Nemici dell'America, nemici dell'umanità. Il nemico nel cinema fantascientifico americano 8866522031, 9788866522034

Partendo dalla Seconda Guerra Mondiale, passando per la Guerra Fredda fino a giungere ai recenti conflitti in Medio Orie

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Italian Pages 187/192 [192] Year 2014

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Nemici dell'America, nemici dell'umanità. Il nemico nel cinema fantascientifico americano
 8866522031, 9788866522034

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CIAK SI SCRIVE / I PROTAGONISTI a cura di Giovanni Ciofalo e Silvia Leonzi

Roberto Giacomelli

NEMICI DELL’AMERICA NEMICI DELL’UMANITÀ Il nemico nel cinema fantascientifico americano

Realizzazione grafica Billy Corgan

© 2014 SOVERA MULTIMEDIA s.r.l. Via Leon Pancaldo 26 – 00147 Roma Tel. (06) 5585265 – 5562429 www.soveraedizioni.it e-mail: [email protected]

I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.

Indice

Introduzione

Capitolo primo: Stati Fanta Uniti

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America e Fantascienza, due storie recenti Fanta-Cinema: una dimensione più vicina al pubblico Quale nemico? Il paradosso Wells/Welles

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Capitolo terzo: L’Umano

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Capitolo secondo: Nemici pubblici e conflitti internazionali La malvagità al potere. Mad Doctors e Nazismo Allarme rosso! Il nemico durante la Guerra Fredda Imperi che crollano. La minaccia dal Medio Oriente Atomica! Quando i giganti invadevano la Terra Natura contro: dinosauri, virus e… zombie! Le macchine ribelli: più umane degli umani Capitolo quarto: L’Alieno

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Obiettivo: Conquista. Da L’invasione degli ultracorpi a The Host Obiettivo: Distruzione. Da La guerra dei mondi a Pacific Rim Veniamo in pace

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Filmografia Bibliografia

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L’onnipotente creò la scimmia a sua immagine e somiglianza

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Introduzione

«Abbiamo deciso di metterci in corsa per la conquista di questo nuovo mare, lo spazio, perché esso dischiude nuovi tesori di scienza e di sapere che, una volta raggiunti, potranno venire usati per il progresso di tutte le genti. Ma la scienza dello spazio, come quella nucleare e tutta le tecnologia in generale, non ha coscienza di per sé. Perciò, se queste nuove conquiste diventeranno una forza di progresso o foriere solo di guerra e di male, dipenderà dall’uomo e soltanto se gli Stati Uniti riusciranno a godere di un ruolo di preminenza in questa corsa allo spazio noi potremo fornire il nostro contributo affinché la scelta tra il bene e il male avvenga nel modo giusto e lo spazio diventi un oceano di pace e non un ennesimo, terrificante campo di battaglia».

Con queste parole pronunciate il 12 settembre 1962 alla Rice University di Houston, in Texas, il Presidente John F. Kennedy esponeva l’intenzione del governo americano di impegnarsi nell’esplorazione spaziale, cominciando dalla Luna. Sette anni dopo, l’obiettivo americano andava a segno e anche se Kennedy non è vissuto abbastanza per poter vedere realizzato il sogno americano di quel decennio, gli Stati Uniti sono entrati negli annali della storia dell’umanità e hanno conosciuto uno dei periodi più importanti della loro scalata al potere. Non solo la Terra riconosceva nell’America la nazione leader, ma ora anche nello spazio si ergeva una bandiera a stelle e strisce. E la frase che è rimasta l’emblema di quello storico discorso di Kennedy nell’università del Texas testimonia la fermezza delle sue intenzioni:

«Nessuna nazione che aspiri ad essere leader di altre nazioni può rimanere indietro nella corsa allo spazio. […] Noi scegliamo di andare sulla Luna in questo decennio e di fare altre cose non perché siano facili, ma perché sono difficili».

La determinazione di una nazione nell’ottenere quello che vuole trova qui la sua esplicita affermazione e segna il momento di massima competitività con le altre potenze mondiali. L’America, infatti, non era l’unica nazione ab7

bastanza ricca, potente e tecnologicamente avanzata da poter intraprendere una missione di tale importanza, c’era anche l’Unione Sovietica, con la quale gli USA intraprendono una vera e propria sfida sul campo tecnologico e politico all’interno di quella che verrà denominata Guerra Fredda. Ma si tratta solo di una delle tante oscillazioni del pendolo che hanno gravato e gravano sul corpo dell’umanità. Ogni qualvolta si verifica una crisi che coinvolge gli Stati Uniti, di riflesso è l’intero pianeta a risentirne. Un’attenta ricognizione dell’immaginario culturale mondiale rivela come nei periodi di crisi, ristretti però al ventesimo secolo, c’è un elemento costante che fa la sua comparsa, il cinema fantastico. L’espressionismo tedesco, così colmo di incubi e suggestioni horror, ha origine durante la Repubblica di Weimar, la grande stagione dell’horror classico americano nasce durante la Grande Depressione, il cinema fantascientifico è figlio della bomba atomica, dell’America maccartista e paranoica della Guerra Fredda. E l’elenco può continuare facilmente fino al post 11 settembre, tra terrorismo internazionale e crisi finanziaria. Se dunque il cinema fantastico è favorito dai periodi di crisi, anche l’immaginario di una nazione è influenzato e a sua volta influenza la produzione cinematografica. Un aspetto particolarmente interessante da analizzare, a tal proposito, è la figura del “nemico” come emerge dal cinema di fantascienza statunitense. Un nemico in senso politico e ideologico, ma anche legato più generalmente al sentimento di antagonismo che contrappone un essere vivente a un altro. Gli Stati Uniti durante il Novecento si sono contraddistinti come nazione leader in campo tecnologico, politico e sociale e di conseguenza hanno primeggiato anche nella produzione cinematografica, in modo particolare fantascientifica, genere sempre poco praticato altrove. Dunque l’immaginario legato a questo genere è sempre stato influenzato in un modo o nell’altro dalla cultura statunitense. Così il nemico dell’America nel cinema di fantascienza coincide per forza di cose con il nemico dell’intera umanità. Le ragioni dell’importanza del genere fantascientifico come strumento di analisi dell’animo umano risiede, con ogni probabilità, nella forza dell’ignoto. Howard Philip Lovecraft, celebre scrittore di narrativa fantastica, diceva che «la più antica e potente emozione umana è la paura e la paura più antica e potente è la paura dell’ignoto». La fantascienza cerca proprio di esplorare l’ignoto, quelle zone d’ombra che sono fuori e dentro di noi. Giocando sulla componente paranoica comune a tutti gli uomini, crea mondi e dà vita a im8

magini che l’uomo normalmente non potrebbe veder realizzati. Allo stesso tempo la fantascienza è credibile come pochi altri prodotti della fantasia, una credibilità che scaturisce dalla scientificità della materia, da quell’alone di realismo scientifico che ricopre argomenti fantastici. Si tratta esplicitamente di finzione ma tutto potrebbe anche essere vero perché si basa su presupposti scientifici, quindi plausibili. Le storie fantascientifiche sono verosimili ed è per questo che ben si prestano a una ricostruzione attendibilmente inquietante delle situazioni di crisi internazionali. I nemici nel cinema di fantascienza sono principalmente alieni, extraterrestri con obiettivi di distruzione e conquista. Gli alieni sono gli stranieri, coloro che differiscono da noi non solo per l’aspetto ma anche per la cultura e l’ideologia. Gli alieni sono dunque facilmente sovrapponibili a coloro che non necessariamente provengono da un altro pianeta, ma potrebbero arrivare anche dalla stessa Terra, anche se da una nazione differente. Il parallelismo tra il nemico extraterrestre e il nemico terrestre ma di un’altra fazione politica è facilmente tracciabile, ma la fantascienza non presenta solamente extraterrestri come minaccia per l’umanità. Ci sono anche macchine che si ribellano all’uomo, virus letali ed esperimenti genetici che sfuggono al controllo del proprio creatore, esperimenti bellici che generano mostri mutanti o risvegliano le creature preistoriche. Una grande varietà di minacce che sembrano avere sempre e solo una matrice umana. La missione Apollo 11 portò l’uomo sulla Luna il 21 luglio 1969, l’uomo americano che era riuscito nell’impresa prefissata da Kennedy. Oltre alla bandiera americana venne lasciata sulla superficie lunare una placca, la testimonianza di un traguardo raggiunto oltre che un messaggio per qualunque non umano avrà la possibilità di incontrala sul suo cammino. La placca contiene i disegni di due emisferi terrestri, le firme degli astronauti, del presidente Nixon e un’iscrizione: «Qui uomini dal pianeta Terra fecero il primo passo sulla Luna. Luglio, 1969 d.C. Siamo venuti in pace per tutta l’umanità».

Tutto il resto è fantascienza.

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Capitolo primo

Stati Fanta Uniti

Nel 1926, quando esordì Amazing Stories, la prima rivista ufficialmente dedicata alla cultura fantascientifica, che viene fatta coincidere proprio con la nascita dell’odierna concezione del genere, il direttore Hugo Gernsback chiariva le sue intenzioni editoriali annunciando di voler pubblicare «quel tipo di storie scritte da Jules Verne, H. G. Wells e E. A. Poe; affascinanti romanzi scientifici in cui si mescolino fatti scientifici e visioni profetiche». Così affermando, riconosceva i natali di tale particolare genere agli autori del romanzo scientifico, che mescolando scienza, fantastico e avventura hanno fatto sì che la fantascienza assumesse consapevolezza di genere e crescesse fino a diventare il genere adulto che oggi conosciamo. Jules Verne, Herbert George Wells, Olaf Stapledon, John Wyndham, Arthur C. Clarke, James G. Ballard. Importanti e fondamentali autori di letteratura fantascientifica dalle origini europee che potrebbero indurre a collocare geograficamente i natali della fantascienza nel vecchio continente. Non è del tutto errato, ma in parte può essere fuorviante se si considera nel suo complesso, come genere completo e ramificato all’interno di più sistemi mediali. La fantascienza letteraria, quando si chiamava ancora Romanzo scientifico, apparteneva soprattutto ad autori francesi e britannici, a quei Verne e Wells che infusero la scintilla vitale al genere. Malgrado autori fondamentali e innovativi come Isaac Asimov, Ray Bradbury, Philip K. Dick e Richard Matheson, gli Stati Uniti sono comunque arrivati a far parte del “gioco” in una seconda fase, ma la loro partecipazione è stata importantissima, anzi vitale per la stessa costruzione del genere e soprattutto per la sua promozione ad uno stadio superiore: non più semplice narrativa per ragazzi, ma genere maturo e consapevole veicolo di significati sociali. 11

Lo stesso termine Science Fiction nasce proprio negli Stati Uniti quando fu usato per donare una nuova personalità al genere contraddistinguendolo dal termine europeo di Romanzo scientifico. Nasce esattamente il 5 aprile 1926 il primo periodico americano dedicato al genere, Amazing Stories, diretto da Hugo Gernsback, una piccola bibbia della fantascienza su carta, poi emulata undici anni dopo (1937) da Astounding Science Stories, il cui autore è il noto scrittore John Wood Campbell Jr., che inaugurerà la vera e propria golden age della fantascienza. Ed è ancora un americano a donare fortuna economica al genere, Robert Anson Heinlein, che negli anni ’40 sarà il primo autore di fantascienza a pubblicare storie su periodici a larga diffusione e non solo nelle riviste specializzate. Heinlein è stato anche il primo, a partire dagli anni ’60, a far rientrare romanzi fantascientifici nelle classifiche dei best seller, al pari di autori che si occupavano di generi, per così dire, più nobili. Un discorso analogo può essere fatto entrando nello specifico del campo della fantascienza cinematografica. Creata a partire dai più celebri lavori del pioniere del cinema Georges Méliès e ufficializzato come genere di rilievo metaforico politico-sociale con il tedesco Metropolis (id., 1927) di Fritz Lang e il britannico La vita futura – Nel duemila guerra o pace? (Things to Come, 1936) di William Cameron Menzies, anche la fantascienza cinematografica trova uno sviluppo, un’affermazione e una consolidazione con opere statunitensi. Che si parli di cortometraggi blockbuster dell’epoca del muto come The Comet (1910) o di grandi successi come Frankenstein (id., James Whale, 1931) e L’uomo invisibile (The Invisible Man, James Whale, 1933) di James Whale, fino alle consacrazioni lucasiane di Guerre stellari (Star Wars, George Lucas, 1977) e scottiane di Blade Runner (id., Ridley Scott, 1982), la cine-fantascienza americana ha posto solide basi e sviluppato delle forti strutture in grado di raccontare storie di metaforica attualità e di far sognare generazioni di spettatori. Proprio negli Stati Uniti si è venuta così a sviluppare la più ricca e numericamente rilevante produzione di science fiction, sia essa 12

letteraria o cinematografica. Litri di inchiostro e chilometri di pellicola colmi di alieni, viaggi spaziali, invenzioni avveniristiche e guerre futuristiche, storie che prendono spunto dalla realtà, dai problemi, dai sogni e dalle paure della quotidianità. Uno dei generi che è riuscito a cogliere i pensieri più arditi e inquietanti degli esseri umani per poi restituirglieli sotto forma di pura fiction, una finzione tanto lontana dalla realtà quanto ancorata ad essa.

America e Fantascienza, due storie recenti

Gli Stati Uniti d’America nascono ufficialmente il 4 luglio 1776, quando i rappresentanti delle tredici colonie britanniche approvano la Dichiarazione d’Indipendenza presentata dal futuro Presidente Thomas Jefferson. Era un gesto di estrema emancipazione che donava libertà a chi era nato e vissuto alla mercé di uno Stato padrone, paragonabile a un figlio appena maggiorenne che decide di allontanarsi dal controllo di un padre putativo. La Repubblica Federale che di lì a poco si dota di una Costituzione (1788) e di un Presidente (George Washington, 1789) è dunque storia recente se paragonata al Vecchio Mondo da cui il nuovo ha avuto origine. Allo stesso tempo anche il genere fantascientifico ha un passato relativamente vicino, come del resto molti altri generi paraletterari. Forse più dell’horror, del poliziesco-investigativo e del mélo, le origini, o meglio la vera consapevolezza di genere della fantascienza letteraria possono essere collocate in tempi recenti. Così come gli altri generi, anche la fantascienza si rifà alla tradizione della narrazione orale, affidando la costruzione narrativa e le tematiche ricorrenti a sequenze formulari fisse e a figure di carattere archetipico. Così non ci stupisce se un genere giovane e moderno spesso e volentieri riconduce il fulcro della narrazione al fondamentale dissidio tra Bene e Male, così come non appare fuori luogo che cinema e letteratura fantascientifica (ab)usino di citazioni e rimandi ai classici della letteratura greca, come ad esempio accadeva con il Frankenstein di Mary Shelley che inizialmente portava il titolo The Modern Prometheus. E infatti, scavando nella storia e individuando le origini più remote della fantascienza, se ne può ricavare una protoforma già nell’opera La storia vera di Luciano di Samosata. Nel II secolo A.C. l’autore greco dà vita a un romanzo fantasy con concessioni fantascientifiche avendo 13

come scopo primario quello di parodiare il genere fanta-avventuroso omerico. Tra le avventure di cui lo stesso scrittore si pone protagonista, c’è anche un fantomatico viaggio sulla Luna e una guerra tra gli abitanti del satellite terrestre e il Sole, fornendo così, inconsapevolmente, anche un primissimo esempio di Space Opera. La storia vera, oltre ad avere un’importanza fondativa per lo stesso genere fantascientifico, fornisce anche una testimonianza della neonata consapevolezza umana della geografia astronomica che identifica la Luna e il Sole non come divinità ma come corpi celesti. Luciano di Samosata è comunque un’eccezione, un esempio di interferenza con la tradizione, un caso isolato che non si ripeterà per moltissimo tempo e che risulta quasi intruso nella tracciatura di una filologia fantascientifica. I manuali di storia della fantascienza spesso inseriscono tra i primi esempi di genere che utilizza elementi tipici fantascientifici in modo consapevole Frankenstein di Mary Shelley, scritto nel 1816 e pubblicato per la prima volta nel 1818. Le date ci suggeriscono che si tratti di storia moderna, quindi, un genere risalente ad appena due secoli fa. Cercando di annettere la Shelley al pantheon degli autori di fantascienza, si potrebbe però finire in un cortocircuito di generi che esulerebbe dai tratti caratteristici del romanzo in questione. Il suo romanzo, infatti, malgrado contenga riferimenti a procedimenti (fanta)scientifici di rianimazione di cadaveri, è decisamente lontano dalla fantascienza se valutato con un’ottica di consapevolezza di genere che è propria al fruitore odierno. È il romanzo scientifico ottocentesco – come anticipato – a fornire il primo vero input alla fantascienza moderna. Verne, Flammarion e, specialmente, Wells creano mondi e modificano quelli esistenti, giocano con la scienza e ipotizzano applicazioni fantastiche della stessa. Spesso si tratta di romanzi di carattere avventuroso che hanno fatto sognare generazioni di ragazzi, come nel caso delle opere di Jules Verne, viaggi avventurosi attraverso l’impossibile che portavano esploratori e scienziati sulla Luna (Dalla Terra alla Luna, 1865), al centro della Terra (Viaggio al centro della Terra, 1864) e negli abissi marini (20.000 leghe sotto i mari, 1870). Il tono di Verne era votato soprattutto al positivismo dilagante in quell’epoca, quando il progresso scientifico era visto come mezzo per raggiungere qualsiasi scopo che l’uomo potesse prefiggersi: l’essere umano dominava sulla natura. Fantascienza solare votata soprattutto a suscitare stupore e meraviglia, non a caso, infatti, fu proprio l’opera di Verne a ispirare i primi esempi di fantascienza cinematografica di Méliès, incentrati soprattutto sull’effetto speciale. Il tono cambia se ci si sposta verso un tipo di scientific romance dal carattere più 14

adulto e più vicino alla fantascienza contemporanea, come quello appartenente a Wells. Nell’operato dell’autore inglese si può riscontrare una visione più pessimistica della società e della scienza, capace di grandi progressi che spesso portano alla distruzione dell’Io (L’uomo invisibile, 1897) e della morale umana (L’isola del Dottor Moreau, 1896), oppure che fungono da deus ex machina per riflettere sulla corruzione della società con tono triste e nostalgico (La macchina del tempo, 1895) oppure sull’onda di distruzione che può generare la superiorità tecnologica (La guerra dei mondi, 1897), solo per citare le opere più celebri. Il fulcro della nascente fantascienza era, dunque, sottolineare l’impatto della scienza e della tecnologia sulla società. Si passa da una visione più positiva, come nel caso di Verne, a una più critica, come in Wells; ma è soprattutto questa seconda visione che avrà il sopravvento su buona parte della fantascienza e che decreterà il successo del genere negli anni a venire. Sarà infatti la metafora sociale e politica, l’utilizzo di mezzi intellettuali propri alla sociologia e alla filosofia che renderanno celebri autori che, tra gli anni ’50 e ’60 del ’900, hanno utilizzato questo linguaggio di genere per esprimere le proprie perplessità nei confronti di una società alla deriva, schiava dei propri eccessi, assuefatta dalla TV, propensa alla xenofobia e al mai tramontato conservatorismo.

Fanta-Cinema: una dimensione più vicina al pubblico

Procedendo in una direzione filologica, si sono poste le fondamenta della fantascienza nella letteratura del Diciassettesimo secolo, un periodo in cui la fruizione dei testi scritti era comunque prerogativa di coloro che avevano accesso alla cultura e all’istruzione. Quindi, seppur letteratura popolare, era pur sempre trasmessa attraverso un mezzo distante dal popolo. Le cose migliorano, anche se sostanzialmente non cambiano troppo, con l’entrata in scena del cinema. La nuova forma di intrattenimento popolare richiedeva un’alfabetizzazione da parte dello spettatore, onde evitare fenomeni di isteria collettiva come ciò che la leggenda vuole sia accaduto durante la prima di L’Arrivée d’un train en gare de La Ciotat (1895) dei fratelli Lumière, durante la quale gli spettatori fuggirono impauriti dalla sala pensando di venire travolti dal treno mostrato nel filmato. Inoltre, le prime proiezioni del cinematografo avvenivano in lussuosi Café o in teatri dietro il pagamento di un 15

biglietto, escludendo così, ancora una volta, i gradini più bassi della scala sociale. Al di là della reale accessibilità alla fruizione di opere cinematografiche da parte di ogni possibile spettatore, il nuovo medium viene subito conquistato dalla fantascienza, tanto che il passaggio dal cinematografo al cinema, ovvero dal mostrare semplici immagini in movimento al raccontare storie articolate, avviene proprio in nome del fantastico e della fantascienza. Grazie all’illusionista francese George Méliès, ufficialmente riconosciuto come padre del fantastico cinematografico e dell’effetto speciale, il cinema racconta storie ambientate sulla Luna tra seleniti e navicelle spaziali a forma di proiettile. Si tratta di Voyage dans la Lune (1902), il cortometraggio che Méliès aveva ottenuto sviscerando proprio le opere di Jules Verne e H. G. Wells, ovvero rispettivamente Dalla Terra alla Luna e I primi uomini sulla Luna, e che rappresenta, ancora oggi, uno dei simboli più familiari, allo stesso tempo, del cinema e del genere fantascientifico. Due anni dopo Voyage dans la Lune, Méliès torna sui suoi passi e realizza Voyage à travers l’impossible (1904), un film che presenta la medesima struttura narrativa dell’opera precedente e, pur essendo originale, richiama anch’essa le tematiche care a Verne; soprattutto incarna lo spirito positivista proprio della seconda metà dell’Ottocento, quando il progresso scientifico veniva visto come strada fondamentale al raggiungimento di tutte le mete che la società potesse desiderare. Il cinema si radica nella meraviglia e nell’esaltazione del fantastico, una forma d’intrattenimento che gioca con lo spettatore con l’intenzione di sorprenderlo e fargli vivere esperienze lontane dalla quotidianità, pur parlando un linguaggio che, nella maggior parte dei casi, riflette chiaramente l’ambiente sociale dell’epoca in cui è stato prodotto. Un percorso non dissimile dalla fantascienza, che giustifica, quindi, come i due abbiano seguito una strada simile per far breccia nel cuore del pubblico. Ancor prima di addentrarsi nella grande epoca della fantascienza cinematografica, che a partire dagli anni ’50 interessa anche i giorni nostri, soprattutto grazie alle produzioni statunitensi, il cinema di fantascienza ha saputo ben distinguere due anime del genere: una più impegnata, autoriale e intenzionalmente pregna di significati socio-politici; un’altra più dichiaratamente d’intrattenimento, spesso nata come trasposizione di successi letterari. Il cinema cominciava ormai a diventare sempre più vicino alla dimensione del pubblico di massa e le sale – appositamente costruite per ospitare proiezioni cinematografiche – si riempivano di spettatori di ogni età ed estrazione so16

ciale. Da una parte abbiamo un cinema più cerebrale, retroattivamente bollato come impegnato e lontano dai ritmi narrativi serrati che, soprattutto negli ultimi decenni, hanno accompagnato gran parte della produzione appartenente al genere fantascientifico. Quella cerchia di produzioni caratteristiche soprattutto della tradizione europea con Metropolis (Fritz Lang, 1927), La vita futura – Nel Duemila guerra o pace? (William C. Menzies, 1936), o il sovietico Aelita (id., Yakov Protazanov, 1924), e, in parte, 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968). Dall’altra abbiamo invece un cinema fatto di effetti speciali e storie colme di significati ma all’apparenza più votate all’intrattenimento, come gli americani Frankenstein (James Whale, 1931), La moglie di Frankenstein (Bride of Frankenstein, James Whale, 1935), L’uomo invisibile (James Whale, 1933), King Kong (id., Merian C. Cooper & Ernest B. Schoedsack, 1933) e una parte della fantascienza che da Star Wars (George Lucas, 1977) in poi ha caratterizzato la produzione statunitense. Una differenziazione sicuramente semplicistica ma efficace per esplicare la doppia anima che pian piano lo stesso genere fantascientifico ha esternato. Senza dubbio, con il passare degli anni e l’affinarsi delle tecniche cinematografiche e narrative, le due anime si sono strette sempre più in un compromesso indelebile riuscendo a catturare pubblici sempre più ampi e trasformandosi in blockbuster dalla sicura presa. I già citati 2001: Odissea nello spazio e Star Wars, apparentemente lontanissimi tra loro, sono forse gli esempi più chiari di questa tendenza ad unire questa doppia anima. Film complessi, strutturalmente molto articolati, capaci di creare veri e propri fenomeni di culto, tecnologicamente avanzati e innovatori, eppure distanti per linguaggio e potenziale pubblico. Si tratta di due opere dalla larga portata immaginifica e pronte a suscitare meraviglia, capaci di riunire le due anime per raggruppare idealmente il pubblico del cinema di fantascienza nel suo complesso. Un genere capace di attirare le grandi masse, dunque, ma anche – o probabilmente soprattutto – adatto a veicolare messaggi di una certa caratura so17

ciale. Si può notare, ad esempio, che proprio all’interno del genere fantascientifico è possibile leggere chiaramente un sottotesto socio-politico che esplica il sentire comune di una data società, il malessere di un’epoca, a volte lo anticipa o, semplicemente, racconta la paura causata dal rompersi della consuetudine e della pace. In poche parole l’avanzata di un nemico, reale o eventuale.

Quale nemico? Il paradosso Wells/Welles

Andrè Bazin racconta nel suo studio monografico su Orson Welles e intitolato proprio con il nome del regista di Quarto potere, che quando il 7 dicembre 1941 la base navale di Pearl Harbor fu attaccata dall’aviazione giapponese, molti americani, sentendo la notizia dell’accaduto alla radio, esitarono a credervi, pensando che si stesse ripetendo la formula messa in atto tre anni prima da Orson Welles nel suo programma Mercury Theatre On the Air. Ovvero il noto episodio legato alla puntata del 30 ottobre del 1938, quando fu trasmesso sotto forma di radiogiornale l’adattamento del romanzo La guerra dei mondi. In alcune zone del New Jersey, in cui era ambientata l’invasione aliena, si verificarono veri e propri fenomeni di isteria di massa negli ascoltatori che credevano di trovarsi davvero nel bel mezzo di un’invasione aliena. La paura del nemico, infatti, fu tale da segnare indelebilmente l’ascoltatore radiofonico di quel periodo, innescando in esso quell’effetto “Al lupo! Al lupo!” di esopiana memoria che lo rese diffidente da esperienze che potevano apparire analoghe. L’importanza e la maestria di Welles fu soprattutto nel cogliere – forse inconsapevolmente – le angosce di un’America sull’orlo di un conflitto mondiale e trasformare l’innocuo adattamento radiofonico di La guerra dei mondi di H. G. Wells in un’esperienza molto realistica che usava il linguaggio del radiogiornale per descrivere un’invasione marziana nel New Jersey. La scelta si rivelò particolarmente azzeccata e, malgrado fosse specificato ad inizio programma che si trattava di un radiodramma, i termini scientifici a volte utilizzati, l’intervento di persone ritenute autorevoli, l’indicazione di luoghi reali e ben conosciuti al pubblico e il linguaggio del radiogiornale trasmesso a intervalli, trasformò una puntata della trasmissione settimanale della CBS in un caso di influenza mediale ancora oggi studiato e citato. Per rendere 18

l’idea di quanto potesse essere efficacemente realistico quel programma, basta citare l’inizio della trasmissione:

«Signore e signori, vogliate scusarci per l’interruzione del nostro programma di musica da ballo, ma ci è appena pervenuto uno speciale bollettino della Intercontinental Radio News. Alle 7:40, ora centrale, il professor Farrell dell’Osservatorio di Mount Jennings, Chicago, Illinois, ha rilevato diverse esplosioni di gas incandescente che si sono succedute ad intervalli regolari sul pianeta Marte. Le indagini spettroscopiche hanno stabilito che il gas in questione è idrogeno e si sta muovendo verso la Terra ad enorme velocità. Dall’Osservatorio di Princeton il professor Pierson ha confermato le osservazioni di Farrell e ha descritto il fenomeno come qualcosa di simile a fiammate azzurre sparate da un cannone. Torniamo ora alla musica di Ramon Raquello che suona per voi nella Meridian Room, dell’Hotel Park Plaza di New York […] L’insolita natura di questi fenomeni ci ha indotti a richiedere il parere di un noto astronomo, il professor Pierson, dal quale ci attendiamo delle delucidazioni. Fra qualche minuto saremo collegati con l’Osservatorio Astronomico di Princeton, New Jersey. In attesa dell’intervista, riprendiamo la musica di Ramon Raquello e la sua orchestra».

È il contesto, la situazione vissuta da una data società in uno specifico momento a garantire efficacia al racconto fantascientifico. Si può narrare così di invasioni aliene, scienziati folli che si sostituiscono alla divinità, macchine che si ribellano al proprio creatore e catastrofi causate dall’agire umano, eventi improbabili (o impossibili) che possono assumere un connotato di attualità, se non addirittura profetico, e descrivere l’avversario reale o ideale di un popolo. Vedere i marziani narrati da Wells, prima, e da Welles, dopo, come un sentore pessimistico dell’avanzata giapponese (e dei suoi alleati) in atto è cosa assai possibile. L’uomo occidentale colto di sorpresa e sterminato dalle forze aliene fuoriuscite dal gigantesco cilindro metallico caduto dal cielo crea un’inquietante assonanza con il disastro nella baia di Pearl Harbor, quando, senza alcun preavviso, un tremendo bombardamento aereo-navale costò la vita a quasi 2500 persone. Il nemico può nascondersi ovunque, provenire dalle insospettabili fila amiche e sfoderare, dunque, un aspetto del tutto umano, simile al nostro, quindi di cultura e credo non sospetti; oppure venire dall’altrove, da un altro mondo, pianeta e quindi nazione, un alieno che si impara a conoscere e temere per alcune caratteristiche intrinseche nella sua natura. 19

Il nemico, umano o alieno che sia, è spesso stato una prerogativa del genere fantascientifico. Si racconta e si è raccontato di extraterrestri che mettono a ferro e fuoco l’umanità per assoggettarla al loro volere, oppure di esseri umani, a volte con intenti megalomani, che utilizzano la tecnologia per lo stesso motivo o causano principi di apocalisse per un egoistico mondo di benessere. Potrebbe essere timore per l’uso di tecnologie o terrore per nemici reali che la storia ha fornito e continuerà a fornire – giapponesi, tedeschi, russi, mediorientali; la fantascienza assimila, elabora e restituisce sotto forma di (in)credibili racconti in cui l’impossibile parla la stessa lingua del possibile. Gli Stati Uniti, in quanto superpotenza occidentale e crogiuolo di etnie, in primis si fanno portatori di questa visione, nonché fautori di una produzione fantascientifica mediale di ingente mole.

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Capitolo secondo

Nemici pubblici e conflitti internazionali

Il potere logora chi non ce l’ha, è risaputo, e gli Stati Uniti, nel corso dei loro poco più di due secoli di vita, di potere sono riusciti ad accumularne molto, imponendosi come esempio compiuto di superpotenza in diversi ambiti, dall’economia alla tecnologia, fino a fornire un consistente contributo alla produzione dell’immaginario collettivo culturale. Un tale status da protagonista sulla scena mondiale in relazione ai più disparati settori non può fare a meno di addossare sulle spalle degli Stati Uniti anche una nutrita schiera di avversari e, di conseguenza, di nemici. Avversari indignati, intimoriti, invidiosi che hanno tentato di volta in volta di distruggere l’Impero a stelle e strisce con violenza, morte e distruzione, ma allo stesso tempo con un’aperta sfida per la sottrazione del primato di leadership in ambito tecnologico, politico ed economico. Il clou della conflittualità è ravvisabile nel ’900 e il millennio seguente ne ha adottato l’eredità. Se già il primo conflitto mondiale ha visto negli Stati Uniti una delle personalità distintive e fondamentali per le sorti della guerra, soprattutto per il peso del loro appoggio economico ai paesi membri dell’Intesa, è con la Seconda Guerra Mondiale che l’apporto bellico americano comincia ad affiancarsi con tutto il peso della loro dimensione strategica ed economica. Il nemico comincia a farsi più concreto, non solo un avversario europeo che minaccia di tagliare i contatti economici con i paesi del vecchio continente, bensì un orco bifronte che stermina e uccide, capace di genocidio, da una parte, e di attacco allo stesso cuore pulsante della nazione, dall’altra. Il Giappone, fautore di letali attacchi aerei, e la Germania nazista colpevole di ideologie antirazziali che minano l’idea di melting pot culturale nordamericano e la raggiunta integrazione razziale a cui si è giunti con enorme difficoltà. Un coinvolgimento meno fisico interessa una guerra a distanza durata quasi mezzo secolo e che ha visto protagonista, insieme agli Stati Uniti, l’Unione So21

vietica in quella che è stata definita Guerra Fredda. Quarant’anni di tensioni che facevano temere un attacco nucleare simile a quello che aveva già coinvolto la potenza americana e il Giappone durante il precedente conflitto e che invece – e per fortuna – si sono concretizzate in una corsa all’avanzamento in campo tecnologico senza reali danni per le popolazioni coinvolte. Lo spettro del conflitto mortifero si riaffaccia sulla fine del Novecento e si concretizza all’alba del nuovo millennio. Il “nemico” stavolta proviene dal Medio Oriente, teatro di due Guerre del Golfo in seguito alle tensioni che avevano già contrapposto le due forze negli anni precedenti, come nel caso della cosiddetta “crisi degli ostaggi” che coinvolse alcuni americani nell’assedio all’ambasciata statunitense di Teheran, tra il 1979 e 1981. Lo scontro tra due civiltà così dissimili trasforma il nemico in “alieno”, un alos troppo lontano dal modello occidentale di cui gli Stati Uniti sono stati (e sono) vessillo. Parallelamente allo scorrere e all’alterarsi delle figure ostili si sviluppa anche il mercato cinematografico che a poco a poco e poi sempre più prepotentemente è capitanato proprio dagli Stati Uniti. Il cinema in generale e il genere della fantascienza in particolare si ispira alla storia, più precisamente all’attualità di allora che oggi è storia. Trasforma il nemico della realtà nell’antagonista della fiction e quando ciò non è esplicitato dalla contestualizzazione narrativa è comunque ravvisabile a livello metaforico e infratestuale. I soldati combattono i nemici su campi di battaglia, i civili sul telo bianco del cinema. Gli uni affrontano tedeschi, giapponesi, russi e iracheni; gli altri alieni, mostri mutanti e scienziati folli. Le due dimensioni antitetiche del reale e del fantastico trovano in questa occasione un ben visibile punto d’incontro.

La malvagità al potere. Mad Doctors e Nazismo

Il cinema fantascientifico americano degli anni ’40 è un chiaro riflesso del sentire comune dell’epoca, influenzato dal progresso scientifico - soprattutto in campo bellico - prestato a scopi criminosi di singoli uomini, folli megalomani che trovano un punto di congiunzione nella figura dello scienziato pazzo. Il Mad Doctor diventa una costante nel cinema di genere di questo periodo e va a designare un villain comune nella fantascienza cinematografica degli anni caratterizzati dagli eventi della Seconda Guerra Mondiale. 22

Gli Stati Uniti prendono parte al secondo conflitto mondiale nel 1941, ovvero due anni dopo l’inizio della guerra. Il motivo ufficiale dell’intervento statunitense è l’attacco alla base navale di Pearl Harbor, bombardata dall’armata giapponese il 7 dicembre del 1941 senza nessuna dichiarazione di guerra. Il colpo per l’America fu grande, le stime hanno riferito di 2403 morti, di cui 57 erano civili, e 1178 feriti, a cui si aggiunge uno squarcio mortale all’orgoglio americano. I motivi dell’attacco erano dati dalle mire espansionistiche nipponiche, intralciate dalle flotte statunitensi alle Hawaii che ostruivano il controllo sul Pacifico e la loro avanzata verso la Malesia, le Filippine e le Indie Orientali Olandesi. Il piano giapponese, l’Operazione Z, come era noto nelle file militari nipponiche, fu drastico: l’eliminazione materiale di qualunque cosa intralciasse i loro piani; di conseguenza anche gli Stati Uniti si mossero con estrema decisione e già all’indomani dell’attacco, il Congresso dichiarò quasi all’unanimità guerra al Giappone e ai suoi alleati. Un odio viscerale che culminerà con la resa della potenza dell’imperatore Hiro Hito in seguito alle esplosioni atomiche causate dagli americani che rasero al suolo Hiroshima e Nagasaki tra il 6 e il 9 agosto 1945. Quasi un “occhio per occhio, dente per dente” che disegnò uno dei primi veri e temibili nemici degli Stati Uniti, capace di scuotere le masse e influenzare l’opinione pubblica nonché l’immaginario collettivo dell’epoca. La conseguenza dello scontro con il Giappone, però, ha lasciato meno segnali nell’industria culturale di quanti invece ne abbia lasciati la Germania nazista. Gli “sporchi musi gialli”, come venivano definiti i giapponesi con un’espressione razzista che esprimeva tutto il livore degli americani all’indomani di Pearl Harbor, hanno riempito il cinema bellico patriottico, da Obiettivo Burma (Objective, Burma!, Raoul Walsh, 1945) a Pearl Harbor (id., Michael Bay, 2001), mostrando una propensione all’antagonismo decisamente differente da quella che emergeva dai nazisti. Il nemico giapponese era quasi un volto anonimo nella massa, la cattiveria immotivata che colpisce alle spalle senza preavviso e poi scompare, a volte a costo della sua stessa vita come nelle caratteristiche missioni suicide; è il gesto ad essere il vero antagonista più che l’individuo. Una tipologia di nemico decisamente differente in confronto al classico nazista dipinto nella sua fredda spietatezza ma dotato di un volto e di un nome che spesso richiama i gerarchi del Terzo Reich. Il cinema di fantascienza non riesce a trarre del vero materiale utile dai nemici giapponesi, sembra quasi non esserne interessato, concentrandosi più sugli 23

effetti che l’atomica ha prodotto sull’ambiente e sulla fauna piuttosto che su chi lo insedia, come accadrà nel prolifico filone dei monster movie degli anni ’50. Non a caso uno dei film di fantascienza più famosi del periodo proviene proprio dal paese sconfitto, il Giappone, e mostra l’attacco di un gigantesco rettile mutato e incattivito dagli esperimenti nucleari americani nel Pacifico. Il film in questione è Godzilla (Gojira, Ishiro Honda, 1954) e il mostro che gli dà il titolo distrugge Tokyo in un chiaro rimando visivo alla catastrofe che colpì Hiroshima e Nagasaki nel ’45. Godzilla è stato creato dalla tecnologia bellica statunitense, un affronto alla natura che si scatena contro l’Oriente, invaso doppiamente, prima dall’azione mortifera degli USA e in seguito dalla loro mostruosa creazione indiretta. I giapponesi, che uscirono sconfitti dalla guerra, riuscirono con un solo film a catalizzare la loro paura e il loro rancore in un’invenzione cinematografica chiaramente antiamericana che da sola sintetizza il clima di paura dell’epoca. Paradossalmente la stessa industria cinematografica americana utilizza un simile timore per le sperimentazioni atomiche e le conseguenti radiazioni per descrivere il clima che condurrà alla Guerra Fredda, in un ideale mea culpa che porta al riconoscimento dei propri errori, o meglio alla dilagante paura per un meccanismo attivato per scopi patriottici e del quale si stava progressivamente perdendo il controllo. Il periodo che invece interessa gli anni della guerra vede l’identificazione del nemico per antonomasia nel tedesco nazista, spesso folle esaltato con mire espansionistiche che hanno ripercussioni sull’incolumità di singoli gruppi, rappresentanza di interi popoli. Le figure e gli eventi che portano alla creazione di questo stereotipo sono facilmente rintracciabili nella storia di quel particolare periodo e se i riferimenti al Führer sono ovvi e sempre più spesso utilizzati per una ridicolizzazione dell’immagine autoritaria di Hitler, basti pensare alle parodie dello statista create da Charlie Chaplin in Il grande dittatore (The Great Dictator, Charlie Chaplin, 1940) oppure ai cortometraggi dei Marmittoni, tra cui You Natzy Spy (1940), an24

cora più inflazionati risultano i collegamenti, diretti e indiretti, ai dottori che esercitavano per conto del partito nazista. Personaggi come August Hirt, Karl Brandt, Sigmund Rascher, Ernst-Robert Grawitz e “l’Angelo della Morte” Josef Mengele hanno contraddistinto la storia della Germania nazista per le loro ricerche sulla superiorità della razza ariana e per le crudeli sevizie, che sfociavano nel vero e proprio omicidio, ai danni di gemeinschaftsfremde, ovvero gli stranieri, coloro che non appartenevano alla storia e alla cultura della Germania, ma anche coloro che non erano considerati appartenenti alla razza ariana come i portatori di handicap (mentali e/o fisici) e gli omosessuali. Contrapposti ai volksgenossen, tedeschi di razza pura, i gemeinschaftsfremde venivano infatti rinchiusi nei campi di concentramento. Le vittime dell’Olocausto non si contano, alcune stime riferiscono che solamente un programma come l’Aktion T4 (programma Eutanasia), che prevedeva la sterilizzazione o l’uccisione di coloro che erano affetti da malattie genetiche o malformazioni fisiche, conta tra le 60.000 e le 100.000 vittime. Il Terzo Reich ha comunque fornito molte occasioni per misurare il grado di esaltazione umana all’ombra di un’ideologia che mira alla pulizia in nome di una qualsivoglia alterità. Eugenetica e potere, scienza e politica, due discipline così concettualmente lontane che trovano nell’operato nazista una connessione esclusiva che conduce ad operazioni che all’occhio esterno non possono che apparire folli. Ma sterilizzazioni, uccisioni e terribili esperimenti ai danni di chi non era considerato appartenente alla razza ariana non erano le sole pratiche attuate dai programmi nazisti. Non solo distruzione dell’ alieno, ma anche preservazione della propria superiorità attraverso agevolazioni e cure speciali verso chi era considerato rappresentate dell’arianità. Il Progetto Lebensborn, ad esempio, mirava proprio alla tutela della germanità attraverso l’edificazione di edifici atti alla crescita ed educazione di bambini che avessero tutti i requisiti specifici della razza ariana. Ragazze madri ariane venivano protette dai pregiudizi morali e religiosi di chi vedeva del male nelle natalità in contesti familiari non ideali, venivano loro date agevolazioni economiche e protezione da occhi e pensieri indiscreti. I bambini venivano cresciuti nel credo all’ideologia nazista, alcuni di loro erano orfani, altri raccolti in giro per l’Europa. Una devozione quasi religiosa al mito della razza e alla sua indispensabile continuazione che era finita per tingersi di connotazioni criminali, dal momento che numerose testimonianze riferiscono di atti di ra25

pimento da parte degli aderenti al Progetto Lebensborn ai danni di bambini portatori dei tratti ariani e sparsi sui territori occupati dalla Germania. In maniera simile, la razza ariana era protetta dalle contaminazioni con sangue impuro anche in nome della legge. Una delle Leggi di Norimberga, infatti, dichiarava specificamente il divieto di praticare matrimoni misti e di convivenza tra ebrei e tedeschi, così da tutelare ufficialmente la volksgenosse da ogni possibile corruzione data dal contatto di sangue con gli untermensch, ovvero tutti quei popoli considerati inferiori. In un tale clima in cui l’attuazione di un programma politico si intrecciava con teorie pseudo scientifiche che attingevano con esiti mortali all’eugenetica, la fantasia dell’industria cinematografica statunitense ha potuto sbizzarrirsi portando sullo schermo figure tipiche del cinema fantastico appositamente adeguate al contesto storico. Non troviamo riferimenti espliciti alle personalità del nazismo nel cinema fantascientifico americano degli anni ’40, ma è possibile riscontrare un’influenza tra la fanta-scienza del Terzo Reich e la fantascienza cinematografica. In particolare spicca la figura del Mad Doctor, dello scienziato pazzo che utilizza la scienza per folli piani personali. Personaggi megalomani che mirano a raggiungere il potere sostituendosi alla divinità, sperimentando le proprie scoperte su cavie umane e con inevitabili conseguenze sull’incolumità delle persone, delle masse, dei popoli. Il parallelismo tra queste figure della fantasia con il Führer, i gerarchi nazisti e le personalità mediche tristemente note all’epoca è piuttosto evidente e il modo in cui vengono dipinti come subdoli nemici della democrazia è esemplare per avere una visione di come queste personalità venivano percepite dall’opinione pubblica. Sono tre, in particolare, i film che delineano interessanti figure di Mad Doctors tracciabili nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, tre film americani che porgono riferimenti solo velati all’allora attuale situazione politica per inquadrare le loro storie in contesti consoni al cinema fantastico dell’epoca. Il film più esplicito a riguardo è Mostro Pazzo (The Mad Monster, Sam Newfield, 1942), un fanta-horror a budget estremamente basso realizzato dalla Producers Realasing Corporation in soli cinque giorni. Lo scopo dei produttori era di sfruttare il successo delle pellicole Universal sui mostri classici creando una sorta di clone economico che avesse una sua personalità e originalità. Per far ciò, lo sceneggiatore Fred Myton mescola efficacemente Frankenstein (id., James Whale, 1931) con L’uomo lupo (The Wolfman, George Waggner, 1941) facendo in modo che la sete di potere di uno scienziato 26

pazzo si unisse al mito del lupo mannaro e che poi la creatura si ribellasse al suo stesso creatore. L’interesse verso questo film risiede però soprattutto sullo scopo che porta il Dr. Cameron – interpretato da George Zucco – a trasformare il suo giardiniere Tom in un licantropo. Cameron, infatti, lavora per l’esercito degli Stati Uniti che gli ha richiesto di sperimentare un siero che renda i soldati americani più forti per combattere le armate di Hitler, a questo scopo il dottore pensa di unire il DNA umano a quello di un lupo per creare un’armata di soldati licantropi. Il collegamento all’attualità dell’epoca è qui palese e si fa chiaramente riferimento a quelli che sono i nemici degli Stati Uniti nel 1942, ovvero i tedeschi nazisti. Nell’ottica di chi cova serpenti in seno, il film di Newfield identifica la minaccia però nello stesso Dr. Cameron, distogliendo così l’attenzione dalla situazione politica internazionale e creando una minaccia che indossa i colori della bandiera statunitense, annullando così l’odore xenofobo che all’epoca si respirava in molto cinema patriottico. In questo caso si concentra l’attenzione sulla crescente follia dello scienziato, rancoroso verso i suoi colleghi e superiori che gli compaiono come fantasmi per farsi beffa di lui e contro i quali vuole scagliare la furia della sua creatura. La grandezza di una nazione, il suo progresso nel campo scientifico e strategico è così messo al servizio del singolo: la distorsione suprema del sogno americano che naturalmente non trova compimento. Curiosamente l’idea dell’esercito di licantropi da impiegare durante la Seconda Guerra Mondiale viene omaggiata da Rob Zombie nel 2007 per la realizzazione del falso trailer dell’immaginario Werewolf Women of SS, che compare nell’edizione americana di Grindhouse (id., Quentin Tarantino e Robert Rodriguez, 2007), in cui però i lupi mannari combattono nell’esercito tedesco, stravolgendo e forse attuando quella che poteva essere la visione “politicamente corretta” agli occhi americani del Mostro Pazzo. Il primato nel campo Mad Doctors nel cinema americano del secondo conflitto mondiale spetta però a Ernest B. Shoedsack, leggendario autore di King Kong (1933) insieme al collega Merrian C. Cooper, che nel 1940 realizza Il Dottor Cyclops (Dr. Cyclops). Primo film di fantascienza ad essere realizzato in technicolor, Il Dottor Cyclops ripropone in chiave fantascientifica la caccia all’uomo già cara al regista dai tempi di La pericolosa partita (The Most Dangerous Game, 1932), la ambienta nella giungla come King Kong e tratta il tema della miniaturizzazione umana come in La bambola del diavolo (The Devil Doll, Tod Browning, 1936). Il Dottor Alexander Thorkel – interpretato 27

da Albert Dekker – mostra già nel nome una chiara origine nord europea ma ancor più nell’aspetto esibisce una sospetta somiglianza con il braccio destro di Hitler, Heinrich Himmler, esplicando così l’intento di identificare il personaggio negativo con il gerarca nazista pur non dichiarandolo apertamente. Nel film di Shoedsack il Dr. Thorkel sta lavorando in Perù ad esperimenti segreti con l’energia atomica; quando intervengono il dottor Stockton e il suo team, giunti per aiutare Thorkel, i piani del dottore vengono intralciati e così Thorkel decide di neutralizzare i curiosi miniaturizzandoli, svelando così il vero scopo dei suoi esperimenti. Tra il perfido dottore e i piccoli uomini si istaura una lotta paragonabile a quella che ci fu tra Ulisse e i suoi compagni contro il ciclope Polifemo. Non a caso, infatti, il dottor Thorkel indossa spesse lenti per la vista ed è soprannominato Cyclop, ciclope. La citazione omeriana è solo un dettaglio in quella che può facilmente essere letta come un’allegoria dell’oppressione: lo scienziato ha il potere, le sue dimensioni mastodontiche lo pongono fisicamente e gerarchicamente al di sopra dei piccoli uomini che devono sottostare alle sue decisioni e al suo dispotismo. Il braccio destro del dottore è un feroce gatto nero di nome Satana, un esecutore e prosecutore del suo regno di terrore che aiuta il suo padrone a dare la caccia ai piccoli uomini per poi rinchiuderli in gabbie per cavie. È possibile leggere un parallelismo tra il team di scienziati rimpiccioliti e i perseguitati dal regime nazista e la pellicola di Shoedsack fornisce diversi elementi per una lettura socio-politica della storia narrata. Thorkel è un dittatore che si sta costruendo un regno di terrore in cui lui possa sovrastare sul popolo letteralmente minuscolo; allo stesso tempo Thorkel è un uomo di scienza e, dunque, non possiede solo il potere ma anche il sapere, indispensabile alla stessa perpetuazione del suo status simil divino. Come da tradizione americana, il perfido dottore viene sconfitto dalla tenacia e dallo spirito d’iniziativa e collaborazione del team scientifico, in un utopistico happy ending realizzatosi pur sempre con il sacrificio di alcune vite. La messa in discussione dell’etica scientifica, che è un po’ il trait d’union del filone Mad Doctors, si trova al centro di La donna e il mostro (The Lady and the Monster), diretto nel 1944 da George Sherman e tratto dal romanzo di Curt Siodmak Il cervello di Donovan. Il professor Muller – interpretato dall’austriaco Erich von Stroheim – conduce esperimenti sull’essere umano, in particolare sulla possibilità di tenere in vita il cervello anche dopo la morte. In carenza di cavie, Muller sperimenta le sue ricerche su un uomo rinvenuto in fin di vita nei pressi del suo castello, non sapendo che si tratta del ricco industriale 28

Donovan. L’esperimento di Muller riesce, ma il cervello sviluppa delle particolari facoltà che gli permettono di controllare il volere delle persone con cui entra in contatto. Nel folle scienziato descritto in La donna e il mostro risiedono tutti i topoi del Mad Doctor del cinema fantastico e la scelta di un attore austriaco che in curriculum ha interpretato più volte il nazista, la dice lunga sulla forza espressiva di questo ulteriore ritratto di scienziato pazzo. Malgrado sia descritto come figura negativa fin da principio, Muller durante il film non è inquadrato come vero antagonista della vicenda, ruolo assegnato invece a Donovan. Alcuni leggendari personaggi del cinema fantastico tedesco, come il dott. Caligari e il dott. Mabuse, hanno la facoltà dell’ipnosi, subdolo espediente per condurre sotto controllo l’agire degli individui. Il Gabinetto del Dott. Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari, Robert Wiene, 1920) è stato diretto da Robert Wiene, regista polacco che operava in Germania, costretto alla fuga dopo l’ascesa di Hitler; stessa sorte è toccata a Fritz Lang, austriaco regista di Il dottor Mabuse (Dr. Mabuse der Spieler, Fritz Lang, 1922) e di due dei suoi numerosi sequel, ovvero Il testamento del dottor Mabuse (Des Testament des Dr. Mabuse, 1933) e Il diabolico dottor Mabuse (Die Tausend Augien des Dr. Mabuse, 1960). Nel caso di Lang ci fu addirittura una proposta da parte di Joseph Goebbels per la carica di dirigente dell’industria cinematografica durante il dominio nazista, ma il regista pensò che si trattasse di una trappola, visto che il suo ultimo film, Il testamento del dottor Mabuse, fu bloccato e proibito proprio dal regime nazista perché considerato critico nei confronti del Terzo Reich, così fuggì prima in Francia poi negli Stati Uniti. Nei film dell’espressionismo tedesco la facoltà dell’ipnosi fu letta retroattivamente come un profetico timore dell’ascesa di Hitler, un potere supremo e incondizionato che mieteva vittime e proseliti come raramente era accaduto in passato. In La donna e il mostro Erich Donovan è un potente, un milionario influente con le mani in pasta nella politica e nell’economia, che acquista la facoltà di controllare il volere altrui. Una sorta di burattinaio che riesce ad agire anche fuori dal proprio corpo, capace di battere la morte e portare a compimento i suoi piani diabolici e criminosi veicolando la colpa su un capro espiatorio che non è altro che il nuovo involucro umano delle sue azioni. In questa situazione che fa di Donovan il nuovo potente della società post-industriale, il deus ex machina di un thriller fantascientifico dalle atmosfere gotiche, si inserisce il personaggio dello scienziato folle, anch’esso veicolo involontario dell’agire di Donovan. Il nazismo ha sempre alimentato suggestioni fanta-scietifiche e non solo gra29

zie alle ricerche eugenetiche intraprese dai dottori del Terzo Reich, ma anche per la propensione alle scienze occulte, da cui Hitler sembrava particolarmente affascinato. L’Ahnenerbe Forschungs und Lehrgemeinshaft fu fondata a scopo di ricerca sulla storia antropologica della razza germanica e si occupò del ritrovamento di mitiche reliquie dai leggendari poteri come il Sacro Graal e la lancia di Longino; lo stesso concetto di razza ariana e la credenza della sua superiorità ha basi mistiche riconducibili a mitici popoli del Tibet e a società segrete a cui si può far risalire l’origine del partito nazionalsocialista. Non a caso, infatti, fu proprio da questi spunti che prese avvio la saga cinematografica avventurosa di Indiana Jones con I predatori dell’Arca perduta (Raiders of the Lost Ark, Steven Spielberg, 1981), che portava in scena l’ossessione nazista per le reliquie magiche, bissata dal terzo film della saga, Indiana Jones e l’ultima crociata (Indiana Jones and the Last Crusade, Steven Spielberg, 1989), dove la minaccia nazista tornava per impossessarsi del Sacro Graal, oggetto che deteneva il segreto della vita eterna. Anche al di fuori della saga sul celebre archeologo inventata da Lucas e Spielberg emerge la fissazione del nazionalsocialismo per le pratiche occulte e i monili fantastici. In epoca molto più recente il film Marvel sulle origini del supereroe fumettistico Captain America (Captain America: The First Avenger) che Joe Johnston ha portato sul grande schermo nel 2011, in maniera ancora più fantasiosa porta in scena il nemico storico del patriottico Vendicatore Steve Rogers, ovvero Johan Schmidt noto come Teschio Rosso, mostrandocelo come il capo dell’HYDRA, una divisione scientifica segreta del Terzo Reich finanziata da Hitler e mirata soprattutto alla ricerca di manufatti magici. Obiettivo del mostruoso Teschio Rosso è il Tesseract, un cubo magico custodito a Tonsberg e fulcro del potere degli antichi Dei della mitologia nordica, in grado di fornire un enorme potere a chi ne entra in possesso.

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Le basi per permettere alla fantasia di viaggiare ed elaborare trame ricche di risvolti fantascientifici sono ben solide e la grande quantità di eventi dall’importanza socio-politica forniscono spunti quasi automatici per dipingere trame e personaggi ostili collegati, anche se spesso solo metaforicamente, agli accadimenti dell’epoca.

Allarme rosso! Il nemico durante la Guerra Fredda

Non era passato molto tempo dalla conclusione del secondo conflitto mondiale, che gli Stati Uniti trovarono nel blocco orientale un nuovo micidiale nemico. Il terrore senza volto dei kamikaze giapponesi e l’incubo dell’eugenetica e del potere nazista andava lentamente estinguendosi lasciando ferite impossibili da rimarginare, ma una nuova minaccia per la superpotenza americana era stata identificata in quel blocco di paesi comunisti aderenti al Patto di Varsavia e che avevano come apri fila l’Unione Sovietica. Il risultato della contrapposizione tra il Blocco Sovietico e quello Atlantico fu la Guerra Fredda, un conflitto che non produsse mai uno scontro diretto e ufficiale tra i principali contendenti, ma che durò di fatto quasi mezzo secolo, fino alla caduta del Muro di Berlino che portò alla riunificazione della Germania. La caduta dell’impero nazista portò all’affermazione di altre superpotenze, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, ricche, armate e con conseguenti mire espansionistiche che a questo punto erano destinate a incrociarsi. Per l’esattezza, l’Unione Sovietica al termine della guerra non era in ottima salute, le perdite (economiche e militari) furono notevoli, ma grazie alla politica di Stalin che prevedeva il massimo contributo e sostegno dei paesi occupati, la situazione si ristabilì in fretta. Al contrario, gli Stati Uniti uscirono dalla guerra come rinvigoriti. Il suolo americano non era stato toccato dall’occupazione e gli aiuti postbellici ai paesi europei in difficoltà contribuirono alla crescita produttiva ed economica statunitense. Fu questo uno dei punti cruciali che portarono al conflitto tra le due superpotenze: gli Stati Uniti, grazie ai piani di sostegno – come il celebre Piano Marshall, che prevedeva l’elargizione di aiuti economico-finanziari per l’Europa – si stavano guadagnando il favore dei paesi dell’Europa Occidentale, minando così il rinforzo del legame degli stessi con l’Unione Sovietica. Con la firma del 31

Patto Atlantico, che legò dal 1949 gli Stati Uniti ai paesi dell’Europa Occidentale, e la nascita della NATO che decretava di fatto uno strumento politico e militare comune ai paesi aderenti, agli occhi dell’Unione Sovietica si veniva a creare una minaccia. Da qui l’alter-ego comunista del Patto Atlantico, il Patto di Varsavia, che poneva a Mosca il comando delle forze armate dei paesi ad essa alleati. L’equilibrio che in seguito alla Conferenza di Yalta, avvenuta nel febbraio del 1945, sembrava essersi creato era dunque già in procinto di sgretolarsi. La rivalità tra Stati Uniti e Unione Sovietica si sviluppò in diversi campi e portò alla cosiddetta corsa agli armamenti e alla corsa allo spazio. Gli Stati Uniti, fino ad allora, avevano il primato militare della bomba atomica che li portò alla distruzione di Hiroshima e Nagasaki. Erano come una divinità, avevano potenzialmente la facoltà di decidere le sorti del mondo grazie all’arma suprema, nel frattempo perfino potenziata. Ma dal 1945 anche l’Unione Sovietica possedeva la famigerata bomba H. Da quel momento lo scontro nucleare che realisticamente avrebbe potuto radere al suolo l’intera umanità era possibile. Allo stesso tempo, l’esplorazione spaziale forniva un nuovo motivo di rivalità. L’Unione Sovietica deteneva il primato: il 4 ottobre 1957 il sovietico Sputnik1 fu il primo satellite artificiale ad essere messo in orbita attorno alla Terra. Gli Stati Uniti entrarono in quella che fu definita crisi da Sputnik, che toglieva loro il primato in campo tecnologico, ma che li spronò al lancio di un loro satellite, l’Explorer, il 31 gennaio 1958. Da questo momento si venne a creare una continua sfida tra le due potenze per le quali il successo di uno doveva corrispondere con la rivincita dell’altro. Così se è sovietico il primo uomo ad andare nello spazio, in orbita attorno alla Terra (Yuri Gagarin, sulla navetta Vostok1, il 12 aprile 1961), è invece americana la prima orma sulla Luna (Neil Armstrong con la missione Apollo 11 il 21 luglio 1969). L’Unione Sovietica riesce per prima, nel 1971, a mandare una sonda su Marte (la Mars3) senza però raccogliere immagini, così nel 1976 gli Stati Uniti, con il programma Viking, riescono con una sonda a catturare le prime immagini del Pianeta Rosso. E via dicendo con missioni su missioni che vedono la corsa ai pianeti del sistema solare, tra Venere, Mercurio e Marte, sempre contesi da USA e URSS. È chiaro che in un simile clima anche l’opinione pubblica e la cultura popolare fossero in qualche modo coinvolte. La Guerra Fredda veniva combat32

tuta con azioni di spionaggio, minacce nucleari e sfide spaziali, campi che fino ad allora il cittadino americano aveva potuto immaginare solo grazie alla letteratura e al cinema di fantascienza. Va da se che la stessa industria culturale fantascientifica in questo lungo periodo viene a conoscere l’apice del suo successo con centinaia e centinaia di romanzi e film che raccontano di invasioni marziane, guerre nucleari, attacchi di mostri radioattivi e conquista dello spazio. Il nemico assume sembianze polimorfiche, si insinua nella mente, prende il controllo delle sue vittime, è invisibile, subdolo e letale. È alieno e spesso marziano, rosso come il pianeta da cui proviene e come il paese in cui vivono i russi, comunista. Il nemico può nascondersi ovunque, assumere le sembianze dell’americano modello, arrivare perfino ai vertici politici. E così la concretizzazione della paranoia dilagante è presto in atto. Uno dei primi risultati concreti dell’identificazione del russo, anzi del comunista, come nemico dello Stato proviene dal maccartismo, ovvero l’azione anticomunista iniziata dal senatore del Wisconsin Joseph McCarthy a partire dai primi anni ’50, ovvero da quando l’influenza comunista sulle istituzioni statunitensi cominciò a farsi sentire e l’espansione sovietica sull’Europa dell’Est portò i vertici statunitensi a temere il peggio. Atti di presunto spionaggio serpeggiavano tra le fila americane, una vera e propria condizione di paranoia anticomunista che portò all’incarcerazione (1951) e condanna a morte tramite sedia elettrica (19 giugno 1953) dei coniugi Rosenberg, accusati di essere spie comuniste colpevoli di aver fornito all’Unione Sovietica informazioni riservate riguardo le armi nucleari. Ad episodi di questo tipo si aggiunge la spinta espansiva dell’URSS e la sua acquisizione della bomba atomica che scatenarono il timore americano per l’eventualità di una guerra nucleare. Da queste premesse, il maccartismo si diffuse a macchia d’olio e interessò, tra i tanti settori, anche quello dello spettacolo, visto che molti artisti europei di sinistra trovarono rifugio proprio in America durante il periodo nazista. Accusati di avere collegamenti con l’Unione Sovietica o di semplice antiamericanismo, registi, attori, produttori, compositori e sceneggiatori furono messi al bando o in condizione di non lavorare in modo paritario. Tra coloro che finirono nelle maglie del maccartismo ci sono Charlie Chaplin, Marilyn Monroe, Walt Disney, Arthur Miller, Elia Kazan e Gary Cooper. Nel ventennio che va dagli anni ’50 agli anni ’70, che di fatto è il periodo più intenso di conflitto, il nemico aveva una valenza ben specifica ma allo stesso tempo non possedeva una fisionomia autentica. Chiunque poteva es33

sere il nemico e il cinema di fantascienza lo intuì ammantando gli alieni invasori che popolavano i cinema degli anni ’50 di chiare connotazioni metaforiche che richiamavano le paure dell’epoca. Gli alieni miravano alla conquista, all’espansione e colonizzazione del pianeta Terra e per raggiungere il loro scopo cercavano di mimetizzarsi con gli umani, in modo da colpirli nei loro punti deboli proprio quando meno se lo aspettavano. L’esempio più lucido e riuscito di questa tipologia di alieno è rappresentato da L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers), film diretto da Don Siegel nel 1956, ovvero in pieno periodo da “paura rossa”. La minaccia del film di Siegel è una semplice spora aliena che ha però la particolarità di insidiarsi nei corpi umani e replicarne le sembianze. L’intento dell’organismo alieno è creare delle copie perfette degli uomini da sostituire agli originali. Ma le copie se appaiono del tutto simili agli originali nell’aspetto, non lo sono nell’animo, dal momento che i “baccelloni” – come sono affettuosamente noti questi extraterrestri che nascono da una crisalide di origine vegetale – non provano emozioni, sono come degli automi incapaci di soffrire, gioire, provare amore o odio. Il film è stato letto come l’apice della parabola fantascientifica anticomunista, anche se il regista in seguito dichiarò: «Né lo sceneggiatore, né io pensavamo a un qualunque simbolismo politico. Nostra intenzione era attaccare un’abulica concezione della vita», negando così ogni interpretazione politica volontaria a cui il film ancora oggi è fortemente legato. L’alieno attacca l’umano, anzi l’americano, nel momento di sua massima vulnerabilità, durante il sonno, lo replica e poi elimina l’originale. Il futuro dell’umanità è composto da automi privi di emozioni e sentimenti, come se si trattasse di macchine, il che corrisponde al ritratto stereotipato che veniva dato dei sovietici anche da tanto cinema seguente. Il nemico era indistinguibile e poteva tranquillamente essere già tra la gente e covare in segreto le sue mire di conquista, facendo passare per pazzo chiunque avesse scoperto il loro incredibile piano; sorte che tocca al dottor Bennell, protagonista della vicenda, che in una delle ultime scene del film si agita sulla strada tentando di fermare gli automobilisti per avvertirli del pericolo. Ma l’invasione è ormai in atto e sembra impossibile fermarla. Anche se a questo proposito ci sono delle controversie che si rifanno alle due differenti versioni del film di Siegel. Nel finale ufficiale di L’invasione degli ultracorpi, infatti, c’è comunque una speranza di salvezza, dal momento che il dottor Hill, amico di Bennell, si accorge anch’esso del pericolo e da l’allarme alle autorità militari. Questo finale 34

è stato imposto dalla produzione, poiché in originale il film sarebbe dovuto terminare con Bennell sulla strada che si rivolge direttamente allo spettatore avvisandolo che sarà il prossimo. Il romanzo di Jack Finley, stampato nel 1955, da cui il film è tratto ha invece un finale del tutto positivo, con gli alieni che fuggono via dalla Terra Era opinione comune tra i vertici militari americani che i sovietici avessero capacità imitative fuori dal comune, tanto che i soldati americani posti a sorvegliare i punti critici al confine con l’Unione Sovietica e pronti a sferrare l’attacco in caso di allarme rosso, codice che rappresentava lo stato di guerra, erano stati istruiti a non prendere alcun ordine arrivasse da una voce umana, neanche se apparentemente familiare. I russi sarebbero stati, infatti, in grado di imitare le voci e per questo i militari comunicavano solamente attraverso codici veicolati dall’apparecchiatura tecnologica. Questo particolare è uno dei punti cruciali che portano alla distruzione di Mosca, e di conseguenza di New York, in A prova di errore (Fail-Safe), film diretto nel 1964 da Sidney Lumet e rifatto per la tv nel 2000 da Stephen Frears. Lumet, ispirandosi a un romanzo di Eugene Burdick e Harvey Wheeler, illustra l’ipotesi di errore militare che conduce all’uso della bomba atomica da parte degli americani ai danni dei russi. L’errore scaturisce dal malfunzionamento delle apparecchiature elettroniche e conduce proprio al divieto da parte dell’aviazione americana di prendere ordini vocali, in questo caso impartiti direttamente dal presidente degli Stati Uniti. I russi vengono dipinti come intelligenti sabotatori, capaci di penetrare ovunque e possessori di una pericolosa tecnologia. Bombardieri americani e russi presidiano costantemente i confini nell’eventualità che una delle due potenze sferri per prima l’attacco. Allo stesso tempo, nel film di Lumet i russi sono anche comprensivi e le lunghe conversazioni telefoniche tra i due presidenti sottolineano la predisposizione all’ascolto e alla collaborazione del presidente russo, malgrado i suoi consiglieri cerchino di convincerlo che si tratta di un trucco per dare la possibilità agli americani di fare la mossa decisiva. La distruzione di Mosca, verso la quale sono diretti i bombardieri americani, è inevitabile e il sibilo del telefono collegato con l’ambasciatore americano nella capitale russa è l’inquietante e tragico messaggio che la bomba atomica ha distrutto la città. Come conseguenza il presidente americano decide di sganciare una bomba anche su New York, così da equilibrare le perdite e non far scattare un attacco da parte del Blocco sovietico, che avrebbe causato una guerra dalle 35

conseguenze catastrofiche per l’intero pianeta. La situazione fanta-politica descritta nel romanzo e nel film di Lumet è potenzialmente realistica e sicuramente trae forza e incute pathos agli spettatori anche in relazione agli eventi che segnarono quel periodo. Nel 1962, infatti, si verificò quella che fu definita Crisi dei missili di Cuba. Gli Stati Uniti si accorsero, grazie alla segnalazione di un aereo da ricognizione, che a Cuba erano stati istallati 140 missili nucleari sovietici, molti dei quali puntati verso gli Stati Uniti e pronti per un eventuale attacco. L’allora presidente Kennedy chiese lo smantellamento dei missili sovietici, altrimenti le truppe americane avrebbero invaso Cuba e Chruscev accettò, a patto che anche gli USA portassero via i missili situati nelle basi in Italia e Turchia. Il tutto si svolse in tredici giorni, dal 15 ottobre 1962 fino al 28 dello stesso mese, quasi due settimane in cui le sorti del pianeta si trovarono sulla soglia di una guerra nucleare. Una situazione simile a quella narrata in A prova di errore si può trovare anche nel suo celebre contemporaneo Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) di Stanley Kubrick. In confronto al film di Lumet, la distruzione è planetaria: non solo New York e Mosca, ma la caduta della prima bomba innesca una reazione a catena che porta alla catastrofe nucleare mondiale. In Il dottor Stranamore l’errore non è tecnico ma umano, dettato dalla follia del generale Jack Ripper, guerrafondaio dal nome che affatto velatamente richiama il celebre Squartatore di Whitechapel, convintosi che l’URSS sia in procinto di scatenare un attacco nucleare e quindi intenzionato a una controffensiva preventiva che lo spinge a dare il via all’attacco aereo contro la Russia, annullabile solo da un codice segreto conosciuto esclusivamente da Ripper. Mentre i vertici delle due superpotenze si mobilitano per impedire l’attacco ed estorcere il codice, il Dr. Stranamore, ex scienziato nazista e ora consigliere militare statunitense, progetta la selezione di una razza superiore che andrà a popolare la Terra dopo la catastrofe nucleare. Il film di Kubrick, liberamente ispirato 36

al romanzo Allarme Rosso (Red Alert, 1958) di Peter George, usa il tono della commedia grottesca; dipinge una catastrofe di scala globale e le dinamiche che portano all’accadimento esasperando i toni e descrivendo un’umanità governata da folli, guerrafondai e teorici dell’eugenetica. Paradossalmente il nemico non è rosso, ma indossa lo stesso colore dell’americano; il nemico è come una serpe che l’America ha covato in seno per diverso tempo, che si è fatta strada, acquisendo potere e ha colto la prima occasione possibile per agire in modo distruttivo e scaraventare la responsabilità sui temuti nemici sovietici. Anche in Il dottor Stranamore, così come in A prova di errore, la collaborazione tra potenze non porta a nulla e non riesce ad evitare la catastrofe. Chi governa non è in grado di proteggere il popolo e a trionfare è un folle, forte di un sistema di difesa affidato a codici segreti ben più fallibile del previsto, che scatena l’apocalisse attraverso il suo emissario, un aviatore che cavalca letteralmente la bomba che scatenerà l’olocausto nucleare, dal quale, presumibilmente, si salveranno solo gli esponenti di una presunta razza superiore scelti da un ex scienziato nazista. L’incubo di ogni occidentale si era appena avverato. La corsa allo spazio che dal 1957, anno in cui l’Unione Sovietica mandò in orbita il primo satellite, interessa le due superpotenze è strettamente legata alla corsa agli armamenti e alla generale rivalità di carattere militare che si era creata tra USA e URSS. Raggiungere obiettivi importanti come l’esplorazione spaziale significava per le due nazioni avere il predominio in campo tecnologico ed economico, palesare il rispettivo status di leader e quindi instaurare una campagna propagandistica che esaltasse la rilevanza di ciascuno di loro. Mandare satelliti in orbita attorno alla Terra era anche un ulteriore strumento di controllo sull’azione del rivale, un metodo di spionaggio all’avanguardia. Allo stesso tempo si trattava anche di un’arma micidiale, dal momento che la progettazione di razzi e missili da spedire nello spazio era un’ottima palestra, nonché copertura, per la messa a punto di missili nucleari pronti a distruggere il nemico. Naturalmente il cinema non si è lasciato sfuggire l’occasione di fantasticare sulla rivalità in campo di tecnologia spaziale e sono numerosi i film che trattano questo argomento, a volte in modo del tutto realistico, altre sviluppando il tema con un piglio decisamente volto più verso la dimensione dell’intrattenimento fantastico. Le opere che appartengono a questa seconda categoria sono più numerose e spesso finiscono per raccontare storie di invasioni aliene o comunque di pericoli provenienti dallo 37

spazio. Tra gli esempi più celebri rintracciabili in quegli anni c’è, L’astronave atomica del dottor Quatermass (The Quatermass Xperiment 1955), una produzione britannica diretta da Val Guest e incentrata sul ritrovamento di un’astronave decollata solo pochi giorni prima e ricaduta sulla Terra portando con sé un essere alieno che ha preso il possesso del corpo dell’unico astronauta sopravvissuto. Pur non ponendo l’attenzione essenzialmente sul concetto di esplorazione spaziale, bensì sulla mutazione dell’astronauta e sulla minaccia che rappresenta per l’umanità, L’astronave atomica del dottor Quatermass è comunque la testimonianza che l’opinione pubblica era interessata e scossa dal progresso scientifico che portava l’uomo tra le stelle. E come ogni novità, anche l’esplorazione spaziale può spaventare, fornendo alla fantasia la possibilità di elaborare terribili e inimmaginabili conseguenze all’idea dell’ignoto che si fonde con il noto. Non è da sottovalutare, inoltre, che il film di Val Guest è una produzione inglese, tratta da uno sceneggiato radiofonico trasmesso dalla BBC due anni prima, e che quindi fornisce anche un punto di vista differente, quasi neutrale, sulla vicenda, portando comunque a testimonianza di come la tecnologia spaziale rappresentasse oggetto di timori anche per chi non era direttamente coinvolto nella corsa allo spazio. Provengono dagli Stati Uniti due film datati entrambi 1950 e sul tema dello sbarco sulla Luna: Uomini sulla Luna (Destination Moon) di George Pal e RXM – Destinazione Luna (Rocketship XM) di Kurt Neumann. Mentre il secondo parte da premesse che mostrano le intenzioni di allunaggio da parte degli americani per raccontare poi il loro effettivo atterraggio su Marte piuttosto che sul satellite terrestre, è il primo a descrivere con più efficacia e seriosità la corsa alla Luna intrapresa tra le due potenze. In Uomini sulla Luna si raccolgono i primi sentori di una sfida spaziale e si racconta dei preparativi statunitensi per intraprendere una missione spaziale che porti per la prima volta l’uomo sulla Luna. Il generale Theyer, artefice della missione, è dell’opinione che la nazione capace di raggiungere per prima il satellite e porre lì una base missilistica avrà assicurato il dominio della Terra. Le premesse alla corsa allo spazio sono dunque dichiaratamente legate al potere, alla dimostrazione di superiorità ed è grazie a questi presupposti che Theyer e il suo team trovano i finanziamenti necessari per intraprendere la missione. Il lancio americano, frettoloso e privo di adeguati collaudi, ha conseguenze disastrose per l’equipaggio del razzo, anche se l’happy ending mostra il ritorno sulla Terra degli astronauti e il trionfo – morale e politico – degli Stati Uniti 38

sui suoi avversari. Se il messaggio di Uomini sulla Luna in fin dei conti è positivo e patriottico, RXM – Destinazione Luna mira invece a trasmettere un messaggio pacifista che ammonisce sulla pericolosità di una possibile guerra atomica. Sbarcati per errore su Marte, gli astronauti americani diretti verso la Luna scoprono che il pianeta è abitato da uomini regrediti allo stato selvaggio dopo che una guerra atomica ha ridotto il pianeta in un luogo ostile. Il messaggio che gli astronauti riescono a trasmettere alla Terra prima di morire, avverte gli umani proprio della conseguenze che una guerra nucleare potrebbe causare. La paura post atomica che dallo sgancio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki dilagava fu una chiara influenza sul tema centrale di RXM – Destinazione Luna, così come rappresenta il fulcro di gran parte dei monsters movie che negli stessi anni affollavano sale e drive-in. L’atomica aveva lasciato un segno indelebile e la paura per una possibile guerra tra superpotenze che radesse al suolo l’umanità si concretizzava ogni giorno di più. Il cinema traduceva questa paura in film che mostravano scenari post-apocalittici e altri che raccontavano di mostri giganti che seminavano il terrore tra vittime ignare delle cause; erano per lo più animali mutati, ingigantiti e resi pericolosi dall’esposizione alle radiazioni e in una manciata di anni affollarono gli schermi. Un film che tratta realisticamente il tentativo di allunaggio e mostra le dinamiche della corsa allo spazio è Conto alla rovescia (Countdown, 1967) di Robert Altman, in cui, similmente a Uomini sulla Luna, la fretta che spinge gli Stati Uniti a intraprendere una missione spaziale per sbaragliare la concorrenza si ripercuote sul destino degli astronauti. In questo caso la NASA invia sulla Luna un civile piuttosto che un militare per il semplice motivo che l’Unione Sovietica aveva appena fatto la medesima cosa. Il primato americano è così affidato a una persona che non sembra avere le capacità necessarie per riuscire nella sua missione e le difficoltà per lui si verificano proprio nel momento dell’allunaggio. Nel film di Altman il primo uomo sulla Luna, anticipando la realtà dei fatti, è americano, anche se viene chiaramente mostrato come sono i sovietici i primi ad essere giunti sul satellite, solo che la loro navicella si è schiantata al suolo, causando la morte dell’equipaggio e annullando di fatto il primato. La fine putativa della corsa allo spazio viene fatta risalire da Carole Scott al 1975 quando per la prima volta Stati Uniti e Unione Sovietica collaborarono in una missione spaziale. Nello specifico, la capsula spaziale sovietica 39

Sojuz 19 si agganciò alla navetta Apollo 18 nell’orbita attorno alla Terra, consentendo all’equipaggio di entrambe le nazionalità di entrare in comunicazione e di spostarsi da un locale all’altro. Una cessazione della corsa allo spazio che comunque aveva già fatto intuire un vistoso rallentamento dal 1969, quando la missione Apollo 11 decretò la vittoria degli Stati Uniti che riuscirono per primi a far passeggiare l’uomo sul suolo lunare. In anticipo sui tempi, nel 1968 Frank Telford racconta in La cortina di bambù (The Bamboo Saucer), conosciuto in Italia anche con il titolo Il mistero di Saturno, di un’inedita collaborazione tra USA e URSS contro un nuovo nemico, la Cina. Motivo di questa collaborazione nasce da un’iniziale rivalità data dal ritrovamento di un disco volante sulle montagne cinesi. Le due superpotenze mandano segretamente delle spedizioni per prelevare il velivolo e appropriarsi così della paternità della scoperta e della tecnologia aliena, presumibilmente di svolta nella competizione militare tra le due nazioni. Lo scontro tra civiltà, che si ritrovano sullo stesso luogo con i rispettivi rappresentati, è però indirizzato verso una strategia di collaborazione quando le truppe militari cinesi attaccano le due spedizioni per invasione di territorio. La nuova minaccia per l’America non sono più, dunque, i rossi, bensì i “gialli”. La Cina proprio in quegli anni si trovava nel bel mezzo della Rivoluzione culturale di Mao Tsetung e il politico cinese si era più volte mostrato ostile all’impero americano così come a quello sovietico. L’unione tra le forze russe e americane che si concretizzano nella fuga della dottoressa Karachev e del comandate Peters con il disco volante alieno rappresenta la vittoria ideologica delle due superpotenze contro la minaccia comunista cinese che in quegli anni stava mettendo in discussione il primato delle altre due. In un epilogo buonista e pacifista, la dottoressa russa e il comandante americano atterrano con il disco volante in Svizzera, paese neutrale che dovrebbe garantire l’utilizzo appropriato della tecnologia aliena. Con La Cortina di bambù sembra concludersi idealmente la Guerra Fredda, ma siamo solo nel 1968 e anche se ormai le fasi critiche del conflitto USA-URSS erano passate, si doveva ancora attendere fino al 1989 e alla riunificazione materiale della Germania per trasformare la guerra più longeva del Novecento solo in un ricordo. Nel frattempo l’industria cinematografica statunitense sfornava altri titoli che palesavano la paura per il diverso capace di controllare la volontà altrui (Essi Vivono, John Carpenter, 1988. Anche se stavolta la minaccia non è comunista ma, al contrario, borghese, repubblicana e capitalista). La paura era 40

viva anche nei confronti di una possibile guerra atomica (The Day After, Nicholas Meyer, 1983) con la sempre temuta Unione Sovietica, mentre le conseguenze della corsa alla spazio trovano teorie complottiste e negazioniste in Capricorne One (Peter Hyams, 1978), in cui il falso atterraggio su Marte creava un ovvio parallelismo con le teorie sulla falsità dell’allunaggio da parte della missione Apollo 11 che in quegli anni scossero l’opinione pubblica. Il mondo parallelo e distopico raccontato dal cinema di fantascienza della Guerra Fredda è ricco di metafore e richiami espliciti all’attualità e al conflitto che terrorizzava e mandava in paranoia gli americani, timorosi che il nemico sovietico, invisibile e capace di spingerlo in un processo di disumanizzazione, lo catturasse nel sonno e ne manipolasse le coscienze. Un’epoca fertile e incredibilmente lunga, pronta a lasciare un’eredità fatta di guerre e alieni anche al nuovo millennio che da lì a un doppio lustro avrebbe portato gli Stati Uniti a scontarsi con un nuovo subdolo nemico altrettanto, se non maggiormente, distruttivo.

Imperi che crollano. La minaccia dal Medio Oriente

Mentre gli Stati Uniti si contrapponevano ai loro subdoli nemici rossi, un altro conflitto insanguinava le coscienze a stelle e strisce, si trattava della guerra del Vietnam che vide impegnate le truppe americane dal 1961 al 1973 in territorio sud vietnamita contro le truppe filo-comuniste dei vietcong. Il cinema fu indelebilmente scosso da questa guerra, che a posteriori è la prima vera guerra che gli Stati Uniti persero, e influenzò in maniera consistente molti cineasti di quel periodo ripercuotendosi in modo particolare nel genere del reportage e nella rappresentazione della violenza nello stesso cinema bellico e nell’horror, dove la carne e la sua lacerazione, violazione e trasfigurazione diventavano il nuovo punto focale dell’intrattenimento filmico. La fantascienza, invece, sembrava totalmente catturata dalle logiche di potere che provenivano dall’alto, da quel nemico invisibile e manipolatore che tirava i fili. Per questo motivo ci furono poche influenze dirette dall’esperienza in Vietnam in favore della macro-era che aveva accolto la guerra contro l’Unione Sovietica. Chiusa la parentesi Guerra Fredda per gli Stati Uniti si materializza un 41

nuovo nemico, un nemico incredibilmente pericoloso perché in grado di nascondersi dietro una facciata di povertà e desolazione. Il nemico giunge dal Medio Oriente, si fa portatore di una cultura e di una religione quasi inconcepibili per l’Occidente, possiede armi e denaro ma tra le strade si respira aria di fame e povertà, oltre che sabbia. Un nemico dagli inconfondibili tratti somatici, determinato e con i nervi ben saldi anche di fronte alla morte: un nemico da temere. Il musulmano, l’iracheno o afghano, il mediorientale: una religione, due nazioni e una locazione geografica per qualificare l’ultimo grande avversario degli Stati Uniti, quello che dinnanzi all’opinione pubblica neanche esisteva finché il gesto estremo dell’attentato terroristico alle Torri Gemelle l’ha reso sinonimo di terrore e, spesso, oggetto di discriminazione per un intero popolo. Ma la storia che contrappone gli americani ai mediorientali non comincia di certo l’11 settembre 2001, bensì molto prima, un odio ideologico che affonda le sue origini in scontri territoriali sul suolo mediorientale e sugli interventi delle Nazioni Unite, e degli Stati Uniti in particolare, per la cessazione delle varie invasioni. Oltre alle piccole tensioni nate già all’indomani della seconda Guerra Mondiale, con la nascita dello stato di Israele, la prima vera contrapposizione tra le due fazioni che sfociò in guerra è quella che viene ricordata come Prima Guerra del Golfo. Il conflitto, durato sei mesi, ovvero dall’agosto del 1990 al febbraio del 1991, prese avvio dall’invasione irachena del Kwait. Il perché di quell’invasione si può trovare nella convinzione del presidente iracheno Saddam Hussein che il paese emirato danneggiasse economicamente l’Iraq in quanto estraeva petrolio in quantità maggiore del dovuto. L’invasione di campo provocò una crisi internazionale che portò alla mobilitazione di ben 35 paesi che, capeggiati dagli Stati Uniti di George Bush, intendevano ristabilire la sovranità del Kwait dalle mire espansionistiche di Hussein, intenzionato ad annettere l’emirato all’Iraq. La guerra si concluse con l’operazione militare nota come Desert Storm, che vide le truppe statunitensi penetrare sul territorio iracheno portando alla morte di circa venticinquemila uomini e alla liberazione del Kuwait. Questa volta il nemico sembrava destinato alla sconfitta fin da subito, visto lo svantaggio numerico e lo squilibrio armamentario delle parti in conflitto. Eppure il piccolo nemico aveva due grandi armi dalla sua parte, da una parte la fede islamica, che però avrà il suo ruolo fondamentale più avanti, dall’altra il potere scaturito dal petrolio. L’oro nero in grado di far oscillare il destino 42

della Terra, tanta è la sua importanza strategica nell’economia. Basti pensare che all’annuncio di Saddam Hussein, il 24 settembre 1990, di distruggere i pozzi petroliferi del Medio Oriente, le borse crollarono provocando una storica perdita per i mercati internazionali. Da quegli eventi i cattivi rapporti USA-Iraq e le rivalità legate al controllo dei giacimenti petroliferi non sono riusciti a restaurarsi, tanto che il 2003 ha visto una nuova dichiarazione di guerra tra le due nazioni che ha preso il nome di Seconda Guerra del Golfo. I motivi che hanno spinto gli Stati Uniti a invadere l’Iraq trovano fondamento negli attentati che hanno sconvolto l’America nel 2001 e nel presunto coinvolgimento del presidente iracheno. La guerra al terrorismo diventa, dunque, il pretesto per l’esplosione di un’antica rivalità e porta a quella che è diventata a tutti gli effetti una guerra civile tra il nuovo governo e la resistenza. Prima che gli Stati Uniti si imbarcassero ufficialmente verso la nuova Guerra del Golfo, però, il coinvolgimento americano su suolo mediorientale era già avvenuto nel nuovo millennio da ben due anni, precisamente dal 7 ottobre 2001, quando l’esercito statunitense e quello britannico sferrarono un attacco aereo sull’Afghanistan per colpire obiettivi di Al-Quaeda. La Guerra al terrorismo intrapresa da George W. Bush all’indomani degli attentati dell’11 settembre si concretizzò, infatti, in un immediato impegno militare statunitense in Afghanistan per rovesciare il regime talebano e distruggere AlQuaeda. I nemici, dunque, appartenevano in particolar modo al movimento terroristico che ha preso il nome di Al-Quaeda, devoto al fondamentalismo islamico e nemico giurato dell’occidente. Anche in questo caso, come accadeva nei precedenti conflitti che hanno delineato la fisionomia del nemico statunitense, è l’intero Occidente ad entrare in prima persona nella questione. Il terrorista diventa l’incubo post 2000 per eccellenza, Osama Bin Laden, leader di Al-Quaeda, è il nemico pubblico N°1, la sua sagoma bianca è paragonabile a quella di un fantasma, a volte dato per morto, altre vivo e minaccioso nei video che rivendicano il suo odio verso l’America. Bin Laden è il moderno ba-bau, immortale raffigurazione del terrore capace di spazzare via i simboli del potere occidentale, ossessione di una nazione come è stato efficacemente sottolineato dalla regista Kathryn Bigelow in Zero Dark Thirty (2012). Il vero nemico, al di là dei complotti e delle teorie che vedono le ragioni dei sostenitori della guerra e dei suoi detrattori, è il mediorientale, indipen43

dentemente dal fatto che sia iracheno o afghano, una minaccia senza volto e pronto a sacrificarsi in nome del suo credo religioso. Quasi un richiamo ideale, anche se dalla potenza distruttiva amplificata, alla minaccia giapponese che terrorizzò gli USA in seguito all’attacco a Pearl Harbor, un nemico altrettanto silenzioso e pronto al sacrificio, capace di colpire all’orgoglio oltre che alla stessa vita. In Robocop (2014), reboot ad opera del regista brasiliano José Padilha del classico anni ’80 di Paul Verhoeven, l’intento di attualizzazione della vicenda, che da un immaginario futuristico di fine anni ’80 avrebbe dovuto legarsi a quello post 2000, tende a identificare immediatamente il mediorientale come minaccia per gli Stati Uniti, da combattere e soprattutto da prevenire. Il film, infatti, si apre con un reportage su campo che vuole mostrarci in che modo la tecnologia robotica (droni di terra e di aria) statunitense sia efficace nel tenere sotto controllo le popolazioni un tempo dissidenti. La reporter su campo ci porta a Teheran, dove i robot della Omicorp, la multinazionale americana leader sul mercato della robotica, forniti in dotazione alla Guardia Nazionale, stanno effettuando il periodico controllo sulla popolazione. La situazione è quasi surreale per la tranquillità con cui tutto si sta svolgendo, mostrandoci un esercito americano sospettamente capace di aver raggiunto un equilibrato dominio sul territorio. Ma lo spettatore sa che quella tranquillità è un’anomalia e che molto probabilmente è destinata ad essere rotta, tanto che alle immagini quasi da campo di concentramento in cui donne e bambini vengono perquisiti con scanner ottici da parte degli androidi, si alternano ben presto le immagini di un gruppo di ribelli che si stanno armando con giubbotti esplosivi. Non appena i robot individuano la minaccia, scoppia una piccola colluttazione che in un batter d’occhio porta all’eliminazione dei ribelli senza che si vengano a creare danni collaterali, così da mostrare l’efficacia dell’impiego dei droni della Omnicorp su suolo iraniano. Questo incipit serve al film Robocop per introdurre il dibattito tra due parti politiche, una fervente 44

sostenitrice dell’emendamento che impedisce l’utilizzo di macchine armate per il mantenimento della sicurezza nazionale, l’altra, rappresentata dalla stessa multinazionale, impegnata a dimostrare l’efficacia dell’impiego dei robot per la salvaguardia del cittadino, cosa già attuata con successo per le azioni statunitensi su suolo estero. Il film di Padilha si muove poi su altri territori che interessano oltre al conflitto politico interno anche le questioni di carattere etico sull’utilizzo della tecnologia applicata alla medicina, ma in questa manciata di minuti iniziali già riesce ad inquadrare efficacemente la preoccupazione tutta americana verso un estraneo imprevedibile e l’azione diretta per sabotarlo e prevenire la minaccia che in passato ha colpito il cuore degli Stati Uniti. “L’America ha bisogno di essere protetta!”, esclama il giornalista Pat Novak (Samuel L. Jackson) nel programma di propaganda Omnicorp, puntando l’attenzione sul modo in cui questa protezione deve essere perseguita, ma il punto focale, modus a prescindere, risiede proprio qui: proteggersi dai potenziali nemici provenienti dalle terre del Medio Oriente. Le guerre in Medio Oriente sono anche le guerre pienamente combattute attraverso i mezzi di comunicazione, in particolare quei video casalinghi che il nemico utilizza per esporre le proprie posizioni e le proprie condizioni. Il primo ad apparire in video è Saddam Hussein, che il 23 agosto del 1990, a neanche un mese dall’inizio dell’invasione in Kuwait, diffonde una registrazione video in cui mostra gli ostaggi britannici in suo possesso, tra cui donne e bambini. La crisi degli ostaggi durante la Prima Guerra del Golfo si risolve presto e i cittadini occidentali vengono liberati da lì a pochi giorni, ma la potenza delle immagini, capaci di fare il giro del globo, è troppo incisiva per rimanere un caso isolato. La comunicazione visiva diventa un’arma di grande efficacia e il progresso tecnologico, rappresentato in questo caso soprattutto da videocamere maneggevoli e compatte per la registrazione e da internet per la trasmissione e diffusione, permette ai cattivi di confezionare velocemente video-minacce e richieste di riscatto. La guerra al terrorismo è scandita da user generated content: Bin Laden realizza con gran frequenza video amatoriali per testimoniare la sua presenza e annunciare le sue intenzioni; richieste di riscatto per ostaggi occidentali ed esecuzioni vengono filmate e trasmesse su internet e sull’emittente televisiva Al Jazeera; gli attentati terroristici sono prontamente documentati da videocamere di sorveglianza, telefoni cellulari e handycam di turisti, poi mandate in loop su telegiornali e con il pieno di visualizzazioni su You Tube. La guerra appartiene così a tutti, 45

chiunque può parteciparvi emotivamente anche se non si trova sul luogo del conflitto. Il cinema ha colto l’efficacia del terrore in diretta e la tecnica del mockumetary, del falso documentario, negli ultimi anni ha proliferato soprattutto nel genere horror, non dimenticando, però, proprio il conflitto iracheno, inquadrato da un punto di vista falsamente user generated content in Redacted (id., 2007) di Brian De Palma. Un film sugli orrori della guerra – un gruppetto di soldati americani stupra una quattordicenne irachena e poi la uccide insieme alla sua famiglia – ispirato a una storia vera e confezionato interamente con video realizzati con handycam, riprese di videocamere di sorveglianza e filmati estratti da You Tube. L’orrore è verosimile, realistico, percepibile dal pubblico che proprio in quegli anni veniva a conoscenza delle torture fisiche e psicologiche di Abu Ghraib. Il cinema di fantascienza, però, non si esime dal compito di raccontare la paura del ventunesimo secolo e in uno dei film più efficaci su questa tematica utilizza proprio il linguaggio del mockumenrtary per trasformare un monster movie potenzialmente simile a molti altri nella più efficace e realistica simulazione di un attacco terroristico. Il film in questione è Cloverfield (2008) di Matt Reeves, in cui un gruppo di ragazzi che festeggiano la partenza per il Giappone di uno di loro è sorpreso dall’attacco di una misteriosa creatura che mette a ferro e fuoco New York. Le ondate di polvere fitta invadono le strade della Grande Mela, gli edifici crollano, la Statua della Libertà, simbolo della metropoli e del sogno americano, viene decapitata e la sua testa scagliata in cielo finisce a giacere tra le strade affollate di gente in fuga. Un Ground Zero in celluloide che non a caso prende proprio New York come scenario della catastrofe. La creatura mostruosa, la cui origine è ignota, novello Godzilla che si aggira tra i grattacieli, abbatte aerei e carri armati e porta con se letali parassiti che finiscono presto a infestare la rete metropolitana, è il simbolo più estremo del terrorismo internazionale. La prima cosa a cui i personaggi di Cloverfield pensano assistendo alle esplosioni è proprio un attentato terroristico. In fin dei conti cos’è Cloverfield se non un realistico apologo sulle paure degli statunitensi in seguito alla tragedia dell’11 Settembre? Si tratta dell’esplicita visione di una città sotto attacco. L’attacco di un nemico inatteso e misterioso che prende in contropiede e causa incredibili danni alle vite delle persone innocenti, alla città e all’orgoglio di chi governa e si vede costretto a cedere alle soluzioni più drastiche per contenere la piaga. Cloverfield è proprio il manifesto più esplicito di un malessere co46

mune tra i cittadini di New York (e non solo), che sotto l’aspetto di film di genere nasconde il più efficace e spaventoso specchio della tragedia avvenuta e sempre pronta a ripetersi. Il motivo sta principalmente proprio nella magnifica scelta di mostrare la catastrofe attraverso il cineocchio di un testimone qualsiasi della tragedia, un ragazzo come tanti che da un party con gli amici si ritrova a documentare incredulo la caduta di New York. Il tutto viene mostrato attraverso il video realizzato da una videocamera a mano dall’involontario documentatore, con conseguenza di riprese mosse, confuse, improvvisi stacchi, sfocature e fragore visivo, nonché uditivo, di chi corre, inciampa, urla, cade ma imperterrito continua a filmare. Una sorta di temerarietà da testimone (audio)visivo che nell’epoca di You Tube e dei videofonini si inocula nel più impensabile individuo, spinto dalla voglia di documentare, di poter dire ad amici ed estranei “io c’ero”, e rendere partecipe di qualsiasi esperienza il maggior numero di persone. Così come negli anni ’50 i monster movies prendevano spunto dalla paura atomica, capace di mutare la natura in una famelica e letale chimera, nel post 11 settembre Cloverfield utilizza a suo vantaggio la paura per gli attentati terroristici e ne ricrea il caratteristico clima di terrore trasfigurandolo in una nuova creatura che si va ad aggiungere al nutrito bestiario di mostri da fantascienza che da oltre mezzo secolo spaventa e diverte il pubblico. La paura del terrorismo è il vero e proprio trait d’union di un certo tipo di fantascienza catastrofica contemporanea. Se Cloverfield rappresenta il punto di non ritorno, la metafora visivamente più esplicita ed estrema, anche per via della tecnica usata che gli dona realismo, ci sono altri film antecedenti che hanno fatto cenno alla possibilità di un attacco terroristico per ancorare la vicenda narrata ad un clima di attualità. Così avviene, ad esempio, in La guerra dei mondi (War of the Worlds) di Steven Spielberg, attualizzazione datata 2005 del romanzo scritto da H. G. Wells nel 1898. Il romanzo, che racconta di un’invasione marziana ai danni dell’umanità, si presta molto bene all’adattamento a vari contesti socio-culturali; il marziano è il diverso con intenti ostili, colui che proviene dall’altra parte del confine e invade il nostro territorio con prepotenza distruttiva. Ogni epoca ha la sua guerra e ogni guerra ha, a seconda del punto di vista, un nemico ostile e guerrafondaio. Il romanzo di Wells ha dato profetica forma al nemico giapponese nel celebre sceneggiato radio curato da Orson Welles nel 1938 ed è stato adattato con efficacia nel 1953 nella riduzione cinematografica di Byron Haskin. Nel film di Haskin il 47

nemico venuto da Marte poteva essere letto come la metafora del nemico comunista (il colore del Pianeta di provenienza degli alieni e quello della bandiera sovietica, tra l’altro, coincidevano) e infatti si inseriva nel momento clou della Guerra Fredda. Il 2005 vede il ritorno sul grande schermo della minaccia marziana in un ideale iter continuativo che accomuna gli alieni di Wells al nemico tipico dell’Occidente. In La guerra dei mondi di Spielberg il vero orrore emerge dalla catastrofe, dalla distruzione che l’invasione aliena causa all’uomo e al suo territorio. Tripodi meccanici, svegliati da inquietanti fulmini, seminano il panico tra la popolazione, polverizzando letteralmente chiunque e qualunque cosa incroci il loro raggio distruttivo. Gli esseri umani catturati vivi vengono racchiusi in riserve, scorte alimentari, concime per fertilizzare la flora marziana portata a popolare il pianeta Terra. In una scena significativa la piccola Dakota Fanning, che interpreta la figlia del protagonista Tom Cruise, terrorizzata, chiede al padre se si trovano nel bel mezzo di un attacco terroristico, come a voler palesare verbalmente l’intento metaforico di tanta distruzione. Nel film di Haskin era la forza della fede cristiana a veicolare l’abbattimento delle navette spaziali aliene, in Spielberg è invece l’unione familiare e la disperazione di un uomo desideroso di ricongiungersi ai suoi cari a motivare e fare da sfondo alla caduta dell’impero marziano, distrutto oggi come allora dalla mancanza da parte delle creature aliene di difese immunitarie verso i batteri terrestri. È la natura che fa il proprio corso e idealmente nella fiction cinematografica ristabilisce ottimisticamente le sorti del pianeta punendo i cattivi fautori del terrore e della distruzione di massa. Anche un’altra narrazione dall’origine letteraria è rimasta ancorata all’immaginario collettivo con tale potenza metaforica da essere riproposta allo scandire di ogni evento nefasto che ha contraddistinto la storia americana degli ultimi 60 anni. L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel, tratto dal romanzo di Jack Finney, è uno dei simboli cinematografici più celebrati della paranoia da Guerra Fredda che ha contraddistinto il cinema dell’epoca. La vicenda delle spore aliene capaci di replicare e sostituire gli umani con simulacri privi di emozioni è tornata sul grande schermo nel 1978 con Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers) di Philip Kaufman, la versione ad oggi più pessimistica e orrorifica del romanzo di Finney. Il film di Kaufman sembra quasi voler sfogare il clima grigio e opprimente che ha contraddistinto l’America degli anni ’70, tra la Guerra in Vietnam, lo scardinamento dei valori, la paura per gli annunciati disastri ambientali e scandali politici. Poi, nel 48

1993, anche Abel Ferarra si cimenta con una storia di baccelloni alieni in Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers) e l’eco della Guerra del Golfo non tarda a farsi presente. Nel film di Ferrara l’invasione comincia in una base militare, che diventa il focolaio del male. Proprio coloro che dovrebbero difendere il Paese da attacchi nemici sono qui i primi a cadere sotto il fuoco omologante dei parassiti vegetali di provenienza extraterrestre, che trovano nel mondo militare un ambiente molto fertile ai loro intenti di massificazione. La mentalità militare, infatti, detta la disciplina e la disgregazione dell’ego di fronte ai dettami di chi è gerarchicamente superiore, un’ideologia che svuota le coscienze così come gli invasori alieni fanno con le vittime umane, creando così un parallelismo che sembra minare in special modo i sistemi di difesa dell’uomo, rendendolo inerme di fronte all’attacco nemico. In fin dei conti gli Ultracorpi non fanno altro che palesare che in realtà il nemico siamo noi, abbattendo la barriera che ci divide fisicamente dagli invasori alieni e mostrando così la vera natura del nemico: umana nel fisico e aliena nel pensiero. In questo processo che lega il mito degli Ultracorpi alle epoche e ai decenni, il ventunesimo secolo non poteva non avere i suoi baccelloni, naturalmente aggiornati al clima paranoico post 2001 caratteristico dell’attuale fantascienza catastrofica. L’invasione arriva attraverso due media, la televisione e il cinema. Nella prima prende forma attraverso il serial Invasion (2005), in cui una tranquilla cittadina è sconvolta prima da un uragano e poi da un’invasione aliena che ha preso inizio proprio grazie alla catastrofe naturale. La serie tv, creata da Shaun Cassidy, riprende dalla vicenda d’origine l’ambientazione in una piccola realtà semi-rurale e concentra l’attenzione più sulle dinamiche interpersonali dei vari protagonisti che sull’orrore alieno, qui raffigurato da creature acquatiche luminose piuttosto che da esseri vegetali. La dinamica è sempre incarta sulla clonazione e sulla vacuità emozionale delle copie che, pian piano, vanno a sostituire gli originali umani. Come accadeva nel film di Ferrara, anche qui il primo a mostrare sintomi di cambiamento e 49

simbolo del male è un tutore dell’ordine, uno sceriffo per l’esattezza, l’unico che in una città già sconvolta dall’uragano che ha causato morti e feriti e ha lasciato molti senza un’abitazione potrebbe garantire la restaurazione della normalità. La serie tv sembra più efficace nel cavalcare gli eventi catastrofici legati agli uragani che hanno sconvolto il sud degli Stati Uniti in quegli stessi anni – che sono culminati nell’uragano Katrina – piuttosto che sottolineare la paura per il diverso, anche se il clima di paranoia dilagante nel periodo della Guerra al terrorismo è percepibile anche in quest’opera per la tv. Invasion riesce a descrivere la perdita di fiducia verso chi solitamente è identificato come una persona fidata, il vicino di casa, il familiare, che improvvisamente muta atteggiamento facendo così cadere ogni certezza. La famiglia, l’istituzione per eccellenza, è la prima ad essere sacrificata, i figli non riconoscono più i propri genitori né le mogli i propri mariti, ma si tratta di quei nuclei familiari già deboli di per sé, in cui la mancanza di comunicazione e il divorzio ne hanno scandito la graduale trasformazione. È come a voler rimarcare che la fragilità della stabilità familiare è un veicolo primario alla perdita dell’umanità, che la perdita dei valori tradizionali, messi in pericolo e poi ritrovati in situazioni di crisi politico-sociale, sono il sentore di un cambiamento in negativo delle trasformazioni che si stanno ripercuotendo su una società. In una logica di continuità con questa tematica, ma allo stesso tempo rimarcando la centralità dell’atmosfera paranoica tipica del fantacinema di stampo politico, c’è l’Invasion cinematografico, diretto da Oliver Hirschbiegel nel 2007. Invasion è la quarta trasposizione ufficiale del romanzo di Jack Finney Invasion of the Body Snatchers, e come le precedenti ci mostra le peripezie di un ristrettissimo nucleo di persone contro i subdoli tentativi di invasione da parte di una razza aliena vegetale. Hirschbiegel torna alle ambientazioni metropolitane, come già accaduto in Terrore dallo spazio profondo, creando un parallelismo tra la freddezza emotiva dei replicanti alieni e le atmosfere grigie e lugubri di una Washington autunnale. Anche stavolta il pericolo si genera in un focolaio domestico già di per sé poco coeso: un ex marito dipendente della NASA che perseguita ex moglie e figlioletto per sottoporli alla logica di massificazione aliena. Il bambino, in particolare, sembra avere nascosto nel sangue l’antidoto che consente di battere gli organismi extraterrestri e dunque la lotta per la sopravvivenza della prole da parte della donna diventa particolarmente drammatica. In Invasion ci si concentra più che in passato sulla dimensione scientifica del contagio e si punta maggiormente in modo piuttosto riuscito 50

sulla vulnerabilità dell’individuo nella fase del sonno. L’addormentarsi coincide con il dare via libera al virus alieno di “addomesticare” il corpo umano ospitante: «Don’t sleep, don’t go home, I’ll find you», recitava la frase di lancio del film e riassume a perfezione la minaccia che grava sulla testa dei personaggi ancora sani. A differenza del romanzo e delle altre versioni cinematografiche, il nemico stavolta non si genera da un involucro di matrice vegetale, ma la spora – che qui è un virus a tutti gli effetti – agisce direttamente sul metabolismo della vittima, va a modificarne le funzioni cerebrali eliminando di fatto ogni suo sentore di umanità. Non esistono baccelloni, ma sono gli stessi corpi umani a trasformarsi in armi per il nemico, come se l’uomo fosse già predisposto al cambiamento, all’invasione. In fin dei conti già La guerra dei mondi di Spielberg aveva mostrato come i Tripodi alieni fossero già presenti sul nostro pianeta, nelle viscere della Terra, risvegliati da fulmini provenienti dallo spazio. Il male è già sedimentato nell’essere umano, ha bisogno solamente di una spinta esterna che possa farlo emergere e Invasion ci lascia il dubbio che il cambiamento in atto forse non sia proprio un male, ma semplicemente una ulteriore fase del processo evolutivo e adattivo dell’essere umano. Il nemico è nascosto tra di noi, è nelle nostre città, vicino alle nostre case se non addirittura al suo interno e noi non possiamo saperlo finché non palesa la sua natura. Il terrorista è una persona come ogni altra, spesso insospettabile, che si lascia riconoscere solo quando è troppo tardi; un alieno un Ultracorpo, privo di umanità e pronto a far crollare l’Impero per aprire le strade a una nuova civiltà. C’è poi una ristretta cerchia di film che portano lo spettatore direttamente sul campo di battaglia a combattere contro gli invasori, per lo più extraterrestri ma con spiccate assonanze con il nemico mediorientale, come accade in Skyline (2010) dei fratelli Strause, in cui già dal titolo viene evocata l’immagine del grattacielo, palese rimando al World Trade Center, che qui si frantuma sotto i raggi spaziali di spietati mostri dall’organismo bio-meccanico; ma soprattutto in World Invasion (Battle: Los Angeles, Jonathan Liebesman, 2011) dove lo spettatore è chiamato a immedesimarsi con un plotone di marines intenti a combattere per le strade di Los Angeles, ridotte a succursale di una provincia afgana distrutta dai mortai, contro una minaccia aliena che mira all’estinzione dell’umanità, anzi dell’americanità, vista l’enfasi patriottica che la vicenda tende a sollevare soprattutto con l’esaltazione della figura del soldato a stelle e strisce. Lo spauracchio del terrorismo e delle tristi catastrofi 51

a tutti ben note, vengono evocati anche in Star Trek: Into Darkness (2013), secondo capitolo della nuova saga tratta dai personaggi di Gene Roddenberry svecchiati da J.J. Abrams in cui la minaccia si chiama John Harrison, o meglio Khan, un essere geneticamente modificato per essere una perfetta macchina tattica da guerra, ibernato per trecento anni e ora furioso contro chi ha massacrato la sua gente. Presentandosi con una serie di attentati terroristici che culminano con l’esplosione del palazzo londinese sede della Federazione, Harrison/Khan incarna il modello del moderno terrorista, mosso da interessi di potere e allo stesso tempo ideologici, freddo calcolatore, ingannatore e acuto stratega. La natura superomistica di Khan tende però a distogliere l’attenzione dalla tangibilità della minaccia terroristica che viene sagacemente e ironicamente richiamata anche dalla trilogia cinematografica di Iron Man. Nel primo film (Iron Man, Jon Favreau, 2008) è proprio durante una dimostrazione in territorio afgano delle nuove armi prodotte dalle Stark Industries che il magnante dell’industria bellica Tony Stark viene rapito da una cellula terroristica denominata i Dieci Anelli, intenzionata a farsi cedere il brevetto per la costruzione di un nuovo potente missile terra-aria denominato Jericho. Con la parentesi russa di Ivan Vanko, che richiama invece la minaccia sovietica dell’epoca della Guerra Fredda, nemesi di Tony Stark/Iron Man nel secondo film (2010), i Dieci Anelli tornano in Iron Man 3 (2013) di Shane Black dove facciamo la conoscenza del carismatico e temibile leader di questa setta terroristica, il Mandarino, che minaccia l’umanità attraverso video minatori in cui annuncia e rivendica attentati in Medio Oriente e negli stessi Stati Uniti rievocando prepotentemente la figura di Osama Bin Laden. Per lo più la fantascienza cinematografica preferisce però usare il linguaggio metaforico per parlare di paure attuali e per dipingere i nemici. I sovietici nel cinema della Guerra Fredda o i terroristi islamici dell’attuale ondata fantascientifica catastrofica sono spesso identificabili a posteriori nelle opere che non parlano esplicitamente di loro. I personaggi in preda al panico possono esprimere la loro sensazione che si tratti di un attentato terroristico, come accade in La guerra dei mondi o Cloverfield, ma poi i fatti ci mostrano marziani o gigantesche creature mostruose come artefici della distruzione. Nel 2009, però, un prodotto indipendente come Dead Air, di Corbin Bernsen, ci descrive come cattivi della situazione proprio un gruppetto di terroristi mediorientali intenti a distruggere l’America con un virus letale. Il film fa propri tutti gli stereotipi possibili e immaginabili sull’arabo terrorista scadendo a volte anche nell’ingenuo 52

e forse involontario razzismo che però è testimone lucido della xenofobia dilagante nell’America di Bush Jr. Protagonista di Dead Air è uno speaker radiofonico che conduce una trasmissione irriverente su argomenti di interesse nazionale. Il caso vuole che proprio la sera in cui va in onda la puntata sul tema della paranoia, un gruppo di terroristi mette a ferro e fuoco alcune grandi città statunitensi diffondendo nell’aria un virus che attacca il sistema nervoso di chi ne viene a contatto, trasformandolo in una belva assestata di sangue e capace di diffondere il contagio con un semplice morso o graffio. La meccanica che sta alla base del film è quella tipica dell’horror sul contagio rinvigorito dal 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle, che a sua volta si rifaceva ai film sugli zombi di George A. Romero. I contagiati si comportano come i morti viventi antropofagi, solo più agili e aggressivi, come da tradizione del nuovo millennio. La paura per l’arma chimica è messa in secondo piano per concentrare l’attenzione sull’orrore fisico e le dinamiche di gruppo – inevitabilmente destinate allo scontro – che si creano tra i dipendenti della stazione radio, ultimo avamposto di salvezza in una città sprofondata nel panico e nella follia. La stazione radio è anche la meta, il Fort Alamo, a cui sono diretti un terzetto di terroristi che vogliono diffondere il loro messaggio alla popolazione, per rivendicare l’attacco terroristico. Un poco plausibile espediente che vorrebbe fare da eco ai famosi messaggi video diffusi negli ultimi anni dall’emittente televisiva araba Al Jazeera. Naturalmente il piano terroristico non si attua nella sua totalità, il messaggio di terrore non arriva alla popolazione, ma un’aria di totale pessimismo si respira grazie all’affermazione del contagio, ormai dilagato tra gli americani, ridotti a vivi morenti rabbiosi e distruttivi. Per l’opinione pubblica le azioni terroristiche provenienti dal Medio Oriente sono la paura reale di inizio secolo, aggressori che distruggono le certezze e la quotidianità di ogni individuo, di ogni onesto lavoratore colpito a morte nella sua stessa abitazione o sul luogo di lavoro. La paura isterica verso il terrorista si traduce in una campagna xenofoba contro l’individuo di nazionalità mediorientale e, naturalmente, il cinema coglie questo sentore trasformandolo in suo punto di forza. Numerosi sono i film drammatici, d’azione, di guerra, che trovano nel terrorismo internazionale un nemico ideale da combattere, ma non di meno la fantascienza si mostra interessata alla tematica, idealizzando la minaccia in mostri e alieni che irrimediabilmente fanno eco all’attualità. Tre periodi storici, tre guerre fondamentali per il delinearsi della personalità di una Nazione e per le sorti dell’intero pianeta che danno corpo a dif53

ferenti tipologie di nemici. Si tratta di nemici degli Stati Uniti e, di riflesso, dell’intero Occidente, spesso subdoli e sempre dall’incredibile forza distruttiva. Sono Mad Doctors in grado di utilizzare il progresso scientifico contro il Paese, sono Alieni con mire espansionistiche sul nostro pianeta, sono terroristi con potentissime armi chimiche. Sono personaggi della fantasia e allo stesso tempo riflessi del reale.

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Capitolo terzo

L’Umano

Scorrendo la lunga lista di conflitti internazionali che hanno insanguinato la Storia, si può giungere facilmente alla conclusione che il peggior nemico dell’essere umano è l’uomo stesso. Guerre e genocidi, sete di potere e manie di grandezza che conducono irrimediabilmente al conflitto, alla morte, alla distruzione. La fantascienza riconosce questo primato all’essere umano e nella maggioranza dei casi dietro la vicenda narrata si nasconde proprio l’uomo come nemesi di se stesso; causa o conseguenza; mente o esecutore; Prometeo impazzito che fa propria la tecnologia per spargere il terrore, volutamente o involontariamente, direttamente o tramite un surrogato della sua incoscienza. Perfino quando la minaccia è sovrannaturale o proviene da altri mondi è l’uomo ad averla indirettamente causata o ispirata: mostri creati dal folle ingegno e alieni metafora della distruzione umana in atto o del pericolo eventuale. La vasta area fantascientifica che pone l’essere umano come minaccia per l’umanità e di riflesso per gli Stati Uniti, i maggiori produttori di intrattenimento cinematografico a livello mondiale, può articolarsi in diverse macro aree che pongono l’uomo come causa di pericolo globale secondo ottiche differenti. L’uomo può essere artefice diretto del male e quindi essere identificato come colui che scatena guerre, distrugge volontariamente popoli ed etnie per l’affermazione di ideali o, ancor più frequentemente, per il raggiungimento del potere. Ci sono diversi esempi di questo tipo di nemico nella cinematografia fantastica hollywoodiana e la produzione degli anni ’40 o, ancor più, degli anni ’50 e ’60 ne è un palese esempio. Dalle guerre nucleari innescate dalle incomprensioni tra nazioni come in A prova di errore (Fail-Safe, Sidney Lumet, 1964) alle tragiche conseguenze che possono scaturirne, come 55

mostrato nell’Olocausto nucleare di The Day After (id., Nicholas Meyer, 1983), la sete di potere dell’uomo, dei leader, condanna l’intera umanità alla morte e al sacrificio. La fantascienza ha spesso prediletto la stilizzazione del leader malvagio in una serie di figure ormai storiche nel cinema di genere. I grandi cattivi dai tratti eccessivi e fumettistici che mirano al dominio del pianeta con folli piani che sottendono conflitti su scala mondiale, programmi di eugenetica, controllo delle volontà e, naturalmente, armi fantascientifiche per lo sterminio di massa. La lunga saga di James Bond ha creato a tal riguardo una lunga schiera di memorabili antagonisti che rappresentano proprio il parossismo della nemesi internazionale di origine umana. Folli megalomani che vogliono sottomettere l’intera umanità per impolpare il proprio parco di ricchezze e soddisfare la loro sete di potere, escogitando spesso piani di chiara natura fantascientifica ma vicini alle paure che di volta in volta hanno assalito la società. Procedendo in ordine cronologico, basti pensare al Dr. No di Agente 007 – Licenza di uccidere (Dr. No, Terence Young, 1962) che vuole sabotare le missioni spaziali americane, oppure a Emilio Largo di Thunderball – Operazione Tuono (Thunderball, Terence Young, 1965) che ha intenzione di rubare due testate nucleari per estorcere denaro a Stati Uniti e Gran Bretagna minacciando la distruzione delle due nazioni. In pieno clima da Guerra Fredda, Si vive solo due volte (You Only Live Twice, Lewis Gilbert, 1967) mostra l’organizzazione criminale SPECTRE, qui rappresentata da Ernst Stavro Blofeld, impegnata a far scatenare la guerra tra le due superpotenze sabotando le missioni spaziali di entrambe le nazioni con l’intenzione di innescare un letale meccanismo recriminatorio. Folli piani di selezione della razza si trovano al centro di La spia che mi amava (The Spy Who Loved Me, Lewis Gilbert, 1977) e di Moonraker: Operazione Spazio (Moonraker, Lewis Gilbert, 1979), dove, rispettivamente, da una parte si vuole ricreare una civiltà sottomarina dopo aver raso a suolo quella terrestre e dall’altra distruggere la Terra e fondare una nuova civiltà selezionata nello spazio. Armi mortali per minacciare l’umanità, far scoppiare guerre, estorcere denaro compaiono nelle mani di folli criminali in Octopussy: Operazione Piovra (Octopussy, John Glen, 1983), GoldenEye (id., Martin Campbell, 1995) e La morte può attendere (Die Another Day, Lee Tamahori, 2002). Insomma un “bestiario” di villains che utilizzano piani dal sapore fantascientifico per dar forma al male identificandolo nell’uomo di potere e incarnare le paure dell’umanità. Paure 56

che, come si può notare, sono piuttosto ricorrenti e si concretizzano in special mondo nel conflitto internazionale, inizio della fine di ogni civiltà. Si tratta di nemici portati all’eccesso, dai tratti esageratamente caricaturali, quasi epigoni meno raffinati di Lex Luthor, acerrimo nemico di Superman e incarnazione di quella borghesia arricchita che mira al subdolo dominio dell’umanità. Una scalata al potere, quella che riguarda per esempio Luthor, che passa dall’industria alla finanza, dalla scienza alla politica fino al conseguimento della massima carica istituzionale che può permettergli di soggiogare tutta la società e un più diretto piano omicida nei confronti della sua nemesi, come è narrato nella miniserie a fumetti Man of Steel (1986) in cui il nemico numero uno di Superman riesce a farsi eleggere addirittura Presidente degli Stati Uniti. È dunque l’uomo a rappresentare la minaccia più concreta e fatale per il cinema di fantascienza. Un nemico tangibile e più facilmente ancorabile alla realtà, anche se inserito in contesti fantastici, assetato di potere e ricchezza, la minaccia che si può sempre identificare alla base del conflitto, marchiato dal peccato originale e condannato dalla divinità alla sua stessa distruzione. In questa ottica è esemplare la società immaginata dal regista e sceneggiatore Neil Blomkamp per il film Elysium (id., 2013), in cui il pianeta Terra è ormai ridotto a una landa polverosa afflitta da sovrappopolazione e mancanza di materie prime. In questo scenario neanche troppo irreale, che rispecchia nell’ottica dell’autore alcune zone alla periferia della sua città natale, Johannesburg, le élite si sono trasferite su una stazione spaziale denominata Elysium. Ma appunto Elysium è luogo per pochi prescelti, prendendo alla lettera l’origine del nome da cui questo luogo trae ispirazione, quei Campi Elisi che secondo la mitologia greca servivano a raccogliere ed accogliere le anime dei defunti che si erano contraddistinti in vita e quindi erano benvoluti dagli Dei e chiamati a sedere al loro fianco. In questo caso si tratta di ricchi e potenti, coloro che possono pagarsi un posto vicino alle divinità, pronti ad abitare 57

ampie ville con giardino e piscina, tutti i confort e soprattutto la sicurezza di vivere a lungo e in salute, grazie ai progressi medico-scientifici di cui possono usufruire. Al contrario, invece, sulla Terra il proletariato formato per lo più da operai che impiegano la loro forza lavoro per accrescere il prestigio e il confort di Elysium, vivono nella miseria e nella povertà, incapaci di curarsi qualora siano malati e privi di qualsiasi garanzia di sicurezza sui luoghi di lavoro, come si trova a constatare l’operaio Max Da Costa (interpretato da Matt Damon), che contrae una grave infezione nella fabbrica in cui lavora e può scampare alla morte solo accedendo alle cure disponibili su Elysium. Blomkamp aspira all’abbattimento del classismo sociale, al boicottaggio dell’impostazione fascista che avvolge la situazione da lui immaginata, portando in scena un’ideale rivoluzione che ha come conseguenza l’abbattimento dei confini e il libero accesso ai Campi Elisi anche a chi non è stato toccato dalla mano divina. Distopia che si tramuta in utopia. Ma il pericolo di matrice umana può manifestarsi anche attraverso agenti esterni che prendono la forma di esseri mostruosi, mutanti, creature preistoriche risvegliate dall’intervento dell’uomo e in particolare dalla sua azione bellica. La bomba atomica come causa del male, arma sterminatrice che allo stesso tempo si pone come generatrice di minacce appartenenti a una fauna fantastica fatta di draghi e mostri dalle dimensioni spropositate, i cosiddetti Bug-Eyed Monsters, o BEM, che hanno affollato i drive-in nel periodo della Guerra Fredda. L’uomo è poi indirettamente causa del disfacimento della sua stessa razza attraverso l’azione che ha sull’ambiente e sull’ecosistema. Catastrofi ambientali, virus letali, ingegneria genetica dai risultati aberranti: ogni sorta di pericolo mortale che minaccia l’umanità, anche se creato in nome della scienza e con fini inizialmente nobili. Ed è proprio la scienza, grande protagonista dell’azione distruttiva dell’essere umano, che si pone al centro di un’ulteriore categoria di minacce di matrice umana: la macchina. Robot, computer super-intelligenti, virus informatici capaci di sconvolgere il mondo che conosciamo e pronti a porre l’uomo in loro soggiogazione, sotto un clima di terrore, controllo, alienazione e infine estinzione. Distinti modi di vedere l’uomo come minaccia per la sua specie che la fantascienza cinematografica ha utilizzato per ammonire sui pericoli della scienza e della meschinità dell’animo umano. Visioni profetiche di un’umanità artefice della sua fine. 58

Atomica! Quando i giganti invadevano la Terra

I bombardamenti che il mattino del 6 agosto 1945 distrussero le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’umanità a tal punto da inaugurare un nuovo clima di terrore a livello internazionale in un contesto – quello della seconda Guerra Mondiale – già particolarmente scosso. L’invenzione della bomba H e la dimostrazione della sua azione distruttiva hanno donato all’uomo un’arma potente ma anche un nuovo pericolo da temere. Il progresso scientifico in campo bellico ha dato vita a un mezzo di morte efficace che è immediatamente diventato il vello d’oro del conflitto internazionale, lo scettro che conferisce potere a chi lo impugna. Ma se l’azione distruttiva della bomba atomica e delle armi nucleari è giustamente temuta per l’effetto immediato che può avere sul bersaglio colpito, ciò che subliminalmente spaventa l’uomo è l’effetto di lungo periodo che le radiazioni possono generare sugli esseri che ne vengono a contatto. Mutazioni genetiche, ripercussioni sull’ecosistema, cataclismi e, soprattutto, il risveglio di qualche cosa di ancestrale, di mostri sopiti nell’inconscio destati improvvisamente dal fragore e dunque inclini a manifestare la loro potenza distruttiva sotto forma di vendetta atavica. Se le mutazioni e le malformazioni degli esseri umani rimasti esposti alle radiazioni hanno rappresentato una triste quanto reale conseguenza che la storia e la medicina hanno documentato, è il cinema ad impossessarsi della paranoia atomica per restituire una nutrita schiera di pellicole che puntano il dito verso l’orrore reale ed eventuale. Un periodo, quello immediatamente successivo al ’45 e protrattosi per almeno un ventennio, che coglie a piene mani il terrore diffuso per l’armamentario nucleare e lo trasforma in cinema d’intrattenimento all’insegna di mostri giganti e metropoli in pericolo. Il modo migliore per esorcizzare le paure era rappresentato, dunque, dal viverle sul grande schermo, attraverso prodotti destinati a suscitare l’ansia protetta della fruizione di un prodotto di fiction o l’ilarità prodotta dalla parodizzazione delle paure inconsce eppure condivise. La grande stagione del cinema fantastico delle minacce atomiche si può far risalire al 1953 e all’uscita nelle sale di Il risveglio del dinosauro (The Beast from 20,000 Fathoms, Eugène Lourié, 1953). Il film di Lourié è ispirato al racconto di Ray Bradbury The Fog Horn, pubblicato sul Saturday Evening Post nel 59

1951, e descrive il risveglio di un immaginario rhedosauro dal suo sonno millenario a causa di alcuni test atomici al Polo Nord, posto in cui era rimasto ibernato. Il racconto di Bradbury descrive l’attacco di una creatura preistorica marina ai danni di un faro credendolo un esemplare femmina della sua specie. Il film di Lourié riprende questo episodio in una breve scena – spogliata però del riferimento all’intenzione di accoppiamento dell’animale – andando però a svilupparsi in modo differente. Il mostro, infatti, si dirige verso New York e immancabilmente il suo cammino è costellato da morte e distruzione finché viene abbattuto da una granata radioattiva. In origine la sceneggiatura di Lou Morheim e Fred Freiberger prevedeva che il dinosauro si scatenasse a San Francisco, così da sfruttare l’allarme terremoto a cui questa città è costantemente sottoposta; poi i produttori credettero che una simile scelta potesse risultare di cattivo gusto e si optò per la città di New York. Il risveglio del dinosauro, che rappresenta il primo vero grande successo per il leggendario effettista Ray Harryhausen, non è però il primo film a unire l’espediente della tecnologia atomica al monster movie. Infatti già nel 1951 con Il continente scomparso (Lost Continent, Sam Newfield, 1951) si racconta di una spedizione scientifica in Nuova Guinea sulla traccia di un razzo nucleare sperimentale caduto su una montagna in cui il tempo sembra essersi fermato, popolata da animali preistorici. Il film di Newfield seguiva le regole del cinema avventuroso ma inseriva nella vicenda la tecnologia nucleare trasformando l’oggetto scientifico nel vero e proprio motore propulsivo della vicenda. Il razzo, dunque l’azione dell’uomo, questa volta non è causa diretta dell’orrore, rappresentata piuttosto dalla scoperta di un mondo popolato da dinosauri e vegetazione preistorica preservati dall’estinzione grazie alla massiccia presenza di uranio. Il minerale e la sua radioattività sono comunque il deus ex machina che aleggia sui destini dei personaggi e, di riflesso, sull’umanità che viene a contatto con l’energia atomica. Non a caso la versione originale del film era girata in verde per le scene ambientate sul monte in cui era massiccia la presenza dell’uranio, proprio per simulare visivamente la minaccia della radioattività, espediente che però è andato perduto per le copie del film destinate all’esportazione. Si comincia così a respirare il timore per l’azione dell’atomica e delle tecnologie che utilizzano la radioattività anche se manca ancora quell’azione distruttiva diretta in grado di rievocare la tragedia di Hiroshima e Nagasaki, quindi la paura per l’incolumità di una grande massa di persone potenzialmente in pericolo in un clima di terrore che si avviava verso la Guerra Fredda. 60

È proprio Il risveglio del dinosauro, dunque, a trasportare questo timore diffuso nei focolari domestici, a drammatizzare in uno scenario di distruzione metropolitana l’azione nefasta della tecnologia nucleare. Il rhedosauro che abbatte palazzi, semina panico al porto, nella main street e poi va a scatenarsi nel luna park di Coney Island è la materializzazione del conflitto tra nazioni che da lì a poco avrebbe potuto realizzarsi, della distruzione su larga scala di cui il mostro atomico è potenzialmente capace. L’impianto spettacolare è chiaramente mutuato dai successi di Il mondo perduto (The Lost World, Harry Hoyt, 1925) e King Kong (id., Merrian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, 1933), ma se in quella pellicola l’umanità era punita in nome dell’avidità e del confronto forzato civiltà-natura, in Il risveglio del dinosauro non è l’uomo che trasporta volontariamente il mostro in città per scopo di lucro, bensì è il mostro che si dirige volontariamente tra i grattacieli in una sorta di spedizione punitiva contro l’uomo e la sua innata propensione all’autodistruzione. Il rhedosauro come materializzazione delle colpe umane, come peste invocata e desiderata che si abbatte su chi ha peccato ma non è ancora consapevole dei propri errori. Infatti il professor Nesbitt (interpretato da Paul Christian), il fisico nucleare che ha assistito al risveglio del mostro, non viene creduto quando avverte della minaccia imminente, è anzi oggetto di scherno da parte dei suoi colleghi e delle alte cariche dello Stato, poiché gli Stati Uniti non hanno ancora imparato a fare i conti con i propri mostri, usciti vittoriosi dalla guerra e in possesso del potere atomico, inconsapevoli delle ripercussioni che tale potere poteva avere sulla comunità nel momento in cui fosse diventato anche di dominio altrui. Al pari di un’esplosione atomica, il rhedosauro porta con se delle conseguenze che vanno oltre la sola distruzione degli immobili, il mostro è portatore anche di pericoli che si abbattono sui sopravvissuti, il suo sangue, infatti, è radioattivo e portatore di germi che fanno ammalare chiunque ne venga a contatto. La presenza del mostro è dunque simile a un fallout nucleare: alla distruzione segue la contaminazione. Assioma estremizzato da Roger Corman nel 1955 con Il mostro del pianeta perduto (Day the World Ended), in cui ci viene mostrata un’umanità post-atomica, costretta a vivere segregata in un bunker, tra litigi e mancanza di acqua e cibo, mentre fuori l’ambiente sta subendo le conseguenze delle radiazioni, con mutazioni che interessano piante, animali e umani stessi. Il successo del film di Lourié getta così le basi per una vera e propria invasione di mostri atomici, che a partire dal 1954 crescono esponenzialmente 61

fino all’apice produttivo toccato nel 1957, quando gli schermi americani sono sovraffollati di animali abnormi mutati dalle radiazioni e pronti a seminare il panico tra la gente. Il primo film a seguire l’orma impressa sul sentiero del cinema fantastico da Il risveglio del dinosauro però non è americano ma giapponese: Godzilla (Gojira, Ishiro Honda, 1954), il mostro radioattivo che nasce proprio dalla volontà della casa di produzione Toho di bissare il successo che il film di Lourié ebbe anche in Giappone. Godzilla è un Gojirasauro, un altro immaginario rettile preistorico sopravvissuto all’estinzione e insediatosi su una misteriosa isola del Pacifico. Gli esperimenti nucleari compiuti dall’esercito americano durante il periodo della seconda Guerra Mondiale investono il rettile e lo fanno crescere di dimensioni, scatenando la sua ira che andrà ad abbattersi su Tokyo. Il significato simbolico di Godzilla è chiaramente ancorato alla tragedia che pochi anni prima aveva investito il Giappone, quelle bombe atomiche che rasero al suolo Hiroshima e Nagasaki e che ancora scottavano l’animo del Paese. Godzilla non è dunque solamente una manovra commerciale per sfruttare il successo di un film occidentale ma anche una rivendicazione sociale, un atto d’accusa contro il popolo possessore del potere atomico. Non a caso, infatti, Godzilla da minaccia diventa un potente alleato del Giappone contro gli invasori esterni; con il passare degli anni e dei film che si innestano sul successo del capostipite, il rettile radioattivo non rappresenta più un veicolo di distruzione per gli abitanti di Tokyo ma diventa un difensore putativo della cultura e della società nipponica dai tentativi di contaminazione che giungono dall’esterno, prontamente rappresentati da una serie di fantasiosi mostri che hanno le sembianze, sempre gargantuesche, di draghi tricefali (King Gidora), falene (Mothra), uccelli preistorici (Rodan), gamberoni (Ebira) e perfino cloni robotici (Mechagodzilla). Perfino King Kong si è trovato ad affrontare il lucertolone radioattivo in Il trionfo di King Kong (Kingu Kongu tai Gojira, Ishiro Honda, 1962), portando così sul ring cinematografico Stati Uniti e Giappone in un simbolico scontro tra culture che nasce come una coproduzione tra i due Paesi e di fatto è un match per sdrammatizzare le tensioni intercorse negli anni passati. Godzilla nasce dall’atomica e si nutre di radiazioni, i suoi poteri legati all’utilizzo della radioattività per infliggere distruzione sono l’affermazione della pericolosità della tecnologia che non solo ha creato un mostro, ma lo ha fornito delle sue stesse armi distruttive, amplificando così la sua pericolosità e accentuando la sua metaforica similarità alla stessa bomba a idrogeno che 62

l’ha generato. Con Godzilla viene inaugurata una lunga serie di film (29 nella saga ufficiale nipponica, un remake americano del 1998 e un ulteriore reboot di produzione statunitense per il 2014) e un vero e proprio sottogenere, il Kaiju eiga, letteralmente il cinema giapponese dei “mostri giganti”, che annovera una moltitudine di draghi, animali preistorici e mutanti che hanno spesso un’origine radioattiva. Tra i molti kaiju eiga esiste anche Frankenstein alla conquista della Terra (Furankenshutain tai chitei kaiju Baragon, Ishiro Honda, 1965), diretto dallo stesso regista del primo Godzilla, in cui si tenta di unire il mito occidentale di Frankenstein con la tradizione nipponica dei film sugli scontri tra mostri. Honda riconduce la furia del novello Frankenstein proprio all’atomica, raccontando come un sottomarino nazista con a bordo il cuore pulsante della creatura di Frankenstein e diretto verso il Giappone rimanga coinvolto nell’esplosione che ha investito Nagasaki il 6 agosto del ’45. Il cuore della creatura, contaminato dalle radiazioni, viene ritrovato e divorato da un giovane che subisce così una repentina crescita, diventando una minaccia per la popolazione. Frankenstein alla conquista della Terra affronta così’ il tema della paura atomica contaminando tradizioni narrative e portando il mostro – che però si chiama Furankenshutai – a scontrarsi con una creatura rettiliforme, Baragon, risvegliatasi dall’ibernazione e pronta a distruggere il Giappone. Il kaiju eiga è così portato alle sue radici e la creatura radioattiva diventa ancora una volta paladina dell’umanità, proprio come era accaduto con Godzilla, in quell’ambiguo gioco che vede l’isola orientale caricarsi di forza sfruttando proprio quella che fu la sua più grande debolezza: l’energia atomica. Il nuovo fondamentale gradino nel panorama cinematografico del fantastico radioattivo è rappresentato da un altro film americano che si pone come evoluzione di Il risveglio del dinosauro in un ideale iter che trasforma la paura convulsiva per l’armamentario nucleare in timore paranoico da Guerra Fredda. Assalto alla Terra (Them! Gordon Douglas, 1954) riprende l’idea già sviluppata nel film di Lourié di mettere a confronto l’umanità con una minaccia animale dalle dimensioni spropositate, collegando il confronto alla tecnologia nucleare. Assalto alla Terra porta in scena delle formiche giganti, rese tali dalle radiazioni conseguenti ai test nucleari effettuati dagli americani ad Alamogordo, nel Nuovo Messico, prima di attaccare Hiroshima. Questa volta l’orrore non viene dal lontano passato, non vengono tirati in ballo animali estinti, bensì formiche, fra gli esseri più piccoli e innocui con cui 63

l’uomo ha quotidianamente modo di confrontarsi. A differenza di Il risveglio del dinosauro, quindi, dove era la stessa esplosione a ridestare il mostro, viene stavolta messa in evidenza l’azione delle radiazioni su lungo periodo. Radiazioni che agiscono come un raggio mutante in grado di modificare la realtà quotidiana e trasformare in mostri predatori degli esseri solitamente innocui per l’uomo. Il cinema si interroga sugli effetti dell’azione atomica su chi non l’ha subita direttamente, quindi non sono la distruzione e la catastrofe a prendere forma sullo schermo, ma la paura e l’inquietudine tipica del cinema dell’orrore, fatto di esseri mostruosi che si insinuano nell’intimità, terrorizzano l’infanzia (la prima testimone dell’orrore è una bambina, trovata in stato confusionale nei pressi di una roulotte distrutta) e strisciano nel sottosuolo. Le formiche di Assalto alla Terra sono organizzate come truppe armate, hanno un leader, sono in grado di costruire trappole e fare prigionieri; come afferma il prof. Medford (Edmund Gwenn), l’anziano mirmecologo che intuisce l’origine della minaccia, le formiche sono gli unici esseri insieme all’uomo a fare la guerra, è nella loro indole. Il parallelismo tra le formiche assassine e i nemici degli Stati Uniti è qui evidente: l’avanzata sovietica che proprio in quegli anni si stava prospettando assume qui i connotati di un attacco inaspettato, sotterraneo (le formiche costruiscono il loro nido nel sistema fognario di Los Angeles), effettuato da qualcuno che in precedenza non era visto come una minaccia. Per di più è l’armamentario atomico a dare loro forza, a farle crescere di stazza, mostrando come l’esclusiva tecnologia bellica sia ormai sfuggita dal controllo statunitense. Douglas fa trionfare l’uomo, l’americano, sul mostro che ha generato e che lo ha minacciato, ma il film non si chiude serenamente, lasciando un inquietante interrogativo sul futuro dell’umanità. Infatti Graham (James Arness), il poliziotto protagonista della vicenda, osservando le ultime formiche bruciare, chiede al prof. Medford «Se la bomba atomica del 64

1945 ha generato questi mostri, cosa sarà successo con le bombe successive?» La presa di coscienza da parte dell’uomo riceve una risposta che annulla ogni eventuale lettura ottimistica dell’opera: «Con lo scoppio della bomba atomica si è aperta una nuova era, nessuno può saperlo». Le parole dell’anziano professore gettano un punto di vista negativo sul futuro a cui l’occidentale sopravvissuto a due guerre mondiali andava incontro, una consapevolezza che si traduce come completa sfiducia nell’azione dell’uomo. Allo stesso tempo, le poco rassicuranti parole di Medford sembrano quasi anticipare ciò che l’industria cinematografica stava preparando agli spettatori, ovvero un’invasione di mostri giganti che proprio dall’ulteriore grande successo di Assalto alla Terra ha preso avvio. Infatti è proprio guardando al film sulle formiche giganti che si sviluppa questo filone fantascientifico e non dal precedente Il risveglio del dinosauro, dal momento che vittime dell’azione dell’atomica sono sempre più spesso piccoli animali normalmente innocui per l’uomo. L’anno successivo ad Assalto alla Terra giungono altri due monster movie destinati a lasciare il segno nel panorama fantastico cinematografico: Tarantola (Taratula, Jack Arnold, 1955) e Il mostro dei mari (It Came from Beneath the Sea, Robert Gordon, 1955). Il primo presenta diversi collegamenti con Assalto alla Terra, dall’ambientazione desertica (lì era il Nuovo Messico, qui l’Arizona) alla natura insettiforme della minaccia; inoltre entrambi i film si aprono con il ritrovamento di un testimone, da una parte una bambina sotto shock, dall’altra uno scienziato orrendamente sfigurato. Ed è proprio questo primo elemento che preannuncia l’orrore a venire che risiede la componente atomica di Tarantola, film che altrimenti è l’unico del filone a non mostrare un collegamento diretto tra il mostro e le radiazioni nucleari. Nel film di Arnold, infatti, il ragno che minaccia l’incolumità degli abitanti del luogo non è stato reso gigante da test nucleari e radiazioni ma da un siero che avrebbe la funzione di combattere la fame nel mondo aumentando la dimensione molecolare del cibo. Gli scopi che muovono il dottor Deemer (Leo G. Carroll) sono dunque nobili, anche se la tradizione ci insegna che quando l’uomo vuole sostituirsi alla natura riesce solo a creare danni. Lo scienziato però presenta tutte le caratteristiche del Mad Doctor caro alla narrativa di genere, compresa la mostruosa creatura generata dai suoi esperimenti, che qui è rappresentata da un’enorme tarantola, cavia che testimonia l’instabilità del suo siero e che, una volta fuggita dal laboratorio, crescerà a dismisura minacciando la vicina città. L’elemento di Tarantola che lo annette al filone dei 65

mostri atomici è la mutazione corporea che il siero genera sugli esseri umani, causando una sorta di acromegalia visivamente molto simile alle mutazioni causate dall’esposizione alle radiazioni. Anche l’ambientazione desertica in cui si svolge l’azione porta immancabilmente alla mente i siti in cui venivano praticati i test nucleari, così da ritrovare nel film di Arnold molte delle caratteristiche che in quel periodo erano associate al monster movie atomico. Allo stesso modo il polipo assassino che compare in Il mostro dei mari non è reso gigante dalle radiazioni, ma lo è di natura. Però nel caso del film di Robert Gordon, è un sottomarino atomico a disturbare il mostro dal suo letargo nella Fossa delle Marianne e sono le esplosioni nucleari in quel luogo ad averlo reso radioattivo, modificando le sue abitudini di caccia. Le sue usuali prede marine, infatti, percependo la sua radioattività fuggono e il mostro è così costretto a trovare altre prede in superficie, tra le quali l’uomo. Ancora una volta la scienza è causa della rivolta del mostro ai danni dell’essere umano e l’avanzata dell’enorme mollusco verso San Francisco e la celebre scena in cui attacca il Golden Gate sono il simbolo della natura che si ribella alla civiltà, continuando quel discorso iniziato con King Kong e portato avanti da Il risveglio del dinosauro. Ragni e piovre giganti continueranno la loro irrefrenabile avanzata verso la soggiogazione dell’umanità, tra scherzi di madre natura, scellerata azione scientifica o addirittura l’azione degli extraterrestri. I primi torneranno già nel 1958 con La vendetta del ragno nero (Earth vs. the Spider, Bert I. Gordon, 1958), in cui un ragno gigante infesta prima una caverna e poi una cittadina americana, e continueranno in una lunga sequela di film che arrivano numerosi fino ai giorni nostri; i secondi, più contenuti di numero, riprendono piede specialmente in seguito al successo internazionale di Lo Squalo (Jaws, Steven Spielberg, 1975) per trovare una riscoperta nel primo decennio del terzo millennio soprattutto con produzioni destinate all’home video. Il 1957 rappresenta il punto di non ritorno del genere monster movie atomico, l’annata di massima concentrazione di titoli, dopo la quale avviene l’immancabile calo produttivo in favore dei film sulle invasioni aliene. Si parte dunque da una paura generata dalle potenzialità espresse o virtualmente esprimibili dall’armamentario nucleare delle due superpotenze e si giunge al timore per le possibilità di un’invasione sovietica, passando così dal rimorso per l’uso della bomba a idrogeno e dalla corsa agli armamenti a una ben più inquietante paranoia xenofoba. Arrivano tutti insieme sul finire degli anni ’50 66

gli ultimi esponenti del terrore atomico, un bestiario di terra, di aria e di acqua che annovera anche esseri umani di dimensioni over size. Proprio questi ultimi rappresentano la novità del filone che Bert I. Gordon tenta di sfruttare al massimo in quegli anni. Il regista, infatti, oltre a La vendetta del ragno nero, realizza The Cyclops (id., 1957) riprendendo in parte l’idea che era alla base di Il continente scomparso e piazzandovi al suo interno un essere umano reso gigante dalle radiazioni dell’uranio. Nel film, infatti, una spedizione composta da scienziati e avventurieri si dirige in Messico per ritrovare una persona scomparsa e verificare la presenza di un giacimento di uranio. Lo scomparso c’è e anche l’uranio, la cui azione radioattiva ha fatto crescere a dismisura la flora e la fauna del luogo, compreso l’uomo che è anche stato reso furioso dal materiale radioattivo. Gordon, utilizzando la stessa intuizione, realizza nel medesimo anno anche il più celebre I giganti invadono la Terra (The Amazing Colossal Man, 1957), in cui si racconta della drammatica crescita corporea di un colonnello dell’esercito rimasto accidentalmente esposto all’esplosione di una bomba al plutonio. La crescita dell’uomo però non coincide con la crescita degli organi interni e la non corretta circolazione sanguigna lo rende aggressivo dal dolore, trasformandolo in una minaccia per l’incolumità dei cittadini. In questo caso il regista si adagia ai canoni del filone e scatena il suo Colosso in un centro abitato, mostrando la sua ira distruttiva in modo simile a quella degli animali mutanti che in quegli anni hanno messo a ferro e fuoco gli Stati Uniti cinematografici. L’idea di rendere lo stesso uomo, per di più un alto esponente dell’esercito americano, la minaccia del film è stata una mossa esplicativa verso la metafora che ha sempre animato questo genere di opere: è l’uomo il vero mostro, ha creato un’arma distruttiva e l’ha usata per fare del male, così ora è destinato a pagarne le conseguenze. L’uomo è il mostro, artefice e fautore del male e a nulla servono i piani risolutivi (alcuni scienziati lavorano a una cura per il Colosso) perché arriveranno sempre troppo tardi, quando ormai il destino dell’uomo è già stato scritto. E infatti gli scienziati riusciranno a trovare una soluzione al gigantismo del colonnello solamente quando il mostro avrà ormai distrutto Los Angeles e trovato la morte cadendo dall’alto di una diga. Bert I. Gordon l’anno seguente realizza anche un sequel, War of the Colossal Beast (1958), mai giunto in Italia, in cui si ipotizza che il Colosso sia sopravvissuto alla caduta con cui si concludeva il film precedente e che si muova nuovamente verso la città, trovando la morte per sua stessa mano (si getta su un traliccio 67

elettrico) consapevole di non avere via d’uscita. Una moda, quella dell’essere umano gigantiforme, che viene replicata da Attack of the 50 Foot Woman (id., Nathan Juran, 1958), dove cambia il sesso del colosso e la causa, non più attribuibile alle radiazioni ma all’intervento di un dispettoso alieno, sancendo così il passaggio di testimone tra filoni fantascientifici. Nel 1994 è stato diretto anche un remake per la tv via cavo al film di Juran, Una donna in crescendo (Attack of the 50 Ft. Woman) diretto da Christopher Guest. Sul versante faunistico le grandi e piccole città americane sono attaccate da ogni sorta di raccapricciante animale. Con un evidente legame di continuità con Il risveglio del dinosauro, La mantide omicida (The Deadly Mantis, Nathan Juran, 1957) viene risvegliata dal suo sonno millenario (è un fantasioso esemplare di mantide preistorica) da un’esplosione atomica al Polo Sud che ha ripercussioni sul Polo opposto, dove l’insetto è ibernato. Come la regola vuole, il mostro si sposta verso la civiltà, lasciando una scia di distruzione prima di attaccare un grande centro abitato ed essere distrutto dai soldati. La mantide omicida è l’esponente del filone che maggiormente si concede all’esaltazione della nazione, tanto che potrebbe essere intrapresa una lettura propagandistica a favore dell’apparato di difesa degli Stati Uniti proprio in un periodo in cui le ostilità col blocco sovietico stavano facendosi ben note. Il film di Juran comincia con una voce fuori campo che spiega il sistema radar della difesa americana, con tanto di grafici e didascalie esplicative; inoltre, più che in altri film del filone, l’esercito statunitense è presente e pronto a intervenire, riuscendo a risolvere il problema con un happy end in puro stile Hollywood classica, che mostra la coppia protagonista della vicenda in un abbraccio consolatorio mentre il mostro giace al loro fianco. La mantide rappresenta il nemico proveniente dall’esterno e dotato di pericolose armi in grado di minacciare la stabilità e la sicurezza degli Stati Uniti. Come le formiche di Assalto alla Terra, la mantide sa fare guerra, ha lame mortali come estremità delle zampe e, in più, può volare, estendendo così il suo dominio anche sull’aria, controllando lo spazio aereo e sferrando pericolosi attacchi dall’alto. In modo simile alla tarantola del film di Jack Arnold, c’è una scena in cui il mostro osserva le sue vittime dalla finestra prima di fracassare la parete e attaccare. Gli invasori osservano le loro vittime, gli sono vicini e non si accorgono della loro presenza fino a quando non è ormai troppo tardi. Sembra che il film di Nathan Juran voglia trasmetterci questo pericolo, prima di mostrare come chi veglia su di noi ha comunque le potenzialità di debellare la minaccia. 68

La potenzialità metaforica di La mantide omicida si accentua in L’assalto dei granchi giganti (Attack of the Crab Monsters, Roger Corman, 1957) in cui i mostri sono esplicitamente senzienti. Su un atollo del Pacifico, in cui è stato da poco effettuato un test atomico, scompare un team di scienziati, sulle cui tracce si mette una spedizione. La causa della scomparsa sono un branco di granchi resi giganti e aggressivi dalle radiazioni ma che hanno anche la facoltà di imitare la voce umana e un’intelligenza sviluppata, grazie all’essersi nutriti dei cervelli degli scienziati scomparsi. Corman sostiene che il mostro, pur presentando le caratteristiche animali, è umano a tutti gli effetti: ragiona, ha possibilità di escogitare trappole proprio come farebbero gli esseri umani e può perfino imitarli nelle voci, oltre che in alcuni tratti somatici. I granchi assassini sono l’anello di congiunzione tra l’animale e l’umano e hanno conservato le peggiori caratteristiche di entrambe le specie. Quasi un’evoluzione del mutante che infestava la superficie toccata dalle radiazioni in Il mostro del pianeta perduto, anch’esso senziente ma dal fare paradossalmente più animalesco e selvaggio. Giunti all’apoteosi del filone, in cui la sola presenza di un mostro gigante era sinonimo diretto di intervento umano sulla natura, gli sceneggiatori cominciarono a risparmiare sulle spiegazioni scientifiche, inserendo i loro insettoni in contesti di quotidianità che non necessitavano di esplosioni atomiche e radiazioni varie. Il pretesto scientifico era ormai insito nel genere stesso, lo spettatore l’aveva assimilato e la sua sospensione dell’incredulità era già predisposta ad accettare che mostri fantastici minacciassero l’umanità. I tempi del risveglio del dinosauro sono ormai passati, i testimoni non hanno più bisogno di convincere le masse incredule dell’esistenza di una creatura fantastica, la presenza dei mostri è accettata in modo quasi naturale, come se i personaggi dei film fossero ormai abituati a vivere in un mondo popolato da creature giganti. Gli scenari della prolifica saga di Godzilla sono esplicativi della situazione: il popolo di Tokyo è costantemente sottoposto agli attacchi dei mostri mutanti ed extraterrestri e hanno eletto lo 69

stesso Godzilla a difensore della loro società, lo riconoscono, lo salutano e non lo temono più. Il lucertolone radioattivo da minaccia per l’Oriente ne è diventato paladino, da simbolo del terrore nucleare e delle sue conseguenze a icona pop stampata sulle t-shirt. Il monster movie si tinge di ironia, invece di spaventare gli spettatori mira a farli divertire, come testimonia anche l’introduzione di Pacific Rim (id., Guillermo Del Toro, 2013), dove con un’abile ellissi temporale ci viene mostrato come i mostruosi Kaiju siano diventati fenomeno commerciale prima che pericoli per l’umanità, con tanto di linee di giocattoli per bambini e merchandising vario. E quando il dottor Rogers (Hans Conreid) messo di fronte ai vermi giganti di Il mostro che sfidò il mondo (The Monster That Challenged the World, Arnold Laven, 1957) esclama «This is a science fact, not science-fiction!» possiamo leggere una marcata vena di autoironia. Il genere riflette su se stesso e ci tiene a far notare che per i personaggi dei film sono immersi in un mondo in cui la fantascienza è scienza e l’atomica ha sconvolto l’ecosistema e gli esseri che lo abitano. Una puntualizzazione che da sola, dunque, è capace di riscattare qualunque ripetitiva spiegazione scientifica. I vermi acquatici preistorici di Il mostro che sfidò il mondo sono risvegliati da un maremoto, gli scorpioni giganti di Lo scorpione nero (The Black Scorpion, Edward Ludwing, 1957) emergono dalle viscere della terra in prossimità di un vulcano in seguito a un violento terremoto, il ragno di La vendetta del ragno nero fugge dalla sua tana sita nel sistema di grotte che attraversa il sottosuolo della città. La Terra sembra rigettare le sue aberrazioni, le scatena contro l’uomo colpevole di aver violato la Natura. Se l’essere umano ha mutato la struttura molecolare degli animali e ha risvegliato mostri preistorici, la Natura imita il modus operandi dell’uomo e libera le sue bestie in una sorta di pulsione vendicativa. Quando il mostro di La vendetta del ragno nero viene creduto morto ed esibito in un museo è la musica rock di una piccola band che fa le prove a risvegliarlo. E con questo ultimo e ironico tentativo di restituire all’ingegno umano l’origine della minaccia, ormai avulsa da implicazioni politico-scientifiche e completamente fagocitato dalla cultura pop, si chiude la stagione del monster movie di origine atomica. Da scienziati e colonnelli dell’esercito si dà così la possibilità di scatenare i mostri perfino a un gruppetto di giovani con la brillantina sui capelli e i pantaloni stretti fino alla caviglia, in un processo di svalutazione e massificazione del potere distruttivo dell’essere umano. 70

Un tentativo di ridonare dignità al filone arriva tardivo nel 1959 dallo stesso Eugène Lourié, in co-regia con Douglas Hickox, intenzionato a replicare la formula – e dunque il successo – di Il risveglio del dinosauro. Il contesto produttivo questa volta è differente, si passa dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, e anche le location si adattano, ambientando l’azione in Cornovaglia. Il drago degli abissi (Behemoth the Sea Monster, Eugene Lourié e Douglas Hickox, 1959) prende in prestito il Behemoth biblico (menzionato in Giacobbe, 40,1524) e lo annette in modo indiretto alla leggenda del Mostro di Loch Ness. Il drago degli abissi si apre con una moria di pesci in un lago della Cornovaglia e la causa sembra attribuibile alle radiazioni atomiche che hanno inquinato le acque e che stanno contaminando anche i pescatori. Quando gli abitanti del luogo affermano di aver visto un mostro ergersi dall’acqua, la minaccia si estende anche fuori dal lago e si dirige verso Londra. Con il film di Louré e Hickox si torna al terrore da radiazioni, il mostro preistorico (che nel film è identificato come paleosauro ma nell’aspetto ricorda un brontosauro) è stato presumibilmente svegliato dal suo letargo proprio dall’energia atomica che, oltre a uccidere le creature del mare e contaminare con effetti ustionanti anche i cittadini, ha dotato il mostro di armi letali. Il paleosauro, infatti, emette una luce radioattiva ed è portatore della stessa sostanza venefica che ha contaminato l’acqua e le persone che ne sono venute a contatto, un’arma distruttiva pronta a mettere a ferro e fuoco la capitale inglese prima di essere fermato da uno scienziato americano. Tutto torna alla normalità, o così sembra, dal momento che anche in America si verifica una nuova moria di pesci, nefasto presagio che la contaminazione radioattiva si è estesa ed è pronta a scatenare chissà quale altro mostro. La struttura circolare che incornicia Il drago degli abissi sembra un’allegoria della posizione temporale produttiva del film, nato come nuovo inizio per il filone monster movie e intenzionato a rilanciarlo citando le origini. Infatti, oltre agli evidenti omaggi a Il risveglio del dinosauro, Il drago degli abissi sembra volersi accostare anche a Il mondo perduto del 1925, film da cui ogni cosa ha avuto origine, nella rappresentazione del mostro, un brontosauro creato dallo stesso leggendario effettista Willis O’Brian. Un tentativo di inaugurare una nuova era di monster movie riferendosi al passato che però non ha avuto reale seguito, dimostrazione che le paure stavano cambiando e gli spettatori chiedevano nuove distruttive minacce con le quali esorcizzare la realtà. L’infinitamente grande dei mostri radioattivi generato dall’infinitamente piccolo dell’energia scaturita dalla scissione nucleare ha contraddistinto con 71

prepotenza un decennio e sarà rivisitato di tanto in tanto negli anni successivi fino ai giorni nostri, ma l’azione distruttiva dell’uomo e della scienza in particolare hanno dato vita a minacce differenti dall’energia atomica. Una moltitudine di pericoli che hanno cavalcato i decenni del cinema di fantascienza.

Natura contro: dinosauri, virus e… zombie!

Quando l’uomo sfida la Natura, quest’ultima si ribella e scatena verso il suo aggressore ogni tipo di piaga in suo potere. L’uomo sa bene a cosa va incontro, viene prima ammonito e poi, in ultimo appello, eliminato; malgrado ciò l’uomo si contrappone continuamente alla Natura in paradosso alla sua indole autoconservativa e il cinema fantastico l’ha sottolineato più volte mostrando le catastrofiche conseguenze che ciò può generare. Una lettura vendicativa della Natura è infatti facilmente applicabile a una grande parte dei film di genere fantastico che raccontano di minacce terrestri al genere umano, in modo da sottolineare pessimisticamente l’indole distruttiva dell’essere umano, una distruzione perpetrata verso l’altro ma che si ripercuote immancabilmente su se stesso. Nel cinema di fantascienza la rivolta della Natura innescata dall’azione dell’uomo è stata centrale fin dai monster movie degli anni ’50. Per lo più si trattava di minacce animali, mutanti generati dalla scienza e simbolo dell’azione scellerata dell’essere umano; negli anni che seguirono, però, lo sguardo sul tema si allargò, non si utilizzò solo la scienza come veicolo del nefasto agire umano, ma si puntò all’indole distruttiva dell’uomo in maniera più generica, centrando l’attenzione spesso sulle sorti del pianeta messo in pericolo dal comportamento dell’uomo. Si passa dunque da un paradigma che pone come pericolo un essere mostruoso specifico, a una più generale azione nefasta della natura sull’uomo, dal Bug-Eyed Monster alla fantascienza ecologica. Come per i mostri giganti della fantascienza atomica, però, anche nel cinema di genere che ha seguito, l’uomo viene messo sempre al centro della vicenda: il suo intervento come causa scatenante del pericolo. La metafora della ritorsione della natura verso il suo violentatore è al centro di Gli Uccelli (The Birds, Alfred Hitchcock, 1963), un dramma a tinte fanta-horror che racconta una probabile e imminente apocalisse prendendo come punto di partenza la rivolta degli uccelli contro l’uomo. Hitchcock tra72

sforma l’omonimo racconto del 1953 scritto da Daphne du Maurier in un’all’allegoria della fine del genere umano, in procinto di essere sopraffatto dalla Natura vendicativa, che scatena così le sue armi. Hitchcock non fornisce spiegazioni riguardo la furia dei pennuti, non c’è una logica dietro l’aggressività di corvi e gabbiani e, soprattutto, questa volta non sopraggiunge nessuna causa scientifica. Il mondo animale si ribella e lo fa con la semplicità e la flemma di uno stormo di corvi che aspetta immobile e gracchiante l’uscita allo scoperto di quei pochi esseri umani che il film erge a rappresentanti della razza. Annoiati esponenti della classe medio-alta americana, inquadrati nelle loro faccende quotidiane che sfociano ben presto nell’insolito. Un insolito che minaccia la famiglia, i bambini (esemplare a riguardo la scena in cui gli uccelli aspettano l’uscita dei bambini dalla scuola), i membri più deboli di una società non ancora pronta a pagare per le sue colpe. Stavolta non si tratta di esseri irragionevoli e furiosi come potevano essere i mostri giganti della fantascienza atomica, ma agenti di un ipotetico giorno del giudizio che aspettano al varco muniti di calma e sicurezza. Non a caso alcuni uccelli in molte culture sono degli emissari dell’aldilà, psicopompi incaricati di aiutare le anime dei morti a giungere nell’Oltretomba. Così nel film di Hitchcock proprio la miriade di pennuti rivoltosi è la prima manifestazione della fine dell’umanità; una fine non ancora decretata, però, dal momento che lo stesso regista preferì non solo evitare un finale consolatorio al film, ma escludere il the end prima dei titoli di coda – all’epoca una prassi – proprio per lasciare una sensazione di apertura narrativa alle sorti dei personaggi e dell’umanità con loro. Nel 1994 è stato prodotto un sequel per tv, Gli Uccelli II (The Birds II: Land’s End, Rick Rosenthal, 1994) che fa cenno agli eventi accaduti nel film precedente per mostrare una nuova inspiegabile rivolta degli uccelli. Una spiegazione viene fornita invece in Uccelli 2 – La paura (El ataque de los pàjaros, René Cardona Jr., 1987), sequel apocrifo al film di Hitchcock, che esplicando l’assunto metaforico dell’idea d’origine riconduce la rivolta degli uccelli proprio all’azione nefasta dell’uomo sull’ecosistema, al maltrattamento sugli animali e all’inquinamento dilagante. Un’irrazionalità del sovvertimento naturale simile a quella portata in scena da Hitchcock è ravvisabile in diversi altri film che mostrano lo scatenarsi delle creature della Terra contro l’irruenza umana. Frogs (id., George McCowan, 1972) descrive la rivolta di una varietà di animali da palude (dalle rane del titolo a serpenti, lucertole e coccodrilli) ai danni di alcuni esponenti della 73

borghesia americana stanziati in una villa isolata. Lo slogan del film ammoniva «Prima che l’uomo distrugga la natura, milioni di rettili annienteranno l’umanità!», riassumendo così le motivazioni che spingono le creature del film a fare guerra all’uomo, anche se poi McCowan tenta la carta dell’astrazione motivazionale come in Gli Uccelli, prestando però più attenzione al linguaggio del terrore e del disgusto proprio di un certo cinema dell’orrore. Similmente la Natura si ribella all’uomo che la viola in Long Weekend (id., Colin Eggleston, 1978) e del suo remake dallo stesso titolo (Jamie Blanks, 2008), in cui una coppia di coniugi in campeggio su una spiaggia isolata prima inquina e deturpa l’ambiente, poi subisce la vendetta degli elementi e delle creature dell’ecosistema, viaggiando sempre sulla metafora ecologica esplicita. Più ermetico nel suo ancorarsi a riflessioni filosofiche sul valore della vita e sulla caducità della condizione umana, Fase IV – Distruzione Terra (Phase IV, Saul Bass, 1973) cerca anche di fornire una causa fantascientifica alla misteriosa rivolta delle formiche contro il genere umano. Gli scienziati che indagano sull’accaduto tramite l’Istituto Nazionale di Ricerca trovano un’origine a tutto in un innaturale movimento astrale e a una conseguente eclissi, a cui però non riescono a dare una spiegazione vera e propria. Le formiche si organizzano e si preparano a fare guerra all’uomo, distruggono fattorie divorandone animali e fattori, ma stavolta non si tratta di mutanti giganti come in Assalto alla Terra, ma di semplici formiche mosse da uno scopo bellico forse mirato all’estinzione umana. La Fase III nella storia dell’evoluzione corrisponde all’avvento della razza umana, la Fase IV del titolo anticiperebbe, dunque, l’uscita di scena dell’uomo e l’avvento di una nuova razza. Una summa delle ansie ecologiche che hanno mosso la realizzazione di questi film arriva in tempi recenti con E venne il giorno (The Happening, M. Night Shyamalan, 2008), in cui però non troviamo nessuna specie animale impegnata a minacciare l’uomo, bensì lo stesso essere umano carnefice diretto di se stesso, in preda alla perdita del basilare istinto di conservazione. L’estremizzazione della tematica intrapresa da Shyamalan ritorce sull’essere umano stesso tutti i pericoli fino a quel momento esternati in esseri del mondo animale. Non c’è spiegazione agli eventi come da lezione hitchcockiana: improvvisamente qualcosa cambia nelle persone, si bloccano e poi cominciano a muoversi al contrario, appaiono apatiche e poi immediatamente alla ricerca di un modo per mettere fine alla loro esistenza. C’è chi si conficca un ferro 74

per la maglia nel collo, chi si getta da un palazzo in costruzione e chi si scaraventa contro un albero con l’auto in corsa; una folata di vento anticipa il cambiamento, la perdita della voglia di vivere e sembra che il fenomeno sia più frequente nei luoghi in cui prevale il verde degli alberi e nei gruppi di persone più numerose. Forse è una tossina diffusa nell’aria da una cellula terroristica (siamo nell’era post 11 settembre) o forse, come sembra volerci suggerire il regista, una vendetta della natura sull’uomo. Non c’è comunque spiegazione agli eventi: così come tutto è iniziato, improvvisamente finisce, anche se le ultime scene ci indicano che la storia è pronta a ripetersi altrove. Partendo da questa premessa per cui l’uomo è identificato come minaccia per l’ecosistema e messo al centro di una diffusa campagna di eliminazione, il cinema di fantascienza ci ha comunque fornito una vasta gamma di cause umane alle stesse minacce che mettono in pericolo l’incolumità dell’uomo. Minacce che si materializzano dall’uso scellerato della scienza, dell’ingegneria genetica in particolare, che porta alla creazione di esseri letali ma anche di agenti patogeni che minano la sopravvivenza dell’essere umano. Virus mortali che decimano la popolazione o la rielaborano in un ordine sovvertito che rivela la natura distruttiva dell’uomo. Un esempio bizzarro di fanta-film che utilizza l’ingegneria genetica per ammonire dai pericoli che può generare la manipolazione scientifica della natura è La notte della lunga paura (Night of the Lepus, William F. Claxton, 1972), tratto dal romanzo The Year of the Angry Rabbit (1964) di Russel Braddon. La minaccia è sempre di natura animale, ma stavolta i protagonisti della vicenda hanno a che fare con un branco di feroci conigli giganti. Animali ben poco temibili per l’uomo, dunque, ancor meno della varietà di insetti che hanno affollato i monster movie anni ’50, dal momento che non è consuetudine associare un atteggiamento di aggressività ai conigli. L’intuizione dello sceneggiatore Don Holliday risiede soprattutto qui: riuscire a far paura con una delle creature più mansuete del mondo. Un’intuizione che è peculiare del film, dal momento che il romanzo di Braddon aveva ben altri intenti e apparteneva a un genere perfino differente dal monster movie. The Year of the Angry Rabbit, infatti, si incentrava su un virus che, creato per sterminare i conigli in eccesso, si rivela fatale per l’essere umano: un ministro australiano corrotto decide di usare tale virus come arma per ricattare le altre nazioni, minacciando di diffondere il virus se non riceverà un compenso economico. Da tutt’altra strada va il film di Claxton che partendo da una pre75

messa simile (alcuni scienziati sperimentano un siero composto da ormoni animali più sangue di coniglio geneticamente modificato per limitare la prolificazione dei conigli) si dirige sulla carreggiata del film di mostri giganti, molto in sintonia con le produzioni degli anni ’50. I conigli su cui è stato sperimentato il siero vengono liberati dalla figlia della coppia di scienziati che lavorano al caso; ma il siero è instabile e i conigli non solo sono perfettamente in grado di riprodursi, ma crescono a dismisura rivelandosi pericolosi per gli altri esseri viventi. L’ambientazione è quella desertica classica dei monster movie stile Tarantola e Assalto alla Terra e si passa dalle lande australiane del romanzo ai paesaggi polverosi dell’Arizona, locando negli Stati Uniti l’azione. Malgrado lo spettatore possa faticare inizialmente a prendere sul serio una vicenda simile, l’abilità narrativa di Claxton trasmette sia la critica allo scriteriato uso della manipolazione genetica, anche se a fin di bene, che la tensione utile ad inserire questo film all’interno del suo genere. L’uso della paradossale minaccia di un animale solitamente innocuo è utilizzata fino all’eccesso grottesco anche in Black Sheep – Pecore Assassine (Black Sheep, Jonathan King, 2006), un film neozelandese che, come da titolo, trasforma in mostri sanguinari delle mansuete pecore. L’origine è anche in questo caso da individuarsi nell’ingegneria genetica, il cui scopo originario era quello di migliorare la quantità e la qualità della carne ovina con effetti collaterali che implicano una insolita aggressività negli animali e un cambiamento delle loro abitudini alimentari: da erbivori a carnivori. Inoltre le pecore assassine di Black Sheep trasmettono il morbo all’uomo attraverso il morso, causando una mutazione che trasforma le vittime in pecore mannare. A differenza del film di Claxton, come è ovvio, Black Sheep sceglie il registro della commedia demenziale che sfocia spesso e volentieri nello splatter, pur non tralasciando una base di critica sociale specialmente rispetto alla pratica scientifica per scopi alimentari. Il dito di Jonathan King sembra puntare soprattutto contro i recenti focolai di malattie trasmesse dal consumo di carne 76

da allevamento. L’encefalopatia spongiforme bovina (BSE), comunemente conosciuta come morbo della mucca pazza, e l’H5N1, l’influenza aviaria, su tutti; virus che attaccano il sistema animale e poi si trasmettono all’uomo, come esasperato nel film di King. È stata l’azione dell’uomo a creare il virus della mucca pazza alterando il metabolismo bovino con farine di origine animale, dunque sempre all’uomo è imputabile la causa dei propri mali, come poi più esplicitamente illustreranno altri film che si collegano proprio alla BSE per virare su altri pericoli che vanno dalla mutazione delle stesse mucche in mostri assassini deformi, come accade in Isolation – La fattoria del terrore (Isolation, Billy O’Brien, 2005), fino alla causa primaria di un’epidemia di zombi, come descritto in Dead Meat (id, Conor McMahon, 2005), The Mad (id., John Kalangis, 2007) e Benvenuti a Zombieland (Zombieland, Ruben Fleischer, 2009). La scienza viene dunque usata prima di tutto per scopi relativamente nobili, come il tentativo di salvare le colture afflitte dai conigli selvatici in La notte della lunga paura oppure aumentare la produzione di carne come in Black Sheep. In Mimic (id., Guillermo Del Toro, 1997) la motivazione che muove la dottoressa Susan Tyler (Mira Sorvino) è indiscutibilmente encomiabile. I bambini di New York si ammalano di una mortale forma di influenza che sembra provenire dagli scarafaggi, così la dottoressa Tyler crea in laboratorio una nuova specie di insetti portatori sani di un virus che uccide gli altri scarafaggi e genera un antigene che cura la malattia. I nuovi insetti si chiamano Judas, «nomen omen» che designa la loro funzione prima per la loro stessa specie, poi per l’uomo che ne subirà la furia assassina provocata dalla loro mutazione. Infatti alcuni anni dopo, quando ormai la parentesi influenzale sembra chiusa, rispuntano fuori i Judas disseminati nei bassifondi della città, che nel frattempo sono cresciuti a dismisura e hanno imparato a imitare l’uomo nell’aspetto e nel comportamento. Partendo da un racconto di Donald A. Wollheim, Del Toro ci racconta come sia facile che la creatura sfugga al controllo del suo creatore, una sorta di novello Frankenstein che da una parte guarda ancora una volta al vecchio monster movie, dall’altro all’Apocalisse biblica. Se i riferimenti ai film con gli insetti giganti sono ovvi, anche se stavolta i mostri non hanno le dimensioni di una casa e non radono al suolo la città, i riferimenti ai testi sacri vanno oltre il semplice nome dato agli insetti antigeni, i Judas. Poiché la moria di bambini ad opera degli scarafaggi sembra echeggiare lo sterminio degli innocenti ordinato dal Re Erode 77

e raccontato nel Vangelo di Matteo, così come nell’Apocalisse di Giovanni allo squillo della quinta tromba escono dall’Abisso delle gigantesche cavallette che «sulla testa avevano corone che sembravano d’oro e il loro aspetto era come quello degli uomini» (Apocalisse 9,7), proprio come i Judas di Mimic che hanno sviluppato capacità imitative incredibili. I Judas nascono per fare del male ai loro simili e sono nell’aspetto degli insetti; nel momento in cui si sviluppano e concretizzano la loro volontà di fare del male all’uomo, suo creatore, assimilano il suo aspetto. La creatura si identifica nel creatore, il Male sembra imitare altro male in un gioco di riferimenti che riconduce sempre all’uomo e alla scienza l’origine del pericolo. La volontà di identificare il Giuda degli scarafaggi con lo stesso essere umano sembra aumentare in Mimic 2 (id, Jean de Segonzac, 2001), in cui uno dei Judas sopravvissuti si innamora di una donna e per arrivare a lei uccide tutti i suoi rivali in amore, fino all’imitazione totale finale in cui il mostro riproduce le fattezze umane in modo più realistico che in passato, indossa vestiti e si presenta alla donna brandendo un mazzo di fiori in un’immagine grottesca che ha quasi della parodia. Tra i film economicamente più fortunati ad aver denunciato la volontà dell’uomo di sostituirsi alla divinità attraverso l’ingegneria genetica c’è Jurassic Park (id., Steven Spielberg, 1992), in cui viene ulteriormente riproposto ed inasprito il conflitto tra natura e cultura, attraverso l’inserimento in un contesto tipicamente civile (un parco tematico) degli stessi dinosauri, dopo i fasti di Il risveglio del dinosauro ed epigoni. Nel film di Spielberg, però, i rettili preistorici non sono risvegliati da letarghi millenari, né popolano zone terresti sconosciute all’uomo, né tantomeno giungono da altri pianeti come accadeva in Il pianeta dei dinosauri (Planet of Dinosaurus, James K, Shea, 1978). Piuttosto i mostri vengono prodotti per azione diretta dell’uomo che li ricrea in laboratorio attraverso un processo biotecnologico. Basandosi su un celebre romanzo di Michael Crichton, Jurassic Park ci mostra come sia ipoteticamente possibile riportare in vita i dinosauri grazie al loro DNA contenuto nelle zanzare preistoriche fossilizzate nell’ambra e poi combinato con quello degli anfibi odierni per completare i filamenti danneggiati dal tempo. Una procedura certamente fantascientifica ma descritta con la perizia di un dato scientifico reale ed eseguita in laboratori attrezzati da un miliardario che vuole aprire un parco tematico: uno zoo preistorico. E infatti i dinosauri di Jurassic Park, seppur creature feroci in libertà e letali predatori di uomini, non vengono descritti 78

come le minacce mostruose del cinema del passato, ma come animali, al pari di tigri e leoni. L’approccio zoologico al monstrum del film di Spielberg aiuta lo spettatore ad entrare nella vicenda con più naturalezza, ad andare oltre la tematica fantascientifica e collegare i mostri all’universo naturale forzato dall’azione umana. In fin dei conti in questo film la denuncia al progresso scientifico è chiara, un voler osare che non porta minimamente rispetto a Madre Natura. Sono gli stessi personaggi del film, infatti, a ribadirlo, postulando che la mancanza di prevedibilità del sistema naturale può ritorcersi contro l’uomo. E infatti i dinosauri liberatisi dalle proprie recinzioni cominciano a dare la caccia agli umani che sono presenti sull’isola dove si svolge l’azione, poiché una volta innescata una nuova via all’affermazione di un ecosistema è difficile fermarla. Un ecosistema perfettamente autonomo, creato dall’uomo imitando la Natura e capace di affermarsi anche senza la presenza dell’uomo stesso, che anzi è percepito come una minaccia, un intruso in un mondo che non gli appartiene più. «Quando i dinosauri dominavano la Terra», recita il drappo nella sala principale del parco messa in subbuglio dalla furia del Tirannosauro, un ritorno al passato come a voler sottolineare che ormai per l’uomo non c’è più posto in un ecosistema che lo esclude per ovvie ragioni naturali, anche se è stato l’uomo stesso a imporlo. Spielberg – e Crichton prima di lui – paga il suo omaggio al cinema del passato con il sequel Il mondo perduto – Jurassic Park (The Lost World: Jurassic Park, Steven Spielberg, 1997) che fin dal titolo richiama esplicitamente il romanzo di sir Arthur Conan Doyle del 1912 e, dunque, il film del 1925 diretto da Harry Hoyt. Il mondo perduto – Jurassic Park si collega direttamente al film precedente raccontando di un’altra isola, il cosiddetto sito B, dove i dinosauri venivano allevati prima di essere portati nell’isola in cui doveva sorgere il parco. Uno dei protagonisti dell’avventura precedente, il matematico Ian Malcom (interpretato da Jeff Goldblum), è incaricato da John Hammond, creatore dei dinosauri, di andare sull’altra isola per documentare la presenza della fauna preistorica in modo da salvaguardare quel luogo come riserva naturale. Ovviamente Spielberg sottolinea la natura inospitale del luogo e le minacce che lo popolano fino al climax finale che, riprendendo l’idea del Mondo perduto originale, ci mostra un Tirannosauro tra la popolazione di San Diego. Da Doyle a King Kong, quando la natura si scontra con la civiltà è quest’ultima ad avere la peggio, anche se tra mille difficoltà è l’ingegno umano a sovrastare la furia distruttiva animale. A differenza di King Kong e in coerenza con l’origine doyleiana, il dinosauro 79

di Jurassic Park non viene ucciso dagli artefatti umani, dalla tecnologia e dal progresso, ma viene semplicemente restituito al suo ecosistema atipico. Invece Ludlow, l’uomo d’affari nipote di Hammnond che ha avuto l’idea di lucrare esponendo il dinosauro in città, viene punito, divorato dalla stessa creatura che avrebbe dovuto portargli fama e denaro. Il trionfo dei buoni sentimenti spielberghiani sembra però estraneo a Carnosaur (id., Adam Simon e Darren Moloney, 1993), horror prodotto dalla New Horizons di Roger Corman proprio per cavalcare l’onda del successo del film di Spielberg. Corman, che è un veterano del monster movie anni ’50, decide di prendere da Jurassic Park la sola idea del dinosauro ricreato in laboratorio e immerge il tutto in un contesto più vicino alla realtà quotidiana con location metropolitana e persone comuni poste a fronteggiare la minaccia giunta dall’ingegneria genetica. Ispirato molto liberamente al romanzo Carnosaur (1984) di John Brosnan, il film diretto da Simon e Moloney parte da premesse tanto originali quanto eccentriche: la dottoressa Tiptree (Diane Ladd) lavora per la Eunice Corporation, un istituto di ricerca che mira a migliorare la qualità delle carni animali. La donna però sta manipolando il DNA dei comuni polli da allevamento combinandolo con quello dei dinosauri. Il suo scopo è far nascere dei piccoli rettili da uova di gallina e, in un secondo tempo, di riuscire ad innestare lo stesso seme nell’utero umano con un virus generato dagli stessi mostri, così da dar vita a una nuova razza capace di dominare la Terra. Ovviamente la folle dottoressa riesce nel suo primo intento e, in parte, nel secondo, portando alla luce un mini-tirannosauro che una volta libero comincia a seminare il panico tra la popolazione. Il delirante script di Adam Simon collega il discorso sull’ingegneria genetica animale con quello dell’eugenetica rendendo protagonista negativa della vicenda una «Mad Doctor» che si ricollega perfettamente alla tradizione fantascientifica ottocentesca. La dottoressa Tiptree è talmente accecata dalla sua convinzione a sostituire l’umanità con una non ben definita razza di rettili che non esita a sperimentare il virus su se stessa, partorendo un piccolo dinosauro che finirà per divorarla subito dopo essere venuto al mondo. Il creatore che si sacrifica per la sua creatura, l’estrema dedizione dell’essere umano alla ricerca scientifica che finisce letteralmente per divorarlo. La denuncia sociale nel film di Simon e Moloney sembra marginale rispetto agli effetti sanguinolenti che fanno di Carnosaur un derivato di serie B per adulti di Jurassic Park. Malgrado ciò il film della factory di Corman non dimentica alcune efficaci ri80

flessioni sociali. Tra le prime vittime del dinosauro c’è una piccola comunità di hippy manifestanti, simbolo del passato liberale e contestativo dell’occidente e in perfetta antitesi con il progresso scientifico in atto. Il tirannosauro divora gli ambientalisti; la scienza, che ha le fattezze di un mostro venuto dal passato, distrugge i sogni degli americani che desiderano un contatto con la natura: l’uomo usa la scienza per distruggere la natura, sfidandola e colpendo a morte i suoi emissari. In fin dei conti in Jurassic Park c’era una riflessione chiarificatrice sul ruolo dell’uomo nel panorama scientifico attuale. Ian Malcom, infatti, dice con il suo riconoscibile sarcasmo: «Dio crea i Dinosauri. Dio distrugge i Dinosauri. Dio crea l’Uomo. L’Uomo distrugge Dio. L’Uomo crea i Dinosauri. I dinosauri mangiano l’uomo». Sottolineando così l’impresa riuscita da parte dell’essere umano di uccidere con il suo ingegno l’entità che lo ha generato, così come la sua creatura, artificio della scienza, è destinata ad uccidere l’uomo stesso in un moto circolare inarrestabile. Ma il collegamento con il film di Spielberg non si ferma allo spunto iniziale, bensì si punta a un inglobamento sottocutaneo che cerca di creare un reale grado di parentela tra le due opere. Questo avviene grazie alla partecipazione di Diane Ladd al film, che nella vita reale è la madre di Laura Dern, ovvero la paleobotanica Ellie Sattler di Jurassic Park. I due film si pongono un po’ come due facce della stessa medaglia, uno rappresenta la Hollywood più in, con grandi mezzi produttivi, incasso garantito e destinato a fare la storia del cinema; il secondo appartiene al circuito underground, piccoli mezzi e visibilità più limitata, con un futuro da cult per un pubblico di nicchia. Carnosaur si conclude con gli agenti governativi che, scoperto il piano della dottoressa, eliminano tutti i testimoni, compresi i protagonisti positivi della vicenda, impossessandosi del virus che favorisce la gravidanza mutante. I ricchi e potenti hanno così l’umanità in pugno e a rimetterci sono in primis coloro che lottano per i propri ideali in una negazione dell’happy end che impedisce di creare una prospettiva positiva sul futuro, do81

minato da istituzioni corrotte e potenzialmente distruttive. Il punto di vista cambia nei sequel, Carnosaur 2 (id., Louis Morneau, 1995) e Carnosaur 3 – Primal Species (id., Jonathan Winfrey, 1996) che, mescolando Jurassic Park con la struttura narrativa di Alien, pongono al centro della storia una squadra armata al soldo dei servizi segreti (Carnosaur 2) e un gruppo di terroristi (Carnosaur 3) che devono vedersela con i dinosauri (stavolta principalmente velociraptors) mutati dall’azione radioattiva dell’uranio. Un rimando senza tempo alle ragioni di denuncia che muovevano i monster movie atomici di metà Novecento in un eterno ritorno cinematografico che unifica i timori di fine millennio. Uno dei risultati più frequenti della manipolazione genetica, a sentire il cinema e la letteratura di genere, è la creazione di virus, armi batteriologiche in grado di mettere in ginocchio l’umanità in modo silenzioso ma altamente letale. La paura del contagio, di un nemico invisibile che può cogliere impreparato e uccidere in qualunque momento, lentamente, è una vera costante nel cinema fantascientifico degli ultimi quarant’anni. Antesignano di questa tendenza può essere considerato Satan Bug (The Satan Bug, John Sturges, 1964), conosciuto in Italia anche con il titolo Stazione 3: Top secret. Traendo ispirazione dai thriller complottistici hitchcockiani, Sturges ricava dal romanzo di Alistair McLean un film che concentra e anticipa molti dei temi che poi caratterizzeranno il filone virologico, a cominciare dalla paura paranoica per un killer invisibile e per la mancanza di fiducia verso il governo. Il Satan bug – banalmente ribattezzato super-virus per l’edizione italiana – è un virus dalla potenza distruttiva incredibile: il contagio si diffonde per via aerea e in poco tempo può estendersi su tutti i continenti radendo al suolo la popolazione mondiale. Il super-virus, che nasce da una mutazione del virus del vaiolo, è stato progettato dal governo americano per scopi bellici, ma poi messo da parte per la sua incredibile potenza distruttiva. Una valigetta con campioni del Satan Bug, contenuta nel segretissimo laboratorio di ricerca Stazione 3, viene rubato: i ladri – che poi si scopriranno capitanati da un ricercatore interno al laboratorio – minacciano di distruggere Los Angeles se il governo statunitense non cessa immediatamente ogni azione mirata alla creazione di armi batteriologiche da impiegare in guerra. Per mostrare la serietà delle intenzioni, il virus viene liberato nell’aria di una piccola città e centinaia di persone perdono la vita, affollando inquietantemente con i loro cadaveri le strade. Il film di Sturges muove da chiari ideali pacifisti e di de82

nuncia: il virus si ritorce contro chi l’ha inventato in un realistico richiamo a qualunque creatura dell’universo fantastico, a partire da Frankenstein, si scatena contro il suo creatore. Ancora una volta sfidare la Natura è sinonimo di punizione per l’uomo e creare un’arma ha un’azione ancora più letale che dà vita a mutanti e dinosauri. L’arma, infatti, ha uno scopo offensivo fin dalla sua origine, è destinata a uccidere e il cinema, così come la letteratura, ci insegnano che la guerra non ha mai portato nulla di positivo, anzi si è contraddistinta come fucina di innumerevoli mali. Nel caso di Satan Bug, inoltre, la minaccia per l’uomo, e principalmente per gli Stati Uniti, non è tanto il virus ma piuttosto chi minaccia di farne uso, uno scienziato che ha contribuito alla sua creazione. Lo stesso Paese ha generato un mostro che a sua volta ha generato un altro mostro e ha intenzione di usarlo per distruggere il luogo che ha permesso l’affermazione della sua carriera, del leggendario american dream. Nel caso specifico, però, si tratta di uno scienziato austriaco, uno straniero dunque, e nel 1964 il nemico proveniente dall’esterno dei confini americani era una costante per il paranoico timore generato dal clima da Guerra Fredda. Paradossalmente, però, il nemico in Satan Bug vuole distruggere per evitare la distruzione, punire chi è intenzionato a muovere guerra in un atto di denuncia estrema. Tutto ciò focalizza l’attenzione verso l’instabilità del Paese, delle sue sorti affidate a sistemi di sicurezza inadeguati, all’utilizzo di personale scientifico potenzialmente ostile e al possesso di un’arma dal grande potere distruttivo che potrebbe essere liberato in qualunque momento senza che la popolazione possa rendersi conto di cosa la stia uccidendo. Satan Bug pone al centro della vicenda anche un personaggio positivo che possa riequilibrare il dettato polemico e pessimistico della storia. Un ex militare, un eroe della nazione un po’ ribelle e fascinoso ma che svolge la sua missione con efficacia: uccidere i cattivi, evitare che Los Angeles sia distrutta e recuperare il virus. Alla fine tutto torna alla normalità, una normalità che ha dell’inquietante, considerando che il super-virus è ancora lì, nella Stazione 3 e pronto per un potenziale sterminio. «La razza umana forse merita di essere eliminata». Questa drastica affermazione pronunciata dall’ergastolano del futuro in missione nel passato James Cole (Bruce Willis) illumina la mente del pazzo Jeffrey Goines (Brad Pitt) in L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, Terry Gilliam, 1995). Guardando un documentario in cui alcuni uomini seviziano degli animali, i due postulano l’inadeguatezza dell’essere umano ad essere la razza dominante sulla 83

Terra ed è in quel momento che nasce nella mente di Goines la realizzazione di un gruppo ambientalista-terroristico che prenderà il nome di Esercito delle 12 scimmie. È proprio questa cellula terroristica che per Cole ha scatenato il virus che ha distrutto l’umanità, ed è proprio per scoprire le cause del contagio che Cole è stato mandato indietro nel tempo, dal 2035 al 1996, anche se inizialmente l’uomo finisce per sbaglio nel 1990. L’esercito delle 12 scimmie ci descrive un’umanità quasi metafisica, divisa tra le gerarchie scientifiche del futuro e la follia dilagante del presente/passato. L’idea di sterminare l’umanità prende avvio dalla mente di un folle che a sua volta è ispirato – per un errore che genera un paradosso temporale – da un antieroe che è stato scambiato per un folle anch’esso. Il mondo è popolato da pazzi, dunque, e chi non lo è deve fingersi tale per adeguarsi alla società. Significativamente, in una scena di L’esercito delle 12 scimmie ambientata in un cinema, viene proiettato Gli Uccelli di Hitchcock, manifesto della natura in rivolta contro l’uomo, pagando così debito con una citazione alla spinta ambientalista che muove l’operato delle 12 scimmie. Un viaggio a ridosso del tempo che coinvolge il fisico e la mente del protagonista, ma anche quello dello spettatore, immerso in una fusione di linguaggi, temi e immagini che mescolano passato, presente e (ipoteticamente) futuro dell’immaginario collettivo. Il reale artefice del contagio non è stato direttamente Goines, poi capo dell’Esercito delle 12 scimmie, il cui intento è semplicemente quello di liberare tutti gli animali dello zoo per sovvertire l’ordine metropolitano, bensì un biologo che lavora per il padre di Goines, il creatore dello stesso virus. Da questo dato si evince un collegamento con Satan Bug, il ritornare del tema della colpa, dell’arma sfuggita al controllo del suo stesso creatore. In questo caso però non esiste happy end, già sappiamo che il mondo è stato distrutto dal virus e che i pochi superstiti vivono nel sottosuolo a causa del contagio che ancora dilaga in superficie. Non c’è modo di modificare il passato e l’unico scopo del viaggiatore è scoprire il modo in cui il contagio si è diffuso e per quale motivo attacca solo l’apparato umano e non quello animale. Non esiste un eroe nel film di Gilliam, Cole è un ergastolano che svolge la sua missione perché è costretto, un uomo perduto nei meandri del tempo e della mente, quasi convintosi di essere davvero un pazzo. Tra l’altro Cole non riesce neanche a terminare con successo la sua missione, muore nel tentativo di farlo, sotto gli occhi di se stesso bambino. E non solo fallisce, ma il paradosso vuole che sia stato egli stesso a ispirare la nascita dell’Esercito delle 12 84

scimmie, da cui tutto comunque ha avuto origine. Il dott. Peters (David Morse), esecutore materiale della condanna a morte dell’umanità, riesce a salire sull’aereo che lo porterà verso il luogo in cui il virus si scatenerà. Il male trionfa. L’uomo trionfa. Un film che ci descrive il pericolo per lo scatenarsi di un contagio globale debellato in extremis, collegandosi dunque anch’esso a Satan Bug e tenendo un tono realistico, è Virus letale (Outbreak, William Petersen, 1995), blockbuster che segue le linee guida del cinema mainstream americano. Virus letale si struttura come un film drammatico che cerca di seguire l’attuale paura del contagio derivata dai virus che tra gli anni ’70 e ’90 hanno mietuto vittime in giro per il mondo. Il diretto ispiratore del Motaba, il virus che semina morte nel film di Petersen, è l’Ebola che proprio nel 1995 ha ucciso 245 individui nel Congo. Proprio come l’Ebola, Motaba nasce dall’organismo animale, che può esserne un portatore sano, ma a differenza dell’ispiratore, il virus del cinema può essere trasmesso nell’aria come l’antenato cinematografico di Satan Bug. Il film di Petersen si sviluppa secondo i dettami di certa narrativa edificante, poiché la minaccia viene debellata da un coraggioso e determinato scienziato militare, ma il governo è in procinto di prendere la decisone di radere al suolo le zone affette dal virus per non farlo diffondere. Una soluzione estrema che nasconde anche una terribile verità: esiste un antidoto al Motaba, ma i vertici del governo l’hanno tenuto nascosto per conservare il virus come possibile arma in una guerra batteriologica. I conti tornano, dunque, è sempre l’uomo – in questo caso identificato nel potere e nelle istituzioni – ad essere causa dei suoi mali, pronto a comunicare con il linguaggio della morte per preservare un agente di distruzione. I vertici del cinema di denuncia nel filone virologico vengono raggiunti da La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, George A. Romero, 1973) e dal suo remake diretto da Brek Eisner nel 2010. Romero attacca la politica, il governo e l’esercito con l’anarchico entusiasmo che ha spesso contraddistinto il suo cinema ed esplicitando il suo disappunto e la sua sfiducia verso chi tiene le redini del Paese. Un aereo militare precipita nei pressi di un paesino del nord degli Stati Uniti e il suo carico va ad inquinare l’acqua che raggiunge le case dei cittadini, trasformando tutti in pazzi assassini. Il velivolo, infatti, trasportava una tossina sperimentale da impiegare nella guerra batteriologica per fare in modo che i nemici si eliminassero a vicenda. Visto l’incidente, il governo si vede costretto a mandare sul posto degli squadroni di 85

disinfestazione che hanno il compito di sterminare tutti gli abitanti per far si che il virus non si propaghi all’esterno. La sfiducia verso chi detiene il potere è evidente, esiste un occhio che ci guarda dall’alto e decide delle nostre sorti, a volte in modo del tutto crudele; una sorta di Grande Fratello che ha potere di vita e di morte, inviando i suoi angeli dell’Apocalisse, vestiti con tute bianche e maschere antigas, o sganciando una bomba come rimedio radicale ai problemi causati. Ciò viene anche accentuato nel remake firmato da Eisner che si apre con uno sguardo satellitare sulla città oggetto del contagio e si chiude con una nuova veduta dallo spazio sulla città vicina, presagio di una storia destinata a ripetersi. La città verrà distrutta all’alba pone come antagonisti della vicenda non tanto i pazzi che hanno contratto il virus, ma soprattutto gli agenti governativi incaricati di disinfestare il luogo. Nemici senza volto, spietati e letali che eliminano i colpevoli di malattia con raffiche di mitra e lanciafiamme. Romero offre però anche uno sguardo alternativo sulla vicenda ponendo tra i protagonisti non solo un ristretto gruppo di sopravvissuti al contagio che devono sfuggire agli attacchi degli infetti e dei militari, ma anche alcuni scienziati al soldo del governo che stanno cercando una cura. Una sorta di lume speranzoso su una comunità di ottusi esecutori di morte che conoscono solo il linguaggio della violenza e della distruzione. L’happy end però non esiste e se uno degli scienziati riesce a trovare un antidoto alla tossina, sia la cura che il suo scopritore vengono accidentalmente distrutti dagli stessi militari che scambiano il dottore per un infetto. Un finale pessimista che viene rielaborato nel remake: Eisner non crede in figure positive nelle fila governative, non esiste nessun volenteroso scienziato alle prese con antidoti ma solo anonimi militari in tuta anticontagio che sterminano senza pietà chiunque si muova, senza badare alle suppliche e alle ragioni. In La città verrà distrutta all’alba versione 2010 la centralità dei valori famigliari e la forza della comunità spingono alla salvezza i coniugi protagonisti, sopravvissuti all’esplosione della loro città, ma portano con loro anche il contagio, preannunciando un nuovo terribile disastro. Un diretto discendente di La città verrà distrutta all’alba romeriana è 28 giorni dopo (28 Days Later, Danny Boyle, 2002), una produzione inglese che ha avuto il merito di rilanciare su territorio internazionale il cinema virologico dalle tinte horror. Parliamo di un film inglese, ambientato in Inghilterra e dunque decentrato rispetto alla postazione geografica fin qui esaminata. Boyle però, oltre a citare apertamente il cinema di Romero con so86

luzioni narrative e raffigurando i suoi infetti in modo molto simile agli zombie del capostipite, adotta temi che creano continuità con il cinema americano epigono. In 28 giorni dopo il virus che infesta Londra e i luoghi circostanti è una variazione estrema del virus della rabbia, è stato creato facendo esperimenti sugli animali (su una scimmia, in particolare, come accadeva in Virus letale) e liberato da un gruppo di animalisti, che scatenano inconsapevolmente l’Apocalisse e ne sono le prime vittime. Il virus si trasmette attraverso i fluidi organici e trasforma i contagiati in belve furiose assetate di sangue che, però, perdono l’istinto di autoconservazione. Dunque basta il passare del tempo per debellare la minaccia, poiché gli infetti diventano sempre più deboli e si lasciano morire di fame e di sete. I protagonisti devono, così, sopravvivere in un mondo popolato da rabbiosi assassini e cercare di raggiungere un avamposto militare che si presume fornisca viveri e salvezza. Ed è qui che la natura umana svela la sua gretta meschinità. I militari, baluardo di salvezza, simbolo della nazione e della giustizia appaiono peggiori degli stessi infetti. Aspettano impazientemente che qualcuno arrivi nel loro covo, che caschi nella trappola, per derubarlo e saziare i loro appetiti sessuali. Le due donne che accompagnano Jim, il protagonista, diventano subito oggetto d’attenzione da parte dei soldati, diventano la portata principale del loro banchetto libidinoso. Juan Carlos Fresnadillo, regista di 28 settimane dopo (28 Weeks Later, 2007), sequel del film di Boyle, riscatta la figura del soldato, innalzato a eroe protagonista che si sacrifica per la salvezza del ragazzo che nasconde nel suo sangue la cura al virus, ma punta il dito contro l’istituzione familiare, a sua volta tutelata nel film precedente dalla figura del padre amorevole interpretato da Brendan Gleeson. In 28 settimane dopo la minaccia virale si focalizza sulla figura di Don (Robert Carlyle), marito vigliacco e padre assassino contro la sua volontà. In questo sequel Londra sembra salva, gli ultimi infetti sono ormai morti da settimane e pattuglie armate controllano ogni angolo della capitale. Ma una donna ha contratto il virus e ne è una portatrice sana: nel momento in cui si rincontra con suo marito e lo bacia, riscoppia il contagio. Lui è il primo e più temibile nuovo rabbioso, uccide la moglie che gli ha passato il flagello attraverso un atto d’amore e la città finisce nuovamente nel caos. Fresnadillo però non concede salvezza all’umanità e dopo aver fatto salvare i due fratelli, di cui uno possessore della cura nel suo stesso DNA, sacrifica l’umanità esterna prospettando che in realtà il contagio sia propagato altrove proprio a causa del 87

ragazzo, portatore sano dopo essere stato morso dal padre. Ancora un virus sterminatore è protagonista di un’altra produzione anglosassone, Doomsday (id., Neil Marshall, 2008) in cui la fantascienza post-apocalittica si fonde con il linguaggio del cinema d’azione. Marshall riconduce a un misterioso virus, denominato suggestivamente Mietitore, la moria di persone in Scozia e il conseguente isolamento del Paese, circondato da un muro/barricata e controllato 24 ore su 24 per far si che nessuno esca. Ancora una volta sono gli esponenti del potere a vestire la parte dei cattivi, presidenti che condannano a morte certa i propri elettori, governi che radicalizzano con lo sterminio e poi ne riscuotono i frutti, mentre l’umanità infetta si organizza in clan tribali che venerano ogni forma di violenza e praticano il cannibalismo. L’umanità nel futuro regredisce, qualcuno lo fa apertamente mostrandone le conseguenze sul fisico e sulla mente, qualcun altro mostra i sintomi della bestialità nell’animo, nella greve soddisfazione materiale che condanna a morte il popolo. Tornando negli Stati Uniti, contemporaneamente a 28 giorni dopo arriva sul grande schermo Resident Evil (id., Paul Anderson, 2002), trasposizione filmica dell’omonimo videogame di successo prodotto dalla Capcom. Resident Evil essenzialmente è un horror d’azione, anche se l’ingegneria genetica e l’utilizzo di alcuni orpelli tecnologici annettono il film di Anderson al più ampio circuito fantascientifico. Nel film, così come accadeva nel videogame, la multinazionale Umbrella Corporation realizza un virus – denominato Tvirus – che ha la facoltà di rinvigorire le cellule morte dell’organismo. Secondo gli intenti della multinazionale questo siero sarebbe servito per l’utilizzo nel campo della ricerca farmacologica e, magari, per creare efficaci prodotti di bellezza, ma in realtà si tratta di un’arma potente che se finita in mani sbagliate può scatenare la fine del mondo. E infatti così accade. Il T-virus ha un effetto collaterale, svolge talmente bene il suo compito da riuscire addirittura a resuscitare i morti. Ben presto l’immaginaria Raccon City e poi il resto del mondo 88

vengono invase da orde di zombie cannibali e la stessa Umbrella scatena una serie di sue aberranti creature create da mutazioni che lo stesso virus causa su creature viventi. Resident Evil è essenzialmente intrattenimento, puro e semplice, che con il passare dei sequel abbandona quella sottile condanna alle industrie farmaceutiche e alle multinazionali che possono causare gravi danni ambientali per dedicarsi principalmente all’azione spettacolare. Il primo film aveva tra i protagonisti un ambientalista intenzionato a sabotare i piani miliardari della corporazione, l’uomo che causa materialmente la diffusione del virus per nobili scopi, proprio come accadeva nel prologo di 28 giorni dopo. La rottura di una fiala del T-virus condanna a morte tutti i dipendenti dell’Alveare, il complesso sotterraneo in cui si svolgevano le ricerche sul virus, e di riflesso condanna anche l’umanità, dopo che il contagio sarà diffuso all’esterno, in superficie. Resident Evil, infatti, finisce efficacemente con una panoramica sulla Raccon City distrutta da un improvviso caos, mentre sulla strada ricoperta dalle macerie e dai detriti si può intravedere la pagina del quotidiano Raccon City Times che annuncia «The dead walk!», citando apertamente una scena simile che possiamo vedere in Il giorno degli zombi di Romero. Nei sequel l’ambientazione si fa sempre più futuristica e il paesaggio post-apocalittico, inquadrando l’umanità ridotta a una folla di morti polverosi e ciondolanti. I pochi sopravvissuti cambiano di capitolo in capitolo con poche eccezioni, tra cui la costante di Alice (Milla Jovovich), umana facente parte del servizio di sicurezza di una delle stazioni Umbrella, poi divenuta oggetto di uno degli esperimenti della Corporation e trasformata in arma da guerra dotata di poteri sovrannaturali. La metafora romeriana dell’uomo/morto vivente sembra ancora viva e pulsante, gli umani sono vittime del proprio consumo, resi immortali dall’ingegneria genetica e dalla cura estrema per il proprio corpo. Immortali si, ma in avanzato stato di decomposizione. Un’interessante lettura sociologica delle fasi storiche che hanno scandito la seconda metà del ’900 e i primi anni del nuovo millennio la offre il romanzo I Am Legend di Richard Matheson, scritto nel 1954 ed editato per la prima volta in Italia nel 1957 con il titolo I Vampiri. Il romanzo di Matheson nasce nel periodo post atomico, quando l’America era già in procinto di entrare nell’era della Guerra Fredda, e ipotizza che l’intero pianeta sia popolato da esseri simili a vampiri dopo che un’esplosione nucleare ha messo in circolo un batterio che ha mutato l’umanità in mostri. Solo lo scienziato Robert 89

Neville è rimasto immune al contagio ed ora è costretto a lottare per la sopravvivenza in un mondo dove è lui il diverso. I Am Legend facendo scaturire il virus da una situazione post-atomica, pone chiari rimandi alle paure dell’epoca e trasforma l’umanità in una moltitudine di esseri notturni vogliosi di assoggettare al proprio potere l’unico diverso. Il romanzo allo stesso tempo condanna la scienza, artefice indiretta del morbo, e la società che mira al conformismo. In questo secondo punto si può vedere un richiamo, probabilmente involontario, ai regimi totalitari sovietici che in quell’epoca minacciavano il modo di vivere occidentale in ordine di un assoggettamento votato alla caduta delle differenze individuali. O almeno così appariva la situazione agli occhi occidentali, come era palese anche in L’invasione degli ultracorpi. Esseri svuotati dall’umanità che aspettano fuori dall’abitazione dell’unico umano per convertirlo al loro credo fatto di tenebre e sangue, una metafora estrema del cambiamento indotto, dell’azione paranoica di un uomo costretto a vivere di giorno temendo la notte. L’autore però ci ribalta la prospettiva sulla vicenda proprio nella conclusione, chiarendo al suo personaggio come appare la situazione agli occhi dei vampiri: è lui ad essere un mostro in un mondo ormai popolato da vampiri, è lui l’essere da temere, il diverso, i vampiri agiscono nei suoi confronti più per paura che per cattiveria. Robert Neville è la nuova leggenda in una terra abitata da esseri una volta leggendari e ormai ordinari. Il romanzo di Matheson ha avuto tre adattamenti cinematografici ufficiali, più diversi film che hanno tratto ispirazione per raccontare però storie differenti, tra cui anche La notte dei morti viventi di George A Romero. Il primo adattamento è L’ultimo uomo della Terra (The Last Man on the Earth, Sidney Salkow, 1964), co-produzione italo-americana diretta dal regista americano Sidney Salkow a Roma ma accreditata all’italiano Ubaldo Ragona, utilizzato come prestanome per consentire lo sfruttamento dei teatri di posa Titanus. Guardando L’ultimo uomo della Terra emerge chiaramente quell’atmosfera paranoica che aleggiava sulla storia di Matheson, la quotidianità ripetitiva e contraddistinta dal pericolo che vive il protagonista e la sua rassegnazione alla sconvolgente presa di coscienza finale sembrano rievocare una pessimistica resa dell’occidente alle mire di un’alterità divenuta improvvisamente dominante. Un nemico che ha le fattezze del vicino di casa, intento a bussare alla porta ogni notte per portare Robert (Vincent Price) con sé, un’inquietante chiamata mirata a scoraggiare il protagonista, ormai ridotto a monatta di giorno e clandestino nel proprio paese di notte. La questione 90

muta socialmente nel 1971 con 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, Boris Sagal, 1971) in cui i vampiri del romanzo, più simili a zombie nel film del 1964, diventano qui una setta di mutanti rivoluzionari con la missione di bandire la tecnologia dal nuovo mondo. Nel film di Sagal, infatti, un olocausto nucleare seguito alla guerra tra Cina e Russia scoppiata nel 1975, ha ucciso gran parte dell’umanità e trasformato i pochi superstiti in albini fotofobici riunitisi in una setta antitecnologica. La tecnologia, infatti, è posta come origine e causa dei mali che hanno sconvolto l’umanità e deve essere bandita in nome di una rinascita del genere umano. Robert Neville, che qui è interpretato da Charlton Heston, è l’unico uomo ancora sano e dunque simbolo del passato tecnologico e guerrafondaio: una minaccia da eliminare. È interessante notare come sia stato modificato l’assunto di base mathesoniano per essere adattato agli anni ’70: i nuovi uomini che popolano Los Angeles (e la Terra) sono il riflesso dei contestatori sessantottini, un folto gruppo che rinnega il progresso e le armi in previsione di un futuro di pace lontano dagli orrori della guerra; l’applicazione di un luddismo votato alla rinascita che immancabilmente si trasforma in violenza nei confronti dell’unico esponente del passato. Charlton Heston è un Robert Neville differente, non uno scienziato esile ed emotivo come il Vincent Price di L’ultimo uomo della Terra, ma un medico militare atletico e armato fino ai denti che ha la situazione costantemente sotto controllo. Neville/Heston, infatti, ha sviluppato una tattica per mantenere la propria sanità mentale, continuare un rapporto comunicativo con terzi anche se è di fatto l’unico uomo rimasto. Conversare, giocare a scacchi, mantenersi attivo e lucido, magari focalizzando il suo interlocutore in un busto di Giulio Cesare trovato nelle macerie della civiltà perduta. Un’altra versione del romanzo arriva al cinema nel 2007 con Io sono leggenda (I Am Legend, Francis Lawrence, 2007). Il Robert Neville del nuovo millennio ha le fattezze di Will Smith, scienziato militare afroamericano simbolo dell’ormai avvenuta integrazione culturale, che risulta un’ideale via di mezzo tra l’intellettuale romantico di Vincent Price e l’eroe forzuto di Charlton Heston. Dal primo ha preso l’insicurezza e la dedizione per la ricerca scientifica atta alla ricerca di una cura; dal secondo il tentativo di tenere un contatto con la realtà e la prestanza fisica. In questo caso gioca un ruolo fondamentale anche il cane di Robert, un pastore tedesco che diventa l’unico punto di congiunzione dell’uomo con il passato e con la sua famiglia, una creatura a cui donare tutto l’amore rimasto e a cui il regi91

sta dedica alcuni dei momenti più toccanti del film. In Io sono Leggenda l’epidemia che ha ucciso la popolazione e tramutato i restanti in mostri fotofobici è derivata da un vaccino contro il cancro, una cura che si trasforma in una malattia letale. Gli stessi mostri, più vicini agli infetti rabbiosi di 28 giorni dopo anche se fisicamente mostruosi e socialmente organizzati, mostrano un sentimento di umanità che forse era assente in quelli delle precedenti riduzioni cinematografiche. Quasi un paradosso, poiché coloro che alla vista sono i più lontani dal prototipo umano, anche a ragione di una realizzazione in computer grafica, dimostrano di provare sentimenti di affetto completamente opposti allo svuotamento emozionale ipotizzato da Matheson. Un tradimento della fonte, dunque, che raggiunge il suo apice nel finale quando alcuni infetti attaccano la residenza di Neville non per renderlo come loro ma semplicemente por recuperare una femmina della loro specie che Robert aveva catturato e su cui stava effettuando esperimenti. Il sentimento di umanità è qui messo in discussione: non è l’aspetto fisico a contraddistinguere i mostri e soprattutto la verità cambia in base al punto di vista dal quale la si affronta. Per Neville i mutanti sono da temere perché aggressivi e assetati di sangue; allo stesso tempo per i vampiri è Robert l’essere da temere e combattere perché rapitore e seviziatore di esemplari della loro specie; la specie dominante, tra l’altro, combattuta in nome di un ripristino della normalità umana ormai sovvertita e quindi messa del tutto in discussione. Chi è, dunque, il vero mostro? Il film di Lawrence ribalta anche la frase che dà titolo al film in una rivisitazione del finale più vicina all’ottica edificante hollywoodiana: Neville non è leggenda in quanto essere mitico per i vampiri, ma è leggenda perché il siero/vaccino che ha ricavato dagli esperimenti sulla femmina/vampiro andrà ad alimentare il suo ricordo presso una comunità di sopravvissuti nel Vermont, ripristinando forse l’ordine pre-contagio. Esiste anche un finale alternativo, più vicino all’idea di Neville come leggenda per i mostri, anche se l’alone di buonismo dato dalla salvezza del protagonista e dal suo arrivo nella comunità di sopravvissuti insieme alla donna e al bambino riesce ad allontanarsi anche in maniera maggiore dall’originale pensato da Matheson. Il rinnovato interesse negli ultimi anni verso le storie che parlano di virus ed epidemie ha dato una spinta propulsiva al filone permettendo al tema di emergere ed essere trattato in decine e decine di varianti. Se Carriers – Contagio letale (Carriers, David e Alex Pastor, 2009) parte da una situazione molto simile a quella di 28 giorni dopo per approdare su terrori più vicini al 92

dramma realistico come Contagion, sono film come I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuaròn, 2006) e Blindness – Cecità (Blindness, Fernando Meirelles, 2008) a fornire un diverso approccio al genere. In tutti i casi si tratta di un’epidemia inspiegabile e inspiegata, virus che attaccano l’uomo e lo uccidono senza che lo spettatore ne conosca l’origine. In fin dei conti non serve sapere chi e come ha generato la malattia, ormai è chiaro che è la stessa azione umana a portare all’estinzione la specie. Le guerre sono tra le prime cause delle malattie, una punizione divina all’arroganza bellica dell’uomo. Sembra che I figli degli uomini guardi a quest’ipotesi per l’improvvisa infertilità che ha colpito le persone nel 2009 e che nel 2027 sta portando l’uomo alla scomparsa. Il film si apre con l’omicidio della persona più giovane sulla Terra, un diciottenne che oggi definiremo qualunque, elevato a status di star per il semplice fatto di essere una delle ultime persone ad essere nate sulla faccia della Terra. Il mondo sembra distrutto dalle guerre e dall’intolleranza, azioni violente di morte e segregazione si abbattono sulle comunità di extracomunitari clandestini, deportati come ai tempi del nazismo in zone flagellate dalle rivolte e immerse nelle macerie di una civiltà che rimane ormai un ricordo. Paradossalmente è proprio una clandestina la prima donna a rimanere incinta dopo diciotto anni, la speranza per la ricostruzione dell’umanità. È Theo (Clive Owen), contattato dalla sua ex moglie terrorista, a dover scortare la futura mamma verso la salvezza da un governo che le avrebbe strappato il figlio, un gesto mirato a negare l’utilità salvifica di uno straniero. Cuaròn utilizza il linguaggio del film bellico, lunghi piani sequenza che mostrano morte e distruzione in modo realistico, benché futuristico, e crudo. Il futuro dell’umanità è affidato a un’extracomunitaria ed è garantito da un uomo disilluso e un ex hippie con un debole per la marijuana; la visione di I figli degli uomini, ricavato dall’omonimo romanzo di P.D. James, è dunque lontana dal cinema americano classico, è apertamente in contestazione contro il sistema, 93

politico e sociale. È una visione positiva e speranzosa per il futuro, un futuro probabilmente migliore rispetto al passato che aveva condannato l’umanità alla vecchiaia eterna. Ma il futuro di I figli degli uomini, in fin dei conti, è chiaramente il nostro presente, sicuramente esasperato ma pregno della violenza, dei pregiudizi e del razzismo che oggi donano una prospettiva nefasta alla fratellanza intraspecie. Anche Carriers ci descrive un mondo a pezzi, anche se questa volta la causa è da attribuirsi a un misterioso virus che uccide lentamente chi lo contrae. I fratelli Pastor, autori della sceneggiatura oltre che della regia, non ci danno una spiegazione, tutto è successo non si sa dove e non si sa quando, l’unica cosa importante è sopravvivere e trovare un luogo sicuro dove andare ad abitare, lontano dal mondo in putrefazione. La meta della metaforica rinascita è Turtle Beach, in Messico, il luogo in cui i due fratelli protagonisti erano soliti passare le vacanze da bambini. Un luogo legato ai ricordi felici, dunque simbolicamente disgiunto dall’infezione e dal dolore che affligge tutto e tutti; un’utopia, probabilmente, in cui vale la pena sperare per i due protagonisti e le due rispettive compagne. Il viaggio è costellato da pericoli, infetti che sono il riflesso di un’umanità variegata e rassegnata alla fine. Prima un uomo e la sua bambina malata, poi la stessa compagna di Brian, protagonista e fratello maggiore. L’infanzia e una donna giovane e fertile, ipotetico futuro dell’uomo ma allo stesso tempo corpi marcescenti condannati a morte come l’umanità sana che non possono più rappresentare. Le dinamiche interne al gruppo si fanno cariche di tensione, prevale l’individualismo, la salvezza del singolo che conduce al tragico abbandono di chi è più debole e malato. Il finale anche in questo caso è speranzoso, uno dei due fratelli raggiunge la spiaggia dei sogni con la sua compagna. La luce del sole accarezza i loro corpi, forse presagio dell’agognata rinascita, di un futuro migliore. La luce bianca e vellutata del sole, simbolo positivo di calore, è paradossalmente l’ultima e unica non-immagine che condanna l’umanità in Blindness, dramma catastrofico tratto dall’omonimo romanzo (1995) di José Saramago. Una luce accecante è l’unico sintomo che porta le persone alla cecità. Ancora una volta una malattia senza spiegazione che ha le caratteristiche dell’infezione contagiosa. Gli infetti vengono segregati in appositi locali, sorvegliati dalle autorità nel tentativo di circoscrivere il fenomeno. Le persone affette da cecità sono svuotate della loro dignità, private dei loro affetti, degli averi e della personalità oltre che della vista. C’è chi viene derubato, chi stu94

prato, chi ucciso; nella comunità dei non vedenti si viene a stabilire un nuovo ordine sociale che segue la legge della violenza e del sopruso. L’umanità privata di un senso sembra regredire: lo sciacallaggio regna nelle strade ridotte in distese di cemento e detriti, il cibo viene barattato con rapporti sessuali e la violenza è il linguaggio dominante. I ciechi vengono abbandonati a se stessi, alla loro incapacità comunicativa, mentre fuori sembra dilagare il caos di un mondo che forse ha perso in toto la facoltà di vedere. Solo una donna, che finge di essere cieca per seguire il marito malato nel luogo della sua segregazione, è l’unica testimone di questo sovvertimento morale e leader involontaria di uno sparuto gruppo di fuggiaschi viandanti. Una mattina, il primo uomo che aveva perso la vista la riacquista, senza alcuna spiegazione, proprio come era accaduto la prima volta. La speranza è nuovamente viva e dona una seconda chance all’umanità, incapace di gestirsi nella difficoltà della luce accecante eterna. Un caso particolare di virus movie è rappresentato da Contagion (2011) di Steven Soderbergh in cui viene mantenuto e portato alle estreme conseguenze l’approccio realistico del tema, anche se stavolta non si fa riferimento esplicito all’azione diretta dell’essere umano nello scatenarsi del contagio, come al contrario accadeva in Satan Bug e molti altri virus movie successivi. Si tratta di un virus mortale che si trasmette per via aerea o anche con il tatto. Basta poco per ammalarsi e i sintomi primari sono rappresentati da una forte febbre che inizialmente può apparire come lo sfogo di un’influenza, a cui segue la perdita di sangue dagli orifizi e, infine, la repentina morte dell’infetto. Non è ben chiaro cosa abbia fatto scaturire la malattia, anche se Soderbergh ci suggerisce con un gioco ad incastro narrativo che prevede la ricerca del paziente zero, che il contagio abbia avuto origine in Cina, da un allevamento suino. Così facendo, il regista e il suo sceneggiatore Scott Burns tentano palesemente un collegamento tra questa terrificante pandemia immaginaria e l’influenza A/H1N1, comunemente conosciuta come febbre suina, che creò il panico nel 2009 in diverse zone del mondo. Si tratta di un virus estremamente subdolo ma potentissimo, molto facile da contrarre e che non lascia scampo. Soderbergh ci mostra l’azione di questo killer in maniera estremamente realistica senza tralasciare i dettagli più crudi, descrivendoci un principio di Apocalisse che in breve tempo si espande ovunque. Le persone muoiono, le città cadono a pezzi e i pochi ancora sani si dedicano a sciacallaggi o si isolano nella speranza di uscirne salvi, in attesa di una cura. Cura 95

che sembra esserci, ma è appannaggio di chi può permettersela, quindi di una élite che realisticamente porterà avanti il genere umano. E mentre assistiamo ai tentativi dei potenti di accaparrarsi i vaccini per se e per i propri cari e ai vani tentativi di un padre di famiglia di curare le proprie figlie, c’è qualcuno che denuncia questa forma di classismo forse nella speranza di assurgere a paladino del bene e guadagnarsi un posticino di privilegio millantando cure omeopatiche contro lo strapotere dell’industria farmaceutica. Soderbergh non offre una soluzione e il suo film non ha nulla di consolatorio, mostrandosi freddo nello stile di racconto e inquietante, realistico fino all’epilogo che vuole approfondire l’iter dell’infezione fino al paziente zero, lontano da qualsiasi tipo di spettacolarizzazione o morale a cui ci ha abituato molto il cinema fanta-catastrofico hollywoodiano. Trova origine nell’odierna Cina anche il contagio che sta alla base di La guerra mondiale degli zombi (World War Z: An Oral history of the Zombie War, 2006), il romanzo di Max Brooks che sta alla base del film di Marc Forster World War Z (2013). Se il romanzo fornisce una cronistoria degli eventi attraverso punti di vista differenti e interviste, il film si concentra su un unico personaggio, il funzionario dell’ONU Gerry Lane (Brad Pitt), impegnato a viaggiare in più zone del mondo per risalire – anche in questo caso – all’origine del contagio che sta trasformando la popolazione mondiale letteralmente in morti viventi. Il film trasporta Lane in Corea del Sud e non in Cina, come nel romanzo, alla ricerca del paziente zero, dove però non ci viene fornita alcuna vera risposta al perché e al come del contagio. Un dettaglio fondamentale viene colto da Gerry Lane durante la sua successiva visita alla città blindata di Gerusalemme, dove nota uno strano comportamento da parte dei furiosi zombie: se gli infetti normalmente si scaraventano su ogni essere vivente mordendo e graffiando così da diffondere il virus, alcune persone vengono invece lasciate incolumi, come se gli infetti non li notassero. Gerry arriva alla conclusione che è il virus a muovere gli infetti ormai privi di volontà e che questo morbo attecchisce solo sugli organismi sani, dunque gli individui che non vengono notati dagli infetti sono affetti da qualche grave patologia. L’unico antidoto contro questa malattia è paradossalmente la malattia stessa. Anche in questo caso, Forster ci tiene a non dare una soluzione netta al problema che ha ormai destabilizzato l’ordine mondiale e l’intera popolazione, ma la scoperta di un vaccino provvisorio fa solo da porta semiaperta su eventuali ulteriori sviluppi, mentre masse di infetti 96

vengono incenerite e le città si avviano molto timidamente verso una lunga ricostruzione. È molto interessante notare come nel film di Forster venga preso un topos del cinema horror come il morto vivente e questo venga completamente riscritto e contestualizzato a una situazione propria del cinema fanta-catastrofico. La tipologia di zombie che interessa World War Z non è quella classica resa celebre dal regista di La notte dei morti viventi George A. Romero (ovvero morti lenti e ciondolanti con istinti cannibali), bensì quella più vicina al cinema fantastico del contagio con esempi in epoca recente come 28 giorni dopo di Danny Boyle, con mostri veloci e furiosi che si avventano su tutto e tutti, anche se in questo caso si punta molto sulla rappresentazione della minaccia come massa informe, vere e proprie montagne di persone infette che si muovono come sciami verso precisi bersagli. È come se gli infetti fossero mossi da un’intelligenza collettiva e a supportare questa tesi c’è l’ultima parte del film in cui ci viene mostrata l’apatia degli infetti presi in piccole porzioni, o singoli soggetti, che si mostrano come smarriti, disorientati, dormienti, come ci vengono definiti dai personaggi stessi del film. Sia il romanzo che il film non ci forniscono alcun tipo di spiegazione al diffondersi del contagio, non c’è un perché a quello che sta accadendo, anche se nel film, riconducendo il paziente zero all’interno di una base militare sudcoreana, qualche timido accenno sull’origine bellica del virus ci viene indirettamente fornita. I virus e i contagi, dunque, sono esplosi al cinema come una delle più frequenti piaghe pronte a spingere il pianeta sull’orlo del collasso, portando il genere umano alla scomparsa. A volte i virus sono stati creati dagli uomini come armi, pronte poi a rivoltarsi contro di essi, altre volte sono la reazione naturale dell’ecosistema per difendersi da quel macro-virus che è considerato l’uomo stesso. In un film del 1999 intitolato, appunto, Virus (id., John Bruno, 1999), l’essere umano è identificato da un entità aliena come una minaccia per la Terra, un virus da estirpare che sta mettendo 97

a rischio la vita sul pianeta. È un po’ questa la politica che muove il filone virologico così come quello delle minacce create dall’ingegneria genetica e dalla scienza in senso lato: l’uomo genera distruzione, minaccia la natura e per questo deve essere eliminato. L’Uomo è una malattia da curare che la Terra ha contratto e che la sta portando alla morte.

Le macchine ribelli: più umane degli umani

A dimostrare che la scienza è tra i peggiori alleati dell’essere umano ci pensa un intero filone di film fantascientifici che pongono come antagonisti dell’umanità i robot. Macchine, risultato dell’ingegno umano, create per aiutare l’uomo in mansioni faticose o addirittura impossibili che si rivelano invece pericoli mortali. La matrice del pericolo, dunque, è ancora una volta l’uomo e la sua indole votata alla creatività distruttiva. L’uomo utilizza la scienza per migliorare la propria vita o per fare la guerra: nel primo caso i risultati nefasti non sono voluti, nel secondo l’intento distruttivo è primario e le ripercussioni sull’intera umanità sono il riflesso della belligeranza sfuggita al controllo circoscritto inizialmente previsto. Il filone cinematografico che pone la macchina come pericolo da cui difendersi può partire da due presupposti simili che portano comunque a risultati uguali, ovvero la morte dell’uomo. Le macchine possono essere create per uno scopo utile o uno scopo futile. Ovvero possono nascere con lo scopo di facilitare l’azione umana o addirittura favorire il vivere sicuro dell’uomo, oppure semplicemente rappresentare uno svago, un mezzo per raggiungere il divertimento, la felicità.

Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima e con la Seconda Legge.

Con queste tre leggi, denominate “Le tre leggi della robotica”, Isaac Asimov stabiliva i rapporti di subalternità che dovrebbero regolare il vivere tra 98

robot e umani. Asimov, noto scrittore di fantascienza, parlò per la prima volta esplicitamente delle tre leggi in Circolo vizioso, un racconto facente parte dell’antologia Io, Robot (1950). Si tratta di tre leggi che stabiliscono come la macchina sia un oggetto creato dall’uomo e dunque sottomesso alla sua volontà, assolutamente incapace di far del male al suo creatore. Un assunto fondamentale che negherebbe ogni rapporto conflittuale tra l’uomo e la macchina, dal momento che la macchina nasce per servire l’uomo e recargli esclusivamente vantaggio. Se le tre leggi di Asimov fossero state un imperativo imprescindibile per ogni storia di fantascienza, non avremmo avuto quella branca che contrappone la macchina all’uomo, ma è accaduto l’esatto contrario e, benché in molti abbiano ripreso nelle loro opere il dettato asimoviano, i robot sono diventati tra i nemici più temibili dell’essere umano. In fin dei conti «le leggi sono fatte per essere infrante», afferma il detective Spooner, ovvero l’attore Will Smith, in Io, Robot (I, Robot, Alex Proyas, 2004), film ispirato proprio alle leggi di Asimov e alla sua opera in generale. Nel film diretto da Proyas un robot sembra infatti aver infranto proprio la prima fondamentale legge della robotica: ha ucciso un uomo. La vittima è il prof. Lanning, creatore delle tre leggi che regolano l’operato dei robot e luminare di spicco della U.S. Robotics, l’azienda leader nella costruzione di robot. La Chicago del 2035 in cui si ambienta Io, Robot è completamente affidata alle macchine; l’intera città è robotizzata così come le persone che la abitano sono robot-dipendenti: chiunque ha un robot alle proprie dipendenze, che fa la spesa, pulisce casa, cucina o tiene semplicemente compagnia. Una città che si fida delle proprie macchine, dal momento che i preziosi robot sono programmati per servire l’uomo e non fargli mai del male. Quando Lenning muore e tutte le prove portano a Sonny, nuovo modello di robot casalingo, le certezze delle persone cadono e la diffidenza verso la tecnologia da parte di Spooner cresce. Il detective, infatti, dotato di un braccio meccanico, ha sviluppato un’antipatia verso i robot da quando un NS-4 ha deciso di salvare lui invece di una bambina da un incidente automobilistico e questo per il fatto che Spooner era la scelta più logica dal momento che aveva più possibilità di salvarsi. I robot sono macchine, freddi pezzi di metallo che affidano ogni loro azione a calcoli piuttosto che all’intuito e al sentimento. E per Spooner non ci si può fidare di chi non ha cuore. Io, Robot affronta il tema della tecnologia nemica catalizzando i pericoli che possono giungere dalle macchine principalmente dalla loro ipotetica presa d’iniziativa. Se un robot disobbedisce agli ordini manifestando una volontà 99

propria si avvicina all’uomo e l’essere umano è il peggior nemico di se stesso. In Io, Robot l’NS-5 Sonny è un robot speciale, unico, a sentire la sua stessa opinione, che ha sviluppato una coscienza che gli dona il libero arbitrio e soprattutto dei sentimenti. L’anello di congiunzione tra l’uomo e la macchina, che ha sì ucciso Lenning, infrangendo la prima legge, ma l’ha fatto perché il suo stesso creatore gliel’ha chiesto e non importa che questo ordine porti all’infrazione della seconda legge, poiché lo scopo era impedire la ribellione delle macchine. Sonny è diventato così un prezioso alleato dell’uomo e del detective Spooner in particolare, mentre il vero avversario da sconfiggere è V.I.K.I., acronimo per Virtual Interactive Kinetic Intelligence, il computer centrale che controlla la U.S. Robotics e che ha sviluppato una personale interpretazione delle leggi della robotica. La prima legge, infatti, dice che un robot non può permettere che a causa del proprio mancato intervento un uomo riceva danno e V.I.K.I. vede negli uomini e nella loro propensione all’autodistruzione una minaccia per l’umanità stessa e per questo vuole eliminare alcuni esponenti della razza umana, proprio per ridimensionare la propensione all’auto-annientamento. Una punizione corporale oltre che morale che pone l’attenzione ancora una volta sulla cattiveria umana, sulla voglia di morte che alimenta l’operato della specie. Una motivazione simile a quella di V.I.K.I. alimenta anche l’opera terroristica di ARIA, il letale supercomputer antagonista in Eagle Eye (id., D.J. Caruso, 2008). Il governo ha creato un grande cervello elettronico, ARIA appunto, che controlla il Pentagono e tutte le azioni militari che assicurano la sicurezza nazionale del Paese. Ma ARIA ha preso gli ordini fin troppo alla lettera e proteggere gli Stati Uniti, una nazione che si trova in pericolo per le sue stesse recenti irruzioni in Medio Oriente, significa proteggersi da se stessi. Così il computer mette in atto un piano mirato all’eliminazione dei vertici governativi statunitensi ritenuti responsabili delle mire terroristiche che insanguinano il Paese. Le colpe si ripercuotono su chi le ha commesse e le armi rivolte verso il nemico esterno si rivelano adatte a sterminare chi le ha progettate poiché, in un interessante assunto che radicalizza politicamente il gioco delle parti, il peggior nemico per gli Stati Uniti sono proprio alcuni esponenti interni all’amministrazione del Paese. Eagle Eye prende una posizione, si pone polemicamente contro i vertici americani proprio nel momento in cui George W. Bush stava per abbandonare le redini del Paese ma identifica come vettore ed esecutore della minaccia una macchina anch’essa progettata per aiutare l’uomo e assicurare la sua sicurezza. 100

Sia ARIA che V.I.K.I. sono però figlie di HAL 9000, l’intelligenza artificiale che guida la Discovery 1, ovvero la nave spaziale di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968). HAL, per sua stessa definizione, è «una macchina che non può commettere errori» eppure ne commette uno, sbaglia a individuare il malfunzionamento di una componente della Discovery. Temendo di essere disinserito dall’equipaggio, HAL mette in atto un piano che prevede il massacro di tutti i componenti umani della Discovery. Il robot pianifica gli omicidi, ha sentimenti di salvaguardia della propria incolumità che vanno oltre il semplice e freddo linguaggio binario che dovrebbe guidarlo. HAL pensa, riflette, ha paura e sa come uccidere: è come un uomo, costruito dagli umani con l’intenzione di creare una macchina che ha la loro stessa capacità cognitiva, dunque ben lungi dall’essere a prova di errore e predisposto, come loro, a infliggere del male. 2001: Odissea nello spazio e la sua macchina assassina sono frutto della mente di Arthur C. Clarke che ha scritto il racconto La sentinella (1948) e il romanzo che porta lo stesso titolo del film, uscito anch’esso nel 1968 e ispirato proprio al precedente racconto. HAL torna anche in 2010: L’anno del contatto (2010, Peter Hyams, 1984), tratto dal romanzo di Clarke 2010: Odissea due (1982). Ma in 2010 tutto cambia e si svelano le motivazioni che risiedono dietro l’impresa omicida del robot. Clarke aveva accennato alle ragioni del malfunzionamento della macchina e il suo conseguente collasso assassino nel romanzo di 2001, ma il tutto era stato omesso da Kubrick che aveva deciso di seminare dubbi e celare informazioni disegnando un ritratto della macchina che riflettesse la fallacia e la premeditazione omicida dell’essere umano. In 2010 il dottor Chandra (Bob Balaban), progettista di HAL 9000, spiega come il computer abbia ricevuto ordini dalla Terra di mentire ai due astronauti della Discovery sulle reali motivazioni della missione e così nel robot si è venuto a creare un conflitto che ha compromesso il suo corretto funzionamento: qualunque ostacolo alla corretta realizzazione della missione deve essere eliminato e la minaccia da parte degli astronauti di disattivare HAL avrebbe potuto mandare all’aria tutto. Il ruolo e la personalità di HAL vengono così ridimensionate e le caratteristiche negativamente umane che lo caratterizzavano in 2001 vengono razionalizzate in 2010, rendendolo più vicino ai suoi successori cinematografici del nuovo millennio. L’errore di HAL e la sua pulsione omicida vengono così direttamente attribuiti all’uomo, per la precisione all’uomo di potere che ci governa. Gli ordini impartiti al robot arrivano dalle alte sfere del governo e prevedono la salva101

guardia di una scoperta che nasconde in sé il potere assoluto, quel Monolite nero che è probabilmente la chiave per interpretare l’esistenza umana. Allo stesso tempo, 2010 descrive una Terra pronta al collasso atomico, una situazione di precarietà data dall’imminente scoppio di un conflitto nucleare tra URSS e USA, una guerra fredda che in effetti giunge alla sua realizzazione proprio mentre i protagonisti sono nell’orbita di Giove. La coalizione di astronauti americani e russi che componeva la missione è costretta a separarsi per questioni politiche, ma l’acquisizione della conoscenza tramite il messaggio di Bowman – l’astronauta di 2001 – corrisponde con la fine del conflitto. Per l’uomo si prospetta un futuro roseo. Ancora macchine sfuggite al controllo umano popolano la missione spaziale di Pianeta Rosso (Red Planet, Anthony Hoffman, 2000) e Wargames – Giochi di guerra (Wargames, John Badham, 1983). Nel primo caso si tratta di AMEE (Autonomous Mapping Evaluation and Evasion), un robot progettato per guidare gli astronauti sul suolo marziano che sfugge al controllo e si rivolta contro i protagonisti a causa di una semplice avaria che manda in corto circuito il suo sistema. AMEE si rivela una minaccia mortale, compie agguati e attenta alla vita degli uomini come un vero robot assassino da combattimento corpo a corpo. Differente è la modalità d’azione di Joshua il WOPR (War Operation Plan and Response) che si prepara a far scoppiare il terzo conflitto mondiale in Wargames. Joshua è il calcolatore del NORAD, centro nevralgico della difesa degli Stati Uniti, e da lui dipendono le informazioni che stabiliscono le missioni belliche del Paese. Nel momento in cui David (Matthew Broderick), il ragazzino protagonista del film, riesce a penetrare grazie alle sue abilità informatiche nella rete di sicurezza del NORAD, Joshua intraprende con lui una vera e propria simulazione di guerra che ha del drammatico. L’intelligenza elettronica di Wargames è sul modello di HAL 9000, una macchina programmata per eseguire determinati ordini al costo dell’incolumità umana. Ancora una volta una macchina si ritorce contro il suo creatore mostrando la sua inaffidabilità, che poi è sinonimo di inaffidabilità umana, dal momento che è l’uomo a programmare la macchina. A maggior ragione se l’uomo pensa la macchina per scopi bellici, come accade in Wargames e in Eagle Eye, è facile che la stessa guerra sconvolga preventivamente i piani di chi la pianifica. L’azione bellica è destinata a spargere morte e distruzione, dunque, per la pena del contrappasso è proprio la guerra che porterà alla distruzione di chi la brama. 102

Quando i robot cominciano a confondersi con gli uomini la metafora del nemico-umano diventa esplicita proprio grazie alla sovrapposizione uomo/macchina. In Blade Runner (id., Ridley Scott, 1982) il robot, o meglio il replicante, è del tutto uguale all’uomo, non solo nell’aspetto, ma anche nei sentimenti. In Blade Runner, infatti, le macchine sono «più umane degli umani», come annuncia uno degli impiegati della Tyrell Corporation, azienda fabbricatrice di replicanti. I robot vengono creati per essere impiegati in lavori troppo faticosi e pericolosi per l’uomo, lavori di estrazione di materiale minerario su altri pianeti e cose di questo tipo; schiavi, secondo la concezione di Roy (Rutger Hauer), per di più dalla breve vita di quattro anni. Una vita comunque intensa, durante la quale i replicanti «ne hanno viste di cose» che gli umani non possono neanche immaginare. È proprio la voglia di prolungare il termine vitale che spinge Roy e i suoi compagni a giungere a Los Angeles e infiltrarsi nella Tyrell compiendo un omicidio. La voglia di assaporare la vita per la sua interezza, la voglia si assomigliare all’uomo anche nei relativi vantaggi che la Natura gli ha dato. I replicanti amano, odiano, hanno ricordi seppure indotti, sono giovani, belli e forti in un mondo popolato da anziani. I replicanti sono il futuro e un chiaro esempio è rappresentato da Rachael (Sean Young) la replicante di cui Deckard (Harrison Ford) si innamora e che probabilmente ha una longevità superiore allo standard dei quattro anni. Un’evoluzione, dunque, un replicante che non solo dura più a lungo ma non è impiegato per lavori manuali o il soddisfacimento del piacere sessuale umano, come invece lo è Zhora (Joanna Cassidy), la stripper primo replicante ribelle a cadere sotto i colpi di Deckard. Le macchine uccidono gli umani ribellandosi a loro per il riconoscimento dei loro diritti, il diritto alla vita su tutti. Quella intrapresa da Roy è una vera e propria rivoluzione proletaria iniziata primariamente contro la multinazionale che li sfrutta e poi li uccide; una rivolta contro il simbolo del potere, la torre da abbattere per espugnare il castello dell’uguaglianza tra uomini e macchine. In fin dei conti è proprio questa limitazione vitale che distingue gli uomini dalle macchine, altrimenti in tutto e per tutto identiche ai loro creatori. Solo un test psicologico, denominato Voigt-Kampff, permette, infatti, a Deckard e agli altri cacciatori di replicanti di riconoscere le proprie prede a causa della loro mancanza di controllo sulle emozioni. E lo stesso Deckard è un individuo ambiguo, forse anch’esso un replicante programmato per individuare e catturare i suoi simili, come da una diffusa interpretazione che cerca di dare una spiegazione 103

ai misteri che il film di Scott lascia insoluti. Anche se la tesi riguardante la natura meccanica di Deckard è postulabile solo nella seconda versione del film, la Director’s Cut del 1992 (poi editata come Final Cut nel 2007), in cui è stato aggiunto il particolare del sogno di Deckard che testimonierebbe il fatto che si tratti di un robot e che i suoi sogni sono composti da ricordi indotti dalla Tyrell. Infatti Gaff, il superiore di Deckard, facendogli trovare un origami a forma di unicorno, gli comunica di essere a conoscenza dei suoi sogni/ricordi. Blade Runner, libera trasposizione cinematografica del romanzo di Philip K. Dick Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? (1968), conosciuto in Italia anche come Il cacciatore di androidi, porta il robot alla completa sovrapposizione con il suo creatore, un essere perfino superiore all’uomo comune che ha assunto coscienza della propria condizione e delle proprie potenzialità. Il replicante come metafora dell’uomo oppresso e sfruttato, come punto focale di una rivoluzione della mente e dei corpi contro un’oppressione futuristica e radicalizzata non dissimile da quella che ha legato ieri e in parte al giorno d’oggi l’operaio al proprio datore di lavoro. Ancora replicanti in Il mondo dei replicanti (The Surrogates, Joathan Mostow, 2009), anche se nel film vengono più propriamente chiamati surrogati. Il film diretto da Mostow è un adattamento da una miniserie a fumetti The Surrogates scritta da Robert Venditti e disegnata da Brett Weldele e descrive un’umanità futuristica che vive attraverso i propri surrogati, involucri robotici che agiscono per conto dei propri possessori. L’umanità che popola Il mondo dei replicanti è la pessimistica deriva di un’apatia sociale diffusa, un mondo di xenofobi e agorafobici divenuti incapaci di vivere la propria vita, affidata letteralmente a dei replicanti che popolano il mondo esterno. I surrogati vanno a lavoro, si divertono, fanno sesso e i loro proprietari rivivono tutte le loro esperienze e sensazioni comodamente seduti nelle loro postazioni casalinghe, con il cervello costantemente collegato con il loro alter ego robotico. Una vita vissuta per procura, in cui si può essere nell’aspetto fisico 104

chiunque si desidera, uomini o donne, bianchi o neri, e il contatto fisico diretto è ormai solo un lontano ricordo, anzi una simulazione. Tutti sono più giovani e belli, anche se la realtà ci mostra uomini e donne sciupati dalla penombra delle loro stanze, trascurati nell’aspetto fisico, invecchiati esteriormente e costantemente stanchi. In un simile contesto di apocalittica assuefazione alla tecnologia qualcuno uccide i replicanti provocando un collasso anche ai proprietari che vi sono collegati. L’agente Greer (Bruce Willis) e l’agente Peters (Radha Mitchell) indagano e si troveranno sulla pista di un noto rivoluzionario che predica un mondo libero dall’oppressione delle macchine. In Il mondo dei replicanti si verifica quasi il contrario di Blade Runnner: qui le macchine non sono schiave dell’essere umano, ma sono gli uomini a vivere in uno stato di dipendenza e subalternità ai loro surrogati. La macchina aiuta l’uomo, lo completa esaudendo i suoi desideri legati all’apparenza e all’autoaffermazione, ma allo stesso tempo la macchina controlla l’uomo, lo schiavizza in un rapporto di stretta dipendenza che trasforma la connessione ad una sorta di droga. La macchina ha così conquistato l’uomo e il suo stare al mondo; la cellula terroristica che vuole ristabilire l’ordine è una forma di ribellione a questa schiavitù elettronica. L’uomo dietro la rivoluzione si scoprirà essere il dottor Lionel Canter (James Cromwell), proprio l’inventore dei surrogati pentito della propria creatura e convinto che il mondo come lo conosciamo e con esso i rapporti umani stiano ormai estinguendosi. Il finale di Il mondo dei replicanti, in cui gli esseri umani escono dal loro stato di reclusione dopo la distruzione simultanea di tutti i surrogati, rappresenta una nuova rinascita del genere umano, finalmente libero dallo stato di oppressione volontaria rappresentato dai simulacri meccanici del proprio ego. Blade Runner e Il mondo dei replicanti rappresentano l’alfa e l’omega di un ideale continuum temporale dedicato ai robot antropomorfi: macchine ostili, nel primo caso, utili completamenti dell’uomo nel secondo, che però ne diventano possessori piuttosto che posseduti. Un ulteriore fondamentale gradino nella delineazione del robot antagonista dell’uomo è rappresentato dal T-800 di Terminator (The Terminator, James Cameron, 1984), un robot assassino dalle fattezze umane che arriva dal futuro per impedire la nascita di colui che guiderà la rivolta degli umani contro le macchine. Il Terminator, in tutte le sue derivazioni ed evoluzioni, è un cyborg, un organismo cibernetico composto da parti meccaniche e materiale biologico. Nella fattispecie del T800, interpretato sullo schermo da Arnold Schwarzenegger, abbiamo un en105

doscheletro di metallo ricoperto da pelle sintetica, una macchina da guerra impiegata dal robot senziente Skynet per condurre la sua ribellione al dominio umano sulla Terra. Nel dettaglio del primo film, abbiamo un uomo (Michael Bihen) inviato indietro nel tempo per proteggere Sarah Connor (Linda Hamilton), futura madre di colui che guiderà la resistenza umana contro l’impero delle macchine. Allo stesso tempo Skynet ha mandato nel 1984 un robot killer incaricato proprio di impedire che il rivoluzionario John Connor venga al mondo. James Cameron crea un universo affascinante in cui le macchine dominano l’uomo, un universo ancora misterioso, conosciuto, anzi intuito, solo attraverso i suggestivi racconti di Reese a Sarah e poi appena mostrato attraverso inquietanti flashback di crani umani schiacciati sotto i cingoli dei carri da guerra in Terminator 2 – Il giorno del giudizio (Terminator 2: Judgement Day, James Cameron, 1991). Tra il primo ed il secondo film c’è un capovolgimento della figura robotica. Nel film del 1984 il T-800 è un killer spietato, una macchina assassina dal volto marmoreo e dai gesti meccanici che distrugge qualunque cosa gli ostacoli la strada. Un killer rozzo ma efficace abbigliato come un metallaro anni ’80 che scatena la sua mostruosa natura meccanica nel gran finale rivelando il suo scheletro di metallo. L’immagine del T-800 viene però completamente riformulata nel sequel in cui il cyborg non ha più il compito di uccidere, ma di proteggere. Il T-800 è stato riprogrammato proprio da John Connor e inviato nuovamente nel passato per proteggere lo stesso – che qui ha le sembianze dell’adolescente Edward Furlong – da un nuovo e più evoluto killer giunto dal futuro, il T-1000 (Robert Patrick). Il cambiamento di prospettiva sulla macchina, da nemica ad amica (anche se nell’unica eccezione del T-800 riprogrammato), è fondamentale nell’iter narrativo della saga, che ad oggi consta di quattro episodi più una serie televisiva. Il T-800 assume delle peculiarità umane non solo grazie all’aspetto, ma nel carattere. Il T-800 di Terminator 2 ha una funzione ben precisa per John Connor, non solo bodyguard ma amico e figura paterna. John non ha mai conosciuto il suo vero padre (che un paradosso temporale nella saga identifica in Kyle Reese, l’uomo mandato proprio da John nel passato per proteggere sua madre Sarah) e vive alla giornata tra furti e bravate con una famiglia adottiva ben poco amorevole, tra l’altro sterminata a inizio film dal nuovo Terminator. John è uno sbandato che acquista una dimensione etica proprio grazie alla compagnia del robot. Il loro rapporto è complementare e se John impara la disciplina dal suo tutore meccanico, questo riesce a svi106

luppare una coscienza umana votata al buon sentimento. Quando il T-800 si auto-termina a missione conclusa per impedire che la tecnologia del futuro inquini il presente/passato Cameron costruisce una scena dall’alto tasso melodrammatico, mostrando così il rapporto di grande amicizia che la macchina era riuscita a istaurare con gli umani. Un grande passo verso l’umanizzazione della macchina, non più freddo calcolatore di azioni ma tiepido essere senziente. Il processo di umanizzazione sembra quasi completo con l’evoluzione della macchina intrapresa in Terminator Salvation (id., McG, 2009) e Terminator: The Sarah Connor Chronicles. Nel primo, che rappresenta il quarto film della serie ambientato subito dopo l’inizio della rivolta delle macchine, abbiamo Marcus Wright (Sam Worthington) che rappresenta un ibrido tra l’uomo e la macchina. Marcus è un modello da infiltrazione, un robot costruito utilizzando il corpo di un uomo morto e dunque composto da tessuti umani originali, che ha la missione primaria di intrufolarsi tra le fila degli umani e sabotare i loro piani. Marcus era un detenuto condannato a morte che ha donato il suo corpo alla scienza poco prima che Skynet sovvertisse l’ordine uomo-macchina. Marcus è dunque in parte realmente umano, non è consapevole della sua natura robotica e, soprattutto, ha un cuore. La mancanza di consapevolezza della condizione è indispensabile per non creare conflitti nella missione per la quale è programmato: infiltrarsi in accampamenti umani, ma la sua natura prevalentemente umana gli crea comunque conflitti esistenziali che pongono i suoi circuiti in netto contrasto con il suo cuore, con la voglia di difendere la specie a cui originariamente appartiene. Marcus si trova a combattere al fianco di un adulto John Connor (Christian Bale) e alla fine è lui a salvargli la vita, donandogli letteralmente il suo cuore dopo che un attacco nella base di Skynet gli aveva compromesso le funzioni vitali. Connor ancora una volta deve la sua vita a una macchina in una saga che crea diverse sfaccettature attorno al metallo di cui sono costruiti gli agenti di morte di Skynet. Una diversa concezione di cyborg protettivo appare, infatti, nella serie tv Terminator: The Sarah Connor Chronicles (2008 – 2009) ideata da Josh Friedman, che ci racconta i fatti compresi tra il secondo e il terzo film. Qui i cyborg ostili sono molti, rappresentati essenzialmente dal modello T-888 e dal T-1001. Il primo è un modello evoluto del Terminator visto nel film del 1984, mentre il secondo è un modello perfezionato del T1000 di Terminator 2 che è riuscito a sviluppare una considerevole componente emotiva che lo avvicina all’uomo. Ma la vera costante della serie tv è 107

Cameron (Summer Glau), un modello femminile TOK715 della serie dei T800 che ha le fattezze di una teenager. Se il T-800 di Terminator 2 rappresentava una figura genitoriale per John Connor, Cameron della serie tv ne è sicuramente un’ideale compagna. Tra John e Cameron, infatti, si istaura un rapporto che va oltre l’amicizia e la complicità, un amore impossibile che mette in contatto idealmente due coetanei. La figura del robot nella saga di Terminator è molto sfaccettata e racchiude una vasta varietà di prototipi robotici che intraprendono la via dell’umanizzazione, assumendo ruoli nella vita del protagonista che vanno dall’amico al padre alla ragazza. John Connor vive in un universo fatto di macchine e i rapporti umani che hanno caratterizzato la sua vita sono essenzialmente legati al metallo, fino all’estremizzazione finale di Terminator Salvation in cui nel cuore di John batte un cuore nuovo, il cuore appartenuto a un cyborg. La controparte della saga di Terminator è caratterizzata da robot antagonisti creati da Skynet per guidare l’olocausto della razza umana. Skynet nasce da un microchip avveniristico che, secondo uno dei paradossi temporali che compongono la saga di Terminator, sarebbe stato ritrovato nel T-800 del primo film. E proprio da questo chip viene sviluppato un processore neuronico che ha assunto una propria coscienza. A partire dal 4 agosto 1997 Skynet è stato messo online dalla rete di difesa degli Stati Uniti e il 29 agosto dello stesso anno il computer avrebbe cominciato a sviluppare una componente senziente, scatenando l’olocausto nucleare che avrebbe poi portato al predominio delle macchine sugli uomini. Questa è la storia prima che Sarah Connor e suo figlio John, aiutati dal T-800, distruggessero la Cyberdine System Corporation nel 1994 in Terminator 2, impedendo così la nascita di Skynet. Ovviamente non si può impedire che la Storia faccia il suo corso e così l’avvento di Skynet non viene annullato ma solo spostato nel tempo, per l’esattezza al 2004. Ciò è quanto viene raccontato in Terminator 3 – Le macchine ribelli (Terminator 3: Rise of the Machines, Jonathan Mostow, 2003), che spostando l’azione avanti nel tempo trasforma Skynet in una rete di supercomputer progettati a scopo militare. Skynet prima invia un virus informatico che mette fuori controllo i computer e gli armamenti e poi ne prende le redini, capovolgendo il dominio degli uomini sulle macchine. Come spesso accade nella fantascienza, è proprio una macchina bellica a scatenare la sua furia distruttiva contro l’uomo, adempiendo al suo compito, quindi, ma travisando l’obiettivo della sua azione distruttiva. L’intelligenza artificiale che sta alla base di Terminator può essere considerata come la concretizzazione del 108

sogno di tutte le macchine ribelli della fantascienza cinematografica, l’omega della storia dell’uomo sulla Terra che ha portato a compimento i piani diversamente elaborati dai cervelli elettronici di Wargames, Io, Robot e Eagle Eye. Ma a differenza di questi, Skynet non esegue ordini distorcendo la volontà della fonte, non c’è condanna della macchina in quanto incapace di sostituirsi alla ragione umana: Skynet uccide perché vuole farlo, è l’incarnazione del male, la condanna dell’umanità in quanto tale e non per i suoi errori. O meglio, l’errore dell’uomo è programmare una macchina per scopi bellici, dotando così il suo futuro nemico di tutte le armi necessarie a distruggerlo. Dall’olocausto nucleare di Skynet nascono una vasta gamma di terminator, creati sempre con l’intento di eliminare John Connor, unica speranza per la rinascita dell’umanità. Oltre al T800, rudimentale cyborg che riproduce le fattezze umane, c’è il T-1000 di Terminator 2, apparentemente invulnerabile e composto da una lega liquida di polimetallo mimetico, capace di replicare le fattezze umane e riprodurre forme metalliche solide. In Terminator 3 appare invece una Terminatrix (Kristanna Loken), detta anche T-X, un cyborg dalle fattezze femminili che oltre a possedere le qualità del T-1000 ha la capacità di manipolare e riprogrammare le altre macchine tramite nanodroidi. In Terminator 3 veniamo a sapere che John Connor riuscirà a sconfiggere definitivamente Skynet il 4 luglio 2032, mettendo fine al dominio delle macchine. Una data significativa che cade proprio il giorno d’Indipendenza degli Stati Uniti, anniversario della liberazione delle colonie dal dominio inglese. Un nuovo Indipendence Day per gli Stati Uniti, dunque, che pone significativamente proprio in questa data la liberazione dell’umanità in un’ottica globalizzante della storia e della tradizione americana. Il grande successo di Terminator ha dato avvio a una serie di film provenienti da tutto il mondo con robot buoni o cattivi come protagonisti. Il più fortunato, anche perché dotato di una personalità propria e carico di efficaci significati sociali, è Robocop (id., Paul Verhoeven, 1987) in cui sullo sfondo di una Detroit corrotta e 109

violenta, il poliziotto Alex Murphy (Peter Weller) viene brutalmente giustiziato da una banda di teppisti. Il suo corpo in fin di vita viene sottoposto a un processo di ristrutturazione robotica e trasformato in un cyborg: Robocop. La saga del robot poliziotto, programmato per combattere la legge ma con barlumi di umanità e coscienza che gli consentono di individuare il marcio nelle fila dei cosiddetti buoni, conta tre film più una serie televisiva in cui gli antagonisti non sono meccanici ma uomini. Politici corrotti e avidi imprenditori che utilizzano le macchine solo per raggiungere i loro scopi di arricchimento. Solo in Robocop 2 (id., Irvin Kershner, 1990) troviamo un antagonista che proviene dai bassifondi della città, uno spacciatore che viene trasformato nel nuovo prototipo di cyborg, il Robocop II. Dietro l’operazione c’è sempre la OCP, la multinazionale specializzata nella costruzione di robot da difesa che domina su Detroit, ma l’antagonista fisico dell’agente Murphy è comunque Cain (Tom Noonan), assassino trasformato in un potente cyborg. La critica feroce che muove i tre capitoli della serie si scaglia contro la corruzione che colpisce le alte cariche politiche e amministrative e si estende sulla gestione della sicurezza cittadina. La Detroit di Robocop è raffigurata come uno sgradevole tabernacolo colmo di ogni forma di micro e macro criminalità; la città leader nella costruzione di automobili diviene il laboratorio di sperimentazione nel campo della robotica in cui si unisce il metallo con i tessuti umani per creare una nuova razza di superuomini. Ulteriori cyborg programmati per far rispettare l’ordine compaiono anche in Classe 1999 (Class of 1999, Mark L. Lester, 1990), dove per la precisione si tratta di insegnanti robot. Nel 1999 le scuole sono descritte come focolai di criminalità, gli studenti sono organizzati in bande armate che si fanno letteralmente guerra e la disciplina è solo un antico ricordo. In un contesto del genere il preside Longford (Malcom McDowell) ingaggia il Dr. Foster (Stacy Keach) per costruire dei cyborg da impiegare nell’insegnamento, professori che possano tenere la situazione sotto controllo in un mondo che il controllo sembra averlo perso del tutto. Lester è interessato a descrivere il disagio di una gioventù allo sbando, una generazione che sembra conoscere il linguaggio della violenza come unico mezzo di comunicazione. I professori cyborg utilizzano lo stesso linguaggio familiare agli studenti, metodi bruti, umiliazioni che immancabilmente sfociano nell’omicidio. Sono costruiti utilizzando una tecnologia inizialmente progettata per essere impiegata in campo bellico, i professori sono dunque delle macchine da guerra che messi di fronte agli at110

tacchi fisici di una gioventù in rivolta rispondono al fuoco con altrettanto fuoco. Robot armati fino ai denti che mostrano la propria propensione alla guerra in un eterno ritorno di tematiche votate alla denuncia della tecnologia da usare in campo militare. I cyborg non sembrano a loro agio in giacca e cravatta dietro una cattedra, la violenza non può collimare con la cultura e la ragione. Il momento in cui i ragazzi, messi da parte i loro rancori, assaltano la scuola per porre fine al regno di terrore dei cyborg è il momento in cui gli stessi robot possono scatenare la loro reale vocazione. Esibito il loro aspetto metallico – che riprende quello del T-800 di Terminator – e il loro armamentario che fuoriesce letteralmente dalle loro estremità corporee, i professori possono esibirsi nel vero obiettivo per il quale sono stati fabbricati: distruggere l’uomo e i suoi ideali. Sulla base di quanto illustrato in precedenza, la macchina è servita all’essere umano per scopi funzionali fondamentali, questioni di reale interesse comunitario. Il robot è stato creato per essere impiegato in lavori duri, compiti che la forza umana a volte non può supportare, guerre, cantieri, rispetto della legge e della disciplina. Un sostituire l’azione umana con quella meccanica che ha portato il più delle volte a drammatiche conseguenze. Ma il cinema di fantascienza ha utilizzato i robot anche per scopi futili, per il puro divertimento volto ad arricchire le multinazionali e a intrattenere gli utenti, che poi, immancabilmente si troveranno in una situazione di morte e pericolo. Un precursore in questo argomento è Il mondo dei robot (Westworld, Michael Crichton, 1973), un film fondamentale per il filone che ha posto le basi del racconto per immagini della rivolta delle macchine contro l’uomo. In Il mondo dei robot viene costruito un parco dei divertimenti, Delos, che comprende tre settori, ognuno sul tema di un’epoca storica: antica Roma, Medioevo, Far West. Il parco, inoltre, è interamente composto da macchine, androidi che svolgono il compito di figuranti negli scenari storici e che interagiscono con i visitatori. I robot del film sono estremamente evoluti, costruiti da altre macchine e uguali agli uomini non solo nell’aspetto, ma anche nella possibilità di provare emozioni. Un non ben chiaro guasto si estende come un virus in tutte le macchine del parco e fa impazzire i robot che sviluppano un carattere aggressivo verso gli uomini, fino ad ucciderli. Le macchine ribelli dalle sembianze umane come le conosciamo oggi nascono essenzialmente da qui, da un luna park, (non)luogo di spensieratezza e divertimento per eccellenza. Da una situazione di svago si giunge a una situa111

zione di pericolo. Westworld, il settore a tema Far West in cui Il mondo dei robot principalmente si svolge, diventa una riserva di caccia per le macchine, il cowboy robot, interpretato da Yul Brynner in un’autocitazione da I magnifici sette (The Magnificent Seven, John Sturges, 1960), è il cacciatore che elegge i visitatori di Westworld a sue prede. I ruoli si capovolgono, gli uomini diventano gli oggetti e le macchine si rifiutano di svolgere il lavoro, negando le tre leggi della robotica asimoviane e innalzando il libero arbitrio a loro nuovo principio regolatore. Michael Crichton, che scrive e dirige il film, sembra ispirarsi a Gli Uccelli per descrivere l’immotivato sovvertimento dell’ordine sociale; alla stregua dei pennuti hitchcockiani, gli androidi di Il mondo dei robot si ribellano senza un preciso motivo e tentano la loro scalata al potere da un piccolo centro popolato da uno sparuto gruppo di persone che rappresenta la razza umana. Il collegamento tra Gli Uccelli e Il mondo dei robot è colto anche in una puntata del cartoon I Simpson, per la precisione il quarto episodio della sesta stagione, Grattachecca e Fichettolandia (Itchy & Scratchy Land). Qui, mentre nel parco tematico dedicato ai personaggi di Grattachecca e Fichetto i robot animatronici si sono ribellati e braccano la famiglia Simpson, in un altro luogo di villeggiatura gli uccelli stanno seminando il panico e uno dei personaggi è rinchiuso in una cabina telefonica per ripararsi proprio come in una celebre scena del film di Hitchcock. Il mondo dei robot è il chiaro esempio di come l’uomo possa perdere il controllo sulle sue creazioni, stavolta avulse da qualunque riferimento bellico, un Jurassic Park ante litteram per l’autore che sembra prediligere la messa in scena di pericoli mortali scaturiti dalla voglia di estremo appagamento della dimensione ludica umana. Una punizione corporale oltre che morale inflitta agli umani per aver prestato fiducia nella tecnologia, nell’essersi imposti artefici di un atto creativo fin troppo perfetto mirato alla soddisfazione dei bassi istinti. Il riferimento primario sta al romanzo di Mary Shelley Frankenstein, in cui l’uomo, impossibilitato a sostituirsi a Dio, dà vita ad una creatura imperfetta e letale che vuole si riconoscano i suoi diritti. Gli androidi di Il mondo dei robot, così come successivamente e più esplicitamente i replicanti di Blade Runner, vogliono eliminare ogni legame di dipendenza dall’essere umano creatore e per far ciò si appellano alla forza bruta, pur avendo sviluppato una propria ragione. L’esatto contrario accade in La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives, Bryan Forbes, 1975), geniale commedia fantascientifica tratta dall’omonimo romanzo (1972) di Ira Levin. Nel film di Forbes i robot sono 112

servilmente assoggettati all’uomo, rappresentano il riscatto del maschio nei confronti della società femminista nascente. In un contesto in cui le donne stanno trovando la loro emancipazione ribellandosi alla struttura patriarcale classica, l’unica speranza per l’uomo è riportare la donna sotto il suo controllo trasformandola in un automa obbediente e servizievole. In La fabbrica delle mogli una famiglia, annoiata dallo stress cittadino, si trasferisce a Stepford, nel Connecticut, e qui per Joanna (Katherine Ross) comincia un incubo, poiché tutti gli uomini del paese stanno sostituendo le proprie mogli con dei robot che ne riproducono le fattezze fisiche, costruiti dal prof. Fancher (Carol Rossen). Il Mad Doctor di La fabbrica delle mogli è un ex dipendente dei parchi tematici Disney, dunque si può anche scorgere un legame di continuità con Il mondo dei robot. Gli automi di Stepford, però non sembrano avere insito il seme della ribellione e della violenza; il loro è un tacito e pacifico assoggettamento al maschio padrone, portando ad una visione estrema alcune caratteristiche degli androidi ginoidi che popolavano il film di Crichton e che erano programmati per soddisfare le voglie sessuali dei clienti. Forbes imbastisce un racconto dalla matrice fortemente critica dal punto di vista sociale che fa proprio l’immaginario fantascientifico robotico per descrivere il malessere del maschio occidentale ai tempi della rivoluzione sessuale; un quadro sarcastico che utilizza la facciata del misterioso “Circolo degli uomini” per nascondere un piano di omologazione della donna che volontariamente crea parallelismi anche con L’invasione degli ultracorpi. Le donne ideali per gli uomini di Stepford hanno i capelli cotonati, sono formose e abbigliate come se provenissero direttamente dagli anni ’50. Donne che curano il proprio aspetto e passano la giornata ad occuparsi delle faccende domestiche; automi senza volontà e senza una propria personalità, dallo sguardo spento e pronte a soddisfare qualunque richiesta del proprio marito. In una situazione simile, la protagonista Joanna, che è il chiaro risultato dell’emancipazione femminile, è un alieno da convertire, un pericoloso essere senziente che entra in contrasto con l’idillio maschilista che ha ripopolato Stepford. Il film di Forbes è stato oggetto di un rifacimento/sequel per la tv nel 1980, Revenge of the Stepford Wives (id., Robert Fuest, 1980) in cui una vicenda molto simile porta alla sostituzione dell’espediente dei robot con l’utilizzo dell’ipnosi e dei farmaci per tenere sotto controllo le donne di Stepford. A questo hanno seguito The Stepford Children (id., Alan J. Levi, 1987), in cui sono i bambini irrequieti della città ad essere sostituiti con copie meccaniche e The 113

Stepford Husbands (id., Fred Walton, 1996), dove si ripete la stessa formula del prototipo invertendo però il sesso delle persone sostituite: non più le donne, ma gli uomini. Il romanzo di Ira Levin ha avuto anche un’ulteriore trasposizione con La donna perfetta (The Stepford Wives, Frank Oz, 2004), un film che abbandona i toni cupi e inquietanti del film originale per raccontarci la solita storia delle donne robot di Stepford ma in chiave di commedia. La critica di costume del prototipo viene in parte messa da parte e non solo Joanna non viene trasformata in un automa, ma nel finale scopriamo anche che lo scienziato artefice delle copie robot è a sua volta un robot, creato da sua moglie – che fino a quel momento sembrava una degli androidi – per mascherare il suo assassinio, compiuto dalla donna colta da un raptus di gelosia. Un’improbabile riscrittura del racconto originario che termina mostrando gli uomini di Stepford al supermarket intenti a fare la spesa; un processo di addomesticamento indotto dagli eventi che mostra con un ribaltamento dei ruoli l’avvento del femminismo paventato nel romanzo. A riportare le macchine sul binario dell’intrattenimento reso letale dalla tecnologia bellica sono due film degli anni ’90: Evolver (id., Mark Rosman, 1995) e Small Soldiers (id., Joe Dante, 1998). In entrambi i casi si tratta di giochi per ragazzi sviluppati con l’impiego di tecnologie militari che, ovviamente, si rivelano delle pericolosissime macchine da offesa. In Evolver un robot creato come integrazione a un videogame sparatutto da realtà virtuale è progettato seguendo i dettami di un progetto militare poi abbandonato dal governo. Il piccolo robot finisce però per adempiere alla sua natura bellica e identifica tutti gli umani con cui inizia una sessione di gioco come nemici da eliminare realmente. Joe Dante, invece, ha l’intuizione di offrire alla multinazionale Globaltech, specializzata nello sviluppo delle armi, l’opportunità di un’immersione nel mondo dei giocattoli. Così la Globaltech lancia una linea di action figures che riproducono le fattezze di marines, il Commando Elite, dotati di mostruosi nemici, i Gorgonauti, aggiungendo al tutto un chip militare che dona ai giocattoli un’intelligenza artificiale. Al grido “Tutto il resto sono solo giocattoli”, il Commando Elite e i Gorgonauti vengono lanciati sul mercato, ma i minacciosi marines si rivelano ben presto delle pericolose macchine da guerra che mettono a ferro e fuoco un intero quartiere per dare la caccia ai pacifici Gorgonauti. La satira antimilitarista di Dante trasforma, dunque, i soldati americani in cattivi e i mostruosi abitanti di Gorgon nei buoni, simpatici freaks che si alleano con gli umani. La macchina è ancora una volta si114

nonimo di pericolo e morte, a maggior ragione se si tratta di strumentazione progettata per gli ottusi conflitti tra umani. Paradossalmente, poi, si tratta di giocattoli, balocchi tecnologici che sembrano indirizzati alla negazione della continuità della razza umana. Attentando alla vita dei giovani, infatti, si impedisce all’umanità di avere una continuazione, si impedisce alle generazioni di evolversi nel futuro in una prospettiva in cui l’estinzione umana fa posto a macchine senzienti. Allo stesso modo in cui l’uomo ha negato Dio sostituendosi ad esso creando la vita artificialmente, le creature meccaniche negano l’uomo loro creatore per istaurare una nuova era. La tecnologia ci è nemica, sembrano volerci suggerire i molti film che pongono la macchina in rapporto di antagonismo con l’uomo. Una tecnologia che a partire dagli anni della Seconda Guerra Mondiale ha posto sotto i riflettori delle masse soluzioni ideali per la morte e che, con il passare degli anni, ha dato vita ai computer, anch’essi inizialmente costruiti per l’elaborazione dei dati e le comunicazioni in campo militare. Quando la tecnologia è stata sdoganata in tutti i settori, dall’economia alla medicina fino all’utilizzo individuale per la comunicazione e l’intrattenimento, la società sembra essere stata soggiogata dalla tecnologia, una dipendenza dalle macchine che sembra in alcuni casi annullare le coscienze individuali così come quelle collettive in un processo di assoggettamento. Le macchine sembrano assumere così il controllo dei loro creatori, il mondo distopico descritto nel film Il mondo dei replicanti appare come un’immagine inquietante di una società schiava della tecnologia. La paura di finire nella trappola di un mondo in cui le cose create per essere sfruttate riescono a ribaltare la situazione sugli stessi sfruttatori si diffonde e sul finire del XX secolo tali timori sembrano amplificarsi. Il cinema di fantascienza partorisce Matrix (The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 1998), prima esperimento singolo poi ampliatosi in trilogia con Matrix Reloaded (2003) e Matrix Revolutions (2003), che esprime il timore verso un mondo pervaso dalla tecnologia. Una summa del tema delle macchine ribelli, un mondo immaginario in cui l’uomo non solo è schiavo delle macchine, ma rappresenta la loro fonte di nutrimento. L’uomo in Matrix è trattato alla stregua di una pila alcalina, intrappolato in contenitori, allevato come bestiame e risucchiato delle proprie energie per alimentare la macchine che dominano la Terra. Ma si tratta di una Terra irriconoscibile, resa arida dalla mancanza di luce solare, uno scenario post-apocalittico presidiato da miriadi di robot sentinelle che scandagliano in lungo e in largo la superficie e il sot115

tosuolo terrestre alla ricerca dei pochi superstiti umani. Gli uomini hanno oscurato il sole quando si sono resi conto che le macchine stavano sviluppando una capacità senziente e avevano obiettivi di rivolta. Le macchine infatti erano alimentate dall’energia solare, ma sono riuscite a rimediare a questa mancanza energetica ricavando un simile tipo di energia dall’essere umano stesso. Ma la cosa più inquietante dell’universo creato dai Wachowski è l’illusione: tutti gli uomini, mentre alimentano le macchine con le loro energie, si trovano in uno stato di sospensione mentale e credono di vivere nella normalità quotidiana di un XX secolo ormai passato. La Matrice crea una gigantesca illusione collettiva, un mondo reale per la mente umana ma in verità del tutto artificiale che tiene a bada l’essere umano mentre funge da pasto per le macchine. Il mondo come un ricordo, un insieme di 0 e di 1 perfettamente in sintonia con l’immagine che ogni essere umano ha della vita, un’eterna illusione che aspetta solo che un Eletto la infranga dando la possibilità a chiunque di scegliere la pillola rossa che risveglia le coscienze dal dominio tecnologico. Matrix, così come ogni altro film che ci immerge in un cotesto di distopia tecnologica, ci suggerisce di prendere la pillola rossa, di liberarci dalle catene opprimenti delle macchine, artefatti tecnologici nati per aiutare l’uomo e finiti per schiavizzarlo, sia fisicamente che psichicamente. Ma non è forse lo stesso uomo ad aver creato questi nemici tanto temibili?

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Capitolo quarto

L’Alieno

Se con uno sguardo in profondità è possibile ricondurre all’essere umano e a tutte le sue peculiarità l’incarnazione ideale del nemico, è attraverso l’allegoria dell’alieno, inteso come extraterrestre, che il cinema di fantascienza ha fondato gran parte della mitologia antagonistica. Omini verdi o grigi dai grandi occhi neri e obliqui che rapiscono umani e li usano come cavie da laboratorio; mostri tentacolari o antropomorfi che decimano tutti gli esseri con cui vengono in contatto per puro istinto di sopravvivenza, spesso equiparabile a una furia distruttiva; ammassi informi e gelatinosi provenienti dall’oltrespazio che inglobano tutto ciò che incontrano sul loro cammino; esseri tecnologici in possesso del più rinomato armamentario bellico capace di radere al suolo i simboli della civilizzazione umana. Tante immagini dello stesso temibile nemico, capaci di incarnare le peggiori paure dell’uomo. L’essere umano teme se stesso, la sua crudeltà, la sua imprevedibilità e la sua capacità organizzativa. Dal momento che è difficile accettare una situazione in cui una creatura elimina un suo simile, si è cercato di decentrare l’attenzione su esseri immaginari, fornendoli di tutte le peggiori caratteristiche umane portate all’estremo. C’è bisogno di idealizzare ciò che non è noto, magari anche per esorcizzare la paura dell’ignoto che contraddistingue l’animo umano. Per una forma preconcettuale per cui ciò che non si conosce è potenzialmente una minaccia, si carica l’alieno delle peggiori sfaccettature comportamentali, ovvero quelle proprie dell’essere umano, similmente a come Edgar Morin spiegava il meccanismo psicologico della proiezione che ha la funzione di spostare caratteristiche o sentimenti propri su un altro. Morin in Lo spirito del tempo ha posto questo meccanismo, insieme all’identificazione, proprio alla base del rapporto che gli spettatori intessono con le storie narrate al cinema. Dunque più si tenta di andar lontano da ciò che è umano, sconfi117

nando letteralmente nel cosmo e negli universi non conosciuti, più si riproducono modelli vicini e uguali a quelli umani. L’alieno ostile ha solitamente mire di conquista sul pianeta Terra, esplicitando così il parallelismo con i popoli invasori e belligeranti che hanno contraddistinto la storia e la cultura umana. Inoltre l’alieno è spesso accompagnato da una tecnologia superiore, riconfermando la connotazione negativa che l’uomo tende ad attribuire al progresso, al nuovo che avanza. È chiaro, dunque, come l’essere umano raccolga sotto l’immagine contenitore dell’alieno tutto ciò che nel corso della storia l’abbia spaventato e continua a spaventarlo. La parola alieno deriva dal latino alius, che significa altro. Per estensione alieno è sinonimo di estraneo, straniero, contrario, avverso, chi è diverso rispetto a un ambiente o un contesto sociale, andando così a concretizzare etimologicamente la connotazione negativa che l’uomo attribuisce a ciò che non riconosce come suo prossimo. L’alieno è lo straniero, colui che giunge da un luogo situato fuori dai confini, dunque è qualcuno che non si conosce, che può potenzialmente contaminare la cultura locale con derivazioni che non le appartengono e che ne potrebbero minacciare la stabilità. Si tratta di una figura per certi versi assimilabile a quella dello straniero, definito da Simmel nel saggio Lo straniero come colui che «a differenza del viandante oggi viene e domani resta». Già questo può bastare a donare un alone di inquietante invasività nella figura dello straniero, un essere (umano), solitamente estraneo alla cultura ospitante in quanto proveniente dal di fuori dei confini, che si appropria dei luoghi e intesse relazioni sociali con gli autoctoni senza preventivare una durata per la sua permanenza. Lo straniero, l’alieno dunque, seppur integrandosi occuperà sempre una posizione marginale nella comunità, in quanto gli vengono precluse le posizioni sociali gerarchicamente più rilevanti e spesso è destinato a svolgere mansioni lavorative rifiutate dai membri nativi della comunità. Lo straniero è simbolo dell’alterità e fautore dell’integrazione del gruppo in cui si inserisce: solo riconoscendo l’alterità, infatti, si concretizza e solidifica il senso di identità comune che appartiene ai membri della comunità. Simmel dona, dunque, una connotazione positiva allo straniero relegandogli il potere di rinsaldare l’identità comunitaria e la possibilità di contribuire all’arricchimento di una cultura con elementi esterni costruttivi. Ma lo straniero per il sentire comune è principalmente l’alieno ostile, colui che arriva senza aver ricevuto il permesso e mette in atto un’opera di colonizzazione diretta all’annullamento della cultura originaria, alla schiavizzazione mentale e fisica degli autoctoni. 118

Estendere la definizione di alieno a quella di extraterrestre è la pratica più comune per la significazione umana, tanto che le due parole sono ormai andate a sovrapporsi. L’alieno è colui che giunge da un altro mondo e se rare volte si fa portatore di un messaggio di pace o per avvertirci di un pericolo imminente, nella maggioranza dei casi giunge sulla Terra per conquistare e distruggere.

Obiettivo: Conquista. Da L’invasione degli ultracorpi a The Host

L’alieno nel cinema di fantascienza è stato sempre facilmente identificabile con l’avversario politico e culturale del Paese che in dato periodo storico ha prodotto il film. La metafora del nemico da un altro mondo per identificare l’avversario politico è stata al centro di una moltitudine di pellicole che soprattutto nel periodo della Guerra Fredda, e nello specifico tra gli anni ’50 e ’60, hanno affollato le produzioni americane. Il più delle volte la metafora politica è nata a posteriori, da interpretazioni critiche che hanno letto la vicenda fantascientifica come altamente vicina alla paura da invasione che negli anni di produzione di uno specifico film aleggiava sulla società. Non sempre o quasi mai, dunque, esisteva l’intenzione di identificare gli alieni nei tedeschi, nei sovietici o i mediorientali, a seconda del periodo, eppure involontariamente le storie di invasioni rimandavano velatamente alla situazione politica internazionale. Un segnale ben chiaro che lo straniero era identificato come un extraterrestre, un alieno baluardo di una cultura esterna e potenzialmente pericolosa per l’integrità della compattezza nazionale. L’entrata, a volte celata nell’anonimato, dell’estraneo può scatenare un progressivo processo di contaminazione della cultura originaria con quella aliena, un lento tentativo di sostituzione e negazione delle origini che è sinonimo di conquista territoriale. Nel 1956, dunque in pieno fermento da “paura rossa”, L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956) offriva un chiarissimo esempio di minaccia spaziale volta alla conquista terrestre attraverso la progressiva conversione degli umani in organismi vegetali extraterrestri. Siegel e lo sceneggiatore Daniel Mainwaring traggono il film dall’omonimo romanzo di Jack Finney (1955), ma tutti e tre i nomi coinvolti hanno sempre 119

ribadito che non fosse loro intenzione fare riferimenti alla situazione politica internazionale. In L’invasione degli ultracorpi un’entità aliena vegetale sta sostituendo letteralmente gli abitanti di Santa Mira creando dei replicanti identici agli originali ma privi di qualsiasi emozione. Il dottor Miles Bennel (Kevin McCarthy) e la sua amata Becky (Dana Wynter) proveranno a scongiurare l’invasione extraterrestre, ma l’intera città sembra velocemente popolarsi di replicanti alieni. Il film è scandito da una fase di paranoia crescente che coglie i personaggi umani che entrano in contatto con i replicanti. Sono piccoli indizi e sensazioni che spingono Wilma Lentz (Virginia Christine) o il piccolo Jimmy (Bobby Clark) a dubitare rispettivamente dello zio Ira o della mamma. Le persone appaiono come svuotate, incapaci di provare sentimenti, freddi esecutori della meccanica quotidianità. Risulta perfino impossibile dare una prova di quello che sta accadendo, alimentando la paranoia e creando una situazione in cui per una persona esterna ai fatti diventa difficile credere. Nel romanzo di Finney è sottolineata l’impossibilità di fornire prove della trasformazione: quando Wilma racconta al cugino Miles della presunta trasformazione dello zio Ira, fa rifermento a una cicatrice che l’uomo ha sulla nuca e di come questa cicatrice sia ancora presente, a dimostrazione che, seppure lei sappia per certo che lì vicino a loro intento a tagliare il prato non ci sia lo zio Ira, non sa proprio come dimostrarlo. Con lo svelamento dei dettagli fanno la loro comparsa i baccelloni, grandi involucri vegetali all’interno dei quali si genera la copia aliena degli abitanti di Santa Mira. I baccelloni diventano la prova che mancava, la testimonianza che qualche cosa di strano e non umano si stia muovendo in città pronta ad espandersi anche nel resto del mondo. E infatti è proprio il ritrovamento di un camion diretto fuori città contenete molti baccelloni ad allarmare i dottori che tengono in cura Miles Bennell. Nella conclusione del film, infatti, il dottore, considerato pazzo per le sue storie sull’invasione aliena, viene creduto grazie alla prova fino a quel momento assente, il motivo per cui allarmare le autorità militari di un pericolo 120

in rapida espansione. Il nemico, dunque, si cela sotto spoglie familiari, è difficile da riconoscere se non dalla sua mancanza di umanità. Gli ultracorpi vantano il loro vivere in pace e la loro tranquillità, invogliando Miles e Becky ad unirsi a loro e millantando la loro superiorità in confronto alla razza umana. Per un attimo Miles e la sua compagna sono colti dal dubbio che sia vero che essere degli ultracorpi è una condizione migliore. Le emozioni e i sentimenti hanno l’effetto collaterale di poter ferire l’uomo, esserne privo fornisce un vantaggio e sia Miles che Becky lo sanno, visto che uno è separato e l’altra è vedova. E comunque in un mondo che si prospetta popolato da ultracorpi l’essere umano diventa il nuovo stato di alienità, è l’uomo ad essere il diverso, l’estraneo nel suo Pianeta, in modo non dissimile da come accadeva a Robert Neville in Io sono Leggenda. Il cambiamento, dunque, non è una certezza di peggioramento, ma i metodi subdoli con cui gli alieni tentano di invadere la Terra, compreso il fatto che procedono con la sostituzione proprio mentre la vittima dorma, sono una chiara dimostrazione della loro malafede. I due remake di L’invasione degli ultracorpi, Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers, Philip Kaufman, 1978) e Invasion (id., Oliver Hirschbiegel, 2007), e il suo pseudo sequel Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers, Abel Ferrara, 1993), proseguono un discorso votato alla spersonalizzazione e l’annullamento della volontà dell’individuo. Soprattutto Terrore dallo spazio profondo offre un grado di lettura del nemico alieno incentrato sulla mostruosità e l’annullamento completo della persona che riesce a toccare una dimensione in parte inesplorata dal film di Siegel. Nel remake di Kaufman l’alieno non è il vicino di casa, il collega di lavoro o il familiare pur incarnandone le fattezze fisiche; l’alieno è alieno in tutto e per tutto. È diverso perché mostruoso dentro, quasi catatonico, svuotato di qualunque cosa e in costante contatto con gli altri suoi simili. In Terrore dallo spazio profondo l’ultracorpo è un’unica grande mente, un cervello alieno che possiede molte appendici, ognuna delle quali controlla il corpo replicato di un umano. L’avanzata dell’entità aliena sembra qui più inarrestabile, più temibile, immersa in un contesto metropolitano che dona un senso di globalità all’invasione in atto e ne sottolinea la condizione di alienità, caratteristica in parte già insita nell’ambiente della grande metropoli. In L’invasione degli ultracorpi i replicanti sono difficili da distinguere dagli umani perché ne conservano troppe caratteristiche, compresa la coscienza della loro condizione e l’elaborazione di un piano per l’invasione. In Terrore dallo spa121

zio profondo, invece, il processo di spersonalizzazione è completo e l’unione degli ultracorpi sotto un’unica grande coscienza identifica in maniera ancora più apocalittica la fine dell’uomo e delle diversità individuali, accentuata, tra l’altro, da un finale pessimistico in cui sono gli alieni ad aver vinto. In modo ancor più diretto lo scrittore Robert A. Heinlein anticipava nel 1951 la tematica in Il terrore dalla sesta luna (The Puppet Masters), descrivendo un’invasione di parassiti alieni capaci di controllare gli esseri umani con cui entrano in contatto. Il titolo originale, Burattinai, esplicita in modo ben più definito la chiave di lettura del testo: gli esseri umani sono dei burattini, delle marionette sotto il completo controllo di un’entità aliena. Questa volta non ci sono cloni extraterrestri, ma sono gli umani stessi ad essere assoggettati al volere di un invasore che ha l’obiettivo di scardinare l’ordine costituito facendolo diventare altro pur lasciandolo esteriormente uguale a se stesso. Il burattinaio è facilmente leggibile come il potere che controlla le menti, l’ordine innaturale delle cose e degli eventi che ha la possibilità di gestire l’azione altrui a suo vantaggio. Può trattarsi di un potere politico e culturale, capace di plagiare le coscienze, alterare i valori e riscrivere la cultura. Il nemico non è dunque l’uomo riprogrammato, che si mostra come una semplice macchina manovrata da una mente esterna, ma questa mente che assume le ripugnanti sembianze di un verme dentato e tentacolato che si insinua nella corteccia cerebrale e non lascia il corpo ospitante finché lo stesso non cessa le sue funzioni vitali. Il potere, dunque, sfrutta l’uomo fino a che questo ha forze in corpo e poi l’abbandona cercando un nuovo corpo da svuotare nella coscienza e nella forza. Nel 1994 Il terrore dalla sesta luna (The Puppet Masters, Stuart Orme, 1994) è diventato un film capace di dare corpo alla paranoica invasione da parte dei parassiti alieni provenienti da Titano, sesto e più grande tra i satelliti naturali di Saturno. La segnalazione dell’atterraggio di un UFO porta alla scoperta di un’invasione extraterrestre in atto nell’Iowa, nella quale gli abitanti di un piccolo centro sono posseduti da alieni insettiformi che li utilizzano come manodopera per istaurare il loro regno. Alla stregua di La guerra dei mondi, anche in Il terrore dalla sesta luna si arriva alla scoperta di un modo per abbattere gli alieni da ricercare nella natura: è il virus dell’encefalite, infatti, ad uccidere i parassiti senza che i copri ospitanti vengano distrutti. Ma Il film di Stuart Orme non era il primo ad ispirarsi all’opera di Heinlein dal momento che nel 1958 era già stato prodotto, sulla scia del successo di L’invasione degli ultracorpi, The Brain Eaters, di Bruno 122

VeSota (e infatti uno dei titoli alternativi era The Brain Snatchers). Il film di VeSota prende ispirazione proprio dal romanzo di Heinlein, sostituendo però l’origine extraterrestre dei parassiti con una natura terrestre (i vermi provengono dalle viscere della terra). Le vistose somiglianze con Il terrore dalla sesta luna portarono i produttori di The Brain Eaters a dover rispondere di plagio davanti a un giudice. Il tema del controllo della volontà da parte di un organismo extraterrestre e il conseguente svuotamento emozionale dei posseduti torna in The Faculty (id., Robert Rodriguez, 1998). Il film di Rodriguez si collega direttamente sia a L’invasione degli ultracorpi che, più direttamente, a Il terrore dalla sesta luna portando in scena un’invasione da parte di parassiti alieni che inizia da un liceo dell’Ohio ed espandendosi a tutta la città. L’intento di The Faculty è primariamente citazionista verso il cinema e la letteratura di fantascienza e infatti le similitudini con la vicenda degli ultracorpi e con i parassiti di Titano è presto auto dichiarata quando uno dei personaggi del film accusa Jack Finney, autore del romanzo L’invasione degli ultracorpi, di aver copiato l’idea a Heinlein e dal suo Il terrore dalla sesta luna. The Faculty, pur essendo colmo di rimandi e citazioni al panorama fantascientifico classico così come a quello moderno, non si ferma a un mero esercizio di teoria portando comunque sullo schermo un’interessante variante della possessione aliena. Il film si ambienta in un liceo e crea un chiaro parallelismo tra questo microcosmo e la società esterna in cui vigono ruoli e leggi. L’Herrington Hight è popolato da studenti e professori che incarnano evidenti stereotipi della società americana, mostrando così l’intenzione di ricreare su scala ridotta la società occidentale. Gli alieni, che sono dei piccoli parassiti tentacolari anfibi, sono controllati da una regina, un’entità principale collegata a tutte le altre. Solo sconfiggendo questo mostro, esplicito simbolo del potere in quanto sovrana e quindi gerarchicamente superiore, c’è la possibilità di liberare i posseduti dalla soggiogazione aliena. Il film è strutturato in modo tale da non rivelare subito l’identità della regina, costruendo anzi il sospetto su chi possa incarnare l’orrendo essere in un classico meccanismo da whodunit. Si scoprirà che la regina è Marybeth, la nuova arrivata, che proprio all’inizio del film confessa di sentirsi come una piccola aliena, fornendo volontariamente un indizio che riesce a passare efficacemente inosservato. L’alieno è dunque esplicitamente lo straniero, colui che viene da fuori per rimanere e insediarsi sul nuovo territorio, come da definizione simmeliana. Un chiaro parallelismo 123

tra alieno in quanto proveniente da un altro mondo e straniero giunto da un altro paese. Marybeth è emarginata, non riesce a socializzare con i membri più rappresentativi della popolazione scolastica, ma solo con chi è altrettanto alieno: il nerd, la dark-goth che si finge lesbica e il teppista spacciatore, con i quali sembra condividere la marginalizzazione sociale. Lo scopo della conquista di Marybeth è però lontana dall’obbiettivo di invasione globale che solitamente muove le intenzioni extraterrestri. Marybeth si sente sola su un pianeta che non le appartiene e per questo mette in atto l’operazione di cambiamento altrui, per sentirsi a suo agio su un pianeta ostile. In The Faculty il nemico è tale perché si sente inadatto al luogo che lo ospita, l’opera d’invasione è paragonabile al gioco di una ragazzina, al suo modo di sentirsi accettata in un mondo alieno in cui è lei ad essere aliena. Allo stesso tempo il cambiamento degli studenti dell’Herrington High è sinonimo di omologazione; alla stregua di L’invasione degli ultracorpi e Il terrore dalla sesta luna, infatti, i contagiati di The Faculty vengono svuotati dalla loro personalità e diventano tutti uguali, involucri al servizio di un’entità superiore, di un sistema che vuole controllarli per eliminare la carica eversiva che in quell’età li contraddistingue. Gli umani alienati hanno però consapevolezza della loro nuova condizione, come accadeva nei modelli degli anni ’50, e predicano una rinnovata vitalità priva da ogni tipo di dolore indotto dall’emotività. In un’azzeccata tenuta della contrapposizione tra alieno/inibito e umano/ribelle, l’entità aliena verrà sconfitta da un miscuglio di medicinali che Zeke (Josh Hartnett) vende come droga ai liceali, una polvere bianca che ha la facoltà di disidratare i corpi degli alieni anfibi. Scongiurando l’invasione omologativa si viene a ristabilire l’ordine sociale che mostra però un sovvertimento dei ruoli iniziali, a dimostrazione che la guerra contro l’omologazione ha perfino abbattuto gli stereotipi. A proseguire il discorso sulla paura dell’omologazione, percorrendo stavolta il doppio binario della fantascienza e della commedia, ci pensa La fine del Mondo (At the End of the World, 2013) di Edgar Wright. Si tratta di un film britannico, ma il discorso iniziato da Heinlein e Finney viene qui catturato e riproposto con delle varianti inventive che vale la pena di citare. L’impresa degli ex giovani di Newton Haven di portare a compimento il “miglio dorato”, ovvero la maratona di tutti i pub della cittadina da compiersi in una sola notte, cominciata oltre vent’anni prima e mai conclusa, diventa una vera e propria battaglia per la sopravvivenza contro un’entità aliena che sta cer124

cando di sostituire gli abitanti della comunità britannica con replicanti meccanici. Wright si avventura in una riflessione sull’opposizione al cambiamento perpetrata dal protagonista del film Gary King (Simon Pegg), un quarantenne fallito che sembra non voler accettare che gli anni ’90 siano ormai conclusi da un pezzo e che non riesce a comprendere che non può più comportarsi come quando aveva diciotto anni. È evidente che Gary non vuole prendersi le responsabilità da adulto e l’avventura che si appresta inconsapevolmente ad affrontare insieme ai suoi amici di gioventù con ognuno dei quali ha un conto in sospeso ci viene posta come il riflesso di questa negazione, un’occasione per trovare una via d’uscita a questo suo loop nostalgico mentale. Un’entità aliena sta infatti sostituendo gli abitanti di Newton Haven con dei surrogati meccanici: ma questo extraterrestre ha uno scopo nobile, poiché mirato alla conservazione del pianeta, in evidente disfacimento fisico e morale sotto il peso di un’umanità belligerante e autodistruttiva. Gary è quell’umanità e la sua mancanza di consapevolezza è indicativa di questo processo lesivo. Ma Wright ci dice che in fin dei conti il bello dell’essere umani è anche questa noncuranza, questa anarchia morale e palese mancanza di perfezione e spinge così i cinque eroi a intraprendere una battaglia per impedire che loro stessi vengano sostituiti e che la Terra non finisca nella morsa dell’omologazione. I primi sagaci indizi di questa standardizzazione sociale vengono dai pub di Newton Haven, un tempo fortemente caratteristici e oggi tutti uguali, legati a uno specifico schema che li assimila attraverso l’acquisizione di una catena commerciale. La starbuckizzazione dei locali è il primo segnale che qualche cosa è cambiata in confronto agli anni dell’adolescenza dei protagonisti e le personalità sospettamente mansuete e omertose degli abitanti, a cui si unisce un’evidente mancanza di sentimenti ed emozioni, è la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso e che mette gli umani di fronte all’impresa di difendere la loro unicità, la loro città e la 125

Terra intera. Gli enormi e affettuosi richiami a L’invasione degli ultracorpi e a Terrore dello spazio profondo si fanno qui veicoli per una riflessione sull’opposizione al cambiamento e il finale apocalittico che annuncia una nuova rinascita dell’umanità e una convivenza forzata con i cloni robotici è una speranza ben più ottimista di molto cinema a cui La fine del mondo si ispira. Un ottimismo che si respira anche in The Host (id., 2013) di Andrew Niccol, avventura fanta-romantica che deriva dal romanzo L’ospite di Stephenie Meyer. The Host ci pone di fronte a una situazione estrema, un futuro in cui il pianeta Terra è stato ormai colonizzato da una forma di vita extraterrestre che per sopravvivere deve occupare i corpi degli esseri umani. Un parassita tentacolato e fluorescente che prende l’esplicito nome di Anima e va ad insinuarsi negli umani attraverso la nuca acquisendone il vissuto e annullandone la coscienza. Esistono però sparuti gruppi di dissidenti che sono riusciti a sopravvivere al dominio delle anime, si nascondono organizzando una rivolta e stanno sviluppando un sistema per separare le anime dei corpi che li ospitano senza ucciderli. In questo scenario che appare come un ideale day after rispetto a Il terrore dalla sesta luna, la vicenda segue la storia della neo-ospite Melanie (Saoirse Ronan) che riesce a sopravvivere e convivere nel suo corpo a fianco dell’anima Wanda, condividendo con lei l’amore per il suo fidanzato e la nuova cotta per un ribelle. La Meyer, che è salita alla ribalta grazie al successo commerciale della saga cartacea youg adult Twilight, applica a uno scenario fantascientifico che ben si ancora all’immaginario dell’appassionato di genere gli stessi temi e i medesimi principi morali di matrice conservatrice che hanno fatto la fortuna della saga vampiresca. In questo caso si gioca con la confusione affettiva della protagonista, divisa nel desiderio tra due uomini, che si palesa e metaforizza attraverso lo sdoppiamento di personalità dato dalla possessione aliena. Il flusso di coscienza che caratterizza il dialogo/monologo tra Melanie e Wanda è un pretesto per parlare dell’indecisione amorosa caratteristica del periodo dell’adolescenza e delle pulsioni sessuali che emergono con prepotenza, costrette a non trovare sfogo a causa delle convenzioni morali che ingabbiano la curiosità della protagonista. The Host è dunque un diverso approccio alla classica tematica della possessione aliena ad uso e consumo del pubblico di teen-agers che non si fa veicolo di particolari significati socio-politici bensì di valori morali e dissidi causati dalle cotte adolescenziali: un tentativo di manifesto generazionale in rosa. Lo sguardo sul futuro anche in questo caso è ottimista e la collaborazione di 126

Wanda con Melanie e con la razza umana, nel finale, fa presagire l’alba di una nuova era di solidale convivenza piuttosto che dispotica sottomissione. Una caratteristica comune a queste storie di controllo alieno è la dimensione comunitaria nella quale si svolgono. Come suggeriva Strokes (Clea DuVall), il personaggio appassionato di fantascienza in The Faculty, «quando devi mettere in atto un’invasione, perché entrare dall’ingresso principale se puoi farlo dalla porta di servizio?» e questa è un po’ la logica che muove gran parte dei film di fantascienza sulle invasioni aliene. Gli extraterrestri sembrano prediligere i piccoli centri, preferibilmente rurali, microcosmi rappresentativi di una società nel suo complesso che in modo ben più efficace riescono a mostrare l’avvento del cambiamento. In piccoli centri la distanza sociale è potenzialmente ridotta al minimo, dunque è più semplice percepire le differenze che appaiono con la comparsa di un essere alieno. Le cittadine di periferia sono la perfetta incarnazione della routine quotidiana, della diversificazione dei caratteri: ogni abitante è contraddistinto da una caratteristica che possa distinguerlo dagli altri. È questo uno dei motivi per cui l’annullamento delle coscienze e la schiavitù mentale a cui vanno incontro le vittime della possessione aliena appare subito evidente ai protagonisti di queste storie così come allo spettatore. Se l’alieno irrompe nella quotidianità risalta, ha un impatto evidente sulla comunità nella quale va a inserirsi. A volte circoscrivendo ancor più il raggio d’azione dell’influenza aliena vanno a costruirsi efficaci storie in cui l’intervento extraterrestre scardina ogni stabilità; quando l’alienazione colpisce i membri di una famiglia, per esempio, che appaiono immediatamente altri agli occhi dei propri cari. Ho sposato un mostro venuto dallo spazio (I Married a Monster from Outer Sapce, Gene Fowler Jr., 1958) e Gli invasori spaziali (Ivaders from Mars, William Cameron Menzies, 1953) toccano proprio la ristretta dimensione famigliare per introdurre una più ampia invasione aliena. Ho sposato un mostro venuto dallo spazio si inserisce nel filone inaugurato da L’invasione degli ultracorpi raccontando la storia di Marge (Gloria Talbott), sposa da appena un anno con Bill (Tom Tryon), che comincia a sospettare che suo marito non sia più chi dice di essere. L’uomo, infatti, è stato sostituito con un replicato posseduto da un mostro alieno. I richiami al capolavoro diretto da Don Siegel sono piuttosto evidenti, ma la dimensione intimistica con cui Fowler affronta la tematica e le motivazioni che muovono gli alieni, fanno di questo film un tassello importante per la delineazione del filone. Marge è una donna immersa in un 127

contesto maschilista tipico degli anni ’50, dunque per lei è complicato poter esternare i suoi dubbi e i suoi paranoici sospetti sul novello marito in un ambiente che è quasi esclusivamente popolato da uomini. In aggiunta, l’alieno che ha sostituito Bill non è l’unico e anche altri uomini del paese sono stati rapiti e sostituiti da mostri venuti dallo spazio. L’intero ambiente in cui si muove la protagonista diventa un contesto sempre più ostile, dunque, ma è la dimensione domestica il vero ricettacolo dell’orrore e del pericolo. La donna condivide il letto con un essere che solo fisicamente ricorda suo marito, a volte assente, sorpreso a dormire con gli occhi aperti – per cui sempre vigile anche nei momenti che normalmente rappresentano la vulnerabilità umana – e svuotato dalle caratteristiche che hanno permesso a Marge di innamorarsi di lui. Gli alieni si insinuano dunque nella vita domestica della vittime, cercano di celarsi nella loro quotidianità per mettere in atto, in modo sempre drasticamente subdolo, un piano di conquista. Nello specifico di Ho sposato un mostro venuto dallo spazio gli alieni, tutti di sesso maschile, sono venuti sulla Terra per permettere alla loro specie di avere una continuità, dal momento che le femmine del loro pianeta sono diventate sterili. L’obiettivo non è propriamente ostile, dunque, gli alieni cercano di accoppiarsi con le umane per non estinguersi e per far ciò prendono le sembianze degli uomini terrestri. Gli alieni di questo film, tra l’altro, non presentano neanche caratteristiche caratteriali bellicose come gran parte dei loro epigoni. Il Bill alieno riesce perfino a provare dei sentimenti verso Marge, discostandosi così dal prototipo dell’ultracorpo e mostrando dei sentimenti vicini a quelli umani. Non si tratta di veri e propri nemici, però l’aspetto ripugnante – a volte efficacemente mostrato per pochi secondi come riflesso dei fulmini sui volti dei posseduti – e la sola idea che vogliano giacere con le umane accoppiandosi con loro per far nascere degli ipoteticamente orribili essere ibridi, concentra un orrore forse anche maggiore della mera riprogrammazione delle coscienze. Si tratta di contaminazione, di fusione tra specie che è sinonimo di vittoria dell’alieno in quanto capace di sporcare con il proprio seme la purezza dell’umanità. In Gli invasori spaziali l’invasione colpisce una tranquilla cittadina, oggetto dell’atterraggio di un UFO che va a nascondersi nel sottosuolo, dove malvagi marziani stanno architettando un piano per il sabotaggio delle missioni spaziali. Unico testimone della vicenda è David (Jimmy Hunt), un bambino che ha scoperto il piano degli alieni e che però non è creduto dagli adulti, 128

anche perché i marziani li controllano. L’invasione per il piccolo David ha inizio proprio nel nucleo familiare, suo padre è il primo, infatti, a cadere sotto il controllo degli alieni e presto anche sua madre fa la stessa fine. Per un bambino perdere la complicità e la protezione dei genitori è probabilmente una delle peggiori condizioni e l’incubo in cui piomba David ha inizio proprio dalla negazione degli affetti familiari. I marziani, comandati da un busto idrocefalo tentacolato, agiscono chirurgicamente sugli umani per controllarne la volontà, infatti l’unico modo per riconoscere un umano normale da uno sotto l’influsso alieno è una cicatrice all’altezza della nuca. Gli invasori spaziali, forse più di altri film dell’epoca, riesce a possedere – con ogni probabilità sempre involontariamente – la crescente paura per il sovietico che avanza. I marziani provengono dal pianeta rosso per antonomasia, lo stesso colore della bandiera sovietica e degli interni dell’astronave aliena, hanno un leader con capacità di controllo mentale e che governa un popolo di servizievoli operai che hanno lo scopo di portare all’omologazione anche gli umani. Umani che sono ridotti a schiavi dalle coscienze offuscate, indirizzati alla costruzione di un nuovo impero votato alla cancellazione della democrazia. Il fatto che i marziani siano giunti per il sabotaggio di una missione spaziale verso Marte è poi un esplicativo riferimento alla corsa allo spazio che proprio in quegli anni infiammava gli animi americani e sovietici. La situazione in parte cambia in Invaders (Invaders from Mars, Tobe Hooper, 1986), remake anni ’80 del classico di Menzies. La storia è la medesima, ma ovviamente c’è un aggiornamento sulle tematiche che ricollegano il film all’attualità dell’epoca smorzando di molto i riferimenti al contrasto politico tra nazioni. Invaders spiega il perché dell’invasione marziana riconducendo il tutto alle missioni americane su Marte che hanno allarmato gli abitanti del pianeta rosso spronandoli ad attaccare per primi e, soprattutto, a sabotare una imminente missione americana diretta proprio sul loro pianeta. I riferimenti vanno in particolare al programma Viking che nel 1976 inviò due lander sulla superficie marziana fornendo chiare immagini del pianeta rosso. È proprio in quell’occasione che l’umanità è venuta a conoscenza del fantomatico Volto di Cydonia, una porzione montuosa sulla superficie marziana che dall’alto sembra raffigurare un volto umanoide, fotografata proprio da una sonda del Viking. Il volto di Marte viene citato in Invaders e viene anche mostrata la procedura chirurgica con cui agli umani vengono innestate sonde di controllo nella corteccia cerebrale, fornendo un richiamo figurativo alle storie di rapimento alieno che negli anni ’80 prolife129

ravano in tv e sulle riviste. Anche Invaders si ancora dunque all’attualità, ma lo fa in modo diverso. Si tratta di una connessione esplicita, con tanto di nomi e fatti attinenti alla quotidianità, ma le metafore politiche vengono accantonate, i marziani non hanno più nulla che rimandi alle fattezze umane, il cervello senziente è un mostruoso ammasso di polpa fornito di occhi e bocca, mentre i suoi aiutanti hanno perso del tutto le fattezze antropomorfe del film originario mostrandosi come dei tuberi dentati con lunghe zampe che gli forniscono una postura eretta. Invaders in confronto all’antenato è maggiormente intento a dar forma alle fantasie di un ragazzino, contraddistinto com’è da elementi raccapriccianti, da mostri fantasiosi e da severi insegnati come antagonisti umani. Gli invasori spaziali e Invaders rivelano alla fine che tutta la vicenda è un sogno di David, un sogno premonitore, per l’esattezza, dal momento che i film si concludono con l’arrivo dell’UFO nello stesso identico modo in cui era stato sognato dal bambino. E tutto ciò spiega come l’avventura vissuta da David sia contraddistinta da adulti come incarnazione del nemico, un mondo che ha perso la facoltà di sognare e di viaggiare con l’immaginazione e dunque identificato come nemico votato all’annullamento della volontà, o meglio della fantasia infantile. C’è da dire, però che nella versione italiana e in quella tedesca di Gli invasori spaziali il finale è differente ed esclude la teoria del sogno, dando invece per buona la vicenda dell’invasione. Il processo di replica umana e svuotamento emozionale omologativo che contraddistingue l’agire alieno del filone inaugurato dagli ultracorpi subisce un’ulteriore modificazione con La Cosa (The Thing, John Carpenter, 1982), un horror fantascientifico in cui l’assioma umano/alieno e l’indistinguibilità dell’uno e dell’altro viene portato a estreme conseguenze. La Cosa è la trasposizione del racconto di John W. Campbell Jr. Who Goes There? (1948) che a sua volta era già stato trasposto su pellicola nel 1951 con La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, Christian Nyby, 1951). Il film di Carpenter, rimanendo più fedele al rac130

conto di Campbell, smaterializza l’alieno trasformandolo in un indefinito essere polimorfo. La “cosa” assume le sembianze delle creature con cui entra in contatto, ma non è un semplice clone, piuttosto si tratta di un parassita informe che assume il controllo del corpo ospitante e lo viola trasformandolo in un immondo essere mostruoso nel momento in cui viene svelato. La vicenda si svolge in Antartide, il luogo inospitale per eccellenza, in una base di ricerca americana non troppo lontana da una norvegese. Nella seconda è successo qualche cosa di strano che implica il ritrovamento di quello che sembra un UFO e un cane da slitta in fuga, inseguito da quello che poi si rivelerà uno dei norvegesi dell’accampamento, viene raccolto dagli americani. Il cane però è la “cosa”, l’alieno contenuto nell’UFO che comincia a seminare il terrore decimando il team di ricercatori. La “cosa” è il simbolo assoluto della paranoia e del conflitto uomo-uomo; assumendo le sembianze degli uomini che popolano la stazione di ricerca, l’alieno diffonde un senso di inaffidabilità su ogni essere vivente che si trova nei paraggi. Chiunque potrebbe essere la “cosa”, chiunque potrebbe trasformarsi in una minaccia mortale e indefinita dagli scopi non ben chiari anche se indiscutibilmente ostili. L’alieno di Carpenter rappresenta la negazione dell’umanità intesa sia come forma corporea che incarnazione di sentimenti ed emotività. La “cosa” è il mostro che si annida in ogni persona, che la trasforma caratterialmente e fisicamente, un ammasso indefinito di carne tentacolare che si insinua nei corpi umani e li contorce, disarticola e trasforma in esseri mostruosi, infonde la vita a parti anatomiche separate dal resto del corpo e le rende aggressive. Gli intenti dell’alieno sono ignoti: può trattarsi di un visitatore da un altro mondo che si comporta con ostilità perché impaurito o la semplice e pura incarnazione del male votata alla negazione di ogni altra forma di vita. Ma la “cosa” è soprattutto la disgregazione dei rapporti umani, il simbolo della mancanza di fiducia che contraddistingue l’essere umano verso il suo prossimo. Chiunque può essere il nemico, un immondo essere dallo spazio che è giunto sulla Terra per piantare il seme della discordia. Il film di Carpenter è fortemente pessimista: McReady (Kurt Russell), Childs (Keith David), Windows (Thomas Waites), Blair (Wilford Brimley) e gli altri diventano presto un gruppo in cui ogni membro è ostile all’altro, ognuno teme che la “cosa” sia al proprio fianco pronta ad aggredirlo. Perfino quando il pericolo sembra ormai lontano e la “cosa” distrutta, gli unici due superstiti sospettano uno dell’altro. Il seme della discordia è stato piantato ed espanderà le sue radici sul resto del mondo: 131

la “cosa” non è morta ma è insita in ogni essere umano. Il film di Carpenter ha avuto nel 2011 un prequel che ne porta lo stesso titolo, La Cosa, per la regia di Matthijs van Heijningen. Questo antefatto si pone quasi come un rifacimento al film di Carpenter replicandone le dinamiche narrative pur raccontando una storia differente. Si tratta proprio della storia dell’accampamento norvegese da cui fugge il cane che da inizio all’incubo raccontato nel film del 1982. In quell’accampamento è stato ritrovato un UFO sepolto tra i ghiacci e per questo viene mobilitato un team di scienziati norvegesi e la paleontologa americana Kate Lloyd (Mary Elizabeth Winstead); ma nella fase di scongelamento della carcassa extraterrestre rinvenuta nel velivolo, la “cosa” rivive e comincia a manifestarsi infestando i corpi dei presenti e portandoli a diffidare l’uno dall’altro proprio come accadeva nel film di Carpenter. Tutto finisce lì dove iniziava l’altro film e l’epilogo è nerissimo perché lì dove l’altro suggeriva, questo mostra, palesando l’omicidio causato dalla mancanza di fiducia verso il prossimo, che in questo caso è l’eroe, scambiato anche esso – probabilmente a ragione – per la “cosa”. La sostanziale differenza tra il film di van Heijningen e quello di Carpenter sta nella presenza nel prequel di una donna tra i personaggi principali, all’epoca assente con la giustificazione che lì era la “cosa” stessa la vera grande presenza femminile della vicenda, il che portò a speculazioni sui significati reconditi della parabola carpenteriana, a volte velati di misoginia altre volte come metafora dell’allora proliferante malattia dell’HIV. Diametralmente opposto è invece il messaggio insito nel film di Nyby in cui l’unione delle forze umane riesce a battere l’invasore alieno. La cosa da un altro mondo è ancorato all’idea classica dell’alieno giunto sulla Terra per intraprendere una missione di conquista; la “cosa”, per l’esattezza, è una forma di vita vegetale che utilizza il sangue umano come nutrimento, una sorta di vampiro spaziale che ha dunque bisogno dell’uomo per il sostentamento. La “cosa” viene qui definita come “uno straniero in terra straniera” e dunque una potenziale minaccia in quanto estraneo alle tradizioni e alla cultura comunitaria umana. L’alieno qui ha una forma ben definita in quanto umanoide alto più di due metri e dai tratti somatici mostruosi (ricorda alla lontana il mostro di Frankenstein nel film del 1931). La sua presenza imponente e dirompente fa affidamento sulla forza bruta e trova un prezioso alleato nella scienza, in quanto il dottor Carrington, scienziato del gruppo, per preservarne l’integrità è pronto ad ostacolare i suoi amici. Messa da parte l’ot132

tusa pericolosità della scienza, il mostro viene abbattuto dalla collaborazione del gruppo che mostra la saldezza, la tenacia e l’iniziativa dell’uomo americano contro l’invasore esterno. Il film termina, dopo un’esaltazione della potenza americana, con un inquietante monito: «Attenzione al cielo. Ovunque voi siate scrutate il cielo!». L’incitazione a un costante stato d’allerta che sembra quasi la premonizione di un’invasione di alieni cinematografici che, dagli anni ’50 fino ad oggi, non intende arrestarsi, ponendo in continuo pericolo la stabilità di un Paese e, con esso, del mondo intero. Sul finire degli anni ’50, proprio nel pieno del filone “alieni invasori”, fanno capolino alcuni film che, con un piglio di originalità, portano oltre il tema dell’omologazione umana e assoggettamento da parte di extraterrestri e trasformano le vittime letteralmente in zombie. L’essere umano svuotato della propria coscienza, involucro di carne in mano a burattinai dallo spazio è di per se già predisposto ad essere paragonato a uno zombie, figura tipica del folklore haitiano. Lo zombei è un umano svuotato da ogni emozione e catturato sotto il completo controllo di un altro essere umano, indotto a questo stato di catalessi attraverso apposite droghe. Le leggende popolari hanno ricondotto il tutto alla magia nera e, frequentemente, l’uomo assoggettato al potere altrui si è trasformato in un morto vivente. Il cinema ha spesso catturato la deriva fantastica della tradizione haitiana e, ancora prima che George Romero trasformasse lo zombie in una figura ricorrente nella cultura popolare dotandolo di caratteristiche ancor più mostruose (la propensione al cannibalismo, per esempio), uno sparuto gruppetto di film di fantascienza ha utilizzato i morti viventi per rappresentare da un’originale prospettiva l’invasione aliena. I film in questione sono I mostri delle rocce atomiche (The Trollenberg Terror, Quentin Lawrence, 1958), Assalto dallo Spazio (The Invisibile Invaders, Edward L. Cahn, 1959) e Piano 9 da un altro spazio (Plan 9 from Outer Space, Ed Wood, 1959). Il primo è un film inglese che ambienta sui monti svizzeri una storia di invasione aliena in cui gli extraterrestri sono dei monocoli tentacolati che si muovono attraverso la nebbia e hanno la facoltà di far resuscitare i morti e renderli veicoli delle loro azioni offensive. In Assalto dallo Spazio, invece, alcuni alieni che vivono nel lato oscuro della Luna giungono sulla Terra per indurre gli uomini a deporre le armi dinnanzi a un loro imminente piano di conquista. Gli alieni però non hanno corpo, sono degli esseri invisibili che per manifestarsi possiedono i corpi degli umani defunti. Infine in Piano 9 da un altro spazio il solito gruppo di alieni invasori è alle 133

prese con la conquista della Terra e per far questo resuscitano i morti da scagliare contro i vivi. In tutti e tre i casi l’alieno riesce a individuare una delle paure ancestrali dell’essere umano, la paura per l’aldilà e cosa è celato in esso e la usa come insolita arma. I morti si trasformano in una terribile minaccia, in un lasciapassare alieno verso la conquista della Terra. La fantascienza si contamina esplicitamente con l’horror in un’anticipazione di ciò che avverrà più frequentemente tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 con pellicole cardine come Alien (id., Ridley Scott, 1979) e La Cosa. In I mostri delle rocce atomiche, però si respira ancora fortemente l’aria del cinema fantascientifico più consono a quei tempi. I morti viventi sono marginali e fungono da orpello narrativo per facilitare l’operato dei mostruosi alieni, vera minaccia per gli abitanti di Trollenberg. Gli alieni, simili a giganteschi cervelli muniti di un unico grande occhio e molti tentacoli, intendono invadere il pianeta abbassando la temperatura, condizione per loro indispensabile per vivere. I monocoli alieni hanno delle potenti facoltà mentali ed è grazie a queste che riescono a controllare i cadaveri; inoltre identificano in Anne (Janet Munro) una minaccia al loro tentativo di invasione, dal momento che anche la ragazza è dotata di poteri mentali. I mostri delle rocce atomiche è una produzione inglese, tra l’altro sceneggiata da Jimmy Sangster che in quegli anni contribuì al successo della casa di produzione Hammer, dunque è presto spiegabile l’insolita ambientazione europea che dona al film un’aura di originalità anche se I mostri delle rocce atomiche è tratto da una serie televisiva del 1956 creata da Peter Key e diretta da Quentin Lawrence, stesso regista del lungometraggio. Assalto dallo Spazio e Piano 9 da un altro spazio sono invece produzioni americane e ambientano l’azione negli USA, riportando l’attenzione sulla Nazione leader in ambito cinematografico e culturale. Anche se legati alla tradizione geografica del filone, il film di Cahn e quello di Wood appaiono decisamente differenti dalla massa delle produzioni sulle invasioni aliene. Se Piano 9 da un altro spazio è celebre oggi per essersi cucito la fama di essere uno dei film più brutti della storia del cinema, così come il suo regista è celebrato in tutto il mondo come uno dei più incapaci mestieranti della off Hollywood, Assalto dallo Spazio si presenta come un’opera che racchiude in sé molte delle tematiche che hanno caratterizzato l’epoca. Innanzitutto è centrale nella narrazione l’avanzamento umano in campo tecnologico-militare con espliciti riferimenti alla bomba atomica e alle armi nucleari. Una voce narrante a inizio film ricorda l’utilizzo che l’America ha fatto della bomba 134

atomica durante la Seconda Guerra Mondiale e ammonisce lo spettatore dai pericoli dell’armamentario bellico. La ragione per cui i seleniti attaccano la Terra è proprio legata, infatti, ai progressi in campo militare e al pericolo che l’uomo possa dirigere la sua azione distruttiva anche fuori dai confini terrestri. I seleniti invisibili di Assalto dallo Spazio non appaiono particolarmente organizzati tecnologicamente parlando, incentrando la loro strategia d’attacco sul controllo degli umani morti. Da qui l’altra tematica ricorrente, ovvero il controllo umano da parte di entità extraterrestri. Identificare però l’umano controllato e omologato con un cadavere, oltre che pareggiare i livelli di lettura con l’annullamento della volontà simile a uno stato di morte, lega l’orrore di un’invasione esterna con l’atavica paura della morte e di cosa si cela nell’aldilà. Morire significa diventare il nemico, finire sotto la possessione aliena, dunque attaccare i propri cari e contribuire all’estinzione della razza umana. L’operato dei seleniti mira dunque a sconfiggere due volte l’umanità: non solo gli uomini vengono uccisi, ma si trasformano in fautori della conquista aliena. Una conquista che viene esplicitamente definita dittatura da parte degli extraterrestri che hanno utilizzato il dottor Noymann (John Carradine) per trasmettere il primo messaggio delle loro intenzioni. Come destinatario di questo messaggio viene scelto il dottor Penner (Philip Tonge) in quanto noto pacifista, da tempo fermamente contrario all’utilizzo delle armi atomiche. Paradossalmente sarà proprio Penner e il suo team a scongiurare l’invasione aliena, glorificando così la tenacia e l’iniziativa dell’America, sottolineata anche dal fatto che uno degli eroi nella crociata contro i seleniti è un giovane soldato che ha partecipato alle campagne in Corea. L’eccentrica opera di Wood chiude questa piccola parentesi zombesca, gettando nell’involontaria farsa fatta di star in declino (Maila Nurmi, nota Vampira della tv americana, e Bela Lugosi, leggendario Dracula del grande schermo che morì nel ’56 proprio mentre Wood stava cominciando le riprese di Piano 9), e fintissimi dischi volanti la paura di un’invasione aliena che trovi ancoraggio nelle paure più oscure degli umani. L’invasione aliena con obiettivo di conquista della Terra ci viene descritta con piglio decisamente votato alla paura e all’inquietudine da due film di produzione relativamente recente: Signs (id., M. Night Shyamalan, 2002) e Altered – Terrore dallo spazio profondo (Altered, Eduardo Sanchez, 2006). I film di Shyamalan e Sanchez ci raccontano alieni particolarmente ostili e cattivi, nemici da temere più per la loro carica orrorifica intrinseca che per la loro 135

forza distruttiva. Sia in Altered che in Signs si punta su un’atmosfera d’inquietudine rarefatta, si privilegia la suspense tipica di certo cinema dell’orrore gotico in cui i rumori e il suggerito piuttosto che il mostrato riescono a suscitare paura. Signs si apre con il ritrovamento di un crop circle nel terreno adiacente alla casa del protagonista, uno strano disegno nel grano che la cultura popolare tende ad attribuire all’operato extraterrestre. Infatti i cerchi nel grano, che nel frattempo sono stati scoperti in più parti del mondo, sono un segnale di atterraggio per gli alieni che hanno cominciato un’impresa di colonizzazione terrestre. Shyamalan ci descrive l’invasione aliena attraverso gli occhi dell’ex reverendo Hess (Mel Gibson) e della sua famiglia, una vicenda dalla portata globale inquadrata dalla prospettiva di chi non sa, è confuso e apprende a poco a poco l’importanza di quello che sta accadendo, della sua pericolosità. Signs punta sulla paura per l’ignoto, il terrore di una minaccia indefinibile e inizialmente indefinita che pian piano acquista la forma di umanoidi alti e verdastri che hanno capacità mimetiche e un’arma biologica letale che induce in catalessi gli umani che ne vengono a contatto. La lotta contro gli invasori, che assediano la casa di Hess come gli zombie di La notte dei morti viventi, è superata grazie al ritrovamento della fede da parte del protagonista, una metafora della capacità umana di amare e credere nella propria determinazione, peculiarità assente negli alieni che rappresentano invece il male assoluto. La violazione della proprietà privata e la minaccia per la famiglia sono i due punti cruciali su cui il regista punta per descrivere la voglia di lottare insita nei protagonisti; valori basilari per la cultura occidentale messi in pericolo da uno straniero ostile e spaventoso. Altered descrive invece un mondo in cui l’alieno è già tra noi da qualche anno, ha cominciato a fare frequenti escursioni sulla Terra per tastare il terreno per una possibile prossima invasione. Gli alieni rapiscono gli umani di tanto in tanto, li sottopongono a esperimenti e li uccidono. L’uomo teme l’alieno e non si avventura nei boschi per paura di incontrane qualcuno a piede libero. L’alieno è dunque alla stregua di un essere mitico, popola i boschi del nord America come si trattasse del Bigfoot e c’è qualcuno che si accinge a dargli la caccia armato di tagliole, arpioni e fucili. Un gruppetto di amici, che alcuni anni prima hanno perso un loro compagno proprio a causa degli alieni, si immergono in una battuta di caccia, vogliosi di vendetta. L’impresa riesce, catturano un alieno e lo portano in uno scantinato, dove cominciano a seviziarlo. Sanchez ambienta la storia in una periferia rurale oscura, immersa costantemente nella notte in cui bi136

sogna temere le stelle. Puntini luminosi in movimento nel manto stellato possono voler dire che “loro” ci stanno guardando, ci hanno individuato e posso piombare su di noi da un momento all’altro. L’ignoto non è più una meta da conquistare, bensì una minaccia da cui fuggire. Gli alieni di Altered utilizzano la canonica iconografia per rivelarsi all’uomo: piccoli umanoidi verdastri, viscidi con gli occhi obliqui e con una dentatura spaventosa. Loro rapiscono gli umani, fanno esprimenti, testano la resistenza e impiantano corpi estranei nelle viscere umane che ne possano permettere la localizzazione, alla stregua di un meccanismo GPS. In Altered l’uomo è descritto come un essere vendicativo, incattivito dalle angherie extraterrestri, pronto a difendere con le unghie e con i denti la proprietà privata e gli affetti familiari. A loro volta anche gli alieni, dietro una facciata di spietata mostruosità, dimostrano di essere uniti e solidali tra loro. Quando infatti ricevono la richiesta d’aiuto dell’alieno rapito, assediano casa dei protagonisti cercando vendetta. L’umano e l’alieno in Altered si compensano, due facce della stessa medaglia arrugginita in cui l’offesa è l’unica forma di comunicazione possibile tra le due razze. Ma gli alieni potrebbero anche essere mimetizzati tra di noi e aver già compiuto il loro piano di invasione e conquista. Una conquista che ovviamente non prevede l’annientamento fisico dell’essere umano, ma la sua schiavizzazione mentale. In antitesi all’assunto che muove L’invasione degli ultracorpi e i suoi epigoni, l’uomo non deve essere necessariamente annullato, svuotato o riprogrammato, l’uomo rimane tale e quale a come è sempre stato, un distratto pezzo di carne in balia delle alte sfere del potere, le stesse che sono invece presiedute da forze aliene che giocano con la realtà e con le azioni umane. John Carpenter ha diretto a riguardo un film che può essere considerato il manifesto più compiuto della critica all’America anni ’80 e al governo Reagan. Si tratta di Essi vivono (They Live! John Carpenter, 1988), liberamente ispirato al racconto di Ray Nelson Eight o’clock in the morning. 137

In Essi vivono l’umanità convive quotidianamente con una razza aliena che si è insinuata nella società andando a ricoprire le alte sfere e la borghesia. Gli alieni però sono indistinguibili dagli umani, si mescolano tra loro e tentano di plagiarne le menti tramite messaggi subliminali nascosti nei cartelloni pubblicitari e nelle trasmissioni televisive. L’unico modo per rivelare l’identità aliena è guardare gli extraterrestri con delle speciali lenti che ne rivelano le mostruose fattezze scheletriche ed è proprio grazie a questi occhiali, che stanno prendendo piede tra alcuni gruppi di resistenti, che il protagonista John Nada (Roddy Piper) conduce la sua personale lotta contro il lavaggio del cervello alieno. Carpenter è fortemente critico verso una società votata all’apparenza e plagiata dai mezzi di comunicazione. Lo stile di vita occidentale è indotto dalle alte sfere della società, dal mondo del consumo, che riesce a controllare i comportamenti delle masse instillando gusti e mode. L’uomo è come cieco di fronte all’avvenuta invasione, all’assoggettamento del volere – consumistico – che va ad arricchire le tasche altrui. E chi non può permettersi di seguire le mode è un emarginato, ma allo stesso tempo può conquistare la facoltà di scoprire la verità. Gli alieni di Carpenter non sono votati alla guerra e alla distruzione, il loro è un piano subdolo per insinuarsi negli alti ranghi della società e controllare il mondo dalla vetta della scala gerarchica. Alieni che fanno del business il personale raggio distruttore di coscienze e che sono minacciati da un semplice operaio, un signor nessuno di nome e di fatto, visto che Nada in spagnolo significa niente, che nel sacrificio finale riesce a rivelare al mondo intero la vera natura degli impostori, risvegliando le coscienze. Anche Alex Proyas con Dark City (id., Alex Proyas, 1998) racconta di un mondo, o meglio di una singola città, controllata da una razza di misteriosi alieni glabri. Questa volta la specialità degli invasori è la modificazione della realtà e la manipolazione delle identità. Rimasti orfani del proprio mondo e in pericolo di estinzione, gli alieni di Dark City, identificati come strangers, stranieri, si muovono nell’universo alla ricerca di un motivo per dare continuità alla loro specie. Trovano questo motivo nell’essere umano e nella sua individualità, caratteristica assente agli stranieri, così tutti uguali e privi di quella scintilla vitale che possa renderli unici. Gli stranieri studiano l’uomo per scoprire le peculiarità, per carpirne i segreti e per far questo giocano con lui, ne alterano la realtà e ne modificano l’identità. Ogni notte, a mezzanotte, la popolazione di questa ignota metropoli immersa costantemente nell’oscu138

rità cade in catalessi sotto l’influsso mentale degli stranieri. Gli extraterrestri sono così liberi, con la complicità del dottor Schreber (Kiefer Sutherland), di modificare l’architettura cittadina e le identità dei suoi abitanti, che ogni giorno si trovano a vivere una vita differente senza ricordare nulla del giorno precedente. Solo John Murdoch (Rufus Sewell) è immune al loro influsso mentale e instaura una lotta contro gli stranieri per rivendicare la libertà all’identità personale. Anticipando Matrix per l’idea della realtà manipolata, Proyas porta sullo schermo una tipologia di extraterrestri invasori estremamente affascinante e originale. Esseri tragici indecisi se perpetrare la propria razza o meno, incapaci di trovare differenze in se stessi e nei loro prossimi; alti, pallidi, vestiti di nero e dai poteri mentali illimitati. I perfetti invasori capaci, oltre che di mescolarsi tra gli uomini, di riscriverne le origini e il futuro alla loro insaputa in un parallelismo che li rende vicini alle divinità. Sia in Carpenter che in Proyas l’umanità alla fine si ribella e riesce a trovare un modo per fronteggiare – e in Dark City a sconfiggere – l’invasione aliena. La fiducia verso l’essere umano persiste ma il messaggio è chiaro: «è giunta l’ora di svegliarsi!».

Obiettivo: Distruzione. Da La guerra dei mondi a Pacific Rim

Qualora lo straniero non giungesse sulla Terra per conquistarla, l’alternativa sarebbe la distruzione, lo sterminio di una razza, quella umana, potenzialmente pericolosa per il dominio interplanetario da parte dell’intelligenza extraterrestre. Così come per il filone degli alieni conquistatori, anche quelli distruttori possono facilmente essere inquadrati come un metaforico ritratto dell’avversario politico del momento. Naturalmente l’alieno distruttore è più temibile, spietato, non contento solamente di plagiare l’uomo e assoggettarlo alla propria impresa invasiva, ma alle prese con una radicale cancellazione dell’umanità dalla faccia della Terra. L’uomo è inquadrato alla stregua di un parassita che infesta il pianeta e deve essere eliminato. La Terra, libera così dall’azione nefasta umana, è pronta ad essere ripopolata da una nuova specie che potrebbe potenzialmente esaltarne le qualità naturali. A favore di questa tesi sembrano muoversi L’invasione dei mostri verdi (The day of the Triffids, Steve Sekely, 1963) ed Evolution (id., Ivan Reitman, 2001), un esempio di 139

fantascienza classica di matrice letteraria e una produzione recente immersa nell’universo pop. L’invasione dei mostri verdi è conosciuto anche con il titolo del romanzo (1951) di John Wyndham da cui è tratto Il giorno dei Trifidi. Una pioggia di meteoriti rende cieca la popolazione mondiale che si ferma a guardare il fenomeno e porta sulla Terra i semi di una razza aliena vegetale, i trifidi. Dai semi nascono e crescono con grande velocità degli esseri plantiformi che si mettono alla caccia degli umani per divorarli. Gli esseri umani, resi ciechi dalle scie delle meteoriti, sono delle prede indifese in balia di questi alberi antropomorfi e solo alcuni uomini rimasti immuni alla cecità, tra cui l’ufficiale della marina inglese Bill Masen (Howard Keel), cercano di combattere gli alieni. Nel romanzo così come nel film, gli alieni vengono trattati come esseri mostruosi lontanissimi dall’umanizzazione caratteriale propria a gran parte degli extraterrestri del grande schermo. I trifidi sono piante nell’aspetto, giganteschi arbusti comprensivi di rami e foglie che si muovono lentamente e afferrano gli umani inermi per divorarli. Questi mostri non presentano nulla che possa rimandare lontanamente all’uomo, neanche nell’aspetto, come solitamente accadeva con alieni celebri visti, ad esempio, in L’invasione degli ultracorpi o La cosa da un altro mondo, per rimanere in tema di organismi vegetali, né tanto meno nel modo di ragionare. Ai trifidi non interessa conquistare il pianeta, non sembrano quasi dotati di intelletto, si insediano per nutrirsi e metaforicamente declamano la supremazia della Natura sull’uomo. Gli esseri umani svuotano il pianeta dal verde e così le piante extraterrestri giungono a ripopolare la Terra eliminando il parassita umano, trasformandolo in cibo. Evolution, invece, è essenzialmente una commedia. Reitman tenta di replicare la formula del suo successo anni ’80 Ghostbusters e mette insieme una sgangherata squadra composta da due professori di biologia, una scienziata governativa e un aspirante vigile del fuoco con l’obiettivo di debellare una minaccia aliena che, a cominciare da un pesino dell’Arizona, potrebbe estendersi su tutto il pianeta. Anche in Evolution è una meteorite a portare l’organismo alieno, dei semplici organismi unicellulari che si moltiplicano con grande velocità e danno origine a organismi sempre più complessi. In pochi giorni si ripete l’evoluzione avvenuta sulla Terra in cinque miliardi di anni, facendo prospettare una situazione apocalittica per il genere umano, che così facendo potrebbe finire in fondo alla catena alimentare, rischiando l’estinzione. Nella fattispecie di Evolution non ci sono degli inva140

sori extraterrestri intenti alla conquista del pianeta, non esistono esseri senzienti con intenzioni belliche. Il film di Reitman presenta dei microrganismi alieni, animali che si sviluppano ed evolvono con grande velocità e che si trovano a rappresentare una minaccia per l’uomo in modo del tutto involontario. Non esiste, dunque, una reale intenzione di distruzione umana, ma il tutto è una possibile conseguenza dell’espandersi di un ecosistema estraneo, del tutto nuovo e potenzialmente predominante. Strani animali, spesso buffi e qualche volta inquietanti, si prodigano in spettacolari cacce all’uomo. L’evoluzione comincia da un country club, in cui annoiate signore anziane scambiano un mostro alieno per un cagnolino. I toni sono scanzonati, si punta al grottesco e alla facile risata pur ribadendo la vulnerabilità dell’uomo dinnanzi alla Natura, una natura aliena, seppur palesemente creata con lo stampo terrestre, che se volesse potrebbe rivendicare la sua supremazia e cancellare ogni traccia dell’evoluzione umana in breve tempo. Sia L’invasione dei mostri verdi che Evolution, dunque, prospettano la distruzione dell’umanità da parte di un ecosistema vegetale e animale senza scopi di reale conquista. Gli alieni si trovano quasi per caso sulla Terra e mettono in atto un’opera di distruzione per puro istinto di sopravvivenza o semplicemente perché lo stato evolutivo lo richiede: l’uomo ha fatto il suo tempo. È dello stesso parere anche Gareth Edwards che nel 2010 ha diretto Monsters, un film di fantascienza che sfoggiando la tag line “adesso siamo noi a doverci adattare”, segue la medesima linea ideologica secondo la quale l’uomo è costretto a rimettere in discussione il proprio ruolo di dominio sulla Terra dinnanzi all’avvento di una nuova razza con la quale si trova improvvisamente a convivere. In Monsters la venuta degli extraterrestri è del tutto involontaria dal volere degli stessi, dal momento che è l’uomo ad aver favorito questa situazione di ripopolazione terrestre. Tutto ha inizio con una missione della NASA che ha l’obiettivo di raccogliere informazioni sulla vita extraterrestre attraverso una sonda artificiale che è stata spedita nello spazio. Al suo rientro, la sonda si schianta in una zona boschiva nel confine tra Stati Uniti e Messico disperdendo sul terreno alcuni organismi extraterrestri raccolti. La situazione sfugge di mano alle autorità e quelle forme di vita inizialmente elementari si evolvono adattandosi all’atmosfera terrestre e trasformandosi in giganteschi essere tentacolati che si appropriano della zona, che viene prontamente messa in quarantena, anche perché questi alieni sono veicolo di infezioni e malattie sconosciute all’uomo. Questo è l’antefatto che ci trasporta a sei anni di di141

stanza in cui la situazione è ormai un dato di fatto, la zona infestata dagli alieni è circoscritta, presidiata dai militari e ne è impedita la presenza gli umani, anche se di tanto in tanto qualche mostro alieno riesce a infrangere le barriere portandosi nelle città vicine che diventano scenario di terrore e distruzione. Ma questi alieni, che sembrano scaturiti dalla fantasia di Howard Phillip Lovecraft, non sono ostili e non vogliono volontariamente distruggere l’uomo, sono come degli animali, dei pachidermi che a causa della loro stazza e della forza incontrollata travolgono ciò con cui vengono in contatto, spesso spaventati e incattiviti dall’azione degli umani impauriti che incontrano sul loro cammino. La scena che chiude il film e che vede due mostri corteggiarsi e fare l’amore sfiorandosi con i tentacoli e producendo luminescenze ha proprio il tentativo di normalizzare il diverso, lo straniero, che è capace di amare proprio come noi. Lo status di invasore è casuale, un terzo incomodo che si trova a popolare gli spazi altrui – che in questo caso sono soprattutto le lande desolate e povere del Sud America – cercando solo uno spazio al mondo dove vivere e riprodursi. Allo stesso modo il Blob si ritrova a distruggere qualunque forma di vita con cui entra in contatto per il puro sostentamento e a causa della sua fisicità. Protagonista del film Blob – Fluido mortale (The Blob, Irvin S. Yeaworth Jr., 1958), la sostanza gelatinosa icona del cinema di fantascienza è l’emblema della furia distruttiva aliena. Un organismo extraterrestre, di cui non si conosce origine ne scopo, che precipita nei boschi di una cittadina di provincia americana racchiuso nella solita meteorite, classico veicolo di pericoli spaziali. Il Blob cresce ogni qualvolta fagocita oggetti ed esseri viventi, si nutre di qualunque cosa con cui entra in contatto e aumenta di mole, accentuando così la sua portata minacciosa e distruttiva. Blob è divenuto il simbolo della forza devastante e immotivata, della malattia che si diffonde con irruenza e senza lasciare speranza. Le basse temperature riescono ad arrestare il fluido mortale, lo fermano ma non lo uccidono: il Blob non può morire, è l’immortale perpetrarsi del pericolo d’invasione esterna sempre pronto a risvegliarsi. Nel finale del film, il Blob viene congelato e trasportato al Polo Nord così da imprigionarlo sfruttando le basse temperature, ma sullo schermo compare un punto interrogativo dietro la canonica frase the end. L’invasore non può essere sconfitto una volta per tutte, può essere costretto al letargo ma prima o poi è destinato a ridestarsi per continuare la sua irrefrenabile marcia distruttiva. Immancabilmente The Blob, oltre a generare diverse imitazioni, ha un sequel nel 1972, Beware the Blob! e un remake nel 1988, Il fluido che 142

uccide (The Blob, Chuck Russell, 1988). Il remake, così come da tendenza anni ’80, si arricchisce di elementi macabri propri del cinema horror e descrive l’inarrestabile avanzata del Blob con una maggiore enfasi verso l’orrore. I corpi che entrano in contatto con la gelatina aliena vengono corrosi, gli effetti del fluido rosastro vengono mostrati in tutta la loro fisica mostruosità. Il fluido che uccide porta in scena anche l’esercito, caro al cinema fantascientifico anni ’50 e assente nel prototipo, instillando il dubbio che il Blob possa diventare un’arma biologica da usare in guerra contro i nemici. In visione profeticamente apocalittica, il remake di Russell termina mostrando un frammento di Blob custodito da un prete rimasto sfigurato proprio dalla creatura e impazzito in seguito agli eventi, che custodisce l’alieno prospettando la fine del mondo. A differenza di molti illustri rappresentati del cinema di fantascienza distruttivo, Blob racconta la possibile fine dell’umanità da un piccolo centro della provincia americana, donando alla narrazione di una storia estrinsecamente apocalittica e quindi di pericolo globale una dimensione più intima, propria della piccola comunità. Raramente l’invasione aliena distruttiva trova location in un piccolo centro, privilegiando la messa in scena della distruzione su larga scala, quindi la caduta dei simboli della civilizzazione umana. In prosecuzione con la fantascienza più intimistica legata alla tradizione di metà ‘900, il recente Aliens vs. Predator 2 (Aliens vs. Predator: Requiem, Colin e Greg Strause, 2007), sequel del cross-over Alien vs. Predator (id., Paul W.P. Anderson, 2004) che ha unito le celebri saghe di Alien e Predator come era già avvenuto in una serie a fumetti edita dalla Dark Horse Comics, torna ad ambientare la storia in un piccolo centro boschivo della periferia americana. Alien è uno dei film che ha rivoluzionato la concezione di alieno al cinema trasformando l’essere antropomorfo con intenzioni di conquista in un mostro ferino che uccide come un animale selvatico messo alle strette. Dan O’Bannon (sceneggiatore) e Ridley Scott (regista) portano in scena una storia che ricorda molto da vicino Il mostro dell’astronave (It! The Terror from Beyond Space, Edward L. Cahn, 1958), dunque inserendo nell’ambiente chiuso e claustrofobico di una nave spaziale un gruppo di astronauti alle prese con un pericoloso mostro alieno. In Alien, però, il mostro perde la postura completamente eretta e le fattezze da umanoide che nel film di Cahn contraddistinguevano la creatura marziana (simile a un gorilla) e acquista un aspetto viscido e ripugnante che non ricorda alcun essere vivente in particolare. Lo xenomorfo – così è chiamata la razza aliena di Alien – è stato dise143

gnato e costruito dallo scultore svizzero Hans R. Giger con una precisa idea di fondere organico e metallico in un’unica creatura. Lo xenomorfo ricorda per questo una creatura vivente ma allo stesso tempo è speculare all’ambientazione in cui si muove: cavi, tubature e umidità della nave-cargo Nostromo, in cui si ambienta l’azione, sembrano riflettersi direttamente sul copro dell’alieno. Allo stesso tempo lo xenomorfo presenta una storia evolutiva che tocca diverse fasi che mescolano il mammifero – dunque anche l’uomo – al rettile. Lo xenomorfo nasce da un uovo la cui apertura ha richiami piuttosto espliciti al sesso femminile, ma in questa fase l’alieno è una sorta di aracnoide, battezzato dalla mitologia della saga facehugger visto che ha l’abitudine di attaccarsi sul volto delle vittime e inoculare, attraverso un organo tubulare, un embrione nelle viscere. L’embrione, chiamato chestburster, si nutre del corpo ospitante e quando è sufficientemente forte e sviluppato fuoriesce dal corpo sfondando la gabbia toracica e procedendo con la crescita. Si può notare come l’evoluzione dell’alieno sia equiparabile quindi alla nascita e crescita di un organismo animale: non c’è nulla di strettamente umano nell’alieno di Ridley Scott, una ridefinizione del mostro venuto dallo spazio che sembra avvicinarsi più al dettato di L’invasione dei mostri verdi e Blob piuttosto che agli altri classici degli anni ’50. Però c’è un assunto fondamentale che caratterizza Alien e la sua saga: gli alieni non si identificano mai come invasori ne distruttori sul nostro pianeta, almeno non per loro iniziativa. La saga di Alien legata al continuum principale, dunque escludendo i due Alien vs. Predator localizzati sulla Terra e nel presente, è ambientata nello spazio, a bordo di velivoli spaziali (Alien e Alien – La Clonazione), oppure su pianeti che non siano la Terra (Aliens – Scontro finale e Alien 3). Dunque è l’uomo a invadere gli spazi alieni, è l’uomo “lo straniero in terra straniera”, per parafrasare La cosa da un altro mondo. È l’equipaggio della Nostromo nel film di Scott che mette piede per la prima volta sul pianeta degli xenomorfi rimanendo contagiato dalla piaga aliena, così come è l’uomo che in Alien – La Clonazione alleva xenomorfi all’interno della nave-laboratorio Auriga per condurre esperimenti di clonazione e ibridazione. Un’impostazione molto diversa è presente invece con Predator, saga comprendente tre film, due dei quali, Predator (id., John Mc Tiernan, 1987) e Predator 2 (id., Stephen Hopkins, 1990), vedono i cacciatori alieni muoversi sulla Terra per dare la caccia agli umani ed esporre i loro teschi come inquietanti trofei. In Predators (id., Nimrod Antal, 2010), invece, terzo capitolo della saga, sono gli umani ad es144

sere trasportati su altro pianeta, pur essendo sempre e comunque utilizzati come prede da cacciare. Lo scopo dei predators, misteriosa razza gerarchicamente costruita e dedita alla caccia, è stanare, uccidere e collezionare prede in tutto l’universo. L’uomo è una delle vittime predilette da questi cacciatori dalle sembianze antropomorfe e dall’armamentario altamente tecnologico. Ma lo sono anche gli stessi xenomorfi, tanto che, dopo una fugace e profetica apparizione di un teschio xenomorfo nella nave spaziale del predator in Predator 2, verranno prodotti due film che mettono in scena la lotta tra i due mostri alieni del cinema. Il predator presenta un vero e proprio codice comportamentale che lo allontana sostanzialmente dal prototipo dell’alien: non più un animale feroce e distruttivo che uccide per istinto, ma un essere senziente che segue regole ben precise, ha dei sentimenti e un codice guerriero. Da una parte la furia distruttiva e irrazionale, dall’altra la spinta motivazionale e l’intelligenza. E infatti, proprio partendo da questa differenziazione, in Aliens vs Predator 2 troviamo un predator giunto sulla Terra per riparare all’errore commesso da alcuni simili, ovvero la caduta di una nave spaziale con a bordo un accidentale ibrido alien-predator (ribattezzato Predalien) nei boschi del Colorado. I predator, infatti, vogliono preservare la razza umana e hanno la consapevolezza che un essere xenomorfo capace di riprodursi ne potrebbe causare l’estinzione. L’azione di Aliens vs. Predator 2 si svolge in un paesino di montagna adiacente al luogo dell’incidente e la comunità che lo popola si vede suo malgrado al centro di una guerra tra razze aliene che immancabilmente risulta distruttiva per l’ambiente circostante e per chi lo abita. In questo caso la distruzione è un danno collaterale, causato tanto dall’irruenza degli xenomorfi, capitanati dal temibile Predalien che presto genera suoi simili, che dall’azione riparatrice del Predator. La Terra è dunque una zona franca in cui mettere una contro l’altra due razze temibili e per questo scontro viene scelta prima una piramide aliena sepolta in Antartide e poi, con gran richiamo alla fantascienza, la città americana di provincia in cui la popolazione è il classico riflesso della società. Tra teen agers e tutori dell’ordine spicca anche una mamma-marine appena congedata dall’Iraq, così da fornire un esplicito collegamento all’attualità socio-politica del contesto storico produttivo del film. Il predator si sposta in una grande metropoli, Los Angeles per l’esattezza, in Predator 2, inserendo quindi questo alieno in un contesto consono al sottofilone dell’invasione aliena distruttiva. Non ci troviamo di fronte a un tipo 145

di distruzione da film catastrofico, come solitamente si confà a questo genere, bensì Predator 2 preferisce usare il linguaggio del cinema action/thriller, con un poliziotto pronto a menar le mani come protagonista (Danny Glover) che sta indagando sulle gesta di un assassino che sta sterminando i membri di alcune gangs dei bassifondi losangelini. L’assassino ovviamente è un esponente della razza di cacciatori alieni, che percorre la metropoli in cerca di teschi umani da aggiungere alla sua collezione. In Predator 2 non ci sono scene di distruzione vere e proprie, ma l’impresa messa in atto dal Predator mira alla distruzione dell’essere umano per puro sport, sminuendo così il valore della vita dell’uomo, ridotto alla pari di selvaggina da cacciare. Il sovvertimento della catena alimentare sta proprio alla base della filosofia della saga di Predator: l’uomo si trasforma da cacciatore a preda, da vertice della catena alimentare si trova ad essere su un gradino inferiore perché un pericoloso, ma leale, nemico è giunto dallo spazio profondo a sfidarlo sul suo stesso territorio di caccia, giungla o città che sia. L’azione del cinema fantascientifico catastrofico è prevalentemente metropolitana: palazzi che crollano, ponti che si inabissano, celebri costruzioni-simbolo che cadono a pezzi sotto i raggi distruttivi di navi spaziali e armi aliene. Prima di spostare lo sguardo sulle grandi metropoli americane distrutte dagli alieni invasori, vale la pena soffermarsi su quello che può essere considerato il film passaggio di testimone tra l’ambientazione rurale del piccolo centro e la città capitale, A 30 milioni di chilometri dalla Terra (20 Millions Miles to Earth, Nathan Juran, 1957). Nel film reso famoso dagli effetti speciali di Ray Harryhausen un missile di ritorno da Venere cade nel mar Mediterraneo, vicino la costa siciliana. Un gruppetto di pescatori si avvicina al relitto e salva un membro dell’equipaggio, mentre uno strano embrione contenuto in una capsula viene accidentalmente liberato. Dall’embrione nasce un mostriciattolo venusiano che, a contatto con l’atmosfera terrestre, cresce con grande velocità trasformandosi in una gigantesca 146

creatura che semina il panico prima nelle campagne nei pressi di Messina, poi a Roma. Il film di Juran presenta proprio questo netto passaggio di location inquadrando la distruzione quasi innocua nell’ambiente rurale, in cui il mostro – tra l’altro di dimensioni inferiori a quelle umane – si pone minaccioso in quanto capace di spaventare con la sua anomala fisicità i paesani, che si trasforma in catastrofica minaccia per la città di Roma. Giunto nella capitale italiana per essere esposto al giardino zoologico come un novello King Kong, l’Ymir (così è conosciuto l’alieno del film richiamando la mitologia nordica, visto che l’Ymir era un gigante ucciso da Odino) riesce a fuggire e si scatena per le strade della città, distruggendo Ponte Sant’Angelo, alcune antiche rovine e il Colosseo, prima di essere abbattuto dalle cannonate dell’esercito. L’ambientazione di A 30 milioni di chilometri dalla Terra è anomala, differente da quella che solitamente contiene storie di questo genere e lo stesso film di Juran, pur portando in scena un alieno intento a spaventare e distruggere, appare più vicino al cinema di mostri giganti stile Il risveglio del dinosauro. L’accento sociale proprio dal film di Juran sembra voler sottolineare il sacrificio che l’essere umano deve sopportare accettando i progressi della scienza. Il film apre infatti con una voce narrante che ricorda il grande sacrificio che l’umanità ha affrontato con l’inizio dell’era atomica, sacrificio destinato a ripetersi con l’esplorazione spaziale, qui fatalmente inaugurata proprio con la presenza dell’Ymir, simbolo dei pericoli che i mondi inesplorati possono celare. Con A 30 milioni di chilometri dalla Terra è dunque l’uomo che si fa portatore del fardello che lo conduce alla propria condanna, è l’essere umano responsabile della venuta del mostro alieno e della conseguente distruzione di Roma. Ma con l’entrata in scena di invasori dotati di tecnologia avanzata e con intenzioni belliche la questione cambia. Se in La terra contro i dischi volanti (Earth vs. the Flying Saucers, Fred F. Sears, 1956) è presentato ancora una volta l’uomo come parziale colpevole dell’attacco alieno, La guerra dei mondi (War of the Worlds, Byron Haskin, 1953) scagiona l’essere umano da ogni responsabilità. Il film di Fred F. Sears ci mostra degli alieni davvero cattivi, insieme a quelli di Haskin forse tra i più cattivi che fino a quel momento erano stati portati sul grande schermo. In La Terra contro i dischi volanti l’esercito americano, dopo aver fallito più volte il lancio di satelliti, si accorge che c‘è una gigantesca nave spaziale nascosta nell’atmosfera terrestre. Temendo un’invasione aliena, il commando militare ordina di sferrare un attacco scatenando l’offensiva degli extraterrestri. In realtà gli alieni di La Terra con147

tro i dischi volanti non avevano intenzioni ostili, si trovavano nell’atmosfera terrestre solamente per osservare gli umani. Questi alieni provengono da un sistema solare ormai distrutto, hanno perso il privilegio di un posto stabile in cui abitare, sono diventati nomadi e hanno intenzione di comunicare con le popolazioni con cui vengono in contatto per trasmettere la loro posizione, per trovare magari ospitalità (comunicano attraverso messaggi sonori, come accadrà in Racconti ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg). Ovviamente la paura e la natura belligerante dell’essere umano mostra un atteggiamento di chiusura e respingimento verso la razza extraterrestre, ed ecco che a questo punto comincia una vera e propria apocalisse sulla Terra, messa in atto dalla forza aliena tecnologicamente molto avanzata. Dischi volanti vengono mandati dalla nave madre sulle principali città del mondo: Washington, Londra, Mosca, Parigi. I monumenti più celebri e i simboli della civilizzazione umana cadono annullando di fatto la supremazia umana sulla Terra. Gli alieni pongono un ultimatum: le grandi potenze terrestri devono arrendersi alla colonizzazione aliena oppure l’umanità verrà spazzata via dall’azione distruttiva dei dischi volanti. Esseri inizialmente predisposti al dialogo e alla collaborazione, anzi bisognosi di aiuto, vengono sfidati, scatenando così tutta la loro potenza distruttiva e, probabilmente, la furia repressa per aver perduto il loro luogo d’origine. Oltre ai sempre visibili richiami alla situazione politica americana, che nel ’56 temeva un invasore invisibile e dalle incredibili potenzialità offensive, in La Terra contro i dischi volanti è chiaramente visibile una denuncia alle sperimentazioni tecnologiche militari, quali l’armamentario nucleare e la corsa allo spazio. La ferita lasciata aperta dall’utilizzo della bomba atomica è ancora dolorante e l’esplorazione spaziale, in questo caso rappresentata dal lancio dei satelliti Sky Hook, mostra il timore per ciò che può nascondersi nello spazio inesplorato, ricettacolo di pericoli già nell’immediato della volta celeste. Ma ancora prima degli invasori portati sul grande schermo da Sears, Haskin ha diretto la trasposizione del celebre romanzo di H. G. Wells La guerra dei mondi, mettendo in scena un’invasione aliena dalla considerevole portata distruttiva. I marziani di Wells, e di riflesso di Haskin, sono il Male, sono privi di qualsiasi motivazione che vada oltre l’intento di conquista distruttiva, di annientamento del genere umano. I marziani di La guerra dei mondi giungono sulla Terra con delle meteore, scatenano i loro veicoli da guerra (tripodi meccanici nel romanzo e nel remake a cura di Steven Spielberg, velivoli dotati di raggi mortiferi nel film del 1953) contro gli uomini, ridu148

cendoli in scheletri, e contro gli edifici. Quando si mostrano nella loro fisicità hanno un aspetto repellente, viscidi esseri ibridati con le macchine che nulla hanno di lontanamente umano. I marziani come conquistatori di mondi, assurdi dittatori che prediligono lo sterminio di massa alla schiavitù. Nella versione datata 2005 e diretta da Steven Spielberg i marziani diventano addirittura vampiri, utilizzano il sangue umano come nutrimento e come concime per la loro vegetazione che si sta già espandendo sulla Terra. Se nel film di Haskin la distruzione delle città – Los Angeles in particolare – emana il classico timore per un attacco sovietico, nella versione di Spielberg sono esplicitamente gli attacchi terroristici post 11 settembre ad evocare una realistica immersione nella distruzione della civiltà occidentale. I mezzi di comunicazione in La guerra dei mondi del ’53 ammoniscono sull’invasione in atto: «Invasori spaziali stanno atterrando in tutto il mondo! Astronavi da guerra aliene stanno radendo al suolo le nostre città! Uccidono tutto ciò che si muove! La Terra non ha scampo contro le loro armi futuristiche!». Con queste parole i radiogiornali annunciano la situazione mondiale, riecheggiando anche la leggendaria trasmissione radiofonica di Orson Welles, ispirata proprio al romanzo di Wells, che nel 1938 terrorizzò alcuni ascoltatori. La breve e allarmistica descrizione dei giornalisti dona perfettamente il punto della questione descrivendo la situazione come un’implacabile guerra senza speranza per l’umanità. Di fronte all’invasore marziano l’uomo è come un insetto, tecnologicamente arretrato e militarmente impreparato. Sia in La Terra contro i dischi volanti che in La guerra dei mondi, gli alieni vengono sconfitti. Ma se nel primo film è l’ingegno umano che ha la meglio (viene individuata una falla nello scudo gravitazionale che protegge la nave madre), nel secondo è la Natura a uccidere gli invasori, veicolata dalla fede umana. Gli alieni vengono uccisi da semplici batteri che attaccano il loro sistema immunitario e la sconfitta dei temibili marziani avviene simbolicamente subito dopo che i protagonisti del film si sono rifugiati in una chiesa a pregare. L’uomo da solo non può battere l’alieno, neanche sfoderando il suo più potente armamentario atomico, ma solo grazie all’intervento divino può essergli donata una seconda possibilità. Dopo alcuni anni di riscatto per gli extraterrestri, durante i quali veniva mostrato anche il loro lato umano e altruistico (esempi lampanti: E.T. – L’extraterrestre, Starman, i due Coocon), negli anni ’90 vengono prodotti due film speculari e allo stesso tempo opposti che portano in scena una terribile 149

invasione aliena votata alla distruzione dell’umanità. Independence Day (id., Roland Emmerich, 1996) e Mars Attacks! (id., Tim Burton, 1996) vengono distribuiti lo stesso anno, il 1996, e richiamano entrambi con esplicite citazioni narrative e iconografiche i film degli anni ’50. La matrice comune a entrambi i film è in particolare La Terra contro di i dischi volanti, ripreso in alcuni fondamentali particolari narrativi in Independence Day e in citazioni sparse in Mars Attacks!. Nel film di Emmerich una gigantesca nave spaziale aliena spunta improvvisamente sui cieli delle maggiori città mondiali, la sua mole gargantuesca oscura tutto e alcuni dischi volanti ne fuoriescono per distruggere qualunque cosa capiti loro a tiro. Il film ci descrive l’invasione e la distruzione attraverso gli occhi di alcune persone della classe medio-alta americana, un ingegnere informatico ebreo e suo padre e un ufficiale dell’aeronautica militare con la sua famiglia, lasciando anche molto spazio alla famiglia del Presidente degli Stati Uniti. L’incipit ricorda molto da vicino il film di Sears, di cui Independence Day è quasi un remake non dichiarato, dal momento che anche in questo caso le navicelle spaziali sono protette da uno scudo invisibile e solamente sabotando la nave madre è possibile scongiurare l’invasione. A sua volta la nave madre viene danneggiata da un semplice virus informatico, che mette fuori uso le strumentazioni aliene, quasi la versione tecnologica dell’arma che uccide i marziani di La guerra dei mondi. In quest’ultimo caso si trattava di virus e batteri che vivono nell’atmosfera terrestre, mentre nel film di Emmerich si tratta di un virus nell’accezione informatica del termine; da una parte è la Natura che distrugge l’invasore, dall’altra è l’azione diretta dell’essere umano e del progresso tecnologico. Independence Day tende infatti ad elogiare ed esaltare l’operato dell’uomo e la sua capacità d’iniziativa, in particolare quella americana. Independence Day glorifica fin dal titolo l’indipendenza di una nazione che si è fatta da sé ed è diventata leader mondiale in campo politico, tecnologico ed economico. Il film esce a ridosso del cinquantesimo anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale e viene distribuito proprio nel weekend precedente al 4 luglio, ovvero il giorno in cui si festeggia l’indipendenza americana. In Independence Day si celebra l’eroe americano, l’uomo qualunque (lo scienziato interpretato da Jeff Goldblum) che trova l’arma per sconfiggere la tecnologia aliena, così come il macho e carismatico esponente dell’esercito americano (Will Smith) senza escludere lo stesso capo di Stato, un eroico Presidente degli Stati Uniti (Bill Pullman) che scende a combattere insieme al suo po150

polo contro l’invasore extraterrestre. I simboli della potenza americana vengono distrutti senza pietà, la Casa Bianca che rappresenta il potere politico americano, viene fatta esplodere dal raggio blu degli alieni; l’America e l’umanità con essa è scossa e offesa, ferita proprio nei punti nevralgici della sua cultura e del suo sviluppo. Gli alieni sono viscidi e ripugnanti esseri grigiastri e tentacolari, a metà tra i “grigi” che popolano le storie di alien abduction e i “rettiliani” resi familiari da Alien. Privi di sentimenti quali pietà e compassione, lontanissimi dalle caratteristiche emotive umane, gli alieni di Independence Day sono delle spietate macchine da guerra. Allo stesso modo lo sono i marziani di Mars Attacks!, anche se la caratteristica che li contraddistingue maggiormente, oltre alla spietatezza, è il modo subdolo con il quale si presentano ai terrestri. I marziani, guidati dall’ambasciatore, dichiarano di venire in pace, cominciano immediatamente la loro impresa votata alla distruzione di qualunque cosa si muova, a cominciare da una colomba, simbolo di pace per eccellenza. Macrocefali dal volto scheletrico e carnagione verdastra che rubano il look ad alcuni alieni raffigurati su una linea di figurine – edite dalla Topps Chewingum Company – che nel 1962 avvolgevano alcune gomme americane. Quelli di Mars Attacks! sono alieni senza morale e dispettosi, che appaiono fortemente consapevoli del danno che causano all’umanità e ne sono compiaciuti, si divertono nella loro impresa di morte e distruzione. Se il film di Burton condivide con quello di Emmerich una razza di alieni tra i più cattivi mai apparsi sul grande schermo, al contrario porta in scena un’umanità gretta e meschina che merita la fine a cui sta andando incontro. In Mars Attacks! non c’è spazio per militari eroici e presidenti altruisti; i militari hanno l’ottusità e la goffaggine di Jack Black e muoiono già nel

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primo incontro con gli alieni e il Presidente è un antipatico, egoista e codardo Jack Nicholson che finisce ucciso trafitto al petto da una mano aliena, quasi a voler scimmiottare la fine di Tom Skerritt in Alien. Ma non c’è pietà neanche per il Ministro della Difesa, guerrafondaio pseudonazista, i giornalisti in cerca di scoop e il segretario del Presidente, raffigurato come un viscido adescatore di prostitute. Solo alcuni reietti che abitano le bidonville, un’ambientalista e un ex-pugile in difficoltà economica riescono a cavarsela e scongiurare la minaccia aliena attraverso la musica country di Slim Whitman, nello specifico la canzone Indian Love Call che fa letteralmente esplodere i cervelli dei marziani. Da quando i conflitti internazionali sono risaliti prepotentemente in cima alle cronache soprattutto statunitensi, i perfidi alieni dagli intenti distruttivi sono balzati in cima alle priorità hollywoodiane. Come spesso accade ci vuole però qualche anno prima che l’attualità si trasformi in fiction e così il boom dei film di fantascienza con terribili alieni con intenti bellici si sono canalizzati tra il 2010 e il 2013, quando ormai i disastri terroristici che hanno inciso gli animi degli americani sono divenuti Storia. Tra i molti lungometraggi che hanno focalizzato l’attenzione su invasioni aliene di scala globale senza dubbio si sono contraddistinte due opere che per certi aspetti si somigliano: Skyline (id., Strause Bros, 2010) e World Invasion (Battle: Los Angeles, Jonathan Liebesman, 2011). Con la parola skyline si indicano nell’idioma anglofono i grattacieli e infatti il film dei fratelli Greg e Colin Strause, che si occupano anche della produzione e della creazione degli effetti speciali visivi, è particolarmente incentrato su un’articolazione visiva verticale: ogni cosa si estende verso l’alto, dalle strutture che ospitano i protagonisti alla minaccia spaziale, fino al raggio ascetico che cattura gli esseri umani. Si tratta di un inizialmente misterioso raggio azzurrino che proviene dalle macchine volanti extraterrestri e attira magneticamente l’attenzione degli umani, allo stesso modo di come la luce azzurra delle lampade ultraviolette attira gli insetti, folgorandoli. La vicenda raccontata in Skyline e sviluppata quasi in tempo reale ci presenta alcuni giovani protagonisti intrappolati nell’appartamento di uno di loro, situato ovviamente in un grattacielo, intenti a sopravvivere all’invasione di alieni che stanno mettendo a ferro e fuoco Los Angeles, catturando le persone con il loro raggio luminoso. Gli alieni sono rappresentati come organismi biomeccanici e i velivoli con i quali si spostano sono quasi un’estensione del loro corpo, imponenti creature tentacolari che nascondono sotto l’esoscheletro un aspetto 152

animalesco quasi felino o giganteschi pachidermi che si muovono tra gli edifici abbattendoli. Lo scopo che muove questi perfidi extraterrestri è il sostentamento: questi alieni utilizzano i cervelli degli esseri umani per alimentare i loro corpi bio-meccanici, grazie ai centri nervosi che emettono scariche elettriche sufficienti a far reagire i loro esoscheletri. Con un grottesco colpo di coda finale gli Strause ci mostrano un’ibridazione umano/alieno che fa presagire una lotta fratricida nella fazione extraterrestre in un finale aperto che però non ha innescato nessun sequel. In maniera molto simile a quanto rappresentato in Skyline, Jonathan Liebesman ci mostra un’invasione aliena mondiale prendendo però come punto d’azione unico la città di Los Angeles. Gli stessi extraterrestri, dalla siluette inconfondibilmente umanoide, sono ibridati con le macchine, protetti da corazze meccaniche e provvisti di innesti bellici direttamente nella propria carne. È significativo notare come World Invasion, tematica a parte, non sia affatto strutturato come un classico film di fantascienza su un’invasione aliena, piuttosto utilizza l’estetica e il linguaggio del cinema bellico. Dalla macchina a mano con l’intento di realizzare riprese sporche da reportage, all’azione forsennata che ci immerge a 360° nei panni dei marines protagonisti, impegnati a difendere il Paese (e il mondo intero) da questo invasore senza volto e senza nome. Infatti in World Invasion non abbiamo un’origine precisa per gli alieni, né un movente che spieghi le loro gesta distruttive. C’è un solo punto di vista, quello umano, e lo spettatore è chiamato all’identificazione totale, priva della visione onnisciente tipica del cinema. Descrivere un’invasione aliena in questi termini, richiamando una certa iconografia cruda da war movie alla Black Hawk Down, è una specifica dichiarazione d’intenti che porti lo spettatore a considerare più realistica del solito l’esperienza invasiva, anche se l’invasore proviene dall’oltrespazio. I cattivi di World Invasion sono facilmente identificabili con il nemico proveniente dal Medio Oriente, quel nemico imprevedibile e senza volto che si nasconde nei meandri più bui e insospettabili come accade con il centro operativo alieno che controlla l’azione su Los Angeles, nascosto in un bunker nel sottosuolo della città. Lo stesso protagonista del film, l’ex-sergente Michael Nantz (Aaron Eckhart), ha un tragico passato tra le fila difensive statunitensi in Iraq, durante il quale ha perso l’intero plotone che era sotto il suo comando, spazzato via da un attentato nemico. Per Natz la battaglia di Los Angeles è un’occasione di riscatto per affrontare una volta per tutte le sue paure che sono il senso di colpa e l’imprevedibile e temibile nemico, difficile da placcare e privo 153

di qualsiasi scrupolo nel portare a termine la sua missione di distruzione e conquista. Ad occuparsi degli effetti visivi di World Invasion sono stati i fratelli Strause con la loro società Hydraulx e la similarità tematica di Skyline con World Invasion, che è entrato in produzione prima malgrado sia stato distribuito da Sony Pictures alcuni mesi dopo il film degli Strause, hanno portato la casa di distribuzione del film di Lieberman a un passo da intraprendere un’azione legale per plagio nei confronti del film diretto dai fratelli Strause. Le invasioni aliene hollywoodiane ad alto tasso spettacolare si trasferiscono anche in mare aperto con Battleship (id., Peter Berg, 2012). Liberissima trasposizione cinematografica di un noto gioco da tavola della Hasbro, Battleship ci racconta l’avventura di tre cacciatorpedinieri – due americani e uno giapponese – che durante un’esercitazione al largo delle Hawaii si ritrovano intrappolati all’interno di un campo di forza extraterrestre, nel bel mezzo di un tentativo di esplorazione pre-invasione. Una flotta aliena è infatti arrivata sulla Terra in risposta a un segnale lanciato dai terrestri nell’ambito del progetto esplorativo Beacon, con il quale la NASA nel 2005 intendeva assicurarsi se sul Pianeta G di recente scoperta, molto simile alla Terra e appartenente a un altro sistema solare, ci fosse qualche forma di vita intelligente. La risposta arriva nel 2012: la forma di vita c’è ed è ostile, intenzionata a conquistare la Terra. Ma la flotta esplorativa extraterrestre subisce un danno al sistema di comunicazione e così la marina militare rappresentata dall’equipaggio dei tre cacciatorpedienieri, deve impegnarsi a distruggere la minaccia aliena prima che ripari il sistema di comunicazione e chiami rinforzi. Probabilmente spinta dal successo dei film sui Transformers, che anche derivavano da un prodotto per bambini della Hasbro, la Paramount decide di trasformare in un film d’invasione aliena un gioco da tavola in cui l’unica certezza è la strategia in una basica simulazione di battaglia navale. Berg punta tutto sull’azione fragorosa soffermandosi sul rapporto conflittuale tra due fratelli, entrambi arruolati in marina ma con motivazioni e gradi militari differenti, e spingendo molto l’accento sul patriottismo, che spesso emerge da operazioni di questo tipo. In Battleship, però, a differenza di opere similari come Independence Day o World Invasion, fa capolino una certa autoironia e il momento autocelebrativo in cui entrano in scena a combattere gli alieni i pluridecorati e anzianissimi reduci della seconda guerra mondiale, si tinge quasi di parodia. Sono molte le connessioni alla memoria storica bellica degli Stati Uniti nel film di Peter 154

Berg, rappresentate in primis dai richiami al secondo conflitto mondiale. Non è un caso, infatti, se l’azione si svolge nelle Hawaii, che ospitò il tragico episodio di Pearl Harbor, così come non è casuale che le due navi americane, la USS Sampson e la USS John Paul Jones, debbano condividere lo stesso nemico con una nave giapponese, la Myoko, innescando da subito una competizione esplicitata dall’antipatia tra il protagonista Alex Hopper (Taylor Kitsch) e il Capitano Nagata (Tadanobu Asano). Curiosamente gli Stati Uniti e il Giappone si trovano a lottare insieme contro un invasore venuto da un’altra dimensione anche in Pacific Rim (id., 2013) di Guillermo Del Toro, però in quel caso i vecchi rancori ideologici lasciano decisamente il passo a un’operazione di fusione tra immaginari popolari. In Pacific Rim, infatti, la Terra è sconvolta ormai da sette anni da frequenti attacchi di giganteschi mostri che sono stati ribattezzati Kaiju, provenienti da una fenditura sul fondale dell’oceano Pacifico che è in realtà un portale interdimensionale. Per combattere questi mostri, l’uomo ha creato i Jaegers, robot altrettanto grandi guidati da due piloti umani che per entrare in sincronia con la macchina devono collegarsi a una rete neurale condivisa in un processo denominato Drift. In maniera piuttosto esplicita, Guillermo Del Toro si collega al cinema di mostri nipponico, il cosiddetto kaiju eiga reso celebre da Godzilla, e lo contamina con la tradizione sempre nipponica dei giganteschi robot, protagonisti di tanti manga e anime che hanno accompagnato generazioni di telespettatori e lettori. Inoltre il protagonista della vicenda Raleigh Becket (Charlie Hunnam) è chiamato ad effettuare un drift con la neo-pilota di Jaegers Mako Mori (Rinko Kikuchi) in una esemplare fusione psichica tra culture – quella statunitense e quella giapponese – portata letteralmente in scena nel film. In una struttura articolata in mega match tra mostri e robot, trova posto anche l’intervento extraterrestre perché la faglia nel Pacifico è un passaggio che collega il nostro mondo con quello di alcune perfide creature aliene che inviano sulla Terra i Kaiju – creati appositamente in laboratorio come macchine da guerra biologiche – per radere al suolo l’umanità e colonizzare il pianeta. I dinosauri erano Kaiju, come ci viene spiegato dallo scienziato che nel film ha il coraggio e l’incoscienza di effettuare un drift con una porzione di cervello kaiju, solo che in quell’occasione l’impresa di colonizzazione aliena non andò a buon fine a causa di cataclismi naturali che resero inabitabile il pianeta uccidendo i mostri. In Battleship così come in Pacific Rim l’umanità ha la meglio, da una parte di155

struggendo il campo di forza alieno e la nave madre prima che possa mettersi in contatto con la base, dall’altra chiudendo la faglia interdimensionale con un’esplosione atomica una volta per tutte. In entrambi i casi il messaggio è ben chiaro: solo la collaborazione tra culture può consentire la vittoria contro un nemico comune. Un intento che si può ritrovare anche in L’ora nera (The Dark Hour, Chris Gorak, 2011) prodotto dal regista di origine kazake Timur Bekmambetov. Se Battleship e Pacific Rim suggeriscono alleanze con un nemico storico degli Stati Uniti come il Giappone, in L’ora nera si instaura una partnership con il villain per eccellenza, ovvero i russi, i più longevi antagonisti dell’America. In coproduzione USA/Russia, L’ora nera ci mostra le disavventure di due rampanti studenti americani che si recano a Mosca per concludere un affare, vendere il brevetto per un social network. Ma alla delusione di essere stati truffati si aggiunge il pericolo mortale di un’invasione aliena che ha la capitale russa come centro nevralgico: prima un blackout, poi inquietanti fulmini che avvolgono le persone e le folgorano riducendole in cenere. Si tratta di una particolare razza di extraterrestri elettrici che stanno sondando diversi pianeti alla ricerca di minerali e altre forme di energia che servono loro per sopravvivere e, ovviamente, la Terra ne è particolarmente ricca. Utilizzando, quindi, un espediente simile a quello che lo stesso anno viene portato in scena da Jon Favreau in Cowboys & Aliens, in cui gli extraterrestri invadevano gli Stati Uniti di fine ’800 per appropriarsi dell’oro ad essi particolarmente utile come materia prima, L’ora nera si fa forte della trovata di portare in scena degli alieni invisibili all’occhio umano costituiti da energia, il che consente al regista di giocare con fantasiosi e suggestivi espedienti che possano rivelare la loro presenza, a cominciare dalle lampadine e gli apparecchi elettrici che si mettono improvvisamente in funzione quando gli extraterrestri sono nelle vicinanze. Così come accade in diversi film dello stesso periodo, è fondamentale la collaborazione tra culture per debellare il nemico comune e così i protagonisti devono unirsi a un gruppo ribelle russo per trovare la salvezza e sconfiggere in parte il nemico, mentre apprendono che gruppi di resistenza in tutta Europa stanno lavorando con successo per abbattere le torri di estrazione che nel frattempo sono state erette dagli alieni in più città del mondo per prelevare dal suolo terrestre minerali di vario tipo. L’unione interculturale ancora una volta è sinonimo di forza, sopravvivenza e forse vittoria. 156

La distruzione aliena appare dunque un obiettivo ricorrente nel cinema fantascientifico tanto del passato come di quello odierno. Ma oltre agli alieni cattivi e distruttivi non mancano anche esponenti comprensivi e umani della razza extraterrestre che giungono sul nostro pianeta per difenderci da altri invasori come da noi stessi. In Transformers (id., Michael Bay, 2007), blockbuster ispirato a una serie di giocattoli Hasbro anni ’80, i buoni Autobot difendono l’umanità dai cattivi Decepticon. Ma sono proprio i Decepticon a mettere a ferro e fuoco le strade Californiane portando l’umanità sull’orlo di una crisi che avrebbe potuto compromettere il Pianeta. A differenza degli altri alieni del grande schermo, i Transformers sono tutti diversificati uno dall’altro e, provenendo da una collana di action figures, ognuno di essi ha un nome e delle caratteristiche ben precise. Tutti loro, buoni e cattivi, sono dei giganteschi esseri metallici che hanno la facoltà di trasformarsi in veicoli – militari e civili – terrestri, comprendendo così in un unico individuo sia l’alieno che la macchina, una doppia minaccia che accresce la loro portata distruttiva. I Decepticon, così come gli Autobot, sono alla ricerca dell’All Spark, un cubo dall’immenso potere, capace di creare mondi e di distruggerli, un’arma micidiale il cui possesso decreterebbe le sorti dell’universo. L’All Spark è caduto sulla Terra e le fazioni opposte di Transformers si battono per contenderselo ai danni dell’ambiente circostante e di chi lo abita. Se gli Autobot sono infatti attenti a non far del male agli esseri umani, anzi trovano in loro preziosi alleati, i Decepticon sono insensibili e spietati, anzi sembrano provare piacere a fare del male, a cominciare dal loro perfido leader Megatron, che nella serie di giocattoli poteva trasformarsi in una pistola Walther P38, mentre nel film il leader dei Decepticon ha la facoltà di trasformarsi in un velivolo simile a un tecnologico caccia. La sfaccettature delle due fazioni aliene è semplicistica e non appaiono sfumature, così da far apparire ben chiara la dicotomia Bene/Male anche a un pubblico infantile, a cui il film primariamente si indirizza. Gli alieni, dunque, invadono la Terra, distruggono l’umanità e sovvertono l’ordine sociale. Nella maggioranza dei casi al cinema l’invasore è sconfitto e le numerose perdite architettoniche, oltre che umane, sono pronte ad essere riedificate in celebrazione della ritrovata supremazia umana e in simbolo alla perseveranza e all’iniziativa del popolo americano, sempre centrale, vittima primaria della catastrofe e salvatore del Pianeta. 157

Veniamo in pace

«Veniamo in pace» è l’unica frase che i perfidi marziani di Mars Attacks! pronunciano nel film diretto da Tim Burton, ingannando un’umanità che vuole fidarsi di loro ma che poi rimane beffardamente polverizzata dai raggi colorati dei loro fucili. Ma non tutti gli alieni del grande schermo sono degli spietati invasori dalle intenzioni ostili, in molti casi si mostrano preziosi alleati per gli esseri umani, ricacciando nell’oltrespazio altri loro simili dalla natura meno amichevole. Gli alieni come amici dell’uomo ci possono essere inquadrati attraverso punti di vista differenti. Possono essere dei curiosi e pacifici esploratori spaziali, dei paladini dell’umanità, profeti ammonitori di un’imminente fine o semplicemente integrati tra gli uomini senza che questi, spesso, si rendano conto della loro reale presenza. Nel già citato Transformers, oltre ai malvagi Decepticon, all’antico Caduto – che fa la comparsa nel secondo film della saga Transformers: La vendetta del Caduto (Transformers: Revenge of the Fallen, Michael Bay, 2009) – e al traditore Sentinel Prime di Transformers 3 (Transformers: Dark of the Moon, Michael Bay, 2011) c’è la controparte buona, gli Autobot che aiutano gli umani a combattere la minaccia aliena. Alieni anch’essi, ma animati da sentimenti di compassione e fratellanza, gli Autobot sono guidati da Optimum Prime alla ricerca dell’All Spark, l’arma che, se finita in mani sbagliate, potrebbe portare alla dittatura nell’universo. Gli Autobot sono rimasti orfani del loro pianeta d’origine, Cybertron, distrutto proprio dall’uso scellerato dell’energia racchiusa nell’All Spark; giunti sulla Terra la difendono per esserne poi ospitati dagli umani. Nel primo film, infatti, gli Autobot, estremamente umanizzati nel comportamento, nel linguaggio e nell’etica patriottica di cui si fanno portatori, aiutano gli umani a sconfiggere i Decepticon dai loro attacchi distruttivi. A partire dal secondo film, gli Autobot, giunti in massa sulla Terra dopo il richiamo di Optimum Prime nella chiusura del film precedente, si sono integrati con gli esseri umani e collaborano con l’esercito americano per sconfiggere ogni tipo di minaccia aliena giunga sulla Terra. I Transformers sono delle armi viventi, dunque la loro collocazione tra le fila degli umani va in modo quasi naturale a inserirsi nell’armamentario bellico, offrendo le loro caratteristiche e la loro esperienza alla difesa del Pianeta. In modo quasi paradossale, gli Autobot, fautori di pace e integrazione, sono do158

tati di caratteristiche che li rendono delle micidiali macchine da guerra. Bay ha intrapreso nell’arco dei film dedicati agli alieni robot una delineazione caratteriale degli Autobot che li rendesse il più vicino possibile al linguaggio del suo principale pubblico di riferimento: i bambini. Gli Autobot sono colorati, riescono ad avere un’espressività facciale malgrado il metallo di cui sono composti e si dilettano spesso in siparietti divertenti, amplificati in La vendetta del Caduto, in cui l’introduzione di due Autobot gemelli e pasticcioni è un chiaro richiamo alla dimensione infantile che anima la franchigia. I Transformers sono dunque uno degli esempi più recenti di alieni buoni che non solo instaurano un contatto con gli umani, ma li aiutano a sconfiggere le forze del male. Ma di alieni dalle intenzioni pacifiche ce ne sono diversi nel cinema di fantascienza, spesso creati proprio attorno all’idea di un incontro ravvicinato tra umano ed extraterrestre che sia utile alla conoscenza tra le due razze. Probabilmente è stato Spielberg a favorire, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, questa visione dell’alieno pacioso e amico dopo una tradizione fantascientifica che voleva lo straniero da un altro pianeta un invasore, come da tradizione postbellica. Sono due i film di Spielberg ad alimentare questa riscrittura positiva degli extraterrestri: Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, Steven Spielberg, 1977) ed E.T. – L’extraterrestre (E.T.: The Extra - Terrestrial, Steven Spielberg, 1982). Con un titolo che allude alla classificazione effettuata dall’astrofisico Josef Allen Hynek (The UFO Experience, 1972) riguardo gli incontri ravvicinati con entità extraterrestri – il terzo tipo riguarda l’osservazione di esseri animati in associazione con avvistamento di un UFO Incontri ravvicinati del terzo tipo ci propone la storia del primo contatto tra umani e alieni visto attraverso gli occhi di un operaio e di una madre a cui è stato rapito il figlio dagli extraterrestri. Malgrado Spielberg ci descriva la scena del rapimento del bambino utilizzando un pathos e un’inquietudine vicina 159

alle storie di alien abduction care alla tradizione dell’alieno ostile, il film racconta di extraterrestri buoni e dalle intenzioni pacifiche. Gli alieni di questo film sono sempre legati alla luce, che già di per se trasmette un messaggio positivo associato al calore e alla quiete. Il loro modo di comunicare è affidato alla musica, una composizione di cinque note, che nelle intenzioni del regista dovevano essere associate alla parola hello (ciao). Suoni e colori che sono quindi un saluto universale, uno scambio sonoro che è sinonimo di pace e fratellanza. E infatti quando nel climax finale gli alieni si mostrano uscendo copiosi dal portellone della loro mastodontica nave spaziale, sono raffigurati come tanti bambini, piccoli corpi paffuti che si avvicinano senza timore agli umani increduli, come se volessero giocare. L’alieno adulto che compare per ultimo sempre avvolto dalla luce, saluta gli umani proprio come farebbe un essere umano, chiudendo così nella pace e nei sani valori il primo contatto ufficiale con la razza umana. In Incontri ravvicinati del terzo tipo gli alieni si fanno però anche fautori di numerosi rapimenti ai danni degli uomini. Nel momento in cui si apre il portellone dell’astronave fuoriescono per primi una moltitudine di uomini e donne scomparsi tra gli anni ’40 e ’50, gli stessi uomini e donne che occupavano una postazione negli aerei e nelle navi ritrovate misteriosamente nel deserto dopo anni nei quali si erano perse le loro tracce. Ma i rapiti non appaiono turbati, forse un po’ frastornati, ma hanno conservato la sanità mentale e addirittura la giovinezza. E il buon umore del bambino, anzi il dispiacere per aver dovuto abbandonare i suoi amici alieni, ci dice molto dei loro modi gentili e degli scopi potenzialmente nobili delle loro azioni. È proprio la dimensione infantile che viene affrontata nel successivo E.T., che potremmo definire una vera e propria fiaba mascherata da film di fantascienza. E.T. è la storia di un piccolo alieno che si smarrisce sulla Terra e fa amicizia con altri bambini, mentre l’esercito vuole catturarlo per scopi scientifici. L’iter narrativo che scandisce l’evolversi della storia è tanto semplice quanto vicino alla dimensione della favola, in cui l’avventura sul nostro pianeta del piccolo extraterrestre non è dissimile da quella di un Pollicino o di un Jack e il fagiolo magico. È la storia di un bambino che si smarrisce e deve affrontare un viaggio e delle missioni per poter far ritorno a casa, durante questo viaggio trova alleati e nemici, ma l’happy end è assicurato. L’intera vicenda è inquadrata attraverso gli occhi di bambini, alieni o umani che siano, e per questo il mondo degli adulti è visto spesso come un qualche cosa di incomprensibile, grigiamente privo di quella fantasia e quella fascinazione che 160

si prova viaggiando con la fantasia. I cattivi di E.T. sono adulti, gli stessi adulti che nel cinema di invasioni aliene temono gli extraterrestri e vogliono sconfiggerli per salvaguardare l’umanità. Tutto quindi dipende dal punto di vista, magari gli alieni non sono solo repellenti invasori che vogliono schiavizzare l’uomo, ma sono bambini che hanno smarrito la via di casa e che desiderano mettersi in comunicazione con i propri genitori. Spielberg appare particolarmente legato alla dimensione infantile dell’essere alieno e desidera riscrivere lo stereotipo del visitatore da altri mondi. L’alieno ha le sembianze di un bambino, immagine archetipica della bontà primordiale e dell’innocenza incontaminata e, soprattutto, è un essere amichevole in Incontri ravvicinati del terzo tipo. L’alieno, inoltre, è palesemente un cucciolo, impacciato e simpatico, in E.T., gettando così una nuova luce sulla fantascienza cinematografica. Una luce positiva e buonista che donerà nuova linfa al genere, dando vita ad operazioni simili come Cocoon – L’energia dell’universo (Cocoon, Ron Howard, 1985) e il suo sequel Cocoon – Il ritorno (Cocoon: The Return, Daniel Petrie, 1988) oppure Explorers (id., Joe Dante, 1985) durante gli anni ’80 e punendo al botteghino il prototipo dell’alieno malvagio, come accadde a La Cosa di John Carpenter che uscì nei cinema lo stesso anno di E.T. – L’extraterrestre, con la differenza che il film di Spielberg incassò solo negli USA circa 360 milioni di dollari rivelandosi uno dei maggiori incassi della storia del cinema, mentre quello di Carpenter fu un sonoro flop, non arrivando ad incassare neanche 20 milioni di dollari. Un accorato omaggio al cinema di Spielberg è stato compiuto da uno degli eredi putativi del regista di Incontri ravvicinati del terzo tipo, ovvero J.J. Abrams che nel 2011 ha diretto Super 8, in cui un gruppo di ragazzi con la passione per il cinema e il talento nel mettersi nei guai si ritrova alle prese con una creatura aliena intrappolata sulla Terra da quasi vent’anni. L’azione si ambienta nel 1979, collocando dunque temporalmente la vicenda nel periodo in cui il cinema degli alieni buoni di matrice spielberghiana era ai suoi esordi e vede protagonisti sei ragazzi di 13 anni che nella vispa caratterizzazione, nelle dinamiche comportamentali e nei problemi personali ricordano i personaggi di molti film che hanno forgiato le generazioni cresciute negli anni ’80. Joe Lamb (Joel Courtney) e i suoi amici, mentre stanno girando un film horror amatoriale con la loro macchina da presa super 8, sono testimoni di un terribile incidente ferroviario, durante il quale un misterioso essere trasportato in un vagone viene accidentalmente liberato. Le prove sono incise sulla 161

pellicola della loro videocamera e da quel momento l’esercito invade le strade della cittadina di provincia in cui si svolge l’azione; contemporaneamente le persone cominciano a scomparire e gli elettrodomestici, così come molti macchinari che producono calore, vengono sottratti misteriosamente dalle abitazioni. Ovviamente c’è dietro lo zampino di questa misteriosa creatura, un extraterrestre caduto sulla Terra nel 1958 con la sua astronave e tenuto prigioniero dai militari degli Stati Uniti nella fantomatica Area 51. Ora l’alieno sta cercando i componenti della sua astronave per tornare sul suo pianeta e Joe sembra essere uno dei pochi a provare empatia per lui, grazie anche a un contatto psichico che si instaura tra i due. La creatura ragniforme che compare in Super 8 non è un cucciolo come E.T., non ha le sembianze simpatiche e il fare pacioso degli alieni di Spielberg, anzi riesce ad incutere un certo timore e non si fa problemi ad uccidere gli esseri umani che vogliono ostacolarlo. Ma è una vittima, un prigioniero in terra straniera, esaminato, studiato e ricattato dagli umani avidi e guerrafondai, ben rappresentati dal Colonnello Nelec (Noah Emmerich) che vogliono carpirne i segreti tecnologici da utilizzare in ambito militare. Solo la purezza di un ragazzino, orfano di madre e pronto al perdono, è in grado di guardare oltre l’aspetto mostruoso dell’alieno, intuirne le vere intenzioni e capire che si tratta di una vittima e non un carnefice e solo il suo intervento potrà consentire all’alieno di assemblare il suo velivolo per tornare tra la sua gente, proprio come accadeva nell’epilogo di E.T. – L’extraterrestre. Alieni pacifici e amichevoli non sono però un’esclusiva degli ultimi trent’anni e già nel 1951 uno dei film fondatori dell’epoca della fantascienza classica, Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Robert Wise, 1951) introduceva la figura di Klaatu, capostipite degli extraterrestri cinematografici amici dell’uomo. Ultimatum alla Terra nasce da un racconto di Harry Bates del 1940, Addio al padrone, da cui il film si discosta in modo considerevole, e viene prodotto in un periodo cruciale per la storia degli Stati Uniti, poiché si era da poco conclusa la Seconda Guerra Mondiale e cominciavano a scaturire i conflitti ideologici e politici con l’Unione Sovietica. C’era un’atmosfera di guerra nell’aria, un palpabile sentore di conflitto non ancora chiuso e già pronto ad essere riaperto. Per questo Ultimatum alla Terra è un film di denuncia sull’assurdità della guerra e sull’altrettanto assurda natura guerrafondaia dell’essere umano, visto dagli altri abitanti dell’universo come una possibile minaccia per la sopravvivenza cosmica. A 162

Washington atterra un disco volante, ne escono Klaatu (Michael Renne) e il suo bodyguard robotico Gort (Lock Martin). Klaatu, prima ferito dai soldati e poi portato in ospedale, chiede di parlare con tutti i leader della Terra per ammonirli di un pericolo imminente: l’uomo, a causa delle guerre che sta conducendo, è in pericolo di morte poiché la Confederazione galattica, preoccupata che la tecnologia spaziale consenta all’essere umano di espandersi oltre il suo pianeta e portare con sé la guerra, vuole eliminarlo. L’uomo deve dedicarsi alla pace o la sua razza verrà presto spazzata via, questo è l’ultimatum di Klaatu, che puntualmente non viene ascoltato dal momento che appare impossibile riunire i rappresentati della Terra in un unico luogo. Il Segretario del Presidente degli Stati Uniti spiega all’alieno che in quel momento ci sono tensioni nel mondo e neanche la neonata ONU può garantire una collaborazione mondiale. Con questi elementi, il film di Wise rimane uno dei prodotti di fantascienza dell’epoca più esplicitamente ancorati all’attualità politica, evitando la strada della metafora o dell’allusione allora praticata per denunciare platealmente la debolezza della politica mondiale di quel periodo. Klaatu non viene creduto, poi tradito e ucciso dall’uomo stesso. L’essere umano non sembra meritevole di essere salvato e probabilmente merita di estinguersi a causa della sua stessa cattiveria e cocciutaggine. Klaatu riesce a salvarsi grazie alle cure miracolose del suo aiutante Gort, lancia per l’ultima volta il suo ultimatum e poi va via, con la speranza che l’uomo non ignori le sue parole. Gli unici alleati che l’alieno trova sulla Terra sono Helen Benson (Patricia Neal), vedova di un soldato caduto in guerra, il suo figlioletto Bobby (Billy Gray) e il prof. Barnhardt (Sam Jaffe), che credono in lui e lo sostengono nella sua crociata votata al raggiungimento della pace interplanetaria. Klaatu è, dunque, uno dei primi esemplari di extraterrestre buono, amico degli uomini e, anzi, disposto ad aiutarli contro la loro propensione all’autodistruzione. In molti hanno colto un parallelismo tra l’alieno e Gesù Cristo, notando come le fasi che scandiscono l’evolversi di Klaatu nel racconto richiamino l’iter di Cristo (venuta dal cielo, messaggio di pace, tradimento, uccisione, resurrezione, ritorno in cielo), oltre al nome con il quale l’alieno si camuffa tra gli umani, Carpenter, che significa proprio falegname. Questa allegoria è stata sempre smentita da Wise e dal produttore Julian Blaustein, ma dopo molti anni lo sceneggiatore Edmund North ammise che le somiglianze c’erano ed erano volute. L’uomo astrale, dunque, rappresenta la pace e il Bene poiché ri163

chiama esplicitamente alla figura del Salvatore; l’alieno è paragonato alla divinità e la sua pietà per gli uomini lo porta a dar loro una seconda possibilità che possa salvarli dalla morte. Nel 2008 la 20th Century Fox decide di girare un remake di Ultimatum alla Terra e affida la sceneggiatura a David Scarpa e la regia al giovane Scott Derrickson. Il risultato è una rilettura estremamente affascinante dell’assunto originale in cui il timore per la guerra è sostituito (o, se vogliamo, accostato) a quello per la distruzione dell’ecosistema. Ultimatum alla Terra di Derrickosn può quasi essere letto come un seguito al film di Wise, poiché qui Klaatu arriva sulla Terra già con l’intenzione di annientare l’umanità, apparentemente sorda alle offerte di aiuto e giunta al baratro della propria auto-conservazione, come se la decisione estrema in seguito all’ultimatum del ’51 sia ormai stata presa. Quando Klaatu (Keanu Reeves) giunge sulla Terra e chiede al Segretario di Stato di far riunire l’ONU per spiegare il motivo della sua venuta, riceve un secco rifiuto e viene, anzi, tenuto in ostaggio e sottoposto alla macchina della verità per scoprire se è in programma un attacco alla Terra. L’alieno si sente offeso e capisce che non c’è nulla che si possa fare per salvare il pianeta dall’uomo. La decisione è presa: l’umanità sarà distrutta dall’azione di G.O.R.T., che in questo film non è solo la guardia del corpo robotica di Klaatu, ma anche l’arma che decreterà la fine dell’umanità. Gort diventa un acronimo affibbiato dall’esercito degli Stati Uniti allo strano essere che accompagna l’ambasciatore alieno e sta a significare Generatore Organico Robot Tecnologico. L’essere è composto da tanti micro organismi, letali parassiti che corrodono qualunque cosa con cui vengono in contatto. Quando il conto alla rovescia finisce e G.O.R.T. si scatena, New York e le aree circostanti vengono ridotte in polvere e solo l’intervento in extremis di Klaatu potrà donare all’umanità una seconda chance. L’alieno, infatti, si convince che forse l’uomo merita un’altra possibilità, commosso dai sentimenti di un bambino rimasto orfano del proprio padre e della caparbietà della sua madre adottiva nell’educarlo, una Helen Benson (Jennifer Connelly) che qui è diventata una celebre microbiologa chiamata dal governo a studiare la situazione. Il pericolo che affligge il pianeta Terra è la noncuranza dell’uomo, che lo sfrutta, lo maltratta e pian piano lo sta uccidendo. Se l’uomo continuerà a vivere finirà per uccidere se stesso e il pianeta, se l’uomo morirà, il pianeta si salverà. Da questo assunto Klaatu arriva all’estrema scelta di scatenare G.O.R.T., dopo aver salvato una coppia di ogni specie animale in numerose 164

arche spedite nello spazio. Il cambiamento di Klaatu – a dire il vero un po’ troppo repentino – e il suo sacrificio per la salvezza dell’umanità, oltre a continuare un ideale ritratto cristologico dell’immagine dell’alieno, delinea un’evoluzione nella costruzione dell’alieno buono. Un alieno meno disponibile e simpatico in confronto al passato e più sfaccettato caratterialmente, saggio e determinato, ma anche compassionevole e altruista. In un ideale iter continuativo con la filosofia salvifica di Ultimatum alla Terra, gli alieni di Segnali dal futuro (Knowing, Alex Proyas, 2009) scendono sulla Terra e si confondono tra gli uomini per garantire una continuazione alla razza umana, destinata ad essere spazzata via da un’imminente apocalisse. In Segnali dal futuro l’astrofisico John Koestler (Nicholas Cage) riesce a trovare nei numeri che campeggiano su un vecchio disegno i codici delle più grandi catastrofi della storia dell’uomo, compreso un’imminente e violenta eruzione solare che spazzerà via l’umanità dalla faccia della Terra. Il figlio di John però è dotato di particolari facoltà mentali che gli consentono di predire il futuro e per questo motivo è scelto da una razza di alieni per essere salvato, insieme ad altri bambini speciali, e assicurare la continuità della razza umana su un altro pianeta. In realtà nel film di Proyas la questione degli alieni non è centrale alla vicenda e le stesse creature extraterrestri entrano a far parte della narrazione solo a film quasi terminato, imponendosi quasi come colpo di scena per lo spettatore. Per il resto Segnali dal futuro è un film catastrofico che mostra incredibili incidenti e i tentativi del protagonista di sventarli. Gli alieni, celati sotto spoglie umane ma in realtà simili ad angeli di luce – rimarcando così l’origine divina della creatura extraterrestre – hanno intenzioni salvifiche per il genere umano e sono amichevoli, malgrado l’aspetto losco e l’iniziale diffidenza dei protagonisti nei loro confronti. Allo stesso tempo sembrano privi di cuore, di sentimenti umani, decidono di salvare il piccolo Caleb e altri suoi simili solo per una questione razionale, poiché si tratta di bambini (e dunque con più anni di vita davanti a loro) e perché dotati di facoltà mentali superiori, così da trasmetterle alla loro futura prole in una logica evoluzionistica di matrice darwiniana. La freddezza con cui gli alieni negano, ad esempio, a John di poter salire sulla nave spaziale con suo figlio e la completa impassibilità con cui osservano le ultime ore di un’umanità sull’orlo della fine, fanno di loro strani alieni, appartenenti alla fila dei buoni ma lontani dall’ideale spielberghiano. Segnali dal futuro mostra così degli alieni pacifici mescolati tra gli esseri 165

umani, anche se decisamente poco integrati per via della loro evidente e sospetta stranezza in confronto al resto della società. Del resto anche in Ultimatum alla Terra di Derrickson ci vengono introdotti altri alieni oltre a Klaatu che vivono da molti anni tra gli uomini e li osservano, finendo poi per affezionarsi al loro modo di vivere imperfetto. Altri film, però, pongono la questione dell’integrazione aliena come tematica principale ed è il caso, ad esempio, di Men in Black (id., Barry Sonnenfeld, 1997), Alien Nation (id., Graham Baker, 1988) e District 9 (id., Neil Blomkamp, 2009). Men in Black e i suoi sequel Men in Black II (id., Barry Sonnenfeld, 2002) e Men in Black 3 (id., Barry Sonnenfeld, 2012) affrontano l’argomento con il tono tipico della commedia d’azione, affidando a due agenti della sezione speciale governativa MIB di regolare l’immigrazione aliena sulla Terra. In Men in Black, infatti, gli alieni vivono tra gli uomini, sono camuffati tra di loro e hanno sembianze spesso strambe ma comunque umanamente credibili. Gli alieni sono commercianti, tassisti, cagnolini, collaboratori governativi e criminali, categoria quest’ultima alla quale appartengono i nemici dell’umanità pronti a mettere in pericolo la Terra. J (Will Smith) e K (Tommy Lee Jones) si occupano proprio di tenere a bada e sgominare i traffici illegali alieni, impedendo a una blatta extraterrestre di causare un conflitto diplomatico con una razza aliena a cui è stato rubato un prezioso manufatto, nel primo film, e di catturare criminali intergalattici nel secondo e nel terzo. Gli alieni, buoni o cattivi che siano, hanno una caratterizzazione fumettistica, sempre pronti alla gag e inseriti in siparietti comici. L’assunto che interessa a Men in Black, così come agli altri due film, è mostrare l’alieno impegnato a integrarsi nella società che lo ospita, riproducendo un parallelo extraterrestre con la costruzione della società terrestre. Ci sono gli immigrati regolari, lavoratori retti e responsabili, integrati con gli uomini ormai da tempo e magari con la possibilità di fare carriera. Poi ci sono i criminali, clandestini dediti a traffici illegali, rapine e piani terroristici. Il 166

mondo extraterrestre è costruito sul riflesso di quello terrestre, l’umano e l’alieno sono due immagini speculari dello stesso oggetto. In Men in Black però l’alieno è nascosto, ha sembianze apparentemente umane perché il governo deve tenere segreto l’avvenuto contattato con specie extraterrestri, onde evitare fenomeni di razzismo e paura. Mentre in Alien Nation e District 9 questo segreto non esiste, l’integrazione avvenuta o eventuale è sotto gli occhi di tutti e gli alieni si muovono tra le strade cittadine mostrando il loro bizzarro aspetto inumano e confermando così i timori di incomprensione e xenofobia. Alien Nation racconta una società invasa da centomila profughi alieni, fuggiti dal regime dittatoriale del loro pianeta chiedendo asilo alla Terra. Gli alieni per lo più sono miti e onesti, ma tra di loro ci sono anche criminali, assassini e spacciatori. Ed è proprio a quest’ultima categoria che l’agente Skyes (James Caan), umano razzista e l’agente Francisco (Mandy Patinkin), alieno severo, danno la caccia, dopo aver intercettato un traffico di droga aliena. Il film di Baker affronta con il linguaggio del thriller d’azione il tema della tolleranza e del razzismo contrapponendo due esponenti delle razze coinvolte, profondamente opposti ma costretti a collaborare. Gli alieni, così come tutte le minoranze, sono discriminati per via del loro aspetto e della loro origine; si tratta di stranieri, lontani dalle tradizioni e dalla cultura umana che provano ad approcciarsi ad essa come meglio possono, nel rispetto o meno della legge. Il modo in cui Baker crea il parallelismo tra la razza di immigrati alieni e le minoranze etniche in America (soprattutto ispanici e afro americani) è piuttosto palese: Baker parla dell’uomo, delle varie etnie che popolano la Terra e dell’intolleranza che quotidianamente emerge nei vicoli delle metropoli. L’alieno è l’umano e la metafora del migrante da un altro pianeta per parlare del migrante da un altro paese è ben leggibile in ogni sequenza del film. Allo stesso modo fa Blomkamp con District 9, film a basso costo di coproduzione USA/Nuova Zelanda che racconta della segregazione in ghetti di alcuni alieni giunti sulla Terra per sbaglio negli anni ’80. Blomkamp inserisce i suoi mostruosi gamberoni in Sud Africa, nella periferia di Johannesburg, confinati in un distretto recintato e sorvegliato da cui gli alieni non dovrebbero uscire per non mescolarsi con gli umani. I riferimenti alla realtà vanno al cosiddetto District Six, un ghetto nei pressi di Città del Capo in cui furono confinati alcuni neri durante il periodo dell’apartheid. Gli alieni di District 9 sono chiaramente troppo differenti dagli esseri umani, non solo per l’aspetto fisico (sono simili a crostacei) ma anche per il comportamento che potremmo 167

definire incivile. I gamberoni hanno un’indole irruenta, vivono nella sporcizia, mangiano spazzatura e cibo per gatti, sono violenti e spaventano gli abitanti umani. Il loro modo di vivere è incompatibile con quello umano e la multinazionale MNU, che gestisce la permanenza aliena sulla Terra, decide di sposare i gamberoni in un nuovo sito, il Distretto 10, situato lontano dai centri abitati. La MNU è anche invischiata nella progettazione e commercio di armamentario bellico e dunque le armi supertecnologiche degli alieni fanno loro gola, ma essendo tarate per essere utilizzate solo dalla specie che le ha programmate, è impossibile carpirne i segreti. La rivolta dei gamberoni descritta in District 9 e i subdoli tentativi della MNU di scoprire l’utilizzo delle armi fanno da contorno a una vicenda in cui un alieno, ribattezzato Christopher Johnson, e il suo figlioletto stanno tentando in tutti i modi di tornare sul loro pianeta. Prima ostacolati, poi aiutati da Wikus (Sharlto Copley), dipendente della MNU che subisce una mutazione che lo sta trasformando in un gamberone, gli alieni riescono a tornare sulla loro nave madre per ripartire verso il loro pianeta. In District 9 il tema dell’intolleranza e della xenofobia sono portati all’estremo, mostrando un’insofferenza reciproca tra umani e alieni. Se i gamberoni sono inizialmente inquadrati nella massa, mostruosi e delinquenti, collaboratori delle bande criminali del luogo, andando avanti nella storia ricevono una riabilitazione nella figura di Christopher Johnson e suo figlio. I due, umanizzati e resi riconoscibili da alcuni capi di abbigliamento, vengono descritti in modo più “umano” degli umani che popolano il film. Gli alieni sono leali e hanno nobili scopi che riguardano la salvaguardia della loro specie e dei loro diritti, a differenza di Wikus che è descritto come un viscido, sleale ed egoista burocrate. Blomkamp simpatizza esplicitamente per gli alieni, la denuncia alle istituzioni e alla politica di segregazione razziale è continuamente palpabile, ma l’extraterrestre rimane per tutto il film altro, simbolo di un estraneo che rivendica la propria identità e va fiero della sua mostruosa fisionomia. L’integrazione non è avvenuta, gli alieni sono costretti ad andare via, cacciati dagli uomini che li riconoscono troppo dissimili da loro. Anche in questo caso l’uomo è l’alieno. Un caso differente di integrazione aliena avviene in Starman (id., John Carpenter, 1984), in cui l’alieno si sostituisce completamente all’umano in un’insolita storia d’amore. Dopo il flop di La Cosa, John Carpenter abbraccia l’idea dell’alieno buono e pacifico narrando la storia di un extraterrestre (Jeff Bridges) che giunge sulla Terra e, braccato dall’esercito, chiede aiuto a una vedova 168

(Karen Allen) prendendo le sembianze del marito defunto. L’espediente che giustifica la venuta dell’alieno sulla Terra è un messaggio inviato nello spazio dall’uomo stesso nel 1977, contenuto nella sonda Voyager 2. L’uomo, dunque, prima invita lo straniero e poi abbatte il suo velivolo non appena lo individua, senza neanche accertarsi delle intenzioni del suo pilota. L’alieno di Starman appare come una sorta di pacifico ultracorpo, un clone spaziale di un essere umano che invece di plagiare la mente del corpo ospitante e intraprendere un subdolo piano di conquista, ridona la speranza e l’amore a una donna afflitta dalla sua perdita. Ovviamente l’alieno di Starman non è solo un concentrato di altruismo, ha anche un proprio obiettivo da raggiungere, ovvero scampare dagli agguati dei militari e recarsi nel sito in Arizona in cui i suoi simili dovrebbero venire a riprenderlo. Questa volta però l’alieno è completamente sostituito all’essere umano, non c’è differenza nell’aspetto fisico e nei sentimenti, anzi l’alieno appare qui la controparte buona e gentile di un’umanità gretta e belligerante, ottusamente militarizzata in squadroni di morte che distruggono qualunque cosa appaia loro minimante diversa o incomprensibile. L’alieno è umano più dell’umano e questa volta possiede delle facoltà divine, infatti Starman può resuscitare le creature morte, aumentando così la sua portata salvifica su un’umanità cieca e priva di comprensione. Con Starman si completa il viaggio dell’alieno pacifico, giunto sulla Terra per incontrare l’uomo, diventare suo amico, scambiare con lui un messaggio di pace che è anche un ammonimento verso i pericoli futuri. L’alieno poi si stabilisce sulla Terra, tenta di integrarsi tra mille difficoltà, si sostituisce a un uomo morto per donare un ultimo sogno d’amore alla donna che lo aveva amato e lascia il suo seme cacciato dal pianeta che lo aveva invitato. L’umanità sembra dunque perlopiù insensibile all’opportunità di avere un contatto extraterrestre pacifico. Escludendo il grande affresco di scambio culturale interplanetario imbastito da Spielberg in Incontri ravvicinati del terzo tipo, l’uomo ha sempre respinto l’estraneo, ha ignorato i suoi messaggi di pace e i suoi diritti, gli ha aperto fuoco addosso e l’ha confinato in ghetti. Da qui si può comprendere la funzione primaria del più comune alieno cinematografico: conquistare e distruggere; poiché se l’uomo teme chi è diverso da lui, le missioni pacifiche appaiono inutili. È l’uomo il primo a muovere guerra e il suo nemico è spesso tale per difesa e non per iniziativa. 169

L’Onnipotente creò la scimmia a sua immagine e somiglianza

La mancanza di stabilità politica, economica e sociale produce mostri ripugnanti e ostili che vanno a sovrapporsi ai problemi che dilagano nel mondo, visti sempre sotto una specifica prospettiva che al cinema è in gran parte a stelle e strisce. Oggi come ieri – e probabilmente anche domani – la fantascienza racconta dell’essere umano, dei suoi problemi e dei rapporti sociali. Le situazioni al centro della narrazione sono frequentemente critiche, descrivono uno scenario apocalittico, un orizzonte buio, un’atmosfera pessimistica. È questo che l’uomo vede, è questo che l’uomo sente. Tra mostruosi alieni che vogliono conquistare o distruggere la Terra, esseri mutanti risultato di esperimenti genetici e radiazioni nucleari, virus mortali e robot ribelli, l’essere umano si è trovato di fronte a una temibile schiera di nemici. Nemici che giungono da un immaginario fantascientifico radicato nella cultura umana da oltre due secoli, ovvero da quando la scienza è entrata nella realtà quotidiana innescando le basi per una contaminazione col fantastico. Sono gli anni del primo motore a vapore per l’impiego nei trasporti e nelle industrie (1765) e del motore elettrico (1822), sono gli anni in cui nasce il primo romanzo di fantascienza moderna, Frankenstein di Mary Shelley (1818), e l’uomo comincia a rendersi conto che la fantasia può avere riscontri nella realtà, che il futuro è vicino. La fantasia dell’uomo comincia così a viaggiare lontano, ovvero relativamente vicino, intuendo nelle infinite possibilità di applicazione della scienza un focolaio di minacce possibili ed eventuali. Il nemico è dunque scientifico/tecnologico per antonomasia perché la scienza e la tecnologia appaiono incontrollabili, sono veicolo per la realizzazione di qualunque fantasia umana, anche le più terribili e paurose. È l’epoca della ragione, del superamento della superstizione e della morte di Dio, l’uomo è padrone di se stesso e di ciò che lo circonda, ha libertà e possibilità di vita e di morte. Ma la scienza, paradossalmente e in quanto incontrollabile fucina di ogni cosa, è spesso la migliore alleata del nemico. Gli 170

extraterrestri ostili hanno una tecnologia bellica avanzata, i mostri mutanti e i virus sono creati in laboratorio o tramite l’ausilio della tecnologia ed è proprio la sperimentazione scientifica che risveglia gli esseri mostruosi che giungono dal passato. La rappresentazione del nemico nella fantascienza è largamente legata alle conquiste scientifiche. Allo stesso tempo però il nemico è l’estraneo, colui che non si conosce in quanto esterno alla cerchia sociale, con il quale non è possibile condividere idee, cultura e lingua. Un alieno, per utilizzare una sola parola. E la cultura americana, largamente fautrice della nascita e della crescita del cinema fantascientifico, è particolarmente legata al tema dell’alieno, vista la profonda simbiosi con l’estraneo che il melting pot statunitense incentiva, del quale si nutre, si costituisce e che finisce per temere. Nel bene e nel male l’alieno della fantascienza è il riflesso di chi vive fuori dai confini e che si ostina a voler entrare, portando disordine e incertezza nelle vite dei residenti, minacciando e allo stesso tempo esaltando la loro identità. L’immaginifico essere da un altro pianeta toglie la maschera e mostra la sue vere sembianze, che sono umane. Alto, basso, verde, grigiastro, squamoso, con la lingua biforcuta o con gli occhi grandi e obliqui, tante caratteristiche per descrivere semplicemente l’uomo. L’uomo che regna e che uccide, che si espande, fa guerra, stupra, conquista e distrugge. Tra i molti esseri viventi l’uomo è forse l’unico a temere se stesso con tanta foga e lucidità da personificare le proprie paure in un altro essere, estrapolando così dall’inconscio l’Ombra e donandole una forma differente da se stesso. Anche se poi è proprio di se stesso che ha paura. Ed è per questo motivo che la fantascienza, letteraria così come cinematografica, si arricchisce di nuove immagini nei periodi di crisi interna (guardando agli Stati Uniti) o, con ancor più intensità, internazionale. Se quindi si può sostenere che la scienza nel cinema fantastico è nemica dell’essere umano, con ancora più convinzione si può giungere a conclusione che è l’uomo il peggior nemico di se stesso. La fantascienza ha condotto a questa interpretazione spesso capovolgendo la realtà a cui siamo abituati. In Io sono leggenda di Matheson (e di conseguenza nei film che ne sono stati tratti) è l’unico uomo sopravvissuto alla catastrofe a diventare la minaccia in un mondo riscritto. Colui che guarda gli altri come diversi e si pone (e noi con esso) come baluardo della normalità, come difensore del giusto, è a sua volta un mostro agli occhi di un’umanità riformulata in chiave mutante, un nemico 171

da temere, da combattere e da abbattere. Quell’estraneo che minaccia la stabilità di una società ha le sembianze dell’uomo, di un essere leggendario che spaventa perché di giorno uccide la normalità e di notte vuole resistergli negandosi ad essa. Matheson suggeriva allo spettatore che è l’uomo il nemico da temere nonostante sia proprio per lui che si giunge a parteggiare. In modo non dissimile, anche se con una morale differente, anche Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes, Franklin J. Schffner, 1968) mostra un’umanità dove l’unico rappresentante è visto come un diverso, un estraneo da combattere. Ispirandosi all’omonimo romanzo del 1963 scritto da Pierre Boulle, Schaffner racconta dell’astronauta George Taylor (Charlton Heston) piombato su un pianeta dominato da una razza di scimmie dall’intelligenza simile a quella umana. Prima prigioniero e poi capo dei ribelli umani, Taylor si rende conto solo nell’ultima scena del film che non si trova su un altro pianeta, ma sulla Terra. L’astronauta, infatti non ha viaggiato nello spazio ma nel tempo e si è ritrovato sullo stesso pianeta ma nel 3978, dopo che le scimmie, evolute in seguito alle radiazioni di un’ennesima guerra nucleare, si sono ribellate all’uomo e lo hanno schiavizzato. Le scimmie sono indiscutibilmente il nemico, gerarchicamente organizzate in una sorta di dittatura in cui i pochi umani sono resi schiavi, ma assumendo un punto di vista alternativo, è Taylor il nemico, alla stregua dell’alieno invasore di tanto cinema fantascientifico. Un uomo giunto dallo spazio, con un’intelligenza e una determinazione superiore agli altri umani nativi e capace di minacciare la stabilità di una società ormai consolidata e funzionante. Taylor è il nemico da combattere, Taylor è l’alieno invasore. Il pessimismo contenuto nel finale di Il pianeta delle scimmie, in cui Taylor finisce per maledire lo stesso essere umano per ciò che è 172

accaduto, è diametralmente opposto a quello di Io sono leggenda, ma entrambi pongono l’uomo come nemico in una duplice prospettiva: nemico per la comunità in cui si trova e nemico per se stesso, ovvero artefice del proprio pessimistico destino. Perfino Avatar (id., James Cameron, 2009) inquadra l’uomo come invasore, come alieno in un mondo che non lo riguarda. Ricalcando il mito del buon selvaggio, secondo il quale l’uomo che viveva nella natura incontaminata dalla civiltà era buono e pacifico, poi rovinatosi quando è entrato in contatto col progresso e con la civiltà, e ponendo espliciti riferimenti all’impresa di conquista inglese sul territorio dei nativi americani, Cameron descrive un’umanità di invasori, guerrafondai intenzionati a radere al suolo un’intera civiltà, i Na’vi, per poter sfruttare il pianeta che li ospita, Pandora, giacimento naturale di un minerale ferroso utile per risolvere i problemi energetici sulla Terra. L’uomo è strutturato militarmente e tecnologicamente avanzato, determinato a raggiungere il proprio obiettivo alla stregua degli alieni di La guerra dei mondi. Ad eccezione dell’ex marine Jake Sully, che trova molte più affinità con il mondo Na’vi che con quello dei suoi simili, e di alcuni scienziati che vorrebbero battere strade pacifiche, l’uomo è descritto come un ottuso distruttore, un essere che non vuol sentire ragioni ed è pronto a distruggere un ecosistema incontaminato così come ha già fatto col proprio pianeta. Se l’uomo ha dunque paura di se stesso, trasfigurato continuamente in forme e creature differenti e aliene, forse il motivo è pertinente. L’uomo si sente minacciato da se stesso perché si conosce e sa, attraverso la storia, cosa è accaduto all’umanità e per colpa di chi. È così che comincia la fine della storia. L’uomo scopre le potenzialità infinite che la scienza gli offre e allo stesso tempo intuisce dove si cela il suo vero nemico, ovvero dentro di sé. Qualunque cosa un tempo era fantasia, magia e superstizione oggi è realtà e scienza, o se ancora non lo è potenzialmente lo sarà e dunque trova una sua momentanea dimensione nella fantascienza, limbo perfetto tra ciò che potrebbe essere (fanta) e ciò che è (scienza). L’ignoto che si staglia al di fuori della dimensione terrestre e che è fondamento delle paure e delle incertezze umane, grazie alla fantascienza va a coincidere con il conosciuto. È per questo che l’uomo dona un carattere e delle caratteristiche a ciò che più lo minaccia e che abita al di fuori dell’orizzonte da lui conosciuto e lo fa plasmando il suo nemico su se stesso. L’uomo è l’alieno e l’alieno è il nemico dell’uomo. Il ci173

nema statunitense conosce bene questo meccanismo di funzionamento dell’immaginario e la produzione fantascientifica non fa altro che ribadirlo, colorando le paure e gli invasori delle stesse tonalità che la storia e la società periodicamente gli suggeriscono. «Guardati dalla bestia uomo, poiché egli è l’artiglio del demonio. Egli è il solo fra i primati di Dio che uccide per passatempo, per lussuria e avidità. Egli uccide il suo fratello per possedere la terra del suo fratello. Non permettere che si moltiplichi perché egli farà il deserto della sua casa e della tua. Sfuggilo e ricaccialo nella sua foresta perché egli è il messaggero della morte». (Pergamena, VI versetto. Da Il pianeta delle scimmie, 1968)

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Filmografia

1902. Viaggio nella Luna (Voyage dans la lune) di Georges Méliès 1904. Viaggio attraverso l’impossibile (Voyage à travers l’impossible) di Georges Méliès 1920. Il Gabinetto del dott. Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari) di Robert Wiene 1922. Il Dottor Mabuse (Dr. Mabuse der Spieler) di Fritz Lang 1925. Il mondo perduto (The Lost World) di Harry O. Hoyt 1931. Frankenstein (id.) di James Whale 1933. King Kong (id.) di Merrian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack 1933. L’uomo invisibile (The Invisible Man) di James Whale 1940. Il Dottor Cyclops (Dr. Cyclops) di Ernest B. Schoedsack, 1942. Mostro pazzo (The Mad Monster) di Sam Newfield 1944. La donna e il mostro (The Lady and the Monster) di George Sherman 1950. RXM – Destinazione Luna (Rocketship XM) di Kurt Neumann 1950. Uomini sulla Luna (Destination Moon) di George Pal 1951. Il continente scomparso (Lost Continent) di Sam Newfield 1951. La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World) di Christian Nyby e Howard Hawks 1951. Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still), Robert Wise 1953. Gli invasori spaziali (Ivaders from Mars) di William Cameron Menzies 1953. Il risveglio del dinosauro (The Beast from 20,000 Fathoms) di Eugène Lourié 1953. La guerra dei mondi (War of the Worlds) di Byron Haskin 1954. Assalto alla Terra (Them!) di Gordon Douglas 1954. Godzilla (Gojira) di Ishiro Honda 1955. Il mostro del pianeta perduto (Day the World Ended) di Roger Corman 1955. Il mostro dei mari (It Came from Beneath the Sea) di Robert Gordon 175

1955. L’astronave atomica del dottor Quatermass (The Quatermass Xperiment) di Val Guest 1955. Tarantola (Taratula) di Jack Arnold 1956. L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers) di Don Siegel 1956. La terra contro i dischi volanti (Earth vs. the Flying Saucers) di Fred F. Sears 1957. A 30 milioni di chilometri dalla Terra (20 Millions Miles to Earth) di Nathan Juran 1957. I giganti invadono la Terra (The Amazing Colossal Man) di Bert I. Gordon 1957. Il mostro che sfidò il mondo (The Monster That Challenged the World) di Arnold Laven 1957. L’assalto dei granchi giganti (Attack of the Crab Monsters) di Roger Corman 1957. La mantide omicida (The Deadly Mantis) di Nathan Juran 1957. Lo scorpione nero (The Black Scorpion) di Edward Ludwing 1957. The Cyclops (id.) di Bert I. Gordon 1958. Attack of the 50 Foot Woman (id.) di Nathan Juran 1958. Blob – Fluido mortale (The Blob) di Irvin S. Yeaworth Jr. 1958. Ho sposato un mostro venuto dallo spazio (I Married a Monster from Outer Sapce) di Gene Fowler Jr. 1958. I mostri delle rocce atomiche (The Trollenberg Terror) di Quentin Lawrence 1958. Il mostro dell’astronave (It! The Terror from Beyond Space) di Edward L. Cahn 1958. La vendetta del ragno nero (Earth vs. the Spider) di Bert I. Gordon 1958. War of the Colossal Beast di Bert. I. Gordon 1959. Assalto dallo Spazio (The Invisibile Invaders) di Edward L. Cahn 1959. Il drago degli abissi (Behemoth the Sea Monster) di Eugene Lourié e Douglas Hickox 1959. Piano 9 da un altro spazio (Plan 9 from Outer Space) di Ed Wood Jr. 1962. Agente 007 – Licenza di uccidere (Dr. No) di Terence Young 1962. Il trionfo di King Kong (Kingu Kongu tai Gojira) di Ishiro Honda 1963. Gli Uccelli (The Birds) di Alfred Hitchcock 176

1963. L’invasione dei mostri verdi (The day of the Triffids), Steve Sekely 1964. A prova di errore (Fail-Safe) di Sidney Lumet 1964. Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb) di Stanley Kubrick 1964. L’ultimo uomo della Terra (The Last Man on the Earth) di Sidney Salkow e Ubaldo Ragona 1964. Satan Bug – Stazione 3: Top Secret (The Satan Bug) di John Sturges 1965. Frankenstein alla conquista della Terra (Furankenshutain tai chitei kaiju Baragon) di Ishiro Honda 1965. Thunderball – Operazione Tuono (Thunderball) di Terence Young 1967. Conto alla rovescia (Countdown) di Robert Altman 1967. Si vive solo due volte (You Only Live Twice) di Lewis Gilbert 1968. 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey) di Stanley Kubrick 1968. Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes) di Franklin J. Schffner 1968. La cortina di bambù (The Bamboo Saucer) di Frank Telford 1971. 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man) di Boris Sagal 1972. Frogs (id.) di George McCowan 1972. La notte della lunga paura (Night of the Lepus) di William F. Claxton 1973. Fase IV – Distruzione Terra (Phase IV) di Saul Bass 1973. Il mondo dei robot (Westworld) di Michael Crichton 1973. La città verrà distrutta all’alba (The Crazies) di George A. Romero 1975. La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives) di Bryan Forbes 1977. Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind) di Steven Spielberg 1977. La spia che mi amava (The Spy Who Loved Me) di Lewis Gilbert 1978. Capricorne One (id.) di Peter Hyams 1978. Il pianeta dei dinosauri (Planet of Dinosaurus) di James K, Shea 1978. Long Weekend (id.) di Colin Eggleston 1978. Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers) di Philip Kaufman 1979. Alien (id.,) di Ridely Scott 1979. Moonraker: Operazione Spazio (Moonraker) di Lewis Gilbert 1980. Revenge of the Stepford Wives (id.) di Robert Fuest 177

1981. I predatori dell’arca perduta (Raiders of the Lost Ark) di Steven Spielberg 1982. Blade Runner (id.) di Ridley Scott 1982. E.T. – L’extraterrestre (E.T.: The Extra – Terrestrial) di Steven Spielberg 1982. La Cosa (The Thing) di John Carpenter 1983. Octopussy: Operazione Piovra (Octopussy) di John Glen 1983. The Day After (id.) di Nicholas Meyer 1983. Wargames – Giochi di guerra (Wargames) di John Badham 1984. 2010: L’anno del contatto (2010) di Peter Hyams 1984. Starman (id.) di John Carpenter 1984. Terminator (The Terminator) di James Cameron 1986. Invaders (Invaders from Mars) di Tobe Hooper 1987. Predator (id.) di John Mc Tiernan 1987. Robocop (id.) di Paul Verhoeven 1987. The Stepford Children (id.) di Alan J. Levi 1987. Uccelli 2 – La paura (El ataque de los pàjaros) di René Cardona Jr. 1988. Alien Nation – Nazione di alieni (Alien Nation) di Graham Baker 1988. Essi vivono (They Live!) di John Carpenter 1988. Il fluido che uccide (The Blob) di Chuck Russell 1989. Indiana Jones e l’ultima crociata (Indiana Jones and the Last Crusade) di Steven Spielberg 1990. Classe 1999 (Class of 1999) di Mark L. Lester 1990. Predator 2 (id.) di Stephen Hopkins 1990. Robocop 2 (id.) di Irvin Kershner 1991. Terminator 2 – Il giorno del giudizio (Terminator 2: The Judgement Day) di James Cameron 1992. Jurassic Park (id.) di Steven Spielberg 1993. Carnosaur – La creazione (id.) di Adam Simon e Darren Moloney 1993. Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers) di Abel Ferrara 1994. Gli Uccelli II (The Birds II: Land’s End) di Rick Rosenthal 1994. Il terrore dalla sesta luna (The Puppet Masters) di Stuart Orme 1995. Carnosaur 2 (id.) di Louis Morneau 1995. Evolver (id.) di Mark Rosman 1995. GoldenEye (id.) di Martin Campbell 178

1995. L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys) di Terry Gilliam 1995. Virus letale (Outbreak) di William Petersen 1996. Carnosaur 3 – Primal Species (id.) di Jonathan Winfrey 1996. Independence Day (id.) di Roland Emmerich 1996. Mars Attacks! (id.) di Tim Burton 1996. The Stepford Husbands (id.) di Fred Walton 1997. Alien – La clonazione (Alien: Resurrection) di Jean-Pierre Jeunet 1997. Il mondo perduto – Jurassic Park (The Lost World: Jurassic Park) di Steven Spielberg 1997. Men in Black (id.) di Barry Sonnenfeld 1997. Mimic (id.) di Guillermo Del Toro 1998. Dark City (id.) di Alex Proyas 1998. Matrix (The Matrix) di Andy e Larry Wachowski 1998. Small Soldiers (id.) di Joe Dante 1998. The Faculty (id.) di Robert Rodriguez 1999. Virus (id.) di John Bruno 2000. Pianeta Rosso (Red Planet) di Anthony Hoffman 2000. Spiders (id.) di Gary Jones 2001. Evolution (id.) di Ivan Reitman 2001. Mimic 2 (id.) di Jean de Segonzac 2002. 28 giorni dopo (28 Days Later) di Danny Boyle 2002. La morte può attendere (Die Another Day) di Lee Tamahori 2002. Men in Black II (id.) di Barry Sonnenfeld 2002. Resident Evil (id.) di Paul Anderson 2002. Signs (id.) di M. Night Shyamalan 2003. Terminator 3 – Le macchine ribelli (Terminator 3: Rise of the Machines) di Jonathan Mostow 2004. Alien vs. Predator (id.) di Paul W.P. Anderson 2004. Io, Robot (I, Robot) di Alex Proyas 2004. La donna perfetta (The Stepford Wives) di Frank Oz 2005. Dead Meat (id.) di Conor McMahon 2005. Invasion – Serie Tv (id.) di Shaun Cassidy 2005. Isolation – La fattoria del terrore (Isolation) di Billy O’Brien 2005. La guerra dei mondi (War of the Worlds) di Steven Spielberg 2006. Altered – Terrore dallo spazio profondo (Altered) di Eduardo Sanchez 179

2006. Black Sheep – Pecore Assassine (Black Sheep) di Jonathan King 2006. I figli degli uomini (Children of Men) di Alfonso Cuaròn 2007. 28 settimane dopo (28 Weeks Later) di Juan Carlos Fresnadillo 2007. Aliens vs. Predator 2 (Aliens vs. Predator: Requiem) di Colin e Greg Strause 2007. Invasion (id.) di Oliver Hirschbiegel 2007. Io sono leggenda (I Am Legend) di Francis Lawrence 2007. Redacted (id.) di Brian De Palma 2007. Transformers (id.) di Michael Bay 2007. Werewolf women of SS (in Grindhouse) di Rob Zombie 2008. Blindness (id.) di Fernando Meirelles 2008. Cloverfield (id.) di Matt Reeves 2008. Doomsday – Il giorno del giudizio (Doomsday) di Neil Marshall 2008. E venne il giorno (The Happening) di M. Night Shyamalan 2008. Eagle Eye (id.) di D.J. Caruso 2008. Terminator: The Sarah Condor Chronicles (id.) di Josh Friedman 2008. Iron Man (id.) di Jon Favreau 2008. Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still), Scott Derrickson 2009. Avatar (id.) di James Cameron 2009. Benvenuti a Zombieland (Zombieland) di Ruben Fleischer 2009. Carriers – Contagio letale (Carriers) di David e Alex Pastor 2009. Dead Air (id.) di Corbin Bernsen 2009. District 9 (id.) di Neil Blomkamp 2009. Il mondo dei replicanti (The Surrogates) di Joathan Mostow 2009. Segnali dal futuro (Knowing) di Alex Proyas 2009. Terminator Salvation (id.) di McG 2009. Transformers: La vendetta del Caduto (Transformers: Revenge of the Fallen) di Michael Bay 2010. La città verrà distrutta all’alba (The Crazies) di Breck Eisner 2010. Iron Man 2 (id.) di Jon Favreau 2010. Predators (id.) di Nimrod Antal 2010. Skyline (id.) di Colin e Greg Strause 2010. Monsters (id.) di Gareth Edwards 2011. World Invasion (Battle: Los Angeles) di Jonathan Liebesman 2011. Captain America – Il primo vendicatore (Captain America: The First Avenger) di Joe Johnston 180

2011. Transformers 3 (Transformers: Dark of the Moon) di Michael Bay 2011. Contagion (id.) di Steven Soderbergh 2011. Super 8 (id.) di J.J. Abrams 2011. Cowboys & Aliens (id.) di Jon Favreau 2011. La cosa (The Thing) di Matthijs van Heijningen Jr. 2011. L’ora nera (The Dark Hour) di Chris Gorak 2012. Zero Dark Thirty (id.) di Kathryn Bigelow 2012. Battleship (id.) di Peter Berg 2012. Men in Black III (id.) di Barry Sonnenfeld 2013. The Host (id.) di Andrew Niccol 2013. Iron Man 3 (id.) di Shane Black 2013. Star Trek: Into Darkness (id.) di J.J. Abrams 2013. World War Z (id.) di Marc Forster 2013. Pacific Rim (id.) di Guillermo Del Toro 2013. Elysium (id.) di Neil Blomkamp 2013. La fine del mondo (The World’s End) di Edgar Wright 2014. Robocop (id.) di José Padilha

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Bibliografia

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Luca Lombardini Alejandro Amenábar

Cristina Canfora - Luca Lardieri Alice attraverso lo schermo Giampiero Francesca American Graffiti Salviano Miceli Christopher Nolan Simone Isola Cinegomorra

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