Manifesto filosofico del comunismo comunitario-Elogio del comunitarismo 9788855293112, 9788855293297

Interprete originale del pensiero di Marx, in quest'opera Preve ne enfatizza gli elementi di continuità con il pens

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Italian Pages 630 [632] Year 2022

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Table of contents :
I
II
III
IV
V
VI Il comunitarismo come bilancio, ripensamento e riscrittura radicale delle cause della sconfitta del comunismo storico novecen
Elogio del comunitarismo
Introduzione
I Il Mondo attuale
II Controstoria critica del liberalismo e della democrazia
III Controstoria critica del marxismo e del comunismo
IV La tradizione del comunitarismo nel pensiero occidentale.
V L’ingombrante passato del comunitarismo: il fascismo e il nazionalsocialismo
VI Verso una ridefinizione universalistica e processuale del comunitarismo
Nota bibliografica
Indice
Opere di Costanzo Preve
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Manifesto filosofico del comunismo comunitario-Elogio del comunitarismo
 9788855293112, 9788855293297

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Opere di Costanzo Preve Volume II

Manifesto filosofico del comunismo comunitario * Elogio del comunitarismo

Costanzo Preve (1943-2013) ha studiato scienze politiche, filosofia e neoellenistica a Torino, Parigi e Atene (1961-1967). Per trentacinque anni (1967-2002) ha insegnato filosofia e storia nei licei italiani. È autore di studi filosofici e politici noti in Italia e tradotti in molti paesi europei.

Di questa collana: 1) Il nemico principale. Di prossima uscita: 3) La Scuola di Francoforte, Adorno e lo spirito del Sessantotto; 4) La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo; 5) L’eredità e la prospettiva. Saggio sul Novecento; 6) Una storia alternativa della filosofia.

Opere di Costanzo Preve

Collana diretta da Alessandro Monchietto Comitato scientifico: Andrea Bulgarelli, Lorenzo Dorato, Luca Grecchi, Diego Melegari, Alessandro Monchietto, Enrico Varesio, Piotr Zygulski

Opere di Costanzo Preve II

Costanzo Preve

Manifesto filosofico del comunismo comunitario *

Elogio del comunitarismo a cura di Alessandro Monchietto Introduzione di Mimmo Porcaro

Elogio del comunitarismo Prima edizione italiana: Controcorrente, Napoli 2006.

© 2022, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Opere di Costanzo Preve ISSN: 2785-2032 n. 2 – novembre 2022 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-311-2 ISBN – Ebook: 978-88-5529-329-7 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Part of the bronze monument to Vladimir Lenin at the Kaluzhskaya Square. Scene of the Great October Socialist Revolution / Bolshevik Revolution. © Yury and Tanya – stock.adobe.com

Nota redazionale per il lettore Durante la lettura del Manifesto del comunismo comunitario il lettore noterà che l’autore fa riferimento a dei capitoli mancanti. La ragione risiede nella storia del manoscritto, che è stata piuttosto travagliata, per cui è difficile dire se delle sezioni del volume siano andate perse o se piuttosto non siano mai state scritte. In ogni caso ci piace pensare che la definizione previana del pensiero di Marx come “cantiere aperto” sia applicabile a Preve stesso, e che questo libro ne sia un esempio, laddove “aperto” non significa solo incompiuto ma soprattutto fecondo, disposto a svilupparsi in direzioni inattese, per l’appunto “aperto” al futuro. Segue il saggio Elogio del comunitarismo, edito originariamente nel 2006 da Controcorrente, che ringraziamo per la disponibilità rispetto alla pubblicazione del testo nella presente edizione.

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Comunità e comunismo nell’ultimo Preve Introduzione di Mimmo Porcaro

1 I testi qui presentati, anche se risalenti nel tempo, avranno per chi legge un sapore di attualità, perché trattano, oltre a tutto il resto, anche di questioni oggi balzate tragicamente sulla scena col passaggio allo scontro militare aperto tra “blocchi” mondiali. Parlano cioè della pretesa dell’Occidente di aver elaborato, col capitalismo liberale, una cultura ed un modello sociale che possono e devono imporsi sia su tutte le società e tutti gli stati del mondo presente, sia su tutta la storia passata, che viene considerata – nei suoi punti più alti, come la grecità classica – soltanto come imperfetta anticipazione delle virtù oggi finalmente realizzate dagli Stati uniti e dai loro servizievoli consoci. Preve contesta con l’abituale ferocia argomentativa questa pretesa, così come contesta e smonta il meccanismo del politically correct che l’accompagna, meccanismo oggi divenuto ancor più invasivo e cogente di quanto non lo fosse quando il nostro ne scriveva, perché l’approssimarsi dello scontro diretto impone di preparare retoriche capaci di giustificare sia l’aggressione all’esterno che la repressione all’interno: la cancel culture e l’atteggiamento woke rappresentano in questo senso un tentativo talmente zelante da preoc-

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cupare gli stessi evangelisti del verbo liberale, ossia i redattori dell’«Economist»1. Ma la più efficace critica nei confronti del capitalismo attuale e della sua manifesta tendenza bellicista non sta certo nella polemica ideologica bensì nella capacità di definire un’alternativa. E l’alternativa proposta da Preve si presenta contemporaneamente come ripresa dei temi del movimento comunista e come rottura con quest’ultimo, in direzione del recupero di una tradizione comunitarista che, a parere dell’autore, costituirebbe il nocciolo segreto del miglior Marx, ma che origina dall’Atene classica e trova il suo compimento filosofico in Hegel. Un atteggiamento frettoloso potrebbe portare non pochi lettori a fermarsi a questa premessa, deducendone che Preve altro non sia che un epigono di una forma di pensiero che ha avuto molto spesso postulati ed esiti conservatori, quando non reazionari. E ciò, unito alla predilezione dell’autore per il registro dell’invettiva e alla sua insistenza nell’épater les gauchistes, potrebbe indurre questi lettori a chiudere il libro. Ma farebbero male. Le tesi di Preve rischiano indubbiamente, per usare le distinzioni correnti, una lettura di destra – e questo, come si vedrà meglio, è in qualche modo un segno dei tempi – ma non sono organicamente ascrivibili a quella posizione. Prima di tutto perché Preve rifiuta di mettersi a “ululare coi lupi” e cioè di partecipare all’identificazione del comunismo col male assoluto che è tipica di tutte le forme attuali dell’ideologia dominante, siano di destra, di sinistra o di centro. Per lui il comunismo è un’esperienza positiva purtroppo esauritasi e fallita (e in questo senso 1989 è una delle date più fosche della storia mondiale) e nei suoi confronti non devono essere applicate rimozioni o condanne infamanti, bensì l’arte hegeliana dell’Aufheben, del superare conservando. Inoltre, e soprattutto, la comunità di Preve è per definizione sideralmente lontana da ogni propensione gerarchica ed antiegualitaria, e il suo destino 1. Cfr. The Threat From the Illiberal Left, in «The Economist», 04/09/2021, https://www.economist.com/leaders/2021/09/04/the-threat-from-the-illi­beral-left.

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non è quello di opporsi alle altre comunità rivendicando un qualche primato, bensì proprio quello di dar vita a un positivo dialogo intercomunitario su una base ritenuta dall’autore più concreta di quella di un internazionalismo astratto. Quindi, a mio avviso, non si può parlare di un pensiero coerente con le idee gerarchiche e col nazionalismo o comunitarismo aggressivo della destra “forte”. E ciononostante una deriva di quel pensiero è stata ed è sicuramente possibile, ed è spiegabile con l’incontro tra quelli che mi sembrano i punti deboli della riflessione di Preve (che indicherò in seguito) e gli schieramenti che le condizioni politiche oggettive potevano e possono suggerire. Intendo dire che i limiti e le contraddizioni inevitabilmente presenti nel pensiero di Preve (come in quello di chiunque altro) si sono incontrati con una congiuntura politica che ne ha favorito una lettura di destra o comunque ambigua, perché quel pensiero si è sviluppato nel corso della disastrosa trasformazione del più grande partito comunista dell’Occidente nel suo contrario, e della parallela progressiva dimostrazione dell’inefficacia, quando non della connivenza, della cosiddetta sinistra radicale. Preve ha così accentuato le sue critiche al capitalismo proprio mentre scomparivano le corpose realtà socialcomuniste alle quali un tempo rimandava inequivocabilmente il termine “sinistra”, e mentre a livello mondiale l’alternativa sembrava incarnarsi (essendo Preve molto diffidente sia nei confronti della Cina che, su tutt’altro versante, dello stesso movimento altermondialista), soltanto in alcuni stati, come l’Iraq e l’Iran, nonché la stessa Cuba e il Venezuela, di cui si poteva essere tentati di valorizzare più la chiusura verso l’Occidente che l’interna propensione più o meno socialista. Gli sviluppi successivi, anche quelli intervenuti dopo la scomparsa dell’autore, hanno apparentemente confermato quella situazione originaria, aggiungendovi i disastri dell’europeismo fideistico della sinistra, il consumarsi del distacco della sinistra stessa dagli strati popolari più impoveriti e impauriti, il crescere della retorica nazional-protezionistica della destra. Tutto ciò ha potuto favorire, nelle generazioni che cercavano anche in Preve le indicazioni per un difficile orientamento in un epoca di cancellazio-

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ne di ogni memoria, non solo la giusta attitudine a considerare indifferente, nell’ipotetica costruzione di una nuova forza politica orientata al socialismo, la provenienza di destra o di sinistra, ma anche l’esiziale disattenzione nei confronti delle rigorose demarcazioni che ogni nascente forza popolare deve comunque segnare nei confronti di entrambi gli schieramenti principali della politica italiana (e mondiale). Un robusto partito neosocialista può, in determinate condizioni, allearsi con chiunque per raggiungere i propri autonomi scopi. Una forza poco più che embrionale non può farlo, pena il subitaneo regredire dall’embrione al nulla. Ma, soprattutto, oggi i fatti hanno mostrato che il “nemico principale” non è più da identificarsi esclusivamente con la sinistra, bensì col centro interpartitico euroatlantista verso cui tutti convergono, destra inclusa. E lo scontro tra l’Occidente e il resto del mondo, proprio perché è divenuto ormai più crudo, richiede di elaborare specifiche strategie nazionali capaci di radicare profondamente nei singoli paesi la lotta alla guerra: e per farlo non basta, ed anzi è controproducente, identificarsi culturalmente coi “nemici dell’Occidente”. Bisogna piuttosto prendere il meglio della tradizione occidentale e farne la base di un dialogo politico-economico globale. Ed è in effetti quello che ha tentato di fare Preve, e le vicende della ricezione politica delle sue idee ci convincono di quanto anche la ricerca meglio intenzionata possa essere inficiata o indebolita dall’attuale assenza di evidenti alternative storiche, e quindi quanto sia necessario esercitare il massimo rigore nella sorveglianza dei propri concetti e del loro nesso con la realtà attuale per evitare di essere arruolati de facto nel campo dell’uno o dell’altro degli “acerrimi rivali” in campo, sempre convergenti nelle scelte fondamentali. E ci dicono, quelle vicende, quanto sia difficile e pericoloso pensare nel vuoto, soprattutto quando il pensiero sia mosso, come nel caso di Preve, da un’intensa passione per la verità: nell’assenza di oggetti degni, ogni passione è tentata di cercare sostituti reali o ideali sui quali esercitarsi, e solo molto raramente sa accontentarsi di sé stessa e attendere. Costanzo Preve ha avuto il coraggio di pensare nel vuoto, e ne

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ha pagato inevitabilmente anch’egli le conseguenze. Ma proprio per questo dobbiamo ascoltare quello che ci dice. Amicus Plato, sed magis amica veritas («sono amico di Platone, ma ancor più sono amico della verità»): questo era il motto pronunciato da Preve ogni volta che doveva contestare – e succedeva assai spesso – le idee di qualcuno a cui era in qualche modo legato. Per onorare nel miglior modo anni di frequentazione intellettuale e umana non trovo di meglio che far mio questo motto ed iniziare dalle critiche, anche severe, che credo debbano essere avanzate all’autore: cosa che permetterà di enucleare e valutare al meglio i suoi contributi alla comprensione dei problemi del nostro tempo. Ovviamente potrò concentrarmi solo su alcuni dei numerosissimi temi affrontati nel libro, e in particolare sulla definizione della comunità, sul rapporto di Preve con Hegel e con Marx, sui limiti di una pretesa scienza filosofica, sulla nozione di proletariato. Concluderò con alcune note sui soggetti politici e sui corpi intermedi, in cui risalteranno gli aspetti più fecondi della riflessione del nostro.

2 Prima di ragionare sulla nozione di comunità che emerge, pur se fra molte oscillazioni, dai testi di Preve è necessario notare come l’autore presenti sempre i termini “comunità” e “società” come se fossero sinonimi, e ciò induce automaticamente chi legge a pensare che la comunità sia la sola “vera” società, e che all’infuori di essa si possa trovare soltanto anomia ed individualismo. Inoltre si deve aggiungere che nell’individuare i tratti salienti della comunità Preve spesso intreccia definizioni descrittive e definizioni normative, con netta prevalenza di queste ultime. Il risultato è che nelle sue pagine si confrontano una comunità ideale ed un comunismo reale, la comunità come dovrebbe essere e il comunismo come realmente è stato, ed è: con l’inevitabile prevalenza della prima.

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Ciò detto, la comunità che Preve prende come modello ideale è la comunità politica dell’Atene classica, intesa come condivisione di un insieme di costumi, ossia di un ethos, orientato essenzialmente ad evitare che l’eccesso di accumulazione delle ricchezze da parte di alcuni si traduca per gli altri nella perdita dei mezzi di sostentamento e della libertà. Si tratta, quindi di impedire il prevalere della “crematistica”, ossia dell’attività finalizzata all’arricchimento, sulla semplice “economia domestica” finalizzata a una dignitosa sussistenza, difendendo così la massa dei piccoli produttori indipendenti che costituiscono la base sociale di questo antico esperimento. Tutto ciò si attua attraverso la decisione democratica guidata dal principio della misura, opposto alla smisuratezza che invece connota la brama di ricchezza dissolutrice delle comunità. Non si tratta di eliminare la proprietà o la lotta di classe, ma semplicemente di temperare l’una e l’altra attraverso il sentimento della filìa, tradotto in decisioni pubbliche conseguenti. Questa soluzione, apparentemente moderata ma in realtà tutt’altro che semplice, sarebbe secondo Preve decisamente migliore non solo del coevo comunismo di Platone, ma anche del comunismo storico novecentesco di cui Preve stigmatizza, tra l’altro, proprio lo spirito prometeico che ha voluto trasformare integralmente la società eliminando del tutto le differenze di classe. Va subito notato che questa definizione di comunità dice a un tempo troppo poco e troppo. Troppo poco perché da essa è eliminata proprio quella (più o meno larga) comunanza dei beni e quei meccanismi di reciprocità che hanno connotato, con diversi gradi di intensità, molte delle comunità storicamente esistite e che costituiscono, sia per analogia che per differenza, il punto più importante del confronto col comunismo2. Troppo perché, definendo l’ethos come tratto distintivo principale della comunità, e scegliendo al contempo come tipo ideale proprio una comunità apertamente 2.  Si pensi a quanto dicono al riguardo F. Tönnies, Comunità e società, a cura di M. Ricciardi, tr. it. di G. Giordano, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 52-58, o K. Polanyi, La sussistenza dell’uomo. Il ruolo dell’economia nelle società antiche, a cura di H.W. Pearson, tr. it. di N. Negro, Einaudi, Torino 1983, pp. 61-71.

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politica e basata in larga misura sulla legge, Preve fonda implicitamente la politica e la legge sull’ethos senza discutere da subito le complesse (e negative) conseguenze di questa scelta, ossia la riduzione della politica a mera espressione di un precedente identità localistico-­comunitaria. Tale conseguenza si manifesta immediatamente allo stato pratico, per dir così, quando, proseguendo nella sua definizione, Preve identifica le sedi della sovranità comunitaria quasi sempre nelle comunità locali. E soprattutto quando, parlando dello stato nazionale, gli assegna una funzione residuale di tutela linguistico-culturale, e identifica il fondamento dello stato stesso in un indefinito processo di “etnogenesi” che dà luogo a comunità resistenti all’omologazione: un’etnogenesi che precederebbe una unificazione politico-statuale ridotta di fatto, ormai, nel pensiero dell’autore, a mera costruzione artificiale. 2.1. Definita come sopra, la comunità proposta da Preve non sembra affatto in grado di costituire un’alternativa realistica al capitalismo e di presentarsi come valida erede delle istanze del comunismo storico novecentesco. Dal punto di vista economico-sociale tale comunità opera con interventi di redistribuzione ex post, attuati solo in caso di evidente squilibrio. Tali interventi ex post, forse ragionevoli per una società di piccoli produttori indipendenti, sono invece del tutto insufficienti nel quadro di un sistema capitalistico, soprattutto se si pretende, addirittura, di superare attraverso di essi la produzione capitalistica in quanto tale. Infatti se nel caso dei piccoli produttori è teoricamente ipotizzabile un equilibrio di partenza, una sorta di “ordine naturale” che sarebbe possibile ristabilire con l’intervento della comunità, nel caso del capitalismo il punto di partenza è invece proprio lo squilibrio. Quella “eccessiva” accumulazione di ricchezza che per il modello comunitario è un’eventualità, per il capitalismo è un dato originario e strutturale: essa infatti è talmente “eccessiva” da costringere i lavoratori a vendersi sempre al capitalista per sopravvivere. Quella riduzione in schiavitù che era uno dei rischi costanti del libero contadino ateniese, è invece la normalità per il proletariato attuale, e solo

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l’eliminazione ex ante di questa differenza di classe, partendo da una prima riappropriazione collettiva dei principali mezzi di produzione, può consentire di iniziare la difficile costruzione di una società libera ed eguale, e di spegnere quell’auri sacra fames che Preve continuamente stigmatizza. Anche eventuali trasformazioni parziali e graduali del capitalismo, anche eventuali commistioni tra comunismo e mercato, anche soluzioni sostanzialmente moderate come quelle che Preve propone qua e là, devono muoversi nella direzione del superamento dello squilibrio originario del capitalismo, se vogliono assicurarsi stabilità ed efficacia. Dal punto di vista politico-istituzionale, poi, i soggetti messi teoricamente in campo da Preve per contrastare la potenza del capitalismo occidentale appaiono veramente del tutto inadatti alla bisogna. Le comunità locali, oppure gli stati nazionali concepiti solo come tutori di un’identità culturale, o come reti di comunità minori, sarebbero titolari di una sovranità assolutamente ineffettuale di fronte ai mezzi preponderanti dell’avversario. Una efficace sovranità democratica, capace di contrastare sia i movimenti del capitale globale sia le politiche belliciste dei centri imperialisti, può esercitarsi oggi solo se si evolve in un’alleanza fra stati che sappia costruire spazi economico-politici relativamente liberi. Tale “sovranità internazionale” (che non è da confondersi con gli organismi “sovranazionali”) sarebbe ostacolata seriamente dall’esistenza di stati che fossero frammentati localisticamente o che, soprattutto, si concepissero più come entità etnico-culturali che come entità politiche. Ma è proprio questo l’esito, certo non voluto, dell’impostazione di Preve: la fondazione dello stato in una precedente etnicità conduce ad entità politiche destinate ad oscillare tra l’impotenza delle piccole patrie e il delirio di onnipotenza di un primato etnico, rendendo in un caso perdente e nell’altro impossibile, un’alleanza antimperialista ed eventualmente socialista fra stati nazionali. Si aggiunga che l’idea di una etnogenesi pienamente compiuta su base comunitaria prima di una unificazione politica nazionale sembra destituita di fondamento. Per restare alle cose italiane, se si volesse risalire ad un’epoca in cui le comunità costituivano ricche relazioni sociali senza nessun rapporto sostanziale con la statualità, bisognereb-

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be tornare quantomeno al 13003. Infatti un necessario sguardo di lunga durata vede la formazione della statualità peninsulare come un processo iniziato almeno dal XV secolo con la nascita degli stati regionali e l’inizio del loro lavorio istituzionale. È vero che l’accentramento di questi stati, avvenuto prima di tutto a scapito delle comunità cittadine minori, ha inizialmente dovuto essere bilanciato dal mantenimento ed anzi dall’incremento delle comunità del contado, e a volte da una politica di infeudamento4. Così come è vero che, per tutta una fase iniziale, il pur innovativo controllo centrale delle finanze delle comunità aveva come scopo principale la tutela delle comunità stesse, in una logica non basata sul comando amministrativo, ma sull’intesa politica e sulle soluzioni giurisdizionali. Ma a poco a poco quel controllo assume natura direttiva ed è chiaramente finalizzato alla raccolta di imposte, e la politica del sovrano diviene sempre meno orientata al ristabilimento di un ordine comunitario naturale e sempre più finalizzata al raggiungimento del bene pubblico come prodotto politico, fino a sboccare nei vari progetti espressamente innovativi nel tardo XVII secolo, e infine nel «Settecento riformatore»5. Inoltre, cosa forse più importante dal punto di vista della nascita di un “popolo”, in tutto questo periodo le comunità del contado, che comunque persistono nella lunga durata, vengono molto spesso sottoposte a vere e proprie rotture provocate dall’espropriazione padronale delle terre e dei beni comuni: e la massa di diseredati che ne deriva non trova più istituzioni comunitarie capaci di assisterla divenendo così oggetto dell’accresciuta preoccupazione pubblica per la gestione

3.  Peraltro, anche dopo la dissoluzione dell’esperienza carolingia, non mancò mai, pur astraendo dal regno normanno, una tensione trai gruppi comunitariofeudali e ambiti, continuamente ridiscussi, di res publica rappresentati, in maniera per noi paradossale, sia dall’Impero che dalla Chiesa: si veda G. Tabacco, Sperimentazioni del potere nell’alto medioevo, Einaudi, Torino 1993, p. 208 e passim. 4.  Cfr. G. Chittolini, La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado, Einaudi, Torino 1979, pp. VII-XXXII. 5.  Cfr. G. Greco - M. Rosa (a cura di), Storia degli antichi stati italiani, Laterza, Roma-Bari 2103, pp. 31-41.

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della povertà6. L’“etnogenesi” preunitaria, se esiste, è quindi frutto della dialettica tra le comunità e gli embrioni della statualità, e se sarebbe riduttivo e banalmente teleologico assegnare allo stato la palma del vincitore, è comunque decisamente impossibile vedere nelle sole comunità l’autentico luogo di formazione del “popolo”. Se poi si passa all’unificazione vera e propria, qui conviene precisare che la sua natura inevitabilmente politica non si presenta come mera invenzione o come pura rimozione di precedenti culture. Se politico è sinonimo di artificiale, artificiale non è sinonimo di artificioso. Ad esempio, la costruzione del “canone risorgimentale”, ossia del discorso che presupponeva l’unità del paese e nello stesso tempo voleva crearla, è avvenuta raccogliendo e risistemando all’interno di un nuovo contesto i precedenti codici culturali della famiglia, della religione e dell’onore, e ha tanto più avuto successo quanto meno si è discostata dai modelli originari, ossia quanto minore è stato il suo tasso di innovazione7. La costruzione di uno stato unitario italiano ha insomma seguito una parabola comune a molte esperienze analoghe. Essa è un processo fatto indubbiamente di molte forzature e, nel nostro caso, particolarmente connotato da dure repressioni di classe; un processo il cui supposto attore, il “popolo”, si trova solo in parte all’inizio, e si presenta piuttosto soprattutto come risultato – peraltro mai irreversibile. Ma tale risultato non è fragile o inconsistente: una volta istituito, lo stato nazionale, soprattutto nella sua veste di stato sociale (effetto diretto della lotta di classe), crea norme, tutele, opportunità e garanzie tali da istituire un profondo pur se mai univoco senso di comunanza, basato non sull’etnicità, ma su una comune esperienza politica. Come intuito già dallo stesso padre della distinzione tra comunità e società, Ferdinand Tönnies, lo stato, pur sorto da una società che è secondo lui l’opposto della comunità, diventa a sua volta una qualcosa di simile alla comunità stessa8. Ma su ciò torneremo.

6.  Cfr. ivi, pp. 314-315, 320 e ss. 7.  Cfr. A.M. Banti, La nazione del Risorgimento, Einaudi, Torino 2006. 8.  Cfr. F. Tönnies, Comunità e società, cit., p. 214.

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2.2. Il confronto astratto tra comunità e comunismo, qui appena abbozzato, non deve farci scordare che stiamo parlando di modelli concettuali e non di concrete strategie politiche. Nell’epoca attuale un discorso socialista (ossia capace di proporre il comunismo in forma reale e quindi necessariamente mediata) non potrà che presentarsi commisto ad un discorso comunitarista, vista soprattutto la scomparsa del blocco comunista e la scelta cinese di presentarsi come partner economico globale piuttosto che come centro di una nuova ondata di rivoluzioni rosse. In questa fase storica una seria prospettiva integralmente anticapitalista non potrà per molto tempo presentarsi in una maniera che sia al contempo autonoma e capace di esercitare una larga influenza. Essa troverà di fronte a sé due progetti di superamento del capitalismo liberale, quello (favorito anche dalla guerra) dell’autoriforma del liberismo in direzione di un nuovo statalismo e quello della generica reazione societaria à la Polanyi9, fatta di un mix di statalismo e comunitarismo. Tale reazione, che deve essere accolta come un positivo segno dei tempi, può assumere forme diverse, tendenzialmente progressive o tragicamente regressive. E in questo contesto il comunitarismo può essere un compagno di strada del nuovo socialismo oppure una copertura dell’autoriforma capitalistica. Fare chiarezza sulla nozione di comunità e sul suo rapporto col comunismo è dunque decisivo, e va a ulteriore merito di Preve l’aver intuito o comunque testimoniato il formarsi di questa dialettica, fondamentale per la comprensione dei nostri tempi.

3 La riduzione della critica comunista a critica comunitarista fa il paio, in Preve, con la rimozione de facto della critica dell’economia politica, che è invece l’apporto specifico e più rilevante di Marx 9.  Ho accennato alla rilevanza della questione del rapporto tra Polanyi e Marx nel mio Tendenzen des Sozialismus im 21. Jahrhundert, VSA Verlag, Hamburg 2015.

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all’analisi del capitalismo, e con la sostanziale riduzione, su questo e altri punti, del pensiero di Marx a quello di Hegel, giudicato più pregnante di quello del riottoso discepolo. La prevalenza di Hegel su Marx si deve secondo Preve, fra le altre cose, al fatto che mentre il primo non si è lasciato incantare dalle sirene dell’economia politica classica il secondo l’ha invece presa fin troppo sul serio, restando così del tutto impigliato nell’individualismo utilitaristico tipico di quella corrente di pensiero. Si tratta di un’interpretazione assai forzata. Il rapporto di Hegel con Smith, Ricardo, Say (ma anche con Ferguson e altri coevi) non è stato meramente esteriore, bensì essenziale nella formazione del suo pensiero, e numerosi sono gli studi che lo sostengono10. Già nella Fenomenologia, la stessa nozione di spirito, in quanto immagine e frutto dell’intero operare umano giunto alla sua forma più alta, libera e consapevole (ma quanto qui si dice vale anche per le precedenti nozioni relative all’eticità, al corso del mondo e all’operare di tutti e di ciascuno) si basa su una profonda riflessione relativa alla divisione e connessione del lavoro sociale che dovrebbe a mio avviso essere riconsiderata in sede di ridefinizione teorica del comunismo, e che è direttamente ispirata, anche nel suo essenziale armonicismo, dall’economia politica classica11. Di più: proprio quella società civile delineata da Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto, in cui Preve vede una forma ulteriore di comunità e un soggetto potenziale del superamento del progetto comunista, è anche il riassunto, l’approfondimento e l’arricchimento filosofico della “mano invisibile: e se alla fine per Hegel la società civile viene superata e inverata nello stato, ciò avviene non perché lo stato stesso debba intervenire direttamente all’interno dei meccanismi economici fondamentali modificandoli nell’essenza (anche se può e deve preoccuparsi di alcune delle

10.  G. Lukács, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1975, vol. II, pp. 447-554; R. Bodei - R. Racinaro M. Barale, Hegel e l’economia politica, Mazzotta, Milano 1975; S. Landucci, Hegel: la coscienza e la storia, La Nuova Italia, Firenze 1976, pp. 151-197. 11.  Cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. di V. Cicero, Giunti-­ Bompiani, Firenze-Milano 2019, pp. 485, 531, 563-565.

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conseguenze di essi), ma perché esso costituisce consapevolmente quella unità che la società civile già costruiva inconsapevolmente a partire dal perseguimento dell’interesse individuale ed egoistico12. Certo, quella di Hegel non è una teoria liberale dello stato, perché quest’ultimo non sorge semplicemente per tutelare la proprietà privata e il libero gioco degli interessi, ma è il luogo decisivo del perseguimento diretto del bene pubblico. Inoltre la concezione hegeliana della divisione del lavoro e della sua sostanziale armonia è certamente debitrice anche del pensiero filosofico greco-classico13. Ma la centralità della divisione del lavoro e soprattutto l’accento sulla profonda razionalità del comportamento egoistico discendono certamente molto più da Smith che da Aristotele. Si deve anche aggiungere, per inciso, che la pur acuta percezione hegeliana delle necessarie conseguenze negative della concorrenza e del macchinismo, e la sua preoccupazione per le sorti della plebe, che Preve reca come prova del comunitarismo del grande filosofo, non sono così originali nel pensiero dell’epoca né, soprattutto, preludono ad organiche politiche di redistribuzione, visto che la vera terapia contro la miseria dei lavoratori è indicata da Hegel stesso nel colonialismo14. Hegel è quindi profondamente legato all’individualismo dell’economia politica classica (pur concependolo come mero “momento” di un superiore processo di unificazione), perché vede in esso la conferma delle possibilità di conciliare interesse individuale e armonia sociale. 3.1. È invece Marx a distanziarsi decisamente da tale individualismo, sia perché ricostruisce i rapporti storico-sociali che generano quell’individuo che l’economia classica presenta come origine e causa dell’intera società, sia perché mostra il carattere necessariamente disarmonico dello sviluppo capitalistico.

12.  Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, tr. it., a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 189, 200, 416 e passim. 13.  Cfr. K.-H. Ilting, Hegel diverso. Le filosofie del diritto dal 1818 al 1831, tr. it. di E. Tota, Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 5-32. 14.  Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., pp. 230-231.

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La rimozione della critica dell’economia politica ha effetti pesanti sulla costruzione di un nuovo pensiero anticapitalistico, riportandolo in realtà indietro. Essa impedisce infatti non solo di comprendere l’essenza non occasionale delle crisi e la natura profonda dell’imperialismo, indebolendo così l’analisi del presente, ma soprattutto di porre la questione del superamento del capitalismo su basi realistiche, ossia sulla base dell’avvenuta socializzazione del lavoro. La tesi, da Preve più volte ripetuta, dell’inesistenza del lavoratore collettivo è parzialmente vera dal punto di vista dell’azione politica ma è sbagliata dal punto di vista dell’analisi sociale. Il concetto di lavoratore collettivo è analiticamente significativo non perché indichi unità e armonia di tutte le funzioni del lavoro (ché anzi tale unità è cosa da costruire politicamente e tecnicamente sia prima che dopo l’ipotizzato avvento del comunismo), ma perché, in quanto individua nell’insieme del lavoro il vero e solo creatore della ricchezza sociale, mostra come il capitale non sia un elemento ontologicamente necessario all’organizzazione della produzione. La fondazione del comunismo in Marx, come si vede, ha ben poco a che fare con l’individualismo atomistico, e non è necessario accettare tutte le idee spesso erronee – e giustamente criticate da Preve – che hanno accompagnato l’idea del lavoratore collettivo (la necessità meccanica del passaggio al comunismo, la presunta funzione meramente parassitaria del capitalismo, lo stagnazionismo, il soggettivismo anarcoide del presunto “operaio sociale”…) per valorizzare appieno la forza analitica e politica di questo concetto. Che è poi parte della più vasta nozione di socializzazione della produzione, che oggi può essere declinata, ad esempio, mostrando come essa si realizzi anche nei continui interventi pubblici che sono ormai essenziali alla sopravvivenza della produzione capitalistica, e in quanto tali potrebbero costituire la base per la rivendicazione del controllo collettivo su quella produzione stessa. Un controllo che integra in sé, ma poi supera decisamente, la mera redistribuzione “comunitaria” ex post della ricchezza prodotta.

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4 Alla critica dell’economia politica Preve preferisce senz’altro quella che lui stesso chiama scienza filosofica (a suo parere l’unica capace di “dire la verità”, all’opposto della falsa scienza positivistica), che è poi null’altro che uno sviluppo o una ripetizione della scienza hegeliana. E ad esempio sostiene (sulla scorta di Claudio Napoleoni, ma senza alcun riferimento alle specifiche analisi di quest’ultimo) che la teoria marxiana del valore è essenzialmente una teoria dell’alienazione. Ora, decidere se il dire se la verità sia affare dei filosofi o degli scienziati è compito troppo arduo. Certamente tutti cooperano alla definizione della verità, e lo stesso Althusser, nel sostenere che la filosofia non produce di per sé precisi concetti scientifici, non voleva ridurla a pura riflessione metodologica, come gli rimprovera Preve, ma le assegnava addirittura il ruolo di rappresentare la lotta di classe nella teoria, cosa che con la verità ha pur qualcosa a che fare15. Il problema è capire, caso per caso, quale sia l’apporto della filosofia e quale quello della scienza, e poi svelare i presupposti filosofici impliciti o consapevoli di ogni scienza (presupposti che possono favorire o ostacolare la ricerca) così come gli eccessi di astrazione che allontanano la filosofia dallo scoprire la logica specifica dell’oggetto specifico. E la riduzione della teoria del valore a teoria dell’alienazione rappresenta proprio uno di quegli eccessi. La nozione di alienazione ha grande importanza filosofica, sia perché è ovviamente contigua alla teoria hegeliana dell’oggettivazione (che permette a Hegel di dire che la realtà sociale è opera umana, ma al contempo che questa opera sta poi di fronte alla prassi umana come un oggetto altro e indipendente), sia perché orienta lo sguardo di chi analizza il capitalismo ricordandogli sempre che le categorie economiche “naturali ed eterne” sono sempre la concrezione di rapporti sociali storicamente determinati: sono in ultima istanza effetti della prassi umana che si presentano poi come im-

15.  Cfr. L. Althusser, Lenin e la filosofia, tr. it. di F. Madonia, Jaca Book, Milano 1974, p. 46.

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mutabili e minacciosi e quindi come estranei e ostili ad essa. Ma quando la categoria filosofica di alienazione oltre ad orientare la ricerca o a sintetizzarne i risultati si presenta come analisi specifica di un particolare processo sociale, gli equivoci sono inevitabili. Ad esempio, per una teoria dell’alienazione la figura del denaro, e in particolare quella del denaro che genera denaro (D-D’) appare appunto come espressione ultima dell’inversione del prodotto dell’uomo (la ricchezza sociale complessiva) in un qualcosa che domina il suo stesso produttore. Nel denaro si presenta in forma estranea e ostile l’essenza sociale dell’uomo, ed è questa essenza a dover essere recuperata e ricondotta sotto il controllo dell’uomo stesso. Una teoria dell’alienazione non ci dice però nulla sui modi in cui può avvenire tale “recupero” ed anzi essa, col richiedere semplicemente e genericamente una riappropriazione, può fondare soltanto politiche che limitano il potere del denaro e che – ancora una volta – controllano ex-post quel potere, quando non si risolve nell’alimentare critiche moralistiche contro gli “speculatori”, le banche e il capitale finanziario, visti come escrescenze innaturali maturate sul corpo sano del capitalismo. La centralità di una teoria dell’alienazione è coerente con la prospettiva comunitarista, ma è la cancellazione della specificità di una prospettiva comunista. Per il Marx del Capitale, infatti, il rapporto D-D’, che filosoficamente potrà anche essere considerato un momento dell’alienazione umana, è invece soprattutto l’esteriorizzazione (e cioè il modo di manifestarsi e di funzionare) di rapporti sociali che restano celati nella loro stessa manifestazione, e che devono essere compresi e trasformati se si vuole arrestare l’assurda dinamica di continuo accrescimento del denaro16. Per arrestare questo movimento sarà quindi necessario andare alla radice dei rapporti capitalistici e intervenire, nelle maniere di volta in volta possibili, su quelle realtà fondamentali (la forma privatistica della pro-

16.  Questo mio ragionamento è in gran parte debitore del denso saggio di J. Rancière, Critica e critica dell’economia politica, tr. it. di C. Lo Iacono, in L. Althusser - É. Balibar - R. Establet - P. Macherey - J. Ranciére, Leggere il capitale, Mimesis, Milano 2006, in part. pp. 122 e ss.

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duzione e l’esistenza del lavoro salariato) che rendono necessaria l’esistenza del denaro come merce assoluta e come scopo sociale generale. Realtà fondamentali che restano escluse o comunque non ben definite da una generica teoria dell’alienazione. 4.1. Per sottolineare i rischi derivanti dal sostituire la critica marxiana con una “scienza filosofica”, aggiungeremo che non poche distorsioni sono prodotte, ad esempio, dall’uso estensivo della categoria filosofica di nichilismo, attuato da Preve in sede di analisi del capitalismo. Non appena si esca dall’invettiva o dall’ambito delle descrizioni sintetico-polemiche, dove l’accusa di nichilismo può cogliere efficacemente nel segno, ridurre il capitalismo a ciò equivale a ridurlo al solo strapotere del denaro. Il movimento della valorizzazione, la ricerca cieca del profitto per il profitto è indubbiamente nichilista perché non ha vero scopo e non ha limite, ed anzi pretende di superare tutti gli scopi diversi dall’arricchimento e tutti i limiti. Ma ciò non vuol dire la società capitalista nel suo complesso sia integralmente nichilista, sia una non-società, un aggregato anomico retto da incontri casuali e legami fittizi, e privo di qualunque nesso sociale profondo. In realtà Durkheim non sbagliava del tutto nel dire (pur con l’intento conservatore di dimostrare che ciascuno deve stare al suo posto) che l’esser membri di una società fondata prima di tutto sulla partecipazione di ognuno a un sistema di divisione del lavoro può costituire un legame obiettivamente più forte di un legame comunitario, giacché in esso è in gioco immediatamente la sussistenza materiale17. Né sbagliava nel dire che una società che si fondi sul contratto (invece che sullo status comunitario) non è affatto per ciò stesso il risultato precario di un facilmente revocabile accordo tra soggetti privati, considerato che nei contratti “non tutto è contrattuale” in quanto essi sono sottoposti a una densa regolamentazione che indica il peso di logiche sociali

17.  Cfr. É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, tr. it. di F. Airoldi Namer, Edizioni di Comunità, Torino 1999, p. 84.

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extra individuali18. Ma oltre a ciò, va detto che proprio per ottenere l’obiettivo della massima valorizzazione del capitale è comunque necessario costruire rapporti relativamente stabili sia nella produzione e circolazione dei prodotti che nella sfera statuale o comunque pubblica; è cioè necessario rispondere alle obiettive esigenze generali del lavoro, dell’organizzazione sociale, della crescita del sapere tecnico-scientifico. Che la forma capitalistica determini non solo dall’esterno ciascuno di questi ambiti è almeno per alcuni cosa nota, e falsifica, come lo stesso Preve ripete, l’idea vetero-comunista ma dura a morire per cui lo sviluppo capitalistico mette capo a forze produttive che domani potranno essere usate senz’altro dal proletariato per i suoi scopi. Tali forze produttive infatti non sono il soggetto della trasformazione, ma la materia prima su cui essa si esercita. Ciononostante non si può negare che esse siano fatte di rapporti sociali reali, e che sviluppino forme organizzative le cui caratteristiche capitalistiche devono essere in ciascun singolo caso distinte dalle oggettive esigenze sociali a cui esse rispondono, pena rifiuti globali del lavoro, dello stato, della scienza e della tecnica, a cui consegue in genere una rapida e servile accettazione. Dire che il capitalismo è assenza di rapporti induce a pensare che qualunque rapporto, anche tradizionale, anche gerarchico, sia meglio del capitalismo stesso e che quindi, in mancanza di credibili ipotesi comunistiche, sia bene comunque rifarsi a qualunque tipo di relazione comunitaria. Salvo poi scoprire che tale relazione è soltanto copertura ideologica, o peggio mero ornamento mediatico, di rapporti sociali capitalistici che restano tanto più saldi quanto più li si voglia ridurre al puro movimento del denaro.

5 Le argomentazioni addotte da Preve per dimostrare l’insussistenza del mito relativo alla naturale propensione rivoluzionaria del 18.  Cfr. ivi, p. 218.

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proletariato sono, purtroppo, assai deboli ed hanno un esito insoddisfacente. Dico purtroppo, perché l’indebito passaggio da un’analisi di classe a una politica di classe, ossia da giuste valutazioni sulle dinamiche attuali all’idea che il conflitto sociale possa oggi presentarsi da subito in forme esplicite di classe (se non addirittura nelle stesse forme di classe del passato) è uno dei motivi dell’attuale irrilevanza degli eredi dell’esperienza comunista. Una giusta presa di distanza da un classismo rozzo sarebbe dunque benvenuta, ma non nei modi scelti dal nostro. Peraltro la critica a quello che è uno dei punti più deboli della riflessione di Preve ci consentirà, paradossalmente, di mettere in rilievo quello che è invece uno degli aspetti potenzialmente più positivi della sua insistenza sul tema comunitario. Vediamo meglio. Preve ritiene che il proletariato non sia classe capace di guidare la fuoriuscita dal capitalismo, e a sostegno della sua tesi porta tre asserzioni: a) l’unico comunismo che tale classe ha costruito è quello, fallito e comunque ormai improponibile, di tipo russosovietico; b) il proletariato ha mostrato attitudini rivoluzionarie solo quando la sua formazione era recente, ed ancora era vivo il ricordo delle tradizioni contadino-comunitarie, dal quale si alimentava il rifiuto del capitalismo; c) a differenza della borghesia che plasma la società senza ricorrere a sovrastrutture politiche esso non è in grado, come classe, di organizzare alcunché senza affidarsi al partito e quindi ai suoi burocrati nichilisti. Diciamo subito, e rapidamente, che la prima asserzione dimostra semmai che, in modi che si possono approvare o meno, il capitalismo è stato comunque trasceso (e forse secondo Preve è stato trasceso sin troppo, eccedendo in egualitarismo e collettivismo) e che a rendere possibile ciò è stato proprio il proletariato industriale e rurale, unito agli strati semiproletari. Nessuna altra classe ha mai fatto nulla di paragonabile. Quanto alla seconda asserzione, ritengo che essa possa essere smentita empiricamente, ricordando, ad esempio, che le propensioni rivoluzionarie del proletariato tedesco nei cruciali anni successivi al ’17 erano rappresentate proprio nelle figure più lontane, professionalmente e generazionalmente,

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dalla vita contadina, e cioè dagli operai specializzati e da quelli più giovani19. Oppure ricordando che il grande ciclo di lotte di classe vissuto dall’Italia negli anni ’70 non ha visto come protagonisti soltanto operai di prima generazione, anzi; e che anche laddove ciò è avvenuto (come alla Fiat) le tradizioni localistico-comunitarie, se pure hanno fornito alle lotte valori e reti di solidarietà, si sono comunque successivamente fuse in entità collettive di ben altra natura. Che Preve consideri quelle lotte come irrilevanti mostra quanto poco fondata sia la sua critica “anti­operaia”, posto che è anche per rispondere a esse che il capitalismo ha dovuto mettere in moto meccanismi di varia natura che ancora segnano la nostra epoca, quali la frammentazione e precarizzazione del lavoro, la mutazione del sistema politico, la stessa adesione all’Unione monetaria europea20. Evidentemente per il capitalismo gli anni ’70 non sono stati irrilevanti. Ma, a parte le osservazioni di carattere fattuale, la seconda asserzione di Preve è invalidata da una considerazione di natura più generale. Come ha osservato Étienne Balibar la formazione di un nuovo proletariato sulle ceneri di precedenti e sovente “migliori” rapporti sociali non avviene solo al momento della nascita del capitalismo, ma è cosa che si ripete continuamente: più che di proletariato si dovrebbe infatti parlare di processo di proletarizzazione, ossia della costante trasformazione in salariati (o semisalariati) di lavoratori che prima non lo erano, o lo erano in modo parziale o meno intenso21. E in effetti lo stesso passaggio dalla condizione contadina a quella operaia non è esperienza remota e irripetibile, ma è un fenomeno che sta avvenendo ancor oggi ed in maniere assai rilevanti sotto i nostri occhi, ed in

19.  Cfr. G. Badia, Il movimento spartachista, Samonà e Savelli, Roma 1970, pp. 231-237; P. Broué, Rivoluzione in Germania. 1917-1923, tr. it. di S. Caprioglio e D. Usiglio, Einaudi, Torino 1977, p. 601 nota e passim. 20.  Ho cercato di dar conto di tutto ciò nel mio I senza patria. La solitudine degli italiani in un mondo di nazioni., Meltemi, Milano 2020. 21.  Cfr. É. Balibar, Prefazione, in É. Balibar - I. Wallerstein, Razza, nazione, classe. Le identità ambigue, tr. it., nota intr. di G. Baratta, Edizioni Associate, Roma 1991, p. 23.

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particolare in Oriente, dove flussi epocali di urbanizzazione continuano a strappare milioni di contadini alle campagne22. Anche questi lavoratori, come tutti quelli di recente proletarizzazione, siano o meno ex contadini, potrebbero ricavare dal ricordo del passato la tensione per sfuggire al proprio presente. Quindi, paradossalmente, seguendo alla lettera la tesi di Preve si potrebbe dire che proprio il secolo che da poco si è aperto sarà il secolo del proletariato rivoluzionario. 5.1. Ma non possiamo dirlo, o non possiamo dirlo in maniera perentoria, perché a questo punto emergono altre due considerazioni. Prima di tutto il carattere rivoluzionario di un soggetto sociale non può essere dedotto meccanicamente dalla sua funzione nella produzione e dalla sua posizione gerarchica: tutti questi elementi possono divenire storicamente attivi soltanto all’interno di una situazione rivoluzionaria, situazione che dipende soltanto in minima parte dalla natura o dalla prassi dei soggetti in questione, e deriva piuttosto dall’accumularsi di una serie di circostanze eterogenee messe in moto da una forte crisi economica, politica e militare del capitalismo. Inoltre, e qui iniziamo a riferirci alla terza asserzione di Preve, nessuna classe sociale è un soggetto rivoluzionario (ma nemmeno è un soggetto politico) in quanto classe. Le classi sono categorie sociologico-economiche che, al pari delle categorie filosofiche, non possono essere tradotte direttamente in politica, non possono essere insomma “soggettivate”. La politica è una sfera autonoma e specifica della prassi in cui si muovono e agiscono soggetti, appunto, politici, ossia entità distinte da quelle meramente economico-funzionali e formate da individui spesso aventi connotazione di classe omogenea o convergente, ma non mossi esclusivamente da interessi di classe,

22.  Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 83.

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bensì da passioni politiche condensate in un patrimonio ideale. Le classi e i loro interessi non sono i “veri” soggetti che gli organismi politici o le aggregazioni di movimento si limiterebbero a rendere efficaci o a rappresentare, ma sono invece proprio queste aggregazioni e questi organismi a costituire le classi (o quelle parti delle classi che ad essi si riferiscono) come soggetti e a definirne gli interessi immediati e storici. Quindi i soggetti politici, come ripete da tempo Valerio Romitelli, non sono semplici canali di informazione che connettono i cittadini e lo stato, e sono piuttosto veri e propri corpi, corpi politici collettivi organizzati attorno a progetti vissuti come cause23. E se oggi di tali corpi non vi è praticamente traccia è soprattutto perché la politica delle classi subalterne è momentaneamente sospesa a vantaggio di quella che si presenta come amministrazione e come tecnica, mentre invece è semplicemente la politica delle classi dominanti. Il più importante di tali corpi politici è certamente stato, e forse sarà di nuovo, il partito politico, ossia proprio l’organismo che Preve ritiene essere la dannazione del proletariato, il segno della sua strutturale inferiorità di fronte alla classe avversa, che sarebbe invece capace di autonoma e diretta azione politica. Ma in realtà anche i capitalisti, che certo per molti versi possono esercitare un’influenza politica basandosi sulla sola forza economica, per trasformare tale influenza in una stabile egemonia hanno bisogno di un’organizzazione politica specifica. Anzi di due: e cioè prima di tutto dello stato e poi anche del partito politico inteso come snodo di funzionamento dello stato stesso. Si prenda infatti ancora ad esempio la storia italiana. Qui, gli albori della vicenda unitaria (ma anche la precedente esperienza cavourriana) vedono la classe dominante organizzare proprio lo stato, o meglio ancora, il governo, come partito, facendone sia il luogo di unificazione delle proprie diverse componenti, sia un produttore di ideologia, sia l’agente determinante nello svolgimento e nell’esito delle elezioni

23.  V. Romitelli, L’amore della politica, Mucchi, Modena 2014, pp. 20-21 e passim.

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stesse. Ma lo stato non basta: il partito vero e proprio è comunque necessario sia per garantire legittimazione formale che per selezionare la classe dirigente24. Ed ecco che agli inizi i dominanti si organizzano in partiti che sono meri comitati elettorali, destinati a reperire veri mezzi d’azione solo attraverso il governo; successivamente, per rispondere alle organizzazioni socialiste, si danno anch’essi diverse forme di partito di massa, fortemente strutturate e non interamente dipendenti dallo stato, fino a tornare oggi, per ora, vista la momentanea scomparsa della minaccia “rossa”, a riedizioni tecnologiche del partito-comitato, e all’uso aggiornato del governo come partito. Come si vede, anche i dominanti hanno il problema dell’organizzazione politica: perché i dominati dovrebbero poterne fare a meno? In realtà l’esistenza di un partito (più o meno accentrato, più o meno plurale, più o meno capace di relazioni positive con altre associazioni popolari) è il modo principale di esistenza politica delle classi subalterne, e qualunque critica degli esiti trasformistici della vicenda dei partiti operai di massa non può rimuovere questo problema. Preve ragiona soltanto sul risultato di quella vicenda (burocrazia integratasi in maniera subalterna nello stato, militanti obbedienti o, dall’altro lato, estremisti déracinés…), ma non ne considera veramente né il processo né il punto di partenza. Il processo vede una trasformazione antropologica sia del partito che delle masse, dovuta proprio al relativo successo del partito nell’“aprire” lo stato alle masse stesse, nel corso di una lunga fase storica priva di situazioni realmente rivoluzionarie. A poco a poco sia il partito che le masse che ad esso si riferiscono si identificano idealmente e praticamente con lo stato, privandosi così di ogni politica autonoma, e quindi subendo senza saper veramente reagire la successiva rottura del com24.  Per tutto questo si veda A.M. Banti, Storia della borghesia italiana. L’età liberale, Donzelli, Roma 1996, pp. 1-22, 341. Quanto alla concezione cavourriana dello stato e del partito (sorprendentemente illuminante anche per l’oggi), si veda ad esempio M.L. Salvadori, Il liberalismo di Cavour, in U. Levra (a cura di), Cavour, l’Italia e l’Europa, il Mulino, Bologna 2011, pp. 71-111.

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promesso socialdemocratico ed anzi, per quanto riguarda il ceto politico di partito formato ormai a una vocazione “governativa,” divenendo ironicamente (e tragicamente) il principale artefice di tale rottura. All’origine di questo processo non c’è però il rigido partito burocratico privo di qualunque valore che non sia l’obbedienza cieca in vista d’un qualsiasi risultato che Preve prende di mira. C’è, nel bene e nel male un organismo che è anche comunità politica, sede di immediata identificazione e di solidarietà “automatiche”, luogo di elaborazione e conferma di valori senza i quali i soli interessi materiali di classe, invece di alimentare una prospettiva di trasformazione radicale, potrebbero condurre a un mero “collettivismo strumentale”25 e quindi all’alleanza utilitaristica e subalterna con l’una o l’altra frazione delle classi avverse. Il partito politico popolare è quindi tale solo se è anche comunità, comunità di militanti votati alla causa, militanti che (ancora Romitelli) vivono la politica «come qualcosa di assai prossimo a una passione amorosa»26, e che, come nota Franco Milanesi, si identificano con un’esperienza assurda dal punto di vista del puro calcolo costi/benefici, votata a trascendere lo stato presente delle cose e quindi segnata da una vera e propria fede27. Questo partito è morto, travolto dalle proprie stesse vittorie ottenute in tempo di pace. Ma era nato in tempo di guerra, guerra di classe e guerra mondiale. Se il ciclo del partito postbellico si è da tempo concluso, i venti di guerra di oggi potranno essere raccolti solo dalle vele innalzate da chi saprà costruire il sostituto attuale del partito comunista di massa.

25.  Mi approprio qui di una felice espressione usata dal compianto Leo Panitch nel suo Working-Class Politics in Crisis, Verso, London-New York 1986. 26.  V. Romitelli, L’amore della politica, cit., p. 11. 27.  Cfr. F. Milanesi, Militanti. Un’antropologia politica del Novecento, Punto Rosso, Milano 2010, pp. 16 e ss., 54.

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6 La demolizione del partito in quanto tale porta Preve a non vedere il luogo in cui il suo stesso discorso inizia a mostrare quello che a mio avviso è il suo vero valore. Inadeguata quando si presenta come modello sociale alternativo al capitalismo, la comunità diviene decisiva nella costituzione dei soggetti anticapitalistici, certo anche nella forma della mobilitazione di comunità locali, ma soprattutto per la sua capacità di stabilire legami durevoli e disinteressati all’interno di un’associazione. Certo, si tratta di una comunità che ha bisogno di una definizione diversa da quella offertaci da Preve, e ai nostri scopi è più utile la definizione weberiana per cui la comunità è essenzialmente «appartenenza soggettivamente sentita»28 e quindi, aggiungiamo noi, un’appartenenza che non dipende soprattutto dall’obbedienza a una legge o dall’interesse personale immediato. Considerata in tal modo, la comunità non si identifica più con una particolare forma di società passata o futura, ma è soprattutto un modo della relazione sociale, modo che, sempre secondo Weber, può sorgere anche all’interno di altre forme consociative, non immediatamente comunitarie: è questo, per Weber, il carattere «esorbitante» della comunità stessa29. Allora ciò che può apparire esteriormente come associazione meramente strumentale (un sindacato, un partito, ecc.) ci si può presentare anche nella veste della comunità, cosa che non garantisce affatto che sindacato e partito non si trasformino in peius o che la comunità non si limiti a celare questa trasformazione, ma che spiega il motivo della profonda adesione soggettiva a una causa e del carattere apparentemente “naturale” dell’aderenza dei singoli alle decisioni del gruppo. Siamo quindi, qui, all’incrocio tra l’associazione la comunità. Le classi dominanti tendono oggi da un lato a scindere queste due forme di aggregazione, riservando l’associazione razionale all’impresa e allo stato, ed offrendo in

28.  M. Weber, Economia e società, tr. it., intr. di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea 1995, vol. I, pp. 38 e ss. 29.  Ivi, vol. II, p. 40.

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sostituzione ai subalterni soltanto comunità puramente virtuali o fondate su presunti e scivolosi fondamenti etnici; dall’altro tendono a riconnetterle strumentalmente quando l’impresa o lo stato abbiano bisogno di un “supplemento d’anima”, e quindi debbano trasformarsi in comunità apparenti, dotate di una qualche apparente missione. Per rispondere a questo duro attacco al cuore stesso della loro autonomia politica le classi subalterne devono invece stabilire un loro proprio nesso tra associazione e comunità. E quindi prima di tutto darsi una libera associazione (libera, ossia tale da rompere la quotidianità ordinata del comando capitalistico), un’associazione che – conviene aggiungerlo – deve funzionare come un processo di lavoro politico finalizzato a ridurre le differenze di potere/sapere trai suoi aderenti e a prepararli tutti alla trasformazione e al governo della realtà. Ma tale associazione e tale processo di lavoro non possono esistere a lungo e rimanere culturalmente autonomi se non sono alimentati da un’adesione passionale e dalla conseguente appartenenza comunitaria. Allo stesso tempo la comunità deve perdere il proprio carattere ascrittivo e divenire comunità elettiva: non si appartiene ad essa per nascita ma perché la si è scelta. Ciò è chiaro nel caso di un partito; ma anche l’identificazione popolare in una nazione il cui ruolo, in una determinata fase, fosse quello di promuovere l’eguaglianza al proprio interno e l’equilibrio pacifico all’esterno, non dovrebbe avvenire meccanicamente per nascita, ma per la scelta consapevole e revocabile di promuovere e supportare una determinata politica. 6.1. Insomma, il partito politico è uno dei possibili luoghi attuali della comunità, uno dei più importanti. Non a caso la sua origine, nel corso dello sviluppo degli stati contemporanei, risponde a due problemi che derivano dal carattere inevitabilmente astratto e fittizio della cittadinanza nazionale: quello di dare forma autonoma e separata alle esigenze precedentemente tutelate dalle soppresse o declinanti strutture comunitarie, e quella di dare forma autonoma e separata alle esigenze delle vecchie e nuove classi popolari

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che si riconoscono solo parzialmente nei nuovi ordinamenti30. Qui la lealtà nei confronti del partito precede quella verso lo Stato. Qui si formano non semplicemente i soggetti della politica, ma anche quei moderni corpi intermedi che sostituiscono le antiche corporazioni non soltanto perché ne superano i ristretti confini, ma anche perché ne ereditano in parte la funzione di limite del potere di stato. E la questione dei corpi intermedi ci porta immediatamente al secondo lascito positivo della riflessione di Preve in tema di comunità, lascito che riguarda il modo di approssimarsi al giudizio sul comunismo storicamente esistito (ed esistente) e più in generale sugli esiti storici della Rivoluzione russa. Un giudizio che Preve formula, in realtà, sulla base della valutazione hegeliana della Rivoluzione francese contenuta in quelle pagine della Fenomenologia che sono dedicate al rapporto fra libertà assoluta e Terrore31, pagine indimenticabili e affilate come lame. È legittimo giudicare il comunismo sulla base di ciò? Ossia sulla base di quella che lo stesso Preve definisce una critica anticipata al comunismo stesso? Vediamo. Prima di tutto, se ci è concesso semplificare al massimo il testo hegeliano, diremo che in quelle pagine è descritto l’effetto che la libertà produce sulla coscienza una volta che questa, dopo l’Illuminismo, ne abbia fatto per la prima volta piena esperienza. La libertà qui si presenta alla coscienza come libertà assoluta, espressione concentrata di quella volontà generale che è a sua volta espressione del lavoro totale, della sostanza indivisa di cui consta ormai la società. Di fronte a tale libertà ogni oggetto assume la forma dell’utile manipolabile a piacere, e la stessa società viene ridotta a mera cosa priva di ogni soggettività, cosicché da essa scompaiono tutti i corpi intermedi che prima l’avevano costituita e che sono, per Hegel, uno dei modi in cui necessariamente il “tutto” si organizza. Di più: secondo Hegel il carattere assoluto di questa libertà le impedisce

30.  Come si può desumere dalla lettura di P. Pombeni, Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea, il Mulino, Bologna 1985. 31.  Cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., pp. 783-799.

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di creare effettivamente qualunque realtà ad essa esterna, giacché nella concezione del filosofo ogni produzione di oggettività da parte del soggetto costituisce comunque anche un vincolo ulteriore per il soggetto stesso. E così, quando la libertà si presenta come assoluta, essa è indotta a non esprimersi in nessuna opera particolare, ma solo nella negazione assoluta e continua, nella «furia del dileguare». La vera opera della libertà assoluta è soltanto la morte, e quindi il Terrore. Pagine imprescindibili, come si vede, che però devono essere lette appunto come pagine filosofiche, che possono favorire (oppure ostacolare…) la riflessione storiografica e politica, ma non sostituirla. Storiograficamente è azzardato vedervi un riassunto credibile dell’esperienza giacobina (e tantomeno una prefigurazione di quella bolscevica e stalinista)32; politicamente è impossibile non vedervi la rimozione della necessità della rottura rivoluzionaria (anche se dal testo hegeliano sorge di fatto anche l’opportuno invito a considerare, della rivoluzione, non solo il momento aurorale, ma anche il nesso rottura/assestamento). Insomma è ovvio che queste pagine possono andare ad arricchire la sterminata biblioteca del pensiero contro­rivoluzionario. Ma, considerate dal punto di vista squisitamente filosofico, esse indicano l’altezza del livello concettuale che deve essere raggiunto da un pensiero che voglia ragionare su rivoluzioni passate e future, perché eventi del genere possono essere pensati davvero soltanto all’interno di una riflessione che sia anche, e al sommo grado, filosofica, ossia capace di definire in forma astratta l’essenza di una determinata prassi umana. Bene ha quindi fatto Preve ad appoggiarsi a Hegel,

32.  M. Vovelle accenna alla presenza delle società popolari giacobine che a suo dire costituivano in realtà, assieme alle municipalità e ai comitati di sorveglianza, proprio una rete di organismi intermedi, cfr. I giacobini e il giacobinismo, tr. it. di C. Patanè, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 21. Addirittura lo stesso F. Furet (insieme a D. Richet) sostiene che la centralizzazione statale spesso attribuita ai giacobini fu in realtà opera proprio di quel Napoleone che secondo Hegel inaugurò la restaurazione dei corpi intermedi, cfr. La Rivoluzione francese, tr. it., Laterza, Roma-Bari 1980, vol. I, p. 250.

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e anche a riprendere, su questo punto, la questione dei corpi intermedi. Così facendo si è posto obiettivamente all’altezza della situazione. È infatti a mio parere proprio il carattere monocratico del potere, ossia l’assenza o l’inadeguatezza di corpi intermedi all’interno dell’esperienza comunista (o quantomeno di quella sovietica) a poter spiegare, almeno in parte, i motivi di un crollo che nessuna istituzione, di vertice o di base, è stata in grado di contrastare. Ma a differenza di Preve bisogna pensare che questi corpi non dovrebbero essere costituiti dalla famiglia o dalla società civile declinate à la Hegel, bensì da quelle comunità politiche elettive di cui si è detto sopra. E a differenza di Hegel bisogna dire che forse la cifra filosofica del crollo del comunismo sovietico non sta nel fatto che la libertà assoluta (qui: il partito) abbia rifiutato di dar vita a una qualunque realtà oggettiva esterna a sé, ma, al contrario, nel fatto che essa abbia creato una realtà oggettiva talmente pesante ed inglobante da identificarsi poi completamente con essa e quindi impedirsi di riguardarla criticamente dall’esterno. Si tratta, in altre parole, della perniciosa identificazione fra partito e stato, della mancata dialettica trai due termini, dell’assenza di altri poli sociali e politici relativamente autonomi capaci di sostituirsi al partito e quindi allo stato nel momento della crisi. Se, per consenso e per contrasto, la lettura dell’Hegel di Preve ci può essere utile non già a conoscere pienamente la realtà del comunismo e le sue prospettive (ché per questo è necessario uno studio pianificato e di lunga lena di cui non si odono nemmeno i vagiti), ma a indirizzare la ricerca su di esse, lo è proprio in questo: nella consapevolezza che ogni impresa politica che in futuro si richiamerà in qualche modo al comunismo, dovrà preoccuparsi fin dall’inizio di portare nei propri organismi politici la pluralità e la contraddizione, dividendo lo stato e il partito l’uno dall’altro e ciascuno in se stesso, e dividendo entrambi dalle altre istituzioni popolari. I movimenti proletari, socialisti e comunisti non sono e non sono mai stati, di fatto, quella ungeteilte Substanz, quella sostanza indivisa che l’hegeliana libertà assoluta pretendeva di esprimere, ma una realtà inevitabilmente eterogenea, la cui eterogeneità può essere un limite nel momento critico della rivo-

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luzione (quando, per dirla con Machiavelli, dovendo fondare un nuovo stato bisogna essere «uno solo»33) ma è una risorsa essenziale nel successivo momento della costruzione (quando, sempre a detta del Segretario, per mantenere un nuovo stato è necessario essere «molti»34). Ed è dalla matura assunzione dell’inevitabile contraddizione tra unità e differenziazione dei soggetti di una rivoluzione che può ripartire, se possibile, un discorso capace di dirsi rinnovatore o erede del comunismo. Agli inizi di queste mie note mi sono riferito a uno dei motti preferiti da Preve. Concludo con un altro motto del nostro: «Chi pensa in grande fraintende in grande». Preve ha pensato in grande e ha accettato di guardare in faccia il negativo di entrambi i contendenti del conflitto novecentesco, capitalismo e comunismo. Quanto abbia poi frainteso e quanto no, è cosa che non può essere giudicata solo da me. Di certo, ci dobbiamo augurare altri fraintendimenti pari ai suoi, se questi ci danno comunque la possibilità di confrontarci seriamente col reale.

33.  N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, in Id., Opere, a cura di C. Vivanti, Einaudi-Gallimard, Torino 1997, vol. I, pp. 223-225. 34.  Ivi, pp. 315-320.

Manifesto filosofico del comunismo comunitario

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I Introduzione Una sola noce nel sacco non fa rumore

1. Nel 1848 Marx ed Engels scrissero il famoso Manifesto del Partito Comunista, che passò sotto silenzio in quel momento storico, ma che poi divenne giustamente molto famoso. Lo divenne certamente per i suoi meriti di tipo soprattutto letterario (Francis Wheen, S.S. Prawer), fatto ovviamente negato dagli ideologi fanatizzati, che odiano lo stile letterario come certi preti odiano il sesso, e che in comune con i preti ritengono che la virtù passi attraverso la sciatteria e la sofferenza. Ma lo divenne soprattutto perché, circa quaranta anni dopo, si creò un movimento storico reale interessato a valorizzarlo. In caso contrario, il destino di ogni saggio storico e filosofico è quello di ricadere nell’anonimato e di essere riassorbito nell’incredibile quantità di testimonianze scritte e parlate. 2. Riferirsi al Manifesto del Partito Comunista del 1848 non è certamente un atto di megalomania. Sono e siamo perfettamente coscienti della nostra modestia teorica, intellettuale e politica. Marx ed Engels sono prodotti rarissimi, che i secoli passati ci tramandano con estrema parsimonia. E tuttavia il riferimento al Manifesto indica subito una posizione teorica e politica. Ci dichiariamo infatti allievi e continuatori dello spirito anticapitalistico radicale di quei lontani progenitori, e ci inseriamo nella continuità ideale

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delle loro intenzioni, anche se ovviamente il secolo e mezzo che ci separa da loro ci dà il diritto di fare un bilancio critico di molte loro posizioni. I nani sulle spalle dei giganti possono vedere più lontano di loro. Noi ci riconosciamo in questo vecchio detto medioevale. 3. Quando nel 1848 Marx ed Engels scrissero il Manifesto del Partito Comunista un partito comunista non esisteva ancora, e non sarebbe mai esistito fino al 1918. Per Marx ed Engels “partito” non significava organizzazione centralizzata (Lenin) e militarizzata (Stalin), ma significava “tendenza storica”, nel senso di corrente culturale e politica. Il loro uso del termine “partito” non era quello di Lenin, ma era quello derivato indirettamente dall’illuminismo francese del Settecento e dall’idea del «proprio tempo storico appreso nel pensiero» (Hegel). Questo non significa che essi contrastassero la formazione di vere e proprie organizzazioni. Al contrario. Essi erano ampiamente favorevoli al principio dell’organizzazione politica (vedi la loro partecipazione attiva alla fondazione e all’organizzazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, o Prima Internazionale, nel 1864). E tuttavia, sia Marx che Engels non pensavano che l’organizzazione in quanto tale stesse al di sopra di tutto e fosse un valore in sé indipendentemente dalla sua base teorica, dalle sue scelte tattiche e dalle finalità strategiche. È questo un grande insegnamento da valorizzare, in un momento storico in cui il crollo della vecchia teoria ha lasciato indietro un vero e proprio deserto colturale, malamente riempito da un attivismo fine a se stesso destinato inevitabilmente a cicli di “movimentismo” sempre più brevi. 4. Non a caso, una buona parte del Manifesto del Partito Comunista del 1848 è dedicata alla critica delle varie forme di “socialismo” e di “comunismo” da cui Marx ed Engels intendono “demarcarsi”. In questi casi il pericolo di ingenerosità e di settarismo è sempre in agguato. E tuttavia, non si può fare la frittata senza rompere le uova. Marx ed Engels ci insegnano che il momento della demar-

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cazione e della “scissione” non può essere purtroppo evitato. Lo stesso Antonio Gramsci, che pure ruppe con Amadeo Bordiga in nome di una tattica dell’unità (più esattamente, della tattica del cosiddetto “fronte unico” alla base con socialisti e riformisti), e diventò addirittura direttore di un quotidiano chiamato «L’Unità», scrisse una vera e propria apologia ragionata dello “spirito di scissione”. Prima dell’aggregazione unitaria, infatti, è impossibile evitare la demarcazione e la scissione. Dipende ovviamente da chi ci demarca, con quali motivazioni ci si demarca, e da chi ci si scinde, e con quali motivazioni ci si scinde. 5. Nel nostro caso, richiamarsi al comunitarismo, come noi facciamo, significa entrare in un salone già ampiamente occupato, in cui purtroppo non potremo sederci senza far spostare qualcun altro. So bene che tutto questo nella vita civile è considerato (ed è) scortese e maleducato, ma purtroppo anche le idee sono sottoposte alla dura concorrenza darwiniana. La sopravvivenza è infatti destinata al più “adatto” (fittest), e il più adatto, nel mondo delle concezioni del mondo, è il profilo storico-filosofico maggiormente in grado di rispondere a bisogni reali, che nascono nella vita quotidiana dell’individuo medio, e che in quanto tali non possono essere intercettati né dai marginali assoluti, che richiedono assistenza e non visioni del mondo, né dalla supponente e parassitaria casta degli intellettuali, gruppo sociale che oscilla dalla autoreferenzialità narcisistica al riferimento mediato dalle esigenze di legittimazione spirituale delle oligarchie dominanti. 6. Il nostro discorso comunitarista, soltanto impostato e non ancora realmente elaborato e sistematizzato, deve allora demarcarsi e scindersi non soltanto dal nostro opposto polare, e cioè l’individualismo come profilo identitario-ideologico della moltitudine capitalistica dei produttori e dei consumatori, ma anche e soprattutto da tutti coloro che si rifanno formalmente al nostro stesso “ismo”, e cioè all’ismo comunitarista. È infatti evidente che la no-

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stra opposizione all’individualismo capitalistico postborghese e postproletario (è questa la formulazione che personalmente propongo) verrebbe fraintesa e quindi cancellata se non facessimo preventivamente chiarezza sulla nostra demarcazione e scissione da “ismi” comunitaristi che ci sono non solo estranei e indifferenti ma anche ostili. In primo luogo, esiste un presunto “comunitarismo” che in realtà è una forma di localismo xenofobo e addirittura talvolta razzista. In Italia questo localismo xenofobo e addirittura razzista, talvolta ampiamente giustificato dalla corruzione del ceto politico parassitario romanocentrico, ha recentemente trovato un “cappello culturale” nell’occidentalismo e nella islamofobia, trascinando i valligiani bergamaschi e veronesi nella strategia islamofoba dell’impero americano e del sionismo. L’ignoranza e la buona fede non sono scusanti sufficienti. In politica l’idiozia è un crimine. In secondo luogo, esiste un “comunitarismo” universitario anglosassone all’interno di una commedia accademica dell’arte che vede opposti i cosiddetti “comunitaristi” e i cosiddetti “liberali”. Si tratta di una simulazione largamente complementare, in quanto tutti i professori universitari dei due schieramenti sono in genere del tutto interni all’impero americano. Il “comunitarista” Richard Rorty difende il relativismo comunitario all’interno della visione USA-Liberal del mondo. Il “comunitarista” Michael Walzer ha entusiasticamente difeso la criminale invasione di Bush contro l’Iraq nel 2003. Questo “comunitarismo” è una simulazione accademico-universitaria del tutto interna alla tribù occidentalistica e alla legittimazione dell’impero americano. È del tutto evidente che noi non abbiamo assolutamente nulla a che farci. In terzo luogo, infine, esiste un comunitarismo tradizionalistico e interclassistico che fa l’apologia delle cosiddette “società organiche”, in cui la divisione in classi sociali c’era, ed era addirittura a volte rigida e castalizzata, ma in cui questa divisione era consacrata attraverso una legittimazione religiosa e (spesso solo formalmente) solidaristica. Questi comunitaristi feudali restano l’equivalente

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di coloro che Marx ed Engels nel 1848 connotarono come socialisti “feudali”. Sarebbe possibile cercare e trovare altre tipologie “comunitarie” da cui scindersi e demarcarsi, ma per ora questa triplice segnalazione è sufficiente. Ciò che conta, in questa introduzione, è non lasciare equivoci: noi siamo irriducibilmente avversi al localismo razzista e islamofobo, a ogni versione dell’occidentalismo imperiale, a ogni simulazione universitaria di educato contrasto di liberals e di comunitarians, a ogni nostalgia di tradizionalismo organicistico feudale, eccetera. 7. Un sacco pieno di noci fa rumore soltanto se le noci sono tante. Un sacco che porta una sola noce non fa rumore. Il modello sociale e culturale del capitalismo è un ammasso di miliardi di sacchi, ognuno dei quali contiene una noce sola. Che la noce sia grossa o piccola, che sia di destra o di sinistra, che sia omosessuale o eterosessuale, che sia bianca, nera o gialla, che sia favorevole o contraria a trovarsi nel sacco, eccetera, tutto questo non è importante per il proprietario dei sacchi. Nel capitalismo, infatti, ciò che conta non è tanto ciò che l’individuo pensa o ha in testa, quanto il fatto che ogni individuo si relazioni individualmente con il potere d’acquisto, il valore di scambio e la merce. Per questa ragione la strategia culturale fondamentale è una strategia di individualizzazione, ma questo non implica affatto che la cosiddetta “totalità” non esista più. Solo il gruppo più imbecille degli intellettuali, cioè gli intellettuali-filosofi universitari, pensa veramente che la totalità non esista, e sia solo un residuo metafisico premoderno. La totalità ovviamente esiste, e consiste nella riproduzione sistemica unitaria del sistema capitalistico. Questa totalità, tuttavia, si manifesta nell’apparenza della molteplicità infinita di individui frammentati al livello della produzione e artificialmente collegati al livello del consumo. Questo individuo-noce, appunto, non fa rumore, perché ogni individuo-noce sta nel suo sacco. Chi non capisce questo semplice

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esempio, è meglio che lasci perdere il problema del comunitarismo. 8. Secondo l’analisi di Marx, a tutt’oggi ancora insuperata nel­ l’essenziale, la riproduzione complessiva del capitalismo è caratterizzata dall’unità di alienazione e di sfruttamento. I due concetti in ultima istanza si identificano, perché lo sfruttamento del lavoro sarebbe impossibile se il lavoro non fosse alienato. Per impedire la chiara comprensione di questo dato essenziale l’intera ideologia dominante utilizza in particolare quattro concetti “fumogeni”, che hanno lo scopo di occultare questo semplice fatto, i concetti di Complessità, Mercato, Modernità e Tecnica. Il mondo è semplice o complesso? Posta così, la domanda è senza risposta. È meglio distinguere subito fra il fenomeno e l’essenza, la superficie e la profondità. In superficie, e cioè nella superficie dei fenomeni, il mondo è indubbiamente “complesso”. Nella profondità della sua essenza, il mondo è semplice, e la riproduzione capitalistica si basa sulla “semplice” compresenza di alienazione e sfruttamento. Il mercato è soltanto una forma storica di scambio di prestazioni e di oggetti. Per alcuni aspetti funziona meglio del precedente “dono”, per altri funziona peggio. Quello che è certo, è che non è affatto una forma astorica di riproduzione sociale basata sulla cosiddetta «natura umana» (David Hume). La teoria del capitalismo come coronamento del funzionamento della natura umana è la base dell’ideologia capitalista. Alcuni sciocchi pensano che il modo migliore di opporsi alla ipostatizzazione capitalistica della natura umana sia il sostenere che la natura umana non esiste. Errore. Marx non è caduto in questo errore, e ha parlato di «ente naturale generico» (Gattungswesen), e ha in proposito ripreso opportunamente contro Hume e Smith la vecchia antropologia filosofica di Aristotele, per cui l’uomo è un animale politico, sociale e comunitario (politikòn zoon), un animale capace di linguaggio, ragione e calcolo delle corrette proporzioni sociali di ricchezza e

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potere (zoon logon achon), e infine un animale capace di portare all’atto le proprie potenzialità (dynamei on). La cosiddetta “modernità” è un concetto-fantasma che deve sostituire e occultare il concetto di modo di produzione capitalistico. Il pensiero delle oligarchie dominanti una questa paroletta indeterminata (ognuno, infatti, si sceglie sempre arbitrariamente le modernità che vuole) per fare passare le proprie unilaterali compatibilità. Si tratta di una paroletta che sarebbe necessario sospendere, come la paroletta “postmodernità”. Se appena si va sotto la superficie, i moderni (Habermas) e i postmoderni (Lyotard) sono totalmente d’accordo nell’insuperabilità del capitalismo. Il conflitto fra moderni e postmoderni è simulato come il conflitto tra comunitari e liberali. Chi entra in un conflitto simulato e lo prende sul serio ha già perduto prima ancora di giocare, come chi si siede a un tavolo da gioco truccato. Mai giocare con carte segnate. La cosiddetta “tecnica”, da non confondere con gli apparati tecnologici frutto dell’applicazione industriale della ricerca scientifica, è stato originariamente un concetto prodotto da Martin Heidegger per spiegare la sua interpretazione (da me non condivisa) della storia della metafisica occidentale. Oggi viene usato dalla tribù accademica per connotare la fine (capitalistica) della storia. Chi intende sostenere un comunitarismo rinnovato utilizzando in modo acritico categorie come Complessità, Mercato, Modernità e Tecnica, e cioè i quattro fondamenti ideologici del profilo teorico delle oligarchie dominanti, deve essere fermamente consigliato a occuparsi soltanto di tecnica calcistica. 9. Apriamo una rivista femminile per ceto medio semicolto con vaghe inquietudini “sociali”. Una signora chiede al vate-guru Umberto Galimberti che cosa si può fare per “fare rumore” e non essere una noce in un sacco vuoto. Il guru le risponde, e mi scuso se lo cito letteralmente: Secondo Günther Anders, noi siamo tornati a essere quello che siamo sempre stati, fino all’intermezzo che si è protratto per alcu-

48 ni millenni, e cioè esseri astorici […] oggi non è più possibile che le noci facciano rumore […] al nostro posto di soggetti abbiamo collocato la tecnica […] una entità senza memoria storica, perché non dispone di altra memoria che non sia quella delle proprie procedure […] le rivoluzioni sono possibili solo in un contesto antropologico, quando a fronteggiarsi sono due volontà, e cioè quella del servo e quella del signore, non quando la controparte è l’assoluta razionalità della tecnica cui l’uomo (almeno quello occidentale) non può rivoltarsi perché per intero ne dipende. Mi spiace non poterle dare una parola di speranza, ma la storia come tutti noi finora l’abbiamo concepita, con l’età della tecnica è davvero finita. (Supplemento al quotidiano «la Repubblica», 18/07/2000)

Ho scelto fra mille altre possibili questa affermazione apocalittica del pagatissimo guru Galimberti perché essa riassume il punto di vista contro il quale noi ci opponiamo, e cioè la diagnosi della fine capitalistica della storia fondata sull’intrascendibilità del binomio Economia-Tecnica. Questa diagnosi deriva da una particolare elaborazione del lutto delle giovanili illusioni estremistiche della generazione che oggi ha dai cinquanta ai settanta anni, che essendo al potere negli apparati politici, mediatici e universitari ha la facoltà di selezionare una generazione precocemente corrotta di nipotini-cagnolini dai venti ai quaranta anni. Dobbiamo quindi accettare un certo minoritarismo, ma dobbiamo anche evitare l’atteggiamento rinunciatario di chi si crogiola narcisisticamente nell’estremo minoritarismo testimoniale. Dobbiamo essere una minoranza che parla lo stesso linguaggio delle potenziali maggioranze future, escludendo soltanto i corrotti intellettuali sessantenni e i loro più giovani nipotini-cagnolini. 10. Questo manifesto storico-filosofico del partito comunitarista è strutturato in sette parti, distinte e indipendenti, ma ovviamente interconnesse in un solo profilo unitario. Non è assolutamente necessario condividere ogni singolo passaggio. Non si tratta di un documento politico su cui vengono selezionati gruppi dirigenti. Siamo circondati da partiti e da partitini che sottomettono le interpretazioni globali del mondo alle tattiche di posizionamento

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del ceto politico. Si tratta di cogliere lo spirito, l’intenzione e la prospettiva. Chi scrive non è più giovane, ed è inevitabile che sia ispirato dalla cultura e dalle ossessioni della sua generazione politica. Raccomando quindi al lettore di concepire questo testo come integrabile da nuovi stimoli assenti nel mio testo e come migliorabile da contributi ulteriori. Del resto, chi si appella al comunitarismo deve anche presupporre che la “comunità” di cui fa parte intervenga nella discussione in modo attivo. Il dia-logo presuppone che il logos passi attraverso (dià) i partecipanti alla discussione. Nello stesso tempo, il firmare un testo, lungi dall’essere una forma di individualismo, è al contrario un atto di onestà e di modestia. Tutti coloro che firmano un documento anonimo infarcito di “noi”, laddove è uno solo a scriverli, sono interni a una falsa coscienza illusoriamente “collettivistica”, come se l’io, chiamandosi “noi”, potesse in questo modo abolire l’inevitabile singolarità che lo costituisce. Ma, appunto, il nostro comunitarismo (e qui uso la paroletta “nostro” a ragion veduta) è un comunitarismo solidale di libere individualità, che sostiene la legittimità dell’universalità attraverso il riconoscimento della singolarità e della particolarità. 11. Perché iniziare con un capitolo intitolato La scuola di Marx? Si tratta forse di un fatto casuale, o di una proclamazione ideologica identitaria, o di una strizzatina d’occhio al vecchio e sterile identitarismo comunista, ormai ultraminoritario? Niente di tutto questo. Si tratta di ben altro, che verrà chiarito nel capitolo stesso, e che qui in questa introduzione viene semplicemente anticipato per onestà verso il lettore. In primo luogo, si tratta di “posizionare” idealmente il nostro comunitarismo per demarcazione e scissione da altri consimili. Il nostro comunitarismo non si oppone a un altro “ismo”, chiamato comunismo, ma si autointerpreta come una riforma di quest’ultimo interna alla sua «storia ideale eterna», per dirla con Giambattista Vico. Contro gli sciocchi che dicono che il comunismo è oggi “indicibile”, perché il crollo dell’esperimento di ingegneria sociale

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dispotica chiamato “comunismo storico novecentesco” lo avrebbe fatto diventare improponibile alle orecchie pie e politicamente corrette, noi rivendichiamo il diritto di interpretare in modo originale e diverso questo termine, che non tocca a noi abolire o sostituire finché non saranno le grandi correnti storiche a farlo. Per ora, nel mondo e non nella gora stagnante del politicamente corretto di sinistra della provincia italiana, il termine è ancora mantenuto da forze storiche positive di tipo anticapitalistico, e fino a quando questo durerà, non saranno certo piccoli gruppi di intellettuali autoreferenziali, narcisisti e sapientoni a farlo. In secondo luogo, Marx era certamente un comunista, anche se tutta la marxologia universitaria politicamente corretta e moralmente corrotta lo interpreta come semplice critico morale della globalizzazione neoliberale, e/o come autorevole consulente neokeynesiano contro gli “eccessi” della speculazione finanziaria. Le generazioni future giudicheranno certamente con estrema severità una generazione intellettuale che sceglie di Marx soltanto quello che è compatibile con i profili culturali delle oligarchie. Ma noi seguiremo invece la strada della sincerità e della radicalità politica e culturale. Noi ci poniamo nella scuola di Marx perché condividiamo sia la sua diagnosi del capitalismo come società dell’alienazione umana e dello sfruttamento classista, sia dell’intenzione politica comunista. Se poi qualcuno ci dirà che il vecchio comunismo testé defunto è da ridefinire radicalmente, lo ringrazieremo e lo riassicureremo che ci abbiamo già pensato autonomamente da soli. In terzo luogo, perché “scuola di Marx” e non semplicemente “marxismo”? Qui le parole pesano. Il pensiero marxiano è quello di un uomo e di un caposcuola vissuto tra il 1818 e il 1883, pensiero che per sua natura è rimasto incompiuto e non sistematizzato e coerentizzato, e non poteva esserlo per sua propria natura, in quanto idealmente coestensivo con l’intera temporalità del modo di produzione capitalistico. Il “marxismo” è l’insieme di una successione di formazioni ideologiche, il cui primo modello, elaborato congiuntamente da Engels e da Kautsky nel ventennio 1875-1895,

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fu determinato dal codice positivistico e deterministico di scienza, dall’illusione del futuro prossimo crollo della produzione capitalistica, e infine dall’inevitabile primato del concetto di progresso delle forze produttive e della supposta (ed errata) incapacità della borghesia di sostenerne lo sviluppo. Questo codice “marxista” deve essere abbandonato, dopo averlo storicizzato e criticato. Con il termine “scuola di Marx”, ispirato al modo in cui gli antichi greci battezzavano le scuole filosofiche (scuola di Platone, scuola di Aristotele, scuola di Epicuro, eccetera), ho voluto da un lato demarcarmi dal termine “marxismo”, e dall’altro affermare la continuità del pensiero di Marx con le sue radici greche, contro ogni sua lettura “futuristica” e inutilmente “nuovistica”. Il punto fondamentale, comunque, resta quello della esplicita e rivendicata connessione del comunitarismo con il comunismo. Il fatto che, per ragioni identitarie opposte e complementari, questo faccia storcere il naso a molti comunitaristi di “destra” e a molti comunitaristi di “sinistra” è certo spiacevole e irritante, ma non è una ragione per non affermare il nostro sovrano diritto a dare la nostra interpretazione della connessione che lega sia i concetti che le pratiche. 12. Definire un “ismo” è cosa impossibile, perché per sua propria natura la definizione è qualcosa di statico e di formale. Ogni definizione, per sua stessa natura, non può che essere provvisoria, correggibile e rivedibile. E tuttavia mi sarebbe sembrato opportunistico non cercare almeno di dare alcune coordinate di massima alla definizione non del comunitarismo in generale, ma della nostra concezione di comunitarismo. Il comunitarismo è una teoria e una pratica del rapporto fra la singolarità, la particolarità e l’individualità, da un lato, e l’universalità, dall’altro. Esso, pertanto, rifiuta la concezione per cui l’universalità possa essere conseguita e raggiunta direttamente dall’individuo senza alcuna mediazione comunitaria. Nella storia della filosofia si tratta della posizione a suo tempo sostenuta da Hegel contro

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Rousseau e da Marx contro il “robinsonismo” di Smith, robinsonismo che fa da anticamera al cosiddetto “feticismo delle merci”. La comunità è quindi la mediazione necessaria del rapporto fra individualità e universalità. Il cosiddetto universalismo occidentale è in realtà un universalismo falso di una arrogante tribù, che sostiene che l’universale è coglibile direttamente da un insieme di individui atomizzati. Lo stesso relativismo nichilistico, apparentemente opposto all’universalismo, è un momento interno a questo arrogante programma. Il punto di vista comunitario, quindi, si oppone sia all’utopia dell’universalismo individualistico privo di mediazioni comunitarie sia al comunitarismo localistico, organicistico e tribale, che erige i pregiudizi in “tradizioni”, e chiama appunto “tradizioni” questi pregiudizi stessi. 13. Il nostro comunitarismo è pertanto un’autocritica sistematica dell’esito individualistico della storia della tribù occidentale, una tribù fra le altre che il sorgere fortemente casuale e aleatorio del modo di produzione capitalistico ha fatto diventare un (per fortuna provvisorio, e forse già declinante) modello cosmopolitico globalizzato. In quanto membri di questa tribù occidentale, prima di cominciare a fare una critica esterna ad altre culture e tradizioni (mondo islamico, India, Cina, eccetera), modestia e cautela vogliono che si inizi da una autocritica. Fatta una autocritica interna diventa poi legittimo fare una critica esterna, contro ogni relativismo aprioristico. La formazione ideologica attualmente dominante all’interno dei gruppi intellettuali della tribù occidentale è il cosiddetto Politicamente Corretto. Per questa ragione se ne darà una sintetica interpretazione all’interno del quarto capitolo. 14. Nessuna ricostruzione del passato storico è mai definitiva. Ogni nuova generazione ha sempre diritto a rivedere, rinnovare

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e “revisionare” i giudizi e i bilanci forniti dalla generazione precedente. I padri hanno diritto al rispetto dei figli, ma non hanno nessun diritto di “trasmissione” di idee, opinioni e concezioni del mondo. Ogni bilancio del passato è sempre per sua natura provvisorio. E tuttavia, se si ritiene opportuno difendere e proporre un nuovo “ismo” (in questo caso il comunitarismo) non è possibile evitare l’esplicitazione pubblica del nostro modo di considerare il passato. Per esempio, è intollerabile l’accettazione passiva del bilancio ideologico del Novecento come secolo orrendo del totalitarismo, laddove il Novecento, sia pure in modo nel complesso fallimentare, ha almeno tentato di sottrarre la politica all’abbraccio mortale della dismisura economica. La demonizzazione del Novecento, insieme con il connesso concetto storiografico-politico di totalitarismo, sono “pezzi ideologici” della visione del mondo dell’oligarchia capitalistica di oggi. Non bisogna farsi illusioni. Solo i gattini ciechi si fanno illusioni sul mondo esterno. Ogni proposta di comunitarismo, non importa quanto dialogica, cauta e argomentata, troverà oggi di fronte a sé muraglie dotate di cocci di bottiglia. Si dirà che si vuole riproporre la comunità (Gemeinschaft) contro la società (Gesellschaft). Si dirà che il comunitarismo è la concezione del mondo dei populisti, dei nazisti e dei fascisti. Si dirà che siamo oggi nell’epoca del multiculturalismo e della fine delle nazioni, pure e semplici “comunità immaginarie”. Si dirà che il comunitarismo è una nostalgia medioevale, organicistica e antiscientifica. Non ci saranno risparmiate diffamazioni. La casta degli intellettuali è ignorante e feroce, e oggi il rompighiaccio della visione individualistica e globalizzata del mondo. Chi vuole difendere il comunitarismo deve sapere che se si fa “inchiodare” ai panorami ideologici degli ultimi due secoli (grosso modo: dal pensiero della Restaurazione del 1815 allo scontro triangolare novecentesco tra liberalismo anglosassone, comunismo sovietico e fascismo tedesco) ha perso in partenza, perché l’avversario gioca con carte truccate. È allora necessario “sparigliare” le carte dell’avversario, e mostrare con la

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dolce forza dell’argomentazione che il problema del comunitarismo è alle origini del pensiero occidentale e della stessa filosofia greca, sia pure ovviamente in forma diversa da oggi, e che percorre l’intera storia dell’occidente come sua autocritica immanente, fino a Hegel e naturalmente fino allo stesso Marx. 15. Il comunitarismo gioca gran parte delle sue carte sul problema del bilancio del comunismo storico novecentesco, in particolare sul problema cruciale delle cause della sua sconfitta. Il punto chiave sta nel riuscire a sostenere razionalmente, e non in modo ideologico-apodittico, che il comunismo storico novecentesco è stato completamente legittimo, e nello stesso tempo la forma che ha storicamente assunto non è in nessun modo riproponibile, e non solo (ma anche) per le sue innegabili crudeltà, ma anche per la sua debolezza strategica. Legittimo e irriproponibile, il comunismo storico novecentesco è caratterizzato dal rovesciamento dialettico del collettivismo in individualismo, o più esattamente del collettivismo dispotico e forzoso in individualismo selvaggio e anomico. Il comunismo storico novecentesco ha dato luogo a due leggende complementari, una leggenda nera e una leggenda rossa, entrambe insostenibili, e segretamente complementari. La leggenda nera si basa sulla demonizzazione di tutto il fenomeno, e in particolare di Stalin (subordinatamente anche di Mao, Castro, eccetera). La leggenda rossa si basa sull’onnipresenza “tappabuchi” della categoria di burocrazia come spiegazione multiuso del suo fallimento. Le due leggende non sono ovviamente sullo stesso piano. La leggenda nera è mille volte più sporca e abbietta della leggenda rossa. E tuttavia, se entrambe non verranno “superate”, nel senso di criticate razionalmente, sarà di fatto impossibile affermare “in positivo” la correzione comunitarista al bilancio del comunismo. Perché proprio di “correzione comunitarista” si tratta.

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16. Non si può proporre oggi il comunitarismo, sia pure con tutte le specificazioni prima indicate contro ogni spiacevole equivoco, senza proporre congiuntamente una teoria del capitalismo contemporaneo. Dal momento che noi concepiamo il comunitarismo in termini di opposizione teorico-pratica radicale al capitalismo, non possiamo sottrarci alla domanda di come noi concepiamo esattamente il capitalismo. In estrema sintesi, pensiamo che esista una vecchia teoria del capitalismo e una nuova teoria del capitalismo. Capitalismo non significa modo di produzione capitalistico. Il modo di produzione capitalistico è una astrazione concettuale cui non corrisponde nessuna specifica società capitalistica determinata, una sorta di necessario “scheletro” per indicarne i criteri “oggettivi” di movimento riproduttivo. In questo senso non può esistere un “vecchio” e un “nuovo” modo di produzione capitalistico. Il modo di produzione capitalistico è uno solo, in quanto si tratta di una astrazione concettuale unitaria, elaborata da Marx sulla base della concezione della dialettica e della soggettività della Scienza della logica di Hegel. Il capitale in questo senso è un “concetto” (Reichelt, Rosdolsky, eccetera). La vecchia teoria del capitalismo, sostanzialmente valida per circa duecento anni (1780-1980 circa), si fonda sulla formazione della classe borghese e delle classi proletarie, dell’opposizione borghesia-proletariato, dell’unione di critica economico-sociale e di critica artistico-culturale al capitalismo (Luc Boltanski), della sovranità monetaria dello stato nazionale, eccetera. La nuova teoria del capitalismo, emersa negli ultimi decenni, si fonda sulle conseguenze della globalizzazione, del fallimento dell’esperimento legittimo ma fragile del comunismo storico novecentesco, della decadenza progressiva delle sue soggettività sociali borghesi e proletarie, e soprattutto del mutamento sociale di campo degli intellettuali, la qual cosa costringe a un riorientamento gestaltico totale dei fondamenti della critica al capitalismo. Il mutamento di campo degli intellettuali, evidenziatosi nel ventennio 1975-1995, rovescia e annulla il processo avvenuto nel ven-

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tennio 1875-1895, e cioè un secolo prima, in cui il sorgere della formazione ideologica marxista aveva fornito, per la prima volta dopo le correnti di “sinistra” dell’illuminismo (1755-1775) e dopo le correnti del primo socialismo (1820-1850), una base teorica comune agli intellettuali che desideravano opporsi al capitalismo. Per questa ragione il comunitarismo deve rispolverare la vecchia distinzione fra nemico e avversario, nemico principale e avversario principale. Il nemico principale resta ovviamente il potere economico, politico e spirituale delle oligarchie capitalistiche (i nuovi bellatores neofeudali), appoggiate dai nuovi oratores neofeudali, e cioè la tribità manipolatrice del ceto politico, del circo mediatico e del clero universitario. Ma questo nemico principale è difeso anche e purtroppo da un nuovo tipo di cultura diffusa, la cultura della degenerazione individualistico-radicale del ceto degli intellettuali di “sinistra”. È questo oggi l’avversario principale. Il nemico principale per ora non ci vede neppure, a causa della nostra modestia numerica e organizzativa, e per questo non sente neppure il bisogno di organizzare la solita strategia di silenziamento, diffamazione, fraintendimento e calunnia. Noi ci troviamo di fronte, invece, l’avversario dissolutore di “sinistra”, per il quale noi siamo potenzialmente un pericolo mortale, in quanto esso per ora gode del monopolio virtuale della cosiddetta “opposizione”, largamente funzionale e complementare al potere delle oligarchie, trattandosi di una variante dello stesso fondamento individualistico. 17. Infine, il compito più fastidioso e sgradevole, cui non possiamo però sottrarci, e che sarebbe sciocco rimuovere. Siamo italiani, e ci muoviamo in uno dei contesti culturali più corrotti e degradati dell’intera Europa Occidentale, per una serie di ragioni che cercheremo di segnalare in quest’ultimo capitolo. Ogni organizzazione culturale che esce allo scoperto, chiarendo le sue intenzioni e le sue basi culturali, si trova in uno spazio pieno, già occupato da soggetti politici organizzati, molti dei quali largamente finanziati da apparati pubblici e privati. La grande

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maggioranza di questi soggetti politici organizzati si muove all’interno della dicotomia bipolare Destra/Sinistra, di cui ho mostrato in precedenza il carattere funzionale allo scenario di simulazione sociale, di spettacolarizzazione passiva e di manipolazione politologica della Metafisica del Politicamente Corretto. Bisogna sapere che tutti questi apparati, non importa se di “destra” o di “sinistra”, e anzi quanto più interni e omogenei alla riproduzione della simulazione sociale Destra/Sinistra, non avranno pietà di noi, non ci risparmieranno calunnie e attacchi, tanto più facili in regime comunicativo della “rete”, che permette a ogni spurgo di fogna di fingersi portatore di profonde riflessioni. La “destra” dirà che siamo di “sinistra”, e la “sinistra” dirà che siamo di “destra”. Sapendo che pioverà, bisogna uscire con l’ombrello e con un eskimo dotato di cappuccio impermeabile.

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II La Scuola di Marx Il problema dei rapporti fra Comunismo e Comunitarismo

1. Riferirsi congiuntamente al comunismo e al comunitarismo è una relativa novità nel panorama culturale e politico italiano ed europeo-occidentale. Sono esistiti in passato i cosiddetti nazionalcomunisti e nazionalbolscevichi, ma noi non abbiamo letteralmente nulla a che fare con loro, perché non ci collochiamo sul terreno delle rivendicazioni di una nazione contro altre nazioni. Sono esistiti ed esistono i cosiddetti eurasiatisti, ma il nostro profilo culturale e politico prescinde interamente dalla geopolitica, comunque concepita, in quanto si fonda su di un profilo economico, politico e culturale del tutto estraneo alla geopolitica, di difesa o di offesa che sia. 2. Se si è consapevoli di questo, appare chiaro che è bene non limitarci a frasi eclettiche e generiche, ma conviene ancorarci a una tradizione solida del pensiero politico e dell’ispirazione filosofica. Non cominciamo da zero. Lasciamo il termine “nuovo” ai buffoni mediatici e al ceto politico post-comunista e post-fascista, per cui il termine “nuovo” è l’equivalente del sapone con cui devono necessariamente strofinarsi il loro luridume precedente. I nobili possono infatti inviare i plebei alla loro tavola, ma pretendono giustamente che si lavino prima, e se possibile si profumino anche per non far sentire la loro puzza. Ma noi non aspiriamo a essere

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invitati alle tavole delle oligarchie finanziarie e dei loro buffoni, e ci teniamo puliti gratuitamente, per puro amore disinteressato del buon odore. La nostra adesione alla scuola di Marx non è quindi legata a etichettature, codici di riconoscimento, eccetera. Si tratta dell’adesione all’unica scuola degli ultimi due secoli che ci possa permettere di rifarsi congiuntamente sia al comunismo che al comunitarismo, ovviamente liberamente reinterpretati in modo originale e argomentato. 3. Recentemente un buffone mediatico ha dichiarato che il termine “comunista” è oggi diventato “indicibile”. Questo buffone mediatico non merita che si apra un dibattito sui suoi dilettanteschi sproloqui, data la sua ignoranza sui “fondamentali”, come direbbero gli scienziati. E tuttavia è in parte vero che il termine “comunismo” è oggi di difficile “dicibilità”, per una serie di ragioni, che qui per brevità compendierò in due. C’è infatti una indicibilità per logoramento del termine, e una indicibilità per vaghezza e scarsa determinabilità. Discutiamo le due critiche separatamente. Meglio farlo subito che essere obbligati a farlo in un secondo tempo. Lasciarsi alle spalle ambiguità scivolose non conviene mai, perché esse ritornano sempre come i retrogusti sgradevoli. 4. Il primo grande argomento contro la riproposizione del termine, “comunismo” sta nel fatto che questo termine, usato da Marx in senso largamente astratto, e cioè utopico-scientifico (l’ossimoro è volontario, e non è frutto di una svista), si è poi concretizzato in un esperimento politico fallimentare e fallito, caratterizzato da veri e propri crimini (sistema dei gulag abolizione delle tradizionali libertà liberali e democratiche, statalismo burocratico, dispotismo politico, inefficienza economica, penuria di merci e servizi, invasività poliziesca nella vita quotidiana, sistema di spionaggio e di sorveglianza capillare, inutile ateismo antireligioso, eccetera). Per questa ragione il termine “comunismo” sarebbe

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talmente logorato e diffamato, che non apparirebbe più possibile riproporlo. Rispondo. Il termine “comunismo” ha certo avuto alla fine del Novecento un colpo gravissimo, che sarebbe sciocco negare o sottovalutare. E tuttavia, fino a oggi non esiste ancora a livello mondiale nessun altro termine che porti con sé il significato teorico e pratico di anticapitalismo radicale, e cioè di opposizione globale di sistema al capitalismo in quanto modo di produzione (significato tecnico marxiano), e in quanto società della alienazione, dello sfruttamento, della degradazione antropologica e della distruzione ecologica e ambientale del pianeta. Quando la realtà storica avrà prodotto un altro termine socialmente accettato nel mondo intero, allora, e solo allora, si potrà eventualmente discutere la sostituzione del termine (e non credo proprio che ciò possa avvenire presto). E allora ne consegue che tutti coloro che propongono di abbandonare la pargoletta “comunismo”, ritenuta “indicibile” perché associata con i gulag di Stalin, propongono anche di fatto l’abbandono della posizione di anticapitalismo radicale, posizione considerata utopico-totalitaria (più esattamente, di una utopia soggettiva che si rovescia inevitabilmente in totalitarismo politico, in base allo specioso argomento per cui chi crede di possedere la verità della storia cercherà inevitabilmente di imporla con mezzi coercitivi). Cosa dire? Per ora, lo slogan degli ecologisti: no, grazie! 5. Il secondo grande argomento contro la riproposizione del termine “comunismo” sta nel fatto che questo termine, dopo la smentita della sua concretizzazione storica novecentesca, resta largamente indeterminato, in quanto nessuno sa esattamente in cosa dovrebbe determinarsi. E allora, che farsene di un termine vago e indeterminato? Non è meglio abbandonare un termine vago e indeterminato, oltre che appesantito da una eredità non rivendicabile, in favore di termini più modesti, ma almeno maggiormente determinabili in modo univoco e comprensibile?

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Rispondo. È in parte vero che il termine “comunismo” non è univocamente determinabile con una definizione precisa. Ma mentre nelle scienze naturali la definizione fa parte della fisiologia della costituzione della scienza stessa (per esempio in fisico: lavoro = forza per spostamento), nella storia umana la definizione risulta sempre e soltanto nell’azione reciproca di forze sociali (per esempio le definizioni di cristianesimo, cattolicesimo, ebraismo, buddismo, liberalismo, eccetera). Lo stesso Marx non ha mai definito il comunismo se non in modo del tutto vago (movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti, società in cui ognuno darà secondo le sue capacità e riceverà secondi i suoi bisogni, abolizione della forma di valore del lavoro umano, eccetera). Il comunismo è stato sempre definito in termini di teologia “negativa”, e cioè con un approccio distintivo e contrastivo con la produzione capitalistico. Ebbene, questo fatto, lungi dall’essere una debolezza del concetto, è una sua forza, perché gli permette di sopravvivere all’obsolescenza delle sue forme storiche (comunismo utopistico, comunismo staliniano, comunismo ideologico trotzkista, eccetera). Il comunismo non è una variabile indipendente sovrapposta alla storia, cioè una metafisica aprioristica frutto o meno di una secolarizzazione messianica di ordine religiosa. Il comunismo è una variabile dipendente dell’opposizione legittima alla natura distruttiva del capitalismo, e di qui trae la sua legittimazione storica, politica e filosofica. 6. Karl Marx è stato prima di tutto un comunista. Sembrerebbe quasi comico ribadire una simile ovvietà, ma non lo è più se ci situiamo nel degradato contesto culturale contemporaneo. Il fatto che Marx sia stato a tutti gli effetti un comunista può essere esorcizzato in molti modi, che qui riassumerò però in due soltanto. In primo luogo, si può omettere che Marx è veramente stato un comunista, e appunto per questo bisogna storicizzarlo ed esorcizzarlo come utopista romantico potenzialmente totalitario. Da circa cinque generazioni questa tattica viene ampiamente utilizzata, ma non sempre essa appare performativa, vista la grande “eccedenza”

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filosofica e scientifica dello stesso Marx, che salta agli occhi non appena si decide di passare dal “sentito dire”, matrice inarrivabile di ogni diffamazione per dilettanti analfabeti, alla conoscenza diretta dell’autore. È quindi necessaria una strategia di riserva più sofisticata. In secondo luogo, quindi, e questa è la strategia preferita dai gruppi mediatici e universitari, si può togliere da Marx il “comunismo”, come certi popoli nomadi tolgono il veleno ai serpenti per poterne mangiare la carne, lasciandone pezzi innocui di vario tipo (teoria sociologica delle disuguaglianze sociali eccessive, teoria economica delle crisi capitalistiche di sovrapproduzione e/o sottoconsumo, profezia della globalizzazione economica mondiale, critica degli eccessi intollerabili del feticismo delle merci nella vita dell’individuo, riduzione dell’alienazione a semplice spaesamento e disagio esistenziale, eccetera). E infatti in tutti i casi in cui si registra un sia pur pallido ritorno di interesse per Marx (per esempio oggi, dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008), subito si mette in moto la macchina di manipolazione mediaticouniversitaria per la neutralizzazione accademica di Marx. Marx diventa una specie di precursore barbuto di Barman e di altri innocui chiacchieroni generalisti. Dicendo che facciamo parte della Scuola di Marx noi facciamo quindi una netta scelta di campo in favore del comunismo inteso come critica rivoluzionaria radicale non solo ai cosiddetti “eccessi neoliberali e finanziari” del capitalismo, ma anche e soprattutto alla riproduzione capitalistica in quanto tale. Per noi il capitalismo è come lo schiavismo o il feudalesimo, sia pure accettando parzialmente il suo carattere “progressivo” di relativa superiorità rispetto alla condizione schiavistica e servile (che non intendiamo affatto negare, come chiariremo con la citazione marxiana che apre il prossimo capitolo). Esso merita di essere superato radicalmente, nel senso di Hegel di superamento-conservazione (Aufhebung). Detto questo, siamo largamente disposti a riconoscerne gli aspetti “progressivi” rispetto ai cacciatori di testa, al sistema delle caste, allo schiavismo romano e alla servitù feudale. Siamo disposti a riconoscerne parzialmente gli aspetti “progressivi”, anche se rifiu-

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tiamo la metafisica del progresso in quanto tale, razionalizzazione ideologica del punto di vista borghese sul mondo. Ma perché “scuola di Marx” anziché la vecchia buona paroletta “marxismo”? Non si tratta di questioni terminologiche di lana caprina. Se un ristorante di lusso, per far pagare di più un piatto di polenta e merluzzo, lo ribattezza “crema di mais con pesce veloce del Baltico”, sempre di polenta e di merluzzo si tratta. Ma in questo caso non è così, per un insieme di ragioni che qui compendierò a due. In primo luogo, dire “scuola di Marx” indica un rapporto diretto con l’insegnamento di Marx non mediato dal passaggio attraverso il filtro ideologico di una delle tante scuole marxiste particolari cresciute nell’ultimo secolo, che sono almeno venti, ma potrebbero anche arrivare a cinquanta (e chi scrive ne è un esperto riconosciuto). E indica anche il recupero consapevole del vecchio modo greco classico di chiamare le scuole filosofiche (scuola di Platone, scuola di Aristotele, scuola di Epicuro, eccetera). Tuttavia, è la rivendicazione di rapporto diretto e non filtrato da una particolare scuola “marxista” che qui conta. In secondo luogo, il termine “marxismo” non indica la coerentizzazione sistematizzata del pensiero di Marx, per il semplice fatto che nella sua vita Marx non si è mai preoccupato di coe­rentizzare il suo pensiero, da cui risulta che egli non è mai stato ne avrebbe mai potuto essere “marxista”. Il “marxismo” è un codice sistematizzato e coerentizzato elaborato congiuntamente da Engels e da Kautsky nel ventennio 1875-1895, su committenza indiretta del partito socialdemocratico tedesco. Questo codice sistematizzato e coerentizzato è oggi di fatto pressoché improponibile, in quanto storicamente più che datato: codice filosofico positivista (se non ultrapositivista): codice teorico riduzionista ed economicista. Esso ha un valore unicamente storico-archeologico. È infinitamente meno “attuale” di Platone, Epicuro e Spinoza. Nessuno della ventina di codici “marxisti” posteriori è basato sulla consapevole coniugazione di comunitarismo e di comunismo.

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Per questa ragione non ci inseriamo in una tradizione inesistente. Una parziale eccezione è data dalla scuola (oggi estinta) di Jacques Camatte, che effettivamente ha cercato una fusione di comunitarismo e di comunismo. Ma chi guarda le cose più da vicino vedrà che quella di Camatte è una eresia interna alla corrente bordighista storica, le cui coordinate sono assolutamente tradizionali nell’ambito ossimorico delle “ortodossie eretiche”, o se si vuole delle “eresie ortodosse”. La nostra impostazione non ha letteralmente nulla a che vedere con quella di Camatte. Per questa ragione noi ci “chiamiamo fuori” da tutte le varianti conosciute del “marxismo”. Accettiamo invece la derivazione della scuola di Marx. E allora di Marx bisognerà parlare almeno un poco, per non lasciare equivoci sul come ci mettiamo in libero rapporto con lui. 7. Prima di tutto, ci rifiutiamo nel modo più assoluto di porre il vecchio e stantio problema del “ciò che è vivo e ciò che è morto in Marx”. Croce ha potuto farlo, e dopo di lui centinaia di suoi nipotini, ma noi non siamo nipotini di Croce, in quanto non facciamo parte della sua famiglia. Chi si pone in questo modo crociano, stilerà inevitabilmente due liste parallele, le cose giuste e le cose sbagliate, le scoperte e gli errori, gli aspetti positivi e quelli negativi, eccetera. In alternativa radicale al consueto metodo da maestri di scuola pedanti, a suo tempo Hegel insegnò a porre diversamente il problema. Per Hegel l’errore è un momento dialettico della consapevolezza progressiva della verità, e ne è anzi una componente essenziale. L’errore è sempre e soltanto una forma storica di incompiutezza fisiologica – e non patologica – di una strategia veritativa. E quindi le due posizioni che segnalerò, e da cui mi congederò (e infatti, senza congedarsene, nessun comunismo comunitario diventerebbe possibile, e forse neppure pensabile), non le interpreto come “errori” di Marx, ma come momenti necessari di un processo dialettico di consapevolezza storica ancora larga-

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mente in corso, e quindi per nulla compiuto. Lasciamo la matita rossa alternata con quella blu a chi pensa che Marx sia uno studente che si presenta a un concorso (comunque lottizzato, e mai meritocratico, come avviene oggi). Marx era un creatore, non un pedante citatologo. 8. Per poter studiare le cosiddette “leggi di movimento” del modo di produzione capitalistico Marx fu costretto a produrre un concetto di “modo di produzione in generale”, caratterizzato da tre parametri in rapporto reciproco (forze produttive, rapporti di produzione, ideologia). Solo i nominalisti più o meno althusseriani possono pensare che ci possa essere un modo di produzione capitalistico senza un modo di produzione in generale, e per questo non gli farebbe male studiare il concetto di astrazione in Aristotele. Prima che possa esistere l’astrazione determinata, ci vuole l’astrazione in generale. E tuttavia, non appena viene prodotto il concetto di successione storica dei modi di produzione, sorgono subito simultaneamente una teoria della storia e una filosofia della storia. La teoria della storia non dà giudizi di valore etico o morale, ma si limita a studiare le strutture di insieme anonime e impersonali. La filosofia della storia innesta su questa teoria anonima e impersonale della storia giudizi di valore politico e sociale. La teoria della storia sa solo che esiste il capitalismo. La filosofia della storia, invece, sa anche che il capitalismo è cattivo, e può essere sostituito da un modo di produzione migliore. Chi vuole una teoria della storia senza filosofia della storia è uno sciocco, e tratta la società umana come se fosse un oggetto neutro della fisica e della chimica. Chi invece crede che ci possa essere una filosofia della storia morale ed edificante senza una teoria della storia credibile è parimenti uno sciocco, perché scambia le sue virtuose intenzioni soggettive per un dato storico realizzabile. Quanto dico, ovviamente, riguarda direttamente chi cerca di coniugare comunitarismo e comunismo: questa coniugazione è impossibile se si crede di poter “saltare” il nesso di teoria della storia e della filosofia della storia della scuola di Marx.

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Studiando il modo di produzione capitalistico Marx giunse alla conclusione, che esplicitò in vari modi, per cui questo modo di produzione aveva sostituito il modo di produzione precedente (quello feudale-signorile) sulla base dell’incapacità di quest’ultimo di sviluppare ulteriormente le forze produttive sociali, e che questo modo di produzione capitalistico sarebbe tramontato per la stessa ragione strutturale per cui aveva precedentemente vinto contro quello feudale, in quanto a un certo punto anche esso sarebbe stato incapace di sviluppare ulteriormente le forze produttive stesse, e sarebbe stato a sua volta sostituito dal modo di produzione comunista, maggiormente in grado di sviluppare queste forze produttive. Si tratta non tanto della filosofia della storia di Marx, basata sul concetto di libera individualità, quanto della teoria della storia di Marx. Ancora una volta, è chiaro che non basta contare fino a uno, ma è necessario contare fino a due (teoria della storia e filosofia della storia nella scuola di Marx, di cui anche noi facciamo parte). In proposito, è necessario fare alcune osservazioni. In primo luogo, Marx è chiaramente influenzato da una errata applicazione dell’analogia storica, fondata sull’errato principio del ragionamento “così come… nello stesso modo”. E così come nel passato la classe dei proprietari di schiavi e la classe dei signori feudali a un certo punto dello sviluppo storico e non sono più stati capaci di sviluppare ulteriormente le forze produttive, nello stesso modo anche la borghesia capitalistica non ne sarà più capace, e il proletariato la sostituirà in questo compito storico. È più che logico che un simile incantesimo dell’analogia storica abbia potuto ingannare Marx, ma l’analogia storica è un’arma a doppio taglio, perché a volte ci indirizza bene, ma a volte ci spinge in una direzione illusoria. Ed è proprio questo il caso. La borghesia capitalistica, infatti, è una classe qualitativamente diversa dalle classi sfruttatrici precedenti, per cui l’analogia non si applica. La borghesia capitalistica è la portatrice storica di una illimitatezza produttiva che è soprattutto autoriproduttiva, fino a diventare incontrollata e a fagocitare la soggettività borghese stessa (Heidegger, Günther

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Anders, Adorno, eccetera). In questo senso la borghesia capitalistica è la portatrice storica anonima di una capacità illimitata di sviluppare le forze produttive, e quindi ogni analogia “stagnazionista” con le precedenti classi sfruttatrici è impropria. Gli agenti storici della produzione capitalistica (termine meno improprio di “borghesia”) sono (quasi sempre inconsapevoli, in quanto culturalmente del tutto degenerati e disumanizzati) portatori di una crescita illimitata delle forze produttive, fino all’annichilimento ecologico e antropologico del mondo. In secondo luogo, Marx mostra a volte di confondere l’insorgenza delle crisi capitalistiche con il segnale storico della manifestazione della tendenza “stagnazionistica” della borghesia di sviluppare le forze produttive. L’esperienza storica dell’ultimo secolo e mezzo mostra che non è così. Tutte le grandi crisi economiche (1873 e grande depressione, 1929 e grande crisi, e certamente anche 2008 e scoppio della grande bolla finanziaria), lungi dall’essere segnali dell’avvento della mitica incapacità capitalistica di sviluppare le forze produttive, sono momenti di depurazione e di dimagrimento di una patologica “obesità” del capitalismo, e sono momenti di rafforzamento e non di decadenza del sistema, se non interviene una capacità soggettiva organizzata (e qui, appunto, noi pensiamo che questa capacità non può essere unicamente classista, rivelatasi largamente insufficiente, ma deve essere comunitaria, pena la rimessa in salute del sistema). Alle grandi crisi capitalistiche succedono in genere cicli di innovazione di processo e di prodotto, redistribuzione del reddito e della collocazione nella piramide sociale classista di nuovi gruppi sociali, emergere di nuovi centri capitalistici, eccetera). In terzo luogo, infine, Marx ha tutto sommato ragione nel dire che il capitalismo a un certo punto si dimostra incapace di sviluppare le forze produttive. Dipende ovviamente da cosa intendiamo con il concetto di “forze produttive”. Se con questo termine intendiamo l’innovazione continua di processo e di prodotto, la creazione continua di nuovi bisogni manipolati dall’apparato pubblicitario, la promozione della ricerca scientifica applicata al profitto, ecce-

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tera, è del tutto evidente che il capitalismo (a differenza del dispotismo orientale, dello schiavismo e del feudalesimo) è capacissimo a sviluppare in modo potenzialmente illimitato le forze produttive industriali, e quindi Marx sbagliava, nella misura in cui utilizzava l’analogia “stagnazionista” della storia precedente. Ma se con “forze produttive” invece Marx intendeva (ed è filologicamente provato che intendeva anche questo concetto) lo sviluppo onnilaterale dell’essere umano come centro di libertà, socialità e solidarietà comunitaria, allora è assolutamente vero che il capitalismo a un certo punto diventa realmente incapace di sviluppare le forze produttive. In questo senso persino la teoria della decrescita potrebbe essere paradossalmente interpretata come un contributo allo sviluppo delle forze produttive, se questo sviluppo viene correlato ai bisogni umani e alla buona vita (eu zen) nel senso aristotelico del termine. C’è qui un nodo di problemi che il punto di vista comunitarista può almeno impostare, anche senza la sicurezza garantita di poterli risolvere. È invece evidente che la semplice apologia cieca dello sviluppo non può neppure impostarli, e certamente non può risolverli. 9. Il cosiddetto passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza si è rivelato una illusione positivistica di Engels. E come avviene per tutte le illusioni ideologico-religiose (il positivismo è infatti una religione come le altre, la Religione della Scienza assolutizzata e ipostatizzata) essa è prodotta dalla congiunzione di assoluta buona fede veridica e di falsa coscienza necessaria degli agenti storici. A questa congiunzione nessuno può ovviamente sfuggire, neppure un genio o un talento (e ovviamente non può sfuggire chi scrive, che non è né l’uno né l’altro). Anziché di passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza, possiamo parlare più sobriamente di tentativo di fondazione scientifica della vecchia utopia comunista. In quanto utopia, il comunismo ha già una storia di millenni, e si fonda sulla vita quotidiana degli

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sfruttati, che colgono in modo intuitivo (e soltanto dopo elaborano fondazioni di tipo prima religioso e poi filosofico) che sarebbe del tutto possibile una diversa divisione del lavoro sociale e una diversa e più egualitaria distribuzione delle ricchezze. Marx si inserisce nella continuità di questa tradizione utopica-egualitaria, come del resto l’ultimo Karl Korsch capì molto bene. E tuttavia, è bene riesaminare criticamente i due elementi principali di questa fondazione scientifica marxiana della vecchia utopia comunista. In primo luogo, la scientificità di Marx si basava sulla scoperta delle cosiddette “leggi di movimento” della società capitalistica, vista come oggettivazione del modo di produzione capitalistico. Anche se Marx (differenza di Engels) non ha mai sostenuto una vera e propria omologazione delle leggi della natura e della società, si trova troppe volte nella sua penna l’espressione “processo di storia naturale” applicata alla società per mettere in dubbio il fatto che egli pensasse veramente di aver individuato le “leggi di movimento” della società capitalistica. Il termine “leggi” è ignoto a Hegel e del tutto assente nella sua Logica e quindi la derivazione positivistica è innegabile. Una di queste “leggi” era individuata in Marx (cfr. il capitolo VI inedito del Capitale) nella formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, in grado di sostituire la polverizzazione concorrenziale dei vari capitalisti in antagonismo. Come è noto, questo soggetto salvifico non si è mai costituito, e non pare possa costituirsi se non a livello di unità produttiva di fabbrica, cosa ben diversa dalla rete concorrenziale di imprese (Gianfranco La Grassa). Chi critica il comunitarismo in nome del tradizionale classismo di fabbrica dovrebbe avere l’onestà di prendere in seria considerazione questo elemento. La stessa mitologia del cosiddetto General Intellect e della estinzione della legge del valore-lavoro già dentro il capitalismo come segnale della maturità e della attualità del comunismo (cfr. Grundrisse) è una vuota illusione del marxismo universitario globalizzato, in quanto, vera o falsa che sia (e ritengo che sia anche falsa), lo sviluppo capitalistico offre solo al

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massimo “finestre di opportunità” per l’azione rivoluzionaria, e di per se non produce nulla di diverso. In secondo luogo, la scientificità di Marx si basava sulla teoria della individuazione storico-sociale del soggetto rivoluzionario anticapitalista. Su questa individuazione Marx pensava la propria separazione contrastata dagli “utopisti” visti come coloro che puntavano le loro speranze su progetti astratti sulla carta di comunità artificiali (Fourier), o su reti di cooperative (Proudhon). Ben presto ci fu una unificazione ideale di tre diverse dimensioni in un solo concetto, il proletariato, la classe operaia e la classe salariata. E questo non è un caso, perché la classe sociale unificata dei proletari, degli operai e dei salariati appariva l’unica classe politicamente organizzabile in una avanguardia politico-sindacale. A distanza di più di un secolo e mezzo da questa diagnosi e da questa prognosi, è irresponsabile continuare a non fare un meditato e razionale bilancio critico di questo classismo rivoluzionario. Sono state scritte centinaia di migliaia di pagine sul carattere rivoluzionario o meno del soggetto proletario, ed è inutile aggiungere altra carta a questa montagna. E tuttavia due cose sembra possano essere già dette. Primo, era assolutamente logico e razionale che ai suoi tempi Marx “puntasse” le sue speranze anticapitalistiche sulla capacità politica della classe operaia, salariata e proletaria, cui si dirigeva esplicitamente con la sua teoria del plusvalore come prodotto dello sfruttamento. Ai suoi tempi la classe operaia era la vera “novità” politico-sociologica della storia, ed era del tutto logico attribuirle una capacità “intermodale”, una capacità cioè di fare da locomotiva a un passaggio storico dal modo di produzione capitalistico al comunismo. Secondo, oggi abbiamo una esperienza di un secolo e mezzo dopo Marx, da cui risulta che la classe operaia mette in atto comportamenti di massa ribellistici soltanto nella sua prima fase di uscita dalla precedente condizione contadina, bracciantile e artigiana, mentre tende a “integrarsi” in una seconda fase di inserimento all’interno delle masse, economicizzazione del conflitto, individualizzazione consumistica, eccetera).

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L’esperienza storica dimostra che la Rivoluzione Russa del 1917 è stata fatta in nome della classe operaia e dei contadini poveri ed è terminata con una restaurazione capitalistica selvaggia. L’esperienza storica dimostra che la rivoluzione cinese del 1949 è stata fatta dai contadini poveri in nome della classe operaia ed è terminata con una restaurazione capitalistica, meno selvaggia perché più regolata, ma egualmente totale. Vogliamo continuare a snocciolare le ben collaudate banalità (errori, corruzione burocratica, tradimento dei vertici, scarsa educazione ideologica, rovesciamento dell’utopia in terrore, eccetera)? Vogliamo continuare a unire alla tragedia la stupidità? Il comunitarismo non intende continuare a farlo, e si pone come correzione dell’assolutizzazione unilaterale del classismo proletario. Il classismo proletario è stato messo alla prova nel Novecento, e ha fallito la transizione comunista che aveva promesso. Vogliamo continuare a scaricare sul cattivo Stalin tutta la colpa? Vogliamo continuare a tirare fuori dal mazzo il jolly della burocrazia o del basso livello delle forze produttive? Vogliamo continuare a incolpare la CIA, la minaccia esterna, il peso delle spese militari? Vogliamo continuare, in una parola, a girarci intorno? Abbiamo raggiunto il ventennio di questi tentativi interpretativi circolari (1989-2009). Credo che sia sufficiente. Con questo, non intendo affatto delegittimare il classismo proletario. Al contrario. Le classi sfruttate hanno a mio avviso il diritto assoluto a ribellarsi contro la classe dei loro sfruttatori. Lo avevano già al tempo dello schiavismo e del feudalesimo, e lo hanno ancora integralmente al tempo del capitalismo. Lo avranno certamente anche in futuro e mi compiaccio di questo. Ma qui non si parla di diritto soggettivo collettivo alla legittima e sacrosanta rivolta. Qui si propone una interpretazione della storia, per cui il classismo dei subordinati è interamente legittimo, ma sembra anche essere instabile e insufficiente, e per questo il comunitarismo si pone come parziale correzione e integrazione.

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Certo, è una interpretazione. Ma già Marx a suo tempo ha messo in relazione l’interpretazione e la trasformazione. È giunta l’ora di citarlo, e di commentare liberamente la citazione. 10. Nella primavera del 1845 Marx aveva ventisette anni, e si trovava a Bruxelles. Su di un quaderno per uso personale, senza alcuna intenzione di pubblicazione, scrisse undici brevi tesi che l’amico Engels pubblicò nel 1888 (cinque anni dopo la sua morte) con il nome di Tesi su Feuerbach. L’idolatria postuma dei marxisti le trasformò in una sorta di testo sacro biblico del marxismo, laddove sarebbe stato molto meglio commentarle liberamente. L’undicesima tesi, forse la più famosa, dice: «I filosofi hanno soltanto interpretato il mondo in modi diversi: si tratta di trasformarlo». È interessante che nel 1888 Engels abbia interpolato il testo aggiungendovi un “invece” (aber), in modo da presentare il programma della trasformazione del mondo in opposizione radicale e polare al programma della interpretazione del mondo. In ogni caso, vale la pena di commentare brevemente questa notissima formulazione. In primo luogo, è del tutto evidente che questa formulazione, così com’è, è del tutto insostenibile. È chiaro infatti che la trasformazione, o più esattamente il progetto di trasformazione, presuppone una preventiva interpretazione di ciò che si vuole trasformare. Se infatti si interpreta qualcosa come fondamentalmente buono, non avrebbe senso cercare di trasformarlo in modo rivoluzionario. Solo un masochista cretino potrebbe farlo. Siccome Marx non era un cretino (anche se molti marxisti successivi lo hanno trasformato in cretino per coprire con la sua auctoritas la loro inguaribile subalternità), è evidente che qui ha inteso volutamente storcere il bastone da una parte, in polemica con i critici puramente contemplativi e passivi della realtà sociale (oggi i vari adorniani e/o heideggeriani, allora i cosiddetti hegeliani di sinistra o giovani hegeliani).

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In secondo luogo, qui Marx evidenzia la centralità del concetto di prassi, o prassi trasformatrice (praxis). Ritengo che la prassi sia effettivamente il minimo comun denominatore di tutte le varianti interne alla scuola di Marx, il cui profilo differenziato si deve sempre mettere al numeratore. Il comunitarismo comunista, infatti, accetta interamente sia il concetto che la messa in atto della prassi trasformatrice. In terzo luogo, non è affatto vero che i filosofi fino ad allora (1845) si erano solo limitati a interpretare il mondo. La filosofia è nata in Grecia come attività che era anzi rivolta a trasformare la comunità investita dalla dissoluzione della dismisura del denaro e della schiavitù per debiti. Questo può essere detto per la maggioranza dei filosofi. Lo stesso concetto di praxis è definito da Aristotele come attività volta a trasformare i comportamenti umani. Ma sarebbe sciocco e pedante sottoporre Marx a un esame di storia della filosofia. Egli aveva tutto il diritto di essere unilaterale, in particolare in un quaderno a uso personale. Non era davanti a una pedante commissione di esame. Conviene invece riflettere su quale interpretazione della realtà Marx fondava il suo programma di trasformazione. 11. Marx parte da una interpretazione della società capitalistica come unità di alienazione (Entfremdung) e di sfruttamento (Ausbeutung). Il primo concetto deriva da una interpretazione originale marxiana di un concetto già utilizzato da Hegel, il secondo concetto deriva invece dalla radicalizzazione di un concetto già usato dai seguaci socialisti inglesi di Ricardo. Non è ovviamente questo lo spazio per discutere dei problemi teorici che nascono da questo “innesto” di un concetto filosofico su di un concetto economico. Questa discussione, anche se svolta solo in modo elementare, prenderebbe centinaia di pagine. Diciamo soltanto che dal matrimonio di filosofia ed economia nasce la critica dell’economia politica, che ha come fondamento l’unità del concetto filosofico di alienazione con il concetto economico di valore (Rubin, Colletti, Napoleoni, eccetera).

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L’alienazione risulta da una espropriazione del lavoratore dei frutti e del controllo sul suo lavoro. Il lavoro è quindi il fondamento dell’analisi di Marx, e correttamente Lukács lo ha definito la forma originaria (Urform) e il modello (Vorbild) di ogni prassi trasformatrice (Praxis). Marx non propone un programma impossibile di abolizione del lavoro, e tantomeno un programma fantascientifico di sostituzione del lavoro umano con macchine e con robot, ma propone un programma di liberazione comunitaria del lavoro, sulla base ovviamente dei miglioramenti forniti dalla scienza e dalla tecnica moderne. È filologicamente provato che il concetto di alienazione non è limitato alle opere giovanili di Marx, ma resta ampliato, determinato e metabolizzato in tutte le sue opere. Su questo punto l’avversione della scuola althusseriana contro il concetto di alienazione, in parte comprensibile nel contesto storico polemico in cui nacque, ha fatto più male che bene. Il concetto di alienazione è un “pezzo” insostituibile della scuola di Marx, e quindi anche della coniugazione di comunismo e di comunitarismo che noi perseguiamo. Il concetto di sfruttamento è ampiamente descritto nel primo libro del Capitale di Marx, pubblicato nel 1867. Esso deriva dalla teoria del plusvalore, dalla distinzione fra valore d’uso e valore di scambio della forza-lavoro sfruttata, e rappresenta una elaborazione creativa delle precedenti versioni della teoria del valore-lavoro (Smith, Ricardo, eccetera). Il capitalismo è strutturalmente unità in processo di alienazione e di sfruttamento. Ciò non ha nulla a che vedere con una pretesa “condizione umana” astratta e atemporale. La destoricizzazione dello sfruttamento è quindi l’obiettivo principale di tutte le ideologie delle classi sfruttatrici. Su questo punto c’è stato un mutamento di strategia ideologica da parte delle classi sfruttatrici. In un primo momento (durato millenni) lo sfruttamento viene giustificato religiosamente come volere divino, per cui le disuguaglianze vengono spiegate con il volere delle divinità. Ma da circa mezzo secolo, con il crescere dell’incredulità religiosa complessiva e della secolarizzazione laicizzata dei comportamen-

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ti individuali e sociali, c’è stato un mutamento di questa strategia ideologica. Oggi si parte dalla morte di Dio (Nietzsche), dal disincanto del mondo e dal politeismo dei valori (Weber), dalla fine della storia (Gehlen, Fukuyama), dalla fine delle grandi narrazioni (Lyotard), dalla fine di qualunque verità (Rorty, Vattimo), dall’avvento inarrestabile del dispositivo tecnico insuperabile (Heidegger), dalla generale follia dell’occidente (Severino), dalla insuperabilità dell’orizzonte dello stato di diritto e dell’economia di mercato (Habermas), eccetera. L’intero apparato ideologico gestito dal sistema universitario globalizzato delle facoltà di economia, filosofia e scienze sociali è diventato un unico apparato, solo apparentemente flessibile e pluralistico, che vende questa visione del mondo. Esiste pure una sorta di marxologia addomesticata e normalizzata, tollerata soltanto perché programmaticamente privata di ogni prassi trasformatrice. Tutto questo non è sicuramente “eterno” ma è fortemente congiunturale, e caratterizza soltanto la nostra provvisoria “finestra storica” contingente, caratterizzata dalla sinergia fra il vecchio anticomunismo liberale tradizionale e il nuovo anticomunismo derivato dall’elaborazione del lutto delle illusioni della mascalzonesca e corrotta generazione sessantottina (1968). È questa la ragione per cui ogni programma di coniugazione di comunitarismo e di comunismo dovrà svilupparsi al di fuori di qualunque apparato universitario o mediatico. Questo, peraltro, è già avvenuto in passato per tutte le innovazioni teoriche, filosofiche e politiche. Chi si illude sui nemici e sugli avversari è un gattino cieco. 12. Il commento alla seconda citazione di Marx sarà purtroppo più difficile del primo, ma è impossibile evitarlo, anche se purtroppo presuppone alcune conoscenze generali di filosofia. Si tratta della prima delle Tesi su Feuerbach. La cito solo parzialmente. Essa dice: Il difetto principale di tutti i materialismi che si sono susseguiti finora […] è che ciò che ci sta di fronte [Gegenstand], la realtà, la sensibilità, viene concepito soltanto sotto la forma di oggetto

77 [Objekt], o di intuizione, ma non come attività sensibile, umana, come prassi. Non soggettivamente.

Se qui ci fosse soltanto un problema di definizione di termini come “idealismo”, “materialismo”, “prassi”, eccetera, potremmo rimandare a una discussione in un seminario filosofico. Ma non è così. La distinzione fra il ciò che ci sta di fronte (Gegenstand) e l’oggetto puro e semplice (Objekt) dà luogo a due diverse concezioni di scienza (Wissenschaft) in Marx. Vediamo allora prima che cosa significa di fatto il primo significato di scienza (la scienza dell’Objekt), poi che cosa significa il secondo significato di scienza (la scienza del Gegenstand), e infine del perché il nostro programma di comunitarismo comunista si lega necessariamente più al secondo significato che al primo. A questo punto, potremo chiudere questo capitolo e passare al prossimo. 13. Il solo modo che abbiamo per vederci da soli è guardarci allo specchio, che ci rimanda la nostra figura. Il solo modo che ha il filosofo per autocomprendere la propria collocazione nel vasto panorama filosofico è la demarcazione e la posizione differenziata e contrastiva con gli altri filosofi, del presente ma soprattutto del passato. Marx ovviamente non poteva sfuggire a questo processo di autocomprensione. Nel suo caso, questo avviene mediante due movimenti contrastivi. In primo luogo, un movimento contrastivo nei rapporti di Hegel, l’ingombrante padre da uccidere, e Marx lo compie contrapponendo l’idealismo al materialismo, e autodichiarandosi materialista. In secondo luogo, una opposizione fra vecchio materialismo (da Epicuro a Feuerbach) e nuovo materialismo, e cioè se stesso. Il vecchio materialismo sarebbe stato individuato come materialismo della contemplazione e della interpretazione Objekt), e il nuovo materialismo come materialismo della prassi (Praxis) che modificava l’oggetto posto davanti alla prassi stessa (Gegenstand). Nella continuazione della prima Tesi su Feuerbach sopracitata Marx attribuisce all’idealismo l’ignoranza dell’attività reale e sensibile, e al vecchio materialismo una concezione della prassi limitata alla «sordida attività giudaica» (sic!),

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che evidentemente allude alla semplice attività di fare più soldi possibile. Al tempo di Marx, evidentemente, non esisteva ancora il politicamente corretto! In sede di storia della filosofia, si tratta di ingenerose ed assurde sciocchezze. Il materialismo di Epicuro, lungi dall’essere contemplativo, era un materialismo dell’amicizia e della solidarietà comunitaria, molto simile a quello che abbiamo in testa noi. Il materialismo di Feuerbach era un materialismo della prassi umanistica e dell’attività sociale. L’idealismo di Fichte, lungi dal «non conoscere l’attività reale e sensibile come tale» (è difficile accettare sciocchezze simili!) era un idealismo fondato esplicitamente sulla prassi, e solo sulla prassi, al punto di affiancare all’Io teoretico un Io pratico. E potremmo continuare. Ma Marx non deve essere giudicato come storico della filosofia. Marx deve essere giudicato come il fondatore di una scuola comunista della filosofia, e i fondatori hanno il diritto al fraintendimento dei predecessori. A noi interessa in questa sede non giudicare Marx con la spocchia scolastica del professore di storia della filosofia, quanto far notare differenze dei due termini di Objekt (oggetto come elemento esterno a noi di cui intendiamo studiare le modalità di esistenza) e di Gegenstand (oggetto come elemento che ci sta davanti e che dobbiamo modificare con la nostra stessa prassi umana emancipatrice). Soltanto il secondo termine corrisponde infatti alla nostra coniugazione di comunismo e di comunitarismo. 14. Il primo significato di materialismo, e cioè quello che Marx chiama il vecchio materialismo dell’Objekt, è in realtà paradossalmente stato il nuovo significato di materialismo che la tradizione marxista a partire dal 1875 ha imposto per più di un secolo. La “materia” diventa infatti metafora della conoscibilità scientifica del mondo esterno concepito appunto come “oggetto”, per cui la storia universale e le leggi di movimento dello stesso modo di produzione capitalistico vengono visti come “oggetti” da rispecchiare, e infatti la teoria della conoscenza di questo materialismo diventa appunto la teoria del cosiddetto “rispecchiamento”, come

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se la rivoluzione potesse essere “rispecchiata” come la gravitazione, e la storia universale potesse essere “rispecchiata” come le leggi della astronomia, della fisica, della chimica e della biologia. Alla base di questa errata concezione ci stanno due fattori storici, il positivismo, che sostituisce al concetto hegeliano di scienza filosofica un concetto di scienza deterministica, e il criticismo neokantiano, che interpreta il vecchio concetto kantiano di cosa in sé o noumeno come oggetto materiale ideale che fa da fattore di rispecchiamento della materia metafisica presupposta come esterna alla conoscenza. Si tratta di una teoria della conoscenza di tipo religioso, perché nelle religioni Dio viene presupposto come esistente prima e al di fuori dell’uomo. Se si concepisce invece l’oggetto come Gegenstand, e cioè come oggettivazione passata dell’uomo che sta davanti all’attività odierna dell’uomo stesso (in questo senso, per esempio, il capitalismo è un oggetto che “sta davanti” ai tentativi di trasformazione comunista rivoluzionaria), allora siamo di fronte non a un modello positivistico di scienza della rilevazione, ma a un modello di scienza filosofica in cui il solo vero e proprio “concetto” (Begriff) non è una categoria puramente logica, come lo sono le definizioni in fisica, chimica e biologia, ma è una autoconsapevolezza soggettiva di un processo dialettico precedente, come è infatti nella Scienza della Logica di Hegel, modello fino a oggi insuperato di scienza filosofica. E si arriva così a un paradosso, per cui il cosiddetto “nuovo materialismo” della prassi di Marx coincide praticamente al cento per cento con l’idealismo… di Fichte e di Hegel! Questo paradosso è perfettamente spiegabile con la teoria marxiana della falsa coscienza necessaria degli agenti storici, cui ovviamente lo stesso Marx non può sfuggire. Come è possibile che un idealista filosofico, come certamente Marx è stato (Gentile, Gramsci, Rockmore, eccetera), abbia potuto auto­interpretarsi come materialista, laddove invece il suo codice filosofico era quello di un idealismo della prassi rivoluzionaria? Qui il discorso si farebbe lungo, anche se concettualmente semplice. Primo, Marx doveva rompere con Hegel, e ha creduto in

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modo soggettivamente sincero che il modo migliore per farlo fosse la dichiarazione di materialismo. Secondo, Marx era ateo, e pertanto era portato a identificare l’ateismo con il materialismo (esiste solo la materia, e Dio non esiste). Terzo, Marx era strutturalista, e riteneva che il primato della struttura sulla sovrastruttura potesse essere tradotto in linguaggio filosofico come primato della materia (struttura) sullo spirito e sull’ideale (sovrastruttura). Quarto, Marx pensava che il primato della prassi sulla semplice interpretazione fosse traducibile in primato della prassi (materia) sulla contemplazione (spirito e ideale). Quinto, Marx pensava che il primato della liberazione materiale dall’alienazione e dallo sfruttamento sulla libertà astratta e formale del soggetto liberale potesse essere tradotta in linguaggio filosofico come il primato della liberazione (materia) sulla libertà formale e astratta (spirito o idea). Niente di male, nel decennio 1840-1850. Molto male, invece, se questo non viene corretto nel decennio 2000-2010. 15. E qui possiamo terminare questo capitolo. Un manifesto storico-filosofico del comunitarismo comunista non avrebbe avuto bisogno di un capitolo marxologico se non ci fosse stato il bisogno di chiarire alcuni presupposti essenziali, che qui ripeto. In primo luogo, l’attività filosofica non è una sovrastruttura, come non lo sono del resto la scienza sperimentale, l’arte e la religione. Soltanto le loro ricadute ideologiche lo sono. L’attività filosofica non può avere fine, la filosofia non può certo terminare con la sua presunta, escatologica e idiota “realizzazione”, in quanto non esisterà mai una realizzazione definitiva della filosofia stessa. Errare è umano, ma perseverare è diabolico. Si è errato molto interpretando il comunismo come una sorta di messianesimo escatologico da fine della storia. Ma è diabolico, o forse meglio dire idiota, mantenere questa concezione infantile. Non esiste fine della storia. In secondo luogo, non esistono leggi storiche che possano portare alla comunità umana, né universale né particolare. La comunità umana, sia particolare che universale, è un risultato esclusivo

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di una prassi comunitaria, e cioè di una prassi di solidarietà nel rispetto dell’individualità. E per questo il riferimento alla scuola di Marx non è sufficiente, e può addirittura essere fuorviante, se questo non viene chiarito e ribadito senza stancarsi.

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III Verso una definizione condivisa di comunitarismo Il comunitarismo come etica e come politica

1. È possibile arrivare ad avere una definizione condivisa di comunitarismo? No, è assolutamente impossibile. È possibile ovviamente proporre alcuni elementi credibili per una sua definizione generica, ma è impossibile pensare di poter giungere a un’unica definizione condivisa. E la ragione di questa impossibilità è molto semplice. Comunque lo si intenda, il comunitarismo è una unità di teoria e di pratica (e più esattamente di teoria comunitaria e di pratica solidaristica), e le unità di teoria e di pratica non possono essere definite. Soltanto la teoria, o per ripetizione pleonastica la “teoria teorica” può essere definita con categorie e concetti teorici. Se un “ismo” connota un’unità concreta di teoria e di pratica, questo “ismo” non può essere definito per principio, perché soltanto le forme storiche e sociali concrete della sua messa in pratica hanno in realtà un valore normativo. Si tratta di un fatto semplice e intuitivo. E tuttavia è bene averlo sempre ben presente. Hegel aveva ragione quando scrisse che è inutile definire teoricamente il nuoto prima di nuotare. Da un punto di vista astratto, il comunitarismo è soltanto l’astratto contrario polare dell’individualismo e del collettivismo, che in quanto opposti in correlazione essenziale non fanno che rovesciarsi continuamente l’uno nell’altro. Concretamente, soltanto la pratica co-

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munitaria può alla lunga mostrare la sua superiorità rispetto alle pratiche individualistiche e collettivistiche. 2. Le definizioni che cercherò di dare in questo capitolo sono pertanto del tutto formali e astratte. Per sgombrare il terreno da alcuni possibili equivoci inizierò prima dal rapporto fra relativismo e universalismo, e cioè fra usi particolari e possibilità di una norma universalismo, e cioè fra usi particolari e possibilità di una norma universale di comportamento estendibile in via di principio all’intera umanità, pensata come se fosse un solo soggetto unitario. Passerò poi a discutere una teoria dell’individuo, perché senza una teoria dell’individuo non ci può neppure essere comunitarismo, se non in forme regressive. Terminerò infine con una discussione sul comunitarismo come etica e come politica. E tuttavia. Questo non potrà che restare inevitabilmente astratto, se non è pensato in modo contrastivo all’individualismo e al collettivismo. 3. Partiamo da due esempi facili, concreti e reali. Ci sono comunità che impongono alle loro donne il velo integrale, detto burka. Ci sono comunità che impongono alle loro donne l’escissione del clitoride, o infibulazione. E potremmo continuare, dal lavoro infantile ai matrimoni combinati in giovane età dalla famiglia, fino a un insieme di comportamenti considerati del tutto inaccettabili all’interno della nostra tradizione culturale. Un tempo c’erano anche i roghi delle vedove bruciate con i corpi dei mariti, i sacrifici umani degli aztechi, o la tratta degli schiavi, eccetera. Le comunità umane hanno prodotto i comportamenti più diversi. Nelle sue Storie Erodoto parla della corte del re di Persia, in cui si incontrano i greci e gli indiani Calani, entrambi suoi sudditi. I greci seppelliscono i loro genitori morti, mentre gli indiani Calani li mangiano. Entrambi ovviamente si scandalizzano e trovano orribili gli usi degli altri, i greci della Ionia perché considerano gli altri cannibali, e gli indiani Calani perché i greci lasciano i loro morti

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in preda ai vermi, le creature più schifose della terra. Ed è chiaro che non esiste nessun criterio “scientifico” o “oggettivo” per sapere chi dei due fa peggio. L’evidenza della diversità sta all’origine dell’interminabile dibattito fra relativisti ed universalisti. Non possiamo certo risolvere su due piedi un dibattito aperto da millenni. Ma possiamo almeno impostarlo, e la sua impostazione ci aiuterà a farci idee più chiare sul rapporto fra comunitarismo e comunismo. Ogni comunità è infatti per sua natura particolare, e quindi relativa al tempo e al luogo in cui sviluppa i propri costumi condivisi dal gruppo. Il comunismo si pone invece come idea universale, in quanto concetto universalistico contrapposto ad altri concetti universalistici, come per esempio il liberalismo individualistico, che è appunto l’attuale profilo (pseudo) universalistico sostenuto dalla globalizzazione capitalistica. Esaminiamo allora tutte le possibilità che nascono da questa discussione. 4. In primo luogo, è possibile sostenere un relativismo filosofico assoluto. Non esiste criterio, infatti, per decidere se sia meglio coprire il corpo della donna piuttosto che denudarlo. Il codice occidentalistico sostiene che il diritto al corpo pubblico seminudo fa parte di un diritto universale chiamato “libertà” e autodeterminazione, ma non ci vuole molto a capire che il concetto di libertà individuale inteso come autodeterminazione assoluta è soltanto l’esito provvisorio di una storia del capitalismo occidentale. Esiste allora una fondazione filosofica del relativismo comunitarista (Rorty). Non esiste verità filosofica, l’uomo è la misura di tutto ciò che c’è o non c’è (Protagora), ma l’Uomo con la maiuscola non esiste, e ci sono soltanto “uomini” diversi di diverse comunità. E allora non posso dire che l’infibulazione femminile è un male in assoluto. Posso soltanto dire che nella nostra comunità, sulla base dei nostri valori, noi non la sopportiamo e la puniamo penalmente. Il criterio della verità diventerebbe allora soltanto l’assenso maggioritario all’interno della propria comunità. Se si prende questa strada, allora la sola filosofia del comunitarismo diventa il relati-

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vismo. Vogliamo prendere questa strada? È possibile farlo. E tuttavia io non intendo assolutamente farlo. 5. Filosoficamente parlando, il comunitarismo può avere sia una fondazione relativistica che una fondazione universalistica. La fondazione relativistica è facilissima, quella universalistica è molto più difficile, perché implica la categoria di verità. Io scelgo la via più difficile, e per questo è necessario argomentarla. La via relativistica della fondazione del concetto di comunitarismo è molto facile. Si può constatare, infatti, che tutte le comunità umane si sviluppano sulla base di costumi, usi e consuetudini particolari di carattere storico. La loro fondazione è generalmente basata su comandamenti religiosi, che poi si secolarizzano non certo sulla base di una fantomatica “ragione” universale, ma su di un insieme di “ragioni” (al plurale) che sorgono dalle differenziate secolarizzazioni. La grande debolezza del cosiddetto “laicismo” occidentalistico sta appunto nel non capire che esso non si ispira affatto a una fantomatica “ragione” in generale, ma si ispira semplicemente alla secolarizzazione illuministica e positivistica della tradizione cristiana occidentale, in generale nella sua variante individualistico-protestante. Il comunitarismo relativistico occidentale è una forma di occidentalismo, e l’occidentalismo è sempre e soltanto un’identità della tribù occidentale, come chiariremo nel prossimo capitolo. I principali argomenti del relativismo comunitario contro l’universalismo sono due. In primo luogo, il relativismo comunitario afferma che ogni universalismo è indimostrabile, in quanto ogni argomento in suo favore può essere contrastato da un argomento scettico contrario. Soltanto la matematica e le scienze dotate di apparati matematici possono aspirare a un certo universalismo (questo era già chiaro a Pitagora e Platone, che su questa base costruirono la prima forma di idealismo filosofico), ma esse non possono dire nulla riguardo al bene e al male, ai costumi buoni e a quelli cattivi, eccetera. In secondo luogo, il relativismo comunita-

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rio afferma che ogni universalismo è pericoloso, perché la sua pretesa di possesso della verità universale inevitabilmente comporta la pretesa di estensione coatta e forzata al popolo dei “non credenti” (pensiero debole, Vattimo, eccetera). È chiaro, se si difende l’universalismo, bisogna tener conto di queste obiezioni e reimpostare in modo nuovo la questione. Non bisogna farsi spaventare dagli schiamazzi e dai ridacchiamenti postmoderni. Bisogna ignorarli e avere il coraggio di riaffrontare e ridefinire il vecchio, venerabile, e sempre nuovo e attuale problema della verità. 6. Per affrontare positivamente il problema della Verità bisogna passare dal suo livello astratto al suo livello concreto. E per farlo bisogna essere severi e inesorabili con i tre modi classici in cui viene impostato nel circo culturale che ci circonda: la riduzione religiosa, la riduzione scientistica, e infine la destoricizzazione sapienziale. Il discorso sarebbe lungo, ma qui mi limiterò a quanto basta per l’oggetto che ci siamo posti, e cioè la coniugazione di comunismo e di comunitarismo. Le religioni, tutte le religioni senza eccezione, concepiscono la verità come rivelazione divina, che lascia agli uomini soltanto il compito accessorio della sua spiegazione e della sua divulgazione. In questo mondo non c’è nulla di male. Il male c’è quando questa impostazione fa da supporto ideologico e politico a strategie politico a strategie politiche assolutistiche di normatività sociale coatta (inquisizione, eccetera). Ma in Europa tutto questo è sostanzialmente finito fra il Seicento e l’Ottocento. Oggi la normatività sociale coatta è esercitata in nome dell’occidentalismo secolarizzato, a base non più religiosa ma “laica”. Dal momento che il profilo medio del laicismo è individualistico, liberale, globalizzato, politicamente corretto, relativistico e nichilistico, personalmente preferisco di gran lunga il profilo religioso, del tutto indipendentemente dalla esistenza esterna o meno di una divinità monoteistica personalizzata (cui personalmente non credo – ma questo riguarda solo me, non la valutazione socio-politica del presente storico, che non può essere fatta a partire dalla contemplazione affascinata e nar-

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cisistica del mio ombelico). E comunque c’è di fatto. Le religioni sono molte, alcune non si pongono il problema dell’universalismo (induismo, shintoismo, e anche per molti versi il buddismo), alcune invece se lo pongono (cattolicesimo, islam), ma tutte hanno in comune un paradosso, per cui la loro fondazione su di una rivelazione divina che chiama alla “fede” e alla credenza non è essa stessa un principio universalistico razionale di convincimento degli altri. A questo paradosso alcuni cercano di sfuggire con il penoso minimo comun denominatore del cosiddetto “ecumenismo”, vera e propria contraddizione in termini, per cui si cerca quello che è in “comune”, vera e propria contraddizione in termini, per cui si cerca quello che è in “comune” in tutte le religioni in una sorta di astratta buona volontà e in un umanesimo minimalistico generico. La cosa è fastidiosa per i credenti e penosa per i filosofi. Nulla è più inutile e grottesco dei penosi concerti ecumenici buonisti e pecoreschi, non a caso ampiamente sponsorizzati dai circhi mediatici delle oligarchie capitalistiche. Personalmente, la sola cosa che mi interessa nelle religioni è la loro radicale unilateralità, che rispecchia la pluralità delle esperienze religiose, sia individuali che comunitarie. La pappa ecumenica fa parte di una corrente filosofica secondaria chiamata umanesimo minimalista generico, di scarsissima attrattiva e interesse. La verità religiosa non può ambire all’universalità per sua stessa natura, in quanto si basa su di un principio programmaticamente non universalistico come la credenza soggettiva, “irrazionale” per sua stessa intrinseca natura, che implica un “atto di fede” unilaterale (del resto ammesso apertamente e addirittura apologizzato, vedi nella nostra cultura Pascal o Kierkegaard). La scienza, o piuttosto la scienza galileiana moderna di Cartesio e di Kant, non sa che farsene della verità, che tratta come residuo metafisico o nel migliore dei casi come ideale regolativo che si perde nelle nebbie asinottiche dell’infinito come concetto-limite, in quanto ciò che le interessa non è la verità stessa, ma la certezza del corretto e ripetibile accertamento da parte del soggetto, ridotto a unità di pretesa di conoscibilità del mondo ester-

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no ridotto a oggettività matematizzabile e sperimentabile, una simile riduzione della verità ontologica e certezza gnoseologica non può ovviamente dirci nulla sulla natura comunitaria del nostro vivere sociale e sulla fondatezza dei suoi costumi etici e politici, e lo ammette anche apertamente (morale provvisoria in Cartesio, morale puramente intenzionale, individualistica e soggettivista in Kant, morte di Dio e fine della morale in Nietzsche, politeismo dei valori morali come frutto del disincanto del mondo in Weber, riduzione della morale a ideologia in Lenin e Mao Tse-tung, eccetera). La ricaduta dello scientismo (da non confondere – per carità – con la pratica scientifica, sapere utilissimo del tutto non filosofico, come sono non filosofiche la guida di una locomotiva o l’operazione chirurgica) è necessariamente il nichilismo e il relativismo filosofici, e per questo tutte le critiche allo scientismo (Husserl, Heidegger, Adorno, Ratzinger, eccetera) sono per principio benvenute e provvidenziali, anche se il coro gracchiante degli apologeti del capitalismo le diffamerà sempre come “irrazionalismo”, rifiuto della modernità, rimpianto per il medioevo, culto della lettura dei fondi di caffè, e altra spazzatura ideologica del genere. C’è infine la fastidiosa e sapienziale destoricizzazione. La scuola di Marx avrebbe dovuto fare da antidoto alle tendenze destoricizzanti, ma questo non è purtroppo avvenuto, perché a partire dalla fondazione del primo codice marxista (1875-1895), la concezione della storia della filosofia occidentale del marxismo è “partita male”, attraverso la sovrapposizione astorica della dicotomia (inesistente) di Materialismo e Idealismo, dicotomia per di più concepita in forma puramente gnoseologica, attraverso la penosa teoria del rispecchiamento, come se la realtà sociale, anziché essere una interazione dialettica fra soggetto e oggetto, fosse un “oggetto” da rispecchiare come i movimenti del pianeta, i vasi comunicanti in idraulica o la sintesi clorofilliana. Il grottesco “spareggio” fra le due squadre (i “rossi” del materialismo e gli “azzurri” dell’idealismo) hanno reso del tutto impossibile una ricostruzione razionale della storia del pensiero occidentale, senza la quale (occorre

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ribadirlo ai sordi e soprattutto ai distratti) nessuna riproposizione del comunitarismo è possibile. In questa destoricizzazione del problema della verità si distingue purtroppo un pensatore per altri versi dotato, come Martin Heidegger. Sembra quasi che il problema della verità non abbia nessuna genesi storica e sociale precisa, ma nasca a partire da un errore umano, per cui a un certo punto della storia umana alcuni generici “greci” (e Platone in particolare) avrebbero incomprensibilmente smesso di concepire la verità come disvelamento sapienziale di un precedente nascondimento (a-letheia) per concepirla come accertamento della correttezza della visione intuitivo-intellettuale delle cose (orthotes). Tutto questo è semplicemente vergognoso. Lo ripeto: vergognoso. Il problema della verità non è un problema sapienziale di cambiamento del punto di vista degli individui destoricizzati e sradicati dal loro contesto storico. Esiste un punto di vista comunitarista che si oppone radicalmente a questo modo di vedere. La verità, infatti, nasce come funzione di sopravvivenza e di riproduzione della comunità, e in un secondo tempo, irrobustita dalla mediazione religiosa prima e dalla riflessione filosofica poi, evolve come modello di vita comunitaria buona e solidale. Ma è bene chiarire i passaggi logici principali, anche se sommariamente. 7. I concetti non cadono dal cielo, ma nascono da situazioni concrete di tipo sociale e comunitario. Il concetto di verità non nasce da errori o da rivoluzioni religiose, e neppure da accertamenti di tipo “scientifico” sulla natura. Il concetto di verità nasce e si sviluppa come funzione di sopravvivenza e di riproduzione di una comunità. Vero è ciò che permette la sopravvivenza e la riproduzione della comunità, Falso è ciò che ne mette in pericolo la sopravvivenza e la riproduzione. Il cosiddetto Sacro, che poi si stabilizza e si istituzionalizza in rivelazioni religiose e in apparati sacerdotali (talvolta composti da una sola persona, come gli sciamani siberiani), ha la funzione di garantire la permanenza nel tempo delle re-

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gole di questa sopravvivenza e di questa riproduzione. La filosofia ha lo stesso oggetto della religione (la sopravvivenza e la riproduzione della comunità), ma si sviluppa solo in un secondo tempo, quando la precedente unità religiosa di macrocosmo naturale e di microcosmo sociale viene “fessurata” non tanto da nuove presunte “scoperte scientifiche”, quanto da una nuova articolazione di gruppi e classi sociali. La stessa aritmetica ha una genesi materiale. Abbiamo dieci dita, contiamo e tocchiamo gli oggetti con dieci dita, e di lì nasce il sistema decimale. Unica eccezione sono stati i Maya, che avevano un sistema a base venti anziché dieci, e si ipotizza che contassero anche con le dita dei piedi. Se avessimo dodici dita, avremmo certo elaborato un sistema duodecimale, che sarebbe stato astrattamente molto più razionale. Mentre dieci può essere diviso esattamente solo per due e cinque, dodici può essere diviso per due, tre, quattro e sei. La verità non nasce in opposizione alla relatività, ma nasce come funzione di comunità relative. Per una comunità di allevatori, la verità è la piena disponibilità di pascoli non recintati. Per una comunità di agricoltori, la verità è la possibilità di coltivare con recinzioni. Hegel ha dunque avuto ragione, nella sua Fenomenologia dello spirito, a sostenere che alle origini della civiltà non sta un contratto sociale discusso sulla base di precedenti diritti naturali (giusnaturalismo più contrattualismo), ma ci sta uno scontro violento, da cui deriva l’opposizione fra signori e servi. I signori e i servi non possono avere una verità in comune, e devono necessariamente sviluppare almeno due verità opposte. La verità per sua stessa natura è una funzione della lotta di volontà sociali e politiche contrapposte. Il genere umano astrattamente può avere una verità sola, ma finché sarà diviso in dominanti e in dominati avrà sempre necessariamente almeno due verità. Ma due verità, astrattamente parlando, equivalgono a nessuna verità. I relativisti, che si credono sempre molto intelligenti, disincantati e scettici, non fanno altro che assolutizzare una situazione storica realmente esistente, quella della divisione frontale fra sfruttati e sfruttatori.

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La verità universale, quindi, può soltanto essere il prodotto di una unificazione storica e geografica del genere umano. Cacciatori, allevatori e agricoltori non possono avere un’unica verità, se non nella forma impotente e astrattizzata dell’unificazione ideale del genere umano. Ma da quando la terra è stata virtualmente unificata, l’unificazione universalistica veritativa, prima inesistente, diventa attuale, nel senso aristotelico del termine di passaggio dalla potenza (dynamis) all’atto (energheia), passaggio che può anche essere scritto in modo hegeliano come passaggio dall’In Sé al Per Sé, ove il termine Per Sé venga inteso come il concetto (Begriff) di una soggettività storica umana divenuta autocosciente e consapevole delle proprie potenzialità contenute nella sua natura (in termini aristotelici, dynamei on). Nel mondo, oggi, si scontrano due universalità veritative opposte e incompatibili. Una candidatura alla veritatività universalistica di tipo individualistico e occidentalistico, e una candidatura alla verità universalistica di tipo comunitaristico. La seconda è la sola in grado di sviluppare razionalmente una doppia “ecologia”, una ecologia della natura e una ecologia dell’uomo, in cui la seconda è ancora più importante della prima. 8. C’è subito un possibile equivoco da chiarire. Una simile definizione del Vero contrapposto al Falso (il Vero come funzione di una sopravvivenza e di una riproduzione comunitaria) è generalmente classificata nelle tassonomie dei dizionari filosofici come definizione “utilitaristica”. Il Vero sarebbe l’utile, e in questo caso coinciderebbe con l’utilità della comunità. Niente di più errato. L’utilitarismo è un “ismo” che nasce soltanto nel Settecento europeo, e prima non esisteva. Il fatto che dalla notte dei tempi sia “utile” accendere il fuoco o cingere la città da mura di difesa, eccetera, non fa certamente ancora “utilitarismo filosofico”. Che ognuno miri soprattutto al suo utile personale (pleonektein) era già perfettamente noto ai greci. Ma il vero e proprio utilitarismo, da David Hume e Adam Smith fino a Bentham e a Stuart Mill,

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è una corrente che nasce soltanto nel Settecento, in strettissima correlazione con l’autofondazione su se stessa dell’economia politica capitalistica. Per autofondarsi esclusivamente su se stessa, l’economia politica ultracapitalistica inglese deve prima sbarazzarsi da ogni fondazione per così dire “eteronoma”. In proposito, non basta una teoria della natura umana di tipo individualistico-­robinsoniano, per cui la proprietà privata capitalistica è dedotta razionalmente da una pretesa teoria delle caratteristiche immutabili della natura umana. Ci vuole una serie di distruzioni preventive, perché il terreno venga sgombrato per la sovranità assoluta dell’utilitarismo individualistico. Bisogna sgombrare la sovranità di Dio come giudice in ultima istanza dell’ordinamento sociale del mondo, la sovranità della comunità come giudice della differenza fra economia e crematistica, e infine le sovranità del diritto naturale e del contratto sociale. Ed è questo allora il vero e proprio “utilitarismo”, la teoria dell’individualismo capitalistico della sovranità assoluta dell’economia sganciata da ogni fondazione precedente (la volontà divina, la comunità solidale, il diritto naturale, il contratto sociale, eccetera). Chi cerca una fondazione puramente utilitaristica al comunitarismo è del tutto fuori strada. 9. Chi si orienta sulla genesi storica del concetto di verità ha la chiave concettuale per comprendere il codice filosofico do­minante del nostro tempo. Questo codice è una “foresta” composta da molti e diversi alberi, ma in quanto “foresta” è assolutamente unitaria. Il codice filosofico dominante è composto da una superficie e da una profondità. La superficie è composta da una sorta di relativismo ostentato, che nasconde in profondità un solo assoluto, l’assoluto della produzione capitalistica incontrollata. Tutto è relativo, in quanto tutto è sottoposto alla sovranità del solo valore di scambio, e il valore di scambio si manifesta in poteri d’acquisto differenziati di beni e servizi, per cui nel mondo oggi si hanno

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miliardi di “assoluti relativi”, formati da miliardi di differenziati poteri d’acquisto di valori di scambio. Ecco perché il Comunitarismo fa bene a richiamarsi alla scuola di Marx. Marx è infatti il solo grande pensatore in grado di spiegare questo meccanismo perverso di disumanizzazione del genere umano. Il Dio di Ratzinger o la Tecnica di Heidegger spiegano certamente molto, e per questo sono infinitamente migliori del distruttivo laicismo individualistico e nichilistico, ma si fermano però a metà strada. In realtà, esiste la verità, e non è per nulla pericolosa, dispotica e autoritaria, se non per le classi sfruttatrici. E la verità sta nel fatto che i due ecosistemi, quello naturale e quello umano, non potranno ancora reggere a lungo il modello di accumulazione capitalistica di tipo individualistico e privatistico, e che una riqualificazione comunitaria diventerà sempre più possibile e necessaria. Questa è la “verità” che ci sentiamo di poter comunicare, che non è in alcun modo autoritaria, totalitaria, intollerante, dogmatica, fanatica, eccetera. Il relativismo oggi è una protesi manipolatrice del potere, che nasconde il suo assoluto, e cioè il dominio incontrollato del potere di scambio, dietro la superficie multicolore della modernità, del politeismo dei valori, della morte di Dio, della crisi dei fondamenti, dello scetticismo liberale, della fine delle grandi narrazioni, del disincanto del mondo, della secolarizzazione integrale, eccetera. Chi crede che tutta questa “roba” sia roba specialistica per filosofi non coglie il centro della questione. O ci si libera pacatamente e razionalmente da tutta questa “roba”, o è del tutto inutile riempirci la bocca con paroloni come comunismo, comunitarismo, eccetera. Chi vuole costruire un edificio stabile, deve prima sgombrare le macerie che occupano il terreno. 10. Il paradosso massimo e principalissimo del comunitarismo sta in ciò, che il comunitarismo appare il solo modo culturalmente e socialmente praticabile per salvare l’individuo dai processi di spersonalizzazione e di annullamento all’interno di apparati anonimi, impersonali e autoreferenziali di tipo economico. Riflettiamo su questa citazione di Marx:

95 I rapporti di dipendenza personale (all’inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto e in punti isolati. L’indipendenza personale (fondata sulla dipendenza materiale) è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità. La libera individualità fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio. Il secondo crea le condizioni del terzo.

A mio avviso, questa è la citazione più importante di Marx. Ovviamente, si tratta di una legittima valutazione personale che non impongo a nessuno. In questa sede di composizione di un manifesto storico-filosofico del partito comunitarista, che non è ovviamente una sede di filologia marxologica, questa citazione dovrà essere prima commentata nei suoi elementi problematici, e da questo commento deriverà poi una interpretazione comunitarista dell’individuo, la sola che possa fare da fondazione filosofica seria della coniugazione di Comunismo e di Comunitarismo. 11. Iniziamo con un breve commento di questa ricchissima citazione marxiana, non certo per pedante filologia citatologica (la citatologia è quasi sempre un alibi per la morte della libera interpretazione creativa di un testo), ma per gli scopi che ci siamo posti. In primo luogo, questa citazione mostra che in Marx non c’è soltanto una teoria della storia, ma c’è anche una filosofia della storia. La teoria della storia, infatti, si limita a indagare insiemi anonimi ed impersonali, preventivamente svuotati di ogni “umanesimo” e di ogni antropocentrismo idealistico (modo di produzione, forze produttive, rapporti di produzione, ideologia, estorsione del plusvalore, cause delle crisi capitalistiche, eccetera). Introdurre parole come dipendenza personale, indipendenza personale e libera individualità, e per di più in successione orientata dal peggio al meglio, significa collocarsi in una ottica di filosofia della storia, e

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non di semplice teoria della storia. Se poi i seguaci di Althusser o di Ricardo travestito da Marx non lo capiscono, questo è affare loro e non ci riguarda più. In secondo luogo, è evidente che Marx non fa che dare espressività antropologica alla successione dei modi di produzione, precapitalistici (dipendenza personale), capitalistico (indipendenza personale), ed infine socialista e comunista (libera individualità). È del tutto evidente che il solo modo di rendere filosoficamente espressivi i modi di produzione sta nel fornire loro un profilo di antropologia filosofica. In realtà, la successione storica proposta da Marx “salta” una fase precedente, quella della comunità tribale primitiva in assenza di classi contrapposte, per cui a rigore le fasi antropologiche sarebbero quattro e non tre. Ma si tratta di un punto secondario che possiamo lasciare tranquillamente da parte. In terzo luogo, il continuo ritornare del termine “universale” (relazioni universali, bisogni universali e capacità universali) permette di collocare Marx fra i filosofi universalisti e non fra i filosofi relativisti. In quanto erede di due grandi filosofi universalisti (Spinoza e Hegel), è evidente che anche Marx non può che essere universalista. In quarto luogo, a proposito del capitalismo, Marx dice sinteticamente due cose. Primo, che il capitalismo è caratterizzato dalla figura antropologica diffusa dell’indipendenza personale, che questa figura è migliore di quella precedente (la dipendenza personale precapitalistica), e che è all’interno di questa figura che si sviluppano le tre dimensioni della vera e propria universalità (relazioni, bisogni e capacità). Secondo, che la libera individualità presuppone la precedente indipendenza personale. Sta qui la sua visione “progressistica” della storia, sulla base della quale è inserito il ruolo “progressistico” della società capitalistica, e persino il ruolo “progressistico” dello stesso sfruttamento capitalistico (in linguaggio hegeliano, il “potere del negativo”). A questo punto, i problemi teorici da affrontare diventano due. Primo, dal momento che il capitalismo gioca un ruolo positivo

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nella storia, quali sono i parametri per affermare che questo ruolo positivo è terminato, e che da un certo momento storico in poi esso è soltanto più assoluta negatività, ed è giunto il momento del suo rovesciamento comunista (per noi, comunitarista-comunista)? Secondo, che cosa può significare esattamente “libera individualità”, che per non restare una frase vuota deve potersi riempire di qualche determinazione concreta ulteriore? Cerchiamo di rispondere a queste due domande nel modo più esplicito possibile. 12. Esiste un mantra che i “marxisti” ripetono da un secolo e mezzo, per cui il capitalismo è una unità dialettico-contraddittoria in solidarietà antitetico-polare di emancipazione e di alienazione. Da un lato (lato positivo) il capitalismo è emancipativo rispetto ai modi di produzione precapitalistici, perché non solo sviluppa le famose forze produttive (precondizione materiale del comunismo), ma rafforza anche le forme di libertà dell’individuo rispetto ai precedenti dispotismi religiosi e politici. Si tratta – lo si noti bene – di una semplice variante della teoria del progresso, la filosofia preferita della borghesia capitalistica. Dall’altro lato (lato negativo), il capitalismo è la società dell’astrattezza disumanizzante del legame sociale, dell’alienazione e dello sfruttamento del lavoro, del feticismo delle merci, dello scambio ineguale del colonialismo, della brutalità militare dell’imperialismo, eccetera. Fin qui, siamo nel campo dell’ovvietà, e appunto dell’interpretazione. Se ci limitassimo a questo, Marx sarebbe il cavaliere dell’asino di Buridano, che si trova nel mezzo di due elementi antinomici, e non ha ragioni per scegliere l’uno o l’altro per cui resta inattivo e impotente fino alla morte. È chiaro che bisogna uscire dall’antinomia, e decidere se ormai l’equilibrio è rotto, e ormai il lato negativo prevale talmente su quello positivo da far considerare il capitalismo storicamente ormai del tutto illegittimo, nel senso che la sua “legittimità” si fonda soltanto sulla pura forza militare e poliziesca e sulla manipolazione organizzata dei suoi sudditi. Questa situazione, peraltro, non è affatto una novità, e conviene ripensare a quando si è storicamente presentato un caso del genere.

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Lo spostamento dell’equilibrio della bilancia sul lato della negatività si è già presentato nel 1917, al tempo della legittimazione della Rivoluzione Russa. Non si tratta tanto dell’argomento di Lenin (a mio avviso, una semplice argomentazione epistemologicosofistica) per cui nell’epoca dell’imperialismo, diversa dall’epoca del libero scambio in cui aveva riflettuto Marx, la rivoluzione socialista poteva e doveva partire dagli anelli deboli della catena mondiale imperialistica (e cioè la Russia), e non più nei punti alti dello sviluppo capitalistico delle forze produttive (e cioè la Germania, l’Inghilterra, eccetera). Questa è solo un’argomentazione interna alla tribù dei teorici marxisti, del tutto irrilevante per le cosiddette “persone normali”. In realtà, è il massacro imperialistico di milioni di persone della grande guerra 1914-1918 (che è del 1915-1918 per l’Italia, del 1917-1918 per gli USA, ma del 19121922 per la Turchia, eccetera), che consente a Lenin di affermare che il periodo storico positivo del capitalismo è finito. Il fatto che l’esperimento di ingegneria sociale sotto cupola geodesica protetta (Jameson) definibile come “comunismo storico novecentesco” sia fallito non muta di un grammo il giudizio di Lenin. Siamo oggi di fronte a una situazione analoga al 1917, sia pure fortunatamente non dopo un macello imperialistico di milioni di persone sacrificate ai profitti capitalistici. Oggi, se ci collochiamo su di una scala globale mondializzata, il capitalismo appare regressivo sia sul piano dell’ecologia naturale (distruzione ambientale del pianeta), sia sul piano dell’ecologia umana (manipolazione dell’individuo in funzione di una sua riduzione ad atomo di consumo). Per questa ragione è possibile dire che ogni funzione progressiva ed emancipativa del capitalismo si sta esaurendo, e appaiono ormai in superficie soltanto i lati orribili dell’alienazione e dello sfruttamento. Si dirà che questa è una valutazione discutibile, personale ed eccessivamente pessimistica, se non “catastrofistica”. Non posso certamente impedire che lo si pensi. Qui entriamo in un campo in cui un certo grado di arbitrarietà valutativa non può essere impedito. Paradossalmente, la mia valutazione sul profilo culturale di

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oggi è molto simile a quella di Joseph Ratzinger. Il fatto che poi Ratzinger sia interno a una contraddizione fra il suo essere capo di una forza occidentalistica, tendenzialmente anti-islamica, filoamericana, connivente con il sionismo, anticomunista, interna alla legittimazione del capitalismo, da un lato, e il suo essere un portatore filosofico di una critica radicale alle manifestazioni della cultura capitalistica (spettacolarizzazione della religione, arbitrarietà nella scelta dei generi e del sesso, relativismo assoluto, nichilismo postmoderno, eccetera), riguarda lui e la sua chiesa, non certo me, che sono un privato cittadino politicamente del tutto impotente. La crescita delle mostruose diseguaglianze economiche e sociali, in virtuale presenza di una tecnologia che potrebbe ridurre fortemente la penuria dei beni e dei servizi, è certamente il principale fattore di delegittimazione integrale del moderno capitalismo. Bisogna allora affrontare insieme e separatamente i tre temi: degradazione dell’ambiente naturale; degradazione dell’ambiente economico; degradazione del profilo della libera individualità, chiedendoci che cosa significa in ultima istanza “libera individualità”, perché non resti una parola vuota. 13. La saggezza filosofica greca aveva già perfettamente capito che l’illimitatezza (apeiron) è sinonimo di corruzione e di dissoluzione, in quanto solo ciò che è determinato e limitato può essere fatto oggetto di ragione, ordine, limitazione, armonia, e di conseguenza concordia. La produzione capitalistica per sua stessa incoercibile natura è illimitata, in quanto non esistono limiti alla ricerca del profitto e alla creazione continua di nuovi bisogni artificiali. Mentre il comunismo di Marx si basava sul concetto di bisogno, sia pure nella forma del bisogno ricco, evoluto e universale, e non nella forma “naturalistica” tipica di Rousseau (sta qui una delle differenze principali fra Rousseau e Marx), e il bisogno sta anche alla base del concetto di comunità solidaristica, il capitalismo si basa sulla ricerca illimitata del desiderio (e – aggiungo io – in quella variante ultracapitalistica del “comunismo” che è il pensiero di Toni Negri), attraverso lo strumento della pubblicità

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e dell’imposizione manipolata di sempre nuove forme artificiali di vita (cosa che gli intellettuali più stupidi chiamano a volte ieraticamente “modernità” o “postmodernità”, concetti assolutamente interscambiabili). C’è però un problema. Se la produzione capitalistica è potenzialmente illimitata, e non ha “misura” (metron) per sua stessa incoercibile regola di funzionamento, l’ecosistema terrestre è invece limitato. Se è così, come è difficile negare, allora esiste una vera e propria “opposizione reale senza contraddizione” fra l’illimitatezza della produzione capitalistica e la limitatezza dell’ecosistema mondiale. Se il capitalismo potesse espandersi su centinaia di pianeti abitabili, potrebbe “spremerne come limoni” alcuni e lasciarli ruotare nello spazio, ma nelle nostre condizioni abbiamo un pianeta solo, e se lo spremiamo come un limone verremo spremuti anche noi con lui. Le oligarchie al potere devono ovviamente oscurare questo semplice fatto, la cui comprensione è alla portata di un bambino sveglio. Da un lato, esistono prezzolati buffoni (ricordo uno scienziato danese di cui mi sfugge il nome) che sostengono che non c’è nessuna crisi ecologica in atto e che gli ecologisti esagerano, per cui gli ecologisti non sono che la variante moderna degli apocalittici, dei catastrofisti e dei torvi nemici della scienza e della tecnica. Aprite le pagine culturali dei giornali dell’oligarchia e vi divertirete a leggere rassicurazioni di questo tipo. Chiedetevi chi paga questi giornali e avrete la motivazione della visibilità mediatica di questi buffoni minimizzatori, che si comportano come gli “esperti” un tempo pagati dai produttori di sigarette, che spiegavano dottamente come il fumare non c’entra nulla con il cancro ai polmoni. Dall’altro, negli ultimi trent’anni sono stati fatti crescere in Europa alcuni ferocissimi e corrottissimi ceti politici professionali dipinti di verde, che avrebbero dovuto avere il monopolio dell’ambiente e dell’ecologia, e la cui fine storica è sotto gli occhi di tutti, nel senso della “copertura verde” ai bombardamenti della Jugoslavia nel 1999 e della riconversione in concerto gracchiante della teologia dei diritti umani a bombardamento incorporato. Infine,

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l’attribuzione del premio Nobel ad Al Gore rivela non certo una inesistente “sensibilità ecologica” delle corrottissime commissioni assegnatrici di Oslo e di Stoccolma, quanto il fatto che il business verde comincia a diventare appetibile in termini di profits per le oligarchie finanziarie USA. Il passaggio da Bush a Obama del 2008 non dovrebbe cambiare molto sul piano delle aggressioni imperiali USA, ma dovrebbe cambiare forse qualcosa sul piano del business verde. Questo significa che, al di là dei giullari minimizzatori ben pagati dagli inquinatori, le stesse oligarchie capitalistiche cominciano a prendere sul serio le diagnosi preoccupate più sensibili al problema ambientale. Sarà il capitalismo in grado di passare dalla logica della produzione illimitata a una logica della produzione controllata e limitata? Non si può certo escluderlo a priori. Il capitalismo resta pur sempre un sistema abbastanza flessibile. Certo, questo sarebbe incompatibile con il modello della globalizzazione neoliberista, ma non si può escludere a priori forme di riconversione protezionistica e statalmente più controllata. Non si può escludere a priori, ma soggettivamente lo ritengo improbabile. È vero che – per dirla con il cantante Enzo Jannacci – i capitalisti sono pazzi, ma non sono scemi. Anche i capitalisti hanno figli e nipoti, e certamente in via teorica non vorrebbero fargli ereditare un mondo invivibile perché inquinato. E tuttavia, non sono fra quelli che pensano sia realmente possibile una sorta di reversibilità temporale del capitalismo, con ritorno all’indietro da un modello cannibalico e distruttivo di globalizzazione neoliberista (con tutta la fanfara degli intellettuali al seguito: estinzione degli stati, nazioni come semplici comunità immaginarie, multiculturalismo anglosassone al posto delle culture nazionali, eccetera) a un modello di statalismo keynesiano. Tutto è possibile, ma questo mi sembra improbabile. E tuttavia la questione ambientale non può essere affrontata, in assenza di un ancora immaturo comunitarismo comunista, che dà un rilancio della sovranità nazionale degli stati. Un punto, questo, che l’anarchismo socialmente tollerato non potrà capire mai.

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14. Per più di un secolo ci fu una interminabile discussione politica fra cosiddetti “riformisti” e cosiddetti “rivoluzionari”. La cosa più interessante e paradossale sta in ciò, che i due campi condividevano la stessa ideologia del progresso, nel senso che la cosiddetta “storia” veniva vista come un oggetto mobile che andava sempre “avanti”, all’interno di una freccia del tempo lineare orientata appunto in “avanti”. Chi conosce la storia della filosofia sa bene che questi presunti “antiborghesi” si muovevano all’interno della stessa metafisica direzionale orientata del progresso di tipo non solo borghese, ma ultraborghese. Esiste una legge storica tassativa: le classi subalterne che condividono i punti essenziali dell’ideologia delle classi dominanti sono e saranno destinate a restare subalterne per sempre, e in proposito lo studio comparativo di tremila anni di storia scritta non può lasciare alcun dubbio. I “riformisti” accusavano i rivoluzionari di avventurismo, di impazienza, di comportamento sconsiderato che, lungi dal portare vantaggio alle classi dominate, davano alle classi dominanti il famoso “pretesto” per una stretta autoritaria. La mia generazione in Italia ha avuto modo di bere questa imbevibile brodaglia schifosa dal 1956 al 1985 circa, laddove i giovani non la conoscono più, e si muovono all’interno di coordinate ideologiche del tutto diverse. Infatti, è paradossale che gli antagonisti politici (e cioè i rivoluzionari estremisti e “provocatori” e i riformisti gradualisti e moderati) si muovessero all’interno dello stesso presupposto metafisico, il fatto che il capitalismo comunque muovesse in una direzione “progressiva”. La ragione di questa illusione, che come tutte le illusioni ideologiche non è mai campata del tutto in aria ma è derivata da una falsa coscienza necessaria degli agenti storici a sua volta basata su situazioni concrete, sta nei cosiddetti “trenta anni gloriosi” 1945-1975 (Hobsbawm), sta nella ricostruzione keynesiana dell’Europa distrutta dalla Seconda guerra mondiale, e nel fatto che il keynesismo, a volte confuso con il capitalismo monopolistico di stato e con la stessa produzione di massa fordista, era interpretato maggioritariamente come una sorta di stadio storico fra la fase del capitalismo concorrenziale liberale puro e la fase,

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ritenuta “prossima”, del socialismo e del comunismo. I criminali burocratici che gestivano la grande tribù subalterna del cosiddetto “movimento operaio e socialista” non ci credevano affatto (in caso contrario non si potrebbe spiegare la loro velocissima riconversione fra il 1988 e il 1992 in apparati di consenso politico per l’impero americano e il capitale finanziario), ma le loro basi credulone ci credevano. E invece le cose non stavano affatto in questo modo. La politica economica keynesiana e la produzione fordista non erano per nulla stadi lineari di avvicinamento all’esito socialista (con il comunismo relegato nelle nebbie dell’utopia), ma erano (e oggi lo sappiamo) momenti ciclici della riproduzione capitalistica, momenti congiunturali destinati a essere abbandonati da una nuova fase di finanziarizzazione e di globalizzazione della produzione capitalistica mondializzata, che si è dimostrata in grado di distruggere sia la sovranità nazionale monetaria degli stati capitalistici sia (e questo è stato storicamente mille volte più importante) l’esperimento geopoliticamente benefico di ingegneria sociale sotto cupola geodesica protettrice chiamato comunismo storico novecentesco realmente esistito 1917-1991, da distinguere accuratamente dal comunismo utopico-scientifico di Marx (l’ossimoro è ovviamente del tutto intenzionale). Questa nuova forma di riproduzione capitalistica, e cioè la globalizzazione finanziaria neoliberale, ha certamente avuto uno scossone con la crisi apertasi nel 2008, ma non è purtroppo realisticamente probabile che si possa ritornare alla sovranità monetaria degli stati nazionali, al protezionismo quando è il caso, al lavoro stabile e sicuro anziché precario e flessibile, alla difesa della famiglia borghese come quadro di sensatezza della trasmissione dei valori umani, a una separazione consensuale di campo fra la religione, la scienza e la filosofia, eccetera. Se si facessero avanti forze politiche di massa in grado di portare avanti questo programma di restaurazione, bisognerebbe appoggiarle tatticamente in modo deciso, indipendentemente dal fatto che fossero di destra o di sinistra, cattoliche o musulmane, civili o militari. Ma questo

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è veramente poco probabile, anche se la storia ci ha insegnato a non escludere nessuna possibilità. Quello che invece è caduto nel trentennio 1980-2010 è il progressismo, la concezione lineare-evolutiva della storia, l’idea che il nesso di keynesismo e di fordismo (e cioè politica economica sovrana, stato del benessere e lavoro alienato e ripetitivo ma sicuro e stabile) fosse uno stadio di avvicinamento alla meta socialista e poi comunista. Con la caduta di questa concezione subalterna (la stadialità positivistica è infatti soltanto una forma ottocentesca dell’ideologia borghese settecentesca del progresso) è finita l’idea che non ci possono essere forme di capitalismo peggiori di quelle precedenti. L’attuale forma di capitalismo, finanziaria e globalizzata, dominata dalla religione olocaustica e dalla teologia interventistica dei diritti umani, è peggiore della precedente, ed essendo peggiore della precedente dovrebbe far cadere tutti i presupposti dell’illusione lineare della doppia variante del “progresso”, la variante dominante borghese e la variante dominata proletaria. E tuttavia bisogna fare i conti con l’idiozia e l’imbecillità, forze storiche importanti almeno come la tecnologia e lo sviluppo delle forze produttive. Chi si è liberato dal fardello delle illusioni precedenti, capisce bene che siamo di fronte a parametri oggettivi che ci permettono di rispondere razionalmente all’enigma di Marx prima segnalato, secondo il quale ormai il capitalismo ha esaurito ogni funzione progressiva rispetto ai modi di produzione precapitalistici, ed è ormai “maturo” per il suo rovesciamento, perché non è più altro che approfondimento estremo dell’ingiustizia e della diseguaglianza, della manipolazione e dello scandaloso spettacolo della compresenza fra lusso provocatorio e vergognoso e miseria ai limiti della morte per fame e per sfinimento. Circo mediatico e clero universitario cercano – e cercheranno indubbiamente ancora a lungo – di alzare una cortina fumogena su questo scandalo intollerabile distraendo l’attenzione dei cretini e dei corrotti su questioni come i diritti umani a bombardamento selettivo, la demonizzazione la leggenda nera dell’intera vicenda del comunismo storico novecentesco, l’eternizzazione dell’antifa-

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scismo in assenza totale, completa e conclamata di fascismo, la religione olocaustica del male assoluto e imparagonabile da espiare, la commedia dell’arte degli intercambiabili faccioni di destra-sinistra e sinistra-destra, eccetera. I cretini ovviamente ci cadranno, perché è questa la missione storica dei cretini di tutte le epoche. 15. E infine, che ne è dell’individuo, o per parlare con Marx della “libera individualità”? Se non si riesce a impostare correttamente questo problema, ogni discorso ulteriore sul comunitarismo diventa impossibile e ambiguo. Esiste un luogo comune nella cultura filosofica occidentale, di cui è stato purtroppo parzialmente responsabile il grande Hegel, per cui il concetto moderno di libera coscienza individuale nasce nella Grecia antica, contrapposta al dispotismo orientale, che conoscerebbe unicamente l’arbitrio del despota (il faraone egiziano, il sovrano assiro, l’imperatore persiano, eccetera). Sebbene io sia di regola un grande ammiratore di Hegel, non lo seguo su questo punto, anche e soprattutto perché l’occidentalismo imperiale USA, il principale nemico dei popoli del mondo, si nutre parassitariamente di questo occidentalismo. Hegel ovviamente non è colpevole di questo uso ideologico, ma non è una buona ragione per non chiarire le cose. I greci non conoscevano l’individuo, ma l’anima individuale (psyché). Questo sta alla base dell’umanesimo greco, messo tanto bene in rilievo da Luca Grecchi. Il concetto di anima era tanto importante per i greci da far si che essi lo utilizzassero anche per la natura (cfr. «l’anima del mondo» nel Timeo di Platone). Si tratta certamente di un’eredità della vecchia concezione primitiva dell’unità ontologica di macrocosmo naturale e di microcosmo sociale, ma non solo. Si tratta di una intuizione antropologica profonda, per cui l’indagine sull’anima (pensiamo alle «tre anime» di Platone nella Repubblica) è fin dal principio relazionale, in quanto mette in rapporto le anime prima con la natura e poi fra di loro. Si tratta, per usare un improprio linguaggio moderno, di un uma-

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nesimo sociocentrico e cosmocentrico, privo di aspetti teocentrici di tipo monoteistico cristiano. Lo stesso Epicuro, che pure ritiene la natura composta di atomi, non ha per nulla una concezione del mondo individualistica, ma amicale-solidaristica. Se un vero e proprio individualismo deve essere cercato a ogni costo nei greci, può essere trovato soltanto presso i cinici alla Diogene e presso il primissimo stoicismo sostenitore della provocazione svergognata (anaideia) contro gli usi e i costumi comuni precedenti, basati sul senso di vergogna provato da chi violava le regole della comunità (aidòs). In ogni caso, a parte queste congiunturali eccezioni di reazione unilaterale, il profilo antropologico greco non era individualistico, ed è allora fuorviante attribuire ai greci la scoperta della libertà dell’individuo. Qui Hegel, a mio avviso, è prigioniero della dicotomia oppositiva Greci/Barbari, su cui poi in un secondo tempo è stata costruita la ripugnante mitologia occidentalistica. Vi sono poi commentatori affrettati che fanno risalire l’individuo alle Confessioni di Sant’Agostino o ai Saggi di Montaigne. Nulla di più errato, in quanto l’individualismo non deriva dalla introspezione della propria anima, già consigliata dalla scuola Pitagorica e dal vecchio detto delfico “conosci te stesso” (gnothi s’eautòn). Agostino e Montaigne, così come Abelardo o Dante, sono ancora del tutto interni al concetto greco di anima (psyché, anima). L’individuo è invece soltanto un in-dividuum (in greco a-tomon), e cioè unità non ulteriormente resecabile e divisibile. Questo modello di individuo strappato da ogni comunità preesistente e da ogni fondazione filosofica e/o religiosa trova il suo teorico originario in Thomas Hobbes, che lo concepisce come atomo di egoismo intelligente. In quanto atomo di egoismo, questo individuo si muove in base a una sorta di gravitazione universale della massimizzazione del proprio interesse personale, e infatti Hobbes non manca di polemizzare (al punto addirittura da insolentirlo) con Aristotele, che avrebbe sostenuto la sciocchezza per cui l’uomo sarebbe stato un politikòn zoon, e cioè un animale politico, sociale e comunitario. L’ideologia occidentalistica dell’individuo, pertanto, non ha nulla a che vedere con i greci antichi, con Agostino o con Montaigne, ma è un prodot-

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to originale ed esclusivo di quattro pensatori britannici, non a caso cittadini di un paese che ha inaugurato in Europa la produzione capitalistica, sulla base preventiva della estremizzazione puritana della religione calvinista, destinata a secolarizzarsi negli USA in due forme principali, il diritto al messianesimo imperiale come popolo scelto da Dio e la normalità della coesistenza di estrema ricchezza ed estrema povertà come fatto normale e non “scandaloso”. Il primo pensatore è Hobbes, che polemizza esplicitamente e con particolare astio contro Aristotele, che avrebbe erroneamente sostenuto la ragione sociale e comunitaria dell’uomo. Il secondo è Locke, che fa nascere la proprietà privata dal lavoro “privato” del primo proprietario privato originario, laddove nella storia questo è avvenuto molto raramente se non mai, essendo quasi sempre la proprietà privata risultato di una “privazione” compiuta da alcuni ai danni di altri. Il terzo è Hume, che costruisce il suo modello politico utilitaristico sulla base di abitudini reciproche di una natura umana proprietaria che si scambia beni e servizi, senza nessun bisogno che ci sia antecedentemente una fondazione basata sulla religione, sul diritto naturale e sul contratto sociale. Il quarto è Smith, che distrugge la distinzione aristotelica di economia (caratterizzata dal dominio del valore d’uso) e di crematistica (caratterizzata dal dominio del valore di scambio), riducendo a crematistica tutte le forme economiche possibili, e in questo modo attuando una semplificazione antropologica radicale (il famoso, e ormai famigerato homo oeconomicus). La famosa “libera individualità” di Marx (si ricordi la citazione precedente) deriva dialetticamente dal rifiuto di questa quadruplice configurazione di individuo (Hobbes + Locke + Hume + Smith), nel senso che questa quadruplice configurazione rispecchia semmai il concetto di “indipendenza personale”. Indipendenza peraltro del tutto fasulla, perché in realtà dipende dal sistema del lavoro salariato e sfruttato. Chi pertanto colloca Marx all’interno della costituzione dell’individuo moderno interno al processo di costituzione dell’individualismo possessivo (Macpherson) inganna se stesso e i suoi lettori. Marx è un teorico del comunitarismo de-

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mocratico, in cui il classismo proletario è un mezzo e non un fine, ed è un critico radicale dell’individualismo occidentalistico, che non è altro che l’antropologia filosofica del capitalismo. Ma, allora, che cosa può aver detto Marx parlando di “libera individualità”? Il problema resta ancora aperto. 16. Il problema resta aperto, ma è pur sempre correttamente impostato da Alisdair MacIntyre (cfr. Dopo la virtù). Se esiste un problema fondamentale della filosofia, a partire dal quale tutti gli altri ne conseguono come i grani di un rosario, esso non sta né nella scelta dicotomica fra l’idealismo e il materialismo, né nella scelta di campo politica fra sinistra e destra, né nella scelta fra una fede astratta e un ateismo altrettanto astratto. Esso sta nella scelta fra il punto di vista di Aristotele e il punto di vista di Nietzsche. Il punto di vista di Aristotele colloca la sensatezza della singola vita umana intesa come unità all’interno di un quadro di virtù comunitarie e socialmente riconosciute come tali, per cui ogni singola vita umana assume l’aspetto di una sorta di narrazione sensata. MacIntyre diagnostica la situazione attuale come il prodotto di una disgregazione di qualsiasi valore comunitario, il che fa si che la morale non possa più esistere se non come un insieme caotico di intenzioni soggettive (morale kantiana), la cui dinamica non può che portare progressivamente alla dichiarazione di morte di ogni verità comunitaria (perché questo è il vero significato della morte di Dio nicciana), che si evolve poi nel politeismo dei valori e nel disincanto del mondo di Weber, la cui ultima forma presente è l’incredulità diffusa verso le grandi narrazioni di Lyotard. MacIntyre non istituisce la continuità Kant-Nietzsche-Weber-Lyotard, ma mi permetto di istituirla io, come testimone oculare e auricolare del mutamento di campo della miserabile generazione del 1968, descritta indirettamente ma efficacemente da Luc Boltanski. Non si tratta certamente di riproporre più di duemila anni dopo i contenuti specifici del concetto di comunità di Aristotele, determinati dalla proprietà schiavistica, dalla subordinazione femminile

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e dalla contrapposizione fra greci e barbari. Si tratta di raccogliere l’impostazione filosofica di fondo, per cui la stessa virtù individuale può soltanto essere sensatamente praticata all’interno di un sistema di valori accettati nella comunità in cui si vive. Ma oggi la disgregazione individualistica fa sì che non ci sia nessuna comunità possibile, e pertanto l’uomo contemporaneo può essere definito come orfano di qualunque comunità giusta e sensata. Lo ripeto: prima ancora di discutere di Dio e di Materia, di Idealismo e di Materialismo, di Democrazia e di Dispotismo, di Destra e di Sinistra, di Comunismo e di Capitalismo, eccetera, bisogna che ciascuno si chieda in modo radicale (è il conosci te stesso gnostico e socratico, lo gnothi s’eautòn) se la sua filosofia personale si dirige verso Aristotele o verso Nietzsche. Il primo colloca il riconoscimento pubblico della virtù dell’individuo come portatore di una unità sensata della vita nella comunità, il secondo la pone programmaticamente nella funzione di volontà di potenza dell’individuo assolutizzato. 17. MacIntyre è stato comunista in gioventù, e poi ne è stato deluso (come milioni di persone nel Novecento), e con il comunismo politico ha abbandonato anche il marxismo teorico. Ma non siamo mica obbligati a farlo anche noi! Egli ha perfettamente ragione a sostenere che la virtù morale esiste, e può soltanto essere praticata all’interno di valori comunitari condivisi, contro quella che ho personalmente individuato come la linea alternativa KantNietzsche-Weber-Lyotard. E tuttavia, per concretizzare questa prospettiva, bisogna chiederci se la società capitalistica in cui viviamo permette o no questa concretizzazione. Karel Kosìk (cfr. Dialettica del concreto) sostiene che la società in cui viviamo è una società della pseudo-concretezza, in quanto il passaggio dall’astratto al concreto, che Hegel metteva alla base del passaggio fra la moralità (Moralität) e l’eticità (Sittlichkeit), è reso impossibile dalla mancanza di ogni legittimità etica della società capitalistica. E per questo, se non si crea in modo rivoluzionario un quadro sociale alternativo, ogni concretezza diventa impossibile.

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Qui non mi chiedo se MacIntyre avrebbe o no condiviso con Kosìk la totale illegittimità della società capitalistica. Questo riguarda solo la loro empirica coscienza individuale. A me interessa sottolineare un’impostazione di fondo, che riassumerò in due punti. Primo, ogni fondazione della sensatezza della vita individuale (la libera individualità marxiana) può soltanto avvenire in un quadro di virtù comunitarie condivise. L’alternatività fra Aristotele e Nietzsche è quindi assoluta e non mediabile. Secondo, del tutto indipendentemente da come ha potuto pensare l’empirico individuo chiamato MacIntyre, all’interno del capitalismo ogni virtù comunitaria è impossibile sul piano generale, e può soltanto essere praticata sulla base di una secessione di fatto dal mondo capitalistico stesso, che diventa non un medium comunicativo praticabile, ma semplicemente una resistenza a qualunque agire etico reale. Possiamo poi chiamarlo Non-Io o epoca della compiuta peccaminosità (Fichte), regno animale dello spirito (Hegel), società della alienazione e dello sfruttamento (Marx), o come vogliamo chiamarla liberamente noi. Ciò che conta non è trovare la parola migliore, ma impadronirci del concetto adeguato. 18. È bene a questo proposito chiarire la differenza di principio fra morale ed etica. Nei tempi antichi, il fatto che le virtù fossero individuali ma non individualistiche, e che la comunità fosse il solo luogo della loro fondazione, non solo non era messo in dubbio, ma risultava dalla stessa etimologia dei termini. Etica viene dal greco ethos, che significa costume comunitario. Morale viene dal latino mos, che significa parimenti costume comunitario. I latini erano molto attenti a tradurre esattamente dal greco, e non sarebbero mai caduti nell’errore di trasporre un concetto comunitario in un concetto individualistico. La fondazione kantiana della morale era letteralmente impossibile nell’antichità, e infatti non ne esistono varianti analogiche. Benché il dilettante sopravvalutato Nietzsche abbia voluto ricollegarsi idealmente con i greci “saltando” la decadenza cristiana, la sua scelta di contrapporre all’ethos comunitario dei greci la volontà di potenza del

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Superuomo-Oltreuomo ne fa uno dei pensatori meno “greci” che siano mai esistiti. Non è possibile qui per ragioni di spazio disegnare anche solo i tratti essenziali di una storia della morale. Per i nostri scopi basta rilevare che soltanto Hegel ha saputo inquadrare in modo soddisfacente il punto essenziale del problema, che sta nel fatto che la disgregazione dei valori comunitari porta a una situazione di relativismo, scetticismo, nichilismo e incertezza che dà luogo a una separazione fra la sfera della morale individuale e la sfera dell’etica comunitaria. Kant era infatti stato l’ultimo grande pensatore che aveva potuto identificare morale e etica, ma aveva pagato questa identificazione semantica e concettuale con una morale del tutto astratta, e addirittura programmaticamente impossibile. Dopo Kant è infatti necessario decidere se continuare a porre il problema della morale come lo aveva posto Kant, oppure rifondare radicalmente l’intero problema. È impossibile parlare di comunitarismo se questa questione non è correttamente impostata. 19. È possibile praticare un alto grado di moralità anche se ci si riconosce ideologicamente nella riproduzione capitalistica (magari nella sua forma più abbietta e criminale, quella globalizzata, finanziaria, neoliberale, interventistica e occidentalistico-­imperiale), e se si rifiuta qualunque alternativa comunista o comunitarista, considerata totalitaria, eccetera? L’esperienza ci insegna di sì. Il mondo è pieno (e io ne conosco personalmente molte) di persone che vivono moralmente verso i coniugi, i figli, gli anziani genitori, gli amici, aiutano gli indigenti, fanno volontariato solidale, rispettano scrupolosamente gli impegni formali e informali, rifiutano le continue tentazioni corruttive che sorgono dai posti privilegiati che occupano (per essere corrotti bisogna infatti contare qualcosa – nessuno ha interesse a corrompere mendicanti e poveracci), e tutto questo in presenza di dichiarazioni ideologiche di adesione all’imperialismo e di odio verso il socialismo. Ma come è possibile la schizofrenia della mo-

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ralità individuale pratica e dell’adesione teorica a un modello sociale di ragni velenosi e di scorpioni mortali? Nulla di più semplice e chiaro. La schizofrenia fra teoria e pratica, dichiarazioni ideologiche e pratiche morali, eccetera, è costitutiva del mondo “rovesciato” del feticismo delle merci. Ciò che conta è sempre e solo ciò che si fa, non ciò che si dichiara. La manipolazione ideologica oggi è una macchina complicatissima e perfezionatissima, che si rivolge a destinatari differenziati con messaggi differenziati, come una macchina “tarata” per funzionare con dieci velocità diverse. Si va dal grado più alto (il relativismo sofisticato Nietzsche-Weber-Lyotard) al grado più basso (l’attizzamento alla Fallaci-Allam dell’islamofobia). E tuttavia il semplice fatto che anche persone manipolatissime si dimostrino quotidianamente capaci di gesti di altissima moralità e solidarietà dimostra ampiamente che la questione comunitaria non è assolutamente ideologica, e riguarda le persone comuni, non certo il ceto irrilevante e fastidioso dei cosiddetti “intellettuali”, l’escrescenza più corrotta della società contemporanea. 20. E tuttavia l’etica è cosa diversa dalla morale. E ritengo che senza una consapevole adesione alla critica comunitaria all’individualismo e alla critica comunista al capitalismo non sia possibile costituire un’etica, o se si vuole un’eticità reale (Sittlichkeit). Anche in questo caso, il problema non sta nell’impossibile adesione ai contenuti dell’etica schiavistica di Aristotele o dell’eticità borghese-conservatrice di Hegel. Il problema sta nella comprensione del carattere comunitario non di una particolare etica storicamente determinata, ma dell’etica in generale. Il comunitarismo è infatti unione di etica e di politica, senza che questo comporti nessuna invasività fastidiosa del “pubblico” all’interno della vita intima. 21. Per chiudere questo capitolo, non potremo forse dare una definizione soddisfacente di comunitarismo, ma potremo proporre alcuni avvicinamenti progressivi a questa definizione.

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Il comunitarismo è la teoria e la pratica di un rapporto fra l’individualità (o se si vuole la singolarità e la particolarità irripetibile del singolo essere umano concreto) e l’universalità. Titolare dell’universalità non può certo essere un popolo, una religione, una nazione o una cultura particolare, ma soltanto il genere umano. A sua volta il genere umano non è un presupposto, ma è il risultato di una potenzialità che si realizza in un processo storico di universalizzazione reale. Tutto questo, però, non può mai essere definito a priori, perché si concretizza esclusivamente in una sintesi di teoria e di pratica. La comunità è la mediazione dialettica fra la singolarità dell’intimo (la morale) e l’universalità del comune (etica). L’individualismo, persino nelle sue forme migliori e nobili, si basa sul presupposto errato della possibilità di rapporto diretto fra la singolarità e l’uni­versalità. L’esperienza mistica e l’intenzione morale soggettiva rendono possibile questo rapporto, ma la rendono possibile solo alla singolarità. Tutto questo, ovviamente, non potrà che sembrare formale, astratto e complicato. E infatti il solo modo concreto per mettere alla prova il punto di vista comunitario passa attraverso quattro momenti: bilancio dell’occidentalismo e critica del politicamente corretto; ripensamento comunitario del pensiero occidentale; bilancio del comunismo storico novecentesco; critica del nesso fra capitalismo contemporaneo e cultura detta di “sinistra”. Mettiamoci alla prova.

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IV Il comunitarismo come autocritica razionale della tribù occidentale Il Politicamente Corretto come formulazione ideologica dominante dell’attuale tribù occidentale

1. Gnothi s’eautòn, conosci te stesso, diceva il vecchio detto oracolare delfico, ripreso dall’ateniese Socrate come fondamento della propria filosofia. In un certo senso, tutta la filosofia socratica e la posteriore filosofia occidentale può essere interpretata come una lunga e contraddittoria secolarizzazione razionalistica di questo detto delfico. E tuttavia questo programma di autoconoscenza si fonda su di una base molto fragile, in quanto presuppone che ci sia una parte razionale e filosofica del nostro io che si stacca dall’insieme delle componenti dell’io stesso per giudicare tutte le altre. La stessa educazione platonica (paideia), secondo la profonda interpretazione di Alessandro Biral, si basa sulla possibilità di separare metodologicamente le tre anime di cui è composto l’uomo per poi ricomporle sotto il dominio della sola anima razionale, la cui razionalità non consiste nell’annullare le altre due, ma nell’armonizzarle in una sola nuova unità armoniosa. Si tratta peraltro dello stesso programma di Pitagora, se pensiamo che Pitagora fa derivare il principio delle armonie matematiche, su cui i greci baseranno in seguito tutti i programmi di armonizzazione sociale fra le classi e fra gli interessi contrapposti dei ricchi e dei poveri, dalla scoperta delle armonie musicali. Se facciamo l’esempio quotidiano delle nostre esperienze, vediamo che ci è quasi impossibile conoscere veramente noi stessi,

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almeno nel nostro comportamento in rapporto con gli altri. Pensiamo ai conflitti, alle incomprensioni, alle vere e proprie menzogne o cattiverie che ci hanno contrapposti ai nostri genitori, al coniuge, ai figli, agli amici, ai compagni di lavoro e/o di lotta politica, o semplicemente ai veri e propri estranei. Ci accorgiamo che è difficilissimo ricostruire razionalmente le dinamiche di questi conflitti, perché tendiamo a retrodatare a posteriori i torti e le ragioni facendo sempre salve in ultima istanza le nostre ragioni. E ciò avviene anche e soprattutto per quel soggetto trascendentale riflessivo, storico, geografico e ideologico chiamato Occidente. È infatti sempre soltanto una parte dell’Occidente che giudica l’altra parte dell’Occidente, presupponendo ovviamente di rifarsi a valori migliori dell’altra. Nell’ultima intervista data da Lukács a Yvon Bourdet poco prima della sua morte il più grande filosofo marxista del Novecento (è una valutazione soggettiva mia, naturalmente) sostiene che il giudizio di valore fa parte integrante dell’esperienza umana, e non può esistere prima di essa e indipendentemente da essa. Lukács si esprime così: Se consideriamo la grande storia dell’etica, ci rendiamo conto che il concetto di valore partecipa di tutto ciò che l’uomo fa. L’uomo non può sfuggire alle scelte di valore, non può comportarsi come una cosa. Una pietra cade, è caduta, e non se ne parla più. L’uomo è in una posizione di scelta, deve decidere di fare questo o quello, di farlo in un modo o nell’altro, e così nascono tutti i problemi di valore.

2. Ma quale è il criterio per sapere se i nostri valori sono migliori o peggiori di altri? Si dirà che il criterio è la ragione universalistica, che già Platone concepì come raddoppiamento dialettico della ragione ricavata dai rapporti geometrici fra grandezze calcolabili. Ma la ragione universalistica si origina genericamente sempre da una molteplicità di punti di vista particolaristici. La psicoanalisi di Freud, interpretata come il coronamento filosofico di uno scetticismo iperbolico, ci dice che il modo in cui ci autopercepiamo “razionalmente” è solo l’instabile e fragile punto di

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arrivo di un equilibrio precario, frutto di un insieme di complessi non risolti, di rimozioni orali, anali e genitali, di illusioni e di menzogne, eccetera. E in questo modo il programma che Freud aveva elaborato per dire agli uomini la verità su se stessi (in un certo senso, una ripresa positivistica del vecchio programma delfico), si è rovesciata dialetticamente nel suo contrario andando ad arricchire il già vasto terreno dello scetticismo e del relativismo nichilistico. Del resto, questo non è per nulla nuovo. Cartesio propose il suo programma razionalistico del Cogito ergo Sum sulla base del presupposto sofistico per cui il pensiero umano (il Cogito) era un principio più sicuro dell’esistenza empirica delle cose (il Sum, l’Essere), in quanto era possibile ipotizzare un diabolico genio maligno che ci ingannasse sull’esistenza dello stesso mondo esterno, per cui i sensi diventavano meno affidabili del pensiero “interno”. Anche in questo caso, Cartesio si rivela particolarmente inconseguente. Se infatti esistesse veramente un genio malvagio, per quale motivo non avrebbe potuto spingere la sua malvagità fino al punto di dotarci anche di una soggettività illusoria? Su questo punto è molto più coerente e conseguente la filosofia taoista cinese di Chuang Tse, per cui non è possibile in ultima istanza sapere se è un saggio che sogna una farfalla o una farfalla che sogna un saggio. 3. Questa breve introduzione filosofica è rivolta a porre in modo radicalmente aporetico e problematico il problema del sé e in che modo, ed entro quali limiti, l’Occidente possa pensare se stesso o come universalità immediata (concezione apologetica) o come possibilità potenziale di universalità possibile (concezione critica). Di fronte a questo problema, credo che ci possano essere tre soluzioni possibili. In primo luogo, una posizione di relativismo radicale. Ogni civiltà ha sempre e comunque una genesi comunitaria, e da questa genesi comunitaria non può uscire. Siamo allora costretti ad assumere il relativismo come orizzonte insuperabile. Su questa base relativistica, che in ultima istanza nega alla filosofia in quanto tale

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la possibilità di uscire dal proprio relativismo iniziale, si possono poi avere due varianti diversissime, e cioè una variante occidentalistica di tipo apologetico (Richard Rorty), e una variante antioccidentalistica di tipo critico (Alain de Benoist). È evidente che la seconda è immensamente più profonda e intelligente della prima, ed è proprio per questo che viene emarginata, silenziata e diffamata dal Politicamente Corretto (su cui tornerò), ma sempre di relativismo si tratta. In secondo luogo, una posizione di occidentalismo presupposto, arrogante e manifesto, in cui l’occidente si autodichiara la più grande civiltà del mondo, l’unica potenzialmente universalistica. A suo tempo la filosofia della storia di Hegel afferma qualcosa di simile, sostenendo che solo l’occidente (nella sequenza greciromani-cristianesimo-riforma protestante tedesca) ha veramente saputo elaborare il concetto di libertà della coscienza individuale. Marx è rimasto in parte un suo allievo recalcitrante, in particolare nella importante (ma non unica) componente occidentalistica del suo pensiero, che fa l’apologia del pieno sviluppo del capitalismo (occidentale) come premessa del comunismo mondiale universale. E tuttavia, Marx ha avuto il merito inestimatile di pensare l’occidente come unità di emancipazione universalistica potenziale (dynamei on) e di imperialismo colonialistico, di alienazione e di sfruttamento. Lenin ha raccolto questo insegnamento marxiano, ed è questa una delle ragioni (non la sola) per cui Lenin non può e non deve essere “espunto” dalla scuola di Marx, ma ne resta un fondamento inaggirabile. Oggi viviamo in un momento storico in cui, dopo l’incresciosa e mai abbastanza rimpianta fine dell’esperimento di ingegneria sociale sotto cupola geodesica protetta chiamato comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991), l’occidentalismo si presenta nella forma più arrogante possibile. Pensiamo ai neoconservatori americani, che oggi con il passaggio da Bush a Obama hanno forse avuto una piccolissima e quasi irrilevante sconfittina tattica, ma che restano sempre vivi e attivi come teorici estremisti del messianesimo imperiale USA. Pensiamo al ridicolo Marcello

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Pera, che sostiene una islamofobia aggressiva. Pensiamo a un gaglioffo francese della scuola dei “nuovi filosofi” (Pascal Bruckner), che incita gli occidentali a congedarsi dal «singhiozzo dell’uomo bianco» (sic!), a smetterla di continuare ad agitare il vecchio mito del “buon selvaggio” della tradizione illuministica, e a proclamare arrogantemente la propria superiorità. Il Politicamente Corretto è una forma ingentilita e ipocrita di questo occidentalismo, una forma soft che ritiene sia più spendibile nello spazio della globalizzazione di quanto sia la forma hard. E tuttavia non bisogna farsi illusioni: la forma hard dell’occidentalismo neoconservatore e islamofobo (l’islamofobia è la successione diretta dei vecchi antifascismo e anticomunismo) si differenzia, tatticamente dalla forma soft del politicamente corretto, ma si tratta, di una differenziazione puramente tattica che non riguarda la finalità strategica, e cioè l’affermazione dell’occidentalismo nel mondo. In terzo luogo, per finire, c’è la posizione che vorrei riuscire a sostenere credibilmente non solo in questo capitolo, ma nell’intero saggio, e che definirò come compresenza contraddittoria della consapevolezza di essere interni, da un lato, a una forma critica di occidentalismo, e di voler mantenere, dall’altro lato, una prospettiva filosofica e un orizzonte politico di universalismo. È questo e solo questo, ovviamente, il comunitarismo che mi interessa. Se dico che mi interessa (al singolare) e non che ci interessa (al plurale), non è certo per solipsismo, individualismo o disprezzo verso gli altri. Al contrario. Dico mi, e non ci, perché non sono affatto sicuro che quanto io penso sia patrimonio anche di altri. Per più di quaranta anni mi sono non solo dichiarato ma anche pensato interiormente come “comunista”, dando per scontato che tutti gli altri che si dichiaravano tali avessero in mente le stesse cose che avevo in mente io. La realtà concreta mi ha disingannato. Coloro che ritenevo miei “compagni” hanno accolto con gioia oscena e malcelata il crollo del comunismo storico novecentesco, hanno sostenuto il colpo di stato giudiziario extraparlamentare kafkianamente battezzato “Mani Pulite”, hanno bombardato la Jugoslavia sulla base di un genocidio inesistente confezionato a tavolino, e

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soprattutto hanno aderito a un profilo culturale dissolutivo e ultraindividualistico di cui parlerò più avanti. Per questa ragione dico mi, e non ci. Il mi è una relativa sicurezza. Il ci è una speranza razionale, non ancora una sicurezza. 4. L’autocritica dell’occidente deve quindi presupporre il fatto che se chi la fa è un “figlio critico” dell’occidente stesso non può essere sufficiente la pia e virtuosa affermazione di averlo rifiutato. Il rifiuto dell’occidente è soltanto l’altra faccia dialettica della sua oscena apologia imperialistica. L’occidentalismo non si supera attraverso la sua semplice virtuosa negazione. L’occidentalismo si elabora, e si elabora nella forma dialettica che ci ha consegnato il metodo di Hegel nella Fenomenologia dello Spirito e il contenuto critico di Marx nel Capitale. I sacrifici umani degli aztechi, il rogo delle vedove permesso da alcune varianti dell’induismo, le elaborate torture cinesi, l’etica nobiliare dei samurai giapponesi, eccetera, non sono per nulla migliori degli aspetti peggiori della tradizione occidentale, dai macelli dei giochi gladiatori romani ai roghi della Santa Inquisizione. Per questa ragione bisogna evitare sia l’oscena riproposizione Pera-Bruckner della superiorità occidentalistica sia l’interminabile lamento autocritico. Apologia e pentimento sono entrambi aspetti non dialettici di un atteggiamento fuorviante. Bisogna infatti essere ben coscienti di due cose, e cioè: primo, che siamo comunque interni alla tradizione occidentale, e secondo che ci collochiamo in forma radicale ed estrema nella sua variante autocritica. È per questa ragione che non possiamo fare a meno della categoria filosofica di genere umano (Gattungswesen, Gemeinwesen), e che la rivendichiamo apertamente. Senza questa rivendicazione – lo dico subito con tutta la solennità necessaria – è inutile richiamarsi al comunitarismo, perché finiremmo necessariamente in una forma di occidentalismo chiamato “comunitarismo”, o in una inutile riproposizione di “comunitarismi” organicistici e tradizionalistici

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di destra e/o di sinistra. Sulla base di questa consapevolezza possiamo proseguire la discussione. 5. Ho preso a prestito il termine “tribù occidentale” dal saggio del filosofo italiano Rino Genovese (cfr. La tribù occidentale, Bollati Boringhieri, Torino 1995). Il saggio è modestissimo, ed è interessante soltanto perché è assolutamente “tipico” del nuovo codice unificato degli intellettuali della “tribù universitaria occidentale”. È bene capirne appunto il “codice”, che una volta clonato viene poi riprodotto in milioni di copie in questa tribù universitaria stessa. Da un lato, questo codice prende atto correttamente del fatto che persino il modello illuministico di ragione, che gli illuministi stessi in falsa coscienza necessaria “borghese” ritenevano assolutamente universale e universalizzabile, era semplicemente il frutto della secolarizzazione di una pretesa di universalità precedente, quella del monoteismo cristiano, che in comune con l’illuminismo ha appunto la rimozione sistematica della propria genesi storica particolare. In questo senso – per usare il lessico di Genovese – il codice illuministico (da cui Genovese fa derivare i posteriori idealismo, positivismo e marxismo) è frutto di una evoluzione della tribù occidentale, e non certo dell’umanità in generale. Su questo punto Genovese non dice peraltro nulla che non sia stato già detto, e mille volte meglio, da Nietzsche e dalla scuola di Francoforte. Dall’altro, Genovese trae da questa analisi una conclusione relativistica, per cui la presa d’atto del carattere tribale-occidentalistico, e non universalistico, dell’intero pensiero occidentale, lo porta a sostenere una sorta di “scetticismo liberale” (il termine è del capotribù di tutti costoro, e cioè Richard Rorty), per cui alla fine Genovese, dopo aver finto uno smarcamento tattico dalla “tribù occidentale”, ne confluisce all’interno in modo strategico, perché oggi appunto lo scetticismo liberale è diventato il codice d’accesso privilegiato alla Kultura (con il kappa) della tribù liberale stessa.

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Il rovesciamento dell’assolutismo veritativo nello scetticismo relativistico e nichilistico, apparentemente incomprensibile, è in realtà un segreto di Pulcinella per chi intenda utilizzare il metodo di spiegazione dialettica, per cui una determinazione storica va sempre oltre se stessa, e si rovescia spesso nel suo (apparente) opposto. L’occidente, se vogliamo chiamarlo così, ha conosciuto storicamente prima una forma di società prevalentemente schiavistica e poi una società prevalentemente feudale. In entrambi questi tipi di società prevaleva, necessariamente un uso ideologico di una sorta di assolutismo veritativo (più esattamente, pseudoveritativo), necessario a una legittimazione politica, di una società in cui il dominio puro del valore di scambio era ancora limitato dalla strutturazione castale della società e soprattutto dalla permanenza di comunità, sia pure subalterne e incorporate nella struttura piramidale della società. Certo, questa “verità” era soltanto ideologica, e non aveva nulla a che fare con quelle che potremmo chiamare le verità religiose, filosofiche o scientifiche. Si trattava soltanto di pseudo-verità ideologiche di legittimazione classista. E tuttavia, con l’avvento della produzione capitalistica di mercato, questa legittimazione pseudo-veritativa viene meno, e subentra una nuova legittimazione unicamente “performativa” (su questo punto Lyotard coglie un punto reale del problema), basata sull’estensione del puro valore di scambio. Ma il valore di scambio è per sua stessa natura assiologicamente neutrale, perché dipende soltanto dal differenziato potere d’acquisto. E il potere d’acquisto puro non ha alcun bisogno di una fondazione filosofica, per cui la parte più stupida di una categoria già di per sé molto stupida come quella degli intellettuali universitari può alzare al cielo gridolini di soddisfazione per la fine della metafisica e della fondazione del sapere. Ma il sapere senza fondamenti è unicamente il sapere della riproduzione della società del valore di scambio, che è appunto per definizione analitica una “società senza fondamenti”. È questa la ragione per cui il codice preferito dalle oligarchie al potere è quello sostenuto dallo sprovveduto Genovese. Da un lato, il sostenere che l’occidente è soltanto una tribù fra le tante favori-

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sce l’estensione del mercato capitalistico puro al Medio Oriente, all’Africa, all’India e alla Cina. Dall’altro, le conclusioni di questo bilancio con la presa d’atto dello scetticismo liberale (se possibile direttamente anglofono per evitare i noiosi costi di traduzione) permette di liberarci del fastidioso e inquietante problema della verità dei rapporti sociali attuali. Se infatti vogliamo connotare questi rapporti sociali come falsi, ingiusti e alienati, dobbiamo necessariamente rimandare a un concetto di verità che ci consenta di connotarli come tali, ed è esattamente questo che il circo intellettuale oggi non può consentire in nessun modo. Ne risulta che il cosiddetto scetticismo liberale non è oggi soltanto una delle tante posizioni presenti nel circo pluralistico della filosofia universitaria globalizzata mondiale, ma è il codice di riferimento prevalente della fondazione ideologica contemporanea. Certo, esiste anche un codice di guerra di riserva assolutamente secondario, il codice islamofobico Magdi Allam-Oriana Fallaci-Pascal Bruckner, ma si tratta pur sempre di un codice di riserva in momenti di guerra guerreggiata per conto dell’impero USA e del suo sacerdozio sionista. In questo caso, gli intellettuali indossano le due principali divise interventiste, quella dei corpi militari e quelle delle ONG (organizzazioni non governative), e cominciano a suonare le due principali marcette dell’interventismo, quella dei bombardamenti contro i terroristi e quella degli aiuti umanitari alle vittime dei bombardamenti stessi. Ma qui siamo appunto già dentro alla tana dei serpenti velenosi dell’occidentalismo militare. 6. Non è qui ovviamente possibile per ragioni di spazio ripercorrere la formazione del codice identitario della tribù occidentale, anche perché in questa formazione storica prevalgono le rotture qualitative sulla presunta continuità. Fra il mondo greco e quello romano, per esempio, vi è una rottura fortissima, quasi sempre variamente esorcizzata dai sostenitori della cosiddetta “continuità” della civiltà occidentale. La stessa rottura fra l’ellenismo cristiano e la civiltà musulmana grazie alle conquiste arabe del VII e VIII se-

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colo è per molti aspetti minore della rottura fra il mondo bizantino e il mondo carolingio, e la divisione fra cattolicesimo e ortodossia non è altro che l’irrilevante sanzione teologica di due modi alternativi di vivere e di pensare. Il comunitarismo greco, infatti, si conservò nel successivo mondo bizantino e musulmano molto di più di quanto questo sia avvenuto nell’occidente latino. Ma qui entreremmo in un ambito culturale che so per decennale esperienza del tutto ignoto all’italiano medio, sia pure apparentemente “coltissimo”, per cui lascio cadere l’argomento per non annoiare il lettore, avvertendolo comunque che più di “tribù occidentale” bisognerebbe parlare di tribù “carolingia”. Per esprimermi in modo (solo apparentemente) paradossale, la grande tradizione dell’ellenismo antico è passata, molto di più al successivo mondo arabo e islamico di quanto sia passata all’individualismo feudale europeo. Negli ultimi duecento anni assistiamo a una sostanziale vittoria, del codice individualistico anglosassone (prima inglese e poi statunitense) sui due codici “fratelli nemici” francese e tedesco. L’Italia è un paese del tutto irrilevante a partire dal Seicento europeo, e il suo contributo al profilo europeo-occidentale non è stato superiore a quello di paesi come la Danimarca, il Portogallo o l’Ungheria. In una storia della costituzione del profilo occidentalistico dell’Europa i soli paesi che abbiano contato qualcosa sono stati l’Inghilterra, la Francia e la Germania, e tutto il resto è stato marginale, anche se a volte pittoresco e interessante. La Francia ha fatto una vera rivoluzione sociale contro l’assolutismo signorile, e ha poi vissuto nell’Ottocento almeno tre rivoluzioni a sfondo politico (1830, 1848 e 1871), per cui uno dei problemi del capitalismo globale è sempre stato quello di far finire l’“eccezione francese”, che è iniziata nel 1789 e ha trovato l’ultima sua maestosa espressione nel generale Charles de Gaulle. Eccezione francese significa soprattutto sovranità nazionale e legittimazione della rivoluzione sociale, per cui la fine dell’eccezione francese ha sempre significato delegittimazione della sovranità nazionale e delegittimazione del diritto del popolo alla rivoluzione. Non è allora un caso che la cultura anglosassone sia sempre stata

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ferocemente antifrancese insistendo sul fatto che la nazione è solo una inesistente “comunità immaginaria” inventata da poeti e letterati, e che la rivoluzione non è altro che un’utopia astratta che si rovescia necessariamente in dispotismo totalitario. I capitalisti hanno investito grandi speranze nel giullare mediatico Sarkozy per far finire l’eccezione francese, anche con l’aiuto della “quinta colonna” dei rinnegati locali (Glocksmann, Furet, ecctera), ma personalmente non dichiarerei troppo presto la vittoria dei malvagi. Per tutti coloro che conservano un minimo di dignità culturale, la tradizione francese e la lingua francese sono la loro tradizione e la loro lingua. Questo, almeno, vale per me e per il mio profilo identitario. Io appartengo alla (forse) ultima generazione che ha due patrie, la propria e la Francia. La Germania ha sempre conservato una cultura comunitaria e non del tutto individualistica, ed è questo che spiega il perché sia sempre stata definita una nazione “filosofica”. Filosofia, infatti, significa in questo caso elaborazione del rapporto fra il singolo e la comunità. Purtroppo, questo rapporto, pensato in modo corretto dai tre grandi idealisti Fichte, Hegel e Marx (spero che al lettore non sia sfuggito questo voluto anche se scandaloso accostamento), si è mortalmente ammalato prima con Guglielmo II e poi con Hitler. Imperialismo e razzismo sono infatti patologie mortali del comunitarismo, e dopo il 1945 la Germania è stata “messa sotto tutela” non solo sul piano militare, ma soprattutto sul piano ideale, in modo che cessasse per sempre di essere un’alternativa politica potenziale all’individualismo anglosassone (indipendentemente dal fatto che lo potesse essere in modo semifeudale, socialdemocratico, comunista o nazionalsocialista). 7. La provvisoria vittoria darwiniana del modello anglosassone sui modelli politico-rivoluzionario francese e comunitario tedesco, sancita militarmente dagli esiti delle due guerre 1914-1918 e 1939-1945, può essere definita come una vittoria del rovesciamento del monoteismo in individualismo, o se si vuole del monoteismo messianico della elezione divina in santificazione idolatrica dell’in-

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dividuo assoluto. Essa ha comportato la doppia delegittimazione del modello rivoluzionario francese e del modello comunitario tedesco, ma questo è avvenuto per severe ragioni strutturali, che la teoria di Marx permette di comprendere. In breve, le esigenze sistemiche di riproduzione del capitalismo assoluto, postfascista e post­comunista, postborghese e postproletario, comportano sul piano sovrastrutturale delle ideologie e della triplice organizzazione degli intellettuali (ceto politico, circo mediatico, clero universitario) il primato del profilo individualistico anglosassone sui modelli politico-rivoluzionario francese e comunitario-nazionale tedesco. In proposito, la vittoria del modello anglosassone su quelli francese e tedesco deve essere indagata sotto due distinti punti di vista, uno storico-strutturale e uno ideologico-sovrastrutturale. Dal punto di vista storico, l’impero inglese si è costituito con tre vittorie strategiche consecutive, prima contro l’impero spagnolo (a partire da sir Francis Drake fino alla guerra di successione spagnola del 1700-1713), poi contro l’impero francese (dalla Guerra dei sette anni 1755-1763 fino alla sconfitta definitiva di Napoleone I nel 1815), e infine contro l’impero tedesco (Grande Guerra 1914-1918). Chi vince in modo così evidente sui campi di battaglia vince inevitabilmente anche sul terreno delle ideologie (in breve: empirismo scettico inglese contro razionalismo francese e idealismo tedesco). In più, l’impero inglese, vincitore tattico e perdente strategico nel 1945, ha consegnato il “testimone” all’impero americano su basi culturali e politiche abbastanza affini. Dal punto di vista culturale, il profilo ideologico anglosassone (Hobbes + Locke + Hume + Smith + Ricardo + Mill) è il solo che possa promuovere in modo e rigoroso il primato dell’economia sulla politica, o più esattamente dell’autofondazione dell’economia crematistica su se stessa, laddove il modello francese legittima indirettamente la possibilità di una rivoluzione sociale e il modello tedesco legittima indirettamente la fondazione comunitaria dell’economia. Il profilo occidentalistico attuale risulta quindi da una provvisoria vittoria darwiniana del modello inglese sui modelli francese e tedesco, di cui il modello russo-comunista del periodo

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1917-1991 è soltanto una variante originale, come del resto aveva intuito anche Lenin (politica rivoluzionaria francese + filosofia classica tedesca interpretata dialetticamente). 8. La vittoria del profilo anglosassone su quelli francese e tedesco influenza anche direttamente l’attuale bilancio storico del Novecento prevalente nel clero universitario-mediatico, e cioè l’immagine del Novecento come secolo delle utopie sanguinose e delle ideologie assassine. Sono pochissimi i pensatori accademicamente riconosciuti che osano andare apertamente contro questo andazzo controrivoluzionario, e fra essi si distingue il francese Alain Badiou (cfr. Il secolo, Feltrinelli, Milano 2006). È ovvio che tutte le oligarchie dominanti (e noi oggi siamo dominati da una delle più feroci e crudeli, l’oligarchia capitalistico-finanziaria transnazionale) devono prima di tutto dominare sul presente e presentare il loro presente come unico futuro possibile e praticabile, ma devono anche dominare simbolicamente sul passato, ricostruendo selettivamente il passato in modo da scegliere che cosa demonizzare e che cosa salvare e giustificare. Ciò avviene ovviamente in molti modi. L’epoca del più feroce e bestiale colonialismo viene presentata come belle epoque, un’epoca che fu effettivamente molto bella per la grande borghesia capitalistica. Il colonialismo è anche presentato come tappa necessaria del progresso della civiltà. Ma è sui due temi della Prima e Seconda guerra mondiale, da un lato, e sul bilancio complessivo del Novecento, dall’altro, che la visione manipolata del passato celebra i suoi più osceni trionfi. 9. La grande guerra fu un macello imperialistico imperdonabile, e fu vinta dallo schieramento relativamente peggiore. Il parametro essenziale per giustificare questo impegnativo giudizio è a mio avviso la distruzione di due grandi e sostanzialmente benemeriti imperi multinazionali, l’impero austro-ungarico e l’impero ottomano. Entrambi avevano ovviamente bisogno di radicali riforme in senso democratico, dal momento che nel primo dominavano

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esclusivamente le etnie tedesca e ungherese e nel secondo di fatto dominava politicamente e militarmente soltanto l’etnia turca. In entrambi i casi, tuttavia, era del tutto possibile un’evoluzione federalistica di tipo democratico, sia a Vienna che a Costantinopoli. I banditi dell’Intesa, con il supporto finale del fanatico protestante Wilson, crearono due infami crateri nell’Europa Centrale e nel Medio Oriente, destinati a suscitare i due orrori paralleli dello hitlerismo in Europa Centrale e del sionismo in Medio Oriente. La vulgata attuale sostiene che la colpa fu degli stati nazionali e del loro patriottismo sciovinistico. Menzogna. La colpa fu del buon vecchio imperialismo, e su questo punto la lettura di Lenin resta insuperata. È questa una delle ragioni per cui Marx viene talvolta ancora distrattamente omaggiato come classico universitario, mentre Lenin è demonizzato come barbetta asiatica mefistofelica. Come si vede, persino per un avvenimento di quasi cento anni fa ormai esiste la necessità di una sfacciata manipolazione post festum. 10. La Seconda guerra mondiale 1939-1945 non è mai esistita se non come ricostruzione ideologica manipolata post festum. In realtà, la cosiddetta Seconda guerra mondiale è costituita da tre diverse guerre parzialmente sovrapposte, distinte in senso politico, ideologico e geopolitico. La prima guerra è quella che si svolge fra il 1939 e il 1941 fra Germania e Italia contro Francia e Inghilterra. Si tratta di una guerra territoriale di vecchio tipo, ed è a tutti gli effetti soltanto un episodio terminale di rivincita della grande guerra 1914-1918. Certo, ci vanno di mezzo anche stati minori (Polonia, Grecia, Jugoslavia, Olanda, Norvegia, eccetera), ma ci vanno di mezzo sempre su basi territoriali-strategiche e non primariamente ideologiche. Churchill non è affatto migliore di Mussolini e di Hitler. Gandhi si compiace apertamente della vittoria di Hitler sulla Francia. Si tratta di una rivincita postuma dell’impero tedesco contro l’impero inglese. Mussolini, con la tipica stupidità dilettantesca italiana,

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fa un azzardo pokeristico che poi pagherà con l’essere appeso per i piedi fra gli sputi della plebaglia. La seconda guerra è quella che si svolge fra il 1941 e il 1945 fra la Germania hitleriana e la Russia staliniana. Si tratta di una guerra ideologica a tutti gli effetti (cosa che la prima non era stata), e anzi di una doppia guerra ideologica, la guerra razziale fra germanesimo e slavismo (di cui è unico responsabile Hitler, mentre Stalin si difende con pieno diritto), e la guerra politica fra nazionalsocialismo e comunismo, da cui poi nascono tutti i movimenti partigiani europei, in cui dominano ovviamente i comunisti (Italia, Grecia, meno Francia e Polonia, eccetera). Hitler alla fine ha avuto quello che si era meritato con l’aggressione del 1941 e con il modo razzistico con cui l’aveva condotta, mentre la Germania paga un prezzo oscenamente ingiusto e criminale con l’“asportazione” mongolica e assiro-babilonese di Prussia Orientale, Slesia e Pomerania. La terza guerra, l’unica delle tre che alla fine ha avuto veramente un esito storico-strategico, è stata la doppia guerra condotta dagli USA contro la Germania e il Giappone fra il 1941 e il 1945. Si tratta della guerra di fondazione dell’impero americano, equivalente della vittoria strategica di Roma contro Cartagine nelle guerre puniche. I bombardamenti del 1945 contro Dresda, Hiroshima. e Nagasaki, l’espulsione di più di dieci milioni di tedeschi da terre che abitavano da più di un millennio, la morte pianificata per fame di milioni di prigionieri tedeschi arresisi, eccetera, dimostrano che in nessun modo i vincitori erano moralmente migliori dei vinti. In ogni caso, da più di sessant’anni l’Europa e il Giappone sono occupati da basi nucleari americane, e questo solo fatto parla da solo sul bilancio della terza variante della Seconda guerra mondiale. Tutto questo, ovviamente, non è in alcun modo una contorta e sofistica giustificazione di Hitler, Mussolini e dei loro alleati ungheresi e romeni. Il contrario. È semplicemente un ristabilimento elementare di alcune ovvietà storiche che la corporazione ideologica degli storici contemporaneisti ha contribuito a nascondere per mezzo secolo.

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11. Più in generale, il Novecento (maiuscolo) è oggi fatto oggetto di demonizzazione, esorcizzazione e diffamazione per un fatto semplice ed elementare, che non è neppure difficile diagnosticare. Il Novecento ha infatti visto un tentativo, purtroppo fallito, di ristabilire il primato della politica sull’economia, in forme ovviamente diverse e certamente non tutte moralmente legittime. Il primo e maggiore tentativo di ristabilire il primato della politica sull’economia, o più esattamente della decisione politica sulla autonomizzazione cannibalica dell’economia svincolata da ogni controllo politico reale, è stato il mai abbastanza rimpianto e lodato comunismo storico veramente esistito 1917-1991, la cui legittimazione non deve essere scolasticamente ricercata nella “lettera” di Marx (chi volesse farlo non la troverà mai), ma nella nuova situazione apertasi con il macello imperialistico del 1914. Il secondo è invece stato l’imperdonabile fenomeno del fascismo e del nazionalsocialismo, che definisco “imperdonabile” per la sua base colonialistica (Mussolini) e razzistica (Hitler). Inoltre, è noto che ci furono parecchi genocidi (i più noti furono quelli degli ebrei e degli zingari, per nulla nuovi e inediti perché era già avvenuto in precedenza il genocidio del popolo armeno), che è impossibile giustificare neppure nella forma contorta della cosiddetta “contestualizzazione”. Se Hitler fosse stato soltanto un patriota tedesco lo si sarebbe potuto salvare o giustificare in qualche modo. I suoi progetti sterministici verso slavi ed ebrei non possono invece in alcun modo essere giustificati. Si hanno poi altri benemeriti tentativi di sottoporre l’economia al primato della politica, dal cosiddetto benefico e mai abbastanza lodato populismo terzomondista (l’argentino Peròn, il brasiliano Vargas, l’egiziano Nasser, l’iracheno Saddam Hussein, eccetera) fino alla socialdemocrazia fiscale e redistributiva scandinava, oggi sciaguratamente risucchiata nel neoliberismo e nella teologia assassina dei cosiddetti “diritti umani”. E potremmo continuare. Ed è appunto questo che il concerto mediatico-universitario deve riuscire a esorcizzare del Novecento. Non è allora un caso che al concerto neoliberale apertamente capitalistico si uniscano le sfiatate trombette della cosiddetta “sinistra”, un cui delirante esponente ha ricostruito il Novecento come seco-

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lo del fordismo spersonalizzatore in cui il comunismo è definito in termini di applicazione del fordismo alla politica. Marx ha ragione: la tragedia trova sempre il modo di ripresentarsi come farsa. 12. Tutto questo configura la presente cultura del Politicamente Corretto come nuova forma dell’egemonia ideologica dell’attuale neoliberismo imperialista globalizzato. Bisogna però distinguere due tipi di Politicamente Corretto. Esiste un Politicamente Corretto linguistico-cerimoniale, che è una sorta di neolingua (l’orwelliana newspeak) della comunicazione sociale diffusa. Esiste poi un secondo tipo di Politicamente Corretto di tipo ideologico-culturale, di cui mi limiterò a esaminare sommariamente sei dimensioni soprattutto italiane (internità all’occidentalismo americano imperiale, criminalizzazione del comunismo storico novecentesco come demoniaca leggenda nera, eternizzazione dell’antifascismo in assenza palese e conclamata di fascismo, religione olocaustica come sostituzione delle precedenti religioni monoteistiche tradizionali, teologia interventistica dei diritti umani come arma immediata di guerra, riduzione del conflitto politico a polarità idraulica di vasi comunicanti Destra/Sinistra come protesi di manipolazione politologica). Con questo, siamo appena all’inizio di una analisi veramente seria e approfondita del codice ideologico dominante oggi. Bisogna però accontentarsi, perché le mie osservazioni sono ancora largamente introduttive. Quando la decifrazione di questo codice di manipolazione sarà generalizzata, saranno messe le prime basi per un pensiero politico di opposizione all’altezza dei conflitti presenti, e non di quelli di cinquanta, cento o duecento anni fa. Simulare un conflitto i cui parametri storico-ideologici non sono più attuali non è infatti un gesto di idiozia, ma è al contrario un gesto di raffinata astuzia, perché mentre gli imbecilli continuano a impersonare ruoli completamente superati i “padroni del vapore” possono svolgere meglio le loro sporche manipolazioni.

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13. Per comprendere le dinamiche strutturali della cultura americana non è molto utile la nota dicotomia marxiana fra Borghesi e Proletari, che in questa forma connota soltanto l’elemento economico ed economicistico della divisione fra proprietari privati dei mezzi di produzione e portatori astratti della propria forza-lavoro da scambiare in modo ineguale con il capitale, secondo il modello del tutto astratto del primo libro del Capitale di Marx (1867). È forse più utile rispolverare la vecchia dicotomia fra Patrizi e Plebei, non solo per l’incantesimo dell’analogia con il mondo antico, ma perché in uno schema politico imperiale la classe dominante diventa una sorta di patriziato e l’insieme delle classi dominate (ma parzialmente coinvolte nel godimento dei frutti del dominio imperiale) diventa una sorta di plebe. La cultura patrizia americana è influenzata dai modelli europei almeno fino ai primi decenni del Novecento. I patrizi americani si affermano soprattutto nelle città della costa occidentale (Boston, Baltimora, Filadelfia, New York, eccetera), fanno viaggi di istruzione in Europa, imparano il francese e il tedesco, e in generale riconoscono all’Europa una sorta di primogenitura culturale, un po’ come i ricchi romani con il mondo ellenistico e la lingua greca. Questo patriziato di vecchio tipo è sostituito nella seconda metà del Novecento da un arrogante patriziato apertamente e quasi oscenamente imperiale, che ostenta la sua ignoranza delle lingue straniere solo qualche parola di spagnolo per dare ordini ai propri autisti e alle proprie cameriere. In ogni caso, questo patriziato ha imparato da tempo a controllare il proprio linguaggio, e a fingere rassegnazione se per caso la propria figlia intende sposare un negro (oh, pardon, un nero), come nell’emblematico film Indovina chi viene a cena?. La cultura plebea americana vive invece di stereotipi razzisti e maschilisti ostentati senza vergogna: i neri sono negri, gli ebrei sono usurai, le ragazze-madri sono puttane, gli omosessuali sono froci, gli italiani sono mafiosi, i messicani sono bandoleros pigroni che non fanno niente se non riposarsi al sole, gli indiani sono scotennatori selvaggi, eccetera. Rilevo questo senza alcuna con-

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danna moralistica. Sradicati dal loro contesto europeo, africano e asiatico, gli immigrati conservano soltanto residui pittoreschi di culture tribali a base soprattutto religiosa, e vengono risocializzati come plebe sciovinista, maschilista, antisemita (tolto gli ebrei, ovviamente) e omofobica. Tutto questo cessa intorno al ventennio 1960-1980, in cui la parte progressista del patriziato americano decide di lanciare un movimento di rettificazione linguistica e comunicativa che verrà poi chiamato Politicamente Corretto. Cerchiamo di studiarne le dinamiche strutturali in quattro distinti momenti. 14. È bene in proposito non lasciare equivoci di sorta. Il canone linguistico politicamente corretto, in quanto pressione sociale di interdizione della volgarità nella comunicazione, è un fatto positivo da un punto di vista umanistico generale, se lo interpretiamo appunto come momento di una unificazione ideale del genere umano. Chiamare spregiativamente gli omosessuali “froci” oppure i neri “negri”, e connotare i gruppi sociali minoritari con epiteti sprezzanti (italiani mafiosi, ebrei usurai, eccetera) è un male e non un bene, anche e soprattutto se tutto questo proviene dal “basso”, e cioè dalla plebe dominata dal patriziato progressista wasp (bianco, anglosassone e protestante). Si ha qui un tipico esempio della differenza filosofica fra genesi (Genesis) e validità (Geltung). Come ha a suo tempo mostrato Michel Foucault (cfr. Sorvegliare e punire) la tortura e l’erogazione della pena di morte fra i più atroci tormenti (pensiamo al caso Damiens del 1758) furono progressivamente abolite non certo perché le classi dominanti fossero diventate più umane e “buone” (in realtà erano sempre carogne come e più di prima), ma perché alla forma di terrorizzamento dei dominati tramite scarnificazioni dei corpi, tipiche di un dominio ancora esterno alla produzione lavorativa, stavano subentrando nuove forme di sfruttamento “borghese” interne ai processi produttivi, che non richiedevano più squartamenti di corpi in quattro pezzi. E tuttavia, anche se tutto questo viene dall’alto e non certo dal basso, l’abolizione degli squartamenti pubblici è comunque

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un bene, perché qui non abbiamo a che fare solo con i prodromi dello scontro fra borghesi e proletari, ma siamo di fronte a un problema genericamente umano, il superamento cioè dello squartamento pubblico del condannato a morte. I negatori sciocchi della categoria di Umanesimo avrebbero qui una buona ragione per riflettere, ma so bene che questo è impossibile, perché mi è nota la loro tracotanza positivistica. Non tutto, infatti è riducibile allo scontro di soggettività come “maschere di carattere” (Charaktermasken, nel lessico di Marx), oppure di portatori astratti di ruoli sociali. Smettere di etichettare con disprezzo i neri e gli omosessuali segnala, indipendentemente dal portatore dell’ini­ziativa, un miglioramento in quella storia ideale eterna che è il rapporto etico fra particolarità e universalità. E tuttavia, non è solo questo l’unico aspetto della questione. 15. Sarebbe ovviamente errato pensare che il Politicamente Corretto sia stato soltanto una sorta di autocritica spontanea degli elementi negativi della tradizione occidentale concessa con liberalità dalla parte più progressista del patriziato liberal. Questo patriziato ha semplicemente accolto spinte provenienti dal basso, e cioè da forme di auto-organizzazione apertamente politiche. In proposito, distinguerò quattro forme di auto-organizzazione, in ordine i neri, gli ebrei, gli omosessuali e le donne, le cui logiche di sviluppo devono essere tenute accuratamente distinte. Per quanto riguarda i neri, è noto che la guerra civile americana 1861-1865 portò all’abolizione formale della schiavitù, ma mantenne il razzismo come elemento culturale strutturale della società americana, che ancora oggi respinge i matrimoni misti assai più di quanto questo avvenga in società con forte presenza di bianchi e di neri (Francia, Inghilterra, Cuba, Brasile, Colombia, eccetera).Movimenti di emancipazione dei neri costellano tutta la storia americana dalla fine dell’Ottocento, ma il loro sostanziale insuccesso è dimostrato dal fatto che ancora nella guerra 1941-1945 vi erano forme di segregazione razziale persino nell’esercito. Veri e propri movimenti neri di massa, non appaiono prima degli anni Sessanta

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(Martin Luther King), ma da allora in poi una certa emancipazione nera dal razzismo precedente appare visibile. In una struttura imperiale di capitalismo assoluto e senza freni, ovviamente, questa emancipazione non può avvenire se non nella forma di creazione di oligarchie nere di ricchi (Obama, eccetera), e questo processo è per esempio particolarmente chiaro e scandaloso nel Sudafrica del dopo apartheid. Nulla di strano. Il capitalismo non libera le etnie e i popoli oppressi, ma ne coopta le élites nel suo meccanismo riproduttivo, come peraltro avvenne già nell’Impero Romano, nell’impero spagnolo e poi nell’impero inglese. Per quanto riguarda gli ebrei, essi in America avevano sempre avuto posizioni di potere nell’alta finanza e nell’industria ideologica del divertimento organizzato (Hollywood, eccetera). Dato che il codice religioso anglosassone da Enrico VIII in poi è sempre stato veterotestamentario, contrapposto al codice cattolico prevalentemente neotestamentario, protestantesimo ed ebraismo hanno sempre avuto lo stesso libro sacro, assolutamente “non buonista”. Un codice che sterminava i nemici senza pietà e che presupponeva un mandato divino dato a un certo popolo. Questo ripugnante codice funzionava con gli Amaleciti e i Filistei come con i Sioux e i Cheyennes, e per questa ragione non c’erano le basi per un vero antisemitismo razziale e ideologico di massa (cosa positiva, ovviamente). E tuttavia, è esistito un virulento antisemitismo americano (pensiamo al capitalista automobilistico Ford), che tuttavia dopo il 1945 appare delegittimato. La comunità ebraica americana ha dato agli USA grandi intellettuali universalisti e progressisti, oltre a gran parte delle benemerite e mai abbastanza, lodate e rimpiante élites socialiste e comuniste. L’ancoraggio degli ebrei “a sinistra” venne meno progressivamente con l’affermazione del sionismo e dello stato colonialista e razzista di Israele dopo il 1948, e questo spostamento epocale della comunità ebraica (non di tutta, ovviamente, ma della stragrande maggioranza) da “sinistra” a “destra” è stato uno dei fattori storici più importanti forse non della storia in generale, ma certamente della storia occidentale contemporanea. Le élites sioniste non sono solo riuscite a imporre a una Eu-

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ropa rimbecillita la religione olocaustica della espiazione eterna del Male assoluto e imparagonabile, ma a imporre di fatto l’equazione antisionismo = antisemitismo, dogma del moderno sacerdozio idolatrico occidentalistico. Vi sono ovviamente negli USA voci ebraiche universalistiche discordanti (Chomsky, Finkelstein, eccetera), che vengono diffamate dai sacerdoti del sionismo come “ebrei che odiano se stessi”. Questo comportamento osceno ovviamente sembra parzialmente rilegittimare a posteriori l’altrettanto osceno e ingiustificabile antisemitismo di Hitler, come testimonia il fiorire della rete dei blog antisemiti. In linea generale, nell’occidente di oggi il patriziato è giudeofilo e la plebe è giudeofoba. Ma evidentemente i centri direzionali della comunità ebraica non se ne preoccupano, perché ritengono di essere riusciti a stabilire una alleanza di lunga durata con le oligarchie imperiali USA. E in effetti, per il momento, questa è la situazione, che gli consente di massacrare a ripetizione il popolo martire palestinese nell’osceno silenzio complice di tutta la baracca mediatico-universitaria occidentale. Per quanto concerne gli omosessuali, essi hanno lottato e lottano per una causa incondizionatamente giusta, e cioè per la piena legittimazione della loro visibilità pubblica. Nella modernità, che è sempre stata una secolarizzazione superficialmente laica di un sottostante strato religioso cristiano, l’omosessualità è sempre stata considerata un “peccato contro natura”, e questo fa sì che il più noto intellettuale omosessuale italiano (Gianni Vattimo) sia impegnato in una polemica contro Joseph Ratzinger per negare lo stesso concetto di “natura umana”, in alleanza con la variopinta banda accademica degli antropologi, che in buona compagnia con il loro santo protettore, Joseph de Maistre, sostengono di aver incontrato i Pigmei, i Bororo e i Boscimani, ma di non avere mai incontrato la “natura umana”. Questa lotta mi sembra assurda, in quanto (sunteggio qui la mia posizione filosofica) io credo contemporaneamente che la natura umana esista, e che il comportamento omosessuale non sia affatto contro natura, perché la natura, comporta sia un pluralismo di comportamenti sessuali intimi,

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sia una sostanziale unicità della storia del genere umano inteso come un unico soggetto trascendentale riflessivo (Kant, poi la sua correzione idealista di Hegel, e infine la correzione comunista e comunitaria di Marx). Considero invece una vera e propria fastidiosa degenerazione narcisistica la spettacolare ostentazione del travestitismo dei vari Gay Pride, e respingo anche la cosiddetta equiparazione del costume fra gli “omo” e gli “etero”. I cosiddetti “etero” danno luogo alle coppie normali che riproducono la specie umana, che in caso contrario si estinguerebbe, e alla stessa etica del rapporto fra genitori e figli, base di qualunque etica ulteriore. Il rapporto omosessuale di coppia resta interamente legittimo e pubblico, senza bisogno di ridicoli “matrimoni”, e tuttavia con pieno diritto di godere di facilitazioni giuridiche pubblicamente riconosciute (i vari PACS, DICO, eccetera). Quando si parla di “movimenti delle donne” occorre avere ben chiaro di che cosa si sta parlando. In proposito, userò la distinzione fra i termini di “movimenti femminili” e di “movimenti femministi”. Che il sesso femminile sia stato sacrificato a partire dalla rivoluzione neolitica dei cacciatori, guerrieri e agricoltori mi sembra storiograficamente innegabile. Che la civiltà umana si sia sviluppata (quasi) dovunque (con eccezioni matriarcali) in modo patriarcale sembra un dato innegabile. Che una “correzione” civile di questa caratteristica sia legittima e auspicabile, mi sembra parimenti del tutto giusto e degno di appoggio. Per questa ragione il fiorire di movimenti femminili organizzati, nati timidamente a fine Settecento, sviluppatisi nell’Ottocento, e giunti sostanzialmente alla vittoria nel Novecento, mi sembra una delle maggiori conquiste del secolo. Chi parla di comunismo comunitario e poi conserva riserve mentali (che magari si vergogna di esplicitare in pubblico) sulla piena eguaglianza dei due sessi, farebbe meglio a rivolgersi ai (pur esistenti) movimenti tradizionalistici, non importa se a base cristiana o pagana (Evola, Guénon, eccetera). Come ha sempre rilevato correttamente Domenico Losurdo, il comunismo storico novecentesco ha sempre favorito l’emancipazione femminile, laddove invece i movimenti fascisti e nazionalsocialisti

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hanno imboccato la strada sbagliata della “divisione integrale del lavoro riproduttivo” fra i due sessi, la donna nel privato e l’uomo nel pubblico. E tuttavia non si tratta di benevolenza maschile. Ormai la donna non è più disposta a farsi ricacciare nel privato, e la sua forza organizzata impedirebbe comunque qualunque antistorico programma di restaurazione. Altra cosa è il cosiddetto “femminismo”, che a mio avviso non fa parte dei movimenti femminili veri e propri. Non intendo affatto nascondere ipocritamente la fortissima antipatia culturale che provo verso questo fenomeno, antipatia fortunatamente condivisa da molte donne anagrafiche, e che i vertici intellettuali femministi (fortissimi nel clero universitario dei cosiddetti gender studies) cercano di diffamare in termini di “maschilismo” (con tattica analoga a quella usata dai sionisti, che trattano da antisemiti gli antisionisti). Ma così come gli ebrei in sé non sono necessariamente sionisti, nello stesso modo le donne in sé non sono necessariamente femministe. Non sono ovviamente in grado di definire adeguatamente il femminismo. Nei ceti patrizi superiori di “destra” si è trattato di un episodio di crisi della vecchia forma borghese patriarcale, quella marcata dall’ostentazione pubblica degli attributi sessuali (barbe e baffi per gli uomini; busti, stecche di balena soffocanti e culi in evidenza per le donne), e dalla connessa subordinazione femminile (madre, ma anche mantenuta e puttana di lusso). Nei ceti plebei inferiori di “sinistra” si è trattato di un movimento separatista volto a interrompere la precedente solidarietà della lotta di classe socialista e comunista, che aveva visto sempre insieme uomini e donne. Solo la stupidità, fattore storico di importanza almeno eguale a quello delle forze produttive, ha divulgato l’idea che il femminismo sia un movimento di “sinistra”, laddove invece la sua logica porta inesorabilmente alla rottura della solidarietà fra i sessi, all’individualismo narcisistico, e soprattutto alla delegittimazione della famiglia. E tuttavia il femminismo, particolarmente nella forma del differenzialismo filosofico, rappresenta una forma culturale talmente antiumanistica, ed è talmente impregnato

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di elementi congiunturali degenerativi, da poterne ipotizzare una veloce decadenza. Se tiene ancora, tiene perché è sovrarappresentato nei ceti mediatici e universitari. Quanto ho detto sarà sembrato ad alcuni razionale, e ad altri sgradevole, bigotto e reazionario. E tuttavia, se si vuole gettare un sasso nello stagno, è impossibile impedire che si allarghino i cerchi nell’acqua. 16. Fra qualche decennio, o forse fra qualche secolo (se le cose andranno particolarmente male) sarà chiara la logica del movimento del Politicamente Corretto nel delicato passaggio fra il secondo e il terzo millennio. Sarà anche possibile inserire questa logica nello schema provvidenzialistico hegelo-marxiano, per cui il capitalismo, pur nel contesto della promozione dei suoi luridi scopi oligarchici, contribuisce in un certo senso a “spazzare via” residui inaccettabili del passato. Riprendendo la teoria di Vico della eterogenesi dei fini nelle azioni soggettive dei comportamenti umani (teoria interamente accettata a sviluppata da Hegel e da Marx), questi movimenti politicamente corretti saranno inquadrati in un processo di allargamento della base sociale, economica, politica e culturale della produzione capitalistica. Essa ha avuto una genesi bianca, maschile, anglosassone, protestante, ma con la sua mondializzazione geografica e sociale non poteva tenere fuori a lungo le donne, i neri, gli indiani e i cinesi. Il capitalismo, infatti, segue una logica dell’eguagliamento nella diseguaglianza, una logica che sarebbe di facilissimo apprendimento e di semplice comprensione se i modi di pensare di Hegel e di Marx fossero riusciti a imporsi sulle astrazioni destoricizzate dell’empirismo di Locke, dello scetticismo utilitaristico di Hume, del criticismo di Kant, e infine della mentalità antifilosofica positivistica. Da un lato, il capitalismo tende a ridurre tutta la ricca varietà dei sessi, dei popoli, delle nazioni e dei costumi religiosi a un unico codice di accesso, il codice di accesso alla produzione (il lavoro astratto) e del consumo, e questo può essere definito un processo di eguagliamento. Dall’altro, questo processo di eguagliamento, che sarebbe forse meglio

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definire di astrattizzazione (il soggetto astratto di Cartesio, il lavoro astratto di Smith, l’Io astratto di Kant, eccetera) è il presupposto formale per un processo materiale di moltiplicazione della diseguaglianza dei redditi, dei consumi, del sapere e del potere. Donne, neri, omosessuali, popoli coloniali prima dominati in modo brutalmente razzista, eccetera, devono essere inseriti nella normale riproduzione capitalista. E così le donne prima diventano avvocati, medici e ingegneri, e poi addirittura soldati nei corpi speciali delle aggressioni imperialiste fatte in nome dei diritti umani. I neri vengono anch’essi cooptati nel sistema, al punto che addirittura uno di loro diventa imperatore supremo del mondo (Obama nel 2008). Solo gli sciocchi vedono in questo una vittoria della cosiddetta “sinistra”. Si tratta, al contrario, di un maestoso inserimento nella base sociale della riproduzione capitalistica di due sessi nuovi (le donne e gli omosessuali) e di razze nuove (i neri, i cinesi, eccetera). Le plebi bianche ringhiano e borbottano, perché sanno perfettamente che tutto questo gli farà ridurre le fette già ridotte di torta che avevano fino a ora avuto a disposizione. Ma le bastonate dei naziskin ai neri e agli immigrati, e le svastiche nei cimiteri ebraici, oltre a essere politicamente e moralmente inaccettabili, sono anche storicamente il segnale della rabbia impotente dei perdenti storici. Per adesso, contro ogni stupido ottimismo di chi vede la fine del capitalismo dietro a ogni passaggio di crisi, possiamo soltanto sobriamente constatare che con l’allargamento delle sue basi sociali, sessuali e razziali il capitalismo non si indebolisce, ma al contrario si rafforza. 17. Vi è infine un ultimo aspetto del Politicamente Corretto Verbale da prendere in considerazione, a mio avviso ancora più importante del precedente. Il Politicamente Corretto Verbale non è soltanto un meccanismo di interdizione delle volgarità plebee di tipo razzista, maschilista, omofobico, eccetera, ma è anche e soprattutto un meccanismo di occultamento radicale della realtà. Se la prima variante è una espressione sovrastrutturale dell’allargamento della base sociale attiva del capitalismo che integra nuovi

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soggetti prima esclusi nella sua riproduzione, la seconda variante rivela una difficoltà di legittimazione sociale dei nuovi comportamenti capitalistici. Si ha qui una piena applicazione del famoso principio di Orwell della Nuova Lingua (newspeak), non però nella forma della lingua di legno burocratica di tipo staliniano (langue de bois), ma nella forma della derealizzazione del reale, interamente sostituito da una sua simulazione virtuale. Dal momento che la guerra è il fenomeno collettivo più importante che possa esistere (mentre per il singolo è la malattia grave e incurabile), è ovvio che il principio linguistico massimo e principalissimo del Politicamente Corretto consiste nel chiamare “pace” la guerra. Da più di dieci anni questa, ipocrisia sociale ha invaso la lingua italiana, un tempo lingua lodata per la sua bellezza ed espressività, per cui l’aggressione alla Jugoslavia del 1999 e l’invio di truppe d’occupazione prima in Afghanistan e poi in Iraq sono sempre sistematicamente stati chiamati “missioni di pace”. Ciò però non sembra provocare reazioni sociali di massa, il che significa che la corruzione morale della popolazione è già giunta a uno stadio molto alto, e che la situazione può essere descritta secondo una vignetta del disegnatore Altan: «Il trucco c’è, si vede, e non gliene frega niente a nessuno». Vorrei insistere molto su questa relativa novità corruttrice, perché gran parte della cultura filosofica mondiale è cresciuta sulla base del presupposto per cui esisteva un vasto potenziale di interesse individuale e sociale allo smascheramento dei trucchi e delle falsità. Se invece entriamo in un tipo di società dello spettacolo e della simulazione (Debord, Baudrillard, eccetera) per cui invece il trucco c’è, si vede a occhio nudo, e ciononostante non gliene frega più niente a nessuno, allora effettivamente vengono erosi i fondamenti della stessa civiltà occidentale, che si è sempre considerata una civiltà della verità, e si è sempre fisiologicamente divisa sul differenziato accertamento della verità stessa. Battistrada in questa corruzione semanticoculturale è stato anche in questo caso il sionismo colonialista e razzista, che ha sempre definito “processo di pace” il passare del tempo necessario per colonizzare la Palestina occupata, dopo il

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1948 e il 1967 con insediamenti progressivi di coloni assassini. Tutto questo è perfettamente noto non solo ai diplomatici ma anche alla feccia mediatico-universitaria, e tuttavia si continua a fingere che il “processo di pace” ci sia, e sia soltanto messo in pericolo da generici “estremisti”. Si può dire che quando la menzogna diventa indifferente si sia di fronte a una vera crisi di civiltà. Il rifiuto della realtà, una volta stabilito al vertice, e cioè nel rapporto di inversione fra Guerra e Pace, con la Guerra chiamata Pace (nel linguaggio dell’impero e dei suoi multicolori fantocci ONU e ONG si parla della guerra come peace keeping e della repressione degli insorgenti come peace enforcing), cade poi a cascata in tutti gli ambiti della vita quotidiana. Il pesce, comunque, puzza sempre a partire dalla testa. Il capitalismo deve promuovere una sorta di beato ottimismo verso il futuro, legato al ciclo delle aspettative imprenditoriali di vendita dei prodotti, ed è per questo che la pubblicità fa leva su corpi giovani in perfetto stato di salute. Un recente esempio di rimozione della vecchiaia e della morte si e avuto in recenti comportamenti di Silvio Berlusconi, incarnazione quasi comica dello spirito del capitalismo assoluto e incondizionato, che procede da un lato a continui lifting, e dall’altro si mostra interessato ed entusiasta a proposito di studi avveniristici che promettono di portare la vita umana media a 130 anni circa. La rimozione ospedalizzata della morte nel moderno capitalismo, che sostituisce il teatro della morte signorile e proto-borghese, segnala che la morte è ormai l’oscenità suprema, in quanto interrompe il consumo, per definizione illimitato, laddove gli organi genitali maschili e femminili tendono a perdere ogni carattere osceno, e a diventare sempre più gadgets e soprattutto stimoli sensoriali al consumo ulteriore. È evidente, infatti, che la pubblicità è il Viagra del capitalismo. La rimozione della guerra e della morte comporta ovviamente una cascata di rimozioni linguistiche ulteriori. I sordi diventano non udenti, i ciechi non vedenti, le cameriere collaboratrici domestiche, gli spazzini operatori ecologici, eccetera. Persino i disabili diventano diversamente abili. Le maestre vengono invitate

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a non usare più la matita rossa, considerata traumatizzante, e gli stessi voti, considerati traumatizzanti, vengono sostituiti ipocritamente con espressioni verbali generiche. Questa ipocrisia verbale socialmente organizzata è fatta raramente oggetto di studio antropologico-sociale serio. Da come la vedo io, si tratta di un processo di riduzione sociale a una antropologia dell’“io minimo”, secondo la corretta definizione di Christopher Lasch, per cui l’io è fatto oggetto di continua invasività psico-pedagogica, e gli si toglie addirittura l’ultima risorsa naturale di cui dispone, e cioè la spontaneità del linguaggio. Ma mi rendo conto che l’analisi è appena iniziata, e i fondamenti di una indicibile barbarie antropologica sono appena stati posti. Chi è ancora giovane in futuro ne vedrà certamente delle belle. 18. Ho passato in rassegna finora soltanto il Politicamente Corretto Verbale cercando di analizzarlo in termini hegelo-marxiani come unità di emancipazione e di manipolazione, in cui però oggi l’elemento manipolativo prevale sul precedente, frutto della sinergia di movimenti di emancipazione dal basso e di selezione patrizio-imperiale dall’alto. Il Politicamente Corretto Culturale, di cui analizzerò ora il funzionamento sociale insieme con sei espressioni principali, è però ancora più importante del precedente. Si tratta di un codice d’accesso flessibile al profilo culturale dell’oligarchia capitalistica contemporanea, al di fuori del quale vi sono soltanto nicchie culturali tollerate solo perché del tutto impotenti socialmente, politicamente, e soprattutto militarmente. Il comunismo comunitario, per esempio, è oggi soltanto una nicchia culturale, e per questo non viene militarmente represso, perché è inutile reprimere militarmente ciò che è socialmente impotente a livello generale. Se diventasse pericoloso verrebbe certamente represso, in quanto a suo tempo Lenin scrisse che persino i teoremi della geometria verrebbero messi fuorilegge se per caso in qualche modo diventassero incompatibili con la riproduzione capitalistica, la quale (si veda il recente esempio cinese) può tranquillamente avvenire

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anche in presenza della cosiddetta (e pochissimo rilevante) limitazione della cosiddetta “libertà d’espressione”. In linea generale, il capitalismo non ama forme rigide di repressione della libertà d’espressione, perché il sistema è rafforzato dalla flessibilità, e indebolito della rigidità. I sistemi politici del comunismo staliniano, del fascismo, del nazionalsocialismo e dei populismi carismatico-autoritari si basano sulla repressione diretta della cosiddetta libertà di espressione, ma questo è un sintomo di debolezza e non certo di forza. Un sistema di capitalismo maturo applica alla produzione di idee lo stesso principio della produzione di merci, e respinge ai margini del mercato le idee fastidiose, in modo che possano soltanto essere “vendute” in ambiti merceologici di nicchia. Il codice d’accesso di massa al profilo consentito avviene oggi attraverso le griglie selettive del Politicamente Corretto Culturale, che possiamo definire come l’attuale (e provvisorio) coronamento dell’occidentalismo, e cioè del profilo culturale della civiltà occidentale. Siamo appena all’inizio di un serio studio di questo codice. Per il momento mi limiterò ad analizzare soltanto sei forme di questo codice di interdizione e di selezione, partendo purtroppo da un’ottica provinciale italiana ed europeo-occidentale. 19. Il pilastro più importante del codice culturale politicamente corretto, così come è gestito dall’unione di circo mediatico e di clero universitario di “commento”, è il presupposto di internità occidentalistica all’impero americano, messianico, monolingue e ultracapitalistico. Per capire il funzionamento culturale dell’impero (o meglio, di qualsiasi impero) è meglio congedarsi, educatamente ma fermamente e senza rimpianti, dallo schema liberale, che vede il conflitto epocale di civiltà fra gli occidentalisti liberal-conservatori e i loro nemici terroristi-integralisti-nazisti-comunisti, e dallo schema di lontana origine marxista, che vede il conflitto classista bipolare fra borghesia e proletariato. Niente di tutto questo. Un simile modo di ragionare (liberali/totalitari e borghesi/proletari)

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significa fare del geocentrismo in epoca copernicana e del fissismo in epoca evoluzionistica. Nel momento in cui gli USA sono un impero, la dicotomia all’interno dell’impero è quella fra patrizi e plebei. È meglio chiamarli così, scontando l’evidente inesattezza, piuttosto che illudersi. Tutti gli imperi della storia non sono mai caduti dall’interno, ma dall’esterno. Finché durano, neutralizzano le loro plebi interne con il pane e con il circo (ed è giunto il momento che si rifletta sulla ipertrofia dello spettacolo sportivo negli USA, ma vedo che non lo si fa!). La cultura imperiale viene gestita da una fusione specifica di circo mediatico e clero universitario, mentre fra la plebe viene diffuso a piene mani l’odio per gli intellettuali in quanto tali (teste d’uovo, eccetera). In uno scritto fondamentale sul funzionamento del sistema mediatico USA Noam Chomsky ha mostrato il suo (facile) enigma, che consiste nel fatto che è permesso, e anzi incoraggiato, discutere dei mezzi in politica estera, mentre è interdetto (pena la marginalizzazione in nicchie politicamente irrilevanti discutere sulla legittimità del fine, e cioè del dominio geopolitico USA nel mondo. L’incoraggiamento a discutere dei mezzi e l’interdizione a discutere dei fini è appunto il codice culturale di base di ogni impero che si rispetti. Aprire o chiudere Guantanamo? Si apre una discussione se sia meglio terrorizzare i potenziali terroristi oppure venire incontro ai vagiti buonisti e pecoreschi della cosiddetta “opinione pubblica europea” (in realtà inesistente). È meglio lo hard power o il soft power? E lì sopra infiniti chiacchiericci sulla scuola bombardatrice di Kagan e la scuola accarezzatrice di Nye! Più unilateralismo o più multilateralismo? Più realpolitik o più diritti umani? L’occidentalismo si difende meglio con il profilo cristiano (Marcello Pera, George Weigel), oppure con la rivendicazione del laicismo integrale (la coppia sionista allucinata Pannella-Bonino)? E così via all’infinito. Noam Chomsky ha pienamente svelato le basi della simulazione sull’incoraggiamento della discussione sui mezzi e sull’interdizione della discussione sui fini occidentalistico-imperiali USA. Tut-

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to questo è del tutto normale che avvenga, al centro dell’impero, in cui gli “intellettuali” hanno il compito di prospettare scenari strategici di potere, che implicano la discussione sul se sia meglio bombardare e impiccare Saddam Hussein o se sia meglio ammorbidirlo e comprarlo, se sia meglio ricattare la Russia con la Georgia e la Cecenia e la Cina con il Tibet oppure se sia meglio non farlo, eccetera. La novità relativa sta nel fatto che negli ultimi trent’anni circa, in Europa è avvenuta una colonizzazione integrale di questo atteggiamento di internità completa a questo punto di vista imperiale gestita dallo stesso soggetto socioculturale degli USA, la fusione fra circo mediatico e clero universitario. Certo, le tribù belanti dei residui della borghesia europea chiedono supplicando un po’ più di multilateralismo e un po’ meno di unilateralismo, e si inginocchiano davanti al Primo Imperatore Negro perché corregga gli eccessi dell’Ultimo Imperatore Bianco. Ma le loro suppliche non possono essere ascoltate, perché l’impero è sempre impero, indipendentemente dal colore della pelle e dalle fattezze somatiche dell’imperatore. La cultura patrizia dell’impero si unisce ovviamente all’esportazione del modello della sua cultura plebea, connotata in modo insuperabile da Adorno come “primitivismo di massa”. Mentre il circo mediatico è deputato alla gestione di questo primitivismo di massa (le cui interessantissime caratteristiche non possono essere analizzata qui per semplici ragioni di spazio), il clero universitario è invece deputato a produrre sofisticate ideologie per le teste d’uovo: fine della storia, conflitto di civiltà, Novecento come secolo delle ideologie assassine, rovesciamento dell’utopia in terrore, necessità della islamofobia per difendere la nostra incomparabile civiltà occidentale, fine degli stati-nazionali, diffamazione delle identità nazionali come “comunità immaginarie”, imposizione del politicamente corretto linguistico, monolinguismo anglofono nella forma più empirica e paratattica possibile, in modo che non sia più neppure possibile concettualmente evocare il principio dialettico della totalità filosofica, eccetera.

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Il principio del presupposto di internità occidentalistica è oggi una delle basi dell’ideologia imperiale. Essa non interdice la discussione, come facevano i primitivi sistemi di potere novecenteschi, ma anzi la favorisce, purché si accetti il presupposto di internità e la limitazione ferrea alla discussione dei mezzi migliori per promuoverla, laddove si per scontato che il fine è buono. E invece no. Il fine è cattivo, indipendentemente dai mezzi usati, anche se i mezzi assassini sono ovviamente più scandalosi dei mezzi diplomatici. Non esiste comunismo comunitario possibile se non ci si chiama fuori integralmente dall’occidentalismo imperiale in tutte le sue forme. Se l’impero è questo, allora siamo con i barbari fuori dai confini. Mi rendo conto che in questo modo si chiede molto, forse troppo. Le secessioni sono indubbiamente dolorose. Eppure, in questo caso si tratta di una secessione assolutamente indispensabile. Essere occidentalisti significa oggi essere imperiali, e allora discutere di critica al capitalismo e di fusione di comunismo e di comunitarismo appare una innocua menzogna di perditempo. 20. Come si è chiarito nel paragrafo precedente, bisogna avere il coraggio di passare da un presupposto di internità occidentalistica, critico finché si vuole (una certa criticità è infatti benvenuta per “oliare” meglio i meccanismi della manipolazione “flessibile”) a un presupposto di esternità integrale. Questa è la mossa decisiva. Tutti gli altri cinque punti che solleverò ora sono largamente secondari e accessori. Il secondo pilastro del politicamente corretto culturale è la demonizzazione dell’intero fenomeno del comunismo storico novecentesco in quanto tale, e cioè la sua piena illegittimizzazione storica (mi scuso per il termine pesante). Marx può essere scusato e addirittura recuperato, come filosofo e come economista ricardiano e sismondiano, le critiche alla burocrazia di Gilas e di Trotzky possono essere ricordate come oneste messe in guardia,

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eccetera, ma la leggenda nera deve essere imposta come presupposto di ogni analisi. Data l’importanza del tema, per ora ne parlerò poco perché ci dedicherò un intero capitolo. E tuttavia, qualunque rilancio del comunismo comunitario (più esattamente, del comunismo con correzione qualitativa comunitaria) non può evitare le “forche caudine” del bilancio razionale del comunismo storico novecentesco e del giudizio storiografico sui suoi principali rappresentanti. Questo giudizio può essere severissimo (il mio personale giudizio è severissimo), ma la severità del giudizio, al di là di ogni consueta e spesso risibile giustificazione e contestualizzazione, non deve confondersi con la riduzione demonologica dell’intera esperienza comunista novecentesca a orrore del sistema dei gulag o della figura demoniaca di Stalin. Vorrei essere ben capito e non frainteso. Sul sistema di Stalin si può essere totalmente apologetici (Ludo Martens) o parzialmente apologetici (Domenico Losurdo). Sull’eresia trotzkista si può essere totalmente apologetici (Ernest Mandel, Livio Maitan), oppure fortemente critici (come è il mio caso). Sul PCI italiano si può essere fortemente apologetici o fortemente critici. E potrei moltiplicare gli esempi. Ma qui siamo di fronte non a un problema storiografico, e neppure a un problema di giudizio politico. Qui siamo di fronte a un problema di esorcizzazione religiosa dell’intera storia del comunismo storico novecentesco, il cui scopo è quello di far introiettare al subalterno che non bisognerà provarci mai più, perché chi si azzarderà a provarci finirà inevitabilmente con il mettere al potere l’equivalente del baffo caucasico di Stalin. E dal momento che Stalin non è in effetti molto difendibile, il politicamente corretto ha avuto fiuto nell’individuare nella demonizzazione della sua figura il punto di minor resistenza. Per questa ragione, pur non essendo per nulla staliniano (al contrario!), ritengo che non si possano fare concessioni alla sua demonizzazione astorica. Ma data l’importanza del tema, mi spiegherò meglio nel capitolo apposito.

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21. Un terzo pilastro del politicamente corretto, soprattutto in Italia (ma qui sto scrivendo in italiano) è l’eternizzazione dell’antifascismo in assenza totale di fascismo. Ora, eternizzare un “anti” in assenza dell’oggetto polemico contro cui questo “anti” si era legittimato a suo tempo è sempre un sintomo di debolezza e di carenza dei fondamenti di legittimità attuale di un sistema di valori. Mille cortine fumogene e mille urla scandalizzate non possono far sì che questo non sia. Possono al massimo ritardare di decenni la necessità di comprendere questo semplice fatto: se si decide di essere “anti” qualcosa, bisogna che questo qualcosa sia pienamente attuale e presente. Oggi sdegnarsi dei crimini politici del fascismo (che personalmente non intendo affatto negare, in particolare i crimini coloniali, per me incondizionatamente i più odiosi) è attuale come sarebbe attuale lo sdegnarsi contro la repressione sanguinosa di Silla contro i seguaci di Mario. Ovviamente, so bene quali sono gli interessi politici e ideologici della eternizzazione dell’antifascismo sacralizzato in totale assenza di fascismo. Essi sono molti e variati. Nella storia della Prima repubblica italiana 1946-1992 (prima del colpo di stato giudiziario extraparlamentare denominato surrealmente “Mani Pulite”) l’antifascismo in assenza completa di fascismo è servito per colmare simbolicamente le carenze di legittimazione autonoma sia della DC che del PCI, e siamo pertanto nel puro regno di ciò che Marx chiamava ideologia e Pareto chiamava residui e derivazioni. Ma c’è dell’altro, ovviamente. In primo luogo, l’antifascismo in assenza completa di fascismo permette di tenere sempre libera una casella vuota, in cui sia sempre possibile mettere un nuovo faccione da accusare di fascismo (i fascisti Fanfani, Craxi, Berlusconi, Milosevic, Ahmadinejad, Bossi, eccetera). Nel deserto della politologia seria e differenziata, dominato oggi dalla contrapposizione rozza fra democrazia (buona) e populismo (cattivo), il fascismo adempie al ruolo di jolly nelle carte da gioco, che può sostituire qualsiasi altra carta particolare. Il borgomastro antisemita di Vienna diceva che era lui a scegliere chi era ebreo e chi no, come i proprietari terrieri brasiliani razzisti

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dicevano che erano loro a decidere chi era negro e chi no. Nello stesso modo una classe politica delegittimata, incapace di lottare contro la pauperizzazione e il lavoro flessibile e precario, può sempre inscenare cerimonie lustrali in cui mette in guardia dal Male Assoluto, e mentre gli idioti della platea volgono lo sguardo reverente verso il Male Assoluto si creano tutti i presupposti diversivi per compiere tutti i mali relativi necessari. Ma è ovviamente la casella vuota intercambiabile l’aspetto ideologico primario. In secondo luogo, per mezzo secolo l’antifascismo in assenza completa di fascismo è stato l’ideologia dominante dei partiti comunisti, causa della carenza di legittimazione della teoria leniniana della dittatura del proletariato e della scarsa appetibilità del modello sovietico di società socialista. In questo modo però il marxismo è morto, perché non si può costringere una teoria critica a centottanta gradi come la teoria di Marx a fare da stampella “colta” alle cerimonie resistenziali. Inoltre, questo continuo battere di tamburi sull’antifascismo in assenza totale e conclamata di fascismo ha paradossalmente legittimato sempre di più proprio il nemico storico dei comunisti, e cioè l’impero americano. Non sono stati infatti gli USA a “liberarci” sbarcando in Sicilia nel 1943 e in Normandia nel 1944? Certo, c’erano anche i sovietici, che hanno avuto perdite molto maggiori, ma i sovietici non disponevano dei centri mediatici di Hollywood e delle centinaia di film di guerra contro i musi gialli giapponesi e i mangiakrauti tedeschi. E in questo modo il vero erede ideologico della eternizzazione dell’antifascismo in assenza totale di fascismo è stato Silvio Berlusconi, con ai lati Gianfranco Fini e Gianni Alemanno (gli americani ci hanno liberati dal fascismo, il fascismo è il male assoluto, persino la chiesa non ha condannato abbastanza le leggi razziali, eccetera eccetera). Quanto dico potrà certo sembrare paradossale, ma lo sembrerà molto meno a chi pratica il pensiero dialettico e la comprensione del fatto che le determinazioni rigide dell’intelletto spingono sempre oltre se stesse. Mi congratulo con i soloni dell’antifascismo in assenza totale di fascismo e con gli eternizzatori simbolici della guerra civile terminata nell’aprile 1945. Alla fine di questi ceri-

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moniali, in cui si è voluta tenere una casella “fascista” libera per i propri avversari politici contingenti, l’antifascismo è diventato un elemento ideologico di legittimazione imperiale USA (che infatti ci hanno “liberato” dal fascismo), gestito dalla triade antifascista Berlusconi-Fini-Alemanno. 22. Un quarto elemento del politicamente corretto, quello incondizionatamente più religioso e sacrale, è quello della religione olocaustica. Giudicando criticamente questa nuova religione, per ora esclusivamente americana ed europeo-­occidentale, non si ha naturalmente alcuna perfida intenzione antisemitica e giudeofobica, e neppure ovviamente alcuna intenzione di giustificazione di Hitler o di negazione del fatto storico indiscutibile del genocidio degli ebrei. Il genocidio c’è, infatti, quando si ha intenzione di sterminare un popolo in quanto popolo, anche se alla fine non ci si riesce perché una parte di questo popolo si trova altrove o si sottrae alla morte con la fuga, l’emigrazione o la resistenza. Non ho dubbi sul fatto che Hitler avesse una intenzione genocida. Intorno ai numeri di questa strage di ebrei ritengo invece che ci dovrebbe essere in proposito una libera discussione, e l’incarcerazione dei negazionisti mi sembra una conferma indiretta del carattere religioso preso dalla questione. Si può infatti oggi dire apertamente che Dio non esiste senza essere penalmente puniti, mentre diventa una fattispecie di reato penale essere “negazionisti”. Se si potevano ancora avere dubbi sul carattere religioso assunto dal tema olocaustico, la sua trasformazione in fattispecie penale toglie ogni dubbio in proposito. Conosco solo due tabù legali alla libera discussione occidentale, l’esaltazione della pedofilia e la negazione dell’olocausto. Ci sarebbe molto da discutere in proposito, ma ragioni di spazio sconsigliano di soffermarcisi troppo. Il compito primario della religione olocaustica è ovviamente quello di suscitare un complesso di colpa atto a legittimare direttamente i comportamenti razzisti, crudeli e assassini del sionismo nel suo progetto di genocidio del popolo palestinese. Nella storia vi sono molti esempi di popoli genocidiati che diventano genoci-

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di verso popoli più deboli. In linea di massima, bisogna liberarsi del principio assiro-babilonese della responsabilità collettiva per aderire al principio moderno della responsabilità individuale. Ma la religione olocaustica non può farlo, perché il suo scopo è appunto quello di incollare sulla nazione tedesca in quanto tale una responsabilità eterna e senza limiti. La Germania è un paese centrale per l’identità europea, e inchiodare la Germania a un lutto inespiabile significa inchiodare tutta l’Europa. Al di là della legittimazione delle azioni criminali del sionismo, la religione olocaustica ha infatti come compito l’eternizzazione del complesso di colpa dell’Europa, in modo che questo complesso di colpa venga pagato con l’occupazione a tempo indeterminato dell’Europa da parte di basi militari USA potentemente armate. Capitale politica del mondo deve essere Washington, ma la capitale religiosa deve essere Gerusalemme, che per questo non può essere “spartita” con gli arabi, cui il sionismo razzista e assassino l’ha rubata. Vi è però ancora una ragione, forse filosoficamente la principale. In un’epoca di crisi delle religioni monoteistiche tradizionali, in cui soltanto più la plebe ricorre a San Gennaro, Padre Pio e Lourdes, il patriziato laicista europeo è rimasto senza religione, ed è quindi necessario fornirlo di una nuova “religione storica per colti”, che è appunto la religione olocaustica. Essa non è invasiva su questioni comportamentali e sessuali, non vieta l’aborto e l’eutanasia, non possiede fastidiose “dottrine sociali”, accetta il più totale individualismo, e nello stesso tempo coltiva quello che per Freud è il cuore di tutte le religioni, e cioè il senso di colpa (cfr. Totem e Tabù). La religione olocaustica è nata come religione patrizia di intellettuali europei materialisti e senzadio, e viene oggi incentivata con giornate della memoria e pellegrinaggi ad Auschwitz. La sua base teologica è costituita dalla cosiddetta imparagonabilità di Auschwitz con qualsiasi altro evento storico. Si tratta di un dogma irrazionalistico e inaccettabile. Auschwitz è stato un fatto imperdonabile, inaccettabile e senza nessuna possibile giustificazione,

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ma non è stato affatto un fatto imparagonabile. Per esempio, Hiroshima gli è del tutto paragonabile, e personalmente tendo addirittura a pensare, in una atroce e folle classifica dell’orrore, che è stato addirittura peggiore. In questo modo, ovviamente, ho bestemmiato la religione olocaustica, senza essere affatto né antisemita ne giudeofobico. Ma, appunto, la religione olocaustica non ha nulla a che vedere con la religione ebraica, il popolo ebraico, l’antisemitismo storico, eccetera, trattandosi soltanto di una religione idolatrica per senzadio al servizio ideologico dei crimini del sionismo politico e della perpetuazione della minorità storica dell’Europa. 23. Un quinto elemento del politicamente corretto, particolarmente ipocrita e odioso, è costituito dalla teologia interventistica dei diritti umani. E così come l’uso della religione per legittimare massacri razzisti (le crociate, i conquistadores, i coloni protestanti americani e sudafricani, eccetera) è particolarmente odioso, nello stesso modo è odioso veder utilizzare una tradizione culturalmente emancipativa, come è stata, quella del diritto naturale. Carl Schmitt ha chiarito in modo impeccabile che il riferimento agli interessi dell’Umanità, in buona fede o in malafede, è sempre la copertura ideologica posticcia per la legittimazione di guerre imperiali di conquista. In una recente opera dedicata alla brigantesca guerra del Kosovo del 1999 Danilo Zolo ha chiarito che “chi dice Umanità” è quasi sempre un mascalzone ipocrita. Una delle ragioni – se non la principale – della correzione comunitaria del comunismo sta nel fatto che in questo modo si toglie al comunismo la pretesa di una esportazione astrattamente universalistica, e lo si vincola ferreamente al consenso della comunità in cui è concretamente praticato. La teologia interventistica dei diritti umani è invece una cosa sporca, che deve essere denunciata e che non ha oggi nessuna giustificazione. Il punto di partenza, storico di questa indegna porcheria sta forse nel messaggio al congresso americano di Roosevelt del gennaio

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1941, in cui il presidente USA proclamava che bisognava assicurare a tutti gli uomini in tutto il mondo quattro libertà universali: libertà di coscienza, libertà di religione, libertà dal bisogno, libertà dalla paura. Sono passati quasi settant’anni da allora, un periodo di tempo già sufficiente per tentare un bilancio storico. Come l’impero USA sia riuscito in questo settantennio a garantire almeno tre di queste libertà (di coscienza, dal bisogno e dalla paura) è sotto gli occhi di tutti. Mai come oggi il mondo è stato tanto oppressivo e socialmente ingiusto. Un esperto italiano in diritti umani, particolarmente ipocrita, ha elencato una serie di violazioni in questo modo: massacri degli armeni, sterminio degli ebrei, gulag sovietici, dittature sudamericane, genocidio in Ruanda e stupri in Darfur. L’ipocrita dimentica alcune piccolezze come Hiroshima 1945, l’embargo assassino contro l’Iraq 1991-2003, l’aggressione del criminale Bush contro l’Iraq nel 2003, eccetera. Per questo togato mascalzone queste non sono violazioni dei diritti umani. Per questa ragione è possibile definire “diritto umano” tutto ciò che il criminale arbitrio imperiale decide sovranamente e unilateralmente che si debba indicare come diritti umani. I diritti umani sono oggi a bombardamento e a intervento incorporato. I tibetani ne hanno diritto, ma i palestinesi invece no. Gli albanesi ne hanno diritto, mentre i serbi invece no. È un peccato, perché la tematica universalistica dei diritti naturali dell’uomo è qualcosa di degno di essere esaminato con cura. Ed è un peccato che la loro incorporazione nei piani strategici e nella geopolitica dell’impero abbiano trasformato il pane in merda. Personalmente, quando sento parlare di diritti umani, sospetto che in loro nome la disumanità proceda e avanzi. 24. Sesto e ultimo baluardo del politicamente corretto è la manipolazione politologica consistente nella sacralizzazione della dicotomia Destra/Sinistra intesa come omogeneità bipolare. Per omogeneità bipolare intendo il processo per cui le due polarità politiche, destra e sinistra appunto, diventano omogenee per quanto riguarda il giuramento imperiale occidentalistico, la de-

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monizzazione del comunismo storico, l’antifascismo in assenza completa di fascismo, la religione olocaustica dell’eccezionalità imparagonabile di Auschwitz, e infine la teologia interventistica dei diritti umani (i cinque elementi sopra indicati), e sulla base di questa conseguita omogeneità instaurano un sistema chiuso di vasi comunicanti per cui periodicamente perdono un po’ da una parte e un po’ da un’altra, ma il sistema appare rafforzato dalla loro intercambiabilità unita al folklore televisivo delle loro microdifferenze enfatizzate. In Italia questo appare peraltro a occhio nudo. Quanto più Berlusconi e Veltroni, Fini e D’Alema, eccetera, sono omogeneizzati politicamente dai cinque elementi sopraddetti (giuramento di fedeltà all’impero americano, leggenda nera sull’esperimento comunista, antifascismo rituale in assenza di fascismo, religione olocaustica di espiazione e di avallo del sionismo criminale, teologia dell’interventismo dei diritti umani con connessa fine del vecchio diritto internazionale fra stati), tanto più la dicotomia Destra/Sinistra, che per due secoli aveva realmente connotato profonde differenze politiche e ideologiche, cessa di riprodurre queste differenze e diventa un meccanismo di stabilizzazione del sistema. Un tempo a negare la dicotomia Destra/Sinistra era la cultura tecnocratica della Destra, che insisteva sul fatto che gli esperti e i tecnocrati erano in grado di condurre in modo “neutrale” la società, al di là dell’incompetenza fanatizzata dei cosiddetti ideologi. Auguste Comte fu il primo a sistematizzare questo punto di vista, e poi vennero i cosiddetti “elitisti” (Mosca, Pareto, eccetera). La Sinistra, invece, insisteva correttamente sul fatto che la società non era assimilabile a un utensile o a una locomotiva, ma era un insieme classista diviso in interessi contrapposti che non potevano essere guidati sulla base di una finzione di neutralità. Tutto questo però finisce con l’omogeneizzazione dei cinque punti sopra indicati e soprattutto con l’accettazione di tutto l’arco parlamentare della piena legittimità insuperabile e insormontabile della produzione capitalistica. Da quel momento il mantenimento della dicotomia, prima sensatissima, diventa pura simulazione e sem-

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plice protesi politologica per deficienti. Il lettore ha letto bene, e se per caso si indigna virtuosamente tanto meglio: per deficienti. A volte anche la parola “forte” e scortese serve per svegliare dal “sonno dogmatico”, per usare un termine di Kant. 25. Fino a questo punto abbiamo – per così dire – spazzato il pavimento. Ora però dovremo affrontare problemi più complessi di legittimazione del nostro punto di vista: una ricostruzione alternativa dell’intero pensiero occidentale, una ricostruzione del­ l’esperienza storica del comunismo novecentesco, e per finire un’interpretazione dei nuovi modelli culturali veicolati dalla cosiddetta “cultura di sinistra”.

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V Il comunitarismo come bilancio, ripensamento e riscrittura radicale dell’intera storia del pensiero occidentale

1. Il congedo critico e la secessione radicale con l’occidentalismo imperiale sono il presupposto e la precondizione per poter sostenere la causa teorica e pratica del comunismo comunitario. Ovviamente tutto ciò non basta. Chi si lascia in qualche modo invischiare nel Politicamente Corretto (i cui sei elementi discussi nel capitolo precedente non devono essere presi come l’“ultima parola” in proposito, perché se ne possono aggiungere altri, o se ne possono togliere alcuni se per caso si rivelassero poco convincenti e fondati) particolarmente nella forma iperindividualistica e dissolutiva della variante del “politicamente corretto di sinistra” (che verrà trattata specificatamente in un capitolo apposito, dopo aver trattato del ben più nobile comunismo storico novecentesco realmente avvenuto storicamente), non può realmente sostenere un punto di vista di comunismo comunitario. Può aderirvi in superficie, come fanno molti pseudorivoluzionari con i gruppetti dell’estremismo marxisteggiante, ma al primo stormir di fronde se ne allontanerà. Si ripropone il vecchio problema di tutte le “conversioni”, la cui etimologia latina è particolarmente significativa, perché significa letteralmente “voltarsi da un’altra parte” (in questo caso, voltare le spalle all’occidentalismo imperiale, di cui il politicamente corretto è soltanto la variante per i sudditi proconsolari dell’intellettualità europea). Il termine greco per conversione

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(metanoia) è ancora più felice, perché indica realmente una sorta di radicale riorientamento gestaltico dell’intera mente (nous). Prima di continuare, vorrei insistere ancora una volta sul fatto che secessione radicale dall’occidentalismo imperiale significa anche secessione radicale con le tre forme di clero manipolatorio al servizio delle oligarchie finanziarie assassine che dominano il pianeta, e che non sono mai state forti come oggi, in particolare dopo il crollo inglorioso dell’esperimento dispotico-comunitario di ingegneria sociale sotto cupola geodesica protetta (Jameson) chiamato comunismo storico novecentesco 1917-1991, da non confondersi ovviamente con il comunismo utopico-scientifico di Marx (l’ossimoro è ovviamente del tutto intenzionale, perché la pretesa di fondazione di una scienza della società in grado di prevedere scientificamente il futuro a partire dalle tendenze di fondo rilevabili nel presente è una utopia irrealizzabile, in confronto a cui la stessa Repubblica di Platone appare un sobrio testo weberiano). La secessione deve essere radicale verso l’intero ceto politico attuale, verso l’intero circo mediatico attuale e verso l’intero clero universitario attuale. Dicendo “intero” non intendo dire che non ci possono essere rilevanti eccezioni individuali e di piccolo gruppo, che ovviamente ci sono, ma intendo dire “nel loro complesso”, inteso come insieme strutturale-funzionale alla ripetizione dell’ipercapitalismo contemporaneo. Così come la rivoluzione scientifica del Seicento, l’illuminismo del Settecento e il marxismo dell’Ottocento si sono sviluppati interamente al di fuori dell’apparato universitario del loro tempo, nello stesso modo credo che stiano le cose per il comunismo comunitario. L’unica differenza con i tempi passati sta in ciò, che l’invasività e la saturazione del complesso ceto politico-circo mediatico-clero universitario è oggi talmente raffinata e potente da non lasciare in pratica nessuna speranza di vittoria a chi si oppone. Per poter avere qualche prospettiva di vittoria (in ogni caso, non certo a breve termine) bisogna in un certo senso utilizzare i metodi del judo, e cioè della lotta giapponese, in cui il vincitore può vincere soltanto utilizzando opportunamente la forza del suo avversario. Oggi il sostenitore

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del comunismo comunitario è come un judoka. Deve utilizzare la forza del suo avversario, che non può fare a meno di rovinarsi da sé. Il ceto politico è corrotto non certo in modo contingente, ma è corrotto per sua propria natura di ceto di poveracci e di straccioni al servizio delle oligarchie il quale, vedendosi passare fra le mani il denaro dei suoi padroni, vuole trattenersene una parte con l’ingordo orgasmo del ghiottone con le pezze al sedere. Il circo mediatico vive di manipolazione e di simulazione permanenti, ma a un certo punto queste forme di dominio provocano una sorta di saturazione auto-immune, e la plebe si rivolge ai giornali gratuiti e al rifiuto di ogni comunicazione, per cui il circo mediatico è ridotto a esercitare la sua funzione di manipolazione soltanto verso il gruppo sociale più ignorante e stupido dell’intera storia della civiltà umana, l’intellettuale di massa semicolto politicamente corretto. Il clero universitario estremamente articolato attraverso il gioco delle (pseudo)specializzazioni, è diventato il fornitore inesauribile di ideologie di adattamento sociale al sistema, e quando ci accorgiamo che una certa configurazione ideologica diventa maggioritaria al suo interno (femminismo e studi di gender, laicismo antireligioso, nuova religione olocaustica, demonizzazione totale del Novecento come secolo degli orrori ideologici, teologia interventistica dei diritti umani a bombardamento selettivo, fine degli stati-nazioni, nazioni come semplici “comunità immaginarie”, multiculturalismo, denuncia del totalitarismo, accanimento contro un fantomatico “populismo”, riduzioni dei due sessi a “omo” ed “etero”, antifascismo cerimoniale in assenza totale di fascismo, affermazioni filosofiche di tipo relativistico, nichilistico, debole, eccetera), ebbene possiamo essere relativamente sicuri che la posizione corretta è esattamente quella contraria. In questo senso il clero universitario è in un certo senso un termometro pressoché infallibile. Se vediamo che al suo interno si sta affermando una posizione maggioritaria, possiamo essere ragionevolmente sicuri che la posizione corretta sia quella opposta. Non si tratta di un’affermazione paranoica ispirata a un estremismo testimoniale. Si tratta di una ben precisa diagnosi sul funzio-

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namento ideologico della società attuale. Il pesce, lo ricordiamo, puzza sempre a partire dalla testa. 2. E allora, quale deve essere la nostra posizione generale? Credo che la migliore definizione sia stata data da Perry Anderson (cfr. intervista a «la Repubblica», 23/04/2008), che ha parlato di uncompromising realism, che potremmo tradurre come “realismo senza compromessi”. Da un lato, occorre essere realisti, e non nasconderci infantilmente la sconfitta catastrofica di tutti i valori e di tutte le pratiche di comunismo e di comunitarismo con cui si è esaurito il grande, grandissimo e mai abbastanza lodato Novecento, secolo non a caso diffamato dal clero universitario (di cui Badiou è una delle rarissime eccezioni, almeno su questo punto – su altri è sgradevole e penosissimo). Dall’altro, bisogna che questo realismo non sfoci nell’adattamento servile al vincitore, del tipo “diventiamo un paese normale”, ma dia luogo a un atteggiamento senza compromessi e senza adattamento. Non bisogna pensare che il comunismo comunitario sia l’unica soluzione a questa situazione. Il mondo per fortuna ci mostra ogni giorno altre forme di realismo senza compromessi. Dobbiamo esserne contenti, e non avere un atteggiamento settario-parrocchiale. Per ora, quello che conta è che ci sia resistenza. È sempre stato così. Solo in un secondo tempo, all’interno di queste resistenze, emergeranno a poco a poco strategie più convincenti e migliori di altre. 3. È possibile una fondazione teorica seria del comunismo comunitario? Tutte le fondazioni teoriche sono sempre per principio discutibili, non sono mai definitive, ed è un bene che sia così, perché ogni generazione per sua stessa natura aggiunge e toglie ciò che è stato a suo tempo aggiunto e tolto dalla generazione precedente. Si tratta del famoso nesso di superamento e di conservazione (Aufhebung), immortale eredità del metodo dialettico di Hegel.

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In breve, tre sono le impostazioni che proporrò in questo capitolo, che soggettivamente considero il capitolo più importante del saggio, e il solo per così dire di portata “strategica”. Si tratta di un primo punto di filosofia generale, di un secondo punto di storia universale generale, e infine di un terzo punto di storia della filosofia occidentale in generale. Anziché anticiparli sommariamente, è bene affrontarli direttamente. 4. La filosofia del comunismo comunitario deve ancora essere elaborata e sistematizzata. Per impostare il problema bisogna invertire l’ordine dei termini, e analizzare prima la fondazione teorica del comunitarismo, e poi la fondazione teorica del comunismo. È importante, tuttavia, metodologicamente che si prendano subito in considerazione quelle che chiamerò le “obiezioni fondamentali” di principio prima al comunitarismo e poi al comunismo mettendo in guardia dal rimuoverle, perché il rimosso ritorna sempre in modo catastrofico. L’obiezione fondamentale contro il comunitarismo sta nel fatto che il punto di vista comunitario produce pregiudizio sociale verso lo straniero (cfr. T. Tentori, Il pregiudizio sociale, Studium, Roma 1962). Il pregiudizio sociale, ovviamente, produce a sua volta razzismo ed esclusione, che appaiono ostacoli insormontabili per ogni universalismo. Dal momento che questo è purtroppo spesso un dato di fatto, si crede che il solo modo per opporvisi sia il rapporto diretto fra l’individuo (convenientemente “illuminato” dalla rivelazione religiosa o dalla ragione filosofica, ovviamente) e l’universale. Ma anche qui si manifesta una difficoltà per cui l’individuo, comunque concepito e definito (l’animale politico di Aristotele, l’anima cristiana di Gesù, il cogito razionale di Cartesio, l’Io Penso morale di Kant, il Robinson liberale di Smith, la stessa libera individualità di Marx, eccetera), non può sfuggire al fatto di essere proveniente da una certa tradizione comunitaria particolare. E il paradosso allora può essere formulato così: la comunità produce talvolta (non sempre) solidarietà comunitaria al suo interno, ma verso l’esterno produce (quasi sempre, non sempre) pregiudizio

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e ostilità, e quindi non universalismo; e lo stesso individuo, visto talvolta come il solo possibile portatore di universalismo almeno potenziale, non fa altro che “universalizzare”, con inevitabile falsa coscienza necessaria di tipo ideologico, i “pregiudizi” di cui è storicamente portatrice la propria comunità di origine. Sembra quindi che il pregiudizio sia un circolo vizioso da cui non si può sfuggire in alcun modo. E infatti il non poter in alcun modo uscire dal pregiudizio occidentalistico, rivendicarlo e vantarsene, è addirittura diventato uno dei punti di vista prevalenti nel clero filosofico universitario occidentale (Richard Rorty e i suoi variopinti seguaci proconsolari). Per fondare il comunitarismo bisogna allora almeno indicare alcune possibili vie di uscita dal circolo vizioso del pregiudizio identitario. Una dimostrazione definitiva non è possibile. E tuttavia, bisognerà pur sempre mostrare una via. L’obiezione fondamentale contro il comunismo sta in ciò, che il comunismo potrebbe anche essere astrattamente una buonissima idea morale di eguaglianza e di solidarietà, ma concretamente parlando fino a oggi la sua realizzazione pratico-storica si è sempre realizzata in forma dispotica, dispotismo che molti connettono al programma di egualizzazione forzata dei cittadini-sudditi e alla stessa pianificazione economica, che richiede di fatto (al di là delle mitologie consiliaristiche, debitrici inconsapevoli del principio leibniziano dell’armonia prestabilita) l’espropriazione delle decisioni frammentate dei consigli di autogestione economica e di autogoverno politico per conto di una struttura centralizzata di pianificazione, inevitabile luogo di concentrazione di un potere pressoché illimitato, su cui inevitabilmente si sviluppa anche un parassitismo burocratico, con tutte le diseguaglianze che ne conseguono. Di questa obiezione tratterò nel prossimo capitolo. In questo capitolo, invece, tratterò del solo “lato” comunitario della questione. È impossibile evitare una parziale scolasticità astratta della trattazione, che cercherò di limitare il più possibile.

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5. Bisognerà distinguere in via di principio fra il comunitarismo antico e il comunitarismo moderno. Il migliore criterio per distinguerli è la teoria marxiana dei modi di produzione, togliendole ogni carattere unilineare e deterministico, come è dato nella teoria dei cosiddetti cinque stadi (comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo e comunismo finale). In base alla teoria dei modi di produzione marxiana, il comunitarismo antico, che ispira la genesi della filosofia greca, emerge dalla progressiva dissoluzione dei «dispotismi comunitari» (Hosea Jaffe), investiti dal potere distruttivo del denaro e della polarizzazione sociale fra ricchi e poveri. Dal momento che i ricchi sono sempre una minoranza, e i poveri sono sempre la maggioranza, la democrazia antica non è mai uno spazio disinteressato di dibattito pubblico astrattamente inteso (Hannah Arendt), ma è sempre una regolazione razionale del conflitto di classe (Jéan-Pierre Vernant). Ma di questo però tratterò più avanti. Per ora basti ricordare che il comunitarismo antico, almeno nella sua versione greca (non parlerò infatti per difetto di competenza specialistica dei comunitarismi in Cina, India, Persia, eccetera), nasce all’interno di una società a modo di produzione di piccoli produttori indipendenti (Kalomalos, Lekkas, Meyskins Wood), minacciato dall’irruzione di uno schiavismo senza limiti (de Sainte-Croix, eccetera). Ma di questo, appunto, più avanti, sia pure in questo stesso capitolo. Il comunitarismo moderno nasce invece nel quadro spazio-temporale della delicata transizione dal modo di produzione feudale al modo di produzione capitalistico. Per semplificare un quadro teorico estremamente ricco, mi limiterò a evidenziare soltanto i due aspetti teorici fondamentali, che possono essere riassunti, in primo luogo, come la critica di Hegel a Rousseau, e in secondo luogo come la critica di Marx a Hegel. So bene che le cose sono più “complesse”, per usare la formula del clero universitario, ma qui è necessario che il lettore si impadronisca dei due passaggi teorici essenziali, e moltiplicarli per desiderio di completezza non sarebbe saggio. È invece auspicabile che il lettore vi presti una

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attenzione particolare, lasciando i passaggi di approfondimento a considerazioni specialistiche ulteriori. 6. La transizione europea dal feudalesimo al capitalismo ha dato luogo – come è naturale – a ipotesi contrastanti, da Dobb a Sweezy, da Sombart a Weber (cfr. A. Cavalli, Le origini del capitalismo, Loescher, Torino 1973). I temi principali sono stati, per riassumerli brevemente, il ruolo del calvinismo nel concetto di Beruf come sintesi di vocazione e di professione (Weber), il ruolo specifico degli ebrei nel decollo capitalistico (Sombart), il ruolo specifico della trasformazione capitalistica dell’agricoltura (Dobb) o del commercio triangolare (Sweezy) e soprattutto la corretta valutazione dell’assolutismo europeo seicentesco e settecentesco, se esso debba essere inteso come la premessa del decollo capitalistico in forma ancora dispotica, oppure se debba essere considerato come l’ultima trincea storica di difesa del modo di produzione signorile-feudale. In proposito, per farla corta, io seguo l’interpretazione di Perry Anderson (cfr. Lo stato assoluto, Mondadori, Milano 1980), che prende decisamente posizione per la seconda tesi, quella dell’ultima trincea di difesa del modo di produzione signorile-feudale. Gli europei del Settecento vissero una doppia forma di alienazione e di sfruttamento, quella del morente assolutismo signorilefeudale e quella dei nuovi rapporti borghesi-capitalistici. È ovvio che nel quadro di questa doppia forma di sfruttamento vi sia stata una reazione, e questo spiega perché nel Settecento sono stati elaborati i primi sistemi di tipo comunista-utopico (Mesler, Morelly, Dom Deschamps, fino ovviamente a Babeuf). Il comunismo utopico settecentesco era in realtà una forma di comunitarismo egualitario solidale integrale, e infatti in un certo senso fa assai più parte della storia del comunitarismo che di quella del comunismo. Ma qui purtroppo dobbiamo trascurarlo per ragioni di spazio, e rivolgersi direttamente a Jean-Jacques Rousseau, che può essere a tutti gli effetti definito il primo grande classico del comunitarismo moderno, e così infatti lo tratterò.

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Rousseau non è mai stato un “comunista”, non solo nel senso di Marx (il cui comunismo presuppone due cose inesistenti al tempo di Rousseau, la filosofia universalistica della storia di Hegel e l’esistenza dispiegata della produzione capitalistica), ma anche nel senso del comunismo utopico settecentesco. È invece stato a tutti gli effetti un comunitarista (cfr. R. Pallavidini, La comunità ritrovata. Rousseau critico della modernità illuminista, Libreria Stampatori, Torino 2005, con intr. di C. Preve). Secondo Pallavidini, Rousseau effettua la prima critica organica complessiva al profilo teorico-pratico dell’individualismo possessivo, basato sulle filosofie di Hobbes, Locke e Mandeville. Rousseau ne critica e ne rifiuta la riduzione utilitaristica dell’esistenza umana, la visione individualistica e competitiva dei rapporti sociali, l’esaltazione unilaterale e acritica di un modello di razionalità analitico univocamente proteso al modello delle scienze cosiddette “positive”, comprendendo che da un simile modello di modernizzazione può nascere soltanto una società falsamente liberale, in realtà alienante e dispotica in forme nuove e inedite. Si tratta della critica che poi fu fatta due secoli dopo dai francofortesi Horkheimer e Adorno, e tuttavia di una critica di un livello molto più alto di quello dei francofortesi, perché nei francofortesi non c’è un solo grammo di solidarismo e di comunitarismo, mentre invece l’intero pensiero di Rousseau ne è pervaso. Rousseau si fa portatore di una esigenza di un radicamento comunitario dell’uomo, sulla base di un contratto sociale nuovo, democratico ed egualitario, di un equilibrio interno fra ragione e sentimento e infine di una apertura al Sacro nella forma di una religione naturale. Pallavidini coglie qui il punto principale della questione, e cioè che Rousseau può essere definito il primo organico pensatore del comunitarismo moderno. Detto brevemente, il comunitarismo moderno di tipo russoviano non si pone come rifiuto assoluto dell’illuminismo in quanto tale, di cui anzi condivide la critica teorica e politica all’assolutismo e alla divisione castale della società, ma si pone come rifiuto critico dei suoi elementi individualistici unilaterali. E tuttavia, questo modello russoviano di comunitari-

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smo presenta un “difetto di costruzione” strutturale, che il grande Hegel seppe individuare, correggere e superare, senza peraltro gettarne via il nucleo razionale. Hegel, infatti, non oppone affatto al comunitarismo di Rousseau un nuovo individualismo, che infatti rifiuta, ma propone una fondazione del comunitarismo più ampia e sicura, sulla base proprio di quella critica dialettica alla unilateralità dell’intelletto astratto, che fa tutt’uno con la critica che fa a Kant. La natura di questa critica “simpatetica” (con questo termine intendo una critica che si pone sullo stesso terreno del pensiero del criticato) è a mio avviso la chiave d’accesso, o se si vuole il codice filosofico di accesso, al comunitarismo moderno (anche se non ancora, ovviamente, al comunismo comunitario, che ha bisogno della critica posteriore di Marx a Hegel, fatta sulla base dell’assimilazione e del consenso di Marx alla precedente critica di Hegel a Rousseau e alla sua filosofia politica). 7. Hegel non contesta assolutamente l’intenzione di Rousseau di contestare il dispotismo feudale-signorile e il nuovo individualismo borghese illuministico, e anzi la condivide pienamente. Ma appunto perché la condivide pienamente, ritiene che questa intenzione, astrattamente condivisibile, si basi su fondamenti molto fragili, che Hegel riassume nella formula «furia del dileguare». Ma cosa significa propriamente per Hegel la furia russoviana del dileguare? Furia del dileguare significa saltare il necessario radicamento della nuova comunità sociale liberata su precedenti strutture comunitarie già esistenti, che non ha senso pensare di abolire con un semplice movimento critico dell’intelletto. Rousseau è mosso da un’intenzione sociale seria e giustificata, quella di opporre alla società signorile-feudale in decadenza e alla nuova società individualistico-borghese in ascesa una doppia critica fondata sul diritto naturale (e soprattutto sul diritto naturale all’eguaglianza) e sul contratto sociale (e soprattutto sul nuovo contratto sociale democratico). Ottima intenzione, ma per Hegel l’inferno è lastricato di buone intenzioni, in quanto nella realtà storica e sociale il diritto

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naturale e il contratto sociale restano premesse del tutto insufficienti per la fondazione di una nuova comunità. A una prima impressione, può sembrare strano che Hegel e Hume, pensatori che più opposti non potrebbero essere, rifiutino entrambi sia il diritto naturale che il contratto sociale. E tuttavia, questo rifiuto è ispirato a progetti sociali e politici del tutto alternativi. Hume rifiuta sia il diritto naturale sia il contratto sociale per affermare la piena e selvaggia autofondazione dell’economia capitalistica su se stessa (e cioè sulla natura umana presupposta come “naturalmente” capitalistica), rifiutando la fondazione religiosa; la fondazione giusnaturalistica e infine anche la fondazione contrattualistica della società. All’opposto di Hume, Hegel invece rifiuta radicalmente ogni autofondazione su se stessa dell’economia capitalistica, al punto che questa autofondazione è una delle cose che più disprezza e aborre (cosa, evidentemente, che i liberali da due secoli non possono perdonargli!). Ed è appunto perché Hegel disprezza e aborre questo individualismo liberale della autofondazione economica della società su se stessa (divenuta oggi la soffocante teologia economica dell’impossibilità di andare oltre al capitalismo assunto come fine virtuale della storia) che egli critica Rousseau. Lo critica appunto perché ne condivide le intenzioni. Per poter andare oltre una comunità insufficiente, infatti, non si può prendere la strada affrettata del superamento immediato della comunità stessa. Hegel è il primo a diagnosticare che l’intenzione soggettivamente comunitaria di Rousseau dà paradossalmente luogo a una sorta di individualismo, anzi di iperindividualismo soggettivamente e sinceramente comunitario nelle intenzioni e disperatamente fragile e anomico nei risultati. Alcuni pionieristici studi (penso a quello recente di Livia Bignami) hanno accertato che Hegel cercò a lungo una fondazione comunitaria accettabile della nuova società «in un’epoca di gestazione e di trapasso», e nel ventennio 1790-1800 la cercò nel cristianesimo, nella vita di Gesù, nell’arte, nell’antichità greca, eccetera, finché soltanto intorno ai trenta anni la trovò nella filosofia, anzi in una nuova filosofia convincente, capace di superare-conservan-

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do (aufheben) i sistemi di Spinoza, degli illuministi, di Kant e di Fichte. Pur senza aderire completamente alla diagnosi infausta di Fichte della nuova società come «epoca della compiuta peccaminosità», vi sono pochi dubbi sul fatto che il nemico principale per Hegel era la dissoluzione individualistica di tutti i rapporti sociali, causata dal fatto incontrovertibile che i vecchi rapporti sociali feudali-signorili erano indifendibili filosoficamente e comunque economicamente destinati a soccombere, e che occorreva opporsi a questa dissoluzione individualistica con una teoria politica migliore e più forte di quella di Rousseau, di cui bisognava conservare l’intenzione comunitaria, e nello stesso tempo fornire questa intenzione soggettivamente comunitaria e oggettivamente individualistica (un contratto sociale stipulato da una somma infinita di individui originari indipendenti usciti da un inesistente stato di natura come impossibile “grado zero” dell’umanità) una base ben più solida, fondata sulla necessaria distinzione fra morale individuale soggettiva ed etica comunitaria di tipo nuovo. Qui il punto principale non sta certamente nelle soluzioni che Hegel diede a questo problema, ispirate alle sue opinioni empiriche sulla famiglia patriarcale, sulla società borghese e sullo stato monarchico prussiano. Queste opinioni erano derivate dalle valutazioni che l’individuo empirico Hegel (1770-1831) dava al «suo tempo appreso nel pensiero». Qui parlo di ben altro. Parlo dell’impostazione filosofica di fondo, per cui in presenza della dissoluzione delle vecchie forme di comunità organicistico-dispotiche (quelle appunto feudali-signorili) non era opportuno rispondere con utopie di comunismo egualitario del livellamento (Babeuf) o con progetti razionalmente astratti alla Rousseau (il nuovo contratto sociale di individui originariamente isolati che “saltano” tutte le comunità intermedie precedenti, a partire dalla famiglia e dalle corporazioni professionali) ma era meglio lavorare per una ridefinizione della comunità stessa. In poche parole, credo che l’impostazione di Hegel nella sua critica a Rousseau, di cui si accoglie l’intenzione ma non la modalità astratto-individualistica della progettazione sia la stessa che abbia-

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mo oggi di fronte a noi. In linea di massima, l’odierna “sinistra” (parlo ovviamente delle sue versioni nobili e sincere, non certo della marmaglia corrotta del ceto parassitario mediatico-politico) corrisponde a grandi linee al russovianesimo di duecento anni fa, è cioè un’intenzione astrattamente comunitaria sorretta da una impostazione teorica ultraindividualistica. Ma di questo (apparente) paradosso parlerò in un successivo capitolo. 8. Il principale paradosso dialettico di Hegel sta in ciò, che Hegel giunge all’universale e all’universalismo attraverso la sua critica comunitaristica all’individualismo atomistico dissolutivo della corrente principale della filosofia illuministica, già criticata a suo tempo da Rousseau, che si era mosso però sul piano teorico in base allo stesso modello individualistico (stato di natura come finzione originaria, diritti naturali di cui è titolare l’individuo astratto, contratto sociale concepito in modo privatistico come contratto fra individui originari pensati come svincolati da ogni comunità). In fondo oggi siamo davanti più o meno allo stesso problema teorico, e l’attualità di Hegel sta proprio in questa situazione storica non certo eguale, ma almeno simile e largamente analoga. Non insisterei tanto su problemi (solo apparentemente) eruditi o di storia della filosofia se non ci fosse questa grande “posta in gioco” politica dietro. Hegel prende atto della scissione (Trennung) di cui è vittima la società del suo tempo. Da un lato, essa si è liberata dell’ormai sorpassato e intollerabile sistema dei cosiddetti “vecchi ceti” (termine con cui indica la politica di Metternich). Questo intollerabile sistema era stato anche criticato da Rousseau e dai suoi seguaci politici (i giacobini francesi di Robespierre e i loro imitatori tedeschi), i quali però erano stati presi da quella fretta rivoluzionaria che Hegel chiama «furia del dileguare», per cui, saltando tutte le comunità intermedie e la loro etica professionale specifica, avevano voluto cogliere e praticare una impossibile comunità virtuosa astratta fondata sulla virtù soggettiva del rivoluzionario. Ma questa virtù soggettivamente pura era priva di contenuti concreti, con

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il triste risultato di convertirsi in arbitrio, rovesciando in questo modo la virtù in terrore e la moralità in ghigliottina. L’impostazione giacobina, che Hegel connota con la figura fenomenologica del rovesciamento dialettico dell’ascetismo della morale in regno animale dello spirito, lascia in questo modo la porta aperta per l’individualismo capitalistico anglosassone, in cui non c’è stato, ma soltanto società civile di egoismi contrapposti. In proposito le osservazioni sarebbero molte, ma mi limiterò a farne soltanto due. In primo luogo, quando Hegel individua i funzionari dello stato come classe generale e universale, non bisogna subito reagire come se fossimo punti da una tarantola. Come ha acutamente rivelato Koselleck, il termine Stato (Staat) al tempo di Hegel non era semanticamente percepito come un baraccone burocratico e inefficiente contrapposto al mondo attivo delle imprese private (punto di vista che dalla destra liberale è interamente passato alla sinistra dissociata, anarchicheggiante e postmoderna di oggi) ma era percepito come l’equivalente tedesco del termine francese république e del termine inglese commonwealth cioè di apparato universalistico che consentiva la realizzazione pacifica dei valori universali della rivoluzione francese del 1789. In un contesto in cui il clero universitario nella sua grande maggioranza sputa su Hegel per conto dei suoi committenti indiretti (le oligarchie finanziarie), si distingue positivamente lo studioso italiano Domenico Losurdo, che ha filologicamente accertato la continua presenza in Hegel del concetto di “universalità” dei valori della Rivoluzione francese, smentendo la penosa interpretazione di Hegel come pensatore della Restaurazione del 1815. I funzionari dello stato (Staat) sono individuati come funzionari del generale e dell’universale (Allgemeinheit), non certo come burocrati prussiani, ma come portatori della realizzazione pacifica dei valori “universali” della Rivoluzione francese. In secondo luogo, è errato pensare che la ripresa contemporanea della critica di Hegel al giacobinismo applicata oggi al bolscevismo comunista (nuovi filosofi francesi, Merleau-Ponty, eccetera), sempre in base al modello del rovesciamento dell’utopia in terrore

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(allora Robespierre, oggi Stalin), abbia qualcosa a che vedere con la vecchia critica di Hegel. Esiste infatti una differenza sostanziale. Hegel criticava il giacobinismo sulla base del presupposto della totale legittimità della rivoluzione contro il sistema signorile-feudale, mentre i nuovi anticomunisti novecenteschi si pongono dal punto di vista della piena legittimità del capitalismo finanziario, e intendono appunto legittimarlo in base alla teoria dell’inevitabile rovesciamento dell’utopia in terrore come esito di qualsivoglia tentativo storico di rovesciarlo. 9. In ogni caso, il cuore della questione sta sempre e solo in ciò, che è proprio partendo da una intenzione comunitaria (il superamento della scissione sociale individualistica provocata dal pur legittimo e positivo illuminismo) che Hegel è arrivato a pensare l’universale e il generale. Non è infatti un caso che contemporaneamente nel pensiero “reazionario” di allora (Donoso Cortés, Constant, Tocqueville, eccetera) si sviluppi una vera e propria campagna nominalistica contro l’uni­versale, rivolta esplicitamente e in piena coscienza contro i concetti di eguaglianza e di natura umana. I pensatori reazionari comprendono infatti perfettamente che ogni concetto generale e universale concernente il genere umano e la specie umana è potenzialmente rivoluzionario. Ed è qui, appunto, che idealmente possiamo dire che il grande Hegel passa il testimone all’altrettanto grande Marx, a proposito proprio del rapporto che si instaura, prima teoricamente e poi praticamente, fra genesi comunitaria ed esito universalistico della critica all’individualismo. 10. Scrive Marx nella Sacra Famiglia: L’eguaglianza [égalité] è l’espressione francese per indicare l’unità essenziale degli uomini [menschliche Wesenheit], la coscienza generica e il comportamento generico dell’uomo [Gattungsbewusstsein und Gattungsverhalten], l’identità pratica, dell’uomo con l’uomo, e cioè la relazione sociale e umana dell’uomo con l’uomo.

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Già Hegel aveva sostenuto a chiare lettere che la ragione di fondo per cui la schiavitù era imperdonabile stava nel fatto che la schiavitù negava nell’uomo l’universale, ovvero il genere (Gattung). Dal momento che qui siamo di fronte al delicatissimo passaggio da Hegel a Marx in ciò che propriamente ci interessa, e cioè l’unione di particolare (la comunità) e di universale (il comunismo), mi permetterò ancora alcune osservazioni. In primo luogo, il furioso odio verso Hegel ha ovviamente cercato di porre fra Hegel e Marx una muraglia cinese. Ora, è vero che Marx critica le cosiddette “ipostasi” di Hegel, senza peraltro rendersi conto nella sua giovanile irruenza di legittimo uccisore del padre che lo stesso Hegel era ben cosciente del fatto che lo “stato in generale” non era lo “stato prussiano”, ma che questa critica è l’aspetto meno importante di una continuità essenziale su di un punto mille volte più importante, e cioè sulla valorizzazione dell’universale (non ripeto qui la precedente decisiva citazione della Sacra Famiglia e l’argomentazione di Hegel contro la schiavitù), una valorizzazione che viene fatta in base alla preventiva critica della duplice forma presa dall’individualismo astratto (e cioè la forma liberale di Smith e la forma rivoluzionaria di Rousseau). Su questo punto Hegel e Marx si muovono sullo stesso terreno. In secondo luogo, l’odio verso Hegel porta a dare una incredibile interpretazione nominalistica del pensiero del giovane Marx, in base alla citazione del fatto che un conto è il “frutto”, e un conto sono le “mele” e le “pere”. Ora, far diventare Marx un nominalista per cui non esiste il frutto, ma esistono soltanto le mele e le pere, riunendolo così ai nominalisti del suo tempo (de Maistre, Tocqueville, Donoso Cortés), è proprio indice di un tempo sciagurato. Così come c’è la Produzione in Generale (il frutto), così c’è anche la produzione feudale (la mela) e la produzione capitalistica (la pera). Basti sfogliare in proposito la Scienza della logica di Hegel, in cui ci sono prima i concetti in generale (logica dell’essere), e poi i concetti determinati nella loro negatività (logica dell’essenza), e soltanto alla fine la maturazione dell’esperienza dell’autocoscienza (logica del concetto).

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11. Il cuore della critica comunista di Marx alla sintesi borghese di Hegel sta in ciò che Marx accetta tutta l’impostazione filosofica di Hegel, a partire dalla connessione fra genesi comunitaria della critica all’individualismo illuministico ed esito universalistico, ma non accetta, e non può accettare, che il portatore dell’universale venga individuato nel funzionario dello stato borghese (la classe generale). Per Marx il Generale c’è, l’Universale c’è, ma non può essere quello. E dal momento che non può essere quello, bisogna trovarne un altro. E questo altro è appunto il Proletariato, la classe con catene radicali, la classe il cui movimento reale può abolire lo stato di cose presenti, la classe universale e generale che liberando se stessa libererà l’intera umanità. Il modello – appare evidente – è assolutamente identico a quello di Hegel, con la differenza, ovviamente che il portatore dell’universale e del generale non è più l’apparato dello stato (Staat, il realizzatore pacifico dei principi della république francese), ma è il nuovo soggetto collettivo proletario, di cui Marx apprezza particolarmente il fatto che ha mantenuto elementi di comunitarismo solidale che la borghesia ha abbandonato da tempo. Gli scritti di Marx nel suo periodo parigino sono pieni di riconoscimenti positivi ai comportamenti solidali e comunitari dei “proletari”, che appunto per questo piacciono a Marx. La citatologia di appoggio sarebbe imponente, ma è inutile in questa sede. Non si tratta infatti di scrivere un trattato universitario a base citatologica. Si tratta di sottolineare il fatto che il comunismo comunitario non ce lo inventiamo noi, ma è già largamente presente negli scritti di Marx del periodo 18441848. Un’altra buona ragione, anche se non l’unica, per respingere la svalutazione degli scritti giovanili di Marx fatta dalla scuola di Louis Althusser. C’è anche un altro punto da notare. Fatti i conti giovanili con Hegel e con Feuerbach, con l’ingratitudine e la generosità necessarie per l’uccisione rituale del padre, presupposto indispensabile per la maturazione di un profilo teorico indipendente (per fare la frittata bisogna pur sempre rompere le uova). Marx non se ne occupa più e si concentra invece contro le correnti individualisti-

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che e anticomunitarie dei “giovani hegeliani”, e contro Stirner in particolare (cfr. La Sacra Famiglia, l’Ideologia Tedesca, eccetera). La critica marxologica è in proposito incerta e reticente, forse in ragione del fatto che i “marxologi”, essendo in stragrande maggioranza politicamente di “sinistra”, si portano dietro il punto di vista individualistico della sinistra stessa (almeno quella di oggi, e cioè dell’ultimo cinquantennio), e pertanto preferiscono accanirsi contro Hegel, in cui vedono il “nemico statalista” che li assilla, anziché prendere atto che la stessa genesi del materialismo storico (il termine di “modo di produzione”, come è noto, compare per la prima volta proprio nell’Ideologia Tedesca) non si trova in una critica a Hegel, ma nasce nel contesto di una critica a Stirner, in cui Marx vede giustamente lo stesso “robinsonismo” che fonda l’economia politica inglese di Smith e Ricardo. Ci vuole, ovviamente, un riorientamento gestaltico dell’intera tradizione marxologica. Ma esso non verrà presto, perché la grande maggioranza dei marxologi, lungi dall’essere la soluzione, sono il problema, in quanto continuano a interrogare criticamente Marx con gli occhiali colorati dell’individualismo di sinistra, e a rifiutare pervicacemente di prendere atto che la stessa genesi della teoria della storia di Marx non deriva tanto dalla critica a Hegel o a Feuerbach (che non intendo affatto negare), ma deriva invece da una critica comunitaria (nel senso della Allgemeinheit di Hegel) al doppio individualismo filosofico di Stirner ed economico di Smith. 12. Quando nel 1923 Lukács pubblica in lingua tedesca Storia e Coscienza di Classe, in indiretta polemica con il marxismo della Seconda Internazionale e con il trattato di Bucharin del 1921, si ha qui un ritorno integrale all’ortodossia marxiana degli anni 18441848, in cui l’universale e il generale vengono mantenuti contro ogni nominalismo, ma vengono definiti in rapporto esclusivo con la soggettività e con la pratica del proletariato, l’unica classe ad essere contemporaneamente particolare e universale. È facile accusare questa impostazione di weberismo (Nicola Massimo De Feo), in

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quanto è ovvio che qui non si parla del proletariato concretamente esistente (rivelatosi nel Novecento una classe del tutto incapace di vincere strategicamente la classe dei capitalisti), ma di un proletariato fortemente idealtipico. Karl Korsch volle invece evitare la strada teorica della idealtipicità astratta, puntando sull’unita di teoria e di prassi (altro principio indiscutibilmente marxiano), ma questo atteggiamento radicale e coerente lo portò ad abbandonare esplicitamente il marxismo, perché se il presupposto per continuare a essere marxisti è l’attualità del comportamento rivoluzionario del proletariato sociologicamente e politicamente (e non idealtipicamente) inteso, è impossibile evitare la delusione e l’abbandono, dal momento che i proletariati novecenteschi si sono mostrati nei fatti penosamente subalterni e dominati. Una soluzione migliore è stata data a mio avviso dalla razionale autocritica di Lukács nella sua mirabile Ontologia dell’Essere Sociale, in cui Lukács prende saggiamente atto della smentita storica delle sue attese messianiche giovanili, ma non ne tira le conseguenze alla Korsch dell’abbandono esplicito del marxismo, e preferisce “ripiegare” (perché certo di un ripiegamento si tratta) su di una filosofia generale dell’essere umano, del genere umano e della condizione umana. Una scelta a mio avviso saggia, anche se indubbiamente condizionata da un ripiegamento strategico. Un esempio di uncompromising realism, per dirla con Anderson. Un qualcosa, ovviamente, che la “sinistra” non poteva lontanamente neppure capire. Un messaggio in bottiglia per il futuro. 13. Mi sono soffermato abbastanza, a lungo sul doppio passaggio (da Rousseau a Hegel prima, e da Hegel a Marx poi), perché volevo che fosse ben chiaro che non inventiamo niente, e che i lineamenti fondamentali di una filosofia che legittimi un comunismo comunitario, o se vogliamo una lettura comunitaria del comunismo, o ancora una lettura comunista del comunitarismo, esistono già, e basta andare a cercarli con un po’ di originalità interpretativa. Ora, però, passiamo ad alcune considerazioni sulla storia universale comparata, sulle tracce di maestri come Hegel, Marx e

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Weber, tutti e tre interessati a fondare le loro posizioni sulla base di uno studio comparato delle civiltà universali. Sia pure in forma differenziata, Hegel, Marx e Weber sono tutti e tre occidentalisti, o più esattamente non possono sfuggire al punto di vista occidentalistico da cui partono. Il punto di vista occidentalistico, infatti, non è di per sé né di destra, né di sinistra, né ateo né religioso, né progressista né conservatore, ma deriva inevitabilmente dal profilo politico e culturale da cui proveniamo, e a cui nessuno può sfuggire. Hegel è un occidentalista dichiarato ed esplicito, e costruisce la sua filosofia della storia universale, da cui Marx fu poi profondamente influenzato e condizionato (Iring Fetscher), sul concetto portante di progresso della libertà, che egli invece di fatto nega a indiani, cinesi, neri africani, eccetera. Non c’è dubbio che per Hegel il cammino dell’universalizzazione passa attraverso il processo di occidentalizzazione, o più esattamente di europeizzazione. Nessuno peraltro può sfuggire ai suoi tempi, il che non significa che noi oggi dobbiamo seguire Hegel su questa strada (e infatti personalmente non mi sogno affatto di seguirlo, in particolare alla luce degli ultimi duecento anni di occidentalizzazione, con Auschwitz, Hiroshima, impero americano e sionismo al seguito). In quanto a Max Weber, pensatore che ha veramente studiato con serietà in un’ottica comparatistica le religioni e le civiltà universali, non si può negare che anch’egli sia rimasto interno a un’ottica occidentalistica. È stato giustamente detto (Colliot-Thélène) che quando Weber fa il comparatista è un relativista dichiarato, ma quando fa l’epistemologo, e cioè lo studioso sociale, è invece un assolutista eurocentrico, perché privilegia il modello di razionalità occidentale su tutti gli altri. In questo Weber è erede del formalismo kantiano (il razionalismo come metodo e non come insieme di contenuti) e di Nietzsche (il politeismo dei valori e il disincanto del mondo come modelli di raffinatezza metodologica postmetafisica). È questa una delle ragioni per cui Kant e Weber sono divinità particolarmente celebrate dal clero universitario occidentale, che invece salvo eccezioni non ama Hegel e Marx (e su

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questo punto i postmoderni alla Lyotard e i moderni alla Habermas ballano al ritmo della stessa musica). Anche Marx ovviamente non può sfuggire al punto di vista occidentalistico, sia pure radicalmente autocritico, in quanto egli pensa pur sempre che il presupposto storico per la mondializzazione del comunismo sull’intero pianeta sia l’estensione sull’intero globo terrestre del modo di produzione capitalistico, indubbiamente europeo non solo per genesi storica ma anche per contenuti simbolici e culturali, sia pur mediati e criticati fin che si vuole (potere del negativo, eterogenesi dei fini, provvidenzialismo secolarizzato, eccetera). E tuttavia, nella famosa lettera a Vera Zasulic, Marx dice esplicitamente che sarebbe in via di principio possibile accedere a una nuova forma di produzione comunistico-comunitaria anche senza essere passati attraverso il modo di produzione capitalistico. Si tratta di una ipotesi del tutto astratta, perché da allora (dalla lettera alla Zasulic, cioè) è passato quasi un secolo e mezzo, e nel frattempo il modo di produzione capitalistico ha invaso il mondo intero. Ma il problema non sta qui. La “concessione” fatta da Marx alla Zasulic (la possibilità cioè del comunismo senza passare a tutti i costi per il capitalismo) è generalmente giudicata in termini molto severi dalla maggior parte dei marxisti ortodossi di ogni scuola. Dal momento che ciò che caratterizza, in modo specifico il comunismo di Marx da tutti gli altri comunismi precedenti, religiosi, politici, comunitari, eccetera, è proprio la necessità assoluta del passaggio attraverso le specifiche contraddizioni del modo di produzione capitalistico, la concessione fatta da Marx alla Zasulic è considerata come una penosa caduta epistemologica, una distrazione, uno sbaglio, un incomprensibile svarione,eccetera. La mia valutazione è esattamente opposta. Certo, Marx è soprattutto il pensatore che ricava dialetticamente il comunismo a partire dalle contraddizioni specifiche del modo di produzione capitalistico, e non ho nessuna intenzione di negare questo fatto, soprattutto dopo quasi mezzo secolo di studio di Marx e del marxismo successivo. E tuttavia, questa ipotesi avanzata in occa-

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sione della contingente lettera della Zasulic e della sua meditata risposta a mio avviso non è una distrazione, non è una penosa caduta, non è una caduta in contraddizione, eccetera, ma al contrario segna non tanto un legittimo dubbio metodico e/o iperbolico, quanto una positiva apertura all’imprevedibile decorso multilineare della storia, che potrebbe anche farci delle sorprese non previste dalla teoria. L’ipotesi avanzata da Marx in risposta alla Zasulic, quindi, non smentisce assolutamente la teoria principale di Marx, basata sulla deduzione dialettica del comunismo a partire dalle specifiche contraddizioni del modo di produzione capitalistico, ma inserisce una possibilità oggettiva del decorso storico estranea all’occidentalismo di matrice hegeliana. La critica dell’economia politica è certamente prima di tutto una critica del modello di economia naturalistico-robinsoniana della linea Locke-Hume-Smith-Ricardo, ma è anche una critica di un più generale individualismo economicistico della tradizione europea. Il discorso è evidentemente appena iniziato. Enfatizzando, e soprattutto legittimando l’ipotesi di Marx nella lettera alla Zasulic (la possibilità di passare al comunismo moderno direttamente dalla comune agricola russa del mir), si compie un atto teorico anti-economicistico, anti-deterministico e soprattutto anti-individualistico che un’apertura al comunismo comunitario può certamente valorizzare. I marxisti ortodossi saranno certamente scandalizzati. Ma già i latini dicevano che certe volte è bene che gli scandali avvengano (oportet ut scandala eveniant). 14. Vorrei insistere molto sulla lettera di Marx a Vera Zasulic, perché si tratta di un esempio di fallibilismo autocritico, di cui soltanto i grandi pensatori sono capaci, laddove i mediocri e gli imbecilli sono per principio refrattari a ogni correzione. Tutto questo non ha nulla a che fare con coloro che oggi si dichiarano ipocritamente “fallibilisti” per meglio colpire Hegel e Marx,

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etichettati come “dogmatici”, metafisici e premoderni. In generale gli scettici, gli empiristi, i relativisti, i “debolisti”, eccetera, e cioè coloro che si dichiarano “fallibilisti”, sono i più dogmatici e impermeabili che esistano, perché non mostrano mai alcuna intenzione di mettere in “dubbio fallibile” i loro dogmi scettici, empiristi, relativisti e “debolisti”. In pratica Marx dice questo: signori e compagni, io continuo a essere convinto della tesi di fondo cui ho dedicato tutta la mia vita, e cioè che il solo modo di pensare il comunismo oggi sia quello di farlo derivare dallo sviluppo delle forze produttive capitalistiche che entreranno a un certo punto in stagnazione, per cui il proletariato dovrà sostituire la borghesia come unica classe produttiva e universale a un tempo; e tuttavia faccio l’ipotesi che potrei anche sbagliare, e che vi sia un accesso distinto e complementare al comunismo anche attraverso forme di reazione comunitaria all’invasione esterna, colonialista e imperialista, del modello individualistico, anomico e dissolutore del capitalismo occidentalistico. Come si vede, un alto esempio teorico e morale, fatto da un grande creatore, di fallibilismo metodologico. E infatti, a più di un secolo di distanza, stiamo assistendo, forse per la prima volta della storia, al tentativo di distruzione consapevole delle ultime forme di comunitarismo ancora presenti in Cina, in India, nel mondo musulmano, nell’America andina e in Africa. Nella lettera a Vera Zasulic Marx introduce il meditato sospetto e la creativa ipotesi per cui forse nel passaggio al comunismo comunitario a livello mondiale non sarà necessario passare attraverso l’individualizzazione anomica capitalistica. In proposito, una delle ipotesi più convincenti per spiegare l’altrimenti incomprensibile passaggio in massa degli ex-comunisti alle forme più degradate di dissoluzione individualistica nel capitalismo sta forse nel processo di massa di individualizzazione modernizzante avvenuto nell’ultima fase agonica del comunismo storico novecentesco (1956-1991), passaggio indagato da alcuni autori preveggenti, come Augusto Del Noce e Luc Boltanski.

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Spero che il lettore impaziente comprenda che non possiamo fare a meno di insistere su questi aspetti teorici fondamentali. Il comunismo comunitario presuppone che al comunismo vengano tolti gli aspetti individualistici e anomici, e al comunitarismo gli aspetti potenzialmente dispotici e collettivistico-autoritari. Chi ritiene che basti “proclamarlo”, senza, fare chiarezza sui suoi presupposti storici e filosofici, si ritroverebbe ben presto con un pugno di mosche in mano. 15. L’occidentalismo contemporaneo si basa sulla americanizzazione imperiale di un precedente nucleo eurocentrico. Essa si sviluppa come una individualizzazione anomica del mondo intero, che è il vero cuore della cosiddetta “globalizzazione”. Chi intende la globalizzazione unicamente come grande esperimento di neoliberismo economico è schiavo di un economicismo sordo e cieco. Visto da un punto di vista storico-­universale, il processo di unificazione neoliberista dei mercati con il connesso scorrimento delle merci in tutto il mondo e la finanziarizzazione oligarchica che questo ovviamente comporta non è l’aspetto principale, ma soltanto la superficie economicistica. L’aspetto storico-universale principale, del tutto incomprensibile per gli economisti e i marxisti economicisti (i fratelli scemi degli economisti dell’oligarchia), come sarebbe incomprensibile la lingua turca per un pur arguto contadino toscano, sta nel grandioso esperimento di ingegneria sociale globale dell’individualizzazione anomica integrale di tutti i miliardi di abitanti della terra. Questa comprensione, lo ripeto fino alla nausea, è impossibile senza una preventiva autocritica delle due forme principali di occidentalismo: la forma dominante, e cioè l’aperta adesione a quella forma di teologia idolatrica chiamata economia politica, e la forma dominata, e cioè la versione occidentalistica della teoria marxista. A proposito della forma dominante, rimando alla critica fatta a suo tempo dalla scuola antiutilitarista francese (cfr. S. Latouche, L’invenzione dell’economia, Arianna Editrice, Casalecchio 2001). Il cuore di questa critica anti­utilitarista non priva di errori e di semplifica-

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zioni ingenue, ma corretta nell’essenziale, sta nello smascheramento della presunta (e in realtà inesistente) naturalità universale del cosiddetto (e inesistente) homo oeco­nomicus (il Robinson di Marx). Chi intende richiamarsi al comunismo comunitario non può esimersi dal conoscere questa critica anti-utilitarista, oggi fisiologicamente divisa in scuole contrapposte, come capita peraltro normalmente a tutte le correnti culturalmente feconde, le quali (come già si espresse Hegel) affermano la loro unità proprio dividendosi. La versione occidentalistica della teoria marxista si è affermata soprattutto in due modi complementari. A livello filosofico, con l’adozione della filosofia del progresso storico e della filosofia del modello scientifico di comprensione del mondo. Ma la filosofia del progresso storico è un infondato mito dell’illuminismo borghese settecentesco, mentre la filosofia del modello scientifico di comprensione del mondo, con il correlato modello delle leggi unificate della natura e della società (materialismo dialettico, eccetera) è un infondato mito del positivismo borghese ottocentesco. Si tratta di due elementi fondanti del codice teorico occidentalistico, e solo occidentalistico, che il marxismo non ha saputo, potuto e voluto elaborare criticamente, ma ha assorbito interamente, sia pure con distinzioni critiche inessenziali e secondarie. E dal momento che alla fine tutto si paga, fra il 1985 e il 1995 lo si è pagato con gli interessi. A livello di concezione della storia universale, con l’adozione della teoria dei cinque stadi (comunismo primitivo-schiavismo-­ feudalesimo-capitalismo-comunismo). Questo modello stadiale non ha nulla a che vedere con un modello comparativo serio della storia universale, ed è una semplice estensione occidentalistica al mondo intero. Questa è la ragione per cui, all’interno di questo saggio di difesa della prospettiva del comunismo comunitario, non sarà tempo perduto ritornare su questo cruciale problema della storia universale.

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16. La teoria dei cinque stadi, del tutto inesistente in Marx (che invece aveva parlato inequivocabilmente dell’esistenza di un modo asiatico di produzione, estendendolo peraltro a civiltà non geograficamente asiatiche, come l’antico Egitto e gli Incas del Perù), fu codificata e resa obbligatoria nel marxismo ortodosso di Stalin. Ortodossia peraltro del tutto inesistente, in quanto il riferimento sacrale religioso massimo di questa ortodossia, e cioè Karl Marx, aveva detto cose diversissime. E tuttavia la funzione ideologica della teoria dei cinque stadi era a suo modo sensata, perché imponeva un modello occidentalistico (la cui genesi deve essere cercata nella polemica originaria di Plechanov e di Lenin contro i cosiddetti “slavofili”, e cioè proprio quelli cui si era idealmente indirizzato Marx nella sua lettera a Vera Zasulic), e in più imponeva un modello di spiegazione economicistica generale delle transizioni storiche intermodali, basato sulla generalizzazione della “rottura” esercitata dallo sviluppo delle forze produttive sull’inerzia stagnante dei rapporta sociali classisti di produzione invecchiati. È ovvio che molti marxisti indipendenti si siano opposti, e qui cito soltanto i più significativi, come Perry Anderson, Samir Amin e Hosea Jaffe. In particolare, qui mi riferirò prevalentemente a Hosea Jaffe (cfr. Stagnazione e sviluppo economico. Modi di produzione, nazioni, classi, Jaca Book, Milano 1985) vero e proprio “manuale alternativo” (sia pure non privo di errori e semplificazioni) della storia universale “a uso” di comunisti comunitari (e non solo). Jaffe cita Andre Gunder Frank, che in una lezione tenuta agli studenti indigeni di Port Moresby in Nuova Guinea ha fatto la seguente affermazione scandalosa: «Per quanto riguarda economia, società e organizzazione politica io non so veramente che differenza ci possa essere fra queste cose». In sintesi, non si poteva dire meglio. Il codice di Marx, sintetizzato all’eccesso, dice esattamente questo. Jaffe parte dal cosiddetto “comunismo primitivo”, e chiarisce subito, citando Marx, che esso non aveva nulla di “idilliaco”, e che quindi il punto di partenza di Marx non ha assolutamente nulla

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a che fare con tutte le varianti del famoso “mito del buon selvaggio”, la cui ultima variante a mio avviso è l’antropologia di Claude Lévi-Strauss, che appunto per questa ragione gode di tanto successo e di tanta benevolenza nella cultura dominante delle oligarchie capitalistiche. Le oligarchie capitalistiche amano tutte le forme di “critica innocua” al loro mondo, dall’esegesi biblica al pacifismo testimoniale, dal buddismo individualistico al mito del buon selvaggio ancora autentico e non alienato dal consumismo e dallo stress urbano. Quando il comunismo sarà definitivamente passato dalle strade e dalla lotta di classe agli agriturismi e ai templi buddisti queste oligarchie potranno tirare un sospiro di sollievo. Secondo Jaffe, il cosiddetto comunismo primitivo è il solo modo di produzione della storia umana che abbia prodotto il suo superamento in modo assolutamente endogeno, senza alcun intervento esterno determinante. Il comunismo primitivo ha dato infatti luogo a una varietà di società tutte caratterizzate da quello che Jaffe chiama “dispotismo comunitario”. Si tratta di una espressione un po’ indeterminata, non certo del tutto soddisfacente, ma importante nel contesto della nostra discussione. Il “dispotismo” deriva evidentemente dallo sfruttamento classista, ma l’elemento “comunitario” emerge invece dal fatto che questo sfruttamento dispotico non riesce a intaccare del tutto non solo la proprietà comune della terra da parte della comunità ma anche un insieme di comportamenti solidaristici all’interno della comunità stessa. Su questo Jaffe innesta quattro tesi di fondo. In primo luogo, egli afferma che la storia individualistico-proprietaria dell’Europa non solo non rappresenta la norma della storia mondiale, ma anzi rappresenta una eccezione relativamente limitata. In secondo luogo, che le nazioni europee non avrebbero mai potuto raggiungere il capitalismo da soli, ma lo hanno potuto costruire soltanto per mezzo di un particolare processo mondiale noto come colonialismo, a spese del modo asiatico di produzione e delle società a comunismo primitivo nel mondo. In terzo luogo, che la stessa burocrazia sovietica staliniana non è in alcun modo un prodotto interno ed endogeno del comunismo in quanto tale, ma è una reazione alla pressione

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militare, economica, politica e culturale del bellicoso mondo capitalistico circostante. In quarto luogo, infine, Jaffe distingue le lotte sociali in due tipi fondamentali, le lotte conciliabili e le lotte inconciliabili. Lotte conciliabili sono quelle in cui nessuno dei due contendenti distrugge l’altro (per esempio, schiavi contro proprietari di schiavi, e poi feudatari e servi della gleba), mentre lotte inconciliabili sono quelle in cui un vincitore distrugge completamente l’altro, il che è soltanto avvenuto in un solo caso nella storia universale, e cioè quando il modo di produzione capitalistico europeo (evoluto oggi in modo di produzione capitalistico globale imperiale americano) ha sopraffatto e completamente distrutto i modi produzione americano, africano e soprattutto asiatico. Si tratta di un vero e proprio riorientamento gestaltico. Cerchiamo di analizzarlo nei suoi punti essenziali. 17. In primo luogo, lo scandaloso termine di “dispotismo comunitario” usato da Hosea Jaffe ci ricorda un fatto evidente ma spesso rimosso anche dai comunitaristi più intelligenti e sinceri, e cioè che il mantenimento del comunitarismo, o più esattamente di forme di vita sociale comunitarie e non individualistiche, è molto spesso nella storia servito alla riproduzione “modale” di dispotismi crudeli e ripugnanti. Parlando di “dispotismo orientale” e di nascita dispotica degli “stati idraulici” l’ex-comunista tedesco Karl Wittfogel si era certamente messo al servizio della propaganda imperiale occidentalistica americana, in quanto il suo fine esplicito era quello di incorporare anche l’URSS all’interno della categoria multiuso di “dispotismo orientale” (nessuno come l’ex-comunista rinnegato è tanto adatto a diventare un propagandista imperiale del capitalismo assoluto!), ma detto questo non si può negare che Wittfogel abbia colto effettivamente alcuni aspetti dispotici del comunitarismo del modo di produzione asiatico. Parlando di “modo di produzione tributario” Samir Amin introduce forse una categoria un po’ generica, ma non si può negare che colga un fatto reale, e cioè che le forme tradizionali di sfruttamento almeno fino al capitalismo, non pretendono di entrare all’interno delle tecniche

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comunitarie di produzione, ma si limitano spesso (non sempre) a estorcere un tributo al termine del processo produttivo. Lo stesso Marx, nel capitolo VI inedito del Capitale, aveva parlato della prima fase del capitalismo come fase della sottomissione formale (e quindi solo ancora formale) del lavoro al capitale. Nello stesso modo io, sulle orme di Marx, definirei le varie forme di dispotismo comunitario come un unico modello di sottomissione formale dei dominati ai dominanti. Se ci mettiamo sul piano della storia comparata universale queste forme sono parecchie decine, e infatti Jaffe (in modo non sempre felice) cerca di classificarle nella loro irripetibile specificità. Ma ciò che conta soprattutto in questo caso è la foresta, non i singoli alberi differenziati, e in questa foresta i dominanti dispotici lasciano ai dominati le loro forme di vita comunitarie, ma le sottomettono al prelievo del plusprodotto utilizzato per il consumo lussuoso di status dei gruppi dominanti, e dall’antico Egitto all’assolutismo europeo seicentesco abbiamo solo l’imbarazzo della scelta in questa fiera della di eguaglianza. È questa la ragione per cui chiunque si richiami al moderno comunismo comunitario non può ignorare la natura del dispotismo comunitario. Il pensiero “tradizionalista” (da Evola a Guénon) si distingue proprio per il fatto di opporsi (giustamente) all’individualismo anomico occidentale senza assolutamente estendere la propria critica alle forme culturali di dispotismo comunitario, spesso “salvate” per le forme di religiosità collettiva o di solidarietà di gruppo in esse ancora contenute. E tuttavia, dal momento che queste forme di tradizionalismo (a mio avviso, comunque meno orrende delle forme di iperindividualismo anomico di oggi) sono insostenibili, perché finiscono con il fare l’apologia indiretta (e a volte addirittura diretta) del dispotismo comunitario tradizionale, il comunista comunitario che fa loro delle concessioni finirà con l’essere travolto insieme a loro. Il villaggio indiano castale era certamente comunitario, ma il giovane intoccabile che corteggiava una ragazza di casta superiore finiva comunque linciato orribilmente dall’intera comunità di villaggio. Il villaggio azteco era certamente comunitario, ma i nemi-

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ci catturati durante le “battaglie dei fiori” erano sacrificati sulle piramidi. Il villaggio cinese era certamente comunitario, ma dal momento che l’etica della benevolenza era riservata ai familiari qualunque estraneo era lasciato a morire sui marciapiedi senza soccorso. Il villaggio italiano tradizionale era certamente comunitario, ma il controllo sociale, culturale e sessuale da parte della famiglia patriarcale sui giovani era talmente soffocante da non lasciare spesso altra via che la fuga. E potrei ovviamente continuare. Ma il succo del discorso si lascia riassumere in poche righe: il comunismo primitivo, grazie allo sviluppo delle forze produttive e alla divisione sociale del lavoro che ne consegue, ha dato storicamente vita a forme differenziate di dispotismo comunitario; esso non deve quindi essere rivendicato, come fanno (quasi) tutte le forme di tradizionalismo, ma deve essere criticato senza compromessi; ogni collusione del comunismo comunitario con il tradizionalismo conservatore, quindi, finirà con il diffamare la sua causa, in analogia con la giustificata critica di Marx nel Manifesto del Partito Comunista del 1848 al cosiddetto “socialismo feudale”. 18. In secondo luogo, appare ormai chiaro che il lunghissimo periodo storico caratterizzato dall’approfondirsi della sottomissione formale dei dominati ai dominanti attraverso le varie forme di dispotismo comunitario si è nell’essenziale esaurito nei cinquemila anni circa di storia, universale fra il 3000 avanti Cristo e la fine del XX secolo circa. Ripercorrere analiticamente questa storia comporterebbe decine di volumi, che per fortuna esistono già, purché li si sappia leggere con occhiali metodologici opportuni, e cioè con una teoria multilineare e non deterministico-necessitarista della successione dei modi di produzione. Alla fine del Novecento è stato distrutto il comunismo storico novecentesco, l’ultima formazione economico-sociale caratterizzabile in termini di dispotismo comunitario (sia pure di tipo nuovo), e insieme con esso sono state investite le ultime società parzialmente ancora comunitario-collettivistiche, e cioè la Cina, l’India, le società andine e africane, e infine il mondo arabo-islamico. Si tratta di un gigantesco processo

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di individualizzazione anomica del mondo intero che gli sciocchi e gli ingenui riducono erroneamente alla sua sola superficie poco rilevante, e cioè al processo chiamato della globalizzazione liberista, oggi fortunatamente disturbato dalla (purtroppo poco importante e superficiale) crisi della bolla speculativa liberista del 2008. Nessuna illusione in proposito: nonostante la benvenuta crisi del loro criminale progetto di globalizzazione liberista, i dominanti sono ancora strategicamente all’offensiva, e i dominati sono ancora purtroppo nella fase del ripiegamento strategico disordinato. Le cose potranno cambiare in futuro, ma per il momento la svolta è ancora lontana. Il gigantesco processo di manipolazione sociale su scala mondiale portato dall’individualizzazione anomica può essere definito come il passaggio dalla fase storica della sottomissione formale dei dominati ai dominanti attraverso il dispotismo comunitario alla nuova fase storica della sottomissione reale dei dominati ai dominanti attraverso l’individualizzazione anomica di tutti gli abitanti del pianeta, omogeneizzati e resi così “astratti” di fronte alla produzione e al consumo capitalistici. Mi sono permesso di sottolineare la formula che ho impiegato, perché questa formula esprime gran parte del contenuto teorico di questo saggio. È evidente che se stiamo passando da una forma di dominio basato sul dispotismo comunitario (sottomissione formale dei dominati ai dominanti) a una forma di dominio basato sull’individualizzazione anomica (sottomissione reale dei dominati ai dominanti) le vecchie carte belliche non funzionano più, e chi conduce la nuova battaglia con le strategie e con le tattiche della vecchia battaglia è condannato alla sicura sconfitta. 19. Lo schema generale della filosofia della storia universale appena proposto non pretende certamente di essere completo ed esaustivo, e tantomeno definitivo. Esso invita soltanto a una sorta di riorientamento gestaltico rivolto non certo a tutti, ma soltanto a chi è interessato a prendere sul serio il problema politico-culturale del comunismo comunitario e degli ostacoli che esso non

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può fare a meno di trovare di fronte a sé. Un semplice bricolage di marxismo e di pensiero tradizionalistico non potrebbe portare che a nuovi faticosi equivoci. E prima di passare al terzo e ultimo argomento di questo capitolo (la genesi comunitaria della filosofia greca), riepilogo ancora una volta per comodità del lettore i punti principali della riflessione appena svolta. In primo luogo, ribadisco che senza un orientamento di massima di interpretazione generale del momento storico in cui ci troviamo siamo tutti come gattini ciechi, e quindi non sappiamo dove siamo. Nei prossimi due capitoli “teorici” (il terzo e ultimo è poco più di una irrilevante appendice sulla situazione politica italiana di oggi, e non pretende di avere una importanza teorica, anche se è utile per far capire al lettore quello che pensa lo scrivente sul suo paese) approfondirò due argomenti decisivi alla luce delle categorie appena esposte: la natura del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991) come forma difensiva di dispotismo comunitario “egualizzante” di fronte all’offensiva strategica dell’individualismo anomico, forma purtroppo sconfitta strategicamente, ma che appunto per la sua sostanziale legittimità storica non deve assolutamente cadere sotto la legittimazione della “leggenda nera” sostenuta oggi dalle orde (sì, orde) della triade servile ceto politico – circo mediatico – clero universitario; infine, la natura dell’odierna “cultura di sinistra”, intesa come componente secondaria ma importante della strategia generale di individualizzazione anomica del moderno capitalismo. Questi prossimi due capitoli non intendono certamente essere conclusivi, ma nello stesso tempo non nascondono di porsi in consapevole polemica alternativa con la concezione del mondo veicolata oggi dal novanta per cento almeno dell’odioso e corrotto ceto intellettuale che ci circonda, e che sarebbe incauto cercare di “convincere”, laddove si tratta di “saltarlo” per rivolgerci direttamente a gruppi molto più ampi di persone. In secondo luogo, la determinazione storico-culturale del presente storico come epoca mondiale del passaggio dalla fase storica della sottomissione formale dei dominati ai dominanti attraverso

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il dispotismo comunitario a una nuova fase storica caratterizzata dalla sottomissione reale dei dominati ai dominanti attraverso l’individualizzazione anomica e l’omologazione antropologica di tutti gli abitanti del pianeta resta la base della legittimazione del progetto di comunismo comunitario, che in caso contrario non potrebbe godere di basi strategiche di legittimazione. Ma questo modello non è che uno schema elementare di principio. Esso non è che uno “scheletro” che deve essere riempito di carne e di sangue. E ora cerchiamo di interpretare alla luce di questo schema elementare le origini e il percorso della storia della filosofia occidentale. Non lo faremmo di certo in questa sede, dato il carattere inevitabilmente specialistico di queste vicende teo­riche, se non si trattasse di una posta in gioco strategica, il mostrare ciò che l’intero pensiero occidentale deriva in ultima istanza, da una reazione comunitaria, sia pure sconfitta strategicamente, a un processo di dissoluzione derivato dall’ingresso distruttivo del potere della ricchezza privata e della moneta. Si tratta – lo si noti bene – dello stesso eguale pericolo da cui siamo minacciati oggi su scala mondiale. Chi riesce a impadronirsi di questo nodo concettuale (e mi rendo conto che non è affatto facile) si renderà facilmente conto che la comprensione della genesi della filosofia greca è un problema cento volte più attuale di qualunque borbottio contemporaneistico-novecentesco sulla demonizzazione del comunismo, sulla eternizzazione dell’antifascismo in clamorosa assenza di fascismo, sulla nuova religione olocaustica, sulla teologia interventistica dei diritti umani e bombardamento benefico selettivo, sull’Imperatore Negro Buono contro l’ultimo Imperatore Bianco Cattivo, e infine sulla simulazione del teatrino mediatico-politologico Destra-Sinistra, Sinistra-Destra, Centro-Sinistra-Destra, eccetera. Azzeriamo tutta questa simulazione, e riprendiamoci se non la vita almeno la sovranità del nostro libero pensiero, la sola cosa che le feroci oligarchie capitalistiche che ci governano non possono ancora toglierci (situazione al cento per cento ellenistica).

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20. Come tutti i cosiddetti miracoli, il “miracolo greco” non ha nulla di miracoloso, se vogliamo avvicinarci ad esso non solo con la reverenza e con l’ammirazione che merita (tanto superiore al presente profilo ripugnante dell’individualismo anomico manipolato dalle oligarchie dominanti oggi), ma anche con la razionalità storica che possediamo, anche se quasi sempre non la vogliamo intenzionalmente utilizzare. Karl Marx sostenne a suo tempo che il fascino che i greci continuano ad avere per noi è dovuto al fatto che non possiamo fare a meno di pensare ai greci come alla nostra infanzia, e personalmente ritengo che Marx avesse colto genialmente il cuore della questione della grecità. L’infanzia è anche e soprattutto il luogo spirituale delle potenzialità presenti in noi e però non realizzate, per ignoranza, malvagità, ambizione, invidia o distrazione. Si ha quindi nostalgia per l’infanzia non solo perché a quei tempi si aveva ancora tutta la vita davanti e la sua fine non era ancora imminente, ma perché l’infanzia è il luogo dell’essente-in-potenzialità e in possibilità (dynameion), laddove la realizzazione di queste potenzialità (dynamis) è troppo spesso deludente. In quanto tribù indoeuropea calata dal nord in tempi preistorici, i greci erano probabilmente caratterizzati da quel trifunzionalismo tipicamente indoeuropeo studiato da Georges Dumézil (sovranità religiosa, forza fisica e fecondità), che ha quasi sicuramente influenzato il cosiddetto tripsichismo di Platone (anima intellettiva, anima irascibile e anima concupiscibile), che ha poi trovato una formulazione politica, fortemente influenzata dal pitagorismo, nella sua Repubblica (filosofi-re o reggitori, guardiani o custodi, lavoratori o artigiani). Se prendiamo sul serio l’ipotesi di Karl Jaspers detta del “periodo assiale”, per cui i primi filosofi greci appaiono contemporanei del buddismo indiano, del confucianesimo cinese, del profetismo ebraico, della predicazione di Zarathustra in Persia, eccetera, il “miracolo greco” apparirà non tanto una specie di inesplicabile superiorità unica al mondo, quanto una variante di un fenomeno globale che tocca la Cina, l’India, Israele, la Persia, eccetera.

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Jaspers odia e ignora il metodo di Marx, per cui fa parte di quel curioso tipo umano che vince alla lotteria e poi perde il biglietto e quindi non può riscuotere la vincita. Il “periodo assiale” esiste veramente, è un fatto storico, ma non è per nulla un fatto miracoloso, ineffabile e inesplicabile. Se Eraclito, Budda, Confucio, Isaia, e Zarathustra fanno parte di una congiuntura storica che li fa quasi contemporanei, pur in piena indipendenza e in sostanziale ignoranza l’uno dell’altro, questo non può essere casuale. Tutti questi “maestri” sono storicamente inseriti in una grande crisi storica, di passaggio delle pur varie forme di dispotismo comunitario, in presenza di una evoluzione sociale che non poteva più essere legittimata con la precedente sacralizzazione naturalistica della società caratterizzata dalla fusione sacrale di macrocosmo naturale e di microcosmo sociale. Una volta, fessurata e rotta (Voegelin) questa unità di macrocosmo naturale e di microcosmo sociale la società stessa si autonomizza, e richiede nuove forme di coscienza sociale. Il miracolo greco, quindi, non è per nulla un fatto unico e imparagonabile, come oggi non è affatto un fatto unico e imparagonabile Auschwitz, fondamento sacralizzato della religione olocaustica contemporanea. Chi ama veramente i greci, e non li vuole usare per un osceno pedigree razzista per legittimare ideologicamente la presunta superiorità dell’occidentalismo contemporaneo verso tutte le altre civiltà del mondo, rifiuterà la teoria del “miracolo”, e prenderà piuttosto la via della comparazione storica. Le tribù indoeuropee che hanno dato origine ai greci si trovano a non possedere testi religiosi scritti di riferimento, ma soltanto un ricchissimo patrimonio mitologico, e quindi non sono inserite nell’infernale girone della necessità della contestazione “eretica” di libri sacri di legittimazione, con tutti i sacerdozi e gli apparati inquisitivi che questo comporta. I loro insediamenti geografici avvengono in una zona priva di grandi fiumi da regolare con lavori collettivi, necessariamente dispotici (Fiume Giallo in Cina, Tigri ed Eufrate in Mesopotamia, Nilo in Egitto, eccetera), il che evita ai greci la necessità di passare attraverso uno stadio storico di “dispotismo idraulico”, eccetera.

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21. Il mito più sgradevole applicato ai greci sta in ciò, che i greci vengono considerati i fondatori del moderno “occidentalismo individualistico” cui sarebbero poi seguiti i romani, i cristiani (anzi, l’inesistente profilo ebraico-cristiano), gli umanisti rinascimentali, e infine i liberali (e cioè Locke e Voltaire, e non certo Hegel e Marx, sospettati-peraltro del tutto giustamente – di “comunismo”). Si tratta di una cialtroneria per analfabeti storico-filosofici. È assolutamente vero che i greci avevano una fortissima consapevolezza dell’unicità dell’anima individuale o psyché, ma questa unicità dell’anima individuale era un elemento comune a diverse centinaia di culture mondiali non greche, e non caratterizzava certamente soltanto i greci. I greci avevano in realtà una cultura comunitaria, una sorta di comunitarismo anti-­dispotico, che caratterizza appunto il loro inimitabile profilo. E l’inimitabile profilo del miracolo greco consiste proprio in ciò, che proprio radicalizzando la loro particolarità i greci sono stati alla fine in grado di proporre un possibile modello universalistico all’intera umanità. Ho già fatto notare in precedenza che Hegel e Marx accedono a un possibile profilo universalistico non certo sulla base del rapporto diretto dell’individuo atomizzato astratto con l’universale, ma in base alla mediazione comunitaria preventiva. Ebbene, questo è esattamente quello che duemila anni prima aveva caratterizzato il profilo della cultura greca. I greci, appunto, sono giunti alla proposta di un possibile modello universalistico proprio attraverso la mediazione dialettica della radicalizzazione filosofica della propria inimitabile particolarità. Se infatti non si comincia con l’essere se stessi, è impossibile accedere in un secondo tempo alla candidatura all’universalità. Tutto questo oggi appare incomprensibile alla luce di quel misto di ecumenismo minimalista e di multiculturalismo americaneggiante che caratterizza la tribù sradicata e relativista degli intellettuali contemporanei. Il modello del multiculturalismo è sostanzialmente merceologico, ed è ben espresso dalle pubblicità politicamente corrette e antirazziste alla Benetton, in cui bambini bianchi, neri e gialli danzano insieme, contenti di poter finalmente acce-

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dere agli stessi modelli di consumo, così come i bambini di tutte le razze, fedi e nazioni danzano tutti insieme intorno allo stesso maglione, nello stesso modo le nazioni, che il clero universitario all’unanimità ha degradato a “comunità immaginarie” inventate da poeti mediocri per legittimare la provvisoria costruzione di mercati nazionale chiusi, sono invitate a suicidarsi in un unico impero globalizzato merceologico di lingua inglese a poteri d’acquisto differenziati fra patrizi e plebei. Immaginiamo che la cultura greca, a un certo punto della sua storia, presa da un raptus di autodistruzione multiculturale, avesse sostenuto: «Basta, con la teoria razzista della eccezione culturale! Danziamo tutti insieme, bambini greci, persiani, fenici, etruschi, celti, egizi, babilonesi, eccetera, intorno a una agorà postpolitica di beni acquistabili con una moneta unica!». Ebbene, questo è esattamente il modello del multiculturalismo, che è appunto il modello più uniculturale che sia mai stato proposto al mondo, non a caso un modello bambinesco di adolescenti supernutriti rigorosamente anglofoni che cantano canzoncine politicamente corrette dedicate non a Dio (dichiarato inesistente in nome di Darwin), ma a Nonna Pecora Pacifista, Nonna Mucca Femminista e Nonna Quercia Ecologista. I greci hanno seguito un’altra strada. Hanno cercato di evidenziare quello che li distingueva dai persiani, dai celti, dai fenici e dagli egizi, e proprio su questa base comunitaria, hanno poi conseguito un pensiero universalistico caratterizzato da una concezione di superamento democratico del dispotismo comunitario su base non individualistica, ma appunto comunitaria. È esattamente ciò di cui abbiamo bisogno oggi, con le ovvie differenze di situazione storica, politica, economica e sociale. 22. Vi è un altro equivoco a proposito dei greci che è bene sfatare immediatamente, l’idea del “razzismo culturale” dei greci, per cui essi avrebbero diviso il mondo in greci e “barbari”, sulla base di un disprezzo totale verso le altre civiltà.

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Si tratta di uno stereotipo del tutto esagerato, anche se ovviamente (come tutti gli stereotipi, del resto) non del tutto privo di fondamento. Tutte le civiltà originariamente tribali (e i greci sono stati all’origine un insieme di tribù indoeuropee dotate di un codice culturale trifunzionalistico) si sono sempre auto­definite come gli “uomini” corrispondenti ai “non-­uomini” delle altre tribù. L’universalismo è sempre un risultato di processi storici (Hegel e Marx), e non è mai un dato originario di predisposizione umanistica di una natura umana considerata buona a priori (Rousseau). I greci, come tutti i popoli del mondo, non sfuggono a questo dato particolaristico-tribale. Contrapporsi al vicino per differenza, scoprendo soltanto dopo gli elementi universalistici di comunione, è un dato antropologico che si origina dalle necessità di guerra e di conquista in un mondo dominato da una scarsità di risorse. Esso riguarda, appunto, tutte le civiltà, anche se i pacifisti metafisici rimuovono questo spiacevole fatto in nome della Bontà Originaria di Nonna Pecora e di Zio Capretto. Ai greci viene attribuito una sorta di nazionalismo occidentalistico razzista che ha caratterizzato ideologicamente soltanto due periodi al massimo della loro storia, il nazionalismo di difesa del tempo delle guerre persiane di Dario e di Serse, e il nazionalismo imperialistico di aggressione del tempo di Alessandro il Macedone. In questi due periodi storici, temporalmente limitatissimi (un ventennio circa per ognuno di questi fenomeni), i greci hanno sviluppato una sorta di ideologia (di difesa per Milziade e Temistocle, di offesa per Alessandro e i suoi diadochi-banditi), che solo in un secondo tempo è stata chiamata “occidentalistica”. In realtà, l’interesse e il rispetto per le culture straniere (la “saggezza straniera” studiata dal grande antichista Momigliano) sono sempre stati fra i greci molto forti. Il pitagorismo, la prima scuola filosofica greca realmente “organizzata”, non nasconde ma anzi ostenta il suo debito verso le culture dell’Egitto e della Mesopotamia. L’alfabeto greco proviene direttamente da una variante dell’alfabeto semitico fenicio. I pensatori detti “ionici” della costa dell’Asia Minore (zona che i greci dovettero abbandonare soltanto dopo il 1922)

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erano in gran parte sudditi dell’impero persiano, e i loro contatti culturali con la saggezza orientale erano continui. Bisogna quindi invitare in proposito a un riorientamento gestaltico: non c’è dubbio che i greci coltivassero un grande orgoglio per la loro identità culturale, e tendessero dopo le guerre persiane a identificarla con la resistenza democratica al dispotismo comunitario orientale; questo, però, non comporta nessun individualismo occidentalistico, dal momento che questa resistenza, era pensata all’interno di un profilo di fortissimo comunitarismo politico e culturale; e quindi, in conclusione, l’attribuzione ai greci della “invenzione” dell’individualismo occidentalistico è solo una sfacciata retroazione del modello di Calvino-Hobbes-Locke-Hume e Adam Smith. 23. Ho accennato a Calvino, il noto riformatore protestante cinquecentesco, che a suo tempo Max Weber considerò uno dei fondatori del profilo individualistico del capitalismo moderno. In proposito, la principale matrice di fraintendimento a proposito della corretta interpretazione dei greci sta certamente nel non tenere continuamente presente il fatto, considerato ovvio e noto (ma il noto – come disse Hegel – non per questo è veramente conosciuto), che i greci non solo non erano cristiani, ma non erano neppure “ancora cristiani”. Questo fatto, ovviamente, in teoria è già noto ai bambini delle scuole elementari. In realtà esiste una bimillenaria abitudine a concepire la storia come una “grande narrazione teleologica”, per cui Platone è visto come un Mosè che parlava greco, e Aristotele come il fornitore di argomenti per l’esistenza di Dio alla posteriore teologia domenicana del Duecento. Questa concezione è ovviamente stata prodotta dal cristianesimo e dalla corrispondente storia sacralizzata a base provvidenzialistica, che il marxismo non ha fatto che secolarizzare in forma deterministico-positivistica. Gli antichisti contemporanei, ovviamente, non fanno che scegliere i greci che più corrispondono alla loro concezione del mondo, per cui i cristiani evidenziano il monoteismo filosofico di Platone e Aristotele, relativisti empiristi evidenziano il cosiddetto “illumi-

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nismo” dei sofisti (aiuto! aiuto!), e i materialisti marxisti l’atomismo di Epicuro e di Lucrezio. In questa sagra paesana di tipo ideologico manca ovviamente un invitato, e cioè i greci stessi, che non erano né atei né religiosi, né monoteisti né politeisti, e soprattutto (estremo oltraggio dei “retrodatanti”!) né di destra né di sinistra. Il cristianesimo – come dovrebbe essere noto – ha avuto un’origine ebraica, anche se la nostra civiltà non è assolutamente ebraico-cristiana, ma è una civiltà cristiana con influenze ebraiche e musulmane (almeno a pari merito), e con una posteriore evoluzione umanistica, illuministica, positivistica e marxista (sia pure oggi pudicamente taciuta o ridotta a spiacevole incidente di percorsi dovuto all’ubriachezza utopica dei guidatori. Il cristianesimo si è separato nettamente dall’ebraismo sulla base incontestabile dell’universalismo e del rifiuto radicale dell’esistenza di un fantomatico e razzistico “popolo eletto”, e non sarà certamente l’attuale (e fortemente temporanea) egemonia della religione olocaustica che può cancellare il fatto che il cristianesimo e l’islamismo sono forme di universalismo religioso, mentre l’ebraismo, l’induismo e lo shintoismo sono forme di religione tribale non universalistiche, che meritano ovviamente studio e rispetto, ma non sulla base di un’inutile menzogna fattuale preventiva. Il cosiddetto profilo europeo ebraico-cristiano è oggi soltanto un ingrediente ideologico dell’islamofobia occidentalistica contemporanea al servizio della più ripugnante idolatria che esista oggi, la cosiddetta “guerra di civiltà”. L’Europa ha a mia conoscenza cinque religioni principali, e cioè il cattolicesimo, il protestantesimo, l’ortodossia, l’ebraismo e l’islam, e nessuna di esse può aspirare a un (inesistente) primato. Certo, se Dio esiste esso è ovviamente lo stesso per tutte e cinque, ma nel nostro basso mondo il culto religioso è un fatto sociale, e per esempio la religiosità del luterano svedese, del contadino russo e del partecipante siciliano a una processione nella festa di Sant’Agata connotano a mio parere tre profili religiosi del tutto distinti. L’ateo Epicuro considera il mondo pieno di dèi e gli dèi come immortali felici, e non c’entra assolutamente nulla con l’ateismo

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moderno. Aristotele addirittura definisce la divinità monoteistica in cinque modi complementari (atto puro, causa prima, fine ultimo, motore immobile e pensiero del pensiero), ma in questa definizione non c’è assolutamente nulla di “cristiano”, dal momento che in Aristotele il mondo non è creato ma è considerato eterno, secondo l’ovvia (e per questo perseguitata) interpretazione medioevale dell’averroista latino Sigieri di Brabante. Platone non annuncia assolutamente l’immortalità cristiana dell’anima, ma si inserisce pienamente nella concezione pitagorica della metempsicosi, e cioè della trasmigrazione delle anime. La saggezza stoica consiglia il suicidio, totalmente rifiutato dalla tradizione cristiana. E potremmo continuare. Con questo non intendo assolutamente affermare che i greci siano stati superiori ai cristiani, come oggi sostiene il laicismo senzadio contemporaneo, sulla base dei martellamenti del baffuto dilettante Nietzsche, per cui il cristianesimo è visto come una decadenza rispetto al mondo tragico-apollineo-dionisiaco dei greci. In proposito, se ci si mette sul terreno dopolavoristico della partita fra greci e cristiani e sul chi vince, chi perde, signori, fate la vostra giocata, prego, fra Nietzsche e Hegel personalmente sceglierò sempre Hegel, che almeno mette in rapporto la vittoria del cristianesimo con un (non sempre convincente) “principio morale superiore”, mentre il ciarlatano baffuto si limita a spiegarlo con l’invidia dei malriusciti e degli schiavi contro i padroni. Si tratta di un punto essenziale, che i cosiddetti “neopagani” non colgono spesso interamente. Il problema della superiorità o inferiorità del codice greco o viceversa di quello cristiano non può essere discusso con la fatuità superficiale della chiacchiera colta da caffè. Se proprio lo vogliamo discutere, e non ne vale proprio la pena, bisogna almeno discuterlo in modo più razionale. Finché il profilo culturale greco conservava forti elementi di comunitarismo solidale, esso possedeva delle “riserve strategiche” di rinnovamento. Ma quando con l’avvento dell’ellenismo e soprattutto del barbarico impero schiavistico romano, assai più distruttore che erede della autentica grecità, questo comunitarismo

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ellenico venne frantumato e distrutto nel privatismo proprietario romano, allora e solo allora si aprirono gli spazi per la religione cristiana, che non a caso si affermò come Religione dei Poveri (Peter Brown). Ovviamente, il cristianesimo non era affatto la religione dei poveri, ma degli honestiores del criminale Costantino, e tuttavia non è casuale che dovette imporsi attraverso lo schermo ideologico della religione assistenziale dei poveri. Non a caso Giuliano l’Apostata, nel suo meritorio tentativo di salvare il codice culturale antico, cercò di mettere in piedi una (impossibile) chiesa assistenziale neoplatonica. Il discorso sarebbe lungo, ma ha risvolti contemporanei interessanti e inquietanti. A me ripugnano profondamente le aperture di Ratzinger all’islamofobia occidentalistica veicolata da poveracci come Marcello Pera, Oriana Faliaci e Magdi Allam. Si tratta di qualcosa di schifoso, per usare una paroletta gentile, specialmente in presenza dei massacri NATO in Afghanistan, USA in Iraq e sionisti in Palestina. E tuttavia, quando vedo l’agitarsi scomposto dei vari Augias per dimostrare che Gesù era soltanto un poveraccio palestinese fanatizzato, e dei vari Galimberti che contrappongono la saggezza greca al fanatismo cristiano allora un campanello d’allarme risuona nella mia testa, e mi chiedo: perché questi individualisti e occidentalisti senzadio se la prendono tanto con pretoni e pretini, ormai del tutto privi di potere politico? Lo fanno per una causa di emancipazione umana? Lo fanno purtroppo perché vorrebbero approfondire ancor di più il processo di individualizzazione anomica della società, in direzione di un mondo ancora peggiore e più desolato di quello prodotto dalla sostituzione del mondo cristiano al precedente mondo ellenico? Il lettore pensoso e dotato di senso critico risponda lui stesso alla mia (retorica) domanda. 24. Oltre a Calvino ho parlato prima, di Adam Smith, considerato il fondatore dell’economia politica moderna. E Smith ne fu veramente il fondatore, ma non certo per le due ragioni generalmente

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addotte (e cioè la teoria del valore-lavoro come quantità di tempo di lavoro sociale medio contenuto in un bene-merce e la teoria delle armonie economiche all’interno di un mercato capace di autoregolarsi spontaneamente – si tratta dei due marginali aspetti rispettivamente evidenziati dai marxisti ricardiani, il primo, e dagli economisti liberali, il secondo). Egli ne fu il fondatore per una ragione ben diversa, e cioè perché sistematizzò e coerentizzò la precedente tesi espressa in forma solo filosofica da David Hume, per cui l’economia politica dello scambio proprietario dei beni non ha bisogno di fondazioni che rimandano a Dio, al diritto naturale e al contratto sociale, ma si fonda rigorosamente su se stessa sulla base di abitudini reciproche della natura umana in quanto tale. Questo fa diventare il capitalismo non solo una “economia naturale”, ma l’unica vera economia naturale che possa esistere al mondo. Si tratta, come è noto, non solo di una falsità storica e antropologica, ma anche del nemico teorico e pratico principale di ogni comunismo comunitario, che si basa su di un profilo storico, antropologico e politico del tutto alternativo. Karl Polanyi ha parlato di un Aristotele “scopritore dell’economia” e questa tesi di Polanyi è assolutamente corretta, purché non si cada nello stupido errore (non certo voluto da Polanyi!) di pensare che Aristotele sia stato un anticipatore e un precursore di Adam Smith. Nulla di più assurdo. Al contrario Aristotele è stato non certo il precursore e l’anticipatore di Smith, ma se proprio vogliamo cercare a tutti i costi un precursore (e non ce n’è nessun bisogno), lo è stato del “sistema dei bisogni” di Hegel, a sua volta ascendente diretto del sistema dei bisogni comunisti storicamente determinati di Marx. Lungi dall’essere il precursore e l’anticipatore dell’economia di Smith, Aristotele ne è stato l’alternativa assoluta, in quanto Aristotele basa tutta la sua riflessione economica sulla distinzione radicale fra la vera e propria economia (oikonomia, e cioè nomos dell’oikos, legge di riproduzione dell’unità famigliare allargata) e la cosiddetta crematistica (intesa come acquisizione di ricchezze, chremata, termine usato da Protagora, per indicare l’importanza,

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relativa, privata e opinabile data da ogni privato cittadino ai valori d’uso che più gli interessano). Lungi dall’essere fedele a questa impostazione aristotelica (poi passata con tutte le necessarie mediazioni al concetto di economia di Hegel e di Marx) Smith identifica economia e crematistica sotto l’assoluto primato della crematistica intesa come Scienza del valore di scambio. Si tratta del punto principale di differenza fra il punto di vista comunitario greco e il punto di vista individualistico-borghese moderno. Non c’è dubbio che la distinzione fra economia e crematistica è fatta da Aristotele all’interno di una legittimazione politica generale dell’economia schiavistica, in polemica esplicita e insistita con il comunismo platonico del suo maestro. Ma questo ovvio rilievo non deve far dimenticare che non si tratta qui di approvare a posteriori la legittimazione della schiavitù in Aristotele (è del tutto evidente che la schiavitù ripugna in modo radicale alla sensibilità moderna, e infatti Hegel giustamente la ritiene incompatibile con il genere umano in quanto tale, e Marx estenderà questa condanna alla cosiddetta “schiavitù salariata”), ma di comprendere il nucleo filosofico del problema, che consiste nella separazione concettuale fra economia e crematistica, laddove invece Smith arriva di fatto alla conclusione che ogni economia in quanto tale è sempre e soltanto crematistica. Karl Polanyi ha accertato che nella stragrande maggioranza delle civiltà umane, che egli ha studiato con metodo comparativo, la cosiddetta “economia” è sempre incorporata (embedded) all’interno di strutture sociali politiche ed etiche, e non è mai concepibile da sola. È questa una delle ragioni, anche se non certo l’unica, che smentiscono l’universalità dell’economia capitalistica, semplice copertura ideologica sofisticata di un profilo di individualismo possessivo anomico. Chi ritiene che la civiltà greca, magari miscelata con quella ebraica, stia alla base della cosiddetta civiltà occidentale, dovrebbe respirare prima profondamente, contare fino a ottanta almeno, e solo allora riflettere sul fatto che una civiltà che ha separato concettualmente l’economia e la crematistica non può decentemente essere la “progenitrice” di una civiltà che

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ha eretto l’economia assolutizzata a fondamento religioso della sua legittimità storica. 25. Il profilo della civiltà greca si caratterizza, anche e soprattutto per la centralità assoluta della categoria di amicizia (philia). Non si tratta di un fatto marginale o di dettaglio, ma di una categoria assolutamente centrale per chi intende porsi il problema del comunismo comunitario comunque definito. Del resto, l’onnipresenza nel pensiero greco del termine philia, pressoché assente nel pensiero medioevale, moderno e contemporaneo (con eccezioni, da Dante a Montaigne) non può certamente essere del tutto casuale. Aristotele definisce Platone, senza nominarlo, come “amico delle idee”. L’ospitalità, in greco è connotata con il termine “amicizia verso lo straniero” (spesso non-greco, il che fa saltare in pezzi lo stereotipo sul razzismo occidentalista dei greci). La stessa filosofia è connotata come amicizia della sapienza, ed è interessante che il termine non sia “amore” (eros, agape), ma proprio amicizia (philia). Il termine ha peraltro avuto una evoluzione, perché nasce in polemica con il termine di cultura inteso come saper tutto ed erudizione (polimatheia), per evolvere verso la saggezza pratica di vita e l’equilibrio dei comportamenti all’interno di una buona vita individuale e comunitaria (il politikòn zoon, lo zoon logon echon, è colui che prima di tutto è capace di eu zen – in traduzione, l’uomo come animale politico, sociale e comunitario, dotato di capacità di applicare la misura ai rapporti comunitari, è l’unico ente naturale che può progettare e attuare un modello di vita buona). Anche il concetto di amicizia ha un’evoluzione. In Omero si tratta di una amicizia guerriera, non priva di elementi omosessuali (Achille e Patroclo), probabile eredità del gruppo di maschi delle tribù indoeuropee mandati in avanscoperta e pertanto isolati per molto tempo da ogni compagnia femminile (il che fa dell’omosessualità una forma estrema di maschilismo, a differenza di come pensa erroneamente il politicamente corretto della sinistra di oggi). In Platone l’amicizia resta, ma per usare un linguaggio

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moderno essa diventa maggiormente “ideologica”, perché è subordinata alla condivisione pitagorica di un profilo filosofico, e questo spiega perché Platone abbia dedicato ben due dialoghi all’amore (il Fedro e il Simposio), mentre l’amicizia in quanto tale resta relativamente marginale nei suoi dialoghi. Le cose cambiano con Aristotele, la cui Etica Nicomachea è anche e soprattutto un trattato sistematico sulle forme di amicizia, in cui è prevista, sia pure con alcune riserve, anche l’amicizia fra liberi e schiavi, sulla base di un minimo comun denominatore di “uomini”, esempio di umanesimo classista mai più superato (l’umanesimo borghese non è infatti andato oltre, dal momento che anch’esso ipotizza la possibilità astratta dell’amicizia fra ricchi e poveri e dominanti e dominati). Aristotele esalta l’amicizia, in polemica con il comunismo platonico, che vede (del tutto correttamente) non tanto come il fine della politica quanto come l’impossibilità di una vera politica, critica che si potrebbe peraltro applicare perfettamente anche alla concezione del comunismo marxista come fine della storia. E tuttavia in Aristotele l’amicizia privata coesiste con la sfera dell’attività politica nella polis, che al tempo di Aristotele esisteva ancora e conservava ancora sovranità, sia pure in forma depotenziata rispetto al tempo di Solone, di Clistene e di Pericle (sovranità politica che è il presupposto dei tre grandi classici della filosofia greca, Socrate, Platone e Aristotele). Anche in Epicuro l’amicizia è centrale, a mio avviso anche più dello stesso principio del potere, al punto che se fossi costretto a connotare il pensiero di Epicuro con una parola sola, e non mi concedessero per gioco di utilizzarne due o tre, lascerei da parte l’atomismo e il piacere, e mi concentrerei sulla sola e unica parola “amicizia” (philia). Mentre lo stoico Zenone, contemporaneo di Epicuro, predica l’aperta svergognatezza (anaideia), ed esalta il suo maestro, che gli aveva rotto addosso un paiolo di lenticchie, in modo che sembrasse che la merda gli colasse sulle gambe, e lo aveva invitato a passeggiare così nell’agorà (tutti gli estremisti finiscono sempre consiglieri dei principi, e questa è ovviamente la sorte dello stoicismo antico, da Zenone a Seneca), Epicuro aveva

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rotto anche lui con le convenzioni del suo tempo, accogliendo nella sua scuola schiavi e prostitute. I manuali di storia della filosofia riportano sempre diligentemente che Epicuro sconsigliava la partecipazione politica per evitare che questa partecipazione, con le delusioni, i compromessi e i fanatismi settari e identitari che essa inevitabilmente comporta, “turbasse l’animo” e non permettesse la saggezza imperturbabile consigliata al saggio antico (in questo caso, sia epicureo che stoico). E tuttavia, in questa notazione vi è un errore di fondo. Epicuro vive in un periodo storico di morte della politica come attività decisionale (boulesis), in quanto la sovranità era interamente passata dalla decisione democratica sul controllo delle ricchezze e sulla corretta divisione di esse (dianomé) alla crematistica scatenata, che lasciava spazio soltanto alla vita privata (commedia di Menandro), alla ricerca scientifica (museo di Alessandria), e al massimo alla beneficenza pubblica (il cosiddetto “everghetismo”). La comunità di amici di Epicuro è una comunità protetta di ripiegamento e di resistenza (cosa che Hegel comprese molto bene, laddove non sembra che Marx sempre lo comprenda), resa necessaria dall’impossibilità di poter esercitare un’attività politica sensata, in mancanza della sovranità minima sull’oggetto stesso principale della politica, la decisione comune sui rapporti di povertà e di ricchezza, fra i cittadini. Queste comunità di ripiegamento e di resistenza caratterizzeranno forse anche il nostro prossimo futuro. Solo gli sciocchi manipolati dalla televisione possono pensare che la “politica” sia l’attività compiuta da Veltroni, Berlusconi e Di Pietro, in una situazione di occupazione militare dell’Italia (sia pur consensuale, ma il consenso dei servi è un dato sociologico, non un valore filosofico) da parte delle truppe USA, e in un contesto di aggressione militare NATO contro il resto del mondo. Nello stesso tempo, Epicuro ci mostra la natura del comunismo comunitario, e cioè un profilo di solidarietà fra amici pur in presenza di forme economiche di iniziativa privata non “statalizzata”.

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Ma questo ci permette di iniziare il nostro vero discorso, cui abbiamo fino a ora soltanto “girato intorno”, e cioè il modello greco di educazione (paideia) e di ragione (logos) come fondamento principale del nostro discorso di comunismo comunitario. Quanto detto fin qui, infatti, è largamente introduttivo. Il vero discorso comincia soltanto adesso. 26. Per quanto lo possa sintetizzare per ragioni di spazio, mi sarà impossibile sintetizzarlo troppo. Del resto, già Kant scrisse che molti autori, per voler essere troppo brevi finiscono con l’essere involontariamente troppo “lunghi”, in quanto finiscono con l’essere incompleti e oscuri per eccessiva brevità, e richiedono continui “ritorni” di spiegazione e di chiarimento. In sintesi, dividerò il discorso nei seguenti punti: (a) Necessità di attuare un riorientamento gestaltico radicale nel modo consueto di ricostruire la storia della filosofia occidentale. Così come viene insegnata di regola, essa è inservibile per il nostro discorso di fondazione storica razionale del comunismo comunitario. Cambiando punto di vista, le cose cambiano, ed è possibile vedere un intero mondo che altrimenti ci sfuggirebbe. (b) Comprensione del fatto che il modo di produzione dentro cui sorge la filosofia greca, e quindi il pensiero e la tradizione occidentale, non era ancora un modo di produzione schiavistico compiuto, ma era un modo di produzione di piccoli proprietari indipendenti. (c) Questi piccoli produttori indipendenti, sulla base della doppia necessità di lottare sia contro il dispotismo imperiale comunitario persiano sia contro (pericolo molto maggiore) la dissoluzione delle loro comunità a causa della ricchezza monetaria smisurata e della riduzione in schiavi dei debitori, hanno elaborato un profilo culturale inimitabile basato su di un armonico apparato di concetti, fra cui i principali sono stati quelli di giustizia (dike), di misura (metron), di freno alla dissoluzione (katechon), di ragione – linguaggio – calcolo sociale (logos), e infine di educazione all’in-

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dipendenza (paideia). Nessuno di questi cinque concetti, ma proprio nessuno, ma assolutamente nessuno, corrisponde all’attuale profilo dell’occidentalismo capitalistico, il che fa dell’origine greca di questo occidentalismo un mito ideologico per truffatori, criminali o deficienti (il lettore scelga quale di queste connotazioni deve essere privilegiata). (d) Questo grande profilo è stato sconfitto storicamente dalla dismisura del denaro e del potere, che è una sola grande e unica dismisura. E tuttavia la permanenza ideale di questo modello, depurato ovviamente delle sue inevitabili scorie storiche, è alla base della grande filosofia di Spinoza, Hegel e Marx, che non devono tanto essere intese come filosofie nuove (anche se ovviamente lo sono), quanto come filosofie che restaurano nel mondo moderno il punto di vista ellenico, il quale punto di vista, in un certo senso (esagero volutamente e provocatoriamente) è oggi ancora più importante dello hegelismo e del marxismo. (e) Su questa base, il codice d’accesso al pensiero di Hegel e di Marx (parlo unicamente per gli aspetti che concernono direttamente il nostro discorso sul comunismo comunitario) deve essere sottoposto a un radicale riorientamento gestaltico. Da un lato, essi reagiscono a duecento anni di fondazione borghese-individualistica del pensiero, sia nella forma direttamente politica ed economica (Hobbes-Locke-Smith), sia nella forma epistemologico-gnoseologica (Cartesio-Kant). Dall’altro, essi restaurano il punto di vista del pensiero greco classico, ovviamente nelle nuove irripetibili forme del mondo borghese-capitalistico. (f) Nel contesto culturale e storico di oggi, questo messaggio è reso difficile non tanto e non solo dalle oligarchie capitalistico-finanziarie che dominano il pianeta, la cui strategia non è più quella del vecchio dispotismo comunitario ma è quella del nuovo individualismo anomico generalizzato, ma dalla connessione fra effetti del fallimento dell’esperienza di ingegneria sociale egualitaria del defunto comunismo storico novecentesco realmente esistito, da un lato, e dalla specifica irreversibile corruzione della cosiddetta “sinistra occidentalistica”. Per questa ragione questo punto (f) non po-

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trà essere “sbrigato” in poche pagine, ma dovrà purtroppo essere discusso più a fondo in due capitoli successivi. Il lettore però non si faccia ingannare. I veri fondamenti del nostro discorso non si trovano nel chiacchiericcio ideologico-storiografico su Stalin e su Trotskij, e neppure nella facile polemica contro la cultura di “sinistra”, divenuta oggi in gran parte un fetido cadavere da seppellire. Esso si trova nei greci. 27. Grazie alla benemerita riforma scolastica del 1923 di Giovanni Gentile, che ha introdotto nei licei italiani un insegnamento di tipo storico di storia della filosofia occidentale, milioni di studenti italiani hanno potuto per cinque generazioni fino a oggi accedere alla opportunità di impadronirsi in modo critico di questa storia. Gentile si considerava un allievo critico di Hegel, e sulle orme del suo geniale maestro riteneva che per poter imparare a nuotare bisognasse tuffarsi immediatamente in acqua, e che fosse impossibile imparare a filosofare “in proprio” senza prima impadronirsi del modo in cui per più di duemila anni avevano filosofato i nostri predecessori. Questo metodo storico si contrapponeva al modo totalmente destoricizzato in cui oggi le strutture universitarie ispirate all’impero americano concepiscono la filosofia, e cioè come una sorta di disciplina di analisi del linguaggio volutamente e quasi provocatoriamente destoricizzato. Ponendosi come fine capitalistica della storia, in cui il passato ha soltanto una funzione mitica e ornamentale, il capitalismo di oggi deve ovviamente promuovere una cultura ornamentale e destoricizzata, e la muta di cani obbedienti del clero universitario corre dal suo padrone con guaiti di riconoscenza e con la lingua trafelata fuori dai denti. La riforma di Gentile non era per nulla fascista se fu resa possibile dal primo governo “decisionista” di Benito Mussolini, nel quadro però del parlamentarismo liberale, che fu abolito solo nel 1926. In un contesto di storia della scuola italiana si trattava soltanto della vittoria del modello neoidealistico contro il modello positivistico precedente, vittoria per nulla ideologico-fascista, dal momento

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che questo modello neoidealistico era sostanzialmente condiviso sia dal liberale Benedetto Croce sia dal comunista Antonio Gramsci. Lo stesso marxismo di Antonio Gramsci (di cui personalmente sono un estimatore) è una forma di neoidealismo filosofico collocato all’estrema sinistra politica, del tutto incompatibile con le forme di materialismo dialettico prevalenti in quel tempo. E tuttavia, il diavolo si nasconde nel dettaglio. La potenzialità emancipativa dell’insegnamento di storia della filosofia era in gran parte neutralizzata, e anzi distrutta, dal modo opinionistico e dossografico con cui la stessa era praticamente insegnata. Lo studente imparava che la filosofia occidentale iniziava con le opinioni sulla origine del mondo di alcuni personaggi che si dividevano sul fatto che questo mondo stesso avesse o meno un’origine dall’acqua, dall’aria, dal fuoco o dalla terra, e si fosse formato per caso oppure sulla base di un ordine guidato da una mente divina. In questo modo, lo studente non poteva che trarne la conclusione per cui la filosofia non fosse che un’anticipazione dilettantistica delle posteriori scoperte scientifiche della fisica e della chimica, oppure una prima versione dell’eterno dibattito teologico se il mondo si fosse fatto progressivamente da solo oppure fosse il frutto di una sorta di “disegno intelligente”. Dopo alcuni mesi di iniziale interesse la stragrande maggioranza degli studenti liceali giungeva alla inevitabile conclusione per cui, se l’oggetto della filosofia era soltanto quello di una dilettantesca anticipazione dei ben più solidi risultati della scienza contemporanea, non c’era nessun bisogno di occuparsene ulteriormente. Venivano infatti in successione personaggi curiosi: il maniaco Socrate, che anziché andare a lavorare perdeva il tempo a chiacchierare in piazza; il maniaco Platone, che voleva il comunismo e soprattutto la comunione delle donne, argomento intrigante per tutti i maniaci sessuali in erba; il frate Tommaso d’Aquino, che pretendeva dimostrare Dio con sofismi che non avrebbero convinto neppure il più stupido della classe; il maniaco Pascal, che riteneva che fosse meglio scommettere sull’esistenza di Dio anziché andare al bordello senza pensarci troppo sopra; il maniaco Cartesio, passato alla storia solo per avere detto “penso

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dunque sono”; il maniaco Hegel, passato alla storia, per aver detto che tutto il reale è razionale, e pertanto che tutto ciò che accade deve pure avere una ragion d’essere; eccetera. Questo modo di concepire la storia della filosofia non può che portare inevitabilmente a una forma di scetticismo relativistico, il cui sbocco necessario è o il positivismo scientifico oppure il fideismo religioso, che almeno “danno risposte alle domande”. E allora, di chi è la colpa? La colpa non era di Gentile, che era ancora convinto che la storia della filosofia avesse un senso emancipativo, e ne era convinto sulle orme di Hegel. Ma nei cento anni passati dalla morte di Hegel era avvenuto qualcosa di nuovo, e cioè lo sviluppo selvaggio del modo di produzione capitalistico, che non si legittimava più con una concezione filosofica del mondo, retrocessa a momento storico preparatorio e sorpassato (illuminismo e idealismo, in poche parole), ma si legittimava ormai in modo totalmente non-filosofico, con una mescolanza di economia, scienza e tecnologia, senza contare le new entries della concezione razzista, colonialista e imperialistica del mondo. E tuttavia, non sta neppure ancora qui il cuore della questione. I tragicomici manuali della storia della filosofia erano tutti costruiti sulla base di alcune paginette della Metafisica di Aristotele, in cui Aristotele faceva un rapidissimo bilancio storico dei trecento anni di pensiero filosofico che lo avevano preceduto, e classificava i suoi predecessori sulla base esclusiva della teoria delle quattro cause principali (materiale, formale, efficiente e finale) con cui questi suoi predecessori avevano cercato di spiegare l’origine del mondo. Sembrava in questo modo che l’oggetto primario e originario della filosofia fosse stato quello dell’origine materiale del mondo. E invece non è affatto così: l’oggetto primario della filosofia non era quello di spiegare l’origine del mondo naturale (anche se anche questa spiegazione era una sorta di “ricaduta” della sua attività concettuale) ma era quello di cercare di impedire che la comunità sociale dei greci fosse distrutta dalla illimitatezza distruttiva (apeiron) delle forze caotiche della ricchezza.

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La colpa, tuttavia, non era di Aristotele. Aristotele non intendeva scrivere una storia sociale della filosofia e delle sue origini, ma semplicemente demarcarsi dai suoi predecessori nella spiegazione delle cose. Tutti i grandi filosofi, nessuno escluso, diventano grandi (e cioè originali) demarcandosi dai loro maestri. Si tratta esattamente di ciò che Sigmund Freud ha chiamato “uccisione del padre”. Aristotele intendeva demarcarsi soprattutto da due tipi di scuole precedenti. Da un lato, la scuola naturalistica dei filosofi cosiddetti ionici (ma anche pitagorici, che erano semplicemente degli ionici influenzati dal pensiero orientale trapiantati nell’Italia Meridionale), che egli apprezzava, ma cui voleva aggiungere l’esistenza di un grande intelletto ordinatore delle cose. Dall’altro, la scuola di Platone, di cui non solo non condivideva la teoria delle idee(peraltro criticata in forma autocritica dallo stesso Platone), ma di cui non condivideva soprattutto il comunismo politico ed economico, cui contrapponeva una teoria della genesi della società attraverso il villaggio tribale, la famiglia come struttura giusta e insuperabile, e la polis come organismo cui non si doveva sovrapporre nessuna casta di filosofi-re o di guardiani selezionati in modo del tutto endogeno. La classificazione cosmologica delle quattro cause, fatta da Aristotele nel contesto della sua legittima demarcazione dalle posizioni precedenti, è così diventata una pazzesca immagine della nascita della filosofia occidentale come confusa anticipazione del primo anno delle facoltà di fisica e di chimica. O il lettore avrà il coraggio metodologico di rischiare un radicale riorientamento gestaltico in proposito, oppure è del tutto inutile parlarci addosso a proposito di comunismo comunitario. La filosofia greca, infatti, non è nata sulla base di una discussione cosmologica sulla priorità dell’acqua sull’aria, e neppure in base alla retrodatazione illuministica e positivistica del passaggio dal mito al pensiero razionale, ma è nata come prodotto sociale di una autodifesa collettiva e comunitaria di un modo di produzione di piccoli proprietari indipendenti, sorto “miracolosamente” all’incrocio dei grandi imperi dispotico-comunitari del vicino oriente persiano-egizio-mesopo-

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tamico e delle grandi tribù comunitario-primitive balcaniche, celtiche, scite e slave. E ora cominciamo a parlare di cose serie. 28. La filosofia greca non nacque all’interno di un modo di produzione schiavistico compiuto, inesistente in quanto tale prima del periodo ellenistico-romano propriamente detto, ma nacque all’interno di un modo di produzione di piccoli produttori indipendenti, con una presenza, di schiavi certo esistente, ma ancora, socialmente marginale. Il modo di produzione schiavistico non è affatto connotato dalla presenza di schiavi in quanto tale. Genova e Venezia nel medioevo commerciavano schiavi e le loro stesse città erano piene di schiavi domestici e di schiavi rematori, ma questo non comportava il fatto di essere economie basate su di un modo di produzione schiavistico. L’economia schiavistica di piantagione sta alla base del decollo capitalistico olandese, inglese e americano, ma nessuno storico serio dirà mai che l’Europa del Cinquecento, Seicento e Settecento era a modo di produzione schiavistico. E potremmo continuare, ma credo che le cose siano già chiare. Il vero e proprio modo di produzione schiavistico in Grecia fu sempre scoraggiato e impedito dalle comunità greche di piccoli produttori indipendenti. La moneta coniata giunse in Grecia dal regno della Lidia (quello del ricco re Creso) attraverso le isole di Chio e soprattutto di Egina, la storica nemica, di Atene. Con la moneta coniata giunsero anche l’illimitatezza virtuale delle ricchezze, la schiavitù per debiti, la concorrenza del lavoro schiavizzato al lavoro libero, eccetera, insomma tutta la merda (per usare un raffinato termine tecnico dello specialismo antichistico) che poi contraddistinse l’Impero Romano, grande portatore culturale, giuridico e politico della proprietà schiavistica antica. Ma sarebbe un errore retrodatare indebitamente la fioritura del modo di produzione schiavistico antico dal mondo ellenistico-romano al precedente modo di produzione dei piccoli produttori indipendenti.

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Il codice culturale e filosofico ellenico, vero codice espressivo di ogni comunismo comunitario odierno, nasce proprio all’interno e solo all’interno del modo di produzione dei piccoli produttori e proprietari indipendenti. Si tratta di una nascita interamente particolaristica, che appunto perché particolaristica ha potuto candidarsi all’universalismo. Soltanto un baffuto dilettante confusionario come Nietzsche poteva pensare che i greci antichi avessero potuto sviluppare la loro grande civiltà sulla base dell’odio reso possibile dal lavoro degli schiavi. Soltanto una signora volonterosa sostanzialmente ignara della storia greca come Hannah Arendt poteva seriamente pensare che la democrazia greca fosse una sorta di opinione pubblica liberale in cui ci si occupava del pubblico in modo disinteressato, laddove il pubblico (demosion) per i greci era prima di tutto una sfera comunitaria e non individualistica che si occupava prima di tutto del controllo sull’eccessiva disparità di ricchezze. Ma entriamo più profondamente nel tema. 29. Qual è il concetto più importante per comprendere l’originalità della cultura greca nel periodo classico? Detto così, si tratta di un gioco da bambini, perché il profilo culturale complessivo dei greci era determinato dall’intreccio di almeno dieci diverse componenti, tutte presenti anche in altre civiltà, e il codice inimitabile dei greci era proprio costituito dal loro particolare intreccio. E tuttavia, se dovessi a ogni costo sceglierne una sola (così come ho scelto l’amicizia a proposito di Epicuro, e così come sceglierei la saggezza pratica, individuale di vita in Aristotele), sceglierei il concetto di educazione complessiva (paideia). Traduco a mio modo da un passo del Panegirico di Isocrate, che cerca di dare una definizione di “greco” (ellen). Scrive Isocrate: Il nome di Greci non è stato dato sulla base dell’origine e della stirpe, ma sulla base della mente e dell’intelligenza, così che si possono chiamare “greci” [ellenes] assai più coloro che parteci-

212 pano della nostra educazione [paideia] piuttosto di coloro che hanno lo stesso sangue comune.

L’affermazione è chiara. Si è greci in base a un parametro esclusivamente culturale, che è l’educazione (paideia), laddove non contano nulla ragioni etniche e razziali. È esattamente il contrario delle vergognose ritualità razziali veterotestamentarie sulla purezza di sangue ebraica, e soprattutto delle altrettanto vergognose teorie razziali che hanno trovato nel nazionalsocialismo di Hitler (e di Mussolini) il loro coronamento novecentesco. Per Isocrate si è “greci” non per il colore della pelle o per la rivendicazione di stirpe, ma per il fatto di essere partecipi (metechontas) del modello educativo greco (tes paideuseos tes emeteras). Ma in cosa consiste questo modello educativo? A prima vista, è il modello educativo dell’oplita, e cioè del cittadino-soldato, che deve allenare il corpo con la ginnastica individuale e con gli esercizi collettivi, e deve coltivare lo spirito con i miti, la poesia omerica, le gesta degli eroi eponimi della propria polis, e soprattutto con la capacità di prendere la parola in pubblico (isegoria), manifestazione dell’eguaglianza dei diritti dei cittadini (isonomia). E tuttavia, la semplice elencazione delle componenti del profilo dell’educazione (che nella Repubblica di Platone comprende per esempio la ginnastica, la musica, la matematica e la dialettica) non ci dice ancora assolutamente nulla, se prima non ci sforziamo di comprendere i presupposti sociali di questo profilo educativo. E i presupposti sociali, lungi dall’essere quelli di un modo di produzione schiavistico (i padroni oziosi di Nietzsche o i cittadini liberali disinteressati della Arendt), erano quelli di un modo di produzione di piccoli produttori e proprietari indipendenti, che appunto per questa ragione volevano una educazione alla indipendenza (anexartisia). Ma il segreto sta in ciò, che l’unica vera garanzia della salvaguardia dell’indipendenza del singolo passava esclusivamente attraverso il rafforzamento della comunità sociale e politica, in quanto la fine della sovranità della comunità sociale e politica avrebbe inevitabilmente lasciato il singolo in balia delle forze infinite e illimitate (apeiron) del potere caotico e distruttivo

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delle ricchezze private (chremata). È del tutto evidente che questo codice educativo e culturale non ha assolutamente nulla a che vedere né con la sottomissione in genere mediata dalla religione, simboleggiata dalla prosternazione in ginocchio, proskinesis) a un dispotismo imperiale, né soprattutto con l’individualismo anomico di oggi, programmaticamente e provocatoriamente insensibile alla differenza fra ricchi e poveri. Il termine educazione (paideia) non ha quindi nulla a che vedere con una semplice disciplina specialistica subalterna chiamata “pedagogia”, intesa come un insieme di cosiddette “scienze dell’educazione”, cibo per pedagogisti e per generici deficienti. Non a caso, il moderno capitalismo ha mobilitato i gruppi supponenti dei moderni pedagogisti e psicologi invasivi per distruggere il concetto greco di educazione e sostituirlo con tecniche di formazione adatte a un mercato del lavoro flessibile e precario in continua trasformazione, e con complementari tecniche di socializzazione subalterna per adolescenti considerati a priori come eterni bambini un po’ stupidi da accudire vita natural durante (si tratta dell’“io minimo” del moderno suddito del capitalismo studiato da Christopher Lasch). La sostituzione del concetto greco di educazione con il concetto capitalistico-economicistico di formazione polivalente rivela pienamente ciò che sta dietro alla sostituzione del concetto di comunità sociale e politica con il concetto di mercato del lavoro flessibile e polivalente. Che poi, in particolare in Italia, l’oligarchia economica capitalistica abbia mobilitato per la distruzione del vecchio liceo ancora “borghese” lo stuolo subalterno di pedagogisti pazzi, psicologi invasivi e sindacalisti semianalfabeti, derivato in gran parte dalla ex-sinistra contestatrice e nichilista, questo fa parte di una specifica miseria italiana, altrove meno presente, che tratteremo più avanti. Ciò che conta, invece, è comprendere che il concetto di paideia greca deriva dalla necessità storica di autoriconoscimento, autocoscienza, autodifesa ed autoprotezione di una società caratterizzata dal modo di produzione dei piccoli produttori e proprietari

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indipendenti. La filosofia greca, quindi, prima di essere caratterizzata dalla divisione in scuole contrapposte, è caratterizzata dal consenso unanime alla sostanziale unicità del modello di paideia. Più esattamente, philosophia e paideia sono una parola sola, o meglio un concetto sociale unico. Che cosa “sostanzia” questo unico concetto sociale? Il discorso sarebbe lungo, ma cercherò di riassumerlo nel paragrafo seguente. Una società fortemente caratterizzata dal modo di produzione dei piccoli proprietari indipendenti (si legga per esempio Le Opere e i Giorni di Esiodo), in cui praticamente lavoravano tutti e la presenza sociale degli schiavi era ancora marginale e non poteva caratterizzare il profilo culturale complessivo della comunità, era anche fortemente seguita dalla reazione corale all’ingiustizia (adikia), e pertanto dal concetto alternativo di giustizia (dike) come reazione all’ ingiustizia. Come è noto, il no viene concettualmente prima del sì, che implica un consapevole consenso che viene temporalmente dopo una (tacita o esplicita) messa in discussione. Il sentimento di giustizia (dike) come reazione a un fatto percepito come frutto di ingiustizia (adikia) è infinitamente più importante e originario di qualsiasi (pur esistente) concezione del mondo apollinea e/o dionisiaca, dal momento che il dilettante baffuto Nietzsche, che credeva sinceramente che la società greca fosse caratterizzata da proprietari di schiavi colti mantenuti da schiavi invidiosi, aveva un rapporto reale con la grecità preellenistica forse superiore a quello che intratteneva con i mongoli del deserto di Gobi e con i pigmei Mbuti del Congo, ma non molto. Il concetto greco di giustizia (dike) deve quindi farci da guida per la comprensione della stessa educazione greca (paideia), perché ci fa comprendere che il modello di educazione di una società libera di piccoli proprietari e produttori indipendenti era prima di tutto sensibile alla smisuratezza del potere (tirannia) e delle ricchezze (crematistica). I piccoli proprietari e produttori indipendenti, appunto perché lavorano tutti, sono sensibili all’acquisizione ingiusta di ricchezze, che intuiscono essere sempre legata

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a qualche preventiva ingiustizia (adikia). C’è qui ovviamente anche un forte residuo panteistico e naturalistico legato alla permanenza dell’unità ontologica di fondo fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale, unità che caratterizza l’insieme della mitologia greca, che ne fa nell’essenziale non tanto una “mitologia” in senso moderno, quanto una religione naturalistica comunitaria. L’insistenza moderna sul fatto che i greci disprezzassero il lavoro manuale (banausia) è fortemente esagerata, dal momento che può al massimo caratterizzare la mentalità dei parassiti schiavistici dell’ellenismo e dell’Impero Romano, ma non caratterizza affatto i greci dell’età classica. Il concetto di giustizia (dike) dei greci aveva sostanzialmente due aspetti, uno secondario e uno principale. L’aspetto secondario, sia pure quello meglio conosciuto (pensiamo alla Orestea di Eschilo), era la giustizia, come pena erogata per una giusta vendetta, e le divinità erano chiamate in causa come garanti simboliche della legittimità della pena (Oreste che uccide la madre uxoricida). L’aspetto principale era invece il concetto di giustizia di tipo sociale e comunitario, per cui la giustizia (dike) era soprattutto la distruzione dei poteri e delle ricchezze secondo misura (katà metron), e il massimo di ingiustizia (adikia) era appunto la smisuratezza, l’indeterminatezza e l’infinità smisurata delle ricchezze stesse, il tutto metaforizzato (si veda il frammento di Anassimandro, apparentemente il più enigmatico, e in realtà il più evidente e trasparente dei frammenti presocratici) con il termine di infinitoindeterminato (apeiron), che è ovviamente insieme cosmologico e sociale, data la fusione intuitiva ancora presente di macrocosmo naturale e di microcosmo sociale (altro che passaggio dal mito al pensiero razionale, come sostengono i dilettanti convinti che gli antichi greci fossero illuministi e positivisti!). A costo di ripetermi in modo ossessivo, confermo che tutto quanto dico sarà sempre incomprensibile se il lettore non effettuerà un riorientamento gestaltico della sua visione della grecità, smetterà di pensare che il suo periodo classico fosse caratterizzato dalla mentalità barbarica, e parassitaria prodotta dalla generalizzazione dei rapporti di produzione schiavistici, e comincerà finalmente a capire l’essen-

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ziale, e cioè che la fusione di individualismo e di comunitarismo che caratterizza appunto la grecità, la sua concezione di educazione onnilatarale all’autonomia e all’indipendenza (paideia), e la sua concezione di giustizia (dike), deriva esclusivamente dal “miracolo” per nulla miracoloso ma spiegabilissimo per cui essa era caratterizzata dal modo di produzione dei piccoli proprietari indipendenti. Apro una pittoresca parentesi. Oggi il concetto di giustizia (dike) dei greci è quasi completamente perduto, soprattutto in Italia. Con la fine del comunismo storico novecentesco realmente esistito, che con tutte le sue clamorose insufficienze faceva pur sempre da freno (katechon) al dominio barbarico e odioso del capitalismo finanziario incontrollato, è venuta meno (provvisoriamente, si spera!) l’idea di giustizia come ripartizione egualitaria corretta del potere e del godimento delle ricchezze, e si è imposta una miserabile e ristretta visione “giudiziaria” della giustizia, dovuta alla oscena sovraesposizione del potere giudiziario nella società capitalistica, di origine anglosassone (Locke) e poi americana (corte suprema USA, potere dei giudici, eccetera). L’idea di giustizia sociale viene diffamata in modo paranicciano come desiderio utopico-totalitario degli invidiosi livellatori, laddove per “giustizia” si intende o la legittima punizione dei criminali sanguinari (da “assicurare” appunto alla giustizia), oppure la scoperta della irrilevante corruzione di politici straccioni in combutta con oligarchi miliardari che li “ungono” per assicurarsi commesse pubbliche. Cerco di spiegarmi. Non intendo affatto negare, ovviamente, che assassini, rapinatori, mafiosi, corrotti e corruttori non debbano essere appunto “assicurati alla giustizia”. Certo che devono essere “assicurati” e anche puniti adeguatamente, secondo il sentimento popolare e non secondo le opinioni di psicologi, preti buonisti e assistenti sociali (con il limite dell’esclusione della pena di morte, una delle poche conquiste illuministiche veramente valide). Ma la giustizia secondo misura (dike katà metron) non è questo, e non c’entra nulla con questo. Esistono infatti politici probi e onesti,

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anche se in minoranza, ma la cosiddetta “corruzione dei politici” non ha assolutamente nulla di “immorale”, trattandosi di un comportamento funzionale statisticamente maggioritario. I cosiddetti “politici” sono infatti in stragrande maggioranza straccioni provenienti dalla piccola borghesia famelica e invidiosa o dalla aristocrazia operaia mediata dal sindacalismo semimafioso, che si vedono passare davanti flussi di denaro appartenenti alle oligarchie, e si chiedono necessariamente se non sia in fondo giusto che ne prelevino un po’ anche loro per assicurarsi alcune briciole che cadono dalle mense della oligarchia stessa (viaggiare in prima classe, comprarsi barche da diporto, ville con nanetti nel giardino, carne fresca di adolescenti moldave, eccetera). Il fenomeno è certo spiacevole, ma è un “danno collaterale” del capitalismo come lo sono le vittime civili dei suoi bombardamenti. Tornando ai greci, è quindi necessario approfondire maggiormente il concetto sociale e comunitario di giustizia (dike), perché esso sta alla base del concetto di giustizia di qualunque comunismo comunitario. 31. L’antichistica ispirata a Nietzsche (gli oziosi padroni di schiavi che ergano la grande cultura sulla base del lavoro dei rifiuti umani che li mantengono) o alla Arendt (gli antichi che fanno politica pubblica disinteressata contrapposta al privatismo individualistico moderno) non scoprirebbe un gatto neppure se quest’ultimo gli miagolasse davanti ai piedi. Gli antichisti marxisti sarebbero stati migliori, se in grande maggioranza non fossero stati concettualmente schiavi di una concezione allargata del modo di produzione schiavistico, che comincerebbe con i micenei e finirebbe con Giustiniano. Una simile rete ha maglie talmente larghe da non poter prendere pesci, perché i pesci ci passano necessariamente attraverso. Riprendere contatto con il nucleo comunitario della grecità presuppone rompere con Nietzsche, con la Arendt, ma anche e soprattutto con Stalin e con i suoi nipotini antichisti, che non cito qui per nome e cognome perché li disprezzo troppo.

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L’antichista, marxista George Thomson, vero e proprio “genio” nella ricostruzione del profilo culturale greco, ha accertato che nel comunismo primitivo anteriore al dispotismo comunitario (Hosea Jaffe) e alla strutturazione tributaria della società (Samir Amin) ciascun membro della comunità riceveva la giusta parte del suo lavoro come parte e “molecola” del lavoro collettivo. Nella mitologia greca le Moire rappresentavano le antenate simboliche del clan matriarcale, deputate dalla tradizione al mantenimento dei diritti di eguaglianza e della distribuzione egualitaria, del prodotto sociale. Analogamente le Erinni non erano in origine nient’altro che queste stesse antenate, nel loro aspetto negativo, in quando la loro funzione specifica era quella di punire coloro i quali trasgredivano le antichissime leggi religiose egualitarie impersonate dalle Moire. In base al principio dialettico indoeuropeo del numero tre, che poi il pensiero greco applicò alla trinità cristiana e il pensiero hegelo-marxiano alla stessa modernità storica, se le Moire si trasformavano dialetticamente in Erinni, le Erinni potevano trasformarsi dialetticamente in Eumenidi, e cioè in divinità del perdono per i trasgressori inconsapevoli della dike (si veda per esempio il perdono a Edipo nella tragedia di Sofocle Edipo a Colono).Il movimento dialettico Moire-­Erinni-Eumenidi indica già in modo implicitamente filosofico la tesi egualitaria, l’antitesi trasgressiva e peccaminosa e la sintesi riconciliativa. Altro che dionisiaco, apollineo, e altre fantasie del dilettante baffuto! Thomson dimostra che nel periodo di transizione dalla società tribale allo stato vero e proprio (transizione già studiata da Aristotele, con metodi certo non ancora “marxisti”, ma assolutamente soddisfacenti per la sua incredibile intelligenza pratico-storica) queste immagini femminili (la triade Moire-Erinni-Eumenidi) furono imparentate e subordinate a Zeus, immagine della monarchia di tipo greco. Zeus, infatti, siede a banchetto con tutti gli altri dèi, che non si inchinano e non si prosternano davanti a lui, sia pure riconoscendogli il primato di primus inter pares, e questo non può essere spiegato se non come trasposizione simbolica “celeste” di una monarchia collegiale semi-feudale, peraltro illustrata nei più

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piccoli dettagli dall’Iliade e dall’Odissea di Omero, considerate giustamente una vera e propria “enciclopedia tribale”. Zeus assegna la funzione suprema della giustizia (dike) a una divinità, la divinità della giustizia, che si chiamerà appunto Dike, la Giustizia. Il termine Dike ha avuto una ricca evoluzione semantica, studiata da Thomson, che accompagna l’evoluzione sociale all’interno del passaggio dalla monarchia collegiale tribale omerica alla nuova società politica dei piccoli proprietari e produttori indipendenti. Thomson ne evidenzia sei passaggi successivi: (1) Sentiero. Il termine “sentiero” (yol in turco, tao in cinese, eccetera) indica evidentemente il buon sentiero che la comunità deve seguire per non perdersi, smarrirsi e morire di fame e di sete. Si tratta di una sopravvivenza nomadica, che riguarda pressoché tutti i popoli del mondo. (2) Abitudine. Il sentiero ben segnato comporta l’abitudine a seguirlo. In proposito la stessa morale comunitaria (ethos, da cui etica) non è altro che la fissazione religioso-sacrale di abitudini, a loro volta viste come vere e proprie “verità” funzionali alla sopravvivenza comunitaria. Lo stesso Aristotele fissa molto intelligentemente lo stretto rapporto fra etica e abitudine. (3) Vendetta o Punizione. Si tratta proprio del caso di Oreste uccisore della madre. Tutti i commentatori sono d’accordo nell’interpretare il passaggio del diritto di punire dalla divinità alla comunità politica (nel caso di Oreste, il tribunale dell’Areopago di Atene) come la sanzione dell’avvenuta sovranità della polis sul diritto a giudicare. (4) Giudizio. Il giudizio, ovviamente, sta alla base del sistema giudiziario ateniese, che non aveva nulla a che fare con quello moderno, assegnato a specialisti assunti per concorso di cui si presuppone l’equità e la probità, ma era esercitato da giurie popolari (del tipo di quella che condannò a morte Socrate a maggioranza). La separazione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario (che non intendo affatto condannare) è tuttavia funzionale a un indebolimento della volontà politica, a sua volta funzionale a un

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aumento della sovranità economica capitalistica. Ripeto, non intendo con questo auspicare l’abolizione della cosiddetta “divisione dei poteri”. Ritengo infatti l’indipendenza della magistratura un principio migliore di quello della politicità diretta collegiale del giudizio (sempre che la magistratura sia veramente indipendente, e non come qualche volta oggi in Italia un insieme di bande settarie al servizio indiretto – e talvolta diretto – di cordate politiche concorrenti). Voglio soltanto richiamare all’attenzione un evidente fatto strutturale, coperto dal politicamente corretto liberale: la divisione dei poteri, lungi dall’essere una scoperta “progressiva” neutrale come la penicillina, è una funzione dell’indebolimento relativo del potere politico rispetto al potere economico capitalistico, e non a caso, infatti, il comunismo storico novecentesco (un dispotismo comunitario-egualitario) l’ha rifiutata. Ognuno poi ne pensi quello che vuole. (5) La Personificazione dell’idea di Giustizia. La personificazione della divinità, che ne permette l’attribuzione di volontà progettuali particolari, è l’anello di congiunzione filosofico-teologico fra la mitologia e la teologia monoteistica posteriore. Come ha spiegato in modo insuperabile Spinoza nell’Appendice alla Prima Parte della sua Etica Dimostrata in modo geometrico la concezione personalistica della divinità (chiamata anche a volte teismo, o teismo razionale) è il minimo comun denominatore fra le concezioni idolatriche pre-monoteistiche e le posteriori concezioni monoteistiche ebraica, cristiana e musulmana. Ognuno ovviamente ne pensi poi quello che vuole. In questo contesto, questa personificazione greca non è però monoteistica, in quanto è inserita in una visione cosmologica di tipo naturalistico (nessuna creazione divina del mondo, eccetera). (6) L’Idea Astratta di Giustizia. Qui siamo approdati finalmente allo spazio filosofico greco propriamente detto. L’idea astratta è un concetto, e la filosofia si basa esclusivamente su concetti. Nel nuovo ordine sociale diviso in classi, sia pure all’interno non di un (non ancora esistente) modo di produzione schiavistico, ma all’interno di una società di piccoli proprietari produttori indi-

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pendenti minacciati dall’irruzione della smisuratezza caotica della ricchezza e della riduzione in schiavitù per debiti, la Dike vigila, proprio come la triade femminile Moire-Erinni-Eumenidi vigilavano sull’antico ordine sociale. E così come le Erinni punivano la trasgressione alla Moira, nello stesso modo la Dike punisce le trasgressioni al Metron. Ma cos’è esattamente questo Metron? 32. Il concetto di misura (metron) non è solo il concetto fondamentale della filosofia greca antica, ma è anche l’“anello di congiunzione” fra questa sapienza politica, etica e umana elaborata nell’irripetibile contesto storico-geografico di una società caratterizzata da un modo di produzione di piccoli proprietari e di piccoli produttori indipendenti, e la nostra attuale discussione sulla definizione delle coordinate di massima del comunismo comunitario. Si è qui di fronte, in forma addirittura pura e cristallina, a un esempio di genesi particolaristica (Genesis) che diventa un fattore di validità universalistica per tutte le società umane (Geltung). Nei poemi omerici la parola metron è usata soltanto nei significati concreti di stecca di misura, oppure di quantità definita di grano, olio e vino (i tre grandi prodotti caratteristici della civiltà greca). I poemi omerici caratterizzano la civiltà micenea sia pure con interpolazioni posteriori, ma noi conosciamo relativamente poco questa civiltà, perché i pochi testi tradotti dall’alfabeto cosiddetto Lineare B, pur essendo leggibili in quanto espressione di una forma arcaica di greco, contengono soltanto elenchi di prodotti e nomi di autorità. Sappiamo però con certezza che non si trattava di una società schiavistica (nonostante la presenza di schiavi domestici, comuni a tutte indistintamente le società antiche), ma di una sorta di società feudale che dominava in modo tributario comunità autonome di contadini e artigiani liberi. In queste società militari il problema della giustizia si poneva, soltanto nei termini della equa ripartizione dei bottini di guerra (si veda l’ira di Achille contro Agamennone). E tuttavia con la fine della società

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militarfeudale micenea e con il formarsi di una società di piccoli produttori e proprietari indipendenti il termine metron già in Esiodo (autore fondamentale, sistematicamente ignorato da tutti i dilettanti, baffuti o glabri che siano) comincia a significare anche “moderazione”. Quale moderazione? Non si tratta di una semplice virtù morale individuale di tipo aristotelico o kantiano. Si tratta di una funzione sociale di mantenimento della comunità. Appare infatti chiaro che la mancanza di moderazione non è un semplice peccato (la successiva “avarizia” cristiana), ma è un pericolo mortale per la stessa esistenza della comunità. I nuovi rapporti di classe derivati dall’introduzione massiccia della moneta coniata e della connessa schiavizzazione per debiti portavano infatti alla dissoluzione (phthorà) della comunità in una guerra civile generalizzata fra ricchi e poveri, e si trattava di convincere i ricchi che sarebbe convenuto anche a loro limitare la loro infinita ingordigia. Come ha detto felicemente Jean-­Pierre Vernant, uno dei pochissimi antichisti che mostra una minima conoscenza del mondo greco e non lo vede alla luce di retroazioni categoriali moderne (greci credenti e greci atei, greci di sinistra e greci di destra, greci materialisti e greci idealisti, e via degenerando), la democrazia antica nasce da un approccio razionalistico e non distruttivo all’impossibilità di eliminare una volta per tutte la lotta di classe, e dalla connessa necessità di limitarla non con sproloqui genericamente buonisti e assistenzialisti (come oggi), ma con la concretezza di una sottomissione dei movimenti economici alla decisione politica (Polanyi). Karl Marx espresse per la prima volta in modo storico e sistematico l’intuizione che fu già di Solone d’Atene, per cui «la ricchezza non conosce limiti». Più di duemila anni dopo Solone Marx scrive: La circolazione semplice delle merci – la vendita per la compera – serve da mezzo per un fine ultimo che sta fuori dalla sfera della circolazione, cioè per l’appropriazione di valori d’uso, per la soddisfazione di bisogni. Invece, la circolazione del denaro come capitale è fine a se stessa, poiché la valorizzazione del valore esi-

223 ste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza misura.

Non so se Marx, scrivendo queste righe, pensasse a Solone e ad Aristotele. Io credo di sì, ma certamente non posso dimostrarlo, e non è comunque neppure necessario, dal momento che qui non si sta facendo della citatologia accademica (l’ultima categoria che mi interessa convincere è proprio quella dei professori universitari, nella loro stragrande maggioranza servi ideologici delle oligarchie capitalistiche!), ma della autonoma riflessione culturale e filosofica. L’economia della smisuratezza legittima nasce solo con Adam Smith, e Marx non è per nulla un suo successore come opinano le storie del pensiero economico, che collocano generalmente Marx in ordine cronologico dopo Quesnay, Smith, Ricardo, Malthus e Say). L’idea di economia di Marx proviene direttamente dalla critica della crematistica di Aristotele (Polanyi) e dalla radicalizzazione egualitaria del sistema dei bisogni di Hegel (Pierre Naville). L’idea di comunismo comunitario di Marx deriva infatti dal concetto di bisogno moderato, limitato e padroneggiato di Epicuro, non certo dai deliri sui desideri illimitati di Toni Negri. Alle spalle di Marx, che è un comunista comunitario e non un individualista di “estrema sinistra” (chi pensa questo dovrebbe utilmente rivolgersi a Max Stirner, purché non lo scambi per Marx) ci stanno Aristotele (la distinzione fra economia e crematistica), Epicuro (la ricerca del piacere e della felicità come godimento di bisogni limitati e di solidarietà fra amici), e infine Hegel (il sistema dei bisogni sociali come oggetto autentico dell’economia politica). Come si vede, senza un riorientamento gestaltico radicale sull’intero profilo culturale dei greci è del tutto inutile blaterare genericità sul comunismo comunitario. 33. È bene tornare sul concetto di “corruzione” (phthorà) per ristabilirne il significato di messa in pericolo radicale e mortale della coesione sociale comunitaria, che ricordiamo essere sempre stata per i greci non l’opposto dell’individualismo, ma al con-

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trario il presupposto per la stessa fioritura dell’individuo libero e indipendente. Oggi, infatti, siamo di fronte a due equivoci che ci circondano come uno sciame di vespe. In primo luogo, l’approccio dicotomico di origine neokantiana (teoria delle antinomie nella Critica della Ragion Pura) diffuso dal papa liberale e neokantiano Norberto Bobbio porta il pensiero politico accademico di oggi a mettere in contrapposizione polare il comunitarismo e l’individualismo, per cui se c’è l’uno non c’è più l’altro e viceversa, laddove appunto per i greci il mantenimento della coesione comunitaria era il presupposto politico della fioritura dell’individualità libera e indipendente (su questo non c’è che l’imbarazzo della scelta, tanto le fonti greche sono abbondanti), in quanto la società dei piccoli produttori e proprietari indipendenti doveva difendersi dal doppio pericolo del dispotismo comunitario (l’impero persiano dell’inginocchiamento servile davanti al Re dei Re) e della ricchezza corruttrice illimitata. In secondo luogo, il fatto che oggi giornalisti pagatissimi e demagoghi pagliacceschi deviano l’attenzione della plebe (un popolo senza sovranità politica regredisce infatti necessariamente a plebe, e non sono certamente io che uso una parola spregiativa per elitismo aristocratico) verso la cosiddetta “casta”, come se il problema non fossero gli Agnelli-Elkann ma i poveri straccioni che prelevano una piccola percentuale per poter consumare un centesimo di quello che consumano “onestamente” gli Agnelli-Elkann e i loro valletti e sicofanti, porta a dimenticare il significato greco originale del termine “corruzione” (phthorà). La corruzione c’è quando un’intera società si corrompe, quando le differenze di potere e di ricchezza diventano illimitate, quando vengono meno i restanti legami comunitari, non certo quando la plebaglia scatenata dalle urla dello scamiciato Antonio Di Pietro e del guitto miliardario Beppe Grillo insegue straccioni con le pezze al sedere che approfittano della loro collocazione nella “filiera” della intermediazione degli investimenti pubblici per prelevare una percentuale da investire in Viagra, pellicce per amanti, macchine da corsa e vacanze nei posti frequentati dai vip anglofoni protagonisti dei giornali scandalistici. Costoro non sono la “casta”. La casta è unicamente

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formata dai personaggi della oligarchia finanziaria. I politici straccioni non sono la casta, ma unicamente comparse intercambiabili della commedia dell’arte contemporanea. 34. Tornando ai greci, e cioè a un argomento serio (ma mi si conceda di tanto in tanto di passare dalla tragedia al dramma satiresco – anche gli ateniesi lo facevano), è bene riflettere sul fatto che i primi filosofi erano quasi tutti legislatori o candidati legislatori, e non studenti del primo anno di chimica – fisica che dissertavano sull’acqua e sull’aria. Legislatori erano Pitagora e Parmenide. Legislatori erano Solone e Clistene. Amico di legislatore (Ermodoro) era Eraclito di Efeso. E persino chi legislatore non era (Socrate, Platone e Aristotele) ragionava sempre come se fosse stato un legislatore. Questo fatto, oscurato dalla manualistica più stolida e dossografica, deve invece essere messo al centro dell’attenzione, in quanto la filosofia antica nasce proprio come legislazione comunitaria ideale, e senza questa chiave interpretativa non si può comprendere. I filosofi antichi, quindi, pensavano da legislatori comunitari, e questo sia che lo fossero veramente, sia che non lo fossero ma volessero esserlo (e qui l’esempio del Platone della Repubblica e delle Leggi è addirittura palese). Certo, avanzavano sempre anche ipotesi cosmologiche (e si pensi al Platone del Timeo) dissertavano sul vuoto (Democrito) e sul pieno (Aristotele), sull’acqua (Talete) e sull’aria (Anassimene), eccetera, ma tutto questo era per così dire soltanto il sostrato naturalistico di una attività spirituale di legislazione ideale contro la corruzione della comunità, da combattere in nome della giustizia (dike) e della misura (metron), per cui cercavano la giustizia e la misura nella natura e nei rapporti geometrici (Pitagora) come legittimazione cosmologica della giustizia e della natura sulla terra, e sulla terra “sociale” in particolare. La filosofia era quindi concepita non certo come approssimazione mitica alla scienza positivistica, ma come attività volta a fornire un freno (katechon) ai processi di dissoluzione (phthorà) causati

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dall’irruzione della smisuratezza delle ricchezze monetarie all’interno di una società che, lungi dall’essere una società di oziosi privilegiati mantenuti da schiavi-bestie (andrapoda), secondo la leggenda metropolitana del dilettante baffuto, era una comunità di piccoli produttori e proprietari indipendenti, secondo il modello delle Opere e i Giorni di Esiodo. Qui il discorso si farebbe lungo e analitico, e lo spazio impedisce di approfondirlo. E tuttavia, per chi lo volesse approfondire (non mi rivolgo, infatti, a superficiali chiacchieroni) mi limito ad alcune suggestioni. Anassimandro dice nel suo frammento che bisognerà pagare il fio, e cioè pagare il prezzo, del fatto che ci originiamo da una sorta di infinito-indeterminato (apeiron). Questo frammento si è prestato a veri e propri deliri di destoricizzazione sapienziale (purtroppo anche Heidegger ci è cascato), e c’è stato chi gli ha fatto dire che morendo paghiamo il prezzo, con la nostra finitezza, dell’infinitezza dello spazio e del tempo. Tutto è possibile, anche l’incarnazione di Budda in un Bambino Tibetano Sacro e l’esistenza dei marziani. Ma è più plausibile pensare che l’infinitezza di cui bisognerà pagare il fio sia l’infinitezza delle ricchezze smisurate che nella loro smisuratezza possono portare alla corruzione dell’intera comunità, particolare e universale. A proposito di Eraclito, già il grammatico alessandrino Diodoto aveva affermato che il suo poema Sulla natura non parlava affatto di natura, ma parlava della società politica, e la “natura” ci stava soltanto in funzione di ornamento (oggi diremmo di “metafora”). Eraclito prende atto del fatto che ogni comunità politica è in quanto tale preda della, guerra (polemos), evidente metafora della ferocia dei conflitti di classe per l’appropriazione del plusprodotto, e che l’unica possibilità di contrastarla era l’isonomia, e cioè la costituzione democratica. Sostenendo che uno solo è meglio di cinquanta, se è il migliore, Eraclito non intende affatto sostenere una tesi “aristocratica”, ma al contrario dire che se anche la maggioranza della plebe efesina preferiva il lusso privato all’ombra del dominio persiano, lui stesso non ne teneva alcun conto, in quanto un solo uomo libero è meglio della plebaglia sottomessa. Se questo

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è essere “aristocratici”, allora anche Marx e Gramsci erano “aristocratici”. Tutto questo è stato ben dimostrato dall’antichista marxista italiano Capizzi, ma è difficile se non impossibile mostrare ai ciechi e parlare ai sordi. L’essere (to on) di Parmenide si è sempre prestato a esercizi di sapienziale idiozia, o piuttosto di quella che Hegel a suo tempo ha genialmente chiamato “vuota profondità”. In Italia si è sempre distinto in questo un buffo personaggio della commedia filosofica dell’arte, corsivista ben pagato del «Corriere della Sera», che da decenni sentenzia che la follia dell’Occidente (oh, perbacco!) consiste nel credere nel divenire delle cose, e che in questa follia sono caduti Platone, il cristianesimo, il comunismo, il capitalismo e la tecnica. I capitalisti amano moltissimo queste critiche di tipo generico-apocalittico, perché comprendono bene che se la colpa è di tutti, senza nome e cognome, non è più di nessuno, e soprattutto non è più la loro. Devo ammettere che la lettura di queste sapienziali e astoriche idiozie è per me particolarmente fastidiosa, in quanto ellenista, così come sarebbe fastidiosa una “stecca” di un tenore per un amante dell’opera lirica. In realtà Parmenide, che era un normale pitagorico secondo tutte le testimonianze storiche, metaforizza con il contrasto fra l’Essere e il Nulla il contrasto fra una buona legislazione comunitaria, che appunto perché buona non deve essere più cambiata e deve restare immutabile, e una cattiva legislazione, che porta appunto al “nulla”, metafora della dissoluzione comunitaria definitiva. Potrei ovviamente fare altri esempi, e soprattutto fare della filologia greca. Non ce n’è però né lo spazio né la necessità. È invece necessario cominciare a riflettere sul termine greco di logos, termine che tutti i superficiali ritengono di conoscere perfettamente, laddove una vera riflessione su di esso porta a vere e proprie sorprese. Il logos, infatti, non è per nulla una generica “ragione”, un generico “discorso”, o una generica “parola”. Il logos è stato prima di tutto, in una società di piccoli proprietari indipendenti minacciati dalla dismisura delle ricchezze, il freno

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(katechon), e il modo per assicurare la giustizia (dike) attraverso la misura (metron). Ma vediamo meglio, perché se esiste un codice d’accesso teorico al comunismo comunitario, è proprio questo. 35. E tuttavia, l’aspetto più interessante del termine logos sta in ciò, che esso appare storicamente in due forme distinte, e cioè in una forma rigorosamente razionale e filosofica (il logos come loghizomai, e cioè la ragione come calcolo) e in una forma religiosa (il logos come verbum del Vangelo di Giovanni) come parola che annuncia la salvezza. In questa sede è ovviamente impossibile approfondire la questione, e ne parlerò soltanto a proposito dell’aspetto sociale del comunitarismo. Sia i greci antichi sia i primi cristiani erano entrambi comunitari, e questo non è messo in dubbio neppure dall’individualista anomico più settario e scatenato. Tuttavia, la prima versione del logos rientra nel mondo della piccola proprietà di produttori indipendenti, e perciò ha un carattere interamente politico-filosofico, mentre la seconda versione del logos si colloca in una religione di salvezza (gnostica o no che sia) all’indomani della sconfitta storica e della sparizione della società dei piccoli proprietari indipendenti, sostituita dal dispotismo schiavistico più sfrenato e integrale. Nei due significati di logos, forse il termine più (apparentemente) enigmatico della tradizione filosofica occidentale, ci sta una delle chiavi della comprensione del comunismo comunitario. Esaminiamoli dunque separatamente, senza entrare nei particolari, ma limitandoci agli elementi fondamentali del problema. Il comunitarismo storico occidentale, infatti, ha avuto sia una variante politica, razionalizzata dalla filosofia, sia una variante religiosa, razionalizzata dal messianesimo teologico. Queste due varianti non si escludono, ma sono largamente complementari. Questa è la ragione per cui il comunitarismo, a differenza del positivismo laico e del marxismo sovietico, non sente affatto il bisogno di lottare frontalmente contro il sentimento religioso, e questo del

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tutto indipendentemente dal fatto, largamente accidentale, che chi lo pratica e lo sostiene sia individualmente ateo o “credente”. Al lettore non sfuggirà certamente la delicatezza e l’enorme importanza di questo passaggio. L’adesione o meno a una religione monoteistico-­universalistica, oppure la convinzione o meno di un ateismo radicale, passano a lato e non incrociano una convinzione comunistico-comunitaria. Ma per capire meglio questo è necessario riflettere separatamente sulla concezione greca e sulla concezione cristiana di logos, a partire dalle loro innegabili differenze ma anche dalle loro segrete convergenze. 36. Una corretta comprensione dei tre significati principali del termine logos è forse il migliore “codice di accesso” allo spirito generale della filosofia greca. I tre significati principali di logos, in ordine genetico, sono il calcolo aritmetico-geometrico, e cioè matematico, dei rapporti fra le grandezze nel mondo della natura, e quindi per estensione anche nel mondo della società; il linguaggio della parola parlata, nel senso di linguaggio pubblico concernente la comunità e non solo le opinioni personali basate sull’interesse del singolo; e infine, ragione con pretese veritative universalistiche sostenibili in uno scambio logico (dialogos). I tre significati sono intrecciati e derivano dialetticamente l’uno dall’altro, ma è consigliabile impadronirsi prima concettualmente dei tre significati uno per uno, per poi vederne meglio la connessione. Parlando di “ordine genetico” intendo dire che occorre cercare nei rapporti sociali e comunitari, e nella loro legittimazione e/o delegittimazione, il significato semantico dei concetti. Alfred Sohn-­Rethel, che compì in proposito una meritoria e pionieristica ricerca, tuttora degna di ammirazione (cfr. Lavoro intellettuale e lavoro manuale, Feltrinelli, Milano 1977), impostò correttamente il problema, ma a mio avviso sbagliò totalmente la soluzione. Secondo Sohn-Rethel, il pensiero astratto che caratterizza la filosofia greca fin dalle sue origini deriva geneticamente dalla diffusione della moneta coniata, che rendendo lo scambio di beni astratto come valore di scambio astrattamente puro e generico, genera un

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pensiero teorico altrettanto astratto e puro, che trova nella categoria generica e astratta di Essere (il to on di Parmenide) il suo coronamento. A mio avviso questa soluzione è totalmente errata, anche se il problema resta correttamente impostato, perché la genesi più probabile del concetto parmenideo di Essere, lungi dall’essere trovata in una astrazione generalizzante derivata dalla astrazione della moneta coniata, nasce proprio dal suo contrario, e cioè dal fatto che la comunità dei piccoli produttori e proprietari indipendenti reagisce all’introduzione della moneta coniata, fattore immediato di dissoluzione e di corruzione sociale e di schiavizzazione per debiti, e reagendo a essa non conia astrazioni concettuali, ma conia al contrario concretizzazioni comunitarie dirette. Lo stesso concetto parmenideo di Essere, infatti, è proprio la fissazione atemporale, necessariamente astratta, di una legislazione comunitaria perfetta che non deve essere cambiata pena la dissoluzione sociale. Influenzato dal marxismo estremistico degli anni Venti e Trenta, Sohn-Rethel non sembra mai capire che la società dei piccoli produttori e proprietari indipendenti, che non è assolutamente una società a modo di produzione schiavistico, non ragiona in base ad astrazioni alienanti, del tipo dell’economia politica di Smith, ma ragiona sempre in modo concretistico (l’educazione all’indipendenza, la giustizia intesa come corretta distribuzione di potere e di ricchezza, la misura come criterio di contrapposizione limitato all’infinito-indeterminato, la decisione democratica pubblica come freno alla dissoluzione comunitaria, eccetera). Ho aperto questa parentesi a propositi del meritorio Alfred SohnRethel perché questo autore, “snobbato” dai francofortesi ed emarginato in modo odioso perché estraneo alle oligarchie accademiche, ha almeno saputo impostare il problema della deduzione sociale delle categorie, laddove domina malcostume giornalisticoaccademico di fornire interpretazioni generiche ed astoriche, e pertanto innocue, delle origini della sapienza greca (tanto per non fare nomi, Emanuele Severino e Umberto Galimberti). È però indispensabile ricordare ancora una volta che per capire il significato sociale e comunitario del termine greco di logos bisogna

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prima di tutto effettuare il sopraricordato riorientamento gestaltico, per cui questo termine (più esattamente, questo intreccio di tre termini) non corrisponde assolutamente ai significati moderni (moderni = postseicenteschi) di calcolo, di linguaggio e di ragione. Il punto di vista della asfissiante dossografia è più o meno quello che induce a pensare che i naturalisti ionici si occupassero, sia pure in modo primitivo e poco informato, di ciò di cui si occupano gli astrofisici, gli studiosi del big bang, i seguaci di Darwin sulle origini della specie umana e animale, in pratica gli scienziati moderni, che Pitagora e i pitagorici si occupassero degli stessi oggetti matematici e geometrici dei matematici moderni, e che infine la discussione fra Socrate (sostenitore dell’esistenza della verità) e i sofisti (sostenitori del punto di vista scettico, fallibilistico, relativistico e convenzionalistico) fosse una anticipazione dei conflitti moderni fra lo scettico Hume e il veritativo Hegel, o fra lo scettico Rorty e il veritativo Lukács, eccetera. Ebbene, niente di tutto questo. Il punto di vista scettico-relativistico e convenzionalistico viene fatto risalire al famoso detto di Protagora, che mi permetterò di tradurre così: «L’uomo è la misura di tutte le cose, sia delle cose che ci sono che delle cose che non ci sono». Dal momento che, in assenza di una macchina del tempo, non possiamo andare a parlare con Protagora per chiedergli personalmente dei chiarimenti, è evidente che mentre il termine “misura” è chiaro, il termine “uomo” non lo è, perché potrebbe significare o l’uomo in quanto natura umana comune (e in questo caso, Protagora non sarebbe un relativista alla Rorty, ma un veritativista alla Ratzinger, perché il criterio di verità ci sarebbe, e sarebbe la corretta interpretazione razionanistica e universalistica della natura umana), o più probabilmente ogni singolo uomo diverso dall’altro, per cui in effetti Protagora (insieme con il suo amico avvocato Gorgia) sarebbe il fondatore del relativismo e del convenzionalismo moderni. Ma anche assumendo l’ipotesi che la seconda ipotesi relativistica sia giusta, egualmente il diavolo si nasconde nel dettaglio. Prota-

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gora non usa il termine “cosa”, ma usa il termine merce (chrema, chremata), per cui è del tutto legittimo e filologico tradurre così: «Ogni uomo valuta diversamente le merci che gli interessano individualmente, sia le merci a disposizione sia quelle che non sono a disposizione». Mi rendo conto che questa mia interpretazione suonerà assurda e provocatoria per le orecchie dotte, pie e politicamente corrette, ma senza prendere in considerazione ciò che suona assurdo a prima vista la cosiddetta “ermeneutica” resterebbe soltanto una paroletta che connota lo snobismo accademico. All’interno della comunità politica della società dei piccoli proprietari e produttori indipendenti esisteva una divisione essenziale fra ciò che era privato (to idiotikòn) e ciò che era pubblico (to demosion). Sofisti e avvocati (e cioè Protagora e Gorgia) si facevano pagare profumatamente non perché fossero personalmente avidi (anche se probabilmente lo erano anche), ma perché non si occupavano programmaticamente del pubblico (demosion), ma solo del privato (idiotikòn) e quindi vendevano profili educativi, competenze retoriche e dialettiche, informazioni astronomiche e musicali, orazioni giudiziarie difensive, eccetera, esattamente come si sarebbero potute vendere scarpe, pesci o mobili. La dossografia ci parla di un Socrate, pensionato probabilmente benestante, che insegnava nell’agorà senza farsi pagare, mentre Protagora stava a casa sua dando lezioni a pagamento. Sembra di avere a che fare, da una parte, con un pensionato maniaco e chiacchierone, e dall’altra con un accademico mercuriale. Sciocchezze e stupidaggini. Socrate non si faceva pagare non perché avesse una pensione decente o risparmi sufficienti (con Santippe che comunque brontolava giustamente, perché fare la spesa costava anche nell’antica Atene), o perché lo mantenessero Crizia, Critone o Fedone, ma perché parlava, in nome dell’interesse pubblico (demosion), attività che per i greci era comunitaria, e quindi per definizione gratuita. Del resto, lo stesso Socrate dice di essere una sorta di moscone

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fastidioso che tormenta il nobile cavallo della polis degli ateniesi per impedirgli di dormire sui propri allori. Ora, un moscone filosofico era di fatto un funzionario pubblico, o se si vuole un sacerdote laico della comunità. Altro che pensionato chiacchierone che insegnava gratis per puro disinteresse personale! Molti studiosi (fra cui in particolare Olof Gigon, ma non solo) hanno sostenuto che ad Atene c’erano tre distinti teatri pubblici, il teatro tragico di Eschilo, Sofocle ed Euripide, il teatro comico di Aristofane e infine il teatro filosofico di Socrate. Ma se il teatro tragico aveva di mira la purificazione (katharsis), e il teatro comico la satira sociale dei costumi, il teatro filosofico aveva di mira la pratica del logos. Il dialogo socratico, lungi dall’essere una sorta di libero talk-show per presenzialisti e narcisisti deficienti che opinano a ruota libera, era una sorta di cerimonia rituale in cui il logos era messo in pubblico (demosion), e la stessa tecnica rigida cui era necessariamente soggetto nei suoi tre momenti successivi confessione preliminare di ignoranza, ironia, tecnica di parto maieutica, e infine accordo possibile su di una definizione comune, horismòs, omologhia), era una sorta di rito formale, probabilmente di origine pitagorica. Il dialogo socratico, severissimo rito di analisi del logos, era concepito come una vera e propria cerimonia pubblica (demosion), in quanto cerimonia pubblica comunitaria era gratuita (come gratuita erano i teatri tragico e comico), e il presupposto veritativo sostenuto da Socrate non era una opinione filosofica fra le altre, ma era il presupposto comunitario obbligatorio, in quanto la verità della comunità stava proprio nella sua difesa contro la corruzione e la dissoluzione portate dal dominio degli interessi privati (chremata, pleonektein, idioticon). Il teatro socratico (sokratikòs logos) era quindi una cerimonia pubblica ateniese come la tragedia di Sofocle o la commedia di Aristofane. Si trattava di una cerimonia pubblica comunitaria, che l’individualismo moderno non riuscirà mai a capire. E tuttavia, il teatro del logos di quale logos trattava?

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37. Il significato fondamentale di logos non era quello di parola, linguaggio o ragione, ma era quello di calcolo. E il calcolo non era il calcolo astratto della matematica moderna post-­seicentesca, messo a servizio delle scienze della natura di Galileo e di Newton, ma era un calcolo sociale e comunitario, volto a trasporre le armonie della natura e della musica (non a caso Pitagora parte dalla scoperta dei rapporti musicali) nell’ambito dei rapporti sociali e politici. Per usare un termine moderno, Pitagora non aveva in testa una facoltà di matematica, ma una facoltà di scienze politiche. Il calcolo doveva servire in via esclusiva a stabilire la giustizia (dike), la misura (metron), il freno contro la dissoluzione sociale (katechon), la corretta educazione fisica e spirituale del cittadino-soldato (paideia), l’equilibrio fra gli interessi privati e il bene pubblico (isorropia), e infine, bene più alto di tutti, la concordia politica (omonoia). Pitagora si muove ovviamente nel quadro della corrispondenza ontologica fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale, e quindi anche della omogeneità logica e ontologica fra le categorie del pensiero e le categorie dell’essere. Nessun pensatore greco, ma proprio nessuno, ma assolutamente nessuno, avrebbe mai potuto assumere il punto di vista di Kant sulla cosiddetta separazione fra gnoseologia e ontologia, categorie del pensiero e categorie dell’essere, eccetera. Dicendo nessuno intendo proprio dire nessuno. Lo ripeto: nessuno. Non insisterei tanto in modo pittoresco sulla totale incompatibilità fra l’intero pensiero greco e quello di Kant se non ci fosse sotto un problema generale. Il pensiero moderno è infatti in gran parte kantiano, ha respinto il ristabilimento del punto di vista greco fatto da Hegel, perché ci ha visto giustamente un pericolo di scivolamento marxista, e quindi non ha nessuna possibilità di cogliere il cuore del logos greco. Il logos greco, tutto il logos greco, si basa sull’unione di logica e di ontologia e di categorie dell’essere e del pensiero, perché il suo compito non era quello di delegittimare “criticamente” una inesistente metafisica religiosa monoteistica di normatività politica e sociale (il problema della protoborghesia da Cartesio a Kant, basato sulla riduzio-

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ne della verità a certezza del rappresentante), ma era quello di assicurare la corrispondenza ontologia fra l’armonia della natura e l’armonia della comunità. Può sembrare inutile la riaffermazione della scoperta dell’acqua calda, per cui i greci non erano kantiani (e come avrebbero potuto esserlo, visto che Kant è vissuto venti secoli dopo di loro?). Eppure, se non si coglie questo elemento differenziale con il pensiero moderno non si potrà capire nulla dei greci. Mancando di un asfissiante apparato sacerdotale monoteistico da delegittimare con un profilo criticistico necessariamente basato sulla distinzione fra categorie gnoseologiche e categorie ontologiche, i greci potevano rivolgersi direttamente al problema comunitario senza nessuna finzione trascendentalistica. Il logos dei greci (e non solo dei pitagorici) era quindi uno strumento diretto di calcolo sociale e comunitario. I grandi legislatori come Solone e Clistene si ispirarono appunto a questo logos per studiare direttamente il modo di dividere i cittadini in unità amministrative in cui potessero “equilibrarsi” i ricchi e i poveri, e non potessero polarizzarsi tutti da una parte o tutti da un’altra. In particolare, la riforma di Clistene (considerato correttamente dal francese Levêque un pitagorico ateniese), che instaurò la democrazia ateniese, divise i cittadini in ricchi abitanti della costa (paralici), in abitanti della pianura cittadina (pediaci), e i poveri abitanti delle zone montagnose dell’Attica (acriti). Una volta divisi, effettuò una mescolanza (anamixis) creando nuove circoscrizioni amministrative e politiche (demoi) in cui c’erano insieme ricchi, mero ricchi e poveri. La democrazia, quindi non significa a rigore semplice “potere del popolo” (che si direbbe in greci laokratia, in un significato semantico che suonerebbe oggi di “estrema sinistra”) ma significava potere di una comunità politica organizzata pitagoricamente in demi. Solo con la guerra del Peloponneso, e cioè la grande guerra fra Atene e Sparta parzialmente narrata da Tucidide, si afferma pienamente il contrasto fra democratici e oligarchici. È curioso, anche se dialetticamente comprensibile, che una società militare e collettivistica non basata sulla proprietà

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privata come Sparta diventasse la guardina armata di tutte le oligarchie proprietarie nemiche della democrazia, e nemiche della democrazia perché la democrazia non era quella di oggi (una copertura plebiscitaria di legittimazione della più ripugnante oligarchia che abbia mai dominato il mondo nei tempi storici a partire dalla piramide di Cheope), ma perché era una struttura sovrana sulla ripartizione delle ricchezze. Era questo, quindi, il logos dei greci. Prima di tutto, un calcolo sociale dei rapporti interni alla comunità. Certo, non un calcolo comunista, se non all’interno dei gruppi dirigenti (Pitagora, Platone, eccetera), ma comunque un calcolo sociale e comunitario. Se non capiamo questo, e cioè che si trattava di un calcolo sociale di equilibrio (isorropia) all’interno di una società di piccoli produttori indipendenti, il codice d’accesso alla grecità ci è precluso. Questo codice di accesso alla grecità è completamente precluso a tutti gli antichisti (un solo nome: Mario Vegetti) che continuano a muoversi all’interno di due errori di fondo. In primo luogo, all’interno del rifiuto di distinguere fra modo di produzione schiavistico e modo di produzione dei piccoli produttori e proprietari indipendenti retrodatando erroneamente al tempo di Solone, Clistene e Pericle le strutture economiche e la mentalità sociale della più tarda epoca ellenistico-romana, quella sì veramente schiavistica. In secondo luogo, retrodatando ai greci la moderna distinzione fra Destra e Sinistra, codice religioso di tutti gli intellettuali “progressisti”, inventandosi una contrapposizione inesistente fra i pensatori religiosi dell’acropolis, considerati di “destra”, e i pensatori naturalisti e materialisti dell’agorà, considerati di “sinistra” (parlo evidentemente di proiezioni valoriali fantasmatiche, non di categorie storiografiche), ignorando che il “sinistro” democratico Clistene si era messo alla scuola del “destro” aristocratico Pitagora. E tuttavia, lasciamoci alle spalle queste miserie della retroazione modernizzante. Del resto anche il grande Engels ci era caduto, inventandosi un’inesistente contrapposizione fra materialisti e idealisti, iniziata dai greci e terminata nel materialismo dialettico di Stalin, contrapposizione inesistente che ha di fatto impedito per

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quasi un secolo una ricostruzione comunitaria sensata del pensiero antico. Per questo il lettore noterà che mi sto esprimendo un po’ sopra le righe. O ci liberiamo di coloro che ci hanno imposto criteri inadatti, perché indebitamente retroattivi (acropoli contro agorà, materialisti contro idealisti, e via di questo passo), oppure continueremo a non capire i greci, e di conseguenza a non capire noi stessi. Perché a questo punto anche il lettore più pigro e distratto lo avrà capito: attraverso la comprensione dei greci noi cerchiamo di capire noi, e non possiamo capire noi senza la deviazione (détour) della comprensione dei greci. 38. Una società di piccoli proprietari e produttori indipendenti deve quindi sviluppare una particolare sensibilità verso il logos inteso come calcolo sociale delle corrette armonie comunitarie non certo per un lusso disinteressato (nulla ha fatto più male alla comprensione dei greci del pensare che essi agissero “disinteressatamente”, come patrizi liberali colti mantenuti dagli schiavi), ma per un sentimento di autodifesa contro lo scatenarsi delle forze caotiche e distruttive dell’illimitatezza delle ricchezze private. È questo, ovviamente, il logos greco. Il resto è solo chiacchiera retroattiva di analfabeti storici che proiettano sui greci le loro idiosincrasie superomistiche, liberali, eccetera. E tuttavia, è un fatto che la concezione del logos come calcolo matematico dei rapporti di armonia nella natura, e quindi nella società, non nasce né sul terreno del potere popolare dei poveri (laokratia), né sulla regolamentazione del disinnesco della distruttività della lotta di classe fra ricchi e poveri (demokratia), ma nasce originariamente nei circoli religioso-sapienziali del pitagorismo nel suo viaggio da Samo a Crotone, da cui la Repubblica di Platone deriva mille volte di più di quanto non derivi dall’insegnamento di Socrate (su questo punto della totale inattendibilità della testimonianza di Platone per comprendere il messaggio di Socrate, Hegel ha colto genialmente il centro della questione).

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Azzardando una analogia storica un po’ avventurosa, direi che si tratta di un fenomeno analogo a quello del passaggio dal comunismo moderno, nato fra intellettuali borghesi (Marx, Engels, Kautsky, Lenin, eccetera) e poi passato alla gestione diretta di gruppi operai e proletari. Nello stesso modo la regolazione armonica dei rapporti sociali (il logos pitagorico), nata in piccoli gruppi sapienziali probabilmente influenzati dalla saggezza orientale egizia e mesopotamica, si “secolarizza” e si sposta nell’ambito di comunità di piccoli proprietari e produttori indipendenti. L’erede di Pitagora non è allora Platone, ma piuttosto Clistene. Su questo punto mi permetto un educato dissenso con il mio maestro Hegel. Hegel rilevò a suo tempo che la Repubblica di Platone non deve in alcun modo essere considerata una sorta di curiosa “utopia” marginale, tipo Tommaso Moro, Campanella o Bacone, ma deve essere invece considerata una espressione caratteristica del pensiero greco in quanto tale, che per Hegel era “idealistico” nella sua più profonda essenza, e quindi perseguiva l’idealizzazione in tutti gli ambiti della vita, dall’arte alla ginnastica, dalla bellezza alla virtù. E in effetti una società che metteva, sopra a ogni altra cosa il modello della virtù ideale (areté) era in effetti idealistica, e la ricostruzione atea della grecità alla Onfray appare ai veri conoscitori del mondo antico una ridicola caricatura. E tuttavia a mio avviso Hegel non coglie il cuore della questione. Dicendo che Clistene è molto più tipico della grecità di Platone (qui non si parla ovviamente di “livello filosofico” dell’argomentazione, eccetera) intendo dire che la tipicità del profilo filosofico greco non si trova tanto nelle sistemazioni coerenti delle cosiddette “scuole” (l’Accademia di Platone, il Liceo di Aristotele, il Giardino di Epicuro, il Portico di Zenone, eccetera), quanto nella democratizzazione comunitaria dell’approccio filosofico alla realtà. Questo profilo costituito dalla democratizzazione comunitaria dell’approccio filosofico alla realtà è il nucleo della grecità, e lo è per un insieme di ragioni che riassumerò brevemente in due punti di diseguale importanza.

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In primo luogo, la democratizzazione comunitaria dell’approccio filosofico alla realtà, che fa dei greci il popolo filosofico per eccellenza., e non solo il popolo di cui una piccola minoranza faceva marginalmente anche della “filosofia”, era il rispecchiamento sovrastrutturale (direbbe Marx) di un fatto strutturale, e cioè la riproduzione di una società libera di piccoli produttori e proprietari indipendenti. Quando questa società tramontò e fu distrutta, la filosofia dovette necessariamente ripiegare in scuole chiuse e protette, oppure diventare oggetto di conferenze presenzialistiche alla Luciano e alla Apuleio, conferenze sempre a metà fra gli “eventi mondani” (come oggi) o la “terapia filosofica” (come oggi). Eventi mondani e terapia filosofica sono sempre la sanzione della irrilevanza sociale e comunitaria della filosofia, da Luciano a Galimberti. Eventi mondani e terapia filosofica sono sempre sintomi secondari del fatto che la filosofia non è più praticata in una società sovrana di piccoli produttori e proprietari indipendenti, ma è praticata in una società dello spettacolo (Debord, Baudrillard, eccetera) e del narcisismo (Lasch) di oligarchie dispotiche e generalmente sanguinarie e razziste (come accade oggi, basti guardarsi intorno oltre lo schermo deformato del politicamente corretto e dei suoi spregevoli fondamenti ideologici). In secondo luogo, anche dopo la sparizione della società comunitaria di piccoli produttori e proprietari liberi e indipendenti (ve la immaginate la democrazia ateniese con una base militare spartana sull’Acropoli?), l’idea di comunità rimane. Si tratta infatti (lo ripeterò cento volte con maniacale ossessività) di un tipico esempio di una universalizzazione ideale possibile di un modello nato in una congiuntura storica e geografica del tutto particolare. 39. Caduta la società comunitaria dei piccoli proprietari sovrani indipendenti, e affermatosi il modo di produzione schiavistico (quello che il dilettante baffuto ed esagitato Nietzsche retrodata ai tempi di Solone, Clistene e Pericle, fra la tolleranza ridacchiante dell’analfabetismo accademico diffuso), il modello filosofico greco non sparisce certamente, ma si riposiziona (l’espressione è

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orribile, ma fatemela passare egualmente!) nelle due forme, apparentemente opposte ma del tutto complementari, della comunità di amici solidali (Epicuro) e/o della comunità cosmopolitica dei saggi (stoicismo). Apparentemente, si tratta di un mutamento qualitativo e catastrofico. E infatti parzialmente lo è. Dal punto di visto storico, economico e politico, lo è certamente. Ma dal punto di vista filosofico lo è molto meno, perché in ogni caso il concetto di comunità resta centrale. Chi parla di individualismo ellenistico mi ricorda coloro che parlano di “borghesia” per gli equites romani oppure di “intellettuali” per Orazio, Virgilio e Dante Alighieri. L’individualismo vero e proprio nasce nel Seicento europeo, e prima non era mai esistito. La borghesia vera e propria nasce nel Settecento europeo, e prima non era mai esistita. Gli intellettuali veri e propri nascono alla fine dell’Ottocento europeo (affare Dreyfus), e prima non erano mai esistiti nel significato attuale di gruppi organizzati di intermediazione ideologica fra le oligarchie patrizie e le maggioranze plebee (prima di loro c’erano i preti, e solo i preti). Il caso particolare dell’“intellettuale marxista”, derivato dalla critica di costume all’ipocrisia borghese (Luc Boltanski) nella seconda fase della storia del capitalismo è un caso particolare e irripetibile, e se ne parlerà espressamente più avanti in un capitolo successivo. I greci non erano individualisti, non erano borghesi, e soprattutto non erano intellettuali. Erano saggi, erano dotti, erano studiosi, erano filosofi, erano tutto quello che volete, ma certamente “intellettuali” non lo erano (in greco antico ovviamente la parola non esisteva, e quando non c’è la parola non c’è neppure il concetto – del resto in greco moderno, unica chiave infallibile per ricostruire le rotture semantiche dell’ellenismo nella sua storia trimillemiaria fondamentalmente unitaria, il termine “intellettuale” – dianoumenos – è ricavato artificialmente dal francese). I greci ragionavano in modo a un tempo individuale e comunitario, ed è la paroletta “a un tempo” che deve essere particolarmente evidenziata. Alla comunità politica, la cui funzione era quella di salvare l’esistenza della società dei piccoli proprietari e produttori indipen-

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denti, seguirono due tipi di comunità. La comunità concreta del ripiegamento in un gruppo amicale e solidale protetto (Epicuro e gli epicurei), e la comunità astratta dei saggi cosmopolitici del mondo intero, indipendentemente dalla lingua, razza, nazionalità e religione. Comunità politica sovrana, comunità solidale di amici, e comunità ideale di saggi cosmopolitici sembrano effettivamente tre realtà del tutto diverse. Ma non è così. Ricordando la definizione di “greco” (ellen) di Isocrate, greco non è un popolo particolare con lingua particolare, ma è un profilo universale caratterizzato dall’educazione all’indipendenza e dai presupposti che ho cercato di discutere fino a qui. E tuttavia, il termine logos è transitato al cristianesimo, e allora sarà bene discuterlo un poco. In fondo, il cristianesimo è nato e si è sviluppato come fenomeno comunitario, almeno all’inizio, anche se poi è diventato una religione feudale-carolingia e poi una religione barocco-assolutistica, e non possiamo non rifletterci sopra con rispetto e attenzione. 40. Per essere ben comprese nella loro validità e nei loro limiti, le considerazioni che seguiranno hanno bisogno di un breve chiarimento preliminare. Esse infrangono infatti almeno due tabù del politicamente corretto occidentale, in particolare italiano (la variante italiana del politicamente corretto, per ragioni storiche secolari di lunga durata, è infatti una delle più subalterne, estremistiche e ignoranti di tutto il cosmo occidentale). In primo luogo, infrangono il tabù per cui l’esegesi biblica è in ultima istanza proprietà privata inviolabile degli apparati teologici autorizzati della chiesa cattolica, e solo di essa, tabù sostenuto strumentalmente dalla cosiddetta “competenza esclusiva degli specialisti”, che dovendo conoscere l’ebraico, l’aramaico, il siriaco, il copto, l’armeno, eccetera, lasciano necessariamente il popolo incompetente fuori dalla porta. In secondo luogo, infrangono il tabù olocaustico per cui bisogna assolutamente presupporre che esista una identità uni-

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taria detta ebraico-cristiana, che gli ebrei sono i “fratelli maggiori” dei cristiani, e chi per caso non fosse d’accordo non può che essere un malvagio successore di Nabucodonosor, Caligola, Torquemada e Hitler. Ma vediamo meglio la questione. 41. In primo luogo, è assolutamente vero che se non si dominano anche i particolari dell’esegesi biblica e della storia dei primi tre secoli del cristianesimo è possibile – e anzi probabile – cadere in errori e addirittura in vere e proprie sciocchezze. E tuttavia, bisogna avere ben chiaro che il diritto all’approfondimento originale della natura del cristianesimo è un diritto filosofico universale (katholikòs), così come è universalistico (katholikòs) il cristianesimo come tale e per sua natura. Recentemente, è scoppiata una ridicola e oscena lotta fra politici e storici contemporaneisti universitari, per cui i secondi, verificata la mania dei politici di professione di impadronirsi strumentalmente del passato storico per legittimare i loro sporchi giochetti di legittimazione di bottega, hanno in modo supponente strillato che la storia deve essere lasciata agli “storici”. Ma neppure per sogno. La storia contemporanea, intesa come diritto di ogni persona informata e pensante di esprimere un giudizio meditato e personale sul bilancio del Novecento (e ci tornerò ovviamente nel prossimo capitolo) proprietà universale indivisa dell’intero genere umano, e non appartiene né ai politici né ai contemporaneisti di professione, che possono al massimo essere chiamati alla delucidazione di alcuni particolari, sulla base di documenti (sapendo però che il novanta per cento delle decisioni politiche importanti passa sempre per via orale al di fuori di qualsiasi documento). Nello stesso modo, il diritto all’interpretazione delle fonti sulla natura del cristianesimo è proprietà universale indivisa dell’intero genere umano, compresa quella sua parte maggioritaria che non conosce il greco, l’aramaico e il copto. E dunque, pur non essendo né uno specialista né un teologo autorizzato, mi prendo tutto il diritto di dire la mia sulla natura del cristianesimo primitivo.

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E perché me la prendo? Me la prendo per una ragione semplicissima, che sta in ciò, che lo spirito (pneuma) e la natura sociale del cristianesimo primitivo, oltre a essere messianico e apocalittico (cosa innegabile) ma che personalmente non enfatizzerei neppure troppo, sulla scorta dello stesso Max Weber, era indiscutibilmente animato da una forma di comunismo comunitario. E per questa ragione, non certo per fare il piccolo esegeta dilettante, che mi prendo tutto il pieno diritto di fare le considerazioni che seguiranno. 42. In secondo luogo, assicuro l’ignaro lettore che il novanta per cento del problema del cristianesimo primitivo consiste nella lingua greca, nella conoscenza semantica e storica dei significati correnti della lingua greca del tempo (koiné dialektos), che per molti versi è una lingua ancora parlata correntemente da milioni di persone, in quanto simile alla variante del greco moderno (katharevussa). È bene sapere che, mentre il latino e l’italiano sono indiscutibilmente lingue diverse, il greco invece è sempre stato un’unica lingua da Omero a Kavafis. L’ignoranza crassa e pittoresca del greco moderno da parte dei boriosi teologi occidentali è una delle ragioni, anche se non l’unica, dell’incapacità di cogliere il valore semantico dei termini neotestamentari. Personalmente, ho imparato molto di più discutendo con i monaci del Monte Athos e di altri monasteri di lingua greca dell’area del Mediterraneo che da tutti i trattati filosofici cattolici. Può sembrare che esageri. Non è così. Gran parte dei problemi dell’esegesi neotestamentaria deriva dal mutamento dei significati semantici dei termini, significati che sono sempre significati sociali. Per esempio, oggi, quando sentiamo la parola “virtù” evochiamo subito un significato moralistico di stampo quasi sempre sessuale (la ragazza virtuosa che arriva vergine al matrimonio, la sposa virtuosa che non cede alle tentazioni dell’adulterio, eccetera). Ma la virtus latina, e l’areté dei greci non c’entravano nulla con questo retrogusto moralistico, indicando o un profilo complessivo globale della personalità (virtus) oppure l’eccellenza della capacità di fare ciò che è proprio a una funzione (per esempio, l’areté di un coltel-

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lo è quella di tagliare bene). E per terminare in modo scherzoso, oggi “bastardo” è un insulto sanguinoso, ma nella Francia medioevale connotava semplicemente il figlio illegittimo del sovrano feudale, e perciò era a suo modo un complimento. Potrei ovviamente continuare per cento pagine. Ma il problema sta in ciò, che senza conoscere il greco (lo ripeto, un’unica lingua, da Omero a Kavafis) non è possibile cogliere il valore semanticosociale dei concetti e dei significati neotestamentari. E se anche si conosce il greco (e in più tutti i dialetti del vicino oriente), ma si ha una mentalità astorica e destoricizzata, come il novanta per cento dei cosiddetti “teologi”, allora non si potrà capire assolutamente nulla lo stesso. Conoscere il greco (nella variante della koiné dialektos del mondò ellenistico-romano) equivale a conoscere l’inglese per chi intende diventare americanista. Che cosa direste di un americanista che conosce solo l’italiano o il francese? Vi mettereste a ridere. Ebbene, è esattamente la stessa cosa per i teologi che dissertano sul cristianesimo primitivo partendo dalle traduzioni latine. Le traduzioni latine sono incompatibili con lo spirito comunitario, al mille per cento ellenico, del primo cristianesimo, e riflettono invece una sorta di atomismo proprietario risultante dal diritto romano e dalla società schiavistica. Certo, non è solo questione di lingua. Per esempio, scrivendo in greco, Paolo di Tarso (cfr. 1Cor 7,20-47) afferma che tutte e tre le componenti sociali della società corinzia, e cioè i liberi, i liberti e gli schiavi (che secondo i recenti studi di Dimitris Kyrtatas erano approssimativamente un terzo, un terzo e un terzo della città di Corinto) dovevano sottomettersi a un unico Liberatore, e diventare tutti suoi schiavi (douloi). Ma se Paolo poteva dire una cosa del genere, era perché non esisteva, più il modo di produzione dei piccoli proprietari e produttori indipendenti, unica matrice del profilo culturale greco (paideia, dike, metron, katechon, laokratia, demokratia, eccetera), ma esisteva un dispotismo monarchico schiavistico (basileia, pronuncia consigliata vassilia), per cui il Cristo era pensato come un re (basileus),o addirittura come un

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imperatore in trono (autokrator) in grado di propiziare con il suo intervento divino soprannaturale l’avvento (parousia) del regno di Dio (basileia tou theou). Per dirla con l’insuperabile espressione di Alfred Loisy, mai migliorata da più di un secolo: «Cristo predicò il regno di Dio, ed è venuta la chiesa». Solo gli ipocriti possono contestare una simile cristallina formulazione. Il problema storico-filosofico consiste nel sapere se questo regno di Dio significava qualcosa di socialmente concreto, e se avrebbe potenzialmente potuto venire oppure no. In proposito io seguo personalmente l’indicazione di Max Weber, per cui la secolarizzazione di una religione inizialmente comunistico-messianica è il solo modo di impedire la sua sparizione in poche generazioni, e che le religioni (tutte le religioni, nessuna esclusa) si “salvano” esclusivamente razionalizzando l’intera riproduzione della vita quotidiana. Fra parentesi, è esattamente questo che è successo al cosiddetto “comunismo” del Novecento, che proprio per non essere riuscito nel passaggio fra fase messianica e fase quotidiana (quella che l’ultimo Lukács correttamente auspicava, respinto sia dai burocrati corrotti che dagli estremisti anarcoidi occidentali) si è poi dissolto in modo vergognoso e tragicomico. Nessun tradimento. La chiesa non ha “tradito”. Si è adattata, con una forma di comunitarismo assistenziale subalterno prima al modo di produzione schiavistico tardo-antico (Brown, Mazzarino), poi al modo di produzione feudale (Cardini, Le Goff), poi al modo di produzione borghese-capitalistico (il suo vero nemico strategico dissolutore, fondato sulla secolarizzazione “laica” della religione individualistica del mercato), fino ad approdare, sia pure con contrasti, all’appoggio al fondamentalismo sionista-protestante e islamofobico della religione idolatrica nazionale dell’impero americano, frutto di una parziale secolarizzazione del ripugnante e razzista puritanesimo inglese, che essendo del tutto veterotestamentario, e quasi per nulla neotestamentario, ha assorbito dal Vecchio Testamento l’idolatrica e razzista teoria del popolo “eletto dal Signore”, la negazione più totale e completa dell’umanesimo greco così come era stato riassunto dal Panegirico di Isocrate.

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43. Chi teme che ci stiamo allontanando dal tema del comunismo comunitario si rassicuri. Ci ritorneremo dopo aver spazzato il terreno da ogni equivoco. Per poterlo fare, è bene discutere, sia pure brevemente e in modo sintetico, e quindi inevitabilmente apodittico, di alcuni temi, nell’ordine: il rapporto fra il cristianesimo e la grecità; il rapporto fra il cristianesimo e l’ebraismo, il rapporto fra il cristianesimo e il protestantesimo. Passerò anche attraverso una semplice lettura del termine logos nel Vangelo di Giovanni, e infine a una educata polemica con le letture destoricizzate e destoricizzanti della vita di Gesù. Infine, discuterò direttamente ed esplicitamente il nostro problema (o meglio, le mie personali opinioni sul nostro problema), e cioè i rapporti fra la fede cristiana (e islamica) con il comunismo comunitario. 44. Il cristianesimo ha comportato una rottura totale con il profilo culturale greco, oppure si è trattato, per dirla in linguaggio hegeliano, di un superamento-conservazione di questo profilo socioculturale (Auf-hebung, e cioè appunto superamento-conservazione)? Si tratta di uno dei più importanti problemi dell’intera filosofia, occidentale, e la sua corretta impostazione è necessaria, anche per coloro che vogliono capire se e in che misura il comunismo marxista sia stato analogamente un superamento-conservazione (Aufhebung) della tradizione illuministico-borghese da cui necessariamente deriva. Sbaglierebbe quindi chi lo ritenesse qualcosa che riguarda soltanto gli ellenisti oppure i cristiani praticanti. Non è così. Esiste una tradizione di umanesimo cristiano (per esempio Giovanni Reale, ma anche in parte Joseph Ratzinger) che riprende le tesi già sviluppate dai cristiani “colti” dei primi secoli, per cui il monoteismo cristiano avrebbe “ereditato” quella parte della tradizione greca aperta alla, problematica religiosa (platonismo innanzi tutto, ma anche stoicismo), con l’esclusione invece dell’epicureismo e dell’aristotelismo naturalistico. Personalmente, non sono affatto d’accordo. Sul piano meramente teoretico anche la spe-

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culazione greca “aperta” verso la religione (ma Walter Otto ha brillantemente dimostrato che anche l’epicureismo lo è stato) lo è in un contesto che non ha assolutamente nulla a che fare con un “monoteismo rivelato”, consegnato a libri sacri di riferimento la cui interpretazione è riservata a gruppi sacerdotali organizzati gerarchicamente. Su basi filosofiche, a mio avviso, non esiste nessuna continuità fra il pensiero greco e la posteriore teologia cristiana. L’idea che Aristotele sia un “precursore” della teologia domenicana di Tommaso d’Aquino a mio avviso non sta né in cielo né in terra. In quanto alla filosofia della storia hegeliana, non possiamo negare che si tratti di una “grande narrazione” apologetica del profilo occidentalistico ed eurocentrico nella variante del luteranesimo tedesco, mille volte più simpatico dell’individualismo calvinistico e puritano in quanto maggiormente comunitario, ma pur sempre particolaristico e per nulla universalistico. Hegel deve necessariamente costruire una “grande narrazione” continua dai greci ai cristiani, ai luterani, funzionale alla critica delle sue ossessioni (culto cattolico delle reliquie, particolarismo razzista ebraico, individualismo inglese, estremismo russoviano-robespierriano, conservatorismo tedesco semifeudale, moralismo kantiano astratto, eccetera), e tuttavia – lo ripeto – del tutto artificiale e oggi insostenibile, alla luce di una apertura, mondializzata al confronto fra diverse culture. La corrente più diffusa oggi a proposito di questo problema, nel mondo cosiddetto “laico” (quello che io chiamo il Cabaret Voltaire) è una variante soft e politicamente corretta, della lettura della grecità di Nietzsche, depurata ovviamente dagli elogi alla schiavitù e dal disprezzo verso i vinti e i “malriusciti” (il termine è nicciano), per cui il passaggio dalla grecità al cristianesimo deve essere inteso come una “decadenza”. La teoria della decadenza, di origine indiscutibilmente nicciana, è in proposito rinforzata nel Cabaret Voltaire dalla sua correzione weberiana, per cui il mondo moderno è caratterizzato dal disincanto del mondo e dal politeismo dei valori. In questo modo, l’ultimo miserabile scettico relativista

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apologeta del capitalismo finanziario può sentirsi “vicino ai greci”, perché non crede in Dio ma crede soltanto nei listini di borsa. Certo, la teoria della superiorità dei greci sui cristiani è sostenuta anche da filosofi seri, come il mio amico Alain de Benoist, che non hanno nulla a che fare con costoro. Ma qui, appunto, de Benoist entra in contraddizione con il suo (moderato) comunitarismo (non comunista), in quanto invece il solo vero momento di continuità fra grecità e primo cristianesimo sta nel comunitarismo, non più fondato su base politica ma fondato ormai su basi unicamente solidaristico-subalterne. Il mutamento di base, dalla base politico-filosofica alla base solidaristico-subalterna, non è però dovuto a una generica “decadenza” (e tantomeno a un generico “tradimento”), ma è dovuto al passaggio strutturale da una società di piccoli proprietari e produttori indipendenti a una società sostanzialmente schiavistico-oligarchica. Personalmente io imposto diversamente la questione, in quanto, sono estraneo sia all’impostazione di Hegel, sia all’impostazione alla Giovanni Reale, sia all’impostazione alla Alain de Benoist. Io sono interno invece alla discussione culturale greca (moderna), che non si pone mai il problema del rapporto generico fra grecità e cosiddetto “mondo moderno” europeo-occidentale (cui la Grecia è sempre rimasta estranea fino al decennio 1970-1980 circa), ma si pone il rapporto fra l’ellenismo classico e il posteriore ellenismo bizantino cristiano. Se ci poniamo il problema in questi termini, allora possiamo accedere a un riorientamento gestaltico opportuno. Il vero “anello di congiunzione” fra la grecità classica e la posteriore grecità ortodossa bizantina, che avevano in comune la lingua, e quindi anche gran parte del profilo culturale, sta nel sostanziale mantenimento della mentalità comunitaria, sia pure ovviamente in un contesto storico talmente diverso da sembrare a prima vista del tutto incomparabile. Non a caso, le chiese ortodosse sono sempre state custodi della tradizione nazionale (ethnos), laddove la chiesa cattolica non lo è invece mai stata, a parte alcune eccezioni di nazioni minacciate dall’omologazione protestante (Irlanda) o protestante-­ortodossa (Polonia).

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Questa mentalità comunitaria, comune a tutte le culture ortodosse, e in particolare ad alcune (russa, greca, serba, bulgara e armena), deriva a mio avviso dal comunitarismo ellenico precedente. Esso, infatti, era riuscito a coniugare sia l’irripetibile virtù individuale del singolo (psyché), sia il fatto che il vero garante di questa individualità restava sempre e soltanto la comunità solidale. A questo bisogna aggiungere un fatto del tutto ignoto all’occidentalismo cattolico e protestante. Gli ortodossi non credono in Dio, come credono i cattolici, i protestanti e i musulmani, ma credono alla Trinità, che è una cosa completamente diversa. Non si tratta per nulla di “bizantinismi” teologici, come dicono i trattati dossografici di storia delle religioni, equivalente pio dei trattati dossografici di storia della filosofia. Si tratta di qualcosa di essenziale. Facciamo qui un esempio. Apriamo il famoso Vangelo di Giovanni, oggi rilanciato in forma del tutto simbolica ed astorica dal papa tedesco Ratzinger. Personalmente, mi pare impossibile che sia stato scritto dal giovane pescatore analfabeta ebreo discepolo prediletto di Gesù. Ma lasciamo perdere. È invece interessante provare a leggerlo. Qualche citazione: «Prima che Abramo fosse, io sono» (8,58); «Io sono la via, la verità e la vita» (14,6); «Io e il Padre siamo una cosa sola» (10,30); «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio» (1,1); «Il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi» (1,14). La prima cosa che colpisce è la ridicola traduzione del termine logos con verbum, e il fatto che essa sia rimasta in lingua italiana, con tragicomici effetti di fraintendimento grammaticale (Dio è quindi un verbo?). Ora, logos in latino si traduce in due modi: verbum, che vuol dire unicamente parola; e ratio, che vuol dire calcolo (di qui “ragioniere”, che vuol dire contabile). Letto in greco, il testo significa che Cristo si fa carne e viene al mondo per diffondere la Parola di Dio. Egli è la via, nello stesso modo in cui era una via la dike greca (primo significato ricordato). La parola di Dio è quindi una parola (logos) di giustizia (dike) intesa come giustizia di amore (agape). L’agape cristiana è quindi

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prima di tutto una solidarietà comunitaria, cui si aggiunge innegabilmente qualcosa di nuovo e di non esistente nel profilo greco classico, e cioè l’assoluto universalismo del logos, derivato quasi certamente dal pensiero stoico, che si era basato su di una concezione cosmopolitica dell’unita del genere umano e della natura umana. Anche qui, come in molti altri casi, la genesi particolare di un fenomeno (Genesis) porta all’universalità (Geltung). Il pensiero stoico era stato anche la razionalizzazione ideologica a posteriori delle conquiste di Alessandro il Macedone e poi dei romani, ma questa genesi ideologica particolaristica si rovescia dialetticamente in umanesimo universalistico reale. E così il termine logos, nato all’interno di una società di piccoli proprietari e produttori indipendenti come unione di calcolo geometrico misurato ed equilibrato delle proprietà e di parola presa in pubblico (demosion, isegoria) passa attraverso lo stoicismo come unità razionale di tutto il genere umano, e diventa con Giovanni la stessa parola di Dio, incarnatasi in un uomo particolare, e cioè l’empirico ebreo Gesù di Nazareth. Il cuore del messaggio cristiano può essere certamente inteso diversamente. So bene che per la maggioranza dei cosiddetti “credenti” esso sta nella promessa ultraterrena di resurrezione dei corpi (in Italia Sergio Quinzio ha avuto il coraggio di ristabilire questa coraggiosa interpretazione), trasformata poi platonicamente nella famosa immortalità dell’anima. Mi si permetta di non crederci. Nello stesso tempo, non ho alcuna intenzione di unirmi alla canea positivistica che mette al centro della sua asfissiante attività l’insieme di argomentazioni “scientifiche” tendenti a dimostrarne l’infondatezza superstiziosa, sulla base dell’impossibilità di verificare l’esistenza dell’anima immortale attraverso la tomografia assiale computerizzata. A me non dà assolutamente nessun fastidio che si creda nella resurrezione dei corpi, nell’immortalità dell’anima, nell’aldilà, eccetera. L’unica superstizione che conosco, la più odiosa, crudele, irrazionale e bestiale, è quella sulla impossibilità di superare lo sfruttamento capitalistico, esattamente ciò che nella società attuale è invece considerato realistico, scientifico, disincantato, moderno, postmoderno, razionalistico,

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eccetera. Di fronte a Weber e Habermas, il vangelo di Giovanni è un esempio di razionalismo classico. Ma non sta qui il problema. Chi ritiene che il nucleo della “verità” annunciata da Giovanni sia la promessa della resurrezione del proprio corpo (a quale età, poi?), oppure della immortalità della propria anima (per fare cosa, poi?) lo faccia pure. Personalmente, la mia “fede” non arriva fino a questo punto. Poco male. Esiste invece una sicura interpretazione dei termini “via”, “verità” e “vita” in Giovanni, e discende da una corretta valutazione storica del concetto di logos, per cui il logos stesso, nato nel contesto della comunità particolare dei piccoli proprietari e produttori indipendenti, passato poi attraverso gli stoici nel concetto di unità universale (katholikè) del genere umano, approda infine all’incarnazione di Dio (definito il Padre) nel Figlio. Ma non dimentichiamoci, però, che oltre al Padre e al Figlio c’è lo Spirito Santo, e qui sta la vera continuità fra pensiero greco e messaggio cristiano posteriore. Mentre la cultura semitica conosce soltanto la feroce onnipotenza del numero Uno (cui i critici del cristianesimo, ignorando che si tratta di una religione trinitaria e non semplicemente monoteistica, attribuiscono tutte le intolleranze e tutti i fanatismi monoteistici della cosiddetta “verità esclusiva”), la cultura greca, erede di quella indoeuropea, è caratterizzata invece dal numero tre. E il numero tre è il codice genetico del pensiero dialettico, per cui la verità (il Padre) esce da se stessa nel mondo (il Figlio) e ritorna poi a se stessa (lo Spirito Santo). La figura più importante della Trinità cristiana è quindi lo Spirito Santo, laddove il protestantesimo veterotestamentario privilegia il Padre, diventando così una sorta di eresia individualistica ebraica (e oggi ebraico-sionista) mentre il cattolicesimo privilegia il Figlio, interpretato oggi come una sorta di burattino kantiano-gandhiano, che corre come un infermiere per soccorrere le vittime dei bombardamenti eseguiti dai credenti idolatri nel Padre, trasformatosi oggi nella orribile divinità americano-sionista che domina il mondo (o meglio, vorrebbe dominarlo, ma per fortuna i popoli resistono).

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A suo tempo Hegel comprese perfettamente il nucleo dialettico razionale del numero tre, interpretò così la Trinità, scrisse il capolavoro triadico della scienza filosofica occidentale moderna, l’immortale Scienza della Logica. Anche se qui non c’è lo spazio per tornarci sopra in modo analitico, ritengo che la scienza filosoficodialettica del comunismo di Marx sia semplicemente una concretizzazione storico-strutturale della posizione di Hegel. Marx è quindi un successore dei greci, attraverso una catena ideale che passa attraverso gli stoici, i primi cristiani e Hegel, e non è per nulla (come erroneamente pensa la scuola di Karl Löwith) una sorta di gnostico (Jonas) che secolarizza il messianesimo apocalittico ebraico nel linguaggio dell’economia politica. Marx è un universalista comunitario, e sulle orme di Spinoza respinge totalmente ogni disgustosa traccia di particolarismo di “popolo eletto”. Non credete ai confusionari che dicono che per Marx il proletariato è il messia. In Marx, come nei greci, non c’è nessun messia, e se c’è è soltanto una metafora allegorica e anagogica, dell’universalismo comunitario. Ma bisogna chiudere, e chiuderò con una dichiarazione personale. Se mi chiedono se credo in Dio, dirò di no, sulla base della critica di Spinoza alla concezione personalistica e antropomorfica della divinità (che preferisco di gran lunga alla inutile teoria ateistica di Feuerbach della divinità come alienazione dell’essenza umana). Se mi chiedono se credo nella permanenza eterna di una identità personale, anima e/o corpo che sia, dirò che non riesco proprio a farlo, e non in nome di Darwin, Newton, Einstein, o altre stupidaggini positivistiche, ma proprio in nome del logos umanisticonaturalistico greco. Se mi chiedono quale sia il nucleo della verità del cristianesimo, dirò che è la carità, ma non la carità individuale, quanto la carità verso la comunità in cui siamo inseriti, da cui discende in un secondo momento anche la carità universale, non dimenticando però la fondatezza di un vecchio proverbio inglese, per cui la carità comincia a casa propria. Se mi chiedono invece se creda alla Trinità, allora sono propenso a rispondere in modo affermativo, purché me ne si consenta una

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interpretazione metaforica, allegorica e anagogica (e cioè morale). Solo in questo senso sono disposto a discutere con un cristiano. Se invece il cristiano mi ripropone proposte oscene come l’occidentalismo, l’islamofobia, la guerra di civiltà, l’ipocrisia cattolica, la ferocia veterotestamentaria protestante dell’impero, eccetera, allora dovrò rispondere tristemente che non abbiamo una religione in comune, ma siamo posti e collocati in luoghi diversi dello spazio della storia universale. 45. Non pretendo certamente di avere esaurito nel paragrafo precedente l’interminabile problema del rapporto di continuità o viceversa di rottura fra la grecità e il cristianesimo. Ho solo voluto “mettere le carte in tavola” per onestà verso il lettore. Nello stesso modo mi comporterò in questo paragrafo per il problema del rapporto fra ebraismo, grecità e cristianesimo. I fedeli pii del politicamente corretto sono invitati a “saltare” questo paragrafo, perché lo troveranno certamente settario e insopportabile. Non so però cosa farci. Parlare di “questione ebraica” pubblicamente e razionalmente oggi è praticamente impossibile, dal momento che il Politicamente Corretto da alcuni decenni ha sacralizzato idolatricamente l’intero popolo ebraico, e si è trasformato in una Santa inquisizione postmoderna che non può più condannare al rogo, ma può condannare alla diffamazione per antisemitismo. L’antisemitismo diventa così un jolly tuttofare e un’arma “impropria”, ma più avanti segnalerò che esso adempie a una funzione strutturale, e se non si comprende questa funzione strutturale non si riesce neppure a impostare gli elementi minimi della questione. A suo tempo ebrei intelligenti come il Karl Marx della Questione Ebraica e il Sigmund Freud di Mosè ed il monoteismo cercarono di impostare i termini generali della questione ebraica, ma oggi i loro due saggi verrebbero considerati come antisemiti. Il concetto di antisemitismo è ovviamente esteso a tutti gli ebrei che non condividono il sionismo e l’occidentalismo. Per esempio, l’ebreo belga Marcel Liebman (cfr. Nato ebreo, Shahrazad, Roma 2008), per il semplice

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fatto di aver preso una posizione antisionista e di avere auspicato la fondazione di un unico stato arabo-ebraico non sionista in Palestina è stato “scomunicato”, con scomunica tribalmente estesa alla famiglia, da parte della comunità ebraica di Bruxelles. Antifascisti e democratici notori come il filosofo francese Roger Garaudy e il compositore greco Mikis Theodorakis sono stati bollati come antisemiti ed esclusi da tutta la comunità filosofica e musicale-orchestrale del mondo occidentale per la colpa di essere antisionisti e fautori dei diritti storici (storici, non solo “umanitari”) del popolo palestinese. Ma qui, ovviamente, non è possibile per ragioni di spazio discutere i problemi della etnogenesi storica del popolo ebraico (Shlomo Sand), del suo essere stato un popolo-classe (Abraham Leon), un popolo-religione (Israel Shahak), eccetera. Bisognerà limitarsi solo all’essenziale. E l’essenziale sta in ciò, che da alcuni decenni l’intero popolo ebraico in quanto tale è stato eretto simbolicamente a sacerdozio levitico speciale dell’occidentalismo imperiale, con connessa creazione di una (assolutamente inesistente) identità ebraico-cristiana dell’intero occidente e dell’Europa in particolare, identità inesistente la cui unica funzione è quella di costituire un campo simbolico di guerra di civiltà di tipo razzista, e soprattutto islamofobico. Dire che l’occidente è ebraico-cristiano, nella attuale congiuntura, storica di ipercapitalismo finanziario post-comunista, significa dire per differenza che non è islamico, e anche che non è indiano o cinese. I presupposti ideologico-filosofici per una futura guerra mondiale ci sono tutti. Basta coltivarli con l’assenso e la complicità della parte più abbietta della società capitalistica, il ceto politico, il circo mediatico e il clero universitario (si parla ovviamente di maggioranze di queste tribù, non di tutti i loro membri – i “giusti” ci sono sempre stati e sempre ci saranno). E tuttavia, per chiarirsi le idee bisogna separare il problema in tre parti, cioè rispettivamente: il mutamento di funzione dell’antisemitismo moderno in antisemitismo postmoderno, o più esattamente il mutamento di funzione dall’antisemitismo giudeofobico all’antisemitismo islamofobico; il rovesciamento dialettico della

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giudeofobia in giudeofilia come elaborazione della colpa della miserabile casta degli intellettuali europei; il giudeocentrismo come elemento simbolico per l’integrale condanna del Novecento. I tre elementi fanno in realtà tutt’uno, ma li distinguerò per maggiore chiarezza. In primo luogo, l’antisemitismo moderno (nessun rapporto grande-narrativo con i faraoni egizi, i re assiri e babilonesi, l’imperatore romano Caligola, San Bernardino da Siena e via farneticando) ha come genesi diretta non tanto l’accusa medioevale di “deicidio”, eccetera, quanto l’accusa modernissima di essere la punta di diamante del capitale finanziario speculativo contro il capitale industriale produttivo nazionale. Si vedano su questo gli interessanti scritti antisemiti Henry Ford, ma anche di Sombart, eccetera. L’antisemitismo moderno è quindi prima di tutto un fenomeno ideologico-culturale del tutto interno ai conflitti strategici fra gruppi capitalistici, e in particolare fra gruppi nazionali industriali e gruppi transnazionali finanziari. E tuttavia, per potere avere una base sociale di massa ai loro sporchi giochi intercapitalistici, i gruppi finanziari transnazionali appoggiarono il nuovo gruppo sociale degli “intellettuali” (che infatti nacquero a fine Ottocento in Francia sulla base della difesa del caso Dreyfus), mentre i gruppi industriali nazionali appoggiarono le tendenze plebee giudeofobiche. L’antisemitismo moderno nasce quindi (al netto dell’inerzia degli innegabili secolari “pregiudizi”) come derivato integrale di una guerra civile interna alle lotte fra “agenti della produzione capitalistica” (uso qui la corretta terminologia “marxista” di Gianfranco La Grassa). La massiccia introduzione dell’ideologia antisemita, nata all’interno di un conflitto totalmente intercapitalistico, nel corpo ideologico-sociale delle grandi masse plebee dell’epoca (plebe = popolo senza coscienza di classe), portò a quell’antisemitismo giudeofobico di massa fortemente presente nella Seconda Internazionale (Angenot), e che il vecchio amico di Marx August Bebel connotò mirabilmente come «socialismo degli imbecilli». Dal momento che l’imbecillità sociale diffusa e incurabile è a mio avviso il terzo

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elemento della struttura di un modo di produzione (gli altri due sono lo sviluppo delle forze produttive e la natura classista dei rapporti di produzione), non possiamo stupirci che la giudeofobia antisemita si sia diffusa come il fuoco nella prateria. La trasmissione della giudeofobia, nata all’interno di un conflitto strategico fra capitalisti finanziari e industriali, e poi trasmessa alle masse plebee come ideologia del capro espiatorio e come socialismo degli imbecilli, provocò la reazione del progetto sionista, elaborato in ambienti dominati dal razzismo colonialista e dall’ideologia positivistico-imperialista del diritto a dominare gli indigeni (Herzl, eccetera). L’ordine di successione della questione ebraica moderna è quindi grosso modo il seguente: genesi in un conflitto interborghese e intercapitalistico fra settori di capitale industriale nazionale e settori di capitale finanziario transnazionale; passaggio alla giudeofobia nazionalistica e razzistica di massa come base sociale plebea di questo conflitto, con intellettuali in genere giudeofili (salvo eccezioni) e plebe in genere giudeo­foba, mossa dal socialismo invidioso degli imbecilli; infine, rea­zione sionista intrisa di razzismo colonialista, con ornamenti ideologici secondari di lavoro dei campi, fioritura del deserto, lavoro manuale di riscatto, e altre penose “derivazioni” (Pareto) per deficienti più o meno in buona fede. Siamo a questo punto quando arrivano due novità storiche, la dichiarazione Balfour del 1917 e l’avvento al potere del nazionalista tedesco razzista Adolf Hitler nel 1933. La moderna “questione ebraica” nasce infatti (nasce, perché prima semplicemente non c’era) nel 1917 e nel 1933. La Prima guerra mondiale fu prima di ogni altra cosa una guerra imperialista per la spartizione banditesca del Vicino Oriente ottomano, dovuta anche (ma non solo) a due fattori storici nuovi. Primo, il passaggio dal carbone al petrolio come materia prima fondamentale non solo per le flotte ma anche per la nuova industria automobilistica. Secondo, la paura che il nuovo governo modernizzatore ottomano dei Giovani Turchi portasse ad un rafforzamento di questo vecchio “malato d’Europa” e a una sua

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alleanza strategica con l’impero tedesco. Truppe tedesche a Costantinopoli, Smirne, Bassora, Bagdad e Gerusalemme avrebbero significato un pericolo mortale per l’impero britannico, che occupava, allora militarmente l’Egitto e l’India. Scoppiò la guerra. Purtroppo (sottolineo purtroppo) le truppe ottomane non riuscirono a fermare gli invasori imperialisti e razzisti inglesi e francesi davanti a Bagdad e a Gerusalemme, che in questo modo prima si divisero i territori arabofoni (accordo Sykes-Picot) e poi promisero ai coloni sionisti una terra che non gli apparteneva, e in cui erano ancora una esigua minoranza (dichiarazione Balfour). Purtroppo, le truppe ottomane, troppo poco appoggiate dalle truppe tedesche, non riuscirono a mantenere unita l’area che andava da Beirut a Bagdad e da Aleppo a Gerusalemme, in cui per secoli avevano vissuto in relativa pace le comunità musulmane, ebraiche e cristiane di varie confessioni, in particolare ortodosse (laddove i cattolici ed i protestanti, prima pressoché inesistenti, funzionarono nell’essenziale come missionari-spie rispettivamente della Francia e dell’Inghilterra). L’impiccagione di Sikes, Picot e Balfour come criminali purtroppo non fu possibile, e da quasi un secolo il vicino Oriente paga per non essere riuscito a impiccare questi criminali imperialisti che si spartivano e assegnavano arbitrariamente le terre degli altri. Adolf Hitler non era un normale nazionalista tedesco etnico-culturale, perché, se lo fosse stato, avrebbe anche avuto le sue ragioni. Non c’era dubbio che Vienna, Danzica ed i Sudeti fossero zone a maggioranza etnica tedesca, e infatti dopo il 1919 erano stati i socialisti e i comunisti locali a premere per l’autodeterminazione e il diritto a scegliere in che paese volesse vivere la popolazione. Ma Hitler era un nazionalista tedesco razzista, o più esattamente razzista a base biologica di sangue, ed era anche un giudeofobico paranoico, convinto dell’autenticità dei Protocolli dei Savi di Sion e di un complotto generale ebraico per dominare il mondo, dall’alto (finanzieri ebrei anglosassoni) e dal basso (commissari politici ebrei bolscevichi). Il buon vecchio socialismo degli imbecilli di Bebel diventava una visione complessiva del mondo di tipo giu-

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deocentrico, in cui cioè gli ebrei diventavano un fattore centrale (negativo, ovviamente) dell’intera storia del mondo. Hitler non era il Male Assoluto, ma è certamente stato un politico criminale. Criminale, del resto, esattamente e non di più di come lo sono stati il presidente Bush Junior o il presidente Truman che ordinò il lancio delle bombe di Hiroshima e Nagasaki. E tuttavia, oggi l’accusa di antisemitismo è sempre estesa anche a coloro che pensano, a torto o a ragione, che Auschwitz sia stato orribile e inscusabile, ma anche Hiroshima lo sia stato, e che Hitler sia stato un politico criminale da ripudiare senza se e senza ma, ma che Churchill, Truman e Bush lo siano stati esattamente come lui. Ma appunto, antisemita non è ormai più chi elabora teorie razziste e paranoiche sugli ebrei, a base religiosa, o positivistica, ma semplicemente chi nega il dogma religioso dell’Unicità. Lo sterminio razzista di Hitler è così diventato l’equivalente religioso del Peccato Originale inespiabile. Appunto, il peccato originale del Novecento. E siccome il peccato originale è sempre uno, perché non ci possono essere molti peccati originali in concorrenza simbolica, chi ha subito il Peccato originale deve essere ricompensato diventando un sacerdozio levitico collettivo del senso di colpa della civiltà europea, definita ormai in termini di espiazione interminabile. L’occidentalismo, in quanto profilo religioso secolarizzato laicamente, ha bisogno di una religione laica per senza Dio, non invasiva nelle questioni sessuali e comportamentali dell’individuoconsumatore sovrano, ed ecco perché i pellegrinaggi ad Auschwitz adempiono alla stessa funzione dei vecchi giubilei medioevali romani. E tuttavia, il ruolo sistemico dell’antisemitismo moderno giudeofobico resta interamente, solo superficialmente trasformato in antisemitismo postmoderno islamofobico. Anche molti elementi formali restano, per esempio la paranoia verso la cosiddetta, “infiltrazione”. Al tempo dell’antisemitismo giudeofobico moderno si “infiltravano” i perfidi ebrei, oggi invece, al tempo dell’antisemitismo islamofobico postmoderno si infiltrano i perfidi musulmani. Al posto di Preziosi e della Difesa della Razza contro l’eterno

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giudeo onnipresente abbiamo la Fallaci, Ferrara, Marcello Pera e Magdi Allam contro l’infiltrazione del musulmano fondamentalista che mette in pericolo la nostra civiltà cristiano-occidentale, che qualunque studioso intelligente sa essere effettivamente minacciata, ma non certo da Allah, quanto dal modello di omologazione consumistico-individualista iper-occidentale. In secondo luogo, l’eterna oscillazione fra giudeofobia e giudeofilia è in ultima istanza sempre un derivato di un giudeocentrismo presupposto come elemento basilare della storia provvidenziale del mondo. Non esiste infatti differenza di fondo fra il pensare che gli ebrei sono il popolo “prediletto” da Dio, perché Dio ha deciso di consegnare a loro, e solo a loro, la sua legge divina contenuta nell’Antico Testamento, oppure che siano il popolo “maledetto” da Dio, perché hanno ucciso il Figlio (logos) preferendogli lo zelota Barabba. Ma i Prediletti e i Maledetti sono le due facce della stessa testa di Giano. Personalmente, dal momento che credo di essere del tutto estraneo sia alla giudeofilia (nelle due versioni laica e religiosa), sia alla giudeofobia (nelle due versioni razzista e complottistica), cerco di studiare gli ebrei come se studiassi i portoghesi, i giapponesi o i lituani. Certo, mi sono più estranei dei francesi e dei greci, ma soltanto perché non ne conosco la lingua e la cultura, ed è noto che si ama di più ciò che si conosce. E tuttavia, so bene che anche solo dire che bisogna avvicinarsi alle storie del popolo ebraico come ci si avvicina a quella del popolo spagnolo o del popolo bulgaro, è già motivo per il Politicamente Corretto di sospetto di antisemitismo. In quanto al sionismo politico, mi prendo tutto il diritto di giudicarlo come se giudicassi il nazismo tedesco, il peronismo argentino, il kemalismo turco o il comunismo coreano. A chi mi accusasse di antisemitismo perché ritengo illegittimo e coloniale il sionismo sono pronto a sputare (metaforicamente) in faccia. E tuttavia, non siamo ancora entrati veramente nel cuore della questione ebraica di oggi, che consiste nella funzione simbolica del giudeocentrismo per la delegittimazione complessiva del Novecento come secolo delle ideologie assassine da sostituire con

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un secolo del libero commercio globalizzato mondiale, che finalmente metta l’economia al posto della politica e della religione. Ci tornerò ovviamente sopra nel prossimo capitolo a proposito della “leggenda nera” del comunismo storico novecentesco, ma è giunto il momento di disegnarne i principali tratti ideologici. Il giudeocentrismo ne è infatti una delle componenti simboliche più importanti. Non si tratta soltanto di legittimare i massacri sionisti del popolo palestinese e il diritto dell’entità sionista a minacciare tutti i vicini, dalla Siria al Libano, dall’Iraq all’Iran. Questo è solo un gradito e benvenuto “effetto collaterale”. Si tratta di ben altro. Si tratta di assicurare simbolicamente l’impotenza dell’Europa e l’inchiodarla a un complesso di colpa inespiabile come presupposto dell’occupazione militare dell’Europa a tempo indeterminato da parte delle truppe imperiali USA. Giudeocentrismo significa pensare che il Novecento ha avuto un fenomeno fondamentale e primario, non paragonabile a qualunque altro fatto e pertanto unico, e cioè Auschwitz. È questa la ragione per cui, nel continente fiero della libertà illuministica di espressione, l’unico dibattito messo al bando è quello dei cosiddetti “negazionisti”. Con questo non intendo affatto dire che i “negazionisti” abbiano ragione. Può darsi perfettamente che non ce l’abbiano (penso al convincente libro di Hillberg). Mi prendo il diritto assoluto di non essere costretto per legge a studiare il coreano, la lotta giapponese, la botanica brasiliana e il numero esatto delle vittime di tutte le nazionalità nel corso della Seconda guerra mondiale. E non ne ho neppure bisogno, perché seguendo una filosofia umanistica, e universalistica generale sarei comunque contro Auschwitz e Birkenau, Dresda e Coventry, Zatyn e Marzabotto. Ma la messa fuori legge del dibattito negazionista in quanto tale non può che far sospettare che ci sia sotto una sorta di interdetto religioso. E infatti c’è. Il balletto dei milioni di vittime non ha come scopo il rispetto della memoria dei poveri morti, ma la legittimazione di un nuovo dominio sociale. La funzione del giudeocentrismo, quindi, non ha alcun carattere storiografico. Si tratta di una filosofia provvidenzialistica della sto-

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ria, che ha lo scopo di sostituire la centralità della crocifissione di Gesù (questo è l’aspetto rivolto ai cristiani), di legittimare l’occupazione coloniale sionista della Palestina (questo è l’aspetto rivolto ai musulmani), e infine di trasformare l’intera storia europea del Novecento in un solo evento peccaminoso da espiare per sempre con l’occupazione americana e con l’erezione dell’intero popolo ebraico in sacerdozio levitico di controllo dell’identità occidentalistica e islamofobica della globalizzazione imperiale. Non mi sono affatto divertito a fare queste osservazioni. Non essendo un esperto di questione ebraica, posso anche essermi sbagliato. Tutti possono sbagliare. Ma qui si ha a che fare con il coraggio di non accettare i ricatti del politicamente corretto. Gli eventuali errori possono e devono essere corretti, ma il silenzio autoimposto pauroso non è che una sorta di morte anticipata del corpo e dello spirito. 46. Dopo aver intenzionalmente violato il ricatto del Politicamente Corretto, che dopo aver consacrato la religione olocaustica e dopo aver eretto l’intero popolo ebraico a sacerdozio levitico dell’occidentalismo islamofobico e a gestore del senso di colpa collettivo degli intellettuali europei vuole impedire che si possa anche solo parlare della “questione ebraica”, come hanno fatto per secoli Spinoza e Hegel, Marx e Freud, Bebel ed Einstein, eccetera, torniamo ora al nostro problema, e cioè al rapporto fra il profilo culturale greco, cristiano ed ebraico. Come si è detto, il profilo culturale greco è un profilo comunitario, nato per difendere la comunità politica dei piccoli proprietari e produttori indipendenti dall’irruzione devastatrice dell’infinitezza dissolutiva delle ricchezze private. Questa genesi particolaristica ha però posto la sua candidatura “ideale” (e questa è la matrice dell’idealismo, non certo la giustificazione filosofica della religione, come hanno erroneamente opinato Lenin e Stalin) a una validità universalistica (katholikè), attraverso i concetti di educazione all’indipendenza e alla autonomia del pensiero (paideia), alla giu-

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stizia (dike), alla misura (metron), al freno politico alla dissoluzione sociale (katechon), al diritto di parola pubblico per tutti (isegoria), all’eguaglianza dei diritti politici (isonomia), e infine al logos come unione di calcolo armonico dei rapporto sociali (Pitagora, Clistene, eccetera) e di parola presa in pubblico nell’agorà come servizio gratuito pubblico (demosion) dato alla polis, e quindi massimo atto possibile di patriottismo comunitario (Socrate). In un secondo tempo, a opera soprattutto del cosmopolitismo multinazionale stoico, il logos diventa ragione universalistica rivolta a tutti, senza distinzioni di lingua, razza e religione. Come si è detto, il profilo culturale cristiano eredita dal logos greco di tipo stoico-ellenistico l’idea di universalità della natura umana e del genere umano, inserendolo però in una situazione storica caratterizzata non più dal modo di produzione dei piccoli produttori indipendenti, ma dal modo di produzione schiavistico, asfissiante e soffocante come è oggi il modo di produzione capitalistico, soprattutto dopo la fine di quel vero e proprio katechon (sia pure fragile e di pessima qualità) come era il benemerito comunismo storico novecentesco. Per questa ragione la liberazione era pensabile soltanto come asservimento universalistico a un unico liberatore divino. Questo asservimento distrugge ovviamente ogni residuo dello spirito della filosofia greca classica, ma non distrugge il comunitarismo che essa portava con sé. È questa, ovviamente, la ragione dell’odio anticristiano del dilettante baffuto Nietzsche. Questo comunitarismo, sia pure subalterno e sottomesso alle strutture feudali, signorili, mercantili e assolutistiche della storia europea dal 400 al 1800 circa, continua, a scorrere come un fiume carsico, mentre viene per la prima volta oggi messo veramente in pericolo mortale dalla generalizzazione dell’individualismo anomico del capitalismo della globalizzazione. Questo capitalismo anomico è nemico sia della grecità sia del cristianesimo, perché è incompatibile con i fondamenti comunitari che stanno pur sempre sotto questi due maestosi fenomeni storico-culturali. E l’ebraismo? Esiste un nucleo espressivo dell’ebraismo in quanto tale? E se sì, qual è?

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Molti commentatori ritengono che il messianesimo sia il nucleo portante del profilo culturale ebraico. Mi permetto di dissentire educatamente. È a tutti noto che il profetismo è un fenomeno pressoché ignoto al mondo indoeuropeo e greco, mentre è un fenomeno strutturale e onnipresente nel mondo ebraico. I libri profetici rappresentano una parte fondamentale dell’Antico Testamento, mentre l’Apocalisse di Giovanni, che chiude il Nuovo Testamento cristiano, non è a rigore un libro profetico, ma ne è certamente influenzato, perché l’apocalittica può essere definita come una forma visionaria ed estremistica del profetismo stesso. Non è un caso che siano pensatori ebrei che hanno insistito sul carattere messianico del marxismo stesso (Bloch), sia per approvarlo (il francese Michel Löwy, il greco Michail Savvas, eccetera), sia per criticarlo e respingerlo (Karl Löwith). Non è questa la mia opinione. Se proprio si vuole trovare una chiave filosofica per il grande pensiero filosofico ebraico, essa a mio avviso non si trova affatto nel messianesimo (di cui non nego la marginale esistenza), quanto nella reazione universalistica alla propria identità religiosa particolaristica. Ancora più esattamente, nella reazione universalistica di tipo filosofico alla propria identità religiosa particolaristica. Tutta la grande filosofia ebraica, da Gesù di Nazareth fino a Lukács passando per Spinoza e Marx, si fonda su di una reazione universalistica alla superstizione idolatrica per cui ci sarebbe bensì un solo Dio nell’universo, ma esso avrebbe inesplicabilmente scelto soltanto un popolo, il suo popolo eletto e il suo popolo prediletto. Il carattere antropomorfico-tribale di questa elezione idolatrica è talmente assurdo e odioso da suscitare prima di tutto una reazione all’interno delle coscienze più universalistiche del popolo ebraico. Gesù di Nazareth è stato certamente un ebreo, ma non a caso gli ebrei lo hanno respinto, e questo non solo e non tanto per il suo pretendersi “messia”, ma proprio per la natura universalistica del suo messaggio. Non a caso, quando si è dovuto esprimere in greco la natura universalistica di questo messaggio, si è necessariamente dovuto andare a pescare la parola logos (centrale già

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nel grande pensatore ebreo alessandrino Filone), che non a caso apre il Quarto Vangelo, quello di Giovanni. Il termine logos non ha infatti nulla di messianico, e tantomeno di apocalittico. Indica la Parola Universale di Dio, che in quanto parola normativa dei comportamenti umani è anche parola di vita (bios, zoé), di verità (aletheia), di giustizia (dike), di misura nei comportamenti e nelle ricchezze (metron), eccetera. In questo senso, e solo in questo senso, il cristianesimo non è una semplice religione di salvezza individuale (anche se per chi disegnava il pesce nelle catacombe romane lo era), e neppure una elaborazione gnostica. Sciocchezze. Il cristianesimo è prima di tutto l’estensione universalistica del modello comunitario greco di vita attiva e solidale. Contro ogni tentazione giudeofobica sotterranea, è bene dire in modo chiaro e forte che il grande pensiero filosofico di origine ebraica è grande proprio perché reagisce con una proposta di estensione universalistica, alla ristrettezza della religione ebraica e alle sue pretese di superiorità (contro queste pretese si legga l’insuperabile saggio del filosofo ebreo austriaco Sigmund Freud (Mosè e il monoteismo). In Isaia, vi sono già interessanti anticipazioni in tal senso. Gesù di Nazareth è un profeta universalistico, e non fonda per nulla una (inesistente) tradizione ebraico-cristiana (e infatti gli ebrei religiosi hanno per lui una cordiale antipatia come falso profeta), ma fonda soltanto una tradizione cristiana (e basta), che Paolo di Tarso contribuirà a razionalizzare ulteriormente in modo apertamente razionalistico e universalistico. Spinoza dovrà farsi espellere con una maledizione tribale dalla sinagoga di Amsterdam e dovrà sfuggire alla pugnalata di un fanatico per poter fondare filosoficamente un razionalismo universalistico politico (cfr. Trattato Teologico-politico) ed etico (cfr. Etica). Marx dovrà scrivere la Questione Ebraica per chiarire che non esiste nessuna emancipazione dalla alienazione finché sussisterà la potenza disumana del denaro. Lukács dovrà scrivere l’Ontologia dell’Essere Sociale, a mio avviso il punto più alto della filosofia marxiste dell’intero Novecento, per poter rifiutare non soltanto qualsiasi interpretazione deterministica ed economicistica del marxismo, ma anche e soprattutto per rifiutarne decisamente qualunque in-

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terpretazione messianica più o meno secolarizzata (chi conosce bene l’Ontologia non può che sorridere davanti all’interpretazione malevola di Löwith!). Il sionismo, questo spregevole fenomeno coloniale, ha soprattutto colpito la corrente umanistica e razionalistica dello stesso pensiero ebraico, da Gesù di Nazareth a Spinoza, da Marx a Lukács. Ha colpito al cuore il suo umanesimo universalistico emancipativo, al punto che persino pensatori originariamente sionisti (esemplare il caso di Abram Burg) hanno finito con il capirlo, sia pure troppo tardi. Ma la storia non è finita. Per fortuna sua e di tutti noi il popolo ebraico è sopravvissuto a Hitler, che ha cercato veramente di sterminarlo, al di là della conta dei morti nei Lager, conta essenziale per la storiografia, ma non rilevante per il giudizio filosofico negativo sul nazismo. Sopravvivrà anche al colonialismo razzista del sionismo, fattore permanente di espansione della giudeofobia nel mondo. Tocca a chi non è ebreo, ma conserva un’identità basata sull’umanesimo universalistico, aiutare gli ebrei che restano umanisti e universalisti (pochi o molti che siano) a sopravvivere a questo flagello. 47. Alcuni brevi ragionamenti sulla valutazione del protestantesimo, nella sua evoluzione ormai già vecchia di mezzo millennio circa, un periodo più che sufficiente per un bilancio filosofico di fondo. È bene partire dal fatto che prima di chiamarsi “protestanti” i protestanti chiamavano se stessi “evangelici”. Ora, chiamarsi evangelici significa enfatizzare la propria derivazione diretta dai Vangeli, e cioè dal Nuovo Testamento. Lo stesso Lutero, fondatore del protestantesimo, era all’inizio talmente “evangelico” da fare addirittura forti concessioni alla giudeofobia, valutando negativamente gli ebrei come nemici di Cristo. Il giovane Lutero reagisce alla incredibile corruzione della chiesa rinascimentale romana, e al suo vendere le indulgenze (e cioè i castighi purgatori) per finanziare

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i lavori di Bramante e di Michelangelo. Quella di Lutero è a un tempo un atto di patriottismo nazionale tedesco e una proposta di rievangelizzazione diretta della cristianità, che egli percepiva ossessivamente come minacciata dai turchi (fattore generalmente trascurato dalle ricostruzioni storiche, e invece importantissimo). Il coraggio di Lutero davanti a Carlo V dovrebbe essere ancora di esempio per ogni intellettuale di oggi, e così pure il suo radicalismo davanti alle proposte di compromesso. Lo stesso schierarsi con i principi contro Thomas Münzer (1524-1525), sia pure spiacevole, è comprensibile dati i rapporti di forza militari del tempo fra forze feudali e comunità contadine armate, che avevano dalla loro tutte le sacrosante ragioni del mondo (per cui, a posteriori, viva Münzer e abbasso Lutero!), ma erano condannate fin dall’inizio a una sicura sconfitta, per cui non si può neppure prendersela con Lutero per non aver voluto fare la morte eroica di un Che Guevara. Il problema di Lutero, però, non sta qui. Il suo problema stava in ciò, che finché rompeva con i cardinali romani maialoni aveva perfettamente ragione, ma il suo evangelismo, soggettivamente sincero, si basava su presupposti teologici e filosofici falsi e pericolosi, ispirati a quella concezione mostruosa che è la teoria agostiniana della grazia e della predestinazione, costruita su di una teoria soggettivistica del tempo come prescienza di Dio del destino futuro dell’uomo. Personalmente, non conosco filosofo cristiano occidentale più disgustoso di Agostino, che sotto una superficie di introspezione psicologica nasconde una concezione violenta della religione, quanto di più lontano dall’atteggiamento pacifico di Gesù di Nazareth. Confondere Agostino con Gesù di Nazareth è una cosa terribile, ancora più terribile di confondere il pensiero di Marx con il positivismo e il localismo razzista con il comunitarismo solidale. Agostino non sapeva neppure il greco, e infatti non esiste nessun pensatore latino meno “greco” di Agostino. L’ossessiva importanza che viene data a questo ideologo è per me uno dei limiti più grandi dell’intero pensiero occidentale. Ispirandosi al disgustoso Agostino, Lutero finisce con l’assegnare al massaggio cristiano una sorta di coloritura fosca e ossessiva (la

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“teologia della croce” appunto), e in questo modo il suo evangelismo, soggettivamente sincero quando lo agitava contro i pretoni corrotti in modo hussita e donatista, diventava prigioniero di una ferocia veterotestamentaria. Naturalmente, Lutero è troppo intelligente e “tedesco” per arrivare alla oscena teoria del “popolo eletto” su basi evangeliche, ma il suo agostinismo ripugnante apre la via a questa visione ossessiva della realtà. Dopo aver consumato una sacrosanta rottura con la corrotta chiesa rinascimentale italiana Lutero inchioda i suoi fedeli alla lugubre e paranoica teoria della predestinazione. Invito il lettore scettico nei confronti della mia interpretazione a leggere i vangeli neotestamentari, e potrà verificare lui stesso la totale assenza di questa fetida teoria nei quattro vangeli, e la sua relativa marginalità persino nelle lettere di Paolo di Tarso, generalmente indicate come la fonte della teoria della predestinazione. Il Nuovo Testamento è sostanzialmente un annuncio di liberazione, di solidarietà e di comunità. Per questo viene il logos, e non certo per terrorizzare i poveri pecoroni. E tuttavia, Lutero non è ancora colpevole della svolta individualista e veterotestamentaria del protestantesimo posteriore, che può essere definito in termini di eresia veterotestamentaria all’interno della tradizione cristiana. La tradizione cristiana fino ad allora aveva bensì illegittimato la contrapposizione guerresca totale all’Islam (e non avrebbe comunque potuto fare diversamente), ma in compenso aveva sostanzialmente messo ai margini non solo la teoria della predestinazione (che implica per sua stessa natura una divinità crudele e feroce), ma anche qualsiasi riferimento a un popolo eletto. Il cattolicesimo medioevale aveva avuto molti difetti (inquisizioni e roghi di eretici in primo luogo, e si pensi alle diecimila volte migliori chiese ortodosse orientali, che non misero mai in piedi vere e proprie inquisizioni organizzate, con torture e roghi annessi), ma almeno non era mai caduto nella bassezza di sostenere che gli italiani, gli inglesi, gli spagnoli o i francesi fossero popoli eletti e prediletti da Dio. Questa porcheria si sviluppò con il calvinismo, o meglio con quella variante cromwelliana fanatizzata chiamata “puritanesimo ingle-

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se”. Il lettore potrà stupirsi per una certa mia crudezza di linguaggio, apertamente “sopra le righe”. Ma se ne stupirà meno se comincerò a spiegare le ragioni di questa durezza di linguaggio. Siamo infatti alle radici dell’occidentalismo anomico moderno, razzista e colonialista, e allora anche l’inusitata durezza del linguaggio acquista un senso proprio. C’è infatti un necessario chiarimento da fare, per evitare incresciosi equivoci e fraintendimenti per la durezza del linguaggio che ho usato e che continuerò a usare. Non ho alcuna intenzione di proporre una sorta di “leggenda nera” rivolta al protestantesimo in quanto tale. D’altronde, sarei veramente uno sciocco autolesionista a farlo, dal momento che l’intero prossimo capitolo (che in un certo senso è un piccolo libro a sé stante) è rivolto proprio a criticare la “leggenda nera” rivolta contro il comunismo storico novecentesco in quanto tale. Cristianesimo, ebraismo, protestantesimo, marxismo, comunismo, eccetera, in quanto fenomeni storici e “fatti sociali” (Durkheim) hanno egualmente diritto a non essere inseriti in demonizzazioni paranoiche monocausali. Non mi interessa affatto proporre demonizzazioni paranoiche monocausali. Mi interessa invece richiamare l’attenzione sul fatto che oggi (non ieri, oggi) l’occidentalismo imperiale si fonda su un codice ideologico ricavato da una specifica secolarizzazione di temi non certo ebraico-cristiani, come ripetono i confusionari, ma su temi derivati principalmente dalla corrente calvinista del protestantesimo, e cioè in particolare la teoria della predestinazione dell’individuo, poi passata alla teoria della predestinazione del popolo anglosassone, la teoria del popolo eletto e prediletto, e infine la teoria barbarica della responsabilità collettiva, esercitata nel Novecento soprattutto da tre forze storiche, il nazionalsocialismo (Auschwitz), la repubblica imperiale americana (Hiroshima) e il sionismo. Torto o ragione che abbia, non voglio essere frainteso. La demonizzazione paranoica monocausale è il codice preferito dai cretini, maggioritari in tutti gli ambiti sociali, e soprattutto negli ambiti intellettuali, non certo perché gli intellettuali siano più stupidi degli altri, ma perché nel loro lavoro la carta è muta,

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non reagisce, non risponde, non obietta, non protesta, e quindi le si può far dire tutto ciò che passa nella testa a chiunque. Gesù di Nazareth sta quindi alla base delle crociate, dei roghi degli eretici e delle streghe, di Pizarro e del generale Custer. Mosè sta alla base delle azioni del generale sionista-nazista Ariel Sharon. Maometto sta alla base degli stupri compiuti dai turchi a Santa Sofia nel 1453. Marx sta alla base di Pol Pot e di Beria. Fichte e Hegel stanno alla base di Hitler. E si potrebbe continuare, perché lo stupido ama alla follia la demonizzazione paranoica monocausale, che gli evita di sprecare il suo tempo con studi più approfonditi. Non esiste quindi nessuna leggenda nera continua e monocausale da Calvino al criminale Bush. Esiste invece il problema di capire il perché il codice culturale greco, possibile base di riferimento del comunismo comunitario, è stato oggi sostituito da un codice culturale alternativo, basato sullo stravolgimento razzista dello stesso cristianesimo, originariamente universalistico, e che è stato edificato su di una riduzione veterotestamentaria dello stesso messaggio cristiano, matrice delle due concezioni del popolo eletto da Dio e della responsabilità collettiva (concezioni totalmente assenti nel codice neotestamentario), e sulla teoria della predestinazione, teoria agostiniana passata prima a Lutero e poi a Calvino, totalmente estranea al logos cristiano originario, che era Parola (logos) universalistica di amore, comunità e solidarietà. 48. La chiesa cattolica aveva smesso di essere universale, ed era diventata soltanto romana, attraverso una serie di eventi storici ben noti: la svolta carolingia dell’800, in cui accettò di fatto di diventare il sacerdozio dell’impero di Carlo Magno e poi degli imperatori sassoni, un po’ come la chiesa zoroastriana era diventata il sacerdozio degli imperatori sassanidi (il che portò poi alla sua rovina); la scelta di Gregorio VII di fondare una teocrazia occidentale, con connesso assurdo e inutile celibato obbligatorio dei preti, assolutamente non vincolante e previsto nel canone cristiano; la ripresa del tentativo teocratico di Bonifacio VIII che Dante non mise certamente all’inferno per caso; la scelta di usare i ro-

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ghi per gli stessi cristiani che intendevano ricostruire una “chiesa invisibile alternativa” non corrotta; il periodo avignonese, in cui la chiesa diventò interamente una collettrice di tasse e di imposte; il periodo rinascimentale, in cui i papi diventarono principi come gli altri, semplicemente un po’ più ipocriti; eccetera. Avendo smesso di essere universale (la situazione assomiglia molto alla totale mancanza di universalità dell’occidentalismo imperiale USA & Vassalli (U & V), per cui in un certo senso il fondamentalismo politico islamico oggi riempie lo stesso ruolo del protestantesimo militante del Cinquecento), ogni reazione particolaristica diventa ipso facto legittimata. Sono note le tesi di Max Weber sul ruolo del calvinismo nel preparare i presupposti ideologici della legittimazione dell’individualismo capitalistico attraverso la connessione fra la teoria della predestinazione e del Beruf (vocazione-professione). Conosco bene le obiezioni che furono fatte a questa teoria, ma essa mi sembra però ancora convincente nell’essenziale. Certo, il decollo capitalistico può avvenire anche su basi totalmente diverse (capitalismo cattolico del Seicento europeo, capitalismo ebraico, capitalismo giapponese shintoista-­buddista, capitalismo zoroastriano dei parsi in India, eccetera), ma resta il fatto però che l’assunzione dell’ipotesi agostiniano-luterana della predestinazione, totalmente estranea al logos universalistico-­comunitario greco, comporta necessariamente che chi ci crede cerchi una conferma prima in un suo successo personale terreno (il commerciante schiavista seicentesco e l’imprenditore manifatturiero settecentesco), e poi in una investitura nazionale scelta da Dio (impero monarchico inglese, impero repubblicano americano, repubblica sionista, repubblica razzista sudafricana). Attribuire alla divinità monoteistica, che dovrebbe ricoprire l’intero universo (a meno che la si voglia limitare al solo sistema solare o alla porzione di Via Lattea cui apparteniamo), un’intenzione idolatricamente antropomorfica come un progetto di elezione, di predilezione e di predestinazione limitate ad alcuni e non ad altri (ebrei e non “gentili”, bianchi e non neri, anglofoni e non franco-

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foni, eccetera) è ovviamente una superstizione indegna di qualsiasi universalismo razionale Questa superstizione antropomorfica e idolatrica non è una parte della tradizione greca, ma è la sua negazione totale. Forse che Hitler è una “parte”, sia pure contestabile, dell’umanesimo occidentale? Naturalmente non lo è. E quindi non si tratta di creare una “leggenda nera” sull’intero protestantesimo, il mezzo millennio che ci precede ha visto grandissimi protestanti attivi in tutti i campi dell’emancipazione umana. Si tratta di capire che la teoria della predestinazione è da buttare insieme con la teoria della razza e con la teoria del carattere “naturale” della proprietà privata. Giuliano Gliozzi, un filosofo italiano mio amico fraterno scomparso prematuramente nel 1991, ha non a caso studiato insieme la teoria della predestinazione, la teoria della razza e la teoria della proprietà privata, e non si è mai stancato di ricordarmene la connessione organica. Teoria della predestinazione divina, con elezioni di individui e popoli eletti, teoria della razza e teoria della naturalità della proprietà privata stanno alla base del codice ideologico identitario del moderno capitalismo, anche se, ovviamente, siamo ormai in una fase matura di questo capitalismo, in cui è possibile per questo codice “dismettere” interamente la teoria della razza, portare a termine definitivamente la secolarizzazione “laicista” della predestinazione, mantenendone soltanto l’arroganza occidentalistica coniugata con l’islamofobia, la leggenda nera del comunismo e la religione olocaustica, e conservare infine la sola teoria della naturalità della, proprietà privata capitalistica, sorgente del monoteismo del mercato su cui si basa la sostituzione dell’economia politica alla politica propriamente detta, alla religione e alla filosofia. Chi ha compreso questo insieme di concetti capirà anche perché chi si richiama a una sintesi fra libertà individuale del soggetto pensante e solidarismo comunitario non potrà fare sconti su questo insieme di problemi.

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49. La ricerca scientifica sulla vita di Gesù (Lebensjesuforschung), nata nel Settecento in Germania (Reimarus), sviluppatasi nell’Ottocento in Francia (Renan), incrociatasi con il marxismo (Engels, Kautsky, scuole sovietiche, Ambrogio Donini, eccetera) e particolarmente diffusa all’interno della cultura anglosassone, è un campo realmente affascinante, e questo sia per i credenti sia per i non credenti. Per chi si interessa alla fondazione “di lunga durata” del comunismo comunitario essa è importante quasi come la corretta ricostruzione del profilo filosofico greco. Il fatto che ci dedicherò molte meno pagine non è dovuto alla scarsa importanza dell’argomento, ma a semplici ragioni di economia dello spazio complessivo di questo saggio. Si tratta di un argomento su cui sono moderatamente competente, fino ad averci scritto anche un libro (con Massimo Bontempelli). Ma, appunto, in questo paragrafo cercherò di andare subito all’essenziale del problema. E l’essenziale sta in ciò, che non appena si comincia a prendere sul serio il profilo storico di Gesù, al netto della valutazione delle fonti attendibili e credibili e del peso che decidiamo di darne, tutto il cosiddetto codice culturale ebraico-cristiano, su cui si basa l’ideologia portante dell’occidentalismo anomico individualistico imperiale sparisce come un soffio pestifero di vento inquinato, e si può ricominciare a respirare l’aria fresca della parola di Dio (logos), intesa come parola di giustizia (dike) e di misura (metron), oltre che di amicizia (philia), e di amore (agape). Come ho detto, la ricerca sulla vita di Gesù è qualcosa che riguarda tutti, e quindi non deve essere lasciato agli specialisti esperti dell’ultimo papiro armeno tradotto dal copto in caratteri aramaici avvolto nelle bende di una mummia egizia trasportata in un monastero nestoriano saccheggiato dai monofisiti durante uno scontro con gli ariani. La ricerca sulla vita di Gesù, purtroppo, è una posta in gioco delle concessioni alternative globali del mondo che oggi si scontrano. Il problema non consiste affatto, come molti credono, nel semplice fatto che alcuni dei ricercatori sono atei, e quindi arrivano sempre alla conclusione che Gesù era un uomo come noi (zelota,

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esseno, fariseo, inesistente e creato posteriormente dal mito di fondazione e di legittimazione di una religione, eccetera), mentre altri ricercatori sono cristiani, e quindi devono in qualche modo “salvare” la sua doppia natura, divina e umana. Certo, questa differenza è importante, ma non decisiva. il fatto che Gesù fosse un uomo come Maometto, Socrate e Kant, oppure una incarnazione della divinità esistente da sempre è importante per chi decide di fare la comunione, ma non tocca il cuore del problema. E il cuore del problema sta in ciò, che al di là della sua divinità o della sua integrale umanità, eccetera, il personaggio storico di Gesù ha pur sempre proposto una parola (logos), e si tratta di sapere di cosa parlava esattamente questa parola (logos), che cosa diceva, che cosa consigliava, che cosa annunciava. Ecco, soprattutto che cosa annunciava, dal momento che vangelo (evanghelion) significa soprattutto annuncio (più esattamente: buona novella, annuncio felice). Le chiese, tutte le chiese, ma quella cattolica in particolare (in quanto meno comunitaria e più occidentalistica di tutte le chiese ortodosse, che non accetterebbero mai – lo posso assicurare – di essere definite ebraico-cristiane), tendono ovviamente a destoricizzare totalmente la figura dei Gesù storico, tra sformandolo nel più generico e rassicurante Cristo cioè il semplice “unto” del Signore, termine che, a rigore spingerebbe a una interpretazione “umana”, ariana e maomettana, della sua figura profetica. L’ultimo libro di Ratzinger su Gesù è un capolavoro consapevole di destoricizzazione generica della figura di Gesù, trasformato in una sorta di icona esistenziale del tutto atemporale, secondo la linea di quasi tutta l’(orribile) tradizione teologica tedesca, non importa se protestante o cattolica. Quali ne sono le ragioni? Il discorso sarebbe lungo, ma qui mi limiterò a ciò che concerne il problema del rapporto fra il Gesù storico e il comunismo comunitario, o anche solo, per chi rifiuta il comunismo, per il codice della solidarietà comunitaria, che oggi non può che coincidere in larga parte con la critica radicale al capitalismo, che invece la chiesa cattolica in tutte le sue espressioni

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“ufficiali” rifiuta radicalmente, accettando invece integralmente la leggenda nera del comunismo storico novecentesco, assediata com’è sia dall’individualismo laicista, relativista e nichilista, sia dalla religione olocaustica, che la ricatta attraverso il pretesto dei preti pedofili. Ma cerchiamo di ignorare queste miserie per andare direttamente al cuore dei problemi. La storia della vita di Gesù è un genere storico-filosofico che si traveste da accertamento storiografico riservato aramaico scritto in alfabeto copto da un copista nestoriano influenzato da un amico armeno monofisita. Si tratta di un denso fuoco di sbarramento. Il problema, infatti, non sta tanto nel fatto, storiograficamente non accertabile, se Gesù fosse stato un Dio incarnato o un nomo qualunque, ma nel capire che cosa volesse comunicare Gesù ai suoi discepoli e uditori, ovviamente nel contesto semantico, politico e religioso dell’epoca. Ebbene, questo non lo troverete mai in nessuna libreria religiosa politicamente corretta “ufficiale”. Lì troverete soltanto un inesistente e vergognoso Gesù orfico-pitagorico profeta di una religione di salvezza dell’anima individuale immortale, venuto per annunciare che chi crederà in Lui avrà la garanzia di una continuazione dell’autocoscienza della propria mente anche in assenza di un supporto corporale. E dal momento che effettivamente alla luce della cosiddetta “scienza moderna” una simile mente senza supporto corporeo appare francamente incredibile, qualunque matematico positivista tipo Odifreddi può farsi beffe di questa superstizione. Ma il vero problema non sta nel fatto se e in che misura l’annuncio evangelico sia “scientificamente” dimostrabile (mi sembra evidente che non lo è), ma che cosa vogliano metterci al suo posto come supporto simbolico culturale di massa del legame sociale. Il problema è questo, non certo se Gesù è uscito o no dalla sua tomba, se Maria Maddalena lo ha visto o meno, se la lancia nel costato del soldato romano lo abbia o no ucciso, se lo abbiano staccato dalla croce ancora vivo, se lo abbiano condannato a morte gli ebrei del Sinedrio (tesi giudeofobica) oppure il governatore romano Ponzio Pilato (tesi giudeofila), eccetera. Tutto questo fa parte della legittima simulazione ideologica, che con la scusa di Gesù vuole in realtà parlare d’altro e mandare messag-

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gi politici contrastanti. Il problema resta sempre uno, e uno solo: che cosa vogliono mettere al posto della divinità di Gesù, una volta che l’abbiano smantellata. Ed è così che bisogna a mio avviso impostare teoricamente il problema. La concezione borghese-capitalistica del mondo vuole mettere al posto della divinità di Gesù l’autofondazione integrale su se stessa dell’economia, sulla base della naturalità originaria della proprietà privata (Locke), della autofondazione della società senza bisogno di legittimazioni esterne come la religione, il diritto naturale e il contratto sociale (Hume), l’armonia del mercato (Smith), eccetera. Si apre la strada per far diventare Gesù di Nazareth, l’uomo che frustò i mercanti del tempio e fu crocifisso concordemente dai colonialisti romani e dal sinedrio ebraico mafioso al loro servizio con un cartiglio sulla croce che lo connotava come capo di zeloti armati ribelli, come una sorta di belante seguace di Nonna Pecora. Diventato un belante seguace di Nonna Pecora, e privato di qualunque normatività sociale (dal momento che il logos, se è veramente parola divina, non può che avere anche e soprattutto normatività sociale comunitaria), Gesù può essere arruolato come autista della Croce Rossa e delle organizzazioni non governative (ONG) al servizio della crociata occidentale. Nello stesso tempo, e complementarmente, l’autofondazione dell’economia su se stessa, comportando la relatività di ogni relazione individuale con i valori d’uso e di ogni potere d’acquisto con i valori di scambio, restaura il già segnalato motto di Protagora, che inaugura la linea scettico-relativistica Hume-Nietzsche-Weber-Rorty, il Cabaret Voltaire che accompagna sempre i bombardieri messianicomonoteisti di Bush. Diverso è il caso di Kant. Kant non si occupa direttamente della vita di Gesù, ma nello stesso tempo apre indirettamente la via per tutte le posteriori interpretazioni razionalistiche e umanistiche di Gesù, tagliandone nello stesso tempo fuori le eventuali interpretazioni messianiche e rivoluzionarie. Come è noto, Kant concretizza nel modo migliore il “mandato” diretto ideale assegnato agli intellettuali dalla borghesia illuministica europea, e cioè di-

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mostrare che Dio, pur esistente, non si poteva dimostrare razionalmente. Non potendosi dimostrare razionalmente, cadevano di conseguenza tutte le pretese normative in campo politico giustificate in nome di Dio, e cioè tutte le pretese normative di tipo feudale-signorile. Nello stesso tempo il mandato indiretto di questa borghesia illuministica europea non voleva assolutamente che si arrivasse al materialismo e all’ateismo esplicito, e preferiva una sorta di deismo moderato a base universalistica, deismo moderato che era anche il codice filosofico identitario della Massoneria. La Massoneria funzionava infatti come contro-chiesa ultraborghese. La morale kantiana, espressa nelle tre formulazioni del cosiddetto Imperativo Categorico, è un ricalco fedelissimo della morale cristiana, depurata da ogni fastidioso messianesimo e soprattutto da ogni invito a ristabilire la giustizia e l’eguaglianza sociale. La via per un Cristo “umanista borghese” era così trionfalmente aperta. L’Ottocento (per esempio Renan, autore di una Vita di Gesù che fece scuola) propose un Gesù di Nazareth allievo di Kant, o meglio un kantiano che parlava aramaico anziché tedesco. Questa posizione umanistica moderata restò solo però cibo per intellettuali, perché il colonialismo imperialistico e razzista pretendeva un Cristo Re meglio spendibile per giustificare la sottomissione delle tribù comuniste primitive e dei dispotismi comunitari asiatici (per usare la corretta terminologia di Hosea Jaffe). E tuttavia, in questa congiuntura storica si affermò prima la corrente dei giovani hegeliani (esemplare la Vita di Gesù di Strauss), che potremmo più correttamente connotare come scuola dei giovani feuerbacchiani, e poi il clima positivistico. Il positivismo non è affatto un romanticismo della scienza (Abbagnano), ma è un monoteismo della scienza. Ogni vero monoteismo non tollera nessuna altra divinità al di fuori della propria, e deve necessariamente sostenere che non esiste nessuna altra verità, al di fuori di una sola, quella scientifica. La verità religiosa viene tollerata soltanto come legittimo diritto individuale a credere quello che si vuole, dal coccodrillo sacro a Nonna Pecora, mentre viene irrisa se pretende appunto di opporsi a Santa Scienza, unica divi-

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nità universale. Il feticismo del documento autentico e indiscutibile porta il positivismo a sostenere che Gesù non è mai esistito, ed è una posteriore invenzione mitica costruita a posteriori dai suoi seguaci prima ebraico-cristiani e poi decisamente solo cristiani. Dal momento che il successivo “marxismo” è soltanto una corrente eretico-popolare del positivismo universitario, sia pure ingannevolmente travestita da ripresa della dialettica hegeliana, non possiamo stupirci se al suo interno sia prevalsa la tendenza a seguire su questo punto il barbuto maestro borghese positivista, e a sostenere cioè l’inesistenza storica della figura di Gesù di Nazareth. Vi furono alcuni lungimiranti studiosi marxisti che non seguirono questa positivistica idiozia, ma essi furono ben presto emarginati, perché in queste cose l’idiozia vince inevitabilmente sulla saggezza, in quanto gravitazionalmente l’idiozia segue sempre la linea della minor resistenza ideologica rivolta al destinatario più ignorante, rozzo e scemo, che è sempre statisticamente la maggioranza. Mito del progresso, inesistenza di Dio e invenzione mitica di Gesù sono tre elementi ideologici (non i soli, certamente) che testimoniano la derivazione e la subordinazione del “marxismo” al positivismo universitario tedesco del tempo, e che ne hanno impedito la generalizzazione realmente universalistica. Il successivo comunismo sovietico ereditò integralmente la teoria dell’invenzione mitologica posteriore di Gesù e della sua inesistenza storica, ma non si trattò soltanto di bovina trascrizione in lingua russa del codice teorico del positivismo tedesco. Si trattò del fatto che il comunismo di Stalin era una religione integrale di mobilitazione popolare, e in quanto religione integrale doveva costituire una nuova teologia, basata su di un monoteismo scientifico della Materia e della Storia, il cui elemento rigorosamente monoteistico – necessario per evitare un dualismo manicheo e zoroastriano fra Materia da una parte e Storia dall’altra, doveva necessariamente dare luogo a una dialettica monoteisticamente unificata delle leggi comuni alla materia e alla storia (il materialismo dialettico, appunto). In questo contesto, la Dialettica della Natura di Engels dovette

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sostituire necessariamente i Vangeli e soprattutto le lettere universalistiche di Paolo di Tarso. Qui la stupidità positivistica raggiunse il suo culmine. Anziché valorizzare il logos universalistico, solidaristico e comunitario di Gesù di Nazareth, e anziché annettere alla tradizione comunista il Vangelo di Giovanni (come era perfettamente possibile, e come sostenevano in quegli stessi anni correnti cristiano-ortodosse che avevano aderito al comunismo), i positivisti idioti in giacca di pelle nera preferirono pubblicare milioni di libretti di “ateismo scientifico”, in cui si cominciava con una definizione di Dio in termini di «riflesso aberrante nella mente umana dell’ignoranza dei fenomeni naturali e sociali» (cito da uno di questi libretti in traduzione tedesca). Alla fine di questo processo di ateismo scientifico si ha avuto quella individualizzazione anomico-­scettica del popolo sovietico che ha potuto fra il 1986 e il 1992 liquidare tutto il “comunismo” fatto precedentemente. Eppure, anche Robespierre, che era un russoviano moderato e non un positivista cretino, aveva già capito dove andava a parare l’“ateismo” di Helvetius. Nei paesi occidentali, in cui i comunisti non erano costretti per legge ad aderire alla teologia unitaria della Materia e della Storia, si svilupparono interpretazioni autonome e originali della vita di Gesù, che dovettero contrapporsi, da un lato, al monopolio simbolico delle chiese e dei loro cardinaloni, e dall’altro alla stupidità positivistica di chi aveva risolto il problema di Gesù, con il big bang, la deriva dei continenti, i telescopi, i microscopi, Santo Darwin e Santo Einstein. Come non poteva non avvenire, questa tendenza rivoluzionaria, influenzata dal clima estremistico-operaistico-sindacalista sviluppatosi nel cruciale ventennio 1956-1976 (emblematicamente, dalla delegittimazione di Stalin a opera dell’ucraino analfabeta Krusciov alla morte di Mao Tse-tung), sovrappose su Gesù di Nazareth la doppia immagine del contestatore di estrema sinistra e del sindacalista rivendicazionista. Gesù diventò così una sorta di “zelota improprio”, di “esseno militante”, e di precursore aramaico di Che Guevara.

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È probabilissimo che Gesù abbia frequentato nel deserto gruppi essenici, conosciuti oggi anche attraverso i famosi Papiri di Qumran, scoperti in una grotta della Palestina nel 1947. E tuttavia, la sua predicazione fu pubblica, e in quanto tale per nulla essenica. È praticamente sicuro che Gesù fu condannato a morte e giustiziato sulla croce sulla base di una condanna per insurrezione di tipo zelotico, per il semplice fatto che il cartiglio che gli fu posto sulla croce (INRI, e cioè “Gesù di Nazareth Re dei Giudei”) indicava esclusivamente i ribelli zeloti armati, i cui capi si autonominavano sempre “re dei Giudei”, in quanto restauratori del regno di Davide e di Salomone. D’altra parte, la potenza coloniale occupante romana, che occupava la Palestina con la stessa feroce determinazione con cui la occupano oggi i sionisti, non condannava mai per ragioni religiose, in quanto non toccava a lei certificare la validità o meno di una pretesa messianica, ma soltanto punire fatti accertati di ribellione. Ora, non sembra che Gesù abbia diffuso un messaggio nazionalistico-zelotico. Se lo avesse diffuso, non sarebbe stato il logos di Giovanni, un logos universalistico di giustizia e di solidarietà. È allora probabile che la via migliore sia quella che porta a indagare la natura solidaristica e comunitaria dell’insegnamento originale di Gesù, mettendo da parte il Gesù dei pacifisti pecoroni a “prescindere”, il Gesù occidentalista di Pera, il Gesù kantiano di Renan, il Gesù cattolico destoricizzato di Ratzinger, il Gesù assassino e imperialista di Bush, il Gesù hippie e sballato dei bambini di Dio, il Gesù ebreo e solo ebreo della giudeofilia laica di oggi, e tutti gli infiniti Gesù che pullulano nell’ignoranza delle fonti storiche, e che consentono di appiccicare a Gesù etichette di destra, centro e sinistra, quadro obbligatorio della volgare ignoranza destoricizzata di oggi. La mia opinione, espressa in breve e in forma apodittica, è che coloro che si sono avvicinati maggiormente alla figura storica di Gesù, e nello stesso tempo al suo significato simbolico, sono coloro che ne hanno rilevato la centralità della solidarietà comunita-

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ria universale (Fernando Belo, Massimo Bontempelli). Fernando Belo, un sacerdote portoghese proveniente da studi filosofici francesi, ha molto insistito sulla sostituzione di una sorta di economia generalizzata del dono reciproco all’economia privatistica e schiavistica del tempo. In modo ancora più acuto Massimo Bontempelli, che ha studiato l’intreccio fra il modo di produzione antico-­ orientale dominante nell’area palestinese e il modo di produzione ellenistico-romano, con lo scontro fra le due logiche riproduttive che questo scontro comportava, ha proposto una “traduzione” di molti termini usati da Gesù e dai suoi apostoli e discepoli che mi sembra sostanzialmente credibile. Gesù riteneva di essere Figlio Di Dio, ma non certamente nel senso di essere divino anche lui (su questo punto ritengo che ariani e musulmani abbiano ragione nell’essenziale), quanto di essere la “parola eterna” del padre, parola che essendo “vera” è sempre vera da sempre (in un significato che a mio avviso è più o meno lo stesso di Parmenide, Eraclito e Pitagora). In quanto Parola di Dio, Gesù di Nazareth, battezzato dal Battista, intendeva “purificare il Tempio”, che era allora non certo una chiesa da pulire e da derattizzare, ma era il grande ministero dell’economia della distribuzione dei beni dell’intero popolo ebraico (altro che il capitalismo finanziario dei sionisti di oggi!!!). La purificazione del tempio consisteva in una grande riforma solidale e comunitaria chiamata nel linguaggio del tempo «anno di misericordia del signore» (Lc 4,14-30), ed è proprio per averla annunciata in una sinagoga che Gesù fu concordemente minacciato dalla “destra” del tempo (i Sadducei) e dalla “sinistra” del tempo (i Farisei). È ovvio che sto usando i termini “destra” e “sinistra” in modo volutamente caricaturale, per indicare però una cosa reale, e cioè che quando arriva un vero rivoluzionario, e non un pagliaccio mediatico quaquaraquà (per usare il linguaggio di Leonardo Sciascia), tutto intero l’establishment ufficiale, dall’estrema destra all’estrema sinistra si alza urlando con la bava alla bocca per urlare concordemente: “Uccidi! Uccidi! Barabba! Barabba!”. E così fecero romani, zeloti, sadducei e farisei, occupanti imperialisti che parlavano latino e greco, e mafiosi del Sinedrio che parlavano ebraico e aramaico.

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Purificazione del tempio e anno di misericordia del signore implicavano la famosa “remissione dei debiti”, che oggi il popolo ripete senza neppure immaginare (e soprattutto senza voler affatto sapere) che un tempo questa formula, oggi stereotipo conformista belante-pecoresco privo di significato, connotava una riforma radicale della società in senso solidaristico-comunitario. Per questo Gesù incitava i suoi seguaci ad abbandonare i loro beni e a seguirlo. Li incitava perché, una volta compiuti l’anno di misericordia del signore e la purificazione del tempio, ci sarebbe stato da mangiare per tutti con una equa distribuzione solidale. Personalmente, interpreto così la moltiplicazione dei pani e dei pesci, a meno che si voglia preferire l’interpretazione per cui il Mago affonda la mano in un paniere vuoto, e crea magicamente triglie, orate e altri pesci prelibati. Gli idolatri scemi credano pure queste cose, azzuffandosi con i positivisti che invece non ci credono in nome dei manuali scolastici di fisica e di chimica. In quanto ebreo, Gesù riteneva che per propiziare quanto intendeva fare (purificazione del tempio, anno di misericordia del signore, immortalità per tutti coloro che avessero contribuito a compiere attivamente questo rinnovamento radicale della società, creazione di una comunità solidale per tutti, prima per gli ebrei e dopo anche per tutti gli altri, e quindi non solo per gli ebrei, eccetera), era probabilmente necessario passare attraverso il sacrificio di un “servo sofferente” (cfr. Is 53; Sap 2,13-20). Come si vede, nessuna predestinazione agostiniana, nessun Gesù alla Pera-Fallaci, nessun Dio degli Eserciti, nessuna croce dipinta sulla veste dei crociati, nessun Gesù bombardatore del criminale Bush, eccetera. Un Gesù sofferente, comunitario e solidale, una parola di solidarietà e di comunità. Non intendo certamente sostenere che le interpretazioni di Fernando Belo e di Massimo Bontempelli siano l’ultima parola su questa delicata questione. Tra l’altro, lo stesso Bontempelli ha abbandonato questa acuta interpretazione per aderire a stupidaggini psicologistiche sull’amore fra Gesù e Maria Maddalena, che sarebbero del tutto legittime sul piano letterario (vedi L’Ul-

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tima Tentazione di Nikos Kazantzakis), ma che sono indegne di credibilità sul piano storico. Qui però non si parla di persone, ma di un fenomeno storico. In breve, nel periodo storico 1956-1976, quando si pensava ancora che il comunismo fosse legittimo, hanno potuto farsi strada interpretazioni comunitarie e solidaristiche di Gesù, che hanno cercato di connotare la comunità e la solidarietà nei termini storici del tempo e non con una retroazione demenziale ricalcata su guerriglieri barbuti e su sindacalisti urlanti. Entrati nell’era del capitalismo assoluto, la stessa vita di Gesù si avvia sui binari, complementari e antitetico-polari, di quella che chiamerò la polarità Joseph Ratzinger-Corrado Augias. Mi spiace di mettere in rapporto figure tanto diverse per importanza e soprattutto dignità intellettuale, ma qui intendo far comprendere un intero clima d’epoca, l’epoca della pretesa della fine capitalistica della storia, della nuova guerra islamofobica di civiltà e dell’imposizione della leggenda nera sull’intera storia del Novecento. Non si tratta infatti di imporre la speculare immagine idiota del Gesù comunista o del Gesù capitalista. Gesù, ovviamente, non era e non poteva essere né comunista né capitalista, né di destra né di sinistra, né sindacalista né consulente aziendale, eccetera. Si tratta di riavvicinarsi a Gesù armati di quel principio metodologico che chiamerò comune senso del pudore. Il papa filosofo tedesco Joseph Ratzinger ha recentemente scritto un’opera su Gesù che è un vero capolavoro edificante di destoricizzazione integrale, in cui sembra che il Cristo non si sia mai chiamato anagraficamente Gesù e non sia mai vissuto in un contesto storico-temporale specifico. È probabilmente quello che vuole un settore (ultra-minoritario) di gente sensibile per bene nauseata dalla televisione per deficienti, dalla centralità cosmico-­metafisica di Luxuria, dal Grande Fratello, dall’Isola dei Famosi e dal contrasto epocale e storico-filosofico fra Veltroni e Berlusconi. Questa parte spiritualmente migliore dell’attuale gregge capitalistico decerebrato è disposta a “riaccogliere” l’esempio di Gesù, perché vuole confusamente sensatezza di vita, ristabilimento di valori familiari e comunitari essenziali, non è giustamente interessata trop-

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po a sapere se dispone o meno di un’anima immortale oppure se Dio possa essere dimostrato in modo “scientifico”. E tuttavia la destoricizzazione integrale della vita di Gesù, con la sua connessa trasformazione in una sorta di “significante” riempibile a piacere, non mi sembra un buon modo di essere cristiani. Dal momento che Ratzinger è attaccato da una pittoresca Armata Brancaleone di nostalgici dei papa-boys, odiatori della cultura filosofica, germanofobi a prescindere, cattolico-sionismi fanatici, femministe del gender, laici furiosi, eccetera, è normale che per reazione contro questi mostri io ne abbia maturato un giudizio favorevole. Certo, mi disgustano apertura all’occidentalismo imperiale, concessioni alla islamofobia criminale, eccessivo credito ai crociati della guerra di civiltà tipo la Fallaci, Pera o Magdi Allam, tutta gente da inferno dantesco, ma mi rendo conto che non faccio parte del suo gregge cattolico e non tocca a me dirgli cosa deve fare per essere il papa della chiesa cattolica, a differenza della turba laicista, che cerca di imporgli la sua agenda di scristianizzazione accelerata, e lo riempie di epiteti e di improperi se non accetta subito il matrimonio gay, la rimozione dei crocefissi dai luoghi pubblici, Santa Luxuria, San Vattimo, Santo Pannella, Santa Bonino e la sostituzione immediata della «Repubblica» all’«Osservatore Romano» e del Cardinale Scalfari al Cardinale Bertone. Contro questa turba fastidiosa è evidente che Ratzinger svetta come le Alpi sul Testaccio di Roma (originariamente collina fatta di cocci). E tuttavia il suo Gesù resta un moderato teologo bavarese frutto di una demarcazione dal messianico ebreo comunista Ernst Bloch e dal laico insipido per benpensanti politicamente corretti Hans Küng. Con il tramonto del contesto storico che aveva permesso le letture Belo-Bontempelli si è aperta una nuova fase della cristologia atea per miscredenti, ben rappresentata dalle ipocrite vite di Gesù del giornalista Corrado Augias. Il presupposto per cui Gesù era un uomo, e solo un uomo, è ovviamente lo stesso di quello di opere come quelle di Massimo Bontempelli “prima maniera”. Ma mentre il Bontempelli “prima maniera” inseriva Gesù in un insegnamento solidale e comunitario, egualitario e rivoluzionario, Augias

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fa parte della cultura più orribile mai esistita dal tempo degli egizi a oggi, il laicismo occidentalistico intriso di relativismo e di nichilismo, pienamente allineato all’impero americano e al sionismo. Il discorso di tutti gli Augias è il seguente: Come vedete, Gesù era un uomo, e solo un uomo. Quello che diceva aveva senso unicamente nel contesto storico in cui è vissuto, e per noi invece, che siamo razionalisti, illuministi, liberali, eccetera, non ne ha più nessuno. Se è così, allora Ratzinger, che pretende di legare quello che dice al carro di un Dio, parla soltanto a nome della sua congrega di tradizionalisti ostili alla “modernità”. E quindi via libera alla nostra società individualistica e ultra-capitalistica di sudditi americani e di sionisti pazzi.

Se le cose stanno così, è chiaro che Ratzinger vale mille volte di più della tribù degli Augias e degli Scalfari. Ma le cose non stanno solo così. Le cose devono infatti rilegittimare, sia pure in forma necessariamente minoritaria e di nicchia (almeno per ora) una prospettiva solidale, comunista e comunitaria. 50. Giunti a questo punto, così come bisogna saper “terminare uno sciopero”, è necessario anche chiudere un capitolo di saggio. Qualche lettore impaziente potrebbe pensare che questo capitolo sia stato troppo lungo, troppo poco politico e troppo storicofilosofico. Errore. È esattamente il contrario. Se vogliamo prendere sul serio la Diade Comunismo e Comunità, e non limitarci a considerarla una sigla per frettolosi deficienti identitari rimasti orfani di altre sigle di partiti e partitini, dobbiamo voltare le spalle al chiacchiericcio contemporaneistico del ceto politico e delle sue appendici giornalistiche e “intellettuali”. Soprattutto, dobbiamo demarcarci da tutto ciò che gli “intellettuali” considerano urgente, attuale e importante. Riflettere su Parmenide e su Gesù di Nazareth è mille volte più importante dell’ignobile chiacchiericcio contemporaneistico che ci viene imposto dalla superficie nervosa dei giornali detti di “sinistra” e dal roteare vorticoso dei ceti politici professionali rimasti senza posto

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per sconfitte elettorali o licenziamenti dai loro organi di comunicazione a finanziamento statale, cooperativo, bancario o politicosindacale. Chi non comprende che tutto ciò che discutiamo in questo saggio presuppone una scissione e una secessione umana, culturale e antropologica con il chiacchiericcio del ceto politico “riconosciuto” mostra di non aver capito il cuore della questione. Questa scissione e questa secessione sono necessarie non certo per coltivare una vocazione settaria e minoritaria, ma esattamente per l’opposto, per coltivare cioè una vocazione potenzialmente maggioritaria. E quindi, secessione e scissione dal mondo claustrofobico ed esaurito dei ceti politico-intellettuali che ci circondano, lungi dall’essere un arroccamento identitario e maggioritario, è la premessa proprio del contrario, e cioè di una vocazione maggioritaria. Ma per capire questo, è necessario capire ancora almeno tre cose. 51. In primo luogo, bisogna comprendere un aspetto di fondo dell’identità europea da cui proveniamo, e che quindi è inutile respingere astrattamente, rifugiandoci in un rassicurante esotismo mimetico, per cui ci identifichiamo con il Che Guevara, con Mao, con Ho Chi Minh, con l’Islam Politico, con Hamas, con Hezbollah, eccetera, perché crediamo in questo modo di rifiutare l’orribile codice identitario occidentalista che ci propongono le oligarchie dominanti. Errore Gigantesco. La semplice fuga infantile da noi stessi, seguita dall’identificazione esotico-mimetica con i cosiddetti “veri rivoluzionari” non serve a niente, ed è solo un atto di rimozione infantile, da me verificata in moltissimi presunti “anti-imperialisti” settari e ignoranti, sempre pronti a identificarsi con stranieri esotici e lontani e ignoranti come capre sulle tradizioni della loro propria stessa cultura. Possiamo quindi fare errori anche gravi nel valutare i singalesi e i peruviani, ed è normale che li facciamo, ma è imperdonabile che si resti analfabeti come capre sui problemi della nostra stessa identità. Non faccio nomi, ma chi conosce il contesto in cui ci muoviamo non

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avrà dubbi a riconoscere i nomi e i cognomi di coloro che ho in testa in questo momento. Ancora una volta, sono andato volutamente un po’ sopra le righe per segnalare con forza al lettore un fatto cruciale. L’identità occidentalistica oggi, avendo sposato politicamente l’impero americano, il sionismo e l’islamofobia e avendo adottato filosoficamente il cinismo, lo scetticismo, il relativismo e il nichilismo (il tutto chiamato “laicismo” per depistare le tracce), e avendo rifiutato la doppia sorgente del comunitarismo solidale, quella greca e quella cristiana evangelica (e non razzistica veterotestamentaria) è in effetti divenuta talmente ripugnante e odiosa che non ci si può stupire o indignare del fatto che si cerchi una via di fuga e di uscita pur di scapparne via in qualunque modo. Anche se a prima vista è poco noto, capitò la stessa cosa due millenni fa alla fine del mondo romano. Gli spiriti più sensibili andavano nel deserto a macerarsi come eremiti, oppure scappavano fra i barbari unni pur di non avere più nulla in comune con la merda aristocratica e schiavistica in cui erano costretti a vivere. Oggi la fuga è diversa, postfreudiana e post-marxiana, ma le cose non cambiano nell’essenziale. Questa fuga, ovviamente, assume forme diverse. La comunità universitaria degli antropologi, pur restando interna ai metodi di cooptazione mafiosa triangolare del marciume accademico, fugge presso i Bongo-Bongo sulle rive del Mekong all’ombra dell’Aconcagua, e traveste filosoficamente in apologia del relativismo il suo legittimo amore per i selvaggi comunitari e solidali, ancora (per poco) estranei alla droga, ai messaggini, ai telefonini e agli assalti agli hard discount. I militanti dell’estrema sinistra antimperialisti passano da una insorgenza all’altra, e smettono di “tifare” soltanto quando l’insorgenza è sconfitta, per cui devono passare subito a un’altra, ignorando completamente il contesto geopolitico in cui l’insorgenza si attua. In quanto alla cultura di “destra” (parlo della destra non omologata al teatrino Fini-Gasparri-Berlusconi), essa riesce effettivamente a individuare molto meglio della sinistra la polarità reale della cultura del nostro tempo, e cioè la polarità Islam-Cabaret Voltaire (penso a un ottimo saggio del pensatore

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di “destra” Pietrangelo Buttafuoco), ma la sua acuta individuazione resta lettera morta, perché viene condita con dosi di nostalgia per la comunità gerarchica organica medioevale. Una simile critica dell’orrendo laicismo relativistico del Cabaret Voltaire resta infatti del tutto inutile, se nello stesso tempo non viene chiarito il problema del mutamento di funzione storica e ideologica del laicismo stesso negli ultimi trecento anni. Il “laicismo”, inteso come la separazione fra il fondamento religioso della convivenza civile e il nuovo fondamento razionalistico, nacque con Spinoza nel 1670 con una grande e positiva carica emancipativa, e quindi deve essere rivendicato come parte integrante del profilo culturale europeo. Le cose non cambiano anche e soprattutto (come è il mio caso se si ammira e si approva il ruolo politico-militare antimperialista di Ahmadinejad in Iran, di Hamas in Palestina, degli Hezbollah in Libano e persino dei Taleban in Afghanistan. Ammirarli e approvarli, ovviamente, non significa affatto sposare e identificarsi con il loro profilo religioso fondamentalista, ma semplicemente schierarsi totalmente e senza riserve con la loro buona causa di liberazione nazionale. Approvare i resistenti abissini nel 1935 non significa certamente far parte della chiesa copta (in ogni caso allora migliore della chiesa cattolica del tempo, razzista e colonialista), e questo vale per tutti i Bongo-Bongo del mondo. Già con Voltaire si apre in un certo senso il Cabaret Voltaire, e questa è la ragione per cui tutti gli Scalfari del mondo erigono Voltaire a loro divinità razionalistico-chiacchieronica, espellendo invece dal loro mondo i fastidiosi Rousseau, Hegel e Marx. Con questo, la laicità continua a essere buona e positiva, perché non mette in rapporti la cittadinanza e l’agibilità politica con la fede religiosa. Non si creda che il liberalismo inglese sia stato l’origine di tutto questo. Il mercante di schiavi Locke concepiva l’agibilità politica come limitata agli anglicani inglesi e basta, escludendo esplicitamente i cattolici, gli atei e i settari protestanti. Questo concetto limitativo di agibilità politica mi ricorda il concetto di agibilità politica del turco Ataturk, per cui tutti i turchi avevano

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agibilità politica, al di fuori dei religiosi, dei comunisti, dei curdi e di fatto anche dei sopravvissuti greci e armeni (e cioè, sommandoli, del settanta per cento almeno dei turchi). Oggi però la sacrosanta “laicità” è stata incorporata nel soffocante abbraccio del laicismo, per cui Buttafuoco ha perfettamente ragione a dire (e io condivido) che nell’attuale situazione non solo Ratzinger è meglio della coppia sionista allucinata Pannella-­ Bonino, ma anche Allah è in condizionatamente migliore del Cabaret Voltaire. E tuttavia, dal momento che del Cabaret Voltaire parlerò analiticamente in un prossimo capitolo, per ora lascio cadere la questione. Nessuna fuga esotica in un “altrove” spazio-temporale, nonostante l’orrore che l’occidentalismo non può che suscitare in tutte le persone civili, oneste e pensanti. Siamo nati e cresciuti all’interno dell’occidente europeo, e non possiamo sfuggirvi. Possiamo invece, come ho cercato di fare in questo stesso capitolo, provare a darne una lettura alternativa. Questa e la strada da percorrere, non la fuga fra i Bongo-Bongo (ho scelto il nome di queste tribù inesistente per pura volontà di beffarmi del politicamente corretto, che di sicuro ci potrebbe trovare un’intenzione “razzista” verso il Diverso, adorato ipocritamente in nome dell’Occidente Buono di Sinistra contro l’Occidente Cattivo di Destra). Esiste allora un’identità europea? È del tutto evidente che ognuno ci metterà dentro quello che gli piace, ed escluderà tutto ciò che non gli piace. E infatti qui non dirò quello che è l’identità europea, ma soltanto quello che io penso sia il codice profondo dell’identità europea stessa. Se un’identità europea esiste, e se ha senso porsi il problema (perché potrebbe anche non avere senso), l’identità europea è fondamentalmente greco-cristiana, con apporti secondari e marginali dell’ebraismo e dell’islam (a pari grado), e con un substrato celtico, slavo, germanico e anche preindoeuropeo. Questa è l’identità europea intesa come minimo comun denominatore. A partire dal Settecento, tuttavia, si apre un contenzioso opposizionale, che

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comprende l’illuminismo e le sue interpretazioni opposte (idealismo, positivismo, marxismo, eccetera). Tutto ciò fa certamente parte dell’identità europea, ma in modo a mio avviso subordinato al suo nucleo fondante, che resta il profilo greco-cristiano, e solo quello. Ogni altra scelta è soltanto una legittima interpretazione settaria “di parte”. L’Europa non ha una identità soltanto cristiana, non solo e non tanto per le legittime critiche di parte illuministica, laica, idealistica, positivistica e infine “marxista”, ma per una ragione ancora più profonda. Il cattolicesimo iniziale del cristianesimo non esiste più, a partire dal 1054 (chiesa ortodossa) e dal 1517 (chiesa protestante). Si sono così formate tre distinte chiese (per semplicità trascurerò qui il fatto che una sola chiesa protestante ovviamente non esiste), che hanno alla fine costituito tre identità talmente diverse da dar luogo a tre chiese qualitativamente diverse, e consiglio di andare in Sicilia, Bulgaria e Svezia per capirlo. In teoria, Cristo è lo stesso, ma in pratica il profilo religioso complessivo è qualitativamente incomparabile. L’Europa ovviamente non ha una inesistente identità ebraico-­ cristiana, e bisogna avere il coraggio di dirlo, ignorando i prevedibili attacchi e le accuse di antisemitismo e di giudeofobia. Un’ovvietà storico-culturale non può ovviamente essere né antisemita né giudeofobica. Il cartiglio identitario ebraico-cristiano è oggi semplicemente un articolo di fede della nuova religione olocaustica la cui funzione storico-ideologica è la legittimazione di una giudeofilia sionista di guerra, di una colpevolizzazione collettiva infinita dell’Europa (e della Germania in particolare), e della celebrazione della provvidenzialità dell’impero americano. L’Europa ovviamente non è soltanto laica, perché il laicismo non coincide con la laicità, che non è una filosofia ma soltanto un principio di diritto costituzionale, ed è una interpretazione della laicità, basata su alcuni elementi settari, come l’adesione a un profilo di illuminismo anticlericale a una sacralizzazione della scienza positivistica, a un rifiuto dell’idealismo di Hegel e del pensiero di Marx (considerati “metafisici”, eccetera), a una approvazione di

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fondo del relativismo nichilistico di Nietzsche e di Weber, eccetera. Questo è il laicismo, semplice interpretazione della laicità che si dichiara arrogantemente coincidente con essa. E quindi il profilo europeo non può essere né solo cristiano, né certamente ebraico-cristiano, né ovviamente laicista. L’interpretazione occidentalistica e islamofobica dell’identità europea è una semplice arma di guerra alla Huntington-Pera, e chi la sostiene (e cioè la maggioranza della triade abbietta ceto politico – circo mediatico – clero universitario) è in realtà meno europeo di un abitante delle isole Aleutine. L’identità europea, quindi, è nell’essenziale greco-cristiana, con l’apporto di elementi religiosi celti e comunitario-solidali slavi (il sistema detto della zadruga). Certo, ci sono stati positivi apporti secondari della grande cultura musulmana e della grande cultura ebraica, dal momento che non bisogna dimenticare che Cordova (Spagna) e Salonicco (Grecia) erano in Europa, e hanno nutrito una grandissima cultura ebraica e musulmana (cito qui solo Averroè e Mosè Maimonide, due europei integrali), ma riterrei scorretto affermare che la cultura europea ha un’identità greco-cristiana-musulmana-ebraica. Se vogliamo fare il gioco infantile del trenino, allora i vagoni sarebbero molti, e avremmo un’identità europea etrusca-fenicia-ebraica-greca-romana-­celtica-slava-germanicavichinga-ungara-rinascimentale-ortodossa-cattolica-protestantecartesiana-galileiana-­illuministica-idealista-kantiana-marxistaliberale-fascista-comunista e via contando gli interminabili vagoni. Vogliamo fare il gioco delle eliminazioni per bambini scemi ma politicamente corretti (Churchill europeo e Hitler no, Adenauer europeo e Stalin no, Maimonide europeo e Averroè no, eccetera)? Fatelo pure, ma lo scrivente si alzerà, e chiederà educatamente di poter andare alla toilette a vomitare. 52. Assicuro il lettore pio e politicamente corretto che ci vuole proprio il coraggio dell’incoscienza per scrivere e pubblicare un

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Manifesto del comunismo comunitario. E questo per le tre parole che contiene e che vuole coniugare insieme. In primo luogo, la parola Manifesto. Essa fa venire in mente inevitabilmente il Manifesto del 1848 di Marx ed Engels. Ma Marx ed Engels erano geniali, e per questo hanno potuto sinterizzare in poche pagine fulminanti il loro pensiero. Lo scrivente è forse moderatamente dotato, ma non è affatto geniale, per cui non può fare a meno di perdersi in stupidaggini marginali e in inutili erudizioni sovrabbondanti. Tuttavia, se per comporre si dovesse essere Mozart e Beethoven, nessuno comporrebbe più, e tutti i potenziali compositori andrebbero a nascondersi nello stanzino delle scope. In realtà, un Manifesto del comunismo comunitario deve ancora essere scritto, e non lo sarà certamente presto. Sebbene abbia battezzato così questo mio studio per ragioni di chiarezza editoriale e soprattutto di rispetto verso il (piccolo) gruppo di amici e compagni che ne rende possibile la pubblicazione e la diffusione, so bene che questo è soltanto un lavoro preparatorio. La sua funzione è quella di uscire dal raggio settario e asfittico dei documenti dei partitini (si ammetterà facilmente che il suo respiro è più ampio di quello abituale). Ma soprattutto, la sua funzione è quella di far riflettere sulla possibilità di poter coniugare o meno due correnti che sono fino a oggi state ritenute distinte e in opposizione, il comunismo e il comunitarismo. In secondo luogo, la parola Comunismo. Qualunque cosa se ne possa dire, il termine è ambiguo, usurato e di fatto anche “condannato” dalla storia, non certo condannato dagli irrilevanti e tartufeschi intellettuali liberali occidentali, ma dagli stessi popoli che lo hanno sperimentato, e lo hanno rifiutato a maggioranza, non lo hanno difeso quando si è dissolto, e hanno anzi salutato a maggioranza la sua caduta. L’intero prossimo capitolo sarà quindi dedicato a evidenziare una sola tesi di fondo, che sintetizzerò in questo modo: ci vuole un congedo irreversibile, senza equivoci e senza ipocrisie dal modello politico-antropologico (soprattutto antropologico) del comunismo storico novecentesco veramente avvenuto,

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e nello stesso tempo occorre ristabilirne la piena legittimità storica senza alcuna demonizzazione e soprattutto senza alcuna “leggenda nera”. Questa posizione, ovviamente, sembra fatta, apposta per dispiacere sia al nuovo anticomunismo liberale sia ai nostalgici giustificazionisti del comunismo storico novecentesco. Si tratta per me di una verifica a posteriori del fatto che mi sto muovendo nella direzione giusta. In terzo luogo, la parola comunitarismo e comunitario. Qui, l’equivoco è potenzialmente duplice. Primo, esiste una corrente di pensiero politico universitario chiamato “comunitarismo”, una sorta di opposizione di Sua Maestà all’aperto individualismo liberale, concorde con l’individualismo sul canino giuramento di fedeltà all’occidentalismo e al sionismo (il caso di Michael Walzer è esemplare). Ebbene, essa mi è estranea, come i riti degli Ainu in Giappone e come le cerimonie di iniziazione dei pigmei Mbuti. So che purtroppo è impossibile scegliere noi le parole che vorremmo (il termine “comunismo” ne è un esempio), ma devo ribadire che piuttosto di essere scambiato con questi “comunitaristi” vado in Birmania a farmi monaco buddista. Secondo, nel contesto europeo il termine “comunitarismo” ha purtroppo uno spiacevole retrogusto semantico di “destra”, per cui possiamo aspettarci con matematica certezza che tutti i mascalzoni paranoici alzeranno stridule strida di messa in guardia contro l’infiltrazione nel sacro campo trincerato del vero e unico comunismo antifascista eterno. È del tutto impossibile evitare sia che ci confondano per una corrente del comunitarismo universitario, sia che ci accusino di infiltrazione. Ma, appunto, questo è il problema che evidenzierò nel prossimo paragrafo di questo capitolo, così come nell’ultimo capitolo di questo saggio che precede l’Appendice Italiana. 53. Veniamo ora al punto più delicato di tutto l’insieme di problemi che abbiamo di fronte. In questo momento l’insieme minimo di persone che si riferisce coscientemente a una coniugazione

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di comunismo e comunità talmente piccola da risultare praticamente invisibile a uno sguardo politico-­mediatico. Sarebbe bello se noi potessimo avere direttamente di fronte i difensori politici e culturali dell’occidentalismo capitalistico. Pur privi di messi finanziari, di appoggi accademici e di copertura mediatica ed editoriale il poter avere direttamente di fronte i difensori occidentalisti dell’individualismo capitalistico ci metterebbe in una situazione che definirei in termini militari di inferiorità tattica ma anche di potenziale superiorità strategica a lungo termine. L’attuale ultracapitalismo globalizzato, postborghese e postproletario, è infatti privo di elementi credibili di legittimazione umana, religiosa, politica e filosofica, in particolare dopo la crisi scoppiata nel 2008, che non è certo mortale, ma che ha messo a nudo davanti al mondo intero la fragilità di tutte le oscene apologie del liberalismo incontrollato che ci siamo dovuti sorbire nel ventennio 1988-2008. Una nuova critica radicale del capitalismo, capace di metabolizzare la sconfitta strategica del comunismo storico novecentesco senza buttare via il bambino con l’acqua sporca, ha infatti potenzialmente un suo spazio non solo di nicchia. Purtroppo, le cose non sono così semplici. Esiste infatti un ostacolo, non solo tattico ma purtroppo strategico, che si frappone fra le nostre intenzioni anticapitalistiche e l’oggetto della nostra critica. Certo, non è il nemico principale, è solo l’avversario secondario, ma in questo momento è però l’ostacolo più importante. Si tratta non tanto della cultura di sinistra in generale, che esiste in Europa a partire dal Settecento, quanto della dissoluzione istituzionalizzata di questa cultura di sinistra stessa. Questa dissoluzione istituzionalizzata (e istituzionalizzata in partiti, gruppi, riviste, gruppi editoriali, cultura e senso comune diffuso, eccetera), costituita da un codice genetico anarcoide-individualistico, è certamente subalterna alle oligarchie dominanti, ma nello stesso tempo occupa tutti i posti visibili della presunta (e in realtà inesistente) società della opposizione. Non se ne esce. Il problema dichiara di essere la soluzione, e diffama tutti coloro che ne contestano la legittimità. Non ci sono so-

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luzioni a breve termine. Ma almeno potremo diagnosticarne le principali patologie. Ed è quello che faremo nell’ultimo capitolo. La soluzione però non è vicina.

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Il comunitarismo come bilancio, ripensamento e riscrittura radicale delle cause della sconfitta del comunismo storico novecentesco (1917-1991)

1. Diciamocelo chiaramente prima ancora di cominciare a riflettere sui fondamenti filosofici del comunismo occidentale e sul bilancio storico del comunismo storico novecentesco veramente esistito (1917-1991), e non sul comunismo utopico-scientifico di Marx (l’ossimoro è del tutto volontario, e la comprensione di questo ossimoro copre già una buona metà del problema del comunismo). Se il cosiddetto “comunismo”, nonostante la sua clamorosa e non casuale sconfitta storica subita alla fine del Novecento, e da cui a tutt’oggi non si è affatto risollevato, potesse essere rilanciato con correzioni tattiche marginali, non ci sarebbe nessun bisogno di cercare di coniugarlo con il comunitarismo. Se il modello di comunismo storicamente realizzatosi, con differenze tattiche non importanti (Russia e Cina, Albania e Cuba, eccetera), avesse subito una sconfitta storica per esclusive ragioni di forza, e se il comunismo avesse già praticato nella sua realizzazione sociale una sufficiente unità di salvaguardia dell’individualità umana singolare e di comunitarismo solidale, allora sarebbe inutile e pleonastico volergli coniugare la paroletta “comunitarismo”. Potremmo così abbandonare il cosiddetto “comunitarismo” alle correnti universitarie anglosassoni, all’etica di MacIntyre, ai nostalgici delle belle comunità organiche del passato, eccetera.

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Ma non è così. Il marxismo, e il comunismo marxista-leninista, hanno mostrato difetti strutturali di costruzione, e non solo errori di applicazione oppure tradimenti soggettivi di mascalzoni. Chi si rifugia nelle categorie di errore e di tradimento, più esattamente nella categoria positivistica di errore e nella categoria religiosa di tradimento, è un ostacolo e non un alleato per la nostra ricerca. 2. Bisogna però sbarazzarsi subito di un ridicolo ostacolo, per cui oggi il comunismo sarebbe “indicibile”. Il comunismo resta invece dicibilissimo, se però abbiamo il coraggio di voltare le spalle e di effettuare una scissione radicale e una secessione aperta con le ingiunzioni della sfera simbolica del politicamente corretto. Ho già parlato in un capitolo precedente delle sei forme del Politicamente Corretto come codice obbligatorio dell’internità alla triade ceto politico – circo mediatico – clero intellettuale-universitario, ma data l’importanza, cruciale del tema sono costretto a ritornarci sopra, perché sospetto che non se ne sia compresa la crucialità neppure da tutti i chiacchieroni che si considerano soggettivamente “comunisti”, di “sinistra”, di “estrema sinistra”, “marxisti”, e via cicalando. Il politicamente corretto è un codice d’accesso obbligatorio, come i tesserini magnetici della metropolitana. Con esso non si accede alla coltura, alla filosofia, alla comprensione storica delle cose, ma si accede a una identità occidentalistica obbligatoria. In questo codice d’accesso c’è anche il fatto che il comunismo sia “indicibile” per la sua leggenda nera e per la sua demonizzazione. Non mi rivolgo ovviamente al pagliaccio mediatico e allo sfasciacarrozze che si è convinto nei salotti romaneschi per pseudo-­colti della “indicibilità” del comunismo e ha cercato di sciogliere il suo stesso partito di cui era stato nominato amministratore delegato dai due nichilisti Armando Cossutta e Lucio Magri. Si tratta di miserie cui ritornerò brevemente in una Appendice forse utile ma del tutto irrilevante sul piano teorico e filosofico. Mi rivolgo invece a chi vuole realmente riflettere al di là del mondo della simulazione mediatica.

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Ricordo i sei elementi principali del codice d’accesso obbligatorio alla identità occidentalistica (non importa se di sinistra, di centro o di destra – non esiste alcuna differenza di fondo, ma solo intercambiabilità e gioco delle parti): internità all’occidentalismo dell’impero americano, con eventuale preferenza per l’imperatore negro buono contro l’imperatore bianco cattivo, per il soft power contro lo hard power, per Nonna Pecora oppure per Nonno Bastonatore, eccetera; ripudio simbolico integrale del comunismo come leggenda nera, demonizzazione integrale, incubo dei gulag, rovesciamento dell’utopia egualitaria in terrore totalitario, eccetera; religione olocaustica dell’unicità metafisica del genocidio ebraico come nuova idolatria laica per senzadio e riaffermazione infinita della servitù politica e militare dell’Europa; teologia interventistica dei diritti umani a bombardamento militare variabile. Questi sono i Quattro Articoli principali del Politicamente Corretto. A essi in Italia se ne aggiungono due secondari: la permanenza dell’antifascismo in assenza piena, evidente e conclamata del fascismo; e infine, l’eternizzazione della dicotomia Destra/ Sinistra come protesi politologica di manipolazione dello spazio politico tollerato e come criterio di inserimento coatto di tutta la produzione intellettuale “o di qua o di la”. Come si vede, la leggenda nera sul comunismo storico novecentesco è il secondo dei Quattro Articoli principali del politicamente corretto, e influenza anche gli ultimi due. Per essere infatti “veri antifascisti”, e inoltre “veramente di sinistra” bisogna accettare i quattro articoli principali, fra cui ovviamente il secondo sulla leggenda nera e sulla demonizzazione del comunismo. Il comunismo è quindi “indicibile” non certo per le ragioni coltivate soggettivamente dal dilettante pagliaccio. Il comunismo deve diventare indicibile, perché se continuasse a essere dicibile a poco a poco diventerebbe anche concettualizzabile, diventando concettualizzabile diventerebbe riconcettualizzabile nella nuova situazione storica, e non appena riconcettualizzato ridiventerebbe ideologicamente spendibile da forze sociali non del tutto di nicchia, minoritarie, settarie o testimoniali. Il fuoco di sbarramento

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del Politicamente Corretto è quindi del tutto giustificato, logico e sistemico: siamo tutti americani dopo l’11 settembre 2001; chi è contro Israele è antisemita; siamo di sinistra, ma per essere di sinistra bisogna essere antifascisti (in assenza completa di fascismo), favorevoli ai diritti umani indicati come tali dal circo mediatico, e soprattutto ex-comunisti, in modo da poter voltare definitivamente le spalle all’orrido Ventesimo secolo e alle sue ideologie assassine. La discussione comincerà soltanto quando tutto questo verrà gettato nella spazzatura. E ora iniziamo a riflettere. 3. Per capire come il termine “comunismo” sia tuttora pienamente “dicibile” bisogna abbandonare i salotti degli pseudo-intellettuali alla moda con il loro codazzo di politici dilettanti e semianalfabeti per riacquistare una prospettiva storica. I latini usavano l’espressione ab ovo per indicare il fatto che bisognava in certi casi riprendere le cose dal principio. E io farò proprio così. Riprenderò le cose ab ovo. E dopo averle riprese appunto ab ovo, i dilettanti alla moda della cosiddetta “indicibilità” verranno invitati ad andare in un onesto agriturismo a giocare a scopone scientifico e a smetterla di concionare su cose di cui non hanno acquisito neppure la competenza minima. 4. Le comunità primitive non possono in nessun modo essere un modello per il comunismo moderno. Basandosi su di una fusione indistinta fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale, in cui l’individuo necessariamente era inserito direttamente in una organicità comunitaria indistinta, le comunità primitive ci segnalano soltanto un fatto rilevante, e cioè che la proprietà privata non è assolutamente “insita” nella natura umana, ma è semplicemente sopravvenuta a un certo punto dello sviluppo delle forze produttive e della divisione sociale del lavoro. Per questa ragione non è accettabile l’idea per cui la proprietà privata sarebbe un “diritto naturale”, anche nel caso che si decida di accettare la plausibili-

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tà del giusnaturalismo. Nello stesso tempo, ogni concezione del comunismo (o del comunismo comunitario) inteso come ritorno e ristabilimento della comunità primitiva, ovviamente sulla base delle conquiste della tecnologia contemporanea, è errata. E non è solo errata perché potrebbe essere facilmente accusata di primitivismo religioso, ma proprio perché è errata concettualmente nell’essenziale. Si tratta di uno sbaglio che fanno in perfetta buona fede interpreti religiosi di Marx, come il padre Paolo Domenico Dognin, della Pontificia Università “San Tommaso d’Aquino” di Roma. Nel 1971 Dognin ha fatto una lettura del concetto marxiano di alienazione interpretandone la critica come una proposta di ristabilimento nella società futura di una socializzazione del lavoro e del consumo comunitario, ristabilimento reso possibile dal fatto che nella comunità primitiva questa socializzazione esisteva già, ed è esistita per migliaia di anni. Il domenicano Dognin tocca un punto reale, e cioè che il comunismo di Marx non solo non presuppone affatto una antropologia per così dire ateo-materialistica, ma al contrario presuppone una concezione della storia che non inizia affatto nel settecento con il modo di produzione capitalistico (si tratta della doppia interpretazione di Karl Korsch negli anni trenta e di Louis Althusser negli anni Sessanta, per cui Marx sarebbe stato uno studioso esclusivo del modo di produzione capitalistico), ma comprende al suo interno un’interpretazione di tutta la storia dell’umanità, compresi soprattutto le forme di vita sociale impropriamente dette “primitive”. Come ha mostrato Lawrence Krader, i cui studi hanno a mio avviso definitivamente smentito le interpretazioni “limitative” di Korsch e di Althusser, negli ultimi anni della sua vita Marx si occupò a fondo delle società primitive, al punto che lo stesso Engels considerò come l’esecuzione di un lascito testamentario di Marx la redazione del suo libro sulla nascita della famiglia e dello stato. E tuttavia il pur benemerito Dognin si sbaglia, perché la sua interpretazione suggerisce inevitabilmente l’idea che Marx concepisse il suo comunismo come restaurazione della proprietà collettiva

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delle società comuniste “primitive”, sia pure ovviamente arricchite delle conquiste della scienza e della tecnologia applicata alla produzione e al “risparmio” del lavoro umano diretto. Non è così. Parlando di proprietà comunista nella società post-capitalistica Marx parla invece di proprietà individuale, non di proprietà collettiva. Più esattamente, si tratta di generalizzazione della proprietà individuale su base comunitaria. E poiché qui si tratta di un punto essenziale per chiunque si occupi di comunismo e di comunità, vale la pena di rifletterci sopra ancora un poco. 5. Non ho alcuna simpatia per la metodologia e per la citatologia, due vere e proprie scienze per nullatenenti. In pochi, rarissimi casi, le citazioni sono utili per risolvere alcuni problemi concettuali, e uno di questi è il concetto di proprietà in Marx. In estrema sintesi, in Marx esiste una teoria della proprietà privata intesa come effetto di un processo di privatizzazione inteso come espropriazione, e una teoria della proprietà individuale nel comunismo in un contesto di produzione comunitaria. Mentre la teoria della proprietà di Locke è di tipo robinsoniano, e si basa sul presupposto del primo lavoratore che legittima con il suo lavoro originario il sub diritto alla proprietà privata, Marx sa bene che la cosiddetta proprietà privata capitalistica non è originaria, ma viene prodotta da un insieme di atti di espropriazione. Da un punto di vista storico, la proprietà capitalistica liberale moderna si origina da quattro diversi tipi di proprietà preesistenti: la proprietà feudale e signorile, il cui carattere parassitario non può resistere alla nuova concorrenza della proprietà capitalistica; la proprietà comunitaria dei contadini e degli artigiani precapitalistici, corrosa dalle recinzioni (enclosures), dal lavoro a domicilio, dalla manifattura, dalla nuova industria e dall’introduzione dei nuovi metodi capitalistici nella produzione agricola; la proprietà collettiva, comunitaria e dispotico-comunitaria dei cosiddetti “primitivi” in Asia, Africa e America precolombiana; e infine, la proprietà dispotico-comunitaria del modo di produzione asiatico in India, Cina, Indonesia, Indocina, eccetera.

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Che l’impostazione storico-sociale sia migliore dell’impostazione robinsoniano di Locke lo dimostra un fatto filologico indiscutibile, per cui in latino il termine privatus non connota affatto una condizione originaria di possesso privato, ma significa invece “essere stato privato di un godimento collettivo precedente”. Il privatus, infatti, è prima di tutto colui che è “privato” dell’accesso al godimento dell’ager publicus. Il fatto che l’ager publicus non fosse una sorta di comunismo egualitario, ma una terra dominata da caste patrizie è certo indiscutibile, ma non cambia le cose nell’essenziale. La proprietà nasce da una espropriazione violenta, non da un diritto individuale originario. E mentre il commerciante di schiavi Locke non capisce l’essenziale (trascuro se a causa della tipica stupidità degli empiristi o di una malafede specifica), Hegel nella Fenomenologia dello Spirito lo capisce perfettamente, e fa iniziare la cosiddetta “civiltà” con lo scontro a morte fra il primo padrone vincitore e il primo schiavo sottomesso. Questa è la proprietà nelle società classiste. In quanto al secondo tipo di proprietà, la proprietà comunista, Marx si esprime in questi termini: Il modo di appropriazione capitalistico, che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. È la negazione della negazione. E questo non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietà individuale, fondata sulla conquista dell’età capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso (cfr. Il Capitale, Einaudi, Torino 1975, vol. I, p. 937).

Sono del tutto estraneo alla citatologia, ultima difesa di dogmatici e di deficienti, ma in questo caso è stato necessario citare, non certo per irrilevanti ragioni di marxologia filologica, quanto per ragioni di merito. Qui abbiamo infatti a che fare non con dell’irrilevante filologia marxologica a base citatologica, quanto con il problema teorico che ci interessa, e cioè con il triangolo costituito

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dai tre lati definibile come libera individualità moderna, comunismo moderno e comunità come fattore di mediazione fra l’individualità moderna e il comunismo. Ma vediamo le cose in modo maggiormente analitico. 6. In primo luogo, si noterà il parallelismo strettissimo fra questa citazione del 1867 (primo libro del Capitale) e la citazione soprariportata dei Grundrisse del 1858, in cui si parlava di successione fra le società a dipendenza personale (precapitalistiche), a indipendenza personale (borghesi-capitalistiche), e infine a libera individualità (comuniste). È evidente che la società comunista della libera individualità corrisponde esattamente alla società comunista della proprietà individuale. Poiché quasi un decennio intercorre fra i Grundrisse e il Capitale, se ne può liberamente dedurre che Marx in questo decennio non ha cambiato idea sui punti fondamentali del suo modo di vedere le cose. In secondo luogo, si noterà che nella filosofia della storia a base triadica di Marx la figura antropologica che connota diversi modi di produzione appare sempre presente e dominante. Lo ricordo fin da subito, perché più tardi utilizzerò le analisi antropologiche del francese Michel Henry e del cinese Ji Wei Chi per interpretare le ragioni di fondo del crollo del comunismo storico novecentesco, che non sono a mio avviso economiche, ma sociali e antropologiche. Sociali, in quanto vittoria finale di una controrivoluzione di massa dei nuovi ceti medi “socialisti” contro il soffocante dispotismo egualitario operaio e contadino, e antropologiche, in quanto il profilo antropologico massificato e collettivizzato del comunismo realmente esistito è stato uno dei più ripugnanti mai esistiti nella storia dell’intera umanità, senza che questa aperta ammissione implichi minimamente l’accettazione della leggenda nera, e dell’eternità del capitalismo. A me non interessa assolutamente nulla che quanto dico abbia una fondazione filologica marxiana. Per me Marx è solo un amico defunto. E tuttavia, poiché so di vivere in un mondo in cui la citatologia delle auctoritates è considerata

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importante, mi sembra il caso di segnalare, del tutto incidentalmente ed en passant, che lo stesso Marx interpretava la storia in termini di profili antropologici. E da chi lo aveva imparato? Ma è evidente. Lo aveva imparato da Hegel, e dal fatto che Hegel aveva nella sua immortale Fenomenologia dello Spirito interpretato l’intero decorso della storia umana in termini di successione di figure antropologiche. In terzo luogo, appare chiaro che la famosa “rottura” fra Marx e Hegel, cavallo di battaglia di tutte le scuole del marxismo anti­ hegeliano del secolo appena trascorso (Stalin, Della Volpe, Colletti, Althusser, La Grassa, eccetera), è del tutto priva di basi filologiche, perché Marx ancora nel 1858 (i Grundrisse) e nel 1867 (primo libro del Capitale) continua imperterrito a pensare nel modo triadico ereditato da Hegel, che a sua volta lo aveva ereditato dal Vangelo di Giovanni e dal concetto greco-cristiano di Trinità (cosa che per me, lungi dall’essere un fastidioso residuo metafisico-religioso di cui essere imbarazzati in qualunque consesso “serio” di scienziati, è la cosa migliore che esista nel tessuto della filosofia di Marx, spesso penosamente confusa e oscillante fra hegelismo e positivismo). In quarto luogo, senza prendersela sempre con il povero Engels e con i suoi esercizi privati di dialettica della natura e del reperimento (del tutto inesistente) di leggi comuni alla natura e alla società, è palese che Marx vedeva già nel 1867 le cose in modo positivistico, perché scriveva (carta canta, come dicevano una volta, oppure se vogliamo verba volant, scripta manent) la stupida frasetta «con l’ineluttabilità di un processo naturale», trasformando una triade dialettica di tipo puramente logico in un vero e proprio succedersi di eventi, a un tempo deterministici e teleologici. Non me la prendo certamente con il grande Marx, che resta molto più grande di tutti i miei possibili rilievi. Se uno respira dal mattino alla sera aria positivistica inquinata, è inevitabile che gli venga la tosse. Hegel non avrebbe mai detto che esistono “leggi della dialettica”, e infatti autorevoli commentatori hanno filologicamente accertato che il termine “legge” (Gesetz)

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usata in questo modo positivistico non esiste neppure nei testi di Hegel. Mi scuso con il lettore per queste irrilevanti note su Marx, ma era utile che venissero tolti di mezzo alcuni fastidiosi equivoci prima di ricominciare a parlare di cose serie: esiste una continuità nel modo di pensare triadico-hegeliano di Marx dalla sua gioventù (1844) ai Grundrisse (1858) al primo libro del Capitale (1867); è chiaro che Marx per interpretare la storia pensa per profili antropologici, e non solo per categorie politiche o economiche, e lo fa perché il suo testo fondamentale di riferimento è la Fenomenologia dello Spirito di Hegel; è chiaro che non ha rotto con Hegel, checché ne dicano gli hegelofobi maniaci; è evidente, purtroppo, che anche Omero può dormicchiare (quandoque dormitat atque Homerus), e persino il grande Marx può lasciarsi andare a monumentali sciocchezze positivistiche sul fatto che la storia è “ineluttabile” come la storia naturale darwiniana. E ora, torniamo alle cose serie, che sono le proposte originali di interpretazione. 7. La mia proposta originale di interpretazione del comunismo comunitario di Marx sta in ciò, che essa è direttamente ricavata dalla società dei piccoli proprietari e produttori indipendenti della grecità classica, e che quindi non ha in sé nulla di illuministico-liberale e neppure nulla di messianico, apocalittico ed ebraico-cristiano. Non so se Marx ne fosse pienamente cosciente, e non ne sono neppure molto interessato, in quanto in queste cose ciò che conta è unicamente l’apparato concettuale che viene messo in opera. Ora il lettore capirà finalmente perché nel capitolo precedente ho tanto insistito sul tipo di cultura che è stata prodotta all’interno del modo di produzione dei piccoli produttori e proprietari indipendenti. Questo profilo culturale è l’antecedente diretto del concetto di comunismo di Marx, e questo ci permetterà di apprezzare meglio le conclusioni tirate dal grande ricercatore francese Jacques Grandjonc. Ma di Grand-

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jonc parlerò fra poco. Prima bisogna chiarire meglio la questione greca. 8. Nel mondo classico, greco e latino, non esiste nessuna parola che possa coprire il campo semantico coperto da circa due secoli dal termine moderno di “comunismo”. In greco moderno, per esempio, la parola è ricalcata dal francese, dall’inglese e dal tedesco, laddove la stragrande maggioranza dei termini astratti proviene direttamente dal greco antico, da quello ellenistico e da quello bizantino. E questo non è un caso, perché dove con c’è una parola non c’è un concetto, e dove non c’è un concetto non c’è la realtà storica e sociale che gli corrisponde. Nel mondo greco il termine più simile al comunismo è la “vita in comune”, o cenobio (koinobion; pronuncia consigliata kinovion). E questo non è un caso, perché né il modo di produzione dei piccoli proprietari e produttori indipendenti né il successivo modo di produzione schiavistico ellenistico-romano consentono realmente l’apertura dell’area semantica che viene prodotta dal comunismo moderno. E tuttavia, esistono almeno tre diverse accezioni di cenobio (vita in comune, koinòn bios) presenti nel pensiero antico. In primo luogo, si tratta del famoso “comunismo platonico”. È del tutto evidente che esso non ha assolutamente nulla in comune con il comunismo moderno in tutti i suoi significati. Si tratta di una versione pitagorica del vecchio trifunzionalismo indoeuropeo, ancora presente nelle “mense comuni” degli spartiati (syssitia), per cui l’oligarchia al potere chiamava se stessa “aristocrazia” (e cioè governo dei migliori), distinguendosi dalle normali oligarchie monetarie (connotate come “oligarchie”) in nome di valori tradizionali più alti e importanti del vile denaro. Semplicemente, lo sfruttamento era di tipo collegiale-collettivo e non economicoproprietario. Certo, Hegel fa bene a concedere al pensiero politico di Platone una “idealità aggiuntiva”, e a non ridurlo in modo economicistico a una semplice forma di sfruttamento, dal momento che Platone eredita dal profilo culturale del modo di produzio-

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ne dei piccoli produttori e proprietari indipendenti la centralità dell’educazione (paideia). E tuttavia, si tratta pur sempre della variante pitagorica greca del trifunzionalismo indoeuropeo con aggiunte egiziane e orientali. In secondo luogo, la comunità di amici epicurea è certamente un cenobio, ed è infatti strutturata sulla base di una vita in comune, aperta a tutti, ivi compresi gli schiavi e le prostitute. Il suo carattere democratico ed egualitario è indiscutibile. E tuttavia, Epicuro si dichiara apertamente contrario alla comunione dei beni, in base alla curiosa motivazione per cui essa renderebbe impossibile la generosità verso i propri amici. La motivazione è certo curiosa (ma niente affatto stupida), e conoscendo Epicuro si può essere sicuri che non avesse nessuna funzione di ipocrita copertura ideologica. In terzo luogo, infine, esiste un’utopia comunitaria di origine stoica, che ha preso la forma della prefigurazione utopica comunista nel senso della posteriore utopia rinascimentale moderna (Tommaso Moro, Tommaso Campanella, Francesco Bacone). Sono documentate le partecipazioni di filosofi stoici alle sollevazioni antischiavistiche in Sicilia e nel regno di Pergamo. Dal momento che gli stoici sostenevano l’esistenza di una vera e propria kosmopolis ideale, e cioè di un ideale cosmopolitico in cui tutti i saggi del mondo potessero essere idealmente cittadini, non è affatto un caso che abbiano evocato questo comunismo utopico dei beni esteso al mondo intero. Il comunismo universale, e cioè la comunità cosmopolitica dei beni, lungi dall’essere “indicibile”, è invece la radicalizzazione, e nello stesso tempo la coerentizzazione dell’ideale cosmopolitico dello stoicismo antico, una volta che questo stesso stoicismo superò il suo primo momento di contestazione svergognata dei costumi (anaideia, pronuncia consigliata anedia). Ho ricordato questi tre significati del comunismo antico non solo per sottolineare il fatto che più che di comunismo si tratta di cenobio, e cioè di vita in comune, o se si vuole di comunismo della distribuzione e non della produzione, ma per far notare che coloro che dicono che la parola “comunismo” è “indicibile” confondono

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la maestosa storia universale millenaria con le reazioni nervose delle cordate di politici disoccupati e di verminosi gruppi intellettuali romaneschi mantenuti dai finanziamenti pubblici al ceto mediatico-politico. 9. Nel mondo medioevale, caratterizzato dalla dominanza (sia pure non esclusiva) del modo di produzione feudale europeo, il comunismo continua a manifestarsi sporadicamente come cenobio, e cioè come forme di vita comunitaria, di vita in comune. Data la dominanza della religione nella legittimazione complessiva della struttura sociale triadica del modo di produzione feudale europeo (i bellatores, o signori feudali, gli oratores, o sacerdoti, e infine i laboretores, che mantenevano l’intera baracca) la cui ultima tarda manifestazione signorile furono i famosi Nobili, Clero e Terzo Stato, è evidente che la stessa istanza cenobitica non potesse estendersi all’intera società, ma dovette limitarsi a piccoli gruppi elettivi a base religiosa. Il monachesimo europeo ne fu ovviamente la prima grande manifestazione. La stessa teologia francescana, basata sui due concetti di povertà (paupertas) e di semplicità Evangelica (simplicitas), è di tipo apertamente cenobitico-comunista, e non è affatto un caso che la chiesa cattolica romana, apparato sacerdotale di legittimazione ideologica sia del sistema di sfruttamento feudale sia della nascente società mercantile del denaro (per il cui “pentimento” era stato inventato fra il 1140 e il 1180 lo stesso “purgatorio”, prima inesistente), abbia a un certo punto cominciato a bruciare vivi sul rogo i francescani detti “spirituali”, fra cui spiccava il grande filosofo inglese Guglielmo di Occam. Il pensiero comunista-spirituale del francescano Occam è frainteso in modo a un tempo ridicolo e abbietto dalla manualistica corrente. Sembra infatti che il suo nominalismo, per cui il concetto universale è un puro nomen, sia stato un’anticipazione in tonaca dell’empirismo di Locke e dello scetticismo di Hume. La storia della filosofia è piena, di mascalzonate, ma questa è forse la più

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intollerabile e idiota. Occam, che evitò il rogo con una fuga precipitosa perché rifiutò la convocazione da parte dei suoi aguzzini, sostenne che l’universale esiste soltanto singolarmente (singulariter) perché concepiva la comunità cristiana come una sorta di cenobio ideale formato dalla somma degli individui singolari che praticavano singolarmente la povertà (paupertas) e la semplicità (simplicitas) predicate da Francesco d’Assisi. Potrei continuare. Ma il succo del problema sta in ciò, che il comunismo, lungi dall’essere “indicibile”, ha le sue radici nell’ideale comunitario del cenobio, e cioè della vita in comune, prima del saggio storico cosmopolitico e antischiavista, e poi del cristiano francescano. Il passaggio dal cenobio alla società intera è invece effettivamente un prodotto precoce del nuovo modo di produzione capitalistico europeo-occidentale. 10. Jacques Grandjonc è uno studioso francese, che ha pubblicato nel 1989 due volumi pubblicati dalla Karl-Marx-Haus in cui viene rintracciata analiticamente la genealogia storica del termine comunismo, nelle tre varianti francese (communisme), tedesca (Kommunismus) e inglese (communism). Si tratta di un’opera di riferimento fondamentale, da consigliare soprattutto a coloro che in perfetta buona fede possono ritenere che il termine di “comunismo” oggi è indicibile, perché definitivamente infangate dai gulag sovietici di Stalin. Ma nulla è definitivo, tutto è temporaneo, Grandjonc lo spiega molto bene. Grandjonc dimostra che il termine comunismo (con l’ismo finale, assente sia nel cenobitismo antico stoico che nel cenobitismo francescano medioevale) ha un’origine direttamente comunitaria, e proviene dalle correnti comunitarie e radicali della Rivoluzione francese del 1789. Nel primo volume Grandjonc rintraccia lo sviluppo della terminologia comunitaria in Europa fra il 1785 e il 1892, e nel secondo pubblica tutti i documenti che servono da “pezze d’appoggio di giustificazione” delle sue tesi. È bene quindi sapere che chi parla di “comunismo comunitario” non si inventa

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proprio niente, ma semplicemente si ricollega, sia pure in forma rinnovata, a una storia che comincia più di due secoli fa. In generale si era sempre fatta risalire l’origine della paroletta “comunista” al celebre testo di Cabet pubblicato nel novembre 1840 intitolato Come sono comunista (Comme je suis communiste), ma Grandjonc ne rintraccia l’origine in una lettera datata 1785. Il “comunismo” è quindi filologicamente inserito nella tradizione dell’ala radicale della Rivoluzione francese, e in particolare in Babeuf e in Buonarroti. Si apre però una prima eclisse del termine “comunismo” dal Direttorio e dai termidoriani (1794) fino al 1840 circa, inizio della fase che annuncia le rivoluzioni del 1848. Si tratta, del clima dentro il quale Marx ed Engels scrissero il famoso Manifesto del Partito Comunista, del 1848. Qui Grandjonc coglie a mio avviso il punto essenziale della questione. Da un lato, il fatto che l’esigenza storica della comunità prenda per la prima volta il termine ismo (comunismo) è certo dovuto all’illuminismo, che abitua alla razionalizzazione e alla coerentizzazione dei concetti, che per essere connessi e organizzati insieme prendono appunto il nome di “ismo”. Dall’altro, il sommarsi dell’eredità illuministica e di quella hegeliana produce il “miracolo”, e cioè il fatto che la vecchia rivendicazione comunitaria abbandona la sfera delle esigenze morali e politiche per radicarsi in una analisi del processo sociale di produzione. È questo il miracolo marxiano. Non certo l’abbandono della rivendicazione comunitaria, ma al contrario il fatto che quest’ultima viene per la prima volta inserita in una analisi del processo sociale di produzione. Secondo Grandjonc, è in un banchetto popolare tenuto a Belleville, nel centro della Parigi popolare e operaia, che la terminologia “comunista” comincia a essere usata massicciamente. Il lavoro di Grandjonc mostra chiaramente il legame diretto, logico e storico dell’idea comunista con le parole d’ordine della Rivoluzione francese, in particolare quella di eguaglianza. Partendo dalla constatazione che, finché la questione sociale non è ancora risolta, «la rivoluzione non è ancora finita» (Buonarroti), Babeuf e i suoi epigoni formulano il loro obiettivo come la realizzazione

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effettiva dell’eguaglianza, l’eguaglianza “reale” opposta alla semplice eguaglianza politica. Si tratta dello stesso identico contenuto della famosa Questione Ebraica di Marx, con quaranta anni circa di anticipo. Il Manifesto di Marx del 1848, a mio avviso, non è una rottura (coupure), come dicono gli althusseriani. È piuttosto un superamento-conservazione (Aufhebung) della tradizione babeuvista francese. Da un lato, viene conservata l’istanza dell’eguaglianza, e del fatto che finché resta una questione sociale la rivoluzione non è finita. Dall’altro, viene superata la fondazione giusnaturalistica e contrattualistica dell’idea di eguaglianza, nome di una nuova fondazione basata sul concetto hegeliano di scienza filosofica. Come ha scritto insuperabilmente Bertrand Binoche, Marx hegelianizza Babeuf e babeuvizza Hegel. Sarà forse un modo un po’ barocco e contorto di esprimersi, ma concettualmente parlando non si può fare di meglio. 11. Apro un’ulteriore parentesi in proposito. Dei cialtroni che sostengono che oggi il comunismo è “indicibile”, e deve essere abbandonato (non parlo di chi lo pensa in buona fede, ma dei politici analfabeti e del loro stridulo quaquaraquà) ha già parlato a suo tempo Walter Benjamin, quando ha scritto queste solenni e terribili parole: «Soltanto lo storico che è intimamente convinto che neppure i morti saranno risparmiati dal nemico se quest’ultimo riesce a vincere avrà il dono di ravvivare la scintilla di speranza nel passato. Questo nemico fino a oggi non ha ancora cessato di vincere». Benjamin ha colto il punto essenziale del problema. Il comunismo, evocato per la prima volta fra il 1785 e il 1798, ha avuto una prima eclisse storica fra il 1798 e il 1840. Ha poi avuto, nonostante Marx, una seconda eclisse storica fra il 1848 e il 1917, nel periodo di sviluppo del socialismo evoluzionista della seconda internazionale (1889-1914). Avrà sicuramente oggi una terza eclisse storica dopo il fallimento, fangoso e ripugnante, del modello di ingegne-

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ria sociale dispotico-egualitaria del comunismo storico realmente esistito. Le varie “rifondazioni” e i vari “mantenimenti” di questo ultimo ventennio (1989-2009) sono fenomeni residuali e grotteschi, vere e proprie nicchie identitarie per nostalgici decerebrati e indegni di stima e considerazione (con la sola eccezione di coloro che hanno mantenuto la solidarietà antimperialista, unica perla rimasta nel fango della dissoluzione del comunismo). Prima eclisse (1798-1840). Seconda eclisse (1850-1917). Terza eclisse (dal 1989 in poi). Non si vede la fine di questa terza eclisse. Ma finora l’umanità non ha ancora trovato un termine nuovo per indicare il fatto intuitivo che la “rivoluzione non è ancora finita”. Rispetto a questo problema epocale i sostenitori del fatto che oggi il comunismo sarebbe “indicibile” rivelano la loro natura da commedia dell’arte e da dramma satiresco: ceto politico di straccioni ben pagati in cerca di ricollocazione; circo mediatico di servi delle oligarchie dominanti; boriosi accademici che sacrificano alla “novità”, alla “complessità” e alla “modernità” intellettuali fragili dominati dal complesso di colpa e dalla elaborazione del lutto, in cerca di religioni olocaustiche di espiazione per le loro illusioni giovanili rovesciatesi dialetticamente in delusioni senili. 12. E tuttavia, resta un problema, anzi un complesso di due problemi intrecciati. Cercherò prima di sintetizzarli, e poi di discuterli separatamente. In primo luogo, la fondazione del comunismo di Marx è incompleta – non coerentizzata, ambigua e contraddittoria. Così com’è, essa non funziona e non può funzionare. Ne ho già parlato in precedenza, ma devo tornarci sopra, perché a volte ho l’impressione di essere un muto che parla ai sordi. In secondo luogo, il comunismo storico novecentesco è interamente legittimo, ma nello stesso tempo del tutto irriproponibile nella nuova fase storica che abbiamo di fronte. Anche in questo caso, ho l’impressione di essere un muto che parla ai sordi. Questa frustrazione è certamente comune a tutti i teorici e a tutti gli

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studiosi, grandi o piccoli che siano. E tuttavia, a distanza di più di venti anni dalla fine del comunismo storico novecentesco veramente esistito, questa frustrazione può diventare non solo devastante per la psiche individuale dello studioso, che si rende conto di predicare in un deserto a volte ostile ma sempre in differente, ma per la stessa tenuta umana e antropologica di una comunità politica e intellettuale di persone. E tuttavia, fingerò ancora una volta di non essere un muto che parla a un gruppo di sordi, e riproporrò in forma sintetica i punti essenziali di una nuova e inedita critica prima al comunismo di Marx e poi al comunismo storico novecentesco veramente avvenuto. 13. Tornando alla “strategica” citazione marxiana del Capitale ricordata nel quinto paragrafo di questo capitolo, è bene stringere subito il cuore della questione del comunismo in Marx, e mostrare perché questa concezione di comunismo, così com’è, è assolutamente inutilizzabile e deve essere modificata per ricominciare appunto a essere utilizzabile. In estrema sintesi, esiste una asimmetria in Marx fra il concetto di modo di produzione capitalistico e il concetto di comunismo che ne dovrebbe derivare. Così come stanno le cose, la derivazione del comunismo dal capitalismo in Marx non funziona e non può funzionare. I “marxisti” identitari sono in proposito un vero ostacolo, perché rifiutandosi di prendere atto di questo insieme di errori contribuisco a far marcire la situazione e a dare argomenti ai loro avversari, che sono quasi sempre in ultima istanza sfacciati difensori dello sfruttamento compiuto dalle schifose oligarchie capitalistiche che dominano il pianeta. Si apre così un ripugnante balletto fra chi ha ragione nel rilevare carenze strutturali nel pensiero di Marx, e nello stesso tempo ha torto a sostenere le oligarchie capitalistiche che massacrano il pianeta, e chi ha ragione nell’opporsi alle oligarchie capitalistiche assassine e nello stesso tempo ha torto a difendere una indifendibile perfezione del modello di Marx.

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Come uscirne? Forse è possibile uscirne rilanciando un modello di comunismo comunitario come modello consapevole di solidarietà umana e sociale, al di là del plesso costituito dalla utopia scientifica, in cui i due termini si avvinghiano insieme stupidamente e patologicamente. Ma vediamo meglio. E vediamo prima l’asimmetria fra la considerazione “scientifica” del capitalismo e la considerazione “utopica” del comunismo, e poi come questa asimmetria deriva proprio da un modo errato di considerare il modo di produzione capitalistico stesso. 14. Il paziente lettore si sarà già certamente stancato, ma non posso fare a meno di ritornare ancora una volta sul concetto marxiano di modo di produzione capitalistico, perché se vogliamo fondare razionalmente la plausibilità del concetto di comunismo comunitario bisogna prima liberarci di una concezione utopico-scientifica della transizione dal capitalismo al comunismo. Andiamo ancora una volta per ordine. Come ha rilevato lo studioso francese Bernard Chavance, il più noto allievo di Charles Bettelheim, Marx interpola continuamente due diverse dialettiche, una dialettica storica e una dialettica utopica. Nella sua dialettica storica, Marx utilizza la successione Modi di Produzione Precapitalistici-Modo di Produzione Capitalistico-Modo di Produzione Comunista come esito scientificamente prevedibile delle contraddizioni interne al modo di produzione capitalistico stesso (MPP-MP-C). Nella sua dialettica utopica, esemplificata dalla citazione del Capitale riportata precedentemente, Marx parte da una (inesistente a mai esistita) Società Mercantile Semplice (tesi), per andare a una serie di Società di Sfruttamento (antitesi, o negazione), e per giungere infine al Comunismo (sintesi, o negazione della negazione). Ma la società mercantile semplice è un puro modello economico mai esistito, più o meno come lo “stato di natura” di Rousseau, che comunque Rousseau stesso sapeva non essere mai esistito. A questo punto, conclude Chavance, la sovrapposizione di un modello utopico a un modello storico porta a contraddizioni logicamente insanabili.

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Chavance ha perfettamente ragione. E tuttavia io non chiamerei “utopica” la dialettica che Chavance chiama invece in questo modo. Io la chiamerei più opportunamente e provocatoriamente utopico-scientifica, in modo che davanti a un ossimoro tanto assurdo e provocatorio anche le menti più torpide e irrigidite dal dogmatismo bovino e bestiale dei citatologi incartapecoriti possano avere un sussulto di risveglio. Il problema, infatti, non sta nel negare la scienza e tornare all’utopia (Ernst Bloch), oppure nel negare l’utopia e ritornare alla scienza (Louis Althusser). Finché non si sarà capito, e ne siamo ancora lontani, che Ernst Bloch e Louis Althusser sono due lati dello stesso plesso ideologico, e che bisogna superarli entrambi, non si sarà fatto un solo passo per uscire dall’impasse in cui siamo. Analizziamo allora che cosa non va nel modo in cui Marx tematizza la sua più grande scoperta concettuale, la categoria di modo di produzione capitalistico, poi quello che non va nel suo lato scientifico, e infine quello che non va nel suo lato utopistico, avendo sempre presente che quello che non va nei due lati è sempre e solo la stessa cosa. 15. Riprendiamo da capo il ragionamento. Il mirabile studio filologico di Grandjonc ha dimostrato che il concetto di comunismo in Marx deriva direttamente dalle rivendicazioni comunitarie precedenti, e che quindi Marx è interno non tanto alla storia delle teorie economiche o filosofiche, quanto alla storia ideale del comunitarismo, inteso come riequilibrio sociale e politico consapevole in presenza di una dissoluzione dovuta, alla dismisura provocata dall’aprirsi a forbice delle ricchezze. Il comunismo di Marx è semplicemente un comunitarismo che non vuole limitarsi a una ennesima riproposizione del cenobio, e cioè del vivere in comune, ma vuole abbandonare la sfera delle esigenze morali per radicarsi su di un terreno nuovo, quello dell’analisi del processo sociale di produzione. Per poter far fare questo salto di qualità teorica al comunitarismo di cui il comunismo marxiano è soltanto una specificazione moderna, Marx innesta le categorie dell’econo-

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mia politica inglese (e la categoria di valore in particolare) all’interno della sua scienza filosofica tedesca ereditata non tanto da Hegel, quanto da una sua specifica interpretazione della scienza filosofica, di Hegel, che certamente Hegel, se fosse stato ancora vivo, avrebbe respinto. E perché Hegel l’avrebbe respinta? Perché era “borghese” e non “comunista”? È chiaro che sarebbe stato anche per questo. Ma non sarebbe stato solo per questo. Il fatto è che Marx dava una interpretazione scientifica (in realtà positivistica) al suo concetto di modo di produzione capitalistico, e una interpretazione utopica (in realtà romantico-organicistica) al suo concetto di comunismo. O riusciamo a gettare via l’acqua sporca senza gettare via anche il bambino, oppure le nostre ciarle sul comunismo comunitario resteranno vuote e puramente retoriche. Riaffrontiamo allora ancora una volta la discussione. 16. Iniziamo dal cosiddetto lato scientifico della questione. Come in tutte le cose, il diavolo si nasconde nel dettaglio. Anzi, che il diavolo si nasconda nel dettaglio è il criterio più importante che esista in tutte le interpretazioni, ed è un principio di cui i citatologi, i metodologi, gli epistemologi, i gnoseologi, eccetera, non conoscono l’esistenza e non ne hanno mai sentito parlare. Le persone intelligenti, invece, siano pure rare e tagliate fuori dalla visibilità pubblica, sono in grado di capire di cosa si tratta. Nella citazione del primo libro del Capitale riportata nel quinto paragrafo di questo capitolo Marx scrive la stupida paroletta «con l’ineluttabiità di un processo naturale». Perché sono così severo, e scrivo “la stupida paroletta”? Perché quaranta anni di dibattito marxologico mi hanno convinto che senza uno schiaffone (Gramsci aveva parlato di «cazzotto in un occhio») tutto il gregge marxologico torpido e inerziale non è in grado di cogliere neppure l’esistenza del problema. Il fatto è, appunto, che la storia sociale non è mai in nessun momento una storia naturale, e in nessun momento le sue categorie

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sono le stesse categorie della storia naturale, se non per una facile e quasi sempre scorretta analogia. Lo stesso Lukács se ne è alla fine accorto nella sua mirabile Ontologia dell’Essere Sociale, ma era ormai troppo tardi per scuotere il bestione intorpidito in fase preagonica. Perché la storia sociale non è mai neppure per analogia assimilabile alla storia naturale? Ma per un principio accessibile a un bambino della terza elementare, anche se non accessibile ai professori positivisti, weberiani e seguaci del materialismo dialettico! Il perché sta in ciò, che la storia sociale implica sempre la presa di coscienza soggettiva di individui, gruppi, collettività e comunità in grado di attivare una prassi trasformativa adeguata, laddove nella storia naturale, geologica, botanica, zoologica, fisica, chimica, biologica, astronomica, eccetera, la sola cosa che non esiste e che non è previsto neppure che esista è appunto la presa di coscienza soggettiva in grado di attivare una prassi. Si dirà: ma questo è ovvio, perché una cosa alla portata di un intelletto comune anche analfabeta non lo è stata per più di un secolo alla portata di politici, scienziati sociali, professori universitari, intellettuali, eccetera? Non è forse intuitivo che la famosa contraddizione fondamentale fra sviluppo delle forze produttive sociali e natura classista dei rapporti sociali di produzione non si scioglie, e non può essere sciolta in alcun modo, se non da una prassi rivoluzionaria collettiva da parte di soggetti agenti? Chi pone così il problema, e si chiede il perché di un fatto assolutamente intuitivo, e cioè che le rivoluzioni intermodali non sono equiparabili a terremoti, maremoti, eclissi di sole e di luna, scioglimenti dei ghiacciai e mutamenti climatici, ed è pertanto stupido parlare di presunte “ineluttabilità di processi naturali” mostra di non capire il cuore di ciò che Giambattista Vico chiamò a suo tempo la boria dei dotti. So da tempo che esiste una resistenza incoercibile ad ammettere che i gruppi intellettuali consolidati sono i gruppi più stupidi e più incapaci che esistano di comprendere i fenomeni sociali, in quanto la loro comprensione non è diretta, come quella di tassisti, prostitute, baristi, contadini e artigiani, ma

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passa attraverso schematizzazioni astratte che poi diventano autoreferenziali e si autoriproducono senza più potersi mettere in discussione. Nessuno si sottrae ovviamente a questa piaga dell’idiozia istituzionalizzata, neppure ovviamente chi scrive. Eppure, per puro miracolo, qualcuno riesce a entrare in un riorientamento gestaltico. Marx era un genio, ma l’idea, che i processi sociali fossero analoghi ai processi di storia naturale non sta in cielo né in terra, e deriva da quella ripresa ottocentesca della superstizione primitiva sulla omogeneità fra il macrocosmo naturale e il microcosmo sociale che si chiama modello positivistico di scienza unificata. Eppure Marx era partito bene, avendo imparato da giovane un modello alternativo di scienza, la scienza filosofica di Hegel. Se mettiamo brevemente in comparazione il modello di scienza positivistica e il modello di scienza filosofica, vediamo che tra esse non ci può essere nessuna conciliabilità, ma esse sono del tutto incompatibili, almeno per quanto riguarda le scienze storiche e sociali dell’uomo. Ma vediamo meglio. 17. Trascurando qui molti pur importanti dettagli, e limitandoci all’essenziale, il modello di scienza positivistica (che qui consideriamo unicamente dal punto di vista della sua estensione al codice conoscitivo marxiano e marxista, da cui poi deriva l’analisi del capitalismo e la concezione non-comunitaria del comunismo) è caratterizzato principalmente da tre elementi principali. In primo luogo, si tratta di un modello costruito a partire esclusivamente dalle moderne scienze seicentesche della natura a base matematico-sperimentale, che prendono generalmente il nome da Galileo e da Newton. Il primo pensatore che ne propose un’estensione al campo delle scienze sociali e della conoscenza storica fu il francese Auguste Comte, considerato il vero fondatore del positivismo, anche se nel decisivo mondo anglosassone il protagonista fu mezzo secolo dopo Herbert Spencer, pensatore oggi quasi dimenticato, ma che nella sua epoca influenzò non solo il libera-

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lismo industrialista e imperialista, ma anche il socialismo marxista evoluzionista a base darwiniana. Auguste Comte propone una vera enciclopedia delle scienze che hanno tutte una indispensabile base matematica, e che si strutturano secondo una sorta di continuità stadiale dalla più semplice alla più complessa (astronomia, fisica, chimica, biologia e sociologia). Questo impianto stadiale, completamente assente in Hegel e presente in modo soltanto marginale in Marx, diventerà poi la filosofia della storia ufficiale del marxismo, attraverso i cinque pretesi (e inesistenti, e cialtroni, e fuorviarti) stadi della storia universale stessa (comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo, comunismo), ridotta ad autostrada unilineare a una sola corsia. La concezione di Comte della sociologia è quella di una scienza unificata della società in polemica “a sinistra” contro gli utopismi socialisti e comunisti a base giusnaturalista e contrattualista del tempo (da cui – lo abbiamo visto con Grandjonc – nasce geneticamente lo stesso comunismo di Marx), e “a destra” contro l’economia politica inglese, considerata (in modo peraltro corretto e geniale) come una semplice metafisica individualistica del tutto non “scientifica”. Nella variante comtiana, la sociologia non è affatto una disciplina universitaria, ma è una tecnica di governo della riproduzione sociale “armonica”, una sorta di dittatura tecnocratica di centro esercitata contro i due “opposti estremismi” del comunismo francese e del liberalismo inglese. La sociologia nel senso di Comte è una filosofia politica radicalmente elitistica e non democratica, perché parte dal fatto che la gente comune è in preda a confuse utopie a base religiosa e/o filosofica, e quindi non sa che cosa vuole. Nonostante il pittoresco odio di Comte verso la filosofia in quanto tale, etichettata spregiativamente come “metafisica”, l’origine di questa concezione elitistica, tecnocratica e antidemocratica sta in Platone, o più esattamente nella Repubblica di Platone. La differenza sta nel fatto che i governanti platonici governavano sulla base di un modello di scienza pitagorica, mentre i governanti comtiani avrebbero dovuto governare sulla base di un modello di scienza razionalistico-galileiana. La comuni-

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tà e la democrazia sono ovviamente escluse entrambe, così come verrebbero esclusi gli “incompetenti” dalla guida di una nave o di una locomotiva. Personalmente, ho studiato a fondo il marxismo sovietico, e non solo i suoi manuali di storia, materialismo dialettico e materialismo storico, ma anche i manuali istituzionali di una disciplina liceale e universitaria chiamata “comunismo scientifico” (insegnata per esempio dalla defunta moglie di Gorbaciov, Raissa Gorbaciova). Si tratta di comtismo puro, anzi purissimo, in quanto la società viene pensata come un organismo industriale guidato appunto in modo “scientifico”, in cui semplicemente al posto del profitto ci sta un fantomatico e utopico “comunismo”. Come è noto, il fatto che venisse escluso a priori il conflitto di classe come non scientifico, faceva sì che questi poderosi manualoni non potessero prevedere la causa fondamentale della dissoluzione del baraccone sovietico, e cioè la lotta di classe vittoriosa dei nuovi ceti medi anticomunisti contro il soffocante dispotismo operaio egualitario diretto da burocrati cinici, ignoranti e mangioni. È quindi assolutamente paradossale che il comunismo sovietico, considerato “marxista” dai liberali anticomunisti e “marxista-leninista” dagli stessi comunisti creduloni, sia stato ispirato da un codice teorico comtiano e spenceriano, basato sul concetto ultrapositivistico di “direzione scientifica” della società, ricavato direttamente da Comte e da Spencer senza nessuna influenza di Hegel e tantomeno di Marx. In secondo luogo, si tratta di un modello che attribuisce alla scienza (e cioè alla scienza positivisticamente concepita) il monopolio assoluto della sola forma valida di conoscenza del mondo naturale e sociale, negandolo esplicitamente sia alla religione che alla filosofia. Nei termini di Comte, e del suo principale seguace marxista moderno Louis Althusser, la religione e la filosofia hanno in comune il fatto di ispirarsi a principi del tutto vaghi e indimostrabili (Dio, il diritto naturale, il contratto sociale, l’idealismo, eccetera). In estrema sintesi: Dio non esiste, la religione risponde unicamente a bisogni psicologici umani ispirati a una profonda ignoranza delle leggi naturali e sociali; in quanto alla filosofia, essa apparentemente sembrerebbe più “razionale” della religione,

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ma in ultima istanza non ne è che una sorta di copertura religiosa colta per intellettuali. Si tratta en passant della stessa concezione poi sostenuta da Lenin, per cui l’idealismo filosofico non era che una copertura sofisticata della religione. Che dire? L’idiozia è uno dei fattori principali della storia della filosofia, e non solo. Ci si domanda, allora, su cosa si basasse quello che chiamo personalmente il paradosso di Engels. E il paradosso di Engels stava in ciò, che da un lato Engels sosteneva che il proletariato avrebbe dovuto diventare l’erede della filosofia classica tedesca (sic!), e dall’altro il sostenere che la filosofia classica tedesca stessa non era che una copertura sofisticata della religione portava alla conclusione inevitabile per cui il proletariato avrebbe invece dovuto diventare l’erede della enciclopedia positivistica delle scienze a base esplicitamente non solo non-filosofica, ma apertamente e spesso rabbiosamente anti-filosofica. In terzo luogo, e in conclusione, il modello positivistico di scienza, si basa, come è noto, sul concetto di legge scientifica. Nell’ultimo secolo e mezzo (teoria della relatività, meccanica quantistica, principio di indeterminazione, eccetera) questo concetto è stato per così dire flessibilizzato, elasticizzato e reso maggiormente probabilistico e meno ferreamente deterministico, ma il suo nucleo è rimasto intatto. La scienza si riconosce dal fatto di produrre leggi scientifiche. È questa, la ragione per cui Engels, il positivista che credeva di essere erede della dialettica di Hegel rimessa sui piedi (ma su questo Marx la pensava esattamente come lui, sembra), si è accanito a scoprire le “leggi della dialettica”, laddove è ovvio, non solo per Hegel ma per qualunque intelletto filosoficamente educato, che la dialettica non ha leggi e non può neppure averne. Nelle scienze della natura, invece, non solo il concetto di legge inteso come regolarità empiricamente verificabile sperimentabile e ripetibile esiste, ma è addirittura la base della legittima scientificità della scienza stessa. Se il lettore ha dei dubbi, vada a verificare i suoi manuali liceali di fisica, chimica e biologia, ammesso che non se ne sia subito disfatto dopo aver superato l’esame di maturità.

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E ora veniamo al nostro problema. Il criterio storico fondamentale che Marx utilizza per comprendere il fatto che il modo di produzione non resti fermo, immobile ed eterno come l’Essere di Parmenide (di cui si ricordi la mia precedente interpretazione “materialistica”), ma per così dire “si muova”, è come è noto la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione, o più esattamente fra lo sviluppo delle forze produttive sociali dovuto congiuntamente all’inventività e alla creatività umana e alle necessità della produzione sociale, e la natura classista, e pertanto indirettamente “stagnazionista”, dei rapporti sociali di produzione. Questo è il modello teorico di Marx per spiegare il “movimento” della storia, e il fatto che il ruolo dell’ideologia viene minimizzato e/o esaltato non è che una variante secondaria interna. Nel marxismo italiano, per esempio, Antonio Gramsci dava una grande importanza al ruolo dell’ideo­logia, mentre Amadeo Bordiga gli dava invece un’importanza minore se non inesistente, ma entrambi ovviamente, in quanto marxisti sinceri, ritenevano che comunque il fattore principale del movimento storico fosse comunque la contraddizione fra le forze produttive e i rapporti di produzione. Il nostro problema si può quindi enunciare in questo modo: la contraddizione fra le forze produttive e i rapporti di produzione è una legge scientifica applicabile alla società come le leggi fisiche, chimiche e biologiche sono applicabili alla natura esterna dell’uomo? Se si risponde sì, si è all’interno di una concezione positivistica di scienza. Se si risponde no – come è il mio caso – si è sulla strada giusta per comprendere la natura del comunismo comunitario, che richiede una fondazione filosofica e non positivistica di scienza, in quanto una cosa è sicura, e cioè che la comunità, comunque concepita, non è un oggetto storico ricavabile da un concetto positivistico di scienza. Non c’è dubbio che il modello della contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e natura classista dei rapporti sociali di produzione spieghi molti passaggi storici. E tuttavia, per essere una legge scientifica dovrebbe avere due caratteristiche che non ha. Primo, spiegarli tutti senza e coazione, cosa che non può fare

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assolutamente, perché molti passaggi storici decisivi le sfuggono completamente. Secondo, prescindere di fatto da ogni decisivo intervento umano, perché l’intervento umano, nella sua soggettività ineliminabile, non è e non può essere per sua stessa natura prevedibile con la cosiddetta “ineluttabilità dei processi naturali”. Il grande teatro della storia universale ci dice, se lo sappiamo leggere in modo non stadiale-deterministico, che non esiste nessuna legge del tipo sviluppo delle forze produttive-natura classista dei rapporti di produzione. Qui non si può ovviamente fornire una esemplificazione adeguata, perché coprirebbe centinaia di pagine, e ci si limiterà ad accenni necessariamente del tutto insufficienti. Il passaggio dalle società primitive non classiste ai primi dispotismi comunitari classisti (Jaffe) è largamente spiegabile con lo sviluppo delle forze produttive e con la divisione sociale del lavoro che ne è il presupposto e la conseguenza, e questo è talmente ovvio che già i pensatori settecenteschi (da Ferguson a Rousseau) lo avevano già spiegato nei più piccoli particolari. Su questo Marx non ha inventato proprio niente, né poteva farlo, perché la cosa era già accertata e acclarata. La nascita dei rapporti schiavistici di produzione in Grecia non è affatto dovuta a un fantomatico (e inesistente) conflitto fra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali di produzione, ma è il frutto di un casuale incontro, del tutto aleatorio (su questo Althusser ha alcune ragioni) fra l’introduzione della moneta coniata nella direzione geografica Lidia-Chio-Egina-Atene e lo sviluppo endogeno del modo di produzione dei piccoli proprietari e produttori indipendenti dalla tribalità collettivistica precedente. Su questo punto Aristotele è mille volte più “marxista” dello stesso Marx. La generalizzazione ellenistica del modo di produzione schiavistico antico è del tutto casuale. Sarebbe bastato che le truppe persiane e dei mercenari greci avessero sconfitto e ucciso Alessandro il Macedone appena sbarcato in Asia Minore (cosa perfettamente

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possibile), che non avremmo avuto probabilmente nessun modo di produzione schiavistico antico come lo abbiamo conosciuto. La formazione dell’Impero Romano come involucro politico del modo di produzione schiavistico antico non è stata assolutamente dovuta a nessun conflitto fra forze produttive e rapporti di produzione, anche perché è noto che la produzione schiavistica non favoriva la produttività più di quanto lo avesse fatto il modo di produzione precedente dei piccoli produttori e proprietari indipendenti. Sarebbe bastato che Annibale conquistasse e distruggesse Roma perché il modo di produzione schiavistico non avrebbe potuto svilupparsi. Cartagine non era assolutamente una rivale di Roma sul suo terreno, e cioè sullo sviluppo del modo di produzione schiavistico, perché anzi le conveniva mantenere la tribalità “esterna” ai suoi commerci (Etruschi, Celtiberi, Galli, Britanni, eccetera), e non aveva nessuna dinamica di colonizzazione generalizzata, bastandole gli empori commerciali di distribuzione. L’Impero Romano non cadde assolutamente perché non riusciva a sviluppare le forze produttive. Il passaggio dalle aziende schiavistiche che lavoravano per il mercato (villae) ai latifondi e al colonato, eccetera, e le successive conquiste militari germaniche, fatte in base al principio prima della hospitalitas (Ostrogoti) e poi della brutale conquista totale e senza compromessi (Longobardi), non c’entrano assolutamente nulla con lo sviluppo delle forze produttive. Il lettore mi creda. Potrei fare altri trenta esempi, ma coprirei centinaia di pagine. Incidentalmente, Robert Brenner ha dimostrato che lo stesso sviluppo del modo di produzione capitalistico in Inghilterra nel Settecento è stato largamente aleatorio. Paradossalmente, il solo esempio moderno di applicabilità integrale del modello marxiano di contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive e la natura “frenante” dei vecchi rapporti di produzione precedenti è la restaurazione capitalistica in Cina dopo il precedente “dispotismo comunitario” di Mao Tse-tung, in cui le statistiche mostrano che la produttività sociale ha potuto crescere

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“a freccia” proprio sulla base della generalizzazione più schifosa, sordida, ripugnante e anomica della produzione capitalistica. Un Marx ancora vivo non ne sarebbe certo stato contento, nel vedere l’inversione a 180 gradi della sua ipotesi. Dal momento che io sono, e mi riconfermo, un allievo di Marx, quanto ho appena detto non deve essere inserito nel genere letterario liberal-capitalistico delle critiche a Marx. Semplicemente, il significato di questi miei rapidi commenti sta in ciò, che se si vuole opporre un modello di comunismo comunitario all’attuale barbarie capitalistica non ci si può fondare su di un modello positivistico di scienza della società, anche e soprattutto se questo modello viene spacciato per “comunismo scientifico”. 18. Il lettore non ancora del tutto rincoglionito dalla simulazione mediatica avrà forse perduto alcuni eruditi passaggi su Comte, Spencer, Marx, Annibale e Alessandro il Macedone, ma avrà certamente capito il nocciolo della questione, per cui il modello positivistico di scienza sociale complessiva intesa come ingegneria sociale gestita da specialisti è del tutto incompatibile con la democrazia, con la comunità e con il comunismo comunque concepiti. In questa concezione la società è concepita come un treno che scorre su binari costruiti da ingegneri guidato da macchinisti specializzati, e tutto il resto della gente è composto da passeggeri. Al tempo dei saggi pitagorici questo elitismo era parzialmente perdonabile, se pensiamo che la loro matematica non era quella di Galileo, ma era uno strumento per garantire l’armonico equilibrio sociale (isorropia), ma già Clistene lo aveva democratizzato radicalmente con la sua riforma politica ateniese. Il comunismo sovietico dovette concettualmente regredire da Clistene a Pitagora, ma questo avvenne per ragioni strutturali stringenti che esamineremo fra poco in questo stesso capitolo. Resta il fatto che il modello positivistico di scienza non può neppure per sbaglio fare della scienza della coscienza storica, solo fattore di passaggio possibile (possibile, e neppure probabile) dall’indivi-

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dualismo anomico al comunismo comunitario, perché la coscienza storica non è un elemento fisico, chimico e biologico, e neppure un dato numerico matematizzabile. Per questo ci vuole un modello alternativo di scienza, che chiameremo scienza filosofica. La cosa curiosa è che questo modello di scienza filosofica esiste già, vi abbiamo già accennato in precedenza, e se ora ci torniamo sopra ripetendo cose parzialmente già dette è soltanto perché qui sta il punto cruciale di tutta la faccenda. Questo modello di scienza filosofica è già stato largamente impostato da Hegel, il Pitagora dei nostri tempi. La sua genesi, come è noto, sta nella sua critica al criticismo intellettualistico di Kant, che ha implicato il ristabilimento del punto di vista greco sulla identità fra categorie dell’essere e del pensiero. Ma questo è già noto, e per questo mi limiterò a fornire un modello contrastivo fra il codice di scienza positivistica e il codice di scienza filosofica. Ripeto, e non mi stancherò di ripetere, che il comunismo comunitario deriva certamente da una tradizione greco-cristiana, del tutto estranea all’ebraismo particolaristico del popolo eletto e prediletto da Dio, ma che questa tradizione, largamente discussa nelle pagine precedenti, deve essere integrata con l’eredità delle due principali opere di Hegel, dalla Fenomenologia dello Spirito alla Scienza della Logica alla Filosofia del Diritto. Più avanti, vedremo che la critica anarchica alla Filosofia del Diritto di Hegel, che con la scusa, di gettare via l’acqua sporca del classismo borghese ha anche gettato via il bambino delle riflessioni sensate sulla famiglia, sulla società civile e sullo stato, è stata la prima causa della deriva utopica del marxismo, deriva del tutto complementare alla deriva positivistica, che alla fine è stata la base teorica dello sviluppo dell’individualismo anomico della cosiddetta “sinistra”, in questo momento l’avversario diretto principale di qualunque comunismo comunitario. Ma di questo nel prossimo capitolo*.1

*  Il capitolo a cui si fa riferimento, qui e in seguito, non è stato rinvenuto tra i documenti presenti nel lascito previano. Si presume sia rimasto in stato embrionale, senza che le idee si traducessero in atto. [N.d.R.]

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Nella sua Scienza della Logica Hegel chiama concetto la stessa identica cosa che aveva chiamato pochi anni prima autocoscienza nella sua Fenomenologia dello Spirito. Il fatto che vi sia parallelismo e poi fusione di un concetto storico (l’autocoscienza) e di un concetto logico (il concetto) non è solo la riproposizione moderna della vecchia identità greca fra le categorie dell’essere e le categorie del pensiero, messa in crisi dalla svolta gnoseologica della filosofia moderna da Cartesio a Kant, il cui nucleo espressivo era la riduzione della verità alla certezza soggettiva del soggetto rappresentante, ma è anche la base di una vera e propria scienza filosofica universalistica. Questa scienza filosofica, naturalmente, non si applica e non può applicarsi in alcun modo alle scienze naturali moderne, dalla fisica alla chimica, dalla biologia alla geologia, dalla botanica alla zoologia, dall’informatica alla genetica, eccetera. E non può per il semplice fatto che l’oggetto di studio delle scienze naturali moderne non è un oggetto dotato di autocoscienza razionale soggettiva progettuale, ma al contrario la sua natura di oggetto rispecchiato dalla conoscenza scientifica è proprio quella di non essere in alcun modo il titolare auto­cosciente di una coscienza soggettiva. L’idea che il passaggio dal capitalismo al comunismo sia “rispecchiabile” come vengono rispecchiati i terremoti dalla sismologia, le eclissi dall’astronomia o le eruzioni dalla vulcanologia è una illusione positivistica storicamente comprensibile in un momento in cui la legittimazione sociale del potere stava passando dalla religione alla scienza stessa, e in cui stavano affermandosi potentemente figure professionali come il medico, l’ingegnere e il ricercatore di laboratorio. In termini marxiani, si trattava di una illusione socialmente necessaria. Errare è umano, ma perseverare è diabolico. La scienza filosofica consiste nella organizzazione razionale del problema della maturazione storica dell’autocoscienza umana attraverso le prove che di volta in volta si pongono davanti all’umanità stessa. Essa non ha pertanto nulla a che fare né con l’evidenza di Cartesio, né con l’esperienza del mondo esterno di Locke, né con la matematizzazione della natura di Galileo, né con la scienza

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della conoscibilità degli oggetti fenomenici di Kant. Essa si origina invece dal concetto di scienza filosofica di Fichte, ma la corregge con la determinazione del finito nel tempo e nello spazio e con un migliore uso del concetto di dialettica. L’autocoscienza storica coincide quindi con il concetto logico. Questo presuppone ovviamente l’accettazione del concetto di verità universale, definita da Hegel come «corrispondenza del concetto con la sua oggettività», e cioè come corrispondenza dell’autocoscienza soggettiva di un soggetto con la sua capacità di “oggettivarsi”, e cioè di realizzare concretamente la propria prassi concreta. Il concetto, e cioè l’autocoscienza del soggetto, non può essere un apriori, e neppure una categoria puramente conoscitiva, ma è il risultato di un processo storico. Nel caso del comunismo, e più ancora del comunismo comunitario (che implica l’accordo di una comunità, e non certo il progetto di un piccolo gruppo di illuminati portatori della “vera scienza” da imporre a tutti gli ignoranti), il concetto auto­cosciente arriva solo dopo l’esperienza individuale e collettiva della negatività, dell’alienazione e dello sfruttamento che Hegel metaforizza con il nome di essenza. Il concetto di essenza rimanda infatti al vecchio contrasto greco fra Eraclito e Parmenide, per cui non è sufficiente che si abbia un’idea perfetta e immutabile della convivenza armonica nella città giusta (l’Essere di Parmenide), ma è necessario che si passi attraverso l’esperienza della lotta sociale fra i cittadini (polemos). Per questo Hegel e Marx preferiscono Eraclito a Parmenide. Non certo per relativismo e nichilismo, ma proprio per il contrario, e cioè per il fatto che la negatività del divenire è costitutiva dell’esperienza dello stesso Essere, e cioè della Verità. Mi rendo perfettamente conto di stare usando termini filosofici specialistici, probabilmente incomprensibili al comune lettore interessato alla fondazione di un comunismo comunitario. Sarebbe forse possibile usare un linguaggio maggiormente divulgativo, ma ritengo che sia necessario prima concettualizzare adeguatamente l’incompatibilità fra un modello positivistico di scienza, ottimo per il progresso delle scienze della natura, e un modello di scien-

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za filosofica, che invece non si applica alle scienze della natura, ma si applica soltanto al processo della storia umana come storia di presa di coscienza comunitaria per la liberazione. 19. A questo punto, però, abbiamo criticato soltanto un lato del­ l’ossimoro del termine scienza utopica. Distinguendo fra il modello positivistico di scienza e il modello hegelo-marxiano di scienza filosofica, siamo riusciti soltanto a capire che nessuna scienza positivistica potrà mai “ricavare” il comunismo dal capitalismo, così come nessun prestidigitatore potrà mai estrarre un coniglio dal cappello se questo coniglio non vi si trova già nascosto prima. L’idea che si possa ricavare il concetto di comunismo dallo svolgimento storico del capitalismo senza che questo concetto non sia diventato prima libero e auto­cosciente è un’illusione nello stesso tempo utopica e positivistica, il che fa del positivismo il vero segreto coronamento di ogni possibile utopia. Esiste però un secondo tipo mortifero di utopia comunista, la cui genesi sta in una indebita estensione individualista anarcoide della legittima critica fatta dal giovane Marx alle categorie portanti della Filosofia del Diritto di Hegel. Questo punto è ancora più importante del precedente, e la sua corretta comprensione è preliminare alla comprensione del decisivo prossimo capitolo, in cui verrà mostrata la totale incompatibilità di qualsiasi comunismo comunitario con la deriva individualista, relativista e nichilista della cosiddetta “cultura di sinistra”. 20. Dal momento che la questione che tratterò nei prossimi paragrafi, e cioè la questione dell’utopismo in Marx, questione che se non è risolta continua a lasciare la sua ombra di inattendibilità complessiva anche e soprattutto sul suo comunismo è molto più importante della precedente, che è invece di soluzione relativamente facile, bisognerà comprendere l’importanza della posta in gioco. La sostituzione di un modello di scienza filosofica dell’autocoscienza concettuale del soggetto al posto della illusio-

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ne positivistica del passaggio diretto e automatico dalla crisi produttiva del capitalismo alla soluzione comunista è infatti ovvia e automatica dopo la caduta grottesca e fragorosa del modello di comunismo storico novecentesco, che aveva inquinato il suo intero sistema scolastico e ideologico con questa follia positivistica denominata “marxismo-leninismo” oppure “comunismo scientifico”. Si tratta infatti di un tema che di fatto non esiste più oggi, e parlarne è soltanto segno di attenzione storica e archeologica, nonostante il fatto che il mondo sia ancora pieno di studiosi che si intestardiscono su questo paradigma (gli althusseriani, i seguaci di Geymonat e del Lenin filosofo, eccetera). La difficoltà di far passare il profilo della scienza filosofica basata sull’autocoscienza storica del soggetto e non più sulle “leggi dialettiche” è infatti dovuta prima di tutto a un fattore ideologico residuale, il sospetto di idealismo e di contaminazione filosofica idealistica, in una parola, lo stupido odio regressivo verso Hegel, residuo inerziale di decenni di dibattiti novecenteschi fra conventicole di intellettuali settari e malvagi. Il tema dell’utopismo, invece, riguarda più il futuro che il passato. Per poterlo affrontare, bisognerà trattare separatamente i due temi principali del rapporto Hegel-Marx così come vengono fuori dalla Filosofia del Diritto di Hegel. Se se ne comprende bene la natura e si prendono le “misure” necessarie (sia pure nel senso che i sarti danno alla parola “misura”) allora la lettura del prossimo capitolo diventa facile. In primo luogo, si tratta del modo in cui Hegel, criticando la morale individualistica di Kant, distingue la morale e l’etica, o meglio nel suo linguaggio la moralità (Moralität) e l’eticità (Sittlichkeit). La mia tesi di fondo è che Marx eredita integralmente la lettera e lo spirito di questa distinzione, che è parallela e complementare alla critica di “robinsonismo” che fa a Smith. In altre parole, la critica al kantismo di Hegel e la critica al robinsonismo di Marx sono una e una sola critica, o meglio sono i due lati complementari di un’unica critica all’individualismo etico, politico ed economico. Nella nostra ottica di tipo comunista comunitario, questa unica

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critica è la premessa logico-storica della nostra presa di posizione e dell’insieme di comportamenti politici che questo comporta. In secondo luogo, si tratta di discutere analiticamente il modo in cui Hegel tematizza l’articolazione sociale della sua eticità, che sarebbe forse stato meglio tradurre in lingua italiana come etica sociale o etica comunitaria, il che avrebbe tolto di mezzo un mucchio di equivoci terminologici. Come è noto, Hegel articola la sua analisi dell’etica sociale e comunitaria in tre momenti, la famiglia, la società civile e lo stato. Come è altresì noto, fin dal 1842 Marx inizia la sua critica a Hegel rilevando che la famiglia, la società civile e lo stato di cui parla Hegel non avevano nessuna credibilità universalistica, trattandosi soltanto di ipostasi idealistiche della famiglia classista borghese, della società civile classista borghese, e infine dello stato classista borghese. Una critica impeccabile, se non fosse che lo stesso Hegel ne era pienamente cosciente, in quanto se avesse ritenuto di parlare di qualcosa di eterno e assoluto non avrebbe inserito la famiglia, la società civile e lo stato nello Spirito Oggettivo (come ha fatto), ma direttamente nello Spirito Assoluto (come non ha fatto). Affermare quindi che Hegel avrebbe assolutizzato la famiglia patriarcale, la società civile borghese e lo stato prussiano semifeudale è quindi una sciocchezza quasi incredibile, perdonabile nel contesto settario dei giovani hegeliani che dovevano uccidere il padre ingombrante, ma imperdonabile per i cretini che non hanno corretto l’errore nel secolo e mezzo che ci separa dal 1842 e dintorni. Hegel non ha assolutizzato, ma ha determinato storicamente quello che lui pensava fosse il profilo migliore di famiglia, società civile e stato. I successivi “marxisti”, credendo nella loro bovina stupidità che la critica del capitalismo si identificasse con la critica anarcoide e individualistica della borghesia, ne hanno ricavato l’idea utopica per cui il comunismo avrebbe dovuto implicare la fine della famiglia, della società civile e dello stato, realizzando così il massimo di individualismo anomico e anticomunitario possibile.

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In questo modo si è finito con il pensare che il senso del pensiero di Marx fosse la dimostrazione scientifica (nel senso positivistico sopraindicato) della fine utopica della storia, indicata come un carnevale anomico di individui idioti liberata dalla famiglia, dalla società civile e dallo stato. A questo punto, anche il più pigro e conservatore dei miei lettori dovrebbe avere capito che bisogna ripensare tutta questa “merda”, per usare un termine caro a Marx. 21. Nel lessico politico delle Prima Repubblica Italiana (19481992) esisteva un curioso ossimoro chiamato “convergenze parallele”. Questo ossimoro offenderà certamente gli studiosi di geometria, ma nello stesso tempo indica abbastanza bene un curioso movimento teorico a spirale di tipo asintetico, per cui si ha un movimento che ha una natura comune pur provenendo e terminando in punti diversi. Fra Hegel e Marx si ha una convergenza parallela, che fonda il comunitarismo moderno sulla base di una preliminare critica all’individualismo, in entrambi i casi del tutto estranea alle nostalgie organicistiche dei cultori del tradizionalismo. La critica di Hegel al moralismo individualistico di Kant e la critica di Marx al robinsonismo individualistico di Smith sono concettualmente una critica unica che si basa sullo stesso tessuto concettuale, anche se ovviamente i rispettivi contenuti politici sono diversi. Hegel critica il moralismo individualistico di Kant in nome di una comunità borghese del tutto ideale, basata su di una famiglia ancora patriarcale ma fondata idealmente sull’amore coniugale frutto di un matrimonio elettivo e non combinato, su di una società civile fondata sulle professionalità basate sul possesso di competenze di mestiere, e su di uno stato il quale, lungi dall’essere quella caricatura di baraccone inefficiente e burocratico creata dalla secolare “leggenda nera” del liberalismo individualistico, era visto come il vettore politico della realizzazione pacifica degli ideali della rivoluzione francese. Parlo di una comunità borghese “ideale” perché la borghesia realmente esistente non è quella di Hegel ma è quella narrata dai romanzi di Balzac e di Zola, un insieme di ipocriti

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egoisti, razzisti e colonialisti, pronti a scatenare bagni di sangue non appena i propri profitti venissero messi in pericolo. È stata questa, con eccezioni minoritarie, la borghesia “reale”, ma Hegel ne aveva in testa una “ideale”. Se il suo noto motto “tutto ciò che è razionale è reale, e tutto ciò che è reale è razionale” dovesse essere interpretato come giustificazione sofisticata di tutti i vincitori su tutti i vinti, salterebbe l’intero apparato “ideale” della Filosofia del Diritto, che è costruito invece (e basta leggerlo, e non parlarne per “sentito dire” come fanno abitualmente tutti i cialtroni presenzialisti semianalfabeti) su di un concetto (Begriff) di famiglia ideale, società civile ideale e stato ideale. Si dirà che Hegel è idealista, mentre Marx è materialista, e non parla mai di ideali ma solo di realtà. Chi dice questo meriterebbe un educato schiaffetto di avvertimento, come usava fare il mio defunto maestro di scuola elementare quando qualcuno di noi faceva un grossolano errore di grammatica nel parlare (ricordo uno schiaffo particolarmente doloroso quando una volta dissi “io stassi” anziché “io stessi”). È del tutto evidente che il concetto di proletariato comunista, portatore di valori universali (avendo da perdere soltanto le proprie catene) e capace di edificazione di una società comunista comunitaria, è un concetto ancora più ideale di quanto fosse già ideale il concetto universalistico di borghesia in Hegel. Questo proletariato comunista è talmente ideale da non corrispondere ovviamente a nessuna concreta classe operaia, salariata e proletaria, e del resto Marx in un raro momento di lucidità lo ha anche ammesso apertamente, concludendone però in modo positivistico-deterministico che le contraddizioni oggettive del capitalismo avrebbero comunque costretto, volenti o nolenti, i proletari empirici a diventare proletari comunisti. Sciocchezze positivistiche. E tuttavia, al netto delle comprensibili sciocchezze, Hegel e Marx si muovono in piena convergenza parallela. È bene studiare attentamente questa convergenza parallela, perché da essa nasce geneticamente la critica comunitarista all’individualismo moderno.

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22. Il principio ispiratore dell’intera filosofia di Hegel, quello che ne rappresenta l’unità espressiva, è il ristabilimento della comunità su basi nuove dopo l’inevitabile e necessario intermezzo individualistico dell’illuminismo. Per Hegel, infatti, il pur necessario e lodevole illuminismo deve restare un intermezzo, non un coronamento finale. L’illuminismo è infatti un intermezzo necessario e lodevole, perché distrugge un tipo di comunità, feudale e signorile, che aveva perduto ogni legittimazione storica e filosofica e doveva comunque essere distrutta e sostituita. L’individualismo che ne conseguiva, e che Fichte chiamò prima «epoca della compiuta peccaminosità», e che Hegel stesso chiamò «furia del dileguare» e poi «passaggio dall’ascetismo della morale al regno animale dello spirito», era stato una sorta di spiacevole ricaduta (i bombardatori odierni lo avrebbero chiamato “danno collaterale”) del necessario movimento storico dell’abbattimento del complesso di legittimazioni che stava alla base della precedente società feudale-signorile-assolutistica. Come si vede, Hegel aveva una visione dialettica del significato profondo dell’illuminismo, la cui grandezza risulta proprio se la si mette a confronto, da un lato, con le apologie scettico-individualistiche dei vari Cabaret Voltaire sponsorizzati dal circo mediatico e dal clero universitario odierni, e dall’altro con i paradossi, estremistici della Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer. Hegel capisce bene che per edificare una casa nuova bisogna prima demolire la casa precedente, ma solo gli idioti scambiano un’impresa di demolizione per una impresa di costruzione. La critica comunitaria di Hegel all’individualismo morale di Kant, definito variamente “moralità” (Moralität) è quindi il punto di vista concettuale del comunitarismo moderno, cui Marx aggiunse soltanto la pur essenziale interpretazione comunista. Kant aveva ricevuto dalla borghesia europea settecentesca il mandato indiretto “ideale” di fondare una morale su se stessa, più o meno come lo aveva ricevuto negli stessi anni Hume per fondare una economia capitalistica su se stessa. E come Hume aveva concettualmente fondato su se stesso lo scambio capitalistico, togliendogli ogni fa-

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stidiosa fondazione eteronoma (e cioè sulla religione, sul diritto naturale e sul contratto sociale), nello stesso modo Kant toglie alla morale ogni parallela fondazione eteronoma. Con la maniacalità del protestante pietista tedesco, che giunge a teorizzare la superiorità della masturbazione sul matrimonio in quanto meno invasiva nel disturbare il lavoro del dotto, e che non si vergogna a dire che pur di non violare il principio di dire sempre la verità bisogna dirla anche all’assassino che insegue un innocente in fuga, il sopravvalutato Kant cerca di eliminare dall’intenzione morale ogni sospetto di eteronomia, eliminando una dopo l’altra ogni motivazione morale sospetta (fare il bene per simpatia, per solidarietà, per pietà, per compassione, per acquisire stima o riconoscenza, per timore dei castighi divini, eccetera). La sola motivazione accettata deve essere il gratuito senso del dovere per il dovere. Si tratta ovviamente di una sciocchezza. Tutte le morali, nessuna esclusa, sono per definizione eteronome, e non potrebbe essere diversamente. Per i critici di Kant è stato un gioco da ragazzi dimostrare che in tutte le formulazioni dell’imperativo categorico morale ci sta ovviamente (e non potrebbe essere diversamente) un interesse personale nascosto. Quando dico che bisogna che la massima del mio comportamento possa essere un modello di legislazione universale, secolarizzazione razionalistica del vecchio detto evangelico “non fare agli altri quello che non vorresti essere fatto a te”, non c’è bisogno di essere uno Schopenhauer o un Nietzsche per capire che si tratta in realtà di un principio di sano egoismo, perché si prevede l’ipotesi che uno possa essere nella condizione di dover ricordare al vincitore la massima morale di trattarlo bene. E tuttavia, ciò che conta non è rinfacciare a Kant queste ovvie stupidaggini. Il punto essenziale sta in ciò, che nel passaggio da una società feudale-assolutistica-signorile a una società mercantile-capitalistico-borghese il principio di legittimazione filosofica della società cambiava. Dalla eteronomia, del fondamento divino si passava alla doppia autonomia del mercato (Hume-Smith) e della morale (Kant).

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Tutto ciò è ovvio. È però meno ovvio il fatto che questa autonomia del soggetto incondizionato fondato su principi puramente formali è l’anticamera dell’arbitrio, o più esattamente della libertà formale unita all’arbitrio sostanziale. Qui si basa la critica di Hegel alla morale kantiana e alla cosiddetta “moralità”. Il fatto è che la cosiddetta “anima bella” si può tranquillamente rovesciare dialetticamente in “anima brutta”, anzi bruttissima. Sradicato da ogni fondamento che non sia la propria autoreferenzialità economica (Hume, Smith) o morale (Kant) il comportamento umano è totalmente assegnato all’arbitrio soggettivo individuale. Il capitalismo, per poter funzionare, deve necessariamente fondarsi sulla concezione di libertà come arbitrio personale, sia pure temperato ovviamente da leggi che non devono però intervenire sul nucleo riproduttivo della produzione capitalistica. Qui Kant è il solo vero precursore di Nietzsche, al di là della mediazione (per me non essenziale) del kantianissimo Schopenhauer. Kant e Nietzsche sono come il poliziotto buono (Kant) e il poliziotto cattivo (Nietzsche) dei romanzi polizieschi, in quanto comune a entrambi è la radicale esclusione di ogni fondamento comunitario del comportamento soggettivo. Ma almeno Kant ha avuto sempre il pudore di lasciare stare i greci, che non lo interessavano e lo infastidivano perché il loro comunitarismo era estraneo alla sua mentalità di protestante tedesco pedante. Nietzsche invece si è costruito una grecità anomica e individualistica del tutto inesistente, ed è per questo che personalmente non riesco a perdonarlo. La critica di Hegel alla morale di Kant non è quindi soltanto un episodio minore della storia della filosofia occidentale moderna. Si tratta di ben di più. Si tratta della fondazione del comunitarismo moderno, come ha peraltro capito Alisdair MacIntyre. Hegel capisce che, con la fine della vecchia legittimazione religiosa dell’ordine sociale, poi degenerata nel fanatismo veterotestamentario del popolo inglese e americano come successore del popolo eletto ebraico, ci vuole una nuova legittimazione comunitaria. Si tratta di una novità relativa, perché in realtà siamo di fronte a un consapevole ritorno ai greci. Al pensatore meno greco della mo-

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dernità, e cioè Kant, succede il pensatore più greco della modernità, e cioè Hegel. E tuttavia, è bene non dimenticare mai il parallelismo prima suggerito, e cioè che la critica all’individualismo morale di Kant da parte di Hegel è in totale convergenza parallela con la critica al robinsonismo individualistico di Marx verso gli economisti inglesi. 23. Il pensiero di Karl Marx, preso nella sua totalità espressiva intenzionale (l’unico criterio a mio avviso metodologicamente utilizzabile in casi simili) non fa assolutamente parte dell’economia politica, non è affatto interno a una storia delle dottrine e economiche, ed è radicalmente estraneo a tutta la tradizione economica. Questa decisa affermazione può sembrare esagerata. E tuttavia non lo è. Il fatto che Marx parli anche di economia non significa che faccia parte della storia dell’economia politica. Due filosofi radicalmente e totalmente atei come Feuerbach e Lenin parlano ovviamente molto di religione, e tuttavia nessuno si sognerebbe di inserirli a pieno titolo in una storia delle religioni e in una storia del pensiero religioso. Forse che il Nietzsche del noto motto «Dio è morto» fa parte della storia del pensiero religioso? Non credo proprio. Forse che il Freud di Totem e Tabù e di Avvenire di una Illusione fa parte del pensiero religioso? Non credo proprio. Eppure la pervicace abitudine di consacrare un capitoletto a Marx nelle storie del pensiero economico è dura a morire. Intendiamoci. Non nego assolutamente un fatto evidente, e cioè che Marx ha offerto interpretazioni del ciclo economico, delle crisi capitalistiche, del sottoconsumo, della sovrapproduzione, dell’aumento della composizione organica del capitale, della caduta tendenziale del saggio di profitto, eccetera. È sulla base di questi contributi che Marx ha potuto essere inserito nelle storie del pensiero economico. Eppure, lo ripeto, si tratta di un criterio improprio, esattamente eguale a un criterio che inserisse tutti i critici della religione nelle storie del pensiero religioso, per il semplice

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fatto che se voglio criticare la religione e sostenere il materialismo ateo (o l’idealismo logico, che alla fine è la stessa cosa) dovrò pur sempre studiare a fondo la religione stessa. Claudio Napoleoni, pensatore oggi ingiustamente dimenticato, ha proposto di distinguere fra economia tradizionale, economia politica critica e infine critica dell’economia, politica (che non ha nulla a che vedere con qualsiasi teoria economica. In breve, questa è la classificazione di Napoleoni (che personalmente non condivido neppure integralmente, ma segnalo perché è semplicemente il meno peggio all’interno del peggio). L’economia tradizionale per Napoleoni è l’economia capitalistica liberale, in un primo tempo smithiano-ricardiana, poi marginalistica, e oggi volgarmente neoliberale. L’economia politica critica è quell’insieme di teorie economiche, che pur accettando integralmente la piena e indiscutibile legittimità del capitalismo, non coincide con il modello liberale (e qui possiamo inserire Sismondi, Keynes, Schumpeter, e tutti i keynesiani variamente di “sinistra”). La critica dell’economia politica, invece, non è semplicemente una teoria economica di alcun tipo, perché si fonda sul presupposto interamente filosofico, completamente estraneo a qualunque variante dell’economia politica sia tradizionale sia critica, dell’unità fra valore e alienazione, o più esattamente fra teoria economica del valore di derivazione ricardiana e teoria filosofica dell’alienazione derivata da Hegel e da Feuerbach variamente interpretati. L’unità di valore e di alienazione, qualsiasi cosa se ne possa pensare, e cioè al di là del fatto che si possa essere d’accordo con questo principio o ritenere invece che questo principio distrugga alla base qualunque pretesa “scientifica” della teoria di Marx (è stato il caso esemplare di Lucio Colletti) radicalmente estranea allo spazio teorico e pratico di tutte le correnti dell’economia politica. Certo, come la teoria nicciana della morte di Dio può indirettamente servire anche ai teologi per affinare i loro apparati teologici, nello stesso modo è evidente che la critica marxiana dell’economia politica, lasci cadere dei “residui” che possono essere incorporati all’interno della teoria economica stessa, in primo luogo ovviamen-

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te la teoria della crisi capitalistica e delle sue cause. Per esempio, se vogliamo spiegare anche solo da un punto di vista strettamente economico la recente crisi capitalistica scoppiata nel 2008, appare chiaro che il pensiero “economico” di Marx è mille volte più acuto, profondo, intelligente e lungimirante di quello prodotto dall’oscena landa di criminali che hanno proposto di interpretare venti anni di saccheggi del mondo da parte del capitale finanziario più abbietto e assassino come “insufficiente controllo degli organi a ciò preposti”. Ma lasciamo da parte questo fango schifoso. Con tutto questo, Marx non è un economista, ma è un critico filosofico globale di tutta l’economia, di destra, centro e sinistra che sia. La teoria dell’unità di valore e di alienazione non fa parte dell’economia politica, così come la teoria della morte di Dio di Nietzsche non fa parte della storia delle religioni. Così come Hegel inizia dalla critica comunitaria (comunitarioborghese ideale, ovviamente) al moralismo individualistico di Kant, complemento morale dell’individualismo utilitaristico di Hume (non a caso i virtuosi kantiani sono sempre anche fautori della produzione capitalistica, da Bernstein a Habermas), Marx inizia concettualmente dalla critica comunistico-comunitaria al robinsonismo individualistico di Smith. L’economia politica, infatti, ha un fondamento scettico-individualistico, e al di fuori di questo fondamento non può esistere, perché dovrebbe automaticamente accertare la teoria di Polanyi sulla sua assoluta non-indipendenza, cosa che equivarrebbe a un suicidio mediante harakiri, e che pertanto ovviamente non può assolutamente fare. La teoria marxiana dei modi di produzione è infatti costruita in opposizione frontale con la spiegazione robinsoniana della nascita della società, in quanto parte (seguo qui ancora una volta Hosea Jaffe) dal comunismo primitivo, passa alle varie forme di dispotismo comunitario, rifiuta decisamente ogni grande-narrazione unilineare, e approda all’analisi sociale del modo di produzione capitalistico. Come sostiene correttamente Grandjonc, questo approdo di Marx non è in alcuna maniera una rottura con le teorie

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comunistico-­comunitaristiche precedenti, ma è una Aufhebung (superamento-conservazione) di esse. Lo stesso Karl Korsch giunto in tarda età alla conclusione di non potersi più dichiarare in alcun modo “marxista”, conclude però correttamente che Marx deve essere inserito all’interno di una continuità di teorie critiche del capitalismo. Non posso qui farla lunga per ragioni di spazio, ma ritengo nell’essenziale che abbia più fondamento la teoria di Korsch della continuità che la teoria di Althusser della rottura scientifico-epistemologica. Dei vari commentatori di Marx, soltanto Stephen Hymer ha a mio avviso colto adeguatamente la centralità assoluta della critica al robinsonismo. E soltanto il benemerito S.S. Prawer, autore di un saggio fondamentale sulle fonti letterarie di Marx, è riuscito a suggerire un principio metodologico essenziale per capire Marx, e cioè che in Marx le fonti letterarie (in questo caso, il romanzo Robinson Crusoe di Defoe) hanno un’importanza eguale, se non superiore, alle fonti strettamente filosofiche (Hegel e Feuerbach) o strettamente economiche (Smith e Ricardo). Mi rendo conto che quanto dico suona come una lunare follia per i marxologi pii e politicamente corretti, come pure per gli antimarxisti rabbiosi. E tuttavia non dico una cosa del genere senza averci pensato sopra a lungo. La realtà umana. è unitaria, e soltanto il clero universitario può realmente pensare che la realtà umana possa essere scomposta in dipartimenti di letteratura, di filosofia, di economia e di storia. Marx pensava in modo unitario, e ha prodotto una concezione unitaria. Questa concezione unitaria è a mio avviso una concezione di comunismo comunitario, cui il comunismo classista è subordinato come momento tattico di lotta di classe anticapitalistica “performativa”, e cioè dotata di possibilità di successo. Non nego certamente che Marx sia stato “classista”. È del tutto solarmente evidente che è stato classista. Ma la classe operaia, salariata e proletaria in Marx può giocare un ruolo universalistico soltanto nella misura in cui adempie a un ruolo storico realmente universalistico. In caso contrario, è soltanto un nobile e rispettabile ag-

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gregato di forza-lavoro a diversi gradi di professionalità, del tutto interna alla riproduzione capitalistica. Il punto di partenza di tutta la teoria di Marx è la critica al robinsonismo individualistico di Hume e di Smith, il complemento economico all’individualismo morale di Kant criticato da Hegel. E tuttavia, bisogna notare che la corretta critica all’individualismo capitalistico borghese di Marx a un certo punto si inceppa e gira su se stessa, sfociando poi sciaguratamente in una forma di individualismo utopico anarcoide, da cui si è (con alcuni importanti passaggi intermedi) derivato quel profilo di “sinistra” che oggi si pone come ostacolo diretto a ogni riproposizione del comunismo comunitario. Nel prossimo capitolo, infatti (capitolo che presuppone ovviamente la comprensione dei precedenti), chiarirò che il nostro fine strategico (la critica radicale della società capitalistica postborghese e postproletaria di oggi) deve passare prima da un precedente fine tattico (la lotta alla compiuta degenerazione individualistico-anarcoide della cultura di sinistra). Bisogna però prendere le cose alla radice. Lo stesso Marx diceva che essere “radicali” significa essere capaci di prendere le cose alla radice. E la radice sta nella errata critica utopico-anarcoide di Marx alle tesi di fondo della Filosofia del Diritto di Hegel e del suo cosiddetto Spirito Oggettivo. Vediamo le cose da vicino, perché ne vale proprio la pena. 24. Karl Marx aveva appena ventitré anni (1841) quando scrive il suo primo testo importante, la sua tesi di laurea in filosofia sul materialismo antico di Democrito e di Epicuro. E ne aveva appena ventiquattro (1842) quando scrisse il suo secondo testo importante, una critica alla Filosofia del Diritto di Hegel. Non bisogna pensare che questi due testi fossero indirizzati a una critica al capitalismo, per il semplice fatto che in quegli anni in Germania non c’era neppure ancora un vero modo di produzione capitalistico con annessa una società capitalistica, e Marx non

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sapeva neppure che cosa fosse il capitalismo, di cui cominciò ad avere un vago sentore dopo un suo viaggio in Inghilterra nel 1845 su invito di Engels. Marx non sapeva neppure che cosa fosse il capitalismo, ed era lontanissimo dal concetto di modo di produzione. Il concetto di modo di produzione è un concetto anonimo, impersonale, strutturale, interamente disantropomorfizzato (come direbbe Lukács), e non coincide assolutamente con i costumi etico-politici borghesi, che fanno parte di una sequenza teorica, concettuale ed espressiva completamente diversa. Nella sua tesi da laurea su Democrito ed Epicuro (1841) Marx marca la sua differenza con Hegel, di fatto pensato freudianamente come un Padre invasivo da uccidere. Mentre Hegel preferiva apertamente Platone e Aristotele ai posteriori filosofi ellenistici (Epicuro e gli stoici, soprattutto), considerandoli (a mio avviso abbastanza correttamente) come figli di un ripiegamento all’ombra del potere, Marx deve ovviamente fare il contrario, in quanto Epicuro è un semplice pretesto per rompere con il codice borghese paterno. E così Marx confonde Epicuro con Lucrezio, cita in greco la frase “disprezzo tutti gli dèi”, che con Epicuro non c’entra assolutamente nulla, perché in Epicuro gli dèi sono assolutamente centrali (Walter Otto). Il succo della sua tesi sta nella centralità assoluta del concetto di deviazione degli atomi dalla verticale (clinamen, parekklisis), e a me pare evidente che la deviazione degli atomi dalla caduta in linea retta non è che una metafora del fatto che lo stesso Marx, che si autorappresentava metaforicamente come un atomo individuale in caduta libera, affermava che anziché cadere verticalmente nella borghesia da cui proveniva, cadeva invece da una altra parte, una parte ancora indeterminata che solo qualche anno dopo cominciò a chiamare “comunismo”, inteso come “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. La concezione di “realtà” di Marx era ancora peraltro del tutto hegeliana, con la differenza che per Hegel la realtà era un modello universalistico di società borghese ideale, mentre per Marx la realtà era un movimento comunista oggettivo che procede

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inesorabilmente per conto suo, che gli uomini lo vogliano oppure no (realtà che, oggi lo sappiamo bene, non esiste assolutamente). Nella sua critica alla Filosofia del Diritto di Hegel Marx non se la prende certamente con il capitalismo, di cui non sospetta neppure l’esistenza, ma con il codice etico borghese il quale, oggi lo sappiamo, non solo non c’entra nulla con il capitalismo, ma che oggi il capitalismo stesso, giunto nella sua terza attuale fase postborghese e postproletaria, tende a distruggere. Hegel aveva esposto il codice etico borghese nella parte fondamentale della Filosofia del Diritto chiamata Spirito Oggettivo. E perché “oggettivo”? Ma perché per Hegel, a differenza che per Kant e che per il successivo positivismo (di cui il marxismo è stata una appendice di “sinistra”), nella società umana l’oggettività non esiste, perché ogni oggettività è sempre e soltanto una oggettivazione (e la stessa alienazione non è che una oggettivazione per Hegel, e per Marx una oggettivazione alienata da disalienare, posizione sulla quale personalmente concordo pienamente, ed ecco perché mi considero sempre un allievo comunista di Marx). Per Hegel la verità non può mai essere definita in modo platonico e/o cristiano come una entità separata dalla determinazione spaziale e temporale, dal momento che per lui la verità è solo e sempre «corrispondenza del concetto con la sua oggettività» (cfr. Propedeutica Filosofica, III, 148). Se Hegel avesse voluto affermare che la famiglia, la società civile e lo stato hanno un valore assoluto, fuori dallo spazio e dal tempo, li avrebbe messi tutti e tre nello Spirito Assoluto, come avrebbe potuto tranquillamente fare, dal momento che la pagina bianca sopporta tutte le sciocchezze del mondo, e non reagisce con brontolii o con scossette elettriche anti-idioti. Ma, appunto, Hegel non era un idiota, e nello Spirito Assoluto mette giustamente soltanto l’arte, la religione e la filosofia, che hanno anch’esse ovviamente una storia, ma una storia la cui eternità consiste nel fatto che il presente non distrugge mai i passati artistici, religiosi e filosofici, ma li “supera conservando” (Aufhebung). Il fatto di collocare la famiglia, la società civile e lo stato nello Spirito Oggettivo, e non in quello Assoluto, significa che

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Hegel non li riteneva assolutamente assoluti, ma soltanto validi all’interno di una oggettivazione storica concreta presente, in base alla corrispondenza del concetto (che in Hegel vuol dire soggetto libero e autocosciente) con la sua oggettività, che essendo una oggettivazione storica e geografica determinata non è mai assoluta e non potrebbe mai esserlo. Chi pertanto crede che Hegel assolutizzi la famiglia, la società civile e lo stato del suo tempo merita di essere bocciato e rinviato al semestre successivo. Il suo errore è del tipo: l’acqua bolle a 180 gradi; la somma degli angoli di un triangolo è 360 gradi; Napoleone I è stato Zar della Russia; la capitale del Giappone è Bogotá; Gesù è responsabile per Torquemada; Marx è responsabile per Pol Pot, eccetera. Il fatto che questo errore marxiano su Hegel non venga corretto è invece un fatto sociale dovuto a una ragione ben precisa, e cioè che l’odio verso Hegel accomuna insieme i due (apparenti) opposti del circo intellettuale, i difensori dell’individualismo liberale ultracapitalistico e gli intellettuali anarcoidi di “sinistra”. Il giovane Marx della critica alla Filosofia del Diritto di Hegel attribuisce invece a Hegel quello che Hegel non si era mai sognato di pensare e di sostenere, appunto perché non era scemo. Marx gli attribuisce una vera e propria assolutizzazione, necessariamente atemporale e aspaziale, dei tre concetti di famiglia, di società civile e di stato, concetti che non hanno ovviamente nulla di assoluto, perché se lo avessero avuto, Hegel li avrebbe collocati nello Spirito Assoluto. Il colmo della idiozia l’ho riscontrato in un manuale italiano di storia della filosofia, in cui ho letto che Marx ha scritto in minuscolo ciò che Hegel aveva scritto in maiuscolo, scrivendo famiglia, società civile e stato anziché Famiglia, Società Civile e Stato. La divulgazione sarebbe interessante, se persino il selvaggio della Nuova Guinea non sapesse che in lingua tedesca tutti i sostantivi, nessuno escluso, vengono sempre scritti con una maiuscola. Marx sostiene che l’idealismo di Hegel, da cui vuole virtuosamente demarcarsi, si basa su di un processo di ipostasi, per cui l’ipostatizzazione consiste nel trasformare in un assoluto ideale quello

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che è sempre e soltanto un dato storico non solo contingente, ma anche determinato in modo classista e alienato da una contingenza storica. Ora, una simile critica potrebbe forse essere fatta a un divulgatore sciocco di Platone (ma non a Platone, che nel suo Parmenide critica egli stesso ogni concezione puramente monistica e fissistica dell’Idea stessa, attraverso lo sdoppiamento dialettico dell’Uno e della Diade infinita), oppure al signor Ratzinger, che sostiene che la famiglia nucleare monogamica rappresenta la famiglia eterna voluta da Dio, ma non certamente a Hegel, per le ragioni sopra indicate. Tutto questo mi è particolarmente chiaro, perché nell’allontanarmi dalla scuola di Galvano della Volpe (il cui esito collettiano dovrebbe essere di monito perfino per i positivisti più stupidi e tetragoni al ragionamento dialettico) ho potuto rendermi conto che una critica delle ipostasi (del tipo confondere la produzione capitalistica con una fantomatica Produzione in Generale, come fanno congiuntamente Smith, Ricardo, Popper, Keynes, Berlusconi e Veltroni) è certamente giusta e da fare, ma indirizzarla a Hegel è del tutto insensato, perché la vera guarigione dalla tendenza spontanea a ipostatizzare scorrettamente le determinazioni storiche interpretandole come assoluti non si trova nella goliardica e dilettantesca operetta del ventiquattrenne Marx, ma si trova nella stessa Scienza della Logica di Hegel. Hegel aveva già messo in guardia anticipatamente dallo scambiare il livello logico-ontologico della logica dell’Essere (la Produzione in generale) con quello della logica dell’Essenza (il potere del negativo che si sprigiona dalla determinazione classistico-antagonistica della produzione in generale dentro un modo di produzione), fino a quello della logica del Concetto (la presa di coscienza soggettiva degli esseri umani concreti). Tutto questo, però, deve portare a una comprensione del cuore del problema, che sintetizzerò nel prossimo paragrafo. 25. La critica goliardica e dilettantesca del ventiquattrenne Marx a Hegel, in cui scambia la sua logica di oggettivazione storica per una logica di assolutizzazione atemporale (come se la famiglia fos-

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se l’arte, la società civile fosse la religione e lo stato fosse la filosofia), deve essere separata dalla sua corretta e illuminante teoria dell’alienazione (in cui in effetti corregge positivamente Hegel migliorandolo – come rilevò poi molto bene Lukács), e anche dalla sua teoria dei modi di produzione, da depurare certamente da tutti gli aspetti deterministico-teleologici insostenibili. Se non è separata, la via è lastricata per una trasformazione dialettica del comunismo comunitario di Marx in individualismo anomico antiborghese, che esaminerò specificatamente nel prossimo capitolo di questo saggio. Prego il lettore di fare molta attenzione a questo passaggio. In caso contrario, l’intero spirito di questo saggio diventa del tutto incomprensibile. La marxologia mi è venuta a noia per la sua sterilità accademica, e non mi interessa “raddrizzare le gambe ai cani”, e cioè fuor di metafora correggere le interpretazioni dei marxisti dogmatici o degli antimarxisti furiosi. Per quanto mi riguarda, essi possono andare tranquillamente al diavolo. Mi interessa invece che si cominci a capire che se non si comprende che la radice potenziale della deriva utopica, anarcoide e individualistica si trova purtroppo già dentro Marx non se ne esce in nessun modo. E ora, analizziamo separatamente le concezioni di Hegel sulla famiglia, sulla società civile e sullo stato e le errate critiche anarcoidi e individualistiche di Marx su questi punti. Trascurerò per brevità le analisi di chi ha capito che il problema in Marx non è l’eccesso di collettivismo, ma al contrario l’eccesso opposto, l’eccesso di individualismo (Louis Dumont in particolare). La conoscenza di queste mirabili e illuminanti analisi deve essere presupposta. 26. La famiglia è una istituzione umana a un tempo storica e naturale, e quindi non soltanto storica e non soltanto naturale, ma appunto storico-naturale con il trattino. È bene impadronirsi subito di questo concetto per non cadere in riduzionismi fuorvianti o in idealizzazioni astratte e astoriche di modelli di convivenza inequivocabilmente storici e solo storici.

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Gli animali si riproducono mediante accoppiamenti che non hanno nulla a che fare con le istituzioni umane. Gli animalisti hanno perfettamente ragione a lottare per i cosiddetti “diritti degli animali”, ma sbagliano a pensare che l’etologia animale passi direttamente nell’etologia umana. Gli animali possono tranquillamente essere protetti nel loro habitat, curati e difesi dai maltrattamenti senza bisogno di inventarsi assurde teorie sull’unità antropologica di animali ed essere umani, teorie in cui il positivismo ateo più estremo, le sciocchezze sulla metempsicosi e il cretinismo naturalistico si incontrano in un grottesco balletto irrazionalistico. In poche parole, gli animali non danno luogo a famiglie, società civili e stati. Gli esseri umani sì, e questo fatto è uno dei criteri (non il solo) di demarcazione fra il mondo animale e il mondo umano. Gli esseri umani danno luogo a famiglie, gli animali no. Nello stesso tempo, la tendenza dell’individualismo anomico contemporaneo di “sinistra” è certamente l’abolizione della famiglia in quanto tale, sostituita da accoppiamenti e/o da libere convivenze temporanee libere da qualsiasi impegni e legami (il cui modello è quello della coppia individualistico-anarcoide Jean-Paul Sartre-Simone de Beauvoir, considerata sempre il modello ideale di rapporto uomodonna, con domestica annessa, da parte di tutti gli individualisti anarcoidi di sinistra autonominatisi “marxisti”). La famiglia, appunto, non è soltanto naturale o soltanto storica, ma è a un tempo storica e naturale. È naturale (come aveva peraltro intuito correttamente Aristotele duemila anni prima di Hegel) perché trova le sue radici nella naturale complementarità dei due sessi, entrambi necessari per la procreazione della vita umana e per la successiva solidarietà psicologica e affettiva, non sostituibile da nessuna struttura assistenziale. E tuttavia la famiglia è anche una istituzione storica, che ha preso forme monogamiche, poligamiche, poliandriche, allargate, nucleari, egualitarie, disegualitarie, maschilistiche, femministiche, eccetera. La storia delle istituzioni familiari è in proposito indiscutibile. Anche se non possiamo essere sicuri di come era la famiglia nella nostra preistoria, in assenza di documenti scritti e di sufficiente materiale archeologico, l’etnologia contemporanea (Lévi-Strauss, eccetera) ci ha confermato in

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modo inequivocabile che non esiste un solo modello di famiglia, ma ne sono esistiti e ne esistono molti. Il modo in cui Hegel tratta la famiglia, primo momento dello Spirito Oggettivo, è abbastanza simile al modo in cui Aristotele tratta Io stesso problema. Hegel non dice mai che la famiglia di cui parla è assoluta. Egli ritiene soltanto che il modello di famiglia di cui parla corrisponde al «proprio tempo appreso nel pensiero». E siccome il tempo appreso nel pensiero di Hegel era un tempo non solo borghese, ma borghese-idealizzato (si dimentica spesso che il “realista” Hegel era anche e soprattutto un “idealista”) la famiglia di Hegel rappresenta una idealizzazione del modello borghese di famiglia, che non si dimentichi mai non era soltanto “storico”, ma era storico-naturale, in quanto unità storica e sociale di naturalità e di storicità. In una lettera scritta a un amico per annunciargli il suo prossimo matrimonio, Hegel scrive che sposare una donna che si ama e trovare un lavoro in cui ci si realizza sono i due scopi fondamentali della vita, e con questo si è già fatto tutto. Si tratta di un ideale “borghese”? Certamente si tratta di un ideale borghese, ma nello stesso tempo di un ideale anche “naturale”, se è vero che è un ideale perseguito nel mondo da miliardi di persone che non sanno neppure che cosa sia la borghesia. Soltanto la sgradevole muta scatenata degli intellettuali anarcoidi di “sinistra” può colpevolizzare con le sue urla stridule chi persegue un simile naturale obbiettivo bollandolo come borghese o peggio ancora come piccolo-borghese. Nel contesto storico preciso in cui Hegel sviluppò la sua concezione di famiglia (1820 circa), il suo modello di famiglia come scelta elettiva e non eterodiretta di entrambi i coniugi, amore coniugale, rispetto reciproco, educazione comune dei figli, eccetera, si opponeva di fatto a due possibili alternative. Da un lato, la concezione feudale-signorile-tradizionale di famiglia, basata su matrimoni combinati gestiti dall’autorità paterna come mezzo per alleanze politiche ed economiche, con aperto disprezzo per le scelte sentimentali dei giovani. Dall’altro, la concezione romantica di origi-

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ne russoviana (cfr. La Nuova Eloisa) per cui il matrimonio è una trappola dei sentimenti, cui preferire la libera elezione del convivente al di là di ogni vincolo istituzionale. Questo era il quadro della concezione di Hegel del matrimonio. Sostenere che essa fosse potenzialmente maschilista o addirittura omofobica mi sembra non solo una esagerazione, ma anche un fuoco di sbarramento di tipo anarcoide-individualistico. Che cosa pensava Marx? Marx non si è mai occupato in modo sistematico della famiglia, ma fa trapelare spesso che il comunismo avrebbe comportato l’abolizione della famiglia stessa. Un sogno anomico e individualistico di anarcoidi cretini incapaci di capire le aspirazioni di miliardi di persone comuni. Nei fatti, Marx mise su una famiglia borghese classica, fondata sulla sostanziale eguaglianza dei coniugi, sull’amore coniugale e sulla comune educazione dei figli. Una famiglia, ovviamente, né borghese né proletaria, ma del tutto normale. È vero che Marx cedette all’adulterio, ed ebbe un figlio illegittimo dalla donna di servizio Elena Demuth. Ma chi è senza peccato scagli la prima pietra. Nei fatti, Marx non seguì le ignobili sciocchezze anarcoidi che si potevano ricavare dal suo utopismo anomico antiborghese, ma seguì nella sua vita concreta la linea più umana e più razionale. 27. So perfettamente che le considerazioni che ho fatto nel paragrafo precedente possono essere considerate maschiliste e omofobiche. Uno dei codicilli del politicamente corretto si basa infatti sulla accettazione obbligatoria del femminismo e della omofilia come dato obbligatorio per non essere esclusi dal genere umano (in questo caso identificato con il circo mediatico gestito da intellettuali anarcoidi). Per questa ragione è bene fare alcune osservazioni ulteriori, per sfatare eventuali sgradevoli equivoci. In primo luogo, non penso assolutamente che la sola “sessualità” normale non peccaminosa sia quella fra uomo e donna e marito e moglie, e tutte le altre forme di sessualità sono anormali (sessualità di tipo omosessuale maschile e femminile) oppure peccaminose e

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“disordinate” (sessualità fra giovani non sposati o sessualità adulterine). Questo è esattamente quello che pensa la maggioranza dei teologi monoteisti, cristiani, ebrei e musulmani, ma non è assolutamente quello che penso io. Per me ogni forma di sessualità fra cosiddetti adulti consenzienti (escludo quindi lo stupro, la violenza e la pedofilia) è da considerarsi normale, nel doppio senso di naturale e di socialmente da consentire senza discriminazioni. Mi spiego meglio. La mia posizione è ancora una volta, ispirata al modo di porre le questioni di Hegel. Ponendosi il problema della felicità, Hegel sostiene che ogni particolarità ha il diritto alla felicità. Traducendo questa formula in linguaggio ordinario, ne consegue che se Giuseppe trova la sua felicità in Luigi e non in Luisa, oppure Giovanna trova la sua felicità in Claudia anziché in Claudio, tutto questo non è affatto anormale e contro natura, ma è del tutto normale e secondo natura, non è affatto frutto di disordine morale, di insufficienza genetica o di mancato superamento di un complesso di Edipo non risolto (secondo la triplice fastidiosa interpretazione della teologia, della biologia e della psicoanalisi freudiana), ma è un modo assolutamente legittimo e socialmente garantito del fatto che ogni particolarità ha diritto a perseguire la propria felicità senza essere infastidita da teologi, biologi e psicoanalisti. Lo ripeto, a scanso di equivoci: ogni particolarità umana ha diritto a perseguire la propria felicità, e la legislazione deve favorirla anziché ostacolarla o punirla; Riccardo può trovare la propria felicità in Manuele e non in Manuela; Agata può trovare la propria felicità in Marcella anziché in Marcello; su questa base, entrambi sono normali e non anormali; entrambi si comportano secondo natura e non contro natura, perché la natura vuole che ogni particolarità persegua la propria felicità, nella forma del mutuo consenso. Nello stesso tempo, la sessualità di coppia di differenti sessi (mi rifiuto di chiamarla “eterosessuale”, accettando il ricatto odioso del politicamente corretto, che vorrebbe impormi le parolette demenziali “omo” ed “etero”) ha anch’essa una particolarità, quella di poter procreare figli, particolarità invece non praticabile nelle coppie omosessuali. Se la sessualità fra uomini e donne ha un carattere universalistico maggiore della precedente,

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questo non sta affatto in una maggiore presunta naturalità biologica o in una minore peccaminosità religiosa, ma semplicemente nel fatto che permette di riprodurre la specie. Ovviamente, bisogna pensare che la riproduzione della specie sia un valore universale, cosa che l’individualismo anomico anarcoide non pensa assolutamente, avendo come suo modello ideale la coppia sterile che non si riproduce ma sceglie invece la via della promiscuità (ancora una volta, il modello insuperabile per tutti gli anarcoidi, la coppia Sartre-de Beauvoir). È questa omofobia? A mio avviso no, ma ci troviamo oggi in una situazione culturale anomala, per cui l’omofilia non chiede soltanto di essere rispettata, accettata e socialmente istituzionalizzata da una apposita legislazione (cosa su cui concordo interamente), ma pretende addirittura di imporre una terminologia pubblica (la gente è divisa in omo e in etero), e di imporre l’inutile simulazione di “matrimoni”, che matrimoni non possono essere, in quanto escludono per principio la riproduzione della specie umana. Si tratta soltanto di patologie anarcoidi e individualistiche all’eccesso, del tutto inutili per salvaguardare la dignità umana e civile degli omosessuali stessi. Non è un caso che la feccia politica di “sinistra”, non potendo fare nulla per la giustizia sociale a causa della sua totale perdita di sovranità sull’economia, cerchi di rifarsi una verginità (è proprio il caso di dirlo!) con matrimoni omosessuali e altre inutili caricature. Il passaggio da Emiliano Zapata a Luis Zapatero è salutato dal coro coglionesco degli intellettuali anarcoidi di “sinistra” come un progresso civile dell’umanità. Un’ultima osservazione, certamente sgradevole. Il movimento politico delle donne per l’emancipazione sociale degli ultimi due secoli è stato incondizionatamente positivo, perché ha trasformato i rapporti fra sessi sia nella famiglia sia nell’accesso alle professioni. Il modello capitalistico di questo benefico avanzamento del sesso femminile è la banchiera speculatrice e la pilota bombardatrice, e infatti come Marx ha scritto a suo tempo la Questione Ebraica qualcuno dovrebbe scrivere la Questione Femminile oggi, sulla base delle ghigne ridenti delle donne-soldato in Iraq e Afghani-

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stan, il cui modello è la troia assassina fotografata ad Abu Graib mentre tiene al guinzaglio un prigioniero iracheno incappucciato. Senza, una totale eguaglianza dei sessi reale non può ovviamente esistere nessun comunismo comunitario, ma soltanto un ipocrita patriarcalismo parassitario. Altro discorso farei invece per il cosiddetto “femminismo”, tabù di ogni politicamente corretto. So bene che il femminismo è diviso in molte scuole diverse, che non conosco. Nel­l’essenziale, però, mi rifiuto di concedere spiritualmente al femminismo dell’ultimo trentennio il minimo carattere progressistico, comunistico e comunitario. Lo considero anzi al contrario come una variante particolarmente ridicola del narcisismo individualistico di gruppo. Il discorso sarebbe lungo, ma la mia opinione si può sintetizzare così: il femminismo sta alla questione femminile come il sionismo sta alla questione ebraica. Il discorso sarebbe lungo, ma lo chiudo qui. Spero proprio di avere violato l’interiorizzazione del politicamente corretto. Riportare il cosiddetto “movimento delle donne” dal femminismo alla questione femminile pura, e semplice (intesa come rispetto della specificità femminile all’interno della eguaglianza reale fra i sessi nella famiglia e nella società) è una precondizione indispensabile per qualsiasi strategia di legittimazione del comunismo comunitario. Ne siamo lontani, lo so perfettamente, ma senza cominciare a muovere le acque non ci si sposterà mai. 28. All’interno della sezione dello Spirito Oggettivo della Filosofia del Diritto Hegel espone la sua teoria della società. Lo studioso olandese Adriaan Peperzak, uno dei maggiori studiosi di Hegel del Novecento, afferma che nel linguaggio di oggi la teoria politica complessiva di Hegel potrebbe essere definita di “centro-sinistra”. Di fronte agli sciocchi e ai disinformati che considerano Hegel un pensatore della Restaurazione, un conservatore e un reazionario Peperzak ha ovviamente ragione da vendere, ma mi permetterò egualmente di non essere d’accordo.

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Nonostante il fatto che la dicotomia Destra/Sinistra formalmente risalga al 1791 in Francia, di fatto questa dicotomia comincia a essere usata solo alla fine dell’Ottocento con l’istituzionalizzazione parlamentaristica della rappresentanza politica del movimento operaio organizzato. Dopo il 1794 e la decapitazione di Robespierre, e fino almeno al 1871 e alla distruzione manu militari della Comune di Parigi la dicotomia non è quasi mai usata in Europa. E questo non è un caso, perché la dicotomia Destra/Sinistra in Europa presuppone almeno due cose. Primo, che si sia formato e stabilizzato un vero e proprio modo di produzione capitalistico, cosa che per esempio al tempo di Hegel in Germania (Hegel morì nel 1831) non si era ancora né formato né stabilizzato. Secondo, che la dicotomia Destra/Sinistra, assuma un significato di contrapposizione “normalizzata” all’interno di un quadro di rappresentanza parlamentare costituzionalizzata. In questo senso – e deve essere ben chiaro – il pensiero di Marx non è affatto di “sinistra”, e non deriva neppure dalla “sinistra” del proprio tempo. Il posteriore “marxismo” istituzionalizzato nel ventennio 1875-1895 è invece di “sinistra” nel senso politologico del termine, e rappresenta l’ideologia identitaria di appartenenza simbolica della “sinistra della sinistra”. Ai suoi tempi Marx si era aperto invece uno spazio teorico concettuale con una doppia demarcazione, e cioè una demarcazione dalla borghesia capitalistica e una demarcazione dalla “sinistra” del tempo (tradeunionismo inglese, lassallismo tedesco, proudhonismo francese, anarchismo russo e spagnolo, eccetera). So che questa comprensione, peraltro dimostrabile sul piano storiografico, è del tutto irraggiungibile per chi accetta uno dei grandi dogmi teologici del Politicamente Corretto esposti in un capitolo precedente, e tuttavia la verità in queste cose non può essere messa ai voti a seconda delle maggioranze della triade oligarchica dominante – ceto politico-circo mediatico – clero universitario. Torniamo al concetto di società civile (bürgerliche Gesellschaft) in Hegel, da non confondere assolutamente pena la condanna a morte con preventive torture cinesi dalla coppia società civile –

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opinione pubblica (civil society e public opinion) del liberalismo individualistico inglese di origine lockiana. La teoria hegeliana della società civile non rappresenta e non interpreta una società capitalistica, che cominciò a decollare veramente nello spazio tedesco solo trenta anni dopo la morte di Hegel, e quindi non può essere paragonata e comparata con la società capitalistica di Karl Marx e di Antonio Gramsci. La società civile di Hegel parla di un ideale borghese civile (Bürger), e non di un borghese capitalista (Bourgeois). La distinzione linguistica è importante, e per esempio la Questione Ebraica di Marx non potrebbe essere intesa senza questa distinzione. La società civile di Hegel presuppone ovviamente che l’individuo abbia già ricevuto un’educazione etica e comunitaria all’interno della famiglia, e in questo senso è correlata indirettamente con la figura freudiana del Super Io paterno. Freud, infatti, pur vivendo quasi un secolo dopo Hegel, si muove ancora nel mondo dei valori sociali di una borghesia non ancora sussunta dentro l’assolutizzazione mercificata della produzione capitalistica, produzione che è ostile non solo alla riproduzione proletaria, ma anche alla riproduzione borghese stessa. Una famiglia espropriata dai vari Grande Fratello e Isola dei Famosi non è più in alcun modo una famiglia “borghese” nel senso di Hegel e di Freud, ma è una famiglia espropriata di ogni ruolo educativo, passato al mercato pubblicitario e al lavaggio del cervello di bambini educati a essere solo precoci consumatori, in cui il Padre è Impotente e la Madre è Isterica. La ragione per cui la società civile oggi è indebolita non è certo dovuta al cosiddetto “conflitto di interessi” (per quanto manipoli, Silvio Berlusconi manipolerà sempre mille volte di meno del pescecane sionista Murdoch), ma è dovuto al fatto che il cittadinosuddito arriva alla maggiore età (l’entrata hegeliana nella società civile) sulla base di un’educazione familiare ridotta al minimo, fra padri assenti e madri isterizzate da corsi di danza, flauto, musica, karate e inglese elementare per futuri deficienti. Al tempo di Hegel si arrivava alla società civile sulla base imprescindibile di una educazione familiare borghese ideale, in cui ide-

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almente il padre educava, il cervello e la madre educava il cuore. Certo, era un modello patriarcale di educazione, ma non un modello maschilista, come strepita oggi lo stonato coro femminista. In ogni caso, meglio questo modello del modello pubblicitario televisivo. Kant e Hegel erano pur sempre meglio di Benetton e del Mulino Bianco. La società civile è distinta da Hegel in quattro momenti fondamentali, e cioè il sistema dei bisogni, l’amministrazione della giustizia, la polizia e la corporazione. Non c’è ovviamente qui lo spazio per trainare questi quattro elementi in modo sistematico e completo, e quindi il lettore dovrà accontentarsi dei soli aspetti che interessano il rapporto Hegel-Marx, e soprattutto la teoria del comunismo comunitario. Per questa ragione tratterò prima il sistema dei bisogni, poi la polizia e infine la corporazione, e alla fine forse il lettore si sarà impadronito concettualmente del cuore del problema. 29. Il sistema dei bisogni di Hegel è il nome con cui Hegel definisce il campo e il metodo di quello che oggi chiamiamo “economia politica”, ed è perciò lo stesso campo di Smith e di Ricardo. A differenza però di Smith e di Ricardo Hegel non accetta l’autofondazione dell’economia politica su se stessa, che considera un “errore dell’intelletto”, e cioè lo stesso errore di Kant, quello di fondare la filosofia (Kant) e l’economia (Smith) a partire da un individuo astratto e destoricizzato. Tutto ciò richiede come minimo un rimando a tre autorevoli commentatori. In primo luogo, a Polanyi, che considera l’economia come qualcosa che di regola, è sempre e solo incorporato (embedded) all’interno della struttura politica della società. Ebbene, la teoria hegeliana del sistema dei bisogni, o meglio dell’economia come sapere che ha come oggetto il sistema dei bisogni complessivi della società, corrisponde esattamente al concetto di economia di Polanyi, e si oppone frontalmente al concetto di autofondazione non politica dell’economia su se stessa derivato da Hume (scetticismo verso le fondazioni religiose, giusnaturalistiche e contrattualistiche) e da Smith (mano

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invisibile del mercato, armonie economiche, eccetera) secondo luogo alla tesi di Pierre Naville, grande studioso marxista francese del Novecento (a mio avviso, uno dei più grandi), che sostenne sempre, inascoltato e ignorato dal coro gallinesco degli idioti, che il concetto sostantivo di economia in Marx non deriva dal mercato autoregolato di Smith, ma dal sistema dei bisogni di Hegel. In terzo luogo, per finire, allo stesso Marx, che definisce il sistema economico comunista, che si rifiuta peraltro di descrivere (in base al noto principio culinario-enologico per cui non si possono scrivere ricette per le osterie del futuro), in base al solo e unico parametro dei bisogni, e cioè del bisogno hegeliano. Il comunismo, quindi, può essere definito come un sistema comunista dei bisogni umani, concepiti come bisogni storici (alla Hegel) e non solo puramente naturali (alla Rousseau), che si possono soddisfare grazie alla crescita delle forze produttive sociali, al di là della produzione capitalistica concepita (erroneamente) da Marx come destinata alla stagnazione da abbattere in forza di una concezione “produttivistica” di proletariato rivoluzionario intermodale. Fatto questo triplice riferimento (Polanyi, Naville, Marx) è bene capire bene in che senso lo spazio economico non è altro che l’organizzazione del sistema dei bisogni. Certo, Hegel non è comunista, non si sogna neppure di esserlo, e non avrebbe comunque potuto esserlo. Era “borghese”, e pensava le cose in modo “borghese”, ma in modo borghese-comunitario, e non borghese-individualistico alla Smith. Per Hegel l’economia ha come oggetto e compito il bisogno umano, o meglio l’appagamento dei bisogni umani. Per questo l’economia è un sistema, e deve essere studiata come “sistema”. L’economia coincide quindi con l’etica, e coincidendo con l’etica non può che avere un riferimento comunitario, e rifiutare qualsiasi altro fondamento individualistico (la morale del dovere in Kant, la simpatia reciproca in Smith, l’utilità in Hume, eccetera). In proposito Hegel loda la “nuova scienza” inglese dell’economia politica, ma aggiunge subito che si tratta di una scienza dell’intelletto (Verstand) e non della ragione (Vernunft). Sebbene Marx

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non usi il suo lessico, non c’è dubbio che la critica dell’economia politica in Marx è pensata da Marx stesso come la critica dell’intelletto individualistico robinsoniano in nome della ragione della totalità sociale dialetticamente intesa e concepita. Se Marx parte concettualmente dalla doppia critica alla fondazione naturalistica e robinsoniano-individualistica della proprietà privata e al primato egoistico del valore di scambio solvibile sul valore d’uso necessario alla riproduzione umana (due punti di partenza implicitamente non solo comunitari, ma ultracomunitari), Hegel parte dalla doppia critica al potenziale comunismo naturalistico russoviano (potenziale in Rousseau, ma già “attuale” in Babeuf) e alla pretesa inglese di fondare la società sui meccanismi auto­ regolativi del mercato capitalistico “senza stato”. Cito: Si connette con le concezioni dello stato di natura, di semplicità dei costumi dei popoli primitivi, di semplicità dei costumi dei popoli incivili, da un lato, e dall’altro lato, con l’opinione che considera i bisogni, il loro appagamento, i godimenti e la comodità della vita individuale come fini assoluti-il fatto che la civiltà è considerata soltanto come un che di soltanto esteriore pertinente alla corruzione, da un lato, e semplice mezzo per quei fini, dall’altro. L’una come l’altra veduta dimostrano l’ignoranza della natura dello spirito [Geist] del fine della ragione [Vernunft] (Filosofia del Diritto, § 187, nota).

Odio la citatologia, ultimo rifugio per pigri privi di pensiero autonomo, ma in questo caso era necessaria. La natura dello spirito (Geist) e il fine della ragione (Vernunft) sono i termini hegeliani per indicare l’accesso alla autocoscienza dialettica, della comunità umana intesa come concetto (Begriff) e quindi come soggettività razionale. Per potere accedervi Hegel fa notare che è sbagliato sia imboccare il sentiero del comunismo naturalistico (Babeuf) sia il sentiero dell’assolutizzazione privatistica del valore di scambio identificato come il segnalatore del successo e della felicita (Locke, Hume, Smith). Personalmente, stimo mille volte di più l’eroico Babeuf che il commerciante di schiavi Locke. Ma il problema non è ciò che penso io

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nella mia particolarità empirica. Il problema sta nel fatto che nel sistema dei bisogni Hegel definisce l’individuo come essere che ha dei bisogni, e che la società civile è vista come la mediazione comunitaria che “filtra” la legittimità sociale di questi bisogni stessi. Su questo punto – lo si è detto – Marx è un hegeliano addirittura ortodosso, perché la sua libera individualità comunista si definisce in base al parametro della ricchezza dei bisogni. Mi permetto di ripetere: ricchezza dei bisogni finiti, non illimitatezza arbitraria dei desideri infiniti. Ma la società civile è appunto “civile” perché filtra con criteri sociali e comunitari il bisogno dalla sua natura spontanea e immediata per elevarlo alla sua natura sociale, e cioè spirituale (geistig). Da un punto di vista meramente immediato, il bisogno del pedofilo di disporre di fotografie pornografiche di bambini non potrebbe essere distinto dal bisogno dell’ammalato di ricevere l’insulina o la penicillina. Da un punto di vista meramente individualistico il bisogno dell’attrice strapagata di farsi costruire una villa con quattro piscine non può essere distinto dal bisogno di cento senza casa di poter disporre di un riparo per la notte. È evidente che la soggettività individuale del bisogno deve essere mediata dalla razionalità sociale. Ancora una volta, l’odio verso Hegel è particolarmente forte in coloro che non riconoscono nessuna istanza comunitaria di filtraggio dei bisogni al di fuori del mercato assolutizzato e divinizzato. Femminismo, anarchismo e liberalismo capitalistico, fondandosi tutti e tre sull’arbitrio della soggettività incondizionata, odiano Hegel (a volte conoscendolo, ma più spesso per semplice “sentito dire”) perché Hegel è il pensatore della mediazione razionale comunitaria del rapporto fra l’arbitrio soggettivistico dell’individuo incondizionato (cui il capitalismo fornisce finalmente l’astrazione del potere sull’accumulazione del denaro che permette l’accesso ai valori di scambio) e la disponibilità sociale e comunitaria a una divisione “razionale” della ricchezza sociale. In sintesi: il comunismo comunitario, di cui non esiste ancora una sistematizzazione soddisfacente, può soltanto essere pensato oggi attraverso una critica strategica all’individualismo capitalistico e una preliminare critica tattica all’individualismo anarcoide di “si-

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nistra”; questa critica deve metabolizzare la critica all’esperienza storica fallita del comunismo storico novecentesco realmente esistito, evitando ogni demonizzazione rituale e ogni concessione a “leggende nere” sul Novecento come secolo mostruoso degli orrori ideologici; una economia politica del comunismo comunitario non esiste ancora, e tuttavia se esisterà in futuro non potrà che essere uno sviluppo comunista dell’impostazione del sistema dei bisogni di Hegel, in quanto la teoria del sistema dei bisogni di Hegel si basa sulla fondazione etica dell’economia, e sul rifiuto di separare metodologicamente l’economia dall’etica, sia nella variante della morale del dovere di Kant sia nella separazione di economia e di etica di Benedetto Croce, che su questo punto è meno “hegeliano” di un cavaliere mongolo di Gengis Khan. 30. Passiamo ora al concetto di polizia in Hegel. A ogni buon conto chiariamo subito che con “polizia” Hegel non intende soltanto l’esistenza di corpi repressivi armati per la salvaguardia dell’ordine pubblico (tipo in Italia i carabinieri, la guardia di finanza, la polizia penitenziaria, la polizia ferroviaria, eccetera), ma intende l’equivalente di ciò che oggi si chiama lo “stato del benessere” (welfare state), ovviamente in un contesto che non è quello della società capitalistica, ma quello di una società artigiana, mercantile, agraria, di proprietari terrieri e piccoli proprietari e produttori indipendenti. Questo tipo di società, non ancora polarizzate nella dicotomia Borghesi/Proletari, sviluppano un concetto di economia incorporata all’interno delle strutture politiche, da Aristotele (primato dell’economia sulla crematistica) a Hegel (economia come sistema dei bisogni storicamente sviluppati in opposizione all’utopismo naturalistico russoviano-babuvista e al suo contrario complementare, il privatismo robinsoniano dell’economia politica inglese). Vorrei insistere su di un fatto apparentemente solo filosofico, ma in realtà segretamente filosofico-sociale. Sulla base di una società che non è ancora interamente schiavistica (Aristotele) e che non è ancora interamente capitalistica (Hegel), e in cui sono ancora

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presenti componenti sociali di piccoli proprietari e produttori indipendenti, lo spazio politico (polis in Aristotele, Staat in Hegel) non consente una vera separazione fra etica, economia e politica, rifiuta l’individualismo morale (Kant), esistenziale (Schopenhauer) e religioso (Kierkegaard), produce un pensiero filosofico “basato sull’unità ontologica fra le categorie del pensiero e le categorie dell’essere (sempre Aristotele e Hegel), e infine ritiene che la società non possa autofondarsi su se stessa in base ad automatismi armonici o meno (Hume, Smith) ma solo sulla base dell’intreccio (l’embeddedness di Polanyi) di economia e di politica. Qui sta il nesso fra il sistema dei bisogni e la polizia, e vediamo esattamente dove. Il nesso sta nel concetto hegeliano di plebe (Pöbel). Così come Marx parte dal fatto che il sistema capitalistico, al di là delle sue proclamazioni universalistiche, umanistiche e progressistiche, non può fare a meno di produrre continuamente il proletariato, nello stesso modo Hegel capisce perfettamente che il sistema dei bisogni, lasciato a se stesso, produce continuamente una massa di esclusi, che Hegel chiama “plebe” (Pöbel). Questo termine in Hegel non ha alcun carattere moralistico. È del tutto evidente che Hegel non può pensare alla plebe in termini di proletariato, e cioè di classe rivoluzionaria universale. Per dirla in modo ingenuo, se Hegel lo avesse pensato non ci sarebbe stato bisogno della venuta di Marx. Alcune citazioni in proposito (ahimè) possono chiarire ulteriormente quello che vogliamo dire, e cioè che l’esistenza della plebe (Pöbel) è uno scandalo della società, cui la società deve ovviare in forma regolare e organizzata. Altro che centro-sinistra, caro Peperzak! Scrive Hegel (Filosofia del Diritto, §§ 199-207): Il decadere di una gran massa al di sotto della misura di un certo modo di sussistenza, il quale si regola da se stesso, come necessario per un componente della società e quindi il far fronte alla perdita del sentimento del diritto, della giuridicità e della dignità, che si acquisiscono mediante un’attività e mediante un lavoro particolare, produce la formazione della plebe [Pöbel], il che,

360 al tempo stesso, porta con sé in cambio la più grande facilità di concentrare in poche mani ricchezze sproporzionate.

E più avanti, nel corso dello stesso ragionamento: «Non è mai la povertà in se stessa che fa appartenere qualcuno alla plebe. Quest’ultima si determina e si definisce come tale solo con la mentalità che si accompagna alla povertà». E infine, sempre a proposito della cosiddetta “polizia”, Hegel scrive in modo inequivocabile: Il benessere [Wohl] è nel sistema dei bisogni una determinazione essenziale. L’universale, che inizialmente esiste solo nel diritto, deve dunque estendersi a tutto il campo della particolarità nella misura in cui io sono completamente incorporato nella particolarità, ho diritto di esigere che in tutta questa connessione il mio benessere particolare sia anche favorito.

Non si tratta certamente di far diventare Hegel un precursore del comunismo comunitario. Si tratta però di aprire una parentesi di riflessione su queste citazioni, perché in esse c’è già un’apertura concettuale per il concetto (Begriff) di comunismo comunitario. Detto infatti in modo semplice, conciso ed elementare, la differenza fra il comunismo di Marx e il comunismo comunitario che stiamo faticosamente disegnando, per il momento soltanto in modo teorico, sta nel fatto che il comunismo di Marx esclude la famiglia, la società civile e lo stato, mentre il mio (scrivo mio perché in queste cose è inutile fingere illusorie condivisioni di gruppo quasi sempre inesistenti, ed è bene firmare quanto si scrive) è un comunismo comunitario che include esplicitamente la famiglia, la società civile e soprattutto lo stato. 31. Le osservazioni da fare, ovviamente riempirebbero un libro intero. Ma siccome qui non si fa dell’irrilevante e accademica filologia hegeliana, ma si cerca di concettualizzare il tessuto categoriale del comunismo comunitario, mi limiterò ad alcuni punti. In primo luogo, Hegel è lontanissimo dal fetido e sporco individualismo dell’economia politica liberale, per cui ogni individuo è responsabile per la sua povertà. Riprendendo la lettera e lo spi-

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rito dello Stato Commerciale Chiuso di Fichte, Hegel chiarisce che la disoccupazione non è di regola (salvo eccezioni minoritarie) colpa del disoccupato, ma la disoccupazione è in genere causata dal sistema dei bisogni stesso, che provoca a un suo estremo la disoccupazione e la miseria causata da salari troppo bassi (il decadere di una gran massa al di sotto di una misura di un certo modo di sussistenza) e all’altro suo estremo la più vergognosa illimitata ricchezza (la concentrazione in poche mani di ricchezze sproporzionate). E qui il lettore che ha assimilato quanto ho detto in un capitolo precedente sulla nascita della filosofia nell’antica Grecia potrà verificare facilmente che Hegel disegna esattamente lo stesso scenario, che compendierò rapidamente così: la filosofia politica, da Eraclito e Parmenide fino a Hegel e Marx, ha come principale oggetto di riflessione la sproporzione che si crea nella società fra un polo di disoccupazione e miseria (oppure nel mondo antico di schiavitù per debiti) e un polo di ricchezze sproporzionate, polarità che distrugge la società. Solo gli sciocchi possono seriamente pensare che la filosofia politica abbia invece come oggetto privilegiato la legittimazione del potere, le forme di stato, le forme di governo, eccetera. Legittimazione, governo, stato, eccetera, dipendono tutti dal problema precedente, la divaricazione delle ricchezze fra miseria, disoccupazione e povertà, da un lato, e svergognata illimitatezza della proprietà e del denaro, dall’altro. In secondo luogo, Hegel concede al suddito-cittadino il diritto di esigere (il termine è da sottolineare) che anche il suo particolare benessere (Wohl) sia assicurato dalla società. Già Tommaso d’Aquino aveva sostenuto a suo tempo che l’affamato ha diritto a rubare il pane che può mantenerlo in vita. Soltanto la schifosa e abbietta teoria del capitalismo liberale (spero che il lettore mi perdoni l’eccessiva moderazione dei termini impiegati) può sostenere non solo nella pratica ma anche nella teoria che il diritto alla proprietà privata è superiore al diritto alla sopravvivenza fisica, ed è al massimo disposta a concedere che in casi simili sarebbe necessaria una sorta di elemosina cui invitare i più ricchi con argomenti religiosi e/o morali. Il termine “benessere” (Wohl) è semantica-

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mente collegato con il termine inglese Welfare, che vuole infatti dire “benessere”. La sopravvivenza dell’individuo disoccupato e affamato per Hegel non è più una sorta di “diritto naturale alla vita”, ma è un vero e proprio diritto sociale e civile radicato nella società civile stessa. E così la società civile hegeliana si configura come qualcosa che ha almeno due funzioni: cercare di assicurare il lavoro ai disoccupati, perché solo attraverso il lavoro si può garantire al singolo la dignità, e assistere in ogni caso colui che è rischio-sopravvivenza. 32. Dopo aver discusso di sistema dei bisogni e di polizia, passiamo al terzo punto della teoria politica di Hegel esposta nella Filosofia del Diritto e cioè la corporazione. A mio avviso, questo punto è ancora più decisivo e importante dei due precedenti. Per capire il significato del termine corporazione in Hegel bisogna prima di tutto sapere che la società di cui parla Hegel era già “borghese”, nel senso di post-feudale e di post-­signorile (con residui signorili come gli Junker prussiani) ma non era ancora capitalistica. Il termine non ha dunque nessun rapporto né con la teoria del corporativismo del fascismo italiano (Benito Mussolini, Giovanni Gentile, Ugo Spirito, eccetera), né con le grandi corporazioni capitalistiche USA (corporate capitalism). Il termine corporazione in Hegel completa il trittico costituito dal sistema dei bisogni, dalla polizia e appunto dalla corporazione. La corporazione è infatti la corporazione professionale, quella che organizza i mestieri e garantisce quella che oggi viene chiamata la “professionalità” del lavoratore. Ma dal momento che in Hegel la dignità umana vera e propria si acquisisce mediante il lavoro, e più esattamente mediante il lavoro professionalmente ben fatto, si è qui di fronte a un problema che riguarda il comunismo comunitario. Non c’è infatti nessun possibile comunismo comunitario se la comunità, dopo aver assicurato la sopravvivenza e il benessere (Wohl) dei suoi membri, non ne riconosce anche i meriti comunitari conseguiti attraverso un lavoro ben fatto.

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Questa questione del riconoscimento comunitario di un lavoro individualmente ben fatto è in realtà il vero anello d’incontro fra l’individuo e la comunità. Il fatto che la corporazione sia messa alla fine della trattazione dello Spirito Oggettivo non è affatto casuale, perché Hegel di solito mette alla fine proprio ciò cui dà più importanza (l’eticità è alla fine dello spirito oggettivo, lo stato è alla fine dell’eticità, la filosofia è alla fine dello spirito assoluto, il concetto è alla fine della scienza della logica, l’autocoscienza è alla fine della fenomenologia, eccetera). Il punto più alto dell’agire dell’uomo nella società, quello che gli dà la maggiore dignità, è il riconoscimento comunitario del lavoro individualmente ben fatto. Si tratta di un valore “borghese”? Anche qui bisogna intendersi. È che la genesi moderna deriva dalla polemica borghese settecentesca contro il lusso e l’ozio dell’etica signorile, ma è altrettanto e forse più certo che si tratta di un valore universale. Si vada in Ecuador e in Mongolia, in Grecia e in Portogallo, in Giappone e in Svezia, e si troverà ovunque sia il primato della famiglia come luogo di educazione etica dei figli sia il primato del riconoscimento comunitario del lavoro individualmente ben fatto. In una nota al § 253 della sua Filosofia del Diritto Hegel afferma che «[…] quando non è membro di una corporazione giuridicamente stabilita e riconosciuta l’individuo è privo di un onore legato al suo stato sociale, ed è allora ridotto a causa del suo isolamento al solo lato egoista dell’industria». Mi sembra evidente che qui Hegel non intende soltanto indicare le cosiddette professioni liberali e gli ordini professionali elevati (medici, ingegneri, professori, avvocati, notai, eccetera). Si tratta di un punto decisivo, e non a caso è rimasto in Germania l’uso linguistico di connotare come “maestro” (Meister) anche l’operaio specializzato e il tecnico competente. Del resto, Hegel non ha mai fatto mistero che per lui occuparsi dell’universale filosofico non comportava assolutamente maggiore dignità umana e sociale dell’occuparsi di una contadina della sua mucca (cfr. G.W.F. Hegel, Detti memorabili di un filosofo, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 49). Questa questione merita una riflessione particolare aggiuntiva.

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33. Il comunismo marxiano e marxista dovrebbe fondarsi su di una civiltà del lavoro. Non a caso, il socialismo adottò subito lo slogan “chi non lavora non mangia”. Eppure, una delle caratteristiche più inquietanti del movimento comunista marxiano e marxista sta nel fatto che il lavoro propriamente detto non c’è mai, e soprattutto uno dei punti che dovrebbero essere centrali, e su cui si sorvola, è proprio l’assenza del fatto che il comunismo, prima di essere caratterizzato da generici “movimenti reali” dovrebbe essere connotato dal riconoscimento comunitario del lavoro individualmente ben fatto. Sembra invece che questo riconoscimento comunitario del lavoro individualmente ben fatto sia il grande assente del profilo del comunismo marxiano. La cosa ovviamente merita una serie di riflessioni spregiudicate, vista la rimozione del problema. 34. In primo luogo, vediamo questa questione in Marx. Dal momento che Marx non struttura il suo pensiero sulla base della critica al concetto di economia intesa alla Hegel come sistema dei bisogni, ma lo struttura sulla base della critica all’economia politica inglese di Smith e Ricardo, è del tutto evidente che non può che partire dal lavoro in generale, dal lavoro astratto, dal lavoro sans phrase (così infatti si esprime), e non può certo prestare interesse al riconoscimento comunitario del lavoro individualmente ben fatto, che fa da premessa al concetto di dignità dei lavoro in Hegel. Si tratta di un errore di Marx? No, certamente. A Marx interessa arrivare al concetto di sfruttamento e di lavoro sfruttato, e mostrare che lo sfruttamento capitalistico si basa sulla estorsione del plusvalore sotto l’apparenza dello scambio di equivalenti, equivalenti che non sono in realtà per nulla equivalenti, in quanto il valore d’uso della forza-lavoro sfruttata è maggiore del valore di scambio con cui questa stessa forza-lavoro (Arbeitskraft) viene retribuita. Per poter sviluppare questo mirabile e sempre attuale ragionamento, Marx deve ignorare tutta la problematica hegeliana del riconoscimento comunitario del lavoro individuale ben fatto per far notare che è la stessa produzione capitalistica che distrugge il lavoro individuale, assorbendolo all’interno della produzione

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di massa anonima, collettiva e impersonale. Marx vive prima del taylorismo, del fordismo, dell’automazione e della cibernetica, ma la sua analisi delle tendenze della produzione è profetica, mostrando la fine della possibilità di poter valutare la qualità di un lavoro individuale. Dal momento che Marx ha perfettamente ragione, sarebbe sciocco criticarlo per non aver messo al centro un tipo di lavoro valutabile sulla base di una professionalità specifica, concreta e non astratta (il lavoro di un chirurgo, di un progettista, di un artigiano, di un artista, di un insegnante, eccetera). Il fatto è, però, che questo corretto approccio marxiano si è poi rovesciato, nei marxisti e comunisti posteriori, in vero e proprio disprezzo e disinteresse per il lavoro concreto. La cosa è talmente strana e scandalosa da meritare una riflessione ulteriore. Senza infatti riscattare la qualità del lavoro individuale è difficile produrre un concetto credibile di comunismo comunitario. 35. Il movimento socialista e comunista si è sviluppato valorizzando di fatto un solo modello di lavoro, il lavoro politico, finendo con il considerare invece la dignità professionale del lavoro ben fatto un valore borghese, e solo borghese. Lo stesso Lukács, autore di quello che a mio parere è il punto più alto della filosofia marxista novecentesca, e cioè l’Ontologia dell’Essere Sociale, tratta il lavoro solo come forma originaria (Urform) e modello (Vorbild) della prassi umana, intendendo metaforicamente che la stessa transizione dal capitalismo al socialismo deve essere pensata come agire consapevole e teleologico, e come lavoro (Arbeit), e non certo come processo di storia naturale (come già stupidamente detto dallo stesso Marx). L’occuparsi soltanto della propria specializzazione è invece visto da Lukács come una forma di alienazione, o più esattamente come una «oscillazione interminabile fra lo specialismo e la stravaganza». Lukács ha ovviamente ragione nel ricordare a tutti i cretini che il capitalismo non crolla da solo per linee interne, che non esiste

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nessun inevitabile e ineluttabile processo di storia naturale, e che il superamento del capitalismo sarà solo possibile sulla base di un lavoro collettivo e comunitario concepito come un agire teleologico consapevole. E tuttavia il vero e proprio “lavoro” non esiste mai. Chi ha conosciuto i “comunisti” reali della seconda metà del Novecento sa che si è trattato molto spesso di individui privi di passione professionale, che ritenevano normale che le carriere avvenissero per via esclusivamente politica, e cioè di mafie e di cordate. Il disprezzo del miserabile ceto politico socialista e comunista per il riconoscimento comunitario del lavoro individuale ben fatto è stato addirittura teorizzato al tempo della rivoluzione culturale maoista, in cui una giovane aspirante all’ammissione in una facoltà universitaria di ingegneria si vantò di aver presentato all’esame un foglio bianco, rivendicando di non aver potuto prepararsi in quanto impegnata nel suo “lavoro politico”. Ricordo i mascalzoni che negli anni intorno al 1968 chiedevano di fare “esami di gruppo” accampando di non aver potuto prepararsi in quanto impegnati nel “lavoro politico”. Alcuni di questi mascalzoni e mascalzone, che conobbi personalmente, me li vedo oggi che mi ghignano con supponenza dagli schermi televisivi, ignoranti come capre ma pur sempre pagatissimi. L’indignazione della gente comune verso questi cialtroni promossi nella classe dirigente per “meriti politici” è stata un fattore ideologico rilevante per la perdita di credibilità dello stesso progetto di superamento comunista del capitalismo. Certo, la colpa non è stata certamente di Marx, al contrario. E tuttavia il ristabilimento del principio hegeliano, per cui l’uomo libero e liberato si definisce in base al riconoscimento comunitario del suo lavoro individuale ben fatto, resta essenziale. In caso contrario, il cosiddetto riconoscimento sociale della cosiddetta “meritocrazia” (forse inesistente alla catena di montaggio, ma ben esistente in migliaia di altri profili professionali) viene consegnato agli apologeti del capitalismo, che lo useranno come arma impropria contro tutti i critici del capitalismo, comunisti comunitari o meno.

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36. E arriviamo finalmente al punto fondamentale, il concetto di stato in Hegel e in Marx, con la conseguente teoria di Marx sulla estinzione dello stato nel comunismo. Già in precedenza ho sostenuto che la principale differenza fra il comunismo marxiano e marxista e il comunismo comunitario sta proprio nel rifiuto, meditato e motivato, della teoria dell’estinzione dello stato. E allora è finalmente arrivato il momento di parlarne. Qui mi muovo veramente contro corrente. Ma in certi casi se non si nuota contro corrente si annega prima di arrivare alla riva. Secondo l’interpretazione di Koselleck, il concetto di stato in Hegel (Staat) significa sostanzialmente l’organo di realizzazione pacifica e ordinata dei valori della Rivoluzione francese del 1789 (e cioè libertà, eguaglianza e fraternità), e quindi corrisponderebbe nella lingua tedesca ai termini francese di république e inglese di commonwealth. Se Koselleck ha ragione, come io credo, si spiegherebbe allora il perché del fatto che Hegel ha collocato nello stato (Staat) la realizzazione dell’universale. Hegel, infatti, ha ripetuto spesso di considerare “universali” i valori della Rivoluzione francese del 1789. Nello stesso tempo, Marx ha avuto perfettamente ragione nel rilevare che lo stato considerato nella sua realtà storica, lungi dal realizzare l’universale oppure dal mediare in modo neutrale fra i vari interessi particolari, coordina istituzionalmente lo sfruttamento e l’oppressione di una classe sull’altra. Si tratta di una palese evidenza che sarebbe veramente ipocrita cercare di negare con sofismi vari. Nello stesso tempo lo stato che Hegel descrive è lo stato prussiano (con qualche minore discrepanza, come hanno rilevato difensori di Hegel come D’Hondt), e dire che il maggiorascato feudale che Hegel difende non ha nulla a che fare con un “universale” decentemente concepito è come sparare sulla. Croce Rossa. In poche parole, Hegel aveva ragione in quel contesto storico preciso e determinato a dire che lo stato era l’organo della realizzazione pacifica dei valori “universali” della Rivoluzione francese, mentre Marx aveva ancora più ragione a dire che lo stato borghese organizzava gli interessi esclusivi della borghesia, e quindi non era

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affatto universale come affermava di essere. Nello stesso tempo, Hegel connotava come classe universale la classe dei funzionari statali, ed è evidentemente questo Marx non poteva sopportarlo, dato che empiricamente questa classe di funzionari nel trentennio 1818-1848 in Prussia non si comportava affatto in modo “universale”, ma si comportava come una banda burocratica di repressori e di reazionari. Chi aveva ragione? Hegel o Marx? Oppure tutti e due? E in poche parole, come stavano le cose? Rispondere a queste domande è fondamentale, perché se lo stato in sé, e cioè lo stato in quanto stato e non un particolare tipo di stato (schiavistico, feudale, assolutistico, borghese, capitalistico, eccetera), è correlato organicamente allo sfruttamento di una classe sull’altra, e non può dunque esistere uno stato senza classi in base proprio a quello che Kant avrebbe definito il giudizio analitico di stato, allora ne consegue che il comunismo comunitario deve essere pensato come un’istituzione anarchica senza stato. Se invece può esistere (cosa che Marx nega recisamente, ma Marx non è mica un Dio infallibile) uno stato comunista, allora ritengo che la forma istituzionale del comunismo comunitario sia uno stato comunista comunitario. È evidente che non possiamo farci imprigionare dalle parole. È invece necessario discutere in modo spregiudicato le ragioni per cui un genio come Marx ha potuto sostenere quella che ai miei occhi è una sciocchezza, e cioè la teoria dell’estinzione dello stato nel comunismo, teoria che a mio avviso non sta né in cielo né in terra. Quando un genio dice una sciocchezza, è un buon criterio metodologico quello di ricostruire il processo di pensiero che può averlo portato a questa sciocchezza. 37. Apro una breve parentesi sull’anarchismo, perché non c’è alcun dubbio sul fatto che la teoria dell’estinzione dello stato è una teoria che trova la sua genesi nel pensiero anarchico e nella tradizione anarchica. Nonostante il termine sia di origine greca, l’anarchismo è principio di filosofia politica, moderna, sostanzialmente

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inesistente prima della seconda metà del diciannovesimo secolo. Esso si basa su di un programma di pratica concreta di edificazione di una comunità umana solidale liberata non solo dallo sfruttamento economico ma anche e soprattutto dai rapporti di potere. Questo programma è considerato possibile e praticabile, anche se difficile per le eredità inerziali dei rapporti di potere nelle società umane, in quanto l’anarchismo rifiuta ogni teoria antropologicosociale derivata da un principio pessimistico sulla natura umana (principio del peccato universale ebraico e cristiano, meccanicismo individualistico di Hobbes, eccetera). Il presupposto filosofico ultimo dell’anarchismo non sta affatto in Marx, ma sta piuttosto in Rousseau, e cioè nell’ipotesi per cui la natura umana, all’origine buona, è stata successivamente corrotta dalla generalizzazione della proprietà, su cui si basa il potere. Come si vede, i principi dell’anarchismo e del comunismo comunitario sono molto simili, e un comunista comunitario sarebbe uno sciocco autolesionista se ritenesse che l’anarchismo è un suo nemico o avversario. Ovviamente, non è così. Altra cosa, che non c’entra assolutamente nulla con l’anarchismo, è quella che io ho ripetutamente chiamato (e chiamerò ancora di più nel successivo capitolo) la mentalità individualistico-anarcoide della sinistra attuale nei paesi occidentali. Quest’ultima non solo non ha assolutamente nulla a che fare con l’anarchismo, ma è una derivazione degenerativa della crisi del profilo nichilistico dell’ultima fase di dissoluzione del comunismo storico novecentesco, derivazione degenerativa che si è incontrata con la ben più robusta corrente della liberalizzazione anomica del precedente ethos borghese tradizionale. Ma di questo più avanti. Per il momento, il lettore è pregato di non confondere il nobile principio anarchico (peraltro da me non condiviso) con questa ripugnante patologia di “sinistra” dell’individualismo capitalistico classico. L’anarchismo storico si è soprattutto sviluppato in paesi (Russia, paesi balcanici, Svizzera, Spagna, eccetera) in cui esistevano già delle basi comunitarie della produzione sociale largamente autosufficienti, e in cui gli apparati statali, lungi dall’apparire come “co-

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stitutivi” della convivenza sociale, apparivano come odiose potenze sovrapposte capaci solo di imporre tassazioni esose e di richiedere il tributo di carne da cannone del servizio militare. Questo specifico “anarchismo”, sia della variante del comunitarismo contadino solidaristico (Russia), sia nella variante collettivistico-bracciantile (Spagna Meridionale), sia infine nella variante dei piccoli artigiani proprietari indipendenti (Svizzera), tende ovviamente a tramontare con i processi di industrializzazione e con la formazione di una classe operaia che chiede organizzazione partitica e sindacale. Di fronte a questo processo storico che ne erode le basi sociali l’anarchismo o scompare, o si rifugia in una nicchia tribale-provinciale protetta (l’anarchismo italiano di Carrara) o si trasforma in un’ala radicale attivista del movimento operaio di “estrema sinistra”, oppure infine diventa uno stile di vita anarcoide di piccoli borghesi marginali che chiamano “anarchismo” il proprio stolido esibizionismo contestativo, ben presto quotato nel mercato dell’arte capitalistico (esemplari le scatolette di merda d’artista di un pagatissimo pittore-pagliaccio furbacchione italiano). Il principio anarchico può essere definito in modo kantiano come un principio regolativo formale della ragion pura pratica, che ritiene possibile e praticabile il fine politico di una società liberata dal dominio e dal potere. Si tratta dello stesso principio di Marx, che rifiuta lo stato nel comunismo ma considera necessario uno stato socialista nella fase di transizione al comunismo (principio in verità più sviluppato da Engels che dallo stesso Marx, il quale era comunque anche lui per la “dittatura del proletariato”). È invece un principio diverso da quello della teoria del comunismo comunitario che io propongo, che invece si basa su di un processo di democratizzazione radicale della famiglia, della società civile e dello stato escludendo invece apertamente l’abolizione della famiglia, della società civile e dello stato. Quindi, nessun disprezzo e nessuna ostilità verso l’anarchismo. Escluderei anche inutili e odiose accuse di “utopismo”. Tutto ciò che non si è ancora realizzata è forzatamente un po’ “utopico”, compreso ovviamente il comunismo comunitario. L’anarchismo è

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anche una pratica solidale comunitaria, e quindi in futuro potrebbe anche “realizzarsi”. Il fatto che fino a oggi non si sia realizzato non è un argomento. Come è stato possibile che Marx abbia aderito a una concezione, a mio avviso stolida, del comunismo come estinzione dello stato? 38. Non c’è dubbio che Marx abbia identificato il concetto di stato con il concetto di sfruttamento di classe organizzato e coordinato da una istanza centrale del potere. Sulla base di questa identificazione è ovvio che per lui uno “stato comunista” fosse un ossimoro assurdo e inaccettabile. Qui non c’è purtroppo lo spazio per analizzare le origini antichissime dello stato, da non confondere con le origini dello stato moderno prima con l’assolutismo (Perry Anderson) e poi con le grandi rivoluzioni borghesi (Eric Hobsbawm). A mio avviso, lo “stato” non è soltanto derivato dalla istituzionalizzazione della divisione del lavoro sociale col conseguente sfruttamento fra le classi, oppure dalle necessità “idrauliche” di sistemazione delle acque con lavori collettivi coordinati, ma è soprattutto derivato dalla razionalizzazione di necessità militari difensive contro attacchi esterni. In sostanza, scusandomi per il fatto che lo spazio mi impedisce una esemplificazione storica sufficiente, inclino ad accettare la cosiddetta “teoria militare” dell’origine dello stato (difesa a suo tempo anche da Locke – è l’unico punto in cui concordo con il mercante di schiavi). La divisione militare del lavoro è ovviamente intrecciata allo sfruttamento classista, in quanto i guerrieri tendono a “coprirsi” ideologicamente con un riferimento religioso per poter dare una legittimazione stabile al loro potere sui lavoratori che li mantengono su questo punto condivido la spiegazione del trifunzionalismo indoeuropeo data da Dumézil). In ogni, caso, si potrebbe sostenere che nel mitico comunismo del futuro senza stato, non essendoci più la necessità di coordinare lo sfruttamento di classe, di avallare religiosamente la legittimità di questo sfruttamento, e infine di organizzare milizie ed eserciti per attaccare o difendersi

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dai vicini, lo stato può venir meno, sostituito da una rete pacifica di centri di autogestione economiche di autogoverno politico senza stato. È questa, in breve, l’utopia di Marx: ogni stato è per sua natura intrecciato con lo sfruttamento classista; per questa ragione ogni concetto di stato comunista è un ossimoro e una contraddizione in termini: il comunismo è quindi una rete anarchica di centri di autogestione economica e di autogoverno politico di produttori indipendenti, in cui ciascuno darà secondo le sue capacità e riceverà secondo i suoi bisogni. Salta agli occhi che questo progetto non può funzionare a livello mondiale senza l’esistenza di un centro di coordinamento, a meno che appunto si pensi che il mercato comunista perfetto dello scambio di beni e di servizi si coordini spontaneamente in base al principio religioso di Leibniz dell’“armonia prestabilita”. Ma l’armonia prestabilita, appunto, è un principio religioso, che infatti presiede alla religione più estremista del mondo, la religione del mercato autoregolato di Adam Smith. E allora, possiamo anche non chiamare “stato” questo centro di coordinamento mondiale dello scambio di beni e di servizi di unità produttive anarchiche autogestite e autogovernate, ma resta il fatto che questo unico centro di coordinamento mondiale, che dovrebbe inevitabilmente pianificare almeno un po’ la produzione complessiva per evitare sprechi e moltiplicazioni inutili dello stesso tipo di prodotto e di servizio diventerebbe di fatto lo stato più totalitario e dispotico mai immaginato dagli incubi futurologici degli utopisti. Il fatto che questi futuri pianificatori anarchici siano “buoni”, generosi e solidali vale meno della merda di cavallo sulle strade polverose. La radice di questa follia è stata a mio avviso trovata dallo studioso francese Pierre Rosanvallon, che ha avanzato un’ipotesi a mio avviso credibile. Marx, avendo rifiutato di porsi sul terreno critico della teoria del sistema dei bisogni di Hegel, che presuppone ovviamente per coordinarsi di uno “stato” (indipendentemente poi dalla sua organizzazione sociale, istituzionale e costituzionale), e avendo invece scelto il terreno della critica alla teoria del “mercato senza stato” di Smith e di Ricardo, ha finito con il con-

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cepire il comunismo come una sorta di autoregolazione armonica non mercantile della società, in cui le unità produttive scambiano pacificamente solo valori d’uso anziché valori di scambio. In altri termini, uno scambio senza valori di scambio, in quanto si può escludere che Marx pensasse a una sorta di autorità mondiale che pianificasse autoritariamente l’intera rete mondiale degli scambi, incubo alla Orwell e alla Huxley. Questa teoria non funziona, non funziona sia logicamente sia politicamente. Mi sembra più realistico cambiare impostazione, e immaginare una abolizione della produzione capitalistica, una produzione fondata sull’autogestione solidale dei produttori, un mantenimento della piccola produzione mercantile con le inevitabili piccole diseguaglianze che questo mantenimento comporta, il mantenimento degli stati nazionali la cui funzione resta quello di preservare le eredità linguistiche e culturali, e infine una confederazione mondiale di stati comunitari indipendenti. Si tratta, certamente, di una utopia. Ma di una utopia più credibile e più sensata dell’utopia impraticabile (e se praticabile, da incubo orwelliano) dell’estinzione dello stato, semplice rovesciamento non dialettico della stessa utopia capitalistica, che si fonda appunto nella virtuale sparizione degli stati, sostituiti da un mercato onnipotente autoregolato. 39. E chiudo qui questa lunghissima prima parte di questo capitolo. Il lettore si chiederà forse perché è stata tanto lunga, visto che di Marx si era già parlato a lungo in precedenza. Ma ovviamente una ragione c’è. Importando il problema teorico del comunismo comunitario, un concetto di cui non esiste ancora nessuna credibile teoria politica (non facciamoci illusioni dilettantesche!), è necessario marcare due differenze contrastive. In primo luogo, una differenza contrastiva con il concetto classico marxiano di comunismo, nobile, giustificato e ammirabile, ma anche del tutto impraticabile. In secondo luogo, una differenza contrastiva con il concetto di comunismo derivato dall’esperienza di ingegneria so-

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ciale autoritaria del comunismo storico novecentesco veramente esistito, di cui comincerò a parlare a partire dal prossimo trentanovesimo paragrafo di questo capitolo. Vi sarà poi una terza differenza contrastiva, quella con la cultura di “sinistra” che ci circonda. Ma questa terza differenza contrastiva è così grande da richiedere un intero capitolo apposito. Passiamo ora alla valutazione critica del comunismo storico novecentesco realmente esistito. 40. Un’ultima, avvertenza preliminare al lettore per evitare ogni possibile equivoco. La trattazione fin qui fatta sulle aporie del comunismo marxiano e sulla sua sostanziale insostenibilità teorica è stata svolta su base teorica e filosofica, dal momento che questo comunismo marxiano non è stato mai applicato nella storia (a mio avviso anche e soprattutto perché del tutto inapplicabile). Il continuo riferimento a Hegel ha come sua giustificazione proprio il fatto che Marx pensa in modo contrastivo contro Hegel, vuole a tutti i costi demarcarsi da Hegel (Freud direbbe che vuole “uccidere il padre”), e in questo modo finisce con il perdere la più grande conquista del pensiero politico di Hegel, e cioè che la convivenza comunitaria umana deve necessariamente istituzionalizzarsi e costituzionalizzarsi mediante la famiglia, la società civile e lo stato. La giusta critica alle possibili assolutizzazioni delle istituzioni signorili e borghesi in Hegel finisce con il rovesciarsi nella illusione utopica di un comunismo privo di istituzioni fondato su di una visione trasparenzialistica della realtà sociale e su di un individualismo mascherato da collettivismo. La critica al comunismo storico novecentesco è necessariamente di natura diversa, perché il comunismo storico novecentesco è stato appunto un fenomeno storico, non teorico. La critica al comunismo marxiano è quindi teorica, mentre la critica al comunismo novecentesco è storica. I due livelli sono diversissimi. E tuttavia, in queste poche pagine non posso certamente mettermi in concorrenza con le ponderose ricostruzioni storiche dei vari

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“comunismi” del Novecento, alcuni dei quali per fortuna (il lettore noti i due termini sottolineati) ancora esistenti. Dovrò per forza esprimermi in modo apodittico, affermando certe posizioni senza poter avere lo spazio sufficiente per cercare di motivarle. Questo “spazio” comporterebbe una vita di lavoro e centomila pagine. Il lettore si accontenti dunque di una esposizione apodittica. Se non ne è soddisfatto, la consideri una sorta di antipasto per un pranzo ancora, da portare in tavola. 41. Il comunismo storico realmente esistito è stato un fenomeno storico e sociale globale, e come fenomeno storico e sociale globale deve essere giudicato. Lo si può giudicare bene o male (personalmente, io lo giudico in modo incondizionatamente positivo, ma so bene che lo si può anche giudicare in modo opposto), ma non si può dimenticare mai che è stato un fenomeno storico e sociale globale, come il feudalesimo, il colonialismo, il liberalismo, l’imperialismo, l’attuale impero americano, il fascismo, e ovviamente anche e soprattutto il capitalismo. In quanto fenomeno storico e sociale globale, non ha senso applicarvi il pedante criterio dell’elencazione dei lati positivi e dei lati negativi. Qualunque idiota potrebbe accertare che il modo di produzione schiavistico ha prodotto da un lato Tacito e Virgilio e dall’altro la decimazione di tutti gli schiavi presenti in casa al momento di un delitto, il modo di produzione feudale ha prodotto da un lato Dante e le cattedrali romaniche e gotiche e dall’altro i roghi dell’Inquisizione, eccetera. Questi idioti, maggioritari nelle corporazioni degli storici contemporaneisti, devono essere chiamati con il loro nome, e cioè appunto idioti. Ogni cortesia linguistica rischia infatti di avallare questo inaccettabile modo di considerare i fenomeni storici. Così come bisogna evitare il ridicolo metodo del “da un lato… dall’altro”, nello stesso modo bisogna evitare ogni approccio moralistico al problema del comunismo. Non c’è alcun dubbio che il comunismo storico novecentesco globalmente inteso (1917-1991)

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ha commesso crimini, e in alcuni casi crimini atroci e non scusabili. Ma tutti i fenomeni storici, nessuno escluso (accumulazione capitalistica, Impero Romano, colonialismo razzista, guerre imperialistiche per la supremazia, formazione dei tre grandi imperi coloniali spagnolo (1492-1714), inglese (1640-1945) e USA (dal 1945 in poi) hanno commesso crimini spaventosi). Non si tratta quindi di essere “negazionisti”. Oggi solo il negazionismo riferito a Hitler è penalmente colpito, mentre tutti gli altri negazionismi sono non solo permessi, ma addirittura incoraggiati e propagandati non solo nei manuali scolastici per adolescenti distratti ma anche nelle dispense universitarie per futuri intellettuali-servi. Si tratta di sapere che sul comunismo storico novecentesco inteso come fenomeno storico e sociale globale si può dire di tutto, al di fuori dell’uso di categorie moralistiche e di elenchi di “lati” positivi o negativi. Con questo criterio la storia non potrebbe essere più scritta, dagli antichi egizi a oggi, perché tutta la storia, senza alcuna eccezione, ha comportato un insieme di crimini. 42. È impossibile applicare alla storia complessiva del comunismo storico novecentesco il cosiddetto sofisma di Talmon (Domenico Losurdo), per cui l’insieme dei fatti della storia del comunismo storico novecentesco viene comparato all’insieme dei valori astrattamente sostenuti dalle teorie politiche del liberalismo. In questa comparazione asimmetrica è evidente che il comunismo è destinato a soccombere. L’unica comparazione legittima sarebbe una comparazione fra fatti omogenei, i gulag di Stalin e i genocidi dei colonialismi spagnolo, francese, inglese americano, senza mai dimenticare il macello della Prima guerra mondiale (1914-1918). Il sofisma di Talmon è il principio religioso fondamentale della sovietologia accademica occidentale, che nel suo insieme non è che spazzatura sofisticata. La sua ipocrisia è talmente chiara e palese da provocare indignazione in tutti gli spiriti liberi e indipendenti, favorevoli o ostili al comunismo che siano.

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43. La Prima guerra mondiale (1914-1918) fu percepita dai contemporanei come una catastrofe biblica, che spazzò via con i suoi milioni di morti un’intera generazione. Dal momento che da allora è passato quasi un secolo, e i testimoni sono ormai morti tutti, le oligarchie dominanti con il loro triplice codazzo di servi ben retribuiti (ceto politico, circo mediatico, clero universitario) contano sul fatto che la memoria collettiva di quei tragici eventi, di cui queste stesse oligarchie sono direttamente responsabili, siano ormai dimenticate. Per questo possono contare sui contemporaneisti, che ormai hanno sostituito al pericoloso termine di “capitalismo” l’ambiguo e innocuo termine di “modernità”. Il carattere amorfo, ambiguo, anonimo e impersonale di “modernità” si presta infatti a una sorta di ieratica deresponsabilizzazione dei gruppi sociali, economici e politici concreti, in simbiosi fraterna con il complementare termine di Tecnica. Se infatti la colpa dei misfatti storici non è dei gruppi capitalistici dominanti, ma è della Tecnica e della Modernità, allora non è di nessuno. Se si cominciasse a multare (con riscossione immediata della multa) tutti coloro che usano le parole Tecnica e Modernità per nascondere goffamente la loro totale incapacità di effettuare un’analisi storica concreta, forse si potrebbe innescare un processo virtuoso di concretizzazione sociale delle categorie teoriche. E tuttavia, non è mai successo che il problema possa essere la soluzione di se stesso. Ricollocare la Rivoluzione russa del 1917 all’interno del trauma storico della Prima guerra mondiale e dei suoi milioni di morti significherebbe svuotare immediatamente il deposito delle chiacchiere sul comunismo come colpo di stato dei bolscevichi, come illusione utopica di intellettuali messianici destinata a rovesciarsi in terrore giacobino, come violazione del virtuoso liberalismo eterno, come offesa al diritto naturale della proprietà privata e alle leggi eterne dell’economia, come dispotismo asiatico ricoperto di “marxismo”, eccetera. Tutto questo chiacchiericcio di intellettuali irresponsabili, che culmina nella cosiddetta “teoria del totalitarismo”, evaporerebbe come neve al sole se appena si

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facesse lo sforzo mentale di ricollocarsi all’interno del trauma storico complessivo del macello sanguinoso della guerra 1914-1918. Ma, appunto, è proprio questo che il clero intellettuale non può e non vuole fare. Meglio rifugiarsi in astrazioni indeterminate come la Tecnica e la Modernità, pure e semplici razionalizzazioni secolarizzate per dilettanti della buona vecchia Volontà di Dio. 44. La rivoluzione del 1917 in Russia fu di gran lunga l’evento più positivo del ventesimo secolo, cui nessun altro evento può stare alla pari o essere lontanamente comparato. Nello stesso tempo, il crollo ridicolo del comunismo storico novecentesco come fattore geopolitico equilibratore e come esperimento di ingegneria sociale sotto cupola geodesica protetta è stato la più grande catastrofe storica dello stesso ventesimo secolo, meno agghiacciante di Hiroshima e di Auschwitz sul piano della crudele evidenza, ma ancora più negativo se ci si pone non al livello della scandalosità imperdonabile del male, ma della rottura di un equilibrio di forze mondiale. Quanto dico, ovviamente, viola il secondo principio della Religione del Politicamente Corretto (l’accettazione unanime della Leggenda Nera e della condanna senza appello di tutto il fenomeno del comunismo storico novecentesco realmente esistito). Sono convinto che questo dogma demonizzante sia solo provvisorio (anche se può ancora purtroppo durare decenni), in quanto riflette l’ideologizzazione immediata della rilegittimazione intellettuale del capitalismo del ventennio 1989-2009. E tuttavia la mia posizione può e deve essere argomentata, ciò che cercherò brevemente di fare nei paragrafi successivi. 45. La Rivoluzione russa del 1917, che darà poi luogo con la sua posteriore istituzionalizzazione partitica e statuale al modello del comunismo storico novecentesco realmente esistito, non trova la sua legittimazione diretta nel comunismo marxiano (anche se vi

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trova la sua legittimazione indiretta), non la trova nella scolastica positivistica del cosiddetto “marxismo” 1889-1914, trova solo parzialmente nella radicale revisione leniniana di questo marxismo (il che fa di Lenin il più grande “revisionista” della storia del marxismo), e trova infine la sua sistematizzazione ideologica nel marxismo-leninismo di Stalin, formazione ideologica edificata fra il 1924 e il 1926. Il lettore avrà notato che ho messo in ordine di successione quattro distinti codici teorici, il pensiero marxiano, la formazione teorica marxista, il pensiero leniniano, e infine la formazione ideologica staliniana, che il comunismo successivo non modificò più nell’essenziale fino alla sua ingloriosa dissoluzione. Per chiarezza, scusandomi per l’inevitabile pedanteria, li tratterò separatamente uno dopo l’altro. 46. Come ho fatto ampiamente rilevare in precedenza, il codice teorico marxiano è incompiuto, ed è rimasto non sistematizzato e non coerentizzato, per cui su questa tesi è prova di dilettantismo e di vero e proprio analfabetismo ritenere che questo codice sia il codice di legittimazione della Rivoluzione russa del 1917 e del successivo comunismo storico novecentesco realmente esistito. Inoltre, ho molto insistito sul fatto che il codice marxiano originale presenta difetti strutturali di positivismo (pretesa di ricavare le leggi di sviluppo del capitalismo sulla base delle leggi della natura) e di utopismo (concezione del comunismo come società individualistica auto­regolata priva di famiglia, di società civile e di stato). Sono spiacente di dover ripetere cose già ampiamente sostenute nei capitoli e nei paragrafi precedenti, ma una lunghissima esperienza mi ha insegnato che la distrazione del lettore è come una bomba innescata, per cui si è convinti di avere chiarito qualcosa, e si scopre alla fine di aver scritto in sanscrito con sottotitoli in coreano. A proposito del rapporto fra pensiero marxiano originario e legittimazione del 1917 e del posteriore comunismo storico novecente-

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sco distinguerei due tipi distinti di legittimazione, la legittimazione storico-politica generale e la legittimazione teorica particolare. Il modello teorico di Marx non legittima ovviamente la rivoluzione comunista del 1917 per il semplice ovvio fatto che il suo modello deduce il superamento del capitalismo con la nota contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive sociali e la natura classista (e stagnante) dei rapporti di produzione. Nulla di questo ovviamente c’è nel 1917 russo. Il modello storico-politico di Marx legittima invece interamente il diritto alla rivoluzione, in quanto Marx non fa dipendere la legittimità della rivoluzione anticapitalistica con il fatto secondario della coincidenza con le proprie tesi. Un esempio può essere tratto dalla Comune di Parigi del 1871. La teoria e la prassi degli eroici comunardi non avevano assolutamente nulla (ma proprio nulla) in comune con le teorie di Marx, perché è del tutto chiaro che l’insurrezione comunarda non era minimamente dovuta a una contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione, e non aveva neppure per questo un briciolo di “marxismo”, comunque interpretato. Eppure, Marx la appoggia totalmente (come appoggia idealmente peraltro la rivolta dei sepoys in India e dei taiping in Cina) del tutto indipendentemente dalla corrispondenza o meno con le proprie legittime teorizzazioni. In poche parole, Marx faceva sempre passare il proprio comunismo anticapitalistico davanti ai propri schemi teorici. Marx, infatti, non era in alcun modo un “intellettuale”, ma era invece un rivoluzionario. È questo il segreto di Marx, la cosa che hai finalmente capito dopo averlo studiato per mezzo secolo. Marx riteneva legittima qualunque insurrezione contro il capitalismo (comune di Parigi 1871) e contro il colonialismo (sepoys in India, taiping in Cina), del tutto indipendentemente dal fatto poco rilevante che queste insurrezioni fossero o meno logicamente inseribili nel suo modello astratto di modo di produzione capitalistico. Pur non potendo evocare le anime dei defunti, e ignorando l’arte di far ballare i tavolini, sono

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convinto che Marx avrebbe approvato le rivoluzioni del 1917 (Russia), 1949 (Cina), 1959(Cuba), eccetera. 47. La Rivoluzione russa del 1917 non ha ovviamente nulla a che fare con il povero codice positivista chiamato “marxismo”, di cui fu papa il pedante germanofono Karl Kautsky. È oggi chiaro (cfr. E. Matthias, Kautsky e il kautskismo, De Donato, Bari 1971) che il cosiddetto “marxismo” tedesco della Seconda Internazionale era semplicemente un codice ideologico di legittimazione della progressiva integrazione degli apparati politici e sindacali non solo nella riproduzione economica capitalista, ma anche e soprattutto nella riproduzione politico-ideologica colonialista e imperialista. E infatti quando Gramsci scrive che la rivoluzione russa del 1917 è una rivoluzione contro il Capitale di Marx (inteso come codice riformistico ed evoluzionistico della Seconda Internazionale) si è qui di fronte a una solare evidenza, È peraltro giunto il momento di dire apertamente che Gramsci poteva enunciare questa solare evidenza proprio perché non sapeva neppure praticamente chi era Kautsky, e ricavava invece il suo approccio alla rivoluzione dal codice filosofico di Giovanni Gentile e dal codice politico di Georges Sorel. In generale i dogmatici parrucconi vedono questo come una “debolezza” di Gramsci, destinata poi a essere “superata” con l’approdo al leninismo. Si tratta invece al contrario del cuore della genialità di Gramsci. No alla lettera del Capitale di Marx, sì al suo spirito. Questo è il codice del grande Antonio Gramsci. 48. Il paradosso di Lenin sta in ciò, che egli fu il più grande revisionista della storia del marxismo, e che mascherò il suo contenuto revisionista in una forma ortodossa. Come spiegare questo apparente mistero? In primo luogo, il paradosso di Lenin si può in parte spiegare proprio con il fatto che Lenin, pur essendo personalmente ateo e ma-

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terialista, proveniva da una cultura appunto cristiano-ortodossa, e quindi non ebraica, cattolica o protestante. In quanto non ebreo, il marxismo di Lenin non aveva tracce di universalismo messianico ed escatologico, come spesso è stato il caso per marxisti ebrei (Trotzky, Bloch, Benjamin, eccetera). In quanto non cattolico, Lenin era privo della tipica doppiezza e ipocrisia cattolica di origine controriformistica, per cui sistematicamente si fa una cosa e si dice un’altra (Togliatti, eccetera). In quanto non protestante, Lenin non era interessato al libero esame e al diritto dell’individuo di interpretare il testo sacro (in questo caso Marx) sulla base della propria coscienza, soggettiva sovrana, ma era maggiormente interessato alla formazione di un canone ortodosso come criterio del vero e del falso. Si dimentica spesso che Lenin era russo, come Berdjaev e Solzenitsyn, e che ragionava sulla base del codice ortodosso e bizantino, non sulla base della sinagoga, della chiesa cattolica o dell’individuo sovrano protestante. In secondo luogo, dal momento che il marxismo era effettivamente diventato un codice identitario di tipo religioso, Lenin si legittimava attraverso una pretesa di ortodossia di corretta e vera interpretazione del testo sacro di riferimento. Su questa base Lenin tirò fuori dal cappello della teoria un vero coniglio, per cui Marx aveva avuto ragione nella sua epoca a dire che la transizione al socialismo sarebbe avvenuta prima nei punti alti dello sviluppo capitalistico, ma ora le cose erano cambiate, e con l’arrivo della rivoluzione socialista avrebbe potuto e dovuto incominciare a partire dai punti deboli della catena mondiale imperialistica (e cioè la Russia). L’epistemologo Kuhn ha dimostrato che una rivoluzione scientifica si verifica all’interno di una crisi scientifica, per cui il vecchio paradigma si dimostra non più capace di spiegare i nuovi fenomeni, e non bastano più le strategie di salvataggio del vecchio paradigma del tipo delle eccezioni o delle aggiunte ad hoc. Il modello di Kuhn si applica allora perfettamente (come ha anche opportunamente rilevato Paul Sweezy) alla situazione leniniana: il paradigma di Kautsky non era più in grado di spiegare i nuovi fenomeni

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(guerra imperialista, eccetera); bisognava cambiare paradigma; Lenin lo ha cambiato. 49. Una parentesi necessaria. il comunista comunitario che credesse di poter “salvare” Marx nonostante le sue “cadute” positivistiche e utopistiche, lasciando cadere come “zavorra” Lenin come partitista autoritario sbaglierebbe i suoi calcoli, e li sbaglierebbe di grosso. Io penso infatti che nell’attuale congiuntura ideologica mondiale per alcuni aspetti il rivendicare Lenin sia ancora più importante sul piano simbolico del rivendicare Marx. Cerco di spiegarmi. In un mirabile scritto del 1924 Lukács inquadrò perfettamente il cuore della questione-Lenin, e lo fece proprio in occasione della morte dello stesso Lenin. Lenin rappresenta secondo Lukács l’attualità della rivoluzione cioè il fatto che dopo la grande guerra mondiale imperialistica ogni popolo e ogni nazione hanno ormai il diritto storico di mettere in atto una rivoluzione anticapitalistica, senza che ci sia più il bisogno di una commissione d’esame di marxisti DOC che stabilisca se il candidato ha diritto o no a una rivoluzione in base al parametro dello sviluppo delle cosiddette “forze produttive”, parametro che non ci sarà ovviamente mai, perché la famosa “maturità dello sviluppo delle forze produttive” è come l’oriz­zonte, che si allontana indefinitivamente mano a mano che ci si avvicina. L’attualità della rivoluzione significa che la rivoluzione hanno ormai diritto di farla i tagliatori di canna dell’isola di Cuba, i pastori mongoli, i pigmei del Congo, i boscimani del Kalahari, eccetera. Tutto questo, ovviamente, non è più marxiano o marxista in senso proprio. È però conforme alla lettera di Marx a Vera Zasulic, ed è conforme alla teoria del comunismo comunitario, che non pretende di sottoporre a esame una comunità per sapere se ha già abbastanza sviluppato o meno le forze produttive. Qui sta la ragione per cui nel circo politico-mediatico-universitario Lenin e Hegel sono più odiati di Marx, e perché Marx appare più

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“recuperabile” sia di Hegel che di Lenin. O si comprende questo punto cruciale, oppure è meglio andare a raccogliere i pomodori. L’odio verso Hegel si basa infatti sul fatto che Hegel, che non era affatto comunista, era però comunitario, e considerava lo stato un garante della comunità. Hegel, infatti, aveva disegnato concettualmente un modello ideale alternativo di borghesia, dotato di coscienza infelice, di primato della filosofia sull’economia, di primato della società dei bisogni sull’automatismo del mercato liberale divinizzato, e infine sulla permanenza della famiglia, della società civile e dello stato. La furia individualistica e anemica del modello attuale di ipercapitalismo non può letteralmente sopportare questo tipo di fondazione sociale, ed ecco perché Hegel è così odiato dal coro congiunto degli apologeti del capitalismo e degli intellettuali radicali e anomici di “sinistra”. L’odio verso Lenin si basa sul fatto che Lenin non si limita a criticare il capitalismo, ma estende la sua critica all’imperialismo. Ora, il diritto razzista e occidentalista all’intervento imperialista, mascherato o meno da umanitarismo, è l’attuale fondamento primario del sistema capitalistico mondiale. L’odio verso Lenin non è quindi dovuto primariamente alla struttura politica del partito comunista, che Lenin sostenne a suo tempo ma che ha mostrato ampiamente la sua totale incapacità a costruire una società nuova e alternativa, dando anzi luogo uno dei profili antropologici più osceni e abbietti della storia universale, ma è dovuto proprio alla centralità assoluta dell’imperialismo nel pensiero di Lenin. In Lenin l’imperialismo è molto più importante del semplice capitalismo. Per questo Lenin è insopportabile. Marx appare invece come un barbone sapiente più addomesticabile, soprattutto se lo si interpreta come ispiratore di Keynes e di Schumpeter e come critico degli eccessi della speculazione del capitale finanziario. È ovvio che Marx è stato un critico globale spietato di tutto il capitalismo, e non certo soltanto del moderno neoliberismo o degli “eccessi” mafiosi e criminali del capitale speculativo. E tuttavia il fatto che in Marx ci sia inequivocabilmente un lato apologetico dello sviluppo capitalistico può permettere

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un “recupero” ideologico strumentale, giocando così Marx contro Marx, oppure ancora meglio proponendo un Marx oltre Marx con esiti finali alla Toni Negri, e cioè suicidando Marx. Chi si ispira al comunismo comunitario ha bisogno di confrontarsi criticamente con Hegel, con Marx e con Lenin. Non pensi di “eliminarne” uno. Cadrà soltanto dalla sedia di cui ha stupidamente tagliato una gamba. 50. Un recente studio della rivista medica inglese «Lancet» ha accertato, incrociando dati epidemiologici e demografici, che la fine del sistema socialista nello spazio sovietico ha comportato in dieci anni circa un milione di morti da riferire direttamente a questo crollo. La cosa è interessante per il fatto di essere passata quasi inosservata, nonostante l’autorevolezza della fonte. Per decenni il circo mediatico aveva premuto per la cosiddetta “democratizzazione” del comunismo. Sembrava che gli interessasse la libertà di stampa, la pubblicazione di Pasternak, Sacharov e Solzenitsyn, una moderata apertura a un’economia mista di piccoli produttori, in poche parole, una sorta di socialdemocrazia di sinistra svedese, sia pure un po’ inefficiente dato il carattere sognante dell’anima slava e lo smodato uso della vodka. E invece, appena dissoltosi il sistema, il circo mediatico ho mostrato il suo vero volto di mascalzoni prezzolati inneggiando ai “nuovi russi”, alle bande mafiose di assassini, ai loro consumi neroniani, e in generale a tutto il processo di accumulazione primitiva criminale del capitale che ha avuto luogo in Russia del decennio 1990-2000. Questo fatto deve far riflettere. Dopo aver sostenuto per decenni di voler soltanto che la Russia diventasse una Norvegia pianeggiante, il circo mediatico ha rivelato il suo vero volto, inneggiando ai vari Porkovski, Criminalovski, Banditovski, Assassinovski, eccetera. E infatti questo il vero modello umano e antropologico preferito dal circo mediatico. Non appena Putin dopo il 2000 ha restaurato non certo il comunismo (purtroppo!), ma una normale sovra-

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nità statale, il circo mediatico si è rimesso a strillare in favore dei banditi ceceni, degli avventuristi georgiani, dei truffatori ucraini, eccetera. In questo modo l’osceno e criminale circo mediatico ha mostrato di non essere e di non essere mai stato interessato alla democratizzazione della Russia, ma di essere sempre stato un’appendice propagandistica dei fini strategici dell’impero americano. E pensare che nella mia giovanile ingenuità negli anni Sessanta e Settanta credevo che i giornalisti “progressisti” fossero realmente interessati a una finalità tutto sommato sana e legittima come la democratizzazione del sistema sovietico, il cui carattere dispotico (più esattamente dispotico-proletario) era difficilmente negabile! 51. Si dirà che la dissoluzione del sistema sovietico fra il 1989 e il 1991 non è stata poi una grande tragedia, se i suoi stessi popoli lo hanno pacificamente abbattuto, mostrando di non sopportarlo più. Questa osservazione è certamente sensata, e merita una risposta non ideologica, ma pacata e razionale. Chi ragiona in questo modo paragona di fatto l’abbattimento del sistema socialista fra il 1989 e il 1991 all’abbattimento del sistema signorile in Francia fra il 1789 e il 1791. In Italia, per esempio, Vittorio Foa si è ripetutamente espresso in questi termini proponendo addirittura questa analogia storica. Mi permetto di dissentire. Il triennio 1989-1991 è stato la più grande tragedia del secolo (a livello sistemico globale ancora più grande di Hiroshima e Auschwitz) non perché il sistema sovietico così com’era fosse buono e meritasse di durare ancora indefinitamente, ma proprio per la ragione opposta perché non è stata possibile una sua autoriforma dall’interno. È stata questa mancata autoriforma la vera tragedia storica, non certo il fatto in sé che questo sistema crollasse, dal momento che le sue classi medie lo odiavano e i suoi stessi dirigenti (Eltsin, Gorbaciov, Yakovliev, eccetera) non vedevano l’ora di distruggerlo.

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Non sempre ciò che muore merita di morire. Ma la mancata autoriforma del modello di comunismo storico novecentesco deve essere messa al centro della riflessione. La domanda allora può essere formulata in questo modo: partendo dal fatto che questa autoriforma dall’interno del sistema sovietico non è avvenuta, quest’ultima avrebbe potenzialmente potuto avvenire oppure bisogna concluderne che, appunto perché di fatto essa non è avvenuta, non avrebbe mai potuto neppure potenzialmente avvenire? La formulazione della domanda è un po’ contorta, ma credo che sia metodologicamente utile per la nostra discussione. 52. Se si studiano nella loro totalità unitaria i settantaquattro anni che intercorrono fra il 1917 e il 1991 ci si accorge facilmente che non esiste nessuna fatalità, nessun meccanicismo, nessun determinismo nessuna teleologia obbligata, e che tutto avrebbe potuto andare anche diversamente. E così come non c’era nessuna fatalità nella rivoluzione del 1917, che avrebbe tranquillamente potuto non avere affatto luogo senza interventi soggettivi decisivi (di cui quello di Lenin fu certamente determinante), nello stesso modo non ci fu nessuna fatalità nel vergognoso crollo dissolutivo del 1991, che avrebbe anche potuto non avere luogo se si fossero formate, come era del tutto possibile, soggettività politiche organizzate alternative. Nessuna fatalità nel 1917, nessuna fatalità nel 1991. E quindi, onore e gloria agli eroi del 1917, vergogna e infamia ai criminali del 1991. Vorrei insistere molto con il lettore su questo rifiuto di ogni fatalismo deterministico. Nella storia non tutto è possibile, ma in generale molto è possibile. Non sono uno storico professionale, ma ho letto e studiato molto a proposito di storia russa e sovietica. Il lettore mi perdonerà quindi se nei prossimi paragrafi svilupperò una mia personale ricostruzione della storia del comunismo russo, che ha come principio ispiratore il fatto che non fu affatto fatale la rivoluzione del 1917, nello stesso modo non fu affatto fatale la dissoluzione del 1991. Nello stesso modo, una autoriforma interna

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del modello comunista staliniano del 1929 avrebbe potuto avere luogo, e non solo come aspirazione utopica settaria, ma come potenzialità oggettiva (per dirla in greco antico, dynamei on). La mia insistenza su questa convinzione è dovuta a un convincimento profondo. A chi ritiene plausibile un profilo di comunismo comunitario non conviene né il rinnegare Marx, pensando che siamo già andati oltre quando non siamo affatto stati capaci di andarci, né il rinnegare Lenin, che seppe portare la critica del capitalismo alla critica dell’imperialismo e all’affermazione dell’attualità della rivoluzione, né l’accettare la doppia liquidazione del novecento come secolo mostruoso delle ideologie utopiche ed assassine e dell’intero comunismo storico novecentesco come leggenda nera del mostro baffuto Stalin. Per quale altra ragione avrei dedicato alla discussione del marxismo una buona parte di questo saggio? Per il fatto che ogni fondazione del comunismo comunitario non può e non deve recidere del tutto le radici con la teoria di Marx e con l’esperienza del comunismo storico novecentesco, nonostante il fatto che la teoria di Marx così com’è non funziona, a causa dell’intreccio di positivismo e di utopismo, e che le vicende del comunismo abbiano prodotto uno dei profili antropologici più schifosi dell’intera storia universale, quella del burocrate comunista cinico e nichilista, pronto a passare velocemente dalla direzione burocratica al servizio della mafia dei “nuovi russi” e degli speculatori stranieri. E tuttavia, un altro esito sarebbe stato possibile. 53. I dodici anni che intercorrono fra il 1917 e il 1929 in URSS sono stati anni di sperimentazione sociale e politica largamente obbligata. Lenin fece grandi sforzi fra il 1917 e il 1924 (anno della sua morte) per inserire il nuovo e inedito evento della Rivoluzione russa all’interno dei rassicuranti schemi ortodossi della teoria di Marx. Questa era la sua mentalità, questo era il suo codice teorico, e non avrebbe mai potuto fare diversamente. In questo modo, però, Lenin finì con il contribuire con la sua gigantesca

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autorità teorica di capo di una rivoluzione vittoriosa a fondare un equivoco gigantesco, quello del carattere marxiano-marxista di una rivoluzione che non era né marxiana né marxista se non per il suo spirito. Un evento radicalmente nuovo, che avrebbe dovuto essere concepito, pensato e interpretato in modo anche teoricamente e filosoficamente nuovo, veniva sottoposto a una protesi deformante, l’adattabilità o meno al codice primario di Marx e/o al codice secondario dell’ortodossia marxista Engels-Kautsky del ventennio 1875-1895. Prima o poi, la sperimentazione del dodicennio 1917-1929 avrebbe dovuto comunque finire, e un’ipotesi di costruzione del socialismo in termini di esperimento di ingegneria sociale a base antropologica più ancora che puramente economica avrebbe comunque dovuto essere realizzata. Contro ogni visione puramente economicista del problema, la stessa pianificazione economica centralizzata (i piani quinquennali) era messa al servizio di un progetto prometeico di tipo antropologico, la creazione dello homo sovieticus. Ed è quello che si ostinano a non capire tutti quegli storici e quegli storiografi che si accostano al fenomeno del comunismo staliniano con schemi inadatti a capirlo, dallo schema trotzkista del tradimento termidoriano di un ceto burocratico parassitario allo schema economicistico della semplice “economia amministrativa di comando”. 54. Il periodo propriamente staliniano (1929-1953, o meglio 19241956) deve essere interpretato secondo un angolo visuale corretto, e certamente non può essere capito in base all’assurdo parametro del maggiore o minore presunto allontanamento e/o avvicinamento al modello astratto e atemporale della pura, purissima teoria originaria di Marx e/o di Lenin. Il fatto che questo modello assurdo del giudizio complessivo sullo stalinismo in base al dato spaziale dell’allontanamento e/o dell’avvicinamento a Marx o a Lenin abbia avuto tanta fortuna, almeno fino al triennio dissolutivo 1989-1991, è dovuto al carattere teologico della mentalità dominante fra i cosiddetti “marxisti”. Il fatto di dichiararsi atei e di non credere in

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Dio, ma soltanto nella materia in perenne movimento nello spazio e nel tempo, infatti, non garantisce assolutamente che non si abbia egualmente una mentalità teologica. La mentalità teologica è infatti del tutto indipendente dall’irrilevante affermazione soggettiva che si crede o non si crede in Dio, in quanto è molto facile scrivere dio con la minuscola, affermare che è frutto di ignoranza e/o di alienazione, e poi sostituirlo con altre entità variamente destoricizzate o positivistizzate. Questa entità in generale nei comunisti può essere definita come la storia spogliata della sua forma storica. Con questa definizione, solo apparentemente straniante e paradossale, intendo una divinizzazione positivistica del progresso storico (concetto borghese al cento per cento, un concetto ideologico solo borghese per nulla veramente razionale e universalistico), per cui alla storia è attribuita una direzionalità obbligata verso un punto finale del futuro teleologicamente assolutizzato. Questa storia ha come caratteristica di non essere appunto più “storica” per nulla, e di essere pertanto una pseudo-storia spogliata di ogni sua forma realmente storica. Il fatto che nella ideologia staliniana il materialismo storico (inteso come teoria della successione dei modi di produzione sociali) sia stato ritenuto insufficiente per fondare la concezione comunista globale del mondo, e si sia ritenuto di dovergli aggiungere il materialismo dialettico come suo complemento necessario e indispensabile non è affatto casuale. Una storia spogliata della sua forma storica ha bisogno di una metafisica della materia in cui la materia stessa non ha neppure più un vero rapporto con la stessa “materia” intesa come oggetto delle scienze fisiche e naturali, ma è una semplice metafora ideologica di legittimazione della sacralità di una linea politica, in cui la linea politica diventa la manifestazione della volontà di Dio nel mondo. A una storia spogliata della sua forma storica (materialismo storico) si sovrappone così una materia spogliata della sua forma materiale (materialismo dialettico). Oggi che queste due forme ideologiche hanno perduto qualsiasi residua funzione di legittimazione politica (esse non l’hanno più neppure in Cina, Cuba, Vietnam, eccetera), è necessario possedere molta fantasia storiografica per poter capire il ruolo che hanno avuto nel Novecento.

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E tuttavia, il cuore della comprensione dello stalinismo sta nel suo progetto titanico e prometeico di modificazione antropologica del comportamento umano. Questa è anche la radice dell’entusiasmo che esso suscitò nei suoi sostenitori. Nessuno si entusiasma per un piano quinquennale o per la sostituzione di un apparato amministrativo alle cosiddette (e in realtà inesistenti e mai esistite) forze “spontanee” del mercato, feticcio idolatrico degli economisti liberali. 55. Come definire in modo soddisfacente il grande esperimento di ingegneria antropologico-sociale sotto cupola geodesica protetta chiamato stalinismo, un fenomeno difficilmente inseribile all’interno dello schema categoriale di Marx, non essendo né uno schiavismo, né un feudalesimo, né un sistema asiatico, né un capitalismo, e neppure un socialismo o un comunismo nel significato marxiano del termine? Non è certo utile “stirare” le categorie marxiane spinti dal maniacale bisogno di poterci inserire a ogni costo lo stalinismo. In fondo, è sempre possibile trovare nelle isole del Madagascar o del Borneo specie animali non ancora scoperte dall’uomo, che devono quindi ricevere un nome nuovo. In primo luogo, il socialismo e il comunismo di Stalin non c’entrano nulla con i significati dati a suo tempo da Marx, e non è pertanto utile seguire la strada teologica e scolastica del “tradimento”, della “deviazione” o della “falsa interpretazione” di Marx, da “raddrizzare” con un ritorno all’ortodossia. Come ho già detto in precedenza, questa via teologica deve essere assolutamente evitata. In secondo luogo, è parimenti da respingere la categoria più diffusa nel pensiero liberale anticomunista, quella di “totalitarismo”. Tutte le società, per riprodursi, devono riprodursi nella totalità dei loro rapporti di produzione, per cui il termine di totalitarismo è pleonastico e del tutto tautologico. Chi usa questa categoria la usa nel senso di “dispotismo”, ma allora è meglio usare direttamente la categoria classica di dispotismo o semplicemente di “tirannia”. Ogni tirannia e ogni dispotismo, però, vengono esercitati per con-

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to di un gruppo sociale contro un altro, a meno però che si voglia usare (vedi Krusciov nel 1956) la categoria priva di senso di “culto della personalità”. Ma i culti della personalità sono sempre esercitati per conto della garanzia degli interessi collettivi di un gruppo sociale specifico, e infatti la teoria trotzkista afferma che il culto della personalità di Stalin era esercitato per conto degli interessi collettivi della burocrazia del partito comunista. In terzo luogo, tuttavia, la categoria di burocrazia non spiega assolutamente nulla, perché chi la usa (i trotzkisti, appunto) ha l’onere della prova che il sistema socialista potrebbe tranquillamente funzionare sulla base dell’autogoverno politico e della autogestione economica. Si tratta di una tesi molto meno plausibile di quella dell’esistenza di un Dio personale in cielo, in quanto presuppone appunto l’armonia prestabilita (Leibniz) e l’automatismo di meccanismi di mercato “socialisti”. In quarto luogo, non funziona neppure la teoria del cosiddetto “capitalismo di stato”. Il capitalismo, infatti, si riproduce necessariamente attraverso il conflitto e la concorrenza mercantile, che regolano la trasformazione delle categorie del plusprodotto nelle categorie “mercantili” del profitto, dell’interesse e del salario. Inoltre, il capitalismo di stato presuppone appunto lo “stato”, e lo stato a sua volta presuppone la proprietà individuale, la famiglia e la relativa autonomia della società civile. Lo stato fascista di “eccezione” è una anomalia provvisoria del funzionamento capitalistico, non certamente la sua forma perfetta finale, come ha opinato erroneamente Horkheimer negli anni Trenta, scambiando la provvisoria vittoria del nazionalsocialismo tedesco dopo il 1933 in Germania per una nuova forma stabile e permanente delle istituzioni del modo di produzione capitalistico. Lo stalinismo può quindi essere approssimativamente definito come una sorta di comunismo dispotico di partito, un socialismo di partito a base operaia e contadina, o se si vuole ancora un dispotismo operaio sul resto della società, e in particolare sulle classi medie. In questa definizione, assolutamente provvisoria e imperfetta, proposta qui semplicemente perché tutte le altre possibili

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sono ancora meno soddisfacenti, non c’è nessun moralismo e nessuna provocazione ideologica, ma c’è semplicemente il bisogno di cambiare il mazzo delle carte da gioco con cui giocare, perché i mazzi precedenti hanno le carte logorate o addirittura truccate. Non ha infatti senso ripiegare sull’argomento infantile per cui quello di Stalin non è mai stato un “vero comunismo”. È chiaro che non è mai stato un “vero comunismo”! Ed è curioso che confusionari che si considerano “marxisti” usino una categoria così platonicamente strampalata come quella di “vero comunismo”. Forse che il comunismo è una idea platonica che anziché nella storia si trova nell’iperuranio di Platone? Quello di Stalin non è certamente stato un “vero comunismo”, né tantomeno un’applicazione storica del comunismo di Marx, definito platonicamente il “vero comunismo”. È stato l’unico modello di comunismo che le concrete classi operaie, contadine e proletarie hanno saputo costruire nel Novecento. 56. Nel contesto del discorso che stiamo faticosamente conducendo sul rapporto fra idea comunista e progetto comunitario il punto essenziale sta in ciò, che il dispotismo sociale egualitario derivato dal progetto di ingegneria antropologica di Stalin (lo homo sovieticus da ottenere mediante la pianificazione economica dei bisogni collettivi) è del tutto incompatibile con l’idea di comunità, in quanto presuppone al contrario l’individualizzazione anomica di tutti i soggetti sociali. Si tratta di uno dei punti più trascurati dalla critica, nonostante gli studi di Louis Dumont e di Michel Henry. Il fatto che la comunità degli studiosi autonominatisi “marxisti” abbia sempre finto che Dumont e Henry non siano mai esistiti segnala che questa comunità è del tutto irriformabile dall’interno, e così com’è deve essere spazzata via dall’esterno da uno sconvolgimento culturale e dal conseguente cambiamento di paradigma scientifico (Thomas Kuhn) che in genere questi sconvolgimenti culturali comportano. Lo sviluppo della sovranità comunitaria sulla riproduzione sociale presuppone il mantenimento di un quadro istituzionale che pre-

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servi la fioritura della famiglia e della società civile, in presenza ovviamente di un quadro statale democratizzato e fornito di solide garanzie individuali di tipo non-proprietario. Certo, bisogna credere alla possibilità della fioritura di una individualità senza proprietà privata, configurazione sociale fino a oggi effettivamente mai esistita nella storia, che non può e non potrà mai essere “dimostrata” scientificamente, come pensavano invece sia Marx che Engels. Un presupposto di questo progetto è certamente l’abbandono dello stupido e irrealizzabile programma prometeico-messianico dell’avvento del cosiddetto uomo nuovo. L’uomo nuovo è semplicemente un incubo burocratico, da lasciare ai deliri degli utopisti ferocemente anticomunisti come Aldous Huxley e George Orwell. Questi progetti di ingegneria sociale sono appunto il risultato della fusione di positivismo e di utopismo, o più esattamente di una utopia costruita con metodi presunti scientifici. Ma la scienza dell’uomo è sempre per sua stessa natura comparativista e descrittiva, non ingegneristica e normativa. Mi sono soffermato a lungo sul pensiero greco appunto perché il pensiero greco è sempre stato privo (al di fuori del solo Platone “politico”) di elementi di costruttivismo utopistico a base messianica. Non ha mai infatti cercato di costruire “uomini nuovi”, ma ha semmai insistito sull’educazione (paideia) come strumento per la selezione dei migliori governanti. E tuttavia, ciò che conta è ribadire qui con la maggiore chiarezza possibile che ogni modello di comunismo comunitario non è, e non può essere, un modello di ingegneria sociale sotto cupola geodesica protetta che ha al centro un progetto di modificazione antropologica dell’uomo. È invece il moderno capitalismo che ha al centro questo progetto, di trasformare l’uomo cioè in un fattore astratto flessibile e precario orientato al consumo e privato di ogni sovranità decisionale. Si tratta di un vero e proprio stalinismo di centri commerciali, gestito da oligarchie dispotiche che svuotano qualunque decisione politica di gruppi, individui e comunità.

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57. Il progetto di Stalin può quindi essere sommariamente connotato come un’ingegneria sociale a contenuto antropologico per la costruzione di una società senza classi attraverso un comunismo politico di partito sotto cupola geodesica protetta. L’ascendente storico-teorico non è quindi in alcun modo il comunismo di Marx, ma è il comunismo utopistico, e più esattamente una variante asiatico-dispotica del comunismo utopistico. Questo progetto – lo ripeterò fino alla noia – non deve essere valutato in base a parametri che gli sono completamente estranei, come la teoria originale (non sistematizzata e non coerentizzata) di Marx, come il modello di marxismo Engels-Kautsky 1875-1895, come il socialismo di sinistra della Seconda Internazionale nelle sue due principali varianti (Rosa Luxemburg e Leone Trotzky), come il liberalismo europeo-­occidentale, o come infine le varie forme di marxismo indipendente filosofico occidentale (Lukács, Korsch, Gramsci, Sartre, Bloch, eccetera). Da un punto di vista storico, il modello di Stalin è stato l’unico modello che il comunismo storicamente inteso ha saputo produrre nel Novecento. Tito, Mao, Castro, i vietnamiti, eccetera, ne sono stati sempre e soltanto varianti locali, a volte più moderate, a volte più estremiste. Gli stessi Krusciov e Breznev in URSS non hanno potuto modificare il modello di Stalin, ma lo hanno soltanto indebolito attraverso irrigidimenti burocratici o finte liberalizzazioni, che alla fine hanno soltanto dato luogo ai presupposti della controrivoluzione sociale dei ceti medi sovietici e alla restaurazione in forma mafiosa di un inedito capitalismo selvaggio. Il fatto che il modello di Stalin sia stato l’unico modello di comunismo storico realmente avvenuto nel Novecento è ovviamente oggetto di inorridita rimozione da parte di tutti i confusionari che si richiamano al “comunismo” come se fosse un innocuo ideale regolativo della ragion pura pratica di tipo kantiano, uno stato d’animo generico di disagio per la vita quotidiana nel capitalismo e per i valori aberranti e disumani cui necessariamente si ispira, o semplicemente una variante del codice mutevole della cosiddetta “sinistra” europeo-occidentale, frutto dell’incesto di sensibilità

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libertarie all’interno del solido riformismo socialdemocratico pienamente capitalista, colonialista e imperialista (e oggi dominato dall’impero americano, non importa se sotto un Imperatore Bianco Cattivo o un Imperatore Negro Buono). E il paradosso sta in ciò, che fino a quando questa grottesca rimozione non verrà superata sarà impossibile un vero superamento e un vero congedo dal modello staliniano di comunismo. L’abbandono reale e non solo verbale dell’unico modello di comunismo prodotto nel Novecento (la costruzione di una società senza classi attraverso un comunismo dispotico di partito) passa attraverso la fine della rimozione, della demonizzazione e della esorcizzazione del modello di Stalin. Ne siamo però ancora lontanissimi. Tutti gli apparati giornalistici, editoriali, ideologici e politici dell’area confusionaria e sterile definita di “sinistra” sono in mano a questi esorcizzatori, che credono di poter mantenere pura la loro (miserabile) anima bella insolentendo l’unico personaggio storico novecentesco, e cioè Stalin, che ha prodotto concretamente un modello pratico di comunismo reale. 58. Analizziamo ancora una volta questo modello, senza paura di ripeterci e di ripeterci, perché prima di congedarsi bisogna fare lo sforzo di capire da cosa esattamente ci congediamo. Il modo migliore di ripetersi è ripetersi per punti. L’eleganza dell’esposizione ci rimetterà, ma in compenso la completezza della riflessione ci guadagnerà. In primo luogo, il modello di Stalin è un modello di ingegneria sociale. In quanto modello di ingegneria sociale, non ha letteralmente nessun rapporto con la teoria di Marx, anche se ha certamente un rapporto con l’intenzione anticapitalistica soggettiva di Marx. Decida il lettore se un rapporto su base intenzionale basta per istituire un vero rapporto nel senso marxiano e marxista del termine. In secondo luogo, il modello di Stalin è un modello di ingegneria sociale a base politica di partito. Anche in questo caso, il rapporto con Marx è inesistente. Il Manifesto del Partito Comunista di

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Marx del 1848 era il manifesto di un “partito” inteso come tendenza storica immanente alla società, non certo il manifesto di un partito “leninista”, inesistente prima del Che Fare? di Lenin. In terzo luogo, il modello di Stalin è un modello di ingegneria sociale a base politica di partito rivolto alla creazione di un modello antropologico diffuso di massa, l’uomo nuovo, oppure lo homo sovieticus. Il cosiddetto “totalitarismo”, che in realtà è un dispotismo sociale egualitario a base partitica, ha di mira un obbiettivo mai esplicitamente perseguito nella storia, e cioè una società senza classi. Sulla base di questi tre punti, si apre un dilemma dicotomico. Primo, ci si può chiedere se il programma di una società senza classi, e cioè senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sia perseguibile in via di principio, oppure non sia perseguibile per nulla, e sia appunto “utopico”. Secondo, si può invece mantenere il principio per cui esso resta perseguibile, ma non però nel modo con cui Stalin lo perseguì, attraverso un progetto di ingegneria sociale di tipo partitico sotto una cupola geodesica protetta. 59. In estrema sintesi, la legittimazione di un profilo teorico di comunismo comunitario si basa solamente su di un superamento razionale del modello staliniano di costruzione di una società senza classi comunista, superamento che non può avvenire sulla base della sua demonizzazione e della sua esorcizzazione, segnali inequivocabili di una rimozione infantile. In proposito, è necessaria la secessione più radicale e integrale, almeno sul piano teorico e culturale, non solo da tutto ciò che resta della cultura di “sinistra” (di cui parlerò nel prossimo capitolo), ma anche da tutti i progetti di ricostruzione micropartitica e microgrupprettara, progetti accomunati dal fatto di ignorare infantilmente le ragioni del fallimento del comunismo storico novecentesco, fallimento la cui “colpa” e sistematicamente scaricata sul “cattivo” Stalin.

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60. Nonostante mi sia già soffermato a lungo sulla teoria hegeliana dello Spirito Oggettivo e dello Spirito Assoluto, conviene non lasciare dubbi in proposito, e ripetere alcuni punti centrali. Il modello di Stalin, l’unico modello prodotto nel Novecento, si basa infatti per differenza e per contrasto sulla negazione più radicale possibile della teoria hegeliana dello Spirito Oggettivo e dello Spirito Assoluto. Dal momento che questa teo­ria si articola in sei punti, il modo migliore è riassumerla qui ancora una volta in sei punti: (A) La Famiglia, come tesi dello spirito oggettivo. Il modello staliniano ha completamente espropriato la famiglia di ogni funzione educativa, scegliendo la via dell’educazione integrale pubblica ideologizzata del partito-stato. Errore. Espropriare la famiglia di questa funzione porta a una ideologizzazione integrale dello spazio educativo. Lo studioso cinese Ji Wei Chi ha elaborato in proposito un’interpretazione molto intelligente del fallimento del maoismo in Cina (che mutatis mutandis può essere applicata anche all’URSS e al comunismo in generale). Secondo Ji Wei Chi se tutte le virtù morali vengono succhiate, assorbite e concentrate nel progetto pubblico della costruzione del comunismo, una volta abbandonato questo progetto anche ogni morale viene abbandonata con esso, e si passa direttamente (sono parole di Ji Wei Chi) dall’utopismo al consumismo. In mancanza di un forte potere centrale di tipo “legistico” (come fortunatamente esiste ancora in Cina, con connessa condanna a morte di inquinatori di alimenti per bambini), il passaggio dall’utopismo al consumismo si verifica (vedi Russia) come passaggio diretto dall’utopismo alla criminalità mafiosa dei “nuovi russi”, uno dei tipi umani più sgradevoli e ributtanti prodotti dall’intera esperienza comparata della storia universale. Ne consegue che la famiglia, pur democratizzata, e resa meno maschilista e più egualitaria, deve essere mantenuta e anzi rafforzata nel comunismo, come centro non solo di amore coniugale ma anche e soprattutto di educazione etica dei figli. La ferocia individualistica, anomica e antifamiliare della cultura di sinistra e del femminismo è quindi un nemico di qualsiasi progetto di comunismo comunitario.

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(B) La Società Civile, come antitesi dello Spirito Oggettivo. Essa si basa soprattutto sul rispetto della professionalità e della competenza del lavoro, professionalità messa in pericolo da ogni ideologizzazione esterna al lavoro stesso. Tutto il luddismo distruttivo di presunte rivoluzioni culturali non importa se a Parigi o a Pechino, finisce con l’accanirsi su di un bersaglio sbagliato. Credendo di colpire il capitalismo (Parigi) o i progetti di restaurazione del capitalismo (Pechino), questo luddismo distruttivo apre la strada – quasi sempre in buona fede e senza saperlo – al cinismo della pura speculazione finanziaria, la cui base sta appunto nel disprezzo più ostentato per il lavoro materiale e spirituale non direttamente monetizzabile. L’odio dei ceti medi sovietici verso il sistema comunista si è infatti nutrito dell’indifferenza dell’ideologizzazione comunista verso il lavoro ben fatto, ma dal momento che i ceti medi sovietici ferocemente anticomunisti non disponevano del denaro sufficiente per partecipare alla corsa sfrenata all’accumulazione capitalistica la loro vittoria si è presto trasformata in sconfitta, e la loro miserabile vittoria sul comunismo staliniano, tanto migliore di loro (in proposito la mia opinione si avvicina assai più a quella di Zinoviev che a quella del pur rispettabile Solzenitsyn), è stata “espropriata” dai mafiosi riforniti di capitali dalle bande esterne anglosassoni, siciliane e sioniste. (C) Lo Stato, come sintesi dello Spirito Oggettivo. Su questo mi sono già espresso con chiarezza nei paragrafi precedenti. La teoria dell’estinzione dello stato non solo non è praticabile, e deve essere archiviata storicizzandola e spiegandone la genesi ideologica specifica, ma è di fatto soltanto una variante subalterna di “sinistra” della teoria del mercato autoregolato dalle armonie prestabilite della “mano invisibile”, teoria inglese di tipo ultracapitalistico (Smith, eccetera). Certo, non può essere escluso che in un lontano futuro, in condizioni storiche per ora del tutto inimmaginabili neppure con la fantasia più sfrenata lo stato possa essere sostituito da forme istituzionali diverse. Ma nell’orizzonte storico di una futuribilità razionalmente prevedibile il massimo che si può ipotizzare è l’orizzonte della democratizzazione radicale dello stato,

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unita al salvataggio esplicito dell’identità linguistica e culturale della nazione (cosa che non ha ovviamente nulla a che fare con lo sciovinismo nazionalistico, con il colonialismo e con il razzismo, ma si oppone anzi a queste forme degradate). (D) L’Arte come tesi dello Spirito Assoluto. Collocando l’Arte nello Spirito Assoluto anziché nello Spirito Oggettivo Hegel intende affermare apertamente che l’arte non una istituzione pubblica dello stato e non deve pertanto in alcun modo essere controllata da esso. Con questo, non si intende ovviamente dire che nella sua lunga storia l’arte ha seguito uno sviluppo del tutto indipendente dalla politica. Dai bassorilievi assiri che propagandavano le conquiste dei re fino all’arte cortigiana barocca è del tutto chiaro che l’arte è stata sottomessa al potere. E tuttavia Hegel, sottolineando l’”assolutezza” dell’arte, ne nega l’incorporazione “oggettiva” nei meccanismi di propaganda del potere. L’esperimento staliniano promosse come è noto la teoria degli scrittori come “ingegneri delle anime” e il primato dei canoni del cosiddetto “realismo socialista”, anche se la tattica di Willy Münzenberg di seduzione degli artisti occidentali di sinistra portò a una linea più flessibile di attenzione verso le cosiddette “avanguardie” (Picasso, eccetera). E tuttavia la linea di controllo burocratico dei fenomeni artistici non poté che portare in breve tempo al distacco della maggior parte degli scrittori e degli artisti dal regime, e quindi dal comunismo politico. In occidente, invece, la relativa maggiore indipendenza degli artisti e degli scrittori dalla politica strettamente intesa portò alla subordinazione al mercato capitalistico dell’arte e alla mercificazione integrale dell’attività artistica, fino a un vero e proprio dominio generalizzato di una “estetica del brutto” (Mavrakis). (E) La Religione come antitesi dello Spirito Assoluto. Il comunismo novecentesco scelse la via della contrapposizione totale alla religione, ridotta a ignoranza e a superstizione. In questo senso, il comunismo non fece che rivelare la sua natura incurabilmente borghese, erede dell’illuminismo settecentesco e del positivismo ottocentesco. È del tutto comprensibile che in Russia dovesse ac-

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cadere qualcosa di simile, data la fusione fra chiesa ortodossa russa e regime feudale zarista. Ma la generalizzazione di questo atteggiamento al mondo intero, e cioè al comunismo come fenomeno mondiale, fu forse il più grande errore strategico che avrebbe mai potuto commettere. La religione, ovviamente in forme diversissime nel tempo e nello spazio, è con tutta probabilità una forma permanente di rapporto dell’uomo con il significato della propria vita, e pretendere di abolirla è altrettanto sciocco e astratto di pretendere di abolire la forma statuale della convivenza umana. (F) La Filosofia come sintesi dello Spirito Assoluto. Così come è stato un fatto negativo stabilire il realismo socialista come canone preferenziale dell’esperimento socialista, nello stesso modo è stato un errore ancora più grande imporre una filosofia di partito, e cioè di stato, denominata “materialismo dialettico”. Realismo socialista, ateismo scientifico e materialismo dialettico, e cioè le tre forme di “spirito assoluto” comunista novecentesco, hanno mostrato non solo l’erroneità strategica di questa forma di “oggettivizzazione dell’assoluto” (uso qui volutamente una terminologia hegeliana), ma anche la fragilità ideologica a lungo termine dell’intero esperimento. Certo, si trattò di una fragilità ideologica obbligata dalle circostanze storiche. Per questa ragione non ha senso demonizzarla, mentre ha invece senso cercare di “superarla” (Aufheben) realmente. Ma la rimozione è il modo peggiore di aprirsi al vero superamento. 61. La dissoluzione del comunismo storico novecentesco ha comportato un fenomeno storico che il filosofo francese Alain Badiou ha correttamente connotato come la Seconda Restaurazione. Come la prima restaurazione (1815-1830 circa) ha visto un rinnegamento isterico dell’intero Settecento e della Rivoluzione francese, nello stesso modo la seconda restaurazione ha comportato una colpevolizzazione dell’intero ventesimo secolo, connotato come il secolo delle utopie totalitarie. La grande crisi economica scoppiata nell’autunno del 2008, anche se ha visto la fine provvisoria

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dell’orgia neoliberista più sfacciata, non ha però modificato qualitativamente la seconda grande restaurazione. Essa durerà probabilmente assai più a lungo della prima, ed è bene in proposito non farsi eccessive illusioni. La ragione della maggior forza di questa seconda restaurazione rispetto alla prima sta in ciò, che la borghesia europea nel quindicennio 1815-1830 aveva subito soltanto una sconfitta tattica, mentre continuava a essere in prospettiva strategicamente vincente. Per questa ragione dopo il 1830 riprese anche politicamente l’iniziativa. In questa seconda restaurazione, invece, le classi propriamente operaie, salariate e proletarie sembrano invece aver subito una sconfitta strategica, da cui è difficile (e a mio avviso quasi impossibile) che possano mai veramente riprendersi. E questo non certo perché la classe operaia sia tramontata, come dicono certi sociologi sciocchi. Numericamente parlando, anzi, se si vedono le cose sul piano puramente statistico, la classe operaia, salariata e proletaria non è mai stata tanto numerosa, dal momento che le ondate di industrializzazione hanno investito paesi nuovi. Qui si tratta di una sconfitta politica e ideologica delle classi subordinate, che non può essere esorcizzala né demonizzando il Novecento né riproponendone il modello comunista egemonico nel secolo appena trascorso. È questa la ragione per cui è necessario cercare vie nuove. La riflessione sul comunismo comunitario si inserisce appunto in questa ricerca di vie nuove.

Elogio del comunitarismo

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Introduzione L’ambivalenza strutturale del comunitarismo

Il lettore, che invito alla generosità e alla pazienza se per caso incontrerà inesattezze, conclusioni frettolose o analisi incomplete, si accinge ad esaminare un convinto elogio del comunitarismo. In realtà, avevo originariamente l’intenzione di usare l’espressione “nuovo comunitarismo”, per marcare con l’aggettivo “nuovo” il rifiuto delle vecchie forme di comunitarismo che hanno cosparso la storia dell’Occidente. Si va dal comunitarismo localistico e provincialistico che chiude sistematicamente la comunità stessa ai nuovi arrivati e agli stranieri, al comunitarismo organicistico che mette al bando ogni forma di dissenso anticonformistico dell’individuo; e dalla concezione del comunitarismo ad opera del fascismo e del nazionalsocialismo del Novecento, all’uso dell’etnicismo comunitaristico per distruggere oggi la sovranità degli stati nazionali. Per questa ragione, e cioè per non farmi confondere dal lettore con i sostenitori di queste quattro forme patologiche da respingere recisamente e senza ripensamenti, intendevo originariamente scrivere “elogio di un nuovo comunitarismo”. Pensandoci meglio, però, mi sono detto: ma perché fare l’ennesima concessione opportunistica al “nuovismo” imperante, che crede di risolvere questioni storiche e sociali aperte da millenni semplicemente premettendo la paroletta “nuovo” a considerazioni quasi sempre vecchie come il cucco e semplicemente riverniciate con

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termini oggi alla moda (ma domani chissà)? Se infatti l’uso (e l’abuso) del termine “comunitarismo” ha una storia di duemila anni, una ragionevole e praticabile nozione di “comunità” (koinonia) ci è stata tramandata dai nostri maestri greci, ed in particolare (ma non solo) da Aristotele, e percorre come un filo rosso tutto il pensiero occidentale fino a giungere alla nozione di “etica sociale” (Sitten, Sittlichkeit) in Hegel e di “comunità” (Gemeinwesen) nello stesso Marx, spesso frettolosamente ed erroneamente considerato un pensatore rigidamente “classista”, laddove il suo innegabile classismo era solo un mezzo per giungere a un fine, che era appunto quello della comunità. Sulla base di queste considerazioni, e di altre ancora che saranno sviluppate con ordine nel quarto capitolo di questo scritto, mi sono reso conto che un uso corretto del termine “comunità” non aveva bisogno di precisazioni di tipo “nuovistico”, ed ho allora deciso per la soluzione più semplice e chiara, e cioè per l’elegante titolo di “elogio del comunitarismo”. Un elogio è un elogio, ossia un ragionamento che vuole essere dialogico e non apodittico, aperto e non chiuso, che invita il lettore a prendere in considerazione i motivi che giustificano questo elogio stesso. In uno scritto pur breve come questo, di ragionamenti se ne possono trovare alcune decine, più o meno autonomi e indipendenti o invece concatenati insieme. Ma seguendo una mia personale interpretazione di quello che si chiama il “rasoio di Occam”, dal nome del noto filosofo nominalista medievale, rivoluzionario, pauperista, francescano spirituale e sostenitore di una chiesa invisibile di persone che praticavano nei fatti la semplicità evangelica, sono convinto che per ogni “causa”, anche la più complessa ed articolata, ci sia sempre uno e un solo argomento che la sostiene, ed è inutile e fuorviante elencarne molti quando in realtà ce n’è uno solo che regge l’intera architrave, per cui se cade quello cade l’intero edificio. Questo ragionamento viene analiticamente svolto nel sesto e ultimo capitolo, e mi è sembrato giusto fare così, perché è dalle conclusioni che si giudica un testo. Mi pare, tuttavia, opportuno

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anticiparlo subito, in modo che il lettore se ne possa fare subito un’idea. In estrema sintesi, se intendiamo uscire da una chiusura provinciale e vogliamo aderire ad un processo storico di universalizzazione umana, che non sia solo l’attuale caricatura che universalizza unicamente la forma di merce uniformando tutti gli esseri umani al solo modello del produttore e del consumatore manipolati, non possiamo evitare la questione cruciale di quale sia il punto di partenza migliore per poter sviluppare questo dialogo fra culture e civiltà del mondo. Ed il migliore punto di partenza non è l’individuo isolato, l’individuo atomizzato, a volte addirittura definito “multiculturale”, come se un atomo multiculturale cessasse di essere un atomo, ma può esserlo solo un individuo sociale, ed individuo sociale significa individuo in comunità. A questo punto, non vedo perché non si possa chiamare “comunitarismo” il punto di vista dell’individuo collocato in una comunità, sia pure ovviamente in modo critico e anticonformistico. Come si vede, fedele al “rasoio di Occam”, ho inteso esprimere subito il nucleo del problema con un solo ragionamento. Non mi è sembrato giusto e serio scrivere nel titolo “manifesto politico per il comunitarismo” per una ragione semplicissima che intendo subito esplicitare qui. I manifesti politici non possono essere “clonati” a freddo da un pensatore nel suo studio, ma possono soltanto “emergere” da un movimento storico reale già visibile ed esistente. Quando nel 1848 Marx ed Engels scrissero il famoso Manifesto del Partito Comunista, il comunismo come movimento storico e come partito politico non esisteva ancora, ma esisteva invece già, e si stava sviluppando, quel soggetto storico costituito dalla classe operaia, salariata e proletaria che Marx ed Engels ritenevano in grado di poter egemonizzare e guidare la transizione storica dal capitalismo ad una società senza classi. Non è certo questo il caso oggi per il “comunitarismo”. Il massimo che si può allora fare è un semplice “elogio”. Ogni vero elogio che non sia un’ipocrita adulazione non nasconde i difetti del proprio oggetto, ed è anzi evidenziandoli che si merita

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l’appellativo di “elogio”. Per questa ragione ho definito il comunitarismo un concetto ambivalente, o se si vuole strutturalmente contraddittorio. So bene che per la corrente di pensiero chiamata “filosofia analitica” i concetti non possono essere contraddittori, e lo possono soltanto essere le proposizioni in opposizione reale. Ma io non sono un pensatore analitico, e rivendico anzi di essere un pensatore “continentale”, come si dice oggi in una terminologia demenziale che divide i filosofi a seconda che stiano di regola a Dover oppure a Calais. Hegel, che pure era un pensatore almeno altrettanto rispettabile dei filosofi analitici di oggi, pensava che la contraddizione fosse dovunque, e quindi anche dentro i concetti stessi. E questo vale allora anche e soprattutto per il comunitarismo. Non si tratta solo del fatto che una nozione o un profilo ideologico può essere “usato” per scopi opposti, così come una corda può essere usata per tamponare una ferita e quindi per salvare una vita oppure per strangolare una persona e causarne la morte. È del tutto chiaro che il comunitarismo può essere usato per scopi opposti, e cioè per richiudere una comunità in una autosufficienza razzista (la Volksgemeinschaft di Hitler) oppure per difendere la comunità stessa da una invasione che ne vuole cancellare la cultura e l’identità. Questo è del tutto evidente. Ma l’ambivalenza strutturale, e quindi la contraddizione insita nella nozione di “comunitarismo”, è molto più profonda. In estrema sintesi, essa consiste in ciò, che nella tradizione occidentale l’idea di comunità (o più esattamente di comunità politica democratica) nasce insieme e congiuntamente al suo potenziale elemento dissolutore, e cioè il libero individuo pensante, e spesso pensante contro la maggioranza dei membri della sua stessa comunità. È il caso, ad esempio, dell’ateniese Socrate, che già Hegel seppe interpretare come colui che rappresentò ad un tempo il punto più alto della civiltà comunitaria greca e l’inizio della sua stessa dissoluzione. Sarebbe assurdo che la contraddizione esistente nel concetto di comunità al tempo di Socrate oggi non esistesse più. Esiste an-

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cora, eccome! Ed infatti chi scrive questo elogio del comunitarismo, ed ancor più coloro che lo sostengono, lo condividono e lo diffondono, si trovano in una situazione molto simile a quella in cui si trovava l’ateniese Socrate. Da un lato, ritengono di prendere una posizione politica controcorrente e scomoda proprio perché si sentono partecipi della sorte della propria comunità, e non invece soltanto atomi individuali fluttuanti nell’aria della cosiddetta “globalizzazione”. Dall’altro, prendono atto del fatto che nella loro stessa comunità le idee dominanti non sono le loro, e sono anzi ben altre. Il non aver paura di essere in minoranza è dunque il presupposto di ogni filosofare intelligente e creativo, purché però l’essere in minoranza venga vissuto con disagio e insoddisfazione, e non con la compiaciuta presunzione di costituire un’isola di illuminati in un mondo di inguaribili pecoroni. Nella polarità costituita dagli individui e dalle comunità, polarità che può dialetticamente evolvere in un mondo di individui liberati inseriti in comunità solidali, ho deciso di scrivere questo convinto elogio del comunitarismo. Esso si struttura in sei parti strettamente legate insieme. Si inizia con un tentativo di definire la natura del momento storico in cui oggi ci troviamo. Si passa poi ad una critica parallela e convergente, volutamente non distruttiva, del liberalismo e della democrazia da un lato, e del marxismo e del comunismo dall’altro. Si passa poi al “piatto forte” del fondamento storico e filosofico di questo elogio, sviluppato nel capitolo quarto soprattutto attraverso le figure di Aristotele, Hegel e Marx. Dopo un importante inciso di critica alle forme patologiche e degenerate di comunitarismo razzista esistite nel Novecento (ma non solo), si conclude con uno sviluppo analitico dell’argomento già anticipato in questa premessa. Nessuno è al cento per cento, e quindi neppure questo saggio. Sarei allora già contento che fosse un buon saggio “battistrada” di futuri lavori che si muovessero in questa direzione. Spero di aver chiarito in questo modo le mie intenzioni soggettive. Queste precisazioni, ovviamente, non faranno né caldo né freddo al lettore malevolo e al gossip diffamatorio, ma saranno

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invece utili al lettore aperto e problematico. Il primo non mi interessa, il secondo sì. Questo elogio del comunitarismo intende contribuire ad una discussione che è appena agli inizi. Altri verranno dopo di noi e faranno certamente meglio di noi, perché meno invischiati in contenziosi con il recente passato novecentesco. *** Il lettore ha ovviamente il diritto di leggere come vuole questo elogio del comunitarismo e non ha nessun bisogno di leggere prima delle “istruzioni per l’uso”. Al tempo stesso, è forse utile un sincero chiarimento delle intenzioni soggettive con cui ho scritto questo saggio. Mi considero un allievo indipendente di Marx. Lo sono divenuto liberamente e senza alcuna pressione esterna intorno ai diciotto anni, non me ne sono mai pentito, e ritengo altamente probabile che continuerò ad esserlo sino alla fine della mia vita. Certo, sono anche un allievo di altri importanti pensatori della tradizione filosofica occidentale (in particolare i greci, Spinoza ed Hegel), ma di Marx lo sono un po’ di più, condividendone nell’essenziale l’utopia emancipativa universalistica ed il fatto che essa sia incompatibile con una strutturazione classista della società. Al contempo, condivido il progetto di Marx di considerare conoscibile (anche se è impossibile predeterminarne l’esito futuro, come ho ampiamente rilevato nel saggio) la totalità dinamica dell’insieme dei rapporti sociali capitalistici di produzione. Sulla base di questi due elementi, cadrebbe in un grosso errore colui che mi inserisse frettolosamente nella vastissima categoria dei marxisti pentiti o degli ex-marxisti, tipo Lucio Colletti. Non condanno affatto costoro, né moralisticamente, né scientificamente, perché so bene che vi sono contraddizioni insolute dentro Marx, e per quanto riguarda il marxismo si può dire non solo che fa acqua da tutte le parti, ma che, nel tempo, ha anche prodotto su larga scala un tipo umano medio cinico e nichilista, fra i peggiori della

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pur lunga storia dell’umanità. Sono allora cosciente del fatto che si può legittimamente abbandonare Marx e il marxismo, e non considero affatto traditori e rinnegati coloro che hanno compiuto questa scelta. Conoscendo l’ambiente bigotto, settario e soffocante della cosiddetta “comunità dei marxisti”, trovo perfettamente normale che molti se ne siano andati cercando aria più fresca. Non è questo però il mio caso. Io sono rimasto un allievo indipendente di Marx. Vorrei allora sconsigliare un (eventuale) recensore di questo saggio dall’interpretarlo come un mio passaggio dal marxismo al comunitarismo. Si tratterebbe di una lettura radicalmente sbagliata, anche se magari in perfetta buonafede. Questo lavoro non segnala un mutamento di orizzonti filosofici, ma intende gettare le prime fondamenta, ancora tutte da approfondire ed anche da modificare dove occorre, di una interpretazione comunitarista del pensiero e del metodo di Marx. Il lettore vede bene che si tratta di una cosa ben diversa. Almeno soggettivamente, rivendico di essere sempre sullo stesso terreno di Marx. Naturalmente, non pretendo di essere creduto sulla parola, ma che si prendano sul serio gli argomenti che ho cercato di esporre, in particolare nel decisivo quarto capitolo, che è il più lungo, articolato, “filosofico” e difficile. Non coltivo alcuna illusione. Ho smesso di coltivarne da molto tempo. So che nel mondo identitario della sinistra politicamente corretta, il termine “comunitarismo” continuerà ad essere interpretato come di “destra”, e questo a priori, senza neppure sforzarsi di discutere gli argomenti addotti. È dunque necessario scommettere su lettori nuovi, gente nuova, menti aperte, spiriti liberi e problematici, e soprattutto non incanagliti dal contenzioso identitario e dalla guerra civile simulata Destra/Sinistra in corso da decenni (e per quanto ancora in futuro, non saprei onestamente dire). Questa gente esiste.

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È bene aggiungere ancora un’ultima osservazione. Tenendo fermo il carattere universalistico ed emancipativo del pensiero di Marx, se ne possono dare sostanzialmente due interpretazioni, una di tipo classista e la seconda di tipo comunitarista. Le due interpretazioni non si escludono, ma si integrano. Marx, infatti, perseguiva l’utopia di una sola comunità umana mondializzata, e riteneva il classismo un mezzo e non un fine. Se vogliamo esprimerci in termini militari, il classismo era la sua tattica e il comunitarismo la sua strategia.

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I

Il Mondo attuale L’epoca delle guerre per il Nuovo Ordine Mondiale

1. Prendiamo il più famoso manifesto di filosofia politica degli ultimi tre secoli, e cerchiamo di imparare qualcosa. Nel Manifesto del Partito Comunista del 1848, Marx ed Engels, dovendo scegliere, fra le mille possibili, la connotazione fondamentale dell’epoca in cui stavano vivendo, hanno deciso che quella più importante era costituita dalla lotta di classe fra Borghesia e Proletariato. Avrebbero certamente potuto sceglierne altre, più moderate, ecumeniche e politicamente corrette. Perché il “politicamente corretto”, anche se non si chiamava ancora così, esisteva già al loro tempo. Potevano dire tante cose: siamo nell’epoca dello scontro fra progresso e reazione; siamo nell’epoca del faticoso avanzare della democrazia; siamo nell’epoca in cui la scienza deve confrontarsi con la superstizione; siamo nell’epoca delle ferrovie, che fanno da battistrada alla globalizzazione del mondo e dell’economia; siamo nella fase finale del superamento di quello che resta della società feudale e signorile; ed altre generiche e rassicuranti idiozie diffuse in quel tempo. Ed invece no. Questi nostri oggi dimenticati maestri ci hanno lasciato un messaggio chiaro (almeno per chi voglia chiarirsi le idee). Bisogna essere radicali nell’interpretazione del proprio tempo storico, anche se questo ci fa correre il rischio di essere unilaterali, di “spiacere” a possibili alleati posapiano. Bisogna versare vino vero

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e se poi qualcuno vorrà versarci dell’acqua, lo faccia pure nel suo bicchiere e non pretenda di farlo già nella bottiglia. In tutto questo saggio di elogio del comunitarismo mi ispirerò al loro esempio. 2. In che epoca stiamo vivendo? Vediamo. Viviamo forse nel­ l’epoca della fine delle ideologie che ci hanno ammorbato per due secoli? Ma non scherziamo. In primo luogo, ciò che viene chiamato “ideologia” non può essere eliminato dal pensiero umano, il quale non pensa soltanto (come forse sarebbe auspicabile) nei termini dell’arte, della filosofia e della scienza, ma rappresenta i propri interessi politici collettivi anche in forma quotidiana, mitica, utopica e spesso addirittura antropomorfica, e quindi necessariamente ideologica per sua natura. In secondo luogo, mai come in questo momento viviamo soffocati da ideologie di cattiva lega, come l’ideologia della riduzione dello stato ad azienda (l’azienda Italia), l’ideologia della fine definitiva della storia in un capitalismo eternizzato, l’ideologia dell’esportazione armata dei diritti umani e della democrazia occidentale, e via ideologizzando come non era mai successo prima d’ora. Viviamo forse nell’epoca della globalizzazione? A guardare le cose da vicino, non è affatto sicuro. La globalizzazione, infatti, si presenta furbamente come una descrizione neutrale delle cose (è in atto nel mondo la globalizzazione, lo vogliate o no), mentre in realtà si tratta di una prescrizione imperativa (globalizzatevi, o la pagherete cara!). Gli economisti e i sociologi sono in proposito molto divisi. Alcuni ritengono questo concetto adatto a descrivere quanto oggi avviene nel mondo, altri, invece, e con ottimi argomenti, sostengono che non lo è per nulla. Viviamo forse nell’epoca del progresso tecnico-scientifico? Indubbiamente questa connotazione appare a prima vista migliore delle due precedenti, ma se la si esamina da vicino vediamo che anch’essa presenta ambiguità molto forti. In primo luogo, la scienza e la tecnica non sono affatto la stessa cosa, e definire la tecnica

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come una semplice “applicazione” delle scoperte scientifiche non permette di comprendere il loro rapporto spesso conflittuale. In secondo luogo, l’isolamento della crescita delle scoperte scientifiche e delle loro eventuali applicazioni tecnologiche non ci dice assolutamente nulla della cosa più importante e interessante per noi, e cioè della natura dei rapporti sociali e della vita umana che ne può derivare. Bisogna dunque voltare le spalle alla retorica rassicurante sparsa a piene mani dal circo mediatico incorporato nelle strutture del potere economico che ci governa e soprattutto ai codici politicamente corretti della chiacchiera istituzionale e rifiutare le tre false soluzioni della fine delle ideologie, dell’inevitabile globalizzazione e del progresso tecnico-scientifico. Ben altra è la strada da prendere per capire la natura storica del presente in cui viviamo. La definizione filosofica del presente storico è infatti un’importantissima posta in gioco politica. Il filosofo Hegel, che in genere mostra di sapere sempre quello che dice, ha affermato che uno dei compiti della filosofia è connotare il proprio tempo “appreso nel pensiero”, e per quanto lo riguardava sostenne che il tempo in cui stava vivendo era “un’epoca di gestazione e di trapasso”. Di trapasso da un mondo precedente a un mondo posteriore e di gestazione di un mondo nuovo. Ecco, anche noi, come e forse ancora più di Hegel, stiamo vivendo in un’epoca di gestazione e di trapasso. Si tratta allora di capire da dove veniamo e dove stiamo andando. 3. A mio avviso non siamo ancora in grado di rispondere in modo veramente soddisfacente a questa domanda. È necessario congedarsi, cortesemente ma con fermezza, da tutte quelle concezioni futurologiche, e in realtà deterministiche, meccanicistiche e teleologiche, che per quasi tre secoli hanno preteso di prevedere il futuro, magari non nei dettagli, ma almeno nella tendenza principale. L’errore filosofico fondamentale che ha consentito questa illusione sulla previsione futurologica del futuro è di origine positivisti-

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ca, e si è basato sulla confusione fra il carattere predittivo delle scienze naturali, che hanno effettivamente una natura predittiva molto alta (anche se non certo integrale), e il carattere predittivo delle scienze economiche e sociali, che hanno invece una natura predittiva molto bassa e in realtà quasi inesistente, a causa della molteplicità delle variabili storiche e sociali e della connessa contingenza che questo comporta. Non è allora decentemente possibile dire dove stiamo esattamente andando. È certo possibile farlo, perché tanto la carta bianca su cui si scrive non protesta mai neppure di fronte alle più inverosimili idiozie. Ma se facciamo l’esperimento mentale di collocarci cento anni dopo il momento in cui scriviamo qualcosa, ci accorgiamo che ogni previsione perde utilità e significato. Si possono solo prevedere, e per di più senza neppure un alto grado di certezza, alcune costanti comportamentali e psicologiche umane generiche: ci saranno sempre persone altruiste ed egoiste, stupide e intelligenti, avide e generose, amanti del potere, delle ricchezze e degli onori, oppure disinteressate e fedeli alle loro utopie. Come si vede, un po’ poco come prevedibilità, tanto più se a questa parola viene aggiunto l’aggettivo “scientifica”. L’inquinamento progressivo e la distruzione dell’ecosistema, ad esempio, sono già maggiormente prevedibili, ma anche in questo caso i tempi e i modi non lo sono. E potremmo continuare con gli esempi, ma credo che l’essenziale sia già stato capito. Se il nostro avvenire non è oggetto di dimostrazione scientifica, è invece del tutto alla nostra portata l’individuazione di una tendenza storica che definirò di medio periodo. Ecco, questa è prevedibile. E qual è allora? In sintesi, è l’apertura, peraltro già ampiamente in corso, di una fase di guerre di tipo nuovo, guerre che certamente ricordano per analogia il ciclo di guerre per la supremazia imperialistica che hanno connotato gli ultimi due secoli, ma che hanno anche però alcuni aspetti nuovi ed inediti. Questa è dunque la connotazione fondamentale del tempo storico in cui viviamo: un tempo di guerre. Si tratta allora di scavare più in profondità e di vederci più chiaro.

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4. Il nuovo ciclo di guerre apertosi con la vergognosa dissoluzione del comunismo storico novecentesco (da chiamare così per non confonderlo con il comunismo utopico-scientifico di Marx – l’ossimoro è chiaramente volontario) ha come sua logica la formazione di un Nuovo Ordine Mondiale nel quale non c’è nulla di folle e irrazionale. Esso è anzi una tendenza storica oggettiva, che trova dei sostenitori, in primo luogo l’impero militare e ideologico degli Usa, i suoi alleati, e il circo mediatico mondiale che lo sostiene ideologicamente, e degli oppositori, in primo luogo i popoli, le nazioni e le classi oppresse che resistono in vari modi e forme, dalle forme militari alle forme pacifiche. La formazione di questo Nuovo Ordine Mondiale implica la distruzione di quello precedente. In proposito, è un errore storico e politico ritenere che quello precedente fosse semplicemente quello fondato in modo bipolare fra mondo capitalista e mondo socialista. È certo anche così, ma non è fondamentalmente così. Il mondo precedente che si tratta di distruggere è il mondo del diritto internazionale fra stati sovrani, il mondo della negoziazione fra sfere di interesse e di influenza, il mondo del diritto di ogni nazione, popolo e cultura di scegliere sovranamente le proprie forme di sviluppo economico e civile. Al posto di questo mondo, il ciclo di guerre aperto nel 1999 (Jugoslavia) e poi proseguito nel 2003 (Iraq) ne vuole imporre un altro completamente diverso. Si tratta di un mondo caratterizzato non tanto dalla “esclusione”, come dicono i superficiali, ma proprio dalla “inclusione”, e più esattamente dalla inclusione subalterna, di tutti i popoli e le nazioni del mondo in un unico modello internazionalizzato di capitalismo liberale in cui ciò che sarà sempre più impedita (anche e soprattutto con le armi) non sarà tanto l’entrata quanto appunto l’uscita. Questo mondo segna la fine della sovranità dei popoli e delle nazioni, sovranità irrisa e condannata come residuo barbarico. Si tratta più esattamente di un mondo di “sovranità sotto tutela”, o più esattamente di “sovranità sotto condizione”. E quali sono le condizioni per cui la sovranità è posta sotto tutela? Sono le con-

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dizioni unilateralmente poste dal sistema capitalistico neoliberale che si vuole mondializzare, che hanno trovato una nuova forma religiosa di copertura per l’invio di missionari armati, ossia la nuova religione dei diritti umani e della democrazia, in base alla quale si impone, come al tempo della famosa Santa Alleanza del 1815, un nuovo “diritto di intervento”, il diritto di intervenire militarmente per far valere questi due nuovi articoli religiosi definiti sfacciatamente “universali” e non “relativi” (o relativistici), i diritti umani e la democrazia, appunto. Questo è allora lo scenario. Mettiamo ancora una volta in ordine di successione logica e storica i concetti prima segnalati: fine del mondo bipolare novecentesco; ciclo di guerre di aggressione per imporre la costruzione di un Nuovo Ordine Mondiale; fine del diritto internazionale e della sovranità degli stati nazionali; messa della sovranità nazionale sotto tutela o sotto condizione; diritto religioso di esportazione di un unico modello mondiale di società; e per finire, il dilemma di tutti i dilemmi: collaborare entusiasticamente a questo progetto senza gioia ma anche senza resistenza, oppure resistere in tutti i modi a questo progetto criminale? 5. All’epoca, nel 1848, Marx ed Engels ritennero che la questione fondamentale del loro tempo fosse lo schierarsi nella lotta di classe storica fra borghesi e proletari. Riprendendo il loro insegnamento, ritengo che la questione fondamentale del nostro tempo sia appunto questa: collaborare attivamente a questo progetto criminale, accettarlo silenziosamente per viltà, opportunismo o pessimismo, o resistere in tutti i modi. Per quanto mi riguarda, ho scelto la linea della resistenza. È però necessario capire che non solo il discorso non finisce qui, ma anzi da qui comincia. Quale resistenza? Con quali forme? Con quale analisi storica, economica, politica e filosofica? Con quali alleati? Con quali avversari? Con quali amici e quali nemici?

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6. Il contrario di guerra è pace. Sembrerebbe allora risolto il nostro problema. Se i nemici sono coloro che portano la guerra e gli avversari sono coloro che giustificano, avallano o minimizzano questa guerra, allora i nostri amici ed alleati sono coloro che vogliono la pace, vale a dire i “pacifisti”. Dovremo allora scioglierci, prima ancora di costituirci in corrente politica distinta e autonoma, in questo grande movimento detto “pacifista”, oppure cercare di “spostarlo”, come si dice oggi, su posizioni più radicali e coerenti? Non credo proprio. Anzi, francamente no. E tuttavia bisogna sapere esattamente perché diciamo questo no. Non certo perché il pacifismo ha un carattere utopico ed in quanto tale è sempre stato molto “testimoniale” e poco “realistico”, finendo con l’essere sempre sistematicamente sconfitto sul campo dall’interventismo bellico (1914) oppure col mostrarsi irrilevante (2003). In primo luogo, anche la testimonianza minoritaria è sempre meglio di niente, anche se per molti manigoldi essa è sempre e solo una forma di ipocrisia che ha la funzione di “salvare l’anima” per poi poter riprendere i propri collaudati e sporchi maneggi. In secondo luogo, e questo punto è immensamente più importante del primo, perché il termine “utopia” è buono, in quanto l’utopia, anche se provvisoriamente inapplicabile, è sempre una sorta di ideale regolativo del comportamento umano, che appunto in quanto tale produce risultati concreti, magari non subito, ma in un lasso di tempo controllabile a media scadenza. Il non “incorporarsi” nel cosiddetto pacifismo non è allora affatto dovuto al suo carattere testimoniale o utopico, che sono invece filosoficamente e politicamente positivi, ma a ben altre e gravi ragioni, che converrà esporre analiticamente e con pazienza nei paragrafi successivi, perché qui si gioca veramente qualcosa di grosso. 7. Anzitutto, è bene partire dal fatto che la razionalità umana non può fare a meno di cercare di spiegare perché le cose avvengono, e non può allora limitarsi a “professare” una pur rispettabile filosofia

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di vita (come la non-violenza) oppure a “testimoniare” un proprio stato d’animo (come il pacifismo). Filosofie di vita e testimonianze sono ovviamente importanti, ma lo è anche la spiegazione razionale del perché le cose avvengono. E una delle cose più importanti è proprio l’insieme di cause occasionali e profonde che danno origine alle guerre. Nessuno può seriamente pensare che per lottare contro i tumori o le cardiopatie basti “testimoniare” la nostra avversione nei loro confronti. L’avversione può essere soltanto il primo passo verso la spiegazione, e solo sulla base di un’adeguata spiegazione è poi possibile passare ad eventuali rimedi. A volte viene allora da pensare che la continua ed ostentata testimonianza del proprio “stato d’animo pacifista”, che evita sistematicamente uno studio sulle cause delle guerre che vada al di là di generiche dichiarazioni sulla violenza umana, sia in realtà una forma di opportunismo e ipocrisia, tipica di chi vuole “salvarsi l’anima” proclamandosi semplicemente “buono”, mentre è un cialtrone. A partire dallo storico greco Tucidide, esiste una più che bimillenaria tradizione culturale occidentale che studia le cause delle guerre, distinguendole in occasionali e contingenti, da un lato, e strutturali e profonde, dall’altro. Il “pacifismo”, sia pure con la sua onorevole testimonianza del proprio stato d’animo, non può sostituire quest’ultimo alla spiegazione razionale delle cause delle guerre, ed è infatti sempre grottescamente subalterno alle posizioni guerrafondaie che si dichiarano “pacifiste”, ma anche “preventive”, in nome del vecchio detto militarista ed aggressivo latino che dice “se vuoi la pace, prepara la guerra” (si vis pacem, para bellum). Bisogna allora mettersi d’accordo razionalmente, e se possibile anche dialogicamente, sulle cause che provocano le guerre oggi, perché è noto che senza rimuovere le cause è insensato pensare di rimuovere gli effetti. E le cause profonde, e quindi non occasionali (qui basta proprio Tucidide, e non c’è neppure bisogno di citare autori posteriori), mi sembrano risiedere nell’allargamento geografico (sempre nuovi paesi e aree economiche da incorporare) e nell’approfondimento antropologico (sempre nuovi stili

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di vita e di consumo da imporre) messi in atto dall’internazionalizzazione di un rapporto di produzione capitalistico sempre più “puro” e sempre meno appesantito dai sistemi sociali dello “stato del benessere” (welfare state), ed inoltre sempre meno contestato e minacciato da sistemi socio-politici alternativi (come lo è stato il comunismo storico novecentesco 1917-1991). Questo peculiare allargamento geografico richiede il superamento del vecchio diritto internazionale fondato sulla sovranità degli stati e la messa sotto tutela e sotto condizione di questa stessa sovranità. L’ideologia di giustificazione e legittimazione di questa distruzione della sovranità degli stati, come è noto, è quella dei diritti umani e della democrazia. Il “pacifismo”, se non vuole essere solo uno stato d’animo, non può continuare ad esimersi dal prendere posizione su questo meccanismo interventistico. Ma nei fatti continua a non farlo. 8. In secondo luogo, il pacifismo, in particolare in quella sua variante nobile che è la cosiddetta non-violenza, non può sottrarsi a un bilancio storico spregiudicato delle esperienze del passato. Infatti, dal momento che il pacifismo afferma di essere anche e soprattutto una tecnica “vincente” per la resistenza e la cacciata degli aggressori senza dover ricorrere alla forza (o, più esattamente, ricorrendo a una peculiare forza rigorosamente non-violenta), non può sottrarsi ad una considerazione storica reale (e non mitologica) di esperienze passate. Nessuno infatti contesta, in via di principio, l’ovvia preferibilità di una forza non-violenta ad una forza parzialmente o totalmente violenta. E qui allora nascono i problemi. Prendiamo, ad esempio, il caso della liberazione dell’India dagli inglesi nel 1947, che una mitologia astuta e orientata fa risalire alla non-violenza di Gandhi. Certo, anche le tecniche di lotta non-violente di Gandhi hanno contato. Ma ha contato ancor di più il fatto della sproporzione numerica e demografica fra indiani ed occupanti britannici, ed il fatto che gli occupanti inglesi, per vincere la loro guerra contro il Giappone del 1941-1945, avevano armato un gigantesco esercito indiano, che era nel 1945 schiera-

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to quasi totalmente per la liberazione dell’India. Il popolo etiopico si liberò dei colonizzatori italiani con una lotta armata durata ininterrottamente dal 1935 al 1941. Il popolo algerino si liberò dei colonizzatori francesi con una lotta armata durata dal 1956 al 1962. E potremmo moltiplicare gli esempi. I “pacifisti” onesti devono prendere atto di questi fatti storici e non fingere che non siano mai avvenuti. Questo non è un argomento contro la non-violenza, ma solo una sobria segnalazione del fatto che anche la non-violenza è una forma di resistenza relativa a un insieme di circostanze, e non un principio metafisico assoluto. 9. In terzo luogo, il pacifismo non può continuare a rimuovere, come invece fa ostinatamente, l’attuale, doppio processo di marginalizzazione cui è sottoposto nelle presenti condizioni storiche. Spieghiamoci meglio. Per quasi due secoli, grosso modo dal tempo delle guerre napoleoniche alla Seconda guerra mondiale, gli stati facevano le guerre arruolando milioni di uomini sulla base di una coscrizione obbligatoria generalizzata. La necessità di legittimare queste periodiche infornate di carne da cannone composte da milioni di giovani in età di leva comportava ovviamente quello che fu definito da uno storico il fenomeno della “nazionalizzazione delle masse”. L’educazione nazionalistica, colonialistica, imperialistica e quasi sempre anche razzistica stava alla base di questa incorporazione diretta di milioni di persone negli apparati di guerra. Oggi però le cose sono cambiate. L’epoca della coscrizione militare obbligatoria di massa sta finendo, almeno nei paesi “centrali” o “metropolitani” del nuovo sistema capitalistico neoliberale internazionale, e non è più necessaria un’educazione generalizzata e capillare delle masse in senso “violento”, e cioè militarista. Oggi l’educazione militaristica, ipocritamente travestita da mantenimento della pace (peace keeping) o addirittura da costruzione della pace (peace building), è diventata una sorta di “cultura regionale”, non nel senso ovviamente di regioni tipo Piemonte o Ve-

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neto, ma di “regione sociale” limitata, in una nicchia cioè in cui si arruolano mercenari professionali tratti dalle categorie più disagiate delle classi popolari metropolitane, con l’aggiunta naturalmente di manigoldi esaltati collezionisti di armi e cimeli guerreschi. Il passaggio dalla coscrizione di massa all’arruolamento selettivo di nicchie di mercenari rende così possibile, ed anzi favorisce, la legittimazione culturale del pacifismo come stato d’animo buonista di massa. Si hanno perciò i casi di politici mandanti di spedizioni militari di aggressione, ovviamente sempre coperte da pretesti di esportazione di diritti umani e democrazia, che sfilano in manifestazioni della loro “contestazione” da parte di sciocchi che, anziché lasciarli nel fango da cui provengono e in cui finiranno, rendono loro un servizio “mediatico” con i loro fischi ampiamente registrati dai giornalisti del circo di simulazione “democratica”. E questo ci porta alla questione della ritualizzazione, che è anche e soprattutto la forma “democratica” ideale della neutralizzazione. Dalla metà degli anni Ottanta del Novecento (installazione degli euromissili atomici ancora in presenza dei due sistemi socioeconomici rivali) il movimento pacifista europeo esegue manifestazioni altamente ritualizzate, e concepite apposta per fare da valvola di sfogo e da alibi di democraticità (vedete, siamo talmente democratici che vi lasciamo liberamente contestare!). Le manifestazioni sono sempre ferreamente divise in un ottanta per cento di salmodianti e in un venti per cento di spacca-vetrine. I salmodianti, in genere preceduti da due sottili linee di politicanti sorridenti che salutano la loro fedele claque, sono quasi sempre dipinti e preceduti da pagliacci in trampoli, in una gara sempre più demenziale di esibizione di bandiere della pace visibili dalla luna (e dalla televisione). Ai lati dei cortei salmodianti ci sono di solito piccoli gruppi di individui in passamontagna che rompono vetrine ampiamente assicurate. L’esistenza di questi riti di neutralizzazione è del tutto complementare alla parallela esistenza di nicchie di proletari e manigoldi che vengono arruolati in corpi mercenari di aggressione e intervento veloce, in un contesto di fine della coscrizione militare di massa

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e della fornitura stabile di carne da cannone. L’idea che un “pacifismo” di questo tipo sia addirittura la “seconda superpotenza mondiale” fa parte, a vostra scelta, o della storia dell’umorismo demenziale o della storia dell’ipocrisia politica o infine della storia della stupidità umana. Scegliete voi. 10. In quarto luogo, infine, il pacifismo corre il rischio peggiore che si possa correre, quello cioè di mettere di fatto sullo stesso piano gli aggressori e gli aggrediti che resistono in quanto entrambi “violenti”. Si tratta di una vergogna che certo i nostri discendenti non ci perdoneranno. In Italia, la teoria, o meglio la vergognosa ideologia che sostiene la tesi dell’equiparazione di fatto fra la violenza degli aggressori e la violenza degli aggrediti che resistono, ha assunto la forma indegna della cosiddetta “spirale guerra-terrorismo”. I soldati americani che occupano l’Iraq e i resistenti iracheni che li combattono sono così equiparati, ma anche questa ipocrita equiparazione è solo apparente, perché di fatto si finisce col preferire i bombardatori “puliti” ai “tagliatori di gole”. In proposito, leggo da una rivista settimanale del novembre 2005, che riporta il conteggio dei morti in Iraq, i seguenti numeri dei caduti: iracheni 30.051, americani 2001. Queste cifre svelano, a mio avviso, la natura delle cose più di un ponderoso trattato di mille pagine, e cioè che i morti dello spazio sacro valgono ciascuno quindici volte di più dei morti dello spazio profano. Ma tornerò su questa cruciale distinzione nel prossimo secondo capitolo. Per ora è necessario aprire una riflessione sul cosiddetto “terrorismo”. C’è infatti chi, per connotare l’epoca storica attuale, parla addirittura di epoca del terrorismo e di epoca della minaccia terroristica. Un minimo di chiarezza su questo punto è necessario per chiarirci le idee. 11. Da un punto di vista semantico ed etimologico, il “terrorista” è colui che incute terrore e paura attraverso i suoi comportamenti. A questo punto, dal momento che ci sono centinaia di forme pratiche diverse per incutere paura e terrore, si vorrebbe sapere

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perché non sono “terroristi” coloro che innaffiano di proiettili di uranio impoverito ad altissimo grado di mortalità prolungata nel tempo i popoli che aggrediscono con la scusa dell’esportazione unilaterale della religione occidentale dei diritti umani, mentre invece sono terroristi coloro che rispondono in modo artigianale e con esplosivi fatti in casa a Madrid e a Londra. Un senso di giustizia intesa come equità (e cioè trattare in modo eguale comportamenti eguali, come direbbe Aristotele) non farebbe certo male. Non lo si può certo chiedere al circo mediatico corrotto, ma all’uomo comune di sano intelletto certamente sì. Tuttavia, anch’io ritengo che atti come quelli delle bombe alla stazione di Madrid e nella metropolitana di Londra siano a tutti gli effetti “terroristici”, e non possano pertanto essere in alcun modo approvati e neppure scusati con argomenti di tipo “comparativo” (abbiamo cominciato a terrorizzare noi, non possiamo ora stupirci se ci terrorizzano loro). La fattispecie “terrorismo”, quindi, deve essere indagata con la vecchia e sempre utile categoria giuridica e giudiziaria dei “crimini di guerra”. Questo implica non solo la distinzione di origine giusnaturalistica fra guerra giusta e guerra ingiusta, ma anche, all’interno di questa distinzione fondamentale e da conservare ad ogni costo, la distinzione fra atti legittimi e atti illegittimi all’interno di una guerra giusta. Abbiamo dunque una distinzione primaria e una distinzione ulteriore secondaria. Il circo mediatico manipolato e corrotto, vero e proprio clero religioso onnipresente del nostro tempo, agisce costantemente in modo da non rendere possibile l’uso di queste due pur facili distinzioni. Ad esempio, chiama a ragione “terroristi” coloro che fanno saltare civili israeliani in un mercato, ma chiama “terroristi” anche i resistenti palestinesi che si oppongono ai soldati e ai coloni sionisti assassini che hanno illegalmente occupato le terre di Gaza e della Cisgiordania palestinese. In un qualunque dibattito equo e giusto, i primi potrebbero essere chiamati “terroristi”, ma i secondi certamente no. Il fatto che comunque vengano tutti e due amalgamati nell’unica categoria del “terrorismo” fa vedere a tutti, all’infuori del settore manipolato e corrotto della cosiddetta

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“opinione pubblica occidentale”, che i popoli e le nazioni oppresse non possono aspettarsi giustizia ed equità. 12. Il “terrorista” è il nemico ideale, che se non esistesse dovrebbe essere artificialmente creato, in un contesto di comportamenti di guerra unilaterali tesi a costituire un unico sistema economico mondiale di tipo ultracapitalistico e neoliberale. È un nemico ideale perché, essendo per sua natura “deterritorializzato”, rappresenta l’antagonista fatto apposta per le forze che vogliono appunto deterritorializzare il mondo intero, distruggendo l’indipendenza dei popoli e delle nazioni e la sovranità degli stati. Per poter deterritorializzare il mondo intero, da trasformare in una sorta di “spazio liscio” e senza frontiere per lo scorrimento rapido degli investimenti di capitale e della speculazione finanziaria, bisogna appunto che non vi siano più “territori” dotati di sovranità nazionale ed economica indipendente. La lotta al terrorismo, volutamente infinita e indeterminata, comporta che si possa attribuire unilateralmente il titolo di “stato canaglia” (rogue state) a chi si decide di colpire, e che tutte le sovranità statuali siano poste sotto limiti e condizioni. In quanto al circo mediatico, gli si concede una sorta di “hitlerizzazione permanente” del nemico (Milosevic-Hitler, Saddam-Hitler, eccetera), ed anche la sagoma mefistofelica di Bin Laden, che pare fatta apposta per riprendere il vecchio e glorioso stereotipo orientalista del levantino astuto e malvagio. 13. Per chiudere su questo punto, atti di terrorismo certamente sono esistiti, esistono ed esisteranno, e non ha alcun senso “scusarli” con il pretesto che i nostri mercenari imperialisti stanno in questo momento massacrando le loro popolazioni. I nostri popoli non capirebbero queste contorte giustificazioni, e non bisogna dimenticare mai che sono i nostri popoli i nostri primi interlocutori, ed è stupido e suicida disprezzarne i sentimenti, le paure e gli stati d’animo. Nello stesso tempo, è necessario rifiutare senza appello

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la teoria della spirale guerra-terrorismo. Non c’è nessuna spirale. C’è una guerra, o meglio un insieme coordinato e programmato di guerre, come fattore originario, primario e scatenante. A questo ciclo storico di guerre sono stati opposti atti di resistenza, alcuni dei quali si presentano come crimini di guerra rivolti contro i civili (New York 2001, Madrid 2004, Londra 2005), mentre altri sono invece del tutto legittimi dal punto di vista del diritto bellico internazionale. 14. Fino ad ora ho insistito soprattutto sullo sfruttamento del terrorismo e sulla ritualizzazione del pacifismo. Ma tutto questo non è ancora sufficiente per avere un quadro complessivo della situazione attuale e delle sue coordinate storiche e sociali nuove ed inedite. Bisogna allora parlare di quel vero e proprio sfruttamento imperialistico del comunitarismo che è oggi il cosiddetto “etnicismo”, e cioè l’uso delle comunità etniche e religiose minoritarie all’interno di uno stato nazionale per minare e infine distruggere la sovranità dello stato nazionale stesso. Vi ho già accennato nella mia premessa, ma la questione è talmente importante da aver bisogno di un continuo richiamo. Ho detto nella premessa che il comunitarismo è una cosa buona, e alla dimostrazione di questa tesi saranno consacrati soprattutto il quinto e il sesto capitolo conclusivo. Nello stesso tempo, un convinto e sincero elogio del comunitarismo, che nella mia interpretazione è soprattutto una “via comunitaria all’universalizzazione dell’unica civiltà umana sul pianeta”, non può essere fatto senza contestualmente rilevare le due modalità storiche della sua corruzione. Solo le cose buone possono essere oggetto di corruzione, e questo non riguarda solo il corpo umano, ma anche le idee. Della prima forma di corruzione storica del comunitarismo, quella fascista e nazionalsocialista, parlerò nel quinto capitolo, che è anzi dedicato espressamente proprio a questo problema. Ma della seconda, attuale forma di corruzione parlerò ora, perché essa è inserita organicamente nell’attuale ciclo di guerre imperiali di estensione del Nuovo Ordine Mondiale. Si tratta di quella particolare forma

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di corruzione e di strumentalizzazione del comunitarismo che potremmo chiamare “etnicismo”. Oggi l’etnicismo è usato sistematicamente per demolire e frammentare gli stati nazionali, e viene agitato dai mezzi di informazione come pretesto per sollecitare l’intervento armato in nome della promozione dei Diritti Umani e l’esportazione della Democrazia. 15. Cento o centocinquanta stati sovrani nel mondo sono ad un tempo pochi e troppi per la costruzione di un Nuovo Ordine Mondiale. Sono troppi, perché fra di essi ce ne sono almeno una trentina dotati di una certa consistenza ed autonomia economica e militare, il che complica i maneggi per il controllo geostrategico del pianeta. Ma sono anche pochi, perché l’ideale per un comodo controllo militare e geopolitico del pianeta non è dato dall’attuale pluralismo statuale, ma da un panorama di mille o duemila stati più piccoli, e quindi militarmente più deboli ed economicamente più ricattabili, costituiti sulla base della disgregazione programmata e militarmente accelerata dei precedenti stati nazionali, che vengono ridisegnati sulla nuova base della autonomizzazione di tutte le cosiddette “etnie” presenti sul territorio. Questa strategia, come tutte le strategie storiche di largo respiro, sfrutta situazioni in cui esiste veramente da lungo tempo un’oppressione di etnie minoritarie da parte di un’etnia dominante. Non esiste praticamente un solo stato al mondo (con alcune eccezioni: Portogallo, Islanda e pochissimi altri) che sia rigorosamente mononazionale, monoculturale e monoreligioso, in una parola rigorosamente monoetnico. Quasi tutti gli stati sono dunque ricattabili sulla base dello sfruttamento del comunitarismo etnico. Un elenco completo sarebbe impossibile, e mi limito qui solo ad alcuni esempi largamente noti: la Turchia con i curdi, la Grecia con i turchi e gli slavo-macedoni, la Jugoslavia con gli albanesi, la Cina con gli uiguri e i tibetani, l’India con i kashmiri, Sri Lanka con i tamil, l’Iraq con i curdi, l’Iran con gli arabi, i baluci, gli azeri,

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i turkmeni, eccetera. In Africa, poi, praticamente nessuno stato è etnicamente “puro”, e quindi i pretesti per una intrusione in nome dei diritti umani sono innumerevoli, e possiamo essere ragionevolmente sicuri che nel prossimo futuro verranno sfruttati tutti. L’etnicizzazione e la regionalizzazione dei conflitti è quindi un terreno di intervento intrusivo contro i popoli e contro le nazioni. Abbiamo ad esempio il caso dell’Iraq, dove il concerto mediatico arrogante ed analfabeta parla continuamente di tre etnie (curdi, sunniti e sciiti), dimenticando ovviamente che solo i curdi sono un’etnia, mentre i sunniti e gli sciiti sono soltanto comunità religiose, peraltro da lungo tempo intrecciate. È allora necessario ricapitolare ancora una volta la “gerarchia” dei fattori storici nuovi sul pianeta, il che potrebbe portarci a un migliore orientamento politico e culturale. 16. Mettiamo allora in ordine, in una ricapitolazione finale, i fattori storici che caratterizzano la situazione attuale: a) Fine del secolo breve (1914-1991), e cioè del periodo storico in cui si sono affrontati sul piano globale, e cioè mondiale, due sistemi economici contrapposti, con l’inserimento temporaneo di un terzo fattore politico, il fascismo e il nazionalsocialismo (1919-1945). b) Rimondializzazione integrale del sistema capitalistico internazionale, una rimondializzazione che chiude il periodo dei compromessi politico-sociali strutturali (socialdemocrazia, stato del benessere) e apre una fase di privatizzazione e finanziarizzazione selvaggia. c) Apertura di un ciclo di guerre per accelerare e governare politicamente questa rimondializzazione. Questo ciclo di guerre è strutturale e primario, il che non consente di parlare seriamente di una inesistente “spirale guerra-terrorismo”. d) Delegittimazione ideologica del diritto internazionale fra stati sorto a partire dai trattati di Vestfalia (1648). Questi trattati chiu-

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sero storicamente un ciclo europeo di guerre di religione, ma appunto di una religione nuova, frutto della secolarizzazione e della manipolazione delle religioni monoteistiche precedenti. Si tratta della religione dei Diritti Umani e della Democrazia. e) Questa delegittimazione implica la messa sotto tutela, o più esattamente sotto condizione, della sovranità degli stati. In azione ci sono due tipi di missionari: i missionari armati, mercenari e manigoldi che sostituiscono i vecchi eserciti fondati sulla coscrizione generale, e i missionari disarmati loro coauditori, i membri delle cosiddette Organizzazioni Non Governative (ONG), che sono in realtà nella loro stragrande maggioranza strutture al servizio di questa monetizzazione coatta. f) Emersione progressiva di un panorama nuovo e inedito, caratterizzato dalla fusione sistemica delle vecchie divisioni fra Destra e Sinistra, dallo sfruttamento del terrorismo e dalla ritualizzazione del pacifismo, più altre caratteristiche da evidenziare più avanti. In questo quadro inedito è bene sviluppare il discorso nei prossimi due capitoli ripercorrendo criticamente le storie del liberalismo e del comunismo. Come sempre, la ricostruzione razionale del passato ci aiuta a orientarci nel presente.

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II

Controstoria critica del liberalismo e della democrazia

1. Il modello politico di gestione sociale che l’Occidente pretende oggi di esportare nel resto del mondo con il ricatto degli embarghi economici e con i bombardamenti mediante proiettili all’uranio impoverito viene generalmente indicato come liberaldemocratico. Mentre, infatti, per quasi due secoli il principio democratico del suffragio universale si è sanguinosamente opposto al modello liberale del suffragio censitario e limitato, che faceva delle costituzioni politiche una sorta di “regolamento di condominio” riservato ai proprietari degli alloggi, i due principi si sono apparentemente fusi insieme in un nuovo ibrido chiamato “liberaldemocrazia”, in cui le garanzie individuali contro gli abusi del potere sono state unite all’applicazione massiccia e generalizzata del principio democratico di maggioranza. Questo sistema liberaldemocratico, che pure ha avuto una genesi spaziale (l’Occidente), temporale (l’ultimo secolo) e sociale (gli interessi specifici di una classe denominata “borghesia capitalistica”), avrebbe però anche conseguito un misterioso e religioso salto di qualità metafisico e trascendentale, diventando un Diritto Umano assoluto titolare del diritto militare di distruzione e soprattutto del diritto giuridico-giudiziario di limitazione e di messa sotto condizione della sovranità degli stati, delle nazioni e dei popoli. Chiediamoci: le cose stanno veramente così?

2. Naturalmente no. Neppure per sogno. Si tratta dell’immagine invertita della realtà sociale e politica che ci viene riflessa da uno specchio deformante, come la parola “ambulanza”, che viene scritta al contrario perché deve essere letta da altri che ci vengono incontro. La realtà che le persone normali vivono è quella di un sistema economico che certamente è in grado di produrre molte merci, ma che si fonda su di un lavoro generalizzato flessibile e precario, sulla distruzione dell’ambiente naturale e di ogni ecosistema compatibile, sull’aggressione militare unilaterale dei più deboli mascherata con il nome di pace, sull’installazione di ordigni nucleari e chimici senza neppure avvertire le popolazioni coinvolte, sulla manipolazione mediatica e pubblicitaria generalizzata, e per finire sulla stessa interruzione del vecchio rapporto fra le generazioni, distrutte e ridefinite sulla base degli stili di consumo. Il paradosso delle società moderne, che sono a tutti gli effetti “società paradossali” e vengono infatti anche percepite come tali dalla migliore letteratura, sta allora in ciò, che da un lato la retorica ufficiale di legittimazione politica e sociale gira intorno al fondamento della libertà dell’individuo e dell’autodeterminazione democratica dell’insieme sociale, mentre dall’altro la percezione quotidiana generalizzata si rende perfettamente conto che siamo affidati ad automatismi sistemici incontrollati che non possiamo in alcun modo modificare. 3. Da un punto di vista culturale, il mondo è diviso oggi in due grandi tendenze, quella che censura e rimuove questo evidente paradosso con un pittoresco arsenale di argomenti giustificativi, che però, in ultima istanza, girano tutti intorno alla cosiddetta “inevitabilità dell’economia”, forma volgare e laicizzata del vecchio e ben più nobile “destino”, e quella che invece ha compreso fino in fondo che questo paradosso è il centro del problema, e quindi l’oggetto privilegiato della filosofia politica. Lo stesso interesse per il comunitarismo come una delle possibili soluzioni nasce proprio dalla consapevolezza di questo paradosso. L’individuo isolato e atomizzato, non importa se sia un manager in volo perpetuo

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fra una riunione finanziaria e un’altra oppure un poveraccio che dorme in una baracca di cartone, è certamente in grado di comprendere intellettualmente i termini dialettici di questo paradosso, ma non è in grado di intervenire per modificarlo, perché da che mondo è mondo la comprensione è sempre e solo individuale, ma la modificazione pratica è sempre e solo collegiale e collettiva, e quindi comunitaria. 4. Il mondo attuale, che si presenta in modo menzognero come una liberaldemocrazia fondata sulla religione universalistica dei Diritti Umani, è in realtà un totalitarismo dell’economia gestito da una oligarchia politica che si legittima mediante referendum periodici che presuppongono la totale impotenza progettuale degli oppositori. La dittatura dell’economia non si presenta nella forma ridicolmente debole e instabile della dittatura di singoli personaggi politici carismatici (Mussolini, Franco, Hitler, Perón, Stalin, Tito), ma nella forma immensamente più forte della dittatura di grandezze e di forze rigorosamente anonime e impersonali, e pertanto insuperabili (i “mercati”, la “produttività”, la “concorrenza internazionale”, l’“invecchiamento della popolazione”, l’“insostenibilità dei sistemi di sicurezza sociale e di assistenza pensionistica”, eccetera). Mentre la forma personalizzata e dilettantistica della vecchia dittatura politico-carismatica si è rivelata essere una specie darwinianamente fragile, la nuova forma professionale della dittatura sistemica e impersonale di grandezze economiche integralmente “disantropomorfizzate” appare più stabile. Ma stabile fino a quando? È semplice: fino a quando non sorgerà un movimento di massa di contestazione di questa nuova religione. L’analogia storica è sempre ingannatrice, ma se vogliamo usarla ci può essere utile il paragone con la contestazione illuministica e poi positivistica della vecchia religione monoteistica cristiana occidentale. Oggi il problema non sta certo nell’ennesima riproposizione dei vecchi e sempre eguali argomenti sulla inesistenza di Dio, ma sta in un nuovo e ancora inedito illuminismo critico, che contesti l’esistenza di presunte leggi economiche “oggettive”

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della produzione. Questo nuovo illuminismo sarà immensamente più difficile del vecchio, perché è facilissimo contestare la sovranità celeste e trascendente di divinità antropomorfiche cui è demandata la creazione del mondo e il giudizio universale sulle anime dei peccatori, mentre è molto più difficile demistificare le pretese di assolutezza di presunte “leggi economiche” che si nascondono dietro il ben più robusto schermo dell’immanenza della riproduzione sociale. Ancora una volta, anche se è impossibile prevedere il futuro, possiamo già dire con una certa sicurezza che la comprensione della necessità di questo nuovo e ben più difficile illuminismo è individuale (più esattamente, di una somma di individui isolati e scollegati che agiscono in differenti contesti storici, geografici e generazionali), ma l’azione di contestazione contro questo sistema dell’oppressione sarà collettiva e quindi comunitaria. 5. Inquadrato così il problema della natura politica del mondo attuale, che non è una liberaldemocrazia fondata sui diritti umani universali, ma una dittatura totalitaria dell’economia gestita da una oligarchia politica che fonda il suo potere sull’impotenza atomizzata dei suoi sudditi, il problema della natura storica e filosofica del liberalismo e della democrazia non solo non è risolto, ma deve anzi essere addirittura iniziato. Parlare di comunitarismo senza aver prima inquadrato in modo razionale le questioni del liberalismo e della democrazia ieri, oggi e domani sarebbe una vera sciocchezza, che altri hanno fatto e fanno, ma che io almeno non farò. 6. Prima di iniziare le considerazioni di tipo filosofico e politico sul liberalismo e sulla democrazia ieri e oggi (e forse domani, ma il domani non è prevedibile), è necessario prima toglierci un fastidioso sassolino dalla scarpa. A causa di una tradizione sciocca e di corta vista, diffusa soprattutto dal cattivo marxismo in Italia (ma il grande Marx non c’entra

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con gli idioti che pretendevano di parlare in suo nome), c’è in molti l’idea che se un certo valore o una certa opinione hanno avuto un’origine particolare e “classista”, allora sono automaticamente cattivi e se ne può fare a meno. In questo caso, dal momento che è assolutamente sicuro che sia il liberalismo che la democrazia hanno avuto un’origine storica e di “classe”, e non sono stati certo partoriti né da un Dio onnipotente, né da una natura umana eterna e per ciò stesso “normativa”, ne consegue che possiamo rinunciare in futuro sia alla libertà che alla democrazia. Come potrebbe, infatti, qualcosa che ha avuto una genesi storica particolare e contingente ambire ad avere una validità filosofica universale? Fra tutte le idiozie partorite nella millenaria storia del pensiero umano, questa è sicuramente la più idiota di tutte. Non esistono forme di comportamento umano che non abbiano avuto una genesi storica particolare nel tempo, se riteniamo valida (come è il mio caso) la teoria dell’evoluzione, che nel caso dell’homo sapiens si specifica come una teoria del processo progressivo di “ominazione” umana. Peraltro, ominazione umana significa soltanto che l’uomo è un animale specifico, o più esattamente un animale la cui specificità consiste proprio nella sua genericità, il che lo porta a generare e costruire progressivamente forme di convivenza comunitaria e di profili individuali di comportamento che non sono inseriti semplicemente nel corredo istintuale della specie (come accade per le formiche, i castori, i lupi, eccetera), e che non sono neppure semplicemente riducibili ai meccanismi di “adattamento” all’ambiente, ma che attraverso il lavoro e il linguaggio costituiscono costellazioni sociali e simboliche sempre nuove. L’ominazione, quindi, è un processo di costituzione di sempre nuove formazioni sociali e comunitarie, il che non è affatto in contrasto, ma è anzi del tutto complementare, con le forme sempre nuove di “individualizzazione”. L’abolizione della tortura è certo dovuta al fatto contingente per cui il nuovo individuo borghese indipendente, imprenditore e proprietario, non voleva più che le autorità signorili e religiose gli mettessero le mani addosso e gli rompessero le ossa. Ma è for-

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se questa una ragione per non capire che la genesi contingente della lotta contro la tortura e per un nuovo processo non inquisitorio ha comunque consentito un risultato universalistico valido per sempre? L’attuale Internet è nato da Arpanet, un sistema di comunicazione inventato al tempo della guerra fredda per permettere le comunicazioni militari in caso di interruzioni dovute ad esplosioni atomiche o avvelenamenti chimici. Ma è forse questa una ragione per non utilizzare liberamente questo comodissimo mezzo di comunicazione? Ancora: gli inglesi hanno certamente abolito il rogo delle vedove indù nel quadro della loro occupazione imperialistica dell’India, ma questa abolizione continua ad avere una permanente validità universale, così come indubbiamente l’avrebbe l’abolizione dell’infibulazione femminile forzata. Per fare un esempio volutamente paradossale, se la scoperta di un meraviglioso farmaco medico anticoagulante provenisse da una setta satanica di vampiri che volevano succhiare il sangue delle loro vittime, la razionalità vuole che questa setta sia distrutta e dispersa, ma che il farmaco anticoagulante sia invece conservato e usato per scopi positivi. Insomma, non si deve gettare via il bambino con l’acqua sporca. Tutto questo discorso, ovviamente, è fatto per sostenere che sia la libertà che la democrazia sono cose buone, da conservare, estendere e concretizzare, e il fatto che in passato siano state usate per legittimare odiose società classiste, oppure che vengano usate oggi per la canagliesca esportazione della dittatura totalitaria dell’economia, non deve essere in nessun caso un pretesto per disfarsene. A questo punto, potremmo occuparci prima del liberalismo e poi della democrazia, anche se storicamente il loro rapporto è invertito, perché ci fu prima il modello democratico, e solo molto dopo il modello liberale. Il rapporto storico democrazia/liberalismo fu invertito nella modernità con il rapporto liberalismo/democrazia. Si tratta di un paradosso del tutto spiegabile, ma che deve essere compreso prima di passare oltre. In questo caso, più ancora che

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in altri, una corretta ricostruzione genetica ci mette al riparo da spiegazioni ideologiche che sono oggi prodotte dal potere. Voglio allora insistere nel richiamo a questa inversione cruciale per la costituzione immaginaria della nostra società. Nella realtà storica, il principio di maggioranza nella presa delle decisioni collegiali e collettive, spesso identificato tout court con la democrazia in generale, precede di migliaia di anni il principio della autonomia e della indipendenza giuridicamente garantita e soprattutto della tutela legale della proprietà privata individuale, spesso identificato tout court con il liberalismo. Nella costituzione particolare non della società in generale, ma della società capitalistica occidentale prima europea, poi euroamericana, ed infine ora di fatto soltanto americana, il principio liberale dei limiti del potere e della salvaguardia dei diritti primari dell’individuo precede storicamente la democrazia politica, e cioè il principio del suffragio elettorale di tutti i cittadini indipendentemente dal censo. L’inversione consiste allora in questo, che una successione tipica della sola società occidentale borghese-capitalistica viene proiettata in una sorta di cielo metafisico atemporale in cui il principio dell’individuo e della sua assolutezza primaria viene preposto al principio della società, e cioè della comunità in cui l’individuo è inserito, sia pure con tutti i suoi diritti legalmente garantiti di dissentire dalle decisioni prese a maggioranza dalla comunità stessa. Conclusione: potremmo per comodità e per abitudine trattare prima del liberalismo e poi della democrazia, ma è necessario sapere che questa scelta espositiva non ha nessuna fondazione né logica, né storica, e che si tratta di una inversione ideologica la cui funzione è quella di dare l’impressione di un “primato” metodologico e ontologico dell’individuo sulla società. Chi vuole allora difendere o elogiare il comunitarismo non deve fare nessuna concessione all’inversione ideologica individualistica, sia essa fatta in buona o cattiva fede.

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7. Un luogo comune stancamente e pigramente ripetuto fa nascere la “democrazia” nell’antica Grecia e più in particolare nel­ l’antica Atene. Non intendo negarlo, ma solo ricordare che la “democrazia” degli antichi, il cui carattere comunitario e non individualistico non può essere seriamente negato da nessuno, presentava due caratteristiche storiche e sociali essenziali, che devono sempre essere tenute presenti. In primo luogo, si trattava di una democrazia il cui scopo essenziale (telos) era quello di scongiurare con la negoziazione fra i cittadini (politai) la devastante dissoluzione della comunità (koinonia) che sarebbe risultata infallibilmente dalla lotta di classe fra ricchi e poveri una volta che quest’ultima si fosse dispiegata senza limiti e senza camere di compensazione “politica”. Le procedure messe in atto, storicamente influenzate dalla scuola pitagorica dei numeri e dei rapporti armoniosi fra grandezze (grandezze armoniche portate dal disegno, dalla geometria e dalla musica ai rapporti politici), fondate sull’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (isonomia) e sull’accesso di tutti alla parola pubblica in assemblea (isegoria), hanno comunque sempre come telos unico la concordia fra i cittadini (omonoia). Vi è dunque qui una concezione influenzata dalla filosofia dialettica di Eraclito assai più che dalle concezioni di Parmenide. La guerra di tutti contro tutti (polemos) non è assolutamente negata ed esorcizzata, ma è anzi apertamente riconosciuta come elemento permanente delle cose. Nello stesso tempo – e nello stesso modo in cui la lotta (agòn) è regolata nelle competizioni sportive di Olimpia – anche la lotta politica è regolata nelle procedure e nelle leggi della polis la quale, come è noto, può essere intesa sia come società che come comunità, perché i due termini in greco antico sono sinonimi assoluti e non possono essere artificialmente separati. L’individualismo borghese-­ capitalistico era ancora di là da venire. In secondo luogo, si trattava di una democrazia non tanto caratterizzata dal formalismo procedurale, che pure era presente, ma da un fatto sostanziale e contenutistico, e cioè dalla prevalenza del demos, che era certamente anche un corpo elettorale attivo e pas-

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sivo, ma che era soprattutto l’insieme sociale dei più poveri, come del resto Aristotele dice in modo chiarissimo e inequivocabile. La democrazia greca era dunque non una forma di “sanzione giuridica” della disuguaglianza sociale più estrema, come è oggi nella sua caricatura occidentalistica, ma era una forma di “intervento politico correttivo” su questa disuguaglianza. Ed infatti, i democratici antichi lo capivano benissimo, perché la forma politica contraria cui si opponevano era appunto l’oligarchia, il dominio dei pochi che erano anche i più ricchi. Il contrario della democrazia era dunque l’oligarchia, e solo l’oligarchia. Solo dopo le guerre persiane, e soprattutto durante la preparazione ideologica dell’aggressione di Alessandro il Macedone contro l’impero persiano, l’opposizione ideologica fu simbolicamente “spostata”, e la dicotomia non fu più Democrazia contro Oligarchia, ma diventò Libertà dei Greci contro Tirannide Orientale. Tutti gli storici dell’antichità conoscono ovviamente questo spostamento ideologico, ma in genere lo sottovalutano. E questo non è un caso, perché la recente polemica ideologica del liberalismo moderno contro il dispotismo feudale, signorile, assolutista e religioso viene retrodatata simbolicamente all’antichità classica. Il nemico della democrazia non è più lo scatenamento oligarchico della ricchezza illimitata e incontrollata, la cui dinamica porta infallibilmente alla dissoluzione di ogni comunità, ma è il sovrano orientale di Persepoli. Qualcosa del genere, come si sa, accadde anche nel secolo appena trascorso, in cui il nemico della democrazia era la tirannia comunista, non la concentrazione oligarchica delle ricchezze finanziarie. Il fatto più curioso e paradossale in questo spostamento sta in ciò, che proprio quando il nemico della democrazia non era più l’oligarchia, bensì il dispotismo orientale, la democrazia stessa era finita, e i nuovi dispotismi, prima dei regni ellenistici e poi dell’Impero Romano, si imponevano svuotando di ogni contenuto la decisione politica delle comunità democratiche. E come oggi il cosiddetto “capitalismo compassionevole” si candida a sostituire il welfare state, allo stesso modo allora al posto della decisione

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politica comunitaria in favore del demos si imponeva la pura beneficenza dall’alto (everghetismo). Ma è bene tornare ancora e meglio al principio democratico. 8. Ho trattato, nel paragrafo precedente, della democrazia degli antichi cittadini di Atene. Ma se per “democrazia” si intende invece in generale la presa di decisioni a maggioranza all’interno di una comunità data, allora non furono certamente gli antichi greci a “scoprirla” (e questa presunta “scoperta” è oggi uno dei tanti fattori ideologici del primato occidentalistico sul resto del mondo), ma la democrazia è vecchia quanto l’uomo, ed è uno dei primi prodotti del processo storico ed evolutivo dell’ominazione umana. Nelle prime comunità umane impropriamente dette “primitive”, infatti, le decisioni concernenti l’intera comunità erano sempre prese collegialmente secondo il principio di maggioranza. Questo fatto, peraltro ovvio ed evidente, spesso non è adeguatamente rilevato perché la procedura della presa a maggioranza delle decisioni viene quasi sempre occultata da cerimonie religiose, possessioni mistiche degli sciamani e degli stregoni, interpretazioni di segnali naturali. Si è qui di fronte a quella tipica indistinzione fra macrocosmo e microcosmo, o più esattamente fra macrocosmo naturale e microcosmo umano, che caratterizza il cosiddetto “pensiero dei primitivi”, ma che poi tanto “primitivo” evidentemente non è, perché si è riprodotto fino ad oggi nella tendenza a creare un unico sistema di categorie omogenee funzionanti sia nel mondo della natura che nel mondo della storia (positivismo ottocentesco, materialismo dialettico sovietico). Se, tuttavia, andiamo al di là della superficie magico-animistica e totemica, ci accorgiamo che sotto questa mascheratura sacrale spunta sempre il robusto fiore della decisione a maggioranza, e quindi della decisione democratica, all’interno di una comunità storicamente costituita e stabilita. La “democrazia” fa dunque parte della cosiddetta “natura umana”? Dovendo rischiare una risposta, necessariamente schematica, direi coraggiosamente di sì. Con l’aggiunta, però, che si tratta

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sempre di una democrazia “situata”, ossia di una democrazia all’interno di una comunità reale. Una democrazia non comunitaria, stabilita per via unicamente formale e procedurale fra individui atomizzati presupposti come “originari”, e cioè di fatto come originariamente sradicati, mi pare una vera e propria impossibilità logica e storica. Vediamo perché. 9. Parlare di comunità non ha senso se prima non si concorda sulle caratteristiche differenziali di quell’animale superiore chiamato Uomo, oppure homo sapiens. Non c’è qui ovviamente lo spazio per presentare la discussione filosofica e antropologica su questo tema. Ai fini del nostro discorso, che ricordo essere un convinto e razionale “elogio del comunitarismo”, possiamo dire che l’elemento differenziale che caratterizza l’Uomo si compendia in tre principali aggettivi: sociale, razionale e generico. L’uomo è un animale sociale (politikòn zoon, secondo Aristotele). Ho volutamente ricordato il termine originale greco (politikòn) perché esso può essere tradotto indifferentemente come animale politico, animale sociale e animale comunitario, mentre oggi invece questi tre termini connotano realtà diverse. Il primo pensatore cosiddetto “moderno”, l’inglese Thomas Hobbes, si deve inventare artificialmente un improbabile ed inesistente “uomo lupo”, dimenticandosi peraltro che generalmente il lupo vive in branco ed i veri e propri “lupi solitari” sono l’eccezione e non la regola, per negare il carattere assolutamente autoevidente del carattere sociale e comunitario dell’uomo. L’impostazione antropologica di Hobbes, naturalmente, non regge a qualunque seria indagine storica, economica, etologica e comparatistica, ed il fatto che questa concezione apertamente non scientifica sia generalmente presentata come un prodotto della grande tradizione scientifica seicentesca ce la dice lunga sulla forza dell’ideologia individualistica ed atomizzante che regge la concezione capitalistica del mondo. Il dire che l’uomo è originariamente una sorta di “atomo di egoismo” è tanto antiscientifico quanto lo è il dire che la terra è piatta e il mondo è stato fatto da Mamma Oca. Ma da più di trecento anni

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questa concezione ideologica e strumentale viene presentata come un serio “progresso” rispetto ad Aristotele. Il lettore ci pensi su e quando ci avrà pensato abbastanza, il comunitarismo gli apparirà molto più plausibile di quanto forse avrà pensato in precedenza. L’uomo è un animale razionale (zoon logon echon, secondo Aristotele). Il termine logon è l’accusativo di logos, termine greco che si può tradurre in molti modi, e principalmente come ragione, linguaggio, calcolo ed infine struttura immanente alla riproduzione del mondo naturale e sociale. Questi quattro significati, in realtà, ne fanno uno solo, perché l’uomo è un essere dotato di linguaggio, il linguaggio mette in comunicazione (dia-logos), attraverso la comunicazione si costituisce e poi si esercita la ragione, la ragione applicata alla costruzione di oggetti materiali (poiesis) deve necessariamente farsi calcolo aritmetico e geometrico, ed infine questa stessa ragione non può fare a meno di proporre interpretazioni diverse e contrastanti sulla natura intima della riproduzione complessiva della natura e della società. La ragione (logos) è dunque anche linguaggio (logos) ed il linguaggio che passa da un individuo all’altro è dialogo (dia-logos). Ma la democrazia intesa come presa di decisioni razionali e collettive è per sua stessa natura dialogo, ed allora chi ne sostiene l’irrilevanza e la non positività dovrà finire necessariamente in contraddizioni insanabili, perché dovrà ammettere da un lato che il dialogo fa parte della natura dell’uomo in comunità, e poi dovrà incongruamente dire che il dialogo democratico non è buono. E allora lasciamolo pure alle sue contraddizioni. L’uomo è infine un ente naturale generico (Gattungswesen, nel linguaggio di Marx). È generico, perché la sua specificità è proprio quella di produrre consapevolmente e con intenzione forme di produzione e di convivenza comunitaria differenti. L’ape produce spontaneamente per informazione genetica ereditaria alveari di un certo tipo, mentre l’architetto produce consapevolmente e con intenzione edifici romanici, gotici, barocchi. E così come produce edifici di stili diversi, allo stesso modo l’uomo produce società di tipo diverso (schiavistiche, feudali, capitalistiche,

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comunistiche). Chi pensa che per sua natura l’uomo non potrebbe e dovrebbe produrre modelli sociali se non capitalistici, e per di più capitalistici di tipo liberistico, è un idiota filosofico, perché assimila l’uomo a una formica che non può che produrre un unico modello di formicaio. Un po’ di antropologia filosofica serve dunque a orientarsi in modo razionale. Ma, detto questo, resta il nodo delle obiezioni che si possono fare sia al principio del liberalismo (l’individuo isolato) che al principio della democrazia (la presa di decisioni a maggioranza). Anche in questo caso comincerò dalla fine, e cioè dalle obiezioni al principio democratico. 10. Esistono molte possibili obiezioni al principio democratico, ma ce n’è una sola veramente solida e difficile da respingere: la verità non si può mettere ai voti. Per questa ragione, un difensore contemporaneo del principio democratico, il giurista Hans Kelsen, ha sostenuto che l’unico presupposto filosofico della democrazia è il relativismo assoluto, ossia la negazione totale dell’esistenza di qualcosa chiamato “verità”. Ora, si dà il caso che io conosca bene l’ambiente dei professori universitari e degli intellettuali. È l’unico ambiente sociale degenerato al punto da pensare che possa esistere una società senza valori comunitari condivisi (la qual cosa, si noti bene, non è affatto incompatibile con la garanzia giuridica data ad ogni forma di dissenso e di anticonformismo). In realtà, ogni società si regge, per poter esistere e riprodursi, su una scala di valori comunitari condivisi, e il risvolto filosofico di tutto questo è appunto la concezione veritativa dell’esistenza. Solo un circolo di discutitori filosofici interminabili, che si dilettano di dibattiti come altri si dilettano con lo scopone scientifico o le mangiate di pesce in compagnia, può veramente pensare che possa esistere un legame sociale relativistico. Trasferita sul piano pratico-politico, questa obiezione filosofica alla democrazia porta alla conclusione che è molto meglio che una decisione giusta e intelligente venga presa da pochi, o al limite da

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uno solo, piuttosto che una decisione ingiusta e stupida venga presa da una maggioranza numerica di cittadini votanti. Non è facile contestare seriamente e vittoriosamente una simile posizione, che è poi quella di Socrate e Platone nel loro contesto storico di polemica contro la democrazia ateniese del tempo. Questa democrazia ateniese era certamente una forma di stato e di governo pienamente “democratica”, che prendeva però a maggioranza decisioni come la messa in schiavitù dell’intera popolazione dell’isola di Milo oppure la strage e il genocidio (poi fortunatamente fermato all’ultimo momento) di tutti gli abitanti dell’isola di Samo, decisione che supera qualsiasi analoga decisione presa da Hitler. Da più di duemila anni non è mai stata trovata nessuna obiezione alla democrazia più radicale di quella sollevata da Socrate e da Platone. E questo non è un caso, perché Platone era di formazione pitagorica, e cioè aritmetico-geometrica, e come la “matematica non è un’opinione”, così la filosofia, pensata come un rigoroso metodo di deduzione dialettica delle categorie, non è neanch’essa un’opinione. Platone era inoltre stato molto colpito dal processo e dalla condanna a morte di Socrate, in cui una maggioranza legalmente e democraticamente costituita aveva però preso la decisione peggiore e più sbagliata possibile. Duemila anni di discussione sulla democrazia non hanno tolto e non hanno aggiunto nulla. È allora possibile difendere ugualmente la democrazia? E se sì, con quali argomenti? Proviamo almeno a toccare brevemente il problema. 11. Mentre la comunità dei filosofi è profondamente divisa sull’esistenza o meno di qualcosa chiamata “verità” e sui suoi modi di eventuale accertamento e comunicazione, la comunità della gente comune, ignara della filosofia ma non dell’esperienza quotidiana di vita, è invece unita coralmente dalla convinzione che in ogni scelta di vita, individuale o collettiva, esiste la “scelta giusta” e la “scelta sbagliata”. Che poi la scelta giusta venga appunto decisa da uno, da pochi o da molti è interessante, ma non certo importante. Su questo punto la visione del mondo della gente comune

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coincide non con il formalismo proceduralistico contemporaneo, ma con il contenuto della migliore filosofia politica degli antichi greci, anch’essi interessati non tanto alla forma, quanto al contenuto della scelta giusta. È solo con l’avvento del capitalismo, che deve prima di tutto formalizzare giuridicamente la sicurezza e la trasmissibilità della proprietà privata, che un analogo processo di formalizzazione procedurale si è esteso anche al campo della filosofia politica, da Kant a Bobbio. Ma torniamo al punto che qui ci interessa, che è la difesa della democrazia contro le obiezioni sagge e pertinenti che le sono state fatte. È stato detto, a partire dal sofista Protagora, che non c’è bisogno di una élite specializzata di politici professionisti per governare uno stato, perché tutti dispongono di sufficiente razionalità e di buon senso per poterlo fare. Un buon argomento, ma non decisivo. È infatti vero che potenzialmente è così, ma questo è vero appunto solo in potenza, perché “in atto”, come direbbe Aristotele, si vedono solo maggioranze manipolabili e fanatizzabili senza alcuna difficoltà, dagli antichi e ancora artigianali “demagoghi” fino agli scientifici ed organizzatissimi circhi mediatici e televisivi di oggi. Anche l’argomento statistico, per cui è più probabile che non ci si sbagli se si decide in mille piuttosto che se si decide da soli non è affatto risolutivo. L’Italia ha fatto la “scelta sbagliata” di entrare in guerra nel 1915 e nel 1940, ed è del tutto irrilevante per i poveri morti cui nessuno chiese prima il loro parere se questa decisione fu presa da istituzioni democratiche e parlamentari come nel 1915 oppure da un singolo dittatore nel 1940. Del resto, le criminali decisioni di far partecipare l’Italia a guerre di aggressione e occupazione nel 1999 (Jugoslavia) e nel 2003 (Iraq) furono prese formalmente da governi democraticamente eletti, non importa se nel primo caso di “sinistra” e nel secondo caso di “destra”. La democrazia, quindi, non garantisce la decisione giusta, anzi, avallando autorevolmente scelte criminali, è quasi sempre peggiore ancora della tirannide, perché almeno la tirannide è facilmente smascherabile come fonte costante di decisioni criminali e ingiu-

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stificate, mentre nella democrazia il modo “virtuoso” e legale di presa a maggioranza delle decisioni riesce in generale a nascondere dietro una cortina fumogena di formalismi istituzionalmente corretti la natura assassina di certe scelte. Ed è infatti proprio questo lo scenario in cui ci stiamo muovendo oggi, scenario che sta facendo discreditare la democrazia nel mondo intero, al di fuori dei centri metropolitani che organizzano l’oppressione, lo sfruttamento e l’interventismo militare. Perché allora difendere egualmente la democrazia? Per una sola ragione di fondo, che però è decisiva. Se crediamo nella comunità, infatti, non possiamo, senza cadere in contraddizione, pensare che ciò che è appunto “comune” nella comunità (to koinòn), e cioè le decisioni strategiche sulla sua riproduzione, possa essere espropriato alla comunità stessa ed avocato a un gruppo ristretto di “reggitori”. Se infatti la comunità è portatrice in quanto tale di socialità e razionalità, non possiamo, senza cadere in contraddizione, pensare che la socialità e la razionalità stesse possano essere concentrate in gruppi ristretti che semplicemente “prescrivono” al resto della comunità il da farsi. Se la politica fosse una scienza specialistica come la chirurgia o la farmacologia, questo sarebbe possibile. I chirurghi eseguono operazioni chirurgiche e i farmacologi prescrivono terapie farmacologiche senza la necessità di dover prima mettere ai voti ciò che proviene da una loro privilegiata conoscenza specialistica. Ma la politica è una proprietà indivisa dell’intera comunità, e nello stesso tempo, trattandosi di un’offerta pubblica di decisioni alternative, non può essere trattata come una disciplina specialistica in cui le competenze vengono accertate da apposite commissioni di specialisti. In questo senso, dall’antica Atene a oggi, nulla è cambiato, se non il fantasma del formalismo e della definizione puramente procedurale della democrazia, che a mio avviso è una vera e propria follia irrazionale che i nostri discendenti non ci perdoneranno (o ci perdoneranno sorridendo), in quanto solo la duplicazione formalistica del necessario formalismo giuridico dell’assicurazione della proprietà privata può spingere alla follia di pensare che la

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questione principale non sia quella di gettare o di non gettare una bomba atomica su di una città indifesa, ma consista nel verificare se questa scelta sia stata fatta o no in modo “democratico”, ossia a maggioranza, oppure in modo dispotico, totalitario o tirannico, e cioè da autorità politiche o partitiche preventivamente non legittimate da regolari elezioni democratiche. Non sono questi argomenti contro la democrazia. Al contrario, un elogio del comunitarismo non può neppure essere pensato e scritto senza un correlato elogio della democrazia. Ma il credere di poter continuare a difendere la democrazia con argomenti di tipo formalistico e proceduralistico, mettendo fra parentesi il novantotto per cento del problema, vale a dire il contenuto della scelta giusta, è una di quelle follie irrazionali che di tanto in tanto si impongono (temporaneamente, per fortuna) all’umanità in epoche di crollo dei valori consolidati e di egemonia di religioni ad un tempo monoteistiche e idolatriche (come sono oggi il monoteismo del mercato e l’idolatria dei diritti umani). 12. E passiamo ora al liberalismo. La prima operazione concettuale preliminare da compiere è la separazione di questo “ismo”, che è un ismo storico, politico e ideologico (e soprattutto ideologico), dal fatto della libertà. Si sarà notato che non ho volutamente scritto “il problema della libertà”, come generalmente si fa, ma ho scritto il “fatto della libertà”. Non voglio qui entrare nell’insieme di questioni filosofiche concernenti le varie definizioni di libertà, dal cosiddetto “libero arbitrio” alla classificazione delle varie forme di libertà. Tutto questo è serio, importante, pertinente, ma sfiora soltanto il nodo essenziale della questione. La libertà è infatti prima di tutto un fatto, ed addirittura un fatto incontrovertibile da cui partire come si parte da un’evidenza immediata. La libertà è, a ben vedere, solo un altro modo di chiamare il processo di ominazione umana, che avviene certamente sotto il segno dei vincoli della necessità naturale, ma in cui questa necessità

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naturale che costringe a nutrirsi e a difendersi dal freddo e dal caldo passa sempre attraverso modalità di scelte alternative. Non mi sogno neppure di negare l’ovvia esistenza della necessità naturale, dei condizionamenti psichici e sociali ereditari e acquisiti. Eppure, tenuto conto di tutto questo, e di altro ancora, la libertà umana resta un fatto e una evidenza immediata, perché l’uomo, in quanto ente naturale generico ed animale razionale e sociale, è per sua essenza un ente libero nel quadro di vincoli che in parte gli vengono dall’esterno e in parte vengono liberamente fissati dall’interno. Per questa ragione, forme storiche e contingenti di libertà, come la libertà di pensiero e di manifestazione pubblica di questo pensiero, pur essendo ovviamente sorte all’interno di particolari congiunture storiche che ne hanno determinato e condizionato la genesi, sono anche naturali e universali, in quanto sono manifestazioni della natura umana come lo sono il nutrirsi, il riprodursi, la sessualità, la prossimità amichevole, la ritualità nei passaggi dalla nascita e della morte, eccetera. In sintesi: non ci può essere elogio del comunitarismo senza un correlato elogio della libertà. Quanto al liberalismo, esso richiede un esame particolare. 13. Il liberalismo non è affatto la derivazione politica automatica e necessaria di quello che ho chiamato il fatto e l’evidenza logica della libertà come caratteristica ontologica e antropologica che sorge direttamente dalla natura sociale e razionale (e quindi dialogica e comunicativa) dell’uomo. Il liberalismo è una particolare teoria politica che ha accompagnato, seguito ed avallato il processo di individualizzazione anti-comunitaria che i rapporti di produzione capitalistici dovevano necessariamente promuovere ed estendere. Certo, la genesi storica particolare del liberalismo non significa assolutamente che esso debba essere buttato via una volta tramontati questi stessi rapporti di produzione capitalistici. Ogni teoria politica e filosofica lascia sempre un’eccedenza che

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non tramonta insieme con la congiuntura storica che l’ha fatta nascere. La critica di Platone alla democrazia ateniese è sorta in una irripetibile congiuntura storica ormai da tempo tramontata, eppure ancora oggi è ricca di insegnamenti, e questo vale per altre decine e centinaia di concezioni filosofiche e politiche. Per quanto riguarda il liberalismo, le tecniche giuridiche di tutela del corpo e della libertà di espressione dell’individuo sono a mio avviso acquisizioni permanenti da conservare e da estendere, e non certo da gettare con l’involucro proprietario da cui sono sorte. Una recente, felice controstoria del liberalismo coglie a mio avviso il punto centrale della questione. Considerato da un punto di vista storico, e seguendo le dichiarazioni e le concezioni dei suoi principali esponenti moderni e contemporanei, il liberalismo concretamente esistente nei testi e nei documenti, e non quello sacralizzato e reso metafisico dalla retorica politica acquiescente, si è strutturato sulla base della divisione ideale della società, interna e soprattutto esterna (da occupare e colonizzare), in due spazi distinti, uno spazio sacro e uno spazio profano. Nello spazio sacro, che si identificava di fatto con lo spazio dei proprietari, venivano elaborate reali tecniche giuridiche e politiche di tutela non solo del nudo fatto della “proprietà privata” (che restava comunque il fondamento di tutto), ma anche di tutela e garanzia delle libertà di espressione e di comunicazione. Si trattava certamente di una “ricaduta” secondaria della tutela della individualizzazione proprietaria e del suo diritto alla imprenditorialità capitalistica, ma sta di fatto che, al di là di questa genesi particolare, venivano raggiunte alcune conquiste universali. Nello spazio profano, in cui erano inserite sia le masse interne dei poveri e dei salariati da tenere sotto controllo (le famose “classi pericolose”) che le masse esterne dei popoli da colonizzare, sfruttare ed espropriare, i grandi teorici del liberalismo classico hanno sempre volutamente praticato due pesi e due misure. Certo, il progressivo doppio processo storico di economicizzazione del conflitto e di nazionalizzazione delle masse ha diminuito e ridotto questo spazio profano. Ma lo ha diminuito e ridotto solo

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all’interno. All’esterno (e la recente aggressione all’Iraq ne è un esempio assolutamente cristallino) questo spazio profano è sempre rimasto. 14. Possiamo allora concludere questo secondo capitolo. In estrema sintesi, il liberalismo e la democrazia non sono da mettere sullo stesso piano. Per quanto riguarda il liberalismo, ammesso che esso possa abolire del tutto la distinzione fra lo spazio sacro dei privilegiati e dei dominanti e lo spazio profano degli sfruttati e dei dominati, si tratta di una forma storica particolare della storia contraddittoria della libertà, che resta prima di tutto non un valore politico, e tanto meno un valore politico specifico e identitario dell’occidente euro-americano. Lo svuotamento del carattere proprietario e individualistico del liberalismo, ammesso che possa avvenire, farà sicuramente tramontare il liberalismo stesso e lo trasformerà in qualcosa d’altro, di cui per adesso non possiamo immaginare neanche il nome. Il discorso è diverso per quanto riguarda la democrazia. Essa è la forma politica migliore per la riproduzione di una comunità liberata. Non deve ovviamente essere feticizzata, e tanto meno trasformata in idolo identitario che legittimi una sua esportazione violenta. La democrazia non può essere esportata per il semplice fatto che le tecniche possono essere esportate, ma la democrazia non è una tecnica. La democrazia è un processo di comunicazione dialogica razionale fra i membri di una comunità, i quali approfondendo le tecniche di comunicazione al loro interno, automaticamente imparano le forme di comunicazione con le altre comunità. Ma su questo rimando al sesto capitolo, ad un tempo conclusivo e decisivo.

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III

Controstoria critica del marxismo e del comunismo

1. Il comunismo può essere definito, in breve, una forma radicale ed estrema di comunitarismo. Sul piano teorico, si tratta di una interpretazione complessiva della comunità politica e sociale che mette l’accento sulla abolizione integrale delle classi sociali, le quali sono a loro volta una forma storica evolutiva dei ruoli sorti all’interno della divisione sociale del lavoro. Questi ruoli, una volta costituiti e stabilizzati, si consolidano e si riproducono diventando in qualche modo ereditari, e dal canto suo la legittimità di questa trasmissione ereditaria si organizza teoricamente mediante sistemi ideologici più o meno coerenti. L’estrema difficoltà di realizzazione del comunismo, cioè di questa radicale ed estrema forma di comunitarismo, non è dovuta affatto, come si suole ripetere in modo pigro e infondato, ad una innata caratteristica egoistica, proprietaria e acquisitiva della natura umana, ma alla dinamica evolutiva della divisione sociale e tecnica del lavoro, che riproduce continuamente ruoli individuali e collettivi dotati di differenziali specifici in termini di sapere e di potere, e quindi in modo derivato anche di reddito, prestigio e consumo. Le esperienze storiche di sostanziale fallimento delle società che nel Novecento hanno cercato di costruire il comunismo con mezzi politici, economici e ideologici, sono state caratterizzate in primo luogo dalla dinamica differenziativa dei ruoli sorti nella divisione

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sociale e tecnica del lavoro all’interno della comunità, e non certo a “tradimenti” di burocrati corrotti (che pure ci sono ovviamente stati) o al semplice “accerchiamento” imperialistico esterno. “Comunismo” significa, infatti, in primo luogo “mettere in comune”, ossia mettere in comunità, il sapere, il potere e quindi anche il reddito e il consumo. Il semplice livellamento coatto dei consumi, attuato con metodi politici e polizieschi, in permanenza e anzi in allargamento dei differenziali di sapere e di potere sociale dovuti alla divisione sociale e tecnica del lavoro, è qualcosa di temporaneo e che non può riprodursi a lungo se non con forme di dittatura sociale e minoritaria. L’impossibilità storica di far convivere democrazia e comunismo nel Novecento, un’impossibilità che ha dato luogo a una ricchissima produzione tecnica di tipo filosofico e ideologico, non è allora dovuta a una perversità immanente al progetto comunista oppure a una fantomatica “resistenza” della natura umana all’artificioso e innaturale esperimento comunista, ma è dovuta essenzialmente al mancato sviluppo comunitario di un’armonica crescita di un sapere e di un potere sociale realmente diffuso in tutti i membri della comunità stessa. 2. Quanto ho detto nel precedente paragrafo, porta alla conclusione che una vera e propria “confutazione definitiva” del comunismo come progetto comunitario radicale potrebbe venire soltanto in presenza di una dichiarata impossibilità sistemica e antropologica di una crescita armonica ed equilibrata del sapere e del potere sociale, unico presupposto ideale e materiale di una corrispondente crescita equilibrata anche dei redditi e dei consumi individuali e collettivi. Ma questa confutazione definitiva non potrà venire mai, perché la natura razionale e sociale dell’uomo inteso come ente naturale generico non pone ostacoli insormontabili alla teoria e alla pratica di una simile crescita armonica ed equilibrata.

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La conclusione di questo ragionamento è che non c’è dubbio, da un lato, che il comunismo storico novecentesco veramente esistito sia fallito, ma non c’è anche dubbio, dall’altro lato, che questo fallimento è integralmente storico, non eterno e meta-storico, e che sono anche storiche le cause di questo fallimento, che devono allora essere anch’esse indagate con metodo storico e non metafisico. L’ulteriore conclusione di quanto detto, è che tutte le teorie sulla cosiddetta “fine della storia”, che sono propriamente delle teorie apologetiche e ideologiche che auspicano una “fine capitalistica della storia universale”, sono prive di fondamento, perché in modo scorretto trasformano un evidente fallimento storico contingente in un eterno fallimento metastorico e metafisico. 3. La diagnosi storica che ho anticipato sulle cause profonde della dissoluzione dei sistemi di stati e partiti che hanno costituito il “comunismo storico novecentesco” (1917-1991), da tenere ben distinto dal comunismo utopico-scientifico di Marx (l’ossimoro è volontario e verrà chiarito più avanti) permette di capire che le patologie che hanno portato alla morte l’esperienza della costruzione politico-sociale del comunismo sono anche patologie del comunitarismo. Chiunque pensi di poter semplicemente contrapporre un fantomatico “comunitarismo” ai due opposti patologici dell’individualismo proprietario liberale, da un lato, e del collettivismo dispotico comunista dall’altro, mostra di non aver capito niente e di accontentarsi del vecchio e discreditato giochino intellettuale chiamato della “terza via”, per cui si crede di aver risolto tutto semplicemente fissando in astratto due opposti e fissando altrettanto astrattamente un punto intermedio in cui si crede di aver scoperto l’araba fenice e la pietra filosofale. Un “elogio del comunitarismo” di questo tipo non servirebbe proprio a niente, se non a fornire l’ennesima gratificazione narcisistica a chi crede in questo modo di aver trovato un punto archimedeo da cui sollevare il mondo.

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4. Parlare di comunismo comporterebbe parlare subito di Karl Marx (1818-1883), considerato a ragione il massimo teorico filosofico e scientifico del comunismo moderno. Tuttavia, per non ripetere inutilmente due volte le stesse cose, non parlerò di Marx in questo capitolo, ma ne parlerò solo nel prossimo, che inserisce Marx dentro una storia complessiva del comunitarismo occidentale, insieme a pensatori come Aristotele ed Hegel, ma non solo. Marx è da me interpretato non certo come un pensatore “compatibile” con la libertà, la democrazia e il comunitarismo, ma come un classico pensatore della libertà, della democrazia e del comunitarismo, ossia come un pensatore del tutto organico e interno a queste categorie. Mentre tutto questo può essere detto di Marx, senza particolari acrobazie filologiche e interpretative, tutto questo non può essere detto a proposito del cosiddetto “marxismo”, per un insieme di ragioni storiche e ideologiche che verranno sommariamente accennate in questo stesso capitolo. Certo, il “marxismo” è solo una astrazione artificiale unificante, perché nella pratica si sono dati solo dei “marxisti” al plurale, in forte e a volte mortale conflitto reciproco. Ma resta il fatto che solo la separazione metodologica fra il pensiero di Marx e la storia del marxismo successivo può permettere di comprendere in che modo il comunismo reale, questa generosa ma settaria patologia del comunitarismo, si è prima trionfalmente sviluppato e si è poi progressivamente corrotto, indebolito e dissolto. 5. Per partire con il piede giusto e cogliere immediatamente il nocciolo della questione del comunismo, è necessario capire che la prima e fondamentale cosa che deve essere messa in comune in una società è la verità su questa stessa società, e per mettere in comune la verità su di una società bisogna ovviamente mettere in comune la libertà di critica, di espressione e di interpretazione. Per parafrasare il linguaggio del marxismo storico, la verità e la libertà non fanno parte del “piano superiore” delle sovrastrutture ideologiche, bensì dei fondamenti della cosiddetta “struttura”.

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Un qualsiasi marxista vi dirà che la struttura di un modo di produzione (ad esempio, del modo di produzione capitalistico) è costituita dalla dialettica fra lo sviluppo delle forze produttive sociali, da un lato, e il conflitto di classe interno ai rapporti sociali di produzione, dall’altro. Non intendo affatto negare che sia così, ma intendo aggiungere quello che non è per nulla un codicillo minore, vale a dire che la struttura di una società può essere rivoluzionata, ammesso che lo possa essere (e io penso che lo possa) a partire prima di tutto dalla verità su se stessa. E la verità su se stessa non può essere conseguita al di fuori di una pratica dialogica permanente, e non ci può ovviamente essere libertà dialogica in presenza di un controllo tirannico sulle idee. 6. In estrema sintesi, possiamo dire che la verità, o meglio la verità su se stessa che una comunità deve poter produrre partendo dal suo interno, ha un avversario, l’errore, e un nemico, la menzogna. Occorre saper distinguere molto chiaramente fra avversario e nemico, e quindi fra errore e menzogna. L’errore è sempre correggibile con il dialogo critico, mentre la menzogna è un nemico con cui non si può in alcun modo venire a patti, perché la menzogna non è interessata al dialogo e al confronto, ma soltanto alla violenza e alla manipolazione. Per questa ragione, nei paragrafi successivi prenderò prima in esame gli errori del modello teorico “marxista”, errori che fanno fisiologicamente parte di qualunque progetto scientifico serio, e solo dopo prenderò in esame le menzogne, da tenere ben distinte dagli errori. Se il lettore mi seguirà con attenzione in questo esame, la tesi anticipata sulla natura del comunismo come patologia generosa e radicale del comunitarismo non apparirà campata in aria o estemporanea, ma risulterà come una legittima ipotesi filosofica e scientifica. 7. Anche se oggi Marx è stato sepolto con imbarazzo dagli apparati ideologici del sistema universitario e del circo mediatico, in gran parte a causa del fatto che la generazione che oggi ne gestisce

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il dominio deve farsi perdonare i trascorsi giovanili estremistici, resta una piccola parte di studiosi intelligenti che continuano in qualche modo a farvi riferimento e a studiarne le opere. Tuttavia, in molti casi questi studiosi continuano a riprodurre un modello teorico errato, che cercherò di compendiare così: da un punto di vista politico, l’utopia comunista di Marx è tramontata per sempre e mai più risorgerà, perché è stata definitivamente smentita dal crollo catastrofico del sistema di partiti e di stati del comunismo storico novecentesco; ma da un punto di vista scientifico, invece, Marx è stato il profeta e l’anticipatore di quella generalizzazione dell’economia capitalistica nel mondo intero che va oggi sotto il nome di “globalizzazione”. Marx è stato dunque il profeta della globalizzazione. Non è esattamente così per almeno due ragioni che conviene trattare separatamente. 8. In primo luogo, tutti i tentativi di separare in Marx un elemento utopico-politico, falso, da un elemento economico-scientifico, vero, tentativi che si ripetono sempre uguali da più di un secolo (vedi Benedetto Croce), non tengono conto di un fatto molto importante, e cioè che in Marx c’è una peculiare fusione fra un’utopia filosofica (l’utopia idealistica e romantica tedesca della piena riconciliazione dell’uomo con la sua natura sociale non alienata) e una previsione scientifica, quella del tramonto del modo di produzione capitalistico dovuto non a cause “esterne” (arrivo dei marziani, sollevazione di contadini e indigeni poveri), ma proprio a cause “interne”, legate alla stagnazione produttiva cui avrebbe ad un certo punto portato la stessa produzione capitalistica, in cui il general intellect (ossia le potenze mentali evocate dalla stessa produzione capitalistica con la sua continua incorporazione della scienza nell’innovazione tecnologica produttiva) si sarebbe ad un dato momento staccato dalla classe dei borghesi proprietari e imprenditori per legarsi invece al lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, che per Marx era il portatore storico e sociale della rivoluzione comunista (e non, come generalmente si crede nel-

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la pittoresca disinformazione sul pensiero di Marx, la semplice classe operaia, salariata e proletaria, e tanto meno la classe dei poveri e degli svantaggiati). Per questa ragione, la natura profonda del pensiero di Marx può essere definita di tipo utopico-scientifico. Chi considera questo ossimoro contraddittorio (una cosa o è utopica o è scientifica, non può essere le due cose allo stesso tempo) non conosce la logica di Hegel, o meglio non la conosce sufficientemente. 9. In secondo luogo, Marx è certamente stato un teorico della mondializzazione progressiva dei rapporti di produzione capitalistici, in cui vedeva una forza e una energia tali da portare all’inevitabile schiacciamento dei precedenti rapporti di produzione precapitalistici. Ma questa mondializzazione dei rapporti di produzione capitalistici, peraltro prevista anche da tutti gli altri studiosi non marxisti, non coincide affatto con quanto si intende oggi generalmente per “globalizzazione”. Con questo termine, infatti, oggi si intende non la semplice mondializzazione del capitalismo, ma un insieme di affermazioni in gran parte discutibili e addirittura false, come la fine degli stati nazionali e della loro sovranità, la fine dei conflitti di tipo imperialistico, la formazione di uno spazio economico liberale e concorrenziale dominato da imprese transnazionali senza più alcun radicamento territoriale, eccetera. Ebbene, tutto questo sostanzialmente non c’è. Da qui si ricava che Marx è certamente stato un teorico che ha previsto l’attuale tumultuoso processo di mondializzazione del capitalismo, ma non può e non deve essere definito tout court un teorico della cosiddetta “globalizzazione”. 10. C’è poi una terza, cruciale questione che conviene segnalare subito per la sua importanza. Si dà infatti quasi per scontato che il pensiero di Marx, o più esattamente il suo metodo di analisi complessiva della riproduzione sociale di un intero, siano stati “smentiti” dalla storia del fallimento delle società che si sono richiamate

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al suo nome e ne avevano addirittura imposto lo studio coattivo nei loro sistemi scolastici e universitari. Non è così, ed anzi è paradossalmente il contrario. Se per metodo di Marx si intende il suo metodo autentico (comprendendovi anche i suoi errori), e non l’insieme di menzogne ideologiche artificiali chiamato “marxismo”, se ne ricava che anzi il metodo di Marx resta tuttora il migliore anche e soprattutto per capire la dinamica del fallimento dissolutivo dei sistemi socialisti, e non è neppure difficile spiegarne brevemente le ragioni. Il metodo di Marx resta un metodo “strutturale”, al punto che la stessa nozione di “materia” e di “materialismo”, spesso artificialmente appiccicata come un francobollo per connotare il suo pensiero, è una metafora impropria per dire “struttura” e “strutturalismo”, cose che non c’entrano nulla, ma proprio nulla, con la nozione di “materia” delle scienze naturali (fisica, chimica, biologia) e della storia della filosofia (Epicuro, Feuerbach). In quanto metodo strutturale, esso si applica a tutte le strutture sociali complesse (attenzione, non a quelle naturali, cui non si applica), dall’antico Egitto all’antica Cina, dal mondo greco a quello romano, da quello feudale a quello capitalistico (e dunque anche a quella particolare forma di società definita “socialismo”). Ho rilevato in precedenza che l’unica, vera e propria “struttura” di un modo di produzione è la dinamica allargata di approfondimento e di specificazione della divisione del lavoro sociale e tecnica, dinamica che crea incessantemente ruoli sociali caratterizzati da differenziali estremamente diseguali di sapere e potere prima, e di prestigio, consumo e reddito poi. Tutti gli apparati politici e ideologici del mondo, tutte le espropriazioni giuridiche della proprietà privata, tutte le pianificazioni economiche, tutte le campagne ideologiche di addomesticamento delle masse, tutti gli apparati polizieschi di controllo, non possono fare nulla a lungo termine contro le maestose divaricazioni sociali e di ruolo che risultano dallo stesso sviluppo scientifico e tecnologico, in particolare se le dinamiche comunitarie che potrebbero in parte riequilibrarle vengono sconvolte da decisioni politiche estremistiche che ne

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distruggono il tessuto riproduttivo sostituendogli un’impossibile mobilitazione permanente di tipo ideologico. Si tratta della dinamica della dissoluzione dei comunismi politici novecenteschi, vittime dei loro stessi successi. Il punto chiave da capire, che resta ovviamente del tutto oscuro a tutti coloro che non hanno un approccio dialettico ai fatti sociali ma gli preferiscono l’approccio identitario da tifosi di “sinistra”, è che i processi di progressiva dissoluzione dei comunismi (in Cina a partire dal 1978, in URSS a partire dal 1985) sono stati innescati dai precedenti successi (in URSS a partire dal 1917 e più ancora a partire dal 1929, con l’economia pianificata dei piani quinquennali, in Cina a partire dal 1949) nel processo di industrializzazione, di diversificazione dell’economia e di formazione di una robusta “classe media” di ingegneri, tecnici, amministratori, scienziati. Alla luce del marxismo identitario dei tifosi del comunismo politico, tutto questo appare come un gigantesco tradimento di burocrati corrotti e ansiosi di consumi di tipo “occidentale” e come un correlato processo di istupidimento della solita plebe che non imparerà mai a comandare. Alla luce invece del metodo di Marx, questo appare come un episodio, ad un tempo tragico e grottesco, delle dinamiche storiche di approfondimento dei ruoli antagonistici che sorgono all’interno (e non all’esterno) della divisione sociale e tecnica del lavoro. Il momento comunitario, se è veramente tale, non è in grado di “abolire” questo oggettivo processo di approfondimento e di divaricazione dei ruoli antagonistici sorti sul terreno della divisione sociale e tecnica del lavoro, ma è forse in grado di addomesticarlo parzialmente. Questo momento, evidentemente, è mancato non certo a Marx, che è rimasto un pensatore isolato, ma al comunismo storico novecentesco, che è stato quasi sempre una forma di “comunitarismo coatto”. Ora, il comunitarismo non può essere coatto oltre un certo punto. Studiare le patologie storiche del comunismo storico novecentesco come patologie frutto di un comunitarismo coatto rappresenta un punto di vista finora inedito (almeno a mia conoscenza), ma certamente interessante e fecondo.

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Prima, però, è bene ricordare quelli che sono stati, a fianco delle molte “previsioni azzeccate” anche gli errori (errori, non menzogne) di Marx. 11. È bene ripetere, e se potessi lo ripeterei cento volte senza paura del ridicolo, che l’utopia universalistica dell’emancipazione umana integrale, che Marx ha ricavato congiuntamente dall’escatologia religiosa e messianica di origine giudaica e cristiana e dalla filosofia dell’idealismo tedesco (e di Fichte più che di Hegel), non è, e non può essere in nessun modo, un errore di Marx. Gli errori, infatti, sono sempre e solo proposizioni che affermano o negano qualcosa che non corrisponde in realtà a una configurazione esterna veramente esistente (errori di certezza), oppure sono violazioni della coerenza interna di sistemi logici o logico-matematici (errori di esattezza). Le utopie di tipo religioso o filosofico non sono mai per loro natura “errate”, in quanto non consistono in proposizioni empiriche o logiche che possano essere verificate e/o falsificate con procedure di tipo logico o epistemologico. Questo certamente non significa che le proposizioni religiose e/o filosofiche siano del tutto al di fuori del problema della verità, ed abbiano perciò solo a che fare con le questioni dell’emotività umana non razionale, come afferma in generale la filosofia analitica anglosassone. Non è possibile in questa sede soffermarsi su tale questione cruciale per ragioni di spazio, ma è per ora sufficiente dire che la questione della verità non coincide con le questioni della certezza (fisica), dell’esattezza (matematica) e della veridicità (statistica e letteraria). L’errore di Marx, che non sta nella sua utopia universalistica dell’emancipazione dell’ente naturale generico (che si può condividere – come è il mio caso – oppure non condividere, ma che non è comunque oggetto di verificabilità o di falsificabilità epistemologica e procedurale), sta invece nella sua concezione delle prevedibilità scientifica delle dinamiche complessive degli insiemi sociali. Esiste ovviamente anche una specifica prevedibilità dei fatti umani e sociali, e fin dalla notte dei tempi questa prevedibilità è stata co-

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struita sulla base della analogia con fatti precedenti che vengono raccolti e classificati con il criterio della memoria, della confrontabilità e dell’esperienza. Tuttavia, questo meccanismo cognitivo non porta per nulla a una prevedibilità necessaria, ma solo a una prevedibilità probabile, e spesso anche con un bassissimo grado di probabilità. Marx nacque in epoca romantica (più esattamente tardo-romantica), e dal romanticismo fu influenzata la sua filosofia idealistica (erroneamente da lui creduta materialistica perché era atea e non spiritualistica), mentre a partire dal 1850 l’elaborazione delle sue teorie economiche fu portata avanti in epoca integralmente post-romantica e proto-positivistica. In questo modo, Marx adottò il modello epistemologico positivistico della scienza, considerata come una conoscenza predittiva, in cui anzi la predittività non era solo probabilistica, ma era a tutti gli effetti “necessaria”. Questo si chiama necessitarismo, e il necessitarismo, visto da dietro, è una forma di meccanicismo, e visto davanti, è una forma di teleologismo. Messi insieme, formano un complesso pseudoscientifico che reca in sé la sua potenziale dissoluzione epistemologica successiva. Non si può infatti “prevedere” la necessaria (e cioè sicura e inevitabile) transizione dal capitalismo al comunismo, neppure attraverso sofisticate proiezioni della tendenza alla formazione di soggetti sociali complessivi (il lavoratore cooperativo associato) o di entità collettive (il general intellect). Tutto ritorna comunque a un punto solo, che è la differenza qualitativa fra scienze naturali e scienze sociali, e dunque fra prevedibilità nel mondo della natura e prevedibilità nel mondo della società umana. Marx commise certo questo errore, ma come tutti gli scienziati seri disponeva di una fortissima etica della conoscenza, e l’avrebbe forse corretto. Sta di fatto che morì a sessantacinque anni senza averlo corretto. Il marxismo successivo non solo non lo corresse, ma anzi fondò su questo errore la sua stessa teoria. Essendo per sua natura sociale una forma di positivismo per poveri, non poteva che mutuare dalla sua stessa natura sociale tutti gli elementi teorici di subalternità tipici appunto delle classi dominate. Ma questa è la storia dell’ultimo secolo.

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12. Nel 1884, un solo anno dopo la morte di Marx, Engels scrisse che la fine della produzione capitalistica non era più un’ipotesi azzardata, ma era diventata “un fatto che si stava svolgendo sotto i nostri occhi”. Si era allora all’interno della cosiddetta Grande Depressione (1873-1896), che stava inaugurando la vera e propria età dell’imperialismo, e quindi un fortissimo momento non di crisi, ma anzi di avanzamento, diffusione geografica e consolidamento sociale del modo di produzione capitalistico (economicizzazione del conflitto, nazionalizzazione delle masse, progressiva integrazione nel sistema politico “borghese” degli apparati partitici e sindacali socialisti), e possiamo allora chiederci: come è possibile che un uomo intelligente, poliglotta, informato e pieno di esperienza e senso pratico come Engels potesse commettere un simile errore di prognosi e di prospettiva? Non c’è mai una singola spiegazione monocausale, ma credo che in ultima istanza la ragione stia in una deformazione economicista nell’interpretazione della realtà sociale complessiva, per cui si pensa che una crisi economica di sovrapproduzione e/o di sottoconsumo equivalga a una crisi sistemica generale dell’intero modo di produzione capitalistico. Si tratta dell’economicismo, la principale patologia del corpo sociale marxista, equivalente a quello che sono per il corpo umano i tumori e le cardiopatie messi insieme. Il marxismo, infatti, non si ammala soltanto di economicismo, così come si ammala di altre patologie non mortali come il culturalismo e l’utopismo eccessivo. Il marxismo muore di economicismo, che è per definizione la sua patologia veramente infausta. Il modo di produzione capitalistico, a differenza di quelli precedenti, vive e si rinvigorisce con le crisi economiche che ciclicamente (si noti bene: ciclicamente, e non a stadi e tanto meno teleologicamente) lo caratterizzano. In ogni crisi economica il capitalismo si disfa di tossine accumulate in precedenza, attua una lavanda gastrica integrale e soprattutto inizia un ciclo di innovazioni creative di processo e di prodotto non solo dal punto di vista delle merci “materiali” prodotte (automobili, aeroplani, televisio-

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ni, computer, telefonia mobile), ma anche e soprattutto di innovazioni creative e funzionali nel campo simbolico di riproduzione umana (forme di apprendimento scolastico, modi di impiegare il tempo libero, mercati generazionali di abbigliamento e intrattenimento musicale). L’economicismo impedisce di capire tutto questo. E di lì sorge anche l’idea, che si è dimostrata errata, secondo cui il capitalismo sarebbe caratterizzato dall’incapacità di sviluppare le forze produttive. Nulla di meno esatto. Il capitalismo è la forma di produzione più adeguata a sviluppare le forze produttive, sia pure in un contesto di inquinamento ecologico e soprattutto di dissoluzione comunitaria. Come ha potuto Engels (ma prima di lui anche Marx) sbagliarsi così tanto? Faccio un’ipotesi. Tutti e due avevano forse una concezione “naturalistica” del capitalismo, nel senso che legavano la produzione capitalistica al soddisfacimento progressivo di bisogni in fondo “naturali”. Su questa base, si può capire che gli venisse l’idea che ad un certo punto questi ultimi fossero adeguatamente soddisfatti, e allora dovesse necessariamente venire un’epoca di stagnazione permanente, e quindi di crisi di realizzo, di sovrapproduzione e di sottoconsumo. Ma il capitalismo, nella sua dinamica, produce gradi di vera e propria “artificialità” sociale e antropologica sempre maggiori, per cui i bisogni (e ancor più i desideri, per loro natura illimitati) vengono incessantemente creati, in una vera e propria “creazione continua” del consumatore, che da homo sapiens diventa homo consumans. 13. Il secondo grande errore del marxismo, come è noto, fu l’investitura metastorica della classe operaia, salariata e proletaria non solo a classe universale (Lukács 1923), ma anche a soggetto sociale decisivo nel conseguimento della capacità di “egemonia” nella transizione dal capitalismo al socialismo e poi al comunismo (Gramsci). Marx era in realtà più cauto, perché per lui il soggetto era il lavoratore collettivo cooperativo, di cui però anche per lui

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la classe operaia era l’avanguardia politicamente e sindacalmente organizzabile per poter effettuare praticamente questa transizione e non restare nel mondo dei sogni. La storia ha incontestabilmente dimostrato che in realtà la classe operaia, salariata e proletaria (i tre termini non sono affatto sinonimi, ma qui per brevità non è possibile illustrarne adeguatamente le distinzioni) produce comportamenti eversivi, ribellistici e antisistemici soltanto nella sua prima fase di uscita recente dalle comunità contadine, bracciantili, artigiane e comunque precapitalistiche, mentre diventa uno dei gruppi sociali più facilmente inseribili e integrabili nel capitalismo attraverso il riformismo e soprattutto attraverso le tecniche di consumismo individuale e collettivo, non appena passato il primo momento di “uscita” dal comunitarismo precedente. Di fatto, e praticamente senza eccezioni dalla Germania alla Corea e dalla Spagna al Brasile, il principale fattore dei comportamenti operai di tipo anticapitalistico non è dovuto al fatto che la classe in questo modo anticipa il dopo, ma tutto al contrario che la memoria collettiva della classe ricorda il prima. Non anticipa dunque il dopo comunista, ma semplicemente ricorda il prima comunitario. 14. Ho segnalato fin qui due errori già presenti nei fondatori del marxismo e poi sistematizzati e diffusi a partire dal ventennio della coerentizzazione del modello marxista (1875-1895). Ora, gli errori sono un momento necessario e interno alla prassi scientifica e al progredire della ricerca. Gli errori sono fatti per essere corretti. Se non ci fossero, non potrebbero neppure essere corretti, e la conoscenza scientifica si fermerebbe. La questione diventa allora: quando e soprattutto come gli errori smettono di essere tali e diventano menzogne? Quali sono i processi individuali e sociali che rendono possibile questo passaggio velenoso?

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15. A livello di senso comune, le cose sembrano semplici: l’errore c’è quando ci si sbaglia in buona fede, mentre la menzogna c’è quando si mente sapendo perfettamente di mentire ed essendone consapevoli. Come è noto, la psicanalisi ha complicato questo schema elementare, introducendo i casi in cui la rimozione di qualcosa che abbiamo inconsciamente cacciato in fondo alla coscienza fa sì che mentiamo a noi stessi e agli altri senza neppure esserne pienamente consapevoli. Il metodo di Marx introduce fra l’errore (in buona fede) e la menzogna (in mala fede) un terzo elemento intermedio chiamato “falsa coscienza”. La falsa coscienza c’è quando noi, inseriti inconsapevolmente all’interno di formazioni psichiche di tipo ideologico, ci facciamo un’immagine della realtà non corrispondente al vero, ma all’inizio lo facciamo in perfetta buona fede. La menzogna vera e propria viene solo in un secondo momento, quando questa “falsa coscienza” si irrigidisce, si solidifica, marcisce e non può più essere curata razionalmente e dialogicamente. Facciamo un esempio preso dalla storia del comunismo. Quando Lenin, nel 1917, assunse l’iniziativa soggettiva di prendere il potere e il “papa” del marxismo ortodosso, Karl Kautsky, gli rinfacciò che stava facendo solo un colpo di stato di tipo “blanquista”, perché non erano ancora maturate in Russia le condizioni preliminari dello sviluppo delle forze produttive, Lenin gli rispose in perfetta buona fede, ma anche in evidente falsa coscienza, che il vero “ortodosso” era lui, non Kautsky, in quanto ormai nell’epoca delle grandi guerre imperialiste per la spartizione del mondo la rivoluzione socialista non avrebbe più avuto luogo inizialmente nei punti alti dello sviluppo capitalistico, ma negli anelli deboli della catena mondiale imperialistica, e la Russia era proprio uno di questi anelli deboli, anzi il più debole di tutti. Lenin non mentiva, e non stava neppure commettendo un errore, perché a mio avviso la sua scelta rivoluzionaria soggettiva era perfettamente giustificata, e fu poi provvidenziale soprattutto per aiutare le giuste lotte di liberazione dei popoli coloniali. Era però

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interno a una forma di “falsa coscienza”, perché pensava di essere “ortodosso”, laddove non c’era nessuno al mondo più “revisionista” di lui, in quanto appunto “revisionava” l’intera teoria della transizione dei classici del marxismo. E allora chiediamoci: nella serie successiva errore-falsa coscienza-menzogna, quando e come si passa dalla falsa coscienza alla menzogna? 16. Si tratta di una domanda cui è possibile rispondere con una certa sicurezza: la serie sequenziale non può essere interrotta, e tanto meno modificata e corretta, senza che venga in qualche modo istituzionalizzata la libertà di opinione e di espressione, e senza che venga altresì istituzionalizzata la democrazia politica, intesa non solo e non tanto come principio di maggioranza, quanto come processo di estensione quantitativa e qualitativa della partecipazione dei membri della comunità. Come sarebbe infatti possibile l’auto-correzione degli errori se si chiude la bocca e si minaccia con il licenziamento, l’imprigionamento e la morte coloro che hanno delle riserve da fare? A questo punto, voglio chiarire un possibile equivoco per non essere frainteso. Non credo affatto, come la stragrande maggioranza degli intellettuali corrotti e pentiti della mia sciagurata generazione passata dall’estremismo operaistico al neoliberalismo interventistico, che il fenomeno del comunismo storico novecentesco (1917-1991) sia da interpretarsi come un “incidente di percorso totalitario” della grande marcia della libertà nella storia, libertà che dovrebbe poi concludersi con un capitalismo liberale globalizzato che esporta con le armi la sua ripugnante religione dei diritti umani adattata al suo dominio. Neppure per sogno. Considero il comunismo storico novecentesco (1917-1991), che non c’entra nulla con Marx (e lo si potrebbe pacatamente dimostrare, se il clima intellettuale non fosse “drogato” e corrotto), un fenomeno pienamente legittimo, perché ritengo del tutto legittimo che l’umanità si ponga il problema politico e sociale di una società sen-

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za classi. Che poi la legittima utopia di una società mondializzata senza classi sfruttatrici abbia preso la forma di un progetto sociologico monoclassista proletario in assenza di democrazia politica e di stato di diritto è molto spiacevole, ed è allora necessario trarne profondi insegnamenti. Ma non ha proprio senso gettare via il bambino con l’acqua sporca. Dirò di più. Dal 1985 al 1989 ho sperato che Gorbaciov, che non sapevo ancora essere un dilettante senza bussola e senza progetto, riformasse profondamente il fatiscente baraccone iniettandogli dosi sufficienti di libertà, democrazia, consenso, economia mista e produttività. Avevo dimenticato che si stava invece manifestando una maestosa controrivoluzione delle nuove classi medie contro un proletariato ormai inesistente politicamente, perché spezzettato e atomizzato dal dispotismo. Considero tuttora una terribile tragedia storica la mancata auto-riforma del sistema socialista, che ha consegnato per ora il mondo (ma per quanto tempo, nessuno lo sa) all’impero unilaterale degli USA, che ritengo essere il principale nemico dei popoli e delle nazioni del mondo. Avevo sottovalutato il grado di corruzione e di nichilismo dei manigoldi al potere in questi paesi, ed il correlato grado di impotenza politica e di frammentazione sociale delle plebi che erano state qualche decennio prima dei “popoli”, ma che ormai non lo erano più, perché non si può essere popoli senza libertà di espressione e senza democrazia politica. 17. Il sistema socialista aveva bisogno di conoscere la verità su se stesso, e non poteva chiaramente conoscerla in un contesto di dispotismo politico e di assenza di democrazia. Il capitalismo non ha bisogno di conoscere la verità su se stesso, perché la sua riproduzione non avviene secondo un progetto razionale, ma secondo il nichilismo insito nella forma di merce che lo caratterizza. La filosofia spontanea del capitalismo è il relativismo, per il semplice fatto che tutto è relativo, perché tutto è in relazione esclusiva con il potere d’acquisto di beni e servizi cui ciascuno può accedere a seconda del suo reddito monetario. Ma il socialismo non poteva

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permettersi questo relativismo, in quanto era una società che pensava se stessa in modo teleologico, come un insieme sociale che “andava” verso una certa direzione finale, che era appunto il comunismo. A questo punto, per fare chiarezza su se stessa, questa società aveva di fronte a sé tre strade: un abbandono della finalità integralmente comunista, ritenuta un semplice ideale utopico irrealizzabile; un ritorno guidato al capitalismo (come è avvenuto in Cina), senza però che si disfacesse l’intero tessuto sociale; infine, una forma di comunitarismo democratico intermedio fra capitalismo e comunismo, che potesse evitare le due precedenti soluzioni. Tutti sappiamo come è andata a finire. Chiudiamo questo terzo capitolo dopo aver messo a fuoco la questione del comunitarismo. Fino ad ora abbiamo trattato tale questione in modo solo marginale e derivato, ma non potevamo fare diversamente, in quanto era necessario “spianare il terreno”. Da adesso in poi, però, di comunitarismo parleremo in modo esplicito e sistematico, e si vedrà allora che un “elogio” è del tutto giustificato.

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IV

La tradizione del comunitarismo nel pensiero occidentale. Aristotele, Hegel, Marx

1. Per ragioni che verranno analizzate nel prossimo capitolo, coloro che oggi, andando controcorrente, ritengono opportuno fare un elogio del comunitarismo, sono spesso colti da un sottile imbarazzo, perché sanno bene che la “comunità”, intesa come categoria politica e come presupposto sociale per l’elaborazione di un’etica potenzialmente universalistica, si è prestata storicamente a fraintendimenti e a deformazioni terribili, di tipo localistico, razzista, etnicista. È certo difficile fare i conti con quello che è chiamato da molti “il passato che non passa”. Ma talvolta il passato è già del tutto passato e viene tenuto artificialmente in vita per impedire ai viventi di pensare e di agire nel loro presente secondo i conflitti del presente stesso. Oggi questa situazione ha raggiunto livelli quasi patologici, e la continua agitazione della bandiera dell’Antifascismo in assenza completa di Fascismo e della bandiera dell’Anticomunismo in assenza completa di Comunismo deve essere interpretata come sintomo di un deficit di legittimazione ideale delle società contemporanee. Una società senza comunità, formata da un tessuto di relazioni flessibili fra individui atomizzati e sradicati, mossi solo da flussi di consumo rinforzati da immagini pubblicitarie virtuali, non può dire la verità su se stessa, e allora proietta la propria

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legittimazione in un passato in cui c’erano ancora fascisti contro antifascisti e comunisti contro anticomunisti. Il primo passo da compiere, allora, è quello di superare il complesso di inferiorità e di imbarazzo che necessariamente coglie chi nuota contro la corrente. Per poterlo fare, è necessario essere convinti della plausibilità della propria causa. E la causa del comunitarismo è una tipica causa plausibile, in quanto si tratta di un concetto sociopolitico estremamente radicato nella tradizione occidentale, e non solo in questa. Per poterlo dimostrare è utile tracciare una rapida storia del rapporto fra il comunitarismo e la tradizione filosofica occidentale, da cui si ricaverà facilmente che questo rapporto è stato ed è molto più “organico” di quanto generalmente siamo abituati a pensare. 2. L’intera storia della tradizione filosofica occidentale può essere ricostruita senza alcuno sforzo o deformazione unilaterale sulla base della categoria di comunità. Ed anzi, se facciamo un rapido esame comparativo fra la nascita della filosofia nell’antica Grecia (Parmenide) e nell’antica Cina (Confucio), in cui è dimostrata la totale assenza di rapporti reciproci diretti o indiretti, vediamo che in tutti e due i casi al centro dell’attenzione dei filosofi sta la “ricomposizione ideale” di un intero comunitario nel frattempo corrotto e dissolto, in vista di una nuova armonia comunitaria da ricostruire razionalmente e senza più ricorrere all’autorità dei miti cosmogonici precedenti. Dal momento che gli antichi greci e gli antichi cinesi hanno elaborato le loro filosofie sociali senza poter in alcun modo comunicare le loro opinioni e le loro impostazioni, se ne deve ricavare che esistono “universali problematici” comuni a tutte le società organizzate, anche prima che sia possibile una comunicazione diretta scritta o parlata. E allora il “minimo comun denominatore” di tutte le società umane non potrà essere definito in modo puramente materiale (tutte le società devono rispondere a problemi simili per procurarsi il cibo, ripararsi dal caldo e dal freddo, costruire abitazioni e

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strumenti), ma dovrà essere ricostruito anche in modo “ideale”. E il modo ideale non riguarderà allora solo le cerimonie funerarie, i miti, il totemismo, lo sciamanesimo, ma anche il comune problema della costruzione simbolica della comunità. Un rapido riferimento alla tradizione filosofica greca (dal momento che lo spazio, ma solo lo spazio, impedisce uno studio comparativo con India e Cina) porterà a dimostrare quanto ho appena anticipato. 3. La filosofia greca non nasce, come molti credono in base a una autorevole (ma non per questo da prendere a scatola chiusa come oro colato) opinione di Aristotele, dalla ricerca delle cause delle cose, più esattamente dalla classificazione delle quattro cause (materiale, formale, efficiente e finale). La filosofia greca nasce da un fatto storico e sociale, e cioè dalla minaccia di insensatezza totale della vita individuale e associata che risultava dalla dissoluzione delle forme di vita comunitarie precedenti, tenute insieme dal mito e dalle cerimonie religiose familiari e tribali, e dalla correlata formazione di una nuova società maggiormente “individualistica”, in cui appunto la comunità precedente era spezzata e indebolita dal nuovo potere dissolutore del denaro. La comunità precedente era vista come un insieme sociale sacralizzato dalla tradizione e caratterizzato dalla Misura (metron). La Misura, che in Omero significa ancora precisa quantità misurabile di cui appropriarsi individualmente da un insieme comune di oggetti, diventa già in Esiodo sinonimo di Moderazione. E questo non è un caso, in quanto le Erinni, le divinità che tormentano, si accaniscono appunto contro coloro che hanno distrutto la giusta misura (Dike, dikaion, metron), e in questo modo hanno distrutto anche l’equilibrio (isorropia) che deve regnare in una comunità (koinonia) per far sì che in questa comunità si instauri la concordia (omonoia). Quando Parmenide parla di Essere (to on) e ne illustra la stabilità e la permanenza nel tempo, per cui addirittura il tempo stesso di-

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venta una illusione, è ragionevole pensare che questo stesso Essere, proprio per la sua indeterminatezza e la sua non-corrispondenza a niente di definito e di concretamente indicabile, sia in realtà la metafora di qualcosa d’altro, vale a dire proprio la permanenza, da Parmenide auspicata, di norme e costumi sociali comunitari che egli teme possano dissolversi e che intende appunto conservare con il marchingegno teorico della loro elevazione a qualcosa di assolutamente immutabile. Il concetto filosofico di Essere, allora, non può certo essere interpretato in modo materiale come un insieme di corpi celesti, pietre, animali, terra e mare, oggetti, montagne. Per indicare la totalità degli oggetti materiali esistenti fuori di noi, e in cui peraltro anche noi siamo compresi, esisteva già la buona e vecchia nozione di Mondo (kosmos) e non c’era nessuna necessità di “raddoppiare” questa nozione con un’altra semanticamente e concettualmente identica. Si può allora giungere alla ragionevole e difendibile conclusione per cui la categoria di Essere (to on), lungi dal voler riflettere un insieme di corpi materiali che “riempiono” tutto lo spazio esistente, riflette in realtà la metafora di una comunità pensata come eterna e immutabile, le cui norme sociali non devono e non possono essere mutate senza cadere nel Nulla. 4. Pur senza avere qui lo spazio per sviluppare adeguatamente il ragionamento, accenno subito rapidamente alle categorie filosofiche di Verità e Nichilismo, per mostrare che anch’esse trovano la loro genesi logica e storica nella problematizzazione filosofica della comunità. Della categoria filosofica di Verità si sono date e si possono dare diverse definizioni (verità come corrispondenza, verità come coerenza, verità come convenzione stipulata, eccetera) che qui non posso discutere. In sintesi, la concezione della verità come corrispondenza concettuale a una realtà esterna considerata esistente indipendentemente da noi (teoria della verità condivisa – e non è un caso – sia dalla teologia cristiana che dal marxismo) trascura il

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fatto che storicamente il processo progressivo di umanizzazione storica dell’uomo (ominazione) si è basato su una indistinzione strutturale fra macrocosmo e microcosmo, o più esattamente fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale. Questa indistinzione si è poi progressivamente “fessurata” in diversi modi (Grecia, Israele, India, Cina), ma ciò che ci interessa qui non è seguirne comparatisticamente le varie modalità di “fessurazione” (molto grande in Grecia, molto minore in India e Cina), quanto il fatto che questa indistinzione rifletteva il rapporto fra il microcosmo sociale della comunità e il macrocosmo naturale del cosmo in cui questa comunità stessa era inserita. Ne consegue che la nozione astratta di “verità” non nasce come approssimazione scientifica successiva alla conoscenza sempre migliore di un mondo esterno dato per preesistente, bensì come raddoppiamento della comunità sociale materiale in una comunità ideale di fatti e valori condivisi, e condivisi proprio perché si fa parte originariamente e/o per via acquisita della stessa comunità. In proposito, solo il processo storico di individualismo e individualizzazione, sempre più forte a partire dal Seicento europeo, ha potuto portare alla deformazione illusoria per cui la “verità” non sarebbe un concetto comunitario (è vero ciò che è comune alla comunità e ne impedisce la dissoluzione distruttiva), ma sarebbe invece un concetto “scientifico”, e cioè un insieme di procedure sperimentali e/o matematizzabili rivolte alla conoscenza di oggetti esterni del tutto “neutrali” rispetto all’equilibrata e armoniosa riproduzione comunitaria. A questo punto, il raggio della morte che ci ucciderà tutti verrà definito “vero” in piena indipendenza dal suo significato sociale, e la sua “verità” sarà solo l’insieme di leggi fisiche, chimiche e ingegneristiche che ne consentono la piena realizzabilità. Un discorso analogo può essere fatto per la categoria filosofica di Nulla, e quindi di nichilismo. Il Nulla filosofico non può certo indicare qualcosa di materiale, ossia l’assenza di oggetti o di elementi chimici verificabili. Il Nulla filosofico è un nulla di senso e di significato, ed indica appunto un’assenza generalizzata e sempre

crescente di significato. Ma l’uomo è un essere che trae la stessa percezione intellettuale del Significato solo dalla sua dimensione sociale e comunitaria, perché, se invece di essere un animale sociale, razionale e generico, fosse una sorta di Robinson Crusoe che fin dalla nascita non ha mai conosciuto nessuno e vive da solo tutta la propria vita, questo stesso ente non potrebbe neppure articolare linguisticamente la categoria di Significato e potrebbe solo oscillare fra stati d’animo di gioia e dolore, esaltazione e delusione. Ne risulta che, almeno all’origine, il Nulla è sempre un Nulla di Comunità, un’assenza di significati sociali e umani relazionali, un pericoloso e doloroso sprofondamento nell’insensatezza. In conclusione, lo stesso concetto di “senso filosofico” delle cose ha come sua genesi ideale e materiale il rapporto (o l’interruzione di un rapporto) fra l’individuo e la comunità in cui questo individuo è inserito. Un’ulteriore analisi nei dettagli della tradizione filosofica greca, qui impossibile per ragioni di spazio, porterebbe ulteriori elementi di dimostrazione a questa mia tesi. 5. A questo punto, è assolutamente necessario un chiarimento decisivo. La comunità originaria caratterizzata dall’armonia e dall’equilibrio, e ancor più dalla “spontaneità secondo natura” di cui parlano gli antichi filosofi greci e cinesi, non è ovviamente mai esistita, ma è una costruzione ad un tempo razionale e fantastica sorta sulla base di una specie di “archetipo” ideale. Le comunità reali che hanno preceduto il tempo storico di Parmenide e di Confucio, di Anassimandro e di Lao Tse, erano comunità tribali in cui naturalmente non c’era nessuna perfezione e nessuna “corrispondenza armonica” con la natura, ma in cui i neonati con malformazioni erano uccisi e i vecchi erano abbandonati a morire soli perché la tribù non aveva abbastanza risorse. Inoltre, non regnava nessuna “pace”, ma al contrario i gruppi nomadi e quelli pastorali massacravano i gruppi stanziali di allevatori e agricoltori fino all’ultimo uomo, spingendosi fino a sbattere i neonati contro i muri per poterli uccidere più in fretta.

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L’idealizzazione della comunità originaria armonica è quindi solo un archetipo. Eppure, questo prodotto dell’immaginazione è lo stesso meccanismo che presiede alla genesi delle religioni: il tempo viene fermato, perché si individua nel suo scorrimento la dissoluzione nichilistica delle abitudini e dei costumi comunitari originari. Questi ultimi vengono “idealizzati” perché questo processo di idealizzazione serve a fornire alla comunità modelli eterni di comportamenti sociali ritenuti “ottimi”. In sintesi: la tradizione filosofica occidentale (ma non solo) nasce come riflessione razionale sulla natura della verità sociale, una volta che questa verità è messa in pericolo dall’avvento di una insensatezza che è sempre principalmente una insensatezza comunitaria, più esattamente l’insensatezza prodotta da una autonomizzazione individualistica ed egoistica che tende a violare la Misura (metron) considerata adatta ai rapporti sociali. Per poter ristabilire questa misura, l’uomo – cioè quell’essere politico e razionale che dispone del linguaggio (logos, dia-logos), potrà ristabilire l’armonia perduta mediante l’arte (techne) dell’equilibrio comunitario (isorropia), la cui finalità è la concordia fra cittadini (omonoia). 6. Nella mia personale ricostruzione storica della tradizione filosofica occidentale, la scuola di Pitagora è la prima che possa essere considerata portatrice di un insieme di tesi teoriche coerenti. Lo stesso Parmenide, secondo varie fonti, era un pitagorico indipendente. In generale, la tradizione manualistica, quasi sempre fuorviante e ingannevole perché ideologica, tende a richiamare l’attenzione sul numero e sulla geometria come elementi fondamentali della scuola pitagorica. Non intendo certo negarlo, ma nello stesso tempo insisto sul fatto che è necessario un radicale riorientamento gestaltico per comprendere il rapporto organico fra scuola pitagorica e problema comunitario. In caso contrario, i pitagorici possono essere erroneamente intesi come i “precursori” delle facoltà di matematica nell’odierna divisione del lavoro intellettuale e sociale.

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La scuola di Pitagora aveva come suo fondamento storico e sociale il tema del ristabilimento su basi nuove di una comunità armonica, equilibrata e razionale. Il “numero” era anzitutto il fondamento del rapporto matematico fra grandezze prima di tutto sociali in vista dell’ottenimento dell’equilibrio, dell’armonia e della concordia all’interno della polis, la quale era, peraltro, come è ben noto, una comunità politica, e non certo un semplice ordinamento giuridico e giudiziario. In proposito, si tende erroneamente ad insistere sul carattere puramente “aristocratico” del pitagorismo, in particolare all’interno della storia delle poleis della cosiddetta Magna Grecia e della Sicilia. Non intendo negare neanche questo aspetto, che considero però secondario. Quello principale è invece pienamente democratico. Aristotele nota opportunamente (cfr. Politica, 6, 4, 1319b) che la riforma democratica ad Atene era stata fatta in base al principio della mescolanza (anamixis), che fu concretamente realizzata ricorrendo a quadri matematici che riordinavano l’intera comunità intorno ai numeri 5 e 10 (consiglio dei 500, 10 tribù, 10 strateghi, eccetera). La democrazia, potere del demos, di cui ho già fatto notare nel secondo capitolo la natura di tecnica mirante ad evitare l’esplosione sociale e la dissoluzione comunitaria con l’intervento politico consapevole diretto a contrastare la dinamica distruttiva dell’economia lasciata a se stessa, nasce dunque concettualmente e soprattutto filosoficamente non certo per la semplice applicazione del principio di maggioranza, ma con l’inserimento dei rapporti matematici in funzione di armonia, di equilibrio e di concordia comunitaria. Come è possibile, allora, continuare a negare il rapporto stretto che è storicamente intercorso fra filosofia e comunità, o più esattamente tra elaborazione filosofica razionale e dialogica e salvataggio della comunità dalle tendenze dissolutive che, minacciandola, minacciano anche il significato della vita umana in società precipitandola nel nichilismo e nella insensatezza?

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7. I Sofisti, intesi come scuola filosofica unitaria e portatrice di posizioni comuni e coerenti, non sono mai esistiti. Si tratta di un amalgama polemico che Platone si è costruito a tavolino per poter pensare “per differenza” le posizioni di Socrate, eretto ad anti-sofista per eccellenza. Sarebbe come se oggi venissero bollati come “reazionari” tutti coloro che si oppongono alla tradizione socialista e comunista e come “totalitari” tutti i critici del modello neo­ liberale in economia e in politica. In questa mia sommaria ricostruzione, la sofistica mi interessa esclusivamente nel suo rapporto con l’idea e con la pratica comunitaria. In proposito, Gorgia è del tutto marginale e non ci interessa. Gorgia era prima di tutto un avvocato, e la filosofia spontanea degli avvocati consiste nella distruzione della “realtà reale” dei reati commessi e nella sua sostituzione integrale con quella realtà di secondo grado costituita dal convincimento delle giurie giudicanti. “Vero” è ciò che riesce a convincere le giurie, “falso” ciò che non riesce a convincerle. Su questa base concettuale, è ovvio che Gorgia deduca che il logos, inteso unicamente come parola parlata e non come ragione o come calcolo, costruisce la realtà che di per sé non gli preesiste. Un discorso diverso deve essere fatto per Protagora, consigliere di Pericle, pensatore democratico e teorico della comunità. Protagora si pone sullo stesso terreno dei pitagorici, ossia sul terreno del criterio di misurazione, o più esattamente di commisurazione, da adottare nell’interpretazione e nell’attuazione delle azioni umane. E questo criterio è sempre il metron, al punto che il suo principio filosofico, come è noto, è appunto “l’uomo è la misura di tutte le cose”. In una posteriore interpretazione, influenzata da Platone e poi dallo scetticismo accademico, l’“uomo” viene inteso come “qualsiasi uomo particolare”, per cui le cose di per sé sarebbero senza misura possibile, ma la stessa bevanda verrebbe considerata calda o fredda a seconda che a berla fossero un sano o un malato. Non sarebbe allora l’uomo (in generale) la misura di tutte le cose, ma lo sarebbero Tizio o Caio, Alessandro o Callicle. In realtà, solo la sensazione (aisthesis) cambia da persona a persona, non la ragio-

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ne (logos), che invece è comune a tutti, proprio perché la sua applicazione è comunitaria per sua propria essenza. Il principio di Protagora “l’uomo è la misura di tutte le cose” deve dunque essere interpretato come avente per soggetto non quel particolare uomo, ma proprio l’Uomo in generale. Protagora è così non solo l’autentico fondatore dell’Umanesimo nella tradizione filosofica occidentale, ma è colui che per primo pone a fondamento filosofico della comunità sociale e politica l’interpretazione dialogica razionale della Natura Umana, in una tradizione che passa attraverso l’umanesimo rinascimentale (Cusano, Pico della Mirandola) e attraverso la benemerita e sempre attuale scuola del Diritto Naturale (giusnaturalismo), per giungere fino ad oggi alle intelligenti posizioni di Noam Chomsky e di Steven Pinker. Con Protagora, per la prima volta in modo esplicito, non solo viene attribuita in via di principio a tutti i cittadini la capacità potenziale di arrivare con l’educazione (paideia) allo svolgimento dell’attività politica e pubblica (isegoria), ma viene individuato nella interpretazione della Natura Umana, oggetto storico e razionale per eccellenza, il tema pressoché unico della filosofia politica. Senza respingere in alcun modo la religione (e per questo Protagora non deve essere confuso con i moderni “laicisti”, che sotto l’apparenza dell’indifferentismo in materia religiosa sono in realtà nemici della religione stessa), Protagora sostiene che la comunità può essere tenuta simbolicamente insieme non da una religione (monoteista o politeistica che sia, la differenza è molto più piccola di come sembri a prima vista), ma proprio da una filosofia. Ancora una volta, la genesi materiale di una posizione filosofica sta in un suo rapporto organico con la comunità. 8. Come è naturale, la figura di Socrate si è prestata a molte differenti interpretazioni, anche e soprattutto perché Socrate non ha lasciato scritti, e tutto ciò che sappiamo di lui viene da Platone o da Senofonte, che ci danno peraltro immagini non coincidenti. Anche la satira di Socrate fatta dal commediografo Aristofa-

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ne nelle Nuvole non ci aiuta a capire Socrate, ma ci dice solo che al suo tempo molti lo percepivano erroneamente come uno dei tanti sofisti “diseducatori” della gioventù. Evidentemente, Aristofane, definito spesso un po’ frettolosamente “conservatore”, riteneva che la comunità politica degli ateniesi potesse essere tenuta insieme sulla base delle vecchie tradizioni, e non avesse nessun bisogno di una nuova mediazione filosofica. Qualcosa del genere avviene per i “conservatori” di oggi, i quali pensano che il quadro simbolico consegnatoci dalle controversie novecentesche (fascismo, comunismo e rispettivi “anti” tenuti in vita anche dopo la morte clinica accertata del loro antagonista) possa esimerci dal ridiscutere radicalmente i nuovi termini della comunità politica oggi. Sostituire alla filosofia la “satira” (anche se si tratta di satira di buona qualità come quella di Dario Fo) è evidentemente una tentazione permanente di ogni comunità sociale, culturale e politica, ma è anche una strada senza uscita, che rimanda semplicemente il momento della verità che una comunità deve cercare innanzitutto dentro se stessa, e non in “imperi metropolitani” (gli USA di oggi) o in “paradisi esotici” (movimenti di resistenza terzomondisti di oggi). Socrate rappresenta bene il testimone di una comunità politica che cerca la verità dentro se stessa. Presentare Socrate come un pensatore della “destra eterna e atemporale”, e dunque come un nemico programmatico della democrazia, è uno stereotipo insensato da respingere con disprezzo e ilarità. Ma per una volta su Socrate si è sbagliato anche Hegel, quando ha proposto una interpretazione “individualistica” di Socrate, il quale avrebbe simboleggiato il nuovo principio della sovranità assoluta della coscienza individuale che si oppone senza compromessi alla comunità, in questo caso alla comunità degli ateniesi, che perciò è, in un certo senso, più che “giustificata” nel condannarlo a morte. Hegel, a mio avviso, non ha colto il centro del problema di Socrate, che era un patriota ateniese, un patriota comunitario, un cittadino al cento per cento che si era auto-attribuito la funzione patriottica di “fastidioso moscone” che tiene sempre sveglio e vi-

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gile il nobile cavallo della democrazia degli ateniesi. Lungi dall’essere dunque un lontano precursore greco del profilo liberale della cosiddetta “libertà assoluta di opinione e di espressione”, Socrate non può essere pensato al di fuori della propria comunità politica di riferimento, cui vuole fornire con la proposta della sua tecnica dialogica veritativa (ironia-maieutica-omologia, cioè accordo) il raddoppiamento razionale dell’ispirazione filosofica della costituzione democratica di Clistene (ispirazione pitagorica-equilibrio mediante la mescolanza-concordia). La comprensione di questo punto è assolutamente decisiva. Socrate è stato eretto dopo la sua morte a simbolo di cose che ai suoi tempi gli erano in parte estranee: annunciatore protocristiano dell’immortalità dell’anima dopo la morte, testimone ideale dell’atteggiamento che un vero filosofo deve avere di fronte alla morte, portatore del principio del razionale convincimento individuale rispetto a maggioranze “legali” ma non legittime, e così via. Questa “eccedenza” di significati non è affatto cattiva, perché è tipico della filosofia avere una “validità” perenne anche e soprattutto al di là delle congiunture storiche particolari che ne hanno permesso la genesi. Ma se vogliamo interpretare Socrate secondo Socrate, allora salta agli occhi il suo profilo di intellettuale comunitario, di patriota ateniese che vuole dotare la sua comunità di una nuova “verità”, non più ricavata solo dalla tradizione e/o dall’abitudine, ma ottenuta mediante il libero scambio di idee. Anche su questo, è però necessario non equivocare. Il dialogo di Socrate non ha nulla a che vedere con il “dialogo” raccomandato da pensatori postmoderni e neoliberali come l’americano Richard Rorty, i quali sostengono congiuntamente una posizione filosofica integralmente scettica e relativistica, negando appunto alla filosofia ogni carattere “fondazionale”, ossia veritativo, e però anche la necessità di “tenere aperto il dialogo dell’umanità”, come fanno peraltro anche il cinema, la letteratura, il teatro. Il dialogo socratico è un dialogo fondazionale e veritativo, o più esattamente fondativo della comune ricerca della verità, che viene presupposta come esistente e anche possibile da scoprire.

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Ancora una volta, il presupposto dell’esistenza della verità, che si tratta di scoprire insieme attraverso le tecniche dialogiche (che sono tuttavia un mezzo e non un fine, sia pure un mezzo permanente e non eliminabile in alcun modo), abbandonando la semplice tradizione, è un presupposto comunitario e non meramente teorico, gnoseologico o epistemologico. Dietro lo schermo superficiale dello scontro fra le posizioni dialettiche e veritative, da un lato, e le posizioni relativistiche e convenzionalistiche, dall’altro, non c’è affatto un semplice contenzioso filosofico strappato dal suo contesto storico, bensì lo scontro fra due interpretazioni “forti” della riproduzione comunitaria, che alcuni considerano compatibile con la convenzionalità relativistica dei valori, ed altri (come Socrate) ritengono invece del tutto incompatibile con questa. Socrate moscone fastidioso della democrazia ateniese, ed “organico” ad essa esattamente come Clistene, prima, e Protagora poi. Socrate patriota ateniese e patriota comunitario. Socrate che accetta (si veda il dialogo Critone che, letto bene, toglie ogni equivoco) il responso ingiusto della condanna a morte inflittagli dalla sua stessa comunità con una riaffermazione della necessità di obbedire alle leggi di questa stessa comunità. Ancora una volta, con tutto il rispetto per l’opinione del grande Hegel (che resta comunque uno dei miei principali filosofi di riferimento con Spinoza e Marx), ma dissentendo radicalmente da lui (come devono fare i veri filosofi quando non sono d’accordo), ogni interpretazione individualistica e anti-comunitaria di Socrate mi sembra del tutto priva di fondamento. Non mi meraviglia però affatto che essa venga coltivata. L’irresistibile tendenza dell’individualismo contemporaneo è quella di eternizzare la propria sovranità simbolica retrodatandola nel passato, in modo da potersi impadronire meglio del presente squalificando i suoi avversari. 9. Come è noto, Platone si presenta come allievo di Socrate e soprattutto come suo “esecutore testamentario”. Mentre alcuni commentatori moderni accettano a scatola chiusa questa pretesa di Platone, e fanno di Socrate il teorico originario della dittatura

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pitagorica e antidemocratica dei custodi e dei governanti non eletti ma auto-cooptati attraverso strutture educative auto-referenziali (la Repubblica di Platone), altri invece separano nettamente Socrate da Platone, accettano in qualche modo l’interpretazione “comunitaria” di Socrate come “moscone fastidioso” del nobile cavallo della democrazia di Clistene e Pericle e collocano Platone in un ambito integralmente post-comunitario. Platone avrebbe preso atto della assoluta irriformabilità del modello costituzionale democratico ateniese, ed avrebbe allora proposto un modello politico integralmente post-comunitario, fondato sulla ripartizione di tipo quasi “castale” della popolazione in tre gruppi distinti (governanti o filosofi-re, guerrieri o custodi, lavoratori o artigiani). Nessuna delle due interpretazioni mi soddisfa. Certo, la prima cosa da fare a proposito di Platone è respingere le goffe retrodatazioni alla Popper, che accomuna incongruamente Platone a Hegel e Marx in quanto nemico della “società aperta” (open society). Trascuriamo qui il fatto, peraltro rivelatore, che la cosiddetta “società aperta” di Popper è in realtà chiusa come quella di Stalin, anzi lo è ancora di più, perché almeno Stalin attribuisce al socialismo un carattere provvisorio, incompleto ed evolutivo (verso il comunismo), mentre Popper, anticipando qui Fukuyama, considera il capitalismo liberale una società insuperabile da qualunque altra, e quindi di fatto storicamente definitiva, consentendogli soltanto una sorta di “ingegneria sociale a spizzico” che ovviamente presuppone il muoversi all’interno dei ferrei limiti della sua riproduzione sistemica. Ma l’errore di Popper – che le esigenze di legittimazione ideologica della società capitalistica hanno trasformato da volenteroso dilettante di questioni epistemologiche in pensatore epocale del Novecento! – è sempre quello prima diagnosticato: l’individualista liberale, ignaro della sua stessa genesi particolare e soprattutto recente, trasferisce al passato la sua problematica ossessiva, e si costruisce una lavagna dei buoni e dei cattivi, laddove “buoni” sono gli anticipatori del suo individualismo trasformato in premessa teologica indiscutibile, e “cattivi” i teorici del totalitarismo di Hitler e di Stalin.

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A mio avviso, il centro essenziale della filosofia politica di Platone è la sua utopia eugenetica. Platone nota che gli uomini si preoccupano di selezionare i cani e i cavalli, mentre si disinteressano della selezione eugenetica degli uomini. In questo senso, la chiave interpretativa per comprendere meglio la Repubblica (non parlo qui delle sue altre opere politiche, che richiederebbero un discorso a parte) non è tanto la semplice critica del metodo democratico della decisione presa a maggioranza in favore di un metodo di presa delle decisioni comunitarie basato sulla competenza da acquisire con un lunghissimo training educativo (Paideia), ma è proprio la pretesa di salvaguardare la comunità attraverso la selezione eugenetica negli accoppiamenti fra uomini e donne. Certo, questo non può non far pensare all’eugenetica nazista di cui parlerò nel prossimo capitolo. Ma anche in questo caso, così come è assurdo parlare di Platone come precursore di Stalin, è assurdo altresì parlarne come precursore di Hitler. In Platone, ovviamente, non ci sono “razze” superiori e inferiori, capri espiatori su cui deviare la frustrazione politica delle masse, fondazioni illusorie della comunità sul “popolo” (Volksgerneinschaft) e sul “sangue e suolo” (Blut und Boden), e altri consimili ingredienti hitleriani. C’è però, e sarebbe assurdo considerarla marginale, una proposta di dittatura eugenetica che, ovviamente, è anch’essa da inquadrare come mezzo per salvare la comunità dalla sua dissoluzione, e non come proposta di tipo superomistico. Platone condivide con il democratico Clistene la centralità dell’applicazione politica del pitagorismo in funzione armonica e con il democratico Protagora la centralità della conoscenza della natura umana in vista di una corretta educazione (Paideia). Egli, tuttavia, non pensa che la comunità possa essere salvata dalla sua dissoluzione con il metodo democratico, da lui visto come l’incurabile scatenamento demagogico delle opinioni infondate e incompetenti. Anche Platone vuole salvare la comunità, e ritiene di poterlo fare solo sulla base di un’applicazione sistematica della eugenetica. Ora, la natura dell’eugenetica è proprio quella di non essere “democratica” o suscettibile di adattamento al metodo democratico. Tutto, infatti, può essere messo ai voti, ed è anche plausibile il conseguimen-

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to della razionale utopia di Protagora, per cui alla fine, a forza di educazione, le stesse maggioranze saranno “illuminate” e respingeranno da sole le follie dei demagoghi. C’è però una cosa che non può essere messa ai voti e che sarebbe necessariamente sottratta alla decisione maggioritaria, ed è la regolazione eugenetica, in quanto gli sfavoriti da essa mai accetterebbero “democraticamente” che ci sia un’autorità esterna che decide con chi, quando e come un determinato uomo deve accoppiarsi con una determinata donna, e viceversa. La centralità dell’eugenetica è talmente forte in Platone da fargli addirittura rivoluzionare il tradizionale “maschilismo” della società greca. A differenza di quasi tutti gli altri filosofi politici (ma non di Epicuro, che sostiene anche lui l’eguaglianza delle donne e accoglie le donne nel suo Giardino Filosofico), Platone non ha obiezioni all’accoglimento delle donne nelle strutture educative che devono preparare i custodi e i governanti-filosofi. E questa scandalosa concessione alla “totalità” del potenziale reclutabile, non più diviso in uomini e donne, Platone la fa proprio perché vuole ad ogni costo salvaguardare ciò che per lui è veramente essenziale, ossia la selezione eugenetica. Sull’attualità della questione tornerò nel sesto e ultimo capitolo. Per ora basterà ricordare la ragione per cui nel titolo di questo quarto capitolo ho citato Aristotele, Hegel e Marx e non Platone. Non l’ho fatto perché Platone, che pure è un pensatore radicalmente comunitario e vuole preservare la comunità dalla dissoluzione con metodi radicali, e non è quindi una sorta di “precursore del totalitarismo” (e neppure, secondo me, del “comunismo”, poiché la proprietà comune dei membri delle classi dominanti era allora diffusa in Grecia – si pensi alle mense comuni degli spartiati), è il filosofo che teorizza il nesso comunità-eugenetica, più esattamente il nesso fra preservazione della comunità contro i pericoli di dissoluzione e costituzione di un’autorità politica che deve presiedere agli accoppiamenti. Si tratta di una inaccettabile patologia della comunità, che, lo si noti bene, è molto peggiore delle patologie di tipo “classista”, le

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quali almeno hanno dalla loro parte il presupposto filosofico per cui la classe oppressa dei più poveri incarna idealmente una “anticipazione universalistica” di giustizia “ecumenica” (e questa è l’interpretazione che nel 1923 Lukács diede della natura filosofica della superiorità del comunismo sul pensiero borghese). Tale patologia eugenetica, inoltre, non è di per sé né di “destra”, né di “sinistra” (anche se nel Novecento è stata soprattutto la destra a coltivarla, con importanti eccezioni, come ad esempio la legislazione della socialdemocrazia svedese negli anni Trenta), perché è una patologia di tipo prometeico. Si tratta della hybris “scientistica” della regolazione integrale e trasparente della comunità stessa. Questo ci deve essere di insegnamento. Se infatti la comunità rivendica per se stessa la totale trasparenza nella propria riproduzione – trasparenza che è indubbiamente favorita dalla conoscenza eugenetica – si può innescare un processo auto-dissolutivo che la porta alla fine. Platone fu solo il primo che osò guardare in faccia la Medusa Eugenetica, e temo che i recenti progressi dell’ingegneria genetica riproporranno questa tentazione, cui le invocazioni bioetiche non possono certo portare rimedio. 10. La grandezza di Aristotele consiste prima di tutto nell’aver ripensato radicalmente la comunità “politica”, e soprattutto il nesso organico fra norme morali e norme comunitarie, lasciando completamente da parte la tentazione eugenetica. Eppure Aristotele si interessò profondamente della disciplina che si chiama oggi “biologia” ed è considerato il fondatore dei metodi di classificazione e di laboratorio. L’avere escluso la biologia dalla politica è dunque, a mio avviso, una vera e propria scelta strategica fondante, senza la quale non sarebbe neppure stata possibile la sua geniale fondazione dell’antropologia filosofica, di cui ho già parlato nei precedenti capitoli, ma che richiede un “ritorno” continuo e insistito. Aristotele non riprende l’antropologia filosofica di Platone non certo perché sia un sostenitore della democrazia (che sottopone, invece, alle abituali critiche dei fautori del governo della “classe

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media”), ma perché l’antropologia filosofica di Platone si muove su di un piano inclinato in fondo al quale c’è la tentazione eugenetica. Egli torna così all’antropologia filosofica di Protagora, per cui “l’uomo è la misura di tutte le cose”. Naturalmente, non si tratta dell’uomo isolato dei futuri individualisti protoborghesi. Su questo punto, Aristotele è netto e chiaro, perché afferma che un simile “uomo isolato” può essere soltanto o una bestia o un dio, e con questo è stato veramente detto tutto, mancando unicamente la precisazione dialettica (che dovrà attendere Hegel) per cui in realtà la bestia e il dio non sono opposti del tutto indipendenti, ma polarità dialettiche complementari che si rovesciano l’una nell’altra. Ne consegue che la bestia, appunto perché irrimediabilmente bestia, si crede un dio e si illude narcisisticamente di essere tale. L’uomo misura di tutte le cose è allora l’uomo per natura sociale e politico, quindi comunitario (politikòn zoon) ed ancora l’uomo per sua natura dotato di linguaggio, azione e capacità di calcolo (zoon logon echon). Richiamato questo alla memoria, vi sono subito due rilievi decisivi da fare. In primo luogo, Aristotele definisce la natura umana come capacità di “misura” umana, prescindendo completamente da ogni riferimento religioso. Come è noto, Aristotele, pur senza fare nessuna polemica esplicita contro il politeismo mitico greco, realizza una costruzione filosofica monoteistica della divinità, attribuendole cinque caratteristiche ontologiche e cosmologiche (motore immobile, causa prima, atto puro, fine ultimo e pensiero del pensiero). Nello stesso tempo, questa divinità monoteistica, costruita in via puramente filosofica e dunque non “rivelata” da libri sacri, non ha nessun rapporto di fatto con la fondazione dell’etica e della politica comunitaria, che Aristotele sviluppa su basi esclusivamente razionali. È stato sostenuto che uno dei difetti della filosofia di Aristotele sta nel fatto che nel suo sistema Dio non “ama” l’uomo. Per me questo è un pregio e non un difetto. Se infatti nel cosmo nessuno ci ama (e nessuno che condivida la teoria dell’evoluzione e respinga la tesi del cosiddetto Disegno Intelligente della Creazione può

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seriamente pensare che lassù qualcuno ci ami) siamo costretti ad amarci da soli. Ne consegue che dobbiamo cercare la verità nella comunità umana, e non fuori di essa. Questo, e solo questo, è l’umanesimo filosofico. Se poi qualcuno vuole “raddoppiare” questo umanesimo con una ulteriore garanzia ultraterrena, giungendo peraltro alle stesse conclusioni in termini di diritto naturale e di solidarietà comunitaria, ebbene lo faccia pure. Non diventerà per questo né un nemico, né un avversario. In secondo luogo, il fatto che Aristotele non riprenda l’antropologia politica eugenetica di Platone, ma l’antropologia potenzialmente universalistica di Protagora, condiziona direttamente anche la sua elaborazione dell’etica individuale e sociale. Come si sa, la sua etica è quella del cosiddetto “giusto mezzo” (messotes), stabilito con una operazione intellettuale di fissazione di poli estremi (ad esempio, la generosità come giusto mezzo fra l’avarizia e la prodigalità). Ho fatto rilevare come lo stesso concetto di “misura” (metron) contenga in sé il concetto di moderazione e pertanto di giusto mezzo. Dire allora che l’uomo è la misura di tutte le cose, significa anche che l’uomo è misura solo e se applica a se stesso e ai suoi comportamenti pratici la misura di cui è portatore sia in potenza che in atto. La misura è infatti possibile per l’uomo non solo e non tanto come contingenza e casualità (katà to dynatòn), ma perché essa è già in lui come potenzialità immanente da esprimere socialmente (dynamei on). 11. La misura (metron, metriotes) è, per Aristotele, anche il criterio dell’economia. Non si dà, infatti, nessuna vera economia (il nomos dell’oikos, la norma con cui si amministra la casa) senza misura. Se si imbocca la via della dismisura – il che ovviamente significa coesistenza di molto ricchi e di molto poveri – non si ha più nessuna “economia”, ma soltanto “crematistica”, ossia arte di accumulare ricchezza (chremata). A partire da Adam Smith (1776), con un trucco degno di un giocatore delle tre carte, la crematistica è stata ribattezzata tout court

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“economia”. Come vedremo più avanti in questo stesso capitolo, la critica dell’economia politica di Karl Marx è in realtà una critica della crematistica capitalistica condotta dal punto di vista di una comunità umana da ristabilire (Gemeinwesen), di cui la lotta di classe proletaria è solo un mezzo e non un fine in sé, che resta invece la comunità umana. 12. Nella logica di sviluppo della storia della filosofia antica, Aristotele è il momento terminale di un ciclo apertosi circa tre secoli prima di lui, quando la dissoluzione delle comunità precedenti di tipo tribale e tradizionale aveva evocato una generale minaccia di insensatezza, cui la filosofia cercò di rimediare proponendo una vera e propria rifondazione integrale della comunità su base razionale. Più o meno lo stesso avvenne nella Cina di Confucio e di Lao Tse nello stesso periodo storico, il che può significare solo una cosa, ossia che il problema della riproduzione sociale sensata di una comunità è assolutamente universale, come la ricerca del cibo o come la regolamentazione dei rapporti sessuali. Alla minaccia di insensatezza si risponde con proposte differenziate di ristabilimento della sensatezza, sempre e solo su base comunitaria. Pitagora, Parmenide, Protagora, Socrate, Platone, Aristotele, sono tutti momenti di un unico problema, la sensatezza del fondamento della comunità. Aristotele tira i fili di questo dialogo durato tre secoli, proponendo una visione integralmente comunitaria della convivenza umana e sociale. Respingendo la tentazione eugenetica, ben più pericolosa per la comunità delle stesse deviazioni demagogiche, riporta il baricentro del pensiero sociale sull’uomo. Nei confronti dell’oligarchia del denaro, la cui forma di sviluppo si chiama “crematistica” e non economia, Aristotele si mostra ostile e riluttante a fare concessioni. Distinguendo con chiarezza ciò che è “poietico” (da poiesis, fabbricazione di oggetti) da ciò che è “pratico” (da praxis, ossia determinazione e costituzione educativa di comportamenti umani), egli fonda la morale e la politica sul solido terreno dei valori comunitari. La sua morale, infatti, che non ha neppure

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questo nome, ma si chiama appunto “etica”, deriva etimologicamente da “costume” (ethos). Ora, un costume può essere tale solo in una comunità. Un individuo immaginato isolato su uno scoglio abbandonato nel mare (come l’eroe tragico Filottete) non ha etica, perché non ha neppure costumi. Il fatto è che Aristotele chiude un ciclo durato tre secoli. Il nuovo ciclo storico che si apre (conquiste di Alessandro il Macedone, regni ellenistici fondati sulla crematistica più scatenata, decadenza irreversibile della comunità politica) durerà in Occidente quasi un millennio, e vedrà panorami nuovi da interpretare adeguatamente. 13. La differenza essenziale fra l’apertura del primo ciclo tricentenario di cui ho appena parlato e l’apertura del secondo ciclo di cui comincerò a trattare adesso consiste in ciò, che nel primo caso la minaccia di insensatezza apertasi con la dissoluzione delle precedenti comunità prepolitiche viene provvisoriamente superata con la fondazione filosofica di una nuova comunità apertamente politica, mentre in questo secondo caso cadono le speranze di poter rifondare la comunità su base politica, e si tentano allora altre strade. Il punto-chiave è che, se è possibile fondare una comunità politica su base economica, anche in presenza di disuguaglianze sociali attutite dall’intervento riequilibrante dell’agire politico, non è per contro possibile fondare una comunità politica su base crematistica. Con il sorgere del dispotismo crematistico si può soltanto “secedere”, e cioè attuare un esodo, oppure sperare in un salvatore (Soter). In entrambi i casi, si perde la speranza in una rifondazione della comunità politica, speranza condivisa nel ciclo precedente da Pitagora ad Aristotele. E la speranza viene meno non certo a causa di un generico “pessimismo” che prende il posto del precedente “ottimismo”. Pessimismo e ottimismo non sono categorie filosofiche, ma psicologiche, stati d’animo collegati alle attese, speranze, delusioni dei progetti individuali e collettivi.

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14. La generazione filosofica che viene dopo Aristotele “inaugura” il nuovo ciclo, che come nel primo caso si fonda su di una elaborazione concettuale della minaccia di insensatezza legata alla dissoluzione della precedente forma di comunità politica. Le due scuole del Giardino (epicurei) e del Portico (stoici) danno risposte apparentemente opposte, ma in realtà complementari, all’identico problema della dissoluzione della sensatezza razionale della comunità politica precedente. Il Giardino attua una fuga controllata in una comunità più piccola, la comunità di amici in cui perseguire il piacere vissuto però sempre come un piacere comunitario, da condividere appunto con gli amici stessi. Ogni interpretazione dell’epicureismo come puro individualismo è, a mio avviso, una indebita retroazione moderna riproiettata nei tempi antichi, e non permette di interpretare correttamente la scuola del Giardino. Si noterà allora che la logica dell’epicureismo è la ritirata da una comunità più grande, la polis di cui si constata l’irreversibile deperimento, ad una comunità più piccola, il giardino filosofico degli amici. L’epicureismo non è dunque per sua essenza un “individualismo”. È piuttosto, mi si consenta il termine, un “amicalismo”. E in questo amicalismo ristabilisce a modo suo una comunità, che però non è più una comunità politica. Il Portico (stoici) si muove sullo stesso terreno filosofico del Giardino, che è quello del ristabilimento ideale e materiale di una nuova comunità al posto di quella perduta. In questo caso, però, invece di effettuare una fuga all’indietro nel piccolo, si effettua una foga in avanti nel grande, ossia nella comunità ideale ed ecumenica del mondo intero (kosmopolis). Anche se apparentemente opposte, la comunità cosmopolitica mondiale proposta dal Portico e la comunità intima di amici proposta dal Giardino sono in tutti e due i casi una risposta razionale all’identico problema della perdita della comunità precedente. Mentre nel caso di Socrate il grande Hegel non aveva colto il centro della questione, interpretando il filosofo ateniese non come un patriota comunitario, bensì come un precursore dell’individuali-

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smo moderno, nel caso delle filosofie del Giardino e del Portico, invece, comprende bene il carattere insufficiente della loro strategia largamente illusoria. Fuggendo in avanti (stoici) e indietro (epicurei) rispetto alla precedente comunità politica, non viene ristabilita la sensatezza del vivere civile, e dunque non può nascere un vero e proprio principio nuovo. Può nascere solo una sorta di clima filosofico instabile e provvisorio, destinato a logorarsi prima di tutto socialmente. La società imperiale romana, passata dal mos maiorum degli antenati alla crematistica sfacciata e scatenata dei nuovi Trimalcioni e alla barbarie organizzata e di massa dei giochi dei gladiatori (situazione che somiglia peraltro come una goccia d’acqua a quella attuale: la cena di Trimalcione e la televisiva Isola dei Famosi esprimono lo stesso mondo involgarito e degradato), riduce la filosofia ad attività “culturale” settoriale. Tuttavia, là dove arriva la “cultura”, non c’è più la comunità, ma una sorta di gran bazar levantino che non a caso è oggi il modello di società dei nuovi liberali di oggi (Giorello, Lerner). È così spianata la strada per la nuova proposta di comunità religiosa ecumenica cristiana. Prima, però, è necessario tornare ancora una volta sul nesso fra verità e comunità o, più esattamente, fra tramonto degli orizzonti veritativi e dissoluzione dei presupposti comunitari senza i quali questi orizzonti si disseccano come le piante non innaffiate. 15. Studiando il primo periodo di questo secondo ciclo filosofico della tradizione occidentale, si è colpiti, oltre che dal doppio fenomeno di restringimento-allargamento dello spazio della comunità (restringimento amicale del Giardino e allargamento cosmopolitico del Portico), dalla diffusione di un generalizzato scetticismo sulla stessa esistenza della verità, che precedentemente veniva quasi data per scontata e presupposta. Questo fatto è in genere registrato dai manuali di storia della filosofia come un semplice dato da segnalare. Si parla di Pirrone di Elide, che seguendo Alessandro il Macedone fino ai con-

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fini dell’India buddista vi avrebbe incontrato i “sapienti nudi” (gymnosophistai). In proposito, dal momento che certamente Pirrone non conosceva il sanscrito ed i sapienti vedici e buddisti non parlavano il greco, e che su cose del genere non si comunica in un linguaggio turistico di trenta parole, non so fino a che punto si possa sensatamente parlare di “scambio culturale”. Fa piuttosto pensare il fatto che la principale forma storica organizzata di scetticismo (skepsis significa, oltre a dubbio, anche indagine e ricerca, ma di fatto nell’uso linguistico del tempo significa impossibilità di giungere a qualunque stabile verità) non era tanto il pirronismo vero e proprio, che restò sempre marginale, ma fu quella degli “accademici”, ossia dei successori di Platone. Ora, è indubbiamente paradossale, ma anche facilmente spiegabile con il metodo dialettico, che proprio la scuola filosofica che più aveva cercato di garantire l’esistenza della verità, vale a dire la scuola di Platone, sia finita nel giro di due generazioni a rappresentare il principio opposto, quello dello scetticismo programmatico permanente. Esistono certo anche spiegazioni “esoteriche”, cioè interne, di questa dinamica scetticheggiante. Se infatti si alza troppo la posta, perseguendo un pitagorismo estremistico fondato sulla stretta connessione fra numeri e cose, non ci si deve meravigliare se il crollo rovinoso e tragicomico di questo programma porti al suo contrario, ossia al generalizzato scetticismo relativistico sulle cose. Un fenomeno analogo è del resto in corso oggi: è sotto gli occhi di tutti il grottesco fenomeno di coloro che, in nome di un preteso (e inesistente) “marxismo”, ritenevano di possedere la chiave universale per comprendere il passato, muoversi nel presente e anticipare il futuro, e che hanno elaborato il lutto di questa sciocca pretesa di onniscienza terrena approdando ad uno scetticismo relativistico generalizzato e ad un carpe diem fatto di “eventi” ludici e mediatici. La spiegazione fondamentale resta però, a mio avviso, “essoterica”, esterna, e quindi anche in questo caso comunitaria. Ho rilevato in precedenza che l’accertamento filosofico della verità, o

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di qualcosa che viene chiamato con questo nome, ha una genesi strettamente comunitaria, in quanto proiezione della “verità di una comunità”. L’attuale deformazione positivistica, che si è accompagnata inevitabilmente allo sviluppo della scienza moderna, ha però imposto la correlazione del concetto di verità con l’adeguato rispecchiamento dei fenomeni fisici, al punto che la fisica, da scienza particolare, è diventata una vera e propria concezione del mondo. Ma originariamente la “verità” era un disvelamento sapienziale delle condizioni permanenti che reggevano la riproduzione armonica della comunità stessa, e la “falsità” si identificava direttamente con le dinamiche di dissoluzione di questa comunità. Non è allora un caso che proprio nell’anello temporale di congiunzione fra la fine di un ciclo e l’inizio di un altro si sia generalizzato socialmente un clima di dubbio e di incredulità rispetto non solo a singole e contingenti “verità”, ma proprio rispetto alla Verità con la maiuscola. Dissolvendosi la comunità, si dissolve insieme congiuntamente con essa anche la verità che le fa da fondamento. Il terreno era pronto per l’avvento di una nuova religione, rivelata e monoteistica. Si tratta ovviamente del cristianesimo. In questa sede, esaminerò esclusivamente i rapporti di questa nuova religione con il tema della comunità. 16. Nessuno storico nega il carattere fortemente comunitario del cristianesimo delle origini, che non era solo – e neppure principalmente – una religione di salvezza individuale, ma soprattutto una comunità di amore reciproco (agape). Questa comunità particolare, che non era né una fuga verso il piccolo (il Giardino degli epicurei), né una fuga verso il grande (il Portico degli stoici), era un tentativo di ricostruire una comunità in un mondo – l’Impero Romano – che l’aveva distrutta. Per andare avanti nella nostra trattazione, è necessario dotarsi di una salda interpretazione filosofica dell’Impero Romano, perché le informazioni puramente storiche sono del tutto insufficienti.

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Ricorriamo ancora una volta ad Hegel, il quale nega all’Impero Romano ogni carattere universalistico reale, e gli concede come unico pseudo-universalismo il fatto che “il solo elemento concreto è il prosaico dominio pratico”. In proposito, capovolgendo gli abituali giudizi che vedono nella Grecia il regno della politica e nell’impero romano la morte di essa, Hegel afferma che “solo con il mondo romano la politica interviene nella storia del mondo come l’astratto, universale destino”. Roma ha in questo modo “spezzato il cuore del mondo”. Poi Hegel aggiunge una fondamentale osservazione: “Il mondo romano, nel suo disorientamento e nel suo dolore per l’abbandono da parte di Dio, ha generato il dissidio con la realtà ed il comune anelito ad una soddisfazione che può essere raggiunta solo interiormente, nello spirito, ed ha così preparato il terreno per un superiore mondo spirituale”. Ancora qualche citazione, per concludere il ragionamento. Per Hegel, esiste una specifica “miseria del mondo romano”, dovuta al fatto che “gli individui sono posti come atomi”, e di conseguenza “il soggetto, secondo il principio della sua personalità, è autorizzato solo al possesso, e la persona delle persone al possesso di tutti, cosicché il diritto singolo è nello stesso tempo abolito e privato di forza giuridica”. 17. Commentare questi passi di Hegel comporterebbe un intero libro, ma per i nostri scopi basteranno due ordini di rilievi. In primo luogo, Hegel non descrive solo l’impero romano, ma, con duecento anni di anticipo, anche il mondo che i teorici della globalizzazione e le grandi oligarchie finanziarie transnazionali stanno preparandoci, ed inevitabilmente ci prepareranno se non si sviluppa una resistenza che non può essere solo una testimonianza di rifiuto nella coscienza individuale, ma, per avere efficacia, deve assurgere al livello di un agire collettivo e comunitario. Il “prosaico dominio pratico” dell’impero americano potentemente armato che ha distrutto il diritto internazionale e ricatta tutti i popoli del mondo ha come finalità l’avvento di una “politica pura”, una politica che spezzi le comunità reali (di lì la mania per le elezioni,

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che devono sempre essere fatte ovunque!), ed una politica il cui scopo è appunto la trasformazione di tutti in “atomi”, il cui unico, vero diritto è il “possesso privato”, e cioè la proprietà, mentre il presidente degli USA, questa “persona delle persone”, è autorizzato al possesso di tutte le persone del mondo. La sacralizzazione di questo diritto incondizionato al possesso di tutti è ottenuta con una nuova religione, che sostituisce sia la Croce che la Mezzaluna, la religione della Shoah ebraica, per cui Auschwitz, sradicato dal suo contesto storico, viene eretto a principio universale astratto della necessità di abolire il diritto internazionale “in modo che non possa più avvenire in futuro”, mentre Hiroshima, che non a caso non viene invece criminalizzata come Auschwitz ma solo “deplorata”, continua ad essere agitata come qualcosa che, se necessario, potrà sempre essere ripetuta contro i “nuovi Hitler”, cioè tutti coloro che danno in qualche modo fastidio all’impero (ieri Nasser, Milosevic, Saddam, domani chissà). In secondo luogo, Hegel ci propone una magistrale analisi della nascita del cristianesimo come ristabilimento di una comunità nuova, ecumenica e universalistica, dopo la distruzione delle comunità precedenti. Anche i termini usati sono molto significativi. La distruzione delle comunità ha “spezzato il cuore del mondo”, e questo nuovo mondo è un mondo miserabile, fondato sulla riduzione degli uomini ad “atomi autorizzati solo al possesso”. Con questo, chi fino ad ora ha dubitato che Hegel sia un autore ispirato da un criterio comunitarista di analisi dei fatti storici ha qui un ampio materiale su cui riflettere. Altra cosa è però se vorrà farlo. Se infatti non interviene la volontà di mettere in discussione i propri schemi precedenti, è molto difficile che possa avvenire un “riorientamento gestaltico”. Ma torniamo al cristianesimo. 18. La comunità cristiana originaria nasce come comunità fondata sull’asservimento volontario di tutti i suoi membri ad un unico Liberatore Divino (theos soler). Questa non è l’attribuzione malevola di un commentatore, ma qualcosa che viene detto esplici-

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tamente e a chiare lettere da Paolo di Tarso (cfr. Cor. 7, 20-24). Tutti i membri dei tre strati in cui è giuridicamente divisa la società romana (liberi a pieno titolo, liberti e schiavi) diventeranno tutti indistintamente schiavi di Cristo (douloi tou Christou). Incidentalmente, non era questo il messaggio di Gesù di Nazareth, almeno per quanto possiamo ricavarlo dalle fonti. Gesù di Nazareth si rivolgeva di fatto alla sola comunità ebraica palestinese in quel momento sottomessa al dominio militare imperialistico dei romani, interpretando la sua natura messianica come quella di un “servo sofferente” (cfr. Isaia, 53, e Saggezza di Salomone, 2, 13-20), che avrebbe dovuto propiziare con il suo sacrificio consapevolmente scelto l’“anno di misericordia del Signore” (cfr. Luca 4, 14-30). Dal momento però che questo annuncio messianico di tipo rivoluzionario (l’anno di misericordia del Signore significava remissione dei debiti e liberazione degli schiavi) non era un reato penale per gli occupanti romani, ma solo una minaccia sociale per i sadducei del Sinedrio, Gesù fu processato per il reato di ribellione armata di tipo zelotico contro gli occupanti romani. I capi zeloti armati erano definiti nel linguaggio giudiziario romano “re dei giudei”, e per questo il cartello sulla croce di Gesù portava la scritta INRI, cioè Gesù di Nazareth, re dei giudei in lingua latina. È necessario ricordare ancora due cose. In primo luogo, che il cristianesimo primitivo era un insieme federato di comunità fondate sull’attesa messianica del secondo, prossimo avvento liberatore di Gesù (parousia), su di un comunismo di fatto nella soddisfazione dei bisogni collettivi ed infine su di un asservimento generale di tutti – liberi, liberti e schiavi – ad un unico liberatore divino. Si trattava di una evidente trasposizione celeste e divina del Regno Ellenistico (basileia), i cui regnanti si erano spesso già fatti chiamare Salvatore (Soter). In secondo luogo, occorre essere consapevoli che un simile tipo di comunità messianica a promessa “apocalittica” a breve termine non sarebbe potuta durare a lungo, trattandosi di comunità “a data di scadenza ravvicinata”. La comprensione di questo fatto non è importante solo per una ricostruzione realistica della storia

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dell’Occidente, ma anche per il nostro problema, che è quello di un sobrio e intelligente elogio del comunitarismo e di un rilancio della sua attualità oggi. Per questa ragione, è necessario dedicarvi una attenzione particolare. 19. Il “ritorno alle origini” è una delle forme fisiologiche permanenti – ed in quanto tali passate, presenti e future – con cui un movimento e/o una istituzione cercano di affrontare una crisi di partecipazione, adesione e prospettive. Esso non è né un bene, né un male. È semplicemente impossibile, dato che il tempo storico non è reversibile, e questa irreversibilità, sia pure psicologicamente difficile da digerire, è la principale componente ontologica della storicità. Nella storia del cristianesimo, che dura ormai da due millenni, la parola d’ordine del “ritorno alle origini” torna costantemente come slogan edificante, ma raramente è stata presa sul serio. A queste “origini” non si può tornare, perché le origini erano caratterizzate dall’esistenza di una comunità messianica ad attesa ravvicinata e queste comunità non possono essere ricostruite a comando. Nella lunga storia del cristianesimo, il tentativo più radicale fu forse quello di Francesco d’Assisi, che individuava nella ricostituzione della comunità cristiana primitiva due elementi strutturali, la simplicitas e la paupertas, termini che ho voluto conservare in latino, perché non si possono tradurre semplicemente con “semplicità” e “povertà”, in quanto la loro unione indissolubile indica un unico atteggiamento “olistico” verso la vita. La posteriore elaborazione filosofica di questa concezione di Francesco d’Assisi, sistematizzata un secolo dopo dal francescano spirituale inglese Guglielmo di Occam, è anch’essa profondamente “comunitaria”, poiché individua una comunità (chiamata significativamente “chiesa invisibile”) costituita solo da coloro che, uno per uno e nominalmente, formavano con la loro pratica di vita la comunità ideale di coloro che praticavano la paupertatem e la simplicitatem. Ogni lettura puramente “individualistica” di questa tendenza nominalistica (come ad esempio quella fatta da Umberto Eco nel

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Nome della Rosa a proposito del frate Guglielmo da Baskerville) non coglie l’elemento comunitario che ispira appunto Occam. Ma sarebbe strano che un esponente del relativismo postmoderno ultra-individualistico capisse filosoficamente i personaggi che pure la sua genialità artistica e creativa gli fa inventare. La storia ci insegna che ogni comunità messianica a scadenza temporale ravvicinata si estingue necessariamente con la smentita inesorabile della promessa messianica stessa. Il cristianesimo si è “salvato” proprio perché ha saputo saggiamente sganciarsi in tempo dalla sua stessa promessa messianica (la parousia), riconvertendosi, con grande intuito, in una gestione spirituale organizzata e permanente (ed in quanto permanente, necessariamente gerarchica, perché la gerarchia funzionale rende possibile la permanenza stessa) della vita quotidiana delle comunità precedenti, e cioè di quelle tradizionali di una società strutturata in classi. Si tratta, da parte mia, dell’accettazione nell’essenziale (anche se non nei dettagli, che però qui posso trascurare) della tesi di Max Weber sulla “secolarizzazione” inevitabile delle religioni. Una religione tiene e si riproduce non certo perché resta fedele al suo originario messaggio messianico di salvezza, ma proprio perché non gli resta fedele, lo derubrica a semplice risorsa simbolica di richiamo, e si pone invece sul terreno dell’amministrazione quotidiana del senso “ciclico” dell’esistenza (nascita, matrimonio, malattia, morte, solidarietà). La trasformazione secolarizzata del messianesimo apocalittico e teleologico in ciclicità simbolicamente amministrata della vita quotidiana non potrebbe neppure essere capita se non si partisse ancora una volta dalla centralità della comunità. La comunità deve riprodursi, e non potrebbe farlo sulla base traumatizzante della smentita di una promessa messianica di “salvazione generale” (sotirìa). È allora la comunità stessa ad imporre di fatto la trasformazione obbligatoria del messianesimo in gestione simbolica della quotidianità. Max Weber lo capisce molto bene, ma non comprende per niente la crucialità del mandato e della committenza comunitari, appunto perché il suo individualismo filosofico

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e metodologico non glielo permette. La sua tendenza scettica lo trascina irreversibilmente verso la follia di poter immaginare la riproduzione di una società caratterizzata non solo dal “disincanto del mondo” (cosa effettivamente prodotta dalla scienza moderna), ma anche dal “politeismo dei valori”, il solo politeismo che una società proprio non può consentirsi. Così come per il cristianesimo, anche per il marxismo si è posta la stessa questione, e cioè come rivitalizzare il movimento tornando all’utopia messianica delle origini. Ma mentre il cristianesimo, infinitamente più saggio, ha saputo sapientemente gestire la riconversione dal messianesimo (impossibile) alla quotidianità (possibile), il marxismo è diventato di fatto proprietà collettiva indivisa di un ceto nichilista di burocrati ignoranti e crudeli, incapaci di comprendere l’elemento “ideale e spirituale” nella riproduzione delle società umane – elemento che è ancora più materiale del tonnellaggio del carbone e dell’acciaio. In questo modo, si è oscillato fra il richiamo ritualistico alle “origini rivoluzionarie” in un contesto di manipolazione politica della quotidianità reale e l’impossibile tentativo di riproduzione artificiale e parossistica delle origini stesse (ad esempio, la rivoluzione culturale cinese 19661976). I gruppetti marxisti eretici, poi, si sono specializzati nella riproduzione in vitro di comunità messianiche a ristrettissima base ideologica e volontaristica, in cui ovviamente il turn over è elevatissimo, perché solo un maniaco è disposto a sfigurare la propria vita quotidiana in una parossistica (ed inutile) attesa messianica continuamente smentita. In poche parole, il cristianesimo ha saputo diventare “normalità”, mentre il socialismo non ha mai superato lo stadio dell’“emer­ genza permanente”. Ed anche in questo caso, senza la centralità della nozione di riproduzione comunitaria, tutto questo resta incomprensibile. 20. Se riflettiamo non solo su singoli eventi della storia del cristianesimo, ma anche sulla dinamica generale della sua evoluzio-

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ne filosofica, dai primi apologeti fino a Joseph Ratzinger, questa centralità appare in tutta la sua evidenza. Il cristianesimo, come è noto, ha avuto due matrici, l’una ebraica e l’altra greca. Mentre un esercito di incalliti confusionari alza ogni tanto stolide lamentazioni sul fatto che l’eredità greca avrebbe “purtroppo” prevalso sull’eredità ebraica, considerata più messianica e soprattutto più “autentica”, una sobria analisi della questione porta ovviamente a conclusioni ben diverse. La prevalenza dell’eredità ebraica, con la connessa concezione esclusivista (il popolo eletto da Dio che con il suo Dio ha fatto un patto), messianica e orientata della storia, avrebbe portato ben presto alla catastrofe della delusione collettiva per il mancato adempimento della promessa messianica o (ed è la stessa cosa) al ripiegamento in una comunità “protetta” dalla fedeltà alla legge ebraica. Per fortuna della comunità cristiana, o, se si vuole, per opera della provvidenza divina (pronoia, vecchio concetto di origine stoica), è prevalsa la benemerita tradizione greca, in cui è centrale la riproduzione allargata della comunità e non l’adempimento maniacale della promessa messianica. Da un punto di vista strettamente filosofico, si è trattato di operare non tanto una impossibile fusione, quanto una coesistenza e una complementarità fra una componente neo-platonica ed una componente aristotelica, che infine ha preso decisamente il sopravvento, e non a caso, perché è quella che corrisponde meglio alle esigenze di riproduzione della comunità. Ma vediamole separatamente, sia pure in modo forzatamente sommario. La componente neo-platonica rappresenta la rigorosa formulazione monoteistica del pensiero di Platone, in cui il concetto filosofico di Uno diventa centrale, e in cui tutti gli aspetti autoritari e prescrittivi dell’utopia eugenetica vengono esplicitamente messi da parte. Il neo-platonismo, che fu storicamente, fino all’imperatore Giuliano, un rivale (o meglio, il rivale) del cristianesimo, e ne divenne poi – dopo la sua progressiva metabolizzazione – una sua componente teorica essenziale, permette di gerarchizzare le diverse comunità costrette a coesistere attraverso una immagine verticale dello spazio sacro (evidente, ad esempio, nel Paradiso di Dante Alighieri), in cui la gerarchizzazione delle comunità è

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simbolicamente “raddoppiata” da una corrispondente gerarchizzazione di essenze divine ideali eterne. Lo scopo è esattamente quello perseguito dal pitagorismo democratico di Clistene, e cioè l’esorcizzazione del conflitto distruttivo attraverso il pluralismo armonico della coesistenza delle diverse componenti sociali ed economiche. Tuttavia, in assenza di comunità politiche, per loro natura razionali e dialogiche, si sacralizzano in modo metafisico comunità sociali private di ogni espressività politica, le comunità dei laboratores che devono delegare al clero degli oratores il monopolio della mediazione con il divino e alla nobiltà dei bellatores il potere in campo economico e militare. La componente aristotelica ha avuto però nel tempo (e particolarmente oggi, epoca in cui l’uguagliamento privatistico del capitalismo ha abolito le precedenti gerarchizzazioni ereditarie nobiliari e feudali) un’importanza molto maggiore. La morale cristiana, che è prima di tutto un’etica comunitaria dei cristiani, non poteva ragionevolmente fondarsi a lungo sui comandamenti veterotestamentari originati dalla barbarie tribale antico-orientale, che solo la censura buonista può nascondere in una pappa genericamente edificante. Si leggano senza edulcorarli i libri dell’Antico Testamento (cioè la Bibbia ebraica e solo ebraica) e si avrà la legittimazione di una “morale a due velocità”, una per il popolo eletto e un’altra per gli altri popoli, e questo al di là di tutte le ipocrite “contestualizzazioni”. Il fatto che il messianesimo armato americano sia veterotestamentario in modo pressoché ossessivo, mentre come Nuovo Testamento c’è soltanto un Cristo ridotto a testimonial per i film dell’orrore e della macelleria della crocifissione, dovrebbe far riflettere anche in un momento storico in cui da tempo non si riflette più. La morale cristiana, lasciandosi alle spalle le norme tribali dei popoli pastorali gravitanti intorno agli stati mesopotamici, ha dovuto allora ridefinirsi e ricostruirsi sulla base praticamente unica dell’etica comunitaria greca, che aveva trovato in Aristotele il suo massimo sistematizzatore. E infatti, il papa Ratzinger, quando difende la morale cristiana contro le cosiddette morali “relativistiche” di oggi,

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la fa appellandosi ai principi razionali della morale aristotelica. E può farlo per una ragione semplicissima, ossia che quella aristotelica non è una morale, ma è un’etica, ed in particolare un’etica comunitaria. Solo su questo fondamento, e non su quello della “fede soggettiva”, della “credenza nella risurrezione”, della “rivelazione delle Scritture” può infatti costituirsi quel terreno comune di confronto che fu precocemente chiamato Diritto naturale, e che non è altro che l’elemento universalistico-dialogico con cui i membri di una comunità fissano le proprie regole di convivenza. Ancora una volta, come si vede, la centralità della comunità è in grado di spiegare non solo il pensiero greco, ma anche quello cristiano. 21. Prima di chiudere con il rapporto fra comunitarismo e cristianesimo, voglio dedicare solo qualche considerazione al tema della sessualità. Il fatto che tutte le religioni, e non solo quella cristiana (pensiamo all’Islam), mettano al centro della loro pratica e della loro teoria la gestione comunitaria della sessualità è la pietra dello scandalo per ogni filosofia laica e individualistica. Anche qui, è necessaria una riflessione un po’ più seria e meno legata a polemiche spicciole fra cattolici e laici. Personalmente, ed è bene che lo dica per evitare incresciosi equivoci, sono favorevole al matrimonio dei preti cattolici (già preceduto storicamente dal matrimonio dei pope ortodossi e dai pastori protestanti), all’ordinazione sacerdotale delle donne nella confessione cattolica, ai pieni diritti civili per lesbiche ed omosessuali (nella forma dei Pacs e non in quella inutilmente provocatoria del “matrimonio”). Non mi si prenda allora per un bigotto e un cosiddetto “moralista”, anche perché non credo neppure che esista qualcosa chiamata “morale”. Per me esiste l’etica (sociale, individuale, collettiva, comunitaria). Ammesso che abbia un qualche significato, “morale” vuol dire solo fare ciò che si vuole purché non si interferisca direttamente nella sfera della volontà degli altri. L’obbligo morale, se c’è, si riduce a non rompere troppo le scatole al prossimo.

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Esiste, invece, eccome se esiste, l’obbligo etico e comunitario. Si è obbligati, infatti, verso gli altri, e gli altri fanno parte della comunità di cui anche noi facciamo parte, nel doppio significato di comunità particolare (professionale, nazionale) e di comunità universale di tutti i membri dell’umanità. In questo senso, anche la sessualità è un fatto sociale, e trovo assurdo che si pensi che sia un fatto individuale. Questo non significa che occorra realizzare la tentazione eugenetica, e neppure che si debba mettere in piedi una “polizia del sesso”. Significa soltanto che trovo del tutto naturale che una comunità consideri la sessualità un fatto “pubblico”, o quantomeno che siano “pubblici” i criteri della sua valutazione sociale. Rimproverare dunque le chiese perché insistono nel volersi occupare di sessualità è assurdo, dal momento che la sessualità, ed in particolare quella riproduttiva o potenzialmente riproduttiva, è probabilmente il fatto sociale e comunitario più importante di tutti. Anche qui c’è un nodo di problemi che il pensiero cosiddetto laico (che è oggi il Pensiero Unico della sinistra, che fu sociale e comunitaria ed è oggi solo uno spezzone individualizzato, sradicato e impazzito) non riesce a capire in quanto si è storicamente costituito nella modernità contro l’idea e la pratica di comunità, e sul fondamento di un individualismo assoluto. Ma qui si apre un capitolo decisivo che merita una trattazione a parte. 22. Il Medioevo europeo è forse il massimo esempio storico di società che non fu progettata, programmata e voluta da un intervento umano collettivo consapevole, ma che, per così dire, risultò da un insieme interconnesso di fatti e movimenti storici largamente inconsapevoli. Il Medioevo risultò infatti da una progressiva, forzata fusione di due componenti fondamentali: la società tardo-romana che già per conto suo, in conseguenza delle sue insanabili contraddizioni socio-economiche interne, aveva imboccato la strada del latifondo autosufficiente, della contrazione dei commerci a causa della rarefazione della moneta coniata e dell’inesistenza

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della moneta cartacea, del decadimento demografico per le carestie, le epidemie e l’uso sconsiderato del piombo nelle condutture idriche, della trasformazione degli schiavi accasermati in coloni semiliberi e – seconda componente – le nuove società tribali e militari relativamente ugualitarie e in origine con un ruolo modesto e sussidiario della proprietà privata. La fusione di questi due modelli sociali non creò immediatamente la società feudale europea, che nella sua forma strutturata in gerarchie nobiliari stabili deve aspettare il sacro Romano Impero di Carlo Magno (anno 800), ma indubbiamente ne costituì i presupposti. La Chiesa cattolica (in quel tempo non si era ancora verificato lo scisma con l’ortodossia e non era ancora sorto il protestantesimo) fornì a questa fusione un apparato ideologico di legittimazione decisivo, in un momento storico in cui non esistevano ancora apparati intellettuali alternativi a quello ecclesiastico. Questo comportò una vera e propria “terza rifondazione” del cristianesimo. La prima fondazione fu quella originaria delle comunità cristiane sviluppatesi all’interno dell’Impero Romano, che non le perseguitò affatto sistematicamente, come sostiene una vulgata pittoresca e infondata. La seconda fondazione fu quella costantiniana fra il 313 e il 337, che incorporò il cristianesimo all’interno degli apparati ideologici tardo-imperiali e fu poi perfezionata (se vogliamo usare questo termine) dall’editto di Teodosio, che rese illegali i culti pagani, e dall’editto di Giustiniano un secolo e mezzo dopo, quando sciolse con la forza le ultime scuole filosofiche greche (529), che dovettero rifugiarsi nella Persia dei sassanidi, piccolo fatto che dovrebbe far riflettere (ma so per esperienza che è inutile) coloro che ritengono che l’Occidente sia il luogo della tolleranza e l’Oriente quello del dispotismo. La rifondazione feudale del cristianesimo fu quindi la sua terza rifondazione, nella quale rinunciò definitivamente e solennemente all’utopia comunitaria originaria, indiscutibilmente ugualitaria e addirittura comunisteggiante, per un nuovo modello di società che definirei sommariamente un “comunitarismo gerarchico sa-

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cralizzato” o, se si vuole, una gerarchia sacralizzata con forti elementi comunitari preservati e protetti. Questo tipo di modello sociale, nonostante le forti novità sociali nel frattempo intervenute (civiltà comunale di tipo artigianale e mercantile, movimenti eretici e pauperistici), durò per circa mille anni. E quando un modello sociale dura un millennio, in una stabilità di fondo che resta sostanzialmente immutata al di là degli avvenimenti di superficie, è necessario riconoscere che rispondeva in modo relativamente “strutturale” alle esigenze di riproduzione comunitaria. Gran parte dell’Europa (Polonia, Ungheria, Croazia, paesi scandinavi) passa al cristianesimo unitamente al suo passaggio alla forma feudale di produzione, e dunque per questi paesi quella che per noi italiani è la terza fondazione storica del cristianesimo, costituisce la prima e originaria. Questo comunitarismo gerarchico e sacralizzato, nonostante la sua copertura ideologica di tipo neo-platonico, presentava due debolezze strategiche di fondo, ossia rispettivamente il suo carattere gerarchizzato e sacralizzato, che erano poi, in definitiva, uno e un solo elemento strutturale, e cioè la gerarchizzazione attraverso la sacralizzazione, per cui per far cadere la prima era necessario far cadere congiuntamente la seconda, cosa che avvenne con la cosiddetta modernità. Ho ritenuto opportuno soffermarmi relativamente a lungo su questo delicato problema, perché all’interno di un esplicito e convinto elogio del comunitarismo esistono comunità che non meritano di essere difese, vale a dire le comunità gerarchiche sacralizzate. Il peggior errore che un comunitarismo può fare consiste nel difendere qualunque comunità aggredita da un processo critico di individualizzazione, per cui si difende tutto, dal medioevo alle comunità tribali della Nuova Guinea, pur di prendersela con la modernità in marcia. Non credo al peccato originale. Ma se ci credessi, direi che il peccato originale del comunitarismo consiste in questa deviazione primitivistica e mistico-gerarchica. Come vedremo più avanti,

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Hegel e Marx, che considero i veri prosecutori contemporanei del grande comunitarismo razionalistico e filosofico greco, non hanno commesso questo errore. E ciò per molte ragioni, la prima delle quali esaminerò subito, e cioè la lezione universalistica dello stoicismo antico. 23. Lo stoicismo greco fu la prima scuola filosofica occidentale sviluppatasi al di fuori di presupposti sociali e politici comunitari, e per questo è degna di particolare attenzione. Come ho detto in precedenza, questo non è del tutto esatto, perché anzi lo stoicismo, di fronte alla dissoluzione della comunità della polis, che Socrate voleva curare con il dialogo permanente e Platone con la tentazione eugenetica, attuò una fuga in avanti verso una polis ideale che comprendesse tutto il mondo abitato (oikoumene), considerato come un’unica polis ideale (kosmopolis). Il grande geografo greco Strabone, che praticava la filosofia stoica, afferma all’inizio della sua opera enciclopedica che la geografia non solo fa parte integrante della filosofia, ma anzi ne è addirittura il fondamento. E questo non è un caso, perché la geografia ci mette immediatamente davanti la straordinaria diversità dei costumi comunitari dei vari popoli, obbligandoci a un esame comparativo sistematico alla fine del quale non può non sorgere la domanda “metafisica” sull’esistenza di una universalità etica comune a tutti i popoli del mondo. Vorrei far notare che l’esigenza universalistica di Strabone, che nasce proprio dalla conoscenza comparativa delle varie forme di vita comunitaria (già peraltro presente nei primi libri delle Storie di Erodoto), è la prima forma di universalismo cosmopolitico reale, in quanto l’universalismo di Platone, basato sulla esatta conoscenza delle Idee Universali esistenti nell’Iperuranio, non è ancora un vero universalismo comparativo fra diverse comunità, ma solo un universalismo politico necessariamente autoreferenziale, che accetta integralmente la dicotomia fra greci e barbari, e quindi non è in grado di impostare il dialogo al di fuori della Grecia, facendolo così diventare dialogo intercomunitario. E dialogo inter-comunitario (col trattino di separazione) significa

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dialogo tra diverse comunità considerate tutte programmaticamente come portatrici di forme di vita legittime. Nell’universalismo stoico, ovviamente, la comunità è solo ideale e virtuale, perché il saggio stoico, unico titolare della pretesa di universalismo razionale ricavato da una interpretazione logicamente rigorosa del diritto naturale universale, entra direttamente in rapporto con la kosmopolis senza passare preventivamente attraverso mediazioni intermedie. Lo stoicismo inaugura così quell’universalismo propriamente “morale” (non etico) che culminerà infine in Kant, e che verrà poi criticato da Nietzsche, il quale non potrà mai fare una vera genealogia dell’etica comunitaria (di cui non ha neppure una vaga nozione), ma solo appunto della morale come “menzogna necessaria” costruita dai deboli contro i forti. Ho scritto precedentemente (e provocatoriamente) che non so neanche cosa vuol dire “morale”, perché, a mio avviso, lo spazio dell’etica è soltanto comunitario. Ora, dopo la necessaria provocazione, posso dire, in termini più dialogici, che la morale esiste, ma solo come illusione individualistica che opera un artificiale sradicamento dalla comunità per instaurare un rapporto diretto fantasmatico con un Universale non costruito processualmente ma presupposto (sia esso Dio o l’Umanità). Il “moralismo”, invece, che nulla ha a che fare né con la morale individuale, né con l’etica comunitaria, è una patologia di un cattivo comunitarismo, ossia la parossistica visione di un’identità comunitaria vista come minacciata e messa in pericolo da comportamenti anticonformistici e individualistici. Anche ciò che elogiamo può dunque avere delle patologie. 24. In questa sede, è impossibile seguire analiticamente la lunga storia che intercorre nell’arco di tempo che va dallo stoicismo antico fino a Kant, che, a mio avviso, non è altro che uno “stoico moderno”, non tanto dal punto di vista della sua teoria della conoscenza scientifica, quanto dal punto di vista della sua teoria della morale rigida e rigorosa. Nel contesto di questo elogio del comunitarismo, sarà sufficiente affrontare subito il problema della na-

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tura filosofica apertamente anticomunitaria e individualistica del pensiero moderno, da Hobbes a Voltaire. 25. Visto da vicino, l’illuminismo non è stato un fenomeno unitario. Ha infatti dato luogo a scuole in forte competizione reciproca, che hanno offerto un ventaglio articolato di soluzioni alternative. È tuttavia pienamente legittimo proporne un profilo espressivo unitario, perché si tratta di un fatto, di un profilo riconoscibile dalla centralità di un uso critico ed analitico della Ragione – una Ragione di cui non è più titolare né Dio, né la comunità politica, ma un’astrazione funzionale definita in termini di “individuo razionale universale”. Questa astrazione è stata poi eretta a figura universale e cosmopolitica della ragione del mondo, diventando il pilastro principale dell’occidentalismo ideologico posteriore, fino all’attuale pretesa di esportare nel mondo i cosiddetti “diritti umani”, che sono diritti tagliati su misura dalla sartoria del capitalismo occidentale con tutti i suoi convertiti dell’ultima ora, che sono sempre i più fanatici e ottusi perché devono farsi perdonare i loro trascorsi. Sulla base di queste rapide considerazioni, due sono le premesse generali che occorre fare per quello che definirei un “buon uso dell’Illuminismo”, contro tutti i suoi usi unilaterali. In primo luogo, occorre respingere in modo meditato e netto quella odierna feticizzazione dell’Illuminismo visto come punto terminale e insuperabile della tradizione filosofica occidentale, che rende superflui e inutili sia Hegel che Marx. Questa feticizzazione, o più esattamente questa astorica assolutizzazione, è tipica soprattutto del cosiddetto pensiero laico e rappresenta una sorta di trincea nobile di difesa dell’individualismo. In questa visione dell’Illuminismo come ultima filosofia occidentale realmente spendibile nel mondo della conversazione filosofica pubblica, l’aspetto principale non è, come si potrebbe ritenere di primo acchito, la polemica contro la religione rivelata e le sue pretese normative sui costumi, ma molto di più la polemica contro una

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concezione comunitaria del rapporto fra individuo e società. Chi si riconosce ideologicamente nel primato fondatore dei meccanismi spontanei dell’economia capitalistica feticizzata e nel “monoteismo del mercato” che ne consegue, non può in alcun modo recepire le impostazioni di tipo comunitaristico di Hegel e poi di Marx, indipendentemente da valutazioni su singoli aspetti dei loro rispettivi sistemi teorici, e quindi deve decretare che la storia della filosofia occidentale termina di fatto con l’Illuminismo, anche se ovviamente nei duecento anni successivi ci sono stati altri personaggi pittoreschi, ma non decisivi. Questa “religione laica” è solo il raddoppiamento ideologico della religione dell’economia capitalistica, in quanto è una religione dell’individualismo non comunitario. Al massimo, si chiama “comunità” un’astrazione consistente in una comparabilità dei vari interessi di gruppo che la politica ha la funzione di “mediare” in vista dell’Unico Assoluto, la riproduzione allargata dell’economia di mercato. In secondo luogo, tuttavia, non si deve neppure cadere nell’errore opposto in cui cadono anche ottimi filosofi comunitaristi (pensiamo ad Alasdair MacIntyre) che tendono a delegittimare integralmente l’Illuminismo come pensiero della dissoluzione della comunità e dell’esaltazione unilaterale dell’individualismo. Non bisogna dimenticare mai, infatti, che la legittimità storica innegabile e incontrovertibile dell’Illuminismo consiste in ciò, che il sistema di comunità che l’Illuminismo ha contribuito culturalmente a distruggere era in realtà un sistema di comunità gerarchicamente sacralizzate, non difendibile sul piano razionale. Del resto, lo stesso teologo Joseph Ratzinger, oggi papa, ha impostato in modo estremamente intelligente la questione del bilancio dell’Illuminismo in un confronto con Jürgen Habermas, sostenendo che l’Illuminismo è stato non solo buono ma addirittura provvidenziale, perché è intervenuto storicamente per “correggere” gli errori e in alcuni casi anche i crimini della Chiesa. Tradotto nel mio linguaggio, questo significa che l’Illuminismo, sia pure con una inaccettabile curvatura individualistica, è stato benefico nella funzione distruttiva del precedente sistema del comunitarismo gerarchiconobiliare sacralizzato. Come è sciocco essere “più realisti del re”,

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mi sembrerebbe veramente ancor più sciocco essere più tradizionalisti e cattolici di Joseph Ratzinger. Lasciamo queste cose a coloro che hanno un cervello a pera. 26. Da Hobbes a Voltaire, ossia nell’arco temporale in cui a mio avviso si costituisce il profilo filosofico individualistico dell’Illuminismo borghese moderno, si sviluppa un ciclo di metafore che inizia da un animale, il lupo, e finisce con il partecipante alla Borsa Valori di un capitalismo ormai assestato. In breve: dalla Foresta alla Borsa. Questo ciclo di privatizzazione capitalistica della tradizione filosofica occidentale è proprio l’oggetto del “raddrizzamento comunitario” genialmente operato prima da Hegel e poi da Marx. 27. Il punto di inizio dell’individualismo moderno è naturalmente un attacco diretto e frontale al comunitarismo di Aristotele. Non a caso, perché, come si è visto, Aristotele è il momento più alto del comunitarismo greco, colui che sintetizza e sistematizza trecento anni di dibattito filosofico sulla natura della convivenza umana. A condurre questo attacco è Thomas Hobbes, filosofo che conosce molto bene il greco antico e pertanto, potendo leggere in originale i testi filosofici greci senza intermediari, sa molto bene come e dove colpire. Ed infatti colpisce direttamente la teoria della natura sociale spontanea e comunitaria dell’uomo (Politikòn zoon), definendola addirittura in modo estremistico un Mostro Metafisico (empousa metaphysica), riferendosi appunto al presupposto filosofico comunitario. Il bersaglio è ben scelto perché è impossibile sistematizzare una filosofia politica radicalmente individualistica senza prima distruggere una visione comunitaria della convivenza politica. Il presupposto individualistico, trasferito alle origini della civiltà umana, che è a sua volta trasfigurata in “scena primaria” dell’accumulazione capitalistica originaria, comporta automaticamente la lotta di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes). Si

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pensi agli attuali oligarchi mafiosi dell’ex Urss, che hanno potuto “privatizzare” in pochi anni il lavoro collettivo di tre generazioni di lavoratori sovietici, e si capirà perché tutte indistintamente le accumulazioni originarie sono giungle sociali in cui tutti fanno la guerra a tutti gli altri. A questo punto, immaginare che per natura l’uomo sia un lupo per l’altro uomo (homo homini lupus) è una logica conseguenza. Lo scioglimento puramente teorico della comunità che viene distrutta e poi concettualmente ricomposta in un insieme di individualità atomistiche e aggressive non era peraltro che il raddoppiamento nel mondo delle astrazioni filosofiche di un sottostante scioglimento sociale delle residue comunità gerarchicamente sacralizzate della società feudale e signorile. Non si insisterà mai a sufficienza su questo raddoppiamento concettuale, perché in caso contrario si sarà portati a pensare che Hobbes si sia inventato da solo questa antropologia lupesca. E dal momento che la legittimazione ideologica di questa preesistente gerarchia comunitaria era di tipo sacrale, è naturale che in questa triade (comunità/gerarchia/sacralità) si colpisca il punto filosoficamente e razionalmente più debole, cioè la sacralità. Crollata questa, sarebbe crollato anche il resto. Per questa ragione, Hobbes è il primo filosofo moderno integralmente e rigorosamente materialista. Per quasi due secoli testarde congreghe filosofiche hanno sostenuto che il materialismo era la filosofia adatta al proletariato rivoluzionario e sovvertitore, mentre, al contrario, l’idealismo era la filosofia degli sfruttatori e dei preti variamente travestiti. Le cose non stanno in questi termini. Un conto è lo studio scientifico del nesso tra spazio, tempo, materia ed energia – studio che non può che essere utile e indispensabile al miglioramento delle condizioni dell’esistenza umana, e che pertanto dovrà essere favorito in tutti i modi. Altra cosa è invece il cosiddetto materialismo, punto di vista che deve certo essere esaminato con cura, ma non in base al criterio del suo rapporto con la cosiddetta scienza, che di per sé non è né materialista, né idealista, quanto in base al suo rapporto con la nostra categoria di comunità.

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Questo è un punto di vista sistematicamente assente da tutte indistintamente le storie della filosofia occidentale circolanti nelle librerie e nelle biblioteche. 28. Non posso certo, in questa sede, scrivere una storia del materialismo nella tradizione filosofica occidentale, ma posso almeno fornire alcuni rapidi spunti per una visione alternativa del problema del rapporto fra materialismo e comunità, o più esattamente fra visione filosofica materialista e legittimazione filosofica della natura comunitaria e razionale dell’uomo. Il materialismo filosofico, ovviamente, non ha assolutamente nulla a che vedere con la formulazione che incautamente Engels prese a prestito dal positivismo universitario tedesco del suo tempo, per cui il materialismo era la teoria della precedenza dell’Essere (materiale) sul Pensiero (ideale). Questo pensiero doveva pertanto “rispecchiare” progressivamente, con gradi sempre migliori di approssimazione successiva e asintotica, gli “strati” successivi della “materia” da conoscere. Questa definizione, ammesso che sia tale, è puramente gnoseologica, ed è goffamente ricalcata sulla vecchia teoria della verità come corrispondenza risalente alla teologia di Tommaso d’Aquino, solo che in questo caso a rispecchiarsi è “Dio”, mentre nell’altro è la Materia (divinizzata). Ma cerchiamo di uscire dallo specialismo del commento gnoseologico. Il punto essenziale sta in ciò, che una definizione puramente gnoseologica di materialismo non è neppure congruente col metodo di Marx, che è un metodo genealogico-dialettico, e inserisce pertanto le categorie (ed in specie proprio le categorie più astratte) nelle dinamiche di costituzione e/o di rottura e dissoluzione delle comunità sociali. Il metodo gnoseologico e quello “comunitario” sono dunque di fatto incompatibili. Il materialismo filosofico è probabilmente nato come riflesso astrattizzato e metafora di un “esodo”, o se si vuole di una secessione di una individualità scontenta da una comunità percepita come repressiva e coattiva. Così almeno Karl Marx, nella sua tesi

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di laurea in filosofia antica del 1841 dedicata alle differenze fra i sistemi materialistici di Democrito e di Epicuro, interpreta il concetto di “deviazione degli atomi” (parekklisis, clinamen), in cui appunto un atomo deviava dalla linea retta verticale per andare per conto suo, per effetto di una casualità contingente che in questo modo, mescolandosi con altre consimili casualità contingenti formavano le mille forme di vita e di materia. Questa teoria, influenzata dalla impostazione di Hegel, per cui anche la casualità è necessaria nella formazione del mondo, non è solo assolutamente conforme alla moderna teoria dell’evoluzione di Darwin e dei suoi successori, ma rappresenta anche una metafora naturalistica di un fatto puramente umano, sociale e comunitario, per cui di tanto in tanto un individuo (a-tomon, in-dividuum, non ulteriormente divisibile, e quindi elemento minimo ultimo della comunità) “devia” dalla sua linea retta, che a sua volta riproduce incessantemente la comunità sempre uguale a prima, ed in questo modo introduce una “innovazione” che può appunto modificare evolutivamente la comunità stessa. Questa “deviazione” è allora la metafora della libertà stessa. Ed oltre ad esserne metafora, esprime in linguaggio “materialistico” la capacità umana di cambiare le cose in modo innovativo senza mettere forzatamente in mezzo l’onnipotenza divina creatrice. Quella di Democrito è allora la prima forma filosofica di materialismo nella tradizione occidentale, un materialismo dell’innovazione comunitaria, l’equivalente sociale della “variazione” nell’evoluzione delle specie vegetali e animali. La seconda forma di materialismo filosofico è quella di Epicuro e della sua scuola. E questo non è un caso, perché proprio il carattere “materiale” ristretto della comunità di amici tenuti insieme dalla consuetudine quotidiana e dalla prossimità spaziale, una volta elevato a concetto filosofico, produce il materialismo. Non si tratta allora solo di una spiegazione atomistica della formazione del mondo, anche se questo aspetto (pensiamo a Lucrezio) è indubbiamente presente. Si tratta di un “materialismo della comunità ristretta di amici”, in cui la materia (hyle) è il substrato

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comune di amicalità che tiene insieme la comunità stessa, che a sua volta è frutto di un “esodo”, ed è dunque una “comunità secessionistica” rispetto a una società esterna percepita come un caos impazzito senza forma. Il materialismo detto “borghese”, da Hobbes in poi, è una terza forma di materialismo che non ha più nessun rapporto né con il materialismo della libertà individuale, né con il materialismo della comunità solidale degli amici. Si continua ad usare il termine “materialismo” per indicare che, credendo nella autosufficienza della cosiddetta “materia”, non si crede più nella creazione divina e nell’immortalità dell’anima, e non si capisce che con questa equazione di materialismo e ateismo si finisce con il non comprendere più né il materialismo, né l’ateismo, che hanno logiche di sviluppo estremamente differenziate, anche se qui non possiamo analizzarle adeguatamente. La natura profonda e metaforica del materialismo borghese moderno sta nell’autosufficienza e nell’autofondazione non certo del­ l’Uno rispetto a Dio, ma nell’autosufficienza e nell’autofondazione dell’Individuo rispetto alla Comunità, più esattamente dell’individuo portatore di una sorta di proprietà privata e di capacità di lavoro originarie rispetto alla proprietà collettiva e al lavoro sociale e solidale della comunità. Questo è un punto che in generale sfugge completamente ai commentatori, ma che non può sfuggire a chiunque scriva o condivida un “elogio del comunitarismo”. 29. L’individualismo deve creare necessariamente un mondo senza comunità. Come è evidente, un raddoppiamento filosofico di questo tipo non potrebbe mai avvenire, se non ci fosse un processo sottostante materiale che lo sorregge e lo consente. Marx lo chiama, nell’ultimo capitolo del primo libro del suo Capitale (1867), l’accumulazione primitiva del capitale, che produce la proprietà privata capitalistica, prima inesistente, con un atto di “privazione” rivolta verso le altre comunità, quelle “interne” dei contadini che sfruttavano terre comunitarie (open fields) e quelle “esterne” del-

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le comunità indigene talmente “primitive” da conoscere soltanto la proprietà comunitaria e collettiva della terra e dei boschi. La proiezione “ideale” di questa espropriazione produce appunto la sua inversione sensistica e materialistica. I sensi sostituiscono la ragione e la materia sostituisce lo “spirito”. Il concetto può essere compendiato in cinque concetti, tutti strettamente interconnessi: il lavoro, il tempo, lo spazio, la sostanza e la causalità. I manuali di storia della filosofia in genere non fanno capire nulla di questi processi, perché prescindono completamente dalle dinamiche dialettiche di rottura e ricomposizione delle comunità. Iniziamo dal lavoro. Per migliaia di anni, il processo progressivo di ominazione umana ha richiesto un lavoro collettivo, coordinato e comunitario. La stessa “umanità” si è costituita in tale modo, come un vero e proprio processo evolutivo, anche se si tratta di un processo senza teleologia prefissata in anticipo, esattamente, peraltro, come avviene per l’evoluzione delle specie naturali. Ma è solo molto recentemente che il materialismo borghese (vedi la teoria di Locke del nesso fra lavoro e proprietà) si è inventato un inesistente proprietario privato originario, una sorta di Robinson Crusoe primitivo che forma la sua prima proprietà privata con il suo primo lavoro privato di dissodamento della terra. In questo modo, una recente e molto tarda evoluzione viene trasformata in una Origine, e l’origine, come è noto, è il fondamento della religione. La religione del capitalismo, quindi, vede la propria fondazione nel primo lavoratore isolato che legittima con questo suo lavoro isolato originario la sua prima proprietà, cui seguiranno a poco a poco tutte le altre, fino a dar vita a un mondo globalizzato di proprietari. In un simile contesto, c’è posto anche per Dio, che diventa il primo proprietario del mondo. Questo monoteismo è dunque prima di tutto un monoteismo di tipo proprietario. Passiamo al tempo. La temporalità prevalente nelle società comunitarie e precapitalistiche è di tipo ciclico, perché è legata al tempo circolare delle stagioni, che vengono, vanno e ritornano sulla base dei raccolti agrari e degli spostamenti pastorali. Con l’avvento delle società gerarchiche e sacralizzate, e quindi classiste, il

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ritmo temporale ciclico permane, perché è legato all’attesa della riscossione della rendita fondiaria da parte dei gruppi sfruttatori. Tale attesa proietta nel cielo filosofico dell’astrazione concettuale un’analoga ciclicità di tipo simbolico. Tuttavia, la produzione capitalistica non si nutre di rendita, bensì di investimenti, profitti e interessi, i quali non sono qualcosa che ritorna o si riscuote ciclicamente, ma che si attende con una scommessa su un futuro ancora vuoto e indeterminato. Qui nasce appunto l’idea moderna di “progresso”, totalmente ignota al mondo antico, che conosceva solo “progressioni” (il proodos dell’emanazione neoplatonica). Il progresso unifica l’intera temporalità umana in una storia finalmente universale che è la storia di una temporalità orientata al futuro in cui si può ragionevolmente aspettare la maturazione e la raccolta dei profitti e degli interessi anticipati dagli investimenti produttivi. È questa la genesi del moderno concetto di Storia Universale che, secondo il filosofo tedesco Koselleck, non nasce prima del 1750. Esaminiamo ora il concetto di spazio. Secondo una stimolante ipotesi della studiosa greca Maria Antonopoulou, l’omogeneizzazione del concetto di spazio, iniziata nel Seicento e portata a termine nel Settecento europeo, ha certamente profonde ragioni interne di carattere scientifico, ma la sua “ricaduta filosofica” segue regole particolari del tutto estranee allo sviluppo scientifico stesso. Questa ricaduta filosofica è appunto il “materialismo”, più esattamente il materialismo settecentesco, che è totalmente estraneo alle ragioni storico-genetiche che ne avevano determinato le formulazioni precedenti (Epicuro), e che ha un significato metaforico addirittura opposto. Si tratta, infatti, non di un materialismo da comunità amicale elettiva e protetta (epicureismo), ma di un materialismo di tipo atomistico e individualistico. Il medium omogeneo di scorrimento spaziale delle cose, e cioè lo spazio assoluto newtoniano, viene trasposto metaforicamente in un medium omogeneo in cui possono scorrere liberamente e senza impedimenti di alcun tipo le nuove merci capitalistiche. Se allora l’ipotesi della Antonopoulou è giusta (come personalmente credo), si svela un equivoco ad un tempo ridicolo e paradossale. La “materia”, infatti, lungi dall’esse-

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re un principio rivoluzionario, socialista, comunitario e proletario, è proprio il contrario, ossia il principio materiale metaforico dello scorrimento libero e incontrollato della merce capitalistica, che non trova spazialmente più ostacoli laddove temporalmente può contare altrettanto metaforicamente su di un’aspettativa altrettanto infinita (chiamata “progresso”) delle proprie attese di riscossione di profitti industriali e di interessi finanziari, attese appunto “lineari” e non “cicliche” come le precedenti attese di riscossione della rendita fondiaria legata alle stagioni. Esaminiamo ora il concetto di sostanza, più precisamente di “critica dell’idea di sostanza”. Se diamo retta alla manualistica, sembra che la critica all’idea di sostanza sia dovuta al rischiaramento scientifico prodotto dall’avanzamento del provvidenziale “empirismo”. Ma se tentiamo invece una deduzione sociale e genetica delle categorie, le cose cambiano totalmente aspetto (mi riferisco in particolare alla critica dell’idea di sostanza di John Locke). È chiaro che l’idea di “sostanza” (hypokeimenon, ossia ciò che sta sotto, oppure ousia, nel senso di “essenza”) non è che la metafora naturalistica di una trasposizione ideale di un referente sociale (e comunitario). E cioè che tutti i rapporti “relazionali”, e quindi individualistici, fra gli uomini intesi come atomi isolati che scambiano le cose sul mercato, si fondano su qualcosa che sta sotto, vale a dire l’idea di comunità. Distruggendo l’idea di sostanza, Locke attua una distruzione parallela (probabilmente in modo del tutto inconscio e inconsapevole) della sostanza comunitaria che sta sotto la rete relazionale degli scambi individuali. E questo non è un caso, perché la società capitalistica di cui Locke è teorico non è comunitaria, essendo ricavata da un’idea di rete di relazioni in cui i singoli, dopo aver legittimato con il loro lavoro individuale il proprio individualismo possessivo, procedono altrettanto individualisticamente ad uno scambio di prodotti in forma mercantile. Concludiamo con l’idea di causalità, o meglio di critica dell’idea di causalità (mi riferisco qui particolarmente a David Hume, ma il discorso è ovviamente più ampio). La corrente del Diritto naturale, nata nel Cinquecento in diretta polemica contro la teologia

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della comunità feudale e signorile gerarchicamente sacralizzata, si era poi sistematizzata e rafforzata con la complementare concezione di contratto sociale. Il giusnaturalismo e il contrattualismo camminavano sempre in coppia. Questa concezione, utile per criticare la teologia della gerarchia sacralizzata, non era però adatta per legittimare l’incipiente capitalismo, in quanto affermava pur sempre un primato della politica sull’economia, nella fattispecie un primato della contrattazione sociale dei diritti naturali preesistenti sul libero ed automatico sviluppo dei rapporti puramente mercantili, che non sopportano di essere sottoposti ad una mediazione politica sovrana che potrebbe limitarli. Quando Hume critica la categoria di causalità, l’oggetto è la metafora della causazione del mondo economico degli scambi da parte di una preesistente sovranità politica, ad un tempo giusnaturalistica e contrattuale. Si tratta del noto “utilitarismo”, destinato a soppiantare molto presto il precedente connubio di giusnaturalismo e contrattualismo, considerato evidentemente ancora troppo pericolosamente “comunitario”. Lo sviluppo intrecciato di queste cinque categorie, apparentemente del tutto innocue, produce la piattaforma teorica più individualistica ed anti-comunitaria di tutta la tradizione filosofica occidentale. Ci voleva una reazione, un raddrizzamento comunitario, che venne puntualmente, e si trattò del secondo, grande ciclo filosofico della tradizione occidentale (dopo il primo che si sviluppa in tre secoli, da Pitagora ad Aristotele). I quattro nomi fondamentali, da esaminare in ordine storico e filosofico, sono Rousseau, Fichte, Hegel ed infine Marx. Come cercheremo di dimostrare, quest’ultimo fu l’Aristotele dei tempi moderni, il massimo teorico della comunità, il migliore allievo di Hegel. 30. Jean-Jacques Rousseau è considerato da molti il vero fondatore del comunitarismo moderno, o se vogliamo il restauratore settecentesco di una tradizione tramontata da molti secoli, soppiantata prima dalla teologia politica della gerarchizzazione sociale sacralizzata e poi dall’incipiente individualismo che vede la

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società come un mercato. In proposito, Voltaire, che non perde occasione per “dissociarsi” da Rousseau ogni volta che gli è possibile, non aveva nascosto la sua concezione di convivenza sociale, ossia un’immagine integralmente mercantile della comunità umana. Nella sue Lettere filosofiche, egli invita ad entrare nella Borsa di Londra e ad osservare come ebrei, musulmani e cristiani delle varie confessioni si trattino l’un l’altro come appartenenti alla medesima religione, attribuendo il titolo di “infedele” solo ai responsabili di bancarotta. Da circa trecento anni, nonostante le varie e pittoresche contorsioni di tipo ipocrita-buonista, non è stato detto nulla di nuovo sul problema della corretta definizione del legame sociale capitalistico: “fedele” è chi è economicamente solvibile, “infedele” chi non lo è. Rousseau, ovviamente, capisce che su di un simile fondamento non si può organizzare una comunità. E questo lo induce, secondo un’acuta interpretazione di Cassirer, a “fondare” la politica moderna come sostituto della precedente religione. Il tema del male del mondo è spostato dalla precedente Teodicea (giustificazione delle ragioni provvidenziali per cui Dio consente il male del mondo) alla nuova Politica. Secondo Cassirer, “Rousseau ha creato un nuovo soggetto della responsabilità e della imputabilità umana, e questo soggetto non è più l’uomo singolo, ma la società umana”. E Lucio Colletti, interpretando Cassirer, aggiunge: “In questo modo, il problema dell’eliminazione del male dal mondo viene a coincidere con il problema della rivoluzione”. Non si poteva dire meglio, anche se un piccolo commento ulteriore può essere utile. Ben prima di Marx, è stato certamente Rousseau ad aver sostenuto in modo rigoroso che il ristabilimento della comunità umana che si era storicamente consumata e dissolta non poteva che avvenire per via rivoluzionaria. Il primo teorico contemporaneo della rivoluzione comunitaria è quindi Rousseau, non Marx, come in generale si ripete. In proposito, è però decisivo il fatto che Rousseau tenda a dare una interpretazione “moralistica”, e quindi ineffettuale e fuorviante fin dal principio, delle ragioni storiche

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reali di questa decadenza della comunità. Tale interpretazione è purtroppo solidale con una proposta altrettanto moralistica della sua ricostruzione, che Rousseau concepisce come una somma di singole virtù politiche individuali, saltando ogni momento comunitario intermedio. Questa sarà appunto la critica che gli farà Hegel, ed è una critica decisiva. La comunità proposta da Rousseau è illusoria, perché realizzata mediante un’addizione artificiale di solitudini originarie aggregate insieme da un contratto politico. Certo, Rousseau vuole sinceramente la comunità, ma non capisce che in quel modo puramente politico e morale (e cioè moralistico) non la si può avere. Facciamo un breve inciso. Se studiamo le modalità di dissoluzione del sistema di stati e di partiti del comunismo storico novecentesco veramente esistito (1917-1991), ci accorgiamo che si è trattato di una dissoluzione di solitudini e non di una dissoluzione comunitaria. La marmaglia burocratica e nichilista al potere non sarebbe mai riuscita a dissolvere delle comunità consolidate e forti, mentre è riuscita a disperdere atomi sociali già dispersi dal terrore politico e dalla mancanza di democrazia e di diritti umani. La dissoluzione del comunismo reale, dunque, si può analizzare molto meglio partendo dal concetto di atomi solitari cui viene tolto non certo un inesistente comunismo, ma solo un pur benefico assistenzialismo economico reso possibile da un’economia pianificata fondata sulla piena occupazione e sullo spreco delle risorse. Torniamo a Rousseau. La sua grandezza filosofica resta, perché Rousseau ha saputo cogliere genialmente la radice comune (e ben pochi avrebbero saputo farlo così bene) della sacralizzazione gerarchica feudale e dell’individualismo capitalistico. Egli scrive: “Nego che la malvagità sia connaturata alla specie, come insegna il sofista Hobbes, o che sia necessario ammettere la dottrina del peccato originale, propagandata dal retore Agostino”. Personalmente, nei miei lunghi viaggi di esplorazione nel territorio incognito della storia della filosofia (le attuali ricostruzioni sono a mio avviso pressoché inservibili, appunto perché sommano la precedente visione gerarchico-sacralizzata con la nuova visione

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atomistico-individualistica), ho raramente trovato una simile, geniale individuazione del punto essenziale. E tuttavia, la meritevole restaurazione tentata da Rousseau aveva un tallone d’Achille, ossia la condivisione con Locke del presupposto individualistico del singolo lavoratore isolato (presupposto che ispira la sua educazione dell’Emilio). La solitudine non può che portare a una comunità di solitudini. 31. Il passaggio dal naturalismo russoviano al vero e proprio idealismo tedesco è stato un bene e non un male. L’idealismo è infatti la filosofia più adatta alla costituzione e alla legittimazione di una vera comunità politica che vada oltre il gruppo elettivo di amici (che viene effettivamente meglio legittimato con un materialismo di tipo epicureo). Le ragioni per cui il materialismo marxista non poteva riuscire a legittimare la comunità comunista non sono in genere assolutamente chiare ai marxisti, ma cercheremo di tornarci più avanti. Fichte è il secondo grande nome, dopo Rousseau, del comunitarismo moderno. È interessante che egli non parta affatto da una comunità reale, ma, come gli stoici, da un’astrazione universalistica e generica, l’idea cosmopolitica di Umanità che egli chiama Io, volendo indicare con questo termine soggettivo la capacità energetica di una soggettività collettiva di cambiare radicalmente le cose. Si tratta di una filosofia della rivoluzione, e di una rivoluzione in generale, pensata astrattamente, e quindi non “borghese” o “proletaria”, come si è detto per due secoli. Affermare che l’Io modifica il Non-Io è un modo sofisticato per dire che la soggettività umana comunitaria presupposta a priori può gradualmente modificare tutti quegli elementi “negativi” (il Non-Io) accumulatisi nella storia universale. Ed il Non-Io, tradotto in linguaggio storico rivoluzionario, era lo stesso già diagnosticato genialmente da Rousseau. Il Non-Io era l’addizione della gerarchia sacralizzata del retore Agostino e dell’individualismo atomistico proprietario del sofista Hobbes. Dire che l’Io trasforma il Non-Io significa che fino ad allora i filosofi avevano soltanto interpretato diversamente il

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mondo, e che si tratta ora di trasformarlo. Principio filosoficamente idealistico, che il giovane Marx, in modo confuso (ma a volte anche Omero sonnecchia), credeva fosse invece “materialistico”. Già nel lontano 1794, Fichte stabilì metodologicamente la differenza di principio fra quella che chiamava “logica formale” e quella che propose di connotare come “dottrina della scienza” (Wissenschaftslehre). La logica, scienza dell’uso corretto delle categorie del pensiero, si basa sulla separazione metodologica tra forma e contenuto, mentre la dottrina della scienza, che è una scienza filosofica (a differenza della logica), presuppone un rapporto organico fra un soggetto che progetta, agisce e modifica ed un oggetto naturale e/o sociale che ne viene agito e modificato. Solo una “dottrina della scienza”, e cioè una scienza filosofica del rapporto dialettico fra soggetto e oggetto, da non confondere con il modello di scienza galileiana che si fonda invece metodologicamente sulla separazione e l’opposizione fra soggetto e oggetto (opposizione reale e non contraddizione dialettica) può realmente ristabilire la perduta fondazione filosofica del comunitarismo moderno. Una breve parentesi, che riprenderò più avanti: quello di Marx è, dunque, un vero e proprio idealismo filosofico (il terzo dopo quelli di Fichte e di Hegel), e non certo un materialismo. La sua non è una scienza (del tipo di Galilei e di Newton), ma è una scienza filosofica o, se si vuole, una “dottrina della scienza”. Ed alla base c’è sempre, e sempre ritorna, la questione della comunità, che ne è la stella polare. 32. Hegel è l’equivalente di Aristotele per la fondazione del comunitarismo moderno. La sua importanza è decisiva, e per poterlo capire è bene delineare subito il “modello opposizionale” dentro il quale ha costruito (in latino diremmo per genus proximus et differentiam specificam) il suo modello di comunitarismo. Ma per affrontare correttamente la questione, dobbiamo comprendere bene il significato del termine “stato” (der Staat) da lui usato, e

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poi disaggregare il triangolo costituito dal partito dei vecchi ceti feudali, dal partito della sovranità dell’economia politica e infine dal partito giacobino della comunità astratta. 33. Siamo tutti talmente condizionati da duecento anni di asfissiante retorica liberale e neoliberale contro lo stato, identificato con un baraccone amministrativo inefficiente e parassitario, da aver finito con il perdere qualunque capacità di comprensione della nozione moderna di Stato. Dal momento che la chiacchiera semicolta è unanime nel dire che Hegel era un sostenitore e un apologeta dello stato (nella fattispecie, dello stato prussiano dopo il 1815, che gli dava da mangiare con un posto di professore ordinario di filosofia all’università di Berlino), ne deriva che questo statalismo fanatico prefigurava i posteriori statalismi totalitari di Mussolini, Hitler e Stalin. Tutto è nello stato, tutto è per lo stato! Questa attribuzione postuma di statalismo a Hegel appare curiosa, se riflettiamo sul fatto che, da un punto di vista filosofico, Hegel era un teorico della libertà, che vedeva addirittura come il criterio di interpretazione più importante della storia universale. Certo, non si trattava della libertà dell’individualismo atomistico proprietario, e per questo la tradizione neoliberale odia in genere Hegel ancora più di Marx, il quale, secondo costoro, è stato almeno un utopista precursore della “globalizzazione”, mentre Hegel non può essere perdonato per il suo “statalismo”. Ma è proprio così? Secondo il filosofo tedesco Koselleck, bisogna prima di tutto ricondurre il significato semantico delle parole al contesto storico in cui sono state usate. Ed al tempo di Hegel – a giudizio di Koselleck – in Germania il termine “stato” (der Staat) significava anzitutto realizzazione pacifica e guidata del programma universalistico della Rivoluzione francese nella sua fase “moderata”, ed era quindi il perfetto equivalente semantico del termine inglese commonwealth e del termine francese république. Altro che baraccone burocratico inefficiente! Lo Stato è l’organo che realizza il programma della moderni-

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tà illuministica, programma interpretato in modo comunitario e non individualistico! Nell’interpretazione comunitaristica che ne dava Hegel, il contenuto sociale che lo stato doveva sviluppare e garantire era in primo luogo l’istituzionalizzazione giuridica dei “costumi” (Sitten), tanto è vero che lo stato stesso era concettualmente incorporato in quella che è generalmente tradotta in italiano come eticità (Sittlichkeit). Ma eticità significa soltanto etica sociale, comunitaria, perché Hegel non si sogna neppure lontanamente di separare “società” da “comunità”, come avverrà più tardi. Il comunitarismo di Hegel si fonda dunque (e direi addirittura esclusivamente) su di un’etica comunitaria dei costumi sociali compresi e condivisi. In questo si può vedere una ripresa non di Platone (dal momento che non c’è nessuna deriva eugenetica e nessuna dittatura pitagorica), ma semmai di Aristotele. E se questo è vero, così come Aristotele è stato il più grande comunitarista dei tempi antichi, Hegel è stato il più grande comunitarista dei tempi moderni. Ma questo potrà essere capito meglio con una analisi “differenziale”, in cui si cercherà di far risaltare la corretta posizione comunitarista di Hegel per contrasto con i tre partiti storico-filosofici da cui prende le distanze, il che gli consente di costruire il suo specifico comunitarismo. 34. Il primo partito storico-filosofico da cui Hegel prende le distanze è quello dei cosiddetti “vecchi ceti”, politicamente rappresentato dal cancelliere austriaco Metternich e filosoficamente dai cosiddetti “filosofi della Restaurazione” (con i quali Hegel non ha assolutamente niente in comune). Hegel si era precocemente convinto di stare vivendo in “un’epoca di gestazione e di trapasso”. Trapasso da un mondo vecchio a un mondo nuovo, e gestazione di una costellazione politica e sociale inedita. Per questa ragione, non poteva andare d’accordo con i

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teorici della Restaurazione. Per Hegel, il mondo delle gerarchie sacralizzate feudali e signorili era irreversibilmente tramontato, ed ogni tentativo di tenerlo in vita era destinato al fallimento. In questo senso, l’Illuminismo aveva portato a termine un’operazione distruttiva positiva, una pars destruens assolutamente necessaria (questa è oggi esattamente la stessa posizione di papa Benedetto XVI). Hegel è stato certamente aiutato in questa comprensione dalla sua concezione filosofica generale della positività dialettica del Negativo nella storia. Ciò che conta, però, è l’essenziale sobrietà di questa intelligentissima posizione rispetto a quella degli stroncatori assoluti dell’Illuminismo, come Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell’Illuminismo e lo stesso pur benemerito MacIntyre nelle sue peraltro mirabili difese del comunitarismo. Le comunità precedenti di tipo feudale-signorile, infatti, non erano state vere comunità, perché la tripartizione simbolica della società medievale (bellatores, oratores, laboratores) non permetteva di giungere all’universalità della Ragione (Vernunft). Chi dunque esalta il Medioevo europeo come paradiso del vero comunitarismo, poi dissolto dalla individualizzazione proprietaria “borghese”, non coglie il centro della questione, e in questo modo difende la sua causa soggettivamente creduta in buona fede con argomenti falsi. Il problema, allora, non è di tipo nostalgico, ma politico e progettuale. Non si tratta di avere nostalgia di un tempo irrimediabilmente trascorso, ma di recuperare gli elementi comunitari positivi presenti in quel mondo, trasformandoli radicalmente in una nuova sintesi sociale comunitaria basata sulla libertà della coscienza e sull’eguaglianza del diritto. Il rapporto di Hegel con la posizione dei nostalgici dei “vecchi ceti” è, a ben vedere, analogo a quello che abbiamo noi con i nostalgici del comunismo storico novecentesco recentemente defunto e seppellito. Indubbiamente, anche nelle strutture più autoritarie e degradate del comunismo storico novecentesco c’erano elementi di solidarietà esistenziale migliori dell’attuale scatenamento privatistico da belve liberate dalla gabbia. Ma questo non è un buon argomento per trasformare questa razionale nostalgia

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in vero e proprio programma di restaurazione. Il baraccone burocratico del socialismo reale limitava pur sempre in modo non solo positivo, ma addirittura provvidenziale, lo sfacciato unilateralismo dell’impero messianico e militare americano. Ma tutto questo non cambia le cose. Le due ideologie gemelle della sacralizzazione gerarchica cristiana e del materialismo dialettico sovietico sono definitivamente trapassate, e non si potranno dunque riformare né i “vecchi ceti” feudali e signorili, né i “nuovi ceti” sociali socialisti e comunisti. 35. Il secondo partito storico-filosofico da cui Hegel prende le distanze è quello della dittatura dell’economia politica capitalistica che per gli ingenui si traveste da liberalismo politico incontrollato. Questo partito, al tempo di Hegel ancora molto debole in Europa per la correlata debolezza dello sviluppo capitalistico, era il partito degli “anglomani”, cioè degli adoratori idolatri dell’Inghilterra. Hegel, che pure non è affatto pregiudizialmente ostile né all’Inghilterra, né allo studio della nuova “economia politica”, capisce immediatamente che adottando le posizioni utilitaristiche e antifilosofiche di questo partito non sarà possibile costruire nessuna comunità sociale e politica. La presa di distanze di Hegel dall’economia politica inglese, ossia dall’economia politica concepita e praticata come fondamento politico della società, è un esempio luminoso e cristallino di filosofia consapevolmente comunitarista. L’economia politica ama presentarsi come “scienza pura”, priva di presupposti filosofici. In realtà, l’economia politica è un complesso di conoscenze sociali intriso di presupposti filosofici, senza i quali si sgonfierebbe come un palloncino che un incauto ragazzino lascia volare verso il cielo. Sinteticamente, i presupposti filosofici principali dell’economia politica intesa come sapere “oggettivo” e “neutrale” sulla società sono quattro: il sensismo, l’empirismo, lo scetticismo e infine l’utilitarismo. Iniziamo dal sensismo. Nessuno dubita del fatto che il processo della conoscenza umana inizi dalle sensazioni. Lo stesso Hegel,

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che pure è stato uno dei maggiori critici filosofici del sensismo nella tradizione occidentale, lo ammette apertamente e senza difficoltà. Il sensismo, tuttavia, non si limita a questo, ma sostiene che la sensazione, opportunamente calcolata e registrata, è il criterio del vero e del falso (index veri et falsi). La cosa non si sostiene razionalmente, ma la questione non è per niente accademica. Il processo che si innesca fra il venditore e il compratore è infatti, per sua stessa definizione, un processo sensistico, perché sono il desiderio del compratore e la conoscenza psicologica del desiderio da parte del venditore a mettere in moto e garantire lo scambio mercantile. Per questa ragione, anche se non solo per questa, l’economia politica in quanto tale non può fare a meno del presupposto sensistico. Quanto all’empirismo, è innegabile il ruolo dell’esperienza (empeiria) nel processo conoscitivo. Ma gli empiristi difendono la teoria della tabula rasa, secondo cui la mente umana è vuota e su di essa il mondo esterno scrive e incide i suoi impulsi, poi registrati come “sensazioni”. Questa concezione è clamorosamente falsa ed è stata totalmente smentita dalla psicolinguistica moderna (Noam Chomsky, Steven Pinker), ma non è questo l’aspetto principale della questione, che risiede invece in ciò, che il modello di conoscenza empiristica, assolutizzando il punto di partenza sensistico da cui trae origine, taglia fuori la genesi materiale e ideale del fenomeno stesso, che non potrebbe mai essere conosciuta per via puramente empirica, ma ha bisogno di una ricostruzione genetica e poi genealogica. Il “partire da zero” della conoscenza empiristica, con programmatica rimozione dell’elemento genetico empiricamente non conoscibile, permette, ad esempio, di concepire la produzione capitalistica come originaria. Grado zero, tabula rasa e capitalismo originario “dato” immediatamente all’esperienza dei cinque sensi sono una cosa sola. Chi ha capito questo (e non ci vuole poi nemmeno molto), ha capito anche il nesso indissolubile fra società capitalistica ed empirismo. Ciò che infatti l’empirismo “registra” (perché la sua teoria della conoscenza è in realtà una teoria della registrazione immediata senza genealogia) è sempre e solo la “comunità capitalistica” (che è una pseudocomunità) tenuta

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insieme dalla merce. Chi pensa per caso di rifondare concettualmente il comunitarismo su base empirica, deve essere dissuaso, cortesemente ma fermamente. Esaminiamo ora lo scetticismo. In precedenza, si è già fatto notare che lo scetticismo antico (assai più nella forma accademica che in quella pirroniana) ha la sua genesi storica in un crollo catastrofico della anteriore comunità politica, la quale era ad un tempo la committente e la destinataria della cosiddetta “verità”, che era la stessa comunità pensatasi sub specie aeternitatis. La dissoluzione materiale della comunità, infatti, è il presupposto storico del raddoppiamento ideale ed astratto di questa dissoluzione, che è allora la parallela dissoluzione della verità intesa come autocoscienza collettiva della comunità stessa. Ma questo è per l’appunto lo scetticismo antico. Quello moderno (alla David Hume, per intenderci) ha una genesi, una natura e una funzione diverse. Abbiamo già notato che la critica scettica di Hume alla categoria di causalità è funzionale alla autofondazione spontanea della società senza alcuna necessità di un preliminare contratto politico di istituzione, il che significa soltanto primato degli automatismi dell’economia sulla fondazione politica. Ma Hume spinge il suo scetticismo fino a mettere in dubbio anche l’Io, cioè l’identità mentale unitaria dell’uomo, sostituito da un flusso di sensazioni artificialmente riunite insieme da un’operazione indebita. I manuali di storia della filosofia oppongono, in genere, questa concezione a quelle basate sulla “stabilità della coscienza”, tipo il Cogito di Cartesio, l’Io Penso di Kant ed infine l’Autocoscienza di Hegel. È certo anche così, ma non è questo il punto essenziale. Hume vuole mettere al sicuro la sua teoria degli automatismi nei rapporti fra gli uomini mediati dallo scambio mercantile, e l’unico modo sicuro per farlo è quello di negare la sovranità dell’Io in una decisione. In proposito, persino Nietzsche non coglie il punto essenziale, e crede in buonafede di fare critica “antiborghese” risolvendo il Soggetto in un flusso energetico di volontà di potenza individuale, senza ovviamente capire che la negazione del soggetto trascendentale (Hume docet) è proprio il modo migliore di

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garantire la sovranità degli automatismi capitalistici, che sono appunto un “processo senza soggetto”. L’aspetto maggiormente funzionale dello scetticismo filosofico nella legittimazione della società capitalistica sta però in una determinata critica scettica della religione. La critica di Hume alla religione è in proposito estremamente intelligente. Egli rileva che il cosiddetto “deismo razionale”, che ai suoi tempi passava per il non plus ultra del razionalismo illuministico, era solo il raddoppiamento e il riflesso maniacale della tendenza degli intellettuali ad organizzare mentalmente il mondo dandogli un ordine, mentre in realtà la religione migliore e più intelligente non era affatto il monoteismo, che Hume vede come potenzialmente intollerante, ma il politeismo, che invece propone una pluralità di divinità diverse. Da un punto di vista storico, Hume anticipa genialmente la preferenza verso il politeismo di Nietzsche e di Max Weber ed anche il cosiddetto pensiero debole italiano (Gianni Vattimo). Soprattutto, egli comprende che, senza delegittimare radicalmente la vecchia religione cristiana non è possibile instaurare la sovranità della nuova religione, il monoteismo utilitaristico del mercato e dell’economia politica. Anche su questo punto, i cosiddetti “marxisti”, questi fautori di un positivismo per poveri trasformato in concezione scientifica e predittiva della società, non hanno ovviamente capito nulla, ed hanno creduto che, distruggendo l’idea monoteistica della divinità, che resta pur sempre in modo imperfetto il riflesso antropomorfizzato (e perciò insufficiente) dell’uni­tà comunitaria della verità, si faceva un servizio al proletariato rivoluzionario e si apriva concettualmente la strada alla società comunista senza classi. Ma è noto che Dio acceca tutti quelli che vuole perdere. E terminiamo con l’utilitarismo. Hegel è un critico radicale dell’utilitarismo, e gli è perfettamente chiaro che sul fondamento del concetto di “utilità” è possibile organizzare una società atomistica e mercantile, ma non è assolutamente possibile fondare una vera comunità. Quest’ultima richiede una comunanza di “costumi”

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(Sitten), non certo un semplice pluralismo di interessi e bisogni. La posizione di Hegel è classicamente aristotelica, e vedremo fra poco che anche Marx la accetterà nell’essenziale. Hegel riconosce l’esistenza di “bisogni”, e del fatto che in una certa misura l’economia politica aiuta a ordinarli. Per questo nella parte del suo sistema di filosofia politica chiamato Spirito Oggettivo, egli tiene conto anche dell’economia politica. Nella sua ragionata quadripartizione della cosiddetta società civile (sistema dei bisogni, amministrazione della giustizia, polizia e corporazione), Hegel mette in ordine il modo concettuale di pensare razionalmente una comunità. Il momento puramente “economico” (il sistema dei bisogni) è il più lontano dal momento etico dei costumi (Sitten), laddove invece nelle corporazioni professionali l’individuo trova già un riconoscimento collettivo dei suoi meriti e delle sue capacità su base appunto non economica (la competenza professionale all’interno della divisione del lavoro sociale, valore comunitario per eccellenza, viene messa più in alto della semplice ricchezza e dell’essere pieno di soldi). La proposta di Hegel si configura dunque come un’alternativa comunitaria al dominio sovrano degli automatismi della merce capitalistica. 36. Il terzo e ultimo partito storico-filosofico da cui Hegel prende le distanze è quello della rivoluzione ugualitaria giacobina pensata da Rousseau e attuata da Robespierre. La sua critica al giacobinismo robespierrista, sia pure ogni tanto un po’ ingenerosa e unilaterale (personalmente, sono un ammiratore di Robespierre), resta però nell’essenziale giusta, ed a mio avviso è la critica anticipata del comunismo storico novecentesco migliore che conosca. Se non condividessi profondamente questa critica, che è “comunitaria” e quindi né individualistica, né tradizionalistica, non avrei scritto un elogio del comunitarismo, ma l’ennesimo elogio del comunismo tout court. Se invece ho fatto questa scelta relativamente innovativa rispetto alla tradizione comunista

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da cui provengo, è proprio perché la critica di Hegel ai “comunitarismi frettolosi” che infine si rovesciano nel loro contrario e si autodistruggono mi pare convincente. Per me, questa non è in alcun modo una rottura con il comunismo, ma, al contrario, una maniera (che considero matura) di essere ancora fedele a questa scelta giovanile assolutamente non rinnegata che tempo fa definii una “passione durevole”. La maggior parte degli studiosi del rapporto fra Rousseau ed Hegel insiste sul fatto che Hegel non è un contrattualista e pertanto nega esplicitamente la teoria del contratto sociale, il che lo porta di fatto (sia pure con vari distinguo) a negare anche la teoria del diritto naturale. Il robusto senso della storicità concreta di Hegel lo induce ovviamente a sospettare di tutte le fondazioni astratte ed aprioristiche, che lui assimila invariabilmente all’illusione di “poter imparare a nuotare prima di essere entrati in acqua”, che resta pur sempre la critica fondamentale rivolta a Kant, il quale ha inteso fissare a priori i limiti e le sfere di validità della conoscenza. Certo, Rousseau ed Hegel sono divisi dalle due teorie del diritto naturale e del contratto sociale, ma non è qui il vero nocciolo della questione, che è questo: Hegel stima Rousseau e gli riconosce volentieri la sincera intenzione di superare l’individualismo atomistico astratto (per Hegel, l’individuo isolato è sempre astratto, mentre la comunità tenuta insieme da costumi è sempre concreta), ma ritiene che su basi russoviane si possa avere soltanto una “comunità illusoria”, ossia un’addizione di individualità presupposte come originariamente solitarie che si lanciano insieme nel progetto ugualitario di un nuovo contratto sociale equo, che possa sostituire quello precedente iniquo. Hegel chiama questo progetto russoviano una “furia del dileguare”. E che cosa è che propriamente “dilegua”, cioè scappa in avanti, si affretta senza essersi prima consolidato? È una comunità illusoria, tenuta insieme fittiziamente da una virtù politica soggettivamente sincera, che salta i momenti essenziali della comunità familiare, della comunità elettiva di amici, della comunità fondata sul mestiere e sulla competenza professionale riconosciuta, e su tutte le comu-

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nità “intermedie” senza le quali non può neppure esistere la comunità delle comunità, il contratto sociale virtuoso fra cittadini uguagliati dalla legge. Personalmente, trovo questa critica hegeliana non solo intelligente e pertinente, ma addirittura risolutiva. Non si può volere la “comunità ideale” se si comincia a disprezzare e ignorare le comunità intermedie precedenti. Il comunismo è, tra l’altro, morto proprio di questa specifica patologia. Ha messo la comunità astratta del comunismo davanti a tutto il resto, ha creduto di potersi costituire saltando la famiglia e la società civile (spacciate frettolosamente come “borghesi”), e così ha costruito sulla sabbia. Quando ha cominciato a entrare in crisi sul piano economico e produttivo, si era bruciato i ponti alle spalle, e non aveva più trincee di difesa su cui attestarsi. Frantumato l’apparato burocratico del partito, tutto si è dissolto in pochi mesi (l’esperienza della Russia nel 1991 è stata in proposito esemplare). Non è questa la sede per esaminare nei dettagli questa critica di Hegel a Rousseau. Parecchi autori (Merleau-Ponty in particolare) hanno insistito sul rovesciamento dialettico della virtù politica in terrore poliziesco e sul parallelismo fra il terrore giacobino del 1792-94 e il terrore staliniano del 1936-38. Tutto questo è interessante, ma l’essenziale resta l’aver colto il nodo dell’illusione della “furia del dileguare”, gemella del volontarismo rivoluzionario comunista del secolo appena trascorso. 37. L’insieme delle critiche rivolte ai partiti dei vecchi ceti, del primato dell’economia politica e del progetto russoviano di contratto sociale rivoluzionario permettono ad Hegel di gettare le basi filosofiche tuttora valide del comunitarismo moderno. È allora inutile disperdersi nei particolari delle specifiche soluzioni da lui date a questioni costituzionali concrete del suo tempo. Queste vanno e vengono come le foglie, mentre i principi orientativi restano. E più di tutto resta, a mio avviso, il vero e proprio testimone che Hegel ha passato a Marx.

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Il filosofo del diritto Giuseppe Capograssi ha scritto nel 1930, in una recensione dei Manoscritti economico-filosofici di Marx del 1844 appena pubblicati: “Marx, sarcastico e scettico critico di Hegel, è il solo scolaro che Hegel abbia avuto”. Sono totalmente d’accordo. E questo ci permette di passare finalmente a Marx e al suo pensiero comunitarista. 38. Il primo principio metodologico a proposito di Marx e del marxismo, che mi sento non solo di consigliare, ma di raccomandare in modo imperativo, è il seguente: dimenticate tutto quello che credevate di sapere su Marx e il marxismo! Non farei questa ferma raccomandazione se non sapessi che la sorte toccata a Marx e al marxismo non è assolutamente paragonabile alle sorti toccate a tutti gli altri pensatori della tradizione filosofica occidentale (da Platone ad Aristotele, da Spinoza a Kant). Marx è stato incorporato in un apparato ideologico prima soltanto politico-sindacale, poi addirittura statuale e geopolitico. Perciò, quello che la maggior parte delle persone cosiddette “colte” crede di sapere su Marx non corrisponde alla problematica in divenire del suo pensiero (che a suo tempo Marx non cercò mai di rendere coerente e sistematizzare), bensì a un “modello” elaborato nel ventennio 1875-1895 dall’amico di Marx Engels e dal suo allievo indiretto Kautsky. Questo modello, che partiva certamente da tesi originali di Marx, le combinava però insieme in modo tale da togliere a queste tesi ogni carattere aperto e problematico, conferendo ad esse una chiusura dogmatica facilmente spendibile sul terreno della mobilitazione dei militanti e soprattutto della loro rassicurazione religiosa circa il buon esito finale garantito dei loro sforzi e delle loro aspirazioni. Grandi marxisti, come l’italiano Antonio Gramsci, capirono perfettamente questa patologia religiosa e le sue radici, ma non poterono fare nulla contro la sinergia, ad un tempo perversa e grottesca, del cinismo nichilista dei capi e della credulità ottusa delle loro basi politiche e sociali.

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39. È ovvio che non si può decentemente chiedere di dimenticare tutto quello che si credeva di sapere su Marx e il marxismo, e poi pretendere che venga accolto a scatola chiusa ciò che qui si propone. Non sarebbe né serio, né proponibile. Chi chiede di dubitare, deve accettare che si dubiti prima di tutto di quello che lui dice. Naturalmente, ciò che in questa sede si dice e si dirà ha basi filologiche documentali, con opportune citazioni. Ma anche tesi opposte possono trovare opportune citazioni. In realtà, le citazioni non dimostrano nulla. Il citazionismo marxista è il corrispondente proletarizzato del citazionismo religioso e sacrale medievale. La base sociale è la stessa: sacerdoti e clero, da un lato; ceti subalterni credenti, dall’altro. In questo modo, il marxismo non è mai riuscito in più di un secolo a restaurare il metodo razionale e dialogico della filosofia greca classica. E se ciò non è mai avvenuto – e questo è un fatto – seguendo Marx dovremmo chiederci quale ne sia il “perché” strutturale e non solo congiunturale. La risposta è che non è vero che i ceti subalterni, e in particolare la classe operaia, salariata e proletaria (i tre termini non coincidono, ma qui per brevità li mettiamo insieme) rappresentano un soggetto sociale universalistico complessivo in grado di propiziare l’avvento di una società senza classi, o più esattamente di una comunità umana senza classi. Coloro che si sdegnano per questa blasfema affermazione sono pertanto cortesemente invitati a dare loro una convincente spiegazione alternativa del motivo per cui il pensiero di Marx è stato trasformato in una mediocre teologia positivistica. Li ascolterò volentieri! 40. Il fatto è, ovviamente, che non esiste e non può esistere un fantomatico “vero Marx” che si tratterebbe di scoprire e palesare ai discepoli variamente credenti. Il Marx realmente esistito fra il 1818 e il 1883 era un cantiere in costruzione di un oggetto teorico e politico nuovo, che non fu mai portato a termine, in quanto conteneva in se stesso una contraddizione certamente feconda, ma anche insolubile. Quello che infatti Marx aveva in mente era, detto in modo sintetico, un ossimoro, ossia un’utopia scientifica.

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41. La tesi più diffusa a proposito del rapporto tra utopia e scienza in Marx è quella desunta dall’interpretazione che ne diede il suo amico e collaboratore Engels, per cui la grandezza di Marx sarebbe consistita nell’aver realizzato il passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza. Marx sarebbe allora stato il grande traghettatore, il san Cristoforo portatore dell’agnello divino della salvezza dell’umanità, della società senza classi, vista da Marx come l’unica comunità reale, dal cielo dell’utopia, generosa ma ineffettuale, alla terra della scienza, concreta e prevedibile, anche se non prevedibile con matematica certezza temporale. Occorre mettere da parte questo stereotipo, sorto nel contesto storico del modello positivistico di scienza, deterministico e predittivo, e quindi anche teleologico. In Marx c’è invece la fusione, necessariamente imperfetta, fra un elemento utopico di origine romantica e un elemento scientifico di origine positivistica. Il matrimonio fra questi due elementi è del tutto instabile, e il divorzio è sicuro, sia pure a scadenza imprevedibile. Il dato utopico, di origine romantica, consiste nella riconciliazione tra Uomo e Natura, e dunque in un progetto titanico e prometeico di superamento di quelle “alienazioni” provocate da un allontanamento progressivo (il Non-Io di Fichte) dall’armonia originaria. Il dato scientifico, invece, consiste prima nella costruzione di quattro concetti scientifici fondamentali (modo di produzione sociale, forze produttive sociali, rapporti sociali di produzione, ideologie e sistemi ideologici), prosegue poi nell’applicazione sistematica di questi quattro concetti al solo modo di produzione capitalistico nella forma della critica dell’economia politica, e si conclude infine nella previsione, ritenuta necessaria, del rovesciamento della produzione capitalistica in una nuova società comunista, per effetto non di forze esterne, ma delle stesse dinamiche dialettiche interne della logica di sviluppo mondializzato della stessa produzione capitalistica. Il fatto è che l’elemento utopico e quello scientifico fanno entrambi parte in modo indissolubile del modello di Marx, che è dunque un’utopia scientifica. Sbagliano dunque, e di grosso, quegli autori

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marxisti posteriori che hanno cercato di isolare il solo elemento utopico (si pensi al tedesco Ernst Bloch) oppure il solo elemento scientifico (è il caso del francese Louis Althusser). Questi “isolatori”, guastandosi, hanno finito col non far più passare la corrente della dialettica, creando così due partiti, o meglio due sette incomunicabili ed ostili, la setta degli utopisti e la setta degli scienziati. Ognuna di esse ha creduto e crede di poter camminare con una gamba sola. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. 42. Ad intorbidare ulteriormente le acque ha contribuito il fatto che il marxismo, respinto per la sua relativa rozzezza economicistica e riduzionistica da molti spiriti liberi che non avevano nessun interesse economico egoistico da difendere, ma non sopportavano l’idea di diventare i sacerdoti di un simile pasticcio deterministico, ha finito con il cadere nelle mani di due categorie di intellettuali apparentemente opposte, ma in realtà complementari: gli “impiegati” e gli “sradicati”. Esaminiamole separatamente. La pratica della filosofia è per definizione libera, nel senso che non può essere né organizzata, né sottoposta alla sorveglianza di datori di lavoro o capiufficio di vario genere. Gli “impiegati”, allora, sono tutti coloro che, non importa se in buonafede o in malafede, si sono messi al servizio delle esigenze ideologiche e politiche del proletariato. Quelli in buonafede lo hanno fatto perché gratuitamente convinti che, essendo il proletariato l’unica classe potenzialmente universalistica, servendo il proletariato, avrebbero servito l’intera umanità. A quelli in malafede, invece, non è mai importato nulla dell’universalismo; a costoro interessavano unicamente le prebende, la visibilità ed altre ricompense. La differenza morale fra queste due categorie impiegatizie è, come si può ben comprendere, enorme, ma, all’atto pratico, cambia poco. Quando accetta un rapporto di lavoro impiegatizio, il pensiero si irrigidisce. Ogni volta, infatti, che scopre qualcosa di inconciliabile con gli interessi dell’azienda, l’impiegato ha solo due possibilità: o sta zitto e mette la scoperta nel cassetto, oppure viene licenziato.

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Il marxismo impiegatizio pratica quella che un acuto commentatore tedesco ha definito la “quinta operazione”, che si aggiunge alle altre tradizionali quattro (addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione), e che consiste nello scrivere prima il risultato voluto e solo dopo nell’eseguire i calcoli necessari per ottenere quel risultato. Accanto al marxismo degli impiegati, c’è sempre stato, in posizione complementare, il marxismo futuristico degli sradicati, di coloro che non volevano sostituire una comunità migliore a una comunità precedente ritenuta cattiva e inemendabile, ma solo testimoniare il proprio inguaribile sradicamento. Niente di male se costoro avessero trovato il loro pensatore di riferimento in Nietzsche. Ed invece, essi hanno ritenuto che l’unico e vero Nietzsche fosse Marx e gli hanno scaricato addosso il loro sradicamento travestendolo da marxismo “critico”. Premetto che non ho assolutamente nulla contro gli sradicati, che spesso, proprio a causa dell’esperienza dolorosa del loro sradicamento, vedono cose che gli altri non riescono a vedere. La società ne ha dunque bisogno, così come ha bisogno dei preti e degli idraulici. Sono a favore di una comunità che tuteli gli sradicati, e credo che Nietzsche resti il loro insuperabile pensatore. Tuttavia, lo sradicato non deve pretendere di passare per rivoluzionario, perché la rivoluzione è qualcosa che riguarda solo la comunità, mentre lo sradicamento può portare solo a un rispettabile esodo e a una tollerabile secessione. A suo tempo, Martin Heidegger ha perfettamente diagnosticato l’irresistibile tendenza evolutiva del punto di vista sradicato di Nietzsche, per cui si crede di criticare in profondità la società occidentale borghese-capitalistica in nome del nichilismo attivo e della volontà di potenza, e più ancora in nome dello “smascheramento” delle radici psicologiche della morale, e non ci si rende conto di lavorare per il re di Prussia, cioè per la stessa società capitalistica, la cui base è appunto il nichilismo attivo e la cui riproduzione allargata si fonda proprio sulla volontà di potenza nella forma della lotta incessante fra gruppi strategici e concorrenziali di capitalisti finanziari.

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Il male sta nel fatto che, come ha rilevato Simone Weil, lo sradicato sradica, ossia tende irresistibilmente a sradicare tutti gli altri. Impiegati e sradicati, in apparenza incompatibili, convergono nel comune odio verso la comunità reale. Gli sradicati perché non ne vogliono nessuna, gli impiegati perché sono al servizio di aziende o cooperative particolari. 43. Le considerazioni fatte finora erano necessarie per entrare nel cuore della questione che ci interessa, che è questa: Marx, lungi dall’essere un pensatore di tipo “futurista”, nemico del passato e della tradizione e sostenitore di un “grado zero” da cui ricominciare la storia umana, era invece un pensatore profondamente inserito nella tradizione filosofica occidentale, una tradizione in cui l’idea e la pratica della comunità rappresentano il fondamento principale. 44. Le obiezioni politiche e teoriche che Marx rivolge a Hegel sono molte, alcune giuste, altre del tutto fuori bersaglio, come è peraltro naturale, perché nessuno è perfetto. Marx doveva “uccidere” il padre, ed in queste frettolose operazioni giovanili si tende ad esagerare. In proposito, il fraintendimento più pittoresco di questa operazione proviene da coloro (due nomi per tutti: Galvano Della Volpe e Lucio Colletti) che riducono Marx a nominalista ed empirista tipo Hume, credendo che la sua critica specifica agli “universali” posti da Hegel sia anche una critica (empiristica e nominalistica) agli Universali in generale. Marx scrive pagine del tutto insensate prendendosela con Hegel e accusandolo di credere nel Frutto senza rendersi conto che in realtà ci sono soltanto pere, mele e ciliegie. Questa non è altro che una discutibile riproposizione della critica nominalistica all’esistenza degli Universali. Tuttavia, Marx in questa critica si contraddice completamente, perché anche lui crede nell’esistenza degli universali come, ad esempio, il Genere Umano. Se non avesse creduto nell’esistenza del Genere Umano, ma soltanto in quella di giapponesi e svede-

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si, non avrebbe mai potuto elaborare il suo concetto di “ente naturale generico” (Gattungswesen), che è a sua volta la premessa antropologica della comunità umana (Gemeinwesen), la quale è ovviamente un “universale” per eccellenza. Marx è infatti un idealista inconsapevole (il terzo dei grandi idealisti, dopo Fichte ed Hegel), che si crede materialista per il fatto che, essendo ateo, ritiene che tutti gli atei siano per definizione materialisti. Il sistema che poi elaborerà sarà “strutturalista”, modello teorico ed epistemologico che si pone oltre il materialismo e l’idealismo, in quanto non è un modello filosofico. Ma le premesse filosofiche sono del tutto idealistiche, trattandosi di un idealismo universalistico dell’emancipazione dell’ente naturale generico umano (Gattungswesen) dal sistema storico dell’alienazione (Entfremdung) culminato nel regno della merce il cui feticismo deifica integralmente i rapporti umani (Verdinglichung). Certo, Marx critica Hegel, ma bisogna capire dove e come esattamente lo critica. 45. Marx critica Hegel per una sola ragione di fondo, che è ad un tempo giustificata e semplicissima: non si può perseguire la comunità umana in una società classista, poiché la sola comunità umana “ideale” (ecco dove risiede, a mio avviso, l’idealismo segreto di Marx!) è una comunità senza classi. Possiamo parlare di una critica di tipo comunitarista, o più esattamente di una sollecitazione a rendere l’idea comunitaria più rigorosa, solidale e coerente, togliendole i suoi residui elementi classisti. Diciamolo francamente: Marx ha ragione, perché la sua critica coglie il nocciolo della questione, ossia la totale incompatibilità teorica e politica fra l’universalismo e il classismo, o meglio fra l’universalismo ideale e il classismo materiale. Ecco perché i frettolosi seppellitori di Marx si illudono. Marx non è morto, e non morirà presto, sostanzialmente per questo solo motivo. Non ha dunque molto senso chiedersi se Marx sia un pensatore comunitarista oppure classista. La domanda è posta male e, come tut-

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te le domande poste male, non permette alcuna risposta. Marx è un pensatore comunitarista rigoroso perché persegue la comunità umana universale (Gemeinwesen), si rende conto che nel capitalismo non è possibile alcuna comunità (come invece ritiene, con un uso erroneo del termine, il pur acuto Jacques Camatte), e, sulla base di questo logico convincimento, pensa che solo la lotta di classe operaia, salariata e proletaria, potrà concretamente (e non solo idealmente) abolire tutte le classi, laddove invece la borghesia non potrà mai farlo, se non nell’astrazione politica (si veda la sua giovanile Questione ebraica), dato che vive e si nutre di classismo, si riproduce attraverso di esso e non potrebbe esistere senza classismo. La logica della critica di Marx a Hegel nasce quindi da una visione rigorosa dell’idea comunitaria. Ma c’è altresì da dire che Hegel non aveva affatto assolutizzato la divisione in classi della società, dal momento che nel suo sistema di Assoluto ci sono unicamente cose “ideali” (Arte, Religione e Filosofia), mentre quelle sociali e politiche non sono per niente assolute, ma solo “oggettive” (il cosiddetto Spirito Oggettivo). Mentre l’Assoluto non si riduce alla storia, pur avendo ovviamente anche una storia, l’Oggettivo è sempre e solo una provvisoria oggettivazione temporalmente e spazialmente determinata e limitata, e quindi le “oggettivazioni” di Hegel (famiglia, società civile e stato) non possono per definizione ambire alla assolutezza. Saranno invece i marxisti successivi, quelli storicisti, a perdere di vista questa pur semplice distinzione e a trasformare in Assoluto il tempo storico nel suo nudo scorrimento “progressista” e a chiamare questo Relativo “assoluto”, col risultato di creare un nichilismo perfetto. Su questo punto, Hegel e Marx sono innocenti. È invece utile ragionare su come Marx abbia ritenuto opportuno “pensare” la propria concezione universalistica di comunità attraverso la mediazione necessaria della critica dell’economia politica inglese. Gran parte delle contraddizioni filosofiche del comunitarismo di Marx trovano, infatti, qui la loro sede e il loro campo di svolgimento. Non si passa, infatti, filosoficamente da Hegel a Smith come si

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passa da una parte all’altra della strada. Tuttavia, se si farà chiarezza su questo punto, sarà spianata la via per comprendere la natura comunitaria del pensiero di Marx. 46. Il punto di partenza filosofico di Marx è una sorta di universalismo politico di tipo stoico, e dunque necessariamente astratto, in cui si persegue una “comunità ideale” in grado di cancellare quelle alienazioni che rendono impossibile all’uomo il raggiungimento della propria natura “generica”, cioè libera e creatrice. Marx teme il “fissaggio” di questa natura generica in una sola professione per tutta la vita, ed in questo periodo sembra vicino all’utopia di Fourier basata sulla rotazione di più lavori per la stessa persona, utopia praticata (e poi fallita) nei cosiddetti “falansteri”. In proposito, Marx scherza parlando di una persona che nella stessa giornata fa il cacciatore, il pescatore e il “critico critico”, ossia il filosofo puro. Nello stesso periodo, Marx si convince che il “comunismo”, questa utopia universalistica dell’emancipazione dell’ente naturale generico dall’alienazione, non sia solo un auspicio astratto, ma un vero e proprio “movimento reale che abolisce lo stato delle cose presenti”, e che il proletariato ne sia il portatore storico empirico. A distanza di quasi duecento anni, questo movimento reale resta del tutto invisibile, anche se piccole sette fondamentaliste marxiste continuano a vederlo in ogni tumulto popolare e in ogni apertura di nuove fabbriche in Nuova Guinea. Non intendo affatto fare del facile e sprezzante umorismo su Marx, ma solo irridere i “veri credenti” nello Spirito Santo proletario. In ogni caso, non è possibile fondare nessun movimento storico di massa se il fondatore non si auto-convince che è in corso un processo emancipativo che in realtà rimane del tutto fantasmatico – dal Regno di Dio propiziato dall’Anno di Misericordia del Signore e dal sacrificio del Servo Sofferente di Gesù di Nazareth, al Comunismo come Movimento Reale di Karl Marx. L’autoconvinzione fantasmatica produce effetti materiali concreti, cosa che lo scettico che si fa beffe della credulità umana non riuscirà mai a capire.

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L’auto-convincimento fantasmatico su un inesistente Movimento Reale Abolitore in grado di ricostituire una vera comunità umana non ha però alle spalle un retroterra messianico e apocalittico, come nel caso di Gesù di Nazareth, ma un retroterra doppiamente razionalistico, il razionalismo intellettuale dell’Illuminismo e il razionalismo dialettico del Romanticismo tedesco. È dunque del tutto normale che Marx, anziché scendere in strada a predicare l’imminente avvento della comunità umana (pentitevi, perché il Regno di Dio è vicino!), si rivolga all’economia politica inglese. Tutto ciò non avviene certamente a caso. Sulla base del sistema filosofico di Hegel, infatti, era impossibile studiare “scientificamente” il capitalismo, perché Hegel lo aveva già trasfigurato e filtrato in un modello di tipo classista-comunitario, in cui cioè l’elemento della disuguaglianza classista era stato parzialmente “addomesticato” in uno statalismo assistenzialistico (nel linguaggio di Hegel, la “polizia”, che non voleva dire i poliziotti, ma il welfare di allora). Bisognava dunque lasciare Hegel e andare a studiare direttamente la “nuova scienza” capitalistica dell’economia politica inglese. Questa ragionevole scelta di Marx è generalmente interpretata come un “progresso” consistente nel passaggio dal terreno della filosofia a quello dell’economia. In altri termini, dalle interminabili chiacchiere generiche senza costrutto a qualcosa di veramente “concreto”, costituito di numeri, fatti, grandezze materiali e soprattutto soldi. In questa concezione (che in quarant’anni di pratica del marxismo ho verificato sotto tutti i climi e le latitudini) c’è il riflesso del disprezzo che l’individualismo atomistico mostra verso la filosofia. Quest’ultima, infatti, non solo problematizza la vita umana, e quindi fa perdere tempo prezioso per l’accumulazione del capitale, ma è anzi la quintessenza provocatoria di un’attività umana interamente disinteressata. Il passaggio di Marx dalla filosofia all’economia è quindi visto come un “progresso”, nel senso che si passa finalmente dall’età adolescenziale all’età adulta. In questo passaggio, apparentemente solo “tecnico”, si rischia però di perdere l’elemento comunitario. Vediamo come.

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47. L’economia politica inglese, da Smith a Ricardo, si presenta come una forma di sapere priva di presupposti filosofici, e quindi scientificamente “pura”. Questo non è vero neppure storicamente, se si pensa che Smith arrivò a scrivere la Ricchezza delle nazioni (1776) sulla base dello sviluppo e della coerentizzazione della sua originaria filosofia morale costruita sul fondamento del sentimento reciproco della “simpatia”, ossia della immedesimazione del venditore nei bisogni e nei desideri del compratore, che possono essere così “anticipati”. La derivazione di questa concezione dalla filosofia di Hume è palese. Il punto fondamentale è che la scienza denominata “economia politica” (che Hegel aveva già connotato come scienza dell’intelletto e non della ragione) non è affatto un sapere senza presupposti filosofici non solo perché un sapere del genere non esiste, ma anche perché i presupposti filosofici ci sono tutti, e sono appunto il sensismo, l’empirismo, lo scetticismo e l’utilitarismo. Marx vorrebbe quindi giungere alla “deduzione scientifica” della necessità storica della comunità umana comunista” (egli chiama comunismo semplicemente il suo ideale di comunità umana universalistica emancipata dall’alienazione) passando attraverso una forma di sapere non solo caratterizzato, ma addirittura fondato e radicato sul presupposto dell’individualismo atomistico. È qui, in poche parole, l’enigma di Marx. È possibile partire dal­ l’inferno dello sfruttamento classista, passare al purgatorio dell’individualismo atomistico illuministico e giungere infine al paradiso della comunità umana cosmopolitica in grado di realizzare finalmente ciò che vi è di veramente “comune” nell’uomo (Gemeinwesen)? Si apre qui una serie di problemi che, per brevità, non potrò esaminare tutti in questa sede. Ne esaminerò solo alcuni, senza pretesa di completezza, sempre nella logica di un elogio del comunitarismo. 48. È arrivato il momento di aprire una parentesi sul rapporto fra Marx e la libertà intesa non come problema astratto della libertà del volere umano, ma come problema politico concreto della garanzia anche giuridica della libertà di opinione e di espressione

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politica, religiosa, artistica e filosofica. Dal momento che nel corso della storia del comunismo storico novecentesco sono stati numerosissimi i casi di violenze perpetrate nel nome di Marx, è bene dire che Marx non c’entra proprio niente. Egli, infatti, accetta integralmente il principio di Hegel secondo cui non ha alcun senso cercare di ricostituire una comunità politica e sociale senza dare per scontata l’accettazione del principio “moderno” della libertà di coscienza, la quale comporta la libertà di espressione pubblica legale dei contenuti di questa stessa coscienza. Una libertà di coscienza limitata al proprio foro interiore, senza una contestuale libertà di comunicazione pubblica di essa è, evidentemente, immaginabile anche sotto una spietata dittatura, ma non ha alcuna importanza ai fini del nostro discorso. Ho già rilevato l’interpretazione giovanile di Marx, per cui la nozione epicurea di “deviazione degli atomi” (parekklisis, clinamen) è una metafora evidente della libertà dell’individuo all’interno della “caduta sociale” dei grandi insiemi storici. Esiste anche un Quaderno Spinoza del giovane Marx, in cui Marx fa l’apologia incondizionata dell’esaltazione spinoziana della libertà di opinione e di espressione. Non vi sono ragioni per pensare che, col passare degli anni, le sue idee fossero cambiate al punto di esaltare il controllo statale della libera espressione delle opinioni. È certamente vero, invece, che Marx ha preso posizione per la cosiddetta “dittatura del proletariato”, ma è necessario interpretare correttamente il significato di questa espressione all’interno del suo sistema teorico, e non credere che volesse “anticipare” e legittimare ex ante Stalin e Pol Pot. Il termine “dittatura” non indica in Marx un sistema illiberale di governo, con capi carismatici e “tiranni”, per usare un vecchio termine greco; non connota un sistema costituzionale (o anticostituzionale) di stato e di governo, ma la realtà storica del dominio egemonico di una classe su un’altra, dominio che a sua volta può fondarsi su proibizioni oppure su tolleranze nei confronti del pluralismo delle opinioni. Ad esempio, la “dittatura” schiavistica antica era largamente compatibile con un pluralismo abbastanza grande di opinioni (si poteva

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infatti essere atei o religiosi, monoteisti o politeisti, spiritualisti o materialisti), mentre la “dittatura” feudale europea medievale si fondava su uno strettissimo controllo inquisitorio sulle opinioni religiose e filosofiche. Un rogo come quello di Giordano Bruno sarebbe stato assolutamente impensabile nell’antica Roma, il che non toglie nulla al fatto che si trattasse comunque di una dittatura politica collegiale della classe dei proprietari di schiavi. Marx è perfettamente consapevole del fatto che la dittatura “borghese” dei suoi tempi è solo un riflesso ideologico del mercato sottostante, per cui alla struttura del mercato delle merci deve corrispondere nella sovrastruttura un mercato delle opinioni. Non a caso, per differenziare la situazione antropologica nelle società pre­ capitalistiche, capitalistiche e in quella della futura società comunista, egli utilizza i tre distinti termini di dipendenza personale, indipendenza personale e libera individualità. Il comunismo di Marx era una comunità di libere individualità. La dittatura del proletariato, così come la pensava Marx, non implicava certamente la proibizione legale della libera espressione delle opinioni. Marx dava per scontato che tutti potessero esprimersi liberamente per la proprietà privata o per quella comune, per l’esistenza di Dio o per la sua inesistenza, per la creazione e per il Disegno Intelligente oppure per l’evoluzione della specie. Riteneva, invece, che, sulla base materiale e strutturale della formazione del lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze mentali e scientifiche sprigionate dalla stessa grande produzione capitalistica, e da lui definite col termine inglese di general intellect, le idee comunitario-comuniste sarebbero progressivamente divenute “egemoni” (nel senso poi dato a questa parola da Antonio Gramsci), ed avrebbero allora vinto senza bisogno di nessuna censura. In fondo, è perfettamente legale oggi fondare un Partito per la Rifondazione del Feudalesimo e farne l’apologia, senza che ci sia la minima possibilità pratica di poterlo veramente restaurare. Non penso affatto che stiamo vivendo in una “democrazia”, neppure limitata e imperfetta. Penso che viviamo in una dittatura di

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oligarchie economiche minoritarie legittimate da plebisciti periodici, ma constato altresì che queste oligarchie, avendo bisogno, per la loro stessa razionalità economica, di un doppio sistema di mercato (mercato delle merci-merci e mercato delle opinionimerci), fondano questa loro dittatura su una (relativa) libertà di opinione e di espressione. Così, un libro come questo può essere legalmente diffuso e pubblicato. Ma non mi si dica, per favore, che questo avviene per la loro magnanima “tolleranza”, essendo state queste ferocissime oligarchie educate all’ombra di Socrate e di Locke. In realtà, ciò avviene perché la produzione ideologica di massa è sotto il loro pieno controllo e (almeno per ora) ogni potenziale contestazione radicale è marginalizzata, neutralizzata e resa impotente dal dominio del clero mediatico e intellettuale al loro servizio. C’è, invece, una ragione strutturale, e quindi “marxista”, che spiega la regressione del comunismo storico novecentesco a forme feudali e medievali di inquisizione del pensiero. In breve, si trattava non di una dittatura della maggioranza, o di una minoranza ideologicamente egemone e padrona del Simbolico, ma di una minoranza aggregata per via unicamente politica, e dunque, nello stesso linguaggio di Marx, “sovrastrutturale”. Ancora una volta, il metodo di Marx spiega molto bene le cose che gli sprovveduti credono siano state fatte sotto sua diretta ispirazione. 49. La natura comunitaria del pensiero di Marx si comprende ancora meglio se si riflette sul fatto che Marx non ha e non ha mai avuto una teoria politica della “rappresentanza”, ma solo una teoria dell’attività comunitaria diretta. Non dico che abbia avuto ragione (anche se in verità lo penso). È per ora importante che lo si sappia e ci si mediti sopra. Qui l’elemento utopico e quello detto “scientifico” si intrecciano strettamente. Molti studiosi, e per ultimo in Italia Norberto Bobbio, hanno notato che nel pensiero marxiano originario e in quello marxista successivo non esiste una specifica teoria politica. Per quanto riguarda

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Marx, ciò è pienamente vero, e del resto Marx è reo confesso, perché ha ammesso apertamente di non aver voluto elaborare una filosofia politica ma solo una critica della politica parallela alla sua critica dell’economia (anche se in tarda età, nel contesto della sua polemica contro l’anarchismo di Bakunin, parlò di “capacità politica della classe operaia”, avallando così di fatto una pratica della rappresentanza parlamentare socialista). Per quanto riguarda il leninismo, invece, la teoria politica esiste, ed è una forma moderna di “hobbesismo rosso”, nel senso che la teoria di Hobbes della rigorosa dittatura politica e soprattutto ideologica del Leviatano è messa al servizio delle finalità emancipative della teoria del comunismo di Marx. In ogni caso, per ciò che ci interessa in questa sede, possiamo tranquillamente ammettere che nel pensiero originale di Marx una teoria politica non esiste. Ed infatti, quando nacque il primo marxismo della Seconda Internazionale (1889-1914) i nuovi partiti socialisti non elaborarono nessuna teoria politica originale, ma semplicemente adottarono la teoria liberale della rappresentanza parlamentare integrata dalla teoria democratica del suffragio universale maschile e femminile. E ovviamente, mal gliene incolse, perché la teoria della rappresentanza parlamentare lascia del tutto intatti i meccanismi della diplomazia segreta, degli arcana imperii, della geopolitica e della volontà di potenza degli stati imperialistici e colonialistici. La conseguenza fu che nel 1914 i socialisti si trovarono trascinati in una guerra europea fratricida sulla base della più completa legittimità parlamentare. Del resto, lo stesso è capitato nel 1999 (aggressione alla Jugoslavia) e nel 2003 (aggressione all’Iraq), senza che la rappresentanza parlamentare con il suo consueto minuetto edificante contasse qualcosa, trattandosi solo di far sanzionare formalmente nelle sedi politiche istituzionali decisioni prese altrove da cupole di banchieri, militari e altri padroni del vapore (ed oggi dell’atomo e della bioingegneria). Il carattere comunitario della filosofia di Marx emerge allo scoperto proprio dall’assenza di una specifica teoria politica. Ragionando in modo comunitario, Marx scommette sulla capacità prima

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delle classi oppresse, salariate e proletarie, e poi dell’intero genere umano politicamente organizzato di praticare direttamente l’auto­governo politico e l’autogestione economica. In questo senso, la corrente minoritaria dei cosiddetti “comunisti dei consigli” tedeschi e olandesi mi sembra, sia pure nel mutato contesto storico novecentesco, la più vicina e la più affine alle intenzioni originarie di Marx. Ma qui sta appunto l’illusione di Marx: non è vero che il classismo proletario può gradualmente evolvere in comunitarismo della specie. Questo “mito del proletariato” è solo un mito, ed in quanto tale non è né utopico né scientifico, ma è semplicemente un generoso errore di previsione. In quanto classe irrimediabilmente subalterna (a mio avviso, ancor più degli schiavi e dei servi della gleba, il che ovviamente non è un insulto per nessuno, ma solo una sobria constatazione storica), il proletariato deve farsi rappresentare. Ed allora qui salta l’utopia comunitaria di Marx, perché non ci può essere nessun comunitarismo senza classi sulla base di una teoria della rappresentanza politica. 50. Dal momento che la gente, in generale, è pigra ma non stupida, la percezione dell’irrimediabile incapacità del proletariato “reale” (e non quello ideale, l’In sé che diventa Per Sé ed altre ingenuità del genere ricoperte di gergo para-hegeliano) ad attuare il programma comunitario marxiano sulla base di un autogoverno politico diretto e di una contestuale autogestione economica diretta sorse già nel periodo “aureo” del marxismo, ossia nel periodo della Seconda Internazionale (1889-1914). Kautsky, il noioso Papa Rosso, capo dell’ufficio del marxismo impiegatizio di servizio e nemico del marxismo degli sradicati anarcoidi, sacerdote supremo della committenza ideologica delle cricche di sindacalisti e parlamentari socialdemocratici integrati nel sistema attraverso il doppio binario della “economicizzazione del conflitto” e della “nazionalizzazione delle masse”, intuì il problema tramite la mediazione dello studio delle origini del cristianesimo, cui dedicò anche un ponderoso (e tuttavia interessantissimo) studio. Vuoi

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vedere, si disse Kautsky, che i socialisti finiranno come i cristiani, che all’inizio erano convinti di poter costruire un mondo nuovo e sono poi finiti perfettamente integrati nel sistema economico dello sfruttamento? Postosi il problema iperbolico, Kautsky però lo esorcizza immediatamente, sostenendo che l’integrazione del cristianesimo nei meccanismi economici classisti era dovuto alla bassa produttività dei sistemi schiavistici, feudali e signorili, ma nel capitalismo le cose sarebbero andate ben diversamente, data la notoria incapacità dei capitalisti di sviluppare le forze produttive, la qual cosa, portando il proletariato ad assumere la gestione delle forze produttive stesse, avrebbe evitato il destino di “integrazione” dei primi cristiani. Che dire? L’ingenuità di questa tesi è tale da suscitare un misto di ammirazione e sdegno. A differenza di Kautsky, Roberto Michels (uno dei tanti intellettuali del tempo che cominciò socialista e finì fascista) aveva realmente condotto seri studi sociologici sugli apparati socialdemocratici, sia sindacali che politici, e non si era limitato a simulazioni storiche di tipo retroattivo. Da queste analisi sociologiche ricavò quella che per molti versi è la scoperta più evidente, ma che si deve comunque scoprire, se per caso qualcuno non l’ha ancora fatto, ossia che questi apparati, composti in buona parte da piccolo-borghesi declassati e da lavoratori desiderosi prima di tutto di una promozione sociale individuale e familiare, erano diventati dei perfetti canali di “integrazione subalterna” dell’ordine capitalistico. A partire dalle scoperte sociologiche di Michels, il grande filosofo Max Weber ricavò una teoria dell’assoluta insuperabilità storica dell’orizzonte capitalistico, teoria tuttora in piedi, perché è la stessa che viene proposta oggi dagli apparati intellettuali dominanti, sia pure in una forma mediatizzata e involgarita dal servilismo degli ex estremisti sessantottini pentiti. Max Weber sostiene che i “socialisti” possono accedere al potere politico, ma il “socialismo” non potrà mai farlo, essendo un’utopia consiliare dell’autogestione e dell’autogoverno comunitari. E il mondo moderno non può essere tenuto insieme da un legame sociale comunitario,

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reso impossibile dal disincanto scientifico del mondo e dal relativismo politeistico dei valori. Il solo, ipotizzabile vincolo è dato dalla formalizzazione procedurale dei rapporti umani. All’origine di questa diagnosi di Max Weber infausta per l’utopia comunitaria marxiana, vi è proprio la questione della divisione sociale e tecnica del lavoro nelle società industriali avanzate, il cui sistema di competenze non può essere conciliato con la democrazia comunitaria diretta. Come si vede, si tratta di una ripresa parziale degli argomenti di Socrate e Platone contro il dominio demagogico degli “incompetenti”, in un contesto però di rassegnato relativismo e di consapevolezza di una “decadenza” dell’Occidente, punto sul quale Weber e Spengler vanno a braccetto. Le cose stanno in questo modo quando arriva Lenin. 51. Lenin è stato, nella storia del marxismo, l’equivalente di Einstein, il quale ha relativizzato lo spazio e il tempo che nella fisica originaria di Newton erano assoluti. Lenin ha invece relativizzato il rapporto fra la classe operaia, salariata e proletaria e il potere politico. Il libro di Lenin Che fare? non è affatto un manualetto per militanti, ma è un trattatello di filosofia politica simile al Contratto sociale di Rousseau e alla Questione ebraica di Marx. Sebbene anche Lenin si sia lasciato andare a irrilevanti esercitazioni utopistiche (come Stato e Rivoluzione, il libro meno applicato nella storia mondiale con la sola, parziale eccezione del Nuovo Testamento), il succo del suo pensiero non risiede certamente in queste diligenti espressioni di fedeltà al comunitarismo democratico di Marx, ma nel fatto che, sia pure con penose contorsioni verbali “ortodosse”, Lenin prende atto che l’utopia autogestionale diretta di Marx era impossibile e non funzionava, perché la classe operaia, salariata e proletaria poteva al massimo accedere a una coscienza “economica rivendicativa”, cosa che di per sé non richiedeva l’acume di Marx, essendo perfettamente nota a Ford, Agnelli e a tutti i capitalisti del mondo.

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52. Questo però trasforma una filosofia comunitaria volutamente priva di una teoria della rappresentanza politica in una teoria della rappresentanza politica separata. Il partito (comunista) diventa il rappresentante (storico) del proletariato. La metafisica storicizzata diventa allora l’equivalente del pitagorismo autoritario di Platone, in quanto in entrambi i casi i “reggitori” non avranno più bisogno di legittimazione democratica. Chi conosce scientificamente la storia e i suoi esiti necessari, non ha bisogno di “mettere ai voti” le decisioni economiche, politiche e ideologiche, per il semplice fatto che economia, politica e ideologia diventano saperi specializzati, i cui rappresentanti vengono scelti per cooptazione e non per elezione. Comprendere questo, permette anche non di risolvere, ma almeno di impostare, la vexata quaestio del rapporto fra Lenin e Stalin. Non ha senso dire che Stalin deriva da Lenin, perché questi, morto nel 1924, non è in alcun modo responsabile delle scelte fatte da Stalin fra il 1924 e il 1953, anno della sua morte. Personalmente, non riesco a vedere Lenin che attua la cosiddetta “dekulakizzazione” (espropriazione e sterminio dei contadini proprietari) del 1929 ed il ciclo infernale dei processi inquisitori 1936-38, e neppure che invia un sicario a picconare il cervello di Trotzky nel 1940 a Città del Messico. Non riesco a vederlo, ma ammetto che questo non è un argomento storicamente serio. Il fatto cruciale è che Stalin trasformò rigorosamente il comunismo comunitario (e pertanto democratico e autogestionale) di Marx in una filosofia politica della rappresentanza, ed ogni filosofia politica di questo tipo è omogenea e consustanziale ad una strutturazione classista della società. È infatti inevitabile, perché è inscritto nella logica di frammentazione e ricomposizione della divisione del lavoro sociale e tecnica, che i rappresentanti, passato il primo momento magico rivoluzionario in cui “rappresentano” davvero interessi sociali maggioritari, evolvano in classe (o ceto, c’è poca differenza) sfruttatrice. Nel terzo capitolo ho già fatto notare che la dissoluzione del comunismo storico novecentesco ha la sua matrice strutturale materiale non nel suo fallimento, ma proprio nel suo successo nella

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costruzione di una società industriale moderna. Non c’è ovviamente lo spazio per seguire nei dettagli la parabola ascendente, stabilizzata e poi discendente del “marxismo” dopo Marx. Questa parabola segue un ciclo, ed è interessante (e rivelatore) che una teoria che si è pensata illusoriamente (con falsa coscienza, avrebbe detto Marx) come una linea ascendente progressiva sia stata in realtà una delle teorie più cicliche prodotte dall’umanità dai sumeri ai giorni nostri. Il fatto è, però, che fino ad oggi non è stata ancora scritta una soddisfacente “storia marxista del marxismo”, una storia cioè che applichi il metodo dialettico e genetico di Marx allo stesso sviluppo delle idee marxiste. Può sembrare assurdo, ma non lo è. Ho parlato prima della divisione del lavoro all’interno dei marxisti fra sradicati e impiegati. I primi non hanno alcun interesse a spiegare le cause di una mancata realizzazione comunitaria, perché sono da sempre al di fuori non della loro comunità, ma di qualsiasi comunità, e seguendo l’esempio di Nietzsche devono solo registrare il caos relativistico che li pervade. Quanto agli impiegati, prima di pensare chiedono il permesso al loro gruppo identitario di riferimento. In queste condizioni, chiedere a costoro una ricostruzione “marxista” della storia del marxismo è come chiedere a un teologo cattolico una spiegazione rigorosamente darwiniana dell’evoluzione naturale. 53. Così stando le cose, l’utopia autogestionaria marxista pura, il cui presupposto metafisico indimostrabile è la capacità rivoluzionaria intermodale del Soggetto operaio, salariato e proletario, è necessariamente passata a forze minoritarie testimoniali di tipo settario. Richiamiamo l’attenzione sull’avverbio necessariamente. Non c’è qui lo spazio per esaminarne la classificazione e la tassonomia, cui ho peraltro dedicato molti studi analitici. Basti sottolineare il fondamento metafisico della principale eresia marxista del Novecento, quella trotzkista, che, come tutte le sette eretiche, è al di fuori dello spazio e del tempo, e perciò non solo sopravvive tuttora, ma potrà quasi sicuramente sopravvivere per altri seco-

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li, in quanto è del tutto inapplicabile e, se applicata, sparirebbe all’istante. Il trotzkismo spiega il fallimento dell’utopia comunista con un fattore di tipo demonologico (la cosiddetta “burocrazia”). Certo, il trotzkismo è pur sempre erede del razionalismo illuministico, e spiega la nascita e lo sviluppo della burocrazia con argomentazioni storiche e sociali e non sovrannaturali (scarso sviluppo delle forze produttive, mancata estensione della rivoluzione socialista ai paesi capitalisticamente avanzati). Ma resta il fatto che ciò che i trotzkisti chiamano “burocrazia” semplicemente non esiste. Intendiamoci, è chiaro che vi sono consistenti gruppi sociali sorti sul terreno della divisione sociale del lavoro e soprattutto della pratica politica della rappresentanza. Se vogliamo chiamare costoro “burocrazia”, facciamolo pure, tanto la carta su cui scriviamo non reagisce. Ma questa “burocrazia”, come l’inesistente “flogisto” dei primi chimici, è un concetto vuoto che sta al posto di un altro non citato, quello di assoluta incapacità comunitaria universalistica di autogoverno politico e di autogestione economica del soggetto classista evocato da Marx. 54. Al termine di questo lungo e decisivo capitolo, dovrebbe essere chiaro che è impossibile condividere la stessa ricostruzione della tradizione filosofica occidentale con coloro che, al posto di una concezione comunitarista, ne hanno una atomistica e individualistico-proprietaria. Ho sempre ritenuto assurdo che quanti professano concezioni politiche e filosofiche diverse (come, appunto, oggi il comunitarismo e l’individualismo e ieri il marxismo e il liberalismo) si trovino poi uniti nella medesima ricostruzione genealogica di questa tradizione. Ogni grande svolta storica presuppone sempre una radicale rifondazione dell’intera tradizione filosofica (e si vedano rispettivamente Aristotele prima ed Hegel poi). Marx non ha pensato di farla, ma non è una buona ragione per non pensarci noi. Nelle pagine precedenti abbiamo proposto uno schematico abbozzo, ma certo verrà presto qualcosa di meglio e di più coerente.

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La tradizione filosofica occidentale, così come ho cercato di ricostruirla, non ha per nulla falsificato e messo agli archivi l’idea e la pratica del comunitarismo. Al contrario. Ci ha però consegnato una concezione dialettica, problematica e ambivalente di esso, che non ci permette più di compiere indebite semplificazioni. Il comunitarismo oggi, come già avvenne per la prima volta al tempo degli stoici antichi, è connesso con il problema cosmopolitico ed universalistico della mondializzazione. Dal momento che questo è il centro di tutto, la cosa migliore è riservare questo tema cruciale al sesto e ultimo capitolo di questo elogio del comunitarismo. Ma è necessario prima sgombrare il terreno da ogni possibile equivoco. E l’equivoco massimo è quello che può sorgere dagli “usi indebiti” del comunitarismo che costellano la storia del Novecento. Questi usi sono poi strumentalizzati dai sostenitori dell’individualismo atomistico e proprietario – che sono oggi i servi e i proconsoli dell’impero americano – nel tentativo (che di certo fallirà) di squalificare il comunitarismo come caso particolare della patologia totalitaria novecentesca.

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V

L’ingombrante passato del comunitarismo: il fascismo e il nazionalsocialismo

1. Nel corso del secolo che ci siamo appena lasciato alle spalle, la parola d’ordine del comunitarismo è stata brandita, sia contro il classismo comunista che contro l’individualismo liberale, da forze che lo hanno mescolato con un nazionalismo colonialistico ed imperialistico (il fascismo) e con un nazionalismo razzista ed eugenetico (il nazionalsocialismo). Senza fare i conti con questo ingombrante e imbarazzante passato, e senza congedarsi da esso, non è possibile oggi proporre in modo convincente il comunitarismo. Non basta infatti dire semplicemente che ci sono stati stravolgimenti e fraintendimenti del “vero” comunitarismo, che per sua natura è solidale, democratico e potenzialmente universalistico (come sosterrò nel prossimo capitolo). Naturalmente è così, ma tutto questo rimane ineffettuale. Il congedo dai comunitarismi del nazionalismo imperialistico e del razzismo eugenetico richiede una autentica comprensione intellettuale, genetica e dialettica, del perché di questi fenomeni. 2. L’interpretazione del Novecento non è un affare specialistico da lasciare alla corporazione degli storici contemporaneisti, ma è una vera e propria posta in gioco simbolica per il presente e il futuro. Non è allora un caso che il circo mediatico, questo nuovo

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clero postmoderno della religione ecumenica del Politicamente Corretto, si sia avidamente impadronito della questione del bilancio storico del Novecento. Solo l’economicismo subalterno crede davvero che la lotta per l’egemonia simbolica nella costituzione immaginaria della società sia meno importante dei pur significativi conflitti distributivi o degli irrilevanti “conflitti di interessi” fra paperoni miliardari. Per poter gettare via il bambino del comunitarismo con l’acqua sporca del totalitarismo, il circo e gli storici di cui sopra debbono presentare il totalitarismo e il comunitarismo come strettamente intrecciati, in modo che a nessuno possa venire in mente di separarli. Se poi qualcuno tentasse di farlo, non sarebbe difficile seppellirlo sotto il gossip dell’accusa di revisionismo, negazionismo, nostalgie totalitarie, populismo e via elencando. Dal punto di vista della legittimazione ideologica della società fondata sulla merce, sul monoteismo del mercato e sull’individualismo proprietario e utilitaristico, si tratta di una strategia ottima, veramente intelligente e palesemente efficace. Un attacco diretto all’idea comunitaria, infatti, non sarebbe pagante, perché la maggioranza delle persone normali, soffrendo sulla propria pelle lo stress fisico e psicologico di un’esistenza flessibile, precaria e abbandonata alle logiche del ciclo economico, potrebbe cominciare a pensare che in fondo questo comunitarismo potrebbe essere una cosa buona, purché unito alla democrazia politica, alla garanzia integrale della libertà di opinione, di espressione e di diritto a stili di vita “alternativi”, e purché ostile al razzismo e alla dittatura eugenetica. Il modo migliore di esorcizzare questa possibilità è allora quello di unire strettamente le idee di comunitarismo e totalitarismo, in modo che la gente, rifiutando il secondo, rigetti anche il primo. Fino ad oggi, diciamolo francamente, questa sapiente strategia ideologica di mescolanza è sostanzialmente riuscita. E sarebbe strano se non lo fosse, visto che si tratta di un pilastro dell’ideologia dominante. Questo elogio del comunitarismo vuole essere, tra l’altro, un primo e ancora timido passo per un’inversione di

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tendenza che, tuttavia, non può venire dai libri. Semmai, i libri “precursori” vengono recuperati dopo che si sono costituiti, o ricostituiti, flussi storici e sociali reali in grado non solo di criticare teoricamente, ma di contestare praticamente il legame sociale individualistico-proprietario che per ora ci tiene insieme. 3. Come ho detto, il bilancio storico del Novecento è una posta in gioco. In questi casi, seguendo una metodologia vecchia di duemila anni, si compie prima una pars destruens su bilanci sbagliati, in tutto o in parte, e poi si propone una nostra pars construens, magari non perfetta, ma almeno degna di essere presa in considerazione. I bilanci che prenderò ora in esame sono quelli di Fukuyama, Huntington, Nolte, Furet e infine di un autore italiano recente, il più inattendibile di tutti, il che mi permetterà appunto, rovesciando la sua interpretazione, di presentare la mia. 4. Francis Fukuyama non è un filosofo europeo di tipo classico, ma un impiegato del Dipartimento di Stato degli USA, lo stesso che pianifica i bombardamenti al fosforo bianco contro gli stati canaglia in violazione del diritto internazionale. È bene sapere che la divisione tra sradicati e impiegati, di cui si è parlato nel capitolo precedente a proposito degli intellettuali marxisti, vige ancor di più per quelli organici al capitalismo individualistico. Gli sradicati vendono scatolette piene di “merda d’artista”, impacchettano vetusti monumenti storici, saltellano come pagliacci in mezzo a platee di miliardari attoniti ma anche divertiti, e in questo modo rinverdiscono la tradizione del giullare di corte medievale, che aveva il diritto “artistico” di dire tutto proprio perché ciò che diceva non contava niente. Gli impiegati forniscono invece sistemi ideologici impacchettati di facile uso ai loro committenti miliardari, che li ricompensano con emolumenti da dirigente intermedio. Fukuyama è un esempio esilarante di stalinismo capitalistico. Come i vari Popov, Dimitrov, Fiodorov, affermavano che il comunismo sovietico staliniano era la fine della storia prefigurata dai

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classici del marxismo, così Fukuyama assicura che, dopo il tragicomico crollo del baraccone comunista sovietico nel 1991 e il passaggio della Cina all’accumulazione capitalistica più sfrenata, sia pure tenuta parzialmente sotto controllo da un autoritarismo confuciano ridipinto, il mondo conosce ormai la definitiva “fine capitalistica della storia”. Ovviamente non è così. E non lo è perché, semplicemente, non può esistere una fine della storia, in quanto l’uomo, ente naturale generico per sua inestirpabile essenza, non può fare a meno di progettare e realizzare continuamente forme di vita sociale e individuale, e quindi anche comunitaria, sempre diverse e imprevedibili. Non sarà magari il comunismo a succedere al capitalismo, ma sarà comunque una società che gli impiegati, data la loro impiegatizia mancanza di fantasia, non possono prevedere. E del resto, se la prevedessero, i loro datori di lavoro li licenzierebbero. C’è però un punto preoccupante su cui l’impiegato Fukuyama può avere ragione. Sulla scala dei secoli la fine della storia non esiste, ma noi viviamo solo nell’arco di pochi decenni. E allora, se commisuriamo il senso della storia con la durata della singola vita umana, egli non è lontano dal vero. La dissoluzione e il fallimento del comunismo storico novecentesco realmente esistito, che era anche il presupposto geopolitico e militare per le forme di sviluppo terzomondiste del Novecento in quanto perlomeno ne impediva l’invasione e i bombardamenti americani e dei loro mercenari, è infatti un evento epocale che non potrà in alcun modo essere “riassorbito” dalla storia universale in breve tempo. Non parlo di coloro che oggi vanno ancora alle scuole elementari. Il futuro è imprevedibile. Ma per coloro che non hanno più i pantaloni corti, effettivamente, l’impiegato Fukuyama potrebbe sciaguratamente aver “azzeccato” l’infausto pronostico di dover vivere la loro restante vita terrena nel contesto disgustoso e spregevole dell’attuale dittatura capitalistica dei diritti umani e della democrazia da esportazione all’uranio impoverito e al fosforo bianco. Tutto questo, comunque, riguarda i destini del singolo, e non la più generale intelligibilità della storia umana. Aristotele, Hegel e

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Marx rimarranno, il che certo non avverrà per l’impiegato del Dipartimento di Stato USA. 5. Samuel Huntington è un ideologo americano che ha recentemente manifestato le sue preoccupazioni culturaliste e razziste sul mantenimento dell’identità americana, che egli vuole anglosassone e protestante (wasp), mentre oggi gli sembra che possa essere inquinata dall’alluvione demografica di cinesi e coreani dagli occhi a mandorla e soprattutto dagli eterni “meridionali”, in questo caso latinos ispanofoni. In proposito, mentre gli impiegati si preoccupano della tenuta culturale e razziale dell’Occidente minacciato da terroristi muniti di cinture esplosive e da donne velate, gli sradicati ostentano identità fluide e “bastarde” di tipo multiculturale, dietro le quali si nasconde l’identità unica e clonata del consumatore capitalista di prodotti etnici e di esperienze turistiche di avanguardia. Tornando al nostro anglosassone Huntington, la sua teoria di fondo è che oggi, tramontata per sempre l’utopia sociologica monoclassista proletaria consunta dalla sua totalitaria inefficienza, siamo nell’epoca dello scontro di civiltà. Ci sono infatti delle “faglie continentali” non solo geologiche, ma anche e soprattutto culturali, e la civiltà occidentale, nel suo legittimo programma di mondializzazione, deve sapere che esistono anche civiltà culturalmente diverse e forse inassimilabili, come ad esempio quella cinese e ancor più musulmana. È evidente che Huntington è il preparatore ideologico di un futuro, possibile scontro militare con la Cina e il legittimatore (insieme con la variopinta banda di Lewis, Fallaci, ecc.) dell’aggressione al mondo musulmano. Ma esiste anche un altro aspetto della questione su cui Huntington non ha tutti i torti. Mentre i miserabili burocrati del tardo-comunismo in dissoluzione facevano pur sempre parte di una variante culturale occidentalistica (progressismo, sensismo, materialismo), ed è dunque stato relativamente facile riciclarli in agenti devoti, zelanti e fedeli della mondializzazione capitalistica, per quanto concerne invece le culture di lunga durata come quelle cinese confuciana oppure religiosa islamica, le cose

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si presentano molto più difficili. Non che queste culture non siano suscettibili di transizione al capitalismo. Ma lo sono sulla base di una sostanziale mancanza di affinità culturale che potrebbe in futuro causare problemi. In fondo, anche la Germania e l’Inghilterra del 1914 erano capitaliste, colonialiste e imperialiste, eppure si sono scontrate lo stesso. Per questo Huntington non vuole solo un mondo unificato dal capitalismo, ma anche un mondo culturalmente americanizzato. Un mondo simile sarebbe il contrario di quello che può auspicare un amico della coesistenza comunitaria pacifica fra culture diverse in dialogo reciproco. 6. Ernst Nolte è uno storico tedesco che ha interpretato la prima metà del Novecento (ed in particolare gli anni 1917-1945) come una “guerra civile europea”, cominciata dai comunisti con la loro presa del potere in Russia, presentata da Nolte come un programma di sterminio classista integrale della “borghesia”, e proseguita poi dal nazionalsocialismo tedesco che ha spostato il programma di sterminio originario dei comunisti russi da una classe, la borghesia, ad una razza, quella ebraica, insieme con le altre razze “inferiori”. L’effetto ideologico (non saprei dire se voluto o no) prodotto da questa tesi è stato quello di rendere innocente il liberalismo capitalistico, in quanto all’eurocentrico Nolte non importano nulla gli stermini fatti dal colonialismo, e così il liberalismo viene del tutto escluso dagli stermini classisti dei comunisti e da quelli razzisti dei nazionalsocialisti. Siamo più che mai dentro ad una strategia ideologica neoliberale che vuole identificare il comunitarismo con il totalitarismo, e gettare via il primo gettando via il secondo. Ma la ricostruzione storica di Nolte non sta in piedi. Se una guerra civile europea c’è stata, essa non è stata iniziata da Lenin nel 1917, ma dai gruppi dirigenti nobiliari e borghesi europei nel 1914, l’osceno lago di sangue in cui fu immersa l’Europa, ed è noto a tutti (salvo che a Nolte e ai suoi seguaci) che quella di Lenin fu una risposta ad un lago di sangue, e non un’iniziativa originaria fatta

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a freddo. Ma qui Nolte rivela la filosofia segreta (ma non troppo) che si cela dietro la sua teoria e che compendierò così: le classi dominanti hanno diritto di scatenare guerre sterminatrici e di usare come carne da cannone la plebaglia “nazionalizzata” dal sistema scolastico e dalla coscrizione obbligatoria, mentre il popolaccio deve starsene zitto e buono, e non osare andare oltre le recriminazioni sindacalistiche e i cortei ritualizzati e salmodianti. Lenin ha invece rotto le regole del gioco: ha fatto sul serio. È andato oltre il rito della protesta “democratica” ed ha rovesciato il tavolo. Nolte ha tutto il diritto, come a suo tempo disse il suo collega Ebert, di “odiare la rivoluzione russa come il peccato”. Non credo neppure che abbia voluto rendere innocente Hitler e il nazionalsocialismo, come hanno sostenuto per anni coloro che ritengono il “revisionismo storico” una parola oscena, laddove, ovviamente, ogni generazione ha il diritto sovrano di ripensare e “revisionare” le sintesi storiografiche della generazione precedente. Nolte, infatti, esattamente come Fest e tutti gli storici conservatori tedeschi, odia Hitler, lo considera responsabile della catastrofe della Germania e non lascia dubbi sulla sua inequivocabile condanna dell’antisemitismo razziale hitleriano. 7. François Furet è uno storico francese ex comunista che ha ricostruito l’intera storia del Novecento come l’ascesa e il tramonto dell’eterna illusione utopica rivoluzionaria, in questo caso l’orribile comunismo. Ancora una volta, la storia reale è ridotta non solo a una figura simbolica, ma addirittura a un’ossessione filosofica di una singola generazione, la miserabile generazione di Furet, comunista a vent’anni, liberale a quaranta ed apertamente filo­ americano, interventista e imperialista a sessanta. Mentre Fukuyama e Huntington non hanno mai vissuto la tentazione filosofica del comunismo e della rifondazione integrale egualitaria dell’umanità, ma sono sempre stati fedeli impiegati del Dipartimento di Stato USA, Furet è stato invece comunista, e in questo modo è “vaccinato” per sempre da qualunque visione alternativa della società, una volta che si sia compiuto il distacco dall’auto-asservi-

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mento dell’intellettuale, pervenuto ormai al mondo auto-referenziale della corporazione universitaria, dalla precedente comunità di burocrati cinici e militanti identitari che in Francia e in Italia aveva assunto l’incongruo e kafkiano nome di “comunismo” fra il 1945 e il 1980 circa. Il distacco da questa pseudo-comunità noiosa e subalterna, intessuta di processi di tipo inquisitoriale fatti da congreghe di politici di professione con una claque di militanti “operai”, è un’esperienza esistenziale comune sia alla mia generazione che alle due precedenti, ma ignota a quella attuale, postmoderna. Questa separazione può portare ad esiti diversi, che nella Francia contemporanea si riducono sostanzialmente a due: religioso (Roger Garaudy, convertito dal marxismo all’islamismo) e laico-liberale (Furet, appunto, ma ce ne sono legioni). A mio parere, l’esito religioso è migliore, perché conserva almeno l’idea di trascendenza del bene politico rispetto all’immanenza della società capitalistica neoliberale, mentre l’esito liberale rappresenta veramente lo scacco e il fallimento di una intera vita. Colui che ha cercato la sensatezza, sia pure in modo errato e unilaterale, si riconcilia in maniera subalterna con l’insensatezza radicale del monoteismo idolatrico del mercato, e chiama questa insensatezza diritti umani e democrazia. 8. Ho lasciato per ultima l’interpretazione più inattendibile e insensata del Novecento, perché, rovesciandola di 180 gradi, è possibile inquadrare in modo sensato la questione che ci interessa. La ricavo da un bilancio di tale secolo fatto dal sociologo cuneese Marco Revelli, il cui caso, però, non è particolare, ma generazionale, in quanto la sua filosofia, uno strano impasto di operaismo e bobbianesimo moralistico, ha connotato la parte più estremistica della sua generazione. Si tratta di una peculiare elaborazione del lutto dell’operaismo professato in gioventù, per cui la Classe Operaia, che prima era Tutto, ora diventa assolutamente Niente. Di tutte le forme italiane di operaismo, quella torinese è la più parossistica, perché Torino non è mai stata una città normalmente “oligarchica”, ma sempre e solo “monarchica”, prima nella

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variante militare dei Savoia e poi nella variante industriale degli Agnelli. Questa realtà monarchica ha ovviamente prodotto anche un immaginario monarchico, in base al quale alla monarchia Savoia-Agnelli è stata idealmente contrapposta un’altra monarchia, la monarchia di una Classe Operaia divinizzata, mentre il comunismo è stato concepito come l’estensione simbolica della FIAT all’intera città, provincia, regione, nazione, continente ed infine umanità. Una FIAT diretta, naturalmente, non più da sniffatori di coca amanti dello sport, ma da commissioni operaie di lavoratori organizzati e sindacalizzati. Una simile realtà da incubo lavorativo non poteva che produrre incubi ideologici, così come in Goya il sonno della ragione genera mostri. A furia di gridare “viva il lavoro”, il lavoro finisce con il fare schifo. È un classico delle figure hegeliane della dialettica. Secondo Revelli (qui semplifico, ma non credo di deformare), il Novecento è stato il secolo dell’homo faber, la figura umana che ha messo la produzione al centro di tutto. Questo delirio prometeico e produttivistico si è espresso, a livello puramente produttivo, nelle catene di montaggio fordista, e a livello politico complessivo nel comunismo, che è stato una forma di fordismo sociale e politico generalizzato applicato non più solo alla fabbricazione di automobili, ma alla fabbricazione di un homo novus. La conclusione è che bisogna congedarsi da tutto questo in direzione di una ripresa del vecchio corporativismo elettivo ottocentesco basato sul volontariato e non più sulla militanza fordista-comunista. Orbene, questo è esattamente il programma ultracapitalistico e neoliberale di smantellamento del welfare obbligatorio di stato in favore di un capitalismo “compassionevole” in cui i volontari sostituiscono i noiosi fordisti assistenti sociali di stato. Se ho dato spazio alle tesi oniriche di Revelli, è perché esse sono completamente inattendibili. E dunque, rovesciandole, potremo forse arrivare a capire qualcosa del Novecento. Allora, e solo allora, potremo criticare il falso comunitarismo del fascismo italiano e del nazionalsocialismo tedesco.

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9. Chi conosce il metodo originale di Marx e non lo confonde con i deliri dell’operaismo torinese, sa bene che il lavoro (e quindi l’homo faber che ne sarebbe il portatore antropologico) nel sistema della produzione capitalistica “pura” non esiste, o, più esattamente, esiste solo nella forma sfigurata del capitale variabile. La logica di dominio del capitale, infatti, tende in modo irresistibile a ridurre integralmente e senza limiti il lavoro umano a capitale variabile. Marx pensò che l’unica maniera per rovesciare questa tendenza non passasse attraverso la politica, bensì attraverso una dinamica dialettica interna al processo di lavoro stesso (la formazione del lavoratore collettivo cooperativo associato); ma questo punto del programma di Marx non si è verificato, e solo uno scommettitore pascaliano travestito da marxista fondamentalista può sostenere che si verificherà in futuro, e che se è andata male negli USA e in Inghilterra, andrà bene in Corea del Sud e in Brasile. Fino ad oggi, e non so sinceramente fino a quando, il solo modo scoperto dall’umanità per impedire, o almeno per limitare e controllare, la dinamica della riduzione integrale del lavoro umano a capitale variabile è la politica, o meglio la comunità politica. Chiunque osi oggi scrivere un elogio del comunitarismo deve capire questo punto cruciale, altrimenti può più utilmente scrivere elogi dell’uncinetto, della ginnastica dolce, dell’alimentazione vegetariana, della pesca con la lenza, del tiro al piattello e di altre degne attività umane. Il Novecento appena trascorso, lungi dall’essere stato il secolo dell’homo faber, è stato proprio il contrario, il secolo dell’homo politicus, cioè della figura sociale associata politicamente che ha cercato, a partire dal 1917 fino circa al 1991, di contrastare la dinamica di integrale risoluzione del lavoro inteso come attività creativa (ergon, labor) in capitale variabile puro. Questo tentativo, per ora clamorosamente fallito (ma domani, chissà!), ha assunto nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle quattro forme fondamentali diverse e anzi confliggenti al numeratore, ma invece comuni al denominatore della frazione: il comunismo storico novecentesco (la più importante di tutte), il fascismo europeo, e in particolare

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il nazionalsocialismo tedesco, il populismo sociale arabo, turco e latino-americano, ed infine la socialdemocrazia scandinava ridistributrice (e ferocemente eugenetica, come vedremo più avanti). So bene che i soliti benpensanti si scandalizzeranno per questo paragone tra il diavolo fascista, kemalista, populista e baathista, e l’acqua santa comunista e socialdemocratica. Non mi interessa paragonare un bel niente. Mi interessa, semmai, richiamare l’attenzione sull’importanza della dimensione politica nel Novecento. Questo secolo ha visto il tentativo di dominare e correggere con l’intervento politico la dinamica autonoma dell’economia, il cui fine è quello di abolire la differenza fra capitale e lavoro, trasformando l’intera attività umana in un unico meccanismo di mescolanza indistinguibile di capitale fisso e capitale variabile, cioè, in una parola, di Capitale e basta. Il Capitale diventa neoplatonicamente una sorta di Uno rigorosamente monoteistico, che emana una serie di ipostasi. È questo il monoteismo del capitale, altro che homo faber, delirio prometeico, fordismo ed altre ossessioni piemontesi, in cui l’Uno – il Capitale, appunto – produce direttamente la Diade, composta di materia (Gianni Agnelli) e di forma (Norberto Bobbio), più esattamente di industrialismo e moralismo (all’ombra dell’industrialismo). Detto in altri termini, è noto a tutti che il lavoro (cioè il capitale variabile), che nel secolo scorso era in qualche modo tutelato e organizzato (qualità che viene oggi diffamata con il nome di “rigidità”), è attualmente diventato sempre più astratto, interscambiabile, flessibile e precario. La vita umana rilutta davanti a questa flessibilità e precarietà, che cominciamo a pagare con il ritardo nella formazione delle coppie stabili, col prolungamento artificiale di una giovinezza ad un tempo consumistica e deresponsabilizzata, con la perdita di significato dell’intero sistema scolastico (concepito circa due secoli fa per un’attività stabile e non flessibile). Bene, se traduciamo tutto questo in linguaggio teorico, vediamo che il fantomatico homo faber (cioè il capitale variabile “puro”) viene dopo la distruzione del precedente homo politicus, che fu (per ora) l’estremo tentativo storico di impedi-

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re l’avvento proprio di questo homo faber, che in quanto astratto capitale variabile puro realizza l’avvento totalitario del capitalismo incontrollato, con la sempre più capillare applicazione del lavoro flessibile e precario, che non è altro che capitale variabile flessibile e precario. 10. La scienza politica universitaria definisce “totalitarismo” quello che in realtà può essere più correttamente definito un “dispotismo illiberale” oppure, in linguaggio greco, una “tirannia” o un’“oligarchia tirannica”. Una democrazia non può essere dispotica (e neppure una “democrazia totalitaria”) perché il concetto greco di democrazia implica indissolubilmente la mescolanza dei ceti, il principio di maggioranza, l’accesso di tutti alle cariche pubbliche e la libertà di parola di tutti in assemblea (isegoria). Dunque, non si parli di “democrazia totalitaria”, anche se la prevalenza del demos più povero ha potuto affermarsi nel Novecento pure attraverso forme di dispotismo politico (ad esempio, Stalin). Ho scritto precedentemente, e lo ripeto qui solennemente per non lasciare equivoci, che una comunità totalitaria non può esistere, ed è una contraddizione in termini. Se è comunità, non è totalitaria, e se è totalitaria, non è comunità. Ciò che è comune ai membri della comunità, è la loro libertà fondata sulla loro natura umana comune. Questa natura viene messa in comune dai membri della comunità, i quali non potrebbero, per definizione, condividere il dispotismo di uno o di pochi sui molti. La società capitalistica non forma una comunità (e dunque sbaglia Jacques Camatte quando parla di “comunità del capitale”), e questo non solo e non tanto per il famoso “individualismo” (che è un aspetto della modernità che lo stesso Hegel riteneva in buona misura irreversibile), quanto per il fatto che il movimento autonomo dell’economia è incompatibile per principio con l’autodeterminazione democratica che l’umanità fa di se stessa. “Totalitari”, allora, non possono essere per definizione sistemi di stato o di governo, ma solo meccanismi complessivi di riproduzione sociale (il “tutto”, infatti, è il complesso dei suoi elementi

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costitutivi). La sola cosa totalitaria che conosco oggi è il meccanismo complessivo di riproduzione del capitalismo. 11. La critica radicale e senza compromessi al fascismo e al nazionalsocialismo, fatta in nome di un principio comunitario, deve essere condotta in modo assolutamente indipendente dalla retorica dell’antifascismo politicamente corretto. Questo antifascismo è solo un insieme di ideologie di legittimazione, posteriore al 1945 e quindi in totale assenza di fascismo, nel frattempo già morto, seppellito e non più seriamente proponibile. Ideologie di legittimazione prima di tutto del comunismo politico occidentale, che non poteva proporre l’impresentabile “dittatura del proletariato”, e doveva sostituirla con la “democrazia antifascista”. In questo modo, venne tenuto in vita un ibrido, un antifascismo in assenza di fascismo, che strutturò simbolicamente per più di mezzo secolo l’immaginario identitario e di appartenenza degli italiani, impedendo loro contestualmente anche solo di nominare con i concetti e le parole giuste i nuovi conflitti del nostro paese. A poco a poco, questo antifascismo senza fascismo si trasformò in una pretesa di superiorità morale prima contro la democrazia cristiana, poi contro Craxi ed infine contro Berlusconi, tutti quanti inferiori moralmente ai veri antifascisti. Questo azionismo in ritardo di sessant’anni continua ad occupare il teatrino ideologico ed ha insaporito il piatto avvelenato della grottesca storia di Tangentopoli e di Mani pulite, questo complotto giudiziario extraparlamentare teleguidato da forze economiche interessate a smantellare lo stato assistenziale ed il sistema elettorale proporzionale in Italia per favorire l’avvento di un sistema neoliberale in economia e maggioritario-uninominale in politica, involucri ideali per la generalizzazione del lavoro flessibile e precario. Nessuna concessione, quindi all’antifascismo politicamente corretto. Al contempo, critica autonoma al fascismo e al nazionalsocialismo, nei quali si può vedere una perversione strutturale del comunitarismo. Al riguardo, bisogna distinguere prima di tutto la questione dell’antifascismo democratico e popolare e della resi-

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stenza militare al fascismo ed al nazionalsocialismo, da un lato, e la questione della natura storica delle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, dall’altro. La mistificazione dell’antifascismo politicamente corretto si basa infatti proprio sulla confusione di questi due piani. 12. L’antifascismo non fu solo un fenomeno storicamente legittimo, il che è ovvio, ma un momento luminoso nella storia europea ed internazionale. E questo per una ragione di fondo molto semplice. Lasciamo qui da parte la vexata quaestio della natura storica di classe del fascismo – se, cioè, sia stato o meno un prodotto della piccola borghesia oppure una reazione di classe della grande industria che ha utilizzato la base di massa piccolo-borghese per poi metterla da parte dopo la presa del potere. Il fatto è che, avendo il fascismo scelto per primo la strada della violenza politica sistematica, non può poi lamentarsi se qualcuno decide di rispondergli sullo stesso terreno. Contro il fascismo si mobilitarono conservatori, religiosi, liberali moderati, socialisti, comunisti, anarchici e lo fecero per motivi profondamente diversi ed anzi opposti, il che fa dell’“antifascismo” un minimo comun denominatore solo negativo, e solo ex post, ossia dopo il 1945, si poté inventare la favola della “democrazia” come elemento comune positivo. Si può invece ammettere, e lo faccio qui volentieri, che almeno per quanto riguarda l’Italia, fra il 1922 e il 1945 ci fu realmente un diffuso stato d’animo “democratico” che non tollerava il dispotismo illiberale e soprattutto l’asfissiante regolamentazione di un tempo libero da trascorrere in attività paramilitari. Questo mi conferma nell’idea che il dispotismo illiberale che controlla la libertà di espressione non è nell’essenziale un fenomeno classista, bensì qualcosa che va contro la natura umana sociale e razionale dell’uomo. Se ci fosse un regime dispotico che mi obbligasse per legge a recitare pubblicamente le opinioni sacralizzate di Aristotele, Hegel e Marx (cioè proprio quelle che sono liberamente arrivato a condividere), sono certo che finirei con il propagandare quelle di Schopenhauer e Nietzsche, che peraltro non condivido

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per nulla. L’essere umano è un essere libero, e con tutte le sofisticazioni retoriche che possiamo svolgere sul concetto di libertà, alla fine tutto si riduce a questo: o puoi dire quello che vuoi senza andare in galera o non puoi. Passando invece al fenomeno chiamato Resistenza, e cioè l’opposizione armata al fascismo e al nazionalsocialismo, va detto subito, per non cadere nell’eurocentrismo più becero e provinciale, che essa non iniziò nel 1939, ma negli anni Venti in Libia e negli anni Trenta in Etiopia. Non vedo come si possa sostenere la giusta e sacrosanta lotta della resistenza irachena contro gli aggressori americani e nello stesso tempo non sostenere idealmente e retroattivamente l’altrettanto giusta e sacrosanta lotta dei patrioti libici ed etiopici contro gli aggressori colonialisti italiani. Non ha alcun senso dire che a quei tempi “erano tutti colonialisti” e perciò potevamo esserlo anche noi. Se tutti sbagliano, non per questo si può giustificare l’errore. Il fascismo l’abbiamo creato noi, non ce l’ha imposto o esportato militarmente nessuno e allora è una cosa che riguarda solo noi e non gli altri. Ma quando il fascismo invade l’Etiopia e l’Albania, la Grecia e la Jugoslavia, allora le cose cambiano radicalmente, e una persona che ha senso della comunità deve stare al fianco dei resistenti all’invasione e non certo al fianco dell’invasore. Dall’Etiopia 1935 all’Iraq 2003 nulla è cambiato, anche se nel 1935 ci si diceva che stavamo esportando la superiore civiltà romana e nel 2003 ci si dice che stiamo esportando i diritti umani e la democrazia. La funzione dell’antifascismo politicamente corretto è proprio quella di non far capire questa cosa elementare. Per questa ragione, la nostra considerazione retroattiva della legittimità della Resistenza dei popoli deve essere completa e soprattutto priva di equivoci verbali e riserve mentali. Nel corso di questa legittima resistenza armata furono certamente compiuti crimini di guerra e atti eticamente ingiustificabili (come del resto avviene in Iraq quando si fa saltare la gente nei mercati). Uno di questi atti fu probabilmente l’aver appeso Mussolini, la Petacci ed alcuni altri per i piedi come animali al macello. È

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chiaro che questo comportamento non è compatibile con il complesso di norme etiche che tengono insieme una comunità. Resta il fatto che la guerra civile, nella sua ferocia, sospende le stesse norme dell’etica comunitaria. 13. Mentre l’antifascismo autonomo e la resistenza militare all’aggressore meritano stima e ammirazione, deve essere contestualmente chiaro che nel loro insieme le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale non erano per nulla migliori di quelle sconfitte. Non parlo qui della Prima guerra mondiale, in cui i vincitori spartirono come briganti le terre del benemerito impero ottomano, sottoposero la Russia rivoluzionaria ad un cosiddetto “cordone sanitario” e fecero esplodere l’area unificata centro­ europea. È chiaro che nella Prima guerra mondiale hanno vinto i peggiori. Per la seconda questo non si può dire, appunto per la natura colonialistica di Mussolini e sterminazionistica di Hitler. Ma anche i loro vincitori, intesi come stati e gruppi dirigenti, non erano affatto migliori. L’esemplificazione sarebbe lunghissima, e qui devo ridurla al minimo. Auschwitz è ingiustificabile, ma lo sono anche lo sterminio tecnologico di Hiroshima e Nagasaki e la cancellazione di Dresda a poche settimane dalla fine della guerra, i cui responsabili furono premiati con medaglie, anziché essere internati in un carcere speciale. Tredici milioni di tedeschi furono deportati a freddo e senza alcuna ragione bellica da terre tedesche come la Prussia Orientale e la Slesia, ed in questa deportazione i decessi durante il trasferimento furono oltre due milioni, cui si aggiunsero un milione e settecentomila tedeschi che, sempre a guerra conclusa, in piena sovrapproduzione alimentare, furono lasciati morire di fame nei campi di concentramento francesi e statunitensi. Francesi e inglesi dovettero lasciare i loro imperi coloniali non per loro spontanea iniziativa, ma perché cacciati dagli indiani, dagli indocinesi e dagli algerini, così come fecero gli indonesiani con i “civilissimi” olandesi.

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Tutto questo è sistematicamente rimosso dall’antifascismo politicamente corretto, ma non può esserlo da chi considera arrivato il momento storico per un elogio del comunitarismo. 14. Dobbiamo ora affrontare il nodo simbolico della figura di Hitler, che è oggi al centro del sistema ideologico del nuovo ordine imperiale americano. La strategia che regge l’ideologia espansionistica dell’impero americano consiste in una radicalizzazione non dell’anticomunismo, bensì dell’antifascismo. Trattandosi di un’ideologia religiosa e messianica, essa ha bisogno di Assoluti, e in questo caso del Male Assoluto, e vi sono alcune ragioni per cui il comunismo non si presta sufficientemente a diventare un buon Male Assoluto (nonostante le dichiarazioni in questo senso da Reagan a Berlusconi). Vi è in primo luogo una ragione storica, per cui gli USA furono pur sempre alleati del comunismo nella Seconda guerra mondiale e non sarebbe facile ammettere di essere stati alleati con il Male Assoluto, dal momento che nella loro logica religiosa e provvidenzialistica gli statunitensi hanno sacralizzato la loro intera storia passata dai pionieri del Mayflower fino ad oggi. In secondo luogo, perché i comunisti non sono stati sconfitti, come Hitler, in una nibelungica caduta degli dèi, ma si sono astutamente riciclati come specialisti del consenso amministrativo e proconsolare dell’impero americano, cui hanno concesso non solo basi militari e corpi di spedizione, ma anche basi segrete per la tortura dei prigionieri dell’impero che hanno dovuto essere spostati da Guantanamo, troppo vicina agli avvocati piantagrane di Washington. Inoltre, il comunismo non è pittoresco e soprattutto “sulfureo” come Hitler e la sua cerchia. Per finire, il comunismo non ha compiuto lo sterminio razzistico del popolo ebraico, diventato oggi di fatto il sacerdozio levitico globalizzato del loro mondo, in cui la Shoah sostituirà (è solo questione di tempo) sia la Croce che la Mezzaluna, entrambe poco adatte all’integrale liberalizzazione dei costumi che la sovranità assoluta della merce comporta. Vi sono, insomma, molte ragioni per preferire il fascismo al comunismo come male metafisico. Il comunismo è certa-

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mente un’utopia sanguinaria da non ripetere mai più, ma sta pur sempre un po’ al di sotto del Male Assoluto. 15. Da quanto detto deriva che la strategia di demonizzazione non possa essere la “stalinizzazione” del nemico, poiché Stalin è stato pur sempre l’amico di Roosevelt e c’è addirittura una foto che li ritrae insieme a Churchill, il criminale di guerra che nel 1924 usò i gas asfissianti contro i curdi iracheni ribelli (delitto per il quale non è stato mai processato, al contrario di Saddam Hussein). La demonizzazione passa, invece, attraverso la sempre più sistematica e ripetuta “hitlerizzazione” del nemico, e così abbiamo avuto prima Nasser-Hitler, poi Milosevic-Hitler ed infine Saddam-Hitler. Vale la pena cercare le motivazioni profonde di questo fenomeno. 16. La spiegazione migliore resta, a mio avviso, quella data nel suo Discorso sul colonialismo dal poeta francese Aimé Césaire: “Quello che il borghese umanista del Novecento non perdona a Hitler non è il crimine in sé, il crimine contro l’uomo, l’umiliazione dell’uomo in sé, è il crimine contro l’uomo bianco, è la sua umiliazione, è di avere applicato all’Europa procedimenti colonialisti fin qui utilizzati solo verso gli arabi d’Algeria, i coolies dell’India e della Cina e i negri dell’Africa”. Credo che Césaire colga nel segno. Anche recentemente mi sono accorto che gente disposta ad infiammarsi per irrilevanti questioni come il crocifisso nelle aule scolastiche o la legittimità dell’intervento dei preti nelle questioni legislative, roba che non merita più di dieci minuti di litigio, resta completamente e provocatoriamente indifferente quando gli si richiama l’attenzione sul bombardamento sterminatore al fosforo bianco di Falluja in nome dei “diritti umani”, ed è al massimo disposta a concederti cinque minuti prestandoti quella che con espressione inimitabile Franz Kafka ha chiamato “cortese disattenzione”. Il problema Hitler si può dunque compendiare così: Hitler ha trattato i bianchi come fossero neri. Ma perché lo ha fatto?

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17. Hitler non è stato una “eccezione demoniaca”, ma la punta dell’iceberg della deriva nazionalista, razzista ed eugenetica che ha interessato l’intera storia europea degli ultimi due secoli. Per questo lo studio biografico della sua figura è tanto interessante. Essa è certamente peculiare e irripetibile, ma è anche, per molti aspetti, la “ricapitolazione” di un’intera e generalizzata patologia culturale e storica che qui converrà analizzare. In caso contrario, niente rifondazione di un convincente comunitarismo. 18. Prima di occuparsi di Hitler, è tuttavia necessario prendere sommariamente in esame la principale patologia legata a un uso scorretto e strumentale della comunità nazionale, e cioè il nazionalismo. La “nazione” è infatti un concetto in qualche modo comunitario ed uno dei sistemi più usati oggi per squalificare il comunitarismo ed esorcizzarlo è appunto quello di identificarlo con il nazionalismo espansionistico ed aggressivo. Identificazione indebita, trattandosi di nozioni diverse, al punto che possiamo dire che la nazione è buona, e invece il nazionalismo è cattivo. La sinistra, in genere, sospetta ed odia tutto ciò che ha a che fare con l’idea di Nazione, anche quando finge, per opportunismo, di applaudire un vecchio signore che parla di Cavour, Garibaldi e Mazzini. E la odia non solo e non tanto perché questa idea è stata effettivamente sporcata nel Novecento dal nazionalismo espansionistico e colonialistico, ma per una ragione ben più strutturale e profonda. In breve, dopo il primo periodo patriottico ottocentesco (ma sarebbe necessario risalire all’idea di “patria”, idea di estrema sinistra, perché nata insieme col giacobinismo russoviano), la sinistra si è costituita sulla base di un cosmopolitismo astratto e sostanzialmente sradicato, che in circa un secolo è passato dialetticamente da uno sradicamento nella forma dell’utopia sociologica monoclassista proletaria universale ad un nuovo sradicamento nella forma del cosmopolitismo multiculturale “globalizzato” e americanizzato. È dunque normale che questa cultura odi la nazione come i vampiri odiano l’aglio.

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Per quasi un secolo, la cultura di sinistra ha riempito gli scaffali delle librerie con saggi che spiegano che la nazione non esiste, che è una pura comunità fantasmatica inventata nell’Ottocento da alcuni intellettuali, in particolare poeti e scrittori, che hanno artificialmente creato una “grande narrazione” continua, là dove c’era soltanto un creativo insieme di differenze. Una variante economicistica di questa teoria dell’“invenzione delle nazioni” insiste sul fatto che tutta questa mitologia era al servizio dell’unificazione del mercato nazionale, in modo che i capitalisti potessero vendere i loro prodotti senza dover pagare dei dazi. Dante e Manzoni non sapevano di lavorare per Agnelli. Anch’io, in passato, ho condiviso questa idea, ma da tempo me ne sono liberato e da allora sto molto meglio. In realtà, le moderne nazioni sono frutto di una lunga e complessa “etnogenesi” che viene da molto lontano. Questa etnogenesi ha creato di fatto costellazioni culturali di tipo comunitario, che resistono ai tentativi frettolosi di distruggerle con protesi economicistiche e/o ideologiche. Chi non vede che il processo di etnogenesi spontanea precede quello di cosiddetta “invenzione culturale”, ed è perciò primario mentre l’altro è secondario, non farà che ripetere le banalità della tradizione di sinistra. Per più di un secolo, invece, la destra, che a differenza della sinistra scrive poco e agisce molto, ha sistematicamente confuso il sacrosanto concetto di nazione con la pratica del nazionalismo aggressivo, espansionistico, colonialistico e imperialistico. A suo tempo, Mazzini propugnò un nazionalismo di tipo patriottico e federalistico, ma si sa che tutti parlano al vento e la storia è una maestra che insegna in un’aula vuota. In questo modo, la destra ha squalificato l’idea di nazione e non è un caso che dopo il 1945 si sia imposta la parola “paese”, considerata di sinistra, ma che non lo è affatto, perché una nazione non potrebbe essere occupata da sessant’anni da basi atomiche straniere, mentre un paese può tranquillamente esserlo. Forse il massimo problema nazionale italiano (a mio avviso, addirittura più grande della stessa mafia) è la percezione totalmente falsata che abbiamo di noi stessi come di “italiani, brava gente”,

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migliori e più generosi degli altri, laddove in Libia e in Etiopia, in Grecia e in Jugoslavia abbiamo sterminato come e più dei nazisti. Di questo, nella coscienza nazionale, non c’è la minima traccia (e non parlo di benemeriti isolati come Angelo Del Boca). Se l’Italia fosse in grado di fare i conti con la propria storia, si accorgerebbe di qualcosa di inquietante. Abbiamo fatto il Risorgimento, è vero, che è stato sostanzialmente positivo, anche se si è verificata un’occupazione militare nordista del Sud. Da allora, abbiamo sempre sistematicamente aggredito. Nel 1896, abbiamo aggredito. E lo abbiamo fatto anche nel 1911, nel 1915, nel 1935, nel 1940, nel 1999, e per coronare degnamente questa miserabile tradizione, nel 2003 abbiamo partecipato a un’aggressione realizzata sulla base di false prove. Hanno aggredito Crispi, Giolitti, Salandra, Mussolini, D’Alema e Berlusconi. Certo, esiste la famosa neo-lingua di Orwell, per cui il Ministero dell’Aggressione si chiama Ministero della Difesa, e la Guerra si chiama Pace, magari in inglese, così lo si capisce di meno (peace-keeping, peace-­ enforcing). Ma alla fine tutto si paga, e non vorrei che, come al solito, a pagare fossero degli innocenti. 19. A suo tempo, prima del teatro dei burattini Destra/Sinistra, l’idea di nazione faceva parte integrante della tradizione marxista e socialista. Otto Bauer, uno studioso austriaco di ottimo livello intellettuale, studiò nei dettagli la coesistenza delle nazionalità in uno stato multinazionale, giungendo alla conclusione della possibilità e della realizzabilità di una loro pacifica convivenza. Lenin sostenne, almeno sul piano teorico, il diritto delle nazioni all’autodeterminazione, anche se questo avesse implicato una secessione (la mia personale opinione è che in proposito Otto Bauer avesse più ragione di Lenin, ma questo è un dettaglio). Se vogliamo poi evocare l’ombra sulfurea di Stalin, di cui spero che nessuno voglia seriamente negare il suo essere stato di sinistra, citerò qui la sua definizione di “nazione” contenuta in un suo libro del 1913 dedicato appunto alla questione nazionale: “La nazione è una comunità di persone, stabile, costituite storicamente, nata

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sulla base di una comunità di lingua, di territorio, di vita economica e di formazione psichica che si traduce in una comunità di cultura”. Ho sottolineato tre volte la parola “comunità”, che ricorre appunto tre volte in appena tre righe, non solo per segnalare che Stalin non era uno sradicato, ma altresì che l’idea che il socialismo sia solo classismo, e non anche e soprattutto comunitarismo, non corrisponde alla realtà storica e alla storia del marxismo stesso. Quest’idea comunitaria di nazione deve essere separata e contrapposta alla pratica del nazionalismo espansionistico e colonialistico. Il fascismo italiano non solo non l’ha fatto, ma si è addirittura costruito capillarmente sulla base della confusione dei due concetti. So bene che ci sono dei “fascisti popolari e sociali” (e ne conosco e stimo alcuni), seguaci dell’ultimo Gentile e di Ugo Spirito, che interpretano il fascismo non come dittatura di classe dei ricchi sui poveri, ma al contrario come progetto politico sociale di tipo comunitario. Non ho il diritto di dubitare della loro buona fede, ma voglio solo essere esplicito. È impossibile costruire un regime “sociale” all’interno e poi massacrare patrioti libici, etiopici, greci e jugoslavi all’esterno. O si prendono nettamente le distanze (come è già stato fatto meritoriamente contro la giudeofobia nazista e il conseguente sterminismo) dal colonialismo imperialistico, considerandolo un male radicale (non uso il termine “assoluto”, perché tutti i mali storici sono sempre in qualche modo relativi al contesto storico), oppure si continua a rimandare la resa dei conti con un passato indifendibile. 20. Adolf Hitler riteneva di parlare in nome della “comunità popolare” (Volksgemeinschaft) fondata sul sangue e sul suolo (Blut und Boden). Dobbiamo allora concludere, sia pure con rincrescimento e imbarazzo, che anche Hitler fa parte della storia del comunitarismo? Si può rispondere sia sì che no. Personalmente, risponderei di no, e questo non tanto per ragioni di opportunità, quanto in vir-

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tù di un ragionamento del tutto autonomo che si può sviluppare in due punti. In primo luogo, Hitler ricava l’uso del termine “comunità” da una lunga tradizione tedesca, inaugurata dal filosofo Tönnies, il quale aveva distinto due tipi opposti di legame sociale, la Gemeinschaft, tipica della tradizione tedesca, e la Gesellschaft, tipica invece della tradizione francese e anglosassone, democratica e liberale. Ho parlato di tradizione tedesca, ma questo non è del tutto esatto, perché Hegel, che nel capitolo precedente ho definito come un teorico del comunitarismo, lo è proprio perché prende le distanze da ogni preteso legame organico fondato sulla tradizione, il sangue e il suolo, e fonda invece questa nuova comunità moderna proprio sulla società civile (bürgerliche Gesellschaft). Marx, da me interpretato come il miglior allievo di Hegel, vuole anche lui la comunità (Gemeinwesen), ma certamente non la vuole “organica” e basata sul sangue e sul suolo. Per tradizione tedesca, quindi, intendiamo soltanto la tradizione che si sviluppa dopo il 1870 e l’unificazione fatta da Bismarck, e soprattutto dopo l’inizio della contesa imperialistica fra Germania e Inghilterra e la corsa agli armamenti navali. Il conflitto geopolitico tra USA e URSS fra il 1945 e il 1991 fu mascherato ideologicamente come conflitto fra Libertà e Uguaglianza. Allo stesso modo, il conflitto fra Germania e Inghilterra fu mascherato come conflitto fra Comunità e Società. Ma non c’era niente di serio sotto. Infatti, essendo il capitalismo in crescita tumultuosa nella Germania che si pretendeva “comunitaria”, il comunitarismo non esisteva e non poteva esistere nemmeno per scherzo, e con questa parola si intendeva il militarismo prussiano con la sua vecchia polemica contro il liberalismo e la democrazia e con il suo vero e proprio odio verso il socialismo (e Rosa Luxemburg lo sperimentò nel 1919). In secondo luogo, volendo fare un identikit della filosofia di Hitler direi in estrema sintesi che si trattava di una variante razzista del darwinismo sociale tardo-ottocentesco e primo-novecentesco, nutrita di due elementi aggiuntivi decisivi, la giudeofobia e l’eugenetica. In questo senso, Hitler è del tutto estraneo alla tradizione

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comunitaria, che è solidale e potenzialmente universalistica per sua stessa natura, e deve perciò essere studiato e analizzato sulla base di tre componenti ideologiche, nessuna delle quali è comunitaria: il darwinismo sociale, la giudeofobia e l’eugenetica. 21. La teoria dell’evoluzione della specie legata al nome di Charles Darwin (ma che in realtà ebbe importanti predecessori e successori, perché è una teoria che viene da lontano ed ha ancora molta strada da fare) è una teoria di tipo scientifico, e non certo una ideologia. È un destino di tutte le teorie scientifiche, però, dar necessariamente luogo a “ricadute” di tipo ideologico. Spesso, a favorire e ad avallare con il loro nome prestigioso queste ricadute sono gli scienziati stessi, in generale specialisti nel loro campo e dilettanti filosofici alle soglie dell’analfabetismo. Gli esempi sono molto numerosi. Di solito, quando ascolto in televisione prestigiosi scienziati che si lanciano in generalizzazioni filosofiche estrapolate dalle loro competenze, la mia mano corre veloce al telecomando. Eppure, la ricaduta ideologica è inevitabile. Avevano appena fatto importanti scoperte nel campo della matematica, e a Crotone c’era subito già pronta una cricca politica pitagorica che voleva edificare una dittatura politica sulla base del monopolio della conoscenza dei numeri. Nel Seicento, avevano appena fatto passi importanti nella fisica meccanicistica, e subito i teologi si erano inventato un Dio-Orologiaio da inserire nella successione delle estrapolazioni antropomorfiche della divinità (si è passati infatti da un originario Dio Vasaio al Dio Orologiaio, per poi arrivare all’ottocentesco Dio-Locomotiva della storia universale a vapore per finire oggi con il Dio-Rete che governa l’universo con un web cosmologico). È pertanto del tutto normale che il gruppo sociale dei confusionari e dei pasticcioni – che è anche quello più numeroso all’interno della specie umana – si sia subito lanciato sulle scoperte di Darwin per estenderle all’intero creato. La lotta di classe fu “darwinizzata” (si legga al riguardo Il tallone di ferro di Jack London), e così pure la concorrenza capitalistica e lo scontro geopolitico fra le nazioni e gli stati. I dilettanti confusionari sono attirati irresistibilmente

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dalle teorie “scientifiche” come gli orsi lo sono dal miele. In questo modo, ci si può sottrarre alla hegeliana “fatica del concetto” per avere una sorta di chiave universale con cui concionare di filosofia nei caffè e soprattutto nelle piazze. Il darwinismo sociale, come è noto, rappresenta la ricaduta ideologica indebita della serissima teoria scientifica di Darwin. In quanto ideologia, essa è in tutto e per tutto l’opposto complementare del creazionismo, che è antiscientifico così come lo è la sua sistematizzazione filosofica antropomorfizzante (il cosiddetto Disegno Intelligente). E come il creazionismo corrisponde a una concezione della realtà sociale di tipo imperiale e dispotico, allo stesso modo il darwinismo sociale equivale all’immaginario spontaneamente prodotto nella coscienza degli individui dalla concorrenza capitalistica e dal conflitto imperialistico. Mentre allora il pensatore intelligente finisce col capire che non può trasporre meccanicamente un processo sociale in una sua duplicazione metaforica sacralizzata, il dilettante confusionario cade facilmente in que­sta trappola. Adolf Hitler, pittore e ritrattista, uomo di studi irregolari e di avide letture divulgative, era proprio la persona giusta per farsi affascinare dal darwinismo sociale. Se in natura il pesce grosso mangia quello piccolo, allora è inevitabile che nella società la nazione grande mangi quella piccola. Questa concezione, lungi dall’essere limitata al sulfureo Hitler, è tuttora la più diffusa anche fra i diplomatici, i militari, i grandi capitalisti. Chi dunque crede di essere più furbo e intelligente di Hitler, si guardi pure allo specchio, e forse un dubbio amletico, metodico e iperbolico lo assalirà. 22. La giudeofobia è la seconda componente della filosofia di Hitler. Preferiamo usare questo termine al posto di quello più frequente di antisemitismo perché semiti sono anche gli arabi musulmani, ed oggi l’unico, vero antisemitismo razzista pericoloso è quello propagandato contro gli arabi musulmani, in primo luogo dalla signora Oriana Fallaci e dai suoi seguaci. Fra l’Otto-

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cento e il Novecento, tuttavia, regnava in Europa l’antisemitismo giudeofobico classico, e si tratta ora di definirlo correttamente. La migliore definizione che conosco, tuttavia, è sempre quella coniata dal socialdemocratico marxista tedesco August Bebel, che parlò di “socialismo degli imbecilli”. L’idea socialista è infatti come un fiume che si porta dietro anche detriti e carogne di animali. Essa resta un’idea emancipatrice e pienamente legittima, ma è inevitabile che una delle sue componenti psicologiche sia l’invidia sociale, unita al sospetto che ci sia una cricca invisibile di speculatori che trama alle nostre spalle. Per varie ragioni di carattere storico, gli ebrei si prestano perfettamente a questo ruolo fantasmatico. Dal momento che essi sono, per usare un eufemismo, percentualmente “sovradimensionati” nel mondo mediatico e finanziario, tutto il corteo degli stupidi che trovano troppo faticoso impadronirsi della conoscenza dialettica della riproduzione capitalistica complessiva, si compiace di aver trovato finalmente il motivo per cui la maggioranza di chi lavora duramente vive nella miseria e nella precarietà, mentre una minoranza di finanzieri criminali se la gode alla faccia loro. Le cose andrebbero bene se non ci fosse una tribù maledetta che dirige nascostamente il mondo, e questa tribù sono appunto gli ebrei! La cosa più curiosa in tutta questa storia è che il solo, vero antidoto filosofico e scientifico contro la giudeofobia sarebbe la somma di umanesimo universalistico (antidoto filosofico) e di conoscenza scientifica della riproduzione anonima e impersonale del sistema capitalistico (antidoto scientifico). Oggi invece si vorrebbe, da un lato, la fine della giudeofobia, bollata come la perversione culturale più terribile e inescusabile che ci possa essere, e dall’altro la distruzione radicale dei due antidoti filosofico e scientifico che restano gli unici rimedi contro di essa. E questo la dice lunga sui fragilissimi fondamenti della cultura manipolata in cui viviamo. Nel pensiero di Hitler, si uniscono creativamente le due componenti essenziali dell’ideologia giudeofobica, l’immaginario del complotto e l’immaginario della contaminazione. Entrambi sono

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tuttora fiorenti e rappresentano un potenziale giudeofobico esplosivo immensamente più pericoloso della corrente storiografica detta “negazionista”. Il fatto che il “negazionismo” sia oggi l’unica corrente di pensiero penalmente perseguita in molte legislazioni occidentali, laddove “negare” che gli USA usano armi al fosforo per bruciare vive le loro vittime non è penalmente rilevante ma anzi incoraggiato, ci fa comprendere molte cose sull’ideologia sociale contemporanea. Ma questo fa parte non solo del complesso di colpa della cultura europea per aver sostanzialmente tollerato la giudeofobia, ma anche della costruzione di una nuova religione globale senza veti e senza trascendenza in cui il sacrificio della Shoah sostituisca progressivamente il sacrificio di Cristo. In tal modo, la giudeofobia sarebbe progressivamente sostituita dalla giudeofilia, che già adesso è la religione più diffusa fra gli intellettuali europei privi di religione. A suo tempo, lo studioso marxista Abram Léon, morto ad Auschwitz, tentò un’interpretazione storica della questione ebraica, definendo gli ebrei un “popolo-classe”, diviso cioè in ricchi e poveri, ma non in classi antagonistiche differenti, un popolo che si è tenuto insieme anche senza un insediamento territoriale sulla base di un complesso di funzioni sociali particolari. Nessuna ipotesi è scientificamente perfetta, ma questa mi ha sempre convinto nell’essenziale. Per un analfabeta filosofico come Hitler, il capro espiatorio ebraico era assolutamente perfetto, perché riuniva mirabilmente sia la componente del complotto che quella dell’impurità. Per quanto riguarda il primo aspetto, cosa c’è di più soddisfacente e semplice del pensare che questo popolo tenebroso era composto da “disgregatori” (Auflöser) di ogni altra comunità nazionale, che portavano a termine la loro opera di disgregazione sia dall’alto (finanzieri e banchieri ebrei cosmopoliti), sia dal basso (commissari politici comunisti)? In proposito, è del tutto inutile dimostrare che i cosiddetti Protocolli dei Savi di Sion, il testo magico di questo complotto disgregatore, fu un falso coniato da un informatore della polizia zarista. Milioni di persone continueranno a credervi, per-

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ché il credere non è una scelta razionale e dialogica, ma una volontà di credere. Del resto, il successo che hanno oggi i romanzi di Dan Brown, pattume letterario venduto in milioni di copie che racconta di complotti millenari svelati da accademici anglofoni alla Indiana Jones, dimostra che la plebe postmoderna non è diversa da quella pre-illuministica. Gli stessi che ingiuriano virtuosamente Hitler, e lo fanno unicamente perché questo è oggi non solo politicamente corretto, ma anche un rito di iniziazione obbligatorio per avere pubblico diritto di parola, ragionano esattamente come Hitler, e possiamo dunque aspettarci ragionevolmente il peggio. All’immaginario del complotto disgregatore, si univa armonicamente in Hitler anche l’immaginario della contaminazione per contatto. Ed il primo contatto pericoloso è quello sessuale. È dunque del tutto ovvio che il nazionalsocialismo sia subito intervenuto sul piano legislativo per impedire non solo i matrimoni, ma anche i liberi rapporti sessuali fra ebrei e comunità nazionale tedesca. In realtà, tutti possono essere toccati e non esistono popoli contaminatori né popoli maledetti o benedetti a priori, per cui la giudeofobia e la giudeofilia sono, da un punto di vista filosofico, due facce della stessa medaglia. 23. L’eugenetica è il terzo e ultimo rovello di Hitler, anche se, naturalmente, si tratta della radicalizzazione dei due primi elementi del darwinismo sociale e della giudeofobia. Data la mia ignoranza nel campo della biologia e della medicina, non intendo certo negare aprioristicamente l’utilità di una prevenzione eugenetica mirata che può evitare inutili drammi a coppie di genitori o di sventurati costretti ad una vita di dolore. Come per tutte le questioni che comportano una competenza scientifica specifica, penso che il filosofo responsabile debba fare un passo indietro. Altra cosa è, invece, la questione della dittatura eugenetica sulla popolazione. Ho già rilevato che la dittatura eugenetica di Platone rappresenta non un inveramento della “buona comunità”, ma una sua distruzione di fatto. Chi poi volesse scaricare sulle spalle di Hitler l’in-

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tero discredito della tentazione eugenetica di massa, sappia che Hitler è stato un dilettante rispetto al poco noto e capillare programma eugenetico messo a punto dalla socialdemocrazia scandinava, ed in particolare svedese. Vi sono oggi studi storici che non lasciano dubbi in proposito: la socialdemocrazia è stata all’avanguardia della “dittatura dei medici” sulla popolazione in nome appunto della salvaguardia eugenetica del popolo. Come è possibile questo? Sinceramente, non saprei. Ma si può tentare una spiegazione. La socialdemocrazia, esattamente come il fascismo e il comunismo, esprime il punto di vista generale delle classi inferiori, quelle scolarizzate di recente, digiune di cultura letteraria e filosofica, e per questo attratte soprattutto dal carattere magico-risolutivo della scienza e della tecnologia. Mentre, infatti, la cultura umanistica richiede tempo, e a livello generazionale almeno tre generazioni di passaggio dal semianalfabeta all’interprete di testi classici, l’assimilazione della tecnologia richiede una sola generazione. Non è allora strano che la socialdemocrazia svedese abbia adottato una visione del mondo “tecnologica”, la stessa peraltro di Hitler e Stalin, e la tecnologia eugenetica della riproduzione è allora la prima ad essere ritenuta degna di investimenti “popolari” per la salute. Questa democrazia di assistenti sociali, medici, sindacalisti e impiegati può facilmente rovesciarsi in una dittatura eugenetica, oggi evoluta in una società patriarcale femminista in cui il politicamente corretto ha sostituito il vecchio luteranesimo e in cui non ci sono più barriere all’ideologia dell’esportazione dei diritti umani e della democrazia. Come ha recentemente rilevato Philippe Burrin, Hitler legava alla tentazione eugenetica un “immaginario sanitario” particolare. La sua paranoica giudeofobia era dunque solo una parte di un più generale programma di profilassi tendente a preservare la popolazione germanica dal contatto con l’infezione circostante. Il suo programma per i pazzi e i malati cronici era esattamente lo stesso di quello della socialdemocrazia svedese, cui si aggiungevano alcune raffinatezze tedesche, come la prima campagna di prevenzione del cancro nella storia mondiale.

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24. Di fronte alla cattiva comunità, la comunità organica, colonialista, espansionista, razzista, persino l’individualismo atomistico sradicato può essere migliore, ed è di fatto migliore. Almeno, lascia la gente nella sua solitudine insensata, ma non ne distrugge gli autonomi progetti di vita, di matrimonio e professionali. Una conclusione forse banale, ma anche la banalità fa parte integrante della saggezza filosofica tradizionale. Del resto, pensiamo alla sorte di una comune ragazza musulmana francese di terza generazione. Cresce da francese, vive da francese, pensa da francese. Improvvisamente, la sua presunta “comunità”, cioè i genitori e la numerosa tribù allargata di parenti, pretendono di imporle scelte matrimoniali che lei rifiuta. Cosa è meglio allora, la logica “comunitaria” oppure i “valori repubblicani” francesi, nonostante le loro radici illuministiche, individualistiche e atomistiche? Per quanto mi riguarda, ho già risposto: i secondi. Non saranno il meglio, ma sono comunque il meno peggio. L’elogio del comunitarismo si può fare solo se si è prima preso coscienza di due cose di cui la seconda è più importante della prima: a) che Marx, lungi dall’essere uno sradicato, è un erede della tradizione filosofica occidentale; b) che le cattive comunità tribali e razziste sono n nemico del comunitarismo molto peggiore di quanto non lo sia l’individualismo atomistico.

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VI

Verso una ridefinizione universalistica e processuale del comunitarismo

1. Partiamo da una vignetta. Mao Tse-tung e Marx parlano insieme, entrambi in piedi su una nuvoletta in cielo. Mao, appena arrivato nell’aldilà, stringe la mano a Marx e gli dice: “Sì, ho letto il tuo libro”. E Marx gli risponde: “Davvero! E come finisce?”. In questa vignetta c’è l’essenziale della questione. Se è vero (come credo) che il metodo proposto da Marx è coestensivo, almeno idealmente, all’intero sviluppo temporale della logica del modo di produzione capitalistico visto come sistema interamente mondializzato e quindi “planetario”, è possibile abbandonare il sogno (o meglio, la nevrosi) positivistico della prevedibilità dei suoi esiti finali e restaurare la più corretta visione hegeliana per cui un vero bilancio scientifico-filosofico è come la nottola di Minerva, e giunge solo al crepuscolo. Ora, noi non siamo assolutamente al crepuscolo del modo di produzione capitalistico nel mondo. Onestamente, non so assolutamente se siamo ancora al mattino, al pomeriggio o già alla sera. So, tuttavia, di essere letteralmente nauseato da due tipi di “credenti”, i credenti al presente e quelli all’imperfetto. I credenti al presente sono coloro che credono che, dopo il crollo del sistema dei partiti e degli stati del comunismo storico novecentesco recentemente imploso (1917-1991), abbiamo di fronte a noi un orizzonte infinito e indeterminato (apeiron) di capitalismo privatistico eterno, più o meno insaporito e ingentilito di femmi-

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nismo, multiculturalismo, ecologia (senza esagerare) e pacifismo (da salmodiare in innocui cortei ritualizzati). I credenti all’imperfetto sono quelli che credevano all’avvento di un’utopia sociologica monoclassista proletaria mondiale da prevedere scientificamente. Se coloro che sostengono razionalmente il comunitarismo, che nella mia personale interpretazione è soprattutto una via comunitarista all’universalizzazione e al dialogo, sposassero il punto di vista delle due “credenze”, avrebbero fallito. Bisogna quindi cambiare radicalmente approccio, per non cadere nelle due patologie filosofiche, apparentemente opposte ma in realtà convergenti, appena segnalate. 2. Ho iniziato questo elogio del comunitarismo parlando del nuovo ciclo di guerre per il Nuovo ordine mondiale. Posso ora tornarci sopra, dopo aver sviluppato tutta l’argomentazione necessaria per legittimare la tesi che mi proponevo di difendere. E l’oggetto da prendere in considerazione, sulle orme metodologiche di Marx, non può che essere il sistema capitalistico mondiale di oggi, e non quello astratto e libresco amato dagli opportunisti, ma proprio quello che il circo mediatico manipolatore ci porta quotidianamente nelle case. Restando sulle generali, si può essere simpatici a tutti e ammirati per la nostra cultura. Questa ammirazione sparisce immediatamente se si comincia a indicare per nome le vittime e gli assassini. Allora si passa all’indignato rimprovero per il “settarismo”, l’“estremismo” e l’“unilateralità”. Il potere non si lascia insolentire gratuitamente. Ma qui non dobbiamo compiacere nessuno e possiamo quindi dire tutto quello che pensiamo. 3. L’evento storico più importante di questo inizio secolo è indubbiamente la selvaggia aggressione degli USA e dei suoi satelliti all’Iraq nella primavera del 2003. Questo evento si presterebbe a molti commenti, ma in questa sede saranno sufficienti tre ordini di osservazioni.

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In primo luogo, esso inaugura il XXI secolo (e il nuovo millennio) all’insegna della distruzione del diritto internazionale moderno e del seppellimento virtuale dell’ONU come organi di mediazione dei conflitti. Tutti sanno che questa aggressione, pianificata da tempo e motivata da due fondamentali fattori (come disse Tarek Aziz, oil and Israel), fu giustificata sulla base di una menzogna palese e provocatoriamente strumentale, le famose (e inesistenti) armi di distruzione di massa. In secondo luogo, la resistenza armata popolare e di massa del popolo iracheno (e non distinguo qui fra componenti laiche o religiose, perché non è questo il mio compito) è un evento storico ancora più importante della stessa aggressione. Da tempo non conoscevo una cosa tanto nobile, coraggiosa ed eroica. La mia ammirazione è incondizionata. Qui non abbiamo a che fare con il solito circo della simulazione mediatica della protesta occidentale, le distruzioni di vetrine e di automobili, le ipocrite petizioni di parlamentari, ma con l’eterna Guerra Giusta, la guerra di difesa nazionale pro aris et focis, alla faccia di coloro che dicono che tutte le guerre sono ingiuste, in modo da mettere i resistenti sullo stesso piano degli aggressori. In terzo luogo, infine, ciò che avviene in Iraq non deve farci chiudere gli occhi di fronte al fatto che gli aggressori USA hanno potuto portare avanti i loro progetti criminali con una sorta di “uso alternativo del comunitarismo”. Seguendo soprattutto la tradizione del colonialismo inglese, essi hanno infatti messo l’una contro l’altra le due comunità religiose sunnita e sciita e poi le due comunità nazionali araba e curda. Per chi scrive un convinto elogio del comunitarismo, sarebbe allora inaccettabile fare come lo struzzo che mette la testa sotto la sabbia per non vedere quanto gli accade intorno. Esiste infatti un uso malvagio del comunitarismo. Si dirà che è un falso comunitarismo, ed io sono pienamente d’accordo. Ma dal momento che questo non è un elogio dello struzzo, sono convinto che bisogna passare attraverso questo deserto infuocato prima di arrivare a una sorgente di acqua fresca. Il discorso deve allora

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essere prima generale (l’uso strumentale della comunità all’interno del sistema della riproduzione dell’individualismo capitalistico neoliberale), e poi deve scendere in particolari geografici e geo­ politici, prendendo in esame, se non tutti i paesi del mondo, almeno quelli più importanti, decisivi e interessanti. 4. L’uomo è per natura un essere sociale e comunitario o, più precisamente, un ente naturale generico. È dunque impossibile manipolarlo al punto tale da ridurlo ad una sorta di individuo puro ed astratto, un semplice supporto del sistema dell’individualismo proprietario capitalistico. Ciò non avviene e non avverrà mai. Se per caso potesse avvenire, tutta la tradizione filosofica occidentale sarebbe da gettare via in un cestino dei rifiuti, e saremmo allora di fronte non più all’homo sapiens, ma a qualcosa di inedito che richiederebbe un approccio radicalmente diverso. Non salterebbe solo Marx, ma tutta la storia umana precedente. Non lo ritengo probabile. E questo non certo per l’esistenza di classi sociali privilegiate, ma esclusivamente per l’essenza intima della stessa natura umana. È bene precisare, inoltre, che non è pensabile una sorta di scontro frontale a due fra individualismo e comunitarismo. Non è così. Il sistema dell’individualismo può esistere solo spezzando e frantumando, ma nello stesso tempo deve utilizzare, per riprodursi, forme manipolate e controllate di comunitarismo. Si tratta del suo modo di riconoscere indirettamente ciò che pure non è in grado di teorizzare e sistematizzare. La filosofia dell’individualismo proprietario capitalistico è infatti una mescolanza di nichilismo e relativismo, o più esattamente di nichilismo ontologico e relativismo etico. Di nichilismo ontologico, perché la sua società è priva di fondamento sostanziale, e sostituisce questo fondamento con una rete relazionale di rapporti mercantili. Di relativismo etico, perché al di fuori della Merce (che è il suo unico “assoluto”), tutto il resto è relativo al potere d’acquisto del compratore. Tuttavia, questa mescolanza non può direttamente applicarsi all’individuo puro, che è un’astrazione ine-

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sistente anche e soprattutto nel capitalismo più sfrenatamente individualistico. È necessario allora studiare con attenzione, e soprattutto con spregiudicatezza, le tecniche di creazione continua di “comunità fittizie”. 5. Bisogna dunque prima di tutto chiarire un punto preliminare. La società capitalistica, ed in particolare capitalistica mondializzata, non è in alcun modo una comunità, e definirla in questo modo ci porta del tutto fuori strada. Una comunità è infatti una società umana, particolare o universale, definita non tanto dalla prossimità fisica dei membri di essa, quanto dall’esistenza di un costume (ethos) o, se si vuole, di costumi, al plurale (Sitten), ossia di una particolare etica sociale che prevale sui movimenti ciechi dell’economia, che sono retti dal nichilismo e dal relativismo. Di per sé, questa etica sociale comunitaria non è assolutamente ostile all’individuo e alla sua fioritura esistenziale, artistica, filosofica e anche economica, ma è incompatibile solo con l’idea che la convivenza umana derivi da una rete di rapporti fra atomi sociali considerati originari, ossia fin dall’inizio preliminari e primari rispetto alla convivenza stessa. L’accusa di “organicismo”, cioè di sottomissione autoritaria dell’individuo all’insieme sociale, tocca soltanto alcune forme patologiche di comunitarismo, particolarmente quelle tribali-tradizionali oppure le forme di collettivismo pseudo-comunitario, ma non investe l’idea e la pratica della comunità che si vuole elogiare in questo saggio. Il Capitale, dunque, non è né un Soggetto, né una Comunità. Chi afferma che è un Soggetto (Roberto Finelli) oppure una Comunità (Jacques Camatte) usa scorretta­mente dei termini che invece è necessario usare con estrema cautela e ponderazione. Il Capitale non è un Soggetto, in quanto nella tradizione filosofica occidentale il termine “soggetto” è legato all’idea di coscienza e di presa di coscienza, ciò che appunto Hegel chiama Autocoscienza. Il capitale è invece una struttura anonima e impersonale, un “processo senza soggetto” che non può per definizione diventare auto-

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coscienza di se stesso. Tra l’altro, il Capitale non esiste e non può esistere come unico capitale che si autopianifica (è questa l’idea scorretta che ne ha la tradizione operaistica italiana, da Raniero Panzieri a Toni Negri), ma solo come insieme dinamico, anonimo e impersonale, di una pluralità di capitali che lottano in concorrenza reciproca sotto la direzione di gruppi strategici (come ha ultimamente rilevato correttamente Gianfranco La Grassa). Persino un filosofo del tutto non marxista, e anzi molto ostile al marxismo come Martin Heidegger, ha capito nell’essenziale la natura anonima e impersonale del funzionamento dell’economia e della tecnica nella società contemporanea, parlando della Tecnica non come applicazione tecnologica alla produzione delle scoperte scientifiche, ma come coronamento e mondializzazione della lunga storia dello sguardo metafisico occidentale sul mondo, ed alludendo in modo metaforico all’economia nei termini di Gestell, parola tedesca anonima e impersonale che si può tradurre come “impianto” o “imposizione”. Chi invece continua a pensare al Capitale come a un Soggetto cade nello stesso processo di antropomorfizzazione indebita che a suo tempo già Spinoza rilevò per coloro che continuavano a pensare la divinità non come coestensiva alla natura, ma come entità soggettiva progettante ricalcata appunto sull’uomo, che è effettivamente un’entità soggettiva progettante. Il Capitale non è neppure una Comunità, per le ragioni già accennate in precedenza. In quanto totalità capitalistica che si riproduce sistemicamente e non in base a un piano preordinato di tipo “umano”, il Capitale deve distruggere tutte le comunità sovrane preesistenti. Una volta però che le ha distrutte, dal momento che l’uomo non sparisce e continua comunque a essere un animale sociale, comunitario e razionale, il Capitale deve agire sui due piani della razionalità e della socialità dell’uomo, inestirpabili, ma anche manipolabili. Per quanto riguarda la razionalità, si tratta di distruggerne il carattere “filosofico”, cioè quello che ricerca la sensatezza nell’insieme olistico della convivenza sociale, per sostituirlo con una razionalità locale, specialistica, legata unicamente al rapporto mezzi-fini. Per quanto concerne la socialità,

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si tratta di distruggere la sovranità comunitaria incompatibile con il dominio idolatrico della merce e con il monoteismo del mercato, ricostruendo comunità settoriali sostitutive che possano essere più facilmente ricondotte al suo dominio. Il discorso qui si farebbe lunghissimo, perché queste pseudo-comunità sono molto numerose. Per brevità, mi limiterò ad esaminare tre comunità separate particolari nell’epoca del dominio del capitale: i giovani, gli anziani e le donne. 6. I giovani, in quanto classe di età generazionale definita da coordinate non solo sociali ma anche biologiche, hanno sempre formato, sin dalla notte dei tempi, comunità particolari. Si sono sempre avuti sedici anni, sia che si sia vissuti nelle caverne del paleolitico, sia che si sia vissuti in un attico di Manhattan. Sono invece fortemente cambiati i modi e i tempi con cui si è socialmente percepita, definita, controllata e istituzionalizzata l’identità giovanile. In epoca moderna, è soltanto con il romanticismo e con l’idealismo classico tedesco (in particolare con Fichte) che il “giovane” ha cominciato a diventare una vera e propria “figura filosofica”, cioè il soggetto capace per il suo entusiasmo e la sua freschezza di agire contro le tradizioni viste come il prodotto storico non di una eterna saggezza tramandata e immutabile, ma come di una spiacevole “alienazione” (Entfremdung). Fino all’avvento della forma attuale iperconsumistica e pubblicitaria del capitalismo, nessuno aveva mai pensato di “staccare” le giovani generazioni dall’insieme sociale della comunità. Dal momento però che questo oggi avviene, almeno in parte, è bene cercare di comprendere i meccanismi sociali fondamentali che portano a trasformare la gioventù in quanto tale in una sorta di “comunità separata”. Le società precapitalistiche conoscevano la miseria, la povertà, la ricchezza, la mancanza di pascoli, di zone di caccia e di terreno coltivabile, ma non conoscevano la “disoccupazione”. Tutto il lavoro sociale necessario alla riproduzione della comunità (sia delle comunità non-classiste che di quelle classiste posteriori, antico-

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orientali, asiatiche, schiavistiche, feudali, ecc.) era distribuito fra i sessi (uomini e donne), fra le classi di età (giovani, persone di mezza età e anziani), fra i gruppi sociali funzionali emersi dalla divisione del lavoro e infine fra le vere e proprie classi sociali. Ma la “disoccupazione” non c’era, e di conseguenza non esisteva neppure la figura sociale del “giovane disoccupato”. Esistevano giovani attivi e scioperati, lavoratori e pigri, ma non esistevano giovani “disoccupati”. Il capitalismo funziona riproducendo continuamente un “esercito industriale di riserva”, con cui è in grado sistematicamente di regolare il salario individuale e sociale, diretto e indiretto. Il giovane disoccupato forma bande giovanili, oppure prolunga artificialmente, in generale senza interesse e predisposizione, la frequenza scolastica, producendo il doppio fenomeno dell’area di parcheggio per potenziali disoccupati e di una scuola senza educazione, in cui la grande maggioranza degli studenti non ha in realtà alcun interesse per lo studio, dando solo fastidio ai loro insegnanti e ai loro pochi compagni di scuola che invece vorrebbero studiare. La comunità dei disoccupati, più tardi consegnata al cosiddetto lavoro flessibile e precario – la forma di lavoro più disgustosa ed abietta che l’umanità abbia mai prodotto nella sua pur sconcertante storia – produce generazioni che prolungano all’infinito il tempo di permanenza nelle case dei genitori. Di qui calo delle nascite, crescente insicurezza nel profilo psicologico e culturale delle giovani generazioni, e soprattutto tendenza a trovare in una propria area di consumo specifico il solo elemento comunitario possibile. Il capitalismo ama vestire i giovani e soprattutto imporre attraverso la moda nuovi (fittizi) profili identitari pseudo-comunitari. Questo avviene principalmente attraverso il fenomeno del branding, cioè del lancio di una marca. Questa storia della marca è assolutamente essenziale per comprendere la dinamica simbolica del capitalismo come produttore incessante di pseudo-comunità. Le comunità reali intergenerazionali di convivenza non potrebbero infatti essere dissolte dalla semplice proposta ultraindividualistica,

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ma possono esserlo soltanto dall’artificialismo pseudo-comunitario sessuale e generazionale. È stato calcolato che in Occidente oggi un bambino di dieci anni ha memorizzato in media fra le 300 e le 400 marche. La pressione degli adolescenti per i capi, gli zainetti, i diari, i gadget firmati è divenuta ossessionante. La scuola è sempre meno comunità educativa (anche a causa del mancato disarmo preventivo nell’ultimo trentennio dei pedagogisti e degli psicologi invasivi), e sempre più comunità di ostentazione dei brand, con adolescenti che al posto della lettura e dell’attenzione si scambiano “messaggini”. La separazione degli adolescenti e dei giovani in generale dalle altre classi di età non avviene più, come in passato, per ragioni di vissuto generazionale, ma sulla base di processi artificiali di costituzione di comunità separate. Altra cosa è il cosiddetto rifiuto dei giovani per la militanza politica, che non è affatto fatale ed eterno, ma puramente temporaneo e contingente, e può rovesciarsi da un giorno all’altro nella partecipazione più massiccia ed entusiasta. Si tratta di un atto di relativa “saggezza” e consapevolezza della sua totale irrilevanza (almeno per ora). Il capitalismo non solo veste i giovani, ma di regola sveste anche i corpi delle donne. Di lì la sua furia contro l’islam, i foulard moderatissimi delle donne iraniane, e la sua irresistibile pulsione verso le minigonne, le “veline” e le “letterine”. Non è un discorso da bacchettone. Un giorno Marcuse disse che osceno non era certamente il pelo del pube femminile, ma le armi e i bombardieri. Difficile dargli torto. Tuttavia, mi pongo domande strutturali, cui non è affatto facile rispondere. In prima approssimazione, credo che la tendenza del capitalismo a vestire i giovani e a svestire le donne sia legata alla sua logica assolutistica di impadronirsi di zone sempre maggiori dell’uomo, fino ad arrivare al fondamento di tutto: il corpo. Su di esso si giocano strategie di seduzione che sono quasi sempre strategie di velamento e di svelamento. È questa la ragione per cui al capitalismo i moralismi a base religiosa che sconsigliano o impediscono lo sguardo integrale sul corpo appaiono insopportabili. Lo sguardo del capitale e della sua protesi pubbli-

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citaria e consumistica deve essere integrale. Il corpo non solo della donna, ma della donna giovane, è stato storicamente un rifugio simbolico della segretezza e mi rendo conto perfettamente che in una logica totalitaria di impossessamento capitalistico dell’intero immaginario sociale da trasformare in immaginario consumistico questa barriera debba essere assolutamente superata. 7. Il modo in cui il capitalismo tratta gli anziani è ben diverso da quello in cui tratta i giovani. In primo luogo, gli anziani non rappresentano una vera nicchia di mercato strategica, se non per cose minori. Quanto alla produzione farmacologia per anziani, essa è obbligata, e pertanto non ha bisogno di una speciale promozione pubblicitaria. In secondo luogo, se il corpo giovanile è uno stupendo testimonial, anzi è il paradigma assoluto di ogni possibile messaggio pubblicitario, quello dell’anziano è invece il massimo dell’oscenità. Non si vendono prodotti con pance prominenti, seni cascanti e gambe smagrite. L’immaginario capitalistico sveste i giovani e copre gli anziani. Si dirà che questo è sempre avvenuto, anche e soprattutto nella scultura greca. Certo, ma la scultura greca non era posta al servizio della pubblicità. Nell’immaginario capitalistico, la stessa morte appare oscena, perché interrompe definitivamente il consumo. Nelle società precapitalistiche, l’anziano che aveva la fortuna di vivere fino a tarda età rappresentava il filo della vita stessa, e per questa sola ragione godeva di rispetto sociale. Si vedeva in lui non solo e non tanto il proprio futuro triste e inevitabile (indebolimento fisico, invecchiamento e morte), ma proprio il contrario, il compimento del ciclo vitale di tutti. La morte continuava ovviamente a fare paura, ma restava pur sempre l’esito di un ciclo fisiologico e non l’irruzione di una patologia da rimuovere. La medicalizzazione della morte non è solo un effetto collaterale dei progressi tecnologici e farmacologici della medicina, ma è una derivazione della concezione unilineare e progressista della storia, che, essendo infinita e indeterminata, non può che considerare la morte un incidente.

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Il capitalismo non persegue allora la trasformazione degli anziani in comunità di consumo separata, ma punta piuttosto alla loro segregazione. Negli USA, dove il modello individualistico è più sviluppato, siamo già arrivati alle “città di vecchi”, chiuse agli estranei, autosufficienti e senza fastidiose grida di bambini. Nel momento in cui l’esperienza storica e professionale è tutta disponibile su Internet e l’obsolescenza è addirittura programmata a scadenze temporali fisse, il vecchio resta al massimo un sostituto gratuito della “badante” per i bambini, anche se, naturalmente, anche lui ha bisogno della badante. 8. Il patriarcalismo in Europa esiste solo come residuo di un tempo ormai trascorso, al di fuori forse di alcune comunità musulmane immigrate in cui padri-padroni cercano di imporre alle mogli e alle figlie le loro scelte religiose e matrimoniali. La tendenza generale della società capitalistica è quella del superamento del patriarcalismo, che pure ha caratterizzato non solo le società precapitalistiche, ma anche la prima fase proto-borghese del capitalismo stesso, in cui ci imbattiamo nel sospetto positivistico verso le donne (Comte, Nietzsche, Weininger), seguito dalla sistematizzazione psicoanalitica di Freud, che sarebbe stata impossibile al di fuori del contesto borghese e patriarcale in cui è stata concepita. Ma oggi il patriarcalismo, appunto per la sua natura vetero-­borghese, è del tutto incompatibile con un dominio integrale della forma di merce, che non sopporterebbe tabù sorti in un’epoca precedente. Il modo in cui oggi il capitalismo affronta la questione femminile è fondato su una mescolanza di maschilismo e femminismo. Lungi dall’essere opposte, queste determinazioni sono del tutto complementari. Il profilo “maschilista” prevale nel processo di accesso del sesso femminile a tutti i ruoli possibili all’interno della produzione capitalistica. Questo profilo semplicemente inserisce nei tradizionali ruoli maschili esseri androgini di entrambi i sessi. Il profilo “femminista”, che nulla ha a che fare con il vecchio e nobile processo di emancipazione femminile del periodo eroico borghese

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e socialista, tende ad un vero e proprio obiettivo strategico della produzione capitalistica, la guerra fra i sessi e la correlata diminuzione della solidarietà fra maschi e femmine. Per questa ragione, sono veramente illusi coloro (penso a Immanuel Wallerstein) che inseriscono il femminismo nel novero dei cosiddetti movimenti “antisistemici” e anticapitalistici. Al contrario, il femminismo rappresenta una delle correnti meno comunitarie e più organiche al capitalismo che esistano. Questa tesi può sembrare scandalosa e perciò occorre dilungarsi un po’ per motivarla. A questo scopo, bisogna risalire ab ovo, cioè agli inizi del processo storico (a mio avviso innegabile) di subordinazione del sesso femminile all’ordine maschile della società. Due mi sembrano essere le concezioni teoriche che negano il carattere integralmente storico della subordinazione delle donne all’ordine maschile della società. In primo luogo, la teoria sociobiologistica del cosiddetto “dimorfismo”, secondo la quale la subordinazione delle donne sarebbe dovuta alla minore forza fisica del corpo femminile rispetto a quello maschile, che si sarebbe poi duplicata in una gerarchia di ruoli fissi di dominio e obbedienza. In secondo luogo, ed in modo molto più sofisticato della precedente, la teoria strutturalistica di Lévi-Strauss, per cui tutte le società umane si basano sulle leggi dello scambio, e lo scambio fondamentale sarebbe appunto quello delle donne fra i diversi gruppi. Senza scendere nei particolari, queste due concezioni mi sembrano carenti, e lo sono per un unico motivo, che è quello della sottovalutazione del carattere “generico” della produzione umana di società. I sostenitori del determinismo del dimorfismo fisico, infatti, sottovalutano l’importanza del momento sociale e simbolico nella fissazione dei ruoli umani nella divisione del lavoro. I sostenitori dello strutturalismo, invece, finiscono con il negare l’elemento dialettico che ad un certo punto modifica in modo qualitativo le stesse forme comunitarie della riproduzione umana. Gli esseri umani, infatti, non sono api, formiche e termiti che, per informazione genetica acquisita, riproducono sempre lo stesso schema di socializzazione etologica (alveari, formicai, termitai). Con que-

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sto, ovviamente, non intendo affatto liquidare le argomentazioni dei dimorfisti e degli strutturalisti, che so essere molto sapienti e nutrite di ripetute osservazioni comparative; ma solo affermare la mia preferenza per una spiegazione di tipo storico-genetico. È noto che i classici del marxismo, ed in particolare Engels, si sono occupati dell’origine storica dell’oppressione femminile, ma dovettero farlo all’interno dello schema positivistico di spiegazione sociale. Già Bachofen, nel 1861, aveva fatto l’ipotesi di un primitivo matriarcato, ossia di un primitivo potere delle donne sugli uomini, a partire da un’analisi comparativa dei miti di fondazione e della presenza esorbitante di divinità femminili. La mentalità positivistica odiava la contraddizione, e le pareva allora assurdo che potessero coesistere potere degli uomini e fondamento religioso matriarcale. Come può infatti un patriarcato materiale fondarsi su un matriarcato ideale? A distanza di oltre un secolo, l’antropologia attuale si è fatta più cauta e sofisticata. Mancando qui lo spazio per una discussione delle diverse tesi proposte, arriverò subito alla conclusione che mi sembra più plausibile. Mi pare che si possano distinguere tre diversi momenti evolutivi, tutti interni a una strutturazione ancora “comunitaria” della società. In un primo momento storico, durato probabilmente molto a lungo, la scarsissima divisione del lavoro e la terribile brevità della vita umana comportarono una fortissima eguaglianza di mansioni e di consumi fra i due sessi, per cui si può dire che non solo in quelle comunità non c’era ancora classismo, ma neppure una vera divisione funzionale del lavoro fra i sessi. In un secondo momento storico, con l’invenzione delle armi da lancio, di nuove tecniche di caccia da un lato, e dell’agricoltura dall’altro, ci fu presumibilmente un approfondimento nella divisione del lavoro nella comunità. Questo non portò ancora a un ordine sociale di classi, ma forse già di “lignaggi”, cioè di discendenze materne e paterne con annesse abitudini generalizzate di abitazione e di convivenza familiare. In proposito, per aprire una breve parentesi sulla società greca, la condizione sociale migliore delle donne nell’aristocratica Sparta piuttosto che nella democratica Atene, era

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dovuta proprio alla sopravvivenza di costumi prevalenti in questa seconda fase, dal momento che gli spartiati mangiavano e dormivano in comunità maschili ma le donne non erano escluse né dagli spettacoli, né soprattutto dalla ginnastica (come peraltro avviene anche nella dittatura eugenetica di Platone). In un terzo momento, infine, si stabilizzarono effettivamente (anche se non in tutte le società del mondo) le classi sociali, la proprietà privata e l’ordine simbolico maschile della società, che peraltro coesistette sempre con l’esistenza di divinità femminili. Trascuro qui i pur affascinanti dettagli della storia degli ultimi due millenni, in cui le donne non cessarono mai di resistere e di rivendicare le loro sfere indipendenti di azione e di movimento, per giungere all’oggi. Faccio solo notare che il sesso femminile, pur oppresso e discriminato in vari modi, ha spesso esercitato il ruolo di “custode simbolico della comunità” contro le derive individualistiche. Questo non può essere ridotto alla spiegazione per cui gli uomini avrebbero “costretto” le donne a occuparsi di cose comunitarie come i bambini e i vecchi, mentre loro si davano ad occupazioni più nobili. Al contrario, ritengo che l’esercizio del ruolo comunitario da parte delle donne sia stato proprio frutto di una autonoma “saggezza di specie”, che lo storicismo non può capire e non capirà mai, ma che resta un imprescindibile elemento di spiegazione materiale della storia. Il passaggio storico dalla tarda società signorile europea alla prima società capitalistica proto-borghese vide un peggioramento della posizione sociale delle donne. Anche questo non è un fatto sorprendente. L’accumulazione capitalistica primitiva mette in primo piano virtù militari e competitive fortemente maschili, ed è del tutto normale che una concezione fortemente proprietaria e individualistica porti ad estendere il diritto di proprietà anche alla moglie e ai figli. L’Ottocento ci offre un incredibile florilegio antologico di pregiudizi e di banalità verso il sesso femminile, per cui è utile porsi delle domande storiche radicali. O tutti questi personaggi ottocenteschi erano solo dei misogini, oppure, se vogliamo evitare spiegazioni virtuose ma tautologiche, dobbiamo conclude-

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re che l’instaurazione originaria dell’ordine capitalistico non poteva che accompagnarsi a un raddoppiamento simbolico patriarcale fondato sull’illusione dell’eternizzazione dell’ordine maschile. Si trattava però di un momento temporaneo e non certo di una caratteristica permanente del funzionamento dell’ordine capitalistico. Come il capitalismo ha bisogno, per il suo “innesco”, di un soggetto sociale collettivo denominato “borghesia”, così ha bisogno di un ornamento simbolico patriarcale, non a caso caratterizzato da uomini muniti di barba e baffi, da un lato, e di donne strette e soffocate in busti di stecche di balena, dall’altro. Se guardiamo gli sbiaditi dagherrotipi color seppia delle foto di fine Ottocento, notiamo che i caratteri sessuali maschili e femminili, sia pure coperti, sono infinitamente più marcati di quanto avviene in qualunque immagine pornografica di oggi. Al contempo, il corpo femminile non è ancor trasformato in oggetto di consumo, ma è caratterizzato da una estremizzazione della femminilità sia fisica che spirituale. Prostituta e/o madre di famiglia, la donna non cerca ancora di mimetizzarsi in un ruolo maschile e non ha neppure bisogno di dichiarare una guerra compensativa contro il maschio. In questo contesto, che era classista ma in parte ancora comunitario, era inevitabile che si sviluppasse un movimento per l’eguaglianza dei diritti fra donne e uomini, che interessò parallelamente sia il movimento operaio e socialista che le correnti liberali e democratiche dette “borghesi”. Questo movimento portò progressivamente il sesso femminile non solo al suffragio universale e alla eleggibilità delle cariche, ma anche e soprattutto all’accesso alle professioni maschili più prestigiose. Naturalmente, il fatto che le donne arrivassero prima all’insegnamento e soltanto dopo alla facoltà di medicina, ci permette di stabilire senza errori la gerarchia simbolica e soprattutto di reddito che l’ordine maschile aveva organizzato nei secoli precedenti. I movimenti fascisti e nazionalsocialisti cercarono, tranne eccezioni, di ricacciare le donne nella sfera del privato familiare e della irrilevanza pubblica. Si trattava di una posizione antistorica perché nessun comunitarismo moderno può essere proposto senza

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tener conto di alcuni dati irreversibili dello sviluppo umano, fra cui – sintomo sicuro del processo di universalizzazione mondiale in corso – c’è prima di tutto l’eguaglianza sia giuridica che simbolica tra i sessi. E ricordo qui la lotta di Hegel, pensatore fino in fondo comunitarista, contro il comunitarismo retrogrado e gerarchico dei “vecchi ceti” signorili e feudali. Lo scenario attuale, che deve essere compreso fino in fondo nella sua dinamica disgregativa di ogni possibile comunità umana, è quello della complementarità, raramente avvertita come tale, fra il maschilismo mimetico e il femminismo separatistico. Il primo si copre sotto l’ideologia economica del produttivismo e dell’aziendalismo, mentre il secondo si copre sotto una metafisica astorica del differenzialismo e della guerra tra i sessi. Bisogna dunque studiare non solo queste due forme ideologiche separate, ma soprattutto la loro essenziale complementarità. Per la prima volta nella storia dell’umanità la figura asessuata del­ l’imprenditore realizza i sogni (o gli incubi) dell’androgino puro. Il ruolo dell’imprenditore capitalistico, che in origine era un ruolo di tipo maschile esemplificato sui precedenti ruoli maschili del guerriero e del mercante, si apre al sesso femminile, ma pretende da questo sesso una iniziazione che lo porti infine a una forma di maschilismo mimetico. In questo senso, le pubblicità televisive di donne in carriera sono assolutamente esilaranti. L’irruzione, alcuni decenni fa, del femminismo separatistico deve essere fatta oggetto di ipotesi storica e genealogica. Proprio quando il processo di emancipazione femminile si stava realizzando, anche sulla base della coltivazione del complesso di colpa del maschio, si delinea uno strano movimento che nega la storia ed adotta una ideologia astorica di tipo differenzialistico, che assomiglia sinistramente al dimorfismo ontologico e biologico dei tradizionali sostenitori della legittimità del dominio maschile sulle donne. Da un punto di vista generale, il femminismo di tipo universitario si situa all’interno di una generalizzata reazione contro la storia che percorre il ventennio 1970-1990, e che non può essere disgiunto dalla ricaduta delle delusioni rivoluzionarie del

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decennio precedente. Il femminismo ci aggiunge una reazione furiosa contro l’intero universo sociale e comunitario (necessariamente composto da uomini e donne). Come avviene per tutti i miti differenzialistici dell’origine, il femminismo presenta una natura estremamente individualistica. Una delle prime teoriche del femminismo italiano, Carla Lonzi, debutta con un libro intitolato Sputiamo su Hegel. Mai obiettivo fu scelto tanto bene, in quanto colpendo Hegel si colpisce al cuore la migliore forma filosofica di comunitarismo moderno. Laddove la guerra fra le classi disturbava pur sempre l’economia, la guerra fra i sessi non la disturba affatto. Oggi sembra che – per fortuna – il femminismo sia in declino e le residue femministe vengono mobilitate per avallare i bombardamenti sull’Afghanistan in nome della liberazione dal burka e dal chador. Il senso della storia universale non è più orientato dall’ideale di una comunità umana senza classi e senza sfruttamento, ma dal passaggio dal velo islamico alla minigonna. E chi si contenta gode. 9. Il succo di questi discorsi sui giovani, gli anziani e le donne è questo, che il capitalismo tende a distruggere e a sciogliere le comunità sovrane, mentre al contrario crea continuamente comunità fittizie. È allora necessario, in un elogio del comunitarismo come questo, affrontare il tema della sovranità, perché, in caso contrario, tutto il nostro discorso si reggerebbe su un penoso equivoco. Lodare il comunitarismo senza evocare il tema della sovranità è infatti il tallone d’Achille della pur benemerita scuola dei communitarians americani, per cui alla fine l’idea comunitaria diventa una variante “solidale” di centro-sinistra del neoliberalismo politico e del neoliberismo economico. Un simile “comunitarismo” non disturba affatto i padroni del vapore. È anzi una risorsa contro gli eccessi patologici dell’individualismo. L’idea comunitaria, invece, come del resto ogni altra idea, deve essere pensata radicalmente. I necessari compromessi devono essere fatti al livello dell’applicazione, ma non debbono essere introiettati sin dal momento della giustificazione della teoria.

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Affrontiamo allora, sia pure sommariamente, il tema della sovranità politica. E lo faremo con riferimento all’Italia e all’Europa. Conviene distinguere due aspetti, quello della democrazia e quello della geopolitica. 10. Ho già detto che è impossibile elogiare il comunitarismo senza elogiare contestualmente la democrazia. E democrazia non significa sanzione referendaria che approva ogni cinque anni le decisioni di un ceto politico professionale unificato ideologicamente dal politicamente corretto e amministrativamente dai cosiddetti “vincoli sistemici” dell’economia. Democrazia significa anche e soprattutto consultazione stabile e permanente delle comunità locali. Non si tratta di localismo o fondamentalismo ecologista, o di altre formule coniate dal sistema mediatico e dal ceto politico professionale per infangare e delegittimare le scelte comunitarie. Saremmo solo degli ipocriti se da un lato elogiassimo il comunitarismo e poi dall’altro ci inchinassimo al potere “neutrale” dei tecnici che prendono decisioni senza il consenso della comunità. Può anche darsi che in alcuni casi le comunità abbiano torto. Non intendo feticizzarne le decisioni. Ma nella maggioranza dei casi la loro conoscenza del territorio e dell’impatto ambientale le porta ad avere ragione. L’Europa che ci stanno preparando è sostanzialmente un’Europa dei tecnici e della dittatura dell’economia, non un’Europa dei popoli e tanto meno un’Europa delle comunità. I tecnocrati scelgono a Bruxelles ed i popoli debbono seguire in nome della “competenza dei tecnici”. Si tratta dello stesso principio che già Platone oppose alla polis greca. Facciamo l’esempio della lotta comunitaria degli abitanti della Val di Susa in Piemonte contro un progetto di linea ferroviaria ad alta velocità (TAV) che prevede lo scavo di gallerie in un territorio ricco di minerali nocivi alla salute umana, che verrebbero immessi nell’aria durante gli scavi. Un politico di “sinistra” ha provocatoriamente affermato che la loro opinione vale come quella degli abitanti di Siracusa, e non di più. La presidente della regione, che in qualità di professoressa universitaria

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aveva affermato, quindici anni fa, che lo scavo non doveva essere fatto ed era necessario cercare soluzioni alternative, ora è diventata sostenitrice dell’opera in nome di astrazioni come il progresso, la velocizzazione delle merci, e soprattutto dell’Europa. L’Europa ha voluto, non ci resta che eseguire. Al momento ancora non so come andrà a finire. Spero che la comunità valsusina vinca, ma sono pessimista, perché so che i loro avversari sono astuti e feroci. È però interessante che non appena una comunità esce dalla simulazione elettorale artificiale che galvanizza per alcuni mesi gli ingenui con il tormentone Destra contro Sinistra, si pone immediatamente la vera contrapposizione, e cioè Basso contro Alto. Il “basso”, ossia gli interessi collettivi e comunitari di difesa della salute, si trova di fronte un “alto” bipartisan, formato da arroganti fantocci politici interscambiabili che ragionano in modo “sistemico”, dove il “sistema” non è altro che l’insieme di decisioni ultra-oligarchiche prese su commissione di centri finanziari sottratti a ogni controllo democratico. In queste condizioni, esaltare una mitica ed astratta Europa, vista unicamente come contraltare politico ed economico degli USA, mi sembra poco compatibile con un elogio del comunitarismo che si voglia sincero e non strumentale. 11. Il comunitarismo e la geopolitica non sembrano, di primo acchito, entità commensurabili, data l’eterogeneità dei principi su cui si fondano. La geopolitica non ha a che fare programmaticamente con comunità politiche e sociali democraticamente dirette, ma con grandi insiemi continentali che necessariamente “saltano” il momento dell’autogoverno delle piccole comunità in essi inserite. Il comunitarismo ha ragioni locali che quasi sempre la geopolitica non può prendere in considerazione, ed infatti, non certo a caso, chi cerca di assumere un angolo di visuale geopolitico finisce spontaneamente con l’associarvi un punto di vista di fatto “imperiale”. Non intendo affatto tacere questa evidente ambivalenza. Eppure, tutti i fenomeni storici e sociali sono in via di principio commensu-

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rabili, e questo vale anche per il comunitarismo e la geopolitica. In astratto, la domanda si può formulare così: qual è il quadro geopolitico nei rapporti internazionali su scala mondiale più favorevole, o meno sfavorevole, a una pratica di comunitarismo della sovranità, e non di un semplice comunitarismo fittizio o strumentale diretto a disgregare entità nazionali e statali di resistenza? Mi pare una domanda legittima, sulla cui base possiamo ancora chiederci se e fino a che punto un’Europa unita, o quantomeno più unita di adesso, può favorire una pratica comunitaria, cioè un’etica sociale comune di sovranità, autodeterminazione, autogoverno e solidarietà. Per ora, l’Europa non sembra andare in questa direzione, mancando di una vera sovranità (il cui presupposto indispensabile è ovviamente l’allontanamento delle basi militari americane, auspicabilmente nel modo più cortese e concordato possibile). Non c’è sovranità senza comunità reale, e per adesso l’Europa non lo è, non possedendo un’etica condivisa sul suo presente e sul suo futuro. Non si tratta, quindi, di tracciare solo un bilancio concordato relativo al passato e alle sue componenti (greca, latina, cristiana, musulmana, illuministica), su cui si è soffermato recentemente il chiacchiericcio semicolto. Si tratta proprio del suo profilo etico e comunitario presente, su cui non esiste la minima unità, in particolare sulla questione decisiva dei rapporti con gli USA. Alcuni stati europei, come la Francia, lo vorrebbero paritario, altri invece sono felici del loro stato di servitù volontaria, che è peggiore di quella obbligata, perché questa riguarda solo il corpo, mentre quella concerne l’anima prigioniera. Tutti gli studiosi di geopolitica concordano sul fatto che il solo asse geografico e politico in grado di ridare una certa autonomia all’Europa è quello che passa per le tre capitali di Parigi, Berlino e Mosca. Personalmente, ne sarei un entusiasta e convinto fautore. Al contempo, ritengo che questo sia, al momento, soltanto un auspicio irrealizzabile nel breve-medio periodo. Troppo grande è infatti il servilismo introiettato non dagli europei, che sono solo un’espressione geografica, ma dalle classi dirigenti europee, sia politiche che intellettuali, le quali vogliono la servitù volontaria e

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sono disposte a tutto pur di continuare a praticarla. Un sintomo clinico indiretto ma sicuro di questa volontà di servilismo è costituito dall’unanime atteggiamento del circo mediatico europeo, sia televisivo che cartaceo. Esso punta su tre elementi simbolici: isolamento e ridicolizzazione della Francia, colpevolizzazione metastorica eterna della Germania e spezzettamento geografico della Russia. Questi tre obiettivi sono perseguiti in modo coordinato, asfissiante e permanente. Iniziamo dalla Francia. Il circo mediatico europeo non sopporta da tempo la cosiddetta “eccezione francese”, che è in realtà una eccezione di sovranità e di indipendenza nazionale. Non sopporta la presa di distanza (purtroppo precocemente rientrata) della Francia dall’aggressione degli USA del 2003. Non sopporta la difesa della lingua francese. Non sopporta in generale il fatto che la Francia non accetti di diventare una grande Disneyland turistica priva di sovranità. Dietro questo fastidio verso la Francia, c’è una sola cosa, l’introiezione della servitù volontaria verso gli USA, unita all’ammirazione stracciona alla Alberto Sordi per tutto ciò che è anglosassone. Persino i recenti moti giovanili dei sobborghi del novembre 2005 hanno dato luogo a una maligna soddisfazione del circo mediatico. Per colpire la Francia, persino i casseurs possono andare bene! Sono passati sessant’anni dalla fine della Germania di Hitler. Si dovrebbe concluderne che la colpa della Germania deve essere consegnata alla memoria storica e alla filosofia politica. Ma non è così. La Germania deve restare colpevolizzata per sempre, anche quando l’ultimo reduce tedesco della guerra 1939-1945 sarà stato sepolto. Ho letto recentemente che il figlio del musicista ebreo Yehudi Menuhin, ebreo anche lui, ha manifestato l’opinione che la colpevolizzazione della Germania debba finire. Su di un giornale italiano («Corriere della sera» del 16/11/2005) si è parlato letteralmente di “outing da simpatizzante neonazista”. Considero poco probabile che il figlio di Menuhin sia un “simpatizzante neonazista”. Capisco invece molto bene perché si possano impunemente lanciare que-

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ste infamie. In questo modo, si spaventano e si terrorizzano tutti coloro che auspicano, sia pure in termini incerti, che il contenzioso politico di sessant’anni fa venga chiuso, non per ridimensionare, banalizzare, giustificare il nazionalsocialismo, ma per legittimare l’indipendenza tedesca ed europea. Quanto alla Russia, l’auspicio unanime dei mezzi di informazione è che essa si indebolisca ancora di più, e se possibile vada in mille pezzi, divisa in un insieme di “principati” puramente economici. Anche qui, si ha un uso perverso del comunitarismo a vantaggio del dominio unilaterale degli USA. Come si vede, il modo mediatico di trattare il triangolo Parigi-Berlino-Mosca segue una logica ferrea ed evidente. 12. Tiriamo ora le fila del discorso che ho cercato finora di sviluppare. Le deviazioni sono state molte, ma ritengo siano state necessarie perché volevo comunicare un’idea di comunitarismo difficile da concepire e da realizzare. Un elogio del comunitarismo rassicurante, che definirei “compatibilismo”, mi è sembrato ingannevole. Questo tipo di approccio al tema è già ampiamente presente nella vasta letteratura esistente. A scanso di equivoci, non ho nulla in contrario alla messa in atto di “correttivi” comunitaristi allo scatenamento dell’individualismo proprietario. Ma la prospettiva della compatibilità e della correzione mi è sembrata del tutto insufficiente. Possiamo ora imboccare la via che porta alla conclusione di questo saggio, affrontando l’ultimo e decisivo tema, e cioè che cosa propriamente significa la ridefinizione universalistica e processuale del comunitarismo. Alle orecchie di molti, questo termine suona come una forma sofisticata di localismo, ed a sua volta il localismo rientra nella connotazione negativa di provincialismo, ossia di punto di vista ristretto, arretrato e poco informato, laddove il multiculturalismo e il cosmopolitismo appaiono termini più positivi. Tuttavia, il comunitarismo, così come ho cercato di delinearlo, resta la via maestra all’universalismo reale, intendendo per

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universalismo non un insieme di prescrizioni dogmatiche “universali”, ma un campo dialogico di confronto fra comunità unite dai caratteri essenziali del genere umano, della socialità e della razionalità. Quando si parla di universalismo, infatti, non si deve pensare a un insieme di prescrizioni, bensì a un campo dialogico costituito da dialoganti che hanno imparato a capire le lingue degli altri, anche se forse non le parlano con un accento perfetto. 13. Una prima, grande obiezione potrebbe essere questa: d’accordo, accettiamo pure questa proposta di dialogo, ma perché un tale dialogo dovrebbe essere condotto fra comunità? Sono gli individui i portatori della ragione, non le comunità. Queste ultime sono formate da individui, e sono gli individui singoli a produrre opinioni ed ipotesi, che poi entrano in circolo e diventano oggetti universali. È stato Newton a proporre la fisica classica e non la comunità inglese. È stato Freud a proporre la psicanalisi e non la comunità austriaca. È stato Marx a proporre la concezione materialistica della storia e non la comunità tedesca. Il dialogo va bene, ma è l’in-dividuo, l’ente non ulteriormente divisibile, a condurlo. L’universalizzazione veritativa è allora il termine finale di un processo che parte dagli individui creativi e indipendenti e non da fantomatiche comunità. Proviamo a rispondere. Non intendo negare che l’individuo sia il titolare del giudizio conoscitivo e valutativo sul mondo. Ma l’individuo, sradicato da un contesto sociale in cui la sua razionalità propositiva e valutativa può esercitarsi, è una pura astrazione, o, come disse il vecchio Lukács nella sua Ontologia dell’Essere Sociale, è qualcosa che oscilla dalla onnipotenza astratta alla concreta impotenza. Si tratta allora di riflettere a fondo sul significato di questo binomio Onnipotenza astratta/Impotenza concreta, perché qui troveremo forse non il bandolo della matassa, ma un punto di partenza utile per le riflessioni che svolgerò sino alla fine. L’elogio del comunitarismo, anche se è stato premesso nel titolo, può in realtà giungere solo alla fine di una convincente argomentazione.

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Il peggior nemico dell’idea comunitarista oggi non è tanto l’apologia dell’individualismo proprietario capitalistico, che riduce la complessità umana alla figura dell’imprenditore ed in questo modo, trasformando il mondo intero in un solo mercato, recide alla base ogni possibile forma di legame sociale. Questo è anzi l’avversario ideale, poiché si tratta di un avversario che sembra onnipotente oggi (e lo è, almeno sul piano militare), ma è strategicamente debole in prospettiva, perché potrebbe vincere soltanto modificando radicalmente la natura umana, cosa che ritengo poco probabile (anche se non da escludere a priori). Il peggior nemico del comunitarismo è la sua entusiastica difesa con argomenti ambigui che sanno di organicismo e conformismo e che non potrebbero essere accolti da quegli spiriti liberi ai quali bisogna in primo luogo rivolgersi. Per poterlo fare, è preliminare il lavoro del filosofo che consiste nel prendere estremamente sul serio le obiezioni che gli vengono rivolte. Per questo, aprirò una prima “finestra” filosofica sull’individualismo e una seconda “finestra” storica sul comunismo, prima di imboccare la strada dell’elogio del comunitarismo oggi. 14. Il modo migliore che ha un comunitarista di perdere la sua causa è quello di cadere nella trappola dicotomica alla Bobbio, che oppone in modo rigido e polare il Comunitarismo all’Individualismo. L’uomo è infatti un ente naturale generico che si costituisce storicamente dicendo “no” e non dicendo “sì”. Se l’uomo non fosse capace di dire no, non avrebbe neppure potuto evolversi storicamente. Ora, chi dice no è prima di tutto l’individuo. Un comunitarista deve, perciò, essere in grado anche di scrivere (o pensare) un convincente elogio dell’individualismo. Nulla di più facile. L’individuo resta, infatti, l’unità minima di resistenza al potere. È vero che il potere può essere vinto unicamente da aggregazioni collettive, laddove la singola coscienza critica rimane solo testimoniale. Ma è anche vero che la testimonianza individuale è la premessa logica e storica delle successive aggregazioni vincenti. Dunque, l’individuo non è mai solo il “portavoce” di un collet-

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tivo, come di fatto sostengono le concezioni di tipo organicistico della società. L’individuo, inteso come unità minima di resistenza al potere, è anche, in ultima istanza, il titolare originario della libertà come creazione continua di visioni del mondo diverse ed opposte, il che non è per nulla in contrasto con la concezione “comunitaria” della verità che ho difeso nel quarto capitolo. La prima forma storica della filosofia idealistica moderna, quella di Fichte, esprime bene questo concetto mettendo alla base di tutta la storia il no che gli individui e le comunità oppongono ad un Non-Io alienato e alienante. Tutto questo, si badi bene, non è affatto in contrasto con il necessario smascheramento dell’illusione individualistica che Marx chiamò “robinsonismo”, che immagina l’Uomo Originario non come membro di una specifica comunità, ma come un ente isolato che costruisce il mondo intorno a sé. È evidente, o almeno plausibile, che si tratta di una involontaria anche se geniale metafora letteraria dell’accumulazione capitalistica primitiva del capitalismo inglese dell’epoca. Ma questo non cambia il fondo della questione. L’individuo, infatti, non è solo il profilo dell’imprenditore capitalistico che trasforma la socialità umana in un sistema dell’egoismo relazionale, ma è soprattutto il titolare della libertà di coscienza, nonché l’unità minima pensabile di resistenza al potere. Scrivere un elogio dell’individualismo è allora la cosa più semplice del mondo. Si potrebbe, infatti, insistere sul fatto che l’individualismo proprietario sviluppatosi a partire dal Seicento europeo non è il vero individualismo, ma ne è solo una patologia passeggera. L’individuo non si riduce a supporto e soggetto (nel senso greco di hypokeimenon, e cioè che sta sotto e fa da supporto) dell’impresa capitalistica, ma è una unità di razionalità, o meglio il modo specifico in cui la razionalità si sposa con la socialità dell’uomo (che è politikòn solo in quanto è logon echon), il che lo porta ad essere appunto l’unità minima di resistenza al potere.

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15. Il comunismo storico novecentesco è stato una (generosa) patologia tanto del comunitarismo quanto dell’individualismo, ma soprattutto del secondo. Si trattò, infatti, di collettivismo, ossia di organizzazione politica dell’atomismo. L’intenzione soggettiva del comunismo era certamente comunitaria. Ma l’intenzione, appunto, non basta a concretizzare un progetto. Non basta neppure la buona fede, che la teoria di Marx definisce (in modo certo spietato, ma anche pertinente) in termini di falsa coscienza organizzata. Se, infatti, questa intenzione non raccoglie la lezione comunitaria di Hegel, che sostenne la necessità imprescindibile di rispettare l’autonomia delle comunità intermedie, e segue invece l’impostazione di Rousseau, in cui l’universale è perseguito con una astratta fuga in avanti, non si raggiunge alcuna comunità superiore, ma solo un’addizione di atomi isolati che il potere statale organizza collettivamente senza però superarne l’atomismo originario. Da comunitaria, la patologia diventa allora individualistica. In questo senso, la lezione (negativa) di Stalin deve essere assolutamente tenuta presente. Stalin si impose col terrore, ma questo non fu dovuto a motivi caratteriali (come emerge da certe biografie demonizzanti come quella di Robert Conquest). Il terrore generalizzato, inscindibile da una frammentazione atomistica della società, era in realtà una forma di costituzione di un nuovo potere collettivo, quello degli “staliniani”. Nessun culto della personalità potrebbe mai essere edificato e trasmesso (mummia da adorare, nomi di città, poemi di adulatori), se non costituisse un fatto di legittimazione collettiva di un gruppo sociale. Nessuno edificherebbe una piramide per la mummia del faraone se questo non costituisse una struttura di potere in grado di tutelare interessi di gruppo. Ma questo comporta che solo i privilegiati formano un gruppo, laddove tutti gli altri devono essere necessariamente frammentati. Il comunismo di tipo staliniano (e solo gli ingenui pensano che ve ne siano stati veramente altri) ha dunque di fatto organizzato l’atomismo. Il triennio 1989-91 è stato l’esplosione della artificiale crosta organizzativa di superficie, sotto la quale la frammentazione si era sviluppata e consolidata. Gli ultimi quin-

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dici anni hanno dimostrato che raramente nella storia comparata delle civiltà mondiali si era visto un tale scatenamento dell’atomismo impazzito. La comunità ideale dei marxisti filosofici indipendenti (di cui ho fatto parte e di cui faccio tuttora parzialmente parte, sia pure in posizione eretica e marginale) ha sempre opposto a questo sistema dell’atomismo politicamente organizzato il sistema ideale alternativo della comunità di individui liberi e solidali. Ottima intenzione. Ma, appunto, non basta l’intenzione, se non si è in grado di diagnosticare con precisione la patologia specifica, che era per metà una patologia del comunitarismo e per l’altra metà una patologia dell’individualismo. Per questa ragione, sono attualmente molto più interessato a una corretta concezione non organicistica del comunitarismo che a una cosiddetta “rifondazione” del comunismo. I sedicenti “rifondatori” sono caratterizzati dall’unanime incomprensione delle cause strutturali (approfondimento della divisione sociale e tecnica del lavoro) e ideali (concezione collettivistica e quindi atomistica del potere) che hanno portato al fallimento del comunismo. Lo vorrebbero “rifondare” sulla base delle buone intenzioni soggettive, aggiungendovi un po’ di libertà, di democrazia e soprattutto di antifascismo politicamente corretto. Su questa base illusoria, è allora preferibile seguire l’ipotesi di una risistemazione concettuale e pratica dell’idea comunitaria. E ad essa è ora tempo di dedicarsi. 16. L’uomo, filosoficamente definibile come ente naturale generico, è dunque ad un tempo animale razionale e sociale. Tuttavia, esso non sarebbe “generico” se non potesse perdere (provvisoriamente o per sempre? In questa domanda c’è tutta la tragicità insita nella storia) sia la propria razionalità che la propria socialità, o addirittura entrambe. Questa è la ragione per cui nella storia, ed in particolare nella nostra attualità quotidiana, noi troviamo continuamente casi di socialità senza razionalità e di razionalità senza socialità. La socialità si esprime oggi in forma particolar-

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mente artificiale, manipolata ed eterodiretta, e quindi assai poco “razionale”, distruggendo le comunità sovrane e costituendo incessantemente comunità fittizie e politicamente innocue. Questa socialità è “irrazionale” non tanto e non solo perché nelle masse subalterne la fede nella magia è tuttora superiore alla pratica della ricerca scientifica, ma perché l’insieme riprodotto dal capitalismo non corrisponde alla razionalità umana, che di per sé rifiuta che astrazioni come lo sviluppo economico o la crescita del PIL sostituiscano la vita sensata in una comunità democratica. Certo, questa è pseudo-socialità e non vera socialità, e non a caso le correnti culturali attualmente preferite e sponsorizzate tendono a negare l’esistenza della cosiddetta “verità”. Se infatti la gente si abituasse ad utilizzare la categoria di verità, apparirebbe alla luce del sole la falsità di gran parte dei valori manipolati di oggi. Una socialità senza razionalità comporta come sua reazione inevitabile una razionalità senza socialità. Come la merce è la cellula della società capitalistica, così l’individuo è la cellula dell’umanità. Se una socialità irrazionale lo costringe a un conformismo etero­diretto che rilutta alla sua coscienza, l’individuo non ha altra strada al di fuori di una razionalità senza socialità, ossia secessionistica, che promuove l’esodo dalla socialità stessa, come nel caso degli stoici e degli epicurei. Oggi, nelle ricche società metropolitane, il neo-epicureismo si sta diffondendo sotto forma di gruppi elettivi di amici che mangiano e bevono roba di qualità, leggono libri intelligenti, ascoltano musica di buon livello e fanno turismo eco-compatibile. Il neo-stoicismo attira invece personalità originali che si relazionano direttamente con l’Universale, saltando il circo mediatico, la società dello spettacolo e i riti del conformismo sociale. Non ha senso, a mio avviso, puntare moralisticamente il dito e condannare queste forme di esodo e di secessione. Tutti noi ne facciamo parte, sia pure secondo modalità più o meno accentuate. Bisogna pur vivere. E tuttavia, noi sentiamo che anche se la razionalità senza socialità è pur sempre migliore della conformistica socialità senza razionalità, c’è qualcosa che non va, che stride, qualcosa di irrisolto.

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E qui, appunto, torna la questione del comunitarismo. E torna dopo che abbiamo constatato la legittimità, ma anche l’insufficienza, della via individualistica di resistenza alla socialità alienata che il capitalismo ci offre. 17. Abbiamo visto che Marx, anche e soprattutto in questo allievo di Hegel, riconosceva il carattere irreversibile e storicamente positivo della costituzione dell’individualità moderna, al punto di connotare il comunismo del futuro non in termini organicistici, collettivistici, livellatori o semplicemente egualitari, ma in termini di libera individualità. Questo deve essere il punto di partenza del nostro discorso comunitario. Nel capitalismo moderno, tuttavia, l’individuo stesso è la prima vittima del sistema della manipolazione generalizzata. Per questa ragione, Lukács insiste nel sottolineare che la categoria di manipolazione è quella più importante per comprendere la società contemporanea, e la stessa categoria di sfruttamento, inteso come estorsione di plusvalore assoluto e relativo, non è comprensibile se non inserita dentro il sistema della manipolazione medesima. Non a caso, chi utilizza solo la categoria di sfruttamento per capire il mondo contemporaneo deve necessariamente allontanarsi dal metodo di Marx per adottare il semplice metodo di Ricardo ed il conseguente economicismo. Certo, anche in una situazione di manipolazione generalizzata e sapientemente amministrata, l’individuo resta pur sempre un’unità minima di razionalità, e quindi anche un’unità minima di resistenza al potere. Anziché polemizzare astrattamente contro l’individuo in sé, dobbiamo allora studiarne le modalità di esistenza pubblica di oggi, che lo definiscono come un’entità privata di sovranità politica. Il pubblico, oggi, è lo spazio della sanzione della privazione della sovranità. Certo, l’individuo continua ad essere in parte o in tutto “sovrano” nell’interiorità della coscienza. Ma la coscienza testimoniale individuale ha la doppia caratteristica di essere ad un tempo libera e impotente.

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Per questo Lukács coglie il nocciolo della questione quando afferma che l’individuo oggi oscilla fra una onnipotenza astratta e una concreta impotenza. Di fronte alla mortalità del corpo e alla sua strutturale fragilità, l’anima appare realmente “immortale”, nel senso che la sua produzione ideale sembra andare al di là della temporalità che tutto consuma. Astrattamente, la mente libera del singolo individuo che cerca un suo rapporto immediato con l’universale si autopercepisce realmente come onnipotente. Concretamente, lo stesso individuo verifica ogni giorno la sua reale impotenza nel poter cambiare davvero qualcosa. Sulla base di questa concezione, lo stesso Lukács specifica ulteriormente la natura di questa contraddizione ontologica della individualità contemporanea, affermando che l’individuo, sradicato da qualunque progetto comunitario di cambiamento, deve necessariamente oscillare fra i due poli dello specialismo e della stravaganza più scandalosa ed eccentrica. La resistenza del reale ad essere mutato, una volta passata la fase delle speranze giovanili, provoca varie strategie di accomodamento rassegnato e subalterno. Venuti meno i ruoli fissi della società borghese tradizionale, che non a caso al tempo di Hegel aveva ancora dei costumi etici precisi (Sitten), nell’epoca della flessibilità e della precarietà, del nichilismo e del relativismo sociale, l’individuo è sradicato anche da questi costumi e viene gettato in una vera e propria singolarità irrapresentabile. In questo sradicamento, l’individuo può ugualmente credere di poter scegliere delle libere strategie di vita. Da un lato, abbiamo la possibilità di scegliere lo specialismo, che non è solo la conseguenza meccanica della sempre più spinta divisione disciplinare della ricerca scientifica contemporanea, ma è anche l’inevitabile “destino” della persona intelligente e creativa espropriata della sua sovranità politica comunitaria. Dall’altro, ci resta pur sempre anche il mestiere dello sradicato professionale, insieme con la pratica spettacolare della stravaganza. Chi infatti non può accedere allo spettacolo mediatico con lo specialismo, diventando premio Nobel per la chimica, può sempre giungere sul piccolo schermo divorando duecento salsicce in venti minuti.

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L’individuo rimane il titolare indivisibile della resistenza spirituale al potere e alla manipolazione. Ma resta titolare pagando il prezzo della oscillazione fra onnipotenza astratta e impotenza concreta, del pendolarismo tra stravaganza e specialismo. Da questa impasse nasce oggi il problema del comunitarismo. 18. La comunità è il solo luogo in cui l’uomo contemporaneo possa esercitare congiuntamente la sua doppia natura razionale e sociale. Ogni tentazione di esodo e di secessione è comprensibile, risolve forse il suo singolo problema di sopportazione di una vita insensata, ma lascia intatto il problema dell’unità di socialità e razionalità. L’unità di cui qui si parla non è sinonimo di fusione fra teoria e prassi (e fra individuo e comunità). Personalmente, non credo a tale unità o fusione e la considero solo un’utopia romantica e prometeica limitata al momento magico (il tardo romanticismo) in cui fu pensata. E non ci credo per un motivo semplicissimo. Se infatti unità fra teoria e prassi significa solo coerenza tra opinioni professate e comportamenti messi in atto, allora essa è antichissima, viene da molto lontano. Se invece la si prende alla lettera, allora la cosa non funziona, perché teoria e prassi non sono coestensive. In modo molto più sobrio, Aristotele distinse la teoria, che è sempre anche conoscenza in sé delle cose, dalla prassi, che è un’azione rivolta a modificare i comportamenti umani. Le illusioni di molti marxisti in buonafede di unificare teoria e prassi con una astrazione definita “militanza” fanno parte della lunga storia delle illusioni prometeiche umane. La fusione tra individuo e comunità è ontologicamente impossibile ed è un bene che lo sia. I comunitaristi consapevoli devono congedarsi, educatamente ma con fermezza, dai “fusionisti” di ogni tipo. Chi vuole la fusione aderisca pure a una setta, vada in Tibet o in California (che è sostanzialmente un Tibet con l’acqua corrente), ma lasci stare il comunitarismo, che, prima di essere una proposta politica ed un profilo filosofico, è uno spazio del rap-

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porto fra individuo e comunità, un luogo in cui è possibile proporre un superamento del destino di oscillazione fra onnipotenza astratta e impotenza concreta dell’individuo contemporaneo. In questo senso, il comunitarismo è anche la sola via concretamente praticabile per l’universalismo. Per definire questa via, dobbiamo prima di tutto distinguere l’universalismo come ideologia dall’universalismo come filosofia. Il primo tipo di universalismo è cattivo, mentre il secondo è buono. L’universalismo come ideologia è attualmente la principale copertura ideologica della distruzione del diritto internazionale moderno e della sovranità dei popoli e degli stati. I diritti umani sono l’arma di cui esso si serve per raggiungere questo scopo. Hanno dunque perfettamente ragione quegli autori che respingono l’universalismo ideologico ed io mi schiero completamente al loro fianco contro i “bombardatori” umanitari e i giornalisti embedded dell’impero militare e ideocratico americano. Al contempo, è bene però mettere in guardia contro il rischio di confondere l’universalismo ideologico, o più esattamente l’uso ideologico e strumentale dell’universalismo, con l’universalismo filosofico. Quest’ultimo è semplicemente, a mio avviso, la fisiologica estensione geo-filosofica dell’idea di verità comunitaria all’idea di un’unica comunità mondiale. La “verità” del momento comunitario risiede in questo: l’individuo ha bisogno di una mediazione concreta in grado di collegare la sua irriducibile singolarità all’universalità astratta dell’umanità pensata in modo planetario. Questa mediazione, che in linguaggio hegeliano potremmo anche chiamare “determinazione” (Bestimmung), è appunto la comunità. Astrattamente parlando, l’individuo libero inteso come unità minima di resistenza al potere non ha bisogno della comunità per rapportarsi all’universale. In concreto, invece, il passaggio per la comunità gli è essenziale, altrimenti non potrebbe neppure pensarsi come individuo. Infatti, ogni individuo, per pensarsi come tale, ha bisogno di pensarsi per differenza rispetto ad altri individui, e questo può farlo solo nella prossimità comunitaria. La comunità è allora il luogo dove si incontrano la libertà e la soli-

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darietà. Una libertà senza solidarietà è una illusione narcisistica destinata a sparire quando l’umana fragilità materiale costringe anche l’individuo più riluttante a relazionarsi con i suoi simili. Una solidarietà senza libertà è una coazione umanitaria estrinseca e di fatto ricade nella precedentemente ricordata tipologia dell’organizzazione politica dell’atomismo. Solidarietà e libertà sono entrambe necessarie. Questa è la logica conclusione di ogni elogio del comunitarismo.

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Nota bibliografica

Non cito qui la mia abbondante produzione saggistica sul marxismo e la filosofia, ma mi limito a ricordare che il nesso tra individualismo e comunitarismo è al centro della mia attenzione da molto tempo, e non si tratta quindi di una “conversione” improvvisa. Ho pubblicato nel 1992 un saggio in cui criticavo a fondo le concezioni organicistiche e collettivistiche della soggettività nella tradizione marxista, opponendo ad esse la filosofia originale di Marx basata sulla “libera individualità” (cfr. L’assalto al cielo. Saggio su marxismo e individualismo, Vangelista, Milano). In genere, le derive di pentimento del marxismo finiscono nell’individualismo neoliberale, ma non è stato questo il mio caso. Nel 1998 ho pubblicato infatti un saggio che rappresenta in primo tentativo di sintesi (cfr. Individui liberati, comunità solidali, Editrice CRT, Pistoia). Dal 2001 ho cominciato a collaborare alla rivista «Comunitarismo». Nel 2004, è uscita una prima raccolta di contributi dedicati specificamente al comunitarismo (cfr. Comunitarismo, Filosofia, Politica, Noctua editrice, Molfetta). A mano a mano che procedevo nella ricerca, mi rendevo sempre più conto che esisteva un nesso profondo fra la libera individualità e la sua azione dentro una comunità solidale. Questo nesso non è immediatamente visibile, perché siamo condizionati, anche se non sempre ce ne rendiamo conto, a pensare in termini dicotomici e oppositivi fra Individuo e Comunità. O c’è l’uno, o c’è l’altra. Non è per nulla

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facile vederne la connessione. Le persone semplici spesso vivono questa connessione senza neppure pensarci e dandola per scontata, laddove l’intellettuale è stato “programmato” dalla sua educazione a pensarsi come “originario”. Nella tradizione marxista, pochissimi si sono occupati di comunitarismo in modo sistematico, perché è prevalsa l’idea che il comunitarismo fosse solo una risposta di “destra” al classismo. Finiti i miti classisti, si è allora imboccata la strada dell’individualismo neoliberale. Un’eccezione è indubbiamente Jacques Camatte (cfr. Comunità e divenire, Colibrì, Milano 2000). Le vicende esemplari che hanno portato Camatte, cresciuto nel bordighismo, a rovesciare di 180° la classe universale in comunità universale sono interessanti, perché solo chi ha consumato fino in fondo e senza mediazioni l’illusione sociologica classista pura può attingere l’idea di comunità della specie. I particolari di questa dialettica “eretica” esulano però da questo studio. La maggior parte della tradizione filosofica marxista è del tutto inutilizzabile, poiché né il materialismo dialettico, né lo storicismo progressistico hanno messo al centro l’uomo antropologicamente definito, e senza mettere al centro l’uomo la stessa comunità diventa invisibile, mentre la concezione economicistica del progresso la vede come un fastidioso residuo precapitalistico. Fra le poche eccezioni, ne cito due, parziali ma importanti: K. Kosìk, Dialettica del concreto, Bompiani, Milano 1965, e soprattutto G. Lukács, Ontologia dell’Essere Sociale, Editori Riuniti, Roma 1976 e 1981. Comincia ad esistere in lingua italiana una bibliografia di riferimento sul comunitarismo, in particolare su quello anglosassone. Qui cito: Aa. Vv., Comunitarismo e liberalismo, a cura di A. Fantoni, Editori Riuniti, Roma 2000; V. Pazé, Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2002; Id., Il comunitarismo, Laterza, Roma-Bari 2004. Da questa bibliografia appare chiaro che la corrente del comunitarismo accademico (quasi completamente statunitense) lo definisce e lo tematizza come un “correttivo” solidaristico al modello neoliberale, mai seriamente messo in discussione. Non è questa l’intenzione del mio

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saggio. Vi sono peraltro anche questioni linguistiche, perché, ad esempio, l’equivalente francofono del comunitarismo anglosassone non è un pressoché inesistente comunitarismo francese, ma l’anti-utilitarismo (Latouche, Caillé). A mio avviso, un riavvicinamento è solo questione di tempo. Il fatto è che il comunitarismo anglosassone è talvolta ispirato da una versione solidaristica dell’utilitarismo, e questo comporta un’interruzione della comunicazione filosofica con le correnti dette “continentali”. Non esiste un equivalente comunitarista dei testi fondatori di altre correnti politiche. Il saggio che più vi si avvicina è quello di A. MacIntyre, Dopo la virtù (Feltrinelli, Milano 1988). Una discussione specifica su MacIntyre potrebbe essere interessante. Peccato che MacIntyre non dimostri di conoscere Marx e il marxismo a sufficienza, laddove la sua conoscenza di Aristotele appare ottima. Ringrazio qui Adriano Scianca per avermi inviato a suo tempo la sua ottima tesi di laurea su MacIntyre discussa all’università di Roma. Ho anche imparato molto dagli studi sul comunitarismo pubblicati da Filippo Ronchi sulla rivista “Comunitarismo”. L’esame storico e filosofico del liberalismo e della democrazia non era l’oggetto di questo mio studio, ma non potevo nemmeno evitare di esprimermi al riguardo. Primo: il comunitarismo non respinge la valorizzazione dell’individuo, ma ritiene di essere un’alternativa migliore al modo in cui questa valorizzazione è sostenuta e praticata dal liberalismo. Secondo: se il comunitarismo non vuole delegittimarsi, deve accettare non solo il metodo democratico, ma anche la filosofia che sta sotto a questo metodo. Al contempo, il comunitarismo, almeno nella versione che io difendo, non accetta e non può accettare la tesi che lega strettamente democrazia e relativismo, o più esattamente democrazia politica e relativismo filosofico (cfr. H. Kelsen, I fondamenti della democrazia, il Mulino, Bologna 1966, e R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Roma-Bari 2003). Questa è la ragione per cui ho ritenuto di far diventare il quarto capitolo il più importante (almeno soggettivamente) di questo saggio. In esso è tematizzato lo stretto rapporto fra verità e comunità, in polemica contro le

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due concezioni, che si vivono come opposte e che invece per me sono complementari, della verità come approfondimento di una rivelazione divina originaria e della verità come rispecchiamento scientifico sempre più progredito e soddisfacente. Consiglio al lettore desideroso di saperne di più i seguenti studi sul liberalismo e la democrazia: D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005; A. Rosenberg, Democrazia e socialismo, De Donato, Bari 1971; L. Canfora, La democrazia. Storia di una ideologia, Laterza, Roma-Bari 2004. Il punto essenziale, dai greci ad oggi, resta sempre quello di separare la libertà e la democrazia dal potere della ricchezza che le stravolge. Chi non coglie questo punto, non può essere un vero interlocutore, e si deve allora salutarlo cortesemente e lasciarlo andare per la sua strada. Per cominciare, si vedano R. Putnam, Capitale sociale e individualismo, il Mulino, Bologna 2004, e K. Phillips, Ricchezza e democrazia. Una storia politica del capitalismo americano, Garzanti, Milano 2005. Segnalo anche un testo chiaro, facile e convergente con le mie tesi: C. Taylor, Hegel e la società moderna, il Mulino, Bologna 1984. Preferirei tematizzare un bel comunitarismo ideale in cui tutto va al posto giusto, ma mi sembrerebbe di ingannare il lettore disegnando una città utopica mentre il mondo reale viene sconvolto. Per questo, in un’ottica comunitarista non si può fare a meno degli strumenti offertici dalla geopolitica. Si veda allora H. de Grossouvre, Parigi Berlino Mosca. Geopolitica dell’indipendenza europea, Fazi, Roma 2004, ed anche il mio Filosofia e geopolitica, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2005. Il comunitarismo è certamente pure una critica dell’individualismo. Per una prima impostazione della questione, si veda M. Bontempelli, Filosofia e realtà, Editrice CRT, Pistoia 2000. Il massimo autore contemporaneo delle patologie dell’individualismo resta però Christopher Lasch, di cui si veda, per cominciare, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 1981, e L’io minimo, Feltrinelli, Milano 1985. Lasch (a mio avviso, senza essersene reso

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pienamente conto, data la sua scarsa conoscenza della filosofia europea, dovuta al pittoresco provincialismo universitario americano) è colui che ha preso nel modo migliore il “testimone” della Scuola di Francoforte e del migliore marxismo critico, disegnando una vera e propria antropologia del moderno capitalismo, che coniuga arroganza dell’imprenditore, minimalismo antropologico, alienazione e destoricizzazione. Ho dato un certo spazio (forse eccessivo) nel quinto capitolo ai cosiddetti “bilanci storici” del secolo appena trascorso e alle interpretazioni del momento presente. L’ho fatto però a ragion veduta. Il presupposto per impostare il tema del comunitarismo oggi è il congedo da questo chiacchiericcio pseudo-epocale. Ho scelto la più discutibile di queste interpretazioni (cfr. M. Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi, Torino 2001) perché, a mio avviso, solo toccando il fondo dell’assurdità si può iniziare a risalire in superficie. Non ritengo però, in tutta onestà, che vi sia molto da imparare neppure dalle altre tre interpretazioni ricordate (e cioè: E. Nolte, Nazionalsocialismo e bolscevismo, Sansoni, Firenze 1988; F. Furet, Il passato di una illusione, Mondadori, Milano 1995; S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000). Se però a Revelli ho concesso uno spazio particolare, ciò è dovuto ad un fatto tutto e solo italiano, vale a dire la penosa presenza dell’operaismo come concezione soggettivistica e irrazionalistica del mondo. Essa è diventata oggi anche oggetto di esportazione “globalizzata” (cfr. di M. Hardt - A. Negri, Impero e Moltitudine, Rizzoli, Milano 2002 e 2004). Costoro rovesciano in modo non dialettico (odiano infatti Hegel, e riducono la dialettica a strumento del potere, laddove si tratta in realtà dell’esatto contrario) la società capitalistica, e chiamano la sua ombra invertita “comunismo”. Non posso fare a meno di pensare che il loro indubbio successo internazionale sia la prova che il mondo culturale ha perso completamente la bussola e l’orientamento. La storia ci offre molti esempi di “successi” di questo tipo, fino a quello di Achille Loria nei primi tempi del marxismo italiano.

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Un altro tema di cruciale importanza è il rovesciamento del millenarismo comunista in interventismo pseudouniversalistico per esportare i cosiddetti “diritti umani”. Su questo, si veda, per cominciare, D. Zolo, Chi dice umanità, Einaudi, Torino 2000 e A de Benoist, Oltre i diritti dell’uomo, Settimo Sigillo, Roma 2004. Solo una forma di comunitarismo sovrano, e non la sua caricatura artificiale, può veramente vaccinare da questo genere di colonialismo occidentalistico particolarmente odioso. Il nazionalismo espansionistico, colonialistico e razzistico è cattivo e da evitare in tutti i modi, ma l’attuale campagna ideologica contro la nazione in nome della globalizzazione multiculturale è da denunciare fino in fondo. La nazione è invece una comunità legittima. Nel suo periodo “aureo”, il marxismo lo capiva benissimo, e solo in un secondo momento si è affermata l’apologia dello sradicamento (cfr. R. Monteleone, Marxismo, internazionalismo, questione nazionale, Loescher, Torino 1982). Credo di aver mostrato in questo libro che tutte le forme novecentesche di tipo nazionalsocialista e fascista hanno rappresentato uno stravolgimento che ha sfigurato l’idea comunitaria. Dal nazionalsocialismo non ci si congeda semplicemente ingiuriandolo in modo sacrale e “hitlerizzando” simbolicamente il nemico, ma mettendone a nudo le radici patologiche, passando dagli esorcismi antifascisti a una spiegazione eziologica del fascismo stesso. In proposito, la tentazione razzista, che era in realtà una tentazione eugenetica figlia di un immaginario salutistico, era molto diffusa nel Novecento. Per la sua variante scandinava, si veda il saggio di R. De Caro in «Hortus Musicus», n. 24, ottobre-dicembre 2005. Per la sua variante nazionalsocialista, si veda invece P. Burrin, L’antisemitismo nazista, Bollati Boringhieri, Torino 2004. Che cosa significhi oggi l’uso strumentale dell’antifascismo per legittimare la distruzione del diritto internazionale si può capire leggendo lo sconcertante saggio di F. Berman, Terrore e liberalismo. Perché la guerra al fondamentalismo è una guerra antifascista, Einaudi, Torino 2004. Se allora me la sono presa con l’antifascismo politicamente corretto, non è certo per un giudizio storico

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negativo retroattivo su di esso (al contrario, resto un antifascista culturale e filosofico integrale), ma per l’uso stravolto che oggi ne viene fatto. La stessa cosa avviene per le accuse di antisemitismo, rivolte in modo terroristico ai critici radicali del sionismo. L’effetto è quello di impedire di discutere razionalmente di “questione ebraica”, cosa che fecero ai loro tempi Spinoza e Marx, e che oggi suscita immediatamente negli sciocchi l’accusa di cripto-nazismo. Si veda per questo A. Léon, Il marxismo e la questione ebraica, Samonà e Savelli, Roma 1972.

Indice

Comunità e comunismo nell’ultimo Preve Introduzione di Mimmo Porcaro

p. 9

  Manifesto del comunismo comunitario I.  Introduzione. Una sola noce nel sacco non fa rumore

p. 41

II.  La Scuola di Marx. Il problema dei rapporti fra Comunismo e Comunitarismo

p. 59

III.  Verso una definizione condivisa di comunitarismo. Il comunitarismo come etica e come politica

p. 83

IV.  Il comunitarismo come autocritica razionale della tribù occidentale. Il Politicamente Corretto come formulazione ideologica dominante dell’attuale tribù occidentale

p. 115

V.  Il comunitarismo come bilancio, ripensamento e riscrittura radicale dell’intera storia del pensiero occidentale

p. 157

VI.  Il comunitarismo come bilancio, ripensamento e riscrittura radicale delle cause della sconfitta del comunismo storico novecentesco (1917-1991)

p. 295

  Elogio del comunitarismo Introduzione. L’ambivalenza strutturale del comunitarismo

p. 405

I.  Il Mondo attuale. L’epoca delle guerre per il Nuovo Ordine Mondiale

p. 413

II.  Controstoria critica del liberalismo e della democrazia

p. 431

III.  Controstoria critica del marxismo e del comunismo

p. 451

IV.  La tradizione del comunitarismo nel pensiero occidentale. Aristotele, Hegel, Marx

p. 469

V.  L’ingombrante passato del comunitarismo: il fascismo e il nazionalsocialismo

p. 555

VI.  Verso una ridefinizione universalistica e processuale del comunitarismo

p. 585

Nota bibliografica

p. 619

Opere di Costanzo Preve Collana diretta da Alessandro Monchietto

1.  Il nemico principale. 2.  Manifesto del comunismo comunitario – Elogio del comunitarismo.

Alessandro Monchietto (1985), dottorando in Pedagogia speciale presso l’Università di Torino, è stato allievo di Costanzo Preve. Si occupa di filosofia sociale, inclusione scolastica ed esercizio dei diritti di cittadinanza.

Opere di Costanzo Preve Volume II Collana a cura di Alessandro Monchietto

La sinistra si è sempre presentata, nella storia, come l’unica erede legittima dell’illuminismo, come il «partito del progresso, della scienza, della ragione» e, a questo titolo, come l’avanguardia più decisa di tutte le modernizzazioni concepibili, di carattere tecnologico, politico o morale. La sensibilità socialista, invece, ha origini diverse e più complesse. Si forma solo all’inizio del XIX secolo a partire dalle molteplici lotte degli operai inglesi, mossi dal desiderio di proteggere – contro gli effetti disumanizzanti del liberalismo industriale – un certo numero di forme di esistenza comunitaria. Il socialismo operaio si configura sin dal principio come un rapporto eminentemente critico verso il côté illuminista e soprattutto verso il suo individualismo devastante, e rappresenta la traduzione in idee filosofiche delle prime proteste popolari contro i disastrosi effetti, sugli uomini e sulla natura, dell'industrializzazione liberale. Interprete originale del pensiero di Marx, in quest’opera Preve ne enfatizza gli elementi di continuità con il pensiero greco e con l’idealismo classico tedesco, rintracciando nella storia della filosofia occidentale un filone di lungo periodo caratterizzato dalla ricerca di pratiche di ricomposizione comunitaria, a fronte del disfacimento individualistico e crematistico del mondo.

€ 17,00

ISBN ebook 9788855293297