Musica ex machina 880643232X, 9788806432324


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Italian Pages 311 [320] Year 1975

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Musica ex machina
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Reprints Einaudi Fred K. Priebcrg

Musica ex machina

Reprints Einaudi

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Titolo originale

Musica ex machina. Uber das Verhàltnis non Musik und Tecbnik © i960 Verlag Ullstein, Berlin-Frankfurt-Wien

Copyright © 1963 Giulio Einaudi editore s. p.a., Torino Traduzione di Paola Tonini

Prima edizione nei «Saggi», n. 322,1963 Prima edizione nei «Reprints», 1975

Indice

P- 3 16

Uomo e macchina Il movimento futurista

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Musica sulla macchina La musica concreta

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Il robot che canta Progressi della musica concreta Musica elettronica a Milano

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Musica elettronica a Varsavia e a Roma

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Musica elettronica a Colonia

188 192

Musica elettronica a Darmstadt e Karlsruhe Musica elettronica nei paesi scandinavi

197

Musica elettronica in Olanda e Belgio

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218

Musica elettronica a New York e Baden-Baden Musica elettronica in Israele e Giappone

223

Nuovi strumenti musicali

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Musica per cinematografo

276

Musica trasmessa

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Bibliografia

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Indice dei nomi

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Musica ex machina

Questo libro è dedicato al giovane direttore Francis Irving Travis, mio amico, come umile ringraziamento per le sue convincenti e perfette esecuzioni di musica contemporanea

Uomo e macchina

Pensa che le ferrovie saranno fuori moda ed abbandonate fra poco tempo guarda la vittoria sarà prima di tutto veder bene in lontananza veder tutto da vicino e che tutto abbia un nuovo nome.

A volte mi vengono in mente questi versi del poeta francese Guil­ laume Apollinaire, perché nella sua opera si destò l’uomo contempo­ raneo e conferì nuovi nomi alle cose che lo circondavano. La crisi era iniziata da molto tempo, una trasformazione dell’esistenza, l’imma­ ginaria « fine dell’occidente », e a questo occidente appartiene anche quella ferrovia di cui parlava il poeta. Ogni giorno - secondo l’orario alle 7,54 del mattino, ma in realtà il più delle volte un po’ in ritardo - arriva alla stazione di BadenBaden il treno n. 3458, che viene da Karlsruhe e trasporta impiegati e operai nei giorni di lavoro. Una volta mi cadde sotto gli occhi una targhetta incrostata di sporcizia, fissata alla locomotiva logorata dal­ l’uso, che aveva l’aria amareggiata di un vecchio ronzino fra le stan­ ghe di una vettura di piazza: SOCIETÀ COSTRUZIONE MACCHINE Karlsruhe 1919 n. 2088

Questa locomotiva del 1919, che senza dubbio non è neppure la macchina più vecchia delle ferrovie federali, che soffia attraverso il fumaiolo tonnellate di prezioso carbon fossile e fornisce in cambio una prestazione pari a un ridicolo tre o quattro per cento, è condan­ nata a morte. Un giorno sarà sostituita da una macchina che trasfor­ ma con minor dispendio la corrente elettrica in moto rotatorio, da una macchina migliore, piu produttiva, più perfetta. La tecnica in­ vecchia. Ma l’uomo? Che cosa accadrà di lui? Il suo invecchiamento si attua in una diversa, sorprendente maniera; generazioni di crea­ ture uguali si succedono. La sua struttura cerebrale non cambia. I suoi sensi, la capacità di reazione, la prontezza di riflesso dei nervi,

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Musica ex machina

energia e rendimento sono stabiliti esattamente e una volta per sem­ pre. Del suo goffo involucro non è proprio il caso di parlare. Il corpo umano, che un tempo incantò Fidia e Michelangelo, a ragione è stato definito una costruzione difettosa rispetto ai nuovi problemi tecno­ logici. L’uomo sfrutta le conquiste della tecnica, ma non capisce che è sorto un nuovo mondo. Non comprende che cosa succede quando mette in funzione interruttori e leve. È come un bambino e solo il fatto che egli ha a che fare con costruzioni di ingegneri, tecnici e operai, lo preserva dal credere nella magia e nel sortilegio. Ma poi­ ché si ricorda di aver sentito dire che solo Dio è infallibile, e viene a conoscenza di infortuni, catastrofi, esplosioni, errori, egli, oppresso dalla paura, si trastulla con il suo giocattolo tecnico come con qual­ che cosa di proibito, accarezza il vano sogno di dominare gli stru­ menti, di essere il padrone, e nonostante ciò ha il molesto presenti­ mento che vi è inimicizia fra l’uomo e la macchina, o piuttosto fra questi uomini e la macchina.

Il mondo che abitiamo è un mondo tecnico. È il mondo dei processi, delle funzioni, linee aeree e stazioni, il mondo delle macchine e dei calcoli, dei mec­ canismi, rumori, officine e trasmissioni, il mondo dei tecnici, ingegneri, fisici, specialisti, professori, inservienti e direttori, dei quasi incalcolabili sindacati, associazioni, aziende, laboratori, industrie, canali, città, pozzi minerari, cavità e alture, degli orari per treni ed elettroni, delle masse che bussano eternamente alla porta... Questo mondo non è una pura e semplice possibilità, un progetto che si può differire, inventato sopra un foglio di carta, esso è incontestabile realtà e solo realtà.

Queste frasi di Max Bense non rivelano altro che la volontà di penetrare spiritualmente e dominare la nostra « esistenza tecnica ». Voglio dire, la volontà di auscultare l’organo di un uomo presente, contemporaneo. Non si discute la sua età. Modernità - proprio nel ristretto significato che la parola deve qui avere - non è un risultato degli anni di vita. Modernità è un comportamento spirituale che ri­ chiede del coraggio. Ci troviamo sulla soglia di un nuovo mondo avventuroso. Già ora possiamo gettarvi un lungo sguardo. Calpeste­

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remo un terreno sconosciuto. Impareremo veramente a riflettere, po­ tremo comprendere? E infine: saremo in grado di accettare il nuovo, spontaneamente e senza sotterfugi? Sarei tentato di affermarlo su­ bito e senza rifletterci, ma non azzardo ancora la risposta. Forse è già nata la generazione che può darla senza scivolare in vuote profe­ zie. Ma una cosa mi sembra certa: se la risposta dovesse essere ne­ gativa, ci si ricorderà all’occorrenza delle visioni di Aldous Huxley e George Orwell. Il processo non si arresta un attimo. Giorno e notte scorrono i trasportatori a nastro. Senza sosta la caligine esce dai fumaioli, i tra­ sformatori di Bessemer sprizzano scintille. Ininterrottamente fan fracasso le rotative, girano i nastri magnetici, scintillano gli schermi. Questa realtà tecnica viene messa in moto dall’uomo, dal debole es­ sere che deve servirsi delle macchine per differire la sua fine dovuta alla fame e al bisogno. Tutto ciò avviene logicamente, è una conse­ guenza storica. Iniziò nel « buon tempo antico ». Già Goethe aveva occasione di far pronunciare a un personaggio degli Anni di pellegri­ naggio di Guglielmo Meister alcune frasi che denotavano un estremo disagio: « Il prevalere della meccanica mi tormenta e impaurisce: scoppia come un temporale, lentamente, lentamente; ma ha preso la sua direzione, verrà e colpirà... » È il lamento dell’artigiano che vede la sua esistenza minacciata dalla fiumana di prodotti industriali meno costosi. E qui si trattava soltanto delle prime fabbriche, della nuova apparizione dell’industria. Nel frattempo si è compreso che è una cosa priva di senso distruggere le macchine, si sa che le macchine non sono opera del demonio, bensì un mezzo di esistenza estremamente necessario. Tuttavia Goethe non ha vissuto soltanto la confu­ sione dell’industrializzazione ai suoi inizi, ma anche un aspetto notevole, a quel tempo non ancora spiegabile, della civilizzazione tecnica: quella civetteria molto diffusa nella seconda metà del diciot­ tesimo secolo con la più inquietante forma sotto la quale si presenta la tecnica, con il robot, la creatura meccanica simile all’uomo. Ho­ munculus trionfava. Pieni di ammirazione i borghesi affluivano da tutte le parti, per farsi venire i brividi dinanzi alle bambole artifi­ ciali di un Jacob de Vaucanson, meccanico di Grenoble, e dei due Jaquet-Droz, padre e figlio, di La Chaux-de-Fonds, dinanzi a questi

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Musica ex macbina

androidi con meccanismo a orologeria, complicatissima meccanica e visi di cera, che scimmiottavano con naturalezza il loro costruttore. Erano abili maestri, i missionari Thibaut e de Ventavon, Wolfgang von Kempelen di Presburgo, l’abate Mical, i fratelli Schatz di Magdeburgo, l’orologiaio Siegmeier di Eisleben, e l’odore della magia nera aleggiava intorno alle loro opere. Nell’inclinazione piuttosto timorosa del pubblico verso simili meraviglie dell’automatismo, la natura in origine rigidamente differenziata dell’uomo e della macchi­ na sembrava improvvisamente confondersi. Pareva che la macchina assumesse fattezze umane. Quando Samuel Butler scrisse il suo romanzo satirico Erewhon la prima edizione apparve nel 1872 - nel suo troppo noto regno fantastico poteva persino invertire il materialistico assioma, a quei tempi da molti propugnato, che l’uomo è una macchina e presentare le macchine come esseri viventi. Ma questa « animazione » della mac­ china valeva solo come premessa che l’arte si sarebbe impadronita di lei, per scoprire una regione completamente nuova di attività ar­ tistica e ora - come in passato aveva dato forma al classicismo, al leggendario e al drammatico di natura - per celebrare una materia a lei più vicina. Tutto ciò non accadde in modo vistoso, bensì inci­ dentalmente, in modo appena percettibile, a poco a poco, a volte fu anche nascosto da soggetti romantici. E questa « celebrazione » in un primo tempo non fu affatto un amichevole saluto alle nuove conqui­ ste della tecnica. Dapprima gli artisti le avversarono con accanimen­ to, il che non desta meraviglia. Fra i letterati che combatterono au­ dacemente con la pungente satira della loro penna, deve essere ricordato per primo Jonathan Swift. Purtroppo egli è conosciuto soltanto per l’edizione a uso dei fanciulli - del resto assai ridotta rispetto all’originale - dei Viaggi di Gulliver nel paese dei Lillipu­ ziani. Ma fra le altre avventure egli fece naufragare il suo eroe anche sulla costa del regno di Laputa, che ospitava un popolo di pensatori e di scienziati nonché alcune rugose mostruosità della tecnica e della « ragione ».

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I viaggi di Lemuel Gulliver, in edizione integrale, sono una let­ tura per adulti, sono attuali come nel 1726, l’anno della prima edi­ zione. Ci si può rallegrare del modo con cui questa gente di Laputa « decanta a esempio la bellezza di una donna o di qualsiasi altra crea­ tura », poiché essa la descrive « mediante rombi, circoli e parallelogrammi, ellissi e altre geometriche figure... » Ma Swift non si sareb­ be proposto di scrivere una satira, se non avesse avuto in mente cose più serie. Mi riferisco alla macchina da scrivere letteraria, che Gulli­ ver trovò a Lagado, la capitale del regno. Essa è descritta con amo­ rosa precisione. Non si tratta di una macchina da scrivere come quel­ le che usano al giorno d’oggi. Quella macchina, cosi racconta Swift, l’ha inventata uno scienziato affinché « anche l’uomo più stupido, privo di genio e di studi, possa scrivere a volontà molti libri di filo­ sofia, politica, diritto, matematica e teologia, con una spesa minima e con misurati movimenti del corpo ». Vedo un automa di fronte a me, composto di dadi di legno gire­ voli, sulle cui superfici sono incisi tutti i vocaboli della lingua in tutte le forme ricorrenti. Con l’aiuto di quaranta leve i dadi vengono cambiati di posizione. Se per caso si trovano l’uno accanto all’altro gruppi di lettere che hanno un senso, allora vengono messi per iscrit­ to e conservati come provvista di frammenti letterari. Queste idee non erano apparse per un puro caso nella satira di Swift. Raymond Lully (vissuto all’incirca dal 1235 al 1315) e Corne­ lius Agrippa (1486-1535) avevano compiuto seri tentativi di costrui­ re simili macchine automatiche per l’istruzione, che dovevano comu­ nicare conoscenze e risolvere difficilissimi problemi. È possibile che vi fossero perfino dei contemporanei di Swift, che avevano qualcosa di simile in mente.

Nella Scelta dalle carte del diavolo, scritta fra il 1783 e il 1789, una satira che parla di un viaggio astronautico verso Saturno in un guscio di noce, alla fine Jean Paul si arrischia ad avvertire i suoi lettori: « Qui si tratta proprio di voi; voi vivete e agite come delle

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macchine; ciascuno di voi è un simile uomo-macchina oltre alle sue qualità ». Qui il poeta si richiama alla macchina che scrive libri di Jonathan Swift, la cita come proprietà delTuomo-macchina e rivolge la sua beffarda arguzia in modo univoco contro il giornalismo. Del resto è certamente innegabile che una simile macchina dovrebbe redi­ gere per la stampa ottime prediche domenicali, scherzi mensili, trimestrali, in­ fantili e berlinesi, in grande quantità e senza onorario (il tipo incaricato di girarla si accontenterebbe quasi di nulla).

E ancora: l’uomo-macchina di Jean Paul è amante del progresso. Egli possiede uno strumento per radere che si chiama « mulino a cavallo per la barba ». Chi vuole può vedervi il preannunzio, anche se molto rozzo, del rasoio elettrico, poiché certe somiglianze del prin­ cipio sono evidenti. Tuttavia questa strana macchina, come anche l’automa che scrive libri, non nasce dalla fantasia di Jean Paul. Sembra che una carica­ tura o persino un’effettiva invenzione inglese ne stia alla base. Un cavallo mette in movimento un argano, che a sua volta fa ruotare un rasoio; tutt’intorno in circolo degli uomini introducono il loro volto entro delle aperture e in questo modo si fanno tagliare la barba: un’azzeccata parodia della mania innovatrice di Figaro, di questa umanissima figura di artigiano con tutte le sue piccole debolezze e privilegi. Pure questa costruzione era cosi poco inverosimile che uno zelante uditore di tribunale di Augusta, un certo Johann Andreas Erdmann Maschenbauer, prese sul serio il grottesco e in imo scritto polemico del 1753 presentò ai suoi lettori il mulino a cavallo per la barba, insieme con una macchina per volare. Si potrebbe essere tentati di considerare queste cose come delle divertenti stravaganze, di riderci sopra e poi dimenticarle in fretta. Ma senza dubbio esse hanno una grandissima importanza. Queste piccole, modeste notizie, parodie, satire, caricature contribuirono a far entrare la macchina nella coscienza dell’uomo comune. Quando il dibattuto tema si presentò in veste letteraria, l’effetto fu ancora più profondo. Accadde cioè né più né meno che l’uomo assimilò la macchina. Senza che nessuno se ne accorgesse il mondo cambiava e tutte queste fantasie concernenti le macchine sono sintomi di un

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nuovo spirito. Una nuova immagine dell’uomo e un’immagine della macchina più conforme ai tempi ne era l’innegabile, sconvolgente conseguenza. La macchina stessa, l’inanimata costruzione di metallo, non solo non produceva niente da sé, ma non concorreva per nulla a questa nuova immagine. Era ed è una realtà come le leggi dei corpi ca­ denti, Vlliade di Omero, o il flusso e riflusso. La sua attività di­ pende dall’uomo che le sta di fronte, dall’alto della sua superiorità spirituale. Una macchina non è né buona né cattiva; la sua pura e semplice esistenza non ha alcuna conseguenza morale. Soltanto l’uso - e la spirituale presa di possesso - da parte dell’uomo determina un’azione positiva o negativa. Senza dubbio l’arte, non appena de­ scrive la macchina, la decifra e penetra in essa, favorisce l’esame sul­ la natura e non solo sull’anatomia della tecnica: essa assegna all’uo­ mo un altro punto di osservazione, dal quale riesce più facile penetrare con lo sguardo il mezzo meccanico e accettarlo. Lo aiuta a comprendere quanto egli abbia bisogno della macchina, ma anche quanto più urgente sia il bisogno che la macchina ha di lui, come « pilota », come padrone che impartisce gli ordini. Fu l’arte che domò la ritrosia dell’uomo e donò alla macchina nome e contrassegno.

Il nome di Villiers de l’IsIe-Adam aveva per me da lungo tempo un suono eccitante, non per gli argomenti pesanti e macabri di molti suoi racconti. Villiers fu piuttosto un maestro della satira il quale, giudicando con acutezza il suo tempo, mise per iscritto inverosimili utopie meccaniche, in modo mordace e caustico - un romantico ma, in quanto francese, libero dal pathos e da sgradevoli sentimentali­ smi, pieno invece di spirito e di un temperamento gallico. Dopo lunghe ricerche scoprii le sue Storie del terrore e il roman­ zo L’Èva del futuro. Villiers inventa in una delle storie una cosid­ detta macchina Botton, la « macchina della gloria » di un ingegnere, con la quale si può determinare il successo di una rappresentazione teatrale. Naturalmente: la claque automatica, una mordace allusione ai signori Sauton e Porcher, che nel 1820 avevano fondato l’Assuran-

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ce des succès dramatiques e a tariffa fissa facevano applaudire, ride­ re, singhiozzare i loro aiutanti in occasione di prime rappresentazioni e di debutti, al momento opportuno e con intuito drammatico. Ma neppure i critici vengono risparmiati, certamente non a torto se an­ che allora i rapporti erano già tési come oggi. Nello stesso tempo questo campo d’azione della sorprendente macchina forma un diver­ tente parallelo con la macchina che scrive libri di Jonathan Swift. Il romanzo, scritto nel 1887, contiene qualche cosa di più. Il ro­ bot, l’« Èva del futuro », non è un fosco Golem di argilla, un gigante di acciaio, un colosso che uccide gli uomini, immancabile protagoni­ sta di un determinato genere di film dell’orrore in voga ai nostri giorni, ma ricorda piuttosto Olimpia, l’automa femminile del rac­ conto di E. T. A. Hoffmann, L'uomo di sabbia, il vivente capolavoro del fisico Spallanzani e del meccanico Coppelio, che alla fine muore della morte delle macchine. È probabile che Villiers abbia conosciuto qualche cosa dello scrittore romantico tedesco. Come Hoffmann egli lascia che la sua creatura artificiale commetta del male, finché essa viene distrutta. L’Èva del futuro si chiama Hadaly ed è un magnifico robot, la perfetta imitazione di una donna vivente, ma il costruttore di questa meraviglia si chiama Edison, e l’autore gli fa esclamare: Se già le nostre divinità e le nostre speranze sono soltanto di natura scien­ tifica, perché anche il nostro amore non dovrebbe diventarlo? Al posto del­ l’Èva della leggenda dimenticata e disprezzata dalla scienza, vi offro un’Èva scientifica, la sola che ancora si addica all’appassito organo che voi - con un ultimo resto di sentimentalismo, del quale siete subito pronti a sorridere chiamate il vostro « cuore ».

La favola è semplice. Un uomo di carne e sangue, che ha provato una profonda delusione a causa di un amore infelice, si innamora di Hadaly, che non sa nulla di anima e di sentimenti e corrisponde in modo sorprendente all’immagine dell’uomo della scienza meccanico­ materialistica di allora. Alcuni elementi derivano dalla costumatezza vittoriana e da ideali di esistenza romantici; altri sono soltanto pre­ sentiti, come il pianoforte elettrico e il film sonoro a colori, e da ciò deriva anche lo strano fascino di questo romanzo, che chiarisce quali erano i problemi attuali nel 1887, ciò che vi era di ribelle, di sovversivo: Charles Darwin, l’ateismo materialistico di Ludwig

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Feuerbach, il fonografo e la lampada a incandescenza di Edison, la rivoluzione industriale, la questione sociale, la specializzazione scien­ tifica. L’Èva del futuro porta l’uomo sull’orlo dell’abisso, ma infine egli si ribella: Da quando in qua Dio permette alle macchine di prendere la parola? E quale ridicolo orgoglio riempie questo fantasma elettrico, che si è vestito da donna e mira cosi ad unirsi alla mia vita?

Musica di macchine (caricatura di Grandville).

Con questa domanda è presa una decisione; l’uomo è salvo, l’or­ dine naturale del mondo è liberato dal materiale esplosivo in figura di una robot. Ma nella realtà storica non accadde nulla di ciò che Villiers aveva concepito nel suo romanzo come lieto fine. Non la macchina venne distrutta, bensì i nemici della macchina lottarono invano contro un’idra meccanica, che si moltiplicava come la scopa fatata dell’apprendista stregone, e poi abbandonarono scoraggiati la lotta.

Il robot è entrato nella letteratura. Lo si è dipinto come diavolo alla parete. Il dramma di Georg Kaiser, Gas II, del 1920, contiene la rassegnata visione di un futuro nel quale esistono « figure gialle »,

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« figure blu » e operai, nei quali si avverte la mancanza di ogni senti­ mento umano, che hanno assunto la funzione di automi, operano a comando e agiscono solo come massa e oggetto. Alla fine tutti i lavo­ ratori del gas, circondati dai cannoni delle figure gialle, si uccidono di propria volontà... scoppia una sfera di vetro piena di un terribile materiale corrosivo... una figura gialla annuncia telefonicamente: — voltate i cannoni contro di voi e annientatevi------ i morti incalzano dalle fosse — il giorno del giudizio — dies irae — solvet — in favil — (Il resto si perde. Nei grigi vapori della lontananza sibilano le traiettorie dei globi di fuoco l’uno contro l’altro in un’evidente autodistruzione).

(La fine del Terzo Reich doveva ugualmente essere attuata con l’aiuto di uno spaventoso gas velenoso in una suicida apoteosi di af­ fermazione del destino germanico. Solo un felice caso lo impedì. Il gas era già per via). L’utopia che intende criticare la cultura è spesso accoppiata con la figura del robot. La macchina si allea a volte con teorie romanti­ che, comuniste o radicalsocialiste, serve come simbolo della rivolu­ zione del proletariato. Citiamo ad esempio il film di Fritz Lang, Metropolis, che fu girato nel 1926: fabbriche, grattacieli, fumaioli, masse proletarie in lotta contro gli oppressori capitalisti, e una robot prodotta nella « macchina di uomini » che come dea delle macchine le mobilita contro i manager di Metropolis. Dietro tutto ciò l’estasi della distruzione, di sangue e omicidio ma forse il piacere dell’annientamento deriva soltanto dalla necessità di creare del vuoto, dello spazio per un altro mondo migliore. In ogni caso la concezione futurista contiene chiaramente questo moti­ vo. Certo la letteratura reagì in modo piuttosto vario all’archetipo del robot. Non dubito che si tratti di un prototipo dell’anima nel senso della psicologia sperimentale di Cari Gustav Jung. Doveva es­ sere in rapporto con le significative figure di Arlecchino e della ma­ rionetta? Questa è solo una supposizione, ma la vicinanza della morte del robot si accorderebbe effettivamente al nascosto signifi­ cato dell’Arlecchino, che Jung ha analizzato nei quadri di Pablo Pi­ casso. È molto notevole il fatto che il robot, dagli androidi musicanti

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del diciottesimo secolo, abbia conservato un rapporto di parentela con la musica. Nella musica contemporanea vi sono centinaia di titoli di opere sinfoniche, di musiche da camera, balletti e altre opere tea­ trali nelle quali il robot, l’uomo-macchina, l'Arlecchino di acciaio, la marionetta, hanno un ruolo principale. Nel sesto Festival di mu­ sica da camera che si svolse nel 1926 a Donaueschingen, figure in forma di marionette, ideate da Oskar Schlemmer, danzarono nel Bal­ letto triadico, di cui Paul Hindemith aveva composto la musica per un piccolo organo meccanico. Nel programma Schlemmer scriveva: I ballerini non dovrebbero, per cosi dire, essere delle vere e proprie ma­ rionette, manovrate per mezzo di fili o meglio mosse automaticamente da un perfetto meccanismo di precisione, quasi senza che l’uomo vi aggiunga qual­ che cosa di suo, se non l’invisibile quadro comandi? SÌ! È soltanto una que­ stione di tempo e di denaro completare l’esperimento in questo modo.

Già Heinrich von Kleist aveva francamente affermato ciò nel suo scritto Sul teatro delle marionette*, il rapporto fra l’attore e la ma­ rionetta gli era apparso come una scissione spirituale e aveva espres­ so la sua convinzione « che anche quest’ultima scissione spirituale poteva essere stornata dalle marionette, che la loro danza poteva essere prodotta completamente nel regno delle forze meccaniche per mezzo di una manovella, così come avevo immaginato la cosa ». Tuttavia, dopo una generazione, il robot danzante apparve sulle scene, circondato dagli artisti del corpo di ballo di Maurice Béjart, e precisamente nel maggio del 1956: una macchina enorme che, obbe­ dendo a segnali luminosi e ai suoni dell’orchestra, parlava con l’aiuto di un microfono installato dentro di lei e di parecchie fotocellule ed era rivestita di un’astratta scultura di latta dello scultore Nicolas Schóffer. Il robot doveva trovare nuove forme di movimento e di espressione e dare nuove idee alla coreografia. Mi ricordo di aver letto che una volta esso comparve sul tetto piatto del palazzo di Le Corbusier, Cité radieuse, a Marsiglia, come simbolo dell’età della tecnica. Per fortuna esistono numerose dichiarazioni concilianti e piene di speranza sui robot, per esempio la satira di Karel Capek, R. U. R., del 1920. Il poeta descrive una civiltà formata da schiavi meccanici

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privi di anima in figura umana, dai « Rossum’s Universal-Robot ». Ma qualche cosa non è in ordine in queste macchine. Gli inquietanti sintomi di una malattia si moltiplicano. « Essi hanno smesso di esse­ re delle macchine. Hanno già riconosciuto la loro superiorità e ci odiano. Odiano tutto ciò che è umano ». Una sanguinosa insurrezio­ ne dei robot stermina tutte le creature umane, eccetto poche che sono costrette ad assistere gli schiavi meccanici. Esse devono istruire dei successori. Un giorno uno degli uomini nota sintomi di sentimen­ ti in due robot. Egli assiste a una delicata scena d’amore... Il cerchio si chiude, poiché il sentimento è contagioso come un’epidemia. I ro­ bot assumeranno una natura umana. Ciò si può ulteriormente sviluppare - come ha fatto Romain Rol­ land poco prima di morire, quando già infuriava la seconda guerra mondiale. Il poeta scrisse la sceneggiatura per un film e natural­ mente i fatti del giorno vi avevano un influsso evidente: inaugura­ zione di una sala macchine, le macchine iniziano una rivoluzione con­ tro gli uomini, scendono dai loro sostegni, si riversano fuori della sala e assalgono la città. Questa è già quasi completamente distrutta, allora vengono mobilitati soldati e truppe corazzate contro le mac­ chine in rivolta. Ma i carri armati disertano e passano dalla parte dei loro compagni, le macchine. Solo pochi uomini si salvano e diven­ tano gli schiavi dei vincitori. Finalmente un macchinista riesce a far scoppiare una guerra fratricida fra le macchine, che ora si distrug­ gono fra di loro. Non appena finisce la battaglia, egli torna a costrui­ re nuove macchine. In tal modo un giorno ricomincerebbe, cosa che il poeta accenna soltanto, la lotta, ancora molte volte nel perenne avvicendamento dei rapporti di forza. Una volta dominano le macchine sul mondo degli uomini e gli imprimono una legge meccanica, distruggendo cosi ciò che è propriamente umano. Nella favola questo momento è la morte. A sua volta l’uomo crea la macchina secondo la propria im­ magine e la fornisce di una serie di qualità umane, della memoria, della capacità di paragonare, addizionare e sottrarre, di « sentire » temperature e gradi di luminosità, come le più moderne calcolatrici elettroniche. A torto esse vengono definite cervelli elettronici, poi­ ché le calcolatrici elettroniche non possono pensare; non hanno né

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volontà né libertà di decisione ed eseguono unicamente ciò che il costruttore ha posto in loro come possibilità. Infatti è Tuomo che determina natura e significato della mac­ china. Da lui solo dipende se sottomettersi oppure rimanere padrone della meccanica. Forse è questione della sua potenza spirituale. Ma nello stesso tempo è anche una questione di coscienza. Una macchina può diventare uno strumento del demonio solo se l’uomo la crea con queste intenzioni. Gli uomini sono responsabili di ogni aspetto nega­ tivo della macchina, scienziati e tecnici non meno degli uomini di stato e dei generali.

Il movimento futurista

Era il marzo del 1957. Avevo trascorso tutto l’inverno nel pic­ colo villaggio di Gravesano, al limite della Val Vedeggio, non lon­ tano da Lugano. Vecchie case ticinesi poste disordinatamente l’una accanto all’altra, alcune misere nuove costruzioni di svizzeri-tede­ schi, un po’ piu in alto la colonia Al Ronco, antico palazzo vescovile, un villaggio con poche centinaia di abitanti, metà cattolici e metà comunisti, con un minuscolo ufficio postale, un avvocato che si ser­ viva delle sue conoscenze in materia di proprietà fondiarie e finan­ ze per addomesticare una graziosa signorina dopo l’altra - questo era Gravesano. Il luogo è bello o sporco, povero o ricco come ogni altro nel cantone. Alcune capre, un po’ di vino rosso e pendìi mon­ tani ricoperti di castagni sono i suoi tesori. Più degno di nota in­ vece è il fatto che da anni vi si è stabilito Hermann Scherchen, l’in­ stancabile direttore e sostenitore di musica contemporanea. Inoltre abitava a Gravesano, in una stanza da scapolo piena di partiture e di libri, anche il giovane americano Francis Travis, uno di quegli americani che amano l’Europa più di ogni altra cosa al mondo e si sentono spiritualmente lontani dalla loro patria pur possedendo un passaporto USA. Francis si era laureato a Zurigo in musicologia con uno splendido lavoro sulla strumentazione di Verdi ed era poi stato per anni allievo di Scherchen. Abitava a Gravesano, dirigeva ogni tanto qualche concerto ma troppo raramente per poter vivere di ciò. Evidentemente, cosi mi parve, egli aspettava qualche cosa. Per tutto l’inverno io rimasi seduto dinanzi alla gigantesca stufa di maiolica blu nella camera vescovile della colonia e copiai a macchina un volu­ minoso manoscritto. In questo ambiente doveva avvenire l’avventuroso incontro con

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un’arte, quasi scomparsa, che ha preso a fondamento elementi tecno­ logici e ha poeticamente condensato i moderni aspetti del mondo contemporaneo. Io ne sapevo soltanto quel poco che si trova nei dizionari: una nuova arte, che prendeva di mira il romanticismo e considerava la macchina come un simbolo della vita presente e futura. Ma per quale ragione il futurismo potè essere dimenticato? Durante quell’inverno mi sono sempre riproposto la domanda se disposizioni artistiche e germi di un movimento spirituale possono morire cosi presto, senza continuare ad agire e senza trasformare l’esistenza. Frattanto la tec­ nica è cresciuta d’importanza, ma l’arte ha percorso molte altre vie: la restaurazione del barocco e la riscoperta dell’arte antica; un nuo­ vo romanticismo, non meno sgradevole di quello della fine del di­ ciannovesimo secolo; un’arte razzista diretta e innestata dallo stato; superficiale folclorismo; invasione di elementi esotici, che veramen­ te avevano perduto coesione e significato. Tutto ciò assomiglia a una fuga dinanzi alla realtà del nostro mondo tecnico. Per questa ragione l’incontro con il futurismo fu una liberazione. Esso ebbe inizio, come ho detto, a Gravesano. Avevo ricevuto dal mio amico Luciano Berio, un giovane compositore milanese, che di­ rige lo studio di musica elettronica alla radio della sua città, l’indiriz: zo di una certa signora Maria Russoio, vedova di Luigi Russoio, il cervello musicale dei futuristi. Da quanto potei appurare, ella era l’unica testimóne ancora in vita degli avvenimenti di quegli anni e doveva conservare lettere, fotografie, resoconti del piu grande inte­ resse; pieno di speranza le scrissi una lettera in un italiano piuttosto zoppicante. Due giorni dopo giunse la risposta, scritta a macchina in inchio­ stro blu, un amichevole invito a essere « ospite di una vecchia signo­ ra ». E quanto alle mie scuse per il cattivo italiano, ella rispose che l’arte ha una lingua particolare, che è compresa da tutti i suoi amici. Per una gita a Cerro di Laveno, in provincia di Varese, sulla riva orientale del lago Maggiore, si poteva scegliere fra l’autobus, la fer­ rovia, che compie un assurdo giro per Bellinzona, e la macchina. La ferrovia secondaria, che una volta collegava Pontetresa e Luino, sta­ zione di coincidenza per Laveno, era stata abolita da molto tempo.

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Scesi al villaggio, gironzolai come per caso dinanzi alla porta di Francis e siccome non riuscivo a trovare la via giusta fra la confu­ sione delle case, dovetti scavalcare, anche questa volta come per ca­ so, un muro. Francis lavorava, seduto al suo tavolo dinanzi alla fine­ stra. E poi accadde la cosa strana: la sua prima domanda fu se Edgar Varese poteva aver avuto qualche rapporto con i futuristi. Alla fine di marzo Francis doveva infatti dirigere un concerto al Teatro Nuovo di Milano, per il ciclo dei « Pomeriggi musicali » e il suo programma comprendeva anche l’ottetto Octandre, di Edgar Varese, « una composizione, - scrisse poi il critico del giornale della sera “ La notte ”, - fortunatamente breve, per otto strumenti a fiato che facevano caoticamente a pugni con suoni che volevano essere musicali ». Octandre è un pezzo molto robusto, pieno di tempera­ mento, ricco di timbri di rumori. È cosa ovvia pensare che esso po­ trebbe essere una testimonianza di estetica futurista. Risposi a Francis che secondo me era possibile e che potevamo inoltre stabilirlo facilmente, dal momento che la vedova di Luigi Russoio abitava presso il lago Maggiore. Salimmo sulla sua Volkswa­ gen e partimmo verso Cerro di Laveno. La signora abitava in un mo­ desto chalet, nascosto dietro alberi e moderne ville estive. Un ve­ stibolo spazioso, scalini stretti, le pareti ricoperte di riproduzioni dei quadri di Russoio. Gli originali sono esposti in musei o nelle abi­ tazioni di ricchi amatori d’arte. Una grande camera con mobili anti­ quati, molto ordinata, persino graziosa, ma deludente al tempo stes­ so: ricordi, ninnoli, vasetti. Tutto ciò nella casa di un futurista. Con orgoglio mostrò riproduzioni dei piu recenti quadri di suo marito, chiare incisioni di paesaggi lacustri, senza una traccia di cubismo e completamente liberi dall’estetica futurista... «classico-moderno», spiegò ella come un cicerone. Questi quadri avevano qualche cosa di primitivo; forme massicce, colori pastorali. Mi fecero ricordare Do­ minique Peyronnct e Henri Rousseau, il doganiere. Ma la musica di Russoio mi interessava molto di piu del suo tar­ do stile pittorico, e la signora tirò fuori finalmente un libro pesante e voluminoso, che per formato e aspetto avrebbe benissimo potuto essere una Bibbia illustrata. Era la preziosa raccolta di molte centi­ naia di ritagli di giornali di tutto il mondo, all’incirca dal 1910 fino

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alla morte di Russoio, che rispecchiavano fedelmente la tempesta che il futurismo aveva scatenato nella stampa, nei circoli artistici e pres­ so l’ignaro pubblico dei concerti. Per tutto un pomeriggio m’immersi nella lettura e così, un ritaglio dopo l’altro, si delineò l’emozionante storia del futurismo musicale.

Fu una scoperta. Io avevo letto il diario di Pierre Schaeffer sulla « musica concreta ». In un punto si richiama a Luigi Russoio come precursore del montaggio di rumori radiofonico, come è stato svilup­ pato nello studio sperimentale di Parigi della radio francese. Tut­ tavia in un altro punto si legge: Parliamo del movimento di Marinetti. Russoio era il musicista del grup­ po... Fu Russoio che inventò Fintonarumori. Che razza di strumento era mai questo? Una specie di pianoforte preparato? O qualche cosa di simile al mio primo organo a rumori?

Schaeffer giustificava il suo lavoro richiamandosi al futurismo, tuttavia non ne riconosceva le sconvolgenti conquiste musicali. In seguito ho sfogliato nuovi dizionari musicali, ma li ho rinchiusi sco­ raggiato. Così Kurt Pahlcn confessa nel suo Dizionario musicale uni­ versale che egli non è in grado di dare « precise informazioni su que­ sto movimento». Non cita neppure il nome di Russoio. Ernst Bùcken, nel suo Dizionario della musica, avanzava l’ipotesi che il futurismo risalisse in fin dei conti al Saggio di una nuova estetica musicale di Busoni. Evidentemente gli era sfuggito che la prima edi­ zione di questo coraggioso libriccino passò quasi inosservata e che la seconda apparve solo nel 1916; in entrambe non si fa mai cenno del futurismo. Persino Francois Baschet, un « giovane arrabbiato », che alcuni anni prima - allora aveva trentasei anni - voleva fondare a Parigi una nuova arte, non sospettava di ripetere soltanto ciò che i futuristi avevano già detto decenni prima di lui. Egli si lamentava: «Un gior­ no dopo l’altro, una sera dopo l’altra, si ascoltano migliaia di concer­ ti e ci si diletta il più possibile. Ogni sera si odono i medesimi stan­ chi strumenti che emettono i medesimi stanchi rumori. Il pianto dei violini, lo strepito dei timpani... » Ciò si sarebbe potuto trovare paro­

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la per parola in un manifesto futurista. Monsieur Baschet, aiutato dal fratello Bernard, presentava poi i nuovi strumenti, in totale quin­ dici: lastre di metallo, spirali di acciaio, file di bacchette di vetro simili alle canne d'organo, coppe sonore e palloni di risonanza di pla­ stica, fili, rulli, martelli, sordine, tutti decorati astrattamente a colo­ ri, strumenti di futuristica estetica musicale. Si sonavano arrangia­ menti dei corali di Bach, duetti di Béla Bartók e composizioni origi­ nali di Jacques Lasry; piu tardi gli strumenti furono impiegati in documentari, uno dei quali era sulle miniere belghe. L’inventore spiegava il principio: « Tutti questi risonatori producono una quan­ tità di altri rumori, che sono risvegliati da un suono; come in meta­ fisica, è proprio il caos che interessa ». Egli evidentemente non sa­ peva nulla dei suoi predecessori, altrimenti avrebbe dovuto citare la sua fonte. Si potrebbe considerare tutto ciò come una prova convincente che il futurismo, dopo una promettente fioritura durata quasi due decenni, fu completamente dimenticato. Ciò che effettivamente tra­ montò fu l’ideologia, ed è probabile che la situazione politica ne sia stata la causa. Inoltre solo più uno dei fondatori e testimoni del mo­ vimento è ancora in vita. Ma da trent’anni a questa parte i prodotti musicali mostrano che qualche cosa dell’essenza artistica del futu­ rismo si è conservata ed è estremamente fruttuosa proprio in campo sperimentale. Forse non è esagerato affermare che una considerevole o per lo meno significativa parte della musica attuale vive - coscien­ temente o per caso - dello spirito del futurismo. Veramente in un primo tempo non si era parlato ancora di mu­ sica. Quando il poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti pubblicò il suo celebre manifesto futurista, progettò una specie di rivoluzione mondiale degli artisti, la lotta contro il tradizionale e lo sperimenta­ to, e l’anarchico sottofondo del programma non era casuale. .Per l’irrequieto poeta la natia Italia, con il suo carico di storia, di rovine classiche, di erudizione scolastica, era il disprezzabile simbolo della tradizione. Suo scopo era l’accordo dell’arte con il mondo della tec­ nica, che proprio allora incominciava a sorgere. Per lui si trattava dell’esistenza veramente moderna. Egli spalancò le braccia alla mac­ china, alla macchina come strumento di salvezza. Nel giornale pa­

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rigino « Le Figaro » del 12 febbraio 1909, subito in prima pagina, saltava agli occhi del lettore il programma di Marinetti, che soppian­ tava per importanza tutto il resto: A Monte Carlo è giunta una sei cilindri Lorraine-Dietrich per il principe Orlov; il sarto Henri Petit inaugura il suo nuovo salone in boulevard Malesherbes; il tempo si mantiene bello e fresco; alle due hanno inizio le corse a Vincennes; Francis Chevassu critica la rap­ presentazione dell’Au’flo di Buridano al Ginnasio - tutto ciò impal­ lidiva dinanzi al titolo in grassetto II futurismo, e il discorsetto di introduzione della redazione era particolarmente adatto a incuriosire i lettori: « Le Figaro », che già è servito di tribuna ad alcune scuole tradizionali o contemporanee, presenta ai giovani poeti italiani e francesi monsieur Marinetti e ritiene superfluo avvisare che all’au­ tore dell’articolo viene lasciata ogni responsabilità per le sue ardite idee. Poi si legge uno stile poetico, si avverte il tedio che vi brucia dietro a fuoco lento, il segreto disagio di un’epoca che tramonta: La letteratura esaltò, fino ad oggi, l’immobilità pensosa, Testasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, Finsonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bel­ lezza nuova: la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo... un’automobile rug­ gente, che sembra correre sulla mitraglia, è piu bello della Vittoria di Samo­ tracia.

Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perché dovremmo guar­ darci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’impossibile?

Marinetti parlava in tono sprezzante del « furore dei professori, archeologhi, guide e antiquari ». Pieno d’odio esclamava: Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. [...]. Noi canteremo le grandi folle agitate dal la­ voro, dal piacere o dalla sommossa; canteremo le maree multicolori e polifoni­ che delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore not­ turno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le sta­ zioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine sospese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i

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fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano Rorizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aero­ plani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.

Infine il poeta vagheggiava la battaglia contro il passato: E vengano dunque, gli allegri incendiarli dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!... Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!... Sviate il corso dei canali, per inondare i musei!... Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, la­ cere e stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!... Impugnate i picconi, le scuri, i martelli, e demolite, demolite senza pietà le città venerate!

Il manifesto, che deve essere considerato un’esplosione di tempe­ ramento artistico e di giovanile impazienza e forza, termina con una sfrenata dichiarazione di guerra contro tutti: Ritti su la cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!...

Marinetti voleva provocare il caos della catastrofe, il totale sfa­ celo della tradizionale cultura occidentale e poi voleva incominciare a creare un nuovo mondo, migliore, veramente moderno. Ben presto si radunò intorno a lui un vasto circolo di entusiasti. Erano pittori, scultori, letterati, musicisti, uomini politici. Erano tutti giovani; provavano tutti un profondo interesse per le visioni di Marinetti. Le nuove idee caddero come un fulmine. La dispersa avanguardia d’Eu­ ropa tese le orecchie. Nel 1910 Herwarth Walden fondò a Berlino la rivista « Sturm », pubblicò i manifesti futuristi, divenne il capo di un gruppo tedesco con scopi analoghi. Nella Russia prerivoluzio­ naria fiorì la scuola futurista di Igor Severjan, sorta nel 1911, che esaltava l’uomo come quintessenza del mondo c considerava Dio co­ me l’ombra deH’uomo. nell’eternità. Il programma di Marinetti di un linguaggio poetico al di là della logica delle parole, come porta­ tore di suono e simbolo, si rifletté fra i letterati russi intorno a Vla­ dimir Majakovskij e Boris Pasternak. In Francia Albert Birot tentò di riunire la gioventù d’avanguardia con la rivista « SIC », che uscì per la prima volta nel 1916; Guillaume Apollinaire e Pierre Reverdy si unirono a lui. Frattanto il futurismo aveva già generato uno stile,

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sia nella letteratura che nelle arti figurative. E ancora con il suo aspetto distruttivo e sedizioso, ma anche attraverso la scoperta del rumore che - come scrisse Richard Hùlsenbeck - « all’inizio non doveva essere altro che un richiamo piuttosto violento alla varietà di colori della vita », influenzò dal 1916 il movimento Dada nel zu­ righese Cabaret Voltaire. La gioventù artistica d’Europa era d’accordo; essa era decisa a compiere l’impossibile, a gettar via la zavorra e a liberare le proprie creazioni dal pernicioso peso del passato... una semplicissima neces­ sità vitale. Ancora nessuno aveva il presentimento che le infernali immagini del primo manifesto futurista sarebbero diventate realtà nelle future guerre mondiali, che musei sarebbero crollati e biblio­ teche sarebbero state distrutte dal fuoco. Ma essi l’avrebbero appro­ vato. In nessun modo potevano prevedere che si sarebbe sempre con­ tinuato a restaurare quel vecchio mondo, a custodirlo sotto la prote­ zione della sovrintendenza ai monumenti o a ricostruirlo secondo l’originale. Per quel che riguarda gli effetti del futurismo nella letteratura e nelle arti figurative, posso limitarmi a questi accenni. Il centro del movimento di Marinetti era, non per caso, Milano, la grande metro­ poli industriale del nord con tutti quei caratteri di una città di pio­ nieri nel « selvaggio ovest », che ancora oggi vi si possono riscon­ trare. Una metropoli con catapecchie e palazzi, piena di agitazioni sociali, un vorace magnete, che esercita la sua azione in tutta la Lom­ bardia, canali, stazioni, fabbriche gigantesche, sobborghi con vie non lastricate e impalcature, una città piena di « velocità », in continua espansione, una città dalla popolazione straripante. Uno dei giovani rivoluzionari del circolo di Marinetti si chiamava Luigi Russoio, età venticinque anni, nato nella cittadina di Portogruaro presso Venezia. Da ragazzo (quale ironia!) era stato assisten­ te del restauratore Crivelli al Castello Sforzesco e alla Cena di Leo­ nardo; un sognatore dai capelli rossi, con un’ardita barbetta a punta e occhi pieni di fuoco, che un giorno fece la sua comparsa al caffè Savini, dove si incontravano di solito i futuristi. Vi erano i letterati Luciano Folgore, Paolo Buzzi, Armando Mazza e molti altri fra i quali il tredicenne bambino prodigio Pasqualino; vi erano i pittori

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Umberto Boccioni, Giacomo Balla e Gino Severini. E questo gruppo diventava sempre più numeroso, a Milano, Roma, Parigi, dove nel 1912 ebbe luogo l’esposizione di quadri futuristi. Si discuteva sul rinnovamento della poesia, politica, scultura, architettura, si proget­ tava un « teatro sintetico ». Corrado Govoni scrisse Poesia elettrica, Folgore il Canto dei motori-, Marinetti celebrò in versi Aeroplani, Annientamento, La battaglia di Tripoli, vagabondò come osservatore militare nei Balcani. La polizia sequestrò il suo romanzo Mafarka il futurista e cacciò in prigione l’autore per due mesi e mezzo. Vi erano sempre nuovi fatti sensazionali. Buzzi pensò a un film con un com­ mento poetico dal titolo Ellissi e spirali. Russoio dimenticò il roman­ tico motivo della morte dei suoi primi quadri, ora trionfava il pre­ sente, Treno in corsa nella notte e La rivolta, tentativi di costringere in forme e colori i cavalli vapore e lo slancio sedizioso delle masse. Poi segui La musica - rappresentazione delle onde sonore, delle note come maschere colorate, dozzine di mani sui tasti del pianoforte; in tal modo la musica lo attirò più fortemente. Il musicista del gruppo futurista era Balilla Pretella; le intenzioni del movimento riguardo alla musica rimasero poco chiare per diversi anni. Ma poi apparve sul giornale parigino « La Liberté » del i° marzo 1912 una specie di teoria della musica futurista, redatta evi­ dentemente da Marinetti o dallo stesso Pretella. Righe in grassetto: sciopero dei minatori inglesi; i banditi di rue Ordenet; la guerra italo-turca; ricevimento in onore di monsieur Denis Cochin, il nuovo membro dell’Académie fran^aise; infine II futurismo musicale. Ciò che vi si leggeva non ere molto originale; se ne accorse soprattutto Ferruccio Busoni, che ricevette il giornale e recensì l’articolo nel set­ tembre del 1912. Il programma proclamava: I compositori di oggi, moderni passatisti, meritano soltanto il nostro di­ sprezzo, in quanto inutilmente vogliono creare opere originali con mezzi stan­ tii... Sappiate che noi ultimeremo fra breve pianoforti cornatici, strumenti ad arco, arpe, una completa orchestra comatica. Contemporaneamente al lavoro dei compositori futuristi si compie l’opera della realizzazione Fra le mura dei laboratori germinano le forme di famiglie di strumenti, la cui insospettata perfezione renderà possibile un’ottima esecuzione delle opere futuriste...

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Busoni non nascose la sua approvazione: Questo è giusto e mi piace. Già da molto tempo stavo da questa parte, an­ che se solo come teorico. (Già nel 1906 proposi la divisione dell’ottava in 36 in­ tervalli: due serie di terzi di tono alla distanza di un semitono l’uno dall’altro).

Lo strumento universale era già stato costruito in America: l’or­ gano elettrodinamico del dottor Cahill, costato un milione ma già dimenticato. Effettivamente il maestro, nel suo libriccino Saggio di una nuova estetica musicale* aveva già chiesto, sostenuto o previsto molte di quelle cose che egli trovava ora decantate come una nuo­ vissima scoperta sotto l’etichetta «futurismo». Si trattava né più né meno dell’introduzione dei microintervalli nella musica; ciò era espresso con l’aggettivo « comatico ». Anche questa è una delle tante possibilità di far saltare in aria il tradizio.nale sistema maggiore-minore delle tonalità e gettarlo fra i ferri vec­ chi. Una tendenza in questa direzione era in effetti abbastanza forte nel primo decennio del ventesimo secolo. Parecchi compositori, in­ dipendentemente l’uno dall’altro, aspiravano a un nuovo genere di espressione musicale. Ciò era nell’aria; l’impalcatura dei suoni po­ teva essere resa più fitta. Era molto semplice scindere il semitono, l’unità musicale più piccola, e invece dei sette tasti bianchi e cinque neri di un’ottava del pianoforte, costruire strumenti con trentasei o cinquanta tasti ogni ottava... Già nel 1864 un pianoforte a quarti di tono era stato collocato nel Conservatorio di Mosca; nel 1891 Karl Andreas Eitz fece esperimenti microtonali; un anno dopo G. A. Behrens-Senegalden fece brevettare un pianoforte a quarti di tono. Nel 1895 Juliàn Carrillo si spinse, nel Sonido 13, fino al tono frazionato, al di là della divisione cromatica della scala temperata; nel 1898 John Herbert Foulds incominciò a fare esperimenti nella stessa direzione e colori ancora quindici anni dopo la sua opera or­ chestrale Quadri musicali con quarti di tono. Nel 1906 Richard H. Stein compose due pezzi da concerto per violoncello e pianoforte se­ condo un sistema basato sui quarti di tono, che egli illustrò nella prefazione della partitura. Più tardi Karl Bleyle scrisse il suo poema musicale II tuffatore, da Schiller, per grande orchestra e armonium a quarti di tono. Indipendentemente dai futuristi giunsero alla mi­



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crotonalità anche Alois Hàba (20 Quartetto per archi in un movi­ mento, 1921), Georgij Rimskij-Korsakov (pezzi per due pianoforti, arpe adattate allo scopo, fisarmoniche, corni diversamente intonati, 1925-32) e Hans Barth (Concerto per pianoforte a quarti di tono e archi, 1930). Nel 1929 fu eseguito il dramma sinfonico Nicola il marinaio per soli, recitante, coro misto, orchestra jazz-band e organo a quarti di tono di Vilém PetrMka; e anche in tempi piu recenti altri com­ positori come Jan Maklakiewicz, Miroslav Pone, Olivier Messiaen, Milan Ristic, Ivan Wyschnegradsky, Mordecai Sandberg, Yvette Grimaud e molti altri tentano di impiegare in modo organico la mi­ crotonalità. Questo ampliamento dello spazio uditivo per così dire verso Finterno, nel microtonale, era la spinta in una nuova sfera udi­ tiva, cioè verso il rumore, ben inteso verso il rumore musicalmente, artisticamente organizzato. Con i microintervalli si possono formare, altrettanto bene che le melodie, anche gli accordi, e nessun trattato di armonia impedisce ai compositori di disporre tanti suoni Funo sopra l’altro in modo da ottenere un timbro di rumori. L’essenziale non è l’allontanamento dal maggiore e minore, bensì l’apertura di una nuova regione musi­ cale, quella del rumore. Il futurista Pratella - per quanto potei ap­ purare - non ha mai perseguito quest’idea in modo pratico, poiché egli avrebbe dovuto comporre per un’orchestra formata dai più sva­ riati strumenti a percussione o meglio ancora in microintervalli per archi, arpa, pianoforti e trombe, cioè per strumenti con i quali me­ lodie di microintervalli si possono produrre naturalmente o median­ te una semplice diversa accordatura. E questa musica sarebbe vera­ mente incomparabile, un delicato gioco timbrico al di là di dissonanza e consonanza. Busoni ha vagheggiato qualche cosa di simile. La Musica futurista per orchestra di Pratella, che fu eseguita per la prima volta nel febbraio del 1913 al teatro Costanzi di Roma, non presentava nulla di simile. Essa era chiaramente articolata, qua e là eccessivamente cromatica, di un neoclassicismo che si fondava sulla scala per toni interi. A volte si avvertivano tracce di impres­ sionismo e in quel periodo anche Erik Satie a Parigi si era servito di insolite e astruse indicazioni di esecuzione. Pratella scriveva « av-

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vicinandosi » e aveva in mente qualche cosa di simile a « crescen­ do », e inoltre « ridde », « vivacemente ironico », « grido della pas­ sione», «vivacemente primaverile»... La Musica futurista fu pub­ blicata nella versione per pianoforte. La prefazione conteneva tre manifesti futuristi di Pratella. Già la prima frase era un dogma molto significativo: « Io mi rivolgo alla gioventù. Soltanto essa deve ascoltarmi e può capirmi...» L’irriducibile pretesa del compositore

era: introduzione dell’« enarmonismo », cioè della musica à micro­ intervalli; una forma sinfonica, cioè non programmatica, del teatro musicale; definitivo allontanamento dal romanticismo e dal comodo principio « Torniamo all’antico » che, cosi credo, ha coniato Giusep­ pe Verdi: «Torniamo all’antico, e avremo il nuovo! »; la polirit­ mia, cioè la simultaneità di svariati movimenti musicali, il contrasto di differenti metri. La cosa più importante tuttavia era l’accettazione dei principi letterari di Marinetti nei confronti del mondo tecnico: Portare nella musica tutti i nuovi atteggiamenti della natura, sempre di­ versamente domata dalTuomo per virtu delle incessanti scoperte scientifiche. Dare 1’anima musicale alle folle, ai grandi cantieri industriali, ai treni, ai trans­ atlantici, alle corazzate, alle automobili e agli aeroplani. Aggiungere ai grandi motivi centrali del poema musicale il dominio della macchina e il regno vitto­ rioso dell’elettricità.

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Questo manifesto è datato u marzo 1911. Se si esaminano con piu attenzione questi principi, si vede che i decenni successivi sono stati molto fruttuosi in questo campo. La poliritmia non ha nulla di inquietante. Persino il pubblico dei con­ certi piu ostinato non brontola più contro di essa. E la gioventù, per mezzo del jazz, si è familiarizzata senza fatica con la molteplicità dei piani ritmici. Esiste anche - dopo l’apparizione dell’opera Wozzeck di Alban Bcrg - un nuovo teatro musicale, che valorizza in forma drammatica forme sinfoniche chiuse in se stesse, e può rinunziare a procedimenti così primitivi come Leitmotiv e accompagnamento di armonia imitativa. I microintervalli costituiscono la regola nella giovane musica elettronica. D’altra parte la teoria futurista non potè impedire che il movimento di ritorno al classicismo riscuotesse con­ siderevoli successi a partire dal 1917, con forze che esercitarono un potente influsso sulla formazione di uno stile, e che fra i più giovani compositori si propaghi sempre più, e pretenda nuove vittime, uno sgradevole modo di sonare del tardo romanticismo. La pretesa che macchina e tecnica ricevano dalla musica una forma artistica è rima­ sta fino al giorno d’oggi un tentativo, un esperimento, che anche nel decennio 1920-30 trovò sempre nuovi amici, per quanto abbia dato risultati poco durevoli - ma certo un esperimento che verrà sempre ripreso e che un giorno darà promettenti risultati. Colui che realizzò senza compromessi i suggerimenti dell’amico, almeno sotto un certo aspetto, fu Luigi Russoio. Egli scoprì la poesia musicale della tecnica. Dopo aver ascoltato la Musica futurista scris­ se da Milano, Pii marzo 1913, una lettera a Pratella, nella quale sviluppava i suoi pensieri su di una musica conforme allo spirito dei tempi: Oggi Parte musicale, complicandosi sempre più, ricerca gli amalgami di suoni più dissonanti, più strani e più aspri per l’orecchio. Ci avviciniamo così sempre più al suono rumore... Noi futuristi abbiamo tutti profondamente amato e gustato le armonie dei grandi maestri. Beethoven e Wagner ci hanno squassato i nervi e il cuore per molti anni. Ora ne siamo sazi e godiamo molto più nel combinare idealmente rumori di tram, di motori a scoppio, di carrozze e di folle vocianti, che nel riudire, per esempio, VEroica 0 la Pastorale,.. Ci divertiremo a orchestrare idealmente insieme il fragore delle saracinesche dei negozi, le porte sbatacchianti, il brusio e lo scalpiccio delle folle, i diversi fra­

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stuoni delle stazioni, delle ferrovie, delle filande, delle tipografie, delle centrali elettriche, delle ferrovie sotterranee. Non bisogna dimenticare i rumori asso­ lutamente nuovi della guerra moderna...

Nell’ultima frase Russoio alludeva a una lettera di Marinetti. Il poeta si trovava proprio ad Adrianopoli, il centro della guerra bal­ canica. Egli aveva tentato di riprodurre i rumori della battaglia e la simultaneità degli avvenimenti mediante una specie di « staccato » senza punteggiatura e l’intonazione pittorico-poetica di vocaboli privi di senso e di gruppi di lettere. Il risultato, mi pare, è stato molto convincente, sebbene un tale genere di poesia o reportage - oppure entrambi? - non lo si possa piu leggere una volta stampato, ma in realtà soltanto ascoltare. Russoio citò la lettera. In seguito egli fornì il primo lavoro pratico per la realizzazione dell’idea di una musica di rumori; sviluppò per cosi dire un « sistema periodico » delle fa­ miglie di suoni nella futura « orchestra » futurista. La scoperta arti­ stica del rumore seguì al riconoscimento della necessità di una volon­ taria e conseguente accettazione del mondo delle macchine nell’opera d’arte musicale o - per esprimersi in modo più appropriato - di un’« animazione » del meccanismo. Il movimento futurista non aveva intenzione di riconiare dialet­ ticamente il segreto disagio del cittadino minacciato di fronte alla tecnica, bensì di offrire all’adorazione dei fedeli non un vitello d’oro ma uno di acciaio. Come può essere giusto il fatto che solo l’uomo moderno, il quale possiede una sensibilità in armonia con lo spirito dei tempi, che com­ prende la realtà dell’esistenza tecnica e se ne appropria, può essere liberato dalla sua paura, altrettanto sicuramente è decisivo un aspet­ to della macchina troppo poco studiato: il suo astratto collegamento con la natura. Il motto futurista « avanti verso la macchina » è in fondo identico al « ritorno alla natura » di J.-J. Rousseau. Entrambi i principi racchiudono, producono o trasformano energia. Entram­ bi significano forza elementare, robustezza, gioventù, potenza, vita. Il pilota dell’aeroplano è, come Icaro, signore dello spazio e della forza di gravità; in un certo qual modo è simile a Dio e non meno libero da ogni colpa e irretimento del favoloso uomo primitivo. Molto più tardi il poeta Henri Michaux, a proposito della musica



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concreta, ha scritto sull’accoppiamento associativo di rumore e vita, sul suo sogno di un « pianoforte a rumori »: Ancor piu grande è là mia attesa di una tastiera per comporre rumori, di un’orchestra di rumori. La musica non è nella natura o solo in scarsa misura. Ma infine siamo in procinto di imitare i rumori - cosi grandiosi e commo­ venti, base familiare della nostra vita piu degli stessi raggi solari - adagiarci in essi e grazie a questo apparecchio, lavorare nella struttura stessa della na­ tura.

Anche Luigi Russoio aveva voluto imprigionare nella musica la vita nella sua totalità, nel suo movimento e fremito, e la macchina era ed è un vistoso simbolo della vita moderna. I futuristi - tutti i critici l’hanno volutamente ignorato - non volevano fare una « mu­ sica meccanica ». Non si prefissero mai un ritratto della tecnica, una programmatica armonia imitativa. Russoio odiava la naturalistica imitazione del rumore nel senso del poema sinfonico del tardo ro­ manticismo. Egli impiegò sempre in modo stilizzato il nuovo mate­ riale acustico - sciolto dal suo significato esteriore - come simbolo di un nuovo sentimento vitale, come brutale, battagliero « urlo pri­ mitivo». La sua orchestra comprendeva tutti i tipi di suoni o di rumori: scoppi e tuoni, fischi e sibili, gorgoglìi e fruscii, stridii e stropiccìi, colpi, versi di animali e di uomini. Si riconosce subito che questi fenomeni acustici non sono propri soltanto della tecnica ma di tutto il regno naturale. La musica tradizionale, che plasma sol­ tanto un piccolo e arbitrario settore dell’infinita varietà di note, suo­ ni e rumori, sarà completata e perfezionata dall’orchestra futurista. Queste almeno erano le intenzioni. Il laboratorio di Russoio in via A. Stoppani, una squallida via della periferia milanese, era un grande vano con un pavimento di mattonelle esagonali a due colori. Dinanzi all’ampia finestra si trova un banco da lavoro con una morsa e degli utensili, lime, succhielli, morsetti. Fili elettrici sono appesi ai ganci del soffitto screpolato. Di notte vi è la luce di tre lampade con paralumi. Qui il pittore-musi­ cista, aiutato dal suo zelante amico Ugo Piatti, fabbricò strumenti di nuovo genere, i quali dovevano aprire la via alla sala da concerti alla sua teoria dei rumori. Erano casse variamente colorate, di diver­ sa grandezza e forma, con cornetti, manovelle, leve e bottoni. La

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maggior parte di questi strumenti lavorava meccanicamente come i tradizionali strumenti orchestrali. Russoio spiegò: « Trovato il prin­ cipio meccanico che dà un rumore, si potrà mutarne il tono regolan­ dosi sulle stesse leggi generali dell’acustica. Si procederà per esempio con la diminuzione o l’aumento della velocità, se lo strumento avrà un movimento rotatorio, e con una varietà di grandezza o di tensione delle parti sonore, se lo strumento non avrà movimento rotatorio ».

Partitura per « intonarumori » {Risveglio della città di Russoio).

Una parte dei suoi strumenti - Russoio li chiamò intonarumori sfruttava veramente anche corrente a bassa tensione ed erano vibra­ tori con interruttori. Essi ricevevano la corrente da semplici accumu­ latori. Questo era un principio nuovo. Non era sfuggito ad attenti mu­ sicisti che la tradizionale orchestra sinfonica era giunta a un momento critico della sua esistenza che non è stato superato neppure oggi. Non si è ancora deciso se conservare i vecchi, perfezionatissimi stru­ menti oppure sostituirli con altri ancora più perfetti. Frattanto già agli inizi del secolo si era certi che la musica avrebbe assunto una funzione sociale completamente nuova, poiché i suoi esagerati « va­

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lori eterni » erano diventati da molto tempo problematici. Ferruccio Busoni, da un lato pianista di grido, dall’altro un intelligente sogna­ tore, espresse ciò con molta precisione, e la sua mutevole sensibilità musicale urtava contro la rigida, fissa sonorità degli strumenti or­ chestrali: Un giorno, improvvisamente, mi apparve chiaro che lo sviluppo dell’arte musicale si arresta a causa dei nostri strumenti... Ogni libero tentativo di volo da parte del compositore sarà vano: nelle più recenti partiture come in quelle del prossimo futuro ci imbatteremo sempre di nuovo nelle particolarità dei clarinetti, trombe, violini, che appunto non possono comportarsi in modo di­ verso da quel che prescrive la loro limitatezza; a ciò si aggiunge la mancanza di naturalezza degli esecutori quando suonano il loro strumento; le vibranti effusioni del violoncello, il titubante attacco del corno; la timidezza asmatica dell’oboe, la vanagloriosa scorrevolezza del clarinetto...

Oggi, dopo che più di cinquant’anni sono trascorsi da questa di­ chiarazione di Busoni, si può essere ancora più chiari: questi stru­ menti classici dovrebbero sparire nei musei. Rispetto al presente livello della perfezione tecnica essi sono delle costruzioni difettose, irrimediabilmente antiquate, un tormento per gli orchestrali, un osta­ colo al raggiungimento di una buona esecuzione, miserabile mercan­ zia, con valvole rumorose, corde scordate, tubi dai quali scorre la saliva, goffe c rozze forme di latta, legno, filo e peli di cavallo. Ma oggi abbiamo finalmente la musica elettronica. Russoio non ne sapeva nulla. Veramente la valvola elettronica era già stata inven­ tata da alcuni anni, e può essere stato verso il 1913 che un ameri­ cano, con l’aiuto di un primitivo collegamento, trasse dei suoni dalla valvola elettronica. Ma in Italia non se ne sapeva nulla, e lo sfrutta­ mento in campo musicale del principio del vibratore fu perciò una sorprendente scoperta. Fino al 1916 Russoio costruì ventuno intonarumori per diversi rumori e « intensità di rumori ». Per lui si trat­ tava di una precisa intonazione dei rumori, poiché egli voleva impie­ garli melodicamente, con passaggio impercettibile fra i singoli gradi suono-rumore, come in un glissando. Questo glissando senza inter­ ruzione e senza un qualsiasi valore intermedio - il pianoforte non è in grado di fare ciò, ma gli strumenti ad arco lo consentono - è un’applicazione pratica della teoria di Pratella dei microintervalli;

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esso abolisce il tradizionale sistema musicale di maggiore e minore. In un primo tempo si pensava soltanto di incorporare questi nuovi strumenti a rumori nella tradizionale orchestra sinfonica, per creare altre possibilità sonore. Gli strumenti classici esistenti non dovevano dunque essere eliminati. Questo fatto spiega il ritegno di Russoio, la sua ricerca di un compromesso di fronte a difficoltà insormonta­ bili. È una ragione tattica. Il primo intonarumori risonò nel giugno del 1913 al teatro Stor­ chi di Modena; nell’aprile dell’anno successivo cooperarono tre ulu­ latoti, tre rombatoti, due crepitatoti, due stropicciatoti, due scoppia­ toti, un ronzatore, due gorgogliatoti, un sibilatore in un concerto futurista di Russoio e Marinetti nel milanese Teatro dal Verme; que­ sti strumenti erano accuratamente ordinati per famiglie1. Infatti nei singoli generatori di rumori vi erano differenze di intonazione - so­ prano, contralto, tenore e basso - come nel sassofono o negli stru­ menti barocchi. Marinetti scrisse per il foglio parigino « L’Intransigeant » un re­ soconto di questo concerto: Folla enorme. Palchi, platea e loggione strapieni. Baccano assordante dei conservatori che volevano ad ogni costo interrompere il concerto. Per un’ora i futuristi resistettero impassibili. All’inizio del quarto pezzo accadde una cosa straordinaria: improvvisamente si videro cinque futuristi - Boccioni, Carrà, Armando Mazza, Piatti e io - scendere dal palcoscenico, attraversare l’orche­ stra e assalire con pugni, schiaffi e bastoni da passeggio centinaia di conservatori in mezzo alle poltrone, che erano come ubriachi di stupidità e di rabbia tradizionale. La battaglia durò in platea una mezz’ora, mentre Luigi Russoio continuava imperturbabilmente a dirigere sulla scena i suoi diciannove into­ narumori.

Era uno dei soliti scandali. Altrove accadeva lo stesso. A Parigi la prima rappresentazione del balletto di Strawinsky La sagra della primavera naufragò fra il disordinato tumulto degli spettatori; quan­ do Schonberg presentò a Vienna lavori dei suoi allievi Alban Berg e Anton von Webern, il pubblico smaniò, si azzuffò, si comportò come plebaglia di strada. 1 Russoio nomina tre pezzi: Risveglio della città, Pranzo sulla terrazza dell1 albergo, e Incontro di aeroplani e automobili', Marinetti aggiunse: Combattimento nell'oasi. Questo bra­ no è sicuramente stato eseguito a Milano già l’n agosto 1913.

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Quel giorno d’aprile ci furono a Milano una dozzina di feriti. I fu­ turisti vinsero per la loro « conoscenza della boxe » e il loro « spirito bellicoso ». I critici avevano la schiuma alla bocca per la rabbia. Il cronista del giornale « L’Italia » parlò di « imbroglioni » e ricevette per questo uno schiaffo da Russoio. Ci fu un processo; durante l’in­ terrogatorio dei testimoni Marinetti dichiarò che questo insulto si poteva vendicare solo con le mani e che egli, al posto di Russoio, avrebbe dato dieci schiaffi. Il futurismo a Milano, per quel che riguardava la musica, aveva fatto le sue sorprendenti rivelazioni. Ora era chiaro che cosa vole­ vano Russoio, Marinetti e Pratella. In un breve scritto, che parla dello sviluppo della musica fra il 1910 e il 1917, Pratella definì la musica di Claude Debussy «es­ senza di rose per le fanciulle »; paragonò sprezzantemente Schon­ berg al mistico-musicista Aleksandr Skrjabin e gli rimproverò « sec­ chezza di ispirazione tematica ed esagerato e corrotto sentimentalismo alla Wagner e alla Schumann ». Ma Strawinsky è « l’unico autentico musicista futurista della Russia ». Questa acuta distinzione dice ab­ bastanza sul livello spirituale del futurismo musicale. Quel concerto milanese e altre esecuzioni a Genova, Londra, Du­ blino, Vienna, Mosca, Berlino e Parigi misero in agitazione il mondo della musica. Scoppiò una tempesta sui giornali di una violenza che oggi ci parrebbe incredibile. Colonne su colonne i critici musicali scrissero relazioni e commenti, chi mantenne un contegno cauto, chi condannò in modo radicale, chi rimase sulle generali. Riviste, quo­ tidiani ad alta tiratura, ma anche piccoli fogli di provincia stampa­ rono titoli in grassetto sulla battaglia dei futuristi a Milano e altrove. Tutti gli altri fatti del giorno sembravano soppiantati, come no­ tizie di secondaria importanza. Eppure accaddero cose abbastanza interessanti in quelle settimane. Il 28 giugno lo studente bosniaco Gavrilo Princip uccise a Sarajevo il successore al trono austriaco, l’arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie. Nessuno sospettava ancora quali sarebbero state le conseguenze di quest’atto. Attentati politici erano all’ordine del giorno; ma l’attentato dei futuristi - co­ me tale si consideravano i loro concerti - prendeva chiaramente di mira i beni più alti, la tradizione, la fede, i sentimenti. Ciò diede ori­

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gine a un coro di lamenti indignati, ma ebbe anche una risonanza artistica, se si vuole considerare la parodia come una forma d’arte. Apparvero infinite caricature, più o meno spiritose. Georg Kaiser - non il poeta, bensì l’omonimo musicologo - si era già occupato l’anno prima del manifesto di Russoio e l’aveva parodiato, consi­ gliando « al suo amico Enrico », un artista fallito, di comporre mu­ sica futurista per salvarsi dalla rovina. Il numero di carnevale del 1914 della « Illustrierte Zeitung» di Lipsia raccontava le vicende della coppia moderna «Bbb e Eee» scritte da Carl Lahm: Quando essi entrarono, subito in tutti gli angoli incominciarono a soffiare, gemere e ululare trombe di latta e di cartone, sollecitate dal vapore del calo­ rifero, tanto che Eee, affascinata, si turò gli orecchi; sacchi pieni di ferri vec­ chi furono scossi da un invisibile meccanismo, schegge di vetro danzavano dentro dei cesti, pezzi di legno battevano l’uno contro Faltro, in mezzo a tutto ciò risonavano dei fischi, dal fischio dei monelli fino alla sirena della nave... « Che cos’è questo, che cos’è...? » gridò la bella ridendo. « Non senti che questa è la Sinfonia della periferia industriale, composta dal piu grande maestro futurista della giovane scuola milanese? » chiese egli risentito...

Sono ricordati ancora altri titoli, una romanza 1 tre autobus, Il dromedario nell'oasi, un oratorio II monte Pelée - che è un terribile vulcano in piena attività in un’isola delle Indie occidentali, la Marti­ nica. Alcune riproduzioni di quadri mettono in ridicolo l’arte mo­ derna in genere e quella futurista in particolare. Come entusiasta commentatore di un quadro di un certo Fesoj Ztreblo di Gizpiel (i nomi devono essere letti al rovescio) viene citato il « famoso critico futurista Stussolo »; un altro quadro « da un disegno di Quacciano Pasolini» intitolato Treno espresso non è pensabile senza la più esatta conoscenza del quadro di Russoio Treno in corsa nella notte, che era stato dipinto due anni prima e lo strano è che la parodia, come opera d’arte, ha la stessa immediata forza di persuasione del­ l’originale, ammesso che ciò si possa giudicare in base a riproduzioni. Il contegno di Hans Pfitzner mostra con quale suscettibilità gli arti­ sti romantici reagirono all’esplosione del futurismo. Egli pubblicò nel 1917 uno scritto diretto specialmente contro Busoni, ma che con­ teneva qualche stoccata contro tutto ciò che Marinetti, Pratella e Russoio avevano creato di recente, contro il « pericolo futurista » :

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... alla nostra generazione è stato riservato di accogliere fra di noi gli orrori futuristi. Questi si distinguono dai loro simili per il fatto che non procurano piacere a nessuno, neppure ai futuristi. La brutta opera italiana, le sciocchezzuole da salotto, l’operetta cinematografica, la musica da concerto tradizionale, hanno tutte il loro onesto pubblico, del quale esse vivono. I futuristi vivono invece di un pubblico a piu riguardi disonesto, ma in sostanza vivono l’uno dell’altro. Questi poveretti non ricavano alcun piacere, godimento o qualche cosa di piu elevato dai loro sforzi, poiché essi non intendono affatto l’arte come qualche cosa che deve essere goduta.

Organo a vapore americano del i860. Trovò cost realizzazione l’utopia di Grandville di un’orchestra di trombe suonate da robot a vapore.

Per fortuna essi non Phanno fatto, poiché presero apertamente partito per il presente e combatterono la mancanza di cultura - ad­ dirittura ingiuriosa nel libello di Pfitzner — che spaccia la musica come oppio, surrogato della religione e mezzo di edificazione. Durante quel concerto futurista nel teatro dal Verme furono ese­ guiti quattro brani, e precisamente Risveglio della città. Incontro di automobili e aeroplani. Pranzo sulla terrazza del casinò e Combatti­ mento nell'oasi'. Il mondo della tecnica, il culto del traffico, della City, era presen­ te in tutti questi pezzi. Nel 1915 alcuni intonarumori furono impie­ gati insieme con un’orchestra sinfonica nell’opera di Pratella L’eroe'. nel 1921 avvenne la stessa cosa nel Théàtre des Champs-Elysées di * Titoli citati secondo le indicazioni di Marinetti.

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Parigi, dove Russoio diresse un Corale di suo fratello Antonio, il Cappuccino di Marcello Fiorda e alcuni altri brani. A questi tre con­ certi parigini fu fatta molta pubblicità; Marinetti tenne una confe­ renza introduttiva. Sui manifesti era stampata l’esplicita avvertenza: Gli intonarumori futuristi non sono strumenti bizzarri e cacofonici. Gli intonarumori futuristi sono strumenti completamente nuovi, che danno tutta la gamma musicale con timbri nuovi, molti dei quali assai dolci.

Fra gli ascoltatori di questi concerti vi erano Paul Claudel, Da­ rius Milhaud e Igor Strawinsky, ed è possibile che Strawinsky, il qua­ le lavorava appunto alla strumentazione delle scene di danze russe con canto Les nocest ne abbia tratto diversi suggerimenti. Maurice Ravel aveva intenzione di usare questi intonarumori in una delle sue prossime opere, e due anni più tardi essi furono impiegati a Praga come musica di scena per il dramma di Marinetti II tamburo di fuo­ co. In quella città fecero una tale impressione che la direzione del Teatro Nazionale decise di ordinare dodici intonarumori. Non ho potuto accertare se Russoio ha eseguito l’ordinazione. Negli scritti che ha lasciato non si trova nulla di ciò. Mancano pure partiture complete delle composizioni; delle carte lasciate da Anto­ nio Russoio ottenni soltanto due fogli di musica, sui quali sono no­ tati dati e misure degli intonarumori e il carattere dei rumori, per esempio a proposito dei quattro « stropicciatoti»: « Il suono molto tenero e sottile rende bene gli intervalli ». Uno dei fogli contiene inol­ tre annotazioni di orchestrazione, che si riferiscono ad alcuni oppure a tutti i brani del concerto parigino. Oltre i ventisei intonarumori furono impiegati due violini, viola, violoncello, contrabbasso, flauto, oboe, clarinetto, fagotto, tromba, arpa, timpano, xilofono e campane.

In quel modesto chalet a Cerro di Laveno la signora Russoio di­ spiegò davanti a me alcuni tesori, ma infine prese da una cassetta, con fare misterioso, qualcosa di unico: un vecchissimo disco. Do­ vevo ascoltare musica futurista. Veramente la signora disponeva sol­ tanto di uno sgangherato grammofono a manovella, e io volevo pre­ servare il prezioso disco di gommalacca dalla raschiante puntina di acciaio. Francis Travis fu tanto gentile da portare con sé alla radio

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di Milano, alcune settimane più tardi, l’unica testimonianza sonora di musica futurista giunta fino a noi. A Milano Luciano Berio, il diret­ tore dello studio elettronico, si interessò molto alla cosa e con il più moderno apparato tecnico ne fece una copia su nastro. Un giorno accadde che questo nastro fu fatto girare nella sala n. 4 dello studio musicale di Baden-Baden, estratto del disco « La voce del padrone», n. di serie R6919, con l’immagine del cane bianco che guarda ascoltando dentro un antiquato grammofono a tromba. Naturalmente non si poteva pretendere una grande perfe­ zione tecnica da una cosi vecchia incisione, che deve essere stata fat­ ta nel 1921. La nostra odierna tecnica di incisione è infinitamente superiore a quella di allora, già solo per il perfezionamento del mi­ crofono. Non c’era quindi da pensare a una qualità abbastanza sod­ disfacente della riproduzione. Tuttavia, per un altro verso, concepii grandi speranze, e perciò fu un avvenimento emozionante. Due brevi pezzi, della durata di pochi minuti, Corale e Serenata, entrambi com­ posti da Antonio Russoio, e purtroppo, come sgradevole aggiunta, un forte crepitio e fruscio. Quante volte questo disco poteva essere stato sonato negli scorsi decenni? Ricordo che, nell’ascoltare i due brani, provai una sensazione con­ trastante e alla mia eccitazione si mescolò una leggera delusione. Pri­ ma riflessione: naturalmente nessuna società discografica avrebbe corso il rischio di mettere in commercio un’incisione decisamente avanguardista; perciò non ci si poteva aspettare un pezzo puramente « bruitistico » con un insieme di intonarumori. « La voce del padro­ ne » voleva vendere il disco, e il pubblico musicale italiano è una strana razza appartata dal mondo, che minaccia di estinguersi; in ogni camera è appesa una fotografia dell’eroe rivoluzionario Garibaldi, ma nel nostalgico ricordo di quei tempi eroici si esaurisce anche il con­ tributo dell’italiano a ogni specie di rivoluzione. Se si pensa al cam­ mino che Strawinsky aveva già percorso nel 1921, questi due brani futuristi sono decisamente ridicoli. Certo, la molteplicità dei rumori - tuoni, sibili, fischi - era per quei tempi qualcosa di nuovo, di in­ quietante. Una serenata italiana con il ruggito degli « ululatori » non era neppure concepibile! Certamente per questo motivo tutto ciò che l’orchestra suona è estremamente semplice. Francis diceva con di­

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sprezzo « primitivo » e ne dava anche una spiegazione convincente. È vero che in Italia c’erano stati ottimi musicisti, che avevano una profonda conoscenza della corrente letteratura operistica, ma per in­ teri decenni nessuno era stato in grado di dirigere le opere sinfoni­ che di Bruckner, Mahler e Reger. Tutte le energie erano state assor­ bite dalla routine del teatro d’opera, cosicché partiture orchestrali piu complesse potevano essere eseguite o molto malamente o non esserlo affatto. Ciò significa che Antonio Russoio dovette accontentarsi delle cose piu semplici possibili. Egli era, ritengo, un compositore di provincia poco significativo. Gli studi al Conservatorio di Milano poterono cambiarlo ben poco. Rimase uno sconosciuto. Nessun dizionario mu­ sicale riporta il suo nome. Ora certamente le opere di Verdi, Boito e Puccini contengono passaggi di gran lunga piu difficili. Antonio avrebbe potuto tranquillamente pretendere qualche cosa di più dai suoi musicisti. Il fatto che egli non l’abbia preteso, ma si sia accon­ tentato di una curiosa fusione di arte popolare italiana e determinate particolarità stilistiche della Musica futurista di Pretella, deve avere delle cause profonde. Nel 1921 si stava già preparando un movimento artistico che ten­ deva a consolidare e ordinare le molte e diverse tendenze, una rea­ zione allo sfrenato erompere del primo futurismo, espressionismo, dadaismo. Incominciarono all’inizio del secolo e la Sinfonia neoclas­ sica di Eugène d’Harcourt può valere come uno dei primi esempi. Gli artisti adottarono la misura classica, l’antico canone della forma; rintracciarono ricche fonti nell’arte del diciottesimo secolo. Partico­ larità stilistiche e modelli del barocco, del rococò, e delle epoche pre­ cedenti fino al corale gregoriano ricevettero nuova vita. Il primiti­ vo divenne attuale, adottò il modo di considerare le cose di Henri Rousseau. Il promotore in campo musicale era Erik Satie, l’impiegato po­ stale compositore di Arcueil. Egli aveva seguito le tracce del classi­ cismo, del puritanesimo già in un tempo in cui quasi nessuno ci pen­ sava ancora. A Parigi si radunarono intorno a lui i giovani, fra i quali Arthur Honegger, Francis Poulenc, Georges Auric. Essi vole­ vano, come aveva chiesto Guillaume Apollinaire,

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evitare il disordine romantico... conquistare lo spirito critico e il senso del do­ vere dei classici, accrescere le forze vitali, cercare il nuovo agendo di sorpresa.

Questo era Io spirito del tempo, « esprit nouveau ». Sergej Pro­ kofiev compose la Sinfonia classica-, Strawinsky si servì di alcuni

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par LUIGI BUSSOLO

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