotto solo con l’argomento: «We take as given the idea of distinction and the idea of indication, and that we cannot make an indication without drawing a distinction» (37). Solo alla fine del calcolo viene formulato il concetto di re-entry, il quale include anche questo inizio. Il calcolo modella quindi un sistema operativo chiuso, che conduce un re-entry latente in un re-entry palese, ove né all’inizio, né alla fine lo stesso re-entry diviene oggetto del calcolo. Infatti inizio e fine sono distinzioni che non possono venire distinte nel sistema che inizia e che si conclude, come anche non è possibile farlo per l’universalità della applicazione e l’elementarità delle operazioni (38). Dipende nient’altro che dall’autospiegazione del distinguere nella costruzione della complessità. E la distinzione è “perfect continence”, cioè corrisponde alla chiusura del sistema. Non c’è nessun “al di fuori”, nessuna dipendenza esterna, nessun mondo portante, salvo che come componenti della distinzione tra dentro e fuori. La marginalizzazione di ambedue i re-entries sembra servire a mantenere il calcolo stesso scevro di paradossi e tuttavia a riconoscere che ogni distinzione parte dai paradossi, non appena si rompe l’interscambiabilità simmetrica di ambedue le parti (o l’accessibilità reciproca di ciascuna parte nell’altra) attraverso un re-entry in una delle due parti. Queste riflessioni diventano più concrete se le si spiega con l’ausilio della concettualità della teoria sistemica. La nuova teoria sistemica rinuncia ad ogni sorta di olismi, e con questo anche allo schema distintivo di tutto e parte, e così anche a forme del re-entry, le quali necessariamente sottintendono che le parti rappresentano il tutto o sono definite da “ologrammi”, con i quali il tutto si incide nelle parti. Invece di ciò essa parte dalla distinzione tra sistema e ambiente. Essa non descrive dunque oggetti determinati, detti sistemi, ma orienta l’osservazione del mondo (37) Ibidem, p. 1. (38) Cfr. an ch e
J o s ep h A. Go g uen / Fran ci s co J . Varel a, S y s t em s an d Distinctions: Duality and Complementarity , in «International Journal of General Systems», 5 (1979), S. 31-43; Ranulph Glanville / Francisco Varela, “Your Inside is Out and Your Outside is In” (Beatles 1968), in G.E. Lasker (a cura di), Applied Sy stems and Cy bernetics, vol. II, New York 1981, pp. 638-641.
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nel senso di una determinata distinzione (e di nessun’altra), appunto quella tra sistema e ambiente (39). Ciò obbliga a servirsi di concetti costantemente “autologici”, in quanto anche l’osservatore, finché compie operativamente delle osservazioni e si ricollega ad esse facendovi ricorso, deve riconoscere di essere egli stesso un sistema-in-un-ambiente. Il narratore appare in prima persona in ciò che egli stesso racconta. Egli, come osservatore, è osservabile. Egli costituisce se stesso nel proprio campo, e conseguentemente nel modo della contingenza, cioè tenendo anche conto di altre possibilità. Anche la forma del re-entry segue questo design teorico. Essa vale solo per la parte del sistema, non per la parte dell’ambiente della distinzione di partenza e descrive il reingresso della distinzione tra sistema e ambiente nel sistema. Essa acquista così la forma della distinzione tra autoreferenza ed eteroreferenza, presupponendo con ciò che per ogni sistema, nel modo proprio a ciascuno, è chiaro a cosa si riferisca la differenza tra “auto” ed “etero”, vale a dire a se stesso. In caso di necessità il reentry è ripetibile in seno alla distinzione tra autoreferenza ed eteroreferenza. Il “sé” si pone allora come osservatore di secondo ordine, il quale osserva come egli stesso divida in due il mondo attraverso lo schema di autoreferenza ed eteroreferenza. Ciò conduce da una parte ad una visione del mondo “costruttivistica”, per la quale l’unità del mondo e la sua determinabilità attraverso un’osservazione distintiva non coincidono più; e d’altra parte all’accettazione della certezza che ogni osservazione nel mondo rende il mondo visibile, e invisibile. L’osservazione di quelle operazioni che realizzano il re-entry di primo o di secondo ordine, conduce all’osservazione della produzione e dello sviluppo di una paradossia. L’esterno è accessibile solo dentro. L’osservazione osserva l’operazione dell’osservazione; essa osserva se stessa come oggetto e come distinzione o, secondo la concezione del Romanticismo, come sosia o, resa asimmetrica, come maschera, allo specchio, da dentro e da fuori (40), ma sempre con operazioni proprie, dunque fortemente individuali. La loro rappresentazione matematica richiederebbe uno “spazio immaginario”, inventato solo per questo scopo. In ogni caso non basterebbe aggirare il problema introducendo (39) Vedi più dettagliatamente Niklas Luhmann, Soziale Sy steme: Grundriß einer allgemeinen Theorie, Frankfurt 1984, p. 15 e segg.; tr. it. I sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Bologna 1990. (40) Si legga ad esempio “La principessa Brambilla” di E.T.A. Hoffmann. Cfr. anche Winfried Menninghaus, Unendliche Verdopplung: Die frühromantische Grundlegung der Kunsttheorie im Begriff absoluter Selbstreflex ion, Frankfurt 1987.
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una “gerarchia per tipi”, che non porta a niente di più che a un offuscamento della paradossia con una distinzione tra “livelli” escogitata a questo scopo. Si può cercare la razionalità in questo mondo di magia e ironia, di immaginazione e di matematica, di schizofrenia e di individualizzazione attraverso un osservare-se-stesso-come-osservatore? Certamente no, se si pretende di poter descrivere così il mondo come esso realmente è e, partendo da qui, di comunicare ad altri come essi debbano correttamente pensare e agire. Non vi è alcun concetto logico di distinzione razionale che possa ricondurre a questa posizione di unità ed autorità. Mai più la ragione! Ma è possibile immaginarsi che la regola “osserva l’osservatore”, e lo sviluppo degli strumenti formali a ciò adatti facciano uscire dalla pura rassegnazione nei confronti di idee obsolete. Si può infatti osservare ciò che altri osservatori non possono osservare, e si può osservare che si viene osservati se stessi in questo modo. Formalmente ciò riconduce ad una forma autoreferenziale (41). Un osservatore può pertanto anche osservare come un sistema generi paradossi attraverso le distinzioni di cui si serve; e quali distinzioni esso usi, per “sviluppare” questi paradossi, decomporli in identità distinguibili e con ciò risolverli (42). Vi sono, in altri termini, sempre delle distinzioni con cui un sistema si identifica, in quanto occulta i paradossi di questo, al fine di evitare altri paradossi della distinzione (43). Questa condizione è descritta dal calcolo delle forme di Spencer Brown con l’ingiunzione iniziale: draw a distinction!, ove con distinction si intende l’unità della distinzione tra distinction e indication, che ha già effettuato il proprio reentry senza poterlo osservare.
IV
Queste riflessioni possono essere condensate in un concetto di razionalità del sistema basato sulla teoria della differenza (44). Esso dovrebbe
(41) Si veda, in collegamento con Spencer Brown, Jacques Miermont, Les conditions formelles de l’état autonome, in «Revue international de systémique», 3 (1989), pp. 295-314, in particolare 303 e segg.. (42) Che questa sia la procedura consueta dei sistemi filosofici lo dimostra Ni ch o l as Res ch er, Th e S t ri f e o f S y s t em s : A n Es s ay o n t h e Gro un ds an d Implications of Philosophical Div ersity , Pittsburgh 1985. (43) Per l’applicazione a temi della storia del diritto cfr. Niklas Luhmann, The Third Question: The Creativ e of Paradox es in Law and Legal History , in «Journal of Law and Society», 15 (1988), pp. 153-165. (44) Con ciò non si intendono escludere i concetti di razionalità astratta, che si
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muovere dal fatto che un sistema si esclude operativamente dall’am-biente e si rinchiude in sé osservando, nel porre la differenza nei confronti dell’ambiente, come distinzione tra autoreferenza ed eteroreferenza, alla base delle osservazioni proprie del sistema. Ciò significherebbe che il sistema, tramite un processo di differenziazione, diventa assolutamente indifferente nei confronti di ciò che accade nell’ambiente, ma usa questa indifferenza come uno scudo protettivo per costruire la propria complessità, la quale poi può essere ipersensibile nei confronti di irritazioni causate dall’ambiente, nei limiti in cui queste possono venire notate internamente e sotto forma di informazioni. La razionalità potrebbe quindi significare: riflettere nel sistema l’unità della differenza tra sistema e ambiente. Ma ciò non può avvenire dialetticamente come eliminazione della differenza, e nemmeno come rinvio ad un sistema a più ampio raggio, ad un sistema “più alto”, ad un “ecosistema”. Nella tradizione questa estensione al tutto era stata ricollegata ad idee di dominio. Ambedue le cose contrassegnano le realtà strutturali della società moderna. Ciò che resta è la possibilità di continuare la propria autopoiesis in queste condizioni ancora intensificabili, sempre più improbabili, finché è possibile. Ma che cosa ci sarebbe in questo di specificamente europeo? Che cosa avrebbe questo a che fare con le strutture specificamente moderne di una società mondiale che, muovendo dall’Europa, si è sviluppata in sistema di comunicazione globale? Innanzitutto sono opportune alcune delimitazioni in rapporto a ciò che non può entrarci. Non c’entra chiaramente la continuazione pervicace di un télos razionale della storia europea, del tipo di quello vagheggiato da Husserl nella sua opera tarda (45). Non c’entra la persistenza di un punto di vista della ragione, a partire dal quale ciò che ad essa non corrisponde può essere definito “irragionevole”; infatti anche la distinzione ragionevole/irragionevole (razionale/irrazionale) è solo una distinzione, a proposito della quale occorre osservare chi la usa e a che scopo. Non c’entrano “paragoni culturali” di qualsivoglia sorta, che o offrono solo associazioni o presuppongono un punto di vista esterno che non può esserci. Non c’entrano infine fusioni alla moda di misticismo e razionaè riusciti a determinare sulla stessa base — ad esempio un concetto di razionalità della forma, che definisce e delimita in maniera del tutto astratta il re-entry della forma. (45) Si v eda s o p rat t ut t o Edmun d Hus s erl , Di e Kri s i s der euro p äi s ch en Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in Husserliana, vol. VI, Den Haag 1954; tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano 1961. Dobbiamo aggiungere che si può ben comprendere e riconoscere l’attrazione esercitata da questa idea all’epoca dell’espansione territoriale del fascismo e nell’immediato dopoguerra.
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lità che confondono il patrimonio di pensiero dell’estremo oriente con quello europeo (46). Non dobbiamo escludere apoditticamente un ritorno a tali figure, le quali però restano esplicitamente all’interno della tradizione del concetto di razionalità europeo, la quale distingue, dissolve e ricostruisce se stessa. Se, chi vive all’interno di questa tradizione, legge testi sul mondo, sulla società, sulla politica ecc. che gli vengono spediti da un collega cinese o indiano, li trova elaborati per categorie. Questo significa che essi usano concetti (come si faceva una volta nella tradizione europea con le categorie), per suddividere linguisticamente la realtà (47). I concetti distinguono ciò che essi definiscono (oppure così ci sembra), ma non spiegano perché vengano scelte determinate distinzioni e non altre. Nella concettualità o nella sua traduzione può confluire qualcosa del patrimonio di pensiero europeo, ma essa viene applicata nella prospettiva di un osservatore di primo ordine, come se potesse definire qualcosa, che è così, come essa la definisce. Le generalizzazioni possono portare all’ambiguità, forse anche a contraddizioni. Ma questo non viene notato o in ogni caso non viene avvertito come causa di disturbo, e non modifica affatto l’intenzione di descrivere direttamente il mondo o alcuni dei suoi fatti. Tuttavia non dobbiamo troppo semplificare le cose. Anche questa tradizione conosce già molto bene l’autoreferenzialità del sapere, così come conosce anche segni autoreferenziali, cioè simboli. Le forme del sapere autoreferenziale vengono comunicate come “saggezza” (48). La saggezza è esattamente ciò che appare, quando il sapere del sapere, dunque il sapere autoreferenziale, si sviluppa a livello dell’osservazione di primo ordine e non abbandona questo livello. Gli inizi possono aver avuto luogo nella pratica divinatoria, sia del vicino oriente che della Cina; successivamente nella loro messa per iscritto in testi e nella riflessione sui difetti del
(46) Per la critica è sufficiente rinviare a Henri Atlan, A tort et à raison: Intercritique de la science et du my the, Paris 1986. (47) In merito alla questione della peculiarità della tradizione europea (greca), in questo contesto dell’uso della lingua per la spiegazione dell’essere, cfr. Jacques Derrida, Le supplément de copule: La philosophie dev ant la linguistique, in dello stesso autore, Marges de la philosophie, Paris 1972, pp. 209-246. Per Derrida anche qui è decisiva la decostruzione di forme, la cui marca indica qualcosa di assente. Ma questo allora non è più qualcosa di specificamente europeo. (48) Si veda in merito l’interessante testo di Alois Hahn, Zur Soziologie der Weisheit, in Aleida Assmann (a cura di), Weisheit: Archäologie der literarischen Kommunikation III, München 1991, pp. 47-57. Sono d’accordo sotto molti punti di vista con quest’analisi e aggiungo solo la distinzione (per me in verità decisiva) tra osservazione di primo e di secondo ordine e con ciò una maggiore storicizzazione.
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materiale semantico primario. Non vogliamo però escludere altri impulsi. In ogni caso nel risultato si trovano elementi di un patrimonio di sapere, di cui ci si può servire solo riferendoli ad una situazione (come i proverbi) e i quali, come a compenso di questi difetti, obbligano lo stesso saggio a comportarsi nella sua condotta di vita secondo la sua saggezza (49). Mancano sforzi per compensare le contraddizioni (cioè sforzi di sistematizzazione), poiché il saggio osserva se stesso, mette in pratica in prima persona la sua saggezza e non tenta di armonizzarsi con i punti di vista di altri o con le altrui potenzialità di consapevolezza. E se questo è esatto, ne consegue, rovesciando le conclusioni, che le sistematizzazioni si correlano con un passaggio all’osservazione di secondo ordine. Sia nel diritto che nella sociologia si arriva alla rinuncia alla saggezza, non appena nei già molti testi disponibili emergono contraddizioni che danno lo spunto per problematizzare “ermeneuticamente” (come poi si dice) la modalità di osservazione, presupponendo una costanza dei testi di cui volta per volta si tratta. La filosofia trascendentale e con essa la figura del soggetto autonomo è stata forse l’ultimo tentativo europeo di acquisire un ordine del sapere ritornando alla soggettività e ai suoi fatti di coscienza e obbligare, tramite detto ordine, in senso cognitivo, etico ed estetico. Parallelamente rispetto a questo la stampa dei libri facilita il passaggio ad una tecnica di sapere molto più volgare rispetto alla saggezza, tecnica che ora si fonda completamente sulla scrittura e conduce già all’osservazione di secondo ordine. Nel formato tipico degli “scientific papers” occidentali si parte dal punto in cui la ricerca è arrivata. Anche questo risparmia una riflessione ad ampio spettro. Si deve solo offrire qualcosa di nuovo in rapporto a ciò che è disponibile nel campo delle pubblicazioni (50). Una pedanteria che sfiora la buffoneria, controllata da redazioni ed esperti, sostituisce ogni riflessione. Anche questo può essere ancora praticato come osservazione del mondo di primo ordine. Maturana direbbe: come osservazione della propria nicchia, con la quale il sistema interagisce (51). Ma la forma è scelta in modo tale da essere compatibile (49) Si veda nella tradizione europea ad esempio il precetto della purezza nel Cratilo 396 E-397 di Platone come presupposto per la comprensione del nesso tra cose e nomi. (50) Sulla storia di questa forma come risultato della stampa dei libri e del processo di differenziazione della scienza cfr. Charles Bazerman, Shaping Written Knowledge: The Genre and the Activ ity of the Ex perimental Article in Science, Madison Wisc. 1988. (51) Cfr. Humberto R. Maturana, Erk ennen: Die Organisation und Verk örperung v on Wirk lichk eit: Ausgewählte Arbeiten zur biologischen Epistemologie, Braunschweig 1982, p. 35 e segg..
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con la contingenza di tutte le descrizioni del mondo; essa ricava la propria legittimazione solo dallo stato momentaneo della ricerca, da una situazione storica concreta che deve essere cambiata attraverso se stessa. Senza essere previsto in questo modo, il testo di per sé del tutto privo di ambizioni realizza una descrizione del mondo che trasforma ciò che descrive attraverso la descrizione. Esso realizza l’autopoiesis del sistema scientifico e con esso del sistema sociale, senza doverlo riflettere per poter compiere l’operazione. Della riflessione è responsabile un altro livello che si distingue, in quanto teoria scientifica, (o in senso più lato: in quanto teoria della conoscenza), dall’oggetto immediato della ricerca e da parte sua spiega, in riferimento allo stato momentaneo delle sue ricerche, ciò che di nuovo, in quanto ricerca, ha da offrire alla ricerca (52). La filosofia è dunque, da Hegel in poi, la sua stessa storia; ma al di là di Hegel è fissata per un osservatore, che può giudicare a proposito in maniera diversa e proporre altre distinzioni. Si pubblica, non per insegnare, ma per essere osservati. Il sistema scientifico è articolato mediante differenziazione su un livello di osservazione di secondo ordine. Lo stesso vale per il sistema economico di mercato (53), per la politica che deve orientarsi verso l’“opinione pubblica” (54), per l’arte (55), presumibilmente per tutti i sistemi funzionali articolati mediante differenziazione. E i sistemi funzionali, non la società in quanto unità, sono gli esecutori operativi della razionalità della società moderna. Quello che ci si aspetta dalla razionalità deve pertanto essere sintonizzato con formazioni sistemiche che debbono garantire la loro autopoiesis anche sul piano dell’osservazione di secondo ordine, anzi in prima analisi a questo livello, ad esempio della razionalità concorrenziale (detta concorrenza) nell’economia e nella politica, o dell’osservazione costante degli osservatori nello schema vecchio/nuovo nella scienza e nell’arte. Si è notato che il razionalismo, anche in queste condizioni, lascia che emergano i problemi attraverso la situazione storica, cioè si comporta in Proseguendo non a caso e in ogni modo con articoli in riviste. Uno dei grandi esempi di questo secolo è Willard van O. Quine, The Two Dogmas of Empiricism, cit. in base alla ristampa in, stesso autore, From a Logical Point of View, 2a ed. Cambridge Mass. 1961, pp. 20-46. (53) Vedi Di rk Baeck er, In f o rm at i on un d R i s i k o i n der M ark t wi rt s ch af t, Frankfurt 1988. (54) Vedi Niklas Luhmann, Gesellschaftliche Komplex ität und öffentliche Meinung, in: dello stesso autore, Soziologische Aufk lärung, vol. 5, Opladen 1990, pp. 170-182. (55) Vedi Niklas Luhmann, Weltk unst, in Niklas Luhmann / Frederick D. Bunsen / Dirk Baecker, Unbeobachtbare Welt, Bielefeld 1990. (52)
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maniera tradizionale, benché sia sorto nel diciassettesimo/diciottesimo secolo rifiutando i vincoli tradizionali e cerchi ancora oggi di mettersi in evidenza attraverso la critica del tradizionalismo. In rapporto ai problemi che esso stesso solleva, il razionalismo si comporta ancora in maniera cieca (56). È un fatto indiscutibile e insuperabile anche sul piano dell’osservazione di secondo ordine. Piuttosto l’osservatore ripropone a questo livello il problema all’osservazione, e con ciò anche a se stesso. Infatti non si può vedere ciò che non si vede, ma forse si può vedere almeno, che non si vede ciò che non si vede. Una teoria che accolga queste riflessioni può essere una teoria della società, deve però essere ben ancorata al sistema scientifico e accontentarsi di essere solo una teoria sociale. Essa determinerà un concetto costruttivistico di realtà, che tenga conto del fatto che gli osservatori di primo ordine non hanno a che fare con costruzioni, bensì con oggetti. Essa non riconoscerà più rappresentazioni vincolanti, bensì ritroverà se stessa — e non solo, anche gli altri! — in un mondo costituito in maniera polistrutturale. Essa, quanto più riflette la propria costruttura, dovrà sopportare di essere vittima del proprio autodisinteressamento, compensato dalla certezza, di cui si tiene contemporaneamente conto, che vi sono altri punti di partenza per la razionalità e per l’osservazione di secondo ordine. Anche questo concetto costruttivistico, policontestuale, di razionalità, deve essere — diversamente non lo si potrebbe descrivere — un momento di una distinzione. È usuale porre storicamente questa distinzione, cioè in rapporto con la vecchia Europa o con altre culture del mondo antico. Ciò lascia aperta tuttavia ogni possibilità per l’autocomprensione del Moderno, il quale dipende da noi e conduce nel migliore dei casi al vocabolo, di cui nel frattempo si è abusato, di “Postmoderno”. Forse è possibile concepire idee concretamente più precise in merito all’“altra faccia della realtà”, del tipo, ad esempio, di quelle che potrebbero essere definite con le semantiche dei paradossi, dello spazio immaginario, del punto cieco di tutte le osservazioni, dei parassiti che sono parassiti di se Così Terry Winograd / Fernando Flores, Understanding Computers and Cognition: A New Foundation for Design, Reading Mass. 1987, in particolare p. 77: «...the rationalistic tradition... tends to grant problems some kind of objective existence, failing to take account of the blindness inherent in the way problems are formulated». Cfr. anche p. 97 e segg.. Analogamente la pensa Klaus Peter Japp, Das Risik o der Rationalitèt für technisch-ök ologische Sy steme, in Jost Halfmann / Klaus Peter Japp (a cura di), Risk ante Entscheidungen und Kat as t ro p h en p o t en t i al e: El em en t e ei n er s o z i o l o g i s ch en R i s i k o f o rs ch un g , Opladen 1990, pp. 34-60, «nell’incompetenza congenita, poter tener conto di effetti non-razionali di decisioni razionali» (51), il rischio della preferenza per le decisioni razionali. (56)
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stessi, del caso o del caos, del re-entry o della necessità di esternalizzare in direzione di un “unmarked state”. Queste sarebbero allora idee che debbono il loro profilo esclusivamente alla precisione, con la quale si fissa la razionalità, e che vanno infine in direzione di un’autodefinizione indiretta del razionale. Ma anche all’opposto: proprio la comprensibilità del mondo diventa incomprensibile e lo sbigottimento di fronte al funzionamento della tecnica diventa tanto più grande quanto più si sa come essa funziona.
V
In concl us i one ri t orni am o al l e ques t i oni di form a, ci oè all’interrogativo sul come si distingua la razionalità. Dovrebbe essere chiaro che non può trattarsi di un autoaccertamento cartesiano della razionalità che, una volta accertata, può servirsi di se stessa come punto di partenza per le distinzioni (ad esempio tra vero e falso). L’autoaccertamento della razionalità presuppone piuttosto già una distinzione, nel caso in cui essa non possa proporsi come tema. Tuttavia — questo era il risultato delle nostre analisi del capitolo II — non si può presupporre nessuna distinzione, senza sollevare l’interrogativo circa quale osservatore la usi, con quali limitazioni di scelta per lui tipiche, con quale punto cieco e a che scopo. Non esiste distinzione che si possa sottrarre ad una osservazione di secondo ordine, nemmeno la distinzione di Spencer Brown tra distinzione e definizione. Ma ciò non deve significare che questa possa diventare l’ultima via di uscita di una rinuncia forzata a segni stabili, e che ora si trovi questo increscioso. Ciò non deve neppure significare che ora si festeggi questo esito come vittoria della retorica sull’ontologia e che la malattia, essendo diventata universale, si spacci per salute (57). Ciò può condurre sulla strada giusta, ma ciò che manca è la riflessione della forma, e solo questo potrebbe legittimare il mantenimento del titolo di razionalità, evitando di parlare semplicemente, vincendo l’imbarazzo, di “postrazionale” (58). Presupposto di ogni razionalità è una distinzione che ritorna di nuovo in se stessa. Avevamo illustrato ciò a proposito del caso del calcolo delle (57) Così interpreto (interpreto) io (io) Stanley Fish, ibidem. (58) Così ad esempio MacCannell, ibidem (1982), p. 121 per
una riflessione molto prossima: «The postrational perspective differs from the rational by being that position that cannot honor absolutely the fundamental claims Reason makes as to the necessity of its divisions; it knows them to be arbitrary».
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forme di Spencer Brown (distinction/indication), adducendo l’esempio della teoria dei sistemi (sistema/ambiente) e l’esempio della distinzione tra segno e significato, scegliendo questi esempi per abbracciare campi quanto più possibile complessi e noti dell’intellettualità moderna (matematica, teoria dei sistemi, semiotica), con tutte le loro insicurezze determinate dal riguardo nei confronti della tradizione. Si trovano facilmente esempi ulteriori, una volta che si ha di fronte agli occhi questa forma autoimplicantesi, quale, ad esempio, la distinzione tra osservazione e operazione, la quale implica che l’osservazione stessa sia un’operazione e che la distinzione stessa sia uno strumento dell’osservazione; o la distinzione tra medium e forma, che si può reggere solo come forma in un medium (59). Comune a tutti questi casi non è solo la forma del rientro della distinzione nella distinzione, ma al contempo anche un riferimento implicito al contesto storico, in cui essi sono formulati, all’esperienza della società moderna. Essi negano esplicitamente un orientamento verso segni ontologici, anche a quelli della filosofia trascendentale. Essi cercano il loro ultimo punto di riferimento in una differenza e osservano di conseguenza ogni ricerca di unità — anche, ad esempio, negli atomi della fisica moderna (60) — come desiderio (senza speranza) di ritornare allo stato di natura o addirittura in paradiso (61). Essi osservano con la distanza di un osservatore di secondo ordine coloro che tentano di riuscirci e sanno già che non ci riusciranno. Ma la forma dell’ingresso della distinzione nella distinzione può essere considerata razionale solo perché essa rende possibile questo disaccoppiamento? Non si tratta solo di una specificazione storica, che non conserva niente di più che il fallimento di tutti i concetti di razionalità dipendenti dal riferimento? La forma garantisce chiusura, “perfect conti(59) Come punto di partenza di questa concettualità poco nota vedi Fritz Heider, Ding und Medium, in Sy mposion 1 (1926), pp. 109-157. Cfr, inoltre Niklas Luhmann, Das Medium der Kunst, in «Delfin», 4 (1986), pp. 6-15; anche in Frederick D. Bunsen (a cura di), “ohne Titel”: Neue Orientierungen in der Kunst, Würzburg 1988, pp. 61-71. (60) Concretamente qui si intende David Bohm. Vedi, ad esempio, Fragmentierung und Ganzheit, in Hans-Peter Dürr (a cura di), Phy sik und Transzendenz: Die großen Phy sik er unseres Jahrhunderts über ihre Begegnung mit dem Wunderbaren, Bern, 1986, pp. 263-293. Cfr. anche Ken Wilber (a cura di), Das holographische Weltbild, Bern 1986. (61) Anche MacCannell / MacCannell ibidem (1982), P. 149, la vedono così — con le limitazioni (?) che derivano dalla seguente citazione: «Assumptions of unity at the level of the individual or the community are based on a desire to return to a state of nature».
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nence”, per dirla di nuovo con Spencer Brown (62). Ma essa deve ciò ad una paradossia inizialmente nascosta, poi da scoprirsi, che consiste nel fatto che la distinzione che rientra in sé è la stessa e non è la stessa. Evidentemente la paradossia simboleggia (ma si può dire “simboleggia”?) il mondo. Esso blocca l’osservatore prima che questi cominci a dire qualcosa sul mondo, cosa che potrebbe condurre solo al sottrarsi del mondo alla asserzione. La paradossia della forma sarebbe, visto così, una rappresentazione del mondo nel modo della inosservabilità, ma con la sollecitazione di sciogliere la paradossia con le distinzioni che gli si addicono, a “svilupparlo” attraverso l’identificazione della distinzione. L’altra faccia della forma del razionale, che deve essere esclusa (anche se potrebbe venire definita), è la paradossia della forma. Ma anche definizioni come “mondo” o “paradossia” sono solo (ma dobbiamo dire “solo”? e cosa perdiamo, se diciamo “solo”?) componenti di una distinzione. Con ciò la dipendenza della definizione dalla distinzione sembra essere quel problema che ha avviato lo sviluppo europeo verso un’osservazione di secondo ordine. Quando ciò viene formulato, emerge che la mistica dell’estremo oriente (ammesso che questo termine europeo sia adatto) reagisce diversamente, vale a dire con un rigetto diretto del distinguere, nella forma particolarmente drastica della pratica comunicativa del koan nel buddismo zen (63). L’aspettativa di una risposta specifica contenuta in una domanda, che, in quanto definizione di un qualcosa, deve attualizzare una distinzione e condurre con sé un’altra parte, viene distrutta in quanto aspettativa, verbalmente o anche brutalmente. Ciò non conduce ad una paradossia che da parte sua, in quanto forma specifica di un su e giù senza via d’uscita, è di nuovo una forma, e dunque ha un altro aspetto, vale a dire la necessità di uno sviluppo della paradossia, attraverso trasposizione in distinzioni praticabili (prototipo: distinzione in tipi o livelli). L’esperienza viene piuttosto riferita direttamente al non distinto, e ciò nella prospettiva di un osservatore di primo ordine. Quale che sia il risultato cui si arriva in tal modo: non si tratta di elaborazione sociale delle differenze, bensì di liberazione dal dover distinguere. Gli europei sono abituati a trasformare le culture straniere dall’incomprensibile al comprensibile. La comunicazione su scala mondiale li ha costretti a questo, soprattutto dopo la scoperta delle Americhe, che fu contemporanea all’invenzione della stampa. Disponiamo di esperti (62) Laws of Form, ibidem, p. 1. (63) Cfr. , a ques t o p ro p o s i t o ,
Ni k l as Luh man n / Pet er Fuch s , R eden un d Schweigen, Frankfurt 1989, p. 46 e segg..
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in questi campi: etnologi, orientalisti, studiosi delle religioni, psicoanalisti. E siamo anche abituati, come lettori di romanzi e di critiche ideologiche, a vedere che altri non vedono ciò che non vedono. Ma la razionalità potrebbe, se si vuole mantenere il vecchio riferimento universale del concetto e non si desidera più partecipare alle perturbazioni dell’era moderna, essere di nuovo riconquistata, solo se si smussano quelle abitudini con una conclusione autologica, se la si applica anche a quella che essa pratica e la si pone così come universale. Si tratterebbe allora di comprendere che non si capisce ciò che non si capisce, e provare delle semantiche che ne vengano a capo. Nella tradizione questo veniva definito religione. Ma se si deve continuare a servirsi di questo concetto, si dovrebbero scambiare aspettative corrispondenti. Si tratterebbe allora non di un potenziale per la sicurezza, bensì di un potenziale per l’insicurezza. E non di vincolo, bensì di libertà: si tratterebbe della sede dell’arbitrio, che non trova in nessun luogo un posto, e quindi di immaginazione.
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III. La contingenza come valore proprio della società moderna
I
Tra le descrizioni più frequenti della società moderna si trova costantemente il rinvio ad una quantità di contingenza fuori dall’ordinario. Esso si riferisce alle strutture della società, ad esempio al diritto positivo, al governo volta per volta in carica, al capitale investito nell’economia e, almeno da Boutroux (1) in poi, anche alle leggi naturali, sulle quali tutte le tecnologie debbono poter far conto, e persino allo stesso uso dei segni (2). Il concetto di cultura dell’era moderna implica sia riflessività nel senso di autoanalisi, che il sapere che esistono altre cul t ure, e dunque l ’essere consapevol i del l a cont i ngenza dell’appartenenza di determinati elementi a determinate culture. Ciò che sempre avviene è l’impegno nel contesto della contingenza, e il passato, anche se esso stesso non è più contingente, viene ricostruito attraverso la filosofia della storia dal Settecento in poi, e dalla teoria dell’evoluzione dall’Ottocento in poi, in maniera tale che ci si rende conto che anch’esso è stato contingente. L’attenzione al contingente è così esercitata, che essa accompagna ogni ricerca del necessario, di validità a priori, di valori inattaccabili e — nella contingenza di questo sforzo (che diventa visibile in quanto sforzo) — trasforma gli esiti in qualcosa di contingente, l’oro di Mida del Moderno. Questo può essere documentato sia nella storia della teoria della scienza che nel concetto di norma nella giurisprudenza. “The most corrosive message of legal history is the message of contingency”, si dice in (1) Vedi Emile Boutroux, De la contingence des lois de nature (1874), cit. dall’8ª ediz., Paris 1915. (2) Vedi, anche se il concetto di contingenza non vi è messo in particolare evidenza, Josef Simon, Philosophie des Zeichens, Berlin 1989.
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un trattato dei Critical Legal Studies (3). La teoria sociologica di Talcott Parsons, nell’affrontare il quesito posto in merito a come sia possibile l’ordine sociale, muove dal problema della contingenza e cerca la risposta non nelle necessità residue di una “natura” sociale, bensì nell’insostenibilità di situazioni caratterizzate da doppia contingenza, intesa come reciproca dipendenza di aspettative complementari (non uguali!) (4). La teoria della conoscenza ha trovato nel “costruttivismo radicale” (per quanto cangiante e controverso sia questo concetto (5)) un rapporto con la propria contingenza, in cui essa non esclude più la circolarità. Così viene anche superata l’impostazione del problema del vecchio scetticismo. Questo infatti aveva solo messo in dubbio la possibilità di un rapporto fisso tra conoscenza e realtà, che fosse tale da condurre alla verità, poiché tutto può sempre essere diverso; oggi si vede invece che un tale rapporto non può proprio sussistere, poiché condurrebbe ad un sovraccarico di informazioni ed escluderebbe così la conoscenza. D’altro canto è anche corrente l’impressione che il singolo sia esposto al sistema sociale quasi senza scampo, e persino che la società si sia essa stessa esposta senza scampo e che continuerà senza sosta ad autodistruggersi secondo una propria logica, se non in modo “capitalistico”, in ogni caso “ecologico”. A che giova allora la tanta contingenza, se non la si può organizzare, non si può servirsene, per condurre su altri binari l’evoluzione della società? (3) Cito Elisabeth Mensch, The History of Mainstream Legal Thought, in David Kairys (a cura di), The Politics of Law: A Progressiv e Critique, New York 1982, pp. 18-39 (18). (4) Vedi il “General Statement” in Talcott Parsons/Edward A. Shils (a cura di), Towards a General Theory of Action, Cambridge Mass. 1951, p. 14 e segg.. Cfr. anche James Olds, The Growth and Structure of Motiv es: Psy cological Studies in The Theory of Action, Glencoe Ill. 1956, in part. p. 198 e segg.. Sul concetto di contingenza di Parson vedi anche Niklas Luhmann, Generalized Media and the Problem of Contingency , in Jan J. Loubser et al. (a cura di), Ex plorations in General Theory in Social Science: Essay s in Honor of Talcott Parsons, New York 1976, vol. 2, pp. 507-532. Un problema quasi identico era stato trattato in precedenza sotto la voce “amor di sé” (l’ordine nonostante l’amor di sé attraverso l’amor di sé). Vedi il Traité de la charité et de l’amour propre, in Pierre Nicole, Essais de Morale, vol. III, 3a ediz. Paris 1682, in particolare il cap. II (“Comment l’amour propre a pû unir les hommes dans une mesme societé”). Secondo questo autore, ciascuno vede l’amor di sé, e con ciò la minaccia all’ordine, anche nell’altro, e si deve autodisciplinare, per potersi mantenere; ma questo naturalmente non è ciò che la religione richiede come “charité”. Il punto di partenza di quest’ordine non sarebbe naturalmente il diritto naturale, come viene esplicitamente obiettato contro Hobbes (p. 149), bensì il peccato. (5) Vedi i testi in Siegfried J. Schmidt (a cura di), Der Disk urs des Radik alen Konstruk tiv ismus, Frankfurt 1987.
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Un quesito di tale portata è al di là delle intenzioni delle riflessioni che seguono. Noi ci poniamo uno scopo più limitato. Indurremo a riflettere circa cosa si può intendere quando si parla di contingenza nella società moderna. All’interno dell’apparato della concettualizzazione logico-modale, il concetto di contingenza è definito in maniera rapida e univoca. Contingente è tutto ciò che non è né necessario, né impossibile (6). Il concetto viene dunque ricavato dalla negazione della necessità e dell’impossibilità (7). Il problema qui è che queste due negazioni non si lasciano ridurre ad una sola. Non sarebbe poi peggio, se si dovesse trattare la negazione come operatore identico e applicare questo ad affermazioni diverse. Qui però viene costituito un concetto attraverso due negazioni, che poi debbono venire trattate come unità nell’applicazione ulteriore del concetto. Questo già nel Medioevo ha indotto a pensare che i problemi della contingenza non possano essere adeguatamente trattati con una logica bivalente riferita all’ontologia (essere/non-essere) (8), bensì richiede un terzo valore di indeterminatezza. Nel contesto teologico questo poté ricondurre al mistero della creazione e alle qualità inspiegabili del creatore (l’Altissimo possiede sempre qualità inspiegabili), e dunque ad un lasciare aperto il quesito circa perché Dio abbia creato il mondo e perché lo abbia creato così come è, benché avrebbe potuto non crearlo proprio o crearlo diversamente. Solo nell’epoca più recente è iniziata sistematicamente la ricerca di una logica polivalente. Basti citare qui il nome di Gotthard Günther (9), o anche rinviare alla possibilità di una presentazione a mo’ di matrice di una maggioranza di valori logici. Considerevole rimane il fatto che la contingenza costituisca, in rapporto alla necessità e all’impossibilità, una generalizzazione dai deboli (6) Queste definizioni vengono attribuite ad Aristotele, per quanto si possano avere opinioni disparate sull’autenticità delle parti rilevanti del testo. Vedi per i di v ers i s i g n i fi cat i di “en dech ó men o n ” A. P. Bro g an , A ri s t o t l e’s Lo g i c o f Statements about Contingency , Mind 76 (1967), pp. 49-61. (7) Al fine di semplificare, supponiamo che necessità e impossibilità siano concetti univoci, ben sapendo, che nel ductus della tecnica kantiana di porre quesiti, questa univocità si potrebbe dissolvere e ci si potrebbe interrogare circa le condizioni della necessità o dell’impossibilità, e dunque rendere contingenti gli stessi concetti teorico-modali. (8) Per un tale tentativo vedi Aristotele, Peri hermeneias 12 e 13. La negazione di contingente come non-contingente diventa polisemica, poiché può significare non solo necessaria, ma anche impossibile. (9) Vedi Idee und Grundriß einer nicht-Aristotelischen Logik , Hamburg 1959; Beiträge zur Grundlegung einer operationsfähigen Dialek tik , 3 voll., Hamburg 1976-1980.
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presupposti, e proprio per questo (?) richieda il complesso apparato logico, come se perdite di univocità del mondo dovessero essere compensate con mezzi logici. Questo potrebbe anche chiarire che le ricerche di una logica polivalente o di una logica modale con molteplici forme di negazione (che riguardano la cosa stessa e la sua modalità) conducono a formalismi che sono difficili da interpretare. Per una comprensione della società moderna ciò non è direttamente fruttuoso. Questo ci porta a seguire una traccia diversa. Senza voler contestare il valore di tali ricerche e i risultati che tramite di esse si possono raggiungere in termini di comprensione della complessità strutturale, proviamo a chiederci innanzitutto: esiste una teoria che possa applicare il concetto di contingenza?
II
Nelle pagine seguenti tentiamo di interpretare il concetto di contingenza attraverso il concetto di osservazione, per pervenire in tal modo ad una teoria che sia in grado di fornire una comprensione della società moderna (10). Per raggiungere questo scopo, dobbiamo formulare il concetto dell’osservazione in maniera inusuale, poiché solo così ci si può ricollegare al concetto teorico-modale della contingenza. Osservazione deve dirsi ogni tipo di operazione che realizza una distinzione, per definirne una parte (e non l’altra). Con la dipendenza della definizione da una distinzione, la definizione stessa è resa contingente, poiché con un’altra distinzione la stessa cosa definita riceverebbe un altro senso (anche se esso avrebbe lo stesso nome). Per il concetto astratto di osservazione non conta chi l’effettua, e nemmeno come essa venga effettuata, finché siano realizzate le caratteristiche del distinguere e del definire, e dunque vengono abbracciate con una occhiata le due parti al contempo (11). Il concetto comprende così distinzioni (distinzioni!) classiche; e precisamente sia la distinzione tra esperire e agire, che la distinzione tra operazioni puramente psichiche, in cui è presente l’attenzione; e operazioni sociali, le quali effettuano la (10) Vedi anche la tesi, ispirata a George Spencer Brown e a Gotthard Günther, di Elena Esposito, L’operazione di osserv azione: Teoria della distinzione e teoria dei sistemi sociali, Bielefeld 1990. (11) Più dettagliatamente Niklas Luhmann, Die Wissenschaft der Gesellschaft, Frankfurt 1990, cap. 2.
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comunicazione. Anche l’agire finalizzato allo scopo è dunque un osservare in base alla distinzione tra la situazione caratterizzata secondo lo scopo e la situazione che si manifesta secondo altre caratteristiche; e anche il comunicare è un osservare con la definizione di informazione, a differenza di ciò che altrimenti avrebbe potuto essere possibile. La teoria dell’osservazione copre così un problema che era risolvibile nel concetto classico di soggetto e oggetto solo separando i rapporti con il mondo in cognitivi e volitivi, cioè con la possibilità di rendere vere delle affermazioni presentando uno stato inizialmente descritto in maniera falsa. Per la teoria dell’osservazione in ciò vi è semplicemente una concatenazione circolare di attività diverse (diciamo sensomotorie). Solo le osservazioni di secondo ordine danno modo di intendere al contempo la contingenza ed eventualmente di rifletterla concettualmente. Le osservazioni di secondo ordine sono osservazioni di osservazioni. Si può trattare di osservazioni di altri osservatori o di osservazioni di uno stesso osservatore in un momento diverso. A seconda di queste varianti si distinguono nella produzione del senso la dimensione sociale e la dimensione temporale. Ciò rende possibile il dire che la contingenza è una forma che assume la dimensione materiale del medium senso, allorché la dimensione sociale e quella temporale rendono divergenti le osservazioni (13). Oppure, detto altrimenti: tutto diventa contingente, se ciò che viene osservato dipende da chi viene osservato (14). Questa scelta include infatti anche la scelta tra l’auto-osservazione (osservazione interna) e l’etero-osservazione (osservazione esterna). L’osservare di secondo ordine si fonda su una brusca riduzione della complessità del mondo delle osservazioni possibili: viene osservato solo l’osservare, e solo attraverso questa mediazione si perviene al mondo, che poi è dato nella differenza tra uguaglianza e diversità delle osservazioni (di primo e di secondo ordine). Come molto spesso accade, anche qui la riduzione della complessità è il mezzo per la costruzione della complessità. La chiusura operativa (per il ricorso ad osservazioni solo di osservazioni) esige indifferenza nei confronti di tutto il resto, per cui può (12) Secondo la terminologia di George Spencer Brown, Laws of Form, ristampa New York 1979. (13) Sulla distinzione di queste dimensioni di senso e sull’evoluzione della loro differenziazione cfr. Niklas Luhmann, Soziale Sy steme: Grundriß einer allgemeinen Theorie, Frankfurt 1984, in particolare p. 127 e segg.; tr. it. I sistemi sociali. Fondamenti di una teoria sociale, Bologna 1990. (14) Determinante è la formulazione: chi v iene osservato. Non si tratta dunque di una nuova versione del noto problema del soggettivismo, secondo cui tutto dipenderebbe da chi osserva.
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concentrarsi e conduce così alla costruzione di sistemi che osservano la propria complessità, così come questa si manifesta tra l’altro nella differenziazione delle dimensioni di senso e nei suddetti problemi di logica delle modalità. Le osservazioni di secondo ordine — si tratta di un ulteriore esempio di incremento della complessità — lasciano aperta la scelta se si debbano attribuire determinate definizioni all’osservatore osservato e così caratterizzato o se le si considera come elementi caratteristici di ciò che egli osserva. Ambedue le attribuzioni, l’attribuzione dell’osservatore e dell’oggetto, rimangono possibili; i loro risultati possono pertanto essere considerati contingenti. Essi possono essere del tutto combinati, quando ad esempio si considera materialmente giusta un’osservazione, ma tuttavia ci si chiede perché l’osservatore osservato si interessi proprio a quella, anziché a un’altra. Nel mondo moderno è all’osservatore che sempre più, o quantomeno in molti casi, si fanno attribuzioni. Questo può valere come sintomo del divenire contingente di tutte le esperienze del mondo. Al di là del dubbio sempre possibile che un altro definisca qualcosa in modo giusto o sbagliato, l’osservazione del proprio osservare viene usata per osservare l’altro stesso, per caratterizzarlo, per comprenderlo. Una tendenza all’attribuzione all’osservatore osservato sorge in particolare quando l’osservazione di secondo ordine è rivolta alle strutture e funzioni latenti, e dunque lavora (in senso psicoanalitico, di critica ideologica, di scienza della sociologia, o anche semplicemente sulla base di osservazioni quoditiane divenute nel frattempo consuete) con lo schema manifesto/latente. Infatti, che un osservatore non veda qualcosa o addirittura non possa vederla, non si spiega con un difetto delle circostanze, bensì questo può dipendere solo da lui. Intenzioni di svelare qualcosa, degli intenti terapeutici, la psicologizzazione e socializzazione del sapere quoditiano hanno effetti in tal senso, rafforzano se stessi e costituiscono al contempo una forma assai moderna del rapporto con le contingenze, la quale in definitiva può rinunciare a chiedersi di nuovo se il definito “esista” oppure no(15). L’osservazione di secondo ordine mantiene completamente la peculiarità operativa di ogni osservazione, vale a dire l’unità del distinguere e definire, il duale del mark (Spencer Brown) o del pointer (Kauf-fman), composto da una forma di separazione (| o -) e da una forma di direzione (– (15) In meri t o Ni k l as Luh man n , W i e l as s en s i ch l at en t e S t ruk t uren beobachten?, in Paul Watzlawick/Peter Krieg (a cura di), Das Auge des Betrachters: Beiträge zum Konstruk tiv ismus, Festschrift für Heinz v on Foerster, München 1991, pp. 61-74.
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oppure >) (16). Il concetto dell’osservare rimane invariato per il primo e il secondo ordine e non considera nemmeno alcuna altra lingua (metalingua). La forma di esecuzione dell’operare rimane uniforme dal punto di vista del sistema. E proprio per questo si perviene a particolari confronti e a ricorsi riflessivi delle osservazioni così accoppiate. Il sistema ha un solo livello operativo, ma ciò che vale per l’altro osservatore (o per lo stesso in un momento diverso), vale anche per l’osservatore di questo. O quantomento lo irrita e lo induce a ritornare su se stesso. Proprio per questa ragione balza all’occhio la diversità delle distinzioni e delle definizioni usate. Un riconoscimento della contingenza (“può anche essere diversamente”) appare allora essere la forma in cui si riesce a risolvere la paradossia dell’eguaglianza e della diversità, della “self-diversity”. L’accoppiamento recursivo di osservazioni a osservazioni produce “valori peculiari”, che restano poi stabili, ammesso che il sistema di questa prassi si conservi (17), e la contingenza appare essere almeno una forma di questi valori propri. Il sistema, se e nei limiti in cui si fonda su osservazioni di secondo ordine, diventa un valore proprio, con pochi presupposti (in rapporto al necessario e all’impossibile).
III
Dopo queste analisi introduttive non dovrebbe risultare casuale il fatto che i nessi tra contingenze supposte e osservazioni di secondo ordine siano verificabili anche storicamente. Tra i testi dell’antichità tramandatici, il Peri hermeneias (de interpretatione) di Aristotele costituisce la prima documentazione chiara. Esso rompe con la teoria platonica secondo cui la conoscenza è presentata come un subire un’impressione proveniente dall’esterno e come un ricordo di forme perfette (idee) precedentemente conosciute. Questo concetto viene non abbandonato in quanto rappresentazione del rapporto nei confronti del mondo esterno, ma considerevolmente modificato, inserendo nei rapporti di osservazione differenze sociali e temporali. Mentre in Platone il ricordo delle idee era servito come parametro per risolvere conflitti concernenti la verità, le differenze
(16) Vedi George Spencer Brown, ibidem; Louis H. Kauffman, Self-reference and recursiv e forms, in «Journal of Social and Biological Structures», 10 (1987), pp. 53-72. (17) Vedi il contributo di Heinz von Foerster, Objects: Tok ens for (Eigen)behav iors, in, dello stesso autore, Observ ing Sy stems, Seaside Cal. 1981, pp. 274-285.
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sociali e temporali vengono ora considerate ovvie e inserite in una terminologia modale più complessa. L’“endechómenon” usato qui viene successivamente tradotto con contingens. Che il testo non sia redatto secondo la concettualità dell’osservazione di secondo ordine è ovvio, ma materialmente il problema è presente. Non è possibile, si dice nel 9° libro, classificare già adesso come vere o non vere le affermazioni circa eventi contingenti del futuro (18), poiché adesso non è ancora possibile osservare quello che si potrà osservare poi; e questo non-poter-osservare può essere osservato già oggi. La vasta discussione medievale de futuris contingentibus ha avuto qui il suo spunto. In essa si trattava però sempre di eventi futuri singoli, non di forme, di esseri, di modi o generi, cioè non si trattava di costanti naturali (19). Anche l’interrogativo circa la dimensione sociale: come uno possa ritenere vero ciò che un altro ritiene falso, si ripropone ai margini della logica. Esso presuppone che si possa osservare, sul piano puramente fattuale, in un modo o in un altro. Questo presupposto contraddice tuttavia la supposizione precedente, in base alla quale ogni conoscenza consiste nel subire un’impressione che proviene dall’esterno, anche se deformata dallo stato di corruzione della relativa anima. Nemmeno Aristotele abbandona questa supposizione, ma la contraddizione, data dal fatto empirico evidente dei conflitti di verità, richiede una soluzione innovativa. Questa consiste in una modifica della tesi della passività della conoscenza. Le conoscenze sono ora non più solo pathémata, anche se lo sono ancora. L’anima, attraverso la lingua e la scrittura, ha in ciò una parte palesemente attiva, la quale deve venire controllata (20).
In merito esiste un gran numero di ricostruzioni del procedimento di pensiero e di analisi moderne del problema. Si veda ad esempio Dorothea Frede, Aristoteles und die Seeschlacht: Das Problem des Contingentia Futura in De Interpretatione 9, Göttingen 1970. (19) Cfr. ad esempio Konstanty Michalski, Le problème de la v olonté à Ox ford et à Paris au XIVème siècle, in «Studia Philosophica», 2 (1937), pp. 233-365 (285 e segg.); Philotheus Boehner (a cura di), The tractatus de praedestinatione et de p res ci en t i a Dei et de f ut uri s co n t i n g en t i b us o f W i l l i am Ock h am , St . Bonaventura N.Y. 1945; Léon Baudry (a cura di), La querelle des futurs contingents (Louv ain 1465-1475), Paris 1950; Guy Thomas, Matière, contingence et indéterminisme chez Saint Thomas, in «Laval Théologique et Philosophique», 22 (1966), pp. 197-233. È evidente che in questo vi è una delle radici della tesi dell’inconoscibilità della volontà futura di Dio, che Max Weber ritiene così importante per la nascita dell’elemento paradigmatico del Moderno capitalistico. Vi ritorneremo più tardi. (20) Vedi Peri hermeneias 16a 3 e segg.. (18)
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Questo problema conduce innanzitutto al quesito circa i criteri di verità che assorbono la contingenza, i quali furono considerati da Heidegger uno dei motivi della corruzione della metafisica occidentale, come passaggio alla determinazione dell’ente non attraverso l’essere, bensì attraverso la correttezza (orthótes) dell’immaginare. Tali criteri di verità debbono essere fissati “canonicamente” (anche se questi regolano solo l’osservare), poiché in caso diverso tutto l’osservabile dovrebbe valere come contingente. La presunzione di tale contingenza universale avrebbe però contraddetto tutto il concetto portante della natura (dell’es-sere e del conoscere). E questa presunzione apparve inizialmente come imprescindibile, poiché essa garantisce l’essere e il divenire delle cose (nel senso ampio di res). La situazione cambia radicalmente nel senso della contingenza universale attraverso l’invenzione giudaico-cristiana del Dio creatore. In base a questa esiste solo un Dio (anche se triplice). Dio osserva il mondo senza venirne influenzato. Pertanto il mondo può essere contingente per lui, mentre noi soffriamo di necessità e impossibilità. E proprio per questo la liberazione dal mondo per noi consiste nell’osservare l’osservatore Dio e nel vedere che dipende solo da lui (e non dal mondo). Dio è l’osservatore per antonomasia, il quale ha creato tutto, e crea (dunque mantiene) tutto continuamente nella forma della creatio continua, e vede tutto contemporaneamente e sa tutto. Dal punto di vista della religione ciò significa: Dio è una persona con proprio queste qualità. Questo si deve credere. Si può però al contrario anche supporre che l’attribuzione della personalità e della potenza serva a farne l’osservatore di tutto il mondo. Chiunque ci creda si sa osservato sotto ogni punto di vista e non solo come violazione della sua sfera privata, per così dire senza tutela dei dati, ma anche in tutto ciò che lo circonda e che potrebbe motivarlo. Dio sa dunque già adesso, lo sapeva già prima, quando si sbaglia, e lo consente! Egli conosce quindi anche i futura contingentia(21). L’assolutezza della visione non costituisce una intromissione e indiscrezione dell’osservatore, essa è anche la conseguenza necessaria della sua funzione di creatore. Essa costituisce il motivo per cui qualcosa è, anziché non essere niente. L’uomo può solo osservare Dio, poiché l’uomo esiste, ed egli esiste solo, poiché Dio lo osserva (22). Così Dio (21) Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I, q. 14 a. 13. Questo naturalmente non può escludere che Dio sia causa necessaria anche del contingente. Il che può an ch e s i g n i fi care ch e i l s en s o del co n t i n g en t e p o s s a es s ere s v el at o s o l o nell’osservazione di Dio. (22) «Et cum videre tuum sit esse tuum, ideo ego sum, quia tu me respicis», si legge in Nicolò Cusano, De v isione Dei IV, cit. da Philosophisch-theologische Schriften, vol. III, Wien 1967, pp. 93-219 (104).
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offre, con il suo osservare, la possibilità di osservarlo, anche se solo come Deus absconditus, come Dio non osservabile (23); e non come necessità, bensì solo come possibilità da cogliersi liberamente, come bene contingente. L’essere osservato è reso possibile dall’essere osservato. Al di fuori di questa situazione non c’è alcuna esistenza “Visio enim praestat esse quia est essentia tua” (24). E pertanto, diversamente dalla situazione immaginata da Aristotele, tutto ciò che è, è contingente, poiché determinato dalla creazione. Questa poi non può naturalmente essere una qualità ontologicamente di minor valore del valore pieno dell’essere, bensì deve essere considerata come aspetto positivo della creazione: “dico”, dice Duns Scoto, “quod contingentia non est tantum privatio vel defectus entitatis (sicut est deformitas in actu illo qui est peccatum), immo contingentia est modus positivus entis (sicut necessitas est alius modus), et esse positivum” (25). Si ricorda che il concetto dell’osservare comprende l’esperire e l’agire. L’osservazione tramite Dio è la creazione e la conoscenza del mondo in uno. In Dio si ritrovano insieme le qualità della ragione e della volontà, che nell’uomo sono separate (26). La competenza universale di Dio non consente la loro separazione (la quale è possibile solo sotto il manto dell’ignoranza). Dio pertanto non ha nemmeno il problema di controllare le proprie passioni secondo ragione. Ciò che egli compie è ragionevole, al di là di quanto possano comprendere gli uomini. Da ciò derivano problemi per gli uomini per quanto riguarda l’osservazione di Dio. La filosofia antica aveva pensato a dei filosofi che avevano osato osservare la luce più chiara (27). Soprattutto però ci si riteneva e ci si ritiene ancor oggi, in questo compito dell’osservare (23) «Videndo me das te a me videri, qui es Deus absconditus» — così Cusano, ibidem, vedi p. 108. (24) Cusano, ibidem, XII, p. 142. (25) Ordinatio I, dist. 39, q. 1-5, Ad argumenta pro tertia opinione, cit. in base ad Opera Omnia, vol. VI, Civitas Vaticana 1963, p. 444. Le riflessioni che seguono si riferiscono alla causa prima, con l’argomento che la contingenza non può essere ricondotta, come fosse una deformazione, a una causa secunda. La contingenza deve dunque essere considerata come direttamente correlata al sapere di Dio. (26) «oportetin Deo esse volutatem, cum sit in eo intellectus. Et sicut suum intelligere est suum esse, ita suum velle», si legge in Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I q. 19 a. 1. Ci si può naturalmente chiedere a che scopo venga mantenuta questa distinzione. (27) Platone, Sofista 254 A - B tocca il tema dell’osservazione di secondo ordine, allorché dice che i filosofi sarebbero difficili da osservare, proprio perché il loro punto di osservazione richiederebbe il massimo di illuminazione (dià tó lampròn aû tês chóras oudamôs eupetès ophthênai).
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l’osservazione di Dio, teologi. Questi condividono tale compito con il diavolo Satana (o Iblis), con l’arcangelo, che per amore di Dio non può resistere alla tentazione di osservare Dio, e pertanto deve porre un limite tra sé e Dio, soccombendo alla tentazione di conoscerlo meglio; ponendosi dalla parte opposta rispetto al Bene, può realizzare per sé solo il Male(28) . Assumendosi questo stesso compito dell’osservazione dell’osservazione di Dio, i teologi si avvicinano pericolosamente al diavolo, e pertanto debbono prendere le distanze da questo. Ciò avviene secondo i valori della nobiltà con la distinzione ribelle/umile, dichiarando di conoscere il proprio posto, o con varianti popolari attraverso la demonizzazione del diavolo, in breve attraverso un osservare l’osservatore dell’osservazione di Dio. Ma anche se ci si distingue dal diavolo, quale osservatore di Dio t roppo st ravagant e, e ci si accontent a del l a doct a i gnorant i a, l’ambizione di osservare l’osservazione di Dio conduce la teologia a porsi domande difficili, scomode, ad esempio, se Dio può osservare senza distinguere (29); e se sì, se allora tutto il suo osservare non diventi auto-osservazione; se Dio possa avere un’idea di se stesso (un problema che egli forse risolve rendendosi trino); se la creazione non sia creazione di se stesso, il peccato peccato contro se stesso, il peccato originale un practical joke con se stesso e la morte in croce una conseguenza; o, i n caso cont rari o, se non vi si a una l i m i t azi one dell’onnipotenza e dell’onniscienza, la quale rende possibile a Dio di distinguere tra autoreferenza ed eteroreferenza, al prezzo però di una netta e incurabile spaccatura di se stesso. Tali domande non andrebbero però poste. Dal momento che l’uomo si sa osservato da Dio, dipende da lui l’osservare da parte sua l’osservatore che lo osserva, e precisamente, come gli raccomanda Cusano: attentissime (30). Ma al contempo ciò gli è assolutamente impossibile, a causa della condizione terrena della “contractio”. Per quanto riguarda Dio, l’uomo può, al di là del proprio sapere, solo andare verso l’oscurità. Egli può tuttavia sapere che solo egli sa, poiché sa di non sapere (31). Egli può (28) In maniera meno decisa gli arcangeli di Mark Twain, che scuotono la testa rassegnati — dovrebbe saperlo, non è cosa per noi. Vedi Mark Twain, Letters from the Earth, pubblicato postumo solo nel 1938. L’edizione usata è quella di New York 1962. (29) Anche viceversa ogni distinzione è ovviamente legata ad un autoriferimento, quantomeno secondo il modo di vedere odierno. «... self-reference and the idea of distinctio n are in s ep arab le (h en ce co n cep tually identical)», si legge in Kauffman, ibidem (1987), p. 53. (30) Ibidem, IV, p. 106.
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dunque solo vedere la paradossia, che viene percepita come soddisfazione massima, allorché si capisce che non è possibile capire. La teologia ha però in serbo per gli uomini (e per il proprio sollievo) una seconda soluzione. Dio ha disposto il mondo in maniera tale, che in tutto il contingente si trova qualcosa di necessario (32). Ciò limita il potenziale di sorpresa della creazione e fa parte così della sua sensata disposizione. Di tanto in tanto vi sono miracoli che infrangono questa regola, ma solo per ricordare agli uomini che Dio avrebbe potuto disporre anche questa diversamente. Si vede quanto la teologia eviti i suoi problemi propri, nell’attribuire, se così si può dire, umanità a Dio. Il modo di osservare di Dio viene interpretato, secondo una tradizione che persiste ancor oggi, come amore. “Videre tuum est amare” (33). Con ciò ovviamente i problemi logici dell’idea di Dio cui si è fatto riferimento non vengono risolti. Essi vengono lasciati alla speculazione teologica. Noi dobbiamo solo evitare di cedere alla tentazione di porci tali quesiti, lasciando questa tentazione alla teologia e consentirle di risolverli con il mistero della Trinità. Nel contesto di uno studio sociologico sulla genesi e il significato della semantica della contingenza della società moderna può bastare, come punto di partenza, che sull’idea di Dio sia stata disposta un’osservazione di secondo ordine e che sia stata utilizzata come principio universale di costruzione del mondo. In ciò gli attributi di Dio assumono la funzione di garantire stabilità e aspettative certe ad un tale mondo dell’osservazione di secondo ordine, nonostante la persistente contingenza. Ancora Cartesio si affida ad essi, poiché il cogito ergo sum può trovare conferma in concezioni vere e false. Dio ha avuto buone intenzioni, anche se noi lo sappiamo solo perché la nostra idea di Dio esclude tutte le altre. Ma se poi è la nostra idea di Dio, il nostro concetto, la nostra coscienza, allora tutta la costruzione dell’osservazione di secondo ordine non è una nostra costruzione? Non possiamo osservare anche che dobbiamo pensare così, se noi tentiamo di concepire Dio come privo di contraddizioni. E se è così, non potremmo optare altrettanto giustamente per l’altro aspetto di questa forma? In ogni caso in questo punto l’ordine può essere invertito. Si tratta (31) «Et hoc scio solum, quia scio me nescire», ibidem XIII, p. 146. Cito le versioni latine, per evitare errori di traduzione. Nella traduzione tedesca a fronte, si legge in questo caso: «Ich weiß allein, daß ich weiß, daß ich nicht weiß» [«So solo, che so di non sapere»] (Il corsivo è mio, N.L.). Ma il particolare interessante e anche il parallelismo rispetto al costruttivismo moderno è nel poiché (quia). (32) «nihil enim est adeo contingens, qui in se aliquid necessarium habet», si legge nella Summa Theologiae I q. 86 a. 3 di Tommaso. (33) Cusano, ibidem, IV, p. 104.
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solo dell’interrogativo antico, riproposto nel 17esimo secolo sotto il nome di Teodicea, sul perché Dio permetta il male e ne consenta le libertà corrispondenti (34). Si tratta della questione del male assoluto (del male per il male, indipendentemente da tutti i condizionamenti) e pertanto in definitiva dell’interrogativo, se e come si possa distinguere se il mondo sia stato approntato per il bene o per il male; e poi anche della domanda successiva: perché il tutto dipenda da questo. Già nel 16esimo e 17esimo secolo si comincia a cercare nel concetto di natura una tutela nei confronti degli effetti indiretti delle controversie teologiche (35). La natura sembra convincere proprio le scienze avanzate, come avviene per il diritto naturale, in maniera naturale (36). La sua interpretazione, latrice di certezza, non ha bisogno di alcuna deviazione verso l’osservazione di secondo ordine. In questo vi è, visto retrospettivamente, solo un dato provvisorio, il quale consente ai sistemi funzionali di creare a modo loro forme molto diverse dell’osservazione di secondo ordine. Per fortuna o sfortuna l’evoluzione della società non dipende dalla risposta a tali quesiti di teologia morale o di diritto naturale. Essa tenta una strada propria, realizzando la differenziazione funzionale attraverso forme diverse, per ogni sistema, dell’osservazione di secondo ordine. Retrospettivamente sembra dunque come se la società si fosse solo allenata sull’idea di Dio, con l’effetto collaterale non previsto di prepararsi semanticamente all’ingresso nel mondo moderno. Si tratta, si potrebbe dire, di sviluppi a priori, di preadaptive advances (37) — come se ancora (34) Si veda ad esempio come questo interrogativo venga aggirato da Anselmo di Canterbury, De casu diaboli, cit. secondo Opera Omnia, Seckau - Roma Edinburgh 1938 e segg., ristampa Stuttgart - Bad Cannstatt 1968, Vol. 1, pp. 233-272, con un procedimento accuratamente circolare: non viene dato, perché non viene accolto; e questo in definitiva, poiché l’angelo, che diventa diavolo, tenta di osservare Dio, per essere simile a Dio e non solo, come affermano i teologi, per obbedire a Dio. Ma solo una nobiltà può condannare e sanzionare così pesantemente un tale voler essere simile. Potremmo chiedere: e perché no? (35) Cfr. in merito Benjamin Nelson, Der Ursprung der Moderne: Vergleichende Studien zum Ziv ilisationsprozeß, Frankfurt 1977. (36) Il diritto naturale e internazionale sarebbe sorto “senza alcuna riflessione e senza prender esemplo l’una dall’altra” (cioè, delle nazioni), si legge ancora in Giambattista Vico, La scienza nuov a lib. I, II, CV, cit. dall’edizione di Milano 1982, p. 225 . Ma qui s i tratta g ià di un ’o s s erv azio n e di s econdo ordine di un’osservazione di primo ordine interessata alla storia. (37) Cfr. in merito alla discussione in seno alla teoria evolutiva Eve-Marie En g el s , Erk en n t n i s al s A n p as s un g ? Ei n e S t udi e z ur ev o l ut i o n ären Erk enntnistheorie, Frankfurt 1989, p. 187 e segg.. Qui si parte solitamente da un cambio di funzione delle conquiste, poste in un’ottica nuova, evolutiva, che emergono in un contesto specifico (in questo caso della riflessione teologica sulla religione), per poi rivelarsi utilizzabili anche in altri contesti.
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nell’ambito della società tradizionale ci si fosse riadattati alle contingenze di cui si sarebbe avuto successivo bisogno con l’aiuto della religione, cioè all’interno di un mondo tutelato da Dio. Anche il parallelismo tra vedere e fare, immaginare e produrre, ricerca e sviluppo della tecnologia poté essere previsto fino al punto da non avere noi più problemi di principio nella società moderna, tranne quelli di una realizzazione che riesce. Perciò rimaneva solo da accettare che l’universalità della contingenza sia collegata alla specificazione dei sistemi funzionali (38) e alle forme proprie, diverse da caso a caso, dell’osservazione di secondo ordine, laddove proprio questo poi possa valere anche per il sistema funzionale della religione. Tutto sommato una descrizione del mondo ancora unitaria viene raggiunta con un notevole superamento dell’incoerenza. La “diversitas” rientra nelle intenzioni di Dio, è proprio una caratteristica della perfezione. E solo l’invenzione della stampa drammatizza l’esperienza di quanto fortemente questa incoerenza si ripercuota anche sull’insegnamento divino, anche sul piano dell’osservazione di secondo ordine.
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Il tentativo più noto di spiegare il passaggio al Moderno, nella specificità delle sue condizioni, attraverso la religione secondo una determinata impostazione teologica, è ancora quello di Max Weber. La particolare affinità dell’indirizzo economico capitalistico con la teologia puritana (Weber parla, significativamente, di “etica”), viene vista nello spiegare i motivi che in caso diverso sarebbero rimasti socialmente sospetti (39). Alla base di questo vi è un modello teorico di azione. Ciò significa innanzitutto: il fatto che l’agire ha sempre bisogno di motivi (attribuzioni di intenti, giustificazioni, “accounts”), deve essere comprensibile “rispettando il senso”. Il quesito, se non si tratti anche in questo caso di (38) Usiamo qui i “pattern variables” di Talcott Parsons, Pattern Variables Rev isited, in «American Sociological Rewiev», 25 (1960), pp. 467-483. (39) Cfr. sullo stesso tema, indipendente nella concezione di Weber, Benjamin Nelson, The Idea of Usury : From Tribal Brotherhood to Univ ersal Otherhood, Chicago 1949. Nel frattempo sono state presentate, anche in relazione a quesiti etici, forti tesi di continuità, che si ricollegano meno alla religione che non alla tradizione etico-politica della tradizione della civiltà umanistica. Si veda John G.A. Pocock, The Machiav ellian Moment: Florentine Political Thought and the A t l an t i c R ep ub l i can Tradi t i o n , Pri n cet o n N. J . 1 9 7 5 ; Is t v an Ho n t / Mi ch ael Ignatieff (a cura di), Wealth and Virtue: The Shaping of Political Economy in the Scottish Enlightenment, Cambridge England 1983.
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un fenomeno dipendente dalla cultura e i motivi sorgano solo se debbono essere giustificati o in ogni caso presentati, non viene accettato dalla teoria (40). Pertanto anche la contingenza (la necessità di giustificazione) degli scopi è già prevista come postulato teorico. Senza motivi non vi sono scopi. Che tutta la tradizione aristotelica abbia insegnato diversamente non può essere preso in considerazione dalla teoria dell’azione, come lo stesso Weber dovrebbe aver sempre pensato (41). Per la teoria dell’azione è semplice postulare per le strutture dell’economia capitalistica ad essa note un corrispondente bisogno di motivi sul piano dell’azione, vale a dire passare dalla macroanalisi alla microanalisi. Ma essa può anche — di contro — spiegare macrosviluppi muovendo da microcondizioni conformi all’azione, ad esempio il nascere di investimenti sufficientemente grandi e produttivi su mercati che lo giustifichino, o lo sviluppo di tecniche economiche capitalistiche (doppia contabilità, strumenti finanziari, banche di depositi ecc.)? (42). Le riflessioni proposte nel paragrafo precedente, a causa di queste inadeguatezze dell’apparato teorico, passano da premesse di teoria dell’azione a premesse di teoria dei sistemi. L’operazione osservazione (con la quale si può perfettamente intendere l’azione), si distingue in base ad una obbligatorietà che costruisce il sistema (anziché avente fondamento soggettivo). Oppure, per esprimerla in modo migliore: essa si occupa solo con un reticolo recursivo del tempo e con esso della differenza rispetto all’ambiente. “Osservazione” e “sistema” sono concetti che si condizionano reciprocamente e alternativamente. L’“osservazione”, intesa come operazione, significa che tali processi consistono solo in eventi prodotti per via di autopoiesis, e che quindi continuano, se e finché possano veni(40) Si veda però C. Wright Mills, Situated Actions and Vocabularies of Motiv e, in «American Sociological Review», 5 (1940), pp. 904-913, e soprattutto l’opera, rimasta sconosciuta alla sociologia, di Kenneth Burke, in particolare A Grammar of Motiv es (1945) e A Rhetoric of Motiv es (1950), edizione unica Cleveland 1962. (41) L’opera è, proprio nel caso di Weber, molto più ricca di quanto la teoria, sviluppata su un lavoro di definizione, consenta. Nella teoria vengono sottovalutati soprattutto i problemi di complessità, e Weber lo ha probabilmente intuito, come si può desumere dalle molte clausole risolutrici di alcuni scritti e in generale del metodo basato sui tipi ideali. (42) Cfr. su questo punto James S. Coleman, Microfoundations and Macrosocial Behav ior, in Jeffrey C. Alexander et al. (a cura di), The Micro-Mak ro Link , Berkeley 1987, pp. 153-173. Lo stesso Weber occulta questo problema rinviando alle abituali interpretazioni, che si attengono al “tipico”. Ma ciò conduce ad una nuova formulazione dell’interrogativo circa le condizioni socio-strutturali e gli effetti sociali di tali tipizzazioni.
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re prodotti degli eventi di collegamento. E il termine “sistema” dice che nonostante questa autolimitazione, o proprio a causa di essa, è raggiungibile un’alta complessità strutturale. Un’analisi fondata su questi concetti fornisce un nuovo profilo anche alla rappresentazione che Weber fa delle conseguenze dell’“etica protestante”. Nel 16esimo/17esimo secolo non si è trattato di forme nuove, adeguate alle tendenze della giustificazione di motivi, bensì di una nuova necessità di motivi, di nuove spinte esercitate da motivi, da nuovi sospetti di motivi (43). L’azione viene normalmente spostata su fondamenti motivazionali, e ciò non significa altro che tematizzarla nel contesto dell’osservazione di secondo ordine. Ma questo, per quanto rimanga importante, è solo un momento di uno spostamento verso un’osservazione di secondo ordine, il quale ha un ambito molto più ampio e si riflette su tutta la società. Infatti l’osservazione di secondo ordine è la base operativa per l’articolazione strutturale mediante differenziazione di particolari sistemi funzionali sociali. Ovviamente il tutto rimane dipendente dal processo operativo di differenziazione attraverso la comunicazione del sistema globale costituito dalla società. Ciò significa che la società può attivare le osservazioni solo nella forma della comunicazione, e dunque non nella forma di operazioni interne alla coscienza, e soprattutto non nella forma di percezioni. Se ora viene spostata sul modo dell’osservazione di secondo ordine non solo la percezione della percezione degli altri, o l’attenzione consapevole per il (supposto) pensiero degli altri, bensì anche la comunicazione, si arriva ad un accrescimento immenso della complessità di cui si dispone nella società. In questo senso l’osservazione di secondo ordine, con la sua semantica, è in termini metodologici, una variabile che interviene, la quale spiega che la società può passare ad una forma di differenziazione orientata verso le funzioni. (43) Tra i molti ambiti, in cui sarebbe possibile dimostrarlo, si consideri solo il passaggio dalle rappresentazioni teatrali del Medioevo, che si tenevano all’aperto, al teatro fornito di palcoscenico del 16esimo secolo; inoltre la discrepanza emersa nei romanzi tra scopo e motivo (ad esempio: Don Chisciotte). Anche la distinzione tra virtù vera e falsa, e il divieto di ricercare — perché in tal senso motivati — il successo e il rispetto automaticamente scaturenti dall’azione virtuosa e abile, fanno parte di questo contesto. L’abilità, nei limiti in cui viene osservata, deve rivelarsi come ingenua, naturale, spontanea, autentica, veritiera, e dunque rimanere solo sul piano dell’osservazione di primo ordine. Ma ciò viene formulato solo in riferimento al fatto che essa è esposta all’osservazione di secondo ordine.
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L’elaborazione di questo approccio di ricerca richiederebbe un vasto e approfondito lavoro, sia sotto il punto di vista della teoria formale, che empirico, per ogni singolo sistema funzionale. Nell’ambito di una breve trattazione, e persino nell’ambito di un solo libro, ciò non può venire effettuato. Ci dobbiamo accontentare di alcuni brevi statements, che indicano le direzioni della ricerca e al contempo sono formulati in maniera tale da chiarire il contesto storico dello spostamento nel 18esimo secolo.
1. Il sistema scientifico si sposta sull’osservazione di secondo ordine demolendo ogni tipo di autorità che avesse il potere di annunciare la verità, e sostituendola con il medium delle pubblicazioni. Le pubblicazioni diventano, quali che siano le basi di conoscenza, così elaborate, che è possibile osservare la maggiore conoscenza cui si mira, e dunque è possibile osservare come si è osservato. Nella dottrina della scienza classica, ci si attendeva questo risultato dall’imposizione di una disciplina metodica e dell’eliminazione di interferenze soggettive. Le più recenti ricerche hanno nel frattempo dimostrato che, a fronte di ciò, alla preparazione di pubblicazioni va attribuito un significato molto indipendente, selettivo, persino stilizzante. La produzione e la presentazione dell’aumento della conoscenza si disfanno, e mentre il ricercatore nel corso della ricerca rimane osservatore di primo ordine, e vede dunque direttamente ciò che gli si mostra, egli deve mostrare, nel medium della pubblicazione, di tener conto dello stato della ricerca, e dunque di osservare quello che altri hanno osservato, e che egli stesso mette insieme la sua presentazione con una cura tale da rendere possibile agli altri di osservare meglio possibile ciò che egli ha osservato e nel modo in cui egli ha osservato (44). 2. Al più tardi dall’inizio del 19esimo secolo anche il sistema dell’arte si è spostato verso un’osservazione di secondo ordine. L’idea di una resa (imitatio) di qualcosa che è al di fuori del sistema dell’arte, viene abbandonata, e sostituita dall’accentuazione delle forme (distinzioni) realizzate nell’opera d’arte, che coordinano l’osservazione che deve essere prodotta e osservata. I confronti con l’esterno vengono (44) Come letteratura relativa si veda, ad esempio, Karin Knorr-Cetina, Die Fabrik ation v on Erk enntnis: Zur Anthropologie der Naturwissenschaft, Frankfurt 1984; Rudolf Stichweh, Die Autopoiesis der Wissenschaft, in Dirk Baecker et al. (a cura di), Theorie als Passion, Frankfurt 1987, pp. 447-481; Charles Bazerman, Shaping Written, Knowledge: The Genre und Activ ity of the Ex perimental Article, Madison Wisc. 1988.
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sostituiti dall’effettuazione di distinzioni interne (opposizioni, contrasti ecc.). L’ambito dell’accessibile per l’arte si espande e viene limitato solo dai parametri propri dell’elaborazione artistica. L’autonomia dell’arte consiste allora nel limitarsi unicamente da sola. L’ultimo criterio rimane: verificare se all’osservazione riesca di invogliare ad osservare. Il sistema usa infatti nella poesia parole, nell’arte figurativa materiali, nella danza corpi, che appaiono anche in altri contesti, e costruisce così riferimenti esterni; ma esso si disciplina attraverso l’applicazione interna, organizzata al fine di rendere possibile l ’osservazi one del l e form e, e si t rova dunque al servi zi o dell’osservazione di secondo ordine (45).
3. Nell’uso linguistico della teoria politica continuano infatti a venire usati i termini riferentisi al potere (democrazia, sovranità, altezza ecc.). Concretamente però questo sistema si è coordinato all’osservazione di secondo ordine al più tardi dall’Ottocento, e precisamente mettendosi regolarmente e continuativamente in sintonia con la pubblica opinione. Ciò non vuol dire affatto che la pubblica opinione costituisca il vero potere all’interno dello Stato, come si credeva negli ultimi decenni del Settecento; è però vero che essa agisce come uno specchio, in cui il politico può vedere, sulla base di specifiche “issues”, come egli stesso e altri vengono giudicati (46); e le elezioni politiche, che a loro volta non costituiscono affatto uno strumento di potere, danno forza a questa impostazione, proprio perché non è ancora certo che essa sarà determinante. Quindi l’occupazione del livello più alto della gerarchia statale viene posta come contingente, anche se tutto dipende dal potere di quello; solo così infatti si garantisce agli occhi del pubblico la centralità dell’opinione pubblica e la costante osservazione reciproca tra governo e opposizione. 4. Il sistema economico si orienta secondo il modo dell’osservazione di secondo ordine, nell’osservare i prezzi e registrare se con i prezzi volta per volta fissati si possano effettuare transazioni oppure no, se i concorrenti offrano altri prezzi e quali tendenze di mutamento dei prezzi si possano osservare (47). Pertanto la formazione dei prezzi non può essere (45) Eccezione considerevole è la musica. Essa si serve di toni che vi sono solo n el l a mus i ca e n o n al t ro v e. Ci ò s emb ra av ere l a fun zi o n e di co n cen t rare l’eteroriferimento dato sull’esperienza del tempo. (46) In merito Niklas Luhmann, Gesellschaftliche Komplex ität und öffentliche Meinung, in, dello stesso autore, Soziologische Aufk lärung, Vol. 5, Opladen 1990, pp. 170-182. (47) Vedi Di rk Baeck er, In f o rm at i on un d R i s i k o i n der M ark t wi rt s ch af t, Frankfurt 1988.
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“giusta”, poiché ogni parametro esterno impedirebbe l’osservazione dell’osservazione di altri o la spingerebbe verso percorsi tortuosi e meno efficaci; il prezzo di mercato non può nemmeno essere condizionato da dati di aggregazione o da intenti di politica economica, poiché anche questo complicherebbe la funzione di rendere possibile l’osservazione di osservazioni, e talvolta la bloccherebbe. Anche in questo caso è facilmente riconoscibile il nesso tra osservazione di secondo ordine, contingenza dei prezzi, chiusura del sistema nei confronti dell’ambiente e autonomia nel senso dell’autolimitazione.
5. Nel sistema giuridico il passo decisivo nel senso dell’evoluzione è nella totale positivizzazione del diritto, praticamente nella sostituzione della distinzione diritto naturale/diritto positivo, con la distinzione diritto costituzionale/diritto normale, avvenuta alla fine del Settecento. Ciò fa sì che il diritto venga osservato tenendo presente l’interrogativo quanto sia stato deciso o come si decida. L’interpretazione e la prognosi sono forme della produzione di testi da testi, e pertanto forme dell’osservazione di secondo ordine. Questo non conduce affatto all’arbitrio, come sostiene la critica di decisionismo, ma di nuovo ad autolimitazione. Infatti l’arbitrio non potrebbe essere interpretato o previsto.
6. Tra i sistemi più influenti nei quali ha luogo l’osservazione di secondo ordine, e di cui si può fare esperienza diretta, vi è la famiglia moderna (48). Il medium dell’amore, usato nella comunicazione per la costituzione della famiglia, fa sì che (qualunque cosa si voglia pensare delle realizzazioni psichiche) ciascun membro debba fare attenzione a come viene osservato dagli altri (49). L’indifferenza in merito è un sintomo evidente di mancanza d’amore, mentre l’amore stesso si abbandona al circolo della doppia contingenza e quindi inevitabilmente si “aliena”, cioè si fissa sui simboli dello sviluppo di questo circolo, alla messa in parentesi di punti difficili o anche alla comunicazione paradossale. Come spesso avviene nella comunicazione di secondo ordine, ciò non significa affatto che il consenso (e anche se si tratta solo dello sforzo di trovare (48) Vedi Niklas Luhmann, Sozialsy stem Familie, Soziologische Aufk lärung Vol. 5 ibidem, pp. 196-217. Cfr. anche lo scritto successivo Glück und Unglück der Kommunik ation in Familien: Zur Genese v on Pathologien. (49) Che questa osservazione fisica di osservazioni può essere condotta al fallimen t o p ro p ri o at t rav erso l a co mun i cazi on e, ch e v i en e i n v ece o s s erv at a, è un’esperienza quotidiana nota, ma anche un tema già trattato in letteratura attorno al 1800. Vedi ad esempio “Siebenk äs” (per i mariti) o “Flegeljahre” (per i fratelli gemelli) di Jean Paul.
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consenso) sia prescritto e funga da testo. L’amore si mostra piuttosto nella misura della capacità di lasciar essere gli altri come sono, e a sintonizzare il proprio modo di osservare, e soprattutto di agire, sulla alterità osservata delle osservazioni dell’altro. In ogni caso la singola famiglia trova il proprio limite di sistema nell’inclusione di persone in questo modo di osservazione di secondo ordine, per cui vi può essere solo un gran numero di famiglie, ma non un sistema collettivo della famiglia sociale.
7 Per il sistema educativo ci si orienta sulla migliore delle invenzioni semantiche del bambino, laddove è discusso fino a che punto essa debba essere attribuita al 17esimo oppure al 18esimo secolo (50). Mentre in precedenza il bambino veniva considerato come fenomeno naturale della specie uomo, come essere umano ancora piccolo, non ancora pronto, e si pensava che l’educazione ne dovesse accompagnare l’evoluzione, la dovesse completare, o anche prevenire le potenziali corruzioni, ora l’osservazione del bambino viene osservata per poterne trarre conclusioni al fine di educarlo adeguatamente. Per l’educazione familiare questo può essere realizzabile. Facilmente dall’educazione nelle classi scolastiche si pretenderà troppo; ma anch’essa esige, sotto il profilo metodico (didattico), che si parta dalle possibilità di comprensione del bambino. Con tutte le diversità evidenti, derivanti dalle diverse funzioni e codificazioni di questi sistemi, si evidenziano sorprendenti punti in comune, che sono al contempo “strutture profonde” della società moderna. Che con i mezzi teorici si possa accrescere la confrontabilità del diverso, è noto. Qui si tratta inoltre di un’affermazione sulla società moderna. Questo tipo di società si realizza non più attraverso preminenze di ambiti singoli della nobiltà o della città. La caratterizzazione data dal contesto sociale si mostra molto di più nelle conseguenze non arbitrarie dell’autonomia dei sistemi funzionali. Questi si rivelano proprio per questa ragione, pur con tutte le diversità, come simili (e in questo senso specifico dunque moderni), poiché essi hanno realizzato una chiusura operativa e un’autonomia autopoietica: cioè non funziona in un modo qualsiasi, bensì solo nella forma di adattamenti, che prevedono tra l’altro un’osservazione di secondo ordine come operazione normale portante del sistema. Questo ci spiega il dato sorprendente che questa società si affida come nessuna prima di essa alle contingenze. (50) Vedi
Philippe Ariès, L’enfant et la v ie familiale sous l’ancien régime, Paris 1960, e George Snyders, La Pédagogie en France aux XVIIème et XVIIIème siècles, Paris 1965.
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I suoi sistemi funzionali non hanno bisogno per le loro operazioni di alcun sussidio religioso. Le coincidenze con la religione, coincidenze, ad esempio, di attacchi etici e religiosi ad una data formazione statale, possono venire liquidate come caso o particolarità regionale. Ciò vale tra l’altro anche per la fine del 16esimo e l’inizio del 17esimo secolo, per i nessi tra riforma della chiesa, consolidamento dello stato territoriale, riforme della giustizia e forzatura di una specifica semantica nobiliare. Fenomeni passeggeri di questo tipo non durano e le particolarità regionali non sono universalizzabili a livello di società mondiale. I sistemi funzionali lavorano, in altri termini, secolarizzati; o in ogni caso è questo il concetto con cui questo fenomeno viene descritto dal punto di vista del sistema religioso. In considerazione dell’importanza storica della religione cristiana per l’universalizzazione della semantica della contingenza, la “secolarizzazione” è al contempo una definizione storica (specificamente dell’era moderna), un “concetto di politica delle idee”. In questo contesto tuttavia i sistemi funzionali hanno formato rispettivamente forme proprie dell’osservazione di secondo ordine e dunque diverse esperienze di contingenza. Corrispondentemente la società consente al singolo individuo, se lo desidera, di vivere anche senza religione, e di vivere bene. Solamente: le semantiche della contingenza dei sistemi funzionali sono aperte al futuro. Esse non escludono che tutto ciò che volta per volta è stato supposto, potrebbe essere anche diversamente e venire ridefinito attraverso la comunicazione. La loro propria autopoiesis esige l’impiego di operazioni senza certezza sull’esito definitivo, solo sulla base di ciò che al momento sembra ovvio e convince, o viene assunto come fatto come i valori di borsa del giorno, l’impossibilità di rivolgere la parola al coniuge o il successo spettacolare di acrobazie intellettuali. Questo può dipendere anche, se si vuole momentaneamente riprendere l’idea di Durkheim dell’integrazione sociale attraverso la religione, dal fatto che non ci sono più forme socialmente necessarie per la coesione sociale dei sistemi funzionali, per la loro reciproca limitazione. La stessa sociologia pertanto ritiene limitate nel tempo le sue diagnosi del presente, caratterizzate da discontinuità, le quali vanno accantonate o sostenute (51). Anche la religione non cambia nulla di questo stato di cose. Essa non determina quali prezzi siano politicamente opportuni o giusti e contri(51) Si v eda i n meri t o p art i co l armen t e Kl aus Li ch t b l au, S o z i o l o g i e un d Zeitdiagnose: Oder: Die Moderne im Selbstbezug, in Stefan Müller-Doohm (a cura di), Jenseits der Utopie: Theoriek ritik der Gegenwart, Frankfurt 1991, pp. 15-47.
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buiscano alla felicità familiare o quali teorie possano venire usate militarmente o industrialmente o siano adatte a rendere interessante la didattica educativa. Tutto questo deve essere lasciato alle coincidenze del momento. Altrimenti infatti l’autonomia e la dinamica propria autopoietica verrebbero ristrette troppo fortemente, perderebbero efficacia e verrebbero infine corrotte nel vecchio senso del termine. Necessità e impossibilità non rappresentano più oggi la struttura d’ordine del mondo. Esse sono ancora solamente modalità, che vanno accettate per ragioni di tempo. Proprio per questo anche la religione, in conformità a questo modello e alle sue strutture profonde, possiede la sua funzione non integrabile, con cui può non determinare altri sistemi, ma a seconda delle circostanze integrarli. Solo religiosamente si può comunicare l’essere convinti, e dunque condurre al di fuori della ostinazione meramente individuale. Nessun altro sistema funzionale della società può trasmettere e rendere comunicabile la convinzione che ciò che si fa è in definitiva bene, si tratti di attività terroristiche o della gestione di un albergo, della costruzione di nuove armi o di nuove teorie o di un’efficace retorica per programmi politici, di influenza sull’educazione dei propri figli o della ricerca disperata e sconosciuta al mondo del proprio stile artistico. E anche questo rientra nel contesto della società moderna, che in tal modo ci si opponga alla contingenza del proprio agire e non ci si lasci confondere dal fatto che la propria osservazione venga osservata.
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IV. La descrizione del futuro
I
La formulazione della mia tesi può suonare un po’ insolita. Quando si parla di futuro, si pensa normalmente ad una previsione. Si cerca di prevedere e predire quello che verrà. Questo desiderio è vecchio come la Mesopotamia. Oppure si vede il futuro sotto il punto di vista degli effetti in atto. Si vorrebbe poter produrre determinate situazioni che da sole non si produrrebbero. Nell’un caso si ha nel presente il problema della vera conoscenza di possibilità di regolarità, nell’altro il problema dei mezzi e dei costi. Ma perché si deve descrivere il futuro? E come si può farlo, se nel presente non è ancora visibile ciò che si dovrebbe descrivere? Proprio questo è il problema che va trattato qui. Al contempo in esso vi è una distanza voluta rispetto alle prospettive del sapere e del volere. Torniamo un passo indietro con l’interrogativo su come descrivere il futuro, e chiediamoci innanzitutto: come possiamo sapere quello che accadrà in futuro? E come possiamo volere qualcosa di determinato in merito al futuro, che non è ancora afferrabile? O in altri termini: in quali forme il futuro si presenta nel presente? Parto dalla considerazione che non vi è una risposta valida una volta per tutte a questa domanda. Tutte le affermazioni sul tempo dipendono dalla società in cui vengono formulate. I concetti di tempo sono concetti storicamente connotati. È un fatto incontestato tra gli storici, gli etnologi e i sociologi. Oggi dobbiamo vivere con prospettive future molto incerte, e l’incertezza non si fonda sul piano divino di salvezza, bensì nel sistema sociale, che deve rendere conto di se stesso. Metaforicamente si parla in ogni caso ancora di prospettive apocalittiche — il sole calante della teologia proietta lunghe ombre — ma noi sappiamo molto bene che il futuro della società è un problema che può essere formulato solo nella società e su cui solo nella società si può decidere a priori in un modo o nell’altro. 81
II
Una possibilità di comprendere la situazione attuale è di confrontarla con forme più vecchie di descrizione del futuro. Certamente non è che il futuro sia un’invenzione dell’era moderna, anche se una volta si parlava piuttosto delle cose a venire — de futuris — al plurale, piuttosto che di futuro al singolare. Ma la misura della variabilità si è accresciuta con la complessità del sistema sociale, e questo determina le forme semantiche che vanno prese in considerazione per una descrizione del futuro. Fino all’era moderna inoltrata si percepì la vita sociale in un cosmo di essenze, il quale garantiva la costanza delle forme e degli elementi, e così anche gli ordini di grandezza. Si poteva descrivere questo cosmo come natura o come creazione di Dio (e in ogni caso solo le autorità religiose potevano disporre delle essenze e delle sostanze). La natura prevedeva il futuro come forma finale di movimenti, come perfezione della natura, e ogni insicurezza veniva riferita a possibili corruzioni, a eventi casuali o ad un margine di variazione non necessariamente esistente per natura, ma naturale (1), e dunque non alle sostanze, ma agli accidenti. Nonostante tutta la costanza delle forme, si aveva a che fare con la variazione sul piano degli eventi. La morte precoce era esperienza quotidiana, che non riguardava però l’essere degli uomini. Quello che in questo mondo ci si proponeva, poteva fallire. Ci si vedeva esposti alla fortuna o alla sventura. La vita veniva percepita come esposta al pericolo. Non nella sostanza, ma nell’accidente si doveva far conto della storia. Tuttavia, tenuto conto della costanza delle forme degli esseri e dei buoni scopi, si poteva imparare dalla storia e ripiegarsi, per rimanere saldi nel giusto, (proprio inizio dell’era moderna) in concetti di virtù che suggerivano stoicismo, forza, atarassia. Le insicurezze del futuro restavano nell’ambito di una armonia di principio del mondo e dell’insieme delle cose invisibili e visibili. Non si poteva dubitare dell’harmonia mundi. Questo modello di partenza non reggeva più nell’epoca moderna, di fronte alle conseguenze dell’accresciuta complessità della società e del suo sapere. Fenomeni di corrosione e di critica si possono osservare fin dalla fine del Settecento. Come ha illustrato Arthur Lovejoy in una famosa monografia (2), l’ordine gerarchico degli esseri viene rovesciato e temporalizzato. Per ragioni di logica materiale il mondo può essere sorto solo in una lunga successione storica, alla quale dovette adattarsi Dio (1) Così ad esempio Aristotele, De interpretatione 9. (2) The Great Chain of Being: A Study of the History
Mass. 1936.
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of an Idea, Cambridge
stesso come creatore, ed essa pertanto non è affatto conclusa. Pertanto si passò dalla perfezione alla perfettibilità con una sicurezza molto minore rispetto all’interrogativo se la perfezione sarebbe stata anche veramente raggiunta. L’Emile di Rousseau, gli enormi sforzi dell’educazione in un solo caso, ne costituirono il modello per il futuro. Contemporaneamente la fiducia rispetto al futuro venne concepita in maniera diversa. L’agire umano venne concepito come costruzione parallela nei confronti della creazione con gli stessi archetipi, ma con esiti migliori. La rigida struttura della creazione venne messa in movimento dall’idea di progresso e dal criterio dell’utile. Nell’epoca tra John Locke e Jeremy Bentham lo stesso principio dell’utile venne secolarizzato e pertanto riscritto in conformità a preferenze storicamente variabili. La storia venne infine ricostruita come evoluzione, con la conseguenza che si poté spiegare solo il sostanziale attraverso l’accidentale, sfruttando gli eventi casuali. La saggezza della common law si vede nel contesto di una lunga storia di decisioni su casi singoli — da Coke attraverso Hale fino a Hume — e non in principi o in rigide forme. I concetti di sostanza vengono sostituiti dai concetti di funzione (un processo, che spiega se stesso come scambio di funzione). Il concetto di umanità come specie di natura viene dissolto da una doppia concettualità, che in ambedue le varianti offriva maggior spazio per l’individualità, attraverso il concetto di soggetto, che si adatta al mondo secondo il modo a sé più congeniale, e attraverso il concetto di popolazione, che migliora sul piano individuale attraverso il procedimento della selezione confermatrice, con la conseguenza che solo i più forti, i più belli, i meglio adattatisi hanno speranze per il futuro. Di fronte a questo quadro è comprensibile che la società moderna all’inizio della propria percezione di sé, potesse far conto sul futuro. Essa non era più la società divisa in classi della tradizione, essa non era però ancora quella che sarebbe diventata in futuro. Si trovava in una situazione di oscillazione tra il non più e il non ancora. Il Romantico esprimeva questo in poesia. La teoria politica pone speranze corrispondenti nella teoria costituzionale, nella liberazione della libertà. La teoria economica crede di poter determinare le condizioni del crescente benessere. Nel complesso si ha l’impressione che attorno al 1800, l’impossibilità di descrivere con esattezza materiale le nuove strutture della società moderna venga compensata dalle proiezioni future. Fin nel nostro secolo inoltrato si parla del progetto non concluso del Moderno e si richiede maggiore democrazia, maggiore emancipazione, maggiori possibilità di autorealizzazione, ma anche maggiore e migliore tecnica, in breve, di più di tutto quello che era stato promesso come futuro. Sia 83
nell’ambito tecnico che in quello umano la società si descrive attraverso la proiezione del proprio futuro. Ma questo Moderno è ancora il nostro Moderno? Lo è ancora il moderno di Habermas? Questa società, che ha approfittato dell’imbarazzo di non sapersi autodescrivere per proiettarsi nel futuro, è ancora la nostra società? Possiamo — e ci si potrebbe chiedere: dobbiamo — conservare una tale immagine del futuro, poiché non sapremmo come proporne un’altra, poiché non sappiamo chi siamo e dove ci troviamo? Dopo più di duecento anni in cui si è occupata di se stessa, la società moderna dispone di mezzi di autodescrizione molto migliori, più adeguati alla realtà. In ogni caso essa può percepire sempre più effetti strutturali che essa deve attribuire a se stessa, poiché sono connessi in maniera inscindibile con le istituzioni dalle quali dipende la continuazione della riproduzione sociale al livello raggiunto. Tutto è iniziato con l’osservazione delle conseguenze della rivoluzione industriale: più ricchezza e più povertà di prima, nota già Hegel nelle sue lezioni sulla filosofia del diritto (3); e già prima della Rivoluzione Francese il ministro Necker, esperto di cose pratiche, aveva sostenuto che, data questa situazione, l’idea classico-stabile della giustizia non funziona (4). La fanatizzazione dell’assoluto di nuovo tipo che seguì la Rivoluzione Francese come punto di vista del partito e la corrispondente disgregazione di qualunque unità semantica nelle ideologie è una conseguenza altrettanto precocemente notata, come anche la legittimazione del crimine disinteressato; manifestazioni che riportano un Friedrich Schlegel nelle braccia della religione che sola rende beati (la sola che dà la pace) (5). Ma nel frattempo sono emerse interpretazioni di questo tipo assai più irritanti. Si pensi agli oneri per l’economia e il diritto rappresentati dallo Stato assistenziale, pur tanto ispirato a buone intenzioni, e politicamente inevitabile. Oppure oggi, cosa che mette in ombra tutto il resto, alle conseguenze ecologiche della tecnica. Ci troviamo oggi pertanto in una situazione completamente diversa rispetto all’epoca dell’illuminismo, della Rivoluzione Francese o (3) Vedi Geo rg e Fri edri ch Wi l h el m Heg el , Ph i l o s o p h i e des R ech t s : Di e Vorlesung in einer Nachschrift v on 1819/20, a cura di Dieter Henrich, Frankfurt 1983, p. 193 e segg.. (4) «Il ne suffit plus d’être juste, quand les lois de proprieté réduisent à un étroit nécessaire le plus grand nombre des hommes», in Jacques Necker, De l’importance des opinions religieuses, London-Lyon 1788, cit. in base a Oeuv res complètes, vol. 12, Paris 1821, p. 80 e segg.. (5) Mi riferisco qui al trattato Signatur des Zeitalters, citato da Friedrich Schlegel, Dichtungen und Aufsätze (a cura di Wolfdietrich Rasch), München 1984, pp. 593-728.
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del neoumanesimo prussiano. Possiamo descrivere la società presente meglio nelle sue conseguenze, anche se non disponiamo di una teoria sociale adeguata, e per questo abbiamo delle preoccupazioni in merito al futuro. Ciò non riguarda solamente il singolo nelle sue abitudini di vita, nelle sue pretese di godere di una pensione, o all’opposto: nei motivi di profonda disperazione che la maggior parte degli uomini deve affrontare. Ma noi ci poniamo delle domande, e la pubblica opinione ci spinge a rispondere al quesito: che ne sarà dell’umanità, che ne sarà della società? Quali condizioni di vita troveranno le “generazioni future”, di cui già adesso si parla tanto, supponendo che si tratterà ancora di uomini paragonabili a noi e non di umanoidi trasformati dalla tecnologia genetica, standardizzati e programmati in maniera differenziata? Come mai in precedenza è stata spezzata nella nostra epoca la continuità tra passato e futuro. Già Novalis aveva definito il presente come «il differenziale della funzione di futuro e passato»(6), e conseguentemente la poesia del Romanticismo aveva impiegato metafore e finzioni di cui poteva essere sicuro che nessuno avrebbe creduto ad essi. L’attualità odierna, in particolare del primo Romanticismo, può essere spiegata così. Ma le finzioni che rinviano alla trascendenza non ci aiutano più, e nemmeno la poesia, cioè: la fiducia nella parola, nella lingua, in un senso determinabile. Noi possiamo solo essere sicuri che non possiamo essere sicuri, che qualcosa di ciò che noi ricordiamo come passato, in futuro resterà com’era. Ma questo non è tutto. Noi sappiamo inoltre che molto di ciò che nei futuri presenti sarà, dipende da decisioni che noi dobbiamo prendere adesso. E ambedue le cose sono evidentemente interdipendenti: la dipendenza decisionale delle situazioni future e la frattura della continuità di essere tra passato e futuro. Infatti si può decidere solo e fino al punto in cui non è determinato ciò che accadrà. Questa connessione che ci condiziona, che ci lascia nel vago, può essere spiegato con uno sguardo retrospettivo al mondo antico. E il contrasto è evidente: anche Aristotele aveva osservato in un testo famoso (De Interpretatione 9) che egli non poteva sapere se una battaglia navale futura avrebbe avuto luogo oppure no. Questo fu il punto di partenza della lunga e complessa discussione medievale de futuris contingentibus. Ma Aristotele non vi aveva visto un qualche particolare problema di decisione, egli non aveva riferito affatto il problema ad una qualche
(6) Così il frammento 417 secondo la numerazione dell’edizione di Ewald Wasmuth, Fragmente, vol. I, Heidelberg 1957, p. 129.
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dipendenza da decisioni (7), bensì solamente alla possibilità di definire delle affermazioni vere o false. E il suo consiglio pertanto non era di non correre rischi con le battaglie navali, ma di riservarsi il giudizio. Così come se fosse ora già deciso che la battaglia navale avrà luogo o non avrà luogo, ma non lo si potesse ancora sapere. Ma il nostro problema sarebbe se dobbiamo rischiare di intraprendere una battaglia navale oppure no.
III
Se per una descrizione del futuro si cercano appigli che permettano di individuare ciò che è intellettualmente à la mode e appare accettabile o, rispettivamente, inaccettabile, una strategia possibile consiste nel distinguere tra una dimensione del senso materiale, una sociale e una temporale. Sotto il profilo materiale balza all’occhio che la referenza di ogni uso del segno, di ogni uso linguistico, di ogni elaborazione dell’informazione è diventato un problema. Ciò è iniziato alla fine del Settecento, quando la vecchia dottrina delle idee venne sostituita dalla teoria linguistica, e appare nella realtà fittizia del Romanticismo, nella linguistica di Saussure, nella critica dell’empirismo logico di Quine, nel gioco della semiotica priva di referenza, ad esempio in Roland Barthes (8), ma anche nella teoria dei sistemi operativamente chiusi e al contempo cognitivi, come nell’epistemologia biologica di Humberto Maturana. La realtà non viene cioè affatto negata, e nessun rappresentante di questa tendenza intende ricadere nei vecchi errori del solipsismo. Tuttavia la garanzia della realtà si trova ora esclusivamente nelle operazioni del sistema, che debbono attenersi a ciò che ad esse riesce, finché questo funziona. All’interno si può distinguere tra autoreferenza e eteroreferenza, ma solo all’interno, solo a mo’ di differenza-guida per operazioni interne, e conseguentemente in (7) Vedi in merito Charles Larmore, Logik und Zeit bei Aristoteles, in Enno Rudolphe (a cura di), Studien zur Zeitabhandlung des Aristoteles, Stuttgart 1988, pp. 97-108. Si veda però la frase 18b 31-32, che fa riferimento al fatto che nel caso di pura necessità non avrebbero senso né la riflessione (bouleúesthai), né la sollecitudine (pragmateúesthai). (8) Si veda ora anche Josef Simon, Philosophie des Zeichens, Berlin 1989, che parimenti esclude il ricorso all’esterno e conosce solo l’alternativa di comprendere direttamente i segni (cioè senza badare alla differenza tra significante e significato) o di interpretarli tramite segni ulteriori. E su questa differenza si può solo distinguere v olta per v olta nel presente, senza con ciò fissare nulla di vincolante per il futuro.
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modo diverso per ciascun sistema. Con il concetto qui pertinente dell’autopoiesis si rinuncia radicalmente ad ogni prospettiva futura teleologica, sia naturale che mentale. Intenzioni e scopi sono ormai solo autosemplificazioni dei sistemi. E la discrepanza con la realtà si evidenzia presto negli effetti collaterali inattesi e non pianificabili tra i costi. Funziona, finché funziona. Questo è il messaggio. E il consiglio tecnico tiene conto della variazione delle preferenze. Nella dimensione sociale noi troviamo qualcosa di simile sotto forma di una perdita di autorità. Con autorità si intende qui la capacità di rappresentare il mondo nel mondo e di convincerne altri. L’autorità poteva fondarsi sul sapere o sul potere, sulla conoscenza del futuro o sulla capacità di produrlo secondo il proprio desiderio; in ogni caso dunque l’autorità si fondava sul futuro. Questo però si vede solo quando al futuro viene sottratta la sicurezza che va al di là del presente. Finché l’autorità vale ancora, essa è efficace, per riprendere una formulazione di Carl Joachim Friedrich, come imputazione di una “capacity for reasoned elaboration” (9). Di questo rimane ora solo il procedimento razionale dell’argomentazione, che è forse maggiormente considerato, e di certo lo è in determinate cerchie. Ma l’autorità consisteva proprio nel fatto che ci si poteva risparmiare la fatica di argomentare, facendo leva sul sapere o sul potere. In luogo dell’autorità sembra manifestarsi qualcosa che potrebbe definirsi come politica delle intese (10). Le intese sono frutti provvisori ai quali ci si può richiamare per un certo periodo di tempo. Esse non richiedono né consenso, né costituiscono soluzioni ragionevoli o anche solo corrette ai problemi. Esse fissano solo i punti di riferimento sottratti alla disputa per ulteriori controversie, in occasione delle quali le coalizioni e le contrapposizioni possono mutare nella loro composizione. Nei confronti di qualsiasi ricorso all’autorità le intese presentano un grande vantaggio: esse non possono essere screditate, debbono solo essere ristipulate in continuazione. Il loro valore non cresce con il passare del tempo, bensì diminuisce. E anche questo fa percepire che il vero problema del Moderno è nella dimensione temporale. Nella dimensione temporale il presente viene riferito ad un futuro, che si presenta ancora come modus del probabile o dell’improbabile. In (9) Si veda Authority , Reason and Discretion, in Carl J. Friedrich (a cura di), Authority (Nomos I), New York 1958. (10) Cfr. Alois Hahn, Verständigung als Strategie, in Max Haller et al. (a cura di), Kultur und Gesellschaft: Verhandlungen des 24. Deutschen Soziologentags etc. Zürich 1988, Frankfurt 1989, pp. 346-359. Cfr. inoltre anche Simon, ibidem, in particolare p. 177 e segg..
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altri termini: la forma del futuro è la forma della probabilità, che a sua volta orienta l’osservazione nel senso di forma bilaterale: come più o meno probabile o più o meno improbabile, ripartendo queste modalità su tutto ciò che può accadere. Per l’appunto il Moderno ha tempestivamente inventato il calcolo delle probabilità, per potersi adeguare ad una realtà fittiziamente costruita e raddoppiata. Così il presente può calcolare un futuro che può sempre avvenire in modo diverso, mantenendo la possibilità di sostenere di aver calcolato giusto, anche se gli eventi poi sono diversi. Ciò presuppone che si possa distinguere tra futuro (o prospettive future) del presente come regno del probabile/improbabile e presenti futuri, che saranno sempre come saranno, e mai diversamente. Questa frattura tra futuro presente e presenti futuri non esclude necessariamente le previsioni. Il valore di queste è tuttavia nella rapidità con cui è possibile correggerle e nel fatto di sapere da cosa ciò dipende. Esiste dunque solo la previsione “provvisoria”, il cui valore non è nella sicurezza che essa garantisce, bensì nell’adattamento rapido e specifico ad una realtà che si svolge diversamente da come ci si aspettava. Al momento presente si può decidere pertanto solo tenendo conto del probabile/improbabile, anche se si sa che ciò che avviene avviene come avviene e non altrimenti. Espresso di nuovo nella dimensione sociale ciò significa che pur con tutti i tentativi di raggiungere intese, si deve partire dall’insicurezza dell’altro. Se questi la nega, è possibile dimostrargliela. Le intese hanno quindi lo scopo di accrescere le insicurezze dell’altro, in modo che non rimanga altro da fare che mettersi d’accordo. A questo corrisponde il tipo moderno dell’esperto, cioè dello specialista, al quale si possono rivolgere delle domande, cui egli non è in grado di rispondere, per poterlo parimenti ricondurre al modo dell’insicurezza. A ciò corrisponde anche la figura moderna della catastrofe, cioè del caso che non si vorrebbe mai, e riguardo al quale non si accettano né calcoli della probabilità, né valutazioni preventive del rischio. Invero questa soglia della catastrofe è sempre socialmente definita, e le catastrofi dell’uno non sono anche le catastrofi di tutti gli altri.
IV
Tutte queste riflessioni si riassumono nella formula conclusiva di rischio (11). La società moderna vive il suo futuro sotto forma di rischio
(11) Su quanto segue vedi più dettagliatamente Niklas Luhmann, Soziologie des Risik os, Berlin 1991.
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implicito nelle decisioni. Per poter formulare questo occorre invero ritagliare in maniera appropriata il concetto di rischio e conferirgli una precisione che nell’ambito ampio dell’attuale ricerca sul rischio non viene raggiunta, oppure viene raggiunta di rado. Soprattutto va sottolineato il riferimento alle decisioni e con questo al presente. Un rischio è un aspetto delle decisioni, e le decisioni possono essere prese solo nel presente. Si può ovviamente parlare di decisioni passate e dei relativi rischi, e anche delle decisioni future. Ma in questi casi ci si riferisce a presenti passati o futuri e non ai passati presenti o al futuro presente, che non sono più attuali o non lo sono ancora. Il rischio è pertanto una forma delle descrizioni presenti del futuro, sotto il profilo della possibilità di decidere per l’una o l’altra alternativa in merito ai rischi. I rischi riguardano danni possibili, ma non ancora determinati, anzi improbabili, che derivano da una decisione, che possono essere causati da essa, e che decisioni diverse non comporterebbero. Di rischi si parla dunque solo e nei limiti in cui si attribuiscono delle conseguenze a delle decisioni. Ciò ha indotto all’idea che si potrebbero evitare i rischi e poggiare su delle sicurezze, qualora si decidesse diversamente, cioè per esempio non si installassero impianti nucleari. Tuttavia si tratta di un errore. Ogni decisione può determinare conseguenze indesiderate. Solo la ripartizione di vantaggi e svantaggi, come di probabilità e improbabilità avviene in maniera diversa, a seconda di come si decide. Finché delle situazioni si discute sotto il profilo della decisione e del rischio, non c’è via d’uscita. La logica della definizione della situazione si estende a tutte le alternative. In tal senso si tratta di un principio universale di tematizzazione del tempo e del futuro, che consente ancora delle riflessioni sulle dimensioni dei danni e sulla loro probabilità, appunto il consueto calcolo dei rischi. Nella misura in cui la società presuppone decisioni e la corrispondente mobilità, non vi sono nemmeno più pericoli che possano venire imputati solo a ciò che è esterno. Si è colpiti dalle catastrofi naturali, ma si sarebbe potuto trasferirsi dalla zona minacciata o assicurare la proprietà che si possiede. Esporsi ad un pericolo è anche un rischio. Noi non siamo tenuti a prendere l’aereo, anche se vi sono molte ragioni per farlo; in definitiva siamo mammiferi, e come tali possiamo vivere senza volare. Il concetto di rischio tiene inoltre anche conto di una differenza temporale, vale a dire della differenza tra la valutazione prima e dopo l’evento dannoso. E tale concetto considera proprio questa differenza. Rischiose sono solo le decisioni di cui ci si rammaricherebbe nel caso 89
accadesse qualcosa di dannoso. Nella scienza del management si parla di postdecisional regret. Non si tratta qui solo di crescita dei costi, la quale da sola non fa sì che ci si rammarichi della decisione stessa. Il concetto mira piuttosto proprio alla paradossia della contraddizione nel giudizio prima e dopo l’evento. Anche nel linguaggio del Romanticismo venne formulata questa anticipazione di un mutamento della valutazione a posteriori. “Egli pose il suo luminoso presente nel profondo delle ombre di un passato futuro”, si legge nel Titan di Jean Paul a proposito di Albano (12). Per il Romanticismo ciò costituì occasione di riflessione, di meditazione, persino di tristezza. I nostri contemporanei fotografano. Comunque si voglia intendere ora questa paradossia della contemporaneità di modi di vedere opposti, la paradossia si sviluppa nel tempo, come dicono i logici, cioè viene risolta con il tempo, con la conseguenza che in ogni momento vi è solo un giudizio plausibile. Il concetto di rischio però fa applicare a ritroso questa tecnica vitale del succedersi di giudizi diversi. Esso richiama la contraddizione nel presente, fa ricomparire la paradossia e la risolve diversamente, cioè con un risk management razionale. Se accade l’improbabile, si può replicare ai rimproveri con l’argomento di aver agito nonostante tutto in maniera giusta, cioè valutando il rischio razionalmente. Vediamo così che nel concetto di rischio viene definito un problema pluridimensionale, complesso già sotto il punto di vista logico, che non può essere adeguatamente affrontato con i mezzi relativamente semplici della classica logica bivalente, bensì richiede logiche strutturalmente più ricche. Questo lo ha dimostrato Elena Esposito (13). La conseguenza pratica è che i rischi possono essere osservati in maniere molto diverse, a seconda di quali distinzioni si considerino e di come queste vengano valutate. Il problema rientra così nella dimensione sociale, nella società e infine nella politica. E diversamente che nel mondo degli osservatori volanti di Einstein, non si dispone di una matematica della conversione per passare da una prospettiva all’altra. Vi sono molti spunti perché la società moderna percepisca il suo futuro effettivamente sotto forma di rischio presente. Basti pensare alla possibilità di assicurarsi contro tutta una serie di eventi negativi. Le assicurazioni non offrono alcuna sicurezza che gli incidenti non avvengano. Esse garantiscono solo che la situazione finanziaria della persona colpita non cambi. L’economia offre la possibilità di assicurarsi. Però bisogna decidere se farlo. Con l’assicurazione tutti i pericoli nei confron(12) Citato da Jean Paul, Werk e (a cura di Norbert Miller), 4a ed., München 1986, vol. II, p. 322. (13) Vedi Rischio e osserv azione, manoscritto 1991.
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ti dei quali ci si può assicurare vengono trasformati in rischi. Il rischio rientra nella decisione di assicurarsi oppure no. Altri problemi legati al rischio derivano dalla partecipazione di tutti all’economia. Tra entrate e uscite di denaro vi sono, diversamente che nello scambio diretto, distanze temporali, sia perché il denaro si può spendere solo dopo averlo ricevuto, sia perché si investe il denaro nella speranza di ricavarne dei profitti. Nella società moderna una parte di questi rischi viene assunta dalle banche, ma anche nella vita quotidiana vi è un rischio economico, coperto solo dal fatto che rimane a lungo indefinito quali bisogni e desideri potrebbero essere soddisfatti dal denaro, una volta ricevutolo. Un ultimo esempio lo prendiamo dalla politica. Nelle società del passato si considerava la differenza tra sovrani e sudditi come corrispondente all’ordine naturale, e lo si supponeva, poiché la natura non consente il casuale, escludendo il puro arbitrio. Oppure si credeva che il sovrano fosse insediato da Dio, e che non rimanesse, nelle situazioni peggiori, di alzare occhi supplici al cielo. Oggi invece l’attribuzione di tutti gli incarichi, compresi quelli più elevati, dipende da una decisione. E ciò rende rischiosi l’abuso di potere e gli errori nelle decisioni politiche. La conversione di pericoli in rischi è, come mostrano questi esempi, il senso controintuitivo, non voluto, di molte istituzioni della società moderna, concepite per scopi del tutto diversi. La forma di tematizzazione del rischio riguarda situazioni concrete molto diverse. Nella loro complessità logica e nell’unità in definitiva paradossale del rischio si riflette, si potrebbe pensare, la complessità della società moderna, che può — e d’altra parte non può — descrivere il proprio futuro solo nel presente. Forse che per noi la semantica del rischio sostituisce il calcolo che delle società passate tentavano di fare sulle intenzioni di Dio? Una tale conclusione ci è impedita da un costatazione conclusiva, che riguarda anche i limiti della semantica del rischio. Nei contesti ecologici ci troviamo oggi di fronte ad una complessità che si sottrae ad imputazioni di decisioni. Noi certo sappiamo, o possiamo supporre, che aspetti biologicamente importanti dell’ecologia possono venire mutati dall’impiego della tecnica e dei suoi prodotti, con la possibilità di provocare danni ingenti. Ma non possiamo pensare di risolvere questo problema con delle decisioni singole, poiché le complicatissime concatenazioni causali di numerosi fattori e la lunga durata dei processi biologici non consentono attribuzioni precise. Il fascino della sindrome tecnica/decisione/rischio è tale, che noi tentiamo di comprendere questa situazione ancora con questa semantica. Noi ricerchiamo imperterriti decisio91
ni, anche politiche, per far fronte a questo problema, oppure per aggirarlo, o ridurlo o rinviarne la soluzione. Definiamo rischio il non fare qualcosa che potrebbe migliorare la situazione. Sarebbe infatti incomprensibile, irresponsabile, non tentare il possibile, anche se questo può solo consistere in una diversa ripartizione del rischio. Nulla lo vieta e tutto lo raccomanda. E tuttavia siamo consapevoli dell’inadeguatezza di tutti i tentativi di risolvere questi problemi modificando le preferenze all’atto della decisione. L’evoluzione sociale si decide sui futuri presenti, e forse è questa prospettiva di un destino di cui non possiamo disporre che nutre quella preoccupazione di fondo che noi possiamo diminuire a priori solo prendendo coscienza del rischio e comunicandolo. Noi non facciamo più parte di quella stirpe degli eroi tragici, i quali, a posteriori in ogni caso, apprendevano di aver predisposto essi stessi il loro destino. Noi lo sappiamo già a priori.
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V. L’ecologia del non-sapere
I
Una cosa si sa oggi di certo: l’evoluzione ha sempre agito in gran parte in maniera autodistruttiva. A breve e a lungo termine. Poco di quello che essa ha creato è rimasto. Questo vale per la maggior parte degli esseri viventi. E parimenti sono scomparse quasi tutte le culture che hanno dato un’impronta alla vita umana. Il senso che hanno avuto per le persone che sono vissute con esse è oggi solo molto limitatamente comprensibile, per quanto raffinato sia il grado di ricerca e di valutazione archeologica, di antropologia culturale e storica che abbiamo oggi raggiunto. Le mentalità che una volta erano attuali oggi non sono più applicabili, o lo sono in maniera estremamente artificiosa. Con queste culture passate oggi ci è possibile stabilire un rapporto quasi turistico. Lo stesso accadrà agli aspetti per noi ovvii e alle forme culturali del “mondo della vita” della nostra società attuale. Nessuno può avere seri dubbi in proposito. Non si può escludere, ed è anzi, a pensarci bene, probabile, che gli uomini, in quanto esseri viventi, spariranno, così come sono apparsi una volta. Forse rimpiazzeranno se stessi con umanoidi geneticamente più evoluti. Forse decimeranno o estingueranno la loro stirpe provocando catastrofi. Oppure arriveranno ad un tal punto di distruzione dei mezzi tecnici che ci aiutano a vivere, che saranno possibili solo forme di vita molto elementari. Come sempre, le società future, ammesso che ve ne siano in grado di comunicare in maniera sensata, vivranno in ogni caso in un altro mondo, baseranno la loro vita su altre prospettive e su altre preferenze, e considereranno le nostre preoccupazioni e i nostri passatempi come stranezze poco divertenti, finché di questi rimangano tracce e si sia in grado di interpretarle. Un tale futuro ci appare inaccettabile, uno scenario da horror, che può piacerci solo sotto forma di “fiction”, poiché supponiamo che non sarà 93
così. Chi considera ciò che verrà senza manifestare terrore viene bollato come cinico. Nella comunicazione questa prospettiva sembra essere stata inventata per turbare gli altri e per godere della loro collera. Chi si butta dalla torre Eiffel non può veramente godersi la scena del suo precipitare, poiché sa come andrà a finire. Completamente diverso, e tuttavia simile, è il caso delle catastrofi provocate con la tecnica, che se avvengono, avvengono senza preavviso. A questo proposito, all’interrogativo: dove ci stiamo precipitando? si riceve la risposta tranquillizzante: precipitarsi non serve più. Perciò è chiaro che tutto il problema viene rimosso. All’evento catastrofico la popolazione è preparata dal suo non-sapere, e i ministeri da “documenti cifrati” segretissimi. Ciò vale per il caso di guerra, ma anche per catastrofi di altro genere. Il problema viene così trattato come problema a lungo termine, considerando che la catastrofe è possibile in ogni momento, ma è altamente improbabile che avvenga già domani. Si deve dunque mettere in guardia e prendere provvedimenti preventivi? Negli antichi insegnamenti di saggezza vi era sempre una figura che dimostrava come colui che cerca di sfuggire ad una profezia, proprio così facendo la realizza (1). La chiarificazione divinatoria del futuro richiedeva, per evitare questo, una reintroduzione di oscurità nella sentenza dell’oracolo. Anche allora esistevano già i dubbi. Pindaro invoca la dea della fortuna e del caso, Tiche; nessun dio infatti dà un segno sicuro ai mortali (2). Ma questo appartiene ad un mondo oggi scomparso. Noi cerchiamo con tutte le forze di salvarci, quando si profila qualcosa di negativo. Evidentemente ci lasciamo guidare da un altro rapporto con il tempo e con le nostre proprie capacità. Questo non ci libera però dalla paradossia dell’ammonimento che, se ha successo, impedisce che si accerti se sarebbe veramente accaduto ciò nei confronti di cui si ammonisce. E già l’ammonimento (forse inutile) dà luogo ai costi e alle conseguenze impreviste dell’aver evitato quel dato comportamento. La sociologia, in quanto scienza con le sue relative pretese, ha mostrato poca inclinazione per la saggezza. Essa non oscura le sue previsioni. Dal momento che la percentuale di esattezza delle sue previsioni è comunque bassa, questo potrebbe venirle perdonato. Riguardo al complesso delle minacce ecologiche e dei rischi tecnologici, essa ha soprat(1) Nella nostra tradizione pensiamo all’esempio ammonitore di Edipo. Una tale figura appare tuttavia essere molto diffusa, in un certo senso correlata al rischio della predizione. Si veda per la Cina Jacques Gernet, Petits écarts et grands écarts: Chine, in Jean-Pierre Vernant et al., Div ination et rationalité, Paris 1974, pp. 5269 (74 e segg.). (2) XII ode olimpica, versi 1 e 6-10.
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tutto espresso ammonimenti. L’urgenza dei problemi, aumentata da chi vuole contestarla, giustifica la rinuncia a riflettere la propria attività di ammonimento (3) e anche la consapevole esagerazione dei mezzi retorici. Questa sociologia critica la società, come d’abitudine (4). Essa pretende maggiore attenzione per le conseguenze della tecnica, per i rischi e i pericoli. Chiede che le risorse vengano dirette in maniera diversa. Ma essa, con questa fosca previsione, ha dimenticato un momento importante della propria tradizione, anzi proprio uno dei suoi motivi portanti, vale a dire l’interrogativo: che cosa c’è dietro? Da Marx in poi, in una certa misura, ha sempre fatto parte anche della riflessione sociologica l’osservare il mondo dei fenomeni sociali non dalla prospettiva di un osservatore di primo ordine, che è parte del fenomeno, bensì dalla prospettiva dell’osservatore di questo osservatore. Ciò ha origine nella sofistica dell’Ottocento (5), ma si propone nello stesso tempo come parte importante nella formazione della teoria. Marx spiega quindi la formazione delle classi con il tipo di economia capitalistica e in particolare attraverso la forma dell’organizzazione della fabbrica. Analogamente Durkheim spiega i problemi che abbiamo con la solidarietà sociale e la morale con la differenziazione funzionale (allora detta ancora “divisione del lavoro”) della società moderna. Ma si trattava ogni volta di problemi interni al sistema sociale: la giustizia distributiva e la solidarietà nonostante la differenziazione. I problemi ecologici che oggi ci preoccupano hanno un’altra dimensione. Essi si collocano nel rapporto tra il sistema sociale e il suo ambiente. A maggior ragione sarebbe anche qui pertinente la domanda di rito: che cosa c’è dietro? In un senso molto generale si può anche qui rispondere: la forma della differenziazione della società moderna, cioè la differenziazione funzionale. In ogni caso è facile supporre che con questa forma della specificazione funzionale si accrescano gli effetti della comunicazione sociale sull’ambiente, mentre invece le possibilità di reagire a ciò internamente non aumentano con lo stesso ritmo, poiché in questo ordine i problemi non vengono rielaborati lì ove si creano, bensì nel sistema funzionale relativo (6). Se questo è esatto, se ne dovrebbe desumere quali forme assume la comunicazione nella società moderna sui problemi ecologici.
Una rara eccezione è Lars Clausen/Wolf R. Dombrowsky, Warnprax is und Warnlogik , in «Zeitschrift für Soziologie», 13 (1984), pp. 293-307. (4) Si veda Ulrich Beck, Gegengifte: Die organisierte Unv erantwortlichk eit, Frankfurt 1988. (5) Vedi Kenneth Burke, Permanence and Change, New York 1935. (6) In meri t o p i ù det t ag l i at amen t e Ni k l as Luh man n , Ök o l o g i s ch e Ko m m un i k at i o n : Kan n di e m o dern e Ges el l s ch af t s i ch auf ö k o l o g i s ch e Gefährdungen einstellen?, Opladen 1986. (3)
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Essenzialmente dalla logica di questa differenziazione consegue che si sviluppano forme di pretesa e appelli indirizzati ad altri, cioè ai sistemi che si suppone siano in grado di rielaborarli. Alcune cose vengono presentate sotto la veste di “etica”. Ma se si parte dal fatto che coloro che pretendono non sono essi stessi in condizione di fornire aiuto, viene a mancare un momento essenziale di ogni ordine etico, vale a dire l’applicazione della norma a se stessi o il divieto di esentare se stessi dall’obbedire ad essa. L’etica della responsabilità è pensata solo per gli altri. C i si può sottomettere ad essa in senso formale, ma l’autoapplicazione, per mancanza di un’efficace competenza dell’azione, non viene comunque presa in considerazione. Queste riflessioni restano tuttavia superficiali. Le analisi seguenti tentano di spingersi oltre su un terreno così picchettato. La domanda: che cosa c’è dietro? va precisata con la seguente: che atteggiamento si assume nei confronti del non-sapere? La retorica dell’allarme da una parte e la resistenza nei confronti delle esigenze dall’altra si fondano ambedue su un supposto sapere. Ma lo stile risoluto, spesso chiuso alla comprensione, delle controversie, rivela che questo sapere si fonda su presupposti non sicuri. È relativamente facile rendersene conto. Così però si mostra assai plausibile l’ipotesi che la comunicazione ecologica debba la propria intensità al non-sapere. Che non si possa conoscere il futuro è cosa che nel presente viene espressa sotto forma di comunicazione. La società si mostra irritata. Per reagire all’irritazione essa dispone però solo della propria modalità operativa, cioè appunto della comunicazione.
II
In una prima fase, che ci permetterà di inoltrarci nel discorso, ci occuperemo dell’interrogativo circa cosa implichi e cosa ci si debba attendere quando dei temi ecologici si inseriscono nella descrizione della società moderna. Alcune particolarità che si evidenziano nella discussione attuale e alle quali si è alluso nel capitolo precedente, si comprendono meglio se ci si rende ben conto di due cose: (1) che ogni descrizione della società deve aver luogo nella società, e quindi è esposta all’osservazione e, almeno oggi, la riflette; e (2) che ogni descrizione è legata alla struttura fondamentale dell’operazione di osservazione e che non può andare al di là dei limiti che questo fatto pone. Il tutto considerato nell’insieme rende già comprensibile perché l’ecologia del non-sapere venga proposta come ecologia del sapere (chiaramente controverso). Di osservazione e, quando vengono redatti dei testi, di descrizione, si 96
deve sempre parlare, quando ci si serve di distinzioni, per definire qualcosa (e niente altro). Determinante non deve essere il come questa operazione di osservazione venga realizzata, se con una disposizione consapevole e attenta a livello, ad esempio, del processo di percezione o di azione, oppure attraverso la comunicazione su temi determinati, o anche eventualmente con operazioni effettuate da macchine elettroniche. La struttura di base in questi casi è sempre la stessa, ed essa ci basta per procedere con la discussione del nostro tema. Ogni osservazione fa sì che una parte di una distinzione venga definita e l’altra di conseguenza rimanga priva di contrassegno (7). Il mondo viene diviso in un ambito contrassegnato e un ambito privo di contrassegno. Se si dispone di tempo, si può tracciare questo limite (la forma del “mark”), ma solo se si contrassegna, cioè si distingue e definisce qualcosa dall’altra parte, costituendo così di nuovo un “unmarked space”. Inoltre la stessa operazione del distinguere rimane priva di contrassegno. Essa stessa infatti non può porsi da una delle sue due parti, e si pone dunque nell’ambito non contrassegnato, operando per così dire dall’ambito non contrassegnato, in cui resta lo stesso osservatore (8). L’osservatore è l’inosservabile, poiché egli non può ritrovare se stesso come momento della propria distinzione come una delle sue parti. Quando si parla di teorie sociali, ci serviamo normalmente di una terminologia non così astratta. Per l’epoca precedente alla Rivoluzione Francese parliamo di semantica storica (ad esempio: della vecchia Europa), per l’Ottocento di ideologie, ove secondo Koselleck la stessa possibilità di ideologizzare le espressioni ha rappresentato una svolta anche nella semantica storica (9). Comunque, semantica e ideologia sono espressioni di un osservatore di secondo ordine che descrive come e cosa osserva un osservatore di primo ordine. L’osservatore di primo ordine distingue e definisce direttamente ciò a cui intende riferirsi. Egli dice
(7) Questa concettualizzazione si trova in George Spencer Brown, Laws of Form, ristampa New York 1979, in definizioni come distintion, indication, mark , unmark ed space. La si trova anche in testi di semantica linguistica sotto “markedness”. (8) Per prudenza si noti però che può esserci anche un’operazione enigmatica di re-entry (Spencer Brown) o di self-indication (Varela), che appare essere paradossale e comunque non può venire trattata con il normale calcolo matematico e nemmeno con una logica solo bivalente. Essa condurrebbe invero all’esito sorprendente della comparsa dell’osservatore stesso nella forma dell’osservato: come mark . Ritorneremo su questo nel capitolo IX sotto 8). (9) Vedi Reinhardt Koselleck, Einleitung, Geschichtliche Grundbegriffe: Historisches Lex ik on zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, vol. 1, Stuttgart 1972, pp. XIII-XXVII (XVII e segg.).
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come ritiene che stiano le cose, e quando parla delle ideologie di un altro osservatore, lo fa proprio perché per lui è un dato di fatto che gli altri percepiscano e agiscano secondo parametri ideologici. (Lo stesso sarebbe anche se si arrivasse a universalizzare il sospetto nei confronti dell’ideologia e alla — diciamo — angelizzazione dell’osservatore di secondo ordine quale intelligenza alata.) L’astrazione che noi compiamo con concetti quali l’osservare e il descrivere e conseguentemente con il concetto di autodescrizione del sistema sociale, presenta soprattutto il vantaggio di renderci indipendenti dai condizionamenti storici e da specifiche situazioni sociali (classi sociali, punti di vista — posizioni sociali, interessi sociali). Ogni osservatore, dovendo distinguere per poter definire, costituisce un mondo per lui invisibile, un unmarked space, a partire dal quale egli opera e del quale egli con la sua operazione fa parte. Come tale si tratta di un problema storicamente non relativo (finché non si intenda osservare la possibilità delle operazioni di osservazione come un prodotto dell’evoluzione), bensì per così dire l’apriori di tutti i relativismi. Che le semantiche storiche e le ideologie possano venire analizzate così, non è cosa che si può dimostrare qui nel dettaglio. Quello che ci interessa è il rapporto tra marked e unmarked in una descrizione ecologica del sistema sociale. Per la prima volta nella storia delle teorie sociali, con la descrizione ecologica della società viene posta alla base una distinzione chiara tra sistema e ambiente, proprio perché tutto dipende da interdipendenze causali che non si potrebbero rappresentare, se non si distinguesse. La società interviene, così si dice, sul suo ambiente in un modo che conduce a mutamenti delle condizioni di riproduzione ecologica che hanno conseguenze importanti, le quali a loro volta si ripercuotono sulla società. Si tratta di una distinzione che determina la collocazione della distinzione. Ma dove si trova l’unmarked space di questa? Dal momento che si tratta di una descrizione della società, l’unmarked space si trova nell’ambiente del sistema sociale. Noi accumuliamo infatti sempre più sapere ecologico. Proprio questo conduce al non-sapere circa i rapporti tra la società e il suo ambiente ecologico. Noi ci aiutiamo con scenari e modelli di simulazione, solo per trovarci di fronte, dopo aver irrealisticamente ridotto la complessità, all’impossibilità di prevedere. Noi cataloghiamo gli inconvenienti come errori, come se avessimo solo mancato di raggiungere un sapere corretto o di applicarlo(10). Ci limitiamo ad asserzioni su probabilità e improbabilità, i cui (10) Uno dei molti esempi è Jens Rasmussen/Keith Duncan/Jacques Leplat (a cura di), New Technology and Human Error, Chichester 1987.
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fondamenti di calcolo restano discutibili e debbono venire corretti ogni momento. Possiamo prevedere grandi distruzioni e anche provocarle, ad esempio con le guerre o con le catastrofi tecniche, causate da serie, riconoscibili a posteriori, di circostanze e negligenze (11). Ma la distruzione non la vogliamo, se il sapere stesso a tal fine è sufficiente. Questo non-sapere non è lo stesso unmarked space. Esso è innanzitutto solo l’altra faccia della forma del sapere, che porta ad un accavallamento di confini e stimola così sforzi per sapere di più in un senso o l’altro (che sia in grado di fornire definizioni). Il sapere del non-sapere copre da parte sua, come la docta ignorantia di Cusano, l’ambito al di là di tutte le distinzioni. L’unmarked state che si sottrae ad ogni osservazione rimane inaccessibile attraverso l’accessibilità nel modus sapere/non-sapere delle condizioni di riproduzione con un costante e massiccio intervento sugli equilibri ecologici che l’evoluzione ha mantenuto. Ma mentre una volta nelle descrizioni del kósmos o della creazione della natura vi è stato un inspiegabile momento di ordine — che fa sì appunto che questo ordine vi sia — e ha coperto l’inosservabile dell’unità di tutte le distinzioni (allora: ripartizioni), oggi il non-sapere è per così dire l’altra faccia del sapere. E mentre una volta ci si poteva tranquillizzare con supposizioni sull’uguaglianza naturale tra mondo cosmico e mondo umano, con analogie sull’essere ecc., oggi ci si tranquillizza con l’inutilità dei tentativi di chiarire il rapporto tra sistema sociale e ambiente. Oggi infatti bisogna partire dal presupposto che la società, anche e proprio quando prende sul serio i suoi problemi ecologici, non si fissa in forme, in possibilità e impossibilità, modi e generi, bensì procede verso il cambiamento, e deve cambiare, se si vuole che le cose vadano bene. L’altra situazione richiede un altro osservatore. Non cambia niente, se anche questo osservatore nell’operazione di osservare e descrivere non può osservare se stesso. Il quesito è dunque: come egli osserva, se non può catalogare la sua propria osservazione delle distinzioni di cui si (11) Che si perverrà a tali catastrofi con relativa normalità, è diventato nel frattempo un sapere di cui disponiamo, anche se non è propriamente un sapere che t ran qui l l i zzi . Vedi a p ro p o s i t o l ’i n ev i t ab i l e Ch arl es Perro w, No rm al e Katastrophen: Die unv ermeidlichen Risik en der Großtechnik , trad. tedesca Frankfurt 1987, oltre ad una gran massa di commenti. La sottigliezza di questa analisi consiste nel mostrare che l’asimmetria tra produzione difficile e distruzione facile è inscindibile dalla struttura della tecnica, cioè della differenza tra abbinamento rigido e abbinamento libero (imprescindibile per la stabilità ecologica). Questa distinzione definisce (e copre) però al contempo la distinzione che ci interessa tra sapere e non-sapere.
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serve, bensì deve esprimersi come se egli potesse osservare dall’esterno, dall’unmarked space. Evidentemente la descrizione ecologica della società tende, almeno fino ad oggi, verso inasprimenti binari, che a loro volta non possono definire l’unità della loro distinzione. Ciò vale innanzitutto per la netta alternativa tra sopravvivenza o sparizione. Per la prima volta nella storia si sente dire che tutta la popolazione mondiale, anzi tutta la vita sul globo terrestre, può essere distrutta da un momento all’altro; da questo si deduce che ciò va impedito. Evidentemente questo è giusto! All’inasprimento dei contenuti, che viene ripetuto anche in merito a temi di minore portata, segue l’inasprimento morale. Questa seleziona i buoni, che sono contro il disastro ecologico, dai cattivi, che, se pure non lo vogliono, lo lasciano accadere. Il compito viene poi identificato nel mettere in guardia circa le conseguenze del continuare ad agire così, e di nuovo con l’inasprimento binario: occorre ascoltare chi ammonisce, oppure si provoca inevitabilmente la catastrofe ecologica. Vi è anche la tendenza a segnalare che i fatti sono noti da lungo tempo, ma che niente (o in ogni caso niente di determinante) accade. Si può senz’altro riconoscere che gli ammonitori hanno ragione, e tuttavia chiedersi quello che essi non vedono, allorché descrivono la società in questo modo. E questo è tanto banale quanto giusto: essi non possono vedere l’unità delle loro distinzioni, cioè né l’unità di distruzione e sopravvivenza, né l’unità di interessati buoni e cattivi. Essi non riescono nemmeno a vedere, che l’ammonire è un’attività complessa, la cui rappresentazione e quantificazione richiede una logica polivalente (che non esiste, o in ogni caso non c’è sotto forma di “tavole della verità”) (12). Non riuscire a vedere l’unità significa non poter respingere la distinzione corrispondente e sostituirla con altre. Gli osservatori non possono, per dirla con Gotthardt Günther, passare al livello “transgiunzionale” (da distinguere dal congiunzionale e dal disgiunzionale) (13). Evidentemente vi è dunque una connessione diretta tra mondo, osservazione e il fatto che da ambedue le parti l’unm ark ed space debba scomparire, per consentire l’osservazione. Questa non è una critica morale o politica delle relative descrizioni. Ogni critica provocherebbe lo stesso problema, e in effetti non si possono giudicare diversamente le reazioni alle violazioni alla politica eco(12) Vedi in merito Clausen/Dombrowsky, (13) Vedi in merito Cy bernetic Ontology
ibidem (1984). and Transjunctional Operations, in Gotthardt Günther, Beiträge zur Grundlegung einer operationsfähigen Dialek tik vol. 1, Hamburg 1976, pp. 249-328.
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logica. La descrizione della società che ne risulta assume la forma di una controversia di nuovo quindi una distinzione, che non può riflettere la propria unità. Vi sono degli elementi che lasciano pensare che questa controversia abbia delle possibilità di succedere alla controversia da lungo tempo obsoleta tra capitalismo e socialismo. Ciò potrebbe essere politicamente auspicabile, anche se è difficile valutare se al sistema dei partiti e delle votazioni politiche riuscirà di ricavare da questa nuova contrapposizione tematiche politiche su cui si possano trarre decisioni. La prova di ciò che rimane invisibile è tuttavia in ciò che attraverso questo può essere reso visibile. È valsa la pena, valutando dai risultati fino a questo momento, di coprire sia il non-sapere che la bivalenza radicale? Il giudizio deve essere chiaramente negativo, e solo così possiamo pervenire ad una critica. Il turbamento ecologico della società viene trasmessa dall’essere turbato dei corpi umani, cui eventualmente si aggiungono percezioni e anticipazioni, dunque meccanismi psichici. Quando si pensa alla fine, non ha senso pensare agli esseri umani e alla società in maniera separata. La distruzione delle possibilità di comunicazione può condurre alla morte di molti. Si pensi al crollo dei sistemi di trasporto, dell’economia monetaria o anche della fornitura di medicamenti. L’estinzione di tutta la vita umana significa in ogni caso: interruzione delle trasmissioni, fine di ogni comunicazione, fine della società. In una tale ottica non si possono separare i sistemi organici dagli psichici, dai sociali. Più ancora di ogni tradizione umanistica, la prospettiva ecologica riunisce oggi società e uomini, se non in un unico concetto, in una comunità soggetta ad un medesimo destino. A coloro che pongono la società al di sopra dell’ecologia non viene in mente di descrivere la società come un sistema che ha a che fare con due ambienti incastrati l’uno nell’altro: con esseri umani forniti di coscienza e con altre condizioni psichico-chimico-organiche. E ciò, benché si riconosca del tutto quale ruolo svolga la demografia per l’irreversibilità dello sviluppo verso una società tecnotropica. Il contesto in cui si pone la descrizione ecologica limita di conseguenza le possibilità teoriche. Ciò significa anche che gli sviluppi teorici corrono il rischio di finire nelle biforcazioni della descrizione ecologica e di venire trattate secondo il principio: chi non è con noi è contro di noi. Questo è tuttavia proprio quello che non può permettersi una società che si trova in evidenti crisi di struttura, e sia strutturalmente che dal punto di vista semantico non può vivere più di ciò che la tradizione le offre. Forse è pertanto consigliabile partire innanzitutto, anche senza grandi progetti teorici, da un’ecologia del non-sapere, orientando dunque 101
la descrizione verso la forma, dietro la quale attualmente si trova l’unmarked space.
III
Nella loro forma più generale i problemi ecologici hanno a che vedere con il rapporto spazio-tempo. Essi riguardano solo sistemi che si pongono limiti di spazio. Ed essi riguardano questi sistemi solo in dimensioni di tempo, dunque non chissà quando prima o dopo. Ma come vengono intesi spazio e tempo, in modo tale per cui i contenuti ecologici concreti possano venire osservati e descritti? Se si va a ritroso nella nostra storia solo di due o tre secoli, ci si trova in un mondo il cui spazio comprende già tutto il globo terrestre, ma è ancora popolato di cose tangibili. Vi sono già telescopi e microscopi, ma essi servono solo a verificare meglio, a conoscere meglio ciò che viene proposto ancora secondo il vecchio modo di presentare le cose. Anche per questo in una tradizione che va da Bacone a Locke, passando per Vico, ci si può immaginare il conoscere come un produrre (si intende: le cose). I limiti delle possibilità sono dati (solo) dal fatto che si debbano in questo osservare le leggi naturali, per evitare sviste (o sbagli). Il mondo è vecchio solo alcuni millenni, come la società (che Dio ha creato solo alcuni giorni dopo). Essa può durare, a seconda delle intenzioni di Dio, solo alcuni altri millenni, ma può perire forse anche tra poco (così si temeva soprattutto attorno al 1600) di fronte ad evidenti fenomeni di dissolvimento — “all coherence gone” (14). L’inizio e la fine sono nelle mani di Dio, e in questo vi è anche la sicurezza che non possa venire disposto per il male. Solo attorno alla metà del Settecento gli orizzonti temporali si ampliano considerevolmente, e solo da allora si può arrivare all’idea che di fronte a fatti così complessi anche Dio abbia bisogno di tempo e forse sia ancora intento a creare il mondo (15). Questo giustifica l’aspettativa di un progresso, e nel “secolo dell’educazione” i pedagoghi trasformano questa prospettiva in un proprio compito: da una generazione all’altra uomini migliori, dunque educazione migliore, dunque uomini migliori.
(14) Così si lamenta John Donne (An Anatomy of the World, The Complete English Poems, Harmondsworth, Middlesex UK 1971, pp. 270-283, 276), nei versi spesso citati (213-214) ‘Tis all in pieces, all coherence gone; All just supply, and all relation: (15) In merito a questi mutamenti di concezione riguardo al tempo, vedi più dettagliatamente Niklas Luhmann, Temporalisierung v on Komplex ität: Zur Semantik neuzeitlicher Zeitbegriffe, in, dello stesso autore, Gesellschaftsstruk tur und Semantik vol. 1, Frankfurt 1980, pp. 235-300.
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Ma anche questo mondo è scomparso. Una nuova matematica e una nuova fisica lo hanno dissolto. I rapporti di spazio e di tempo sono visti oggi come dipendenti dalla variabile che costituisce il loro nesso, vale a dire dalla rapidità dell’osservatore e dalla sua accellerazione o dal suo rallentamento. Nel mondo di Einstein erano ancora previste possibilità di conversione matematica, che oltre ai limiti fisici estremi della velocità costituiscono una specie di punto fermo per il sapere oggettivo. Ma la fisica nel frattempo ha problematizzato anche questo con interrogativi assai più radicali circa le possibilità di un mondo impostato sull’autoosservazione. Gli osservatori, con il cui ausilio il mondo può autodescriversi, sono certamente i fisici, o, per essere più esatti: apparecchiature fisiche complesse, che presuppongono che vi siano fisici (viventi), che contribuiscano a progettare la loro costruzione e che possano interpretare i loro dati. Ma come viene a sapere il mondo che si sta auto-osservando, se non tramite la comunicazione? La sociologia pertanto modificherà ancora questa teoria di un mondo che si auto-osserva e si chiederà come l’osservazione venga comunicata nel mondo. Si sa che anche la comunicazione è aumentata in volume, complessità, capacità di immagazzinamento dati e ritmo, e proprio per la ragione che anche il sapere può invecchiare più rapidamente. Si sa che la telecomunicazione fa tendere verso lo zero l’importanza dello spazio, anche se sulla terra come prima continuano ad esserci giorno e notte, a seconda di dove ci si trovi e dove di conseguenza si sveglino le persone nel cuore della notte, per non aver riflettuto prima di telefonare. Anthony Giddens (16) ha visto in questo quasi totale disaccoppiamento di spazio e tempo una caratteristica importante, addirittura unica del Moderno, ed è uno dei pochi che sottolinei così decisamente questo aspetto nella sua portata sociale (17). Ciò che deve irritare ancor maggiormente è tuttavia il fatto che questi mutamenti spaziotemporali non siano correlati nella comunicazione sociale, o in ogni caso non lo siano direttamente, con l’immensa estensione del mondo oggi immaginabile. Nel tempo e nello spazio vengono colte differenze minimalissime (comunque invisibili) insieme con enormi distanze e movimenti di lungo periodo, i quali parimenti sono deducibili solo in maniera indiretta. I (16) Vedi The Consequences of Modernity , Stanford Cal. 1990, in particolare p. 17 e segg.. (17) Senza invero trarre la conseguenza che perciò vi è un unico sistema della società a livello mondiale, in cui le notizie notturne del putsch di Mosca (intendo quelle dell’agosto, non del dicembre 1991) sono state ricevute in Australia la sera, tra le notizie dell’ora di prima colazione della BBC, suscitando tuttavia a Mosca l’impressione che tutto il mondo stesse osservando nello stesso momento.
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problemi ecologici causati dalla tecnica, e la misurabilità delle loro variazioni hanno non da ultimo condotto ad una immensa estensione dell’orizzonte spazio/tempo nel grande e nel piccolo. Le catastrofi non sono più limitabili temporalmente e spazialmente come il crollo di una costruzione, l’esplosione di una caldaia a vapore, la caduta di un aereo o la rottura di una diga. Tali eventi dannosi vengono matenuti entro certi limiti dal loose coupling della natura. Quello che oggi preoccupa e che rappresenta una vera catastrofe in senso ecologico sono i mutamenti, rapidi o lenti, che hanno luogo in misura minuscola o gigantesca a livello spazio-temporale, e spesso al contempo in misura minuscola e gigantesca. Essi modificano totalmente i concetti di realtà impostati sulle cose e sulle loro cause del singolo e della prassi comunicativa (linguistica) della società. Essi non possono più venire ricondotti nell’ambito di un sapere manipolabile, collegabile, anche se esistono calcoli, valutazioni a metà del processo ecc.. Evidentemente i cambiamenti nelle tecnologie di comunicazione non servono a rappresentare meglio il mondo divenuto poco rassicurante a livello spazio-temporale. L’operazione di comunicazione, che riproduce la società, segue una propria evoluzione, che non va ricondotta ai cambiamenti dell’estensione della dimensione spazio-temporale del sapere mondiale, che questa società al contempo produce. La descrizione di spazio e tempo può seguire questi mutamenti, se modifica la propria strumentazione fondamentalmente da suddivisioni (dell’essere, del mondo) in distinzioni (di un osservatore). La tradizione da Aristotele ad Hegel aveva tentato di presentare il tempo servendosi della distinzione tra essere e non-essere, scontrandosi così però proprio contro l’unità di questa distinzione (18), contro la sua paradossia. Anche la suddivisione del tutto in parti fallì per le peculiarità del tempo. Si doveva però già sapere che cosa fosse il tempo, per formulare come paradossia la distinzione tra essere e non-essere e far fallire le suddivisioni del tempo sul non-essere dell’“adesso”. Le vie d’uscita passavano, com’è noto, per concetti quali movimento, processo, dialettica, essendo consapevoli che anche queste definizioni non sono adatte per esprimere il tempo stesso. Questo poté dunque essere definito solo come qualcosa che, per dirla con Derrida, rimaneva assente in fenomeni ad esso affini (19). Non venne più posto l’interrogativo perché un osservatore inizi proprio con la distinzione tra essere e non-essere, perché si serva delle particolarità del fenomeno
(18) Cfr. la Phy sik v orlesung IV, 10 di G.W.F. Hegel e la sua Ency k lopädie der philosophischen Wissenschaften, § 258; tr. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Bari 1983, § 258, pp. 233-5. (19) Cfr. in particolare il saggio: Ousia et grammé: note sur une note de Sein und Zeit, in Jacques Derrida, Marges de la philosophie, Paris 1972, pp. 31-78.
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tempo per sabotare questa distinzione, per ridurla a paradossia e perché egli poi cerchi concetti che lo salvino come quello del movimento, dei quali sa che non sono adatti alla descrizione del tempo. S e noi, in considerazione di queste conseguenze evidenti di un’impostazione ostinatamente improntata all’ontologia, supponiamo nell’osservare la “metà tà physika”, siamo costretti a trasformare la modalità dell’osservazione dalla suddivisione alla distinzione. Infatti solo così l’osservazione può riflettere se stessa come operazione. Ciò significa tra l’altro che occorre rinunciare ad una decomposizione in categorie del mondo attraverso le dimensioni da essa date a priori; le categorie sono infatti, rimanendo aderenti alla terminologia aristotelica, suddivisioni dell’essere. Con ciò anche il concetto di visione diventa opinabile, in quanto suggerisce che si possano comprendere queste dimensioni con uno sguardo (anche se solo parzialmente e non nella loro infinità). La distinzione finito/infinito potrà conseguentemente essere lasciata da parte. In luogo di questa, nel distinguere tutto dipende dal modo come viene posta una cesura che separa due parti (appunto: la distinzione). Da presente funge dunque quella parte che rende possibile distinguere passato e futuro. Da punto spaziale funge quella parte che consente di distinguere direzioni e distanze. La scelta della parte che fornisce la distinzione dipende dall’osservatore. Se si vuole sapere come tale scelta viene compiuta, bisogna osservare l’osservatore. In luogo di ciò che veniva sostenuto essere visione, subentra la possibilità di definire qualcosa (distinguendola da altro), e dunque un luogo alla distanza di...., una strada in direzione di...., un evento come passato o, rispettivamente, futuro, se visto dall’oggi (ma anche visto da un punto nel tempo oggi trascorso o futuro). Il mondo non privilegia alcuna di queste cesure. Per un osservatore esse possono essere più o meno utili. Ma non è più dato sapere che il mondo si esprime su spazio e tempo e come ciò avvenga. Si può solo osservare che la scelta di distinzioni e definizioni, di presenti e luoghi spaziali, ha conseguenze per ciò che può venire osservato o non osservato da quel dato punto. In ogni caso spazio e tempo stessi sono solo dei media di possibili distinzioni, media di possibili osservazioni, ma da parte loro sono altrettanto inosservabili come il mondo in quanto mondo (20). Dal punto di vista tradizionale una tale concezione può essere definita relativismo completo. Ma in questo caso si tratta di un relativismo né oggettivo, né soggettivo, e in ogni caso di un relativismo che smarrisce (20) Rinunciamo qui ovviamente anche all’idea di un soggetto trascendentale del mondo, a cui restava pur sempre la possibilità di osservare se stesso nei fatti della propria coscienza.
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il suo concetto opposto. Allora questa stessa definizione non dice nemmeno più, non potendolo indicare, quello che esclude (sia pure, in senso puramente storico, la metafisica ontologica). Si può decidere di prendere o non prendere parte a queste “querelles”. Dal punto di vista della sociologia sarebbe più importante chiedersi se, in conseguenza di ciò, il rapporto tra sapere e non-sapere non debba venire ridefinito.
IV
Dalla prospettiva di quale presente si deve determinare ciò che non può più essere modificato e ciò che è ancora lontano nel futuro? Quale punto dello spazio determina l’essere turbato? Cosa è lontano e cosa è vicino nello spazio e nel tempo? Fino a che punto dobbiamo badare adesso che ciò che facciamo ora sia in futuro passato e poi non più modificabile, se noi nel presente non sappiamo ancora e non possiamo sapere quali potenziali di cambiamento un futuro oggi ancora celato abbia in serbo? E come possiamo prendere provvedimenti preventivi in modo da non impedire adesso che vengano intrapresi i relativi lavori preparatori per ciò che potrebbe accadere? Chi è che deve prendere le decisioni in proposito? La natura tace. Gli osservatori litigano. La ritirata del sapere dalla sfera dello spazio e del tempo — Giddens ha parlato di “disembedding”, per definire le conseguenze dello svuotarsi dello spazio e del tempo (21) — è difficilmente riconducibile alle tecnologie elettroniche della comunicazione. Piuttosto ci si dovrà chiedere se vi siano ancora posizioni sociali, dalle quali il sapere possa essere adeguatamente rappresentato e comunicato con un’autorità corrispondente. Si penserà alla scienza moderna. E si tratta in effetti del primo riferimento. Contro di ciò il supposto sapere non può reggere, per quanto di tanto in tanto anche le fonti di sapere “parascientifiche” invitano i ricercatori alla riflessione (22). Questa rilevanza dei verdetti scientifici si riferisce a fal(21) Ibidem (1990), p. 20 e segg.. (22) Alla delimitazione viene tuttavia
attribuito valore, anche se non si può negare di principio questa possibilità (e come si potrebbe farlo con l’apertura della scienza ai futuri sviluppi). Vedi a proposito ad esempio Michael D. Gordon, How Socially Distinctiv e is Cognitiv e Dev iance in an Emergent Science: The Case of Parapsy chology , in «Social Studies of Science», 12 (1982), pp. 1511 6 5 ; Harry M. Co l l i n s / Trev o r J . Pi n ch , Fram es o f M ean i n g : Th e S o ci al Co n s t ruct i o n o f Ex t rao rdi n ary S ci en ce, Lo n do n 1 9 8 2 ; Ral f Twen h ö fel , Thesigraphie: Ein Fall nicht anerk annten Wissens - Zur Wissenschaftssoziologie des Scheiterns, in «Zeitschrift für Soziologie», 19 (1990), pp. 166-178.
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sità provate. Il sapere scientifico stesso viene rappresentato quindi solo come ipoteticamente valido. Ciò dà non solo alla ragione, come pensava Kant (23), ma anche alla comunicazione la libertà di verificare spiegazioni alternative. La scienza inoltre non è riuscita a conquistare veramente altri sistemi funzionali, a volte li ha persino temporaneamente respinti e indotti a processi di autoscoperta (24). I primi socialisti avevano invero proposto di considerare il sapere come fattore della produzione, ma nella teoria economica questo non è mai stato veramente accolto, poiché il sapere non può essere oggetto di proprietà e quindi non può prendere parte alla ripartizione del plusvalore. La politica e la giurisprudenza cercano consiglio nella scienza, ma non si può parlare di determinazione nella decisione tramite la scienza (25). Si tratta in questo non solo di rifiuto di un sapere “inutilizzabile” da parte di altri sistemi funzionali, ma anche di un singolare accrescimento di pretese e riserbo da parte della stessa scienza. Solo sotto pressione lo scienziato si presenta davanti al giudice su temi ecologici o relativi allo sviluppo di nuove tecnologie o di nuovi esseri viventi per rispondere di ciò che va oltre alla sua responsabilità in senso strettamente scientifico. Ci sono talk shows non solo in televisione; ma allora si tratta, in modo più o meno riconoscibile, di una vendita a saldo del sapere. Con poco più di astrazione si vede che gli stessi fenomeni si manifestano anche in altri sistemi funzionali. Non appena si perviene allo sviluppo mediante differenziazione di sistemi funzionali, in ciascuno di questi sistemi l’universalità e la specificazione vanno di pari passo; universalità della competenza per la funzione propria di ciascuno e specificazione del riferimento del sistema e delle condizioni che nel proprio sistema si ritengono adeguate ad una comunicazione accettabile. Se però è così in (23) Critica della ragion pura B 215-216 (concerne qui, in maniera piuttosto accidentalmente lo spazio come mezzo per affrontare ipotesi diverse a spiegazione delle diverse concentrazioni). (24) Ad esempio gli sforzi nel Cinquecento e Seicento per conquistare un diritto alla rappresentazione artistica nei confronti del pronunciato razionalismo “galileiano” del nuovo movimento scientifico matematico-empirico. Vedi in merito Gerhart Schröder, Logos und List: Zur Entwick lung der Ästhetik in der frühen Neuzeit, Königstein/Ts 1985. (25) E se mai, allora nel contesto di programmi giuridici condizionali, i quali prescrivono al sistema giuridico che dai fatti, che vanno determinati eventualmente servendosi di conoscenze scientifiche, debbano essere tratte conclusioni corrispondenti. Ma dai fatti! Non dalle verità! Ciò infatti non si accorderebbe con il di v i et o g i uri di co del n eg are g i us t i zi a. A ri g uardo , p er i det t ag l i , Ro g er Smith/Brian Wynne (a cura di), Ex pert Ev idence: Interpreting Science in the Law, London 1989.
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tutti i sistemi funzionali (o anche solo nei più importanti), si può presumere che questo modello di strutture di comunicazione (nella teoria di Parsons si chiamano corrispondentemente “pattern variables”), sia direttamente collegata alla differenziazione funzionale, e quindi con la struttura della società moderna. Tradotto nelle forme della comunicazione ciò significa che non vi è più alcuna rappresentazione dell’ordine — dell’ordine delle forme essenziali del mondo e, corrispondentemente, dell’ordine del comportamento umano in giusto e sbagliato. “Rappresentazione” ha il doppio senso di: poter rappresentare e rendere presente. Dal concetto vengono escluse ambedue le interpretazioni, quando (1) non vi sono più posizioni dovute allo status e legittimate senza concorrenza a parlare per l’essere, a tradurre res in verba; e quando (2) le strutture temporali della comunicazione sociale mutano in modo tale che il presente non offre più possibilità di essere presenti, bensì le considera solo come differenza di passato e futuro. Con le possibilità della rappresentazione viene meno il ricorso all’autorità. L’autorità è la capacità di moltiplicare, di far crescere (augere) i fondamenti della convinzione nella comunicazione. James March e Herbert Simon hanno parlato di “uncertainty absorption” (26). Con ciò si intende un fenomeno strettamente collegato alla specializzazione: che si supponga che la comunicazione di uno specialista o di un responsabile titolare di un posto sia verificata accuratamente, poiché altrimenti si dovrebbe procedere alla verifica. Non si risale alle fonti di informazione di costui e non si torna sulle sue conclusioni, bensì si parte dalla sua comunicazione come da un fatto, come condensazione di informazione di cui si dispone. In corrispondenza di ciò si arriva ad un accoppiamento di responsabilità (= assorbimento dell’insicurezza) e all’autorità, autorità intesa come “capacity for reasoned elaboration” (27). Nella comunicazione ulteriore si suppone che una comunicazione fornita di autorità potrebbe essere spiegata e motivata; si trascura però la domanda con cui si dovrebbe replicare, perché manca il tempo, o la competenza per la formulazione della domanda, o anche il coraggio. Per un sabotaggio costante dell’assorbimento dell’insicurezza mancano di conseguenza i motivi. Inoltre quell’unità di autorità e responsabilità era subordinata al fatto che chi aveva la responsabilità non era reso (26) Cfr. James G. March/Herbert A. Simon, Organisations, New York 1958, p. 164 e segg.. (27) Cfr. Carl J. Friedrich, Authority , Reason and Discretion, in, dello stesso autore (a cura di), Authority (Nomos I), New York 1958.
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anche responsabile di ogni errore, per non parlare poi delle conseguenze. Egli era tutelato, prescindendo da casi critici, dal suo status. Non si poteva comunicare contro di lui, comunque non in un’interazione tra presenti. Tra le condizioni della struttura sociale indicate quest’unità comunicativa di autorità e responsabilità va in frantumi. Va in frantumi per la disgregazione dell’ordine degli status (presupposto indiscutibile) e soprattutto per la tensione tra universalismo e specificazione. Nelle organizzazioni formali viene ricostruito a fatica e con un’insita fragilità. Finché si deve ricorrere a fonti di autorità sociali, questo non riesce più. Né l’età, né il rango sociale aiutano. In luogo di ciò — ecco la tesi rilevante per il nostro tema — viene legittimata la comunicazione del non-sapere (nelle organizzazioni: la comunicazione della non competenza). Non basta, potremmo riassumere, che la società delegittimi la rappresentanza e di conseguenza l’autorità. In altre parole, non basta lasciar sfogare la critica e la protesta. La società deve essere inoltre in condizione di reggere la comunicazione del non-sapere. Se però l’assorbimento dell’insicurezza ha una funzione: come può essere svolta questa funzione in un modo diverso? Tollerando l’insicurezza? E quali forme sociali ci si dovrebbe immaginare, se la comunicazione mira sempre più ad aumentare l’insicurezza del destinatario di essa? L’interrogativo diventa più scottante se si considera innanzitutto che — sia nel caso del sistema sociale, che in quello dei sistemi organizzativi, che la società rende possibili per sé — si tratta di sistemi operativamente chiusi. Tutti i problemi che emergono nella comunicazione, possono essere ulteriormente trattati solo attraverso la comunicazione e trasformati in problemi ulteriori, per i quali vale la stessa cosa. Nonostante quello che dice Gödel, non vi sono risorse esterne. Vi è solo la possibilità di “risolvere” problemi interni (ad esempio quelli della logica) all’interno con l’esternalizzazione, cosa che però può avere come conseguenza che l’esternalizzazione stessa diventi un problema (28). L’autorità è dunque sempre un prodotto aggiuntivo interno al sistema per la comunicazione che procede comunque. Essa “recluta” in una certa misura fonti esterne, quando un tale riferimento (ad esempio relativo alla nobiltà o all’età) viene trasportato internamente. Essa è in grado di produrre “saggezza”, allorché ad esempio la condotta di vita del
(28) Ciò, espresso con la terminologia introdotta sopra sotto II, ha a che fare con il fatto che l’eteroreferenza non può direttamente attualizzare l’“unmarked space” del mondo esterno, ma deve definire qualcosa come qualcosa, e può così essere osservato e criticato all’interno del sistema.
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saggio oppure rimarchevoli forme di comunicazione dimostrano che egli è tale(29). Ma come minimo dal Seicento tali eteroreferenze della comunicazione, che erano stati in grado di aprirsi uno spazio, incontrano difficoltà. Il saggio deve badare a non risultare ridicolo, deve dunque riflettere la comunicazione. Il nobile può ancora per qualche tempo essere nobile, ma non lo può più manifestare nella comunicazione (30). Ci sono in definitiva molti anziani, che il pagamento delle loro pensioni costituisce motivo di preoccupazione, ma i pensionati non hanno autorità. Per spiegare questi cambiamenti ci si può solo rifare ai mutamenti di struttura della società. Sia i fenomeni che le teorie che vengono proposte per spiegarli, sono e restano prodotti interni alla società, il cui significato consiste esclusivamente nelle possibilità di comunicazione che offrono o che impediscono. E il nostro problema è pertanto, ripetiamolo, come la società risolve di porsi nei confronti di un’autorità che è diminuita per causa propria e di una comunicazione di non-sapere che ha vaste conseguenze.
V
La comunicazione del non-sapere esime dalla responsabilità (31). Chi comunica il sapere, assorbe insicurezza e deve di conseguenza assumersi la responsabilità che il suo sapere sia autentico. Chi comunica non-sape-
(29) Si veda in merito Alois Hahn, Zur Soziologie der Weisheit, in Aleida Assmann (a cura di), Weisheit: Archäologie der literarischen Kommunik ation III, München 1991, pp. 47-57. (30) Qui ci si riferisce al mondo dei salotti e delle accademie della fine del Seicento e del Settecento, mentre ancora Pascal, consapevole, aveva affermato che l’alta nobiltà doveva sottolineare nella comunicazione la propria posizione, senza però credere in essa. Si vedano soprattutto i Trois Discours sur la Condition des Grands, cit. da L’Oeuv re de Pascal, éd. de la Pléiade, Paris 1950, pp. 386-392. Ma già questo mostra quanto poco cambiamento nella struttura sociale fosse necessario per capovolgere questa versione. (31) Lo stesso vale, mutatis mutandis, per la comunicazione dell’incompetenza. Nelle organizzazioni dovrebbe esserci in verità un ufficio che si occupi della competenza della competenza (Odo Marquard direbbe: competenza della compensazione dell’incompetenza). Ma questo ufficio, come mostra l’esperienza, non è facile da trovare, non è facile da avvicinare, non è facile da attivare. In tal senso si può partire da un parallelo tra la legittimazione sociale della comunicazione del nonsapere e la legittimazione organizzativa della comunicazione di incompetenza. Noi non continueremo tuttavia a seguire questa linea parallela, anche se sarebbe interessante riflettere sull’etica dell’organizzazione del ricorso all’incompetenza.
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re ne viene, per il fatto stesso di comunicarlo, scusato. Forse lo si può rispedire alle fonti del sapere e incaricarlo di informarsi accuratamente o di fare ricerche. Ma ciò ha solo senso, se colui che fa questo, sa già quello che si deve sapere. Gli incarichi di compiere ricerche o di informarsi, se si vuole evitare di farli apparire superflui, debbono quindi essere formulati come se venissero dati a vanvera e se esprimessero solo la necessità di sapere, solo il bisogno di assorbire insicurezza. Anche essi rientrano dunque nel capitolo generale della comunicazione di non-sapere. Se ci si guarda intorno, per capire come la società oggi si orienta in un tale reticolo recursivo della comunicazione del non-sapere, si vede che il problema viene formulato come problema etico. Esso viene così spostato da un contesto cognitivo ad un contesto normativo. Se ciascuno desidera comunicare la propria non conoscenza e al contempo svelare la pretesa conoscenza di altri, in modo che la non-conoscenza rimanga come esito della comunicazione, questo non viene accettato, ma in luogo di ciò si invita ad assumersi la responsabilità delle conseguenze. Visto con un certo distacco, si tratta di una manovra semantica davvero sorprendente: la necessità non fa virtù, bensì provoca un appello alla virtù altrui. Il destino sono gli altri. Anche in questo caso, per assumere distacco, può aiutare un confronto storico. Con l’etica della vecchia Europa questo evidentemente non ha più niente a che vedere, anche se oggi si torna a pensare utopisticamente ad una società civile etico-politica. Questa tradizione è finita nel Seicento, al più tardi nel Settecento (32). Nella stessa epoca termina la rivalità nella comunicazione tra la filosofia e la retorica (o anche: tra la storiografia e la poesia), che aveva concesso ad ambedue le rivali lo schema vero/falso e pertanto doveva servirsi dei problemi della comunicazione per giustificare come mai la retorica e la poesia dovessero lavorare con inganni velati o palesi (33). Mentre allora si trattava di amplificazione, noi abbiamo introdotto sopra il concetto di assorbimento dell’insicurezza. Il mondo di queste premesse della comunicazione è sopravvissuto tuttavia a se stesso sotto ogni punto di vista. Niente di
(32) In meri t o p i ù det t ag l i at amen t e cfr. Ni k l as Luh man n , Et h i k al s Reflex ionstheorie der Moral, in dello stesso autore, Gesellschaftsstruk tur und Semantik vol. 3, Frankfurt 1989, pp. 358-447. (33) Come teste principale dell’acuirsi di questa differenza e della fine che le si prospettava possiamo considerare Baltasar Gracián — anche e proprio nella sua ricezione a livello europeo. In lui si trova tutto il problema del vero/falso tradotto in una teoria per i suoi tempi insolitamente razionale, che riflette i problemi della comunicazione e fa saltare il vecchio contesto sia dell’etica che della retorica, affascinando proprio per questo i contemporanei.
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esso è oggi direttamente rilevante, ed ogni tentativo di riattualizzazione viene sospettato di voler produrre funzioni compensative. Nell’etica questa trasformazione avviene nella seconda metà del Settecento, allorché la morale venne adattata alle trasformazioni sociali. Da una dottrina del comportamento si sviluppò una teoria dei giudizi morali. Il riferimento alle buone maniere e della bella apparenza, ancora presente nel Seicento, andò persa, e così anche il riferimento alla stratificazione sociale. L’etica e l’estetica si separarono, e ambedue le discipline si separarono dalle “Prudenzie” del classico sapere professionale della teologia, della giurisprudenza, della retorica politica e del commercio. Fece sentire i suoi effetti la pretesa autonomia dei sistemi funzionali determinata dalla differenziazione funzionale. Questi mutamenti debbono essere valutati come sociologicamente irreversibili, anche allorché la differenziazione funzionale non mantiene ciò che ci si è ripromessi da essa, e non si può più parlare di progresso. Proprio in quanto si deve prendere atto di questa “perdita di direzione” in ogni senso (34) e, come noi pensiamo, si correla con la comunicabilità del non-sapere, non ci si può più richiamare ad un pensiero che era strettamente collegato ad una rigida struttura cosmica di necessità e impossibilità. Per la stessa ragione un’etica che fondi i giudizi morali rimane vittima dei propri problemi, e soprattutto al problema della fondazione dei principi. Per definire questo si usa oggi il termine (assolutamente “borghese”) di “proceduralizzazione”. Così si perviene all’osservazione di secondo ordine. Allorché non si sa più cosa siano delle buone ragioni, si vorrà quantomeno poter dire come si può verificare se le buone ragioni siano buone ragioni, nella stessa comunicazione (a ciò specializzata). Così abbiamo un tipo di comunicazione predisposto proprio per questo, come medium nel quale si potrebbero contrassegnare le forme che vincolano le possibilità del medium per un certo tempo. I punti di riferimento vengono chiamati dalla seconda metà dell’Ottocento “valori”. Corrispondentemente viene proclamata un’etica di valori materiali. Sotto il profilo della filosofia specialistica questo da lungo tempo non convince più, ma nella comunicazione sociale il riferimento ai valori continua ad essere dominante, poiché evidentemente da parte sua offre particolari vantaggi comunicativi, vale a dire un originale collegamento tra costante riferimento ai valori e non riferimento, per il solo caso che interessi, quello in cui vi sia un conflitto di valori. Soprattutto una comprensione normativa (da un punto di vista semantico tutt’altro che ovvia) dei valori Si veda Zygmunt Bauman, A Sociological Theory of Postmodernity , Thesis Eleven (1991), pp. 33-46. (34)
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(=preferenze) serve a permettere ad un’etica di avanzare pretese morali rispetto al comportamento di altri, pretese che possano essere mantenute ferme anche e proprio di fronte a costanti delusioni. Evidentemente questa moralizzazione di valori risponde ad una forte esigenza di orientamento. In ciò negli ultimi decenni sono stati fondamentali le conseguenze della tecnica e i problemi ecologici. Non se ne viene fuori senza risalire alle cause di questi problemi e ogni variazione che si può proporre fa un’impressione troppo contenuta. Non si possono però nemmeno accettare le conseguenze. E se a ciò si aggiunge il fatto che il sapere, in questo caso, si trasforma in non-sapere (come il burocrate quando non è competente), è chiaro l’imbarazzo. Da questo stato di grave necessità, con grande successo pubblicistico, Hans Jonas ha pertanto potuto rivolgere un appello alla virtù (35). Il messaggio è questo: ci si dovrebbe assumere la responsabilità per le conseguenze che si provocano con la tecnica o in altro modo. Non c’è nulla da dire in contrario. Tuttavia, se colui che provoca determinate conseguenze (colui, cioè, che osa agire), non sa e non può sapere quali conseguenze scateni, e se gli viene consentito di dirlo, è chiaro il dilemma: o non agire (ma chi si prende poi la responsabilità della negligenza?) o farlo con tutta l’incertezza. Ci troviamo in un mondo in cui la coscienza del rischio va accettata, e per questo l’etica, almeno fino a questo momento, non ha potuto offrire alcun criterio (36). Nicholas Rescher afferma: «Morally speaking, an agent is only entitled to “run a calculated risk” on his own account but not for others» (37). Ma questo non è che un calco della vecchia teoria liberale che ammetteva l’interesse personale, purché ciò non danneggiasse nessuno (di coloro che non si fossero dichiarati d’accordo). L’ambito di applicazione di tali massime tende, oggi lo si sa, a zero. E ciò dimostra una volta di più che l’etica in questo pratica un doping non consentito. (35) Cfr. Hans Jonas, Das Prinzip Verantwortung: Versuch einer Ethik für die technologische Ziv ilisation, Frankfurt 1979; tr. it. Il principio speranza. Un’etica per la civ iltà tecnologica, Torino 1990. (36) Cfr. Niklas Luhmann, Soziologie des Risik os, Berlin 1991, in particolare p. 168 e segg.. Vi sono invero criteri formali come ad esempio questo: che non è consentito tutto quello che si può fare. Ma tali informazioni soffrono della debolezza di tutte le etiche fondative: che da esse non si possono desumere istruzioni per il caso concreto. Si sente solo dire che bisogna decidere situazione per situazione. Ma questo lo si sa anche senza bisogno dell’etica, anche senza sapere quale sarà poi la decisione o chi riuscirà ad avere la meglio nella situazione concreta. (37) Vedi Nicholas Rescher, Risk : A Philosophical Introduction to the Theory of Risk Ev aluation and Management, Washington 1983, p. 161 (corsivo originale).
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Si continua a puntare, nei grandi atti di rilevanza mondiale (38) fino alle analisi minuziose della rational choice, sull’azione orientata verso lo scopo. Si agisce per ottenere situazioni che in casi diversi non si verificherebbero. Che ciò accada, che accada su scala enorme e che accada con successo, non è cosa che possa essere contestata. Ovviamente non può nemmeno essere che alla società si proibisca di agire, anche se le conseguenze dell’azione, considerate nel loro complesso, diano motivo di preoccupazione. Ci si può però comunque chiedere come l’agire venga comunicato e come una semantica dell’azione possa convincere, se contemporaneamente aumenta la comunicabilità del non-sapere. La teoria dell’azione si ribella, allorché distingue il complesso scopo/mezzo/costi dell’azione dalle conseguenze impreviste. La distinzione è vecchia (39). In sociologia è stata scoperta e rinnovata soprattutto da Merton (40). Nella distinzione stessa vi è un’ammissione di non-sapere. L’interrogativo è quindi se vi siano condizioni che modifichino il rapporto tra sapere e non-sapere — forse fino al punto in cui il non-sapere diventi la risorsa più importante dell’agire (41). «L’homme ne peut agir que parce que il peut ignorer, et se contenter d’une partie de cette connaissance qui est sa bizarrerie particulière» (42).
Ad esempio come fa Alein Touraine, Le retour del l’acteur, Paris 1984, Vedi anche, più moderato, Paisley Livingston, Le retour au sujet: Subjects, Agents, and Rationality , in «Stanford French Review», 15 (1991), pp. 207-223. (39) Si veda per il suo contesto religioso originario ad esempio Pierre Nicole, Essais de Morale, vol. I (1671), citato sulla base della 6a ediz, Paris 1682, p. 33 e segg.: L’ignoranza, tutelata dalla non conoscenza dell’ignoranza, servirebbe a prevenire un’autoconsapevolezza mortificatoria e come tale (in quanto funzionale alla persona), disfunzionale in senso religioso, per esprimerla con dei concetti attuali. (40) Vedi Robert K. Merton, The Unanticipated Consequences of Purpositiv e Social Action, in «American Sociological Review», 1 (1936), pp. 894-904. (41) Anche questo i sociologi lo hanno sempre visto e detto — anche senza con questo riuscire a influenzare le preferenze teoriche della scienza. Vedi Wilbert E. Moore/Melvin M. Tumin, Some Social Functions of Ignorance, in «American Sociological Review», 14 (1949), pp. 787-795; Wilbert E. Moore, The Utility of Utopias, in «American Sociological Review», 31 (1966), pp. 765-772; Louis Schneider, The Role of the Category of Ignorance in Sociological Theory , in «American Sociological Review», 27 (1962), pp. 492-508; Heinrich Popitz, Über die Präv entiv wirk ung des Nichtwissens: Dunk elziffer, Norm und Strafe, Tübingen 1968. Per analisi più recenti di una discrepanza tra ricerca di maggior sapere (razionalizzazione) e motivazione all’azione vedi Nils Brunsson, The Irrational Organization: Irrationality as a Basis for Organizational Action and Change, Chichester 1985. (42) Così dice Socrate in un dialogo di Paul Valéry, Eupalinos ou l’architecte, cit. da Paul Valéry, Oeuv res vol. II, éd. de la Pléiade, Paris 1960, p. 79-147 (126). (38)
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Evidentemente il rapporto tra le conseguenze dell’azione previste e quelle impreviste dipende dagli orizzonti temporali che vengono considerati al momento dell’azione. Quanto più si guarda al futuro lontano, tanto più probabile è la prevalenza delle conseguenze non previste. L’ampiezza dell’orizzonte futuro rilevante è essa stessa una variabile. Da una parte nella società oggi le strutture cambiano più rapidamente di prima (43); dall’altra la soglia di imprevedibilità del futuro si avvicina al presente. Materialmente e temporalmente l’importanza del non-sapere aumenta proprio e in particolare in scenari concepiti come rilevanti per l’azione. Ma come si può rendere plausibile per gli altri la propria azione, non sapendo quali saranno i risultati di essa? La teoria dell’azione (compresa la teoria del controllo) agisce in questa situazione come un manifesto con il quale si tenta di resistere alle tendenze. E un argomento importante parla a favore di essa: senza competenza ad agire la società sarebbe davvero perduta. Solo è lecito chiedersi, come già avvenne negli anni ’60, se la distinzione tra conseguenze previste e non previste, prodotta dalla necessità di porre degli obiettivi, sia sufficiente per la teoria per comprendere il problema (44). Essa infatti riproduce in toto la prospettiva di un osservatore di primo ordine, cioè proprio dell’agente, e gli consiglia di subordinare l’interesse alla razionalità. A ciò si possono aggiungere anche ulteriori limitazioni sotto forma di imperativi etici. L’interrogativo è solo se ciò sia sufficiente, qualora si voglia inoltre tener conto del fatto che l’agente viene osservato, che tutti i sistemi funzionali operano a livello di osservazione di secondo ordine e che per la distinzione tra sapere e non-
(43) Solo un esempio: nel campo della moda negli ultimi anni (e solo negli ultimi anni), le grandi ditte, con capitali consistenti, che producono per un pubblico di massa, copiano le idee di aziende più piccole e maggiormente innovatrici così rapidamente, da essere sul mercato prima degli ideatori, e il pubblico che desidera l’esclusiva non ha più la possibilità di trovare modelli che non siano contemporaneamente, o addirittura siano già, in vendita nei grandi magazzini; inoltre, con il passaggio da una generazione all’altra sta diminuendo anche l’interesse ad un abbigliamento esclusivo e manifestamente caro. La conseguenza è una totale ristrutturazione del mercato e il drastico venir meno di una “cultura” prima possibile. Una pietra di mosaico per il tema: conseguenze dell’accellerazione, anche e proprio lì ove era fondamentale la novità e l’essere innovativi. (44) Vedi Dan i el Kat z/ Ro b ert L. Kah n , Th e S o ci al Ps y ch o l o g y o f Organisations, New York 1966, p. 16, in relazione a migliori possibilità della teoria dei sistemi (allora: analisi dell’input/output). Anche l’analisi funzionale allora dominante si era raccomandata con un “refusal to take purposes at their face value”, come dice Kingsley Davis, The My th of Functional Analy sis as a Special Method in Sociology and Antropology , in «American Sociological Review», 24 (1959), pp. 757-772 (765).
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sapere non vi è più alcun punto di vista (ad esempio quello religioso) unanimemente e costantemente condiviso.
VI
Sul futuro si può parlare, nelle condizioni attuali, praticamente solo nel modus di probabile o improbabile, cioè nel modus di una realtà vista in senso fittizio (disciplinata da finzioni). Si sa di conseguenza che i presenti futuri porteranno altre cose, rispetto a ciò che porta il futuro presente, e proprio questa discrepanza viene espressa col dire che si tratta solo sulle probabilità o sulle improbabilità, allorché si parla del futuro. Chi afferma di essere sicuro, si espone alla decostruzione e può aspettarsi appoggio solo da compagni di fede. I molteplici giudizi che sono alla base di ciascuna comprensione di questo tipo, possono mutare in ogni momento. Vi sono intese che funzionano su grande scala, ma non vi sono dati fondamentali a priori che possano assicurare che queste intese (o almeno alcune di esse) valgano in futuro per sempre (45). Questa situazione non tocca l’intero ambito del dovere che uno impone a se stesso. Quello che si promette, bisogna mantenerlo. La fides degli antichi romani sembra essere ancora attuale. Ci si potrebbe dunque attendere che almeno con i contratti si possa offrire ancora sicurezza, anche se queste sicurezze navigano in un mare di non-sapere. La complicata struttura del diritto contrattuale romano, che distingueva tra inganni riconoscibili e occulti (46), continua a valere e determina lo svolgersi di vincoli “sinallagmatici” entrati in una fase critica. Comunque occorre chiedersi fino a che punto questa tecnica contrattuale, una delle massime trovate civilizzatrici del mondo antico, offra ancora oggi la forma sociale con la quale noi tramutiamo l’incertezza del futuro in una certezza già oggi garantita. L’epoca moderna aveva di nuovo puntato sulla figura del contratto d’affari per eliminare le incertezze sorte dal crollo della fiducia in un ordine naturale del comportamento umano. Anche in questo caso si è trattato di un passaggio da garanzie cognitive a garanzie normative. Questo ha retto solo per i cento anni abbondanti da Hobbes a Rousseau. Il liberalismo, che fece fiorire la libertà contrattuale, ha assunto già un’altra posi(45) Si veda anche, basato su analisi semiotiche Josef Simon, Philosophie des Zeichens, Berlin 1989, p. 177 e segg.. (46) Per le fonti vedi D.4.3 e per la spaccatura tra l’uso giuridico e quello quotidiano Antonio Carcaterra, Dolus bonus/dolus malus: Esegesi di D. 4. 3. 1. 2-3, Napoli 1970.
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zione; con la semantica di individuo, libertà, uguaglianza e contratto intendeva rompere solo con il vecchio ordine, per affidarsi al nuovo. La società può essere il frutto della violenza o della storia: dipende da ciò che essa ricava da queste sue cause. Gli inizi non interessano più, le possibilità si collocano nel futuro. Ma proprio per questo il contratto appare nella società imprescindibile come strumento di vincolo. Il problema è nel rapporto tra le persone, alle quali deve essere consentito di creare vincoli (illibertà) e disuguaglianze, finché ciò avviene sulla base di libertà e uguaglianza. La figura giuridica del contratto, indispensabile nel diritto, nell’economia e in altri ambiti, trova la propria garanzia, dopo la rinuncia al diritto di natura, nell’idea di una costituzione giuridico-politica che conferisca il diritto e di conseguenza la libertà contrattuale, senza voler essere essa stessa il risultato della conclusione di un contratto. (Si sarebbe saggiamente potuto evitare questo, per non andarsi a cacciare nei ben noti problemi di impugnazione, rescissione, diritto di resistenza ecc.. Come scappatoia ci si servì dell’imbarazzante costruzione di un “popolo” che si “dà” da solo una costituzione). Ciononostante si continua a porre la garanzia di certezza su delle norme vigenti, che possono venire modificate. Contemporaneamente nella riflessione sull’arte si ritorna alla percezione — sia di testi, sia di opere figurative, sia di rappresentazioni teatrali. La teoria dell’arte viene rifondata come “estetica” (47), dopo che i giudizi su cui prima si era in disaccordo venivano attribuiti al “gusto”. Discutibili pretese di singoli vengono riconosciute sui piani sia del diritto che dell’arte, come interessi e sensibilità — e al contempo neutralizzati tramite una liberale “poesia dell’indifferenza” (48). E ambedue le cose non richiedono un sapere sicuro sulla società (moderna). Il sapere necessario per orientarsi si trova nel concetto di “stati moderni (cioè: costituzionali)” e nell’estetica della riflessione. La società viene intesa, in quest’ottica, come economia. Ma i contratti non offrono amplissime sicurezze, nemmeno per gli individui. Contratti illimitati e non rescindibili non sono comunque (47) Un primo quadro serio si trova nelle lezioni universitarie di August Wilhelm Schegel su belle lettere e arte (1801). Molto citato è anche Charles Baudelaire, Le Peintre de la Vie moderne, cit. da Oeuv res complètes, éd. de la Pléiade, Paris 1954, pp. 881-922, ove l’arte lascia già (ma solo) la metà dei suoi compiti alla moda. Fino ad oggi le opere d’arte e le teorie artistiche hanno offerto gli impulsi più rilevanti alla comprensione del Moderno, senza doverli basare sul “sapere”. (48) Cfr. Stephen Holmes, Poesie der Indifferenz, in Dirk Baecker et al. , Theorie als Passion, Frankfurt 1987, pp. 15-45.
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accettati dal diritto e inoltre i contratti garantiscono solo la pretesa, ma non l’adempimento della pretesa. Anche l’arte sabota la promessa di sicurezza che potrebbe esservi nella percezione, proprio col riconoscere nuove opere d’arte come opere d’arte. Il fatto che noi abbiamo approfondito il quesito se nella normativa o nelle forme di percezione predisposte artificiosamente vi possano essere degli equivalenti della sicurezza, avrà già sorpreso il lettore. Il sapere non può essere rimpiazzato in questo modo, anche se lo stesso sapere si svaluta e un maggior sapere necessariamente conduce ad un maggior non-sapere. Soprattutto però è tutta la base di questa argomentazione che viene intaccata dal fatto che l’altro individuo non sia più la fonte primaria dell’insicurezza sociale, bensì il contesto ecologico in cui la società evolve. Tutte le forme sociali sono ora rese più complicate anche dall’insicurezza che non si possa più sapere (o in ogni caso non abbastanza) quali effetti la comunicazione sociale avrà sull’ambiente sociale e tramite questo indirettamente sulle possibilità di continuazione della comunicazione sociale. Per contro non ci si può assicurare con dei contratti. Come prima, si tratta di voler prevenire inganni o errori o cambiamenti di opinione da parte di altri. Come prima, si tratta ancora di insicurezze risultanti dall’ambiente umano del sistema sociale. E anche in relazione a questo, vi sono mutamenti che lasciano apparire opinabile il poter contare ancora sulle tecniche sociali classiche (per esempio nel rapporto reciproco tra generazioni). A ciò si aggiunge tuttavia ancora una problematica, risultante dalle interdipendenze dell’ecologia sociale e che forza la società a riguardi finora sconosciuti. La comunicazione sociale ha ricavato da tutto questo dei temi — in maniera sorprendentemente rapida e con sorprendente successo. Attraverso le tematizzazioni si apprende però, soprattutto, che non si sa quello che succederà, se si mutano, oppure non si mutano, i comportamenti. Il non-sapere si cristallizza su dei temi. Questa risposta riconduce dunque al nostro problema del rapporto della società con il non-sapere, e al contempo lascia irrisolto l’interrogativo circa quale merito vi sia stato nell’aver scoperto e tematizzato i problemi ecologici. Forse il merito è soprattutto nell’aver reso la società insicura, e di averla costretta di conseguenza in qualche modo all’azione. Come l’ordine venga in essere anche senza il sapere viene talvolta spiegato con il concetto di imitazione. In questo ambito è Gabriel Tarde il classico cui fare riferimento e René Girard lo studioso attualmente più autorevole. Anche nella teoria economica corrispondentemente si medita di trasformare la non possibilità di decidere in possibilità di decidere 118
attraverso l’imitazione (49). Il quesito è solo: chi o cosa viene imitato? Si penserà dapprima all’autorità o al rango sociale, ma questo rinvierebbe la teoria al vecchio ordine. La ricerca sui mass-media parla di “gate-keepers”, lasciando aperto come siano occupate queste posizioni informali. Un passo oltre conduce l’analisi del fenomeno della moda. Se ci si libera dai presupposti della classe sociale, rimane un fenomeno tipico di riflessione dell’imitazione. La moda nasce, quando la non-imitazione (cioè la devianza) viene studiata e imitata sull’imitazione. Quando poi il cambio della moda avviene frequentemente, come avviene oggi non solo nel campo dell’abbigliamento, bensì anche nelle mode intellettuali, nelle mode stilistiche dell’arte, o in tutto ciò che viene proposto con i prefissi come post-, neo-, bio-, eco- ecc., si deve tener conto del fatto che l’imitazione e la non-imitazione sono indicate al contempo (o come si dice con un verbo alla moda: annunciate). La comunicazione dipendente dalla moda diventa poi medium per cambiare tema, per temporalizzare la complessità, per accrescere l’irritabilità della comunicazione. E nell’ambiente si notano le singole persone che vivono troppo a lungo e troppo lentamente, per poter reggere il passo (50). Esse si presentano con i loro atteggiamenti e preferenze, con la loro biografia raccontabile secondo la moda; anche quello che esse sottacciono, non interessa da tempo più a nessuno, e d’altra parte ciò che esse dicono determina improvvisamente imbarazzo (come ad esempio quando oggi si parla di “negri”). Può quindi esservi dello stile nel provenire dalla moda e allontanarsene visibilmente. Lo stile stesso consiste nel mostrare alla moda che essa è solo moda. Ma anche questo ora è solo una forma, che rende possibile la tendenza dominante del cambio e dell’imitazione della nonimitazione, o della non-imitazione dell’imitazione (51). La disponibilità necessaria nella comunicazione ad accettare le selezioni, a trasmettere ulteriormente assorbimenti di insicurezza, non può Si veda, come ricollegantesi a Keynes Jean Pierre Dupuy, Zur SelbstDek onstruk tion v on Konv entionen, in Paul Watzlawick/Peter Krieg (a cura di), Das Auge des Betrachters - Beiträge zum Konstruk tiv ismus: Festschrift für Heinz v on Foerster, München 1991, pp. 85-100 (98 e segg.). (50) Questo si vedeva già nel Seicento: «Un homme à la mode dure peu, car les modes passent; s’il est par hazard homme de mérite, il n’est pas anéanti, et il subsiste ancore par quelques endroits; egalement estimable, il est seulment moins estimé» nota Jean del la Bruyère, Les caractères ou les moeurs de ce siècle, 8a ed. (1694), cit. da Oeuv res complètes, éd. de la Pléiade, Paris 1951, pp. 59-478 (392). (51) Anche questo è un vecchio topos: «Il y auroit de l’affectation à ne pas faire ce que tout le monde fait; ce seroit un air de singularité pour se faire regardé» — scriveva Jean Baptiste Morvan, Abbé de Bellegarde, Réflex ions sur le ridicule et les moy ens de l’ev iter, 4a ed. Paris 1699, p. 125. (49)
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più assumere in queste condizioni la forma del vincolo di capacità psichiche. Se per “consenso” si intende questo, il consenso non è né possibile, né sensato. Si porrebbe subito l’interrogativo: come si fa a liberarsene e quanto duri sarebbero i sacrifici? Nella comunicazione bisogna piuttosto accontentarsi di intese, che non impegnano, bensì specificano a che condizioni esse valgano e quali mutamenti coinvolgerebbero il “fondamento dell’affare”. Ciò fa parte di uno stile sociale, il quale pratica la discrezione e non tenta affatto prima di distogliere dalle loro convinzioni coloro che debbono intendersi, oppure di convertirli o di modificarne in qualche modo le posizioni (52). Comunque i presenti non sono presenti in quanto se stessi, essi agiscono come funzionari, inviati, rappresentanti e si debbono solo preoccupare che coloro che raggiungono un accordo si intendano grazie alle intese. Quando sono in gioco interessi contrastanti, si tratta solo di una tregua. Si tratta di ordini del giorno e di punti sui quali si può raggiungere un accordo — forse proprio perché comunque nessuno dispone del sapere che gli consentirebbe di costringere gli altri ad essere d’accordo. Si tratta di un elaborare la comunicazione sulla base delle informazioni di cui al momento si dispone e delle previsioni che lasciano riconoscere quali ulteriori informazioni consentirebbero la loro revisione. Soprattutto dovrebbe poter rientrare nell’accordo il lasciar perdere i moralismi, dunque non inserire nella comunicazione condizioni di considerazione per sé e per gli altri(53). L’attenzione è sempre un indicatore dell’inclusione morale della persona nella società e al contempo anche della sua esclusione, allorché l’attenzione viene negata. Ciò presuppone
(52) La discussione consueta, mirante ad una “intesa”, non distingue in verità così nettamente tra sistemi sociali e psichici e sovraccarica pertanto il concetto di intesa con un’opera di convincimento. Il problema riecheggia nelle relazioni di un convegno del Gottlieb Duttweiler Insitut, Rüschlikon, pubblicato con il titolo Das Problem der Verstèndigung: Ök ologische Kommunik ation und Risik odisk urs: Neue Strategien der Unternehmensk ultur 1991. (53) Su questo concetto puramente empirico di morale vedi più dettagliatamente Niklas Luhmann, Soziologie der Moral, in Niklas Luhmann/Stephan H. Pfürtner (a cura di), Theorietechnik und Moral, Frankfurt 1978, pp. 8-116. Questo concetto di morale non esclude, bensì include che ogni comunicazione, ogni agire possa essere osservato in base ad uno schema morale. Nell’ottica di un osservatore di secondo ordine, allorché questi usa il codice morale come distinzione, essere moralmente bene o male valutare moralmente o fare a meno del giudizio morale, laddove secondo i moralisti sarebbe opportuno. Un’etica potrebbe essere all’altezza delle esigenze di distinzione così poste, solo se disponesse di criteri in base ai quali si potesse decidere dell’accettazione o del rigetto del codice morale. In merito anche Niklas Luhmann, Paradigm lost: Über die ethische Reflex ion der Moral, Frankfurt 1990, p. 40 e segg..
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che singole posizioni od azioni possano veramente avere il valore di un tale indicatore. Occorre non escludere in via di principio questa stessa cosa per la società moderna, ma si può presumere che sia diventato sempre più difficile intendersi in generale su questo. A maggior ragione la comunicazione a fini di accordo deve evitare di procedere sul piano della morale, richiamandosi alla morale solo quando si vuole veramente interrompere la comunicazione. Con la comunicazione morale lo schema inclusione/esclusione viene attualizzato. Finché si ricercano intese o le si ritengono possibili, bisogna partire dall’inclusione. Dopo però è conforme allo scopo non rendere più pesante la comunicazione ponendo questa alternativa. Attualmente questi confini non sono chiari. Ciò significa anche che le questioni cognitive e morali si mischiano spesso e che le opinioni sul probabile o improbabile vengono trattate come obblighi morali. Con la morale ci si immunizza contro l’evidenza del non-sapere, poiché l’opinione moralmente migliore si conferma con i suoi propri argomenti. Impianti industriali vengono dichiarati “sicuri” e descritti da altri come insicuri, benché si sappia di non sapere se e in quale spazio di tempo accadrà un evento importante e quali saranno le conseguenze. La cessazione della produzione dell’energia atomica viene definita un’“ovvietà morale”, il che indica che l’autore di questa definizione non può essere indotto ad un accordo(54). La morale nella comunicazione costringe all’esagerazione, e l’esagerazione fa rapidamente apparire impossibile un accordo. “Con quelli non si può parlare”, si dice allora, poiché non è possibile indurre “quelli” ad accettare il proprio modo di vedere le cose. Una comunicazione che miri all’accordo deve pertanto innanzitutto accrescere l’insicurezza e preoccuparsi del comune sapere di non sapere. Dal momento che di non-sapere c’è abbondanza, ciò non dovrebbe essere particolarmente difficile. (54) Cosa questa che oltretutto implica un verdetto morale sulla democrazia, che a livello mondiale consente l’energia atomica. Si può riconoscere all’autore che egli forse non intende dire quello che dice; ma l’inaccuratezza o l’esagerazione terminologica non è nemmeno propriamente un segno di disponibilità a raggiungere un accordo. In merito: Hans Peter Dreitzel, Introduzione, in stesso autore e Horst Stenger (a cura di), Ungewollte Selbstzerstörung, Reflex ionen über den Umgang mit k atastrophalen Entwick lungen, Frankfurt 1990, pp. 7-21 (11, cfr. anche 9). Si noti inoltre anche lo spostamento di senso nel sottotitolo di questo libro ammonitore: Aus Entwick lungen, die zu Katastrophen führen k önnen, werden k atastrophale Entwick lungen [Da sv iluppi che possono condurre a catastrofi, deriv ano sv iluppi catastrofici]. Così non si tiene retoricamente conto della differenza tra non-sapere e sapere.
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VII
Ciò che rimane, appare essere cultura, in ogni caso negli ultimi anni di questo millennio. Evidentemente il concetto di cultura è adatto per riassumere ogni eterogeneità. È sempre stato poco chiaro e discusso che cosa questo concetto volesse dire che cosa esso includesse e che cosa escludesse. Gli studiosi di antropologia culturale sembra preferiscano altri temi, rispetto agli studiosi di antropologia sociale. Anche nella teoria generale dell’azione di Parson si trova una distinzione corrispondente, limitata però ad un riferimento che dovrebbe rendere chiaro proprio il fatto che nessuna azione può venire in essere senza riferimenti, al senso, sociali e culturali. Dalla fine del Settecento il concetto di cultura contiene una componente riflessiva. In ogni applicazione esso afferma che possono esserci anche altre culture. Questo obbliga a praticare ogni volta una distinzione doppia, vale a dire le diverse culture da una parte e ciò che cultura significa in opposizione a non-cultura. A tal fine ci si è serviti di mezzi ausiliari segreti, che nel frattempo sono però scomparsi ad esempio la coscienza della varietà dei popoli del mondo antico o la possibilità di distinguere cultura da civiltà o da natura, o da tecnica. Il concetto poteva comprendere suddivisioni e contemporaneamente lasciare aperto ciò che volesse veramente significare attraverso una varietà di controconcetti. Dalla fine dell’Ottocento vi è stata una seconda fase di ampliamenti notevoli, in particolare verso il basso. Muovendo dalla cultura si scopre che vi sono culture anche più in basso. Di culture indigene si parlava già da tempo. A ciò si aggiunse l’interesse per le culture operaie. (Non può essere un fatto così estremo, così grave, se anche essi hanno una cultura). Oggi vi è anche una cultura della droga o qualcosa di simile (55). L’astrazione funzionale del concetto non consente più limiti inferiori, si parla persino di cultura del corpo, e non solo nella pubblicità. Tuttavia il concetto, cosa che sembra spiegare la tendenza verso il basso, guarda verso l’alto. Esso promette qualcosa “di meglio”, fosse anche un palliativo. Come ha ampiamente documentato Bourdieu, esso compie una legittimazione delle distinzioni. È, oppure è stato in ogni caso fino a poco tempo fa, un concetto della classe media. Anche questa limitazione immanente tramite connotazioni gerarchiche potrebbe ciononostante essere in via di disgregazione. Essa presuppone infatti delle (55) Vedi in applicazione della concettualità di Parsons ad esempio Dean R. Gerstein, Cultural Action and Heroin Addiction, in «Sociological Inquiry», 51 (1981), pp. 355-370.
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standardizzazioni, ad esempio del curriculum tipico o del-l’ambiente limitato, che vengono progressivamente meno. La cultura in senso tradizionale deve poter provare sorpresa. Essa trova il proprio limite, e il proprio stimolo, in quest’esperienza del “questo no/questo neppure”. La cultura intende essere infatti cultura di individui, ma ciò implica anche che gli individui debbano disciplinarsi corrispondentemente. Sarà difficile rinunciare del tutto a questo, per cui l’ordine sociale e l’attendibilità reciproca deve rimanere possibile. Ma la tendenza sembra essere nel senso dell’individualizzazione delle “frames”, che ciascuno accoglie su se stesso per se stesso (56). In questo senso si ricerca identità, identità alternativa, identità nella protesta fino all’identificazione con la mancanza di funzione; o anche ogni sorta di identità nel piccolo, che una società complessa offre ovunque. La cultura non è più solo capace di sorprese e di rimanere stabili di fronte ad esse, essa causa da parte sua shocks da sorpresa. La legittimazione di questo modo di procedere è entrata nel movimento culturale ufficiale e, in tal senso, senza dubbio non si tratta di una cultura. La si trova oggi per le strade, nella sfera estetica, e anche nella politica (57). Per la cultura è sufficiente farlo intenzionalmente. E in qualche modo la libertà che ci si prende e che si fa valere per il self-framing individuale, esprime che nell’insieme le cose stanno così. Avevamo già asserito, con riflessioni molto teoriche (self-framing?), che l’osservatore e il mondo sono separati da ciò che viene distinto e definito, benché ambedue, l’osservatore e il mondo, restino inosservabili. La cultura è lo strumento adatto per questo? La cultura non è dunque chiusa dietro un muro eretto contro il non-sapere? E può e deve essere detto questo, quando le frames vengono sempre più ritagliate individualmente? Portata al concetto estremo, la cultura è tutto ciò che serve allo sviluppo delle paradossie, contro le quali un osservatore si scontra, allorché egli chiede dell’unità della distinzione di cui si serve sia della distinzione tra sistema e ambiente, sia della distinzione tra sapere e non-sapere, sia della distinzione tra osservatore e osservato. Sviluppo della paradossia significa reintroduzione di identità, le quali consentono un ulte(56) “frames” nel senso di Erving Goffman, Frame Analy sis: An Essay on the Organization of Ex perience, New York 1974. (57) In apparenza, possiamo annotarlo qui solo come supposizione, anche il neonazismo ha avuto una ripresa innanzitutto come possibile shock culturale. Naturalmente, ciò non esclude il pericolo che la politica consegni motivi politici ad un tale movimento.
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riore operare. Ciò non può avvenire logicamente, poiché la paradossia si trova al di fuori dei limiti della logica, che da parte loro è un tipo di cultura, cioè un tipo di sviluppo della paradossia al fine di dar luogo a calcoli. Né dall’essere, né dal pensiero provengono istruzioni chiare in merito. Lo sviluppo della paradossia può avvenire solo a balzi, solo creativamente (il che non significa arbitrariamente). E la cultura sembra essere il mezzo in cui le forme dello sviluppo della paradossia possono assumere un’identità stabile e plausibile per il loro tempo. La cultura è la borsa, alla quale vengono trattate le opzioni per lo sviluppo della paradossia. In analisi che hanno suscitato molta attenzione, Ulrich Beck ha scoperto dei nessi tra la percezione di rischi indotti dalla società e un “nuovo individualismo” (58). Anche il nuovo dei “nuovi movimenti sociali” potrebbe consistere nel fatto che essi debbono partire da situazioni individuali mutate, oppure debbono proprio ad essi, vale a dire agli individui, che individualmente sono alla ricerca di un’identità in massa e tuttavia ciascuno per sé. Helmuth Berking ha aggiunto una diagnosi paradossale: «Individualizzazione... significa concretamente apprendere ad affrontare supposizioni paradossali di comportamento. Individualizzazione significa infatti al contempo accrescimento dello spazio soggettivo di libertà e perfetta dipendenza dal mercato, soggettivizzazione e standardizzazione del comportamento espressivo, accresciuta riflessione su di sé e superiore controllo esterno» (59). E si potrebbe ancora aggiungere: amare l’altro nel suo essere altro, dunque evitare una degenerazione dell’amore in terapia e quanto meno mantenere questa distinzione. Tali domande vanno poste alla società e alla sua cultura. I sistemi psichici sono straordinariamente robusti, persino nei casi di patologie croniche, e lo stesso vale anche per il sistema della vita organica. Anche per questo vi sono descrizioni culturali, ad esempio quadri clinici. Ma la società moderna crea se stessa con la preoccupazione dell’identità, che essa attribuisce agli individui sotto forma di paradossia nascosta, un problema proprio, un problema altrettanto fondamentale e che probabilmente si pone sullo stesso piano del problema della sua ecologia. Vi sono, in altri termini, forme culturali per problemi e motivi, che debbono essere individualmente capaci di acquisizione. La copertura del non-sapere (58) Vedi Ul ri ch Beck , R i s i k o g es el l s ch af t : A uf dem W eg i n ei n e an dere Moderne, Frankfurt 1986. (59) Helmuth Berking, Die neuen Protestbewegungen als ziv ilisatorische Instanz im Modernisierungsprozeß?, in Hans Peter Dreitzel/Horst Stenger, ibidem (1990), p. 47-61 ( 5 3 ) .
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in questioni ecologiche sembra essere uno di questi problemi. I motivi posti per questo non sono più da tempo quello che l’establishment ufficiale si immagina. Sono motivi di preoccupazione, di ammonimento, di protesta, i quali in un modo o nell’altro possono consolidarsi in movimenti sociali o anche solo in dichiarazioni ai mass-media. I movimenti di protesta non necessariamente intendono affermare un proprio sapere. Essi risultano dalla trasformazione di non-sapere in impazienza. Essi rimpiazzano il non-sapere con il sapere che non possiamo in ogni caso più permetterci di aspettare, poiché il sapere, se pure dovesse arrivare, arriverebbe troppo tardi. In questa riflessività essi sono superiori a tutto ciò che ad essi si oppone. Ma proprio da questo risulta una imprecisione che può sfociare in irresponsabilità. Noi abbiamo già una cultura dell’inquietudine che cerca scopi, per non dire dell’ansia coltivata. Se noi riusciremo a trasformarla in una cultura dell’accordo non convinto, è cosa che al momento rimane da vedere.
VIII
Con le riflessioni precedenti siamo rimasti sul piano del sistema sociale. Se però vi sono aspettative di poter affrontare i problemi ecologici con efficacia, queste aspettative nella nostra società vengono indirizzate a delle organizzazioni. Le organizzazioni, così si suppone, posseggono una tecnologia interna di assorbimento dell’insicurezza (60). Esse sono specializzate nelle possibilità di “fattorizzare” i fatti sconosciuti; o quantomeno le organizzazioni che sono in grado di fare questo dispongono di migliori speranze di sopravvivenza (61). Un senso della distinzione tra sistemi sociali e sistemi di organizzazione potrebbe consistere nel fatto che la società, creando organizzazioni, si mette in condizione di compiere qualcosa che in altri casi non sarebbe in grado di effettuare, vale a dire di assorbire l’insicurezza. Non vi è necessità di mettere in dubbio questo; ci si può invece chiedere come le organizzazioni affrontino qualcosa che esse non possono conoscere. Un ambito della ricerca già consolidato riguarda le organizzazioni a fini educativi e terapeutici, cioè le organizzazioni che si occupano della trasformazione normale o anormale, in casi definiti patologici, della (60) Ci riferiamo di (61) March/Simon,
nuovo a March/Simon, ibidem, (1958), p. 164 e segg.. ibidem, p. 192 e segg.. Cfr. anche Herbert A. Simon, Birth of an Organization: The Economic Cooperation Administration, in «Public Administration Review», 13 (1953), pp. 227-236.
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persona. La teoria generale dell’organizzazione non ha fatto molto per questo, limitandosi a creare solo un tipo speciale per particolari situazioni problematiche: per le organizzazioni senza tecnologia funzionante. Inoltre si ricorre all’ausilio dello spostamento delle aspettative di soluzione dei problemi dalle organizzazioni ai professionisti, vale a dire considerando l’impossibilità di conoscere come specifico sapere di competenza degli esperti, e come questione di motivazione e di impegno del singolo (62). Nel caso di problemi ecologici questa strategia di spostamento dei problemi non dovrebbe essere utilizzabile. Come alternativa sembra esservi solo la criticatissima ideologia “end-of-the-pipe” che si limita a migliorare i propri scarti dal punto di vista ecologico (63). In un contesto che presenta il problema in maniera estremamente sintetica non si possono ovviamente analizzare le proposte organizzative. Si può però porre l’interrogativo circa cosa la teoria dell’organizzazione, e in particolare la sociologia dell’organizzazione abbiano da offrire, allorché si pone loro il quesito scottante relativo al modo di agire all’interno di organizzazioni in cui è presente il non-sapere. La teoria dell’organizzazione classica aveva presentato un modello che può essere descritto a posteriori come modello di macchina o macchina triviale o modello input-transformation-output, o anche con il concetto del tight coupling. La premessa è che obiettivi dati (outputs) vengono raggiunti sulla base di regole (programmi) determinate, allorché si disponga degli inputs necessari e il processo non venga disturbato. Si progetta una fabbrica di automobili, la si costruisce, si avvia la produzione, e alla fine le macchine pronte per la vendita escono dalla fabbrica. Non è irrealistico supporre che le cose vadano così. La teoria sociologica dell’organizzazione, sviluppata in parallelo, concentrava le sue preoccupazioni su fatti collaterali (ad esempio la motivazione a produrre), subordinandosi così al modello primario, anche se parlava di “human relations”. Da un punto di vista economico e umano le cose non funzionano così perfettamente come il modello
(62) Per il suo “sapere” anche una professione già minacciata si rafforza, anche se rinunciando all’integrazione teorica. Per un quadro rappresentativo e attuale vedi Jürgen Oelkers/H.-Elmar Tenorth (a cura di), Pädagogisches Wissen, 27esimo allegato a Zeitschrift für Pädagogik , Weinheim 1991. (63) Che questo sia sensato e che già con questa limitazione crei i più complicati problemi tecnici, economici e organizzativi, è ovviamente cosa che non si può discutere. Che sforzi su questo piano possano avere successo, lo dimostrano confronti tra una regione e l’altra. L’unica cosa è che questo non fornisce la risposta al nostro problema dell’approccio organizzato all’impenetrabilità delle connessioni ecologiche.
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richiede (64). Nel frattempo però la critica si è rafforzata, radicalizzandosi, e ha incluso questa supposizione di tecnologia interna di assorbimento dell’insicurezza in un contromodello. Non si dubita nemmeno in questo caso che le automobili vengano prodotte secondo un programma, e restano attuali le esigenze connesse di maggiore considerazione per le persone e di maggiore flessibilità strutturale. Ma l’interrogativo circa il modo di rapportarsi a livello organizzativo con il non-sapere apre prospettive del tutto diverse. Gli aspetti teorici più importanti dicono sostanzialmente quanto segue:
(1) Le organizzazioni non sono sistemi che realizzano gli obiettivi, bensì sistemi che li cercano (65). Esse si occupano di interpretare (osservare) costantemente le loro stesse operazioni e cercano obiettivi, eventualmente nuovi obiettivi, che rendano comprensibile ciò che accade o è accaduto e consentano di prendere decisioni. La pianificazione è la costante elaborazione delle memorie del sistema. (2) Ogni pianificazione, programmazione, orientamento consiste in operazioni che debbono venire compiute all’interno del sistema, e che quindi vengono anche osservate nel sistema. Quello che avviene in funzione delle pianificazioni non risulta dalla pianificazione stessa, bensì dall’osservazione della pianificazione, e eventualmente dall’osservazione dell’essere osservata della pianificazione. La realtà opera secondo il modello della “second order cybernetics”. Le organizzazioni sono osservazioni di sistemi che osservano (66). (3) Le organizzazioni non sono macchine banali, vale a dire macchine che reagiscono solo al loro output proprio o al loro stato momentaneo e pertanto funzionano in maniera poco affidabile. Esse forse si basano su una tecnologia triviale, che trasforma gli inputs in outputs, ma determinano l’impiego di questa tecnologia secondo parametri basati su processi autoreferenziali, dunque tenendo conto anche della loro posizione momentanea; in questo senso sono macchine storiche, che ogni momento si costruiscono
(64) Vedi per i limiti già abbastanza estesi Richard M. Cyert/James G. March, A Behav ioral Theory of the Firm, Englewood Cliffs N.J. 1963. (65) Cfr. J ames G. March / J o h an P. Ol s en , A m b i g ui t y an d Ch o i ce i n Organizations, Bergen 1976. (66) “Ob s erv i n g s y s t ems ” n el s en s o di Hei n z v o n Fo ers t er, Ob s erv i n g Sy stems, Seaside Cal. 1981.
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come una nuova macchina — il che naturalmente non esclude affatto che esse facciano sempre la stessa cosa, che funzionino in maniera affidabile e che proprio per questo non sfruttino la possibilità di cui dispongono di cercare obiettivi (67). (4) I sistemi complessi raggiungono la stabilità solo attraverso il disaccoppiamento degli effetti reciproci. La vecchia cibernetica aveva parlato di funzioni scalari e di ultrastabilità (68). Herbert Simon aveva sottolineato l’importanza della differenziazione verticale dei livelli (formazione della gerarchia) per il disaccoppiamento orizzontale delle operazioni (69). Oggi si preferisce il termine loose coupling contrapposto a tight coupling (70) . L’accoppiamento libero rintraccia difetti, isola problemi, previene problemi con efficacia. D’altra parte la ricerca, partendo da grandi catastrofi tecniche, ha dimostrato che essa è poco adatta a compensare la realtà indotta dalla tecnica, vale a dire a farla avviare in se stessa (71); infatti proprio questo richiederebbe la sicurezza del funzionamento in casi specifici (ma rari) in condizioni sconosciute. Su di un soddisfacente “containment” organizzativo di tecnologie rischiose non si può contare, proprio a causa di questa differenza tra loose e tight coupling. (5) La pianificazione e orientamento in organizzazioni non banali (autoreferenziali) non possono determinare a priori gli stati futuri del sistema, e nemmeno i rapporti futuri tra il sistema e l’ambiente. L’orientamento è piuttosto un processo di riduzione delle differenze, che viene contrassegnato da obiettivi, vale a dire che cerca di ridurre la differenza tra obiettivo e realtà. Il risultato non è né prevedibile, né controllabile nel sistema, ma è influen-
(67) Vedi in merito Heinz von Foerster, Principles of Self- Organization - In a Socio-Managerial Contex t, in Hans Ulrich/Gilbert J.B. Probst (a cura di ), SelfOrganization and Management of Social Sy stems: Insights, Promises, Doubts and Questions, Berlin 1984, pp. 2-24. (68) Vedi W. Ro s s As h b y , Des i g n f o r a B rai n : Th e Ori g i n o f A dap t i v e B eh av i o ur, 2 a ed. , Lo n do n 1 9 6 0 , p . 6 8 e s eg g . ; del l o s t es s o aut o re, A n Introduction to Cy bernetics, New York 1956, p. 82 e segg.. (69) Vedi The Organization of Complex Sy stems, in Howard H. Pattee (a cura di), Hierarchy Theory : The Challenge of Complex Sy stems, New York 1973, pp. 3-27 (15 e segg.). (70) Vedi ad esempio Karl E. Weick, Der Prozeß des Organisierens, trad. tedesca Frankfurt 1985, in particolare p. 163 e segg.. (71) Vedi oltre a Perrow ibidem anche Jost Halfmann/Klaus Peter Japp (a cura di), Risk ante Entscheidungen und Katastrophenpotentiale: Elemente einer soziologischen Risik oforschung, Opladen 1990.
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zabile con un continuo riorientamento, vale a dire contrassegnando altre differenze. La pianificazione è un going concern, e le previsioni ne specificano i punti di vista della sua correzione continua. (6) Le organizzazioni sono sistemi autopoietici che si basano su decisioni. Le operazioni sono per esse rilevanti solo sotto forma di decisioni, poiché solo così sono collegabili all’interno del sistema (72). Tutto lo sviluppo delle strutture dipende dallo sviluppo dell’autopoiesis. Come alternativa c’è solo la disgregazione, la distruzione. La tipizzazione strutturale basata su questo identifica le premesse delle decisioni sulla base degli organi competenti che rendono possibile un cambiamento sia dell’attribuzione organizzativa che delle decisioni programmate, che del fatto che questi organi competenti sono costituiti da persone. In funzione del numero degli uffici è raggiungibile una notevolissima, incontrollabile complessità dei collegamenti tra le decisioni, senza che, per dirlo ancora una volta, lo stato del sistema possa venire determinato da un organo.
La teoria alternativa dell’organizzazione, qui delineata solo in sintesi, non è sorta durante la ricerca di una soluzione ai problemi ecologici. Si tratta nell’insieme piuttosto di un richiamo a risolvere i problemi attraverso la non-soluzione, vale a dire a mantenerli come momento dell’autopoiesis del sistema continuando costantemente a ricercare gli obiettivi e riorientando le strutture (gli ottimisti dicono: imparando). Quanto più un problema è insolubile, tanto maggiore è il suo valore di riproduzione. Così si sabota innanzitutto la speranza di riuscire a trasferire i problemi ecologici nell’agenda dei compiti da svolgere delle organizzazioni, facendo sì in questo modo che la questione venga opportunamente aggirata. Si tratta piuttosto, nelle riflessioni proposte, di una decostruzione delle pretese classiche di razionalità delle organizzazioni e al contempo di una nuova versione dell’altrettanto classica critica della burocrazia. Ma, se noi dobbiamo comunque muovere da un’ecologia del nonsapere, si dovrebbe mirare ad una teoria dell’organizzazione che tenga conto, meglio della teoria classica, di queste condizioni. Ciò che nel modello della soluzione razionale dei problemi appare come un difetto, (72) Cfr. Niklas Luhmann, Organization, in Willi Küpper/Günther Ortmann (a cura di), Mik ropolitik : Rationalität, Macht und Spiele in Organisationen, Opladen 1988, pp. 165-185.
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potrebbe cedere il posto di fronte ad un’analisi più realistica (73). Si dovrebbe poter osservare più liberamente come vengono affrontati nelle organizzazioni i problemi ecologici, quali forme essi assumano, quanto siano stabili, cioè resistenti al cambiamento, come possano essere osservati come programmi capaci di pronunciarsi internamente e come l’organizzazione si organizza nel complesso perché non le succeda niente, nel caso succeda qualcosa. La questione del modo di affrontare il non-sapere costituisce anche per la teoria dell’organizzazione un tipo nuovo di problema. Comprensi-bilmente i dirigenti, i consulenti e gli scienziati dell’organizzazione ritengono importante mostrare e migliorare ciò che sono in grado di fare. Ma l’essere-in-grado-di-fare è solo una faccia di una forma, la cui altra faccia è il non-essere-in-grado-di-fare. Se si considerano le organizzazioni come dei sistemi autopoietici, si chiarisce la loro robustezza straordinaria, la loro resistenza in un mondo che non è in grado di conoscersi. La teoria dell’autopoiesis è stata valutata finora solo sotto il profilo della teoria della conoscenza (74). Ciò ha condotto ad una discussione sul costruttivismo della teoria della conoscenza che, se così si può dire, è diventata una controversia. La limitazione ai problemi della teoria della conoscenza classica occulta però anche la portata di questa avventura teoretica. Concetti come “chiusura operativa” o anche il rinviare tutti i problemi all’interrogativo circa l’osservatore, indicano mutamenti di atteggiamento che lasciano intuire che la “coscienza-di-essere-in-grado” (75) europea comincia a prendere coscienza della propria improbabilità. Ma questo ovviamente può venire formulato solo nella società, e, qualo-
(73) Vedi per riflessioni analoghe, maggiormente riferite a decisioni giuridiche, Karl-Heinz Ladeur, Die Ak zeptanz v on Ungewissheit: Ein Schritt auf dem Weg zu einem “ök ologischen” Rechtsk onzept, in Rüdiger Voigt (a cura di), Recht als Instrument der Politik , Opladen 1986, pp. 60-85; dello stesso autore, Jenseits v on Regulierung und ök onomisierung der Umwelt: Bearbeitung v on Ungewissheit durch (selbst-)organisierte Lernfähigk eit, in «Zeitschrift für Umweltpolitik und Umwel t rech t » , 1 0 (1 9 8 7 ), p p . 1 -2 2 ; i n o l t re Kl aus Pet er J ap p , Prev en t i v e Planning - A strategy with Loss of Purpose, in Günter Albrecht/Hans-UweOtto (a cura di), Social Prev ention and the Social Sciences: Theoretical Controv ersies, Research Problems and Ev aluation Strategies, Berlin 1991, pp. 81-94. (74) E cioè estendendo straordinariamente il concetto di cognizione. Vedi Humberto R. Maturana, Erk ennen: Die Organisation und Verk örperung v on W i rk l i ch k ei t : A us g ewäh l t e A rb ei t en z ur b i o l o g i s ch en Ep i s t em o l o g i e, Braunschweig 1982; Humberto R. Maturana/Francisco J. Varela, Der Baum der Erk enntnis: Die biologischen Wurzeln des menschlichen Erk ennens, Bern 1987. (75) Su questa formulazione e sulle radici cristiane cfr. Christian Meier, Die Entstehung des Politischen bei den Griechen, Frankfurt 1980, p. 435 e segg..
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ra debba divenire rilevante per le decisioni, nelle sue organizzazioni. Nella situazione odierna ci si può attendere meno di prima che la natura aiuti a livello fisico o che l’essere aiuti a livello metafisico. La società può aiutarsi solo con le proprie operazioni, cioè attraverso la comunicazione. Ogni critica va a vuoto, se essa lavora senza ulteriore verifica supponendo che si potrebbe, se solo si volesse, e pertanto ricorre al bastone dell’ammonimento morale. Forse è per questo consigliabile lasciar iniziare la comunicazione con la comunicazione del non-sapere, anziché vincolarla all’interno e all’esterno delle organizzazioni al mantenimento di una “illusion of control”(76).
IX
In conclusione ci si dovrà chiedere se c’è una ragione per queste constatazioni effettuate con il tono del rincrescimento. E in effetti, se si osservano attentamente gli attuali sviluppi teorici ponendosi questo interrogativo, si possono scoprire diverse cose. Delineiamo in conclusione alcuni design teorici, che sono oggi oggetto di discussione, ponendoli insieme sotto l’ottica del principio che la trasparenza sarebbe improduttiva. Il nostro argomento sociologico in merito è che vi sono pochissimi o molto limitati spunti reciproci che potrebbero chiarire che determinate disponibilità di pensiero si diffondono. Sembra piuttosto che vi sia, come dicono i teorici dell’evoluzione, un processo equifinale, che muovendo da punti di partenza diversi (77) conduce ad un risultato che annulla la metafisica ontologica tradizionale. E la supposizione dei sociologi è allora che la società moderna abbia iniziato ad esperimentare un pensiero ad essa adeguato. 1) La teoria dei sistemi mostra la tendenza a trasformarsi in una teoria dei sistemi operativamente chiusi (78). Determinanti in questo senso sono state non da ultimo le ricerche empiriche, e soprattutto quelle sulle cellule e sulla neurofisiologia, che dimostrano che proprio i sistemi capaci di grandi prestazioni (prevalentemente i sistemi nervosi) non possono mantenere sul piano delle proprie operazioni alcun contatto con il loro ambiente. Essi non possono,
(76) Come gli psicologi l’hanno chiamata. Vedi Ellen J. Langer, The Illusion of Control, in «Journal of Personality and Social Psychology», 32 (1975), pp. 311-328. La trasformazione delle variabili rilevanti per l’illusion of control, qual i : f am i l i ari t y i n v o l v m en t , co m p et i t i o n , ch o i ce n el l a ri cerca dell’organizzazione non dovrebbe risultare difficile. (77) Per dimostrare questo daremo qui di seguito solo poche indicazioni bibliografiche, scelte però secondo criteri della massima eterogeneità possibile. (78) Vedi ad es. Francisco J. Varela, Principles of Biological Autonomy , New York 1979.
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nemmeno un po’, operare nel loro ambiente, e dunque nemmeno prolungare operazioni interne che poi si trasferiscono nell’ambiente; e dunque nemmeno controllare le causalità che avviano nell’ambiente con le loro stesse operazioni. 2) Un avvio strettamente operativo della teoria dei sistemi (ma anche di ogni teoria dell’applicazione dei segni, ad esempio della lingua) conduce alla supposizione che tutto ciò che succede, succeda contemporaneamente (79). Nessuna operazione può presupporre che, mentre essa stessa si attualizza, qualcos’altro si svolga ancora nel suo passato o già nel suo futuro. La contemporaneità è in effetti non ancora tempo vero e proprio, ma è la base per situare ciò che man mano è presente; ed è così la base per ogni osservazione del tempo che lavori con distinzioni quali prima di/dopo di o passato/futuro. E contemporaneità di ogni evento significa: impossibilità di controllare ogni evento. 3) La semiotica, richiamandosi a Saussure, ha ritenuto di essere costretta a rinunziare alla vecchia distinzione verba/res, sostituendola con la distinzione signifiant/signifié, che viene creata nell’uso stesso dei segni. Tutte le differenze sono solo differenze tra segni. Le diversità tra di essi possono essere usate sul piano operativo. Ma come si arriva ai segni? Si può applicare la semiotica in modo riflessivo, usando quindi lo stesso concetto di segno come segno (80). In maniera più radicale si chiede Ralph Glanville se questo segno dei segni potrebbe essere l’ultimo di tutti i segni, e risponde immediatamente: no (81). Un segno deve in prima e
(79) Vedi Niklas Luhmann, Gleichzeitigk eit und Sy nchronisation, in, dello stesso autore, Soziologische Aufk lärung vol. 5, Opladen 1990, pp. 95-130. (80) Su una tale second semiotics riflessiva, e in questo senso critica, vedi Dean MacCanell/Juliet F. MacCannell, The Time of The Sign: A Semiotic Interpretation of Modern Culture, Bloomington Ind. 1982. Anche Julia Kristeva si è avvicinata a questa concezione, allorché ha caratterizzato l’uso del segno non attraverso il riferimento, bensì come lavoro, e dunque come produzione. Vedi Semiotik è, Paris 1969. (81) Vedi Ranulph Glanville, Distinguished and Ex act Lies (e “lies” nel doppio s en s o di men zo g n a e s i t uazi o n e, n . d. N. L. ), i n Ro b ert Trap p l (a cura di ), Cy bernetics and Sy stem Research 2, Amsterdam 1984, pp. 655-662, e vale al pena di citare: «When the final distinction is drawn (i.e. the ultimate) there has already been drawn another, in either intension or extension, namely the distinction that the final distinction is NOT the final distinction since it requires in both cases (identical in form) that there is another distinction drawn; i.e., there is a formal identity that adds up to re-entry» (657). Ritorniamo al “re-entry”. Vedi anche Ranulph Glanville/Francisco Varela, “Your Inside is Out and Your Outside is In” (Beatles 1968), in G.E. Lasker (a cura di), Applied Sy stems and Cy bernetics, vol. II, New York 1981, pp. 638-641.
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ultima istanza distinguersi da tutto ciò che non può venire definito dal vuoto, dallo spazio non contrassegnato, dal bianco della carta, dal silenzio, che viene presupposto in ogni percezione di suoni. E ciò vale anche e in particolare allorché un segno deve essere nient’altro che la distinzione tra significante e significato. 4) Nel tentativo di ricostruire matematicamente la connessione tra l’aritmetica e l’algebra di Boole, George Spencer Brown (82) insiste col dire che come garanzia del nesso possa essere usato un unico operatore, il “mark”. Questo definisce una distinzione che da parte sua può essere usata solo come definizione dell’uno e non dell’altro lato. Ma come si perviene allora a quella distinzione, che è la prima e l’ultima di tutte: la distinzione tra distinzione e definizione? Spencer Brown propone per questo la forma del “reentry” della forma nella forma (della distinzione nel distinto). Ma questo re-entry non può esso stesso venire incluso nel calcolo, contrassegnandone sia l’inizio che la fine. Esso genera, se si vuole, in uno spazio immaginario (nell’“unmarked space”) la possibilità di escludere da sé forme, asimmetrie, ripetizioni infinite e re-entries (83). 5) La forma del re-entry, con tutta la sua enigmaticità, può servire a chiarire ulteriormente i problemi aperti della teoria dei sistemi operativi chiusi e dell’uso autoreferenziale dei segni. Se a livello delle operazioni non vi è contatto con l’ambiente e se nessun segno fornisce una referenza alle cose, allora proprio questa situazione può essere internamente simulata tramite un re-entry cioè attraverso la distinzione di autorerefenza ed eteroreferenza. Il sistema riproduce la differenza tra sistema e ambiente all’interno di sé e la usa come premessa delle proprie operazioni. E il segno riproduce in sé la cosa, che esso può solo definire, come distinzione tra signifiant e signifié. Un mezzo di fortuna, sembrerebbe. Ma forse, se pensiamo così, non ci confonde un pregiudizio della tradizione europea? 6) La stessa struttura la troviamo inoltre anche nel soggetto trascendentale, nell’interpretazione della fenomenologia trascendentale di Husserl. L’unità del soggetto è la differenza tra l’uso operativamente identico di noesis e noema, e l’autoreferenza ed eteroreferenza, cioè il re-entry del mondo nel soggetto sotto forma di una (82) George Spencer Brown, Laws of Form, ristampa New York 1979. (83) Cfr. Louis Kauffman, Self-reference and Recursiv e Forms, in «Journal
Social and Biological Structures», 10 (1987), pp. 53-72.
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distinzione che si pone a disposizione dell’operazione solo da una parte, solo “nel” soggetto. Insieme a molti altri, Merleau-Ponty ha tentato di trovare una soluzione facendo ricorso al corpo del soggetto (84). Ma ciò si limita a riproporre il problema su un altro piano, e questo lo si vede interrogando non la mistificazione corporea dei filosofi, bensì i neurofisiologi (85). 7) Anche Jacques Derrida aveva preso spunto da questa enigmaticità della referenza soggettiva. Leggendo Husserl e Heidegger aveva notato che il segno nella sua caratteristica di forma (sia ousìa, o eídos, o morphé) presupponeva la presenza di ciò che veniva così portato alla luce (86). Ma questa unità di forma e di struttura che si manifesta, non cela innanzitutto un’operazione di separazione, che determina la differenza che poi viene presentata come unità? E la différence non è innanzitutto différance (87), cioè operazione nel tempo? Dunque un’operazione del trasporto della differenza senza inizio né fine, che non tollera presenze, né ne ha bisogno, bensì si iscrive in qualcosa di indefinibile? 8) Tutto questo può condurre al quesito: chi è colui che dice tutto questo? Chi è l’osservatore? Questo interrogativo contiene una tendenza alla responsabilità di sé, alla collocazione del fondamento nell’autoreferenza, alla conclusione “autologica”. Osservatore è colui che come osservatore viene osservato. Questo è ciò di cui ci informa la “second order cybernetics” (88). Osservare è possibile solo in un reticolo recursivo dell’osservazione di osservazioni, dunque non sotto forma di atto singolare, spontaneo, “soggettivo”. L’osservazione ha il suo fondamento non in competenze particolari secondo il modello di ragione, intelletto, sentimento, capacità di immaginazione, volontà. (Poiché l’osservatore chiede
(84) Si veda soprattutto la pubblicazione postuma di Maurice Merleau-Ponty, Le Visible et l’Inv isible, Paris 1964. (85) O gli immunologi. Vedi in merito N.M. Vaz/F.J. Varela, Self and NonS en s e: A n Org an i s m -Cen t ered A p p ro ach t o Im m un o l o g y , i n « Medi cal Hypotheses», 4 (1978), pp. 231-267; Francisco J. Varela, Der Körper denk t: Das Im m un s y s t em un d der Pro z eß der Kö rp er-In di v i dui erun g , i n Han s Ul ri ch Gumb rech t / K. Ludwi g Pfei ffer (a cura di ), Parado x i en , Di s s o n an z en , Zusammenbrüche: Situationen offener Epistemologie, Frankfurt 1991, pp. 727743; tr. it. Il v isibile e l’inv isibile, Milano, 1968. (86) Vedi ad esempio Marges de la philosophie, Paris 1972, in particolare p. 31 e segg., 185 e segg.. (87) Ibidem, pp. 1 e segg.. (88) Vedi ad esempio Heinz von Foerster, Observ ing Sy stems, Seaside Cal. 1981.
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naturalmente subito: chi è l’osservatore che distingue in questo modo, e perché così e non in altro modo?). Osservare è distinguere definendo, e per l’autogiustificazione si può considerare solo l’autoosservazione, dunque il “re-entry” della distinzione nel distinto. E così constata anche Spencer Brown al termine delle sue ricerche, ove egli, commentando l’inizio, dice: “An observer, since he distinguishes the space he occupies, is also a mark....We see now that the first distinction, the mark, and the observer are not only interchangeable, but, in the form, identical.” (89) 9) Una cosa invero deve evitare l’osservatore: di voler vedere se stesso e il mondo. Egli deve poter rispettare la non-trasparenza. Michel Serres lo ha descritto come un parassita (90). Di cosa è il parassita, accanto a che cosa giace? La figura di colui che giace accanto sostituisce la figura di colui che giace sotto. Il parassita rimpiazza il soggetto. Ma l’uso di questa metafora in definitiva non aiuta molto, nemmeno come riferimento ad un problema. L’osservatore deve applicare una distinzione come distinzione, per descrivere quindi un lato e non l’altro. C iò esclude l’osservazione dell’unità della distinzione stessa anche se si volesse ricorrere all’ausilio di un’altra distinzione. Ogni strategia che si allontani da questa viene punita dal fatto che si può poi solo osservare l’unità del distinto e la non-distinzione del distinto. Ciò viola un privilegio di Dio, se si vuole accogliere ciò che dice Nicolò Cusano. Per ciascun osservatore diverso, una tale intenzione produce una paradossia. Nella tradizione ciò era stato trattato come segnale di errore e in particolare anche e proprio nella sua dottrina delle idee (91) e naturalmente nella sua logica. Si consentiva solo il rendere paradossale la retorica, la quale non mirava alla verità, bensì all’effetto. E quindi forse alla produttività?
Come sempre, il paradosso è stato riscoperto tramite Nietzsche e Heidegger e anche tramite il fallimento delle ricette logiche per evitare il paradosso (92). Proprio perché il paradosso paralizza l’osservazione, può essere inteso come spunto, anzi spinta coercitiva allo sviluppo. Ciò significa: come incitamento alla ricostruzione con l’ausilio delle distinzioni, che rendono possibili identificazioni stabili. A posteriori ci si (89) Ibidem, p. 76. (90) Le Parasite, Paris 1980. (91) Cfr. Platone, Sofista 253
D.
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chiede allora: la filosofia non aveva sempre cercato concetti, o quantomeno metafore, che consentissero questo? (93) E mentre i logici e i linguisti sperano ancora nello sviluppo tramite “differenziazione dei livelli”, è finalmente divenuto chiaro che distinzioni molto diverse possono svolgere questa funzione, a patto che le si usino in maniera plausibile e produttiva e che si possa evitare l’interrogativo circa la loro unità. Noi qui non dobbiamo verificare la correttezza di tutte queste riflessioni, e tanto meno provarle. S ociologicamente significa che nell’osservazione dell’osservazione della società ciò che interessa è che esse vengano formulate. E si potrebbe, reinserendosi nel ductus consueto delle spiegazioni scientifiche, dedurre da ciò che la società sviluppa figure di pensiero, con le quali essa possa tollerare l’inosservabilità del mondo e far diventare produttiva la non-trasparenza.
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