L'uomo e le macchine. Per un'antropologia della tecnica 9788860422705, 8860422701

I saggi raccolti in L'uomo e le macchine rappresentano il tentativo di recuperare la dimensione umana delle macchin

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L'uomo e le macchine. Per un'antropologia della tecnica
 9788860422705, 8860422701

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L’uomo e le macchine Per un’antropologia della tecnica a cura di Nicola Russo

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Collana di elevato valore culturale Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, L. 5 agosto 1981, n. 416 art. 34 Stampato con il contributo della Regione Campania, L.R. n. 5 del 28/03/02

2007 © Alfredo Guida Editore Napoli - Via Portalba, 19 www.guidaeditori.it [email protected] Il sistema di qualità della casa editrice è certificato ISO 9001/2000

ISBN 978-88-6042-270-5

L’Editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore al 15% del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all’Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’ingegno (AIDRO). Corso di Porta Romana, 108 - 20122 Milano - [email protected]

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Prefazione

I saggi raccolti in questo volume sono, per la maggior parte, il primo frutto della collaborazione di un gruppo di giovani studiosi e ricercatori della “Federico II”, che è da alcuni anni impegnato nel tracciare le linee di una nuova sintesi delle riflessioni filosofiche sulla tecnica e sull’uomo, riattualizzando e riconfigurando tradizioni di pensiero europee – soprattutto quelle tedesca e francese – che non hanno in genere goduto di particolare attenzione nel contesto italiano, entro il quale, al di là di qualche significativa eccezione, una “filosofia della tecnica” integralmente articolata non ha trovato espressione. Comprendere a fondo le ragioni di questa disattenzione o addirittura impermeabilità è certo molto complesso: qui si può solo ipotizzare che abbiano a che fare, almeno in parte e per dirla molto all’ingrosso, con l’eccessiva dicotomizzazione che si è data, entro la considerazione filosofica dell’umano, tra l’approccio storico-materiale e quello storico-culturale, dicotomizzazione che ha fatalmente spinto ai margini le impostazioni irriducibili all’alternativa, come appunto la filosofia della tecnica e l’antropologia filosofica. Una spiegazione di questo tipo, volutamente generica e vaga per

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poter essere abbastanza ampia da comprendere in sé una grande varietà di posizioni differenti, più che per il suo limitato valore storiografico è qui utile in vista di una determinazione, ancora una volta ampia, di quanto questo nostro gruppo napoletano si propone, mettendo a frutto la capacità di penetrazione storica e critica degli strumenti teorici che eredita dalla sua tradizione nel confronto con un ambito tanto vasto e complesso come è quello di una filosofia dell’uomo tecnico. “Antropologia della tecnica” è la formula sintetica che si è scelta – non ignorando certo quanto di convenzionale, incompleto e provvisorio ha in sé – per indicare un’impostazione al cui fondo è la considerazione che non si dà una comprensione adeguata della dimensione culturale a prescindere dall’analisi di quella tecnico-materiale e viceversa, ove nessuna delle due può essere integralmente intesa come oggettivazione o proiezione dell’altra, essendo di fatto due facce della stessa medaglia. L’antropologia, insomma, è sempre anche “tecnologia” – tanto più, quanto più si comprende l’unità originaria, o se non altro l’estrema prossimità durante le fasi di ominazione in cui presero forma, di tecnica, arte e rito. Questo riferimento al concetto di “ominazione” non intende in alcun modo restringere il discorso ad uno stadio, che si ritenga determinato e concluso e che grosso modo coinciderebbe con il passaggio dal paleolitico al neolitico, durante il quale l’uomo avrebbe acquisito i tratti fondamentali – i cosiddetti universali antropologici – e tendenzialmente astorici che lo qualificano come questo ente determinato che ognuno di noi è. L’ominazione, infatti, intesa nel senso più vasto e al tempo stesso più denso, non è solo un momento antecedente la stessa preistoria, ma è anzi il significato profondo di tutta la storia dell’uomo, che è costantemente la storia del divenire uomini, storia rispetto a cui proprio gli ultimi secoli, e in particolare proprio le nuove forme che in essi assumono le determinazioni tecniche del vivere umano, hanno mostrato indizi molto consistenti di una nuova accelerazione in direzione di un mutamento, anche radicale, di cui è ancora difficile e forse impossibile farsi un’immagine chiara. La consapevolezza di vivere ai margini di un rivolgimento di dimensioni antropologiche e di portata imprevedibile emerge in tutta la sua chiarezza per la prima volta proprio nell’ambito del pensiero filo-

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sofico, nella duplice caratterizzazione che Nietzsche, a seconda della prospettiva da cui guarda il fenomeno, dà di questa soglia: il «nichilismo» o il «meriggio dell’umanità». Ed è proprio in strettissima relazione al tema del nichilismo, che la «questione della tecnica» assume la centralità che ha nel percorso heideggeriano, per citare solo due dei momenti cruciali intorno a cui, o contro cui, si sono per lo più articolate le riflessioni novecentesche sull’uomo e la tecnica. Nietzsche stesso, d’altro canto, aveva già scritto nell’aforisma 278 de Il viandante e la sua ombra (Umano troppo umano II) che «la stampa, la macchina, la ferrovia e il telegrafo sono premesse da cui nessuno ha ancora osato trarre la conclusione che se ne avrà fra mille anni». Il suo percorso doveva però portarlo a trascurare questo spunto, a favore di un’impostazione entro la quale pose le sue domande – e osò le sue risposte – fondamentali nei termini della genealogia della morale e quindi perlopiù in riferimento alla dimensione sociale e psicofisiologica dell’ominazione, piuttosto che a quella tecnica. Secondo varie modalità e per vie diverse, è questo un tratto comune alla riflessione filosofica, che, anche laddove abbia acquisito la consapevolezza della centralità della storia della tecnica per la storia dell’ominazione, si è perlopiù limitata a configurare le sole strutture generali della relazione, sulla base di ipotesi e assunzioni più o meno condizionate dal contesto teorico o ideologico entro cui nascevano, finendo così quasi sempre per esaurire il discorso su di un piano universalmente antropologico o di storia universale, in riferimento al quale era poi sempre agevole operare una traduzione, e neutralizzazione teorica, della tecnica in altri termini: economici, psicosociali, weltanschaulich, sociologici, politici e così via. Non fanno eccezione né Marx, cui pure dobbiamo intuizioni essenziali sullo statuto delle macchine, né lo stesso Gehlen, che a dispetto di quanto pur riconosce con chiarezza sul significato antropologico della tecnica, non riesce ad operare rispetto al suo dato ciò che pure gli era riuscito rispetto alla paleontologia, alla fisiologia e all’antropologia culturale. È invece in contesti non immediatamente filosofici, penso innanzitutto alla grandiosa opera di Leroi-Gourhan, che la storia materiale della tecnica viene presa approfonditamente in considerazione rispetto al suo significato culturale, storico e ovviamente antropologi-

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co, ma solo entro lo spazio ristretto di discipline specializzate, che nel momento in cui provano orizzonti più ampi fanno perlopiù i conti con i propri limiti strutturali. È tale soprattutto il caso in cui sia “il proprio tempo” ciò di cui si cerca di rendere ragione, con risultati che, mutatis mutandis, ricordano molto il malriuscito ibrido con la cui immagine, nella prefazione alla Genealogia della morale, Nietzsche si prendeva gioco dei genealogisti alla maniera inglese, nelle cui ipotesi «la bestia darwiniana e la modernissima modesta creaturina morale che “non morde più” si danno garbatamente la mano». Una metafora nella quale è adombrato quel che egli riteneva un principio fondamentale di ogni genealogia, e ossia che l’origine e lo scopo, l’origine e il significato non coincidono, principio che è poi cruciale per comprendere in che senso l’antropologia debba essere storica, anche l’antropologia filosofica, così come la storia, affrontata con intenzioni filosofiche, non possa evitare di confrontarsi e talora confondersi con l’antropologia. Ogni indagine antropologica, infatti, se priva di senso storico non può che generare ibridi generalmente poco vitali, così come una storia che non guardi al processo di ominazione che la sostanzia non ha alcun significato propriamente filosofico. Tutto ciò, riportato nell’ambito di quanto qui direttamente interessa, è solo un piccolo cenno in direzione del senso in cui si vuole intendere l’“antropologia della tecnica”, ossia come disciplina strettamente filosofica che, per parafrasare ancora il Nietzsche della Genealogia della morale, mira a comprendere qualcosa di quel che è rimasto della «modernissima modesta creaturina morale» – che nel secolo e mezzo intercorso tra questa sua definizione e oggi si è dimostrata peggiore di qualsiasi «bestia darwiniana» – non a partire da ipotesi su ciò che è generalmente umano o da assunzioni su ciò che è universalmente storico, ma guardando «il grigio, il documentato, l’effettivamente verificabile, l’effettivamente esistito, insomma tutta la lunga, difficilmente decifrabile, scrittura geroglifica del passato tecnico dell’uomo». In conclusione, a integrazione di quanto solamente accennato all’inizio, va menzionato che tra i saggi che compongono l’antologia ne sono stati accolti due provenienti dall’ambito accademico tedesco – l’uno, quello di Joachim Fischer (uno degli animatori dell’Istituto di

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Sociologia della Technische Universität di Dresda, diretto da un allievo di Gehlen: il prof. Karl-Siegbert Rehberg) di ispirazione plessneriana e quindi antropologico-filosofica (teso ad approntare una cornice anzitutto epistemologica entro la quale coltivare un approccio al tema antropologico finalmente “nuovo”, scevro, cioè, da retaggi e ipoteche dualistiche); l’altro, di Bernhard Irrgang, titolare della cattedra di Filosofia della Tecnica presso lo stesso ateneo, che è un chiaro esempio della tendenza sociologizzante della filosofia della tecnica tedesca contemporanea –, saggi che rappresentano tradizioni di pensiero molto significative in vista del progetto di una rinnovata antropologia della tecnica, oltre ad essere un segno tangibile di relazioni di collaborazione e amicizia. Napoli, 01/02/2007 Nicola Russo

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Il contributo della teoria delle macchine alle scienze della natura e dell’uomo Nicola Russo

Mi propongo qui di presentare, con una certa generalità, alcune linee di una ricerca più ampia, alla quale vado lavorando da qualche tempo, intorno al significato culturale e filosofico della storia delle macchine. In particolare, mi limiterò all’articolazione della tesi fondamentale sintetizzata nel titolo: il contributo della teoria delle macchine alle scienze della natura e dell’uomo. Come si vede, ho usato l’espressione “teoria delle macchine” e non “meccanica”, né “tecnologia”, e questo per una serie di ragioni che già appartengono alla tesi: come intendo mostrare meglio, infatti, nella meccanica come branca della fisica, che ha origine con i libri archimedei sulle macchine semplici1, si impone progressivamente a partire dall’età Soprattutto i due volumi del Perˆ ™pip ûdwn „sorropiÒn ¡ k ûntra bar Òn ™pip ûdwn, noti come T£ mhcanik£ (che possono considerarsi come il fondamento della statica), che, giusta la testimonianza dello stesso Archimede, dovevano essere parte di un più ampio e perduto Stoiceéa t Òn mhcanikÒn. Notevoli anche il Perˆ ˜l…kwn e ancor più gli studi di idrostatica Perˆ Ñcoumûnwn. Di un certo interesse pure il Perˆ Ødrauliko„ ærolog…ou e T£ katoptrik£. Un’utilissima e molto particolareggiata monografia sulle opere di Archimede è in: E.J. DIJKSTERHUIS, Archimedes, New York 1957. 1

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moderna un concetto parziale di macchina, la cui assunzione pregiudica sin dall’inizio la possibilità di un’analisi precisa della relazione tra la considerazione teorica delle macchine e lo sviluppo della scienza moderna. “Tecnologia”, d’altro canto, è di per sé parola troppo generale, mentre, intesa strettamente come “meccanica ingegneristica”, rimane entro l’ambito dell’interpretazione moderna della tecnica come scienza applicata, un’interpretazione che proprio la considerazione del contributo positivo della teoria delle macchine alla scienza della natura può in qualche misura capovolgere, evidenziando come, almeno in certi momenti storicamente cruciali, sia stata la scienza una teoria della tecnica, piuttosto che la tecnica una pratica della scienza. Con “teoria delle macchine” intendo dunque prima di tutto lo studio teorico di apparati meccanici, uno studio che ha per lo più di mira questioni di carattere tecnico, affrontate con procedimenti prevalentemente geometrici nell’antichità e poi progressivamente più matematici. Da questa fusione tra la logica rigorosa di scienze astratte, come geometria e matematica, e questioni meccaniche nasce e si sviluppa la fisica che possiamo dire terrestre, poiché per l’astronomia il discorso è in qualche modo differente2. Il primo atto di questa impresa spirituale, come di molte altre, è greco, ma significativamente non è la Grecia classica, bensì quella alessandrina a inaugurarlo: infatti, è la grande espansione politica e culturale dell’ellenismo seguente alla spedizione di Alessandro Ma2 Teniamo comunque presente che anche la geometria ha presumibilmente origini in questioni di carattere pratico, come l’esigenza della rimisurazione periodica dei lotti di terreno dopo le inondazioni del Nilo (al riguardo, cfr. per esempio M. SERRES, Il contratto naturale, tr. it. di A. Serra, Milano 1991, pp. 71 ss.). Così come l’astronomia era legata al calcolo dei calendari e alla navigazione. Soprattutto in quest’ultimo caso, però, la relazione con il mondo della prassi è più indiretta e, in particolare, la conoscenza di fenomeni inaccessibili praticamente e non influenzabili non può facilitarsi tramite il riferimento a macchine esemplari. La famosa macchina di Anticitera, per esempio, presuppone una raffinata astronomia e non ha svolto nessun ruolo nella sua formazione. In un certo senso, dunque, l’astronomia può valere come paradigma della scienza teorica, contemplativa, ed in effetti così fu stimata dagli antichi, che distinsero sempre molto nettamente l’ambito fenomenico celeste da quello terrestre: di una “meccanica astronomica” è possibile parlare solo dopo Copernico.

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gno che occasiona l’incontro sistematico della già secolare tradizione greca di pensiero astratto – filosofico, geometrico e matematico – con il mondo tecnico più evoluto delle civiltà orientali, la Persia e ancor più l’Egitto3. Conosciamo tutti, la fondamentale importanza che ebbe la politica culturale per i Tolomei, che si trovarono a regnare su una terra ove gli ingegneri venuti dalla Grecia potevano confrontarsi con la grandiosità dell’architettura e gli straordinari progressi dell’idraulica4, cui non corrispondeva però un’altrettanto raffinata analisi razionale. L’esempio principe di questa politica è la fondazione della biblioteca di Alessandria, che ebbe tra i suoi direttori più illustri quell’Eratostene (cui dobbiamo la prima misura attendibile del meridiano terrestre) al quale Archimede inviava una lettera di straordinario interesse intorno al «metodo che possa permetterti di aver confidenza con dati matematici grazie a nozioni meccaniche»5. Questo cosiddetto “metodo meccanico” di Archimede, che consiste nella configu3 Seguo qui l’illuminante e convincente interpretazione di Lucio Russo circa la nascita dell’antica scienza della natura, un’interpretazione la cui idea di fondo mi sembra applicabile anche ad altre situazioni storiche (Cfr. L. RUSSO, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Milano 19996, p. 41). 4 Sulla rilevanza dell’idraulica per la tecnica antica, è significativa la circostanza che tra le innovazioni alessandrine in Egitto vi fu l’introduzione di una macchina per il sollevamento dell’acqua nota oggi con il nome di sakiyeh e che allora veniva denominata semplicemente mhcan», ossia macchina per antonomasia (cfr. ivi, p. 131). 5 Perˆ t Òn mhcanik Òn qewrhm£twn prÕj ’Eratosqûnh œfodoj. Il testo di questa lettera è stato rinvenuto, disgraziatamente, solo nel 1906, il che ha certamente contribuito al diffondersi del pregiudizio circa la predilezione archimedea della contemplazione pura, rispetto agli studi di meccanica, considerati come mera parerga, pregiudizio che ha le sue origini in Plutarco, nella Vita di Marcello (ossia del condottiero che permise il saccheggio di Siracusa, provocando la morte di Archimede), e non trova altrimenti alcuna giustificazione (cfr., al riguardo, le ottime osservazioni di G. CAMBIANO, Alle origini della meccanica: Archimede e Archita, in: «Arachnion. A Journal of Ancient Literature and History on the Web», n. 2.1, Maj 1996, a cura dell’Università degli Studi di Torino). Riguardo al rapporto con Eratostene, è notevole che questi progettò uno strumento per la calibrazione delle catapulte (mesolabio), che molto deve al trattato archimedeo Sulla sfera e sul cilindro, così come ai tentativi di Eudosso e Archita di risoluzione meccanica del problema, apparentemente schiettamente geometrico, della duplicazione del cubo (tentativi che Plutarco non mancava di stigmatizzare come corruzione della geometria, rimandando a Platone, Repubblica, 527 a-b).

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razione di problemi geometrici appunto in termini meccanici ed in cui è preannunciato il calcolo infinitesimale, è esemplare del ruolo decisivo svolto dalla teoria delle macchine nel primo sviluppo della fisica scientifica antica. In effetti, i capisaldi della meccanica statica, che Archimede ha allo stesso tempo fondato e nella sostanza concluso, derivano dall’analisi del problema tecnico del “vantaggio meccanico” delle macchine per il sollevamento di pesi6. Questo legame, però, non è tipico del solo mondo antico: in effetti, così come la statica alessandrina era stata tenuta a battesimo da argani e catapulte, l’altra branca della meccanica, la dinamica moderna, nascerà sotto la stella di orologi e cannoni. Il problema centrale, in questo caso, non è relativo al sollevamento o all’equilibrio dei gravi, ma quello relativo alla loro “traiettoria”, siano essi proiettili o pendoli7. E ancora, è il problema del rendimento della macchina a vapore, all’epoca della I rivoluzione industriale, che porta Sadi Carnot a enunciare i principi fondamentali della termodinamica8. E, passando 6 Analoghe considerazioni possono farsi per i fondamenti dell’idrostatica, dell’ottica, della pneumatica e della chimica alessandrine (cfr. L. RUSSO, cit., pp. 79 ss., 94 ss., 174 ss.). 7 Cfr. E. MACH, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, a cura di A. D’Elia, Torino 1992, pp. 149 ss., che riconosce negli studi di Galilei (ammiratore del «divino» Archimede e continuatore dell’opera di Ipparco) sulla caduta dei gravi e sulle traiettorie dei proiettili, insieme agli studi di Huygens sul pendolo (ivi, pp. 178 ss.), il luogo di fondazione della dinamica. Cfr. anche P. ROSSI, I filosofi e le macchine 1400-1700, Milano 2002, pp. 56 s., che insiste «sull’importanza che molti problemi pratici (come quelli della velocità delle navi, della costruzione dei canali, della balistica, della fabbricazione delle pompe, della ventilazione delle miniere, ecc.) vennero ad assumere rispetto alla nascita e al progredire di una serie di ricerche di carattere teorico (idrostatica e idrodinamica, astronomia, cronometria, dinamica)». Ivi, pp. 122-123, il discorso si concentra su Galileo, nel quale «troviamo per la prima volta storicamente realizzata la convergenza piena tra la tradizione che fa capo agli esperimenti e alla pratica degli artigiani e dei tecnici e la grande tradizione teorica e metodologica della scienza europea. L’approfondimento teorico della meccanica pratica […] e la sua trasformazione in scienza sono opera di Galilei». 8 Cfr., per esempio, quanto si nota in I. PRIGOGINE/I. STENGERS, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, a cura di P.D. Napolitani, Torino 1993, p. 110: «La questione da cui è nata la termodinamica non concerne la natura del calore o la sua azione sui corpi, ma piuttosto l’uso di tale azione. Si tratta di sapere sotto quali condizioni il calore produce energia meccanica, in altre parole quan-

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alla II rivoluzione industriale, è il problema dell’“amplificazione” e del “rumore” nei servomeccanismi e nei circuiti meccanici di controllo e informatici a dare origine alla cibernetica e alla teoria dei sistemi, che dipendono in larga misura, sul piano matematico, dalla formulazione boltzmanniana del principio termodinamico dell’entropia9. Su tali circostanze, e sulle tante altre analoghe che qui non menzioniamo10, non è necessario insistere più di tanto, dal momento che sono ben note e costituiscono un capitolo significativo della storia della scienza. Tanto più notevole, però, è che, nonostante questi fatti siano riconosciuti, il loro studio sia rimasto perlopiù confinato entro una considerazione puramente storiografica, senza evolvere verso una concezione organica e sistematica di filosofia della scienza. Per citare solo due casi esemplari, né Popper, che pure ha assegnato notevole importanza alla tradizione entro la quale si costituisce una nuova teoria scientifica, né Kuhn, che si è interessato proprio ai momenti di crisi di un sistema teorico e ai fattori determinanti la nascita di nuovi paradigmi, hanno preso seriamente in esame il nudo fatto che all’orido può far girare un motore». Ivi, p. 119, leggiamo che per comprendere la natura termodinamicamente «bisogna evocare la fornace ruggente delle macchine a vapore, il ribollire delle trasformazioni in un reattore chimico, il rumore delle macchine industriali che, in meno di un secolo, avevano prodotto effetti incommensurabili con quelli delle macchine semplici, le ispiratrici della scienza classica, mosse soltanto dall’acqua, dal vento e dal lavoro animale od umano». 9 Cfr., per esempio, N. WIENER, Introduzione alla cibernetica. L’uso umano degli esseri umani, tr. it. di D. Persiani, Torino 1976, pp. 15 ss., ove si riconosce l’origine di questa scienza, di cui Wiener è tra i fondatori, dalla tecnica delle comunicazioni. Per una lettura dal punto di vista delle scienze della vita di questo passaggio dalla meccanica alla termodinamica e poi alla cibernetica, mi permetto di rimandare a N. RUSSO, Filosofia ed ecologia, Napoli 2000, pp. 49 ss. 10 Sull’altro binario fondamentale della fisica moderna, quello che ha visto l’incontro-scontro di meccanica e chimica, fino al riassorbimento della chimica nella fisica quantistica, sono problemi relativi alla produzione, accumulazione e conduzione di energia elettrica e alla propagazione e ricezione delle onde elettromagnetiche a stimolare l’elettrodinamica, la teoria corpuscolare delle particelle elementari e così via (a partire da Volta, Faraday e Marconi, molti sono gli inventori coinvolti in questa impresa). Per quanto riguarda la chimica, che lungo tutta la sua storia ha vissuto un difficile rapporto con la fisica, va tenuto presente che essa ha le sue origini nella tecnica metallurgica e una lunga esistenza umbratile nell’alchimia, la tecnica, più o meno spiritualizzata, della trasmutazione dei metalli.

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gine di quasi tutte le branche fondamentali della fisica vi è la soluzione di un problema tecnico11. E anche laddove ciò è stato sottolineato, si è mancato di analizzare le conseguenze di questo fatto, ciò che esso significa e comporta, al di là della sua mera eventualità. In effetti, la tradizione di filosofia della scienza che ha insistito maggiormente sull’elemento empirico, rispetto a quello formale e teorico, tradizione che possiamo far risalire a Bacone, è tornata frequentemente a indicare nelle arti meccaniche una delle fonti della nuova scienza, oltre che lo sbocco naturale della sua applicazione. Ciò è avvenuto, però, entro uno schema sostanzialmente riduttivo, che ha visto nell’esperienza dell’artigiano e del meccanico solo un luogo di reperimento di dati sperimentali altrimenti non immediatamente accessibili in natura, dati osservativi che poi la scienza tratta a modo suo, ossia depurandoli del carattere casuale e volgarmente intuitivo che hanno in questa forma12. 11

Cfr. TH.S. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee della scienza, tr. it. di A. Carugo, Torino 1969, p. 35, che è l’unico luogo della sua opera in cui si ammette che, «poiché le tecniche professionali rendono facilmente accessibili fatti che non avrebbero potuto essere scoperti casualmente, la tecnologia ha spesso giocato un ruolo vitale nella genesi di una nuova scienza». Si comprende, però, che qui il contributo è considerato limitato alla raccolta di dati, di per sé giustamente stigmatizzata come incapace di costituire una teoria scientifica. Di conseguenza, il discorso rimane sul binario della «priorità dei paradigmi» rispetto alla novità delle scoperte e invenzioni (ivi, pp. 65 ss.). 12 L’espressione paradigmatica di questa impostazione all’inizio dell’epoca moderna è probabilmente quella di Daniele Barbaro, nel suo commento a Vitruvio: «Le arti che servono con dignità e grandezza alla commodità et uso dei mortali […] in due modi si possono considerare. Prima come discorreno et con vie ragionevoli trovando vanno le cagioni et le regole dell’operare; da poi come con prontezza di mano s’affaticano in qualche materia esteriore. Di qui nasce che alcune arti hanno più della scienza e altre meno. Ma a conoscer l’arti più degne, questa è la via: che quelle, nelle quali fa bisogno l’arte del numerare la geometria e la mathematica, tutte hanno del grande. Il rimanente senza le dette arti (come dice Platone) è vile et abietto, come cosa nata da semplice immaginazione, fallace coniettura et dal vero abbandonata isperientia» (I dieci libri dell’Architettura di Vitruvio tradotti e commentati da Monsignor Barbaro, in Venetia, per Francesco Marcolini, 1556, p. 7; devo il rimando a P. ROSSI, cit., p. 77). Questa distinzione, che è un vero e proprio topos della filosofia della scienza fino all’illuminismo, trova un’espressione compiuta in Bacone, che distingue «l’esperienza vaga e disordinata», sulla cui base si sono sviluppate le arti meccaniche fino all’e-

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Una simile interpretazione, apparentemente del tutto ragionevole e quasi banale, si regge in realtà su un presupposto fondamentale della scienza moderna, che è invece ricco di implicazioni, ossia l’analogia tra macchina e natura: che ciò che emerge nelle arti meccaniche possa divenire immediatamente oggetto della scienza della natura, infatti, presuppone che la macchina funzioni come la natura e viceversa, concezione questa perlopiù estranea al mondo antico, per noi invece molto familiare13. Nel suo bel libro su I filosofi e le macchine, parlando delle origini della scienza moderna, Paolo Rossi sottolinea l’emergere di una «nuova considerazione del lavoro, della funzione del sapere tecnico, del significato che hanno i processi artificiali di alterazione e trasformazione della natura […]: alcuni dei procedimenti dei quali fanno uso i tecnici e gli artigiani per modificare e alterare la natura giovano alla conoscenza effettiva della realtà naturale, valgono anzi a mostrare – come fu detto in esplicita polemica con le filosofie tradizionali – la natura in movimento». Ovviamente, solo l’occhio dello scienziato è in grado di andare al di là dei «precetti» intorno al «modo di lavorare» e quindi di superare la tecnica come «empirismo artigianale che resta sempre al livello della pratica», potendo così porsi come guida di una tecnica veramente scientifica, che non proceda a tentoni e casualmente, bensì si configuri come applicazione dei principi superiori enunciati dalla scienza razionale14. poca moderna e che è un «labirinto» per colui che vi si affidi senza guida, «dall’esperienza bene ordinata e disposta» dalla scienza, che è in grado di volgersi consapevolmente al vero e all’utile. In base a ciò, le realizzazioni tecniche premoderne sono considerate legate a «occasioni fortunate» e «speculazioni casuali», «opera solo della pazienza dell’uomo» (F. BACONE, Novum Organum, a cura di E. De Mas, Roma-Bari 1992, pp. 92, 94 s.). E anche Galileo, che pure stima come aiuto all’investigazione l’opera degli artigiani, che svela «effetti non solo meravigliosi, ma reconditi ancora e quasi inopinabili», condivide questa impostazione: «L’intender la cagione onde ciò avvenga, supera d’infinito intervallo la semplice notizia auta dalle altrui attestazioni, ed anco da molte replicate esperienze» (G. GALILEI, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, a cura di A. Carugo e L. Geymonat, Torino 1958, pp. 13, 311). 13 Le origini di questa concezione sono contemporanee alla nascita della scienza moderna e trovano un’espressione classica nel celebre incipit de L’uomo di Cartesio (cfr. CARTESIO, Opere, a cura di G. Cantelli, Milano 1986, p. 77). 14 P. ROSSI, cit., pp. 21, 52 ss. («Natura in movimento» è espressione di Boyle, fautore della filosofia sperimentale e fra coloro che più intensamente caldeg-

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Questo modo di vedere, che nelle sue linee fondamentali è già compiutamente sviluppato in Bacone, ha indubbie ragioni e, tuttavia, sottovaluta o ignora fatti che sembrano invece determinanti. Molto schematicamente, possiamo riassumere così il suo argomento: poiché le macchine funzionano come la natura, la fisica può avvalersi della loro testimonianza per studiare le leggi naturali, la cui conoscenza è altresì immediatamente ritraducibile in applicazioni tecniche. Nella filosofia di Bacone il primo enunciato è sviluppato tramite una critica, filologicamente peraltro insufficiente, delle tesi aristoteliche circa la differenza tra fÚsij e t ûcnh15, mentre il secondo è tra le proposigiarono il progetto di una «storia della natura modificata dal lavoro», sulla base della tesi che i procedimenti della tecnica sono più istruttivi dei libri e delle teorie: «La maggior parte dei fenomeni che sorgono nelle arti sono una parte della storia naturale e richiedono pertanto l’attenzione degli scienziati. Questi fenomeni ci mostrano la natura in movimento, quando essa viene distolta dal suo corso ad opera del potere dell’uomo ed è questo lo stato più istruttivo nel quale ci è consentito di scorgerla» (cfr. R. BOYLE, Works, ed. by Th. Birch, London 1744, I, p. 20). Come si vede, pur sulla base dell’assunto che i fenomeni tecnici sono in fondo naturali, in Boyle sopravvive l’idea che per il loro tramite la natura sia sviata dal suo corso normale. 15 In Bacone vi è la critica delle tesi aristoteliche intorno alla t ûcnh come m…mhsij della natura (vedi Fisica, II, 194a, 21-22 e 198a, 15-20) sulla base delle interpretazioni medievali platonizzanti dell’imitatio naturae come cattiva e imperfetta imitazione: per Bacone, l’arte non è la «scimmia» della natura e i suoi prodotti non le sono inferiori. Ma con la sua tesi della m…mhsij, Aristotele intendeva sottolineare un’analogia, piuttosto che una differenza (che vedeva altrove): «Se le cose che sono da natura fossero fatte non solo da natura, ma anche fossero prodotte con la tecnica, sarebbero prodotte in quello stesso modo nel quale esse sono prodotte per natura […]. Se dunque le cose che sono secondo arte sono fatte in vista di un fine, è chiaro che anche le cose che sono secondo natura lo sono. Infatti il rapporto tra ciò che viene dopo e ciò che viene prima opera nello stesso modo in entrambe» (cito dalla tr. it. di L. Ruggiu, Milano 1995, p. 97). A ben vedere, ciò che Bacone oppone alla tradizione presunta aristotelica delle arti come contraffazione nella natura (Ugo di San Vittore parlava di arti adulterinae), non è molto distante dalla tesi autenticamente aristotelica, come conferma un brano del baconiano De Augmentis: «Le cose artificiali non differiscono dalle naturali per la forma o per l’essenza, ma solo per la causa efficiente […], quando le cose sono disposte al conseguimento di un determinato effetto, poco importa che questo venga raggiunto dall’uomo o senza l’uomo». E Aristotele, come è noto, distingueva tra le cose naturali, che hanno in sé il principio del movimento, e quelle tecniche, che l’hanno in altro, nell’¢rcit ûktwn proprio come causa efficiente. In un certo senso, dunque, anche Aristotele avrebbe potuto ammettere la

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zioni più celebri della sua opera: «La scienza e la potenza umana coincidono, perché l’ignoranza della causa preclude l’effetto, e alla natura si comanda solo ubbidendole: quello che nella teoria fa da causa, nell’operazione pratica diviene regola»16. Sulla base di questo schema hanno poi ragionato tutti i pensatori che hanno insistito sul significato della tecnica per lo sviluppo della meccanica scientifica: da un lato essi riconoscono il valore paradigmatico delle macchine, dall’altro stigmatizzano l’occasionalità del progresso tecnico abbandonato a se stesso. Il vero nucleo, però, di questa ambiguità è la precomprensione, che raramente arriva a consapevolezza, dell’essenziale neutralità dell’apporto delle arti meccaniche alla scienza, dovuta alla sovrapposizione funzionale integrale dei termini, che rimangono sullo stesso formula baconiana «ars est homo additus naturae», solo che non avrebbe considerato per niente indifferente questa addizione e, in vista di quanto diremo più avanti, è probabile che avesse ragione. Per l’intera questione, cfr. P. ROSSI, cit., pp. 145-147, ove si conclude esattamente che in Bacone «il prodotto dell’arte, la macchina, serve da modello per concepire e comprendere la natura». 16 F. BACONE, Novum Organum, cit., I, 3, p. 49. E, nella Partis Instaurationis Secundae Delineatio, l’espressione è modificata come segue: «Ciò che nella contemplazione vale come causa, nell’operazione vale come mezzo» (F. BACON, Works, ed. by R.L. Ellis, J. Spedding, D.D. Heath, London 1857-74, 7 voll., III, p. 554). Sulla base di queste affermazioni, Paolo Rossi contesta, a mio parere giustamente, l’accusa di utilitarismo al pensiero di Bacone, notando come per questi la ricerca teorica e l’applicazione pratica non siano che la stessa esperienza configurata in due modi diversi: «Posta di fronte a un certo effetto o a una certa natura, la “contemplazione” muove alla ricerca della causa; partendo appunto dalla causa e usandola come mezzo l’“operazione” cerca di conseguire determinati effetti o di far assumere a qualche corpo quella certa natura. […] A un vero precetto corrisponde in tal modo (nel linguaggio baconiano) un perfetto operare». Conseguentemente, vi è una convergenza tra verità e utilità, senza dipendenza della prima dall’ultima. Nonostante ciò, però, se è vero che in Bacone il vero non è ridotto all’utile, è altrettanto vero che la tesi che ciò che è causa nella natura è regola per la tecnica significa che la verità delle cose è la loro regolarità quantitativamente definibile. Con ciò si è già deciso, come avviene in ogni concezione della verità, sull’essere della natura: esso è manifesto nelle leggi come codificazione delle relazioni costanti tra grandezze fisiche. Se a ciò si aggiunge che la causa naturale, oltre che come regola, è posta immediatamente come mezzo, si comprende che, se non utilitarista, il pensiero di Bacone è quanto meno “tecnico”, nel senso ampio che si può dare a questo termine seguendo l’analisi heideggeriana della riduzione del concetto di causa alla causa efficiens.

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piano di evidenza: se vi è identità tra i prodotti dell’arte e quelli della natura, nella singola macchina non si annuncia mai qualcosa di nuovo ed essenziale, essa è appunto solo un’occasione, fornita da un processo di sviluppo indifferente, per prendere atto di certi fenomeni naturali. Inversamente, la scienza non è affatto neutrale rispetto alla tecnica, potendo fornire una guida consapevole al suo progresso. Corollario di queste tesi è, quindi, che lo sviluppo delle tecniche non abbia una logica inerente, ma sia affidato al caso o alle potenze che riescono a farsene garanti: nell’ottica baconiana, appunto, la razionalità scientifica; in quella marxista, che ha lungamente ragionato sulle condizioni tecniche della struttura dei mezzi di produzione, la dialettica materiale17. Vi è, insomma, un’incapacità a definire il contributo specifico della tecnica, incapacità che mi pare legata paradossalmente proprio ad una concezione antica della scienza come contemplazione del vero; una concezione comune a empiristi e razionalisti, che ha spinto tutta l’epistemologia moderna a focalizzare l’attenzione solo sul rapporto tra conoscenza pura e oggettività della natura, ignorando quello esistente tra scienza e attività pratica volta alla natura. Ed è questo che mi sembra giustificare il fatto che, nonostante sia stato spesso ripetuto l’invito a considerare la storia della tecnologia come condizione per la comprensione dello sviluppo scientifico18, ciò non sia anda17

Sul rifiuto esplicito di una logica sui generis della tecnica, cfr. la voce Technizismus del Philosophisches Wörterbuch, hrsg. von G. Klaus und M. Buhr, Berlin 1974. 18 Ancora Bacone è tra i primi fautori di una storia delle arti, «storia meccanica o sperimentale», che tra le parti che costituiscono la complessiva storia della natura «è la più utile; in quanto essa mostra le cose in movimento e conduce alla pratica più direttamente. Per di più, essa toglie il velo o la maschera delle cose naturali» (BACONE, Novum Organum, cit., p. 316 s.). Sulla stessa linea, procederanno i sostenitori della “filosofia sperimentale”, legati alla Royal Society (cfr. W.E. HOUGHTON, La storia dei mestieri, in: Le radici del pensiero scientifico, a cura di Ph. Wiener e A. Noland, Milano 1971, pp. 368 s.), in particolare Robert Boyle. Anche l’Académie des sciences francese, oltre alla Royal Society, commissionarono ricerche sui procedimenti artigianali, che furono messe da parte dopo la pubblicazione dell’Enciclopedia. L’importanza delle arti meccaniche per la scienza e l’esigenza di una loro storia è tema frequente e vivo in Leibniz e ha riscontro, ovviamente, in Vico. Sul piano storiografico, ha trovato espressione organica nelle tesi di Dilthey sulla scienza moderna, che però mirano più temati-

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to molto al di là della sua prima realizzazione settecentesca nell’Enciclopedia ed abbia raramente superato il piano della curiosità storica e dotta. Anche nelle ricognizioni epistemologiche più lucide, infatti, si è giunti al più alla formulazione di un argomento a favore del carattere tecnico del metodo sperimentale, carattere peraltro inequivocabile19. Come dicevamo, in questo modo di vedere vi è certamente del vero, eppure vi sono almeno due ordini di considerazione che imcamente a delucidare il rapporto tra scienza e metafisica, piuttosto che tra scienza e tecnica (Cfr. W. DILTHEY, Introduzione alle scienze dello spirito, tr. it. di G.A. De Toni, Firenze 1974, pp. 457 s.). Un ultimo caso, molto rilevante e istruttivo, è quello di Mach, che era condotto dai suoi presupposti gnoseologici a concludere la sua storia della meccanica, invitando allo studio delle origini della tecnica, un invito che egli stesso non aveva recepito, poiché la sua opera rimane entro la tradizione della ricostruzione della storia della scienza secondo le sue dinamiche interne, come teoria di enti ideali (Cfr. E. MACH, cit., p. 498). In ogni caso, egli notava che «l’osservazione istintiva e inconsapevole precede sempre quella consapevole, cioè l’indagine scientifica. La prima è nata dal legame che stringe la soddisfazione dei nostri bisogni ai processi naturali» e in essa rivestono grande importanza le «esperienze meccaniche». Anche Mach, però, qualifica queste esperienze prescientifiche come «ciò che è istintivo, imperfetto, ed è stato trovato per caso» (ivi, p. 35), contrapponendo il loro «accumulo» al successivo «ordinamento scientifico delle stesse» (ivi, p. 38; vedi anche pp. 102, 105). A p. 113, ribadita l’importanza della «cultura materiale, in questo caso macchine e strumenti, come pure la trasmissione delle tecniche relative», Mach chiede retoricamente se le teorie alessandrine «non si sarebbero nuovamente imposte all’attenzione di coloro che lavoravano con le macchine, anche se non ne avessero avuto notizia attraverso gli scritti». Questa domanda, a cui a mio avviso bisogna rispondere in termini negativi, dimostra che anche qui è considerata ovvia la neutralità delle macchine e quindi non si prende in considerazione che le condizioni tecniche ereditate dal medioevo erano molto differenti da quelle che si imponevano all’attenzione degli scienziati greci e in effetti diedero origine a teorie differenti (l’apporto della tradizione alessandrina mi sembra più significativo per quanto riguarda lo schema assiomatico-deduttivo dell’espressione del sapere scientifico, di cui i Principia di Newton sono una riproduzione). 19 Cfr. G. BACHELARD, Il nuovo spirito scientifico, a cura di L. Geymonat e P. Redondi, Roma-Bari 1978 e S. LATOUCHE, La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, tr. it. di A. Salsano, Torino 2000. La difesa di Koyré del «pensiero tecnico del senso comune», al contrario, insiste troppo sull’autonomia reciproca tra ragione tecnica e ragione scientifica (cfr. A. KOYRÉ, Du monde de l’à peu prés à l’univers de la précision, in: «Critique», 1948, p. 809).

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pongono una revisione dell’impianto concettuale. In primo luogo, per quanto inconfutabile sia affermare che una macchina funzionante deve sottostare alle leggi di natura, non è immediatamente giustificato concludere da ciò che la natura funziona meccanicamente; e questa, si badi bene, non è tesi esclusiva del meccanicismo, ma in qualche modo la convinzione di fondo di tutta la scienza moderna. In secondo luogo, la pretesa neutralità della macchina, corollario della tesi della sua analogia con la natura, che la qualifica come fenomeno legittimo di un’osservazione scientifica oggettiva (e poi, progressivamente, come fenomeno primario della misurazione), non rende adeguatamente conto delle circostanze storiche (in fondo, perché non rende conto del fatto che la macchina è sempre una circostanza storica). Ciò può essere affermato in diversi sensi: alla considerazione elementare che non è per niente indifferente quale sia la macchina presa in considerazione, se è vero che la statica è legata alle pulegge, la dinamica agli orologi e la termodinamica alle macchine a vapore, vanno subito aggiunte due integrazioni, per non rimanere su un piano di mera fattualità. In primo luogo, bisogna ribadire che in tutte queste circostanze non ci si è limitati a prendere atto di fenomeni “naturali” che emergevano in quelle particolari macchine, ossia esse non sono servite solamente a raccogliere dati da svilupparsi scientificamente, ma al contrario è stata la considerazione teorica del loro significato tecnico, la soluzione dei problemi di ordine pratico ed ingegneristico che si presentavano, a divenire il fondamento del successivo studio scientifico della natura. E ciò va integrato con una considerazione apparentemente solo quantitativa: in ognuno di quei momenti, le macchine paradigmatiche grazie alle quali furono guadagnati i principi di scienze nuove erano storicamente di molto antecedenti, appartenevano spesso addirittura a epoche o culture diverse. Della scienza alessandrina abbiamo già detto, ma anche la meccanica galileiana presuppone il grande sviluppo tecnico avvenuto nel medioevo: mulini a vento, bilancieri, orologi meccanici; mentre non è in grado di servirsi dei dati nuovi emergenti dalle nuove tecniche rinascimentali, come dei fenomeni su cui si basa il funzionamento della bussola o la combustione degli esplosivi, dati che saranno comprensi-

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bili solo tre secoli dopo grazie all’elettromagnetismo e alla termodinamica, e così via. I problemi classici della scienza antica, medievale e moderna, insomma, sono legati ad una struttura tecnica consolidata, che precede la loro formulazione e anzi fornisce i concetti stessi con cui questa formulazione è possibile. Ciò che invece è tecnicamente ancora in divenire – parliamo sempre di quelle innovazioni destinate ad aprire nuovi campi – non è generalmente oggetto possibile di una teoria compiuta, poiché avviene ad un livello di complessità superiore a quello accessibile dalla scienza del tempo. Come si spiega questo dislivello temporale, così in contraddizione con l’idea di una tecnica che applica le nozioni scientifiche, che dovrebbero quindi precederla? Se per l’antichità ci si può servire della scappatoia del caso e dei tempi lunghi, come stanno le cose per la modernità? È certamente vero che in questo periodo l’ingegnere e l’inventore che costruiscono una macchina lo fanno di regola sulla base delle loro conoscenze più o meno vaste della scienza contemporanea, ossia si servono sistematicamente di un supporto scientifico che in altri periodi non esisteva, ma ciò non toglie che per certe categorie di macchine paradigmatiche, ciò che così viene costruito supera quei presupposti e contiene in sé implicitamente tutto un altro campo di conoscenze, che solo la sua realtà rende accessibile e quindi oggetto successivamente di una nuova scienza. Una macchina informatica, per esempio, funziona secondo le sole leggi dell’elettronica, ma è la realizzazione concreta delle leggi della cibernetica, e lo è prima che nasca la cibernetica: non è sulla base delle teorie dell’informazione che la si costruisce, è piuttosto la sua esistenza che rende possibile l’informatica. Cominciamo a intravedere una differenza tra il funzionamento della macchina e la macchina stessa, così come tra il sapere che basta ad approntarne il meccanismo e il sapere ulteriore che è implicito e come incarnato in esso: l’apparato che permette alla macchina di funzionare può essere spesso descritto grazie a leggi meccaniche di livello inferiore rispetto alle nuove leggi che la macchina realizza e, così, rende accessibili all’analisi scientifica. Se le cose almeno in parte stanno così, da dove trae allora spunto la realizzazione di simili macchine? Qual è l’elemento differenziale, che permette loro di anticipare la scienza? Cosa consente alla ra-

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gione inventiva di essere talora superiore a quella sperimentale? Già che ciò avvenga, basta a sfatare il pregiudizio intorno alla mera occasionalità dello sviluppo tecnico a sé, seppure non appaia ancora sufficiente a mettere in mora la tesi dell’analogia tra macchina e natura. L’intuito dell’inventore sarebbe, per così dire, in qualche modo capace di saltare l’articolato procedere della scienza e raggiungere, come inconsapevole, risultati per cui essa non è ancora matura. Ma è già da almeno un secolo che questa mitologia dell’inventore non è più in voga, per quanto in essa ci sia qualcosa di vero, che non è, però, il riferimento ad una sorta di genialità. Per preannunciare ora ciò che potrà essere più chiaro dopo, possiamo dire che l’elemento differenziale cruciale, irriducibile all’analogia tra macchina e natura, non è il genio dell’inventore, ma appartiene alla macchina stessa, in quanto essa non è (o almeno non è solo) un pezzo della natura, ma è (anche) sempre opera dell’uomo; poiché, pur potendo essere un luogo ove viene all’evidenza (e soprattutto è passibile di misurazione quantitativa) la dinamica del reale, in essa non agisce primariamente la natura, dal momento che tramite essa è l’uomo il primo attore. E, più in particolare, è essenziale lo scopo per il quale le macchine vengono costruite: è il riferimento ad esso ciò che permette ad una macchina di andare oltre le possibilità percettibili a partire dai criteri scientifici noti. Ciò che effettivamente distingue l’inventore non è, dunque, una conoscenza scientifica più vasta e sintetica, per quanto più superficiale e meno specializzata, e non è neanche la presunta capacità di intuizione geniale delle dinamiche naturali, è piuttosto il fatto che egli tende a un fine, escogita apparecchi per il raggiungimento di uno scopo, e nel fare questo investe tanto la sua conoscenza tecnica e scientifica, quanto la sua precomprensione della causalità naturale: momenti che solo astrattamente possiamo separare. Di ciò, però, tra poco, non prima di trarre qualche conclusione preliminare circa la concezione del rapporto tra scienza e tecnica che ci è più familiare. In primo luogo, ferma restando la constatazione che l’interazione sistematica tra scienza e tecnica è un novum storico di assoluta rilevanza, caratteristico della modernità occidentale, notiamo che è insufficiente considerare la macchina come mero repertorio e messa in scena di fenomeni naturali: 1) poiché la natura non

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si riduce necessariamente alla macchina; 2) poiché la macchina non si riduce integralmente alla natura, dato il suo riferimento essenziale all’attività umana; 3) poiché la scienza non si limita a osservare le macchine, ma ragiona spesso nei termini di problemi tecnici. Conseguentemente, è insufficiente considerare la tecnica moderna come semplice applicazione della teoria scientifica, almeno nella misura in cui le macchine decisive preesistono alla teoria che rendono possibile e sono frutto di una logica differente da quella del progresso scientifico cumulativo. E ancora, notiamo che è comprovabile storicamente, oltre a essere facilmente deducibile, che la moderna filosofia della scienza può riconoscere e al tempo stesso svalutare nel suo significato profondo, fino a capovolgere, il contributo della teoria delle macchine, nella misura in cui è preliminarmente fondata su una particolare teoria della macchina, teoria che, pur potendo essere in parte condivisibile, va comunque riconosciuta come presupposto storico, non essendo né l’unica possibile, né tantomeno la prima. La decisione preliminare circa l’essenza della macchina che si impone nella modernità e che sancisce l’analogia tra concezione fisica della macchina e concezione macchinale nella natura, dunque, è l’assunto che permette di sottacere o minimizzare la constatazione del fatto che la scienza moderna delle strutture della natura è, nelle sue articolazioni fondamentali, applicazione sistematica, ampliamento e generalizzazione di teorie delle strutture meccaniche. Ciò che questo realmente comporta – sia per una rilettura dei rapporti tra scienza naturale e tecnica meccanica, sia per cercare di delineare un approccio organico ad uno dei temi più importanti legati a tale nesso, ossia la concezione meccanicistica dell’uomo – è comprensibile riportando la questione del “contributo della teoria delle macchine alla scienza” entro la questione più generale e filosofica circa la comprensione dell’idea di macchina, un’idea che nella sua configurazione più elementare rimanda immediatamente proprio a “natura” e “uomo”. Se cerchiamo, infatti, una definizione quanto più generale e impregiudicata possibile del concetto di macchina, possiamo cominciare a dire che essa è un medium tra uomo e natura, in primo luogo in quanto strumento. E che questa medietà sia dimensione essenziale, lo dimostra la definizione di homo faber: se la macchina, in-

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fatti, va concepita come strumento dell’uomo, questi dal canto suo è stato definito l’essere che costruisce e utilizza strumenti, che interpone tra sé e la natura20. Sono considerazioni molto elementari, ma vanno sottolineate per due motivi: in primo luogo, poiché caratteristico della concezione meccanicistica è precisamente prendere in considerazione solo il rapporto tra macchina e natura, senza riferimento all’uomo. In tal modo, già formalmente, la macchina non è più strumento di mediazione, ma può valere immediatamente come immagine e messa in scena della natura. E paradossalmente, come vedremo meglio, è proprio questa cancellazione del primo elemento della triade “uomomacchina-natura” che finisce per aprire la strada alla meccanizzazione dell’uomo stesso. In secondo luogo, l’elementarità ed estrema generalità della prima definizione non è banalità, nella misura in cui la rinuncia a ulteriori specificazioni preliminari vuole sfuggire proprio all’ovvietà del senso comune di una concezione ingenua del carattere strumentale delle macchine. Nell’ottica della modernità è banale che la costruzione delle macchine debba avvenire in base a un sapere teorico intorno alla natura, che trova appunto in esse applicazione: da Bacone in poi è questa la concezione predominante intorno alla relazione tra scienza e tecnica e, in ambito storiografico, è proprio l’imporsi di questa relazione a definire il passaggio all’epoca moderna. Ciò che di irrefutabile vi è in tale opinione, è che l’idea di homo faber rimanda necessariamente a quella di homo sapiens, ossia che l’ambito della prassi è necessariamente connesso con quello della teoria, entrambi modi di mediazione tra uomo e natura. Ciò che invece è storicamente condizionato e in qualche modo pregiudiziale, è che l’attività tecnica sia di per sé diretta e organizzata dal sapere scientifico, il che può ovviamente accadere in casi specifici, ma di fatto non rappresenta la situazione più generale, come abbiamo visto neanche nella modernità. Lasciando dunque per il momento impregiudicata la determinazione del rapporto tra conoscenza della natura e modificazione pra20 Il tema è centrale in buona parte dell’antropologia culturale o filosofica, per esempio in Leroi-Gourhan o Arnold Gehlen, oltre ad essere un Leitmotiv della filosofia della tecnica, a partire da Ernst Kapp.

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tica di essa, torniamo alla definizione iniziale della macchina come medium strumentale nella relazione dell’uomo con la natura e sottolineiamo come questa definizione, che pure richiede una precisazione intorno alla specificità delle macchine relativamente al più ampio ambito degli strumenti, enunci inizialmente solo il carattere finalistico della mediazione macchinale: il medium strumentale è mezzo per un fine o quantomeno in vista di un bisogno. Questo è in effetti anche il significato più generale che possiamo trarre dall’etimologia della parola greca mhcan», che deriva dal sostantivo m≈ coj, la cui accezione principale è appunto “mezzo”. E la radice indoeuropea √magh (cfr. in tedesco “mögen” e “Macht”) da cui derivano questi termini, significa “potere”. La parola macchina, dunque, rimanda inizialmente al complesso di ciò che si può attuare tramite mezzi. Già in questa accezione elementare di potere umano mediato sulla natura, comunque, è compresa la dimensione del sapere: se è vero, infatti, che la scoperta di una macchina o di uno strumento in generale può essere casuale, il suo utilizzo come mezzo per certi fini presuppone già l’esperienza della sua efficacia, quindi un tipo particolare di sapere intorno a ciò che ci si può attendere operando in un certo modo. Lo homo faber è homo habilis, esperto, perito, tanto riguardo al modo in cui approntare le sue macchine, quanto rispetto al modo in cui per lo più la natura, sottoposta ai suoi procedimenti, si comporta. Precisiamo subito, però, che questo sapere non ha affatto bisogno di conoscere adeguatamente la natura, bastandogli la conoscenza di certe relazioni tra lo scopo e il risultato dell’agire in vista di esso: in maniera analoga, noi sappiamo attuare un movimento volontario anche senza conoscere niente del processo fisiologico cui corrisponde. L’intento di questa precisazione limitativa è ancora quello di evitare, almeno per quanto riguarda l’interpretazione della storia della tecnica, un pregiudizio tipico della nostra mentalità moderna, che voglio chiamare, con un’espressione solo apparentemente tautologica e volutamente paradossale, “precomprensione meccanicistica delle macchine”. Ciò che intendo dire è che, dall’imporsi della meccanica dinamica come branca fondamentale della fisica moderna, noi concepiamo il funzionamento delle macchine appunto meccanicisticamen-

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te, ossia in termini di determinismo e legalità del movimento delle loro componenti, e riteniamo che questo tipo di funzionamento sia sufficiente a realizzare una macchina21. Vedremo più avanti cosa è legato a questa concezione e come si è arrivati ad essa: per il momento, vogliamo solo sottolineare il fatto che, giusto quanto detto sinora, decisivo per il concetto di macchina non è il meccanismo del suo funzionamento, ma appunto il funzionamento stesso, ossia il raggiungimento dello scopo per il quale la macchina è approntata. Che una macchina funzioni comporta, ovviamente, che il suo meccanismo quantomeno non contraddica la natura, ma questa è una conseguenza secondaria rispetto alla definizione di macchina, conseguenza che presa isolatamente non è per niente sufficiente a determinare se una certa cosa è una macchina o meno. Insomma, la macchina è qualcosa in più del suo meccanismo, nel senso che essa funziona quando raggiunge effettivamente lo scopo per il quale è stata approntata e non semplicemente se il suo funzionamento è meccanico. E per dissolvere subito l’impressione che queste siano divagazioni poco concrete, notiamo che è proprio a causa di questa mancata distinzione che durante i primi secoli della modernità quasi qualsiasi complesso di oggetti poté essere definito come macchina – dagli artefatti all’uomo, dallo Stato all’universo intero –, nella misura in cui si ritenne di poter interpretare in termini meccanicistici l’ordine delle sue parti. La distinzione tra la macchina e il suo meccanismo, però, rimanda immediatamente alla coappartenenza dei due concetti: la macchina, dicevamo, media tra uomo e natura nel senso particolare che è mezzo per un fine. Questa, però, è solo una prima approssimazione, dal momento che non ogni mezzo è una macchina. Tramite es21

Questa concezione determina il valore simbolico assolutamente primario che ha l’orologio per la coscienza meccanicistica fino e oltre il settecento. Per fare un unico esempio, possiamo citare una tesi programmatica di Keplero: «La macchina dell’universo non è simile a un divino essere animato, ma è simile a un orologio (colui che ritiene animato l’orologio attribuisce all’opera l’onore che spetta all’artefice) e in essa tutti i vari movimenti dipendono da una semplice forza attiva materiale» (cito da p. ROSSI, cit., p. 148). Ciò che è determinante, nell’orologio, è l’evidenza del suo meccanismo come dispositivo ordinato di corpi in equilibrio dinamico tra loro, capace di produrre automaticamente un movimento regolare e ritmico.

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sa si risponde alla domanda su cosa fa la macchina, ma non ancora a quella su come lo fa. Un’ulteriore approssimazione definisce la macchina come mezzo artificiale, fatto ad arte, approntato per il suo specifico scopo: tramite essa, possiamo distinguere la macchina dall’ambito più generale della strumentalità, ma non ancora dalla classe degli attrezzi. Per superare questa difficoltà, si potrebbe fare riferimento alla mobilità reciproca delle parti di una macchina, che la distingue dagli attrezzi semplici. Questa differenza formale, però, non è sempre sufficiente ad una discriminazione precisa, alla quale si deve in generale rinunciare in termini molto rigorosi: alle macchine semplici appartiene il cuneo, che non ha parti in movimento, così come vari attrezzi nel loro funzionamento possono essere descritti come macchine semplici (il martello, per esempio, come una leva dal fulcro svincolato). Accettare d’altronde una definizione puramente meccanicistica delle macchine (per esempio, in base al concetto fisico di “lavoro”) equivale a cadere in quella confusione tra macchina e meccanismo, che rende poi anche impossibile rendere conto del suo carattere di mezzo per un fine. Per toglierci d’impaccio possiamo riferirci ancora una volta al concetto greco di mhcan»: dire che la macchina serve ad un fine e non in quanto strumento in generale, né come semplice attrezzo artificiale, bensì con il suo meccanismo, può voler dire che essa non opera immediatamente al conseguimento di quel fine, ma segue un procedimento più mediato, una sorta di via traversa. La macchina, dunque, non sarebbe semplicemente artificiale in quanto strumento artefatto, ma anche in quanto procedimento artificioso, non naturale, non diretto. Questo almeno quanto traspare dall’accezione greca a lungo dominante di mhcan» come “artifizio”, “espediente”, e dunque “astuzia”, “inganno”: un’accezione che sopravvive a lungo anche nella modernità e risuona ancora nella nostra lingua, nel termine “macchinazione”22. In tal senso, mi piace ripetere che l’autentica macchina In greco antico, mhcan£w significa esclusivamente “macchinare”, “intrigare”; mhcan£omai, “ingannare” e poi “costruire”, “apparecchiare”, “preparare”, ma sempre nel senso di “escogitare”, “inventare”, “far sì che”. Un riflesso di questa concezione è certamente nella caratterizzazione rinascimentale dell’invenzione come venatio e astuzia. Leggiamo per esempio in G. DEL MONTE, Mechanicorum libri VI, Pesaro 1577, che la natura può essere quasi ingannata per astuzia 22

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della grecità arcaica è il Cavallo di Troia, l’opera del polum»canoj ’OdusseÚj, Ulisse ricco di astuzie. E per la Grecia classica si deve parlare ovviamente del Deus ex machina, ossia dell’artifizio che permette l’entrata sulla scena umana del divino. Questa comprensione del carattere specifico della macchina, come artifizio per ottenere dalla natura ciò che si vuole tramite una via traversa, comprensione che a prima vista sembra poco più che una curiosità antiquaria, se depurata dall’elemento morale si rivela invece molto utile e precisa. In effetti, l’attrezzo punta direttamente allo scopo: il martello, per conficcare un chiodo, esercita una pressione su di esso. La macchina, invece, agisce indirettamente: la leva o la puleggia, per sollevare un peso, fanno scendere un contrappeso. E al di là di questi esempi elementari, proprio nella definizione termodinamica di macchina troviamo espresso chiaramente questo principio: ogni macchina è un trasformatore di energia; nel caso delle macchine semplici dalla potenziale alla cinetica e viceversa, nel caso di quelle termiche dal calore al movimento, e così via. E usare il calore per generare movimento, o il movimento per generare corrente elettrica o l’elettricità per sviluppare calore è certamente seguire una via traversa. Oltre a questo carattere di artificiosità, un altro importante elemento di differenziazione tra macchina e attrezzo è l’esteriorità e relativa autonomia del funzionamento della macchina, la potenziale svincolatezza del suo meccanismo dall’intervento umano diretto: anche le macchine più elementari ammettono una distinzione tra il momento dell’approntamento del loro lavoro e il lavoro effettivo, che può avvenire in automatico, al di là dell’immediata adiacenza con le membra umane, come invece non è possibile per nessuno strumento dall’arte, le cui opere appaiono come «miracoli» e non rientrano nell’ordine immediatamente «naturale» delle cose: «mechanico è voce greca significante cosa fatta con artificio da movere, come per miracolo, et fuori dell’humana possanza, grandissimi pesi con picciola forza» (cfr. P. ROSSI, cit., p. 75). Nel 1588 Agostino Ramelli dedicava un suo libro alle Diverse et artificiose macchine, mentre Bruno scriveva nello Spaccio de la bestia trionfante: «Gli dèi avevano donato a l’uomo l’intelletto e le mani, e l’avevano fatto simile a loro, dandogli facultà sopra gli altri animali; la qual consiste non solo in poter operare secondo la natura ed ordinario, ma ed oltre, fuor le leggi di quella; acciò, formando o possendo formar altre nature, altri corsi, altri ordini con l’ingegno, con quella libertade […] venesse a serbarsi dio de le terra».

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semplice, che non sia a sua volta parte di una macchina. Ogni macchina, dunque, dal punto di vista del suo apparato, è potenzialmente un “automa”, nonostante tutte le limitazioni, soprattutto di carattere energetico, cui è sottoposta: proprio per questo, una significativa chiave di lettura della storia della tecnologia può essere appunto la tendenza progressiva all’automazione dei congegni. Quest’ultimo elemento è essenziale per comprendere l’articolazione della coappartenenza e differenza tra macchina e meccanismo, che è compresenza nella macchina della causalità finale e di quella efficiente. L’automatismo (ancora una parola greca, che rimanda alla spontaneità), infatti, è proprio solo del meccanismo, non della macchina stessa, che nella sua integrità è inseparabile dall’attore che la prepara e la usa per i propri fini. Come apparato, però, essa ha una sua oggettività di per sé inerte, che consente una descrizione esteriore ed oggettiva del suo funzionamento regolare, descrizione che è puramente “meccanica” e non finale. Quel che voglio dire, è che una macchina – mettiamo un trapano – è definita essenzialmente dallo scopo –: trapanare. Se mettiamo tra parentesi questo scopo, non abbiamo più una macchina, ma solo un congegno, un meccanismo, che possiamo descrivere in termini di relazione causale tra le sue parti. Ed è precisamente questo il senso in cui la fisica moderna ha pensato le macchine, senza alcun riferimento al fine, ma solo alla dinamica che viene messa in atto per raggiungerlo: anche il concetto fisico di lavoro è privo di riferimenti finali, parla solo del risultato. Ma affinché un risultato sia un fine, e non semplicemente la fine di un processo, esso deve essere voluto, desiderato, perseguito, posto in quanto tale. Il che significa che la macchina, venendo dall’uomo, rimane nella sua prossimità in quanto la volontà che l’inventa, l’appronta e la usa: il fine che è essenziale per comprendere il senso di una macchina, in altri termini, non appartiene alla macchina stessa, ma al suo costruttore e utente, il che equivale a dire che la macchina esiste solo in relazione a questi, essendo in sé un meccanismo privo di senso23. 23

Incidentalmente, la radicale estraneità del concetto fisico di macchina con ciò che noi intendiamo con questa parola è dimostrato dal fatto che l’ideale scientifico classico della macchina perfetta non è affatto una macchina: l’impossibile dispositivo in grado di produrre il moto perpetuo è del tutto privo di scopo e dunque di senso.

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È, ovviamente, proprio su questo piano che si esprime il genio meccanico, con la sua ingegnosità della via traversa allo scopo (pensiamo ad una ruota dentata o a un giunto cardanico), ma solo se non perdiamo di vista appunto lo scopo, come avviene ritenendo conclusa con la descrizione del suo meccanismo la descrizione di una macchina. Se si evita questa “comprensione meccanicistica della macchina”, però, diviene evidente che l’automatismo del meccanismo è pendant dell’eteronomia della macchina, la quale, infatti, avendo un senso solo in relazione al fine cui serve, è per sé un apparato dinamicamente del tutto indifferente rispetto a questo fine: per noi è essenziale che il trapano trapani, per il trapano stesso il fine del trapanare non ha alcun significato, il che equivale dire che il trapano per sé non ha alcun senso. Anche e fondamentalmente in questo modo, la macchina è una via traversa: l’impegno di una logica causale in funzione di una logica finale o l’artifizio tramite cui cause finali si servono di cause efficienti. Sulla base di ciò, possiamo presentare ora l’ultimo importante elemento definitorio della macchina: sia dal punto di vista dell’invenzione, che nella sua esistenza oggettiva come meccanismo, la macchina incarna un sapere intorno alla dinamica della natura e non solo intorno alle mere modalità pratiche del raggiungimento di uno scopo, come dicevamo prima preliminarmente. Infatti, l’atto dell’invenzione coinvolge pienamente la comprensione che il “meccanico” ha del modo in cui la natura agisce ed è sulla base di questa che egli cerca l’artifizio per ottenere da essa ciò che si propone. Questa comprensione è primariamente legata alla struttura percettiva, oltre che alle «esperienze dinamiche giovanili» (per usare la bella espressione di Mach24), e non è necessariamente di carattere “meccanicistico” (oltre a non essere necessariamente nel vero). D’altro canto, in quanto tale mezzo dell’attività finalizzata, la macchina è in re, almeno potenzialmente, medium di una comprensione che può andare oltre le premesse che hanno consentito la sua invenzione, per quanto solo nella civiltà occidentale moderna ciò si configuri nei termini della spiegazione integralmente meccanicistica del mondo. Che questo passaggio da mezzo tecnico a medium teorico sia, entro certi limiti, giustificato, riposa 24

E. MACH,

cit., p. 498.

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sulla circostanza che il funzionamento prevedibile del meccanismo dimostra una certa adaequatio machinae ad rem: una macchina che funzioni dice comunque qualcosa sul modo in cui le cose possono funzionare, ossia sulle modalità attive della natura, oltre a rappresentare uno sforzo attivo da parte del soggetto di adeguare i propri mezzi alle condizioni del reale. Ammesso, quindi, l’elemento necessariamente antropomorfico che anche qui inerisce ai modi della comprensione della natura, troviamo in ciò la ragione di fondo dell’origine di branche fondamentali della fisica nella “meccanica” in senso ampio. Giusto però quanto abbiamo notato circa la non neutralità delle singole macchine che servono di volta in volta come paradigma e circa la rilevanza assoluta che ha il contesto della teoria generale della macchina entro cui si realizza nelle varie epoche storiche questo fenomeno, il riconoscimento di tale ragione non esaurisce il compito e il senso di un’analisi filosofica della storia delle macchine, analisi di cui in queste pagine si sono potute seguire solo alcune grandi linee, che vorrei qui riformulare al fine di terminare con poche considerazioni circa la concezione dell’uomo nell’epoca del meccanicismo. Gli elementi centrali di un discorso che si è appoggiato alla tradizione antropologica e linguistica, oltre che all’analisi concettuale, possono sintetizzarsi così: la macchina ci appare come “medium strumentale artificioso tra uomo e natura, tendente all’automatismo, ma finalizzato in maniera eteronoma, che incarna una decisione preteorica intorno alla causalità”. Possiamo specificare questa definizione, dicendo che ogni macchina, proprio in quanto mezzo, è anche un sapere, una forma larvale di teoria della causalità, ossia della dinamica dell’avvenire delle cose, una comprensione del divenire che ha tra le sue condizioni l’esperienza fondamentale, prescientifica, sentita, prossima alla percezione (soprattutto tattile) di volta in volta presente circa la potenza della natura, che è poi l’esperienza fondamentale della nostra propria attività entro la natura. Il soggetto agente, giusta la tesi diltheyana e già nietzschiana, è alle origini della causa agente, che prima di incarnarsi in una teoria della legalità naturale si presenta storicamente quasi sempre nella pratica delle macchine (e ancor prima nella magia e nei riti). Esse sono, dunque, un’espressione rea-

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le e realmente dinamica della comprensione della natura che ci è propria in quanto esseri viventi e agenti in primis nello spazio complessivo della fÚsij. Ma la macchina, che dunque proviene essenzialmente dall’uomo, non è solo la proiezione di questa esperienza (e certo non è proiezione delle funzioni organiche25), poiché, in quanto mezzo per un fine, è sempre legata, oltre che al sapere, anche al volere, come uno dei modi del suo potere. In sostanza, questo è un altro percorso per dire che nella macchina non è reale solo la causa efficiente, bensì anche quella finale. In grazia di tutto ciò, è comprensibile che la macchina (e in parte l’ambito della tecnica in generale) possa svolgere un ruolo determinante per l’autocomprensione dell’uomo, nella misura in cui è uno dei modi primari della sua attività e rispecchia tanto le strutture elementari (e mutevoli) della percezione, quanto la posizione mediata dei fini. Proprio in riferimento a quest’ultimo elemento, possiamo dare una concretezza maggiore a un asserto che, presentato così sinteticamente, può apparire plausibile, ma non sufficientemente fondato: penso alla teoria dello iato di Gehlen, sulla base della quale la macchina, in quanto medium spazialmente e temporalmente indiretto, permette non solo una comprensione causale della natura, ma anche la stessa autocoscienza dell’uomo come quell’essere che pone e persegue fini. Infatti, è solo dall’interpolazione tra istinti e bisogni e il loro soddisfacimento di un elemento oggettivo non organico di mediazione, che diviene possibile la riflessione intorno a questi complessi e dunque una loro elaborazione razionale: il che, in termini filogenetici, può essere considerato addirittura uno dei modi tramite cui il processo di ominazione ha imboccato la sua strada alternativa a quella della specializzazione organica degli animali26. In questo senso ristretto, dunque, appare giustificato assumere 25 Come vuole argomentare sistematicamente uno dei padri della filosofia della tecnica, la cui opera principale si concludeva così: «Hervor aus Werkzeugen und Maschinen, die er geschaffen, aus den Lettern, die er erdacht, tritt der Mensch, der Deus ex Machina, Sich Selbst gegenüber!» (E. KAPP, Grundlinien einer Philosophie der Technik, Düsseldorf 1978, p. 351 e, per il tema della «proiezione degli organi», pp. 29 ss.). 26 Cfr. A. GEHLEN, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. di C. Mainoldi, Milano 1990, pp. 376 ss.

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positivamente la tesi contenuta nell’espressione homo ex machina, nella misura in cui, così come nascono dall’uomo e rimangono a lui prossime e da lui dipendenti, allo stesso modo le macchine tornano all’uomo, contribuendo a concretizzare le categorie della sua comprensione, in primo luogo quelle di fine e causa. Ora, non è certamente questo il senso in cui un’anima della modernità ha pensato e continua a pensare l’uomo a partire dalla macchina: sulla falsariga della tesi dell’analogia tra macchina e natura, infatti, la concezione del meccanicismo è stata quella dell’identità tra uomo e macchina, ossia, come abbiamo chiarito, tra uomo e meccanismo. E il punto che vorrei qui brevemente mostrare è che proprio la comprensione meccanica della macchina contribuisce a questa riduzione dell’uomo a meccanismo e ne chiarisce le implicazioni. Ribadiamo innanzitutto che la premessa di questa comprensione e ciò che la caratterizza è l’eliminazione dell’elemento umano, e quindi finalistico, dalla macchina. Nelle scienze moderne, conseguentemente, il contributo della teoria delle macchine si è realizzato nella direzione dello studio del meccanismo per sé, posto come immediatamente equivalente ad un fenomeno naturale e non come mediazione tra uomo e natura. Con una formula: dalla fine del medioevo a oggi avviene un progressivo specificarsi dell’idea di adaequatio machinae ad rem in quella di adaequatio machinae et rei, nel senso di una concezione della macchina come perfettamente isomorfa alla natura, che trapassa velocemente nella pratica scientifica e più lentamente nella consapevolezza filosofica in una vera e propria adaequatio rei ad machinam. Se, infatti, ogni macchina incarna una teoria della causalità, l’isomorfismo tra meccanismo e natura non significa altro che la causalità naturale è compresa integralmente sub speciae machinae: insomma, dalla ovvietà che la macchina per funzionare non contraddice la natura, si passa alla tesi metafisica che la natura ha una dinamica puramente meccanicistica. Questa equazione, che astrattamente rimane priva di contenuto e quindi apparentemente solo questione terminologica, acquisisce tutta la sua determinazione tornando dal piano della teoria della macchina a quello della teoria delle macchine: come abbiamo ripetuto, infatti, non è per niente indifferente quale sia storicamente il paradigma concreto della causali-

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tà. Si comprende bene, infatti, la differenza tra le due asserzioni: “la macchina funziona come la natura” e “la natura funziona come questa macchina”. Per la meccanica classica e fino a tutto il settecento, la macchina per antonomasia, frequentemente presentata come simbolo di ciò che deve significare macchina e dunque di ciò che effettivamente è esemplare per la meccanica della natura, è l’orologio: un apparato completamente sui generis, già per la singolarità del fine che gli è proprio, la quantificazione del tempo, ma anche per l’evidenza assoluta che mostra della regolarità e continuità del movimento proprio a un ordine discreto di parti27. Assumere che la causalità è meccanicistica, dunque, significa in quel momento concepire la natura come un orologio, ossia ricercare nella realtà regolarità e ricorrenze quantificabili del movimento nello spazio. Solo ciò che è riconducibile a queste regolarità appare come spiegato e quindi intelligibile. Al riguardo è esemplare una definizione lapidaria di Christian Wolff: «Vi è verità nel mondo, poiché esso è una macchina». E, conseguentemente, «chi del mondo spiega tutto in maniera intelligibile, così come si fa con le macchine, questi si avvicina alla saggezza di Dio, chi non lo fa vi si allontana […]. Se il mondo non fosse una macchina, non sarebbe opera della saggezza di Dio, ma solo della sua potenza», essendo un luogo ove possono avvenire miracoli, ossia eventi che trascendono la legalità della natura28. 27

Da un punto di vista più rigoroso di ricostruzione della meccanica scientifica, però, va notato che gli studi sulle traiettorie balistiche precedono quelli sul pendolo e li condizionano. Se qui, dunque, ci riferiamo immediatamente agli orologi, è solo per brevità ed in considerazione del fatto, che anche storicamente, furono considerati l’immagine perfetta dei tre principi fondamentali della dinamica classica: legalità, determinismo e reversibilità. Vedi anche sopra, nota 21. 28 Cfr. CH.F. WOLFF, Vernünftige Gedanken von Gott, der Welt und der Seele, auch allen Dingen überhaupt, Leipzig 1719, I § 557 ss., § 1036 ss. (testo più noto come Deutsche Metaphysik). Nel § 557, rendendo conto della necessità di intendere il mondo come un orologio, Wolff scrive: «Il mondo è infatti altrettanto una macchina. La dimostrazione non è difficile. Una macchina è un meccanismo composto, i cui movimenti sono fondati nella modalità della composizione. Il mondo è anche una cosa composta, i cui mutamenti sono fondati nella modalità della composizione. E in conseguenza di ciò il mondo è una macchina». È qui evidente la riduzione della macchina a meccanismo e quindi della causalità a cau-

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Nell’ambito della scienza, tutto ciò che era analizzabile in questi termini divenne presto oggetto di ricerca: inizialmente, quindi, la meccanica del corpo umano e poi, col mutare delle macchine di riferimento, la dinamica energetica delle pulsioni, il meccanismo stimolo-risposta del comportamento e infine l’apparato cibernetico dell’intero sistema sensoriale e del pensiero. Nel corso della storia della filosofia, invece, il primo momento di questo sviluppo, ossia l’imporsi di una visione meccanicistica classica, è legato al processo di dissoluzione della metafisica cartesiana, il cui dualismo aveva in qualche modo posto la dimensione del pensiero, e quindi quella dei fini, al di fuori di ciò che è scientificamente intelligibile e che appartiene evidentemente alla sola res extensa. Un soggetto così vasto non è ovviamente possibile trattarlo qui, ma vale almeno la pena di evidenziare come gli argomenti cardinali del celebre L’Uomo-Macchina di La Mettrie siano riconducibili a questa costellazione ideale. Il suo, in sostanza, è un argomento a fortiori dalla natura all’uomo: se la causalità della natura rispecchia quella delle macchine e ci è quindi intelligibile; e se, d’altronde, riusciamo a spiegare la complessità dei comportamenti umani in base all’ordine e alle regolarità dei suoi organi, l’uomo – che incontriamo effettivamente come corpo nello spazio, quindi entro la natura estesa – è una macchina. Ossia, con le sue parole: «Il corpo umano è un orologio, ma immenso e costruito con tanto artificio ed abilità…» etc. E ancora: «Siccome tutte le facoltà dell’anima dipendono dall’organizzazione particolare del cervello e da quella di tutto quanto il corpo a tal punto da non essere chiaramente altro che questa stessa organizzazione, eccovi una macchina». E, in ultimo, con evidente riferimento a Cartesio: «Concludiamo dunque coraggiosamente che l’uomo è una macchina, e che in tutto l’universo c’è una sola sostanza diversamente modificata»29. salità efficiente, riduzione che peraltro trova un limite significativo quando il nesso mondo-macchina è inteso alla luce della teologia naturale: «Il mondo e tutto ciò che è in esso sono, per la loro essenza, mezzi di Dio, con cui Egli consegue i Suoi fini. Ma la loro essenza ne fa delle macchine» (ivi, § 1037), passo in cui è recuperata l’eteronomia della macchina, a costo però di istituire anche l’eteronomia del mondo. 29 J.O. DE LA METTRIE, L’uomo macchina e altri scritti, a cura di G. Preti, Milano 1900, pp. 52, 59, 63, 71. Notiamo, comunque, che la critica a Cartesio non

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Insomma, ciò che avviene qui, come in molte altre circostanze, è che la neutralizzazione dell’alterità alla natura della macchina, ottenuta tramite la messa tra parentesi del soggetto umano e che rende la comprensione meccanica della causalità unico principio della spiegazione, apre la strada ad una vera e propria adaequatio hominis ad machinam, nel senso che viene recuperato come ultimo momento quello che in realtà è il primo: se la natura è meccanismo, allora anche l’uomo è meccanismo, ossia un complesso di parti caratterizzato da una certa regolarità e legalità del funzionamento, che ci è intelligibile a prescindere dagli scopi e in generale dalla dimensione interiore. Se è vero, dunque, come dicevamo prima, che in generale il fenomeno della macchina oggettiva sempre anche categorie proprie dell’autocomprensione umana, questo rispecchiamento, nell’ambito della modernità, diviene principio di un radicale autofraintendimento dell’uomo, che da luogo dei fini delle macchine, diviene egli stesso semplicemente una dinamica per niente finalizzata o finalizzata eteronomamente. L’autocomprensione macchinale dell’uomo, in altri termini, comporta l’alienazione degli scopi, ossia è immediatamente riduzione dell’umano all’automatico nell’accezione negativa del termine, una riduzione che non può rendere conto del senso, della volontà e della ragione, se non riducendoli a perturbabilità, condizionamento e conformazione determinata del meccanismo. E, concludendo, questo sviluppo, che culmina con l’affermazione in linea di principio e in linea di fatto dello homo ex machina, ha alla sua origine precisamente la cancellazione del dato di fatto elementare della machina ex homo.

impedisce a La Mettrie di intendere il suo argomento a favore dell’uomo-macchina come deduzione delle ultime e autentiche conseguenze della definizione cartesiana dell’animale come automa (cfr. ivi, p. 64). In sostanza, è questa anche la tesi di Hans Jonas circa il significato autentico del dualismo cartesiano come prodromo e presupposto del monismo materialistico (cfr. H. JONAS, Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, a cura di P. Becchi, Torino 1999, pp. 21 ss.).

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La filosofia della tecnica ha smarrito la «Frömmigkeit del pensiero»1, ha preso congedo dal domandare. Da questo assunto si dipana il tentativo, svolto nelle pagine presenti, di rendere campo di tensione speculativa la stessa locuzione “filosofia della tecnica” svolgendo intorno ad essa una serie di considerazioni. Un campo di tensione speculativa, questo, interamente ricettivo, dal momento che a prestarsi quale oggetto di riflessione si rivelano tanto i due sostantivi (“filosofia” e “tecnica”) quanto il loro nesso esemplato dalla preposizione “di”. Franco Volpi, nella sua mappatura del nichilismo (un fenomeno, un tema fatalmente prossimo a quello di una tecnica filosoficamente questionata), trova parole efficaci per esprimere il disagio di fronte alle declinazioni più recenti di questa “disciplina”: «a giudicare da quanto è accaduto nelle aree culturali in cui questo tipo di indagine si è organizzato […] si nota un rischio: quello che si produca una en1 M. HEIDEGGER, Die Frage nach der Technik, in: ID., Vorträge und Aufsätze, Stuttgart 1954, pp. 9-40 (tr. it., La questione della tecnica, in: ID., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano 1991, pp. 5-27. La citazione si trova a p. 27).

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nesima filosofia al genitivo. Voglio dire: una riflessione che sicuramente richiama una meritoria attenzione sul fenomeno di cui si occupa, ma che sostanzialmente svolge una funzione soltanto ancillare e subalterna, scarsamente orientativa». E ancora: «il rischio delle numerose filosofie al genitivo che sorgono in quantità […] è di ridurre la riflessione filosofica a una nobile anabasi, a una ritirata strategica dalle grandi questioni per rifugiarsi in problemi di dettaglio […] Vien fatto allora di chiedersi: è possibile una filosofia della tecnica al nominativo?»2. Per scongiurare una tale declinazione al genitivo è necessario volgersi alla tecnica con gli occhi del filosofo, ovvero «comprendere in che cosa consiste il suo significato ultimo»3. A ben vedere, la questione, nella sua intera problematicità, risulterebbe già tutta espressa da questa breve affermazione. Va da sé, in effetti, che ognuno degli innumerevoli autori cimentatisi con questo tema rivendicherebbe per il proprio sforzo quell’occhio filosofico di cui parla Zschimmer. Come sbrogliare un simile ginepraio? Un primo elemento discriminante (invero ancora poco discriminante) attorno al quale articolare la ricerca di una filosofia della tecnica finalmente al nominativo (qualcosa che, se un fraintendimento semantico non si fosse imposto come consuetudine, potrebbe essere reso perspicuamente dal termine tecno-logia, logos della techne4) si lascia rinvenire in un approccio tale che, pur senza indulgere a derive saltazioniste, rifugga da una lettura gradualista della vicenda tecnica. In sostanza si tratta del riconoscimento preliminare che l’ambito in cui può esercitarsi una riflessione su “la tecnica” è a carattere storico e che, ciò posto, una tale vicenda storica segna un fondamen2

F. VOLPI, Il nichilismo, Roma-Bari 2004 (nuova edizione accresciuta), pp. 146-147. 3 E. ZSCHIMMER, Philosophie der Technik. Vom Sinn der Technik und Kritik des Unsinns über Technik, Jena 1914, p. 2. 4 È stato J. BECKMANN nel suo Anleitung zur Technologie del 1777 a proporre questo uso del termine “tecnologia”, intesa come scienza della tecnica (o meglio delle tecniche) piuttosto che come parte di essa (applicazione della scienza alla tecnica). Traggo la notizia da J.Y. GOFFI, La philosophie de la technique, Paris 1988, p. 25. Relativamente al distinguo “tecnica-tecnologia” andrà ricordato il fatto che nella lingua inglese esso viene stemperato decisamente, tant’è che la stessa filosofia della tecnica viene definita “philosophy of technology”.

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tale punto di discontinuità a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo (ma che si esplica pienamente nel XX secolo5), a partire dal quale, soltanto, la tecnica “diviene ciò che è”. Una cesura, questa, in virtù della cui centralità appare lecito investire la stessa mutazione tecnica del ruolo decisivo ai fini dell’avvento di una autentica Neuzeit. Simbolicamente si potrebbe caratterizzare questo come il momento in cui ha luogo il divorzio tra la tecnica e la mano (lo strumento archetipico), in cui si attua il passaggio definitivo da una paleostrumentalità (quella corporea, immediata, manuale-artigianale, appunto6) ad una neostrumentalità (quella scorporata, esonerata, macchinale-industriale). È solo a questo punto che emerge, pieno, ciò con cui un’indagine filosofica può adeguatamente misurarsi: la “forma” tecnica, il «fenomeno della tecnica»7. Parimenti si spiega qui il perché la possibilità di una riflessione precipuamente dedicata a questo tema si dischiuda soltanto a partire dal XIX secolo. Ciò stante, il mio discorso si svilupperà alla stregua di una panoramica relativa ad alcune tappe fondamentali della storia della filosofia della tecnica. Più precisamente, mi propongo di abbozzare una ricostruzione tassonomica di questa disciplina, nel corso della quale dovranno venire in luce elementi sostanziali, atti a delineare i contorni del fenomeno in oggetto.

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Günther Anders propone una definizione filosofica di questo processo allorché afferma: «di una vera e propria “rivoluzione industriale”, cioè della prima, si può parlare solo dal momento in cui, con essa, si è cominciato a iterare “il principio del macchinale”, cioè a dire: a fabbricare macchinalmente le macchine» (G. ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, tr. it. di M. A. Mori, Torino 1992, p. 9). Jacques Ellul, dal canto suo, afferma che dal 1860 al 1914 avviene «uno sconvolgimento prodigioso che convince tutti dell’eccellenza di questo movimento tecnico che produce tante meraviglie e che nel tempo stesso, cambia la vita degli uomini» (J. ELLUL, La tecnica, rischio del secolo, tr. it. di C. Pesce, Milano 1959, p. 57). 6 In tedesco “artigianato” (ma anche “mestiere”) si indica con “Handwerk”, letteralmente “opera della mano”. 7 Con questa espressione riprendo il titolo di un significativo studio degli anni trenta di E. DIESEL, Das Phänomen der Technik, Berlin 1939; tr. it. a cura di C. Cases, Il fenomeno della tecnica, Milano 1944. Il termine “forma”, invece, richiama l’uso, celebre, fattone da E. JÜNGER in: Der Arbeiter, Hamburg 1932; tr. it. a cura di Q. Principe, L’operaio. Dominio e forma, Parma 2004.

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1. La questione della primogenitura: Ernst Kapp Una premessa anzitutto. Intendendo la presente trattazione limitarsi a suggerire una serie di percorsi di riflessione, l’orizzonte storico da essa esaminato sarà quello circoscritto da alcuni esempi sintomatici tratti dalle sole filosofie della tecnica “consapevoli”, a dire quei tentativi che cercano di delineare, sin dal livello terminologico, una riflessione esplicita e peculiare intorno a questo argomento. Ciò significa che il mio interesse esulerà dalla pur importante questione dei veri o presunti progenitori di tale disciplina8. Il primo problema nel quale ci si imbatte è quello di stabilire un punto di inizio per questa storia, attribuire una primogenitura. Sul piano strettamente lessicale, etimologico, una tale investitura potrebbe spettare ad August Koelle, al cui System der Technik (1822) alcuni studiosi fanno risalire la perimetrazione semantica definitiva da cui potrà prendere le mosse una filosofia della tecnica. In particolare Seibicke – autore di uno studio sullo sviluppo del termine “tecnica” nella lingua tedesca9 – ritiene che attraverso la definizione di Koelle per 8

Riguardo al tema dei “progenitori” si ricordi che si tratta di una questione non poco ostica anche sul piano della ricostruzione storica, ragion per cui non esiste unanimità di giudizio neppure tra gli esperti. Per fare un esempio, probabilmente il più celebre, si pensi alla annosa querelle relativa al rapporto della cultura (prima ancora che del pensiero filosofico in senso stretto) greca con la tecnica ed i temi ad essa legati. Terminologicamente il campo dialettico è delimitato dalla triade: techne, banausia, ponos. Si oscilla così tra le posizioni di chi vede nell’ambiente greco una sorta di “fertilità tecnica” (“tecnica”, nella fattispecie, è intesa essenzialmente come macchinismo – tale è il caso di Mondolfo) e chi ravvisa una sorta di impermeabilità genetica di quello stesso ambiente rispetto ad un certo tipo di suggestioni (la condanna platonica della banausia, sintetizzata nella teoria del cosiddetto “blocco mentale” di Schuhl). Per una breve rassegna di questo dibattito cfr. R. MONDOLFO, Polis, lavoro e tecnica, Milano 1982. Malgrado tutti i distinguo e le accortezze del caso, non è possibile, ovviamente, minimizzare l’assoluta centralità di riflessioni come quella aristotelica o anassagorea (legata, quest’ultima, al celebre frammento sulla mano). 9 w.O. SEIBICKE, Technik. Versuch einer Geschichte der Wortfamilie um techné in Deutschland von den Anfängen bis zu Goethe, Bonn 1967. Traggo queste notizie da p. FISCHER (hrsg. von), Technikphilosophie, von der Antike bis zur Gegenwart, Leipzig 1996, p. 7. Tra i pionieri di una riflessione specifica intorno al carattere peculiare della tecnica moderna, andrà almeno menzionato Franz Reuleaux, professore di meccanica (Maschinenbau) a Zurigo e Berlino, propu-

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cui «la parola “tecnica” designa l’attività che ha per fine la sottomissione della natura»10, nonché con la sua quadripartizione di essa secondo: produzione (Erzeugung), sviluppo (Entfaltung), lavorazione (Verarbeitung), raffinamento (Veredelung), la stessa «smetta di essere concepita quale somma di molte ed eterogenee tecniche per creare una propria sostanzialità […] nasce qui il concetto di tecnica che dominerà tutte le discussioni a venire»11. D’altra parte è oramai parere unanime che la “Philosophie der Technik” in senso stretto debba invece farsi risalire al lavoro, pubblicato nel 1877, dal filosofo e geografo tedesco Ernst Kapp: Grundlinien einer Philosophie der Technik12. Il “caso Kapp” rappresenta sotto differenti rispetti, non solo in chiave cronologica dunque, uno snodo fondamentale dal quale o attorno al quale si dipartono alcune tra le principali linee di sviluppo della riflessione intorno a queste tematiche. Anzitutto per quanto concerne la vicenda biografica. Hegeliano di sinistra, a causa di motivi politici fu costretto a lasciare la Germania per trasferirsi in Texas, dove maturò i suoi interessi legati alla tecnica intesa come attività che presiede la creazione di strumenti (Werkzeuge). A tutti gli effetti, quindi, un “pensatore di frontiera”. L’esilio americano appare una componente non trascurabile nella genesi delle teorie kappiane, precipuamente da un punto di vista “spaziale”. In senso figurato, lo spazio interposto tra sé e la Germania (e l’intero vecchio mondo) gli rese possibile incamminarsi, pressoché gnatore, nella seconda metà del XIX secolo, della cinematica, ovvero «della scienza che ha per scopo lo studio completo della composizione delle macchine» (cfr. F. REULEAUX, Lehrbuch del Kinematik, Bd. 1: Theoretische Kinematik, Braunschweig 1875 – un secondo volume, dedicato alle «relazioni pratiche della cinematica con la geometria e la meccanica», verrà pubblicato nel 1900). 10 A. KOELLE, System der Technik, Berlin 1822, p. 14. Curioso notare il carattere involontariamente presago del titolo scelto da Koelle. Ad un “sistema della tecnica”, infatti, faranno riferimento un novero di autori a partire dalla metà del XX secolo (l’esempio più noto, in un’accezione certamente diversa rispetto all’ottimismo di Koelle, è il libro di J. ELLUL, Le systéme technicien, Paris 1977). 11 W.O. SEIBICKE, Technik. Versuch einer Geschichte der…, cit., p. 199. 12 E. KAPP, Grundlinien einer Philosophie der Technik, Düsseldorf 1978 (le citazioni sono riferite a questa edizione. L’edizione originale, invece, è Grundlinien einer Philosophie der Technik. Zur Entstehungsgeschichte der Cultur aus neuen Gesichtspunkten, Braunschweig 1877).

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scevro di remore pregiudiziali, verso sentieri di riflessione poco battuti perché poco considerati ed in senso più concreto lo spazio americano significò per l’occhio sensibile del geografo l’incontro con un ambiente che suggeriva ancora fortemente il proprio nesso con l’operare dell’uomo, attestando quasi in tempo reale il suo venir plasmato “per mano nostra”. Malgrado l’incidenza di questo tratto di lontananza dal contesto europeo, va precisato che storicamente la filosofia della tecnica è e resta Philosophie der Technik, ovvero un fenomeno essenzialmente tedesco. Difficile addurre motivazioni esaustive a spiegare questo che pure è un dato di fatto. Probabilmente anche nella circostanza torna utile rifarsi (allo scopo, peraltro, di un mero orientamento generale) ad un parametro spaziale, quello cioè di una posizione spiritualmente vantaggiosa da parte del mondo germanico rispetto alla retta valutazione di alcune vicende epocali. Mi riferisco, ovviamente, al cosiddetto baconismo, solitamente ritenuto l’ideologia dell’era tecnoscientifica, o alla rivoluzione industriale con l’invenzione di Watt. A fronte di una posizione, quale quella inglese ad esempio, interamente risolta nell’accadere di simili eventi (intratecnica, per così dire), il milieu germanico poteva vantare un naturale distacco non sfociante, però, nella incapacità di percepire l’impatto di tali accadimenti sull’evolversi della vicenda umana nel suo complesso (come, verosimilmente, è invece accaduto nel contesto italiano). Insomma una distanza trofica, funzionale ad una adeguata messa a fuoco di un mutamento di paradigma che abbisognava di essere tanto spiegato quanto compreso. Il programma di Kapp si regge sulla teoria della Organprojektion, l’idea, cioè, che gli artefatti umani siano, per quanto inconsciamente, sempre progettati (e dunque, a posteriori, anche comprensibili) sull’esempio degli organi del corpo umano, o meglio che rappresentino un prolungamento/estensione ovvero una esternizzazione di essi13. In particolare, a fare da modello archetipico sarebbe quello 13

Un aspetto non immediatamente centrale ma sicuramente interessante della teoria di Kapp è l’accento che essa pone sulla dinamica riflessiva per cui l’uomo, attraverso gli strumenti che ha inconsciamente esemplato sui suoi organi, viene a conoscenza del funzionamento di questi ultimi, ovvero si appropria di un sapere che ha già sempre posseduto.

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che, rifacendosi ad Aristotele, Kapp definisce «lo strumento degli strumenti»: la mano. Sulla scorta di questa intuizione, in virtù della quale l’uomo risulta un ente naturalmente tecnico, Kapp dà vita ad una coerente «teoria tecnogenetica della cultura»14 anch’essa ispirata ad un rigoroso organicismo, cui fa da sfondo non una filosofia della storia (Geschichtsphilosophie) bensì una filosofia dell’ambiente (Umweltphilosophie). Allo “spazio temporale” della storia (cronocentrismo) si sostituisce così lo “spazio spaziale” della geografia (topocentrismo) tanto che lo stesso essere umano viene definito un Raumwesen. A compimento della sua riflessione, Kapp propone un modello politico-sociale orientato ancora sulla Organprojektion: l’artefattostato va pensato come una perfetta coordinazione delle sue parti costitutive, tuttavia non secondo un modello meramente funzionale, meccanico (il cui esito inevitabile sarebbe il dispotismo) bensì, di nuovo, su quello dell’organismo (il cui esito è invece la libertà). Al di là di quelli che possono essere i suoi limiti o le sue ingenuità (anzitutto l’ottimismo quasi oltranzista), l’interpretazione della tecnica proposta da Kapp contiene, come detto, una serie di caratteri di sicuro interesse che segneranno in modo più o meno diretto non pochi dei tentativi coevi e successivi e che vale perciò la pena di menzionare. In primo luogo va sottolineata la disposizione di fondo rispetto al problema, una scelta che sancisce il ruolo di iniziatore del geografo tedesco. La riflessione sulla tecnica non riveste il consueto ruolo ancillare, secondario; è vero piuttosto il contrario: a partire da una disamina del fenomeno tecnico e dalla soluzione interpretativa ad esso approntata (la Organprojektion), Kapp imposta poi una complessiva teoria della cultura. Esprimendo la cosa secondo una delle polarità canoniche entro cui si schematizzano solitamente le posizioni rispetto alla tecnica, si direbbe che, nella fattispecie, la cultura è in tutto e per tutto tecnica15. 14

Così la definisce, contrapponendola alla darwiniana «teoria biogenetica dello sviluppo», H.M. Saß nella sua riuscita introduzione alla ristampa del volume di Kapp (cfr. Grundlinien einer…, cit., pp. V-XXXV, la citazione si trova a p. XV). 15 Nel frontespizio dell’edizione del 1877 compare un passo di Edmund Reitlinger che attesta in maniera patente la centralità attribuita da Kapp alla pro-

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Di rilievo è anche l’opzione organicista (alla quale, in effetti, ricorreranno molti interpreti successivi), soprattutto dinanzi al classico bivio problematico: come evitare che il mezzo tecnico (del quale viene spesso presunta, ingenuamente, la totale governabilità da parte dell’uomo e dunque, di fondo, una sostanziale neutralità) scada ad algido meccanismo?16. Tecnica è macchina? Va registrato, poi, l’approccio metodologico decisamente innovativo, che formula le proprie ipotesi sulla scorta di una contemporanea valutazione di “suggestioni concrete” provenienti da scienze specialistiche, di reperti preistorici, di considerazioni sulla stessa morfologia dell’uomo (anticipando con ciò alcune posizioni che saranno care a Spengler o all’antropologia filosofica gehleniana), ponendosi in tal modo al di fuori della distinzione rigida tra un approccio scientifico-naturale (naturwissenschaftlich) ed un approccio scientifico-spirituale (geistwissenschaftlich) alla tecnica17. Quanto invece al gradualismo della ricostruzione storica di Kapp (al fatto che egli non rinvenga la cesura di cui si diceva in precedenza), andrà ribadito che l’epoca tecnica vera e propria (l’età pria “tecnica strumentale”: «l’intera storia umana, rettamente esaminata, si risolve, da ultimo, nella storia dell’invenzione di strumenti migliori» (ivi, p. III). 16 Tra gli esempi più significativi in tal senso, vanno ricordati quelli di coloro che, all’inizio del secolo scorso, hanno affrontato “dall’interno” la questione tecnica in chiave estetica, a difesa della dignità delle cosiddette arti applicate: gli animatori del Deutscher Werkbund e successivamente del Bauhaus (Gropius, Behrens). Ne offre una utile rassegna Tomàs Maldonado nella antologia da lui curata: AA.VV., Tecnica e cultura. Il dibattito tedesco fra Bismarck e Weimar, Milano 1979. Sulla contrapposizione macchina-organismo si veda il saggio del maggior esponente del neovitalismo, H. DRIESCH, Die Maschine und der Organismus, Leipzig 1935. A questo proposito va inoltre ricordato che, a partire dagli stessi anni trenta, non pochi pensatori (E. Jünger, G. Anders) vedranno appunto nell’impossibilità di perpetrare in maniera certa un simile distinguo una delle testimonianze più patenti del carattere epocale della tecnica moderna. 17 Nel novero delle disamine della tecnica Carl Mitcham distingue tra una «humanities tradition» ed una «engineering tradition» (cfr. C. MITCHAM, Thinking through Technology. The Path between Engineering and Philosophy, Chicago/London 1994). A proporre una sintesi tra questi approcci unilaterali e perciò limitanti nei confronti della scienza moderna e della tecnica, sulla base della rivalutazione di un «Ethos emozionale», sarà M. SCHELER nel suo Probleme einer Soziologie des Wissens, 1924 (tr. it. a cura di D. Antiseri, Sociologia del sapere, Roma 1966).

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«neotecnica», secondo la periodizzazione di Mumford) si dà a partire dal XX secolo, mentre Kapp scrive ancora in piena «età paleotecnica»18. 2. Il XX secolo: la tecnica tra Kultur e Zivilisation Con l’avvento del nuovo secolo, il tema della tecnica viene precettato dalle tensioni culturali del tempo, divenendo una sorta di fronte lungo il quale si misurano gli schieramenti impegnati a decretare quale sia la direzione necessaria della ruota storica: in declino, verso il tramonto, o in ascesa, in progresso, verso un mondo finalmente nuovo. Ne consegue un incremento vertiginoso della pubblicistica dedicata al tema19. Al di là di un certo clima fazioso, saturato dalle pretese a pronunciamenti inappellabili e definitivi (pro o contro, tecnofobia o tecnolatria – con un prevalere, almeno inizialmente, della prima20), che certo non favorisce disamine serene, marcando per molti versi un regresso rispetto al respiro ampio dell’analisi di Kapp, andrà notato che agli occhi degli interpreti più sensibili la tecnica comincia a perdere la sua aura di neutralità, di innocenza, in forza della quale si pensava che potesse divenire tutto ciò che noi, suoi timonieri, avremmo stabilito. È questo un passo decisivo in direzione della percezione del fenomeno della tecnica. La suddetta atmosfera non agisce però come una gabbia vera e propria, ragion per cui è possibile rinvenire una certa varietà di punti di vista sotto la cui prospettiva la tecnica viene considerata. Ne propongo qui di seguito una elencazione.

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La periodizzazione proposta da Mumford si articola secondo tre età: eotecnica (X-XVIII secolo), paleotecnica (che vede il suo apogeo con il 1870), neotecnica (dall’inizio del XX secolo). Cfr. L. MUMFORD, Technics and Civilization New York 1934 (tr. it. a cura di E. Gentili, Tecnica e cultura, Milano 1961, pp. 127-285). 19 Limitatamente agli venti e trenta e all’area linguistica tedesca, un esempio lampante è offerto in: M. SCHRÖTER, Philosophie der Technik, München/Berlin 1934 (in particolare p. 70). 20 A pensarci, questo momentaneo esito della contesa appare piuttosto naturale: la classe degli “scriventi” è effettivamente quella che si vede più decisamente ridimensionata dalle gerarchie del nuovo mondo dei “facitori”.

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a) Kulturkritik (in senso stretto). Tra gli anni dieci e gli anni trenta alcuni autori tedeschi scorgono negli esiti dei coevi “progressi” tecnici il filo conduttore sulla scia del quale intonarsi, sotto il profilo interpretativo, allo Zeitgeist dell’epoca. Nel suo fungere da polo dialettico per la Kultur, rimpiazzando o affiancando (a seconda dell’occasione) la Zivilisation, la Technik gioca un ruolo decisamente più complesso rispetto a quest’ultima, un ruolo assiologicamente ancipite, per così dire. Essa, detto altrimenti, appare in talune analisi un terreno di manovra possibile, nel senso di almeno potenzialmente “redimibile” dallo pneuma spirituale della cultura (di nuovo la neutralità del mezzo). Laddove contemplato, l’ambito di riconciliazione è in genere quello politico. Più esattamente, si riscontra una forte vena nazionalistica (a fronte dell’universalismo utopico di Kapp) alla quale viene assegnato il compito di vertebrare, timonare le esuberanze poietiche dello homo faber, dando vita a qualcosa come una technische Gemeinschaft, una comunità tecnica21. Il primo significativo esponente di questa corrente può essere ritenuto Walter Rathenau, industriale e uomo politico, che nel saggio Die Mechanisierung der Welt22, del 1912, inquadra il fenomeno tecnico attraverso la formula “meccanizzazione”. La disamina di Rathenau si rivela per più aspetti prototipica: da un lato per l’acume e la lucidità analitica (la fenomenologia della meccanizzazione nelle sue implicazioni antropologiche e sociali ha momenti autenticamente profetici), dall’altro per la rigidità con cui viene applicata la formula solutrice: tecnica + popolo/nazione = cultura (“regno dello spirito”). Rathenau si spinge al punto di definire l’esecrabile “meccanizzazione” una “degermanizzazione” del mondo. Ciononostante è indubbio che il polo accentratore di questo filone interpretativo sia da rinvenire nella figura di Oswald Spengler, 21 Ciò dicendo, mi rifaccio alla distinzione tra Gesellschaft e Gemeinschaft, codificata qualche anno prima nell’omonima opera di F. TÖNNIES, Gemeinschaft und Gesellschaft, Leipzig 1887 (tr. it. a cura di G. Giordano, Comunità e società, Milano 1963). 22 W. RATHENAU, Die Mechanisierung der Welt, in: ID., Zur Kritik der Zeit, Berlin 1912. Alcune delle parti più interessanti del saggio in questione, sono riportate, in traduzione italiana, nella già citata antologia di Maldonado (cit., pp. 171-201).

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che nel 1931 compone un breve lavoro specifico sul tema: Der Mensch und die Technik23. Il testo si muove esplicitamente sul solco della morfologia della storia universale delineata in Il tramonto dell’occidente (1918-22). La tecnica è definita «tattica della vita». «Non ha importanza la fabbricazione delle cose, ma il modo di comportarsi; non l’arma, ma la lotta»24. Solo dall’anima (Seele), scrive l’autore, si può trovare il valore tanto della tecnica quanto della storia dell’uomo. Attingendo anche ad alcune recenti acquisizioni delle coeve scienze della natura (la “biologia teoretica” di von Uexküll e la botanica di de Vries), Spengler comincia caratterizzando lo specifico del vivente uomo come colui che, solo, ha un mondo (anziché un mero ambiente) e che è in grado di disporne come vuole. Ciò ne fa un essere della lotta «divenuto il creatore della sua tattica vitale: questa la sua grandezza e il suo destino. E la forma interna di questa vita creatrice la chiamiamo cultura»25. Il motore dell’agire e del produrre dell’«uomo creatore» è per Spengler pura volontà di potenza, tensione mirata alla sottomissione della natura, al dominio di essa, alla quale, cionondimeno, egli non può che restare assoggettato26. L’attuazione di questo progetto si delinea nell’arco di tre fasi storiche fondamentali: fase manoattrezzo; fase linguaggio-impresa; fase di alta cultura a vocazione universale. A quest’ultimo livello il pensiero faustiano occidentale, servendosi della tecnica, pone il proprio sigillo sul corso delle vicende umane, culminando nella “deposizione della natura” per mezzo della macchina a vapore27. Di qui in poi, comincia, per destino, la contrazione e il declino di questa forza vitale, che per Spengler si determina concretamente attraverso il diffondersi del risentimento verso i «ben dotati» («coloro che nacquero creatori»28) ed in virtù del tradimento finale perpetrato dai “custodi della tecnica”, gli autentici uo23

o. SPENGLER, Der Mensch und der Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Lebens, München 1931. 24 Ivi, p. 5. 25 Ivi, p. 17. 26 «La lotta contro la natura è disperata e tuttavia sarà condotta sino alla fine» (ivi, p. 25). 27 «Fabbricare noi stessi un universo, essere noi stessi Dio – questo fu il faustiano sogno degli inventori» (ivi, p. 48). 28 Ivi, p. 52. È quasi superfluo, a tale riguardo, far notare la prossimità di simili posizioni con quelle del Nietzsche della Genealogia della morale.

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mini faustiani, rei di non aver tenuto segreto il sapere tecnico, consegnandone le chiavi al mondo intero (agli «uomini di colore»), un mondo del tutto ignaro dell’impianto spirituale che di quel sapere è il vero fondamento. Una tale, sciagurata mistura (quella tra un sapere tecnico acefalo, spiritualmente incustodito e la schiera dei suoi nuovi adoratori) fa sì che la tecnica, in un delirio di onnipotenza, scada a mera sommatoria di strumenti e procedure, consumandosi dall’interno «come le grandi forme di qualsiasi cultura»29. A questo punto all’uomo faustiano non resta che un’ultima possibile grandezza: consegnarsi con onore alla propria fine. Tra i Kulturkritiker della tecnica possono essere annoverati anche Ludwig Klages e Manfred Schröter (quest’ultimo autore di una interessante Philosophie der Technik di chiara ispirazione spengleriana), nonché, più problematicamente, Friedrich Georg Jünger (i cui contributi risalgono agli anni quaranta30). b) Ingegnerismo. La proposta maggiormente innovativa delineatasi a partire dal primo decennio del nuovo secolo è probabilmente quella che esprime una valutazione sulla tecnica dall’interno. Sono i tecnici stessi (nella circostanza “accorpati” sotto l’emblematica etichetta di “ingegneri”) a prendere finalmente la parola, proponendo il loro punto di vista entro una dinamica dialettica a carattere sostanzialmente reattivo: prescindendo dalle sfumature specifiche dei differenti discorsi, un tratto comune risulta infatti la volontà di replicare ai giudizi di condanna pronunciati dagli spocchiosi consessi dei “teoretici” secondo i quali, per lo più, quello tecnico sarebbe uno spazio spiritualmente deserto (o, nella migliore delle ipotesi, spiritualmente disabitato31). È verosimilmente in forza di una simile esigenza 29

Ivi, p. 61. M. SCHRÖTER, Philosophie der Technik, cit.; L. KLAGES, Mensch und Erde, München 1929. Di F.G. JÜNGER, il cui approccio potrebbe forse venir classificato anche come fenomenologico, vanno menzionate due opere: Die Perfektion der Technik, Frankfurt a. M. 1946 (il testo, invero, fu composto nel 1939. A causa di problemi legati alle vicende belliche poté essere pubblicato soltanto sette anni più tardi – tr. it. a cura di M. de Pasquale, La perfezione della tecnica, Roma 2000) e Maschine und Eigentum, Frankfurt a. M. 1949. 31 Motivando dinanzi al lettore italiano la scelta di redigere una «fenomenologia del lavoro tecnico e dell’azione tecnica» (Il fenomeno della tecnica, cit., 30

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che tra i resoconti degli “ingegneri” si rinviene un afflato metafisico non comune, un pungolo alla trascendenza che non trova pari in disamine della tecnica altrimenti ispirate. Detta tensione prende non di rado la forma di una vera e propria mistica dell’invenzione e ancor più dell’inventore, sfociando in accenti di autentico prometeismo nei quali l’inventore, liberatore dell’umanità, viene quasi invocato in quanto unico depositario di quella saggezza in grado di arginare i rischi e i limiti, veri o presunti, di cui la tecnica sarebbe portatrice ma che in realtà dipenderebbero, in misura esclusiva, dall’inettitudine di coloro che vengono malauguratamente preposti al governo di essa. All’interno di questa corrente si possono annoverare: Peter Klimentisch von Engelmeyer, più problematicamente Eugen Diesel32, ma soprattutto Eberhard Zschimmer e Friedrich Dessauer. Sulle posizioni dei due ultimi mi soffermerò brevemente. A Zschimmer, ingegnere e chimico, si devono almeno due opere significative: anzitutto Philosophie der Technik. Von Sinn der Technik und Kritik des Unsinns über die Technik, del 1914, e la più tarda (1937) Deutsche Philosophen der Technik33. La sua posizione appare tutt’altro che conciliante, visto che nello scritto del ’14 esordisce con la frase: «la nostra epoca, che viene definita a ragione “l’età della tecnica”, non capisce nulla della tecnica»34. Lo scopo che si prefigge il suo lavoro è appunto la compensazione di una tale ignop. 24), Eugen Diesel esprime chiaramente questo stato d’animo: «molte persone di grande cultura filosofica ed estetica, ma prive assolutamente di esperienza tecnica viva, si sentirono non di meno in dovere di pronunciare giudizi che determinarono una certa confusione» (ivi, p. 25). 32 P. KLIMENTISCH VON ENGELMEYER, Der Dreiakt als Lehre von der Technik und der Erfindung, Berlin 1910. Al “figlio d’arte” Eugen Diesel (suo padre è Rudolf Diesel, ingegnere, inventore del motore omonimo), si devono una serie di lavori dedicati alla tecnica, il più importante dei quali è il già citato Das Phänomen der Technik, del 1939. 33 E. ZSCHIMMER, Philosophie der Technik. Von Sinn der Technik und Kritik des Unsinns über die Technik, Jena 1914; ID., Deutsche Philosophen der Technik, Stuttgart 1937. Le citazioni che seguono sono invece tratte, quasi totalmente, da ID., Philosophie der Technik (Berlin 1917), un breve testo in cui Zschimmer sintetizza i punti nodali della sua riflessione. Mi sono rifatto alla sua traduzione italiana, contenuta nell’antologia di Maldonado (AA.VV., Tecnica e cultura…, cit., pp. 208-235). 34 Ivi, p. 208.

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ranza, dovuta essenzialmente ad una mancanza di cultura filosofica: è questo ciò che impedisce di discernere la vera natura ed il vero fine della tecnica, limitandola così entro lo sfittico orizzonte materialistico dell’economia. Muovendo da una prospettiva smaccatamente improntata allo hegelismo, Zschimmer traduce la questione di una rivalutazione della tecnica nei termini di una domanda fondamentale: «i tecnici possono essere idealisti?». La risposta a un tale quesito costituirebbe addirittura «la pietra angolare della filosofia della tecnica»35. Criticando la tesi di Kapp, Zschimmer rinviene l’origine della tecnica non nello strumento, ma nella funzione: «è stata», scrive, «la volontà spirituale, l’intento dell’invenzione»36 a trasformare l’animale in uomo. La tecnica è, al pari delle altre fondamentali espressioni dell’uomo (arte, diritto, sapere) la realizzazione di un’idea, ovvero di «un principio teleologico generale dell’attività umana, uno scopo indeducibile della storia della cultura»37. Nel caso specifico, si tratta dell’idea di libertà, di cui Zschimmer accentua il versante propriamente poietico, affermatore: essa, in quanto «potere dello spirito sulla materia», è «il sentimento della potenza», non “libertà da”, quindi, bensì “libertà per”. I «soggetti liberi», scrive, «sono in grado di cogliere dalla libertà delle idee e in conformità ad esse determinare il proprio agire». Il ripristino di questa corrispondenza naturale e necessaria tra tecnica e libertà si combina con gli altri nessi, parimenti fondamentali, tra sapere e verità, diritto e giustizia, arte e bellezza per «produrre un tutto armonico, una cultura integrale, alla luce dello scopo supremo e unico della personalità spirituale più perfetta e cioè dell’idea di Dio»38. Anche a Friedrich Dessauer, fisico e biologo oltre che uomo politico, dobbiamo almeno due testi importanti: Philosophie der Technik. Das Problem der Realisierung del 1927 e Streit um die Technik 35

Ivi, p. 212. Ivi, p. 218. 37 E. ZSCHIMMER, Philosophie der Technik. Von Sinn der…, cit., p. 23. 38 AA.VV., Tecnica e cultura…, cit., p. 223. Tra i serbatoi spirituali cui attinge Zschimmer non manca, poche righe dopo, il richiamo all’elemento nazionale (ai suoi occhi, così come a quelli di altri “ingegneri”, lo stesso avvento del nazionalsocialismo parve, almeno per i primi anni, una possibilità importante in ordine alla realizzazione dell’utopia tecnica). 36

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del 195639. Se l’idealismo di Zschimmer guarda a Hegel, quello di Dessauer è invece platonicamente ortodosso. La tecnica è definita come «essere reale (reales Sein) a partire dalle idee attraverso configurazione finale ed elaborazione a partire da condizioni naturali date»40. Effettivamente nel discorso di Dessauer la presenza di due piani distinti – l’uno immanente, materiale, l’altro trascendente, ideale – viene accentuata fino quasi all’esasperazione, tanto che, a seconda della prospettiva assunta, le medesime cose possono acquistare caratterizzazioni molto diverse. L’opera tecnica, per fare l’esempio più evidente, è definita una combinazione di molteplici ingredienti: «legalità naturale», «lavorazione» e «scopo» a cui si aggiunge l’elemento più importante, che «ha il carattere sorprendente dell’invenzione, della conquista di una nuova qualità»41, il che, a parere di Dessauer, consentirebbe un’equiparazione tra l’opera tecnica a quella artistica. In quanto «sintesi creativa di elementi obbedienti a leggi naturali determinate», l’opera della tecnica «è legge di natura in quanto è possibile; ma, in quanto è reale, è qualcosa di più»42. Ora, la questione si pone appunto a questo livello: ciò che in un’ottica immanente appare come creazione, invenzione, in una prospettiva ideale risulta una realizzazione, una scoperta. Nel suo atto creativo il tecnico scopritore attinge a forme ideali già sempre essenti, egli «converte l’essere potenziale di forme già date in una realtà attuale del mondo dell’esperienza»43 rivelando, in virtù di siffatto accesso privilegiato ad un tale piano trascendente, una vocazione demiurgica e, a parere di Dessauer, anche potenzialmente demagogica (nel senso letterale, non deteriore, del termine). Nella sua massima espressione, dunque, la tecnica è realizzazione (Realisierung) del piano divino. Giusto questo, Des39

F. DESSAUER, Philosophie der Technik. Das Problem der Realisierung, Bonn 1927 (tr. it. a cura di M. Bendiscioli, Filosofia della tecnica, Brescia 1945); ID., Streit um die Technik, Frankfurt a. M. 1956. Quanto alla resa del termine, centrale in Dessauer, di Realisierung, non seguo il traduttore italiano (che opta per “concretizzazione”), ma utilizzo il letterale “realizzazione”. 40 F. DESSAUER, Streit um…, cit., p. 234. 41 ID., Filosofia della tecnica, cit., p. 24. 42 Ivi, pp. 27-28. 43 Ivi, p. 35. Appare così pregnante la definizione di Goffi, il quale, a proposito dell’impostazione di Dessauer, parla di «ontologia delle soluzioni preesistenti» (cfr. J.Y. GOFFI, La philosophie de…, cit., p. 60).

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sauer auspica addirittura un Reich tecnico (il «quarto Reich») a guida del quale egli immagina gli stessi tecnici, o quantomeno si augura che ad essi venga attribuita una sempre maggiore responsabilizzazione nei processi decisionali, dato l’indiscusso valore pedagogico della formazione cui vengono sottoposti, la quale li educa «alla devozione completa all’opera»44. Un ethos del tecnico a tutti gli effetti, dunque, alla cui valorizzazione e diffusione Dessauer lega i futuri destini della Germania. c) Sociologia della tecnica. Un ulteriore, suggestivo approccio alla questione della tecnica che prende piede ancora nel corso dei primi anni del Novecento è quello definibile come “sociologico”. Va da sé che l’intera corrente di autori riconducibile a questa definizione (ma non solo essi) scorre lungo l’alveo tracciato dalle fondamentali interpretazioni del moderno proposte da Max Weber. Le sue magistrali ricostruzioni genealogiche dei processi combinati di Rationalisierung ed Entzauberung sfocianti nella “megatrappola” della gabbia d’acciaio contengono, in buona parte, gli elementi determinanti per un’apprensione filosofica della tecnica e del mondo cui essa dà forma. Tuttavia, lo ribadisco, la presente panoramica mira a porre in rilievo le riflessioni esplicite sulla tecnica, un’occasione, tra l’altro, per illustrare brevemente percorsi e percorritori generalmente poco noti. Giusto questo è il caso di Julius Goldstein, l’autore su cui mi soffermerò nella circostanza, il quale palesa una sensibilità verso la piena complessità del tema in oggetto ben maggiore rispetto a quella di altri suoi colleghi più celebrati (Sombart, ad esempio45). Professore di filosofia a Darmstadt, nel 1912 Goldstein pubblica un breve testo dal titolo lapidario (Die Technik), all’interno della collana Die Gesell44 F. DESSAUER, Filosofia della tecnica, cit., p. 33. Quasi vano sottolineare il rischio potenziale rappresentato da tecnici votati interamente alle loro opere. Scrive, ad esempio, J. Ellul: «gli scienziati sono ben persuasi di lavorare per il bene degli uomini […] il che fa sì che il sistema tecnico è sempre più umanizzato, ma mediante l’assorbimento dell’umano nella tecnica» (J. ELLUL, Le Système technicien, cit., p. 129). 45 Il testo di riferimento è W. SOMBART, Der moderne Kapitalismus, München-Leipzig 1916 (tr. it. a cura di G. Luzzato, Il capitalismo moderno, Firenze 1925).

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schaft («raccolta di monografie di psicologia sociale») curata da Martin Buber46. L’aspetto interessante della riflessione di Goldstein sta nella sua lucida consapevolezza del fatto che “la tecnica” si palesa nella società contemporanea come qualcosa di interamente nuovo, alla stregua di un’entità che va assumendo caratteri suoi propri e a cui le griglie interpretative (e operative) consuete offrono un ricetto decisamente angusto. L’argomentazione prende le mosse proprio dalla smitizzazione di una tra le più famose di queste griglie: il baconismo, particolarmente nella sua veste utopica, quella della Nuova Atlantide. Si tratta, altrimenti detto, della fede nella necessità del progresso (la vera instauratio magna della modernità), ovvero che «la razionalizzazione tecnica dell’esistenza debba, di per sé, liberare la vita da tutte le problematiche e produrre uno stato della società sempre più perfetto»47. Al di là delle soluzioni proposte, è soprattutto il versante diagnostico, l’attitudine fenomenologica a sancire il valore del tentativo di Goldstein, tentativo che indirizza decisamente il proprio sguardo sulle dinamiche concrete, sociali innescate dalla variabile tecnica, dalle quali si delinea chiaramente l’avvenuta scissione tra due momenti che, bene o male, si credeva dovessero procedere secondo un rapporto di proporzionalità diretta: il progresso della tecnica ed il miglioramento della condizione umana. Detto con una formula che acquisterà un certo rilievo nei decenni successivi: la razionalità non è ragionevolezza, essa persegue (ovvero: è in grado di perseguire, asservendo coloro che dovrebbe servire) un disegno di coerenza suo proprio che può confliggere anche in modo drammatico con le urgenze della vita degli uomini. I limiti del baconismo, nel senso di ciò che esso costitutivamente non riesce a contemplare, sono in sostanza due: esso non ha inteso che «nuove scoperte producono sempre nuovi problemi» e che «il perfezionamento della tecnica non comporta affatto un parallelo perfezionamento morale dell’uomo»48. Ciò dimostra, a parere dell’autore, la limitatezza di un approccio scientifico46

J. GOLDSTEIN, Die Technik, Frankfurt a. M. 1912. Tra i curatori degli altri volumi della collana buberiana si annoverano nomi illustri, quali: Sombart (Das Proletariat), Simmel (Die Religion), Tönnies (Die Sitte) e Lou Andreas-Salomé (Die Erotik). 47 Ivi, p. 8. 48 Ivi, p. 12.

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economicistico alla tecnica e la conseguente necessità di integrarlo con uno di stampo etico-sociale e psicologico-sociale, ovvero la necessità di una «sociologia della tecnica». Soltanto quest’ultima può rendere conto del fatto che, per dirla con Heidegger, «l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico» e così il suo orizzonte, il suo raggio d’azione, tant’è che l’incidenza reale di essa va constatata nell’ambito di fenomeni, quali: «l’incremento dei bisogni» e la «mutazione dei giudizi di valore». Data quindi la fatale tensione della tecnica ad esonerarsi dal suo “statuto strumentale”, la replica da porre in atto concerne, anzitutto, l’usbergo spirituale di cui dotare i tecnici stessi ed in secondo luogo, complessivamente, il rafforzarsi di una coscienza religiosa che consenta all’uomo, incrementandone le risorse interiori, di ridiventare «signore di se stesso e delle potenze che ha prodotto»49. Per quanto non imperniati su una disamina peculiare della tecnica, andranno poi almeno menzionati all’interno di questo filone i contributi di due personalità eminenti della scienza sociologia: il già citato Werner Sombart, con Der moderne Kapitalismus (1916) e Max Scheler che nel 1924 dà alle stampe il suo Probleme einer Soziologie des Wissens. d) Apologetica (tecnolatria). Quale sottodeterminazione del filone ingegneristico (che si caratterizza per un non celato ottimismo quanto alle sorti dell’umanità nel suo rapporto con la tecnica) è possibile identificare (invero più per ragioni intrinsecamente legate alla comodità di una schematizzazione che non in virtù di affinità realmente sostanziali) quel novero di autori che più di altri offrono la riprova concreta, ontica, del carattere destinale (inteso non nel senso heideggeriano del termine) a cui in alcuni contesti, antropologicamente avanguardisti, è assurto l’apparato tecnico, in grado oramai di ergersi al grado di Weltanschauung e non solo di utopia. Gli esempi forse più celebri di questa disposizione fideistica vengono, non a caso, da oltreoceano (a ribadire, esasperandolo, quel carattere di eccessiva vicinanza, di innocenza con cui si era precedentemente caratterizzato lo spirito anglosassone a differenza di quello germanico rispetto all’evolversi di una riflessione “extra moenia” sui temi della tec49

Ivi, p. 73.

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nica): Fredrick Winslow Taylor e Henry Ford50. Entrambi, al contempo figli e progenitori del Brave new world huxeliano, si mostrano privi di una serie di zavorre spirituali le quali, a prescindere dal giudizio che su di esse si voglia esprimere, certamente ingombrano e complicano (imbarazzano) la relazione uomo-tecnica. Il primo, di famiglia quacchera, rappresenta la perfetta incarnazione dell’etica protestante secondo la formulazione weberiana, intonata alle manifestazioni più recenti dello spirito del capitalismo. Per quanto la sua sfera d’azione (non quella di intenzione, peraltro) si sia limitata al solo ambito del lavoro industriale, il taylorismo costituisce davvero l’ortodossia della razionalizzazione: la cifra (è il caso di dire) del reale è diventata il numero, l’ente viene sfacciatamente ridotto a calcolo: esso ha senso e valore nella esclusiva misura in cui è computabile e quindi prevedibile. Tutto ciò che si pone al di fuori della sfera dell’oggettivo finisce con l’assumere, fatalmente, i caratteri dell’impedimento, dell’ostacolo: nella migliore delle ipotesi si tratterà quindi di convertirlo, addomesticarlo51. Anche Henry Ford rappresenta, a suo modo, una concrezione esemplare: quella del destino della “anima nell’epoca della tecnica”. Non per nulla la sua autobiografia (My life and work, 1922) è ritenuta un classico, se non della filosofia, quantomeno della letteratura sulla tecnica52. 50

Ancora dagli Stati Uniti, nel corso degli anni venti, prende piede il movimento della tecnocrazia (per opera dell’ingegnere Howard Scott e, sul piano propagandistico, del giornalista Wayne Parrish) che si prefigge di migliorare finalmente le condizioni di vita generali attraverso la razionalizzazione definitiva della “macchina politica”, affidandola alle mani capaci dei tecnici. Una breve panoramica di questa esperienza è presentata da F. DESSAUER (Streit um…, cit., pp. 25-33) e da M. SCHRÖTER (Philosophie der Technik, cit., pp. 59-60, in cui viene ricordata un’esperienza simile prodottasi, indipendentemente da quella americana, nel corso degli anni trenta in Germania). 51 Ellul definisce Taylor «uno dei grandi tecnici del nostro tempo», dopodichè aggiunge: «questa reale separazione dallo scopo reale […] questa limitazione al mezzo e questo rifiuto di prendere in esame l’efficacia, nettamente espressi dal Taylor, sono alla base dell’autonomia tecnica» (J. ELLUL, La tecnica, rischio…, cit., pp. 134-135). L’opera-manifesto del pensiero di F.W. TAYLOR è The Principles of Scientific Management, New York 1911 (tr. it. a cura di M. Belli e P. Morganti, Principi di organizzazione scientifica del lavoro, Milano 1975). 52 H. FORD, My Life and Work, New York 1922 (tr. it. a cura di S. Benco, La

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Un aspetto suggestivo emergente da simili casi-limite è dato dall’impressione che in essi abbia luogo lo scavalcamento di una soglia ulteriore, non semplicemente rispetto alla polarità della disposizione nei confronti della tecnica (pro o contro), bensì all’interno dello stesso versante della “buona disposizione”, della fiducia verso di essa. In altre parole, è come se venisse superata non solo la nozione, ma la stessa esigenza di una qualche Gelassenheit. Quest’ultima, in effetti, presume che ci si abbandoni, vale a dire che preliminarmente al consegnarsi al destino si metta in opera lo sforzo di accantonare una serie di remore (anche soltanto dettate da semplice consuetudine). Il celebre “sì e no” heideggeriano53. Nello specifico si ha invece la sensazione che detto sforzo non sia richiesto, che nessuna resistenza debba essere vinta. L’elemento tecnico assume i contorni di un amnios: esso non è mai un “da porre” (um zu stellen), bensì già sempre un “posto” (gestellt – un passo oltre lo stesso Ge-stell). A questo filone può essere ricondotto anche il progetto utopico di Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi: Apologie der Technik (192254). L’autore, propugnatore ante litteram di un paneuropeismo («gli Stati Uniti d’Europa»), descrive la situazione contemporanea del vecchio continente come il «paradiso perduto», determinatasi in virtù di effetti di corruzione dell’autentico tipo europeo: l’uomo nordico. La strada verso la riconquista del paradiso passa necessariamente per il contemporaneo sviluppo delle due «sorelle»: l’etica e la tecnica. «L’etica è l’anima della nostra cultura – la tecnica ne è il corpo: mens sana in corpore sano!»55. Nell’idea di Kalergi ciò dovrebbe condurre ad una situazione in cui i tradizionali stabilizzatori delle forze interne ed esterne degli uomini, lo stato (per opera dell’etica) ed il lavoro (per opera della tecnica), diventeranno superflui. L’Europa, culla della mia vita e la mia opera, Milano 1980). Tale, ovvero un classico della filosofia della tecnica, lo considerano i curatori di AA.VV., Nachdenken über Technik. Die Klassiker der Technikphilosophie, Berlin 2000 (si tratta una raccolta di recensioni dedicate, per l’appunto, ai classici della Technikphilosophie. L’opera di Ford viene discussa da W. König alle pp. 132-135). 53 Cfr. M. HEIDEGGER, L’abbandono, tr. it. di A. Fabris, Genova 1998, pp. 38 ss. (edizione originale: Gelassenheit, Pfulligen 1959). 54 R. N. COUDENHOVE-KALERGI, Apologie der Technik, Leipzig 1922. 55 È il «motto» che compare sulla copertina del testo accanto al titolo.

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tecnica, sarà alla fine salutata come liberatrice del mondo e l’inventore verrà tenuto in maggior conto che non un santo. Della tecnica, d’altra parte, si ammette almeno il carattere di Giano bifronte: toccherà allora all’etica vigilare sulla “sorella minore” evitando che l’ascesa al cielo finisca col rivelarsi una discesa agli inferi. Nella sua breve ma efficace recensione di questo scritto, Gerhard Banse lo definisce «una testimonianza del suo tempo», del quale, in effetti, assomma alcuni tratti peculiari: «l’entusiasmo euforico per la tecnica» ed «un orientamento razzista e geopolitico» secondo il quale l’Europa, intesa essenzialmente come patria dell’uomo nordico, vanterebbe una predisposizione innata ed esclusiva per la tecnica e le sue mirabilie56. 3. Il paradigma impossibile: le filosofie della tecnica Senza la pretesa di aver dato conto degli scenari espressi nel corso dei primi decenni del Novecento nella loro interezza e complessità57, possiamo accostarci al secondo momento centrale nella vicenda della filosofia della tecnica. A scandirlo, a sancire cioè l’inadeguatezza (vuoi per eccesso di sovrastrutture e presupposti datati, vuoi per un ammanco squisitamente analitico) delle prospettive partorite sino a quel punto è soprattutto l’evento della seconda guerra mondiale. Come se improvvisamente Vulcano avesse deciso di esporre in bella mostra e testare in pubblica piazza tutti i “pezzi migliori” coniati nella sua fucina, lo scatenarsi della tecnica nella sua fattispecie più inquietante58 costringeva ad aprire gli occhi su un dato di fatto: essa aveva 56 Cfr. AA.VV., Nachdenken über…, cit., pp. 111-114 (le citazioni sono tratte da p. 114). 57 Tra i contributi che avrebbero meritato un’attenzione peculiare, incompatibile tuttavia con le esigenze di brevità del presente lavoro, andrà almeno menzionato quello fornito da alcuni economisti, intenti ad investigare le dinamiche di sviluppo del capitalismo industriale. Su tutti F. VON GOTTL-OTTLILIENFELD, Wirtschaft und Technik, Tübingen 1922, e J. SCHUMPETER, Business Cycles. A Theoretical, Historical and Statistical Analysis of the Capitalist Process, New York 1939. Una linea interpretativa ulteriore relativa ai temi della tecnica, ricostruibile a posteriori, è anche quella estetica: un percorso che dai già menzionati esponenti del Deutscher Werkbund, passando per i futuristi italiani e per Walter Benjamin, giungerebbe sino alle riflessioni sulla «technische Existenz» di Max Bense dei tardi anni quaranta. 58 Che la Waffentechnik, la tecnica applicata agli armamenti, abbia rappre-

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marchiato a fuoco il proprio tempo, divenendone a tutti gli effetti la cifra. Eugen Diesel ne fornisce una icastica istantanea: «la tecnica trattiene il respiro del mondo odierno»59. Nell’immaginario collettivo, non solo degli specialisti, si faceva largo la percezione di vivere nel pieno dello atomischer Zeitalter, il quale, va da sé, indica per sineddoche il technischer Zeitalter. Tutto ciò ha una ripercussione diretta sul modo di affrontare la questione: soprattutto vengono in luce priorità nuove che si impongono come emergenze anche a livello teoretico. La Technik si sceglie un interlocutore nuovo, ulteriore: non più la sola Kultur, come era stato tradizionalmente, bensì la stessa Natur, costretta, dal canto suo, ad accettare il confronto a colpi di reiterate “pro-vocazioni”. Valutando la cosa dall’esterno, si ha l’impressione, paradossale, che fin quando ci si era trovati di fronte a “le tecniche” (percepite cioè come delle singolarità non necessariamente unite da un comune denominatore) fosse sufficiente “la filosofia”; laddove con l’emergere de “la tecnica” (intesa come fenomeno unitario e coerente) non possano che delinearsi “le filosofie”. In sostanza si infrange l’unità del versante interpretativo: il risultato è quello di una pletora di schegge ermeneutiche brancolanti alla ricerca di cocci di verità60. Le indagini

sentato storicamente, e paradossalmente, uno dei settori più “vitali” (se non il più vitale) è, piaccia o non piaccia, un dato di fatto. Scrive Ellul: «nulla equivale in perfezione la macchina da guerra» (J. ELLUL, La tecnica, rischio…, cit., p. 17). Si pensi, ad esempio, alla cibernetica che Norbert Wiener “si inventa” come soluzione per problemi di balistica legata al lancio dei missili; o ancora si ricordi che la stessa rivoluzione informatica nasce e si sviluppa in ambito militare (tanto Alan Turing quanto John von Neumann lavorarono per i rispettivi eserciti – von Neumann, ungherese di nascita, operò, da naturalizzato, per quello americano). Relativamente a questi temi si può guardare la suggestiva (eterodossa) ricostruzione storica del rapporto uomo-macchina e le non meno suggestive ipotesi sulla sua possibile “evoluzione” (in una logica darwiniana, lo sviluppo più recente della tecnica viene immaginato come terreno possibile di una futura, nuova speciazione postumana) proposta da G. DYSON, L’evoluzione delle macchine, tr. it. di A. de Lachenal, Milano 2000 (il titolo originale è Darwin among the Machines, London 1997). 59 E. DIESEL, Il fenomeno della tecnica, cit., p. 34. 60 Con l’impossibilità di ripristinare un paradigma interpretativo univoco, Friedrich Rapp spiega la presenza di un numero inconsueto di volumi collettanei

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sulla tecnica assumono caratteri sempre più settoriali e specialistici, lasciando però emergere anche ibridazioni imprevedibili e perciò suggestive. Per fare un esempio: la Stimmung kulturkritisch nei confronti della tecnica smette di connotare in via esclusiva una posizione passatista e conservatrice per divenire patrimonio anche di un progressismo (per quanto problematico) qual è quello espresso dalla prima stagione della scuola di Francoforte. Al cospetto di un simile scenario, un tentativo di schematizzazione sembrerebbe a tutta prima un’impresa a perdere, condannata non semplicemente a forzare il reale (come invero qualsiasi interpretazione sempre fa), ma addirittura a violentarlo pur di dargli una parvenza d’ordine. Peraltro è lo stesso spettacolo polifonico cui si assiste a suggerire un’alternativa: effettivamente alcune voci si fondono tra loro meglio di altre dando luogo ad un impianto armonico che tradisce una partitura condivisa. Nel caso in oggetto, credo se ne possano distinguere fondamentalmente due: una “fenomenologica”, l’altra “neo-ingegneristica”, che si offrono più o meno consapevolmente come repliche ad un medesimo pungolo epocale. Lo ripeto: la vicenda bellica e quella atomica in particolare avevano mostrato quanto la situazione dell’uomo fosse divenuta prossima a quella, tragicomica, dell’apprendista stregone: sopraffatto dalle stesse potenze che aveva evocato. La tecnica sembrava allora porsi come una sfida concreta, tanto da imporre essa stessa gli argomenti di riflessione: il controllo sui suoi effetti, la questione della tutela di un ambiente concretamente minacciato (perché oramai minacciabile) dai progressi umani (il confliggere di Menschenwelt ed Umwelt), l’assunzione di responsabilità intesa come organizzazione efficace (efficiente) di essa. Il modo stesso di interpretare il concetto di domanda, o meglio i termini della sua cogenza per un discorso che voglia essere filosofico, sancisce la separazione tra i due approcci suddetti. 3.1 Neo-ingegnerismo Sul finire degli anni sessanta si assiste in Germania ad una “svolta realistica” (realistiche Wende) nella filosofia della tecnica. Le ragioni sono essenzialmente quelle già elencate in precedenza: le sfide ed antologie relativi alla filosofia della tecnica (cfr. F. RAPP, Analytische Technikphilosophie, Freiburg-München 1978, p. 28).

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del tempo conducono ad un ripensamento profondo della stessa finalità di una riflessione sulla tecnica. Il timore, condivisibile, è quello classico della segregazione nella torre d’avorio: dinanzi ad una società cui urgono risposte e soluzioni a problemi tragicamente concreti, si vive come un tradimento la rigidità di una contemplazione distante, impegnata in una sterile caccia ad una fantomatica ousia della techne. In virtù di questo, la realistiche Wende è anche e primariamente praktische Wende nella duplice accezione del termine: “praktisch” nel senso di “realistico”, “concreto”, che rifugge da ambiti di interrogazione troppo vasti e perciò “vaghi”; ma “praktisch” anche nel senso di “etico”, perché è un ethos, una pratica, soprattutto in termini di responsabilità rispetto a scelte e decisioni, ciò di cui si avverte il maggior bisogno. Stante questo, la mia idea è che lo spirito di una simile prospettiva possa trovare una corrispondenza più adeguata nelle definizioni: neo-pragmatismo e, meglio ancora, neo-ingegnerismo. Come nella precedente occorrenza anche qui “ingegnere” sta per “tecnico”. Se gli “ingegneri” di inizio secolo (Dessauer, Zschimmer) erano i tecnici delle tecniche, coloro che partendo da una pratica concreta di una qualche disciplina tecnica tentavano poi di costruire un orizzonte di comprensione più ampio, i “neo-ingegneri” rappresentano invece i tecnici della tecnica. Questa ulteriore definizione merita un minimo chiarimento. L’ambiguità semantica cui essa si presta sintetizza efficacemente la tensione che la abita. Accentuando il genitivo della locuzione – per cui essa diventa un “tecnici della tecnica” – si assume, verosimilmente, l’autopercezione degli stessi neo-ingegneri: essi mirano ad essere degli esperti della tecnica in quanto tale, coloro che di essa si intendono e vi sanno trattare, la gestiscono. Al contrario, laddove si sottolinei il primo termine – avendo così un “tecnici della tecnica” – si perviene al nodo vero della questione, al fatto che questa prospettiva non può che restare una filosofia della tecnica al genitivo. Il punto centrale, infatti, concerne il come di un tale intendersene, il modo della dimestichezza. I vari Christoph Hubig, Hans Lenk, Friedrich Rapp, Günther Ropohl (per citare i nomi più noti61) approccia61

HUBIG,

Indico, qui di seguito, i testi di riferimento (almeno quelli essenziali): C. Technik- und Wissenschaftsethik. Ein Leitfaden, Berlin-Heidelberg-New

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no il fenomeno della tecnica alla stregua di una delle sue fattispecie: come un problema a cui occorre trovare una soluzione. E la soluzione, in quanto scopo, viene perseguita e raggiunta approntando i mezzi adeguati62. Precisamente la ratio operandi della tecnica. Lo spazio del pensiero viene usurpato dalla messa in opera di una strategia razionale di controllo: a questo punto la tecnica veglia su di sé attraverso i suoi propri strumenti e in ciò (vale a dire, nel momento in cui elimina qualsiasi eccedenza rispetto a se stessa, ergendosi a mensura sui), definitivamente, si compie. Quella proposta dal neo-ingegnerismo è dunque una metatecnica, la tecnica di tutte le tecniche. Con questa svolta la Philosophie der Technik diventa in tutto e per tutto una Technikphilosophie, una “filosofia tecnica”63. Ciò detto, ovviamente, non si vuole (né, in ogni caso, si potrebbe) negare legittimità ad un simile approccio, la cui utilità effettiva (e il conseguente successo) sono fuori discussione. Il punto è un altro. A York 1993; A. HUNING, Das Schaffen des Ingenieurs. Beiträge zu einer Philosophie der Technik, Düsseldorf 1974; H. LENK, Zur Sozialphilosophie der Technik, Frankfurt a. M. 1982; F. RAPP, Analytische Technikphilosophie, cit.; G. ROPOHL, Eine Systemtheorie der Technik. Zur Grundlegung der allgemeinen Technologie, München-Wien 1979. A questi va accostato il già citato volume, AA.VV., Nachdenken über Technik (la cui utilità ai fini di un orientamento generale nella materia, peraltro, appare incontestabile) curato da Hubig, Huning e Ropohl, nel quale l’impronta ingegneristica traspare chiaramente (le recensioni dedicate ai testi più filosofici: quelli di Anders, Cassirer, Ellul, Heidegger, si concludono sovente con un appunto critico relativo all’incapacità, da parte di questi autori, di offrire soluzioni concrete. Detto volume, tra l’altro, nasce nell’ambito di un progetto complessivo su “Technik – Gesellschaft – Natur” curato dal VDI, ovvero dal “Verein Deutscher Ingenieure”, istituzione nata in Germania nel 1856). 62 Scorrendo alcuni dei testi dei suddetti autori, quasi sempre molto documentati e meglio argomentati, vi si rinvengono degli schemi analitici (simulanti interazioni tra diverse variabili – valori, scopi, mezzi… –, finalizzati al conseguimento di strategie di condotta) che danno visivamente l’impressione di veri e propri circuiti. Ne risulta così rafforzata l’impressione, anche percettiva, che in simili tentativi venga perseguita, più o meno consapevolmente, una sorta di Ethic Engineering (cfr., ad esempio, il già citato C. HUBIG, Technik- und Wissenschaftsethik. Ein Leitfaden). 63 L’espressione Technikphilosophie compare presso alcuni autori (ad esempio in P. FISCHER (hrsg. von), Technikphilosophie…, cit.), tuttavia priva di una caratterizzazione semantica peculiare, alla stregua di un mero sinonimo di Philosophie der Technik.

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colpire è questo scenario da dürftige Zeit heideggeriana: il tempo in cui ad obliarsi è l’oblio stesso. Il discrimine, la linea d’ombra è il seguente: che ci si meravigli o meno dinanzi al fatto, esperito, dell’impossibilità di guardare la tecnica dall’esterno, il rimanere ingabbiati (per dirla con Weber) nella sua logica proprio nel momento in cui si crede di averla concettualmente afferrata e dunque scardinata, superata. Non è una questione di lana caprina, tutt’altro: il fenomeno della tecnica, la sua forma come totalità rivela proprio nell’innescarsi di un tale cortocircuito uno dei suoi tratti essenziali: la destinalità, ovvero il fatto che anche chi voglia opporvisi o quantomeno approcciarvisi in maniera critica non possa che farlo ancora una volta tecnicamente. Con le parole di Günther Anders: «che noi si voglia partecipare o no, partecipiamo, perché siamo fatti partecipare»64. È a questo livello, dunque, che accade quella inversione epocale tra mezzi e fini (lo s-finimento dei fini) che fa della tecnica il regno dei mezzi e con ciò la forma della contemporaneità. Lo spiega bene, riprendendo Emanuele Severino, Umberto Galimberti: «…se il mezzo tecnico è la condizione necessaria per realizzare qualsiasi fine, che non può essere raggiunto prescindendo dal mezzo tecnico, il conseguimento del mezzo diventa il vero fine che tutto subordina a sé»65. Anche se il rischio è quello di impantanarsi in un vicolo cieco, una filosofia della tecnica al nominativo (una Philosophie der Technik) è quella che insiste (ostinata com’è) a non ignorare un tale nodo problematico, cercando anzi nella semplice consapevolezza che permette di scorgere qui – in questo spazio apparentemente neutro – la possibilità di un domandare autentico, anche uno spiraglio per sot64

G. ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, tr. it. di L. Dallapiccola, Milano 1963, p. 11. 65 U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano 2002, p. 37. Più avanti, ancora richiamandosi a Severino, l’autore scrive: «…da mezzo universale per il conseguimento di qualsiasi fine, la tecnica si trasforma in fine supremo, in ciò in cui convergono le infinite serie di fini che si piegano a quel mezzo, perché da quel mezzo dipende la loro realizzazione» (ivi, p. 251). Inutile dire che anche la riflessione di Severino sulla tecnica (così vicina e al contempo così lontana da quella heideggeriana – anch’essa riconducibile, secondo la schematizzazione proposta in queste pagine, ad una fenomenologia genealogicoontologica) avrebbe meritato una trattazione peculiare, incompatibile, però, con le esigenze di brevità del presente contributo.

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trarsi ad un destino necessitante. D’altro canto è pur vero che, nella sua “pecca”, il neo-ingegnerismo porta soltanto in piena luce un equivoco risalente a quelle riflessioni che hanno anticipato la filosofia della tecnica vera e propria. Sarà il caso, quindi, di derogare eccezionalmente al proposito formulato in apertura, volgendosi rapidamente al versante delle “filosofie della tecnica implicite”. Excursus: Sul “caso” di Rousseau Dopo aver espresso la propria preoccupazione che la filosofia della tecnica diventi un esempio ulteriore di filosofia al genitivo, Volpi afferma: «se si volesse ricostruire la storia della moderna filosofia della tecnica […] si potrebbe considerare come suo atto di nascita il celebre Discours sur cette question: le rétablissement des sciences et des arts a-t-il contribué à épurer le moueurs? che Rousseau presentò nel 1750 in risposta al quesito messo a concorso dall’Accademia di Digione. È un esempio eccelso di filosofia della tecnica al nominativo»66. La mia valutazione è invece esattamente opposta: resto persuaso che la vicenda di Rousseau rappresenti l’emblema di quello strabismo nei confronti del fenomeno della tecnica compiutosi nell’abdicazione filosofica del neo-ingegnerismo. Prima di motivare questa tesi, una breve precisazione. Il sottinteso dell’investitura dello scritto rousseauiano da parte di Volpi sta nell’idea che il tema della tecnica si innesti storicamente sul dibattito intorno al progresso, come sua prosecuzione, raffinamento. Effettivamente il retroterra irrazionale, fideistico che, eziologicamente, è tanta parte di quella cesura che renderà la tecnica moderna un fenomeno a sé stante, si identifica quasi per intero con la mitizzazione del progresso, con il suo passaggio dallo statuto di “contingente” a quello di “necessario”. Ciò posto, il vero antesignano della riflessione sulla tecnica (o meglio, della buona disposizione verso di essa) può ritenersi Bernard de Fontenelle, che nel 1688, nell’ambito della querelle des anciens et des moderns (ancora in Francia, dunque), con la sua Digression prende posizione a favore dei moderni in nome della inesorabilità del progresso umano. Da allora il progresso/tecnica assume ufficialmente lo status di “questione”, affrontata sempre all’interno di una cornice comparativa: ora in riferi66

F. VOLPI,

Il nichilismo, cit., p. 147. Il corsivo finale è mio.

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mento alla natura, ora alla cultura nelle sue diverse sfaccettature (la civilizzazione, ad esempio) con le quali, occasionalmente, essa finisce per identificarsi67. In seno a questa vicenda il Discours rappresenta certamente un evento cruciale. Al cospetto del Dio-progresso Rousseau fa esplicita professione di ateismo. Nella sua concezione, le scienze e le arti rappresentano il risultato delle peggiori inclinazioni dell’essere umano, concrezioni dell’umana vanità, pura hybris (detto in termini a noi più familiari: pura volontà di potenza). In balìa delle sue stesse realizzazioni, il moderno homo cultura si è alienato la natura (anzitutto la natura che è in lui) che per Rousseau resta invece ciò su cui l’essere umano deve parametrarsi, lo sfondo da cui trarre la propria misura. Al di là dei toni esasperati, peraltro funzionali al contesto specifico e all’indole del personaggio, il valore “profetico” di alcune intuizioni rousseauiane risulta lampante. Tuttavia questo non basta a rendere la sua riflessione una (proto)filosofia della tecnica al nominativo. A rivelare l’insufficiente penetratività dello sguardo di Rousseau è l’esito stesso della sua riflessione. Nel 1762, dodici anni dopo il Discours, egli dà alle stampe l’Emile, che insieme ai coevi Nouvelle Héloïse e Contrat social costituisce la sua contromossa al degrado moderno. Restiamo al primo dei tre scritti. Che cosa accade con esso? Al fine di rinaturalizzare l’individuo (smodernizzarlo), Rousseau propone e pianifica una delle più rigorose tecniche pedagogiche che si possano immaginare. Nel suo panopticon educativo, tutto viene previsto e calcolato: la stessa spontaneità (persino quella erotica, sentimentale) viene organizzata e somministrata nel suo accadere secondo un dosaggio sapientemente meditato, in modo da conseguire l’effetto desiderato. Ora, il punto non è se si possa immaginare l’attuazione di un simile progetto in maniera differente, se l’idea stessa di educazione, in quanto formazione (in tedesco, come è noto, si usa il termine Bil67

Al ruolo di antesignano per la riflessione sulla tecnica di Fontenelle fa cenno anche Peter Fischer (cit., pp. 288-289). Più in generale, relativamente all’importanza del costituirsi di una mitologia del progresso come fondamento ideologico (fideistico) per la tecnica moderna, cfr. S. LATOUCHE, La Megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, tr. it. di A. Salsano, Torino 2000, pp. 137-181 (edizione originale: La Megamachine. Raison techno-scientifique, raison économique et le mythe du Progrès, Paris 1995).

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dung, dal verbo bilden: formare, edificare), non rechi in sé una componente di pianificazione e dunque di previsione calcolante (quasi certamente sì). Si tratta, piuttosto, di questa sprovvedutezza speculativa, del ritenere aprioristicamente escluso dall’orizzonte della Fragwürdigkeit (di “ciò che è degno di essere elevato a questione”) il fatto di dover utilizzare le regole del progresso (e nella maniera più ortodossa) anche laddove si persegua lo scopo di sabotare quelle stesse regole. Di nuovo, il succitato carattere di destinalità della tecnica. E. Jünger lo definisce nei termini seguenti: «dovunque l’uomo cada sotto la giurisdizione della tecnica» (anche nel ruolo di oppositore, è il caso di aggiungere) «egli si vede posto dinanzi a un inevitabile autaut. Non gli resta che una scelta: o accettare gli strumenti propri della tecnica e parlare il suo linguaggio, o affondare. Se però si preferisce accettare […] ci si rende non soltanto soggetto dei processi tecnici, ma, insieme, loro oggetto»68. Ancor più radicale J. Ellul: «ogni tentativo dell’uomo deve scegliere oggi, per esprimersi, i mezzi tecnici […] ma questi ultimi procedono anche “ipso facto” a una sorta di censura sul tentativo stesso»69. Ebbene, che agli occhi di Rousseau tutto ciò non faccia in alcun modo questione: è questa la vera questione (filosofica). Per tale motivo appare legittimo sostenere che quella su cui riflette (e contro cui si scaglia) il pensatore francese semplicemente non è l’essenza del progresso (e della tecnica), ma tutt’al più un suo epifenomeno. 3.2 Fenomenologia Anzitutto una precisazione. Più ancora che negli altri casi, nella circostanza il raggruppamento di specificità differenti entro uno spazio comune va inteso come operazione ex post, tutta interpretativa insomma e per questo, eventualmente, tanto più censurabile. La definizione scelta sta a connotare non tanto una effettiva comunanza metodologica (men che meno in diretto riferimento al metodo husserliano) quanto una pre-disponibilità fondamentale: la convinzione, cioè, di avere innanzi un fenomeno, ovvero un’entità unitaria e coerente pur nelle sue molteplici epifenomenicità; jüngerianamente parlando, una “forma”: «un tutto che è più della somma delle sue par68

E. JÜNGER,

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L’operaio, cit., p. 148. La tecnica, rischio…, cit., p. 419.

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ti. Questo di più lo chiamiamo totalità»70. Tale è la tecnica. Una predisponibilità, questa, che si traduce non di rado in una specie di ostinazione, nella caparbia volontà di non sciogliere l’intero anche di fronte alle presunte evidenze del reale che esige, dal canto suo con pieno diritto, riposte, soluzioni. Una vocazione all’inattualità non sterilmente ostentata quale tratto di distinzione, ma piuttosto coltivata e sostenuta in nome della persuasione che «la filosofia si occupa esclusivamente (überhaupt) dell’intero (das Ganze) e non è una scienza specialistica»71. Che alla filosofia sola pertenga “la cura del domandare”, ridice quella Frömmigkeit che essa si deve per rimanere se stessa. La filosofia della tecnica al nominativo alligna qui. Questa disposizione fenomenologica verso la tecnica, che prende corpo almeno cronologicamente in maniera unitaria nel corso degli anni cinquanta, trova due ideali precursori in Ernst Cassirer ed Ernst Jünger, le cui disamine, apparse negli anni trenta, eccedono la cornice spirituale del loro tempo. Nel caso di Cassirer si dà un impianto sistematico che nel suo complesso risulta non poco invasivo; ciononostante, all’interno di esso la trattazione relativa alla tecnica riesce a ritagliarsi uno spazio proprio, conseguendo un approccio impregiudicato, nel senso di interessato anzitutto a lasciarne emergere le peculiarità. Il testo di riferimento è un saggio del 1930 dal titolo: Form und Technik72. L’autore esordisce facendo due ammissioni: 1. quella in corso è l’epoca del «primato della tecnica», ovvero essa è la manifestazione centrale della cultura nel presente. A dimostrarlo è la sua capacità metabolica, un 70 E. JÜNGER, L’operaio, cit., p. 32. Un pensatore che esplicitamente definisce il proprio approccio alla tecnica “fenomenologico” è l’americano DON IHDE, autore di uno studio dal titolo: Technics and Praxis, Dodrecht 1979. Un’agevole, schematica esposizione delle linee guida della sua filosofia della tecnica (che ruota attorno alle possibili combinazioni reciproche di tre entità fondamentali: “uomo”, “mondo”, “strumento”) è offerta (malgrado la storpiatura del cognome, che non è “Idhe”, bensì “Ihde”) in J. Y. GOFFI, La philosophie de la technique, cit., pp. 67-71. 71 K. LÖWITH, Zur Frage einer philosophischen Anthropologie, in: K. LÖWITH, Sämtliche Schriften, vol. I, Mensch und Menschenwelt: Beiträge zur Anthropologie, hrsg. von K. Stichweh, Stuttgart 1981, pp. 329-341. 72 Il saggio è oggi incluso nella raccolta: E. CASSIRER, Symbol, Technik, Sprache, Hamburg 1995 (II edizione immutata), pp. 39-91.

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impulso accentratore tale per cui le stesse «forze contrastive» traggono la loro vitalità da un legame con essa che, per quanto in negativo, resta parassitario, una dipendenza. 2. La filosofia ha storicamente sottovalutato la tecnica, relegandola ad un ruolo marginale. È tempo che essa si tragga fuori da questo stato di minorità. Ciò implica l’emancipazione da una visione soltanto strumentalistica, a beneficio di un’attenzione al portato spirituale ad essa sotteso: secondo questa prospettiva, quindi, con la comparsa del primo strumento non ha luogo “semplicemente” il passaggio «verso un nuovo dominio universale (Weltbeherrschung)», ma si introduce «una svolta universale della conoscenza»73. Anche per il tramite di un confronto con buona parte degli autori accostatisi al tema in precedenza (soprattutto Eyth)74, Cassirer delinea un percorso di sviluppo della tecnica che si conclude con un esito ambiguo: da forza di emancipazione essa finisce per approntare un mondo degli oggetti e delle cose che si muove secondo norme sue proprie, che mirano ad imporsi in modo assoluto contrastando i fini ed i compiti dello spirito. La tendenza costitutiva della tecnica alla “realizzazione” (Realisierung) fa sì che essa possa perseguire un disegno di libertà per mezzo di strumenti di asservimento, asservimento che si traduce sostanzialmente in alienazione (Entfremdung): si tratta del processo di materializzazione dello spirito, l’aspirazione, cioè, a risolvere interamente l’invisibile nel visibile quantificandolo. Il contromovimento da attuare è per Cassirer una «smaterializzazione della tecnica», ovvero una sua «eticizzazione», anzitutto evitando che essa continui ad essere una sfera autoreferenziale, co75 stringendola all’interdipendenza . Per ciò che riguarda Jünger, il discorso si presenta alquanto differente. È probabilmente lecito affermare che nella sua prospettiva la tecnica, l’essenza stessa del produrre, scada in qualche modo al rango di prodotto: opera di un tipo umano nuovo, di una avanguardia antropologica che sta imprimendo al mondo la propria nuova forma. 73

Ivi, p. 61. Ivi, pp. 49 ss. A Max Eyth, ingegnere cui si devono alcune significative riflessioni sulla tecnica moderna (raccolte in: M. EYTH, Lebendige Kräfte. Sieben Vorträge aus dem Gebiet der Technik, Berlin 1905), Cassirer si rifà essenzialmente per le sue ipotesi sulla prossimità funzionale di linguaggio e tecnica. 75 E. CASSIRER, Symbol, Technik…, cit., p. 89. 74

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L’aspetto interessante della riflessione jüngeriana (che, giova ricordarlo, non si accredita esplicitamente come interrogazione intorno alla tecnica) risiede tuttavia nella sua capacità di mantenersi in una curiosa, proficua ambivalenza: da un lato la tecnica viene interpretata se non come un epifenomeno, certamente come esito e sintomo di un processo più ampio; dall’altro, questo giudizio non determina ipso facto una approssimazione sul piano analitico; si direbbe, anzi, che proprio in forza dell’assunzione di una tale angolazione sui generis l’autore sia in grado di “stanare” alcuni dei caratteri fondativi ed epocali del fenomeno della tecnica. Il testo di riferimento è, ovviamente, L’operaio (Der Arbeiter)76 del 1932. Il sottotitolo, “dominio e forma”, (Herrschaft und Gestalt) chiarisce subito lo sfondo ultimo entro cui si muove il discorso di Jünger. La tecnica è definita «la mobilitazione del mondo attuata dalla forma dell’operaio» e «la misura in cui l’uomo si pone in relazione con essa, la misura in cui egli non viene distrutto ma potenziato da essa, dipende dal grado in cui egli rappresenta la forma dell’operaio»77. A ben vedere, ciò che davvero caratterizza l’analisi jüngeriana è una preliminare disposizione emotiva, una angolatura patica assolutamente peculiare. In effetti, i termini concreti del suo ragionamento (i tratti che vengono isolati dal suo sguardo) non risultano essenzialmente diversi da quelli di altri autori che in questi decenni si impegnano in un corpo a corpo con il proprio tempo in cerca della sua “cifra”. Ad esempio, anche in Jünger è forte la consapevolezza di vivere in una Zwischenzeit, in un tempo intermedio, in un “fra” nel quale un’esperienza (un dominio) universale si è sostanzialmente esaurita e non se n’è ancora imposta una nuova78. 76

E. JÜNGER, L’operaio…, cit. La parte dedicata specificamente alla trattazione della tecnica è il quinto capitolo della seconda sezione: La tecnica come mobilitazione del mondo attuata dalla forma dell’operaio (ivi, pp. 139-180). Resta qualche perplessità relativamente alla scelta del pur ottimo traduttore italiano (Q. Principe) di rendere il tedesco “Arbeiter” con “operaio” che forse restringe oltremodo l’orizzonte semantico originario del sostantivo tedesco (“Arbeiter” è, letteralmente, “lavoratore”. Si sarebbe forse potuto optare per un compromesso tra le due opzioni estreme – “lavoratore” e “operaio” – con una resa quale “operatore”). 77 Ivi, p. 140. 78 «Viviamo in uno strano periodo nel quale non c’è più un dominio e non

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La differenza sta appunto nella disposizione interiore rispetto a questo spettacolo: Jünger non sembra atterrito dalla devastazione circostante, e quindi dal senso di ciò che “non è più”, ma, al contrario, appare rapito dal carattere di possibilità che un tale scenario preannuncia, dal “non ancora” di cui si fa latore: quello che ci si trova innanzi, dunque, non è un vuoto (un nulla), bensì un aperto79. Il modello per una tale disposizione, dati anche gli strumenti concettuali cui Jünger si affida per vertebrare una simile realtà (i già menzionati “dominio” e “forma”, che appaiono in ultima istanza delle personali declinazioni di due parole chiave di questo periodo come “potenza” e “ordine”) sembra il nietzscheano “nichilismo attivo” («un segnale della cresciuta potenza dello spirito la quale si esplica nel promuovere e nell’accelerare il processo di distruzione»80), lo spirito del fanciullo eracliteo recatore di una nuova innocenza in grado di attuare la “terza metamorfosi”: quella che conduce da uno stato ancora soltanto reattivo (il leonino “io voglio”) ad uno pienamente affermatore, assiologicamente poietico (il “così volli che fosse”, l’“io sono”, l’“ego fatum”). In un simile scenario la tecnica funge, per così dire, da strettoia, un epocale redde rationem attraverso il quale viene letteralmente selezionata l’élite antropica in grado di porsi a guida, di dominare, forgiandolo, il novum assoluto che si annuncia, la nuova forma. La tecnica, «forza distruttrice di ogni fede», è la grammatica di questo mondo nuovo e soltanto coloro che sapranno «parlare il nuovo linguaggio non come strumento puramente intellettuale […] ma come linguaggio elementare» potranno «servirsi realmente e coerentemente della tecnica»81. c’è ancora un dominio» (Ivi, p. 169). Heidegger, come è noto, attribuirà a questo stato di cose l’etichetta di «dürftige Zeit» (“epoca di penuria, di povertà”). 79 Fa fede di questo atteggiamento il celebre confronto con Heidegger dinanzi alla linea del nichilismo, linea che Jünger, a differenza del suo interlocutore, intende come un limite da lasciarsi alle spalle, scavalcare. I due concetti simbolo delle rispettive disposizioni sono Verwindung e Überwindung, che indicano, per l’appunto, le due modalità con cui un oltrepassamento può avvenire: per accantonamento (Verwindung), oppure attraverso un processo di metabolizzazione, introiezione (Überwindung). Cfr. M. HEIDEGGER/E. JÜNGER, Über die Linie, Frankfurt a. M. 1976 (tr. it. a cura di F. Volpi, Oltre la linea, Milano 1989). 80 F. NIETZSCHE, Opere VIII, tomo II (Frammenti postumi 1887-1888), a cura di G. Colli e M. Montanari, versione di S. Giametta, Milano 1971, pp. 12 s. 81 E. JÜNGER, L’operaio, cit., p. 151.

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Lasciarsi asservire da una volontà in grado di dominarla (la forma dell’operaio), è per Jünger il telos stesso della tecnica, il raggiungimento della sua «perfezione»82. Prima di portare a compimento il proprio eidos ancillare, essa vive però una fase embrionale (quella, appunto, del primo Novecento) in cui il suo ruolo al servizio della Totale Mobilmachung è essenzialmente di carattere anarchico-distruttivo, dando così l’impressione, del tutto erronea, di essere un’entità autotelica, «un sistema causale in sé concluso»83. Stante dunque il carattere destinale della tecnica, vale la pena, conclude Jünger, «accentuare l’impeto e la velocità del processo in cui siamo coinvolti. Nella nostra condizione dovremmo intuire che dietro gli eccessi dell’epoca è nascosto un immobile centro»84. L’elemento significativo della disamina jüngeriana non sta in senso stretto nell’efficacia della sua griglia interpretativa, quanto, di nuovo, in questa preliminare intuizione, ossia che dietro una serie di manifestazioni più o meno connesse tra loro si celi un fenomeno organico di portata epocale che esige, perciò stesso, un adeguato approccio comprendente. Di qui, poi, si dà anche il valore in sé di alcune intuizioni in grado di tracciare in parte le linee di contorno di questa realtà85. Non va infine trascurato il merito di un tentativo che attesta come la possibilità di uno sguardo “benevolo” nei confronti della tecnica (la convinzione, cioè, che «anche il mondo dell’operaio sarà patria dell’uomo»86) non debba scadere giocoforza in una esaltazione oltranzista e acritica (tecnolatra), nella misura in cui si regge sulla lucida consapevolezza della complessità del tema. 82 Verosimilmente da questa espressione di suo fratello («perfezione della tecnica»), interpretata peraltro come una iattura da scongiurare a tutti i costi, Friedrich Georg Jünger trae spunto (e titolo) per il suo contributo sul tema (il già citato, La perfezione della tecnica). 83 E. JÜNGER, L’operaio, cit., p. 179. 84 Ivi, p. 180. 85 Tra le altre andranno almeno menzionate: quella relativa al carattere assolutamente non neutrale della tecnica (ivi, p. 148; una non neutralità che, è bene ribadirlo, non implica per Jünger il riconoscimento di un suo statuto autonomo); ed il superamento, da essa sancito, della distinzione tra «mondo organico e mondo meccanico», tra physei onta e technai onta (ne è simbolo, per Jünger, «la costruzione organica»; ivi, p. 158). 86 E. JÜNGER, Minima-Maxima. Adnoten zum “Arbeiter”, Stuttgart 1964, p. 71.

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Passando alla “fenomenologia della tecnica” vera e propria, appare subito chiaro come la scelta di questo carattere discriminante (funzionale, come detto, alla partizione, che ai fini di queste pagine risulta decisiva, tra una riflessione sulla tecnica ancora intonata ad una Stimmung filosofica ed una che, per così dire, “cede” alle lusinghe dell’autobbiettivazione: parametrandosi, cioè, sul criterio tecnico-oggettivo dell’efficienza, della prestazione) si dimostri all’atto pratico non particolarmente agevole, imponendo, così, una serie di sottodistinzioni che facciano emergere adeguatamente alcune significative diversità di approccio. Ciò posto, ho rinvenuto tre direttrici fondamentali entro le quali accorpare i contributi dei vari fenomenologi della tecnica, ovvero: fenomenologia genealogica; fenomenologia socio-antropologica; fenomenologia pura. Va precisato che il tratto dirimente anche nella scelta di queste suddivisioni è rappresentato dalla prospettiva adottata dai differenti autori nei confronti dello specifico della tecnica moderna. a) Fenomenologia genealogica. La prima direttrice raggruppa quei tentativi che, pur ponendo adeguatamente in luce la peculiarità della manifestazione contemporanea della tecnica, non ne fanno tuttavia un unicum, ritenendo, di conseguenza, che la adeguata comprensione di essa passi, in ultima istanza, per la sua riconduzione ad un processo “storico” più generale che ne rappresenta l’origine autentica. In forza di questa opzione, che senza sfociare in un pacificato gradualismo pure si volge, per il proprio orientamento, all’elemento della continuità, si giustifica la definizione di “genealogico”. Le due esperienze più significative in quest’ottica possono essere considerate quelle di Lewis Mumford (genealogia storica, historisch) e soprattutto di Martin Heidegger (genealogia ontologica, geschichtlich). Nel corso di più di tre decenni (dalla metà degli anni trenta alla fine degli anni sessanta del secolo scorso87) Mumford si impegna in 87

Le tappe principali di questo percorso sono L. MUMFORD, Technics and Civilization, New York 1934 (tr. it. a cura di E. Gentili, Tecnica e cultura, Milano 1961); l’opera principale: ID., The Myth of the Machine, vol. I: Technics and Human Development, New York 1964 (tr. it. a cura di E. Capriolo, Il mito della macchina, Milano 1969); ed infine ID., The Myth of the Machine, vol. II: The Pen-

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una riflessione che, rinvenendo la causa della «passiva adesione dell’uomo moderno alla sua tecnologia» in una «interpretazione radicalmente sbagliata della storia umana», scorge il «primo passo per ristabilire l’equilibrio» nel passare in rassegna «le fasi principali attraverso le quali l’uomo è emerso dalla sua condizione primigenia»88. Tale operazione culmina in una nuova scansione della storia dello sviluppo tecnico secondo tre periodi: età eotecnica (dal X al XVIII secolo), età paleotecnica (che trova il suo apogeo nel 1870. È l’età del capitalismo trionfante, il regno dello homo oeconomicus, l’epoca della «bancarotta morale»), età neotecnica (dall’inizio del XX secolo). Accanto ad essa emerge un differente approccio allo stesso tema antropologico: l’uomo, il cui organo poietico par excellence è il cervello piuttosto che la mano, ne emerge come «un animale produttore di pensiero, intento a dominare e organizzare se stesso»89. Su questi presupposti, Mumford retrodata l’autentica “cesura tecnica” nella storia umana: essa non va fatta coincidere con la rivoluzione industriale del Settecento ma risalirebbe addirittura al quarto millennio a.C., alla stessa “nascita della civiltà”, ovvero al momento dell’organizzazione «di una macchina archetipica composta di parti umane»90. Si tratta della celebre formula della megamacchina (che diverrà un vero e proprio topos della riflessione sulla tecnica), una sorta di forma ideale a cui l’uomo cerca di conformare a forza tanto se stesso quanto il mondo che lo circonda. Ad una versione antica, del tutto verticistica, regolata da una tecnica ancora non pienamente razionalizzata, il cui simbolo è la piramide nel deserto, segue una megamacchina moderna che, potendo fare assegnamento sugli sviluppi delle scienze fisicomatematiche, opera secondo una razionalità totalitaria mirando alla piena funzionalizzazione della variabile umana attraverso la sua spersonalizzazione. Ne è simbolo il razzo che fa rotta verso il nulla. A dispetto di ciò, il pessimismo di Mumford non è assoluto: la speranza di tagon of Power, New York 1966 (tr. it. a cura di M. Bianchi, Il pentagono del potere, Milano 1973). 88 ID., Il mito della macchina, cit., pp. 14 s. 89 Ivi, p. 21. Sulla scorta di una simile prospettiva, Mumford ritiene più aderente alla effettiva realtà dell’uomo artefice delle tecniche la definizione (proposta da Huizinga) di homo ludens, anziché di homo faber. 90 Ivi, p. 24.

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un’inversione di tendenza si lega all’emergere di un’etica universalistica improntata ad un modello organico, inizialmente promossa dall’esperienza di piccole comunità regolate da un’idea di sviluppo alternativa, che al valore del potere contrapponga e persegua quello della pienezza. La prospettiva heideggeriana è certo, sotto molti aspetti, ben distante da quella di Mumford tanto da rendere non poco problematica la scelta di assimilare le posizioni di entrambi. Cionondimeno, malgrado il fatto che in Heidegger l’aspirazione genealogica ecceda l’orizzonte ontico della mera Historie, a favore di quello ontologico-destinale della Geschichte – a sua volta traccia di quel “medesimo” in direzione del quale ha da convergere il complesso dell’interrogazione filosofica (la Seinsfrage) – resta centrale, sul piano del comprendere, l’aspetto della riconduzione della tecnica alla sua origine. Al di là di questa opzione, si ricava l’impressione che, risolta nel suo tendere verso l’originario, l’analisi heideggeriana trascuri la componente strettamente fenomenologico-descrittiva relativa alla tecnica moderna e al mondo cui essa dà forma. Il che, in parte, è certamente vero. La cosa, però, si spiega nei suoi termini adeguati soltanto tenendo presente lo specifico del pensatore in questione: con la sua filosofia, Heidegger mira (e nei suoi momenti più felici, riesce) a nominare le cose, a concedere ad esse nella parola, nel logos, lo spazio per una piena manifestazione. In queste “parole pensanti” finisce così per risuonare, piena, la potenza del sorgivo, nella quale, paradossalmente, può apparire già incluso per buona parte anche tutto quanto potrebbe emergere da una disamina specifica di un dato fenomeno91. Giusto questo è il caso del discorso di Heidegger sulla tecnica, in grado di fissare una serie di punti fermi (parole d’ordine) con i quali nessuna riflessione successiva ha potuto esimersi dal confrontarsi. 91 Per questo motivo mi pare che non colgano nel segno le osservazioni critiche di Peter Fischer il quale cerca di minimizzare l’apporto della riflessione heideggeriana sulla tecnica muovendole contestazioni che restano però ancorate ad un livello meramente terminologico (egli fa notare come una serie di espressioni rese celebri da Heidegger fossero già state utilizzate in precedenza da altri autori – ad esempio: di Gestell avrebbe già parlato Kapp, mentre al “carattere disvelante” della tecnica avrebbe fatto cenno Cassirer. Cfr. AA.VV., Technikphilosophie…, cit., pp. 11-12).

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Sebbene la tecnica rappresenti un tema tutt’altro che secondario del Denkweg heideggeriano, essa trova la propria più esplicita concrezione in un breve, celebre saggio del 1954: La questione della tecnica (Die Frage nach der Technik)92. Questo scritto procede effettivamente come una scansione delle suddette parole fondamentali il cui intreccio e successione smonta l’apparente ovvietà dello “innanzitutto e per lo più”, dischiudendone l’essenza autentica. La prima parola in cui ci si imbatte è instrumentum, atta a connotare una visione ancora «strumentale ed antropologica della tecnica», passando poi (attraverso la reinterpretazione della causalità come “esser-responsabile” e “far-avvenire”) alla poiesis/pro-duzione (Hervor-bringen) che dischiude l’orizzonte ek-statico del disvelamento (das Entbergen), là dove si compie l’esperienza originaria del vero (aletheia): la tecnica è dunque un modo del disvelamento. Nella sua declinazione moderna, tuttavia, essa partecipa del disvelamento in una forma sua propria: quella della “pro-vocazione” (Heraus-fordern), in cui l’ente viene posto, richiesto nella forma esclusiva del “fondo” (Bestand), ridotto cioè alla sua impiegabilità da parte dell’uomo. A questo punto ci si trova innanzi ad un bivio: da un lato l’uomo può “ri-velare” (nel senso di “occultare nuovamente”) il dis-velamento, nella misura in cui riconduce interamente a se stesso la disvelatezza (Unverborgenheit, la modalità concreta in cui si dà il disvelamento) «entro la quale di volta in volta il reale si mostra o si sottrae»; dall’altro può riconoscere che la maniera in cui egli «disvela ciò che è presente nella disvelatezza», altro non è che il suo corrispondere all’appello della disvelatezza. In altri termini, l’uomo si scopre a sua volta pro-vocato alla pro-vocazione dell’essente come “fondo” dalla “im-posizione” (Ge-stell), che è una modalità storica (geschichtlich) di inviarsi (schicken), destinandosi (Geschick), dell’essere stesso. Per Heidegger all’uomo non restano alternative: la sua possibilità autentica di essere libero (ovvero di appartenere, in quanto “ascoltante”, «all’ambito del destino»93) sta e cade con il suo mantenersi entro ciò che è “rischiarato” («illuminato-aperto») dalla disvelatezza, entro la verità epocale dell’im-posizione. Che un tale permanere dell’uomo moderno nella disvelatezza rechi in sé an92 93

Cfr. M. HEIDEGGER, La questione della tecnica, cit. Ivi, p. 17.

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che la possibilità di una deiezione come “cattiva disposizione” (l’incapacità di guardare al “fondo del fondo”, conformandosi in modo così decisivo alla pro-vocazione da non riuscire più a percepirla come un appello, né se stesso come appellato) fa del Ge-stell nel contempo il pericolo (Gefahr). Pericolo che, a sua volta, nomina l’arcano, il mistero (Geheimnis) di cui l’essenza della tecnica – ma invero qualsiasi essenza rettamente intesa in quanto “ciò che concede” – è portatrice. Heidegger lo esprime con la celebre citazione da Patmos di Hölderlin («ma là dove c’è il pericolo, cresce / Anche ciò che salva»94) nella quale, al di là del senso delle parole, risuona un’ultima suggestione: nell’antica Grecia la techne indicava anche la produzione delle arti belle. Pago di aver tenuto fede alla Frömmigkeit del pensiero (tenendo aperta, attraverso il “semplice” domandare, la dignità di una questione filosofica intorno alla tecnica), il discorso heideggeriano si conclude indicando nei sentieri dell’arte la direzione per il prosieguo della riflessione sulla tecnica, un orizzonte in cui poietico e poetico possano finalmente ritrovare l’intimità che spetta loro essenzialmente. b) fenomenologia socio-antropologica. Questa seconda sottodistinzione trae la sua ragion d’essere più da un raffronto con le altre due che non in forza esclusiva della peculiarità della sua trattazione della tecnica. Ai fini della presente ricostruzione, il raggruppamento ad hoc di esperienze come quelle di Arnold Gehlen, Hans Freyer e Hans Saachse95 svolge la primaria funzione di porre ulteriormente in risalto lo specifico della terza di94

Ivi, pp. 22, 26. I testi di riferimento sono A. GEHLEN, Die Seele im technischen Zeitalter. Sozialpsychologische Probleme der industriellen Gesellschaft, Hamburg 1957 (tr. it. a cura di A. Negri, L’anima nell’era della tecnica. Problemi socio-psicologici della civiltà industriale, Milano 1984); H. FREYER, Theorie des gegenwärtigen Zeitalters, Stuttgart 1955; H. SAACHSE, Anthropologie der Technik. Ein Beitrag zur Stellung des Menschen in der Welt, Braunschweig 1978. In virtù dell’opzione ideologica (nella fattispecie socialista) che dirige la sua riflessione sulla tecnica, ho preferito accomunare il tentativo di Saachse a quelli di Gehlen e Freyer (nei quali pure emerge come determinante il medesimo tratto, per quanto declinato in maniera speculare, ovvero secondo un orientamento conservatore), che non alla fenomenologia pura di Anders, il quale, del pari, si riferisce esplicitamente ad una “antropologia della tecnica”. 95

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rettrice fenomenologica, quella “pura”. A differenza di quest’ultima, infatti, gli autori appena menzionati si caratterizzano per il comune riferimento ad alcune pre-strutture teoretiche e culturali (ideologiche), le quali se certamente non inficiano, pure ridimensionano parzialmente una libera apprensione del fenomeno tecnico attuale nelle sue manifestazioni concrete (in primo luogo nelle sue incidenze antropologiche) a cui, peraltro, essi dedicano non poca attenzione. È, se si vuole, una questione di fiducia nella tecnica, non però relativamente ad un giudizio di valore intorno ad essa come tale (se rappresenti o meno una iattura per i destini dell’umanità) quanto in merito alla sua valenza di strumento ermeneutico, alla sua possibilità di offrire una prospettiva penetrante ai fini dell’intendimento del reale (dell’apprensione “del proprio tempo in pensieri”). La “rigida” cornice sociologica e/o antropologica adottata in queste analisi dice, appunto, di una tale non piena fiducia, che va, ovviamente, contestualizzata in modo opportuno, ossia all’interno di una preliminare opzione fenomenologica la quale attesta una prossimità, squisitamente filosofica, alla questione della tecnica, non rinvenibile in altri approcci (su tutti quello neo-ingegneristico). La distrazione che si può imputare ai suddetti autori vale, perciò, in una ben determinata e circoscritta accezione. Rispetto alla fenomenologia genealogica, ad esempio, quella socio-antropologica marca una differenza non trascurabile quanto all’arco temporale entro cui allocare l’eziologia della tecnica: il riferimento al decorso storico della sua vicenda non riveste un’incidenza decisiva, a tutto vantaggio di una più acuta osservazione dei caratteri propri a quella “epoca della tecnica” nella quale ci troviamo gettati. D’altro canto, una volta isolati, questi caratteri vengono rimessi a quelle pre-strutture di cui si diceva in precedenza, il che in certo modo svilisce il loro potenziale speculativo. A venir meno è quello élan che è invece proprio della fenomenologia pura, il coraggio di edificare un percorso interpretativo lasciandosi condurre in prima istanza dalle tracce che il fenomeno in esame concede di sé. Per quanto le esperienze di Freyer, Gehlen, e Saachse siano tutte meritevoli di considerazione, la più significativa appare senz’altro quella di Gehlen, che trova espressione compiuta in un testo del

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1957: Die Seele im technischen Zeitalter (L’uomo nell’era della tecnica96). Oltre che la più significativa, l’esperienza gehleniana è anche la più emblematica del tipo di disposizione cui s’è fatto cenno, visto che in lui la trattazione della tecnica si rivela pienamente organica alla pre-struttura della sua “antropologia elementare”. La tecnica viene definita «un vero specchio dell’essere umano»97, il quale nella riflessione di Gehlen, mossa da una fondamentale aspirazione antidualista, risulta, secondo una definizione già di Herder, un “essere carente” (Mängelwesen). La carenza in oggetto si origina a livello della stessa complessione dell’uomo, della sua morfologia: il suo “ritardamento evolutivo” (il non possesso di un corredo biologico – organi e istinti – specializzato) ne fa qualcosa di essenzialmente indefinito e perciò “esposto”. La combinazione di “eccedenza pulsionale” (Triebsüberschuss) e “carenza istintuale” (Antriebsschwäche) che lo contraddistingue lo pone in una condizione di originaria distanza (mediatezza) tanto rispetto a se stesso quanto al mondo circostante, distanza alla quale egli deve far fronte per poter sopravvivere: è questa la molla fondamentale che lo necessita all’azione, intesa da Gehlen come «la trasformazione previsionale e pianificata della realtà». L’uomo è dunque «per natura un essere culturale» e la sua vicenda è una vicenda di perpetua manomissione dell’ambiente circostante in vista della sua stabilizzazione: inizialmente per mezzo di tecniche soprannaturali (la magia) e successivamente attraverso quelle naturali (le scienze esatte98). Dichiarandosi debitore della Kulturphilosophie del primo Novecento e rifacendosi ad alcuni temi del suo maestro Freyer99, Geh-

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Andrà ricordato che, nell’ambito di quel processo definito “sociologizzazione del sapere” (che vede, nel corso del secondo dopoguerra la “conversione” alla sociologia di due maestri dell’antropologia filosofica come Gehlen e Plessner), Gehlen propone quest’opera come saggio di accreditamento per una nuova disciplina: la psicologia sociale. 97 A. GEHLEN, L’uomo nell’era…, cit., p. 12. 98 L’uomo, scrive Gehlen, «deve tendere ad ampliare la sua potenza sulla natura, perché questa è la legge della sua vita» (ivi, p. 37). È questa, in buona sostanza, anche la spiegazione di un’altra formula celebre della sua antropologia: quella della «libertà dalla estraniazione». 99 Per il debito nei confronti della visione storica di Spengler, si vedano, tra le altre, le pagine 137-138. Quanto a Freyer, Gehlen menziona più volte la sua

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len isola i riflessi antropologici principali del mondo della tecnica moderna, seguìto alla rivoluzione epocale dell’industrialismo: la virtualizzazione e la pleonessia. Con il primo termine (che non è gehleniano) si intende l’impossibilità per l’uomo moderno di compiere esperienze di prima mano; il secondo, invece, mira a sintetizzare lo stigma spirituale dell’uomo-massa, la sua piena dipendenza dalle logiche di consumo e possesso. Al di là di ulteriori osservazioni specifiche, l’aspetto davvero centrale nell’ottica del presente discorso concerne il tentativo gehleniano di circoscrivere la questione interamente nel suo schema antropologico. L’uomo, in quanto essere naturalmente culturale, al fine di arginare la propria originaria distanza dallo spazio naturale è costretto all’azione e con essa ad acuire quella stessa distanza (il che rimanda ad un altro concetto chiave della sua riflessione: l’esonero, Entlastung). Ciò comporta per lui l’impossibilità di fare assegnamento su un parametro esterno (immediato e fissato una volta per tutte) al quale commisurare la propria attività e con ciò il rischio di essere trascinato dall’inappagabilità delle proprie pulsioni verso situazioni di pericoloso disequilibrio, in cui a trovarsi esposta, minacciata è la sua stessa sopravvivenza. Per questa ragione Gehlen pensa ad un Handlungskreis, una struttura circolare dell’azione umana nella quale sarebbe costitutivamente previsto un momento riflessivo di autoregolazione ed autocontrollo (lo schema, inutile dirlo, ricorda da vicino l’idea del feedback teorizzata dalla cibernetica), che fa dell’uomo anche «l’essere della disciplina» (Wesen der Zucht). Ora, sul piano dell’organizzazione sociale il momento di disciplinamento e stabilizzazione si attua attraverso una sorta di processo fichtiano: l’io (in questo caso, collettivo) ha da crearsi una propria proiezione che, una volta alienata, gli si offra dall’esterno come termine di riferimento e come limite. È ciò che Gehlen definisce istituzione: da essa dipende la possibilità dello sviluppo di un’autentica cultura. Con l’avvento della superstruttura retta da «industria, tecnica e scienza naturale», una tale dinamica consolidata nel corso della storia umana si altera. A venire meno è proprio il momento della stabilizzazione istituzionale per cui l’uomo moderno, in balìa dei suoi stessi impulsi, scade al rango di categoria, effettivamente centrale, della “fattibilità” (Machbarkeit – cfr. ivi, pp. 46 e 127).

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«individuo razionalizzato e impersonale al massimo, “funzionante” nel punto di intersezione di diverse coordinate sociali»100. Di fronte all’avanzata di questa civilizzazione massificante, Gehlen auspica un movimento di re-istituzionalizzazione, il quale, però, non può principiarsi dall’alto, dalla collettività, ma va perseguito in uno spazio di singolarità. Attraverso lo strumento disciplinante per antonomasia, l’ascesi (declinata, nella circostanza, come «la rinuncia volontaria ai piaceri del consumo di qualsiasi genere, prescindendo dai motivi che determinano tale rinuncia e anche dal livello al quale essa avviene»101), egli pensa a qualcosa come un “luddismo etico”, nel senso di un sabotaggio dall’interno della megamacchina: l’esito dovrebbe essere il ripristino di uno stato antropico normativo, quello della personalità («un’istituzione per un solo caso»102). c) fenomenologia pura. A questo punto dovrebbe risultare già sufficientemente chiaro il senso di un approccio fenomenologicamente puro alla tecnica. La caratterizzazione di quelle prospettive (genealogica e socio-antropologica) che pure non sono, dovrebbe avervi contributo in maniera determinante. Si tratta, come detto, di una pre-disponibilità fondamentale la quale non si arresta alla attestazione dello statuto fenomenico della tecnica (del suo essere «un’entità unitaria e coerente pur nelle sue molteplici epifenomenicità»), ma ritiene che per corrispondere sul piano interpretativo a questa intuizione di base occorra un ben preciso atteggiamento metodologico, definibile come un disimpegno sistematico103. La tecnica, in tal modo, non viene né diluita in una soluzione storica più complessa né solidificata in un impianto teoretico preesistente, ma piuttosto interrogata con quella fiducia ermeneutica nelle sue virtù diagnostiche di cui si è avvertita l’assenza, tra gli altri, in Gehlen. «Si tratta», scrive Jacques Ellul (uno dei due autori simbolo di una simile prospettiva), «in sostanza di lasciarsi guidare da 100

Ivi, p. 181. Ivi, p. 130. 102 Ivi, p. 204. 103 Con questa espressione intendo riferirmi non alla sistematicità di un disimpegno, bensì ad un disimpegno di fronte a qualsiasi ipotesi di un approccio sistematico alla tecnica. 101

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quella specie di logica interna dei fatti e delle cose. È inutile parlare di leggi»104. Verosimilmente, a giustificare un simile percorso (il quale più che una «biologia della tecnica», di nuovo Ellul, è una vera e propria “entomologia”) è, in fin dei conti, la persuasione relativa al carattere onticamente destinale della tecnica, che essa, cioè, sia diventata «l’ambiente dell’uomo moderno» (per cui «è quest’ultimo che deve adattarsi a lei (non lei a lui); essa costituisce il suo quadro di vita»), ovvero che rappresenti oramai «il soggetto della storia»105. Günther Anders (l’altro autore di riferimento) trova una formulazione efficace per definire la traduzione pratica (metodologicamente pratica) di questa scelta: egli parla di «filosofia occasionale», vale a dire di una filosofia che parte da esperienze precise pervenendo, in tal modo, ad una «sistematicità après coup»106. Va da sé che il piglio entomologico dei fenomenologi puri possa emergere non da un’osservazione asettica dell’ente tecnico per se stesso, ma soltanto entro una dinamica relazionale, in riferimento alla sua funzione essenziale: quella di milieu umano. È, insomma, a partire dagli effetti, dalle ripercussioni antropologiche cui esso dà vita, che diventa possibile, in primo luogo, farsi un’idea delle proporzioni reali del fenomeno. Per molti aspetti, dunque, ne va anche nella circostanza di un’antropologia filosofica, peraltro con una differenza significativa: nel caso di specie, con questa espressione non si fa riferimento ad un impianto teoretico già compiuto, positivo al quale venga poi sottoposta, allo scopo di una sua piena integrazione, anche la variabile “tecnica moderna”. Piuttosto appare lecito parlare di una «antropologia negativa»107 nel senso che la possibilità di circoscrivere qualcosa come un nucleo dell’umano (“degli uomini”, per essere precisi) passa, giocoforza, per l’isolamento di quei caratteri antropici che si rivelano riottosi all’adat104

J. ELLUL,

105

G. ANDERS,

106

La tecnica, rischio…, cit., p. 150. L’uomo è antiquato, vol. II…, cit., p. 3.

Ivi, p. 4. A parlare esplicitamente di un’antropologia negativa e della conseguente antiquatezza dell’antropologia filosofica (tanto di quella esplicita e consapevole, risalente a Scheler, quanto di quella implicita e involontaria di Heidegger) è Anders (cfr., L’uomo è antiquato, vol. II…, cit., pp. 116-118 e il saggio, già del 1929 ma pubblicato nel 1936, Pathologie de la liberté; tr. it. a cura di R. Russo, in: G. ANDERS, Patologia della libertà: saggio sulla non identificazione, Bari 1993, pp. 53-96). 107

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tamento preteso dalla tecnica. Detto con Anders: ciò che oggi bisogna «richiedere in primo luogo alla filosofia» è una «critica dei limiti dell’uomo […] dei limiti di tutte le sue facoltà»108, dal momento che l’orizzonte problematico reale non è più quello della mutabilità dell’uomo ma il fatto che è mutato. In forza del disimpegno sistematico cui s’è fatto cenno, il modello formale perseguito da queste disamine non può essere (malgrado qualche tentennamento in merito da parte degli stessi interessati109) quello della weberiana avalutatività delle scienze; a far loro da tratto ordinatore si pone, invece, una disposizione emotiva di fondo (un pre-giudizio), più precisamente di carattere critico (in un senso, peraltro, ben diverso da quello della Kulturphilosophie). I titoli stessi delle opere che racchiudono dette disamine stanno ad attestarlo in maniera evidente110. Che poi una simile Stimmung, ansiosa più che angosciata (apprensiva, per meglio dire), tenda fatalmente ad una certa esasperazione, dando così luogo, in talune circostanze, a degli eccessi, finisce, come spiega ancora Anders, per rivelarsi un paradossale pregio sul piano strettamente operativo, una conseguenza necessaria e singolarmente vantaggiosa, visto che «esistono dei fenomeni che non si possono trattare senza accentuarli e ingrandirli; e ciò perché senza tale deformazione non si potrebbero identificare né scorgere […] essi ci pongono davanti all’alternativa: “esagerare o rinunciare a conoscerli”»111. 108

ID., L’uomo è antiquato, vol I…, cit., pp. 25 s. È il caso di Ellul (il cui orientamento critico è tutt’altro che un mistero) allorché afferma: «non si tratta di giudicare ma di comprendere» (J. ELLUL, La tecnica, rischio…, cit., p. 193). La questione, piuttosto, riguarda il fatto che in queste disamine l’elemento del giudizio si mostra assolutamente funzionale a quello della comprensione. 110 Assumendo i due punti di vista opposti, Ellul e Anders dicono però qualcosa di molto simile: il primo la esprime a parte subiecti, per cui la tecnica si connota anzitutto come il rischio del secolo, mentre il secondo la valuta a parte obiecti (hominis) usando l’espressione Antiquiertheit (“antiquatezza”) per sintetizzare la condizione antropologica normale e normativa nell’epoca della tecnica. 111 G. ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. I…, cit., p. 23. Poco più avanti, Anders adduce una motivazione ulteriore: «tale esagerazione è tanto più legittima, in quanto la tendenza di fatto della nostra epoca è addirittura di forzare la metamorfosi con mezzi esagerati […] la nostra rappresentazione “esagerante” è dun109

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Günther Anders lega il proprio impegno relativo ai temi della tecnica al suo lavoro più noto: Die Antiquiertheit des Menschen (L’uomo è antiquato), apparso, in due volumi, rispettivamente nel 1956 e nel 1980112. È l’autore stesso a definire la propria opera una «filosofia della tecnica», o meglio «un’antropologia filosofica nell’era della tecnocrazia», laddove con “tecnocrazia” viene inteso non il «dominio dei tecnocrati», ma il fatto che «il mondo, nel quale oggi viviamo […] è un mondo tecnico»113. Una prima, curiosa notazione che emerge dalla vicenda di Anders rispetto al discorso portato avanti in queste pagine, concerne il suo esilio negli Stati Uniti (a partire dal 1936) come momento pienamente rivelatore del fenomeno della tecnica, della sua dignità (e urgenza) in quanto questione filosofica. Si tratta di un’esperienza che, come si ricorderà, lo accomuna al padre della Philosophie der Technik: Ernst Kapp. Certamente interessante si rivela un raffronto tra le due vicende. L’America di Anders è infatti ben diversa da quella che aveva sedotto il geografo tedesco alla metà del XIX secolo: se quella selvaggia di Kapp, in quanto pura spazialità e perciò stesso u-topica (luogo per eccellenza del “non ancora”), poteva alimentare suggestioni e speranze riguardo la capacità umana di plasmare in modo umano l’ambiente circostante (e con ciò se stesso); quella che si para innanzi all’allievo di Heidegger (divenuta oramai la culla di una dimensione onirica interamente autoctona: l’american dream) sancisce la fine del sogno (umanistico): essa è divenuta, in quanto luogo naturale della razionalizzazione scatenata (il taylorismo, l’esperienza in fabbrica, che Anders visse in prima persona114), la paque solo […] la rappresentazione esagerante di ciò che viene prodotto nell’esagerazione» (ivi, p. 27). 112 ID., Die Antiquiertheit des Menschen, Bd. I: Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, München 1956; ID., Die Antiquiertheit des Menschen, Bd. II: Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution, München 1980. I quasi 25 anni di distanza tra i due volumi possono trarre in inganno relativamente alla coerenza interna dell’opera nel suo complesso, visto che, come afferma lo stesso autore, «molti dei saggi qui riuniti» [il riferimento, ovviamente, è al secondo volume, quello del 1980] «erano già pronti prima del 1960 (alcuni già stampati)» (ID., L’uomo è antiquato, vol. II…, cit., p. 5). 113 Ivi, p. 3. 114 Il passaggio epocale che sancisce la definitiva inversione di ruoli tra uomo e macchina viene definito da Anders «rivoluzione tayloristica» (ivi, p. 395).

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tria del “non più”, il luogo in cui la tecnica ha finalmente disvelato, realizzandolo, il proprio, inquietante volto autentico. Ora, questo “lavoro sul campo” (vale a dire, gli anni americani) determina una ripercussione curiosa nella concezione andersiana della filosofia, o meglio dello stesso anèr philòsophos, la quale recupera, in maniera personale, istanze feuerbachiane. Ai suoi occhi, è come se lo stesso modo in cui la tecnica è riuscita ad imporsi quale cifra del reale contemporaneo (il fatto che tutto ciò sia avvenuto, per così dire, tra la distrazione generale) sancisse, implicitamente, una latitanza della filosofia rispetto ai propri doveri. Dinanzi a questa consapevolezza, la replica di Anders muove lungo due direttrici che tradiscono, come accennato, un comune richiamo a Feuebarch. Da un lato, più prevedibilmente, in polemica verso lo sterile snobismo di coloro che, equivocando il senso della vocazione filosofica al “generale”, ritengono indegno di un interesse filosofico il mero “qualche cosa”, egli riprende quasi alla lettera il celebre motto dei Principi della filosofia dell’avvenire secondo cui «anche in quanto filosofo, io sono uomo con gli uomini»115. In seconda istanza, l’accento critico si rivolge, in modo meno scontato, contro gli eccessi della praxeolatria (marxiana anzitutto), che nella sua ansia di mettere mano al mondo per “correggerlo”, finisce con l’accantonare, colpevolmente, il momento, necessario e coessenziale, dell’interpretazione116. Il risultato di simili scompensi è l’attuale stato dei fatti: una filosofia in affanno, che annaspa alle spalle di un “già stato” e alla quale non resta che operare in rimonta, rimettendosi, umilmente, all’investigazione fenomenologica del reale, anche nelle sue fattispecie più concrete (emblematica, in tal senso, l’andersiana ontologia dei mass-media, televisione in prima istanza). Il “già stato” cui il sapere filosofico cerca di avere accesso con115 L. FEUERBACH, Principi della filosofia dell’avvenire, tr. it. a cura di N. Bobbio, Torino 1946, p. 190 (traduzione lievemente modificata). Per questa polemica contro i “mistici della filosofia”, cfr. G. ANDERS, L’uomo è antiquato vol. II…, cit., pp. 19 s. 116 L’epitome al secondo volume de L’uomo è antiquato è un vero e proprio capovolgimento della sentenza marxiana contenuta nelle Tesi su Feuerbach: «cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque […] nostro dovere è anche d’interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento» (ivi, p. 1).

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cerne, ovviamente, lo spazio antropico, le «metamorfosi dell’anima nell’epoca della seconda» (e poi terza) «rivoluzione industriale»117. La tecnica, ertasi oramai a «decisione preliminare» (Vorentscheidung) della contemporaneità (che è un modo ulteriore per nominare la sua destinalità) rivela il proprio carattere insieme autopoietico ed autotelico, creando un mondo («fantasma» o «matrice») a sua immagine e somiglianza, improntato al valore assoluto della utilizzabilità, della disponibilità (coatta) degli enti a diventare “materia per”. Se ne erge a simbolo la bomba atomica, macabra sintesi, in quanto “mezzo finale” per eccellenza («ordigno fine di mondo», per dirla con chi “imparò a non preoccuparsi e ad amare la bomba”), dell’utopia della tecnica quale “universo dei mezzi”. Nel momento in cui viene provocato e preteso nei termini esclusivi di un ulteriore fondo cui attingere (come «homo materia»), l’uomo, inteso nella forma in cui finora è stato conosciuto, si ritrova ineluttabilmente emarginato, costretto a riconoscere la propria antiquatezza. Nell’ottica della megamacchina egli è addirittura un componente perennemente difettoso perché sempre non all’altezza dei compiti di cui lo si investe: inizialmente come produttore, successivamente come fruitore/consumatore: inadeguato tanto all’azione quanto alla passione (il consumo). Per nominare questa asimmetria tra l’uomo e la tecnica (l’«incapacità della nostra anima di rimanere “up to date”, al corrente con la nostra produzione»118), Anders conia l’espressione: «dislivello prometeico», che sfocia nella «vergogna prometeica», dal momento che l’uomo vive con cattiva coscienza la propria inadeguatezza alla macchina119. Il «dislivello prometeico» si evolve seguendo un suo peculiare sviluppo: in una prima fase esso rappresenta lo scarto tra il massimo di ciò che possiamo produrre ed il massimo di ciò che possiamo immaginare; successivamente, indica lo scarto tra quello che produciamo e quello che possiamo usare ed in117

L’uomo è antiquato, vol. I…, cit., p. 23. Ivi, p. 24. 119 Cfr., ivi, p. 21. La falsa verità dell’epoca tecnica (che ci persuade del nostro rapporto «con il falso mondo esistente») viene formulata da Anders rivisitando la classica formula “adaequatio rei et intellectus” che diviene una «adaequatio producti et hominis». Quest’ultima, nella sua “verità vera”, dice che «gli apparecchi adattano noi a se stessi» (ID., L’uomo è antiquato, vol. II…, cit., p. 395). 118

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fine lo scarto tra il massimo che possiamo produrre e il massimo di ciò di cui possiamo avere bisogno. In maniera corrispondente si susseguono le rivoluzioni industriali: la prima è sancita dalla iterazione del «“principio del macchinale”», allorquando si arrivano a «fabbricare macchinalmente le macchine»120; la seconda si concentra sulla produzione di bisogni, mentre la terza passa alla produzione di uomini (heideggerianamente: alla tecnicizzazione del con-essere degli Esserci121). Una volta divenuto «overmanned», il mondo esige un corrispondente prodotto antropologico: non certo un ancora troppo inefficiente oltreuomo (uno Übermensch) bensì, letteralmente, un superuomo (un Superman), nel senso di un ente in grado di accrescere smisuratamente (e dunque sempre secondo il metro della misurabilità, della quantificazione) le proprie prestazioni, non da ultimo disimpegnandosi da tutti i gravami spirituali che possono comprometterne il rendimento122. L’analisi andersiana, come detto, ravvisa la fondamentale mutazione antropologica nell’era della tecnica nell’inclusione definitiva dell’uomo tra gli enti disponibili, tra gli utilizzabili, il che si attua concretamente per il tramite di un processo di sistematica parcellizzazione, nel passaggio dall’individuo al divisum123. Ciò che viene leso 120

Ivi, p. 9. Al pari di E. Jünger e di altri, Anders rinviene uno degli effetti più dirompenti della tecnica moderna nel superamento, da essa decretato, della distinzione assoluta tra physei onta e technai onta: con lo homo creator, in particolare, si danno circostanze in cui «per mezzo della techne si è prodotta physis» (ivi, p. 15). 122 Il discorso può sembrare a tutta prima astratto, tuttavia basterà por mente alle coordinate offerte quotidianamente dal mondo attuale per avere una conferma immediata di quanto detto. Tutto: le possibilità di spostarsi, di acquisire informazioni, di fare esperienze (anche emotive, sentimentali) messe a disposizione dall’impianto della tecnica incontrano oggigiorno come principale ostacolo alla loro attuazione il nostro (attuale) modo d’essere. Si pensi, anzitutto, al tempo relativamente breve di attività reale all’interno della vita di un uomo (la sua “produttività vitale effettiva”) e dunque ai suoi limiti fisici (su tutti il fatto che egli debba arrestarsi per un certo numero di ore ogni giorno per dormire), ma non meno a quelli propriamente spirituali (ad esempio: si rivela del tutto antieconomico, secondo la logica tecnica di produzione e consumo, il fatto che un uomo sia costituito in modo da tale da rimanere inevitabilmente “segnato”, ovvero alterato nella sua possibilità di rendimento, a seguito di esperienze emotive particolarmente intense). 123 G. ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. I…, cit., p. 136. 121

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in maniera sostanziale è la stessa unità dell’essere umano, franta sotto la torchiatura di pretese di prestazione molteplici e multiformi ma sempre unilaterali. L’antiquatezza, in fin dei conti, altro non è che questa sfasatura, l’arrancare di una facoltà dietro l’altra alla ricerca, vana, di un’armonia perduta. Il paradigma antropologico emergente dal discorso di Anders, quindi, più che quella di un “semplice” uomo ad una dimensione suggerisce l’immagine di un uomo ad “una dimensione per volta”. Quanto all’esito della sua diagnosi, esso oscilla tra un pessimismo ufficiale (una disperazione, addirittura, in polemica con la cecità dello speranzoso ottimismo di Bloch) ed una problematica tensione verso la possibilità di un contromovimento, che, a ben vedere, paiono l’uno la condizione dell’altra. A parte l’impegno, da “filosofo non professionista”, profuso nel corso di decenni nel fronte pacifista, sul piano strettamente teoretico va evidenziata una certa prossimità alla posizione heideggeriana, nel senso che Anders sembra condividere il “pathos di Patmos”, il principio per cui «là dove c’è il pericolo, cresce / Anche ciò che salva». A suo avviso, infatti, lo stesso evolversi della tecnica pone l’“umanità” nella condizione di essere davvero tale per la prima volta nella storia: «ciò che non sono riuscite a compiere religioni e filosofie, imperi e rivoluzioni, la bomba è riuscita a compierlo: renderci realmente un’unica umanità […] ora lo siamo. Dimostriamo che lo possiamo essere anche da vivi; e speriamo in quel giorno in cui potremo considerare incubi del passato le angosce apocalittiche di oggi e che, a proposito di parole del genere di quelle che sono state profferite qui, osserveremo soltanto: “che pathos superfluo”»124. La vicenda di Jacques Ellul rappresenta forse l’esempio più emblematico della frattura tra il tentativo di disvelare filosoficamente la tecnica e quello di organizzare tecnicamente la filosofia. Anzitutto per l’equivoco che la figura stessa di Ellul incarna: il suo statuto di “non specialista” (professionalmente si è occupato di scienza della politica), la sua dichiarata fede religiosa (è stato membro eminente della chiesa riformata francese) e, non da ultimo, la scelta di un titolo non del tutto opportuno (ammiccante, cioè, ad un certo sensazionali124

Ivi, p. 301.

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smo apocalittico) per la sua mirabile fenomenologia della tecnica (La tecnica, rischio del secolo), hanno offerto, seppure fittizio, uno spazio di manovra ai tentativi più superficiali di imbalsamare la sua posizione nel tumulo di un irrazionalismo tecnofobo e retrivo. A chi invece si sia anche solo accostato al suo discorso, non potrà che apparire lampante, stante pure qualche concessione di troppo che egli fa al suo pessimismo125, il contributo decisivo da esso fornito quanto al discernimento dei caratteri identitari della tecnica moderna intesa come compiuta totalità. Non è un caso, ciò posto, che nella sua recensione al già menzionato testo di Ellul, Friedrich Rapp (anch’egli già citato, tra i protagonisti di quella realistische Wende che ha reso ufficialmente la Philosophie der Technik una Technikphilosophie) ne sanzioni le pretese ad un approccio olistico affermando: «chi vuol spiegare (erklären) tutto contemporaneamente […] alla fine corre il rischio di non spiegare (erklären) nulla»126. Probabilmente Rapp è nel giusto, a patto però che l’intendimento sia quello di “spiegare”; laddove si miri al comprendere (verstehen), invece, tale tensione asintotica verso una forma unitaria e compiuta appare l’unica maniera per scorgere le implicazioni fondamentali che legano (e guidano) coerentemente i singoli processi. La riflessione di Ellul sulla tecnica si concreta in tre opere: la principale, apparsa nel 1954, ha per titolo, come detto: La tecnica, rischio del secolo (La technique ou l’enjeu du siècle); le altre due sono: 125

Si sarebbe tentati di ipotizzare che, giusto in forza del suo personale baluardo trascendente, il fideistico Ellul sia inconsciamente portato, esasperando certi tratti pessimistici emergenti dalla sua analisi, a screditare aprioristicamente qualsiasi opzione immanentista finalizzata ad arginare o “rieducare” la tecnica. In particolare, verrebbero tarpate le ali sul nascere alle possibilità insite nella dialettica tecnica-società, riducendo quest’ultima ad un mero ricettacolo passivo delle deliberazioni della prima (questo, il senso della critica mossa da Ubaldo Fadini alla «pantecnica» di Ellul: cfr. U. FADINI, Sviluppo tecnologico e identità personale. Linee di antropologia della tecnica, Bari 2000, p. 83). D’altra parte, tendendo presente l’osservazione metodologica di Anders relativa alla occasionale necessità dell’esagerazione al fine dello scorgimento di taluni fenomeni, si dovrebbe proprio alla radicalizzazione, operata da Ellul, dell’aut-aut tra immanenza e trascendenza la messa in luce, all’interno della sua disamina, di alcune fondamentali dinamiche alla base del sistema della tecnica nella sua totalità. 126 AA.VV., Nachdenken über..., cit., p. 126.

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Le système technicien, del 1977 e Le bluff technologique del 1988127. Persuaso del suo assoluto rilievo, per questa esposizione terrò presente in misura preminente la prima. Ellul utilizza un approccio più “sistematico”, se rapportato a quello di Anders (il cui testo, tra l’altro, costituisce una raccolta di saggi): lo stesso reagente antropologico viene utilizzato in maniera più discreta, tuttavia senza che ne risulti compromessa la centralità. Parafrasando il titolo dell’ultimo testo di Scheler, si potrebbe addirittura sintetizzare lo scopo ultimo della sua disamina nella determinazione della “posizione dell’uomo nel cosmo tecnico”, giacché, come egli stesso scrive: «bisogna compiere ogni sforzo per illuminare effettivamente questo sistema tecnico, per valutare con precisione questo ambiente, e per calcolare la nostra posizione esatta non solo al suo interno ma anche in rapporto ad esso, pena l’assorbimento della nostra condizione specificamente umana»128. Parimenti salda è l’opzione fenomenologica, intesa come lavoro concreto dal basso che, forte della convinzione nella inaggirabile eccedenza del reale, si arricchisce in Ellul di una scepsi metodologica quanto all’esaustività di qualsiasi eziologia129. Antropologia, scepsi, fenomenologia, si combinano così ad offrire un ordito coerente: «crediamo che i fatti abbiano una loro forma e un loro peso specifico: non obbediscono […] atteniamoci solo a questo per vedere la loro tendenza all’accostamento, il loro particolare rigore e anche per sapere se l’uomo ha ancora un posto in questo groviglio […] un posto, un’autorità, un’azione che abbiano un fondamento diverso da una incondizionata affermazione di speranze e da un atto cieco di fede illegittima nell’uomo»130. Che ne vada letteralmente della salvaguardia dell’umano, dipende, com’è ovvio, dalla convinzione che esso si trovi seriamente minacciato nella situazione contemporanea, nella quale la tecnica si erge a totalità onnicomprensiva. Muovendo dall’assunto per cui «non

127

J. ELLUL, La tecnica, rischio…, cit; ID., Le système technicien, cit.; ID., Le bluff technologique, Paris 1988. 128 ID., La tecnica, rischio…, cit., p. VII. 129 «La filosofia è impotente quando ci vuole assicurare della identità nell’esperienza umana» (ivi, p. 63). 130 Ivi, p. 153.

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c’è nessun tratto comune tra la tecnica di oggi e quella di ieri»131, Ellul distingue tra: “operazione tecnica”, “fenomeno tecnico” e “sistema tecnico”. «L’operazione tecnica riguarda il lavoro fatto con un certo metodo in vista di un risultato»132. Sul «campo vastissimo» dell’operazione tecnica, si isola, per opera di un intervento combinato della ragione e della coscienza, il fenomeno tecnico consistente nell’avvenuta introduzione della ratio operandi tecnica in qualsiasi ambito umano, ossia nella «preoccupazione dell’immensa maggioranza degli uomini del nostro tempo, di ricercare dappertutto il metodo assolutamente più efficace»133. La sintesi di “fenomeno tecnico” e “progresso tecnico” conduce poi al “sistema tecnico”, laddove «la tecnica diventa un ambiente e trascende le tecniche», le quali, a loro volta, sono ormai soltanto al servizio di essa. Questo carattere ambientale della tecnica dice che essa ha «sostituito l’antico ambiente “naturale”», vale a dire che l’uomo si trova «attualmente press’a poco nella stessa situazione in cui viveva l’uomo di trentamila anni fa, alle prese con un milieu naturale a lui del tutto ignoto»134. E in quanto ambiente, la tecnica esige null’altro che adattamento. Ellul organizza il suo testo come una ricognizione complessiva intorno a questa seconda domesticazione dell’uomo (delle sue dinamiche concrete e dei risultati già conseguiti), attraverso una iniziale «caratterologia della tecnica», cui seguono i confronti di essa con stato ed economia, per concludere con le «tecniche dell’uomo». Senza indugiare sullo specifico delle sue analisi, che pure meriterebbero una trattazione particolareggiata, andrà almeno fatto cenno ad alcuni dei momenti topici di esse. Anzitutto al tentativo di schematizzare una morfologia del moderno organismo tecnico (fenomeno e sistema) isolandone le principali leggi e funzioni, ovvero: razionalità; artificialità; automatismo; auto-accrescimento; indivisibilità; universalismo; autonomia. Aggrumatisi grazie anche all’intrecciarsi di particolari contingenze storiche (delle quali Ellul non manca di dar conto, proponendo una sua personale genealogia135), tali caratteri offrono l’immagine di una entità che è pura po131

Ivi, p. 148. Ivi, p. 20. 133 Ivi, p. 22. 134 Ivi, p. VI. 135 Degna di nota, nella ricostruzione storica di Ellul (ivi, pp. 24-63), la sua 132

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tenza (ovvero che è nella misura in cui si espande) in virtù di una meccanica vitale di assoluta efficienza nella sua elementarità ed il cui telos si rivela la definitiva soppressione del caso. La grande fascinazione che accompagna la buona novella della razionalizzazione tecnica (annunziata e predicata dallo zelo delle tecno-scienze136) e alla quale l’uomo finisce per cedere, è in fondo la promesse de bonheur di un eden dell’automazione, in cui ad essere accantonata sia l’idea stessa di im-previsto: «la tecnica è la “traduzione” della preoccupazione degli uomini di dominare le cose attraverso la ragione. Rendere responsabile ciò che è subcosciente, quantitativo ciò che è qualitativo […] mettere la mano in questo caos e metterci ordine»137. Ma il miraggio di un mondo finalmente sotto controllo ha per condizione di possibilità la riconduzione sistematica di ogni e qualsiasi ambito all’interno di siffatta logica (entro la ”misura del misurabile”), anzitutto la reductio ad obiectum della variabile antropica nella sua interezza, mercè l’erosione dal di dentro (per svuotamento) delle sue enclaves apparentemente inespugnabili alla razionalizzazione. A tale riguardo si deve al pensatore francese la piena messa in luce di una fase evolutiva ulteriore del fenomeno tecnico, ciò che lo rende, come detto, sistema. Svincolatosi dall’identificazione con il macchinismo (che ne aveva contrassegnato la fase embrionale, a cavallo tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo), esso rivela il proprio carattere determinante, vale a dire che la sua non neutralità ontolodefinizione dei soli secoli X-XIV come periodo autenticamente cristiano, un periodo in cui l’unica tecnica prodotta sarebbe stata la scolastica. Egli inoltre contesta l’idea per cui la Weltanschauung cristiana avrebbe favorito l’avvento della tecnica moderna dissacrando la natura: a suo avviso la realtà è che il Dio trascendente cristiano avrebbe rappresentato un limite invalicabile alle aspirazioni poietiche della sua creatura (ivi, pp. 34-40). 136 Il termine tecno-scienza con cui si intende «la fusione della scienza e della tecnica, cioè il doppio movimento della scientificizzazione della tecnica e della tecnicizzazione della scienza» si deve (nella sua versione “trattinata”) a G. HOTTOIS, Le signe et la technique, Paris 1984 (si tratta di un testo importante per la filosofia della tecnica più recente al quale, per ragioni di brevità, non è possibile in questa circostanza prestare la dovuta attenzione). Traggo la notizia da S. LATOUCHE, La Megamacchina…, cit. pp. 50-55 (la citazione è a p. 51. Va ricordato che il testo di Latouche reca la dedica «saggi in memoria di Jacques Ellul»). 137 Ivi, p. 45.

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gica si dà non malgrado, bensì in forza della sua neutralità assiologica, della sua extramoralità. La tecnica si scopre assiologicamente informe e perciò stesso proteiforme: essa può inglobare, come pura forma, qualsiasi impianto valoriale senza con ciò compromettere la propria identità, incidendo piuttosto quella altrui. Anzi, a motivo della sua ratio essendi espansionistica, totalitaria (che trasforma la possibilità in cogenza), un simile processo di inclusione ad oltranza le diviene necessario138. È quanto accade, per fare un esempio concreto, con il post-fordismo nell’ambito del lavoro industriale: la tecnica scopre l’incidenza, ai fini esclusivi della prestazione lavorativa, dell’elemento psicologico, e decide così di normarlo: al prestatore d’opera viene approntato un adeguato impianto motivazionale, un’uniforme aziendale anche per lo spirito. Alla morale si sostituisce il ben più pratico (da innescare a comando) morale139. In ordine alla propria Realisierung, la legge tecnica abbisogna dunque della «mobilitazione totale dell’uomo, anima e corpo»140, dal momento che, dal suo punto di vista, l’essere umano, quale lo conosciamo, «è un fallimento». Nel tentativo di isolare il paradigma antropologico perseguito dalla tecnica, Ellul perviene ad un bivio concettuale e ideale di indubbio interesse: l’opzione tra “l’Uomo” e “gli uomini”. Condividendo l’idea già andersiana del perseguimento si138 A proposito di questa vocazione espansionistica intrinseca alla tecnica (il fatto che per mantenersi in vita essa abbia bisogno di espandersi), generalmente interpretata come un principio affermatore, una forza attiva, dice qualcosa di interessante F. G. Jünger, il quale la riconduce ad un pauperismo ontologico (e antropologico): «ogni forma di razionalizzazione è la conseguenza di una carenza. La costruzione e la strutturazione dell’apparato tecnico non sono solo il risultato di un anelito di potenza della tecnica, ma anche la conseguenza di una condizione di bisogno. Perciò la condizione umana correlata alla nostra tecnica è il pauperismo che non si vince con sforzi tecnici» (F.G. JÜNGER, La perfezione…, cit., p. 29). 139 Non dissimile la dinamica evidenziata da Ellul a livello della politica: la tecnica, costitutivamente totalitaria (e per questo particolarmente interessata alla forma uomo-massa) può essere definita metaideologica (Anders parlava di post-ideologismo), capace di asservire ai propri interessi le ideologie più disparate. Scrive Ellul: «il marxismo è un epifenomeno dello sviluppo della tecnica […] fascismo e nazismo sono approssimazioni derivate dal marxismo per l’adattamento dell’uomo alle sue tecniche» (ivi, p. 288). 140 Ivi, p. 322.

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stematico da parte della tecnica della parcellizzazione dell’uomo, egli si sofferma maggiormente sulla pars adstruens di tale processo, sulla nuova immagine che dovrebbe seguire a questa decostruzione. Ne emerge che la tecnica mira sì a «rifare l’uomo», ma detto rifacimento si traduce nel mero compattare in nuova unità, addizionandole, le innumerevoli scaglie antropiche da essa prodotte: un tutto, dunque, che è, letteralmente, “non più che la somma delle sue parti”. Questo “non più” viene esemplato sul modello, astratto e spiritualmente narcotizzato, del «mito dell’uomo». La posta in gioco per questo aut-aut è allora la seguente: orientarsi a “l’Uomo”, significa guardare ad una sua presunta essenza o immagine scorporata dalla temporalità storica, esistenziale141, in nome della quale si possono eventualmente “sacrificare” i viventi concreti, gli abitatori della gettatezza; volgersi a “gli uomini”, al contrario, implica l’attenzione (che è sin da subito, riguardo, prossimità patica) a quelle individualità calate nel nunc stans della Lebenswelt, a quelli che già sempre “ci sono” e che in tale condizione non possono che restare esposti alle pro-vocazioni della tecnica. È a questo livello che avviene la decisione circa la Urstimmung ermeneutica con la quale ci si dispone dinanzi alla mobilitazione totale. Quanto alla sua, Ellul non ha dubbi: «non è l’adattabilità dell’Uomo, ma degli uomini che importa. Non è nell’anima eterna della specie che noi troveremo una risposta ma nella persistenza della nostra, forse non eterna. Ora, la nostra adattabilità personale è limitata»142. “Virtù” ulteriore del fenomeno tecnico in sembianze sistemiche è la sua capacità di metabolizzare il dissenso, di estenuare la contraddizione integrandola. Esso concede spazi inconsistenti per microribellismi atomizzati ed ovviamente innocui (la trasgressione!), conservando con ciò «un’apparenza di libertà, di scelta e di individualismo che possa soddisfare i bisogni di libertà, di scelta e di individualismo dell’uomo – e tutto ciò accuratamente calcolato in modo che si tratti 141

In un simile contesto, a mio avviso si può sorvolare la questione del contenuto specifico di una tale essenza dell’uomo. Che si tratti di un’immagine positiva oppure di un rimando alla sua indeterminabilità, il punto dirimente appare qui il volgersi (o meglio: il distogliersi) o meno dello sguardo contemplatore dalla concretezza degli “esistenti qui ed ora”. 142 j. ELLUL, La tecnica, rischio…, cit., p. 395.

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di un’apparenza integrata nella realtà “cifrata”»143. Gli stessi denigratori della tecnica finiscono così, paradossalmente, per svolgere la funzione di bastioni dell’ortodossia. Per descrivere questa dialettica, Ellul utilizza un’immagine non casuale: «anche quelli che la criticano e l’attaccano […] hanno la cattiva coscienza degli iconoclasti. Non trovano, costoro, né in se stessi né fuori di sé alcuna forza che possa compensare quella che mettono in dubbio […] Questa cattiva coscienza mi sembra forse l’elemento più rivelatore di questa sacralizzazione della tecnica oggi»144. Dunque: la trasformazione dei critici in iconoclasti nomina la “vocazione” «s-consacrante», dis-sacrante della tecnica145, ma nel contempo attesta la sua usurpazione dello spazio del sacro: «l’uomo non può vivere senza sacro, e riporta il suo senso del sacro proprio su ciò che ha distrutto tutto ciò che era sacro, sulla tecnica»146. Il totalitarismo della tecnica è dunque la sua sacralità. Proprio a livello di questa considerazione mi pare possibile scorgere un eventuale spiraglio, ben vago peraltro, nel claustrofobico pessimismo professato da Ellul, secondo il quale «tutta la cultura e tutte le strutture sociologiche tradizionali saranno distrutte dalla tecnica prima che si siano potute trovare le forme di adattamento sociali, economiche e psicologiche che avrebbero potuto salvare l’equilibrio di questa società e di questi uomini»147. Eppure, proprio una tale usurpazione del sacro da parte della tecnica, la sua deiezione nell’orizzonte della razionalizzazione, reca in sé anche un versante semantico ulteriore (che è poi insito nello stesso concetto di secolarizzazione). Seppur mortificato, il sacro non si eclissa: allocandosi nel tugurio della Machbarkeit resiste, mostrando con ciò che la tecnica non è in grado di reggersi sulle proprie gambe, dovendo aprirsi ad un ambito che la eccede al fine di imprimere la propria forma alla totalità del reale. «L’essenza della tecnica», di nuovo, «non è niente di 143 Ivi, p. 142. Ancora più esplicito Anders: «oggi le resistenze sono diventate prodotti» (G. ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. I…, cit., p. 195 ). 144 J. ELLUL, La tecnica, rischio…, p. 148. 145 Ivi, p. 145: «La tecnica è sconsacrante perché mostra con l’evidenza e non con la ragione, attraverso l’utilizzazione e non attraverso i libri, che il mistero non esiste […] il sacro non può resistere». 146 Ivi, p. 146. 147 Ivi, p. 125.

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tecnico», ragion per cui, di nuovo, «là dove è il rischio, cresce anche ciò che salva». Postilla: il nomos della techne Proprio a quella tendenza, peraltro scientemente perseguita e coltivata, alla “esagerazione” da parte dei fenomenologi puri cui è stato fatto cenno in precedenza, si deve, a mio avviso, la piena messa in luce di una dinamica assolutamente centrale del fenomeno della tecnica, addirittura la sua legge fondamentale. La tecnica moderna è essenzialmente una questione di “potere”. Il sostantivo italiano (“potere”) offre la possibilità di una sintesi (ma anche di un’ambiguità) preclusa ad altre lingue, ad esempio al tedesco. Il concetto di “potere” si compone di due aspetti complementari: 1) “potere” come “essere in grado di” (Können). Esso si riferisce al possesso di una determinata capacità. Si tratta quindi di una dimensione attiva, qualcosa che dipende soltanto da noi; 2) “potere” come “essere lecito”, “avere il permesso di” (Dürfen). In questo caso a venire indicata è una concessione, vale a dire qualcosa che pur concernendo noi compete però ad altri, una passività. Lo scenario della tecnica come fenomeno e sistema si dischiude allorché si realizzano storicamente ambedue siffatte condizioni (peraltro secondo una dinamica riflessiva difficile da dipanare). Da un lato, alleandosi con la scienza, la tecnica classica148 si trasforma in qualcosa di nuovo ed in questa veste ci dà il potere (Können), ci rende abili, capaci di raggiungere determinati risultati. Dall’altro, l’esaurirsi di un impianto assiologico transmondano (il processo di secolarizzazione, la morte di Dio), ci dà il permesso (Dürfen) di fare ciò di cui siamo in grado, ci dice che “possiamo ciò che possiamo”. Non c’è più nulla al di sopra (oltre) di noi di cui dobbiamo tener conto per le nostre azioni e decisioni.

148

Tecnica “classica” è quella che si approccia mimeticamente alla natura (senza pro-vocarla) e che quando cerca di averne ragione, di imporsi su di essa lo fa utilizzando il canale del soprannaturale (ad esempio attraverso la magia, intesa come tecnica spirituale). Della distinzione tra una tecnofobia classica ed una moderna, improntate rispettivamente alla mimesis (imitation) e alla potenza (puissance), parla J.Y. GOFFI, La philosophie de la…, cit., pp. 95 s.

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Il “potere” tecnicamente declinato (vale a dire come sintesi delle suddette varianti) è quindi, in ultima istanza, “potere di fare”, “potenza” (Macht; sostantivo derivante dal verbo “machen”: “fare”). A questo livello il potere/potenza si rivela a tutti gli effetti una estrinsecazione della volontà, la quale, dal canto suo, in quanto forza autopoietica, sembra assurgere a cifra ultima, a fondamento della tecnica. Sin qui l’argomentazione poco si discosta dalle ricostruzioni oramai classiche relative alla genesi della modernità occidentale: il nesso organico tra la potenza (come “potere di fare”) e la volontà resta infatti espresso in modo insuperabile dalla formula nietzscheana del Wille zur Macht (vera epigrafe della Neuzeit). Tenendo conto anche del fatto che il baconismo, con il suo facere aude, offre un apparato ideologico quantomeno plausibile da porre a base di un simile processo per spiegare il suo concreto dipanarsi149, il gioco (ermeneutico) sembra fatto: tale è la tecnica, tale il suo cammino. La questione, tuttavia, si pone nella misura in cui alla prova di una disamina entomologica del technischer Zeitalter (di quel mondo che la tecnica moderna crea, pro-duce, a propria immagine e somiglianza) la suddetta ipotesi genealogica non tiene. Il baconiano “sa149

A onor del vero, va detto che la questione del baconismo come ideologia della tecnica moderna rappresenta (per certi aspetti similmente al tema del rapporto tra la grecità e la tecnica) un terreno problematico in sede interpretativa. Ad una lettura dominante, che risolve quasi interamente Bacone nella sua affermazione secondo la quale «la natura è una donna pubblica; noi dobbiamo domarla, penetrarne i segreti e incatenarla secondo i nostri desideri» (cfr., ad esempio, S. LATOUCHE, La Megamacchina…, cit., p. 117), si oppone il tentativo, minoritario ma efficacemente sostenuto da autori come Paolo Rossi, di mostrare che il pensatore inglese focalizza invece la propria riflessione nell’isolare la condizione di possibilità per un simile rapporto con la natura, ovvero: la conoscenza e la piena accettazione (il rispetto) delle sue leggi. «L’uomo diviene padrone della natura solo in quanto, di essa natura, è il ministro e l’interprete» (per la teoria di Rossi sul pensiero di Bacone cfr. P. ROSSI, Verità e utilità della scienza in Francesco Bacone, appendice a ID., I filosofi e le macchine 1400-1700, Milano 2002, prima edizione 1962, pp. 153-176. La citazione si trova a p. 188 di questo testo). A voler combinare entrambe queste istanze presenti nel discorso di Bacone (vale a dire: l’aggressività “misogina” di un utilitarismo oltranzista – la natura donna pubblica – e la “galanteria” insita nella saggia accettazione dei propri limiti – il rispetto devoto delle leggi di quella stessa donna pubblica), emergerebbe da esso una sintesi alquanto singolare, una sorta di “etica da boudoir”.

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pientia est potentia” che prelude al titanico “volere è potere”, appare insufficiente a rendere conto dello Streben totalitario di una tecnica elevata a sistema. Se davvero di questo si trattasse, se realmente il tutto fosse interpretabile sub specie voluntatis, a rimanere intatta sarebbe proprio la sola forza abile a timonare il fenomeno tecnico, a strumentalizzarlo. Una volontà integra, una incorrotta capacità di desiderare, significa una forza in grado di porre fini e perciò di porne alla tecnica stessa. Affinché invece quest’ultima pervenga al suo attuale statuto di entità compiuta, a tutti gli effetti autonoma (ovvero, tanto formalmente quanto finalisticamente causa sui), è necessario che riesca a sabotare, impadronendosene, qualsiasi dinamica in grado di eccederla, ossia di innescarla (e con ciò di asservirla). Il passaggio fondamentale di cui il baconismo non sa dare conto ma che va necessariamente inferito a partire da una analisi del fenomeno della tecnica (nonché delle sue conseguenze) per come esso attualmente si manifesta, è il seguente: se è vero che “il volere è potere”, non meno vero si dimostra che “il potere è dovere”. Il potere in quanto potenza (Macht), possibilità del fare, fattibilità (Machbarkeit) diventa autotelico: da imperativo ipotetico (allorché a muoverlo è ancora la volontà) si trasforma in imperativo categorico (è esso stesso a scandire i tempi del volere). Una potenza (Macht) abbandonata a se stessa, posta solo su di sé, diventa, in quanto puro “essere in grado” (Können), un nuovo imperativo, tornando ad assumere i tratti di una “concessione” (Dürfen) e con ciò di un dovere. È questo il comandamento dell’età della tecnica, la cosiddetta “legge di Gabor”: tutto ciò che si può fare va fatto. Detto con Anders: «il possibile (das Mögliche) è quasi sempre accettato come obbligatorio, ciò che si può fare (das Gekonnte) come ciò che si deve fare»150. 150 G. ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. II…, cit., p. 11. La denominazione di questa legge del “se si può fare si deve fare” risale al fisico inglese Denis Gabor che è stato il primo ad enunciarla (traggo questa notizia da S. LATOUCHE, La Megamacchina…, cit., p. 64). In modo più o meno diretto questa asserzione ricorre con frequenza tra i filosofi della tecnica: oltre ai già citati Anders e Latouche, andranno ricordati quantomeno Ellul (cfr. J. ELLUL, La Tecnica, rischio…, cit., pp. 85 ss.), Séris (cfr. J.P. SÉRIS, La Technique, Paris 1994, p. 57) e Hottois (cfr. G. HOTTOIS, Le Signe et la…, cit., p. 20). Si può essere d’accordo con F. G. Jünger (sebbene in un contesto differente rispetto a quello entro cui si situa il suo

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Sul piano assiologico si attua un processo di questo tipo: inizialmente, ad un orizzonte di riferimento trascendente ancora cogente corrisponde un’istanza assiologica nella forma di un’obbligazione esterna ma connotata personalisticamente (nel senso che dietro la cieca imposizione, il freddo comandamento si scorge la personalità di Dio, in nome della quale si sceglie di lasciarsi obbligare). È il livello dello Sollen, del “dover essere”. Venuto meno un tale orizzonte, il comandato (colui che aveva deciso di sottoporsi all’imposizione), sciolto dai vincoli precedenti, si fa norma a se stesso («nulla è vero, tutto è consentito»); assiologicamente ne consegue un’obbligazione interamente autocentrata. L’istanza ultima è ora il Wollen, il “voler essere”. A questo punto ha luogo l’ultimo passaggio, quello che si interseca con lo sviluppo della tecnica moderna. Una tale condizione autonormativa (quella dell’uomo che risponde di sé solo a se stesso) si rivela, alla lunga, insostenibile: la potenza come potere di fare (la Macht come Machbarkeit) si esonera dal suo ruolo di emanazione diretta del Wollen (o meglio: di un volente) diventando un fine per se stessa e con ciò una nuova istanza vincolante per l’uomo (la cogenza del poter fare). Ne scaturisce il ripristino di una obbligazione eterocentrata nella forma di un dovere, stavolta però a carattere del tutto impersonale. Assiologicamente si passa dallo Sollen al Müssen, dal “dover essere” allo “essere necessario”, dallo “io devo” al “si deve”. Soltanto a questa condizione la tecnica può effettivamente farsi un’entità compiuta in se stessa cui nulla si sottrae (un destino), una totalità in grado di suggellare l’evo moderno (e già non più moderno), imprimendovi la propria forma. Ciò posto, il nomos della techne, parafrasando Vico, potrebbe suonare: il vero e il potuto convertuntur. 4. Il fenomeno della tecnica: la neo-ambientalità Vorrei provare, in conclusione, ad offrire una sorta di breve esercizio di filosofia della tecnica al nominativo, ponendo in luce una dinamica peculiare del fenomeno della tecnica, in grado di cifrare il

discorso): a questo livello dell’evoluzione tecnica «non vale il principio “a posse ad esse non valet consequentia”» (F.G. JÜNGER, La perfezione…, cit., p. 16).

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complesso delle ripercussioni antropologiche alle quali detto fenomeno dà luogo. Ho denominato tale dinamica neo-ambientalità151. La definizione più sintetica di questa dinamica è anche la più ovvia: “attualmente la tecnica costituisce il nostro ambiente”. Oltre che ovvia, essa si presenta arcinota, tant’è vero che molti autori (alcuni dei quali menzionati nelle pagine precedenti) vi fanno esplicito riferimento. D’altre parte è raro che essi si spingano al di là della superficialità di questa mera formulazione. Jacques Ellul, caso forse unico, prova a compiere qualche passo ulteriore, allorché afferma: «…la Tecnica è divenuta l’ambiente nel quale l’uomo vive […] essa ha sostituito l’antico ambiente “naturale” […] L’uomo si trova attualmente press’a poco nella stessa situazione in cui viveva l’uomo di trentamila anni fa, alle prese con un milieu naturale a lui del tutto ignoto»152. Ancora: «si è detto che l’uomo moderno si trova, nell’ambiente delle tecniche, nella stessa situazione nella quale era l’uomo preistorico nell’ambiente della natura. È un’immagine che non bisogna calcare troppo, ma è certamente una delle immagini più esatte che ci siano: ambiente nel quale egli passa la sua vita ma che lo mette totalmente in pericolo, potenze che lo spaventano, mondo al quale partecipa e che tuttavia forma un tutto chiuso contro di lui»153. Malgrado il progresso compiuto da Ellul, non mi pare che le sue parole colgano a pieno la valenza speculativa di una tale affermazione, che per emergere ha peraltro bisogno di essere connotata semanticamente in una maniera meno generica. Ciò vale anzitutto per il termine “ambiente”. Un vero e proprio luogo comune non della sola antropologia filosofica, ma della filosofia tutta, particolarmente nella prima metà del secolo scorso, è l’idea secondo cui l’uomo va considerato quell’ente che, solo, possiede un mondo, o meglio: l’uomo è l’unico a possedere

151

Davvero, nella fattispecie, non potrà che trattarsi di un accenno ad un discorso che mi auguro di poter affrontare, con l’ampiezza che merita, in futuro. Ho ritenuto, tuttavia, di proporne in questa sede almeno la presente indicazione generale in quanto mi è parsa la conclusione più coerente delle considerazioni sin qui svolte intorno al tema della filosofia della tecnica. 152 J. ELLUL, La tecnica, rischio…, p. VI. 153 Ivi, p. 304.

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un mondo, laddove l’animale possiede un semplice ambiente154. Si tratta della elaborazione di una teoria proposta originariamente dalla biologia teoretica di Jacob von Uexküll. Essa consiste essenzialmente nell’affermazione per cui ogni animale vive in un mondo subiettivo, in una Umwelt, quello spazio vitale, ritagliato all’interno di una cornice più ampia (la Umgebung), che la sua dotazione biologica (la sua organizzazione) gli permette di abitare. Hermann Weber, ripreso da Gehlen, spiega efficacemente siffatto processo: «Il “milieu” (Umgebung) è l’insieme degli elementi di uno spazio vitale, collegati tra loro secondo le leggi di natura, spazio nel quale osserviamo un organismo, ve lo collochiamo o lo pensiamo collocato; “ambiente” (Umwelt) è l’insieme delle condizioni contenute nell’intero complesso di un milieu che permettono ad un determinato organismo di sopravvivere grazie alla sua specifica organizzazione»155. L’ambiente, quindi, si delinea come segue: esso è «un ritaglio da una sfera più ampia (milieu)»; «costituisce un complesso specifico, dunque determinato»; «si riferisce ad una specie o ad un individuo che si può mentalmente sostituire con un altro». Un ambiente, inoltre, «non si può trasporre, ossia nessun animale si può “trasferire” nell’ambiente di un altro»156. In forza di queste osservazioni, Gehlen ritiene inapplicabile il concetto di ambiente all’uomo, dal momento che «diventa impossibile indicare un complesso di condizioni tipicamente umano». Egli «non vive in un rapporto di adattamento organico a, o di inserimento in, determinate “sfere” naturali indicabili con precisione»157. Di conseguenza, è lecito affermare che, in certo modo, l’uomo non recide mai il proprio legame con la totalità del milieu naturale, appunto perché non resta vincolato ad una parte di esso. Data la sua stessa costituzione organica del tutto particolare, l’uomo ha come unico spazio vitale possibile la propria sfera culturale, ovvero un ambito per 154

Tra gli autori che si sono espressi in questo senso, vanno menzionati in primo luogo: Spengler, Gehlen, Plessner, Heidegger. 155 A. GEHLEN, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, tr. it. di G. Auletta, Napoli 1990, p. 113 (si veda anche, ID., L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. a cura di C. Mainoldi, Milano 1978, in particolare pp. 108-113). 156 ID., Antropologia filosofica e…, p. 113. 157 Ivi, p. 114.

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definizione indeterminato e indeterminabile e dunque un non ambiente. Questo “ambiente non ambiente” è definibile, perciò, come “mondo”. L’aspetto più interessante di questa riflessione sta nel fatto che essa dice qualcosa di importante, per quanto in maniera implicita, riguardo alla stessa essenza dell’uomo, qualcosa su cui, malgrado i diversi approcci, concordano molti pensatori. Che l’uomo possa vivere soltanto in un “non ambiente”, ovvero in un “mondo” (spazio vitale non determinato né determinabile a priori), dice sostanzialmente che egli stesso è per natura un essere indeterminabile, aperto. Se è vero che qualsiasi organismo si caratterizza per un rapporto indistricabile con le proprie condizioni di esistenza (condizioni che per molti aspetti è lo stesso organismo a “ritagliarsi su misura”), possedere uno spazio vitale definito è indice di una costituzione ontologica fissata una volta per tutte, positiva: a tutti gli effetti un’essenza. Al contrario, possedere uno spazio vitale indeterminato indica la mancanza di una simile essenza; tuttavia, come è ovvio, non in senso letterale (in tal caso si arriverebbe al paradosso per cui non avendo alcun carattere ontologico predicabile, di un tale essere neppure potrebbe dirsi che è), bensì nei termini per cui la peculiarità di un tale essere è il non avere un’essenza fissata una volta per tutte. Propria dell’uomo risulta allora l’incapacità di risolversi nel qui ed ora; gli è costituiva un’eccedenza, una fatale tensione a proiettarsi al di là del semplice dato delle condizioni naturali, rispetto al quale, così, mostra di mantenere un tratto, connaturato ed insuperabile, di distanza e quindi di indipendenza. Ebbene, il nucleo di queste considerazioni si rivela un trait d’union che lega tra loro le più acute riflessioni antropologiche almeno da Herder in poi. In maniere differenti, a seconda delle angolature teoretiche prescelte, ad essere messa in luce è proprio questa impossibilità di legare l’uomo ad una definizione: ciò equivarrebbe a limitarlo in maniera radicale, a falsificarlo. Attribuirgli un’essenza equivarrebbe a tradirne l’essenza autentica. «Essere carente» (Herder e Gehlen), «essere la cui essenza è di non avere essenza» (Hegel), «animale non fissato una volta per tutte» (Nietzsche), «Esser-ci» (Heidegger), «posizionalità eccentrica» (Plessner) rappresentano sostan-

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zialmente delle variazioni (anche significative) attorno a quest’unico tema, un carattere antropologico permanente la cui definizione basica potrebbe essere quella di “mediatezza”158. La determinazione rigida dello spazio vitale dell’animale significa infatti il suo risolversi senza residui all’interno di esso: tra animale e ambiente si dà un rapporto in-mediato, una immedesimazione. Tra uomo e mondo, viceversa, sussiste una originaria distanza, una mediatezza che viene riconosciuta e focalizzata, come detto, da molti autori, i quali d’altra parte imboccano strade differenti quanto alla sua eziologia. Taluni la riconducono ad una dimensione umana che travalica quella “meramente” organica, corporea: la mediatezza, in tal caso, risulta una eccedenza rispetto al piano mondano che rinvia direttamente ad una dimensione ulteriore e può quindi venir denominata a tutti gli effetti trascendenza. Quest’ultima, a sua volta, può assumere due sfumature differenti: se l’ulteriorità transmondana viene caratterizzata positivamente, nel senso di un al di là religioso (come è, ad esempio, il caso di Scheler) allora la trascendenza va intesa teo-logicamente; laddove invece si richiami un orizzonte eccedente la cui stessa allocazione resta però inconosciuta ed indeterminabile (come è per Heidegger con la polarità ontico-ontologico) sarà lecito parlare di una trascendenza teo-logica159. Vi sono invece altri pensatori (Nietzsche ed ancor più gli “antropologi” Gehlen e Plessner) che, interessati a superare il dualismo corpo-anima in direzione di una ri158

Nel proporre questa analogia sono consapevole della forzatura interpretativa che le fa da presupposto: l’accantonamento delle riserve, profonde, palesate da Heidegger nei confronti di qualsiasi ipotesi di antropologia filosofica (tacciata di una sorta di parassitismo fondazionale nei confronti dell’ontologia). Mi pare, tuttavia, che il presente discorso afferisca ad un aut-aut (quello vigente tra una rivendicazione della dimensione di apertura connaturata all’essere dell’uomo da una parte ed il paradigma di chiusura, compiutezza, di cui è latrice la razionalizzazione calcolante dall’altra) che precede la distinzione (pur sempre problematica) tra le possibili declinazioni di questa mediatezza/apertura. 159 Per questa caratterizzazione di Heidegger mi rifaccio ad una testimonianza di Karl Löwith il quale richiama una lettera del 1921 («la chiave per decifrare la teologia senza Dio di Heidegger») in cui l’autore di Essere e tempo «definiva il suo “io sono” o la sua “fatticità storica” dicendo – testualmente – di essere un teologo cristiano» (K. LÖWITH, Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933. Ein Bericht, Stuttgart 1986, p. 30; tr. it. a cura di E. Grillo, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Milano 1988, p. 53).

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conduzione dello spirituale al corporeo (nella sua rinnovata veste concettuale di “corpo proprio”, Leib) cercano di radicare questa mediatezza (che in tal caso non rimanda ad uno spazio transmondano) già a livello della dimensione sensoriale e percettiva dell’uomo. Ad eccellere in un simile tentativo sono Plessner e Gehlen. Quest’ultimo, in particolare, si rifà alle teorie dell’anatomista olandese Lodewijk Bolk (sul «ritardamento» evolutivo dell’uomo) e del biologo tedesco Adolf Portmann (che definisce l’essere umano un «parto prematuro normalizzato») allo scopo di dimostrare che l’uomo è un “essere carente” (Mängelwesen), ossia un essere biologicamente necessitato a creare una distanza tra sé ed il suo ambiente circostante, in quanto mancante delle dotazioni organiche indispensabili a poter vivere in piena sintonia, immedesimazione (ovvero riuscendo a soddisfare i propri bisogni di natura) con una specifica porzione di questo. La formula più sintetica di questa condizione è la combinazione (esclusivamente appannaggio dell’uomo) di “carenza istintuale” ed “eccedenza pulsionale”. Al di là di tali distinzioni, ciò che mi preme è sottolineare l’accordo di fondo rinvenibile relativamente all’isolamento di questa capacità di distanziamento, di mediatezza come determinante per l’essere dell’uomo. Riepilogando: l’uomo (a differenza dell’animale che si muove in un mero ambiente) possiede un mondo, ovvero uno spazio vitale indeterminato ed indeterminabile a priori. Ciò dimostra che la sua stessa costituzione ontologica è improntata ad una indeterminatezza di fondo, ad un carattere di mediatezza, in virtù del quale lo si può definire un “essere della distanza”. Tutto questo, inoltre, attesta che l’umano essere al mondo è letteralmente un ex-sistere, uno stare fuori nel senso, appunto, della lontananza rispetto alle sue stesse condizioni di vita, ovvero che, sin dal livello organico, all’uomo risulta peculiare la dimensione del possibile, quella che eccede le semplici condizioni date, il mero qui ed ora (compreso il qui ed ora del proprio sé). Detto con Heidegger: «l’uomo, che come trascendenza esistente si slancia in avanti verso delle possibilità, è un essere della lontananza»160. 160

M. HEIDEGGER, Dell’essenza del fondamento (1929), in: ID., Segnavia, tr. it. a cura di F. Volpi, Milano 1994, pp. 79-131 (la citazione si trova a p. 131).

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A questo punto si può introdurre il passaggio successivo dell’argomentazione: la tecnica, intesa nella sua modalità di fenomeno e di sistema, intacca questa dinamica, sottraendo all’uomo la sua costitutiva mediatezza. Nella misura in cui erode il potenziale ek-statico dell’uomo (dell’Esserci), la tecnica diventa il suo ambiente. Riprendendo la stessa dinamica descritta in precedenza da Gehlen, si può immaginare il mondo dell’uomo (già risultato di una cernita originaria a partire dal “milieu” naturale) alla stregua di un di “milieu culturale” (prodotto, cioè, dall’uomo stesso) il quale, date alcune particolari condizioni (si tratta, com’è ovvio, di condizioni culturali, storiche: i processi combinati di razionalizzazione e secolarizzazione, l’incontro tra scienza e tecnica…) “secerne” a sua volta un ambiente di secondo grado (ambiente culturale), che formalmente, però, rivela i medesimi caratteri dell’ambiente di primo grado, quello animale. Di conseguenza, anch’esso va definito «l’insieme delle condizioni contenute nell’intero complesso di un milieu che permettono ad un determinato organismo di sopravvivere grazie alla sua specifica organizzazione»161. In altri termini, con la tecnica assurta a totalità compiuta, a “regno dei mezzi”162, si crea uno spazio vitale rigido e conchiuso che, tarato in maniera esclusiva su alcuni caratteri dei propri abitatori, esige da essi un altrettanto rigido adattamento. L’uomo sperimenta così una sorta di ferinizzazione. Nel massimo sviluppo della sua culturalità, vale a dire del suo distanziamento dalle proprie condizioni di vita naturali, egli si ritrova, paradossalmente, in una si-

161 Parimenti, va da sé, al neo-ambiente della tecnica si potranno attribuire i caratteri con cui Gehlen connotava la Umwelt dell’animale. Dunque anch’esso: è «un ritaglio da una sfera più ampia (milieu)»; «costituisce un complesso specifico, dunque determinato»; «si riferisce ad una specie o ad un individuo che si può mentalmente sostituire con un altro»; «non si può trasporre». 162 Questa definizione (che rappresenta a mio avviso la risposta più esauriente alla domanda: che cos’è la tecnica?) dice già (nel suo evocare la classica locuzione “regno dei fini”) della componente mitologica, fideistica di cui la tecnica nella sua nuova forma di “fenomeno totale” e “sistema” si nutre. Ciò vale in un duplice senso. Essa può assurgere allo statuto di moderna anima mundi da una parte perché il sacro, il trascendente nella sua classica declinazione viene consunto, si usura; dall’altra perché la tecnica stessa riesce ad usurpare, per quanto in una forma ampiamente ridimensionata, quello stesso orizzonte, ad occuparlo.

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tuazione simile a quella dell’animale nei confronti del proprio spazio di vita. A questo processo nella sua interezza do il nome di neo-ambientalità. Enunciata la tesi, resta da illustrarne la dinamica di sviluppo. Nel caso di specie, va dato conto di come la tecnica riesca ad usurare il carattere di mediatezza dell’uomo, mediatezza che equivale alla sua stessa capacità di trascendenza, al suo poter-essere. Ciò avviene attraverso un processo di alienazione, per comprendere il quale è necessario fare alcune ulteriori precisazioni. Parlare di alienazione tecnica (o “da tecnica”) è, all’apparenza, un’affermazione arcinota al pari di quella sulla tecnica “ambiente dell’uomo”. Al pari di questa, inoltre, essa nasconde una profondità solitamente disattesa in sede analitica. In genere si tende ad identificare questa particolare forma di alienazione con la “virtualizzazione” cui l’uomo contemporaneo va soggetto, la situazione per cui gli vengono sottratte gradualmente tutte le esperienze di prima mano, lo si allontana dalla realtà. La mia idea è invece che la vera alienazione cui la tecnica dà luogo segua una logica opposta, in virtù della quale è legittimo parlare di alienazione (nel senso, letterale, di un allontanamento) soltanto per il rapporto dell’uomo con se stesso (o meglio: dell’uomo contemporaneo nei confronti dell’immagine tradizionale dell’uomo), ma non rispetto alla relazione tra l’uomo e la realtà: quest’ultimo caso andrebbe invece qualificato, più opportunamente, come un’alterazione dettata da eccessivo avvicinamento. Provo a spiegarmi. Il fatto che viva in un mondo e non in un ambiente, che gli sia cioè connaturata tale mediatezza rispetto a delle condizioni semplicemente date, fa sì che nell’uomo la situazione originaria sia inesorabilmente quella della distanza, della lontananza. Lo esprime bene ancora Heidegger: «solo attraverso lontananze originarie che egli si forma nella sua trascendenza rispetto a ogni ente, cresce in lui la vera vicinanza alle cose»163. Al § 23 di Essere e tempo, discutendo della “spazialità dell’essere-nel-mondo”, Heidegger parla di dis-allontanamento. «Disallontanare (Entfernen) significa far scomparire la lontananza, cioè l’essere lontano di qualcosa; significa avvi-

163

M. HEIDEGGER,

Dell’essenza del fondamento…, cit., p. 131.

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cinamento. L’Esserci è essenzialmente dis-allontanante»164. In altri termini, l’entrare in relazione con le cose, con gli enti (l’approssimarsi ad essi) equivale, per l’uomo, a superare detta preliminare lontananza, a trascendere la sua propria trascendenza. Di più: la sua possibile familiarità con gli enti non soltanto passa per, ma è questa operazione stessa. Ora, la tecnica in quanto “regno dei mezzi” incide su siffatto andamento nella misura in cui pone a forza l’uomo in una situazione di preliminare e costante vicinanza agli enti, sottraendogli così la possibilità di operare il dis-allontanamento. Adottando la logica intrinseca alla tecnica, improntata alla razionalizzazione calcolante, si potrebbe interpretare lo sforzo compiuto dall’impianto tecnico per porre l’uomo in una tale vicinanza coatta agli enti, alla stregua di un’operazione meritoria. Un tale sforzo, cioè, collocherebbe l’uomo in una condizione di maggiore comodità, all’interno della quale si troverebbe sgravato dalla fatica di compiere in prima persona l’atto del dis-allontanare. Sarebbe la tecnica stessa a compierlo, preliminarmente e definitivamente, in vece sua. La differenza, tuttavia, è sostanziale: il disallontanamento autentico come superamento di una distanza inizialmente già sempre data (distanza che noi stessi siamo), è una conquista dell’Esserci, è esercizio, pratica di ek-staticità, ovvero del suo autentico essere-nel-mondo. Il dis-allontanamento tecnico, al contrario, è indotto (è esso stesso un prodotto): esso ci precede, ci pone giocoforza in una immediatezza coatta, è una coazione alla prossimità. Una tale vicinanza, ciò posto, non potrà mai essere esperita dall’uomo come intimità, familiarità con gli enti, ma tutt’al più come promiscuità. Sottraendo all’uomo la possibilità di sottrarre la propria distanza tra sé e gli altri enti (che è il solo modo da lui posseduto per aprirsi ad essi), avvicinandolo forzosamente a questi, la tecnica lo allontana anzitutto da lui stesso (dal suo autentico modo d’essere), lo aliena, dando luogo ad un fenomeno di deiezione sistematica165. 164

ID., Essere e tempo, tr. it. a cura di F. Volpi (sulla precedente versione di P. Chiodi), Milano 2005, p. 133. 165 Da quanto detto, consegue che la tecnica incide su alcune strutture antropologiche (esistenziali) basilari, su delle costanti antropologiche. Con ciò, d’altra parte, non voglio affermare che l’uomo si stia letteralmente snaturando (laddove lo s-naturamento presuma una naturalità dell’uomo intesa come una essen-

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Perché un simile conflitto tra essere dell’uomo ed essere della tecnica debba innescarsi fatalmente, perché la tecnica debba tendere necessariamente ad erodere il potenziale ek-statico dell’Esserci risulta facile da intendere. La ratio operandi della tecnica è, come detto, la realizzazione (Realisierung) della razionalizzazione calcolante166, il suo nemico giurato è l’incalcolabile. L’utopia da essa perseguita (quella in nome della quale tutti gli enti vengono pro-vocati alla mobilitazione totale) è la pre-vedibilità totale: la tecnica, nella sua essenza, è za fissata una volta per tutte – un’ipotesi, questa, che non mi sento di sostenere). Più semplicemente, affermo che le griglie concettuali entro cui era stato sinora circoscritto il fenomeno uomo vacillano sotto il peso del fattore “tecnica”. Una esemplificazione concreta di questa struttura complessiva del dis-allontanamento indotto, della coazione alla vicinanza operati dalla tecnica è offerta da Anders nell’ambito della sua ontologia dei mass-media, attraverso il fenomeno della cosiddetta «familiarizzazione del mondo» (cfr. G. ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. I, cit., pp. 123-130). 166 Il concetto di Realisierung (utilizzato, come si ricorderà, da Dessauer, ma che qui impiego in una accezione differente) mi pare utile al fine di connotare adeguatamente uno stadio ulteriore di sviluppo, rispetto al paradigma weberiano della Rationalisierung, cui è giunta la tecnica nella sua veste di fenomeno totale. Nel momento in cui le cose vengono fatte (realizzate), nel momento in cui la scienza è divenuta operante (si è fatta tecno-scienza) ed ha operato con successo, l’utopia tecnica («le magnifiche sorti e progressive» che essa promette) “si accasa” e diventa perciò cogente, il possibile diventa necessario: dal momento che ci si può credere, ci si deve credere. Ai tempi del primo industrialismo, la tecnica portava avanti un’istanza di razionalizzazione ancora tutta da applicare: ciò che essa propugnava recava perciò il carattere del non ancora, del novum ed il suo orizzonte era dunque, per diversi aspetti, ancora utopico. Essendo irrealizzata, essa rimaneva, almeno in parte, irreale. In tal modo la accompagnava da presso un rinvio costante ad una dimensione finalistica che, a rigori, si rivela incompatibile con la forma mentis più autenticamente tecnica. La Realisierung subentra come formula interpretativa allorché la Rationalisierung ha mostrato (ossia: dimostrato oggettivamente) le proprie possibilità, ragion per cui l’orizzonte da essa suggerito cessa di essere utopico per farsi meramente attuativo, procedurale, ovvero calcolabile, controllabile e con ciò pienamente tecnico (nel senso che questo termine acquisisce allorché assurge a cifra del nostro tempo). Lo spazio all’interno del quale è oramai concesso agli enti di venire alla presenza non eccede quello della loro fattibilità (la già menzionata Machbarkeit di cui parla per primo Freyer). Ciò stante, di qualsiasi novum che possa farsi innanzi in una tale cornice lo homo mensura potrà ottimisticamente affermare: avendolo già fatto (sapendolo, cioè, fattibile), sappiamo di poterlo ancora sempre fare.

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horror casus167. A fronte di ciò, risulta patente l’anomalia rappresentata dall’essere umano (così come lo si è finora conosciuto), la cui unica ipotesi di essenza concerne la sua connaturata tensione ad eccedere il mero dato, l’attrazione esercitata su di lui dall’orizzonte del “non qui e non ora”, del possibile168. L’umano impulso al trascendere (probabilmente la sola pulsione innata di cui egli sia dotato) ne fa un essere necessitato alla proiezione, ovvero al progetto che nella sua accezione più autentica rappresenta la negazione di qualsiasi calcolo pre-visionale. In quanto essere progettante, l’uomo si consegna (si abbandona) alla dimensione dell’aperto (del distante), addirittura trae da essa il proprio fondamento (lo heideggeriano Ab-grund). Da un punto di vista intratecnico tutto ciò è nulla più che affidarsi al caso, una condotta del tutto irrazionalizzata e dunque intollerabile (l’unico peccato mortale vigente nel cosmo secolarizzato). Lo abbiamo visto ampiamente nel corso delle precedenti analisi: dinanzi ad un ostacolo, la tecnica, in virtù della sua vocazione totalitaria, si adopera in un tentativo di metabolizzazione, si produce in una sorta di Aufhebung (laddove l’opposizione, la negazione viene assorbita e quindi superata). Per la precisione, il metodo adottato è quello dell’estenuazione, dello svuotamento dall’interno: si fa assumere alla negazione una forma tecnicizzata, ovvero si cerca di razionalizzarla. 167

Lo “horror casus” è da intendersi, per l’appunto, alla stregua di un “horror vacui pre-visionale”. A spaventare, infatti, è il vuoto della pre-visione, l’inprevedibile. Un motto di August Comte suona: «voir pour prévoir, prévoir pour prévenir» (riportato in: F. G. JÜNGER, La perfezione della…, cit., p. 17). Uno degli esempi più lampanti e concreti di un tale horror casus è certamente quello rappresentato dalle biotecnologie. In queste pratiche l’uomo giunge sino a “mettersi le mani addosso” (o meglio: dentro), allo scopo di riordinare l’intollerabile gioco cieco della selezione cui deve sottostare, alterando una delle sue regole base: la casualità della mutazione. Si tratta di riportare quest’ultima alla “ragione”: da casuale, la mutazione dovrà diventare causale, funzionale. 168 «Il poter-essere», scrive Heidegger, «è proprio la “essenza” (Wesen) dell’Esserci. Sono costantemente il mio poter-essere in quanto potere (Können)» (M. HEIDEGGER, Seminari di Zollikon, tr. it. a cura di A. Giugliano ed E. Mazzarella, Napoli 1991, p. 242). Dal punto di vista della tecnica si direbbe, parafrasando Sartre, che “l’uomo, in quanto è una passione (vale a dire, in quanto costitutivamente esposto al proprio poter-essere), è una passione inutile”.

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Esattamente il medesimo meccanismo mi pare prodursi nel caso dell’anomalia uomo: il tentativo sarà quello di normare, razionalizzare la sua dimensione in-calcolabile ed im-prevedibile, la sua ek-staticità. Dal momento che quest’ultima si estrinseca autenticamente nella pratica progettante, nel poter-essere, è su di essa che la tecnica dovrà intervenire, cercando di trasformare il progetto in piano. È in fondo questo lo scopo e il senso tanto del fenomeno della neo-ambientalità quanto della alienazione tecnica che testé ho provato a descrivere per grandi linee. Il progetto si regge sulla decisione. I due termini tedeschi connotanti rispettivamente “progetto” e “decisione”, Entwurf ed Entschlossenheit, rendono meglio che in italiano il carattere essenzialmente antitecnico che regge l’intero processo, danno etimologicamente il senso dell’azione che l’uomo compie nel mentre decide e progetta. Si tratta della negazione, dell’eliminazione di un limite, in ciò, quindi, di un superamento ovvero di un trascendimento. Entschlossenheit è letteralmente “dis-chiusura” (Ent-Schlossenheit). Decidendo, l’uomo quindi dis-chiude (si ricordi la dinamica del dis-allontanamento), toglie una chiusura preliminare, una limitatezza che è anzitutto quella temporale dello hic et nunc, del nunc stans. Entwurf indica invece il “de-getto” (nel senso della negazione di un getto, di un rigetto: EntWurf). Progettando, l’uomo de-getta, attua una “epoché della Geworfenheit”, rimette onticamente e momentaneamente la propria condizione di gettatatezza (la quale può essere intesa come la forma più radicale di chiusura preliminare: la nostra stessa finitezza), aprendo un orizzonte di in-finitezza (peraltro sempre limitato, temporaneo) all’interno di essa. Togliendo il limite, la chiusura, l’uomo si abbandona al possibile, all’aperto. Il piano, la pianificazione, al contrario, non dischiude, ma ri-chiude perché già sempre pre-vede. Esso è dunque una Wieder-Schlossenheit, ri-chiusura, passaggio da un chiuso (quello preliminare della nostra finitezza/gettatezza) ad un altro (quello ontico, concreto del pre-visto/pre-vedibile) e dunque una falsche Bewegung. Il progetto implica il dis-allontanamento: la realizzazione di un progetto è il raggiungimento di un fine, l’approssimarsi ad esso per il tramite della attiva sottrazione di una preliminare distanza, lontananza. Il piano, al contrario, non conosce il dis-allontanamento, ma acca-

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de in una condizione di vicinanza imperitura, di deiezione: non si dà soluzione di continuità tra l’uomo e gli altri enti: l’uomo è cosa tra cose, oggetto tra oggetti. In virtù del suo carattere ek-statico, di apertura, il progetto è originariamente, necessariamente u-topico ed u-cronico. Esso è pura tensione in atto che, come tale (vale a dire, in quanto essenziale motilità), non possiede un proprio luogo naturale. Il piano, al contrario, è l’addomesticazione del progetto: sin dall’inizio sa qual è, quale sarà il proprio luogo. Ciò stante, di esso si può predicare l’u-cronia (nel senso che guarda ad un tempo che ancora non è, che non è ora), ma non autenticamente l’u-topia: la sua stessa ragion d’essere (in quanto falso movimento) è quella di avere già sempre un luogo naturale (che è poi il medesimo da cui prende le mosse), facendoci sapere in anticipo (ossia ora) dove potremo essere (in futuro), di farcelo vedere prima che accada: il piano è pre-visione. La differenza ultima tra progetto e piano è allora quella attorno a cui ruota l’eidos stesso della tecnica moderna: quella tra mezzi e fini. Il progetto è per essenza antitecnico giacché si alimenta di un fine, laddove il piano risulta compatibile con l’ideologia tecnica in quanto si muove in un orizzonte di soli mezzi. La trasformazione del progetto in piano è quindi la riduzione del fine a mezzo. Lo abbiamo detto: in quanto “regno dei mezzi”, la tecnica è senza fine (ovvero non ha altro fine se non la propria espansione, il che la rende, per forza di cose, anche priva di una fine). Essa si nutre di fini (dei quali non può tollerare la presenza) e perciò stesso s-finisce ciò che le si fa incontro169. Questa intolleranza concerne la questione della producibilità. Un mezzo, a differenza di un fine, può essere prodotto (e riprodotto). Il fine, al contrario, è nomotetico, causa sui: nel momento in cui accade, esso pone se stesso e con ciò le proprie leggi (giudizi di valore compresi), rivelandosi in-prevedibile, in-producibile. A questo punto vien fatto di tentare un’ultima riduzione eidetica che possa illuminare più da presso la declinazione del contrasto mezzi-fini nell’ambito del rapporto tra progetto e piano. La domanda 169 Con “s-finimento” intendo, letteralmente, l’eliminazione di un fine, il che avviene, appunto, per il tramite della sua trasformazione in mezzo. Più esattamente: “il fine stesso diventa mezzo per il mezzo” (il mezzo giustifica il fine).

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è: in concreto che cosa fa del progetto una struttura autonoma ed autotelica? Io credo che si tratti del desiderio. Attraverso il progetto l’uomo si s-lancia (dis-chiudendosi ri-getta la propria gettatezza) verso l’aperto del possibile, in quanto egli è “quell’essere che desidera”. È dunque tale capacità desiderante, in quanto forza teleopoietica, ciò che la tecnica ha da sabotare, al solito razionalizzandola, cosa che fa cercando di ridurla a mero “bisogno”, desiderio strumentalizzato il quale (come la nostra esperienza quotidiana di fruitori della tecnica, di consumatori sta ad attestare ampiamente) è per definizione qualcosa di producibile (inducibile, per meglio dire). La trasformazione del desiderio in bisogno rappresenta realmente un esempio emblematico di quello s-finimento che è il modus operandi necessario della tecnica, il suo vero metodo. La tecnica, come mezzo e nient’altro che mezzo, depreda il fine della capacità di soddisfare il nostro desiderio. Tuttavia è in grado di farlo soltanto incidendo sul desiderio stesso, rendendolo un bisogno170. Riepilogando: il tentativo della domesticazione del “progetto” (in quanto punto nodale della più generale razionalizzazione dell’intera mediatezza, ek-staticità dell’uomo) in “piano” riguarda la riduzione di un fine in mezzo, ovvero, in ultima istanza, la riduzione del desiderio in bisogno. Facendo scadere qualsiasi autentica possibilità nel momento in cui garantisce già da subito la sua realizzazione attraverso la pianificazione, la tecnica mira a privare l’uomo della sua originaria mediatezza e lo condanna ad una neo-ambientalità che lo riavvicina, paradossalmente, ad una condizione ferina. L’uomo è (più precisamente: è stato finora) nella misura in cui è un essere della trascendenza, per quanto mantiene la possibilità di una distanza rispetto a se stesso e agli altri enti, la quale, a sua volta, altro non è che lo spazio della progettualità dis-chiudente e del desi170 Nell’ambito del piano il momento della decisione, che pure esiste, viene affidato all’animale meglio adattato al neo-ambiente: il tecnico. Quest’ultimo, però, non sceglie (anche nel senso che non è più in grado di farlo) sulla base di una sua autentica deliberazione; piuttosto, proprio in quanto tecnico, lo fa conformandosi ai bisogni della tecnica, che in tal modo si rivela il soggetto, impersonale, dell’intero processo. Sul tema della sistematica usura del desiderio nella società contemporanea, si può vedere F. CIARAMELLI, La distruzione del desiderio. Il narcisismo nell’epoca del consumo di massa, Bari 2000.

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derio, ovvero della libertà. La tecnica compromette tale dinamica allorché riduce tutto ciò che è ad un unico parametro universalmente valido: l’oggettività, vale a dire la misurabilità, la quantificabilità. Il quantificabile è il ripetibile in quanto riproducibile e pre-vedibile. La pre-visione elevata a cifra del reale estenua l’orizzonte di apertura del possibile. L’uomo, il cui potenziale ek-statico, la cui possibilità di trascendere viene usurata nel passaggio dalla progettualità alla pianificazione, diventa un ente in-potente (la potenza stessa che si fa cogenza, dovere, Müssen), non libero e con ciò non più un uomo, nel senso in cui, bene o male, lo si è sempre considerato. Nulla esclude, almeno a mio giudizio, che tutto questo debba preludere “semplicemente” ad un mutamento di paradigma antropologico, ad una nuova speciazione (umana o postumana che sia). Resta, cionondimeno, che dal nostro punto di vista (quello dei “viventi in corso”), qui ne vada (o, quantomeno, ne possa andare) dell’eclissarsi definitivo di una forma antropica. D’altra parte chi ha forza plastica bastante non mancherà di consolarsi: consunti “gli uomini”, rimarrà pur sempre un qualche “l’Uomo” (il “fondo” prossimo venturo).

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Mente e coscienza La filosofia è un tentativo infinito e necessario – necessariamente asintotico – di chiarire a noi stessi la vita, la filosofia è la vita pensata. Uno sguardo fenomenologico sulla mente e sulle Intelligenze Artificiali non intende costituire o creare nulla ma cerca solo di vedere e descrivere. La conoscenza umana indaga una complessità che la precede e anche quando il suo oggetto è la mente – l’oggetto più vicino possibile – l’atteggiamento rimane il dirigersi verso la cosa stessa, in questo caso verso di sé. La mente è anche il processo in cui assume significato l’insieme innumerevole di forme, di dati, di esperienze qualitative, di percezioni, di trasformazioni corporee, di emozioni, di sentimenti, di memorie e di attese delle quali è composta la fatticità quotidiana, il costante esserci dei giorni vissuti, sofferti, goduti. Prima di ogni analisi tecnica e del necessario approccio interdisciplinare, studiare la mente con metodo fenomenologico comporta sin da subito l’apertura della mente stessa a un mondo che prima di essere pensato è da noi vissuto. Pensare l’esistenza è come viverla, un compito in realtà interminabile.

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Uno dei vantaggi dei saperi di confine è la possibilità che essi offrono di percorrere strade nuove rispetto a ogni itinerario consolidato, di saggiare aperture più articolate, di superare schemi troppo angusti e vincenti solo perché pigramente ripetuti, a vantaggio – invece – di una comprensione più vasta della cultura umana e quindi dell’umana esperienza che in essa si incarna. L’estrema raffinatezza raggiunta dalle scienze in generale, e da quelle cognitive in particolare, rischia tuttavia di allontanare il sapere scientifico dalla concreta esistenza degli esseri umani, con la conseguenza di rendere tale sapere troppo esoterico e di ridurre le vite alla cieca amministrazione del quotidiano. Bisogna quindi tentare di coniugare le rappresentazioni scientifiche della mente e la nostra autocomprensione quotidiana. Nell’ambito magmatico e fecondo della filosofia della mente diventa, inoltre, sempre più chiara l’insufficienza euristica di ogni prospettiva che intenda ricondurre il mentale a spiegazioni univoche. La parola mente, certo, può essere messa da parte ma non il problema che essa racchiude. Un problema che non ha in primo luogo a che fare con ipertecnicismi, con analisi di laboratorio, con riduzionismi di varia natura ma coincide con la domanda sulla natura dell’umano e sulle relazioni conoscitive, emotive, linguistiche che esso intrattiene con l’intera realtà. La conoscenza è un fatto insieme biologico, cerebrale, psicologico, ambientale, sociale, storico. E quindi mente, corpo e tempo costituiscono tre processi, tre funzioni reciprocamente collegate, tre forme di quella che si potrebbe definire una ontologia computazionale, una riflessione che sappia cogliere la potenza e i limiti della struttura informazionale dell’essere. L’ordine delle cose sta nella mente, l’identità risiede nella memoria. Il mentale è però sempre aperto all’alterità, all’oggettività, alla resistenza che il reale oppone alla interiorità del singolo. La semantica è il ponte fra la mente e il mondo, fra il linguaggio e l’ontologia, nel senso molto preciso che ogni parola e qualunque asserzione sono strettamente legate al contesto nel quale vengono pronunciate. Come Frege ha ben chiarito, i significati dipendono dagli stati di cose ma questo implica che una Logica e una Filosofia della mente fondate solo sulla sintassi non possano cogliere nulla del mondo e siano necessarie una semantica e una pragmatica, la vita nel suo scorrere.

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È anche per questa ragione che il problema più difficile che la filosofia della mente possa affrontare rimane quello della coscienza. Qualunque realtà e dimensione la mente umana rappresenti, essa è probabilmente costituita dalla coscienza, dall’intenzionalità, dal tempo. Svelare quindi l’enigma della coscienza, o almeno tentare di farlo, è una tappa fondamentale nel cammino che conduce a una comprensione più profonda e completa della mente e del suo statuto ontologico. Le molteplici risposte che si possono dare alla questione del rapporto mente/corpo dipendono in gran parte dal modo di concepire la coscienza e quindi le attitudini proposizionali e gli atteggiamenti intenzionali. Finché non sapremo meglio che cosa la coscienza sia, rimane preclusa la possibilità di spiegare come il cervello pensi. La coscienza, infatti, non sembra poter essere oggetto di una indagine empirica proprio perché il mentale costituisce una dimensione privata, temporale, intenzionale, introspettiva, mentre il cerebrale rappresenta una dimensione oggettiva, spaziale, fisica, esterna. I nostri sensi sono stati perfezionati dalla necessità di muoversi nello spazio percependo quanto più acutamente possibile le sue caratteristiche, le variazioni, le costanti. In quanto oggetto fisico, quindi, anche il cervello può essere indagato a fondo con gli strumenti che possediamo e che altro non sono se non l’ampliamento della capacità che i sensi hanno di accedere alle informazioni fornite dall’ambiente. Ma la mente? La mente non ha un luogo, non produce masse, quantità, movimenti percepibili coi sensi. La mente genera convinzioni, timori, desideri, credenze, emozioni, sentimenti, attese, ricordi. La mente è ciò che dà un significato all’esperienza mediante i qualia percettivi che sono altra cosa rispetto alle semplici percezioni. Essi costituiscono, infatti, gli stati soggettivi della mente, l’effetto che fa l’essere una certa entità e provare determinate esperienze, la vita interiore che sembra accompagnarle, la coscienza che si ha del sentire e non il sentire solamente. Le tante e variegate ipotesi sulla coscienza possono essere raggruppate in tre tipologie molto simili a quelle che hanno come oggetto la mente in generale. Il riduzionismo spiega la coscienza in termini cognitivi (riduzionismo psicologico) o neurobiologici (riduzionismo materialista); l’eliminativismo ritiene che il fenomeno coscienza

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sia del tutto illusorio e che si debba indagare solo il cervello; le varie forme di dualismo tendono a salvaguardare uno spazio più o meno autonomo per la coscienza. La prima evidenza alla quale la riflessione sulla coscienza ci conduce è comunque una vera e propria asimmetria epistemica, per la quale mentre ogni altra realtà è conosciuta in terza persona e a partire da dati più o meno esterni e oggettivi, la coscienza può essere indagata solo in prima persona, dall’io che fa esperienza di essa, che pensa, che ha emozioni, che prova qualcosa a essere una determinata realtà. Se non ne facessimo esperienza personale, insomma, niente nella realtà del mondo potrebbe indurci a postulare la coscienza. Essa va distinta (ma non separata) dalla consapevolezza perché quest’ultima si basa sui dati conoscitivi, sulle nozioni a proposito del mondo mentre la coscienza consiste in stati fenomenici, nella sensazione che si prova a percepire un colore, a sapere qualcosa, a sentire suoni e così via. La coscienza è radicata nella corporeità profonda dell’organismo che si percepisce vivere. L’ipotesi fenomenologica sul mentale risulta assai feconda poiché la coscienza fenomenica – provare qualcosa sapendo che la si sta provando, la coscienza del come – è molto diversa rispetto alla sola coscienza cognitiva – la percezione del che. La complessità dell’umano impedisce a qualunque ipotesi riduzionistica o anche soltanto cognitivistico-funzionalista di dar conto di ciò che siamo. Il cervello è una condizione necessaria della vita mentale ma non è sufficiente. Confondere l’una e l’altra dimensione è l’errore di fondo dell’eliminativismo. Dove collocare, infatti, esperienze e dati come il 4-3 della partita Italia-Germania giocata nel 1970 allo stadio di Città del Messico? Dove l’entusiasmo e il terrore che intridono diverse menti all’accadere di una rivoluzione sociale? Dove la malinconia e la dolcezza dei momenti più intimi dell’esistenza? Dove il passaggio dalla lira all’euro? Sono, quelli elencati, stati assai diversi tra di loro ma tutti irriducibili a un corrispettivo fisico e soltanto cerebrale. Ritenere che simili esperienze qualitative dello stare al mondo possano essere espresse con un vocabolario fisicalistico significa confondere un lessico con la realtà e cadere, alla fine, nel grottesco di una comunicazione insensata. Se gli stati mentali sono concettualmente e nomologicamente irriducibili a quelli fisi-

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ci, pur essendo ontologicamente identici a essi (giusta l’ipotesi del monismo anomalo), la ragione è probabilmente più radicale di quella indicata dallo stesso Davidson. Non si tratta di un semplice dualismo linguistico dei parlanti ma di una opacità della coscienza a se stessa. Di fronte ai limiti di un riduzionismo che alla fine dissolve il suo stesso oggetto, rispetto alla evidente assurdità dell’eliminativismo – evidente perché di nulla facciamo esperienza più concreta, costante, molteplice, di quella dei nostri stati fenomenici – e all’insufficienza delle spiegazioni neurobiologiche che sono volte a chiarire lo statuto non della coscienza ma della memoria, del linguaggio, dell’apprendimento e dei processi sottostanti all’esperienza conscia, una teoria della mente dovrebbe cercare di spiegare che cosa accade quando la nostra persona esperisce il mondo. Dedurre dalla impossibilità di sottoporre gli stati intenzionali a un’indagine quantitativa che tali stati non esistano – come fanno gli eliminativisti – è una forma ingenua ma particolarmente virulenta di antropocentrismo. L’ipotesi di una chiusura cognitiva della mente umana è, a questo proposito, piuttosto verosimile. Basti pensare al semplice fatto che differenti specie animali subiscono diverse forme di chiusura cognitiva – ciò che l’una percepisce con efficacia, per l’altra neppure si dà – e a nessuno verrebbe in mente di negare l’esistenza degli ultrasuoni solo perché il nostro udito non è in grado di percepire le loro frequenze: gli ultrasuoni c’erano, infatti, prima che ci accorgessimo attraverso i nostri strumenti della loro esistenza. La finitudine di ciò che siamo, i limiti della nostra mente non sono i limiti dell’esistente. Un’ipotesi plausibile è quella della sopravvenienza del mentale sul fisico, una sopravvenienza reale e non soltanto epifenomenica (e quindi anche irrilevante). Si tratta di comprendere che se un cd-rom musicale non può funzionare senza un adeguato apparato di riproduzione meccanico ed elettrico, le note che da esso provengono non si possono però identificare né col lettore né con la tensione elettrica che lo fa funzionare. Allo stesso modo, la base fisico-cerebrale è necessaria affinché si diano contenuti mentali; in quanto tali però questi ultimi non hanno equivalenti rigidi nella loro base fisica. Ne sembra consapevole anche Wittgenstein quando accenna al «senso d’in-

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colmabilità dell’abisso fra coscienza e processo cerebrale»1. In questo abisso abita e sta il problema della coscienza umana. La mente è Coscienza, Intenzionalità, Memoria, Corporeità, Tempo. Si può affrontare il problema della causazione fisica degli stati mentali e quello della causazione mentale degli stati fisici solo se si ammette la natura complessa, unitaria e insieme plurima della mente. Contro il funzionalismo cognitivista bisogna dire con chiarezza che l’esser corpo (e non soltanto averne uno) è modalità costitutiva dell’essere-nel-mondo, e non dualisticamente «come supporto dello spirito in cui esso emerga, ma come interfaccia olistico dell’essere uomo dell’uomo, del suo fenomeno»2. La profonda interazione tra il corpo, l’ambiente, gli algoritmi, i simboli, le reti neurali è probabilmente il percorso più lungo ma anche il più efficace se vogliamo comprendere che cosa davvero si stia aprendo per l’umano e la sua mente nel tempo delle Intelligenze Artificiali. La mente è una relazione con l’al di là del Sé, un’interazione di eventi che va ben oltre i confini fisici del cervello e del cranio e consiste in una dimensione che si estende al mondo degli oggetti, delle percezioni e delle cause. La mente è soprattutto «un modo di descrivere l’esercizio di certe capacità che possediamo, capacità che pur sopravvenendo sull’attività dei nostri cervelli e sulle nostre varie transazioni con l’ambiente, non possono essere spiegate riduttivamente usando il vocabolario della fisica e della biologia, e neppure quello dell’informatica»3. E questa modalità di apertura all’ambiente è fin dall’inizio – e quindi costitutivamente – inserita in un tessuto di relazioni con tutto ciò che sta fuori dalla testa, in quel mondo della 1

L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche (Philosophische Untersuchungen, Oxford 1953), tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Torino 1967, § 412, p. 163. 2 E. MAZZARELLA, Ermeneutica dell’effettività, Napoli 2001, p. 156. Su questi temi, Mazzarella va delineando da tempo un’etica che sia in grado di fondare se stessa sul principio che «l’intangibile, il sacro per l’uomo è la vita stessa come il suo essere in vita e come le condizioni di questo essere, la totalità della vita: sacro è l’essere, la vita, la totalità – ciò che l’uomo non può creare, ma solo ricevere» (E. MAZZARELLA, Sacralità e vita. Quale etica per la bioetica?, Napoli 1998, p. 19). 3 H. PUTNAM, Mente, Corpo, Mondo (The Threefold Cord: Mind, Body and World, 1999), tr. it. di E. Sacchi Sgarbi, Bologna 2003, p. 66.

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vita che plasma i contenuti semantici e rende riconoscibili gli eventi. Contro l’internismo del cosiddetto mentalese di Fodor e di altri funzionalisti, l’ipotesi esternista ritiene quindi che i contenuti degli stati mentali – intenzioni, credenze, sentimenti, desideri – dipendano in una misura più o meno ampia dal contesto in cui emergono e dall’ambiente nel quale operano. I significati non stanno nel cervello, che è un organo come gli altri il quale può svolgere il suo compito solo connettendo i dati, le percezioni, le informazioni che riceve dall’intero corpo e dal mondo in cui il corpo è immerso; i significati non sono negli oggetti, tanto è vero che la vela nera della nave di Teseo era un pezzo di stoffa alla quale solo la particolare relazione di Egeo diede un significato intenzionale e, in quel caso, tragico; i significati abitano nella mente linguistica. Il linguaggio è, infatti, parte costitutiva del mentale, è l’esperienza della comunicazione che il nostro corpo riesce a intrattenere con gli altri corpi allo scopo di muoversi nell’ambiente e costruirlo a nostra misura. E davvero quindi «die Sprache ist ein Teil unseres Organismus», il linguaggio è una parte del nostro organismo4. Gli umani esistono in quanto vivono dentro il linguaggio e si conservano nell’ambito dei significati che esso elabora. La conoscenza non è quindi la risultante di un guardare passivo un mondo già dato ma è il frutto della capacità costruttiva che la mente applica prima di tutto a se stessa e da qui all’intera realtà naturale e sociale. La natura costruttiva e non solo rappresentativa della conoscenza fa sì che alla domanda di Einstein se la Luna esisterebbe anche se non ci fosse nessuno a guardarla si può rispondere che essa esisterebbe come una qualche forma di realtà prima indefinibile e inespressa – un noumeno – ma non esisterebbe certo nel significato che questo oggetto naturale acquista agli occhi dell’astronomo, del poeta, dei soggetti che guardano il satellite sorgere in una notte d’estate. Varela ha quindi ragione quando sostiene che la particolare struttura delle cose dipende in gran parte dalle modalità della loro osservazione, poiché 4 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-16, tr. it. di A. Conte, Torino 1979; annotazione del 14.5.1915, p. 143. Nel Tractatus diventerà la proposizione 4.002: «Il linguaggio comune è una parte dell’organismo umano, né è meno complicato di questo».

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ogni ambito della realtà esiste nella spiegazione linguistica che ne danno gli osservatori e la mente emerge dalla lingua, dalle sue capacità di auto-descrizione e di narratizzazione. È qui che si fonda il concetto di enazione proposto, appunto, da Varela e cioè di produzione e creazione del senso e del significato del mondo da parte dell’osservatore per mezzo di un’attiva partecipazione senso-motoria; è qui che diventa chiara e persino ovvia la dimensione autopoietica della mente come sistema in grado di dare significato all’insieme delle esperienze sensoriali dalle quali il cervello viene continuamente investito; è, questo, un criterio utilissimo per distinguere i sistemi viventi da tutti gli altri che si limitano a recepire dati e input in modo puramente passivo; è qui che si giustifica la definizione vareliana del corpo come macchina ontologica in grado di produrre il proprio stesso mondo mentre vive nel tempo e si muove nello spazio. Perché il corpo è radicalmente intriso di spazio e di tempo e cioè delle coordinate prima di tutto mentali con le quali siamo capaci di sincronizzare i movimenti sinaptici del nostro cervello con il divenire spazio-temporale della realtà, tanto che la conoscenza può essere definita semplicemente come un modo di agire nel mondo da parte di un corpo vivente. Un oggetto fisico, in altri termini, non è solo un aggregato di atomi, di particelle, di forze gravitazionali ed elettromagnetiche ma è un’interpretazione: «quello che si mette in discussione non è l’esistenza dei componenti fisici degli oggetti macroscopici (atomi, quark o altro) ma l’esistenza del livello di interpretazione più alto in assenza di soggetti conoscenti»5. Un volto, quindi, non esiste se non nello sguardo di chi lo fissa; una forma disegnata su un foglio è tale – ha un valore semantico al di là della materia spalmata sulla carta – per chi la osserva; Londres e London (un famoso puzzle di Kripke) sono due oggetti diversi perché nella mente di Pierre si riferiscono a due significati differenti. Se la realtà consiste in una struttura che coniuga esistenza, rappresentazione e relazione-con, i significati, e quindi la mente, non possono essere né compresi né spiegati attraverso la riduzione del mondo alle sue componenti fisiche elementari, alle fun5

R. MANZOTTI/V. TAGLIASCO, Coscienza e realtà. Una teoria della coscienza per costruttori e studiosi di menti e cervelli, Bologna 2001, p. 82.

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zioni operative e sintattiche, ai comportamenti nello spazio, al cervello in una vasca che lo nutra. Non è possibile, infatti, creare dal nulla i significati, disporre di rappresentazioni senza che ci siano eventi da rappresentare. Come il cervello non può produrre la materia, così non può generare alcuna realtà semantica se non sul fondamento di una consistenza ontologica del mondo che precede il corpo umano ma che poi solo in esso acquista per l’umano un senso. Il dualismo tra soggettivismo e oggettivismo è anch’esso, come ogni altro, insufficiente a capire la complessa unità plurale delle cose. La mente è nel soggetto ma è anche nel mondo con il quale il soggetto interagisce costantemente. Viene in tal modo confermato a livello fenomenologico quanto Giacomo Rizzolatti ha scoperto nelle sue importanti ricerche neurologiche. I cosiddetti neuroni specchio, infatti, sono cellule cerebrali che si attivano non quando il soggetto agisce direttamente ma quando osserva l’azione compiuta da un altro. Essi rappresentano l’azione motoria di un animale nel cervello di un altro e se l’ipotesi del “sistema specchio” è valida «allora i concetti non sorgono, come credono alcuni, nella mente solitaria di un individuo, ma grazie all’interazione e alla comunicazione con gli altri»6. Contro l’ipotesi internista del “mentalese” avrebbero quindi ragione Humboldt, Vygotskij e i più recenti sostenitori dell’esternismo semantico – come Dennet, Churchland, Davidson, Tye, Bickhard, Edelman, Oatley – i quali ritengono che «un essere vivente non può avere pensieri se non è un interprete del linguaggio altrui»7. Gli studi di Rizzolatti, inoltre, costituiscono un’ulteriore prova della insufficienza epistemologica del funzionalismo, poiché il cervello umano e il computer si differenziano principalmente non per il modo in cui funzionano al loro interno ma perché la struttura del cervello è profondamente correlata agli altri cervelli e, soprattutto, alla complessità del mondo fuori dalla scatola cranica. Anche nello studio della mente è pertanto necessario un atteggiamento olistico, nel preciso significato del tutto che è sempre supe6 L. JÄGER, La parola crea il mondo, in: «Mente & cervello», n. 5 settembreottobre 2003, p. 57. 7 D. DAVIDSON, «Thought and Talk», in: Philosophy of Mind. Contemporary Readings, a cura di T. O’Connor e D. Robb, London and New York 2003, p. 357.

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riore alla somma aritmetica e quantitativa delle singole parti che lo compongono. Per comprendere la mente, come qualsiasi altra realtà, è necessario andare al di là delle sue proprietà intrinseche per aprirsi anche alle sue dimensioni relazionali. La mente è il luogo fisico, emotivo, espressivo e logico di incontro fra la coscienza autoconsapevole e la realtà della quale essa è la consapevolezza. Mondo, soggetto, ambiente, linguaggio, società sono nomi diversi del modo umano di cogliere il reale: è esattamente tale modalità ciò che chiamiamo coscienza. Fenomenologia e Neurofenomenologia Nell’ambito del mentale, la coscienza ha quindi una propria avventura assai peculiare e tormentata. Ignorata in quanto tale per secoli, è apparsa lentamente all’orizzonte della scienza nella modernità e subisce una vicenda ciclica che alterna la sua centralità per la comprensione della mente e dei comportamenti umani alla sua inesplicabilità, superfluità e persino inesistenza. Per spezzare questo ciclo è necessario un nuovo paradigma che collochi la coscienza al cuore delle scienze cognitive, nella fiducia che di essa sia possibile dare una spiegazione rigorosa che la apra anche alla comprensione della vita quotidiana degli esseri umani. Pur se in modo diverso, infatti, le principali risposte che vengono date al problema della coscienza non riescono a coniugare scienza ed esperienza vissuta. O, infatti, ritengono che la coscienza in quanto tale non esista e sia riducibile al cervello – dal comportamentismo all’eliminativismo –, o consista in una serie di concatenazioni formali trasparenti all’esperienza (funzionalismo), o sia destinata a rimanere un mistero (T. Nagel/C. McGinn), che magari sarà chiarito solo nei termini della fisica quantistica (R. Penrose) o in quelli tradizionali del dualismo radicale fra body e mind (Eccles/Popper). Fra coloro, invece, che prendono la coscienza sul serio nella sua specificità, si va dalle ipotesi neurobiologiche di Damasio a quelle olistiche di Chalmers passando per le questioni metodologiche poste con chiarezza da Searle. Una risposta forte a ciò che Chalmers ha appunto definito come l’hard problem delle scienze cognitive è la prospettiva che Varela ha chiamato neurofenomenologia e il cui nucleo

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consiste proprio nella assoluta necessità di coniugare anche a livello epistemologico ciò che è ontologicamente unitario: la mente e la realtà. Unità spezzata dalle ipotesi che interpretano la coscienza come il rispecchiamento interno attuato da complessi apparati percettivi di un mondo esterno autonomo. Di fatto, coscienza e mondo costituiscono due livelli di esistenza e di consapevolezza la cui radice è profondamente unitaria ed è il corpo isotropo. La neurofenomenologia cerca di dar conto di tale complessità ponendosi quale scienza della corporeità come elemento da cui scaturiscono insieme mente e mondo. Un paradigma più maturo deve, infatti, oltrepassare dualismi vecchi e nuovi: soggetto e oggetto, materia e spirito, esterno e interno, fisiologia del cervello ed esperienza mentale, ragione ed emozioni, per cogliere invece il Sé come una feconda molteplicità di livelli e come tempo incarnato nel quale il corpo-ora si protende verso il futuro sulla base delle sue ritenzioni del passato. Nel darsi concreto del corpo-mente, il dualismo fra scienza ed esperienza è annullato alla radice e può fare la sua comparsa solo nel momento culturale della riflessione. La realtà dell’esperienza, insomma, è ontologicamente una e diventa duale solo a livello epistemologico. La neurofenomenologia intende ricomporre tale unità originaria del fenomeno umano, dove scienza ed esperienza si rinviano l’una all’altra e reciprocamente si chiariscono. Coniugare l’ambito neurologico con quello fenomenologico è possibile e coerente anche perché l’invito husserliano a tornare zu den Sachen selbst «significava il contrario dell’oggettivazione in terza persona», significava «un ritorno al mondo che viene esperito nella sua immediatezza percepita»8. Non solo le Lezioni per la fenomenologia della coscienza interiore del tempo rimangono la più dettagliata e plausibile descrizione dei vissuti mentali ma per il tramite della neurofenomenologia di Varela il pensiero di Husserl sta conquistando le scienze cognitive, anche per la sua capacità di guardare il cervello partendo dai dati neurolo8

F.J. VARELA, Neurofenomenologia, in: «Pluriverso», n. 3/1997, p. 9. La fecondità delle ipotesi di Varela per la ricerca in ambiti assai diversi emerge dal recente AA.VV., Neurofenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, a cura di M. Cappuccio, Milano 2006; da questo volume segnalo il mio contributo: «Il corpo come macchina semantica. Una prospettiva fenomenologica sull’intelligenza artificiale».

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gici senza però aspettarsi soltanto da essi la soluzione del problema. Le ipotesi husserliane sulla natura temporale della coscienza vengono progressivamente confermate dalle indagini sul cervello consentite dalle attuali tecnologie di scansione come la PET (Positron Emission Tomography) e soprattutto la fMRI (functional Magnetic Resonance Imaging). Un risultato, questo, che ha del clamoroso9. Uno dei caratteri specifici della fenomenologia è la fiducia teoretica nella possibilità di cogliere gli atti puri del pensare e di farlo mediante il modo in cui tali atti si realizzano di fatto nell’esperienza cosciente. La fenomenologia è quindi una scienza pura della coscienza, in ciò erede di una lunga tradizione filosofica, certo, ma anche profondamente originale nell’ambizione di fare della filosofia una scienza, appunto, rigorosa. Anche per questo uno dei suoi punti di partenza è la psicologia di Brentano, e in particolare la tesi centrale che coglie lo specifico degli atti di coscienza nel loro essere rivolti verso stati di cose, contenuti, enti, di essere costituiti da tale relazione. Intenzionalità e coscienza sono strettamente correlate, poiché nessun oggetto può essere pensato fuori dalla coscienza e, all’inverso, nessun atto di pensiero si dà senza che venga pensato un oggetto. Atto e oggetto intenzionale sono interdipendenti; gli Erlebnisse husserliani, i vissuti intenzionali della coscienza, sono l’insieme degli atti con cui la mente si dirige di continuo verso il mondo e dallo stratificarsi dei quali si genera quanto chiamiamo io. Importante non è soltanto lo specifico contenuto concreto dell’atto intenzionale ma l’essere la coscienza sempre diretta verso un qualche contenuto. Il quale, a sua volta, non è e non può essere del tutto isolato ma acquista pregnanza solo nel contesto più ampio dei significati e della prassi, nel contesto di ciò che Husserl chiama Lebenswelt – mondo della vita –, Searle definisce sfondo, Davidson articola come olismo degli stati intenzionali (per cui ci si può intendere soltanto dando per ovvi sia un numero molto alto di affermazioni implicite che la fiducia nella capacità dei parlanti di interpretare correttamente il non detto) e l’Intelligenza Artificiale traduce con “problema della cornice”, frame problem. Tut9 Un resoconto vivace, e nello stesso tempo rigoroso e tecnico, di tali sviluppi è nel libro di D. LLOYD, Radiant cool. Lo strano caso della mente umana (MIT, 2004), tr. it. di M. Fabbri e M. Pagani, Milano 2006.

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to ciò ha come fondamento le tesi semantiche di Frege sulla dipendenza di ogni parola ed enunciato dall’insieme della lingua e sulla distinzione fra l’estensione o riferimento e l’intensione o significato di un termine. L’estensione è l’insieme dei fenomeni ai quali si può applicare una parola, l’intensione è il modo in cui si specifica l’estensione. Dire, ad esempio, essere umano e animale linguistico, oppure Leningrado e San Pietroburgo significa usare due intensioni diverse per lo stesso contenuto estensionale, due sensi per il medesimo riferimento. Non mancano, certo, le obiezioni a questo quadro semantico e fenomenologico, a partire dall’osservazione che lo stesso Husserl rivolse a Brentano sul fatto che non tutti gli stati mentali sarebbero intenzionali, visto che alcuni stati fenomenici come il dolore o varie emozioni non sembrano avere un contenuto esterno al loro stesso darsi. Si tratta, comunque, di un’obiezione accettabile anche nel quadro brentaniano, dato che contribuisce a chiarire ancor meglio il fatto che lo specifico degli stati intenzionali è di essere degli stati mentali diretti verso un contenuto che non si esaurisce nel loro immediato darsi. Ancora una volta, in questo modo, le tesi di Brentano mostrano la loro centralità per una filosofia della mente che respinga le varie forme di riduzionismo senza rifiutare per questo il contributo delle scienze empiriche. Alcuni esempi sono: le ipotesi di Davidson a proposito della sopravvenienza del mentale sul neurologico – per cui senza il cervello la mente non si darebbe ma ciò non implica l’identità tra il fisico e il mentale –; le tesi di Feigl il quale – utilizzando ancora una volta il linguaggio di Frege – parla del fisico e del mentale come di due sensi diversi del medesimo riferimento; le posizioni di Manzotti e Tagliasco sulla identità di coscienza e mondo. Si tratta di itinerari di ricerca diversi fra di loro ma che partono tutti dal ponte che Brentano ha gettato «tra il dominio del soggettivo e quello dell’oggettivo», per cui «gli stati intenzionali sono mentali ma possono essere diretti verso stati del mondo fisico come anche subire stati del mondo fisico»10. In ambito neurobiologico, le ricerche di Antonio Damasio con10

153.

S. GOZZANO,

Storia e teorie dell’intenzionalità, Roma-Bari 1997, pp. 152-

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fermano tale unitarietà della coscienza e la molteplicità dei suoi gradi. Infatti, essa scaturirebbe da un livello non cosciente e costituito dalle rappresentazioni che il corpo stesso si fa dello stato corrente dell’organismo. Da questo proto-Sé si genera il Sé nucleare, una descrizione ancora non verbale ma stavolta consapevole delle relazioni fra l’organismo e un qualsiasi oggetto o fatto. La registrazione degli eventi che si susseguono nella dimensione nucleare del Sé produce il Sé autobiografico, l’insieme dei ricordi impliciti nelle esperienze individuali del passato e in quei “ricordi del futuro” che sono le previsioni. Paralleli a queste forme del Sé sarebbero i diversi livelli della coscienza. La partizione principale è fra coscienza nucleare e coscienza estesa. La prima è la condizione del nostro organismo mentre vive e conosce, è il motore corporeo da cui si genera la percezione che un umano ha del suo esserci spazio-temporale, legato ma anche distinto rispetto a quello di ogni altra entità, a cominciare dagli altri umani. Nella coscienza nucleare si realizza quella configurazione neurale e mentale che coniuga nello stesso istante l’oggetto, l’organismo e la loro reciproca relazione. Ora, ciò che ci impedisce di comprendere davvero la coscienza è proprio questo suo livello nucleare. Dell’altra dimensione, quella estesa, sappiamo infatti molto di più, a cominciare dal fatto che la perdita della coscienza estesa non comporta anche quella della coscienza nucleare mentre senza quest’ultima la coscienza estesa non ha nulla su cui costruire e quindi non si dà. Quando si dispiega, la coscienza estesa è uno dei fenomeni più complessi e strabilianti della natura, è la materia che conosce se stessa e autoconoscendosi produce le strutture e i significati della realtà. La coscienza abbraccia infatti come da un’altura l’intero tempo dell’esistenza e si protende oltre la cima del presente; essa edifica sul fondamento della coscienza nucleare ma amplia enormemente il proprio campo d’azione e comprensione, evolvendosi nella dimensione ontogenetica del singolo, in quella filogenetica della specie e nella dimensione collettiva della storia. La coscienza estesa coincide con le stratificazioni del Sé autobiografico, prelude in questo modo alla coscienza morale e in essa consiste la percezione della vita, l’autocoscienza di un umano; essa è ciò che rende possibile il “conosci te stesso”.

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Da questa varietà e ricchezza di livelli potrebbe ricevere una qualche luce anche il tradizionale problema dei rapporti fra natura e cultura. Il Sé e la coscienza nucleare – strettamente legati alla corporeità – sono vincolati all’organizzazione biologica e ai geni. Il Sé autobiografico e la coscienza estesa, invece, sono influenzabili dall’ambiente, dalle relazioni, dal Tempo. La specificità e la costanza della coscienza nucleare si fondano, infatti, sul divenire della struttura psicofisica; e questo vuol dire che la coscienza in tutti i suoi livelli, dimensioni e significati è inscindibilmente legata alla temporalità, all’identità e alla differenza del suo flusso. La mente allargata e la stratificazione di livelli della coscienza sono parte anche delle ipotesi di Varela e del suo maestro Maturana: una mente distribuita e non localizzata in qualche punto specifico del cervello, una mente plurale perché non riconducibile all’unità di risposte fisiche sempre identiche, una mente che emerge dall’intersezione costante e biunivoca di corpo e mondo. Quella delineata da Varela è una mente biologicamente incarnata e fenomenologicamente vissuta, capace quindi di coniugare i risultati delle scienze del corpo con lo sguardo fenomenologico sul soggetto, sul mondo, sul tempo vissuto. Al di là dei riduzionismi e dei dualismi – spiegazioni opposte ma accomunate dalla incapacità di render davvero conto del loro oggetto – la mente è, si potrebbe dire, il luogo immateriale ma realissimo in cui corpo e mondo si vengono reciprocamente incontro. Varela riconosce esplicitamente il proprio debito verso Husserl, per il quale il mondo si genera all’intersezione della corporeità cosciente con il tempo del quale essa è la coscienza; il fondatore della fenomenologia non era però riuscito ad allontanarsi davvero da una concezione ancora idealistica della conoscenza, come ben compresero sia Heidegger che Merleau-Ponty coi loro tentativi di situare l’esperienza umana nel tempo e nel corpo vissuto. L’unità costitutiva di mente e corporeità deriva e viene continuamente riplasmata dalla potenza dell’intero organismo, si sviluppa secondo una direzione che parte dal corpo, dalle emozioni, dai sentimenti, per giungere alle forme logiche apparentemente più astratte e impersonali. La relazione fra cervello, corpo, mondo non è un insieme discreto di stati reciprocamente autonomi e unificati a posteriori ma rappresenta il conti-

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nuum dell’esperienza che gli umani vivono nel tempo. Chiamiamo mente i significati che essi danno all’esistere nel mondo. Molti risultati delle scienze neurologiche e l’esercizio di una prospettiva fenomenologica radicale inducono a ritenere che mente e corpo, rappresentazione ed esistenza, siano due aspetti della stessa realtà e l’unità non sia un risultato da conseguire ma piuttosto il semplice fatto da cui partire e che affonda nella struttura non sostanzialistica ma processuale delle cose, è radicato nell’unione di enti, processi ed eventi in cui la realtà consiste, nasce dalla costituzione temporale del mondo. Per ragioni filogenetiche che concernono la necessità di orientarsi nello spazio/tempo e di sopravvivere, l’essere umano distingue in forma immediata il Sé dal resto dell’essente. Il bambino – come già argomentava Hegel nella seconda tappa della Fenomenologia dello spirito – acquista la propria identità staccandosi, letteralmente, da tutto ciò che non è il proprio corpo. Ma il Leib, il corpo proprio, vivente e vissuto, rimane in una continuità costitutiva con ogni altra dimensione delle cose, con lo spazio/tempo nel quale l’io è immerso. L’unità originaria delle dimensioni fisiche e di quelle rappresentazionali del corpo, del soggetto e del mondo del quale esso è da sempre parte, rendono artificiosa la distinzione epistemologica fra colui che osserva, ciò che viene osservato e il processo dell’osservazione. Eventi e cose quali un arcobaleno, le costellazioni, i caratteri stampati su un foglio, i volti così familiari coi quali interagiamo, cominciano a esistere solo quando producono degli effetti su un apparato cognitivo in grado di cogliere l’unità delle goccioline sospese nell’atmosfera, le relazioni geometriche fra alcune luci nel cielo, la creazione di significati da parte di forme di inchiostro impresse su una superficie, l’espressività di fronte, naso, occhi, labbra, guance, che va ben oltre la semplice somma spaziale e materiale delle componenti e avviene, di fatto, nello sguardo di chi osserva mentre osserva. Arcobaleni, costellazioni, lettere dell’alfabeto e visi non sono ma anzitutto accadono. Se il mondo esiste in una relazione incessante fra eventi sempre plurali, il suo fondamento è quindi il tempo inteso come la temporalità che nella coscienza cognitiva costruisce l’unificazione semantica del mondo. Gli enti ci sono, i processi fluiscono, gli eventi accadono. E tut-

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to questo trova il proprio significato in quella parte della realtà che è consapevole dell’esistenza di enti, processi ed eventi, e può così darne a se stessa una rappresentazione ontogeneticamente e filogeneticamente naturale e necessaria. Questa parte della realtà è ciò che chiamiamo mente. Lo stato del corpo, a sua volta, è ad ogni istante il risultato di un insieme assai complesso di eventi biologici, interiori e sociali. Da che cosa, ad esempio, sono prodotte anoressia e bulimia – e cioè la devastazione più concreta e di lungo periodo che un corpo possa subire – se non dai pensieri, dai sentimenti, dalle emozioni, dalle speranze, dalle attese, dai timori che costituiscono la vita della mente? Umanità significa prima di tutto essere (e non semplicemente avere) un corpo, ma non un corpo come semplice assemblaggio di organi al modo in cui un’automobile è un insieme di pezzi che si muovono bruciando energia. Piuttosto, «mens enim humana est ipsa idea sive cognitio corporis humani quæ in Deo quidem est»11, ed è per questo che il corpo umano è intessuto di relazioni, intenzioni, comprensione e temporalità. Corpo e temporalità Corpo e Tempo costituiscono così la partitura sulla quale la coscienza esegue il suo concerto. Non si dà individuo umano senza un corpo e quest’ultimo genera la mente. L’azione dipende dalla relazione originaria fra il corpo che vive e la mente che è consapevole di questa vita, diventando in tal modo coscienza. A possedere qualcosa o qualcuno è un corpo consapevole di sé, della propria storia, della propria natura. L’intera costruzione della conoscenza, dalle forme semplici a quelle complesse, dalla conoscenza non verbale per immagini a quella letteraria verbale, dipende dalla capacità di creare mappe di ciò che accade nel corso del tempo dentro il nostro organismo, intorno al nostro organismo, al nostro organismo e con il nostro organismo – una cosa dopo l’altra, che causa un’altra cosa ancora, all’infinito12. 11 SPINOZA, Ethica, parte II, prop. 19, tr. it. Etica, a cura di S. Giametta, Torino 2006, p. 66. 12 A. DAMASIO, Emozione e coscienza (The Feeling of What Happens. Body

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Il processo coincide con l’intera esistenza anche perché il cervello costruisce e ricostruisce il Sé istante per istante e luogo per luogo, «qualsiasi cosa accada nella vostra mente accade nel tempo e nello spazio relativamente all’istante di tempo in cui si trova il vostro corpo e alla regione dello spazio che esso occupa»13. Lo svolgersi delle coscienze nel tempo produce la memoria, senza la quale non si dà conoscenza di sé e del mondo. Coscienza, memoria, emozioni e sentimenti avvengono nel corpo e nel tempo. Il mio corpo non possiede ricordi di eventi passati come possiede l’abito che indossa ma è la memoria vissuta di tali eventi, che quindi sono in esso presenti come engrammi fisici e ricordi mentali; il mio corpo non attende semplicemente ciò che ha da venire ma rende già attuale il futuro attraverso la forza delle intenzionalità temporali, dove attuale va preso alla lettera nel senso che il futuro è già in atto nella tensione del mio corpo all’accadere. Lo stratificarsi di engrammi, ricordi e intenzionalità è il nostro corpo e forma continuamente le nostre vite. Non abbiamo, infatti, memoria di che cosa fosse il nostro corpo nel ventre materno, alla nascita, nei primi mesi e anni della vita poiché tale corpo era soprattutto fisicità non ancora cosciente. Solo da quando il corpo è abitato da ricordi e da attese, allora è davvero corporeità per la ragione che solo allora diventa corpo/mente. Allo stesso modo, una corporeità senza futuro e installata in un presente eterno non è altro che un cadavere. Il corpo umano ha quindi una struttura spazio-temporale intrinseca e costitutiva; se può abitare e comprendere lo spazio/tempo – e non semplicemente starci – è perché costituisce esso stesso questo spazio/tempo in atto e consapevole di sé. Simile a ogni altro ente, anche l’umano abita il tempo. Diversamente da ogni altro ente, egli lo sa e questo suo sapere lo trasforma nel saputo, lo fa diventare un grumo di tempo consapevole del proprio passare. La condizione della filosofia, nel duplice senso di ciò senza cui essa non potrebbe darsi e dello stato in cui sempre si dà, è la percezione insieme corporea and Emotion in the Making of Consciousness, 1999), tr. it. di S. Frediani, Milano 2003, p. 229. 13 Ivi, p. 179. «La temporalità è lo scheletro che sostiene oggetti e realtà oggettiva. Una volta compresa la temporalità, la strada verso l’incarnazione della coscienza si spalanca davanti a noi» (D. LLOYD, Radiant cool, cit., p. 312).

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e coscienzialistica di rimanere conficcati nella potenza del tempo, che è poi e nella sua sostanza il nostro stesso potere di intendere, di fare, di pensare, di vivere, poiché «alla scuola della trascendenza agita noi siamo già tempo che resiste al tempo, in una forma, che è anche irrimediabilmente unica, come singoli e come specie»14. Il tempo umano non è il tempo cosmico, fisico, convenzionale, non è la successione meccanica dei secondi che precipitano dal futuro nel passato ma è temporalità intrisa di significati e donante senso al reale. Solo questa inerenza del corpo/mente al mondo rende possibile l’accadere degli eventi nel tempo, poiché esso è un accadere di significati mentali, come dimostra in modo efficace l’episodio mitologico – ricordato più sopra – della vela nera di Teseo alla quale solo l’accordo stipulato dall’eroe con suo padre diede un significato specifico e ricco di implicazioni. L’essere umano subisce il tempo naturale – e questa sottomissione è la morte – ma a tale passività fisica fa da contrappeso l’attiva donazione di senso al flusso temporale, un tempo semantico del quale l’uomo è il signore. L’interscambiabilità di temporalità e soggettività umana si radica nella dimensione isotropa del corpo, il cui pulsare cosciente di sé è ciò che chiamiamo mente. Il corpo generatore di significati è l’asse intorno al quale gira il mondo di ciascuno, il luogo della mediazione fra le percezioni, l’emotività e le intenzioni. Non si può capire la mente se non si comprende che essa è una cosa sola con questa corporeità, a sua volta aperta all’intera realtà della quale genera i significati. La struttura è pertanto ricorsiva: Corpo fi Mente fi Mondo fi Significati del mondo generati nel fi Corpo fi Mente fi Mondo… La coscienza del sé, la consapevolezza di esserci nello spaziotempo, si fonda sulla continuità temporale intessuta di unità e coerenza interne e si struttura come corporeità vissuta, sulla quale si esercita una costante riflessione. Il Sé è probabilmente questa complessiva capacità di cogliersi in modo unitario e costante come flusso di coscienza incarnato nel tempo. La dinamica fra realtà e virtualità, 14

E. MAZZARELLA, Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, Genova 2004, p. 160. Nel vortice delle proprie avventure l’umano rimane una «contingenza avveduta, contingenza che si avvede di sé – questo è il sapere di sé dell’esserci che la filosofia ha tenacemente custodito» (ivi, p. 9).

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percezione e ricordo, presente e passato, è radicata nella corporeità. Il corpo percepisce l’accadere, il corpo è l’accadere comprensibile e vissuto, il corpo è un fluire temporale. E se il corpo è memoria, quest’ultima coincide con la mente stessa, con la sua capacità di distendersi verso ciò che è stato, conficcarsi in ciò che è, prefigurare quanto potrà accadere. Agostino intuì con tale chiarezza la centralità della memoria nell’essere dell’uomo, da accostarvi per analogia uno dei concetti fondamentali della sua fede: la struttura trinitaria del divino. Per il X libro del De Trinitate, il Padre è memoria, il Figlio intelletto, lo Spirito Santo volontà. Il primato del Padre – da cui il Figlio procede e dal reciproco essere e amore dei quali si sprigiona lo Spirito – è figura del primato della memoria tra le facoltà umane, il primato vale a dire del tempo. Una primalità che nel XIII libro delle Confessiones diventa esplicita mediante l’equiparazione del Padre non più alla memoria ma all’essere, rispetto all’intelligere e al volere. Le pagine che Agostino dedica alla memoria in un altro libro delle Confessiones, il X, rimangono fondamentali e dopo secoli nulla hanno perso di plausibilità fenomenologica. La memoria è la mente che si sottrae a se stessa proprio mentre si dà, in una compresenza di ricordo e di oblio che scandisce, di fatto, l’intera esistenza e ogni flusso del pensare: «grande è la forza della memoria, qualcosa che fa venire i brividi (quid horrendum) – mio Dio – una profonda ed infinita molteplicità; e questo è la mente (hoc animus est), e questa cosa sono proprio io. Che cosa sono dunque io, mio Dio? Che natura sono? La vita è variegata, complessa, davvero non contenibile in una misura» (Conf. X, 17, 26). Attraverso l’analisi della memoria, Agostino coglie la struttura fondamentale della mente, che è tempo incarnato, «luogo dello smarrimento del dono ontologico, dello smemoramento della memoria, della sospensione enigmatica di sé in se stessa, dell’esperienza della morte della propria vita, dello scheggiarsi temporale della propria identità metafisica»15. La mente/memoria è il luogo in cui la finitudine umana arriva ai confini temporali di se stessa. 15 G. LETTIERI, La mente immagine: Paolo, gli Gnostici, Origene, Agostino, in: E. CANONE (a cura di), Per una storia del concetto di mente, Firenze 2000, p. 114.

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Se la coscienza è rivolta al mondo in una serie innumerevole di atti intenzionali di comprensione, di interpretazione, di azione, essa non può in ogni caso trascendere se stessa e la propria finitudine. Tale finitudine è ciò che chiamiamo tempo e la domanda metafisica sull’essere piuttosto che il nulla diventa la domanda sul tempo piuttosto che il nulla. Il tempo-mente e il tempo-movimento si coniugano per il fatto che il mondo non è nel tempo ma è il continuo generarsi di esso. Se gli enti, viventi e non, hanno tempo è perché il mondo da cui germinano è tempo. Anche per questo gli enti non sono l’essere: è nel tempo che si fa comprensibile e logicamente conseguente quella che Heidegger chiama la differenza ontologica fra l’essere e gli enti. Ed è qui che diventa complesso, e a volte anche contraddittorio, lo statuto del Dasein che sembra avere tempo e insieme essere tempo. Questa identità diviene più chiara se comprendiamo che il tempo che l’essere umano ha e insieme è possiede anche un altro nome: la memoria. Che cosa infatti ci assicura a ogni risveglio che siamo ancora noi? Che cosa fa dell’incrocio spazio-temporale di materia una persistenza più forte di ogni cambiamento? Da che cosa dipende e con che cosa è in relazione l’identità del nostro nome? Certamente dalla memoria corporea, la quale garantisce la continuità nel tempo della molteplicità che ciascun umano rappresenta. Oltre che essere nomade, la mente è infatti anche plurale, consiste in una convivenza di credenze e desideri fra di loro spesso incompatibili e il cui conflitto interno genera i comportamenti che solitamente vengono definiti “irrazionali”. L’io è un coacervo, è il risultato assai sofisticato – e sempre fragile – di una serie di strategie incrociate di controllo, nelle quali a volte prevale una tendenza e altre vince quella opposta. La memoria costituisce uno dei pochi, efficaci strumenti di permanenza del sé al di là dei conflitti e del tempo. I confini del soggetto sono pertanto i limiti della sua memoria. Anche per questo è molto importante e fenomenologicamente plausibile la distinzione proposta da Derek Parfit tra continuità (continuity) e connettibilità (connectedness). La continuità senza fratture e senza svolte fra intenzioni, decisioni e azioni del soggetto non dura mai troppo a lungo e più spesso si dà invece «un legame solo parziale fra gli stati mentali successivi di una persona», tanto da trovare «naturale, o quantomeno poco insolito, affermare

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che la persona che siamo oggi è solo parzialmente connessa a quella che eravamo durante l’adolescenza»16. La memoria coincide di fatto con tale connettibilità e quindi con l’identità di un soggetto pensante. Essa lega le esperienze già vissute e lo spessore del presente, segnando in questo modo l’irriducibilità della coscienza di un individuo a quella di chiunque altro. La memoria è memoria del passato, memoria del presente, memoria del futuro (è la memoria il vero tema delle analisi agostiniane del tempo) e per questa sua capacità di costruire, scandire e unificare la temporalità della coscienza, la memoria diventa il luogo dell’identità del soggetto che, senza di essa, sarebbe – letteralmente – perduto. Delle tante e legittime definizioni che si possono dare dell’essere umano, una delle più caratterizzanti è dunque “l’animale che ricorda”. Il ricordo costituisce sia un movimento che una struttura. Il movimento del ricordare è l’atto con il quale la mente registra e poi recupera gli eventi, è l’aspetto dinamico della reminiscenza, una sorta di motore di ricerca che consente di accedere ai dati conservati in memoria. Dati che costituiscono, invece, l’hard disk al quale il vivere e il conoscere attingono continuamente per dare un significato all’immensa potenza dell’accadere ma che nello stesso tempo contribuiscono a trasformare l’accadere attraverso la selezione dei ricordi, la cancellazione di alcuni di essi e anche la radicale invenzione di altri. Memoria e reminiscenza sono quindi sempre processi dinamici poiché costituiscono l’attualizzarsi della mente come tempo. Per questo l’essere umano è prima di tutto un corpo animale che ricorda; che parla perché ricorda; che pensa perché parla; che dimentica ciò che pensa – e che vive – e proprio per questo può ancora ricordare. La memoria e l’oblio rappresentano delle condizioni entrambe fondamentali affinché ogni singolo umano riconosca sé, la propria immagine, il perdurare dell’identità nel cangiare incessante di ogni cosa e del corpo stesso. Come dimostra anche la malattia di Alzheimer, la privazione progressiva e totale del ricordo conduce alla demenza e alla morte, la distruzione del Sé prepara e produce la fine dell’unità psicosomatica che ogni umano rappresenta. La memoria costruisce, infatti, l’io, fa l’identità di ciascuno, consente di rimanere 16

D. SPARTI,

Identità e coscienza, Bologna 2000, p. 86.

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la stessa entità nel mutare dei luoghi e dei tempi. Se si sostituiscono cuori, polmoni, occhi, si rimane il Sé di sempre; se si trapiantano cervello e memoria si diventa un altro individuo. La centralità della memoria consiste anche nel suo peso. I ricordi sovrastano il soggetto e lo dominano. Se non venissero progressivamente cancellati lo ucciderebbero paralizzandone l’attenzione, l’attesa, il futuro. In modo molto preciso, Valéry afferma che «l’oblio è l’adattamento della mente a essere nel presente»17. Che cosa è dunque questa facoltà centrale, questo elemento decisivo della personalità, questo sinonimo della coscienza? La memoria è costruita – letteralmente, sinapsi dopo sinapsi e cioè mattone dopo mattone – dai neuroni, dal loro complesso funzionamento, dalla loro struttura e fisiologia fatta di cilindrassi, dendriti, neurotrasmettitori. L’insieme innumerevole delle sensazioni, percezioni ed emozioni produce nei neuroni una traccia che Richard Seman ha chiamato engram, engramma. Si potrebbe dire che l’engramma è per il cervello ciò che il ricordo è per la mente: engramma e ricordo sono, pertanto, la stessa realtà indagata ed espressa su due diversi livelli epistemologici. La memoria, infatti, non ha un luogo preciso nel cervello e non può pertanto essere paragonata a quella di un computer, poiché nessuna parte specifica del cervello corrisponde al disco rigido nel quale gli elaboratori elettronici conservano i file che mano a mano vengono inseriti in essi. Per Bergson il cervello serve a richiamare il ricordo (sappiamo, oggi, tramite l’attivazione delle sinapsi), non a conservarlo e già Aristotele distingue il ricordo come dato e la reminiscenza come recupero e ricostruzione del dato; nei termini della computazione, potremmo dire: memoria come disco rigido e reminiscenza come Ram18. Nella sua interezza e complessità, quindi, il ri17

P. VALÉRY, Quaderni (Cahiers, 1988), a cura di J. Robinson-Valéry, tr. it. di R. Guarini, Milano 1988, tomo III, pp. 495 ss. 18 «Il rammemorare differisce dal ricordare, non solo riguardo al tempo, ma anche perché della memoria partecipano molti altri animali, mentre della reminiscenza nessuno, per così dire, degli animali a noi noti, ad eccezione dell’uomo. Ciò perché la reminiscenza è una specie di illazione [sullogismÒj tˆj]: chi rammemora fissa per illazione che prima ha veduto o udito o esperimentato qualcosa e ciò è, in sostanza, una specie di ricerca» (ARISTOTELE, Della memoria e della reminiscenza, tr. it. di R. Laurenti, Roma-Bari 1973, 453 a); Bergson afferma che «non vi è una facoltà speciale il cui ruolo sia di conservare il passato per riversar-

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cordare non è come il trarre qualcosa da un cassetto, da un serbatoio, da un hard disk, da un catalogo statico ma è una funzione assolutamente dinamica, in continuo mutamento, strettamente legata al presente dell’individuo che ricorda, ai suoi interessi attuali, a un orizzonte di attesa che modifica, plasma, ordina e a volte persino inventa i propri ricordi. Il presente influisce sui ricordi almeno quanto questi ultimi determinano il presente. Con una efficace immagine, «se la memoria, da un lato, assomiglia ad una grande città, dall’altro è sempre in movimento con costruzioni nuove, abbellimenti e restauri, ma anche abbandoni e distruzioni»19. E questo conferma che l’identità dell’essere umano è del tutto immersa nello spazio-tempo che il corpo è. La struttura della memoria La memoria ha quattro movimenti e tre tipologie. I quattro movimenti sono: l’acquisizione mediante le percezioni, la conservazione neuronale, la trasformazione dinamica condizionata dal presente, l’espressione linguistica del racconto a se stessi e agli altri. I diversi tipi sono: la memoria implicita, nella quale i ricordi vengono acquisiti in forma passiva, ripetitiva, abitudinaria; consapevole perché fatta di scansioni coscienti del tempo; affettiva o emotiva, che è la più profonda, quella che imprime a fondo nel cervello la traccia delle esperienze, percezioni, sensazioni che in un dato istante e in un processo più o meno lungo coinvolgono profondamente l’intera soggettività di un corpo. È questo il tipo di memoria che sta al centro della Recherche: una memoria involontaria che riaffiora in determinati istanti (le intermittenze del cuore) allorquando il corpo percepisce sensazioni analoghe a quelle che in passato furono collegate alle emozioni profonde dell’io. Solo una parte dei ricordi può quindi essere richiamata mediante strategie quali: la reinduzione dello stimolo (tipico esempio lo nel presente. (…) Il cervello serve qui a scegliere nel passato, a ridurlo, a semplificarlo, a utilizzarlo, ma non a conservarlo» (H. BERGSON, Il pensiero e il movente. Saggi e conferenze [La pensée et le mouvant, 1934], a cura di G. Perrotti, Firenze 2001, pp. 129 s.). 19 J.Y. TADIÉ – M. TADIÉ, Il senso della memoria (Le sens de la mémoire, 1999), tr. it. di C. Marullo Reedtz, Bari 2000, p. 123.

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il riflesso condizionato di Pavlov e, prima ancora, di Descartes); l’associazione ad altri eventi, oggetti, immagini, nomi; l’attenzione e la concentrazione. La memoria è anche una sorta di sesto senso che unifica i primi cinque dando loro profondità, fecondità, significato; essa è quindi il tempo stesso dell’uomo, un tempo intriso di ricordi ed engrammi. La memoria percorre incessantemente il passato dentro di noi e costruisce il futuro sul fondamento di ciò che è stato, in questo modo dà significato al presente dell’ora, a questo attimo qui che sto vivendo. È anche a causa di tale movimento continuo del tempo dentro la memoria che abbiamo bisogno di calendari, agende, atlanti storici che ci permettano di rappresentare il tempo, conservando le tracce di quest’ultimo all’interno dello spazio convenzionale degli strumenti atti a scandire la profondità della dimensione cronologica dentro la bidimensionalità delle superfici cartacee. Memoria, tempo, mente, corpo costituiscono una costellazione inscindibile di senso. Il corpo è lo spazio fisico e fenomenologico nel quale la mente e il tempo si toccano nel punto esatto del ricordo, tanto è vero che una progressiva perdita della memoria – causata da traumi cranici o dalla costante e veloce morte dei neuroni che avviene nei malati di Alzheimer – comporta il progressivo venir meno del significato del Sé, e cioè del proprio corpo – alla fine non più riconosciuto, dimenticato come altri corpi, altri oggetti, altri eventi – e della propria identità, dell’io. Un film come Memento di Christopher Nolan (GB, 2000) illustra con efficacia che cosa avviene quando una lesione che colpisce l’ippocampo mantiene intatta la memoria dei ricordi che precedono il trauma ma rende impossibile la fissazione di quelli nuovi: è l’amnesia anterograda di cui è vittima il protagonista Leonard. Per sopravvivere, egli prende appunti, scatta foto, mediante tatuaggi trasforma il proprio corpo nella memoria che più non ha, in modo da poter ancora praticare – letteralmente – «la lettura del tempo sul corpo dell’uomo»20. Tanto più difficile è quindi trovare l’assassino che gli ha stuprato e ucciso la moglie. Sembra che lo aiutino una ragazza che vuole vendicarsi anche lei di qualcuno e uno strano amico che compare 20

p. 44.

V. DI SPAZIO,

Le polmoniti di marzo. Il gene emozionale, Bolzano 2006,

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nei momenti più delicati. Dai frammenti di memoria raccolti con una fatica che sembra sovrumana, a poco a poco si scopre che la ragazza è la donna dell’uomo che lui sta cercando e l’amico Teddy un poliziotto che lo usa per sbarazzarsi di alcuni malviventi. Lenny, infatti, si è già vendicato ma lo ha dimenticato… E forse sua moglie non è nemmeno stata uccisa da altri ma da lui stesso e dal ricordo ossessivo di un uomo che aveva subìto lo stesso suo trauma ma al quale Lenny – detective di una compagnia di assicurazioni – non aveva creduto. L’unica soluzione sembra allora mentire alla propria memoria anche quando essa è ormai perduta: Me-mento, mentire a se stessi, per vivere ancora dopo aver smarrito la mente. Si comprende come la memoria e il tempo vissuto (Husserl direbbe i vissuti temporali) siano tutto per un essere intelligente e come perdendoli si smarrisca il significato stesso della vita e dell’esserci. Il ricordare è pertanto una delle funzioni e delle capacità assolutamente determinanti del cervello e quindi dell’esperienza umana. Esistere significa in gran parte accumulare memorie e la memoria è una forma di permanenza del corpo e di costanza della mente. La massa temporale dei vissuti, del percepito, del sentito, dell’immaginato, del pensato, si stratifica nel corpo. Si tratta di una dimensione così centrale e tanto complessa da articolarsi in una grande ricchezza di forme e di funzioni. Non si tratta solo della capacità di conservare le informazioni acquisite ed elaborate, in modo da poterle poi utilizzare ogni volta che sia necessario. Questa può essere la funzione della memoria ma la sua struttura coincide, di fatto, con la stessa mente come coagulo dei vissuti temporali. Il ricordare non somiglia a una fotografia, immagine statica sempre identica a se stessa e che può solo sbiadire, ma a un film ininterrottamente montato e rimontato, somiglia a delle scene che cambiano di continuo collocazione in relazione alle altre scene che si aggiungono, che vengono scartate, che interagiscono con quelle già girate, somiglia a un palinsesto continuamente riscritto. È significativo che non esista un unico centro della memoria e che essa non abbia dei moduli definiti ma che sia, invece, diffusa in tutto il cervello, attraverso un insieme estremamente ricco e articolato di connessioni: «qualunque cellula, o gruppo di cellule, può far

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parte di molte reti e, pertanto, di molte memorie»21, al di là di alcune specializzazioni come quelle dell’ippocampo nei confronti della memoria cognitiva o del sistema limbico – l’amigdala in particolare – verso la memoria emotiva. La memoria costituisce quindi un sistema estremamente pervasivo, complesso e soprattutto attivo. Nel preciso senso che il cervello non si limita a registrare e conservare dei dati in modo neutro e oggettivo – come fa la memoria di un computer che inserisce delle stringhe e delle sequenze di bit su un disco rigido – ma dalla percezione assume delle informazioni generali che poi rielabora creando i ricordi. La memoria può essere ulteriormente ripartita in due grandi sezioni: memoria primaria o a breve termine e secondaria o a lungo termine. La prima dura pochi secondi, il tempo – ad esempio – di ripetersi un numero telefonico da trascrivere sulla rubrica (ripasso articolatorio) e a sua volta si suddivide in memoria verbale o fonologica (un suono percepito, una parola ascoltata, una informazione o una cifra letta, che costituiscono il circuito fonologico) e memoria visuospaziale, la quale produce le immagini mentali che continuamente si generano e si dissolvono nella nostra coscienza e il cui flusso forma in gran parte la vita della mente. La memoria a lungo termine è ancora più complessa e si divide in: a) memoria episodica, la quale si riferisce a eventi che hanno una ben precisa collocazione nello spazio e nel tempo (tale memoria non va quindi confusa con quella a breve termine); b) semantica, che rende possibile l’acquisizione di un linguaggio, il mantenimento di una serie di informazioni e conoscenze alle quali attingere di continuo nel corso della vita, l’abilità di correlare un segno al suo riferimento; c) prospettica, la capacità di ricordarsi di un impegno collocato nel futuro; d) autobiografica, la conservazione degli eventi più importanti che riguardano la propria identità; quest’ultima, infatti, è proprio la costanza del ricordo di sé nel tempo; e) procedurale, l’acquisizione di una competenza sicura in tutta una serie di operazioni, come il guidare un’automobile o il digitare su una tastiera; f) il cosiddetto priming, e cioè il conseguimento di una progressiva migliore abilità nel21

J.M. FUSTER, «La localizzazione della memoria», in: AA.VV., Dai neuroni alla coscienza, Roma 2005, p. 28.

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lo svolgere un compito ripetendo gli stessi stimoli. Queste due ultime forme – procedurale e priming – si differenziano dalle altre perché riguardano non un contenuto, un che cosa ma una metodologia, un come. Sono, infatti, tipi impliciti di memoria, diversi dalle forme precedenti di memoria dichiarativa o esplicita. Una procedura viene svolta in modo automatico e ripetitivo mentre le forme semantiche vere e proprie si basano sempre sulla consapevolezza del dato mnestico che viene elaborato. Se questa è una possibile mappa del complesso territorio costituito dalle memorie, altrettanto ricco e variegato è l’ambito in cui il ricordo si nega e si cancella: le amnesie. La più importante di esse è quella che tutti gli umani sperimentano e che è necessaria quanto il ricordare: l’oblio, la dimenticanza. In un individuo ipermnesico, che non riesce a dimenticare nulla, la mente si trasforma in un coacervo di sensazioni, immagini, emozioni, prive di un significato coerente poiché è anche la selezione dei ricordi, il loro continuo essere cancellati e riscritti, a dare un senso attivo, vitale, funzionale alla memoria. L’oblio è anche un dono degli dèi, un modo per annullare il dolore degli eventi, dissolvere l’angoscia degli errori compiuti e subiti, in modo da poter ancora vivere proiettati nella cura del futuro. È questo dono che manca a Ireneo Funes, l’“indimenticabile” personaggio borgesiano, che «sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d’un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Río Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. (…) Ricordava non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata (…) Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità»22. Le ragioni neurologiche dell’oblio sono soprattutto due: il decadimento della traccia e il fenomeno dell’interferenza. Con traccia si intende un qualsiasi evento immagazzinato nella memoria. Come ogni cosa col tempo trascolora, che sia la pagina di un libro o una roc22

J.L. BORGES, Funes o della memoria, in: Finzioni, in: ID., Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Milano 1991, vol. I, pp. 712 ss.

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cia del Caucaso, allo stesso modo anche l’evento più vivido, il fatto più importante, il volto più amato, subiscono l’ingiuria degli anni e tendono a dissolversi. L’interferenza è invece l’accavallarsi e il confondersi dei ricordi. Può essere proattiva quando i ricordi più vecchi ostacolano l’acquisizione di materiali nuovi e retroattiva quando, al contrario, dei nuovi dati tendono a sostituirsi ai precedenti sino a cancellarli. L’oblio – che è non solo fisiologico ma anche assolutamente necessario – degenera in amnesia, fenomeno complesso quanto la memoria stessa. Come, infatti, quest’ultima può essere ulteriormente distinta in retrograda – concernente i fatti che precedono un determinato punto del tempo – e anterograda – rivolta agli eventi successivi a un dato istante –, così l’amnesia può essere globale ma può anche riguardare solo gli episodi che precedono un qualche trauma organico o psichico – e dunque amnesia retrograda – o può costituire l’incapacità di fermare nella mente i dati successivi a un certo avvenimento, e allora si chiama amnesia anterograda, come è quella descritta nel film di Nolan. Nel primo caso, a dissolversi è l’identità, la storia, il fascio di ricordi che è un essere umano. Nel secondo tipo, l’esistere sembra fermarsi a un certo istante dell’esserci stato e diventa impossibile continuare a vivere nel tempo, pur mantenendo inalterata la capacità di capire i significati delle parole e degli eventi, di praticare attività ormai acquisite in forma procedurale, di ricordare a breve termine. Si esiste, insomma, nell’immediato presente (al massimo per alcuni minuti) e nel passato remoto ma diventa davvero difficile progettare un futuro, poiché esso attinge dalla unitarietà di tutte le fasi temporali, dalla profondità senza pari del tempo vissuto e fattosi carne. La memoria è talmente pervasiva da intridere di sé non solo la vita cosciente ma anche la materia stessa. Le leggi e i princípi più importanti della fisica sono infatti elaborati sulla base di un profondo legame che connette fra di loro il movimento, il tempo e la memoria. Nel mondo fisico la conservazione della memoria di un sistema è data anche dal ricorrere regolare nel tempo di movimenti identici, dal concatenamento rigoroso, logico e ordinato degli eventi nello spaziotempo. Faccio un solo, ma importante, esempio.

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La radiazione di Hawking implica che un buco nero non sia, ovviamente, un oggetto ma si strutturi quale evento che lentamente evapora e nel tempo si dissolve. Questione controversa è se tale radiazione porti o no con sé l’insieme di dati, notizie, circostanze che hanno condotto della materia-energia a precipitare in quella singolarità fisica che chiamiamo black hole. L’ammissione fatta recentemente da Hawking della esistenza di meccanismi in grado di salvare e restituire le informazioni inerenti un buco nero rappresenta una conferma molto importante della potenza costitutiva della memoria sin dentro le strutture più intime e complesse della materia. La natura possiede e custodisce delle simmetrie sempre potenzialmente ricostruibili e decifrabili nel loro divenire. Tanto che «se l’informazione non viene cancellata sin dai primi istanti, come ora si crede, il cosmo diventa corte grandiosa della nostra memoria, metafora del nostro viaggio verso la conoscenza che è anche conoscenza interiore»23. Mente e materia sono quindi intrise di memoria. Il nostro corpo nulla dimentica e conserva invece nei propri stessi tessuti, nelle cellule, nella struttura anatomica, il ricordo degli eventi – gratificanti o amari – che lo plasmano nel tempo. Anche la materia/movimento che coincide con lo spazio-tempo della Relatività Generale mantiene, persino nelle condizioni fisiche estreme di un buco nero, «un ricordo fatto di luce»24. La memoria si stratifica, dunque, nel corpo, nelle sue sensazioni, umiliazioni, difficoltà, piaceri, estasi. La memoria intesse la mente sino a costituirla come forza, identità, facoltà di azione, presa sul mondo e dominio della sua complessità. L’esistere quotidiano degli umani è intriso di un radicale sentimento del tempo che proietta su ogni ente, evento, persona, l’insieme complesso delle memorie e delle attese. Non esiste una percezione oggettiva del mondo, se con questa si intende che le cose abbiano lo stesso significato per ciascuno. La tonalità emotiva domina ogni azione; i comportamenti sono radicati nella memoria profonda del corpo, nei ricordi che la mente cosciente progressivamente cancella ma che rimangono indistruttibili in 23 M. COLPI, Buchi neri evanescenti. Stephen Hawking e la scommessa perduta, Roma 2005, p. 75. 24 Ivi, p. 78.

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quel vero e proprio luogo della mente che è la corporeità. Infatti, noi siamo «memoria nel senso più completo e complesso del termine»25. Memoria filogenetica che ha incorporato nel genotipo il lungo cammino dell’evoluzione e memoria ontogenetica che fa del fenotipo, del singolo essere umano, un autentico grumo di tempo incarnato. E quindi se la mente, nella complessità della sua struttura e delle sue funzioni, vive in una dinamica senza posa di apprendimento e di oblio, il corpo non dimentica. Un’affermazione che è da intendere in senso letterale già a partire dalla – per quanto impercettibile – discrepanza temporale fra l’accadere di un evento e il tempo di reazione fisica all’evento stesso. Si tratta di uno iato temporale che colloca i fenomeni percettivi nella memoria sensoriale, la quale produce la fondamentale percezione dell’immediato e irreversibile scivolamento del presente nel passato. La mente dimentica perché deve cancellare dei ricordi in modo da accoglierne di nuovi. Ma c’è qualcosa di noi che non scorda nulla perché non ne ha bisogno ed è da lì che si genera tutta la nostra potenza e la nostra fragilità: il corpo conserva nelle proprie fibre, nelle cellule, nell’intero che lo costituisce, ogni più piccolo evento, oggetto, visione, pensiero, sguardo, parola. L’accumularsi continuo dei ricordi corporei (le tracce mnestiche) ci conduce alla morte. Il nostro essere viene letteralmente schiacciato dal peso della memoria somatica, incancellabile e perfetta. Mentre siamo vivi, questa memoria (la più intensa di tutte) produce le sensazioni e i pensieri più esaltanti e quelli più angosciosi. I ricordi profondi del corpo ci accompagnano per sempre, fin da quando eravamo bambini, fin da quando siamo nati. Ecco perché «non esiste un organo specifico della “memoria”; tutti i nervi, per esempio nella gamba, si ricordano di precedenti esperienze. Ogni parola, ogni numero è il risultato di un processo fisico che in qualche posto si è stabilizzato nei nervi. Tutto quello che è stato assimilato organicamente nei nervi, continua a vivere in essi»26 e già Aristotele aveva definito la reminiscenza come «ricerca di un’immagine nel substrato corporeo»27. 25

V. DI SPAZIO,

26

F. NIETZSCHE,

Il Meridiano del Tempo, Palermo 2002, p. 7. Frammenti postumi 1879-1881, in: Opere, vol. VI/1, 2[68], a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano 1964, p. 343. 27 ARISTOTELE, Della memoria e della reminiscenza, cit., 453 a). Paul Con-

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Memoria endocorporea ed esocorporea: corpi post-umani? Dalle undici tavolette su cui venne incisa l’epopea di Gilgamesh sino alle memorie olografiche nelle quali i dati verranno archiviati su volumi e non su superfici, la memoria esocorporea – quei supporti culturali e tecnologici che hanno consentito alla specie di conservare il ricordo di sé e quindi la propria specifica identità di animale simbolico – rappresenta l’ampliamento nello spazio e nella materia di quanto di più intimo ci sia nella mente. Se l’essere umano è analogico – e cioè vivente in una profonda continuità dell’esperienza sensoriale, percettiva, mentale – i più potenti strumenti di cui si è dotato sono invece digitali, e quindi composti di dati discreti, di salti netti e di un linguaggio omogeneo qual è il codice binario. Ciò consente ai semiconduttori di silicio di cui le memorie capacitive sono fatte di accumulare una carica per ogni elettrodo isolato e di dimensioni sempre più microscopiche. La barriera fisica della miniaturizzazione sarà però presto raggiunta e questo sta spingendo a trovare delle alternative come le memorie olografiche, le memorie resistive dei calcogenuri (e non del silicio), le memorie a stati quantici e soprattutto le forme ibride dei wet-chip, in parte composti da materiale organico. In ogni caso, è evidente che la memoria – e quindi la vita – accade sempre più sulla Rete, luogo impalpabile eppure realissimo, che non sta da nessuna parte e penetra ovunque, e nel quale avvengono conoscenze, scambi, acquisti, comunicazioni, amori, euforie e tragedie.

nerton conferma che «il passato può essere conservato nella mente attraverso la memoria sedimentata nel corpo» (P. CONNERTON, How Societes Remember, Cambridge 1989, p. 102). Anche Fraser sostiene che l’organo di senso che percepisce il tempo non sia localizzabile in nessun punto specifico del cervello ma si trovi «in tutto il corpo, perché si tratta del sistema nervoso» (Il tempo: una presenza sconosciuta [Time. The Familiar Stranger, The University of Massachusetts Press 1987], tr. it. di L. Cornalba, Milano 1991, p. 148) e sono proprio tali «aspetti temporali della attiva (e non soltanto reattiva) interazione tra il corpo e l’ambiente» a essere di «considerevole importanza per l’emergere della coscienza» (E. GONZALEZ/M. BROENS/P. HASELAGER, Consciousness and Agency: The Importance of Self-Organized Action, in: «Networks» 3-4, 2004, p. 105). Anche «nella metapsicologia del neurologo Freud i ricordi vengono conservati come tracce del tessuto cerebrale» (F. CIMATTI, Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo, Torino 2004, p. 117).

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Fra gli inediti e inquietanti problemi che questo divenire porta con sé, uno è particolarmente importante. Ogni memoria ha senso solo in relazione all’oblio, quell’oblio che alla vita è necessario quanto lo stesso ricordare. L’enorme database di informazioni, immagini, testi e ricordi che stiamo costruendo giorno dopo giorno, rischia però di uccidere l’angelo della dimenticanza. Fare in modo che esso possa ancora aprire le sue ali di pietà è forse il compito più importante che ogni nuova arte della memoria deve e dovrà affrontare. Poiché davvero «è sempre una cosa sola quella per cui la felicità diventa felicità: il poter dimenticare (…) per ogni agire ci vuole oblio»28. Anche e proprio perché la mente è tale potente e fragile memoria del corpo, capire il mentale diventa davvero possibile solo se si comprende il suo legame strettissimo con il tempo. In tal modo l’interrogativo su cosa sia il tempo si trasforma in quello su chi sia il tempo. L’interazione fra la coscienza e il tempo risulta particolarmente evidente nell’esperienza dello stream of consciousness e anche nella base genetica su cui poggiano gli orologi interni di molti organismi viventi, connessione che diventa assai più profonda e complessa nella mente umana capace di sostituire l’anticipazione istintiva – come riflesso filogenetico necessario, ad esempio, per evitare di rimanere vittima di un predatore – con una assai più complessa anticipazione consapevole di eventi, che scaturisce dall’insieme di conoscenze ed esperienze del soggetto. Un esempio potrebbe essere l’attesa interiore e collettiva dell’arrivo delle stagioni. È chiaro quindi che «la relazione con il tempo è di enorme importanza nelle forme più alte di coscienza»29 e sta qui uno dei luoghi e dei problemi che possono davvero ampliare la nostra conoscenza della mente che siamo. Il corpo è dunque immerso nel continuum spazio-temporale di enti, eventi, processi e ciò che di veramente umano ha l’uomo non è un elemento metafisico o un qualsiasi dato empirico. Umana è l’opera, l’attività dell’ente che da se stesso produce il significato e copre l’essere di quella rete di strutture concettuali, estetiche, linguistiche 28

F. NIETZSCHE, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in: Opere, cit., vol. III /1, p. 264. 29 K.R. POPPER, La conoscenza e il problema corpo-mente (Knowledge and the Body-Mind Problem. In Defence of Interaction, 1994), tr. it. di F. Laudisa, Bologna 2002, p. 96.

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che chiamiamo cultura. L’unità profonda di corpo e psiche è dimostrata dallo stesso agire quotidiano, dalla psicosomaticità della salute e della malattia, delle emozioni e della logica. Sempre, infatti, si parte dalla complessità. Anche quando un’informazione o un sentimento sembrano elementari, essi sono in realtà immersi nell’ininterrotta sequenza della cultura e della corporeità. L’umanità postumana è caratterizzata da una mente nomade, da una identità dislocata nello spazio delle esperienze più diverse e nel tempo delle memorie, dei progetti, delle attese di una vita che non porta il mio nome, di un “io” che «è solo un passare attraverso»30. Una delle differenze fondamentali tra l’organico e il macchinino è proprio la possibilità del primo di essere attraversato dal tempo come una fenditura, una ferita, l’apertura di una nuova via, di prospettive inedite e continuamente cangianti, dove la morte dell’ora è la condizione per l’avvento del non ancora. Lo statuto della coscienza umana ha tutto da guadagnare da questo nomadismo del soggetto poiché la consapevolezza dello spessore biologico e materiale della mente contribuisce a far comprendere la dimensione molteplice della soggettività, oltre le rigidità sintattiche della matrice computazionale. La vita, infatti, non coincide né con la materia né con la forma ma è fatta di una pluralità di livelli semantici, i quali consentono all’interiorità umana che si rappresenta il mondo di interagire con il mondo rappresentato, coniugando l’esistenza oggettiva e non antropica degli enti con la loro pensabilità mentale e con la costante relazione che intercorre fra gli oggetti, i processi e gli eventi. Vita umana e significato sono infatti sinonimi. Il soggetto postumano è un’entità nomade, che si muove fra diverse dimensioni dell’essere e del conoscere, che sposta di continuo i confini fra l’umano, il naturale e l’artificiale. Un soggetto che diviene assai più di quanto non sia, che ha abbandonato la centralità vitruviana a favore di una dislocazione diffusa, che può essere sia fram30

R. BRAIDOTTI, «Meta(l)morfosi», in: AA.VV., Umano post-umano. Potere, sapere, etica nell’età globale, (a cura di M. Figiani/V. Gessa Kurotschka – E. Pulcini), Roma 2004, p. 108. La dissoluzione della soggettività stabile e antropocentrica è un gesto del pensiero e dell’agire che è stato indagato nei suoi presupposti dalla filosofia di Nietzsche e ha trovato sviluppi radicali – anche se a volte criptici – in Foucault e Deleuze.

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mentaria e caotica che reticolare e ordinata. La conoscenza diventa distribuita, una diramazione che non si limita all’insieme delle persone e alla somma dei tempi storici ma coinvolge i computer, e cioè la macchine più recenti e “intelligenti” fra quelle con le quali l’umanità vive da millenni in simbiosi. Alla luce di tutto questo, la domanda cruciale è se il postumano sia ancora una chance che ci viene offerta o se costituisca poco meno che una catastrofe senza precedenti per la nostra identità, se la transizione dall’Homo sapiens all’Homo silicon rappresenti una ulteriore e feconda tappa nel nostro cammino o disegni solo un lungo crepuscolo destinato a sostituire la specie umana con qualcos’altro, seppur nato da essa. La risposta, una possibile e plausibile risposta, non può che partire ancora una volta dal duplice e coerente fondamento della sostanza umana: il Corpo e il Tempo, il corpo come macchina temporale e dunque finita. Coniato nel 1960 da Clynes e Kline per indicare un uomo migliorato e potenziato al punto da riuscire a sopravvivere in un ambiente non terrestre, il termine cyborg è diventato un potente strumento di comprensione di ciò che caratterizza l’umano da sempre ma che oggi mette in discussione i paradigmi più consolidati, le differenze di sesso, classe, etnia e persino di specie mediante un’accelerazione di quel processo ibridativo che è un dato costitutivo dell’umanità. L’ambiguità di tale figura è pertanto propria della sua natura, come evidenzia assai bene Katherine Hayles: «se il mio incubo è una cultura abitata da postumani che considerano i loro corpi come accessori di moda, invece che fondamento del loro essere, il mio sogno è una versione del postumano che accetti le potenzialità delle tecnologie dell’informazione senza rimanere affascinato da fantasie di sconfinato potere e disincarnata immortalità, che riconosca ed esalti invece la finitudine come condizione dell’essere umano, comprendendo che la nostra vita è conficcata in un mondo fisico di estrema complessità, dal quale dipendiamo per la nostra sopravvivenza»31. L’osso utilizzato dalla scimmia e poi scagliato fra le stelle a diventare astronave che solca gli spazi – celebre scena di un film di Ku31

K. HAYLES, How We Becam Posthuman. Virtual Bodies in Cybernetics, Literature and Informatics, Chicago & London 1999, p. 5.

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brick – è forse la rappresentazione più chiara della arcaicità filogenetica e insieme storica delle protesi, della loro natura consustanziale rispetto a quella del corpo, dell’essere fin dall’inizio la corporeità umana un insieme inseparabile di natura, cultura e tecnica. La dimensione naturale fa del corpo un organismo che si pone in continuità con la struttura atomica, molecolare, biologica della Terra, delle piante, degli altri animali. Come essi, il corpo è sottomesso alle leggi fisiche di gravitazione, impenetrabilità, unicità spaziale; è sottoposto alle leggi chimiche dello scambio energetico e termico, alla regola universale dell’entropia; è soggetto alle leggi biologiche del metabolismo, della crescita, maturazione e decadenza, è ostaggio sin dall’inizio della morte. Come cultura, il corpo è segnato dai simboli cosmici e politici, dai tatuaggi che riproducono le forze degli altri animali e degli dèi, dagli abiti che lo coprono, difendono, modellano e immergono nei gusti estetici e nei modi di fare quotidiani di un’epoca, un popolo, una società. Come cultura il corpo è desiderato in sembianze anche estetiche e non solo sessuali e riproduttive; diventa modello per le forme nello spazio, per i colori sulle tele, per le narrazioni letterarie. Come cultura il corpo è esibito nelle piccole e grandi occasioni sociali e nelle forme rituali collettive (la hola degli stadi, il ballo nelle discoteche, il corpo dell’attore nei teatri). Come cultura il corpo è agglutinato nelle masse che manifestano, scioperano, scandiscono slogan a una voce che sembra sola ma che in realtà è il frutto del convergere di esclamazioni innumerevoli. Come cultura il corpo è sacralizzato nei totem, nei Crocifissi, nei corpi paramentati a festa dei sacerdoti. Come cultura, il corpo inventa le forme che percepisce nello spazio e le loro regolarità; elabora i colori – veri e propri significati virtuali del nostro cervello – e in generale le immagini che danno spessore e profondità alla nostra percezione. Come cultura il corpo è guardato – e non solo percepito –, è ammirato, compianto, commentato, imitato, segnato dai giudizi degli altri corpi. Come cultura il corpo parla e il suo dire, il suono fisico capace di esprimere il processo immateriale del pensare, incide a fondo, produce eventi, sconvolge luoghi, trasforma le esistenze, plasma la storia. Come cultura, persino i prodotti organici del corpo – saliva, lacrime, sudore – sono irriducibili alla

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dimensione soltanto biologica e indicano, invece, un intero mondo di emozioni e di significati. Come tecnica il corpo è forza-lavoro; macchina per costruire templi e piramidi, per produrre grano e per allevare altri corpi non umani; è cadavere dissezionato; è movimento di conquista negli oceani; è strumento formidabile di morte – morte che dà, morte che prende – in battaglia. Come tecnica, è rivestito di camici bianchi e diventa parte di un progetto di ricerca. Come tecnica è invaso da occhiali, arti sostitutivi, pace-maker, sistemi di amplificazione dei suoni, caschi per guidare, auricolari per telefoni, guanti e tute interattive. Comprendere la ricchezza del corpo naturale, pervaso di significato, linguaggio esso stesso del mondo, è impossibile per ogni prospettiva tendente a ridurre la tecnica a manipolazione e quindi a tecnologia. Se l’Intelligenza Artificiale vuole essere davvero tecnica e non solo strumento, essa non può rimanere una semplice imitazione del manipolare ma deve aprirsi, o almeno tentare di farlo, alla dimensione umana dei significati, del linguaggio, dell’esserci nel tempo. Deve essere, in altre parole, meno artificio e più intelligenza. Nel XXI secolo e forse sempre più nel tempo che verrà, il corpo come natura, cultura, tecnica è Cybercorpo, è mente che si estende al moltiplicarsi delle protesi che la mente ha costruito. I robot di là da venire saranno figli, discendenza, frutto della identità naturale, culturale, tecnica dell’umano. È infatti sempre più chiara la necessità di un cammino che porti le macchine dalla logica all’esistenza, e cioè dagli algoritmi alla corporeità. Una necessità che rende più plausibile una ibridazione uomo-macchina piuttosto che un’evoluzione del tutto autonoma dei computer: «non vedremo, però, l’elettronica prendere il posto della biochimica; assisteremo piuttosto a una fusione che le incorporerà entrambe»32. La corporeità è il modo umano di stare al mondo, l’ibridazione della specie con gli artefatti da essa prodotti è antica quanto l’umani32

G.B. DYSON, L’evoluzione delle macchine. Da Darwin all’intelligenza globale (Darwin Among the Machines, 1997), tr. it. di A. de Lachenal, Milano 2000, p. 348. O, come scrive Hayles, «una dinamica collaborazione fra gli umani e le macchine intelligenti sostituisce l’evidente destino del soggetto liberale-umanista nel dominio e nel controllo della natura» (N.K. HAYLES, How We Becam Posthuman, cit., p. 288).

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tà stessa e se siamo ancora qui, pur non essendo stati dotati dalla natura di arti per volare, correre veloci, abbattere con un sol colpo la preda, lo si deve in gran parte alla intrinseca tecnicità dell’Homo sapiens. Incubo per alcuni o speranza mistica per altri, non saranno comunque le macchine a diventare intelligenti ed è invece assai più probabile che saranno gli umani a trasformarsi o, se si preferisce, a evolversi, in intelligenze ancora più raffinate, potenti, sintetiche. Anche perché è vero che «gli intelletti meccanici sono molto stupidi […] si dovrebbe parlare di stupidità artificiale, piuttosto che di intelligenza artificiale […] sono esseri binari, mentre noi non lo siamo: dentro di noi c’è sempre una casualità chimica»33. Come si vede, è sempre al corpo che si ritorna, a quel corpo che secondo Nietzsche «gli esseri più rari e meglio riusciti» avvertono in sé come la dimensione più alta e più felice34. La corporeità è la nostra dimensione di esseri finiti, la cui intelligenza consiste in gran parte nella comprensione del bastione temporale oltre il quale al corpo – e quindi a noi – è impossibile andare. Tecnica, Identità e Intelligenza Artificiale: la via dell’ibridazione La filosofia, scaturita dall’esigenza apollinea della conoscenza di sé, sembra a volte propensa ad abbandonare il sapere del limite che 33

E. SHARP, in: M. DERY, Velocità di fuga. Cyberculture a fine millennio (Escape Velocity. Cyberculture at the End of the Century, 1996), tr. it. di M. Tavosanis, Milano 1997, pp. 99-100. Anche chi sostiene che «l’essenza di tutti i processi biologici, dall’emozione e dall’evoluzione alla vita stessa, non sta nei materiali di cui sono composti, bensì nel modo in cui tali materiali si comportano», ammette però che «dei robot emotivi con corpi di plastica o di metallo avrebbero quasi certamente sensazioni interne alquanto diverse dagli esseri umani emotivi con corpi di carne» (D. EVANS, Emozioni. La scienza del sentimento [Emotion. The Science of Sentiment, 2001], tr. it. di M. Carpitella, Roma-Bari 2004, pp. 136, 140). 34 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1884-85, in: Opere, cit., VII/3, 41[6], p. 370. La sacralità del corpo è da Nietzsche contrapposta alla costante calunnia da esso subita a vantaggio dell’“anima immortale”, inventata – a suo dire – «per spregiare il corpo, per renderlo malato – “santo” –, per opporre una orribile incuria a tutte le cose che meritano di essere trattate con serietà nella vita, i problemi dell’alimentazione, dell’abitare, della dieta spirituale, della cura dei malati, della pulizia, del tempo che fa!» (ID., Ecce homo, in: Opere, cit., vol. VI/3, p. 384).

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è sempre stata per inoltrarsi invece negli spazi della fondazione soggettivistico-tecnologica della propria stessa natura. Stare alla scuola del corpo significa, al contrario, imparare la finitudine ma anche la centralità della vita. Si tratta di riconoscere e finalmente accettare senza riserve la corporalità integrale dell’essere che siamo, una «tradizione biologica che va trádita e non tradita»35, la vita della mente essendo prima di tutto vita. È a partire dalla fatticità concreta del corporeo immerso in un mondo di relazioni che diventa possibile, per l’umano nel tempo della cibernetica, un programma stazionario metafisico, un «trascendere restando»36 che ha il suo centro nella conservazione attiva dell’identità, del continuare a riconoscersi come umani per gli umani, nonostante ogni possibile mutamento che la bionica e le Intelligenze Artificiali permettono e favoriscono. La finitudine che siamo va accolta consapevolmente come limite, certo, ma anche come possibilità e soprattutto come condizione ontologica della specie. La perdita di questa consapevolezza sta conducendo l’umanità ad abbracciare il paradigma di un’evoluzione senza limiti, un modello in realtà del tutto astratto proprio perché non tiene conto dell’ancoraggio biologico di ogni nostra conquista e conoscenza. Bisogna, quindi, «mantenersi divenendo in ciò che si è», il grumo di tempo dell’umano non può cessare di trasformarsi purché, però, tale trasformazione mantenga la riconoscibilità dell’umano a se stesso: «in definitiva è un programma di resistenza identitario (metafisico, nel senso che cerca di sopravvivere alla physis da cui proviene e su cui emerge) (…), un programma stazionario dell’esistenza umana: progredire in una forma di vita che resti nella sua autoriconoscibilità per noi»37. Se l’indicazione hölderliniana rimane sempre plausibile – là dove cresce il pericolo si dà anche ciò che può salvarci da esso – non si tratta di abbandonarsi a forme semplicemente reattive o, all’inverso, all’apologia entusiastica del presente e del futuro. Si tratta di capire, e comprendendo fare, che saperi come la biopolitica, l’ingegneria genetica, le nanotecnologie, la robotica, affondano anch’essi il loro sta35 36

E. MAZZARELLA,

Ivi, p. 119. 37 Ivi, pp. 19-20.

Vie d’uscita, cit., p. 143.

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tuto nella centralità del corpo, che essi possono tentare di rendere più resistente agli attacchi e più capace di prestazioni ma che non possono in alcun modo sostituire o, peggio ancora, creare. Si tratterebbe di una dismisura da cui questi stessi saperi verrebbero cancellati, poiché l’umanità può ancora modificarsi ed evolversi solo a partire da sé, a partire dal corpo così come esso è da sempre: bìos contingente della immortale Zoé. Cancellato il corpo, se mai fosse possibile, nascerebbero altre forme dell’abitare il mondo o i mondi e quindi altre forme anche di apprenderlo. Ma a questo punto per noi, per gli umani, rimarrebbe solo il silenzio. E invece quanto sto cercando di argomentare è l’accettazione umile e insieme orgogliosa di ciò che da sempre siamo e per sempre rimarremo. Se è vero che un performer estremo come Stelarc «incarna l’ibrido uomo-macchina in cui tutti noi ci stiamo metaforicamente trasformando»38, è questo un processo che in realtà dura da millenni, come dimostra di aver compreso Philip Dick quando afferma che «forse siamo noi umani – teneri e buoni d’aspetto – con i nostri occhi pensierosi, le vere macchine»39. Una reale I.A. deve infatti consistere anche nella percezione fisica del mondo attraverso il corpo, nella simbiosi fra la capacità di calcolo dei computer e quella emotiva e fenomenica dell’essere umano, in un incontro «a metà strada», come si esprime Dick, fra noi e le nostre macchine. Molto per tempo e con grande acutezza, lo scrittore statunitense ha raffigurato la realtà già in qualche modo in atto dell’ibridazione: «una graduale fusione della natura generale delle attività e delle funzioni umane con le attività e le funzioni di ciò che noi umani abbiamo costruito e di cui ci siamo circondati»40. Se la mente, infatti, è un processo biologico assai com38

M. DERY, Velocità di fuga, cit., p. 174. L’essere umano così come lo abbiamo conosciuto potrebbe non essere altro «che un fenomeno assolutamente transitorio. Un giorno non rappresenteremo più il culmine dell’evoluzione, e potrà accadere che la nostra specie si evolva ulteriormente o che, come tante altre prima di noi, si estingua senza discendenza immediata» (I. EIBL-EIBESFELDT, Introduzione a K. LORENZ, Natura e destino [Das Wirkungsgefüge der Natur und das Schicksal des Menschen, 1978], tr. it. di A. La Rocca, Milano 1990, p. 8). 39 P.K. DICK, Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari (The Shifting Realities of Philip K. Dick, 1995), tr. it. di G. Pannofino, Milano 1997, p. 268. 40 Ivi, p. 224

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plesso, senza un corpo non si dà alcuna mente concepibile. Se pure fosse possibile simulare un’emozione su un supporto di silicio, essa rimarrebbe qualcosa di molto diverso rispetto a quanto accade nel protoplasma. L’orizzonte della contaminazione, dell’alterità, dello scambio continuo con ciò che non siamo è parte essenziale dell’esistenza umana da sempre, tanto che «la chimera siamo noi: pasticci organici, transitori e affamati di congiunzioni con l’alterità»41, anche con l’alterità digitale e computazionale delle macchine che sono state e saranno progettate da noi e per noi, a vantaggio della nostra immersione nel mondo. Il corpo tecnico e ibridato rappresenta l’orizzonte di una I.A. praticabile e teoreticamente avvertita poiché è proprio il corpo a essere stato e a essere ancora lo strumento fondamentale. Ibridato il corpo umano lo è da sempre perché coperto, rafforzato, intessuto di apparati – dai più elementari e primitivi ai più raffinati e virtuali – «che ne hanno esteso e moltiplicato le possibilità d’interazione, in senso sia conoscitivo sia operativo. Tanto che non è facile dire dove termini il corpo: affermare che esso è racchiuso nei suoi limiti “topologici”, segnati dalla pelle, è – sotto il profilo comunicativo ed effettivo – arbitrario e sostanzialmente inesatto»42. L’ibridazione con gli artefatti è una dimensione istitutiva dell’umano; la novità – e si tratta certo di una svolta radicale, per quanto fondata sulle caratteristiche peculiari della nostra specie – è rappresentata dall’assorbimento dentro il corpo umano della forma ibridati41 R. MARCHESINI, «Ibridazione come motore di imperfezioni», in: Ibridazioni. Nuovi territori della scienza e della tecnica, dell’arte e della mente (a cura di E. Fiorani e J. Ceresoli), Bologna 2000, p. 41. Merleau-Ponty osserva che anche i comportamenti umani ritenuti quasi universalmente naturali sono in realtà frutto dell’artificio culturale, persino la paternità. E questo accade perché «nell’uomo è impossibile sovrapporre un primo strato di comportamenti che chiameremmo “naturali” e un mondo culturale o spirituale fabbricato. In lui tutto è fabbricato e tutto è naturale, nel senso che non c’è una parola, una condotta la quale non debba qualcosa all’essere semplicemente biologico – la quale, al tempo stesso, non si sottragga alla semplicità della vita animale» (Fenomenologia della percezione [Phénoménologie de la perception, 1945], tr. it. di A. Bonomi, Milano 2003, p. 261). 42 G.O. LONGO, Il nuovo Golem. Come il computer cambia la nostra cultura, Roma-Bari 1998, p. 15.

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va che finora è rimasta per lo più a noi esterna. Ma è proprio a causa di questa ibridabilità naturale del nostro essere che avremo sempre più la possibilità di portare in noi le macchine, per trasformarle e trasformarci in una corporeità più sensibile, più attenta, più rammemorante, più ricca, più – e non sembri un paradosso – umana. Le ricerche in corso a Boston, a Monaco di Baviera, al Georgia Institut of Technology, consistono nella coltivazione «in vitro di popolazioni di neuroni che vengono interfacciati attraverso sottili elettrodi ai chip di un computer»43, dando vita a veri e propri neurocomputer. L’esistenza stessa e la possibilità epistemologico-tecnologica di simili ricerche costituisce il riscatto della corporeità e cioè di quella dimensione assolutamente identificativa dell’umano contro la quale si pongono sia il cognitivismo funzionalista che le ipotesi trans-umaniste, esiti entrambi della tendenza matematizzante, algoritmica, disincarnata che è caratteristica di tutta la scienza post-galileiana e cartesiana. Per capire le potenzialità e i rischi del progetto ibridativo, che è un itinerario sul quale tecnica e filosofia sono già avviate, bisogna ricordare che nulla è mai a una dimensione soltanto. L’ambiguità, la complessità e il limite costituiscono tre delle strutture di fondo di ogni manufatto, impresa e relazione umana. Non c’è quindi da aver paura e non c’è neppure da esultare. La crisi dell’identità antropologica che sta emergendo dal contatto con le macchine che noi stessi abbiamo costruito, permetterà una conoscenza assai più profonda delle strutture che ci costituiscono, della inseparabilità fra la mente che formalizza i dati dell’esperienza e l’esperienza fenomenica, quotidiana, esistenziale. Ci auguriamo che il contatto con questa Alterità, che da noi è nata, apra la nostra identità a una contaminazione che può certo distruggerla – il rischio c’è – ma può anche renderla acutamente consapevole dei limiti che ci formano e della necessità di accettarli, farli nostri, salvaguardarli. Perché è proprio questo limite e il tentativo malinconicamente asintotico di oltrepassarlo che fa, da sempre, la nostra identità di umani. L’I.A. si potrà realizzare non contro o senza ma dentro il corpo, 43 A. OLIVERIO, «Matrix: dalla mente estesa ai cervelli bionici», in: AA.VV., Dentro la Matrice. Filosofia, scienza e spiritualità in Matrix (a cura di M.L. Cappuccio), Milano 2004, p. 76.

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non nello svuotarlo ma nell’abitarlo, poiché «la storia dell’uomo è, tra le molte altre cose, la storia di una progressiva artificializzazione del corpo»44 che non ne smarrisca le componenti semantiche e pragmatiche ma anzi le rafforzi. La centralità del corporeo fa sì che nonostante tutte le speranze, i timori, le utopie che intendono uploadare la mente in corpi migliori di quelli che noi siamo, la finitudine consapevole di se stessa rimane il tratto costitutivo della specie che pensa. Sono infatti la mortalità e il limite a spiegare la centralità della mente nel costruire mondi, la dimensione intrinsecamente fenomenica di ciò che chiamiamo realtà, la possibile apertura di una comprensione di noi stessi a partire dalla dipendenza verso l’artificio che scaturisce dalla nostra natura, non per negarla ma per proseguire il cammino verso i suoi confini, assai più vasti di quelli che conosciamo, confini che la filosofia ha intuito ed è proprio questa intuizione a renderla il sapere del futuro, oltre che di un passato dalla cui ricchezza scaturisce l’immersione più profonda nel presente. Un presente fatto di macchine che collaborano con noi, di umani che collaborano con le macchine da loro stessi generate, in procinto – qualunque durata oggettiva abbia questo intervallo – di diventare una cosa sola non nella macchinizzazione dell’umano ma nel potenziamento biologico del corpo/mente/tempo che siamo. L’umano è una macchina naturale che si articola in tre espressioni principali. Siamo macchine del desiderio, macchine semantiche, macchine temporali. Il desiderio ci pervade in ogni momento e nelle forme più diverse. Dalla brama verso gli oggetti alle ambizioni sociali, dalla conquista dei corpi altrui al possesso del loro tempo, dall’aspirazione a vivere ancora alla passione del vivere nella pienezza delle nostre soddisfazioni, il desiderio costituisce il motore sempre acceso della vita che pulsa e non si arresta mai. Essere corpo e vivere nel desiderio sono la medesima espressione della Zoé che ci impregna al di là del bìos delle nostre vite individuali, delle nostre specifiche volontà, della particolare modalità in cui il flusso di aspirazioni che siamo si colloca in un luogo e in un istante particolari. Un umano è una macchina semantica perché non vive di solo 44

T. MALDONADO, «Corpo tecnologico e scienza», in: AA.VV., Il corpo tecnologico, a cura di P.L. Capucci, Bologna 1994, p. 79.

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pane e per riuscire letteralmente a muoversi, agire, prendere la costante serie di decisioni che intesse la vita, ha bisogno di trovare un significato – un qualsiasi significato – al tempo che è e che le cose da sole non hanno. Non esiste, infatti, una realtà prima esterna, una materia di per sé significante, un’oggettività indipendentemente dalla mente. Il flusso di percezioni sensoriali che ci investe è reso possibile dall’immediata donazione di significato che l’insieme del nostro corpo, della memoria e degli apprendimenti dà al nostro esistere spazio-temporale. I significati non stanno negli enti, nei processi e negli eventi. Essi abitano nella mente che da questo fluire di enti, processi ed eventi è costituita. Il frame problem mostra qui tutta la propria centralità per una filosofia della mente che voglia davvero comprendere il proprio oggetto. Il corpo collocato all’incrocio fra la materia, il tempo e i linguaggi sta sempre al centro degli interrogativi che la mente pone e ai quali può rispondere solo attraversando per intero la corporeità isotropa e quindi semantica, nel preciso senso che il corpo che ciascuno è rappresenta il centro esistenziale, fisico e psicologico dal quale si diparte – come dal nucleo di una sfera – l’intero volume di significati, dai più banali ai più complessi, dei quali l’esistenza umana è intessuta e senza i quali non avrebbe, letteralmente, senso. L’umanità nei suoi singoli e nell’intero della specie è una macchina temporale. Il tempo dell’esserci umano è assai diverso sia da quello oggettivo della natura e indagato dalla fisica (notte e giorno, stagioni e anni, rotazione e rivoluzione del pianeta, quarta dimensione della materia per la relatività einsteiniana) sia dalla percezione soggettiva della durata che declina il trascorrere degli attimi come pura percezione dell’attesa. Il tempo dell’esserci è temporalità, vale a dire struttura volta al futuro come pura possibilità che dà senso all’attimo ma che attende anche la propria fine – la morte – in quanto evento indeterminato e tuttavia certo, certo eppure indeterminato. La temporalità, in altri termini, è la possibilità sempre presente del morire. Quest’ultimo non è un evento soltanto biologico ma è ciò che intessendo di sé fin dall’inizio la vita umana la rende intrinsecamente finita. Il senso del tempo è quindi per l’uomo la propria radicale finitudine. Il ritrarsi, impaurito o infastidito, dalla finitudine colloca gli uomini nel ripetu-

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to e sempre fallito tentativo di esorcizzare il proprio declino nelle forme della banalità quotidiana, nella ripetizione dei gesti meccanici della vita, nella dismisura del potere accumulato come se dalla sua crescita materiale potesse derivarne per il soggetto una qualche forma di garanzia dalla furia del dissolvimento. La comprensione e accettazione, invece, della struttura temporale e finita dell’esserci è, semplicemente, la filosofia, che può quindi occorrere in ogni luogo e non solo negli spazi tecnici a essa dedicati e, di converso, nulla garantisce che dove si dovrebbe praticare l’esercizio del pensiero, esso effettivamente accada. Poiché filosofare è «stare sulla croce del tempo, là dove fiorisce la sua rosa»45. La profonda unità ontologica e fenomenologica fra interno ed esterno, mente e mondo, naturale e artificiale, richiede il superamento di ogni forma di dualismo e un rispetto profondo per la corporeità che siamo e che ci salva dai progetti di pura e completa formalizzazione dell’esistenza e della verità: «con la sua riottosa propensione al peccato, con la sua imbarazzante capacità seduttiva, con la sua scandalosa attività copulatoria, con la sua miserabile caducità, con la sua caparbia resistenza all’imperialismo della ragione, il corpo si è sempre opposto all’aspirazione filosofica e scientifica di costruire un mondo puro, asettico, durevole: aspirazione che tocca il suo culmine nel Novecento con l’impresa dell’intelligenza artificiale funzionalistica»46. Se a costituire una macchina del desiderio, una macchina semantica, una macchina temporale, è l’enigma potente ed effimero del corpo che siamo, è arrivato il momento di comprendere che insieme, certo, ai tanti rischi, l’informatica diffusa nel sociale e nella vita sta anche rafforzando le capacità di percezione, di memoria e di attenzione che sono insite nel nostro organismo e il cui pieno dispiegamento accade nella corporeità vivente e vissuta che scandisce il nostro quotidiano esistere e agitarci nel mondo. L’essere umano è per essenza tecnico, simbolico, olistico. Un’ontologia dell’essere e delle menti artificiali deve porsi sullo stes45

E. MAZZARELLA,

46

G.O. LONGO,

Vie d’uscita, cit., p. 165. Scenari con simbionte, in: «Giornale della Filosofia», num. 14, Mente, Oltreumano, Cyborg (a cura di A.G. Biuso), Roma 2005, p. 22.

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so livello di complessità. La strada è assai più lunga di quanto si pensasse all’inizio. Le scorciatoie riduzionistiche e funzionalistiche si sono rivelate impercorribili, il varco verso un altro e diverso itinerario consiste forse non nella antropomorfizzazione delle macchine ma nella simbiosi – a un più alto livello e in una dimensione evolutiva – di struttura umana e struttura artificiale dentro il corpo stesso dello Homo sapiens. La strada è quella della ibridazione, la cui possibile Ûbrij è un rischio da correre. L’ibridazione è l’esito logico – ancor prima che empirico – della struttura insieme aperta e finita dell’umano. Il corpo sta dentro il mondo e solo in esso acquista senso, valore, efficacia ma l’essere del mondo non è altro che tempo reso visibile nel divenire della materia. Inserita in questo coerente complesso di processi, di fenomeni e di azioni, la filosofia della mente può aprire a un’antropologia non antropocentrica per la quale la mente è tempo consapevole di sé, che apprende, elabora, ricorda ed esprime dei contenuti intenzionali i quali si rivolgono a un mondo che trascende l’umano ma al quale è la mente a dare un significato. Ciascuno di noi è insieme la moglie di Lot, che da vivente si trasforma in polvere, e Galatea, che da marmo informe acquista struttura umana. Siamo tempo, infatti. Il Tempo come dono; il Tempo che per Spinoza è un modus imaginandi, un’illusione inutile; il Tempo come divinità livellatrice di ogni differenza celebrato da Sofocle nell’Elettra; il Tempo come inseparabilità di otium e punctum; il Tempo della Gnosi nel quale l’infinità dell’Aiòn si concentra per intero nella fragile potenza dell’Attimo, il Tempo-benedizione di Nietzsche47. Se l’uomo antico è certo più di quello contemporaneo immerso nei ritmi del Cosmo e nell’armonia dell’intero, in ogni caso anche per noi il Tempo è la sottile e impalpabile filigrana che attraversa la coscienza e il sapere. È la metafora eraclitea che più di ogni altra ha forse espresso, nascosto e svelato la struttura cosmica e insieme interiore – duplice e a spirale – del tempo: «Il Tempo è un fanciullo che per gioco sposta le pedine sulla scacchiera: sovrano potere di bimbo» (DK, B52). Se il Tempo va distinto dalle sue figure, il primo è colui che gioca mentre 47

Sul quale rinvio a A.G. BIUSO, Nomadismo e benedizione. Ciò che bisogna sapere prima di leggere Nietzsche, Trapani 2006.

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le figure sono ciò con cui egli gioca, le pedine appunto. Si muore, quindi, perché non si sa giocare o forse meglio – assai meglio – perché la struttura biologica che siamo non ci rende possibile giocare all’infinito le figure temporali. È probabilmente quanto aveva intuito il medico pitagorico Alcmeone per il quale gli uomini muoiono poiché sono incapaci di congiungere l’inizio e la fine (Aristotele, Problemata, 916 a, 33). Di che cosa? Del loro corpo pulsante, della materia temporale che sono. Il compito di una filosofia della mente è quindi anche e forse anzitutto percorrere i modi del tempo e cercare di darne ragione, comprenderli, spiegare a noi stessi il tempo che siamo e alla mente la sua struttura più fonda, accogliendo in tal modo l’invito a conoscere noi stessi nelle grandi potenzialità e nei limiti invalicabili che ci costituiscono. Nel procedere della ricerca si rivela determinante il dispositivo concettuale del “postumano”, giocato all’interno di una filosofia che voglia pensare il presente e i movimenti di delocalizzazione identitaria che lo attraversano, in modo che il post sia ancora un oltre dell’umano.

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La biofilosofia come nucleo del programma teorico dell’antropologia filosofica. Per la critica del radicalismo scientifico della biologia, delle scienze della cultura e delle scienze sociali Joachim Fischer

Il punto saliente del programma teorico dell’antropologia Filosofica nel XX secolo è il riferimento, intrinseco alla teoria, alla biologia. L’antropologia Filosofica distingue all’interno della propria impostazione di pensiero una biologia filosofica, al di là della quale essa (l’antropologia Filosofica, cioè) si sviluppa nuovamente come teoria della cultura e teoria sociale. Ciò, da una parte, contraddistingue questa teoria basilare delle scienze della vita, della cultura e sociali nei confronti di tutti i programmi fondazionali strettamente socio-culturalistici, mentre, dall’altra, la pone in un rapporto concorrenziale rispetto al programma teorico bio-evoluzionistico, il quale, attraverso una propria psicobiologia, sociobiologia e biologia della cultura, si spinge sino all’esplorazione del mondo socio-culturale. Tale biologia filosofica o teoria della “vita”, metodicamente introdotta, è presente in tutti i maggiori rappresentanti di questa impostazione di pensiero (Scheler, Plessner, Gehlen, Portmann) (Fischer 2001). Il potenziale di questo tipo di biologia filosofica (proprio dell’Europa continentale) è stato presto riconosciuto ed incanalato nella

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filosofia americana (Grene 19651). Tra gli autori di riferimento è di nuovo Plessner – biologo vero e proprio – colui il quale ha dato rilievo nella maniera più pregnante a detta biologia filosofica, sin nella sua categoria-chiave della “posizionalità eccentrica” (exzentrische Positionalität). “Posizionalità” è il contrassegno biofilosofico della vita secondo Plessner, della “cosa vivente”, distinguibile da tutte le altre cose in quanto “cosa che realizza limiti” (das grenzrealisierende Ding). Nel fondo categoriale plessneriano della “posizionalità eccentrica”, la categoria di “posizionalità” appare tanto sorprendente quanto quella di “eccentricità” (Fischer 2000b). L’efficacia della biologia filosofica nell’ambito dell’antropologia Filosofica si rafforza ulteriormente, allorché “posizionalità” e “cosa che realizza limiti” vengano spiegate con l’ausilio di un altro autore di riferimento di questo indirizzo di pensiero – al pari di Plessner, anch’egli biologo – Adolf Portmann, ovvero con il suo teorema della “manifestazione (Erscheinung) delle forme viventi nel campo luminoso (Lichtfelde)”, dunque con il teorema dello specifico carattere manifestativo del “posizionale” del vivente nel suo piano-limite (Grenzfläche), nella sua superficie (Oberfläche), nel suo piano-espressivo (Ausducksfläche) (Portmann 1961). Questo rievocare il teorema biofilosofico centrale dell’antropologia Filosofica acquista senso soltanto se rapportato argomentativamente ad una tensione, presente come polemica scientifica intorno al fenomeno della vita. Tale polemica ha luogo tra discipline della vita (gruppi di discipline che tematizzano la vita) ed i loro rispettivi paradigmi fondamentali. Un compito centrale sussiste nell’enucleare il più chiaramente possibile queste due possibilità di scienze nella loro radicalità. Solo dinanzi ad un simile sfondo è lecito affermare che l’antropologia Filosofica con il suo nucleo di una biologia filosofica, 1 Marjorie Grene prende in considerazione i biologi filosofici: Adolf Portmann, Helmuth Plessner, Frederik Jacobus Johannes Buytendijk, Erwin Straus e Kurt Goldstein. Da un punto di vista sistematico, a questo gruppo appartiene anche Hans Jonas, il quale a partire dagli anni cinquanta ha sviluppato degli “accenni in direzione di una biologia filosofica” e, una volta raccolti, li ha pubblicati, nel 1966, sotto il titolo: The Phenomenon of Life. Toward a Philosophical Biology (una variante è apparsa con il titolo: Das Prinzip Leben. Ansätze zu einer philosophischen Biologie, Leipzig 1994; tr. it. Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, a cura di P. Becchi, Torino 1999).

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attraverso il suo teorema della vita come “cosa che realizza limiti”, svolga una funzione mediatrice, a partire dalla cosa stessa, dalla vita, nell’ambito dell’insopprimibile polemica tra “discipline della vita”. L’argomentazione tocca dunque tre dimensioni. Anzitutto viene toccato il piano delle “discipline” ovvero delle “forme di sapere” in senso stretto, delle scienze: l’antropologia Filosofica in quanto disciplina si muove tra i gruppi di scienze delle scienze della vita e le scienze sociali e della cultura. In secondo luogo il piano delle impostazioni di pensiero: se ognuno di entrambi questi gruppi di scienze viene profilato e fondato da una propria impostazione di pensiero (ovvero: le scienze della vita dal paradigma biologistico-evolutivo e le scienze sociali e della cultura da quello linguistico-costruttivista) allora l’antropologia Filosofica quale specifica impostazione di pensiero diviene riconoscibile tra le impostazioni di pensiero o paradigmi che profilano tali gruppi di scienze2. Terzo, l’argomentazione pone in gioco lo stesso piano della cosa: la “cosa che realizza limiti” di Plessner è altro dalla cosa della vita determinata geneticamente ed altro dalla cosa della vita formattata dal discorso, culturalistica. In tal modo, però, entrambe queste determinazioni della vita diventano rapportabili l’una all’altra. Il dualismo delle descrizioni diventa visibile come differenziazione (Ausdifferenzierung); esso può venir attribuito al complesso fatto del “tracciare limiti” da parte della vita. Il ragionamento verrà sviluppato lungo tre direttrici. Anzitutto (1) verranno esposte le “discipline della vita” nelle loro possibilità-limite al fine di scoprire una lacuna, in cui l’antropologia Filosofica possa inserirsi e realizzare qualcosa secondo la sua funzione peculiare. Verrà poi (2) introdotto il programma teorico dell’antropologia Filosofica con la sua biofilosofia. Il programma teorico verrà presentato nelle sue conseguenze per la disamina differenziata del fenomeno della vita (2.1), così come in riferimento alla sua disamina del mondo socio-culturale dell’uomo (2.2). L’ultimo passo (3) mostrerà la duplice funzione correttiva dell’antropologia Filosofica, che essa (in virtù 2

Per quanto concerne la distinzione fra “antropologia filosofica” (quale sottodisciplina della filosofia) e “antropologia Filosofica” (quale specifico programma teorico), cfr. FISCHER 1995, pp. 249 ss. Relativamente alla “antropologia Filosofica” quale tradizione di pensiero nel corso del XX secolo, si veda REHBERG (1981) e FISCHER (2000a).

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della propria biologia filosofica intrinseca al suo impianto teorico) può assumere nei confronti del radicalismo scientifico: sul piano teoretico-scientifico in riferimento al gruppo di discipline delle bioscienze e in riferimento al gruppo di discipline delle scienze sociali e della cultura. 1. “Discipline della vita” – biologia vs. scienza sociale e della cultura In primo luogo risulta necessario isolare il termine “discipline ovvero scienze della vita” nei suoi due casi-limite. La bioscienza teorico-evolutiva fa intervenire la violenza empirica della vita sin nella cultura, mentre, al contrario, la scienza sociale e della cultura, di impostazione costruttivistico-discorsiva, lascia che il raffinato potere delle classificazioni linguistiche domini sin dentro la costruzione sociale del fenomeno vita. Solo in questo intervenire alternato di possibilità speculative estreme si dà la possibilità di un’antropologia Filosofica come specifica impostazione di pensiero e in tal modo come “mezzo di contatto distanziato” tra i casi estremi. 1.1 Discipline della vita – biologia Un gruppo di scienze nell’ambito delle “discipline della vita” è quello costituito dalle bioscienze, la cui teoria cardine è la teoria evolutiva dell’organico. I meccanismi evolutivi sono meccanismi della “vita” che germinano nel vivente stesso. Già in Darwin la “vita” viene concepita alla stregua di un processo autopoietico della natura all’interno della natura, caratterizzato da variazione, selezione e stabilizzazione. Un simile approccio osserva nel processo della vita quanto segue: da un lato la “autoconservazione” dell’organico, dall’altro la “conservazione della specie” attraverso riproduzione e forma corporea al di là dei limiti corporei. Conseguentemente, il disciplinamento risulta inserito nella vita stessa, nella misura in cui essa seleziona la forma di vita più adatta all’ambiente e premia l’adattamento alle mutate condizioni ambientali. Già Darwin si accorse che a contare non è la forza di vita, bensì l’essere adatti. I coleotteri di Madeira con le loro ali monche, che li rendono realmente penosi quanto al volo, possiedono un vantaggio ambientale e riproduttivo su di un’isola in cui i più eleganti volatori tra i coleotteri, quelli con superfici alari

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oscillanti, vengono afferrati, soffiati via e scaraventati in mare dal vento. Il principio di fondo biologico-evolutivo di questo ordine immanente della “vita” stessa non muta neppure con la focalizzazione sulla genetica, sulla “autoconservazione” dei geni nella riproduzione, così come essa viene elaborata nella “nuova sintesi” della biologia evolutiva. La vita a livello subumano viene osservata come autoconservazione disciplinante se stessa di organismi e specie (Darwin), ovvero trasmissione organizzata in maniera disciplinata di informazioni genetiche essenziali oltre i propri limiti corporei nel processo riproduttivo (Wilson). Su un piano biologico-evolutivo, tale “auto”disciplinamento della vita non è assolutamente ricostruibile senza l’ammissione di un proprio, immanente sapere della vita in diversi fenomeni vitali. Al più tardi con l’organismo animale entra in gioco una neurobiologia evoluzionistica ad osservare lo sviluppo, la costruzione e le funzioni del cervello cognitivamente competente. Di conseguenza il gruppo di scienze della biologia evoluzionistica distingue al suo interno una psicobiologia. In questa prospettiva il sistema psichico nel vivente risulta una competizione organizzante se stessa di modelli neuronali di stimolazione. Per le discipline biologiche della vita, quindi, appaiono ineludibili le questioni sollevate da una “gnoseologia evoluzionistica” (Volmer 1995, Riedl 1981), vale a dire: in che modo la vita stessa organizza il suo concetto? In che modo costituisce ed organizza il sapere di cui essa ha bisogno per l’adattamento (Anpassung) e l’adattazione (Angepasstheit)? Al più tardi al livello evolutivo della riproduzione sessuale – dunque subumano – sono richieste da parte della vita stessa forme di sapere sociale, al fine di far convergere e coordinare gli uni con gli altri in maniera tipica nell’ambito del processo naturale i corpi interattori degli animali, costituiti naturalmente ma esistenti individualmente, ognuno per sé. Anche i raggrinziti volatili dalle ali monche si trovano tra loro già soltanto sotto il presupposto di disposizioni “psichiche” degli stati d’animo e solo su un piano social-cognitivo. Vista così, la vita genera la sua propria cognizione sociale. E vista così, la domanda sociobiologica centrale risulta: in che modo le istituzioni vitali della scelta del partner, della rivalità, dell’accoppiamento, della cura e dell’allevamento producono, gestiscono ed

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applicano un sapere della vita stessa, affinché gli interessi genomici, diversamente immagazzinati nei corpi viventi individuali, cooperino o confliggano in maniera disciplinata in strategie sociali di comportamento? I primati si rendono percepibili gli uni agli altri con dozzine di diverse grida a seconda dei contesti, al fine – nella prospettiva della biologia evolutiva – di coordinare la loro riproduzione genetica. Per la biologia evolutiva anche l’essere vivente uomo deve aggrapparsi a questo filo conduttore delle bioscienze, al più o meno lungo guinzaglio genetico; nella costituzione corporea e cerebrale di esso si ritrovano i princípi fondamentali dell’organico. Conseguentemente, la bioscienza distingue una “antropologia evoluzionistica”, la quale sviluppa nuovamente una teoria biologica del linguaggio (Pinker 2003) e una biologia della cultura (Eibl 2004). Per il sociobiologo Wilson il concetto biologico-evolutivo è il nucleo delle bioscienze, le quali, di conseguenza, includono: psicologia, sociologia e scienza della cultura come discipline della vita stessa, ossia come: psicobiologia, biologia sociale, biologia della cultura (Wilson 1999). A partire dall’accadere evolutivo ricostruito biologicamente è possibile biologizzare temi del mondo-della-vita socio-culturale – già Darwin, sorprendentemente, ha proceduto in questo modo. A partire dalla teoria biologico-evolutiva della vita, la vita stessa penetra capillarmente nello psichico, nel sociale, nel culturale. I “gender-studies”, ad esempio, che si approcciano in maniera diametralmente opposta rispetto al paradigma biologico-evolutivo, ovvero dal versante teorico-linguistico e teorico-discorsivo, appaiono, visti da una simile prospettiva, soltanto delle prosecuzioni, in una nuova variazione, degli interessi sessuali (“sex”) incorporati i quali, per quanto da un certo livello di vita in poi risultino differenti, mirano pur sempre ad una cooperazione conflittuale. “Discipline della vita” – come genitivo soggettivo – si riferisce, nel contesto biologico-evolutivo, a forme di sapere della vita stessa. Vista così, la differenza tra natura e cultura accade nella natura stessa. Il paradigma biologico-evolutivo come nucleo delle bioscienze segue un ordine immanente della vita, per quanto labirintico quest’ordine sia. “Bio-potere”, a partire da una simile prospettiva, non vuol dire altro che potere del bios stesso, un potere che viene esperito da

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ogni vivente in esso realizzatosi (nella misura in cui esso esperisce la propria vita) nella modalità di un venir mosso e di un venir condotto, come esperienza di impotenza – potere che esso, forse, può anche chiarire e governare. In questa prospettiva, tuttavia, fin nella biomedicina e nella biotecnologia esso è il potere della “vita” stessa, sulle cui basi si fondano gli interventi ed i “biofatti” (Biofakte). 1.2 Discipline della vita – scienze sociali e della cultura All’interno del contesto della scienza sociale e della cultura, con l’espressione “discipline della vita” – come genitivo oggettivo – viene inteso qualcosa di completamente diverso. Discipline della vita sono qui discorsi sulla vita, una disciplinata e disciplinante messa in lingua e discorsivizzazione della vita, in ultimo nelle forme di sapere sulla vita prodotte nei linguaggi-scientifici della sociologia, biologia, etnologia, psicologia, le quali regolano e concettualizzano le pratiche della vita. La teoria cardine di questo gruppo di scienze, a partire dalla quale tutti i fenomeni cadono sotto il nostro sguardo, è la teoria del linguaggio o del discorso. Che si tratti di linguaggio, discorso, ordine simbolico o scrittura, il punto di partenza di qualsiasi ricostruzione o decostruzione è, sul piano teorico-programmatico, l’ordine immanente del discutere, che è intatto dal fenomeno della vita stessa. Già in Dilthey la scienza della cultura esplora la “vita” soltanto in maniera mediata, con il medium delle sue oggettivazioni culturali, ossia, in primo luogo linguistiche. In altra maniera essa non è accessibile. Stanti pure tutte le differenze, si dà un campo teoretico comune come teoria della cultura (Reckwitz 2000), costituito dallo strutturalismo (Levi-Strauss), dalla fenomenologia sociale (Schütz), dall’analisi del discorso (Foucault), dalla teoria del campo-habitus (Bourdieu), dall’ermeneutica Filosofica (Misch, Gadamer), dall’antropologia Storica (Camper, Wulff), dalle teorie dei media tecnici lungo il paradigma della scrittura (Bolz, Kittler), dal culturalismo metodico (Erlanger, Schule, Janich). In tal modo rappresenta una differenza significativa all’interno della teoria della cultura il fatto che la sfera dei fenomeni venga rappresentata come prodotta attraverso codici simbolici (i quali fungono da sistemi di differenziazione e di classificazione esistenti al di là di un orizzonte soggettivo), oppure attraverso un processo permanente di attribuzione soggettiva di senso. Pari-

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menti, all’interno del paradigma linguistico fa differenza il fatto che le differenze linguistiche vengano ricostruite ancora in riferimento ad un referente ultralinguistico, o che vengano decostruite come differenze compiute solo nel linguaggio attraverso il parlare. Va qui sottolineata la comunanza del paradigma. Il punto di partenza più profondo degli approcci culturalistici è il fatto che l’esperienza umana si costituisca attraverso atti produttivi della simbolizzazione (in ultima analisi, ossia paradigmaticamente) linguistica. L’analisi delle scienze sociali e della cultura impostate in tal modo lavora, da questo punto di vista, sempre in maniera “critico-linguistica”, ossia si rifà alla costruzione linguistica di volta in volta specifica come “medium” di possibilità dell’esperienza in assoluto (Gutmann 2004). Visto così, il “reale” del mondo consiste nel presimbolico e nel non-simbolizzabile e da tale punto di vista risulta accessibile non come “reale” ma sempre già come linguisticamente accessibile. Il pensiero è un discorrere ed ogni discorrere un discorrere-l’uno-con-l’altro. Esso è strutturato in maniera genuinamente sociale e in tal modo gli accessi al mondo e a sé non risultano mai “naturali”, ma sempre sociali e “culturali”. Ciò stante, questo programma teorico, in maniera consequenziale, produce necessariamente nel campo dei propri gruppi di discipline una antropologia culturale, storica e sociologica. Così come il paradigma biologico-evolutivo dalla propria impostazione si inoltra capillarmente fino al mondo socio-culturale, allo stesso modo il paradigma culturale si inoltra sin nella zona del corpo e della “vita”. A modo loro, anche le scienze sociali e della cultura sono “discipline della vita”. Dalla prospettiva del “culturalismo metodico”, “vita” è anzitutto una determinata forma discorsiva, un discorso sulla vita, che costituisce quella vita stessa. La differenza tra natura e cultura accade nella cultura, nel comune discorrere-l’uno-con-l’altro. Il discorso “qualcosa è vivente” viene ottenuto intersoggettivamente a partire dalle descrizioni di azioni e stati dell’uomo nel comune corso della vita e solo in seguito trasferito, come “vivente”, al discorso relativo ad animali e piante (Weingarten 2003). Dal punto di vista della fenomenologia sociale, “mondo-della-vita” è sempre già “vita” indagata secondo il senso; essa non è mai il mondo del “vivente” prima del “mondo-della-vita”. In ottica fenomenologico-sociale, i vari mon-

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di di senso (Sinnwelten) storici possono venir ricostruiti secondo il modo in cui essi indagano e classificano la vita (degli uomini, delle piante e degli animali) entro atti interpretativi. Si trova qui, nell’ambito delle discipline culturalistiche della vita, il punto di collegamento fra teorie culturali della “vita” di tipo ricostruttivo e decostruttivo. Nell’analisi discorsiva di Foucault sono le classificazioni e le definizioni culturali a stabilire cosa viene appellato e vale come “vita” e cosa no (cosa può esser lasciato morire attraverso l’interpretazione classificante), che cosa è incluso e che cosa escluso. Tali concettualizzazioni discorsive della vita attraverso le discipline della medicina, psicologia, sociologia sono legate ai disciplinamenti della vita. Le discipline della “vita” si inscrivono nella vita e nel corpo nella misura in cui si dà una “storia del corpo”, una storia socioculturale del corpo e della vita: quali discipline producono, gestiscono, applicano un sapere riguardo la vita? Quali pratiche e quali forme di sapere costituiscono e formano i corpi individuali come quelli sociali? Con quali tecnologie l’individuo moderno viene disciplinato e ottimizzato, la “popolazione” e le sue condizioni di vita regolate? (Foucault 1976 e 1977). L’approccio culturalistico come nucleo della scienza sociale e della scienza della cultura ricostruisce e decostruisce, quindi, anche la biologia (con le sue rispettive classificazioni linguistiche, ecc.) alla maniera di una scienza della cultura: qualsiasi argomentazione biologico-evolutiva che ricostruisca la differenza dei “sessi” (anche umani) come differenza naturale di interesse di corpi sessuali genicamante guidati (“sex”) (Miller 2001), a partire dal paradigma culturalista può venir chiarita soltanto come costruzione e classificazione discorsiva, come discorso di potere nella produzione di sapere che produce un’apparenza di obiettività, ma che in tal modo porta con sé la sua propria contingenza. Quali costruzioni formano questo sapere riguardo la vita? In che modo il concetto costruito della vita organizza sapere e con ciò potere riguardo la vita, “biopotere”? Dalle “tecnologie disciplinari” sul corpo sino al “biopotere” sulla vita, dalla regolazione sino all’ottimizzazione della vita, l’intuizione del programma teorico culturalistico si tiene: “discipline” del sapere come discorsi che smembrano le cose contengono nel contempo definitorie disposizio-

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ni di servizio per la vita da vivere, in breve: disciplinamenti. Da questo punto di vista, anche la biologia, che si dà quale scienza della natura, va chiarita come costruzione discorsiva riguardo la vita che da parte della scienza riflessiva della cultura può venir decostruita e ricostruita come scienza culturale normativa della vita. 1.3 Dualismo della “vita” Solo approssimandosi ad entrambe queste possibilità-limite delle “discipline della vita” con i loro paradigmi centrali, quello linguistico-costruttivista e quello biologico-evolutivo, diventa allora visibile a quale tipo di scandalo potrebbe porre rimedio l’antropologia filosofica. Sociologicamente parlando, i due gruppi di scienze si trovano in rapporto di esclusione. Sul piano teorico-scientifico entrambi i gruppi di scienze appartengono all’eredità del cartesianesimo: il paradigma biologico-evolutivo dal lato del corpo, il culturalismo da quello del mentale. Dal momento che, nel corso del XX secolo, con la biologia da una parte e la scienza sociale e del linguaggio dall’altra sono state intraprese delle caratteristiche nuove assegnazioni per i rispettivi versanti del cartesianesimo – in vece della meccanica del corpo inanimato il meccanismo evoluzionistico dell’organismo ed in vece del soggetto cosciente pensante il linguaggio come medium intersoggettivo del pensiero –, il dualismo cartesiano si trasforma in reciproci tentativi di assunzione del rispettivo “altro lato”. In considerazione della reciproca ingerenza delle prospettive-limite (delle scienze della cultura sulla “vita” e delle scienze della vita sulla “cultura”), il dualismo cartesiano diventa uno scandalo per il concetto della vita e dell’uomo. Se l’uomo, da un lato, si conosce da un punto di vista storicoempirico come mediato dalla discorsività (che produce e regola la realtà secondo il metro aprioristico delle proprie categorie), il sapere naturale-empirico, nel contempo, gli suggerisce, fintantoché esiste sul piano vitale come legato-al-corpo, di concepirsi nella vita a partire dalla vita e sin nelle sue cognizioni ed emozioni come il prodotto di una ininterrotta storia naturale. L’uomo è, da una parte, il prodotto di una storia genealogica degli esseri viventi e tale filogenesi, dall’altra, risulta di nuovo – vista come disciplina discorsiva della biologia – un effetto dello spirito, del linguaggio, della sua costruzione storico-intellettuale. Questa prospettiva duplice di una visione naturale

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ed una coscienziale dell’essere vivente umano, prospettiva che si ritraduce nei due gruppi di scienze della natura e scienze della cultura, può essere rappresentata in maniera estrema anche nella coscienza quotidiana (parafrasi di Plessner): io cammino con la mia coscienza, con i discorsi, condotto da un corpo (Leib) storico-naturalmente primordiale (per quanto giovane esso possa essere), entro la cui costruzione storico-naturale, il cui conio e collocazione genetici, il taglio e la prospettiva dei discorsi sono incorniciati preliminarmente? oppure io cammino nella mia coscienza all’interno dei discorsi, presso i quali il corpo-proprio (Leibkörper) mi appare come un contenuto, comprensivo della sua cosiddetta natura coi suoi cambiamenti di luogo, soltanto in forza della costruzione discorsiva del momento? 2. Antropologia Filosofica L’antropologia Filosofica di Plessner e degli altri autori afferenti a questo modello speculativo appare un tentativo, sul piano della concezione, di tener testa a questa situazione, ovvero di non risolvere il cartesianesimo nel senso dell’una o dell’altra prospettiva, oppure di superarlo in una unità speculativa o teleologica (quali, ad esempio, le concezioni dell’idealismo o della filosofia della vita). La concezione consiste nello sviluppare categorie che rendano possibile il passaggio da una prospettiva all’altra, senza contestarne le pretese di validità. Il cuore di una antropologia Filosofica intesa in questo senso è che essa non comincia con l’uomo, bensì prima di parlare dell’uomo tratta della vita. L’impulso metodico, parlando del vivente e dell’organico – dunque dell’altro rispetto alla ragione e al discorso –, è quello di non rinunciare alla basilare esperienza di sé da parte dell’uomo, ovvero di essere un ente razionalmente, linguisticamente e discorsivamente mediato al quale è propria una distanza da sé. Parlando dell’organico, la fenomenalità di esso deve venir stabilita in modo tale che quando poi, a partire dal basso attraverso una gradualizzazione ricostruttiva dell’organico, si raggiunge la sfera dell’uomo – includendo la vitalità –, l’esperienza di partenza della distanza da sé non si dimostri un’illusione. L’antropologia Filosofica mira a quel posto che sta tra “qualcuno” e “qualcosa”, tra “persona” e “cosa” (Spaemann 1998).

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Può la persona pensante (che si differenzia in modo definitivo, in quanto “qualcuno”, dal “qualcosa”) ricostruire un tipo di “cosa” nella quale si dischiuda un collegamento verso la “persona”? Questo programma teorico, ovvero il linguaggio teorico e la tecnica teorica dell’antropologia Filosofica, può essere concepito quale catalizzatore di conoscenze tanto rispetto al fenomeno della vita quanto anche rispetto al fenomeno del mondo socio-culturale, conoscenze che possono venir conseguite esclusivamente nell’ambito di questo approccio di pensiero. 2.1 Posizionalità, ovvero la “cosa che realizza limiti” Il nucleo del libro I gradi dell’organico e l’uomo (Plessner 1975) è una teoria della vita. La possibilità di “qualcuno”, ovvero della “persona”, di assumere, in quanto soggetto di conoscenza, una distanza rispetto alla propria posizione viene presupposta al fine di volgere adesso, nel campo degli “oggetti percettivi” psichico-intuitivi, lo sguardo alla cosa come polo oggettivo – di fronte al soggetto di conoscenza – ponendo la domanda: che cosa contraddistingue la vita in quanto “qualcosa”? che cosa contraddistingue le cose viventi in confronto alle altre cose? Plessner distingue le cose viventi da quelle inanimate attraverso il carattere del limite. Le cose hanno quindi un “contorno”, un “margine”, nel quale cominciano oppure, in rapporto al “medium”, cessano. Le cose animate, per contro, risultano tali da avere il loro “margine” stesso come “limite”, oltre il quale esse entrano in relazione con un ambiente. Le cose viventi, come è detto altrove, posseggono un “rapporto epidermico con sé”. In questo caso «il limite […] appartiene realmente al corpo, il quale in tal modo non solo garantisce, in quanto limitato ai suoi contorni, il passaggio al medium adiacente, bensì compie se stesso nella propria limitazione ed è questo passaggio stesso» (Plessner 1975, p. 103). Questa tesi, «secondo cui le cose viventi sono corpi che realizzano limiti», trova la propria conferma attraverso la deduzione delle caratteristiche organiche essenziali, ovvero categorie vitali. Questo è il contenuto principale della teoria della vita ne I gradi dell’organico del 1928 che più tardi, negli anni ’60, Plessner vedrà confermata come «mossa fortunata» nella sua compatibilità con la moderna ricerca biologica (Plessner 1964). Con la categoria del “limite” quale specifico della cosa viven-

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te3, Plessner intraprende, nell’ambito della teoria dell’organismo, uno spostamento dalla relazione tutto-parte a quella sistema-ambiente, presso la quale la prima differenza viene ora inclusa nel riferimento alla “realizzazione del limite” da parte di un sistema nel proprio ambiente, come differenziazione. Tale spostamento di concetti fondamentali si motiva a partire dalla dottrina dell’ambiente (Umweltlehre) di Jakob von Uexküll, la quale ha reso osservabile una corrispondenza tra organismo specifico e specifico ambiente nei termini di un “ciclo funzionale”, nonché dalla “morfologia circolare” (Gestaltkreislehre) di Viktor von Weiszäcker e spazia attraverso la prima teoria dei sistemi (Systemetheorie) di Ludwig von Bertalanffy e la “dottrina del circolo dell’azione” (Handlungskreislehre) di Gehlen, sino alla concezione di Luhmann di fenomeni-sistema-ambiente (System-UmweltPhänomene) aperti ma alla fine autopoieticamente chiusi ed in ogni caso operanti sulla “realizzazione di limiti” (Fischer 2000b, p. 273; Rieger 2004, p. 195). Negli anni ’70 Plessner, in riferimento alla teoria della vita, parla – nel vecchio stile conciso – di «un approccio del tutto nuovo, che io scorsi nel rapporto di un corpo fisico con la propria limitazione. Si danno qui due possibilità: la limitazione è esterna al corpo. Esso finisce dove il medium circostante comincia. Chiamiamo tali corpi inorganici. Oppure la limitazione appartiene al corpo, ad esempio attraverso una membrana che esso reca in sé. Tali corpi sono detti organici. Essi sono in sé anche laddove siano limitati esternamente. Essi hanno posizionalità» (Plessner 1985, p. 325). Le cose che realizzano limiti vengono quindi caratterizzate da Plessner come ”posizionali”. Nel concetto di “posizionalità” ovvero di “esser-posto” (Gesetztheit), Plessner riunisce, a livello categoriale, 3

La decisione categoriale plessneriana di introdurre il “limite” come concetto operativo dell’organico, trae spunto da G. F. W. HEGEL (Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830). Erster Teil: Die Wissenschaft der Logik, § 92; in: ID., Werke 8, hrsg. von E. Moldenhauer und K. M. Michel, Frankfurt a. M. 1970, p. 197; tr. it. Enciclopedia, 2 tomi; tomo 1, parte I: La scienza della logica, a cura di N. Merker, Bari 1975, pp. 109-110), G. SIMMEL (Lebensanschauung. Vier metaphysische Kapitel, München/Leipzig 1918; tr. it., Intuizioni della vita. Quattro capitoli metafisici, a cura di F. Sternheim, Milano 1938) e F.J.J. BUYTENDIJK (“Anschauliche Kennzeichen des Organischen”; in: «Philosophischer Anzeiger», Jg. 2, 1928, H. 4, pp. 391-402. Fischer 2000b).

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motivi empiristici (fissaggio-spazio-tempo della posizione della cosa) e motivi della filosofia della vita (lo “Es-Charakter” della vita, lo esser-posto naturale che precede qualsiasi prestazione di assestamento dell’io) (Fischer 2000b), in modo da disporre di una base categoriale funzionale alla ricostruzione dei livelli dell’organico in una logica gradualistica del vivente. Plessner, dunque, non parla semplicemente della “posizione” della cosa vivente, bensì della sua “posizionalità”. È quanto mai importante non perdere di vista, nell’ambito della complessiva costituzione categoriale plessneriana, il fondamentale tratto passivo introdotto in questa categoria base. In tal modo viene riguadagnata nella categoria anche la comprensione bio-evolutiva dell’esser-posto, della gettatezza, dell’essere-sostenuto e condotto dell’organico, la comprensione dello Es-Charakter della vita, anche della vita umana, quella comprensione che precede ogni costruzione, vale a dire ogni costruzione-dell’io ed anche ogni costruzione-del-noi. Tuttavia – diversamente dalla pietra – la “cosa che realizza limiti” è un qualcosa che è posto in una prestazione attiva della “realizzazione di limiti” in rapporto al proprio ambito circostante (Umfeld). Ogni vita in quanto posizionalità è correlativamente posta in un ambito-circostante-di-posizione, i suoi cicli vitali sono d’ora in poi ricostruibili come correlazione sistema-ambiente. In contrasto con la “posizionalità aperta” delle piante, gli animali risultano sviluppati posizionalmente, ovvero sono “posizionalità chiuse”. Nella sfera delle “posizionalità chiuse”, le “posizionalità centriche” sono allora quegli esseri viventi che, coordinati su un sistema nervoso centrale dal punto di vista motorio e sensoriale, agiscono al di fuori del loro centro vitale all’interno di uno specifico ambiente e nuovamente verso il centro vitale. L’entità delle conseguenze della determinazione plessneriana della vita come “cosa che realizza limiti” per la bioscienza ed il suo concetto della vita si può appurare nel modo più chiaro seguendo lo sviluppo di essa presso i biologi Portmann e Buytendijk (entrambi, sul piano storico-teorico, appartengono al gruppo di autori dell’antropologia Filosofica). Adolf Portmann ha più tardi sviluppato la caratterizzazione plessneriana dell’organico attraverso il suo “limite” (il che era già stato fatto da Buytendijk in un saggio del 1928 su “le caratteristiche intuitive dell’organico”) nei termini di “nuovi percorsi nella

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biologia”, una biologia che prende in esame il fenomeno della vita a partire dall’uomo in modo tale che la vita divenga comprensibile nella sua fenomenalità senza riduzione, ma anche senza venir adagiata in una filosofia speculativa della natura. Attraverso l’integrazione di alcune osservazioni empiriche della “manifestazione delle forme vitali nel campo luminoso”, egli stabilisce che le posizionalità, ovvero le “cose che realizzano limiti”, non sono caratterizzate soltanto dall’autoconservazione dei loro limiti di posizione, di volta in volta incorporati, nel campo posizionale e neppure si esauriscono nella conservazione della specie (ovvero nella conservazione genetica intesa come trasmissione delle informazioni corporee essenziali al di fuori dei loro limiti di posizionalità). Piuttosto, in confronto alle cose non viventi, quelle che realizzano limiti mostrano nel contempo il fattore peculiare della genuina “autorappresentazione” nel loro limite, nella loro superficie-limite (pelle, pelo, piume, in ultimo nel viso e nella fisionomia, ecc.) – a causa del fondamentale carattere di limite dell’organico. Nelle cose viventi l’involucro opaco, quindi la superficie manifestativa della cosa vivente con la sua struttura tendenzialmente simmetrica – così Portmann –, ricopre la struttura (per lo più asimmetrica) dell’interno, il groviglio di viscere differenziato solo funzionalmente. La superficielimite, dunque, differenzia sul piano della manifestazione una superficie esterna nei confronti dello spazio interno. Ovviamente anche gli organi (così come tutte le cose inorganiche) sono fenomeni e manifestazioni, tuttavia non sono mirati alla visibilità. Portmann distingue da queste “manifestazioni inautentiche” le “manifestazioni autentiche” delle superfici-limite dei corpi viventi, che per le loro decorazioni e tessiture sono mirati alla visibilità (anche nel caso che non siano visti da nessuno, come accade per i pesci dai colori vivaci degli abissi marini). La superficialità della superficie-limite del corpo è quindi per natura il campo di realizzazione per la rappresentazione esterna che è divenuta possibile con ciò. Tale campo di realizzazione è manifestazione (Manifestation) e nascondimento della “internità” (Innerlichkeit) di una cosa – “internità” o “interiorità” intesa come categoria neutrale, il che è qualcosa di diverso rispetto all’“interno” del “lato esterno” di una cosa della percezione.

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A partire dalla biologia filosofica di Plessner e Portmann, è ora possibile osservare, in maniera consequenziale, questa fondamentale espressività della vita, il “valore proprio della manifestazione” nella superficie-limite di ogni singola “cosa che realizza limiti”. L’eccedenza costitutiva della forma manifestativa nella iniziale “manifestazione non indirizzata” risulta la condizione di possibilità affinché l’effettiva individualità della vita tutta – la vita si presenta sempre e solo nella forma di enti singoli individuati (Gerhardt 2003) – giunga nell’attività autoreferenziale dell’essere vivente. Il genuino carattere manifestativo di ogni organico implica una (subumana) psicologia della vita, che non coincide con la “psicobiologia”. Parimenti originario, il principio della “manifestazione non indirizzata” è la condizione di possibilità per la genuina socialità del vivente nella visibilità delle superfici-limite, già ad un livello subumano. In seguito, nella veste di “manifestazioni indirizzate”, la superficie-limite consegue specifiche e nel contempo tipiche funzioni espressive, quali: le umoralità e le disposizioni, che sono irrinunciabili per l’armonizzazione delle posizionalità nelle loro, confliggenti o cooperanti, modalità di condotta. Al più tardi qui (se non già prima, al livello delle cellule) non solo la vita diventa biosemiotica (Ingesiep 2004) e da questo punto di vista fondante per qualsiasi scienza della vita, bensì il genuino carattere manifestativo dell’organico implica una (subumana) sociologia della vita, che non coincide con la “sociobiologia”. La biologia differenziata a partire dall’antropologia Filosofica offre quindi, in Portmann, un correttivo alla teoria biologica della funzione, la quale riconduce i modelli di superficie o ad effetti secondari di meccanismi fisiologici oppure ad effetti puramente sociobiologici (meramente funzionali per la coordinazione della riproduzione genetica). Rispetto a ciò viene fatto emergere il valore biologico peculiare della superficie dell’organico. Per la teoria filosofico-antropologica dell’organico, la superficie di esso non ha il valore di un mero epifenomeno (rispetto ad un nucleo autentico), bensì quello dell’emergere della valenza peculiare della fenomenalità, della capacità manifestativa nel mondo, necessariamente legata alla “determinatezza del limite” della cosa vivente corporea. Questa, per così dire, semi-aperta disposizione del corpo vivente mirata sin dall’inizio alla visibilità (nella sfera sensoriale acustica al-

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la percepibilità ed in quella tattile alla tangibilità ed avvertibilità) è ciò che Hannah Arendt, affascinata dalla teoria di Portmann, ha così espresso: «Non potrebbe essere che non siano le manifestazioni ad esistere in funzione del processo vitale, ma piuttosto questo in funzione delle manifestazioni? […] Ciò che può vedere, vorrebbe esser visto; ciò che può udire, vorrebbe essere udito; ciò che può toccare, vorrebbe lasciarsi toccare. È proprio come se tutto ciò che vive – accanto al dato di fatto che la sua superficie si dà per la manifestazione, che essa deve venir vista e manifestarsi agli altri – avesse un impulso a manifestarsi, ad adeguarsi al mondo delle manifestazioni, mentre mostra e rappresenta – non il suo “sé interiore”, bensì – sé come individuo» (Arendt 1979, pp. 37 ss.). 2.2 Posizionalità eccentrica. La biofilosofia che contraddistingue sin dal principio l’antropologia Filosofica, conduce da una parte ad un arricchimento del concetto scientifico della vita, permettendo così, d’altra parte, al programma teorico di seguire il mondo del vivente fin nel suo mondo-della-vita socioculturale e con ciò, nel contempo, di caratterizzare l’irriducibile specificità della sfera dell’uomo. Lo sguardo puntato sulla vitalità nell’ambito della sfera umana sancisce quest’ultima non come mera prosecuzione degli imperativi dell’organico. A partire dalla sua categoria fondamentale della “posizionalità eccentrica”, l’antropologia Filosofica guarda alla forma vitale umana come costituzionalmente stagliata contro la posizionalità animale e vegetale, e tuttavia – dal momento che essa non si distacca dalla vita – non elevata al di sopra di questa. La vita è divenuta nell’uomo “eccentrica”, ma le eccentricizzazioni rimangono, a causa dell’insuperabilità della posizionalità, assegnate al “ricentramento” nel corpo-proprio (Leibkörper) (Krüger 1999). Le cose che realizzano limiti sono dunque posizionalità assegnate all’autoconservazione e conservazione della specie ed alla capacità di manifestazione, cose sottratte all’ambiente (Umgebung). La posizionalità eccentrica si lascia esplicitare anche come “distanza nell’espressione dall’espressione” oppure come “corpo (Körper) nella differenza dal corpo-proprio (Leib) nel corpoproprio”. Questo essere vivente risulta spostato nel suo distacco rispetto alla propria datità organica senza potervi rinunciare o poterla

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abbandonare (Eßbach 1994). Anche la posizionalità eccentrica rimane “posizionale” e in tal modo “cosa che realizza limiti”: “includenteprotettiva contro l’ambiente e aprente-mediante verso di esso” (Plessner 1975). Nell’uomo la storia naturale è la storia della presa di distanza dal mondo-ambiente (Umwelt) naturale nel mezzo della natura, una sorta di “rimozione del corpo” (Paul Alsberg) nel mezzo della corporeità. Solo l’essere vivente umano esperisce nella medesima cosa una costitutiva differenza tra il corpo-proprio (Leib), che essa dall’interno, nella sua mutevole umoralità avverte e sente, ed il corpo (Körper), che essa dall’esterno vede e tasta e cerca di portare sotto controllo. Soltanto in questo essere vivente, perciò, la sua “interiorità” in rapporto al mondo può giungere a manifestazione come un “avvertire propriamente-corporeo”, come percezione situata. Il programma teorico dell’antropologia Filosofica offre dunque, per via della biofilosofia da essa introdotta, una fondazione della “fenomenologia del corpo-proprio” (Schmitz 1965; ma anche Merleau-Ponty, Waldenfels), che cerca di portare al linguaggio in modo sistematico l’esperienza dell’esperire il mondo situata tra corpo e corpo-proprio. Gli esseri viventi umani sono cose eccentricamente posizionate, ossia cose frante, ma non spezzate; essi restano, quanto alla loro vitalità, “cose che realizzano limiti” nel mezzo di una dischiusasi complessità del mondo, di se stessi e delle posizionalità conviventi. Se «la manifestazione dell’espressione… sembra essere un autentico fenomeno originario della vita» (Cassirer 1995, p. 37), allora gli esseri viventi umani appaiono come cose che realizzano limiti percepibili e visibili le une per le altre nelle loro superfici-limite e nel contempo impenetrabili per la comprensione reciproca, esse si manifestano nel modo della “doppia contingenza” (Luhmann). La superficie espressiva del loro corpo-proprio porta a manifestazione sempre più di quanto si prevedesse e al contempo sempre meno di quanto si desiderasse. Detto con Plessner, tali cose che realizzano limiti poste eccentricamente possono sviluppare la loro “realizzazione di limiti” nei modi della “artificialità naturale” e della “immediatezza mediata”. Posizionalità eccentrica con la corrispondentemente aperta complessità del mondo, propria ed altrui, significa nei fatti: non c’è alcun punto di

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riferimento univoco a cui siano riferite le realtà di questo mondo esterno, mondo interiore e mondo della coesistenza (Mitwelt); nel contempo, però, la “posizionalità” nella posizionalità eccentrica esige per il compimento della vita, al pari di qualsiasi corpo vivente, orientamento, direzione, organizzazione. La “posizionalità eccentrica” consente al vitale una “complessità” di tipo nuovo ed al tempo stesso richiede una “riduzione” di essa artificiale e mediatrice. È questa, sul piano filosofico-antropologico, l’origine del mondo-della-vita socioculturale nel mondo del vivente. Più tardi Luhmann ha caratterizzato questa “realizzazione di limiti” con l’espressione “limiti di senso”: «i limiti di senso […] ordinano un dislivello nella complessità. Essi separano sistema e mondo-ambiente come ambiti di possibilità di diversa complessità. Il mondo-ambiente possiede sempre una complessità più elevata che non il sistema e, da ultimo, l’indeterminata complessità del mondo in assoluto. I limiti di senso marcano questa differenza rendendola disponibile all’orientamento dell’esperienza» (Luhmann 1972, p. 73). In Plessner e Gehlen, al cui fondo filosofico-antropologico Luhmann attinge espressamente per l’argomento della riduzione della complessità, il momento vitale della situazione socioculturale di vita risulta articolato in maniera più chiara. Proprio in virtù di questa esigenza della situazione umana di vita, Gehlen ha introdotto la categoria filosofico-antropologica dell’“esonero”. Plasticamente detto, apertura al mondo significa per Gehlen: “inondazione di stimoli” ed “eccedenza pulsionale”; per un essere vivente essa è una situazione tanto di possibilità quanto di pretesa eccessiva, che lo costringe ad una “artificialità naturale” e ad una “immediatezza mediata” della propria situazione, in breve ad un “restringimento artificiale d’orizzonte” (Plessner) della complessità del mondo, di quella propria e di quella altrui. Gehlen ha caratterizzato dal punto di vista filosofico-antropologico tale procedimento naturale-artificiale di tracciamento di limiti come “istituzionalizzazione”, procedimento nel quale la riduzione della dimensione oggettuale, di quella spirituale e di quella sociale risultano agganciate tra loro. «L’uomo può stabilire un rapporto con le cose, con sé ed i propri simili solo in modo indiretto; egli deve ritrovarsi, estraniandosi, per una strada diversa ed è qui che si trovano le istituzioni. Sono appunto queste forme prodotte dall’uo-

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mo ciò in cui lo spirituale, un materiale oscillante anche nella somma ricchezza e pathos, si oggettivizza, viene intrecciato nel corso degli eventi e proprio in tal modo reso duraturo» (Gehlen 1955, p. 55). Per indicare lo stesso procedimento di tracciamento di limiti in considerazione dell’apertura al mondo dell’uomo per “il medium”, artificiale e mediatore, “della sua vita”, Plessner ha preferito il concetto formale di “senso e connessione di senso”. «Senza un minino di conformità al senso, senza il tentativo quantomeno di trovare rimandi dall’uno all’altro, senza direzione (e senso è direzione, rimando a, possibilità di collegamento) non si dà vita umana […]. Il mondo, come ciò in cui l’esserci recita, è attraversato da un limite che si confonde, il quale separa l’ambito del familiare da quello dell’estraneo. In ambedue gli ambiti gli elementi non sono definiti una volta per tutte: anche il familiare può diventare estraneo e viceversa. Fra essi, tuttavia, devono potersi determinare relazioni. L’uomo vuol essere sicuro di avere un suo nesso con le cose, anche laddove non sappia (e forse non può saperlo mai) quale. […] Avere senso e connessione di senso significa per l’uomo: potersi attenere a qualcosa perché tale qualcosa è questo e non quello e poter cominciare qualcosa con esso; potersi rivolgere a qualcosa come qualcosa – a rischio che esso contraddica; poter fare di qualcosa un qualcosa – a rischio che esso si riveli qualcos’altro. Con questa articolabilità, stabilità e mobilità, con un minimo di univocità ed elasticità, ordine e malleabilità, chiusura ed apertura fa i conti la vita» (Plessner 1982, pp. 361 ss.). Se a partire dalla “posizionalità eccentrica” si è compreso il fenomeno, operante conformemente al senso, della realizzazione di limiti (riduzione della complessità) nella sua vitalità come origine del mondo-della-vita socio-culturale, allora risulta possibile, a partire dalla figura fondamentale della posizionalità eccentrica, della “distanza nell’espressione verso l’espressione”, ricavare le categorie antropologiche come concetti di sovvertimento del vitale. Categorie antropologiche sono quelle che posseggono un proprio status tra le categorie della biosfera e quelle, di volta in volta specifiche, del mondo storico e socio-culturale, le categorie ermeneutiche e storiografiche. Le categorie antropologiche sono concetti della sfera vitale che si distaccano da essa per poi venir nuovamente mediati. Sensi, movimenti, umora-

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lità, impulsi, zone di manifestazione e di espressione si lasciano ricostruire nel loro essere franti, di volta in volta specifico, in modo tale che i concetti di sovvertimento della vita relativi alla sfera umana possano essere rinvenuti in contrasto ai concetti dimensionali degli organismi subumani – gli animali – e in maniera che il momento della vitalità in loro resti riconoscibile come sfondo, nonché predicabile per le scienze sociali e della cultura. In questo modo è possibile costruire – sempre temporaneamente – una serie di coppie concettuali in cui il primo concetto (quello che precede la barretta divisoria) tematizza sempre un aspetto (estesiologico, cognitivo, etologico, ecc.) della sfera vitale ferina, mentre il secondo lo fa rispetto alla sfera di vita, franta e nuovamente mediata, dell’uomo: nascita/“primavera extrauterina”; vedere/produzione di immagini; emettere suoni ed ascoltare/fare musica; asse corporeo orizzontale/sollevamento, ovvero asse corporeo verticale; faccia/maschera; bisogno/desiderio; intelligenza/ragione; presa/strumentalità; aggressione/violenza; eccitazione/orgasmo ovvero estasi; rimanere sorpresi/meravigliarsi; imitazione/mimesi (rappresentazione, rituale, messa in scena); essere conosciuti/familiarità; ostilità/inimicizia; istinto/istituzione; segnale/linguaggio; istinto di fingersi morto/ridere e piangere; movimento/danza; morire/mortalità e tomba. Da questo punto di vista, le categorie antropologiche non caratterizzano i fenomeni specifici della sfera umana né come graduazione, ossia prosecuzione dei meccanismi dell’organico con altri mezzi (come accade per il paradigma biologico-evolutivo), né attraverso un compiuto distacco dalla sfera vitale (come nel caso del paradigma linguistico-costruttivista), bensì come fenomeni di salto e di sovvertimento nel campo della vita stessa. In questo senso tali concetti antropologici sono, da una parte, pur sempre concetti di delimitazione rispetto all’animale (il che conduce all’attenuazione di un’antropomorfizzazione dell’animale): gli animali sono in grado di vedere ma non conoscono l’immagine prodotta; possono emettere suoni ed ascoltarsi, ma non fare musica; conoscono l’ostilità ma non l’inimicizia; sono aggressivi ma non violenti; si muovono virtuosamente ma non danzano; comunicano ma non posseggono alcun linguaggio; hanno una fine ma non muoiono e non si seppelliscono a vicenda una vol-

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ta divenuti corpi privi di vita. Dall’altra parte, poi, queste categorie antropologiche sono pur sempre anche concetti di delimitazione rispetto ai concetti specificamente ermeneutici, i quali portano al concetto storico le rispettive epoche, gli apriori Storici, l’episteme, i dispositivi (del mondo-della-vita umano). Le categorie antropologiche, che (di volta in volta, secondo un determinato aspetto) cercano di portare al concetto una svolta del vitale, sono nel contempo aperte alle categorie ermeneutiche, nelle quali il momento vigente estorce ed ottiene una corrispondente interpretazione e stilizzazione delle condizioni di vita. Categorie ermeneutiche o storiche sono, ad esempio, i concetti stilistici della storia dell’arte – “realismo”, “cubismo”, “espressionismo”, “pittura astratta” – che, attraverso la categoria antropologica della produzione d’immagini (ignota agli animali), risultano fondati come varianti/possibilità storiche di questa categoria antropologica nella quale il momento vitale dell’occhiata che inerisce allo sguardo umano resta incluso e presente all’interno del costante gioco di rimandi tra la superficie dell’immagine e l’oggetto reso nell’immagine. La capacità di penetrazione, fondata biofilosoficamente, dell’antropologia Filosofica rispetto al mondo socio-culturale dell’uomo si mostra, rispetto alle categorie antropologiche, anche nella compresenza dei fenomeni, nella ricchezza dei media, i quali possono essere esaminati come modi della “realizzazione di limiti” umana. L’antropologia Filosofica non mostra né un monopolio globale dell’uomo – apertura al mondo oppure “impenetrabilità” oppure “indeterminabilità” oppure capacità di cultura in generale – né soltanto un monopolio, oppure medium dell’uomo – il linguaggio – messo in rilievo, a partire dal quale si dischiude tutto il resto. Essa mostra, piuttosto, sin dall’inizio, uno spettro di momenti o di cosiddetti monopoli, una paratassi di particolarità della posizionalità umana non riconducibili l’una all’altra e tuttavia certamente fondate nella “posizionalità eccentrica” (Fischer 1995; Krüger 1999). Ciò ha a che fare in maniera decisiva col fatto che la formula “posizionalità eccentrica” attribuisce all’essere vivente umano tanto la facoltà della distanza e della riflessione (essere “posto” nel distacco) quanto la capacità, caratterizzante l’uomo, della risonanza (essere accessibile da qualsiasi lontananza, es-

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sere trasferibile in entusiasmo). L’eccentricità della posizionalità spiega la “distanza” ma anche la “risonanza”, poiché il mezzo dell’essere vivente è, per così dire, senza centro, vuoto (Eßbach 1994). I momenti della ragione, dell’agire pianificato, della costruzione possono essere dischiusi nella misura in cui la posizionalità eccentrica esplicita distacco e distanza. D’altra parte, però, la categoria della posizionalità eccentrica – già a partire dal concetto d’immagine – esplicita l’essere vivente costitutivamente aperto il cui centro istintivo è quasi vuoto e che perciò risulta come nessun altro ricettivo, aperto alla risonanza, capace di entusiasmo. Tale è il significato duplice del concetto di “apertura al mondo” così come lo introduce Max Scheler: questi esseri viventi possono – ex-centricamente – ottenere uno sguardo d’insieme sul “mondo” al di fuori di ogni arrestarsi al mondoambiente e nel contempo il “mondo” nella sua pienezza sta dentro a questo essere vivente “aperto” come in nessun altro, lo prende con sé, lo rende talvolta sconcertato. Da questo punto di vista la “posizionalità eccentrica” esplicita nello stesso istante insieme al distacco costitutivo anche la potenza, specificamente orgiastica, di questo essere vivente a lasciarsi colmare. Questo essere vivente dev’essere attivo razionalmente così come, all’opposto, danzante; possiede la geometria così come, all’opposto, può lasciarsi vibrare dalla musica; può, “excentricamente”, lasciarsi spostare, fino alla mania. La posizionalità eccentrica mostra sul piano categoriale la facoltà della distanza come quella dell’estasi, ossia il rischio dell’estasi. Per questa ragione tutte le teorie che cercano di dimostrare quale base delle scienze sociali e della cultura una paratassi, un’eterarchia delle “forme simboliche” (Cassirer 1954), oppure delle “attribuzioni di senso” (Sinngebungen) in una “estesiologia dello spirito” (Plessner 1923), oppure delle “forme di sapere” non riconducibili l’una all’altra – sapere della prestazione (Leistungswissen), sapere della formazione (Bildungswissen), sapere del sacro (Heilswissen) (Scheler 1924) –, sono legate al programma teorico dell’antropologia Filosofica. In tutte queste teorie il “linguaggio” viene mostrato quale specifico medium del rapporto umano col mondo, con se stessi e con la società. Tuttavia non soltanto il linguaggio, ma insieme ad esso tutto uno spettro di “media”, i quali – sebbene possano anche essere por-

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tati al linguaggio – nella loro logica non seguono la logica del linguaggio: per esempio, la geometria, oppure la scienza matematica della natura, oppure il “sapere della prestazione” (quale medium della “distanza”); la musica/danza, oppure il mito ovvero il “sapere del sacro”/mistica (quale medium della “risonanza”). L’antropologia Filosofica non conosce alcun “ionic turn” o “acoustic turn”, dal momento che sin dal principio le è spianata la strada per rivolgersi alla logica propria dei “media” non-linguistici. A causa della sua fondazione, in ultima analisi biofilosofica4, l’antropologia Filosofica sviluppa una teoria di quei “media” dimostrabili a partire dalla specifica posizionalità dell’uomo, ma non riconducibili l’uno all’altro; media attraverso i quali gli uomini portano di volta in volta a manifestazione il mondo e nei quali essi, all’interno del mondo, portano a manifestazione se stessi gli uni di fronte agli altri. 3. Antropologia Filosofica come correttivo duplice del radicalismo scientifico della biologia e delle scienze sociali e della cultura Nel complesso del suo corpo testuale e presso tutti i suoi autori di riferimento, il progetto speculativo dell’antropologia Filosofica appare sostenuto dall’intento di una de-radicalizzazione di aspetti estremi, senza però contestarne le pretese di validità. L’antropologia Filosofica è genuinamente una “critica del radicalismo”5. Il programma teorico cerca di rendere reciprocamente comprensibili gli aspetti 4

L’espressione “in ultima analisi biofilosofica” vuol intendere che in un primo momento nella Filosofia delle forme simboliche di Cassirer non era stata presentata alcuna fondazione di tal genere, mentre più tardi (in: Tentativo intorno all’uomo, 1944) essa veniva tentata attraverso il ricorso alla dottrina dell’ambiente di Uexküll. Invero, già sul finire degli anni venti si era determinato (senza però che ne seguisse alcuna pubblicazione) un esplicito avvicinamento verso gli autori di maggior spicco dell’antropologia Filosofica (Scheler, Plessner). Cfr. E. CASSIRER, Zur Metaphysik der symbolischen Formen, hrsg. von J.M. Krois, Hamburg 1995 (tr. it. Metafisica delle forme simboliche, a cura di G. Raio, Milano 2003). 5 Ciò risulta chiaro, ad esempio, già nel titolo dello scritto plessneriano dedicato alla teoria sociale: Grenzen der Gemeinschaft (1924; tr. it. I limiti della comunità: per una critica del radicalismo sociale, a cura di B. Accarino, Roma-Bari 2001), il cui programmatico sottotitolo recita: «per una critica del radicalismo sociale».

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estremi nei termini di un “aspetto duplice” della cosa corrispondente – il tutto al servizio della comprensione della cosa. In questo senso, I gradi dell’organico e l’uomo andrebbero letti alla stregua di una critica del radicalismo scientifico o teoretico-scientifico: tanto delle scienze della vita – come biologismo – quanto delle scienze sociali e della cultura – come culturalismo. 3.1 Antropologia Filosofica: correttivo delle biodiscipline della vita Le “cose che realizzano limiti” sono qualcosa di più che non cose geneticamente guidate. Detto diversamente: il termine “cose che realizzano limiti” descrive la vita in maniera più complessa di quanto non faccia una descrizione incentrata geneticamente (incentrata sull’informazione corporea essenziale e sulla riproduzione di essa). L’antropologia Filosofica costituisce (con la sua biofilosofia attraverso la modalità della propria proposta concettuale) il correttivo di una bioscienza che si pone, nel segno dell’approccio biologico-evolutivo, come biologia genetica concentrandosi sulle “manifestazioni inautentiche” del vivente – il fondamento molecolare – e considerandole – in quanto efficaci biotecnicamente – l’autentico dell’organico. Senza urtare con la ricerca di dati di fatto propria della biologia, l’antropologia Filosofica scopre, grazie alla sua biologia filosofica, il valore peculiare della “manifestazione” della cosa vivente, della “cosa che realizza limiti” nella sua superficie-limite. Questo carattere manifestativo non indirizzato (il quale distingue in modo caratteristico la cosa vivente da quelle non viventi) è sì mediato geneticamente, tuttavia non riconducibile all’“interesse riproduttivo” dei geni. In ogni organismo individuale è possibile distinguere gli interessi di autoconservazione, gli interessi genetici di copia ed il valore peculiare della manifestazione. Insieme al fenomeno del valore peculiare della manifestazione nel mondo del vivente appare il fenomeno dell’espressione, che costituisce nel contempo il fenomeno-base del mondo socio-culturale in riferimento alla costruzione e alla comprensibilità linguistiche. Con ciò, all’interno della biologia stessa, il dualismo cartesiano nel fenomeno della vita viene spezzato dal lato della corporeità meccanicistica, senza però postulare una filosofia della natura teleologica o speculativa. L’operazione post-cartesiana di una tale biologia filosofica si

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lascia descrivere anche così: «returning the horizon of interiority into our cognition of pre-human life and finding our way to an evolutionary philosophical anthropology which locates human particularity in its full-bodied emergency from, and yet continuous with, pre-human forms of life» (Moss 2003, p. 19). 3.2 Antropologia Filosofica: correttivo delle discipline culturali della vita Con la sua teoria sociale e della cultura biofilosoficamente fondata, l’antropologia Filosofica costituisce nel contempo il correttivo di una scienza sociale e della cultura, la quale, nel segno dell’approccio teoretico-linguistico e teoretico-discorsivo, si intestardisce sulla costruzione linguistica e sulla critica del linguaggio, classificazione, disciplinamento, regolazione, normalizzazione ed ottimizzazione, sul “regime-limite”; in breve, sull’aspetto della “artificiosità culturale” e “costruzione” della sfera di vita umana. Con il conseguimento delle categorie antropologiche, che includono in modo sistematico il momento vitale e si tengono nel contempo aperte alle categorie ermeneutiche della storicità, l’antropologia Filosofica costituisce anche una ricostruzione biofilosofica “dal basso” di qualsiasi discorsività. Attraverso l’apertura della “posizionalità eccentrica” all’estatica ed all’orgiastica quali specifiche possibilità della regolazione umana del limite, l’antropologia Filosofica infrange il lato mentalistico del dualismo cartesiano senza ricorrere ad una filosofia speculativa della vita. Accanto al linguaggio diventa disponibile per le scienze sociali e della cultura una logica peculiare dei “media” non linguistici, che si costituiscono attraverso operazioni di “artificialità naturale” e di “immediatezza mediata”. In tutti questi “media” gli esseri viventi umani appaiono per natura “artificiali” e nel contempo “mediati” immediatamente nel mondo, mondo che essi portano a manifestazione. Se la biofilosofia introdotta in principio dall’antropologia Filosofica conduce da una parte ad un arricchimento oggettivo del “concetto di vita” – senza presupporre un concetto speculativo di natura –, d’altro canto proprio questo concetto differenziato della vita consente all’antropologia Filosofica con lo sguardo rivolto alla sfera socioculturale dell’uomo di restare, sin nel “mondo-della-vita” sociocultu-

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Un concetto ermeneutico del sapere e del comprendere tecnico prende le mosse da questo sapere implicito, sviluppando, a partire da una simile base, una comprensione dell’agire tecnico che si regge su di una fenomenologia dell’uso dello strumento, ossia della dimestichezza (Umgang) con: i processi naturali, le macchine ed i sistemi tecnici, il tutto all’interno di un comprendere strumentale inteso come implicito sapere della dimestichezza (Umgangswissen)1 (Irrgang 2001ª). Non è l’analisi dello strumento a rivestire un’importanza primaria, quanto piuttosto quella del risultato che può essere conseguito con l’aiuto di un mezzo tecnico. A venir indagato è il tipo di 1 L’espressione “sapere della dimestichezza” (Umgangswissen) è da intendersi nei termini di un genitivo oggettivo, vale a dire: non un sapere (astratto e precostituito) circa la dimestichezza, il pratico aver-a-che-fare con la tecnica, bensì un sapere intorno alla tecnica stessa, una modalità saggia di approcciarla e valutarla (una sorta di “tecnosofia”) che dalla dimestichezza, dal concreto aver-ache-fare con essa (con i suoi strumenti), trae la propria ragion d’essere. Di qui la qualifica, per un tale sapere, di “implicito”, la sua equiparazione ad una tacit knowledge [N.d.T.].

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realizzazione di un effetto inteso. In tal modo l’interpretazione del sapere tecnico implicito finisce per superare l’analisi esistenziale di Martin Heidegger inerente la dimestichezza tecnica con il mondo delle cose (Dingwelt) (Corona/Irrgang 1999). Il concetto di un implicito sapere della dimestichezza sulla base di un processo di comprensione delle possibilità d’utilizzo dei processi naturali o degli strumenti diviene il punto di partenza per un filosofare sulla tecnica. Questo implicito sapere della dimestichezza dovrebbe venir ricostruito nel senso di un sapere e di un potere (Können) intrecciati tra loro, determinati dalla struttura della cosa con cui si ha a che fare e dalla familiarità di coloro che vi hanno a che fare. Solo in seconda battuta risultano decisivi per la tecnica: il sapere esplicito, la matematizzazione e la scientificizzazione. Quanto più autonomi sono divenuti gli strumenti e le macchine, tanto più essi rappresentano il sapere tecnico che vi è incorporato, il successivo sapere di ricerca (Forschungswissen). Questo significa che nel corso della storia della tecnica, accanto alla competenza tecnica dei tecnici, è venuta alla luce la competenza tecnica del mezzo tecnico, ma sempre in una più o meno acuta dipendenza dalla competenza tecnica del tecnico. Rispetto a ciò va distinto il sapere tecnologico riflesso (scienza metatecnica). Si tratta del sapere dell’utilizzatore, del sapere della dimestichezza: il significato degli artefatti tecnici nella loro allocazione culturale si spinge al di là della determinatezza funzionale di un artefatto tecnico. 1. Fiducia nella tecnica attraverso la scientificizzazione della costruzione? A partire dai processi di industrializzazione del XIX secolo la fiducia nella tecnica non si fonda più sulla competenza dell’artigiano, bensì attraverso la scientificizzazione. A favorire in primo luogo l’irrompere dei metodi scientifici non fu affatto la prova di una superiore capacità di prestazione nella prassi costruttiva, tant’è vero che nei rari casi in cui frattanto le analisi meccanico-costruttive e meccanicomacchinali erano state ammesse, il significato di detti metodi appariva piuttosto esiguo. In questo periodo, infatti, la prassi costruttiva faceva ancora a meno di procedimenti scientifici, i quali, in ogni caso,

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venivano inseriti nell’analisi fondata scientificamente soltanto ex post. Si tenga inoltre presente che, in considerazione tanto dell’ancora scarsa rilevanza pratica dei metodi meccanico-costruttivi e meccanico-macchinali (incluso il loro apparato matematico) quanto del sapere della dimestichezza con le nuove teorie non sviluppato a sufficienza da parte degli attori, gli errori rilevanti nell’approccio meccanico e nel procedere del calcolo erano all’ordine del giorno. Introducendosi gradualmente nella consuetudine del costruire, l’ideale dell’attività scientifica dell’ingegnere finiva per ottenere una forza in grado di orientare l’azione, coniando rapidamente – in accordo con l’imporsi del carattere di scuola nella meccanica e nell’edilizia – la stessa identità professionale dell’ingegnere. D’altro canto, detto ideale non era in grado di operare in modo da determinare l’azione. Nell’ottica della società, infatti, la scienza afferisce primariamente ad una istanza secondo cui nella tecnica ha da prodursi un sapere convertibile, sicuro (Hänseroth 2003, p. 21). Il paradigma della presunta infallibilità delle affermazioni fondate scientificamente provvedeva a che d’ora in avanti nella breccia, aperta a forza, dell’apologia e della legittimazione della nuova tecnica prendesse piede un sapere apparentemente oggettivo, valido universalmente, scientifico, un sapere inteso quale prova di verità di una tecnica sostenuta dall’autorità della scienza, “oggettivamente corretta”, realizzata, per così dire, sotto la costrizione della cosa. A partire dalla fiducia nel progresso della scienza come fondamento della moderna fede nel progresso, i sistemi conoscitivi e i risultati delle scienze della natura e delle scienze tecniche furono in grado di accreditarsi come compensazione di tutto questo deficit di legittimazione (Hänseroth 2003, pp. 22-24). Nell’ottica dell’ingegnere l’autodescrizione e l’eterodescrizione sono due cose distinte, in quanto l’assicurazione epistemica non può venir scambiata con la sicurezza tecnica. 2. Manutenzione e sicurezza tecnica: fondazione istituzionale della fiducia nella tecnica? Di regola nella tecnica moderna si stabilisce preliminarmente la durata di vita di una costruzione. Le costruzioni moderne sono dunque costruzioni a termine. Il concetto della durata di vita di una par-

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te della costruzione viene sempre più spesso definito come tempo operativo che essa sopporta prima di raggiungere il cedimento tecnico (Broichhausen 1985). Le cause dell’aberrazione dell’artefatto tecnico rispetto al suo stato ideale costituiscono il motivo della manutenzione, all’interno della quale possono venir distinti, quali suoi provvedimenti parziali: assistenza, ispezione e manutenzione in senso stretto. Simon sostiene l’unità categoriale di produzione e manutenzione degli artefatti tecnici. Del pari, la durata dell’idoneità, la durata dell’uso, la durata della conservazione rappresentano differenti aspetti della manutenzione. Nella ricerca delle cause delle catastrofi tecniche emerge spesso una manutenzione carente, il che implica, per forza di cose, la presenza di una responsabilità per la manutenzione da parte delle istituzioni a ciò preposte. In ciò si manifesta particolarmente l’aspetto economico della manutenzione così come la dimensione della sicurezza tecnica ad essa legata. Nella tipologia d’azione del preservare bisogna prendere le mosse dall’irreversibilità dell’agire. Simon parla di una contrapposizione tra “deve essere” (Soll) ed “è” (Ist) (Simon 2002). Heidegger si riferisce al venir meno dell’affidabilità degli artefatti tecnici, a cui si dà il nome di usura e consumo. Avvenimenti estremi possono essere compresi allo stesso modo come cause della distruzione e dello scadimento di artefatti tecnici. A causare gli sforzi di manutenzione sono le aberrazioni dell’artefatto tecnico dal suo stato ideale, aberrazioni che possono farsi risalire a: catastrofi naturali, sociali, economiche e tecniche. Nel decadimento, attraverso la configurazione naturale o la distruzione, l’artefatto tecnico viene sottoposto ad una trasformazione. La riparazione e la manutenzione operano una successiva, più forte individualizzazione di quei singoli elementi dei quali un artefatto tecnico è il risultato. Gli obblighi di manutenzione sono espressione della storicità dell’artefatto tecnico, la quale si manifesta nella durata di idoneità e nella durata d’uso. A voler semplificare, in questo ambito alla fine ne va fondamentalmente di una decisione sul valore, vale a dire della rinuncia ad una eventuale, ulteriore manutenzione. Nel complesso è possibile determinare un dispendio complessivo legato all’uso di un artefatto (Simon 2002).

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3. Limiti della controllabilità nella moderna tecnologia Nel corso del XX secolo il potere delle nostre macchine e delle nostre invenzioni si è drammaticamente accresciuto. Nel contempo, tuttavia, si sono accresciute anche le loro conseguenze impreviste. In virtù della sua costitutiva complessità, la tecnologia moderna risulta fondamentalmente diversa dalle prime forme di tecnica. Questa complessità genera insicurezze, ponendo un limite a quello che possiamo sapere o razionalmente meditare relativamente ad una tecnologia ed al suo sviluppo nel futuro (Pool 1997). Cento anni fa gli americani consideravano la tecnologia una cosa fondamentalmente buona, mentre oggi ci sono Paesi in cui la prudenza nei riguardi della tecnologia riveste un ruolo centrale, costituendo una sorta di atteggiamento di fondo. In alcuni di essi, addirittura, tale prudenza, assieme al sospetto verso la tecnologia, si è spinta fino al punto che determinati sviluppi tecnici (quali, ad esempio, le tecnologie genetiche e le tecnologie nucleari) sono stati bloccati. Lo stesso processo di invenzione è retto da una fede e da pratiche emerse in precedenza, in anni di esperienza attraverso prove ed errori, pratiche che si mostrano riottose dinanzi a nuove idee radicali che, da un punto di vista tecnico, dischiudono dei percorsi completamente nuovi (Pool 1997). Va da sé che non è la crescita in quanto tale ad essere tecnicamente rischiosa, ma piuttosto una crescita smisurata, quasi senza limiti, di grandi sistemi tecnici. In tempo di globalizzazione una simile preoccupazione si traduce nell’esigenza di una differente struttura architettonica per la crescita di grandi sistemi tecnici, troppo spesso simili ad escrescenze tumorali e ad agglomerati casuali. Quanta più infrastruttura possediamo tanto più dobbiamo adoperarci per il suo mantenimento oppure abbandonarla2. Il poter finire fuori controllo è un carattere peculiare della tecnologia complessa. Il fatto che qualcosa sia fuori controllo ci interessa nella esclusiva misura in cui ci attendiamo che, in riferimento ad 2

A conferma delle ambiguità che molti processi innescati dai progressi tecnici recano in sé, si può tenere presente, nel caso di specie, il fatto che manutenzione e riparazione (sin qui rappresentate come esclusiva fonte di ansie) innescano, da un punto di vista socio-economico, un circolo virtuoso, creando un numero considerevole di posti di lavoro.

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un determinato sviluppo, al primo posto debba esserci un controllo. Una tale considerazione è tutt’altro che un’ovvietà, dal momento che non tutte le culture condividono il nostro insistere sulla capacità di controllare le cose. La scienza moderna ha apportato un evidente accrescimento delle possibilità di controllo. Secondo una prospettiva convenzionale, le opere della tecnologia sono più che sicure. Ciò che l’uomo ha fatto, può anche controllarlo: questo è il parere dettato dal common-sense. Considerato nel suo complesso, il controllo è parte integrante dell’idea di costruzione della creazione tecnica, visto che gli strumenti dipendono (o, quantomeno, dovrebbero dipendere) interamente dalla volontà dell’utilizzatore (Winner 1992). Alla base della tesi della controllabilità si trova quella che è una pura aspirazione. La possibilità di gravi collassi nei sistemi altamente tecnologizzati è qualcosa da non sottovalutare. La stessa questione dell’utilizzare e del controllare si pone a questo livello. Ciò in cui ci imbattiamo di fronte a strutture altamente tecnologizzate non è la passività di uno strumento che attende di venir utilizzato, bensì un ensemble tecnico che richiede una condotta ed un agire routinizzati ed esercitati (Winner 1992), i quali devono venir acquisiti attaverso la dimestichezza. Il medium tecnico è mutato: esso non è più uno strumento, tuttavia neppure costituisce la struttura fondamentale dell’agire tecnico. Tutto ciò reca in sé una serie di implicazioni determinanti, alle quali è bene, per quanto rapidamente, fare cenno. Anzitutto oggigiorno non siamo più nella condizione di poter riparare tutte le apparecchiature tecniche che ci circondano; in seconda istanza, l’utilizzo efficace di un artefatto tecnico così come la dimestichezza efficace con le strutture tecniche non presuppone la nostra conoscenza dettagliata del loro piano di costruzione. Questo significa che non il solo ingegnere può essere un agente tecnico efficace, dal che consegue una certa democratizzazione dell’agire e dello sviluppo tecnico (Winner 1992). 4. Tecnologia al fronte Gli uomini che lavorano sul fronte tecnologico abbisognano di un alto grado di sicurezza per la loro tutela. Errori umani e disfunzioni tecniche si sommano gli uni alle altre. Questo non implica di per

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sé un esito fallimentare, come dimostra lo sviluppo recente dei sistemi di sicurezza (giunti oramai al punto di essere ridondanti), ma neppure può oscurare il dato di fatto per cui risulta molto difficile e richiede un’esperienza approfondita riuscire ad interrompere la catena di eventi in grado di provocare una potenziale disfunzione (Chiles 2001). Tanto nella costruzione di aerei quanto nei viaggi spaziali gli “ingegneri di frontiera” sono diventati vittime delle loro stesse promesse smisurate, alle quali, peraltro, era in certo modo necessario che ricorressero al fine di ampliare e sostenere l’ampliamento della loro tecnica. In molti di tali ambiti l’eccessiva fiducia nella tecnologia sembra esser stata sviata verso una forma tragica, acquisendo così i tratti di una fiducia fatale nella tecnica. Nella valutazione di una nuova tecnica risulta perciò determinante la filosofia della sicurezza (ad esempio, il test di sicurezza di un impianto tecnico), dal momento che abbiamo bisogno di una tecnica cui sia intrinseca la costruzione sicura (Chiles 2001). La rarità di errori strutturali nella costruzione tecnica ha condotto alla convinzione per cui anche in imprese molto azzardate l’ingegneria e la costruzione tecnica non implicherebbero alcun rischio eccessivo (Petrowski 1992). Se ancor oggi alcune strutture di carattere tecnico mostrano errori e conducono ad incidenti, ciò si deve essenzialmente al fatto che vengono continuamente superati limiti tecnologici, anche nel nuovo mondo industrializzato3. Il paradosso della costruzione tecnica è che dei concetti tecnici strutturali efficaci possono condurre ad un errore, mentre errori colossali si rivelano alla fin fine molto importanti per accelerare lo sviluppo di tecniche innovative e di strutture tecniche illuminanti. Gli errori risultano inerenti a tutte le costruzioni tecniche utili, in virtù di conflitti tra le esigenze dell’utente (che spesso sono sconosciute) e la costruzione ai fini di un utilizzo che spesso viene semplicemente accettato in modo arbitrario (Petrowski 1992).

3 Dal 50% al 90% di tutti gli errori tecnici strutturali vengono giudicati una conseguenza del tentativo di superare il fattore grandezza. Un ulteriore fattore significativo, di cui tener conto, è rappresentato dal materiale difettoso.

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5. La “vendetta” della tecnica Con l’introduzione dell’ufficio elettronico il consumo di carta si è infinitamente accresciuto. Conseguenze paradossali simili a questa vengono definite “contraccolpo delle cose” ovvero “vendetta delle cose”. A rigor di termini, è qui che si manifestano i rischi delle estrapolazioni tecnologiche. È necessario passare dal modello complessivo della “vendetta” ai singoli effetti di retroazione. Il punto di partenza è costituito dalle paradossali modalità di comportamento degli oggetti tecnici. La maggior parte delle conseguenze impreviste sono spiacevoli, mentre quelle piacevoli si rivelano altamente sorprendenti. Al di là di questo, noi scopriamo gli stessi effetti positivi piacevoli soltanto a seguito delle esperienze negative. Le nuove tecnologie sono preziose solo quando con esse possiamo mostrare nuove abitudini d’utilizzo. Un effetto di contraccolpo non è la stessa cosa di un singolo atto di vendetta. Se, ad esempio, il trattamento di un cancro produce un ulteriore cancro mortale, ci troviamo dinanzi ad un effetto vendicativo in senso stretto. La stessa sicurezza rappresenta, non di rado, un’ulteriore porta d’accesso per l’effetto vendicativo. Per fare un esempio: i sistemi d’allarme danno luogo a molti falsi allarmi ed effetti vendicativi fanno la loro comparsa allorché istituzionalizziamo le tecnologie (Tenner 1996). Effetti vendicativi capitano e accadono dal momento che nuove strutture, compiti ed organizzazioni devono reagire con persone reali in situazioni concrete secondo modalità che non potevano essere previste. Anche la natura “rende il colpo”. I sistemi strumentali possono, in certo modo, rendere il colpo. Parti di macchine, che interagiscono in maniera indesiderata ed imprevista, possono condurre ad effetti vendicativi. In virtù di queste ragioni, risulta di fondamentale importanza tener conto dell’utilizzo, vale a dire il management. Effetti di sistema ed effetti di utilizzazione possono interagire. Nel XIX secolo si è assistito ad un titanismo tecnico prometeico e ad un apogeo dell’ottimismo tecnico che, per forza di cose, hanno condotto a degli errori. Già soltanto a causa della presenza dell’utente tecnico, una tecnica sicura è qualcosa di impossibile4. 4

Il concetto moderno degli effetti collaterali nasce nel XIX secolo. Molti casi d’infezione, ricorda Tenner, si verificano negli ospedali (Tenner 1996).

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Molti ambiti dello sviluppo tecnico si scontrano con un limite di intensificazione. L’ambivalenza ed il potenziale carattere catastrofico della tecnologia, pur senza allarmismi eccessivi, vanno però adeguatamente evidenziati. Ancora un esempio: il naufragio del Titanic ha portato all’introduzione del soccorso marino. La riduzione degli effetti di contraccolpo esige un’elevata intelligenza tecnica. Nella prassi l’ottimismo tecnologico significa la capacità di conoscere per tempo le cattive sorprese, così per tempo che si possa fare qualcosa contro di esse (Tenner 1996). Tenner descrive uno schema basilare nella logica del fallimento tecnico. Questo non è il solo schema possibile, tuttavia appare di particolare interesse nella misura in cui qui costruzione, produzione ed utilizzo si implicano a vicenda, nella misura in cui il contesto d’azione si rivela decisamente confuso e dunque possono facilmente verificarsi degli errori. 6. Rischio e accettazione tecnica Le analisi sul rischio e sulla sicurezza devono confermare il funzionamento sufficientemente sicuro di un impianto. Ciò deve risultare dimostrabile non soltanto agli occhi dell’apposito esperto: i passaggi fondamentali devono essere eseguibili anche dai non specialisti. È importante che ci sia la massima trasparenza possibile del sistema, ovvero: familiarità del cittadino con la tecnica di volta in volta in questione, comprensibilità dei meccanismi operativi e controllabilità della tecnica. A fronte di ciò, concetti come quelli di: ostilità verso la tecnica, critica alla tecnica, accettazione della tecnica si rivelano troppo generici e hanno bisogno di venir analizzati criticamente, risultando del tutto inadeguati ai fini di una discussione inerente la valutazione della tecnica o l’esperienza tecnica. Quali concetti alternativi possono venir presi in considerazione: la pretesa verso la tecnica e la scepsi tecnica, nell’ambito delle quali il piano intellettuale e quello pratico della valutazione della tecnica vanno continuamente distinti. La critica della tecnica è, in ultima istanza, critica della società: le prese di posizione rispetto alla tecnica dipendono dalla concreta situazione degli interessati. Abbiamo potuto stabilire differenti forme del soddisfacimento dei movimenti del processo: forme dell’imporsi di nuove tecniche con l’aiuto della legge e dell’autorità dello stato al di là dei

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meccanismi di mercato o attraverso degli incentivi (Stadler/Kuisle 1999). Se accantoniamo un concetto di accettazione limitante, possono schiudersi meglio nuovi ambiti problematici relativi al tema, ovvero: resistenza di fronte ai costi ambientali, reazione contro gli incidenti nelle aziende e le malattie professionali, ecc. Inoltre si è richiamata ripetutamente l’attenzione sul fatto che, per quanto riguarda il problema dell’accettazione, vanno tenuti presenti gli spazi di manovra degli interessati. Qui si danno delle intersezioni con l’analisi del concetto di pretesa. Per il concetto di pretesa risulta particolarmente importante una buona caratterizzazione dell’imporsi delle tecnologie e della situazione di resistenza. La discussione relativa al carattere di novità e progressività delle innovazioni tecniche, discussione creata dalla diffusione universale del paradigma della crescita e del progresso, ha già stornato abbastanza il nostro sguardo dall’ulteriore domanda sulla qualità e il perdurare di una funzione. In particolare, è necessario richiamare l’attenzione sul carattere temporalmente determinato della valutazione della tecnica e dei criteri impiegati a questo scopo (Stadler/Kuisle 1999). 7. Innovazione e routine: fiducia tecnica sulla base dell’esperienza Innovazione tecnologica e scientifica vanno per forza di cose di pari passo con l’insicurezza. Sostenendo una simile posizione si perviene a valutazioni errate (Rescher 1983). A fronte della diffusa ideologia del mutamento e del progresso tecnico, bisognerebbe tener conto anche di chi subisce le innovazioni. Le innovazioni hanno aperto un campo di libertà a carattere utopico e la pianificazione ideale, risultante dall’azione del mercato e delle leggi tecnologiche, dovrebbe condurre a far sì che il pensatore creativo ed il capitale liberamente fluttuante si uniscano per creare un nuovo mondo caratterizzato da una sovrabbondanza di possibilità e di energia. D’altra parte l’inconcepibile utopia di una tecnica senza innovazione è stata accantonata. La tecnologia risulta connessa al mutamento nella sua essenza più intima (Williams 2002). La crisi d’identità dell’ingegneria, espressa dal suo non aver più scopi, ha condotto all’ideologia dell’ingegneria che identifica l’opera

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ingegneristica con i metodi scientifici. La metà del XX secolo, ovvero gli anni seguiti alla seconda guerra mondiale, è stato per gli ingegneri, dal punto di vista della loro professionalità, un periodo di rapida crescita. Una formazione efficace degli ingegneri ed un tipo nuovo di pedagogia in senso lato dovettero implicarsi a vicenda. A questo si è legata una nuova costruzione ed una nuova idea tecnica dei prodotti dell’ingegneria. Il determinismo tecnologico dovette aver ragione di opposizioni di carattere culturale. È qui che alligna il rischio di un iperilluminismo. Si giunge in tal modo al confronto tra il mutamento tecnologico ed il mutamento storico. Il progresso tecnologico ha dovuto orientarsi sulla comunità, tuttavia le ripercussioni più immediate di un simile orientamento appaiono una crisi del mondo della vita ed in particolare una enorme, endemica scarsità di tempo (Williams 2002). D’altro canto la società del rischio è anche la società della fiducia: la fiducia rappresenta il lato oscuro del mondo disincantato, mentre il familiare il lato dell’ovvio, dell’inevitabile terreno del mondo della vita tecnico. Mentre la storia reale della tecnica nella modernità è quella di un trionfo stupefacente, la semantica della critica della società si limita ad interpretare un tale successo nei termini di una marginalizzazione della comunicazione non tecnica, anziché interrogarsi su quanto le facilitazioni di cui è artefice la tecnica siano degne di fiducia. Com’è possibile allora che nella dimestichezza quotidiana con la tecnica vengano impiegate con sorprendente facilità delle attestazioni di fiducia indefinite? In ogni caso ci si riferisce ad artefatti tecnici, dunque ad oggetti tecnici, per l’appunto a cose che, a differenza delle tecniche, funzionano nel senso di trame regolari che possono venir insegnate. Si tratta di creazioni tecniche nella forma di cose già introdotte, esperibili praticamente, vale a dire della comune tecnica al consumo, tecnica per dilettanti, come quella che è a disposizione quotidianamente. La questione determinante riguarda l’esser degna di fiducia della creazione tecnica. A tale riguardo, sarebbe piuttosto il caso di chiedersi per quale motivo, malgrado il potenziale di pericolo della tecnica ed il suo costo sociale (cosa di cui s’è fatta esperienza in più modi), la nostra società – paragonabile alla weberiana “comunità del consenso” – può essere descritta come una co-

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munità di fiducia nella tecnica. Gli approcci ad una forma normale della tecnica nel suo funzionare vanno sviluppati ulteriormente. Di certo – detto in linguaggio heideggeriano – l’elemento perturbante del mondo tecnicizzato concerne il funzionare della tecnica e non il suo eventuale naufragio (Wagner 1992). I temi della fiducia nella tecnica come fiducia nell’autorità, ovvero della società moderna come comunità di fiducia tecnica si ritrovano in Max Weber. Weber distingue il consenso (Einverständnis) verso un ordine razionale (sia esso di tipo tecnico, sociale o simbolico) dalla comprensione (Verständnis) della sua complessità: consenso e comprensione non sono identici. L’agire del consenso viene classificato da Weber come agire abitudinario (Wagner 1992). Quanto più ci troviamo circondati da artefatti tecnici tanto più si rimpicciolisce lo spazio di ciò che è ricostruibile razionalmente e tanto più si accresce il bisogno, funzionalmente necessario, di fiducia. Qualsiasi tentativo di giungere effettivamente ad un dominio della cosa solleva nuove contingenze nascoste ed insicurezze latenti (Wagner 1992). La fiducia nella tecnica non viene prodotta attraverso convinzioni etiche ma attraverso l’utilizzo quotidiano, il che spiega anche per quale ragione le tecniche da esperti, come le tecniche nucleari o quelle genetiche, non conseguono facilmente la fiducia. La fiducia nella tecnica è una questione che riguarda il sapere della dimestichezza, la tacit knowledge, vale a dire un sapere che non può essere prodotto per mezzo di prove e strategie di legittimazione che precedono l’impiego (Benutzung). Al massimo ci si può convincere a sperimentare la dimestichezza soltanto attraverso l’impiego. Alla fin fine si tratta di una questione di routine, della costruzione e dell’esercizio di routine, della provata dimestichezza con gli artefatti tecnici: tutto ciò crea la fiducia nella tecnica. Non è possibile in alcun modo estorcere la fiducia nella tecnica. La ripetizione dei risultati, la routine e la dimostrazione conducono infine ad essa. Il pensiero del dominio della tecnica nel senso del dominio di una cosa è un pensiero in linea di principio errato. Si tratta piuttosto dell’esercizio e del dominio di competenze specifiche. La riproduzione dell’esito felice di un esperimento nel senso della dimostrazione crea fiducia. È quindi la ripetizione, non l’argomentazione razionale, a creare fiducia nel-

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la tecnica, ragion per cui se ad una tecnica si nega qualsiasi possibilità di poter dimostrare se stessa allora non si è mai data a questa tecnica l’opportunità di mettere alla prova la sua legittimità. Tali divieti preventivi risultano dogmatici, a meno che non vi siano buone ragioni ad indicare l’estrema pericolosità di una determinata tecnica. 8. Facilità d’uso – alcuni esempi La crescente complessità della tecnica insieme alla sua diffusione sempre più capillare ha fatto sì che il desiderio di una tecnica semplice e di facile uso divenisse sempre più pressante. Dappertutto si possono scorgere i limiti dell’uomo dinanzi alla tecnica, esemplati tragicamente da tutta una serie di catastrofi. Computer e smart devices sono sempre più presenti anche in ambiente domestico, privato. Il successo economico di una innovazione tecnologica si dà soltanto se l’utilizzabilità è appannaggio di tutti. Per questo motivo, una volta conseguiti funzionalità e prezzo contenuto, si è passati al design della “joy of use”. Il fatto che un apparecchio sia utilizzabile in maniera semplice diventa un fattore sempre più importante. L’ambito in cui queste dinamiche si manifestano nella maniera più lampante è certo quello della produzione dei computer. Qui si è passati dallo sviluppo dello hardware a quello del software. In questo contesto si parla sovente di crisi del software, proponendo come risposta la standardizzazione. Si tratta della configurazione della superficie di servizio. La conseguenza di ciò è stata l’accresciuta valutazione dello sviluppo dello useware. In quest’ambito appare centrale l’interazione uomo-macchina. Sarebbe necessario conoscere l’utente, con le sue capacità, i suoi limiti, i suoi desideri. È tempo che l’uomo concepisca se stesso come misura delle cose nella sfera dell’allestimento tecnico (Zühlke 2005, pp. 7-12). La programmazione di una sveglia tascabile universale si rivelò un’impresa che richiedeva molte ore. L’apparentemente semplice riprogrammazione del tempo in un timer che regoli l’impianto di riscaldamento e di areazione di una casa, l’integrazione di un nuovo televisore in un impianto già esistente, tali incombenze possono rivelarsi grandemente seccanti. Da tutto questo è lecito inferire che l’industria presuma apertamente che ogni cliente sia uno high-tech-

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freek. Spesso vengono offerte delle innovazioni le quali senza dubbio promettono non pochi vantaggi ma che tuttavia per la grande massa dei clienti sono in primo luogo di difficile utilizzabilità e per lo più anche troppo costose. A partire dalle esperienze di pochi specialisti, si determinano poi i bisogni della grande massa. Si guardi, a mo’ di esempio, alla fotografia. Inizialmente bisognava recarsi ogni volta dal fotografo, il quale doveva cambiare la lastra (vale a dire: doveva essere in grado di farlo). L’esposizione automatica semplificò di molto la maneggevolezza: le macchine fotografiche divennero più economiche ma scadenti. Questa situazione produsse due tipologie di destinatari: il gruppo, relativamente piccolo, degli appassionati della tecnica e della fotografia – a beneficio dei quali vennero sviluppate macchine reflex sempre migliori e più complesse – e l’altro gruppo, interessato semplicemente a scattare buone foto senza doverci stare troppo a riflettere. Nel 1978 fu sviluppata la prima macchina dotata di autofocus, nel 1991 la fotografia digitale. Similmente vanno le cose per la tecnica in ambito domestico. Le ricerche sulla utilizzabilità al fine di aumentare la soddisfazione del cliente rivestono un significato sempre maggiore. In misura crescente viene offerta una gestione della casa governata centralmente. Anche l’utente deve essere inserito nel processo di sviluppo, presso il quale, invece, “lo” utente non viene in genere affatto considerato. Un altro esempio oltremodo concreto: videoregistatori e lettori DVD risultano particolarmente difficili da usare. Sovente le stesse istruzioni per l’uso risultano carenti. Evidentemente tutte le persone di una certa età hanno problemi con apparecchi mal realizzati. Non di rado, laddove si riveli necessario il comando di pulsanti (come accade in particolare per l’accensione dei timers), l’utilizzo viene appreso attraverso un procedimento trail and error (Zühlke 2005, pp. 15-28). Problemi simili nascono nell’impiego di automobili high-tech, dotate di computer di bordo, computer per la scelta dei percorsi ed in futuro anche per le auto dotate di internet. Ci sono molte funzionalità nuove di cui la grande massa non ha certamente bisogno, ma che ci vengono vendute come progresso5. Il punto debole delle auto5

Recentemente la BMW ha sviluppato un computer di bordo con 700 funzioni, troppe per un guidatore durante il viaggio.

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mobili moderne è l’elettronica di bordo. In questo campo ci si regola sulla base delle diverse rappresentazioni dei guidatori. Attualmente, nello sviluppo di un veicolo molte prove vengono sostituite da simulazioni. I modelli umani impiegati nella costruzione delle auto sono, ad esempio, i RAMSIS. Bisognerebbe pretendere anche un modello umano cognitivo, un Dummy cognitivo. Si tratterebbe di comprendere i processi cerebrali in maniera dettagliata. Un caso non dissimile accade con la logistica di trasporto. La cabina di guida di un TIR si trasformerà sempre più in una postazione di lavoro, avanzando pretese sempre maggiori nei confronti del guidatore. Essa sta diventando, a tutti gli effetti, un ufficio organizzativo. Al cliente viene offerto tutto quanto agevola la sua vita e il suo lavoro e tali funzionalità vanno automatizzate sino al punto di diventare nascoste (com’è il caso dell’ausilio ABS) (Zühlke 2005, pp. 30-41). Lo scambio dei computer nella rete risulta, del pari, qualcosa di altamente problematico. Il carattere di estrema apertura che contraddistingue internet conduce ad incompatibilità crescenti. Il problema della varietà e quello dell’ampiezza di banda richiesta è emerso insieme al problema della compatibilità e della commercializzazione. Nel 1985, con la Apple Macintosh, è stata compiuta la svolta verso il normale pc. Ciò è accaduto per mezzo della svolta nell’immagine dell’utente, che da freek della tecnica è passato ad utente, il quale attraverso l’apparecchio intende sbrigare le sue incombenze nella maniera più semplice possibile. Spesso, tuttavia, gli è stata offerta una ‘clava’ tecnologica che egli non poteva in alcun modo utilizzare (Zühlke 2005, pp. 44-506). Prima dell’industrializzazione, l’uomo, con i suoi sensi e le sue possibilità tecniche, rappresentava l’unità di misura di riferimento anche nella sfera della tecnica. Con l’industrializzazione e l’automatizzazione delle capacità le cose cambiarono. Adesso era l’uomo a venir 6

Esempi di “clave tecnologiche” si sprecano anche nel quotidiano. Si prenda il caso dei distributori automatici di biglietti. La loro configurazione risulta oltremodo complicata. Un distributore automatico di biglietti di una metropolitana giapponese non è utilizzabile da parte di un europeo. Anche la stazione per il ritiro dei pacchi delle poste tedesche si è rivelata non adatta a tutti gli utenti. In particolare, i bambini non potevano raggiungere i pacchi collocati nello scomparto superiore.

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adattato alle macchine. I computer ed il controllo degli impianti pertengono anch’essi ad un tale ambito (Zühlke 2005, pp. 52-58). I soli tedeschi leggono le istruzioni per l’uso. Negli altri Paesi la maggior parte dei clienti consulta amici e conoscenti. Questo è ciò che si chiama apprendere per imitazione. L’ideale sarebbe se non ci fosse bisogno di alcuna istruzione, il che dimostrerebbe un pieno adattamento della tecnica agli uomini (Zühlke 2005, pp. 73-75). Molti valori-limite si basano sulla capacità umana di assumere informazioni. Vanno riconosciute le capacità umane fissate una volta per tutte insieme agli annessi limiti. Gli addetti allo sviluppo delle tecniche inclinano, non di rado, a sopravvalutare le capacità umane. Una conseguenza di un simile approccio alla tecnica è il cosiddetto uomo smisurato, il quale finisce per diventare il parametro di rendimento (ad esempio nel caso dell’assunzione di informazioni). Spesso le passwords non sono facili da tenere a mente, e questo sia che si tratti dell’immissione in un computer, dell’ingresso in un edificio o di altre prestazioni di servizio. La questione concerne gli schemi d’azione appresi e il significato dei modelli mentali. L’uomo si aspetta un feedback (Zühlke 2005, pp. 79-103). Il fallimento è sovente un fallimento della comunicazione uomo-macchina. L’automatizzazione comprende molte funzioni di routine. Ancora un caso concreto: l’incremento della sicurezza nel trasporto aereo malgrado la riduzione del personale cockpit (di cabina). Oggigiorno un pilota non percepisce più tutti i dati della sua macchina, dal momento che molti calcoli routinari vengono espletati dal computer. Questo induce i piloti ad attribuire valori spropositati più ad un errore del computer che non ad un problema reale. L’euforia per l’automatizzazione, tipica degli anni ottanta, è stata in parte accantonata. A seguito di alcuni grandi disastri avvenuti negli anni ottanta e novanta, si è dovuto riconoscere che non è possibile pensare di poter automatizzare gli uomini ad oltranza. Detto in altri termini: gli errori, entro certi limiti, devono essere tollerati dalla macchina. La non trasparenza è un fenomeno tipico dei moderni sistemi tecnici. La maggior trasparenza possibile e la riduzione della complessità promuovono la facilità d’uso dei sistemi tecnici (Zühlke 2005, pp. 104-111).

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Il potere delle emozioni sull’utente tecnico è qualcosa da tenere nel dovuto conto. Non si dà una tecnica a misura d’uomo che possa venir costruita senza l’adeguata considerazione delle emozioni (Zühlke 2005, pp. 119 ss.). Il design del prodotto risulta decisivo per l’affermarsi di una innovazione. L’affermarsi di una innovazione viene intrapreso dai seguenti gruppi nella successione corrispondente: 1) innovatori, 2) utilizzatori della prima ora (appassionati della prima ora), 3) maggioranza della prima ora, 4) maggioranza tardiva, 5) indecisi. Le fasi 1 e 2 rappresentano un sesto dell’intero mercato. Gli indecisi sono spesso coloro che percepiscono un basso salario ed esperiscono costantemente la propria limitatezza nel potere d’acquisto. Le perdite del potere d’acquisto si verificano anche per i redditi più alti, ma la cosa qui non sembra tanto forte da imporre limitazioni, quantomeno per ciò che concerne l’introduzione di innovazioni ed il loro utilizzo. Cionondimeno cresce la domanda per delle strategie di marketing diverse, che non pongano in primo piano il solo aspetto del profitto. L’appello all’emozionalità diviene sempre più importante. Se la funzionalità dei differenti prodotti tende sempre più ad assimilarsi, l’interfaccia uomo-macchina finisce col diventare sempre più decisivo (Zühlke 2005, pp. 129-142). Nell’era post-pc si tratta di raggiungere un “persuasive ubiquitous compunting”. In questo contesto i computer sono gli gnomi caritatevoli nella vita di tutti i giorni. Si arriverà ad una identificazione univoca, probabilmente di tipo biometrico: un telefono cellulare funzionale – Smartphone – è oggi già possibile ed in corso di introduzione. L’ambito problematico riguarda il rifornimento d’energia mobile per queste apparecchiature mobili. Oltretutto si ha sempre maggiore bisogno di interfaccia standardizzati. È sempre più frequente che gli standards vengano fissati dai grandi produttori. In tal modo viene in luce, come secondo problema, la servibilità di tutti questi sistemi. L’utilizzazione si fonda sulla ridondanza. Un efficace riconoscimento nella lingua corrente è il punto di partenza per una tecnologia robotica accettabile. Parimenti, l’ambito problematico della protezione e della sicurezza dei dati risulta legato in molteplici forme alla moderna utilizzazione della tecnica. A parte questo, emergono questioni di diritto nonché l’ambito problematico della commercializzazione, nel

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senso della vendita di tecniche a clienti che hanno già quasi tutto. Come vanno raggiunti i primi due gruppi di utenti? Vengono richieste apparecchiature e reti domestiche intelligenti. Molte cose verranno ordinate online e non avremo più bisogno di recarci nei negozi per vedere cos’altro c’è a disposizione. Dinanzi ad una situazione di tale complessità è facile cedere alla tentazione di immaginare scenari apocalittici. Sono molti a chiedersi: finiremo dunque in un disastro tecnico cadendo vittime delle nostre stesse tecnologie? Verosimilmente no. Il cliente deve imparare a chiedere ciò di cui ha realmente bisogno, mentre i produttori devono a loro volta apprendere da ciò e sviluppare delle tecniche per l’uomo. Una tecnica che funzioni in modo discreto e che supporti davvero gli uomini è ciò che oggi viene richiesto (Zühlke 2005, pp. 145-160). Semplice utilizzabilità ed apparecchiature pensate per gli utenti: questi sono gli scopi dell’ergonomia del software. I livelli di utilizzo devono poter essere chiaramente distinguibili. Bisogna distinguere tra: 1) utente semplice, 2) utente esperto, 3) specialista o installatore. Dagli anni cinquanta agli anni settanta ha dominato la hardwareingeneering; negli anni ottanta è seguita una crisi del software ed il cambiamento in direzione della problematica del software. In questo ambito non si danno: strutturazione dimostrabile, metodica di sviluppo verificata e procedimento per la sicurezza della qualità. Oggi è possibile parlare di una crisi dell’utilizzo. Gli addetti allo sviluppo non hanno mai riconosciuto il valore della facilità d’uso. Allo stesso modo, mancano in gran parte le ricerche sugli utenti. I processi di sviluppo producono costi, ragion per cui molte cose non vengono studiate affatto. In riferimento allo useware la questione verte sulla configurazione di sistemi di servizio (Zühlke 2005, pp. 161-173). L’innovazione e l’utilizzabilità degli apparecchi si orienta sempre più sui primi gruppi di utenti e di acquirenti. Frattanto si cerca, anche per mezzo di campagne pubblicitarie aggressive, di produrre una sorta di ipnosi tale da suggerire al cliente che deve saltare immediatamente sul treno se non vuole appartenere alla patetica schiera dei superati. Gli innovatori ed i primi utilizzatori amano lo hype. La joy of use si lega ad un utilizzo semplice e, in ultima analisi, ad una tecnica pensata per l’uomo (Zühlke 2005, pp. 174-177).

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[I]. Scenari (?) «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione... ... e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte Tannhäuser... ... e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo... ... come lacrime nella pioggia. È tempo di morire...».

Come non avere presenti e ricordare, quindi, le parole, celebri, della intensa sequenza del film di Ridley Scott Blade Runner, messe in bocca al replicante Roy Baty durante lo scontro finale con l’umano (?) Deckard, ex poliziotto incaricato di stanare una versione «ribelle» di esseri artificiali (Nexus-6), sfuggiti alla casa produttrice e impegnati a cercare il modo di poter «sopravvivere» alla loro scadenza «naturale» in quanto «fabbricato» a termine. Lo scenario è quello di una Los Angeles del 2019, in cui il mondo è sotto una costante pioggia acida e solo apparentemente la storia

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ruota attorno alla vicenda del cacciatore di taglie riabilitato Rick Deckard. Molto più dell’altrettanto famoso romanzo di Philip Dick da cui il film è tratto, ovvero Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, il lungometraggio si muove attraverso un gioco sottile ed equilibrato del rapporto uomo-androide, senza alcune delle inquietudini cupe di Dick, e tuttavia indirizzato in un’angosciosa altalena di emozioni – dell’umano e degli androidi – in cui ogni confine è sfumato via via, fino a sparire del tutto. La problematica premessa dello sviluppo della vicenda è nella fantascientifica trovata di attribuire agli androidi dell’ultima generazione la possibilità di disporre di un’unità cerebrale artificiale (Nexus6, appunto) che consente ai simulacri non solo di imitare alla perfezione il comportamento umano, ma anche o di non sapere affatto di essere tali, o persino di giungere, una volta scoperto, a non smettere di comportarsi in base alle istruzioni con le quali sono programmati. Ma può anche accedere, come nel caso dei Nexus-6 fuggiti dalla colonia nella quale erano relegati per svolgere mansioni ormai non più consone all’essere umano, che gli androidi si attacchino prometeicamente al simulacro meccanico che chiamano vita, ribellandosi alla crudele volontà del proprio creatore-inventore, come appunto il caso di Roy Baty il quale, nell’atto di compiere il parricidio, dichiara: «padre, voglio più vita!».

Un altro dato da tener presente, e non solo relativamente alla ricostruzione della trama del lungometraggio, ma anche e soprattutto per quel che attiene la questione che vorremmo sollevare, è che alcuni di questi androidi, essendo dotati di memorie sintetizzate in laboratorio, sono in grado di poter superare i test di identificazione messi a punto dalla polizia. Tranne uno: la scala Voigt-Kampff che, permettendo di misurare l’empatia, consente, quindi, di stabilire chi è umano e chi non è umano. Cosa è umano e cosa non è umano. Certo, con una certa dose di realismo e, ciononostante, con anche un pizzico di vizioso e ipertrofico rigorismo accademico, si potrebbe essere portati a liquidare tutto ciò come portato di una letteratura e, conseguentemente, di un genere-surrogato, marginale e per

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ciò trascurabile, qual è appunto la fantascienza. Frutto di eccessivo, se non come pure accade, deviato esercizio di fantasia, la fantascienza corre non di rado questo rischio: cioè di essere poco più di un cattivo assemblaggio di materiali di scarto. Del resto, però, né più né meno dei cosiddetti generi nobili della letteratura moderna e contemporanea. Il genere fantascientifico, pur tuttavia, e in ciò il motivo di questo insolito e, come si vedrà, non unico riferimento, quando è frutto di romanzieri – o nel caso di trasposizioni cinematografiche, di registi – competenti e, in special guisa, di autori che non solo hanno storie da narrare, ma sono per giunta sorretti da una certa qual consapevolezza dei progressi scientifici oltre che dalla straordinaria capacità di mettere a frutto, anche con visionarie intuizioni, queste conoscenze proiettandole in ipotetici ma nient’affatto improbabili scenari futuri, può, alla stregua delle altre tipologie di romanzo – o di genere cinematografico –, fungere da utile supporto per provare ad accedere al cuore di taluni problemi. Il problema centrale del film citato, così come il sostanziale problema di quella letteratura fantascientifica firmata dal suo più autorevole rappresentante del XX secolo, ovvero Philip Dick, risiede proprio nel quesito relativo al chi (o cosa) dell’uomo. Sulla scia di quella che è stata la questione capitale che ha intessuto e attraversato, nelle sue diverse direttrici ed articolazioni, il XIX secolo, cioè quella relativa alla questione-uomo, anche la più insospettabile letteratura del ‘900, quella di fantascienza, si è mossa lungo la direttrice indagatrice di quell’ente vario, complesso, polimorfo, persino «enigmatico», e «che racchiude in sé la nostra esistenza per natura gioconda ma oltre natura misera e dolorosa». «È ben comprensibile – allora – che il suo mistero formi l’alfa e l’omega di tutti i nostri discorsi e di tutte le nostre domande, dia fuoco e tensione a ogni nostra parola, urgenza a ogni nostro problema. Perché, appunto, in questo caso avviene che quanto più si scavi» tanto più «l’insondabile si diverte a farsi gioco della nostra passione indagatrice, le offre mete e punti d’arrivo illusori»1. 1

T. MANN, Joseph und seine Brüder (1927), tr. it. Giuseppe e i suoi fratelli, in: ID., Opere, a cura di B. Arzeni, Milano 1971 (4ª ed.), vol. I, p. 1.

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E proprio perché il rinvio del mistero può proporre ed offrire «mete e punti d’arrivo illusori», i generi che più seriamente e pensosamente hanno comunque provato a misurarsi con tale enigma, non vanno scartati o trascurati in via pregiudiziale. Tanto più quando, in verosimile proiezione, aprono addirittura alla, seppur residuale, possibilità di confrontarsi, in un esercizio tutt’altro che retorico, con l’insondabile per eccellenza: il da venire. Si prenda, ancora ad esempio, un film di fantascienza più recente, Natural City del regista sudcoreano Min Byung Chun, ambientato in un 2080 in cui la terra è attraversata da una interminabile guerra nella quale «macchine pensanti», dal profilo tecnologico altissimo, costituiscono una mortale minaccia per il genere umano: in questo scenario, a partire da una consapevole ottica e lettura della natura e del naturale totalmente scomposta e ricomposta su basi dichiaratamente anti-necessitanti, si inscrive la vicenda di un poliziotto della resistenza (Erre) il quale, innamoratosi di una ballerina androide (Ria) destinata a spegnersi entro tre giorni, arriverà, nel tentativo di scongiurare tale fine, al sacrificio di sé. Anche in questo caso, in un più complesso mosaico fatto di profonde rimodulazioni in seno alla cultura orientale, l’interrogativo di fondo, di una storia appaiabile per più di un aspetto a quella di Blade Runner, è sempre lo stesso: sia che la si prenda dal punto di vista dell’umano, sia che la si prenda dal punto di vista dell’androide, la questione ruota ancora intorno al «che cosa» e al «chi» dell’uomo. Toccando sicuramente corde che, spesso, hanno il merito di suscitare l’indignazione profonda di certo e attardato giusnaturalismo, la letteratura e la filmografia di fantascienza, nel loro rappresentare scenari possibili, nel loro essere aperte a ipotetiche storie dell’umano da venire, ripropongono un tÒpoj interessante: gli androidi, per atteggiamenti, sentimenti, percezioni, impulsi, passioni e consapevolezza, sembrano essere più umani dell’uomo. Sembrano mettere in discussione la presunta umanità dell’uomo, superandolo su quel terreno che solo in apparenza gli viene ancora riservato: quello, appunto, in negativo misurabile dalla scala Voigt-Kampff. Ciò emerge chiaramente nel celebre testo dickiano emblematicamente intitolato Possiamo costruirti, in cui, in special guisa in due

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passaggi, è possibile leggere: «“Papà”, dissi “sprechi il tuo tempo parlando con quella cosa. Lo sai cos’è? Una macchina che Muray ha montato nella sua cantina per sei dollari”. Sia mio padre che l’Edwin M. Stanton fecero una pausa e mi fissarono. “Questo simpatico signore?” disse mio padre, e assunse un’espressione giustamente indignata; le sue sopracciglia si congiunsero e disse ad alta voce: “Ricordati, Louis, che l’uomo è una debole canna, la cosa più fragile che esista in natura, ma dannazione, mein Sohn, è una canna che pensa. Non occorre che l’intero universo si armi per annientarlo; una goccia d’acqua basta a ucciderlo”. Puntando eccitato un dito verso di me, mio padre continuò a ruggire: “Ma se anche l’intero universo dovesse schiacciarlo, la sai una cosa? Lo sai che ti dico? Che l’uomo sarebbe ancor più nobile!”. Picchiò un pugno sul bracciolo della sua poltrona per sottolineare il concetto. “E sai perché, mein Kind? Perché lui saprebbe che sta per morire, e ti dico un’altra cosa; lui è in vantaggio sull’intero dannato universo perché l’universo non sa un accidente di quello che succede. Quindi” concluse mio padre, calmandosi un poco “tutta la nostra dignità consiste semplicemente in questo. Voglio dire, l’uomo è minuscolo e non può riempire il tempo e lo spazio ma di sicuro può servirsi del cervello che Dio gli ha dato. Come quella che tu chiami ‘cosa’, seduta qui. Questa non è una cosa. Questo è ein Mensch, un uomo”»2. Ed ancora: «Loro avevano insufflato la vita nell’orecchio di questa cosa, ma era stato solo un trasferimento, non un’invenzione; avevano trasmesso una vita di seconda mano, senza che avesse avuto origine in uno di loro o in tutti quanti insieme. Era un contagio; loro erano rimasti infettati una volta e adesso anche quei materiali avevano contratto lo stesso morbo... per un certo tempo. E che trasformazione. La vita è una forma che la materia assume... Me ne resi conto guardando la cosa Lincoln che percepiva noi e se stessa. È una cosa che fa la materia. La forma più sorprendente – l’unica davvero sorprendente – in tutto l’universo; la sola che, se non esistesse, non avrebbe mai potuto essere prevista o addirittura immaginata. E poi, sempre guardando il Lincoln che gradualmente stabiliva una relazio2

P.K. DICK, We can Build You (1972), tr. it. L’androide Abramo Lincoln, a cura di C. Pagetti e G. Montanari, Roma 2005, pp. 37 s.

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ne con ciò che vedeva, compresi una cosa: la base della vita non è la brama di esistere, né un desiderio di alcun genere. È la paura, la paura che vedevo lì. E nemmeno la paura; qualcosa di molto peggio. Terrore assoluto. Un terrore paralizzante, talmente forte da provocare apatia. Eppure il Lincoln si muoveva, ne stava uscendo. Perché? Perché doveva farlo. Il movimento, l’azione, erano impliciti nell’ampiezza stessa del terrore. Quello stato, per sua stessa natura, non poteva essere sopportato. Tutta l’attività della vita era uno sforzo per alleviare questo stato. Tentativi di mitigare la condizione che ora noi avevamo sotto i nostri occhi. La nascita, decisi, non è piacevole. È peggio della morte; si può filosofeggiare sulla morte... e probabilmente lo facciamo tutti: chiunque altro lo ha già fatto. Ma la nascita! Non si può filosofeggiare, non c’è modo di addolcire la nostra condizione. E la prognosi è terribile: ogni nostra azione e gesto e pensiero serve solo a coinvolgerci ancora più profondamente nella vita. Il Lincoln emise un altro gemito. Poi, con un ringhio roco, bofonchiò alcune parole. “Cosa?” disse Muray. “Che cosa ha detto?”. Bundy ridacchiò. “Diavolo, è un nastro vocale, ma sta scorrendo al contrario sulle guide”. Le prime parole pronunciate dalla cosa Lincoln: borbottò alla rovescia, per effetto di un errore nei collegamenti»3. Volente non volutosi come l’uomo, capace d’essere canna pensante, di capire e sapere di dover morire, attraversato dal terrore, assoluto, del da essere e, come tale, proiettato in direzione della necessaria espansione anche per riscattare lo scacco dell’origine, il replicante artificiale, la macchina che, proprio come l’uomo, prova a farsi uomo pone, oltre al «che cosa» e al «chi», l’altra fondamentale questione per l’umano, quella relativa al suo posto. In un altro celebre romanzo, Ubik, questo aspetto assume connotati ancor più interessanti ed espliciti, laddove maggiormente è drammatizzato il problema del posto dell’uomo nell’ordine universale che, con una trovata geniale, non è più segnato nemmeno dall’esaurimento della forma ma, da un gassoso vagare tra la vita e la morte, tanto che «quando sarò morto [...], farò in modo che i miei eredi mi riportino in vita un solo giorno per secolo. In questo modo potrò osservare la storia di tutta l’umanità. Ma questo significa un alto co3

Ivi, pp. 97 s.

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sto di manutenzione per gli eredi [...]. Prima o poi si sarebbero ribellati, avrebbero fatto estrarre il corpo dal congelamento rapido e – Dio non voglia – lo avrebbero seppellito. “Seppellire la gente è da barbari” [...] “un residuo delle origini primitive della nostra cultura”»4. Ma vi è, in realtà, un posto e una posizione dell’umano? La chiave, molto probabilmente, è nell’ultima considerazione riportata: come posto e supposto dagli scenari, vi sono posti e posizioni che si determinano, volta a volta, storicamente. Tutto ciò, però, contempla la decostruzione di una data e certa storia dell’umano come fondato, come vera e propria fondazione metafisica. La fantascienza, quando è autenticamente se stessa, cioè quando è in grado di proporsi con il fascino della sua potenza visionaria, con la sua capacità di aprire a nuove storie dell’umano, ha proprio questo ulteriore straordinario merito: assumendo tale decostruzione, essendo libera dal pregiudizio metafisico di giusnaturalistica memoria, offre spunti per elaborare una diversa – proprio perché le basi concettuali sono diverse – antropologia filosofica. [II]. La situazione dell’umano (morte di Adamo) Non vi è dubbio alcuno che se si pensa all’invenzione del cannocchiale ed alla nascita, quindi, della scienza moderna, sono di notevole efficacia e, conseguentemente, da assumere nel loro significato complessivo le parole con le quali Whitehead inaugurava il suo La scienza ed il mondo moderno, e cioè: «la forma [...] nella quale la persecuzione subita da Galileo è stata tramandata è un prezzo per il tranquillo inizio di una delle più profonde rivoluzioni concettuali che la razza umana abbia mai conosciuto. Da quando un bimbo nacque in una greppia, è dubbio che un evento di così grande importanza abbia prodotto così poco scompiglio»5. Ora, al di là dell’acuto ed indovinato appaiamento metaforico, e della comunque discutibile notazione sull’entità dello «scompiglio», quel che in questa sede deve essere oggetto di approfondimento con-

4

ID.,

5

A.N. WHITEHEAD,

Ubik (1969), tr. it. a cura di G. Montanari, Roma 2003, p. 12. Science and Modern World (1926), tr. it. La scienza ed il mondo moderno, a cura di A. Banfi, Torino 1979, p. 20.

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cerne l’«inizio» e i contenuti della stessa «profonda rivoluzione concettuale» con la quale l’uomo ha avuto a che fare nella sua storia. Una importante indicazione in tale direzione proviene da quell’autore che, nel secondo dopoguerra, in Italia ha con più vigore storiografico e forza speculativa messo in questione l’idea di giusnaturalismo, quel Pietro Piovani per il quale «la grandezza autentica del pensiero moderno è nella libertà riconosciuta ad ogni uomo di aprirsi una personale strada verso la verità»6. Sorretto dalla costruentesi convinzione – di cui la scienza (moderna) è il più ravvisabile portato – che il «“mondo non è chiuso”», ma che anzi può essere, come sarà, sbriciolato «in prospettive conoscitive non riducibili ad un unico principio», il moderno ha innescato quel processo rivoluzionario in ordine al quale «l’antica pretesa unitaria e assolutistica» è destinata «a cadere», per far spazio all’«avvento di una concezione del mondo che voglia saper essere nient’altro che l’insieme delle varie concezioni del mondo, concepite da uomini intenti a realizzare la loro personalità nella plasmata integrità della loro vita». In un scenario così magmaticamente modificantesi, in un universo che tende rapidamente a trasformarsi sotto l’occhio dell’uomo e al di là della lente del cannocchiale, cioè quello strumento tecnico che consentendo di avvicinare i pianeti, con Keplero prima e Galilei poi, ha di fatto mandato in mora il geocentrismo per l’eliocentrismo, il pacificato posto dell’universale raggiunto e conquistato una volta per tutte, non può che essere lasciato vacante e, quindi, disponibile. L’universale, infatti, non può ormai più risiedere «che nella gioiosa e tormentosa ambizione che gli uomini hanno di attingerlo, in maniere profondamente diverse e tuttavia in una medesima tensione umanizzante»7. È qui la possibilità che l’uomo ha di aprirsi una personale strada verso la verità, anche rispetto a se stesso, nella concrescente consapevolezza non solo di non essere più vertice di una creazione, e quindi centro del mondo, ma anche che qualsiasi vanità di finalismo escludente è quantomeno sospetta, se non di nuovo pretesa (infondata, perché non più fondabile) di rapporto esclusivo con la verità stessa. 6

P. PIOVANI,

7

Ivi, p. 14.

Giusnaturalismo ed etica moderna, Napoli 20002, p. 13.

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Ora, certo, è impresa ardua ma già tentata, e in parte riuscita, quella di segnare e ricostruire nel loro intricato insieme, in un’ottica di storia delle idee, le tappe di questa rivoluzione: quel che tuttavia in questo contesto si può tentare è, quantomeno, delineare un eventuale percorso interno, ripercorrere alcune modalità di tale rivoluzione concettuale tra ‘800 e ‘900, e provare poi ad intersecare, sulla scorta proprio di questo retroterra individuato, la questione di fondo posta all’inizio. Quella relativa al «chi» e al «cosa» dell’uomo, sulle tracce di un’antropologia filosofica di complessa fondazione, tale da richiedere una vera e propria riproblematizzazione dell’idea stessa di uomo. Nel far questo, non è possibile non costatare che il XIX secolo si è caratterizzato, rispetto alla questione-uomo nel solco, appunto, inaugurato dalla modernità, per specifici tratti di novità assoluta. E si potrebbe aggiungere che, per certi versi, l’autentico protagonista di questo orizzonte problematico nuovo per quel che attiene l’impostazione, la metodologia e i risultati stessi, sia stato Charles Darwin, in maniera tale da dettare, oltre i ritmi relativamente all’800 come si diceva, anche talune coordinate in merito all’antropologia del ‘900, come pur si vedrà. Mettendo a frutto quelle che erano poco più che notevoli intuizioni relativamente ad un primitivo abbozzo, in forma scientifica, di trasformismo biologico prima di Georges Buffon, poi, soprattutto, di Jean Baptiste Lamarck, il quale nella sua Storia naturale degli animali senza vertebre aveva enunciato quattro leggi che, in pratica, rappresentavano la prima vera formulazione scientifica della modalità in cui si verificherebbe la trasformazione degli organismi, Darwin ha elaborato una compiuta e sistematica teoria, comprovata scientificamente, al fine di supportare proprio il trasformismo biologico, ancorandola a due ordini di fatto ben precisi: l’esistenza di piccole variazioni organiche che si registrano negli esseri viventi nel corso del tempo; la lotta per la vita che occorre tra gli stessi per la tendenza di ogni specie a crescere secondo progressione geometrica. Nel suo indiscusso capolavoro del 1859, L’origine delle specie, da questi due assunti Darwin in sostanza ha dedotto il fatto che gli individui presso i quali si manifestano mutamenti organici «vantaggiosi», hanno maggiori probabilità di sopravvivere nella lotta per la vita.

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In virtù, conseguentemente, del principio di eredità, in essi vi sarà la tendenza, pronunciata, a lasciare appunto in consegna ai loro discendenti, i caratteri acquisiti accidentalmente. Questa Legge della selezione naturale, che «agisce esclusivamente tramite la conservazione e l’accumulo delle variazioni che risultano benefiche nelle condizioni, organiche e inorganiche, di vita cui l’organismo è esposto nei diversi periodi dell’esistenza» tende, in altri termini, al perfezionamento «di ciascun organismo» «in rapporto alle sue condizioni» e «conduce inevitabilmente al graduale progresso dell’organizzazione del maggior numero di viventi in tutto il mondo»8. Un primo elemento da fissare relativamente a questo novum introdotto da Darwin è relativo al fatto che la natura da lui studiata non solo non appare orientata, ma anche, cosa questa ancor più importante, come per altro già timidamente suggerito da quella descritta dalla scienza di marca galileiana e newtoniana, ispirata dal modello epistemologico meccanicista, la natura non appare per nulla centrata sull’uomo. Anzi, e questa è probabilmente un’acquisizione di straordinaria portata, lo studio della natura ha suggerito a Darwin che l’uomo, la vita stessa, sono più il prodotto di processi riconducibili al caso, piuttosto che il risultato di un vero e proprio progetto creazionista. «L’uomo – meglio ancora – nella sua arroganza, si considera una grande opera, degna dell’intervento di una qualche divinità. Più umile e, credo più verosimile, ritenerlo creato dagli animali»9. Qui, come si vede, la svolta epistemologica del moderno giunge a radicale rottura, e si concretizza un’apertura concettuale rivoluzionaria, in conseguenza della quale può ben dirsi che Adamo, cioè l’archetipo di una certa accezione e concezione dell’umano, è morto10. 8 C. DARWIN, On the Origin of Species by Means of Natural Selection (1859), tr. it. L’origine delle specie per selezione naturale, intr. di P. Omodeo, Roma 20044, cap. IV (Variante della sesta edizione n. 52), p. 136. Il corsivo è mio, anche per mettere in risalto che le parole «perfezionamento» e «progresso» non devono essere assunte in funzione di un giudizio morale, tanto meno in direzione del semplice «miglioramento». 9 ID., Charles Darwin’s Notebooks, 1836-1844: Geology, Transmutation of Species, Metaphysical Enquiries, ed. by P.H. Barret, Ithaca 1987, p. 300. 10 La suggestione proviene dal volume, per più di un aspetto ancora valido,

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Il termine «creare», infatti, subisce una flessione tale da essere totalmente trasfigurato nel senso: non c’è più alcun salto dal nulla all’esistenza, nessuna creatio ex nihilo, bensì un lungo, per certi versi interminabile, processo di progressive modificazioni e trasformazioni. Tuttavia un processo né unidirezionale, né guidato da una ragione regolatrice e ordinatrice. Di fatto l’uomo, ad un certo momento e senza una ragione precisa, ha accesso alla vita e, solo dopo, molto più tardi, dopo un excursus evolutivo tutto da scoprire nei dettagli, comincia a penetrare nei labirintici meandri della consapevolezza di sé. Si potrebbe dire che, figlio del caso e della necessità11 alla stessa stregua di tutti gli altri animali, l’uomo è il prodotto di forze cieche e prive di finalità. È nient’altro che la stretta e l’approdo, non ultimo, dell’intimo, profondo imparentamento con le scimmie antropoidi: in sostanza, «una scimmia modificata»12. Facendo per certi versi dell’uomo la sua stessa radice, nell’altra sua opera fondamentale, L’origine dell’uomo del 1871, Darwin è di una chiarezza e nettezza esemplare laddove rileva che «non vi è alcuna differenza fondamentale tra l’uomo e i mammiferi superiori», nemmeno «per quanto concerne le loro facoltà mentali»13. Mandando in frantumi qualsiasi scenario giusnaturalistico improntato ad una programmazione permanente e metafisica dell’umano, in funzione della quale si presuppone che l’uomo sia non solo una grande opera, ma anche latore e portatore di uno status morale superiore a quello di ogni altra creatura sulla terra, Darwin lo ha inserito in una natura della quale non solo non è più il culmine o il centro, ma una natura che non lo sostiene affatto consentendogli di rifedi J.C. GREENE, The Death of Adam. Evolution and its Impact on Western Thought (1959), tr. it. La morte di Adamo: l’evoluzionismo e la sua influenza sul pensiero occidentale, a cura di A. Pietroboni e L. Sosio, Milano 1976. 11 Ovviamente qui il richiamo e il riferimento è al celebre volume di J. MONOD, Le hazard et la nècessitè (1970), tr. it. Il caso e la necessità, a cura di A. Busi, Milano 19974. 12 J. RACHELS, Created from Animals (1990), tr. it. Creati dagli animali. Le implicazioni morali del darwinismo, a cura di P. Cavalieri, Milano 1996, p. 3. 13 C. DARWIN, The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex (1871), tr. it. L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, a cura di G. Montalenti, Roma 20035, p. 68.

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rirsi a una normatività già data in grado di orientarlo e dirigerlo nell’azione che egli dispiega per costruire la sua identità. Sotto i colpi di un paradigma che si perde, l’identità stessa dell’uomo, l’esser-uomo-dell’uomo, non è un dato a-temporalmente ereditato ed ereditario, il portato di «una natura» quale progetto stazionario appunto, sulla quale, indipendentemente da ogni altra cosa, egli può contare. Al contrario, chiuso ogni orizzonte mitico, nel mentre, per dirla con l’efficacia di Morin, «la campana suona a morto per una teoria chiusa, frammentaria e semplicistica dell’uomo»14, la natura in cui Darwin ha collocato l’uomo, incombe su di lui quasi come un incubo. Essa, infatti, non più Giardino dell’Eden e non più luogo di disvelamento del lÒgoj divino, gli viene incontro con la scarsità delle sue risorse, offrendosi ad una popolazione di esseri più o meno simili a lui che devono essere affrontati o evitati se si vuole continuare a vivere. La vita che la natura elargisce all’uomo è lotta e quel che nella lotta è in gioco è la vita stessa. E qui la scissione tra essere e dover essere è netta ed incolmabile. Lo snodo, anche per quel che attiene lo sviluppo a venire delle scienze della natura, è dirimente: Whitehead, nelle celebri Conferenze Tarner tenute al Trinity College nel 1919, ne ha distillato tutto il senso intrinseco quando ha rilevato che: «la natura, in quanto manifestata nella percezione, sta a sé di contro alla sensazione, oltre ad essere a sé di contro al pensiero. Si può anche esprimere questa autosufficienza della natura col dire che la natura è chiusa allo spirito. Questa estraneità della natura non comporta nessuna dottrina metafisica sulla separazione di natura e spirito. Significa soltanto che nella percezione sensoriale la natura si manifesta come un complesso di enti, le cui relazioni reciproche si possono esprimere in termini di pensiero senza riferirsi allo spirito, cioè senza riferirsi né alla sensazione, né al pensiero»15. E questo ne dice anche in maniera profonda, appunto, relativamente allo statuto epistemologico della scienza stessa: infatti, «se eli14

E. MORIN, Le paradigme perdu: la nature humaine (1973), tr. it. Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana, a cura di E. Bongioanni, Milano 20013, p. 191. 15 A.N. WHITEHEAD, The Concept of Nature (1920), tr. it. Il concetto di natura, a cura di M. Meyer, Torino 1948, p. 6.

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miniamo la metafisica e ritorniamo ad una visione spontanea e non pregiudicata della natura», quindi in maniera tale da «gettare nuova luce su molti concetti fondamentali che dominano la scienza e guidano il progresso della ricerca»16, avremo non solo che la natura stessa «appare come un sistema complesso i cui fattori riusciamo a discernere solo torbidamente», ma anche esplicitato l’assunto in ordine al quale «il compito della scienza sta nel cercare le spiegazioni più semplici dei fatti complessi». Pur tuttavia sarebbe «facile cadere nell’errore di credere che i fatti stessi siano semplici, poiché la semplicità è la meta della nostra ricerca». Ragion per cui «il motto di ogni filosofo della natura dovrebbe essere: “Cerca la semplicità e diffida di essa”»17. Per tornare, però, più da presso all’ente uomo quale ente in un complesso di enti, è possibile costatare che, sicuramente, un dato centrale nell’ambito della impostazione darwiniana risiede in quell’insopprimibile elemento della fisicità in ragione del quale l’essere umano può venir accomunato ad ogni altro ente che sia dotato di vita e, al contempo, costituito di materia. Il problema, quindi, così come se lo è posto Darwin – ed è questo che, come si vedrà, getterà le basi strutturali anche per una certa antropologia contemporanea –, è stato quello relativo alla comprensione dell’uomo sì come un ente tra gli enti ma, tuttavia, anche con un suo peculiare posto nel mondo, come vero e proprio corpo immerso nello spazio-ambiente. Sicuramente, infatti, uno dei nodi centrali affrontati nel già richiamato L’origine dell’uomo concerne proprio l’«integrazione» delle tradizionali definizioni dell’uomo come animale razionale e sociale, con il riconoscimento della centralità del corpo, della sua assoluta imprescindibilità conformemente al «processo di umanizzazione» del progenitore estinto simile ad una scimmia in ordine, anche e soprattutto, alla sua collocazione nello spazio-ambiente. Se si accetta che l’evoluzione per selezione naturale è il meccanismo, risolutivo, con cui gli organismi, e quindi anche l’uomo, acquistano le loro precipue caratteristiche, la plausibile più che inoppugnabile18 ricostruzione di Darwin, che si realizza a partire da una 16

Ivi, p. 23. Ivi, p. 146. 18 Sul condizionale d’obbligo da utilizzare relativamente alla transizione al17

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successione di transizioni rafforzate da una successione di vantaggi, vede, giocoforza, il corpo come vera e propria superficie, interna ed esterna, in cui hanno principalmente sede il mutamento ed il relativo adattamento. Non essendo più l’oggetto di una particolare creazione ma, come tutte le specie animali, soggetto alla legge biologica dell’evoluzione, l’uomo, il corpo dell’uomo, non è più sede di doni originari, bensì le sue caratteristiche sono dei veri e propri «risultati raggiunti» nella transizione all’uomo. Anzi, essendo l’uomo «soggetto a una grande variabilità: due individui della stessa razza – infatti – non sono mai del tutto simili, milioni di volti, paragonati tra loro, saranno sempre diversi»19, e le cause di questa variabilità «sono in qualche modo», «come negli animali inferiori», «in rapporto con le condizioni cui ciascuna specie è stata esposta nel corso di molteplici generazioni»20, Darwin ne conclude, da un lato, che «nell’uomo, come negli animali inferiori, molte strutture sono così intimamente collegate, che, quando una parte cambia, l’altra fa altrettanto, senza che noi siamo in grado, nella maggior parte dei casi, di darne alcuna ragione»21; dall’altro, e più complessivamente, «che l’uomo varia nel corpo e nella mente» e tali «variazioni sono determinate sia direttamente che indirettamente dalle stesse cause che obbediscono alle medesime leggi generali degli animali inferiori»22. Pur tuttavia, l’uomo è sempre stato, anche allo stato più arretrato, l’animale più potente che sia mai apparso sulla terra, e questo in ragione sia delle proprie facoltà mentali, sia della sua stessa struttura fisica23, per cui – e la ipotesi risultante di Darwin contempla tutte queste considerazioni preliminari –, «non appena un antico membro della grande serie dei primati fu indotto a vivere meno sugli alberi a causa di un mutamento nel suo modo di procurarsi i mezzi per vivere o per qualche cambiamento nelle condizioni ambientali, il suo abituale modo di procedere deve essersi modificato: e così deve esl’uomo supposta e costruita da Darwin, cfr. J. RACHELS, Creati dagli animali, cit., pp. 67-69. 19 C. DARWIN, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, cit., p. 41. 20 Ivi, p. 42. 21 Ivi, p. 52 [corsivo mio]. 22 Ivi, p. 55 [corsivo mio]. 23 Cfr. ivi, p. 56.

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sere divenuto più specificamente quadrumane o bipede. [...] Solo l’uomo è divenuto un bipede e credo che si possa almeno in parte comprendere come egli sia giunto ad assumere la posizione eretta la quale costituisce uno dei suoi caratteri più cospicui. L’uomo non potrebbe aver raggiunto la sua attuale posizione di dominio nel mondo senza l’uso delle mani che sono così meravigliosamente adatte ad agire secondo il suo volere. [...] Ma le mani e le braccia difficilmente si sarebbero perfezionate tanto da costruire strumenti o da scagliare pietre e lance con una mira precisa fino a quando fossero usate abitualmente per la locomozione e per reggere il peso del corpo. [...] Tale rozzo uso avrebbe anche attutito il senso del tatto, su cui si basa largamente il loro delicato uso. Solo da queste cause sarebbe derivato un vantaggio per l’uomo a divenire un bipede; ma per molte azioni è indispensabile che le braccia e l’intera parte superiore del corpo siano libere; e a questo fine deve stare fermo sui piedi. Per raggiungere questo grande vantaggio, i piedi sono divenuti piatti e il primo dito si è sostanzialmente modificato, sebbene ciò abbia causato la quasi completa perdita del suo potere prensile»24. Inoltre, «mano a mano che i progenitori dell’uomo andavano sempre più assumendo la posizione eretta, con le mani e le braccia sempre più modificate in modo da divenire adatte ad afferrare e ad altri scopi, con i piedi e la mani trasformati nello stesso tempo come ferma base e mezzo di locomozione, dovevano divenire necessari altri infiniti mutamenti di struttura»25. E se «è molto difficile decidere quanto queste modificazioni correlate siano il risultato della selezione naturale e quanto degli effetti ereditari dell’aumento dell’uso di certe parti o dell’azione di una parte sull’altra», «nessun dubbio che questi strumenti di mutamento spesso cooperino» attestando «che certe azioni si compiono e devono essere utili»26, vantaggiose e persino decisive per il «successo» dell’uomo «nella battaglia per la vita»27. Ora, non c’è dubbio che, e proprio sulla scorta delle disingannanti e disincantanti acquisizioni darwiniane, per certa e più che si24

Ivi, p. 58 [corsivo mio]. Ivi, p. 59 [corsivo mio]. 26 Ivi [corsivo mio]. 27 Ivi, p. 58 [corsivo mio]. 25

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gnificativa antropologia filosofica del XX secolo – basti solo accennare al padre fondatore, ovvero Max Scheler, preoccupato di comprendere l’«enigma» uomo a partire proprio dai dati esibiti dalle scienze naturali28, e persino ad Oswald Spengler, per il quale «l’uomo è un animale da preda» e «rappresenta la più estrema indipendenza del microcosmo dal macrocosmo, ma contemporaneamente l’estrema dipendenza»29, per non parlare di Helmuth Plessner30 –, l’essere umano sia il composito ed eterogeneo insieme di corpo, azione, esperienza, formazione e cultura. E se, legittimamente, andrebbero fatte delle precisazioni e degli ulteriori distinguo in ragione del pluriverso offerto dal ’900, è possibile individuare una linea piuttosto precisa che, introiettate anche le notevoli acquisizioni della più seria ricerca biologica ed etologica, in ordine alle quali, ad esempio, «il comportamento è adatto ai dati ambientali e che solo due processi ben definiti possono averlo così adattato: l’adattamento filogenetico e la modificazione adattiva»31, per cui l’uomo, in definitiva, sarebbe inoltre il «curioso» «“incastro” di meccanismi di comportamento filogeneticamente adattati e di meccanismi di comportamento individualmente modifi28

Cfr. M. SCHELER, Zur Idee des Menschen (1913), tr. it. Sull’idea dell’uomo, in: ID., La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di M.T. Pansera, Roma 1997. 29 O. SPENGLER, Der Mensch und die Technik: Beitrag zu einer Philosophie des Lebens, München 1931, p. 10. Su questa possibile tensione antropologico-filosofica in Spengler, sul fatto che qui sia possibile individuare e distillare alcune delle radici, per niente secondarie, della antropologia filosofica di Gehlen, si veda N. RUSSO, Uomo, Tecnica, Kultur. Antropologia e storia in Spengler e Gehlen, in: «Discipline filosofiche», XIII, 1, L’uomo, un progetto incompiuto, vol. I: Significato e attualità dell’antropologia filosofica, a cura di A. Gualandi, Macerata 2002, pp. 105-135. 30 Basti a questo proposito ricordare solo quanto Plessner annotava ancora nel 1964, e cioè che: «la tesi, divenuta popolare dopo Darwin, che l’uomo abbia avuto origine da alcune varietà di antropoidi non può più ormai essere messa in dubbio. Dopo l’età glaciale sono numerosi i resti di esemplari specificamente umani, che si possono già attribuire alle grandi razze oggi esistenti. I caratteri anatomici dello scheletro e i manufatti accanto ad essi sono testimonianze di indubbia eloquenza» (H. PLESSNER, Conditio Humana (1964), tr. it. La condizione umana, in: ID., I Propilei. Grande storia universale, vol. I, Milano 1967, p. 33). 31 K. LORENZ, Evolution and Modification of Behavior (1965), tr. it. Evoluzione e modificazione del comportamento, a cura di M. Zanforlin, Torino 1994, p. 109.

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cabili»32, arriva a ritenere che il corpo sia lo spazio-tempo della mente, ovvero quella dimensione che consente all’individuo, a ciascun individuo, di collocarsi in un punto preciso nell’irrefrenabile dirigersi e mutarsi della materia. Persino quando un pensatore come Günther Anders, dall’interno, ha tentato di espungere il problema sul «che cosa» e il «chi» dell’uomo, sottolineando l’«antiquatezza dell’“antropologia filosofica”»33 proponendo in alternativa una filosofia della tecnica, «più precisamente: un’antropologia filosofica nell’era della tecnica» in quanto «la tecnica è ormai diventata il soggetto della storia con la quale noi – esseri umani – siamo soltanto “costorici”»34, è costretto a transitare sia per l’«homo creator», sia per «quello, non meno inaudito, che può trasformare se stesso in materia prima, cioè l’homo materia»35. In altri termini, sebbene Anders abbia considerato ed ampiamente argomentato che «la domanda dell’antropologia filosofica sulla “natura dell’uomo”, domanda con la quale noi che oggi abbiamo ottant’anni siamo cresciuti (Scheler) e che io stesso ho ancora raccolto, naturalmente per rifiutarla già radicalmente con la risposta: “la natura dell’uomo consiste in questo, che egli non ha alcuna natura”, questa domanda potrebbe un giorno, allorché l’uomo venisse usato ad libitum come materia prima, diventare completamente assurda. Come siamo stati ingenui quando abbiamo visto in una teoria dell’evoluzione la 32

Ivi, pp. 68-69. Mi sembra di poter dire che, nonostante le pur acute e serie critiche avanzabili all’«animale dei behavioristi», che «è sempre stato un animale virtuale, una specie di artefatto di laboratorio, o per meglio dire una macchina pronta a rispondere agli stimoli del mondo esterno, senza quella intraprendenza che rivendicheranno agli animali gli etologi» (G. CELLI, Konrad Lorenz: scienziato e guru della natura, Milano 1999, p. 26), la realtà dell’adattamento, cioè del processo che tende a modellare l’organismo al fine di renderlo più idoneo all’ambiente in vista della sopravvivenza, quando è separato dal pericolo della ricaduta «giusnaturalistica» nell’ambito dell’ontogenesi, sia non solo di attestata e comprovata validità, ma abbia, appunto, trovato riscontro anche in alcune declinazioni dell’antropologia contemporanea più consapevole. 33 G. ANDERS, Die Antiquiertheit des Menschen. II. Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution (1980), tr. it. L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, a cura di M.A. Mori, Torino 1992, p. 117. 34 Ivi, p. 3. 35 Ivi, p. 14.

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contrapposizione alla tesi biblica che l’uomo è a immagine e somiglianza di Dio! Com’è stato ingenuo e umano il darwinismo quando ha riposto “l’inumanità” solo nella preistoria dell’uomo, paragonato la manipolazione dei geni che potrebbero produrre l’inumano, attraverso la produzione di esseri che sarebbero le immagini perfette o copie di tipi desiderabili per motivi politici, economici o teorici»36, ha comunque, e significativamente, dovuto problematicamente concludere che un qualcosa come «la clonazione significa la distruzione della specie qua species», ma, «forse, la distruzione della specie uomo attraverso la produzione di nuovi tipi di specie»37. Sottotraccia c’è, comunque anche qui, la rivendicazione della centralità di quell’insieme composito ed eterogeneo qual è l’uomo, della in-attuale ri-attualizzazione di quell’antiquato che, necessariamente, implica il fatto che nessuna informazione dell’umano e sull’umano sarebbe possibile senza il concreto e reale presentificarsi e perpetuarsi dello spessore fisico dell’individuo. Di fatto, anche, la riproposizione di uno di quegli argomenti che nell’ambito della scienza moderna avevano via via assunto una loro specifica valenza, ovvero la sfera del corporeo, nella determinazione dell’antropologico, quale complessa e complessiva struttura di rinvii tra interno ed esterno in ragione della posizione, propria, dell’uomo nel mondo e, per certi versi, nella storia del mondo. Il sapere circa l’uomo nasce, in altri termini, dal corpo, dal bisogno di interazione con altro e altri da sé, con l’esterno: da qui è possibile derivare l’idea dell’uomo elaborata da Arnold Gehlen, in ordine alla quale l’«uomo è essere aperto al mondo», la cui «condizione» deve essere esaminata tramite le acquisizioni della antropologia (scientifica) inserita in una intelaiatura filosofica. E questo significa, appunto, stretto confronto con gli sviluppi delle scienze contemporanee, sociali in particolare, al fine di elaborare una vera e propria antropobiologia38, ovvero uno studio teso all’indagine delle strutture dell’uomo, fondato nella consapevolezza che la sua natura, la natura 36

Ivi, p. 8. Ibidem. 38 Cfr. A. GEHLEN, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940), tr. it. L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, a cura di C. Mainoldi, Milano 1990, p. 109. 37

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dell’uomo è artificio. Ma una tipologia di studio che, fatto altresì proprio l’assunto in funzione del quale è anche dalla corporeità che nasce ogni cultura – cioè un’autentica «“seconda natura” – vale a dire: la natura umana, dall’uomo elaborata autonomamente, entro la quale egli può solo vivere; e la cultura “innaturale” è il prodotto di un essere unico al mondo, lui stesso “innaturale”, costruito cioè in contrapposizione all’animale»39 –, considera il corpo stesso come dinamico, come azione ed esperienza. La variegata e multiforme costellazione di risposte di assestamento e adattamento – ovvero la realizzazione progressiva di un ambiente culturale –, dipende dalla capacità dell’uomo di servirsi del principio dell’esonero, ovvero di instaurare abitudini comportamentali che esonerino dal fare, in maniera continuata, scelte necessarie agli stimoli, allo scopo, infine, di liberare energie per «prestazioni superiori»40. «L’azione umana, eseguita coscientemente – infatti – è, in quanto esecuzione, nel suo processo reale, una unità del tutto speciale in quanto preproblematica e del tutto inscindibile secondo l’esperienza»41. Su questo schema piuttosto solido costruito da Gehlen si innestano le sue elaborazioni più strettamente relative alla peculiarità morfologica dell’uomo e la teoria dell’evoluzione, in ordine alle quali, in prima battuta, l’uomo si caratterizza per la sua mancanza di organi specializzati, cioè di organi particolarmente adatti ad un determinato tipo di compito e di ambiente. Contrariamente, quindi, alle più aggiornate teorie sull’evoluzione naturale, per le quali tutti gli or39

Ivi, p. 64. A tal proposito Gehlen così si esprime: «tutte le funzioni superiori dell’uomo, in ogni campo della vita intellettuale e morale, ma anche in quello dell’affinamento motorio e operativo, sono [...] sviluppate grazie al fatto che il costituirsi di stabili e basilari abitudini di fondo esonera l’energia in esse originariamente impiegata per le motivazioni, i tentativi, il controllo, liberandola per prestazioni di specie superiore» (ID., Anthropologische Forschung. Zur Selbstbegegnung und Selbstentdecklung des Menschen (1961), tr. it. Prospettive antropologiche: per l’incontro con se stesso e la scoperta di sé da parte dell’uomo, a cura di S. Cremaschi, Bologna 1987, p. 93). 41 ID., Philosophische Anthropologie und Handlungslehre (1953), tr. it. Antropologia filosofica e teoria dell’azione, a cura di G. Auletta e E. Mazzarella, Napoli 1990, p. 105. 40

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ganismi viventi dovrebbero raggiungere livelli sempre più alti di specializzazione organica per utilizzare al meglio le possibilità dell’ambiente in cui si trovano collocate, Gehlen ritiene che l’uomo, «dal punto di vista morfologico, [...] non abbia specializzazioni», anzi, «egli è di una sprovvedutezza biologica unica»42. Pur tuttavia – e qui il circolo teorico imbastito tende a far ritorno verso uno dei punti dai quali eravamo pur partiti, cioè la elaborazione di una sfera culturale quale artificio e trasfigurazione dell’ambito naturale da parte dell’uomo per colmare qualsiasi lacuna adattiva –, l’uomo è comunque in grado di rivalersi di «queste carenze [...] grazie alla sua capacità di lavoro, ovvero alle sue doti per l’azione, grazie cioè alle mani e all’intelligenza; proprio per questo, egli è eretto, “circospetto osservatore”, con le mani libere»43. Si potrebbe dire, allora e in ultima istanza, che l’uomo di Gehlen è, anche dal punto di vista del corpo, di un corpo disincantato pure in questo caso, il portato adattivo dell’intreccio fra due immagini «classiche» relative all’umano: l’homo faber e l’homo sapiens. Pur tuttavia, nonostante importanti acquisizioni concettuali di grande spessore, come s’è provato a dire, non è possibile non costatare come, anche nel ‘900, o forse soprattutto nel ‘900, ben mascherata, abbia resistito una certa qual tensione giusnaturalistica e consolatrice. Se già e proprio in Gehlen, con la sua antropobiologia, è sospetta la stessa nozione di struttura dell’uomo, il rischio di un giusnaturalismo ritornante è insito in quelle filosofie che hanno fatto del sapere circa l’essere il loro oggetto precipuo di ricerca, varando una sorta di giusnaturalismo ontologico (o ontologismo giusnaturalistico) che affascina, non solo per il suo polemico riferirsi alla tecnica (e quindi alla scienza), ma anche e soprattutto perché nello spaesamento della instabilità del fondamento, comunque apre all’eventualità di confortanti ancoramenti alla necessitazione. Per certi versi è il caso di Heidegger, la cui domanda sulla tecnica è comunque una messa in questione del nostro rapportarci alla modernità, alle sue istanze e richieste di vivibilità, appunto, tecnica e tecnologica. Nella conferenza del ’53 su La questione della tecnica, 42 43

ID.,

Prospettive antropologiche, cit., p. 60. Ibidem.

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infatti, il pensatore tedesco, rilevando che «tecnica [...] non è semplicemente un mezzo. La tecnica è un modo del disvelamento [das Entbergen; ¢l»qeia]»44, ovvero «la tecnica dispiega il suo essere nell’ambito in cui accadono disvelare e disvelatezza [...] dove accade la verità»45, offre una interpretazione della stessa come destino. Come quel destino che concernendo l’esistente che soggiorna alla luce dell’essere, e tale da indurlo a non avere altro atteggiamento che lasciar essere l’essere stesso, in uno stato di Gelassenheit, spinge in direzione di un vero e proprio naufragio dell’esserci nella dimensione di un’ontologia del neutro e dell’anonimo, dove non solo non c’è spazio per l’altro uomo (e quindi per l’etica), ma in cui lo stesso movimento di necessitazione dell’essere induce ad «un dir sì all’uso inevitabile dei prodotti della tecnica e nello stesso tempo dir loro di no»46, cioè, e in altri termini, ad un sostanziale e teoreticistico rifiuto della stessa per appaiarsi all’essere originario. In maniera decisamente più esplicita, il confortante ancoramento alla necessitazione di marca ontologica, trova con Hans Jonas una sua precisa – e per certi versi più insidiosa, perché più seducente – sistematizzazione. Il suo progetto speculativo, infatti, facendo perno su una dottrina del dover-essere che, pur oltrepassando il pensiero dell’essere, si fondi pur sempre su quest’ultimo, ha rimesso mano all’ideale di una fondazione metafisica dell’etica. La costatazione di partenza di Jonas, ciò che logicamente sta alla base del suo discorso, che è in fondo «un’interpretazione “ontologica” di fenomeni biologici»47 in vista di un progetto etico, è l’assunzione della paura di una imminente catastrofe tecnologica, frutto del44

M. HEIDEGGER, Die Frage nach der Technik (1954), tr. it. La questione della tecnica, in: ID., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano 1976, pp. 527, in particolar modo citata, p. 9. 45 Ivi, p. 10. 46 ID., Gelassenheit (1959), tr. it. L’abbandono, a cura di A. Fabris e C. Angelino, Genova 1989, p. 38. 47 H. JONAS, Das Prinzip Leben. Ansätze zu einer philosophischen Biologie (1994), tr. it. Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, a cura di P. Becchi, Torino 1999, p. 3. Sullo strutturarsi di questi nessi nell’ambito del percorso filosofico jonasiano, si veda N. RUSSO, La biologia filosofica di Hans Jonas, Napoli 2004, in special guisa la Prima Sezione: La biologia filosofica: dall’organismo all’uomo, pp. 25-128.

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la deriva del sogno baconiano-faustiano di un dominio illimitato sul mondo, deriva che avrebbe prodotto, che ha prodotto una situazione in cui l’uomo è diventato per la natura più pericoloso di quanto la natura stessa sia mai stata per lui. Infatti, in virtù degli stupefacenti risultati conseguiti nel dominio dell’ambiente, la nostra specie ha finito per dissolvere quello che sino al secolo scorso sembrava «un dato originario ed indiscutibile», e cioè la possibilità stessa della «presenza dell’uomo nel mondo»48. Di fatto l’impresa prometeica – quella di rubare il fuoco agli dèi – l’impresa di quello che Jonas definisce «Prometeo irresistibilmente scatenato»49, e cioè l’uomo dell’odierna civiltà tecnologica, pone problemi cui non è più possibile rispondere con dottrine morali ispirate dal formalismo kantiano ad esempio: occorre saper prevedere gli influssi che le nostre azioni potranno avere sulle sorti future dell’umanità e dello stesso pianeta terra. In altri termini, provare ad assumere il più possibile questo mutato orizzonte temporale cui ha messo mano non più la tecnica, bensì il suo sviluppo ulteriore, la tecnologia, che non deve essere intesa semplicemente e letteralmente come «studio delle scienze applicate», bensì come quel plesso di imprese messe in opera dall’homo faber nell’epoca della tecnica e tali da considerare l’uomo stesso come uno degli oggetti della tecnica. Ma, allora, su quale principio è fondato l’incondizionato dovere di fare il possibile affinché la vita continui indefinitamente? È qui che Jonas ri-ancora l’etica alla metafisica, nel senso che nella sua impostazione è totalmente rifiutata quella che è la più grande acquisizione dell’etica a partire dall’epoca moderna: ovvero il divieto di passare, slittare dall’essere al dover-essere. In altri termini Jonas, dichiarando esplicitamente il primato dello scopo (cioè dell’essere) sull’assenza di scopi (cioè sul non-essere), ha affermato, in termini neo-aristotelici, ripropositivi dello schema potenza-atto, che «la natura custodisce dei valori in quanto custodisce degli scopi, ed è perciò tutt’altro che avalutativa»50. Riaffermazione, in ultima istanza, di 48 H. JONAS, Das Prinzip Verantwortung (1979), tr. it. Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P.P. Portinaro, Torino 1990, p. 5. 49 Ivi, p. XXVII. 50 Ivi, p. 97.

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un finalismo (ontologico), in ragione del quale vi è un dover-essere intrinseco all’essere, che implica in ultima battuta che la vita esige la conservazione della vita stessa. «Che per l’essere qualcosa conti, quantomeno se stesso, è la prima cosa che possiamo apprendere dalla presenza in esso degli scopi»51: ovvero se «il valore fondamentale dell’essere in quanto tale» è «nell’accettazione della sua differenza rispetto al non-essere», tanto che «il semplice fatto che l’essere non sia indifferente verso se stesso, fa della sua differenza rispetto al non-essere il valore fondamentale di tutti i valori, il primo sì in assoluto», se ne deduce un «giudizio morale» in conseguenza del quale è solo nell’«avere degli scopi» che «possiamo scorgere un bene-in-sé»52. Se il bene o ciò che vale è, cioè è «concettualmente definibile come quella cosa la cui possibilità include l’esigenza della sua realtà, diventando così un dover essere», ne segue che il dover essere dell’umanità risulta deducibile dall’idea dell’uomo. Per cui, prima di essere responsabile verso uomini (concreti), noi siamo assolutamente responsabili verso questa idea dell’uomo. In altri termini, poiché l’esistenza dell’umanità future risulta implicita nell’essenza ideale dell’uomo, è proprio questa idea, questo ideale dell’uomo che va salvato, ancor prima dei singoli individui carne e sangue. Il primo principio di un’etica del futuro non è insito nell’etica stessa in quanto dottrina dell’azione, bensì nella metafisica in quanto dottrina dell’essere, ontologia. Non a caso da qui, da questo impianto, l’assunzione di un imperativo categorico ontologicamente fondato, in virtù del quale se «la prima regola per la rivendicazione dell’essere-così è ricavabile dall’imperativo dell’esser-ci»53, la responsabilità (ontologica) è verso un’idea dell’uomo che continui ad essere così com’è. [III]. La posizione dell’umano Come appare piuttosto evidente dall’impostazione jonasiana che, per più di un aspetto, è possibile definire come una mitocrazia 51

Ivi, p. 103. Ivi, p. 102. 53 Ivi, p. 54. 52

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della tecnica rovesciata di segno, una mitocrazia a sfondo giusnaturalistico-ontologico, non solo si corre il rischio di un riflusso nei gorghi della filosofia della storia ma, ancor di più, si procede in direzione del misconoscimento del dato che la rivoluzione epistemologica del moderno, rimodulata da Darwin, aveva oramai acquisito: che l’essere effettivo dell’uomo è sempre in costruzione e da costruire. Che non c’è un umano stazionario metafisico, perché non c’è essere stazionario. Tutt’al più ci sono stazioni, tappe dell’umano, di volta in volta da saper leggere e reinterpretare in direzione, appunto, della tappa successiva. Se, come è stato asciuttamente ed acutamente rilevato, «l’uomo di natura, il Naturmensch, non esiste», ragion per cui «è ora che [...] lo studioso dell’Uomo possa dire “hypotheses non fingo”»54, siamo giocoforza costretti, proprio rispetto all’ente uomo, ovvero rispetto a quell’ente particolare progressivamente asfissiato dalla sua irriscattabile finitudine, dalla tragica consapevolezza del suo essere temporalità a termine, a stabilire un punto di non ritorno. Di fronte anche alle più avvedute e persuasive acquisizioni della scienza moderna e contemporanea, che di fatto tendono a vincolare il «naturale» dell’uomo sempre più alla sua sostanziale e sola necessità di soddisfazione di bisogni per continuare ad essere, non è più possibile far finta di niente e reinsediarsi, sotto i colpi di un’ipertrofica e quanto mai sconfessata superiorità (auto)fondante, in uno spazio di autoconsiderazione dell’umano astorica ed acritica. Qui il problema non è neanche di etichettatura, per cui potrebbe essere sufficiente nascondersi dietro la dicitura di post-umano per aggirare la questione. Il problema non è nel, o il, post-umano: se viene superata una certa idea storica dell’umano, il «dopo» in cui si accede è un’altra idea dell’umano, fondata certamente su basi diverse, ma senza l’implicazione dell’«oltre». Quel che è superata è un’accezione specifica: sotto questo profilo, se per «umano» s’intende questo determinato significato – cioè quello dato da una certa tradizione di pensiero metafisico, storicamente individuabile nelle sue pur dissimili articolazioni – tutto può essere considerato post-umano. Il problema, 54

B. MALINOWSKI, Crime and Custom in Savage Society (1926), tr. it. Diritto e costume nella società primitiva, a cura di A. Colajanni, Roma 19762, p. 155.

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quindi, che torna ad interessare, è quello sul chi e il cosa dell’uomo: il suo posto. Totalmente sganciato da qualsivoglia quadro valoriale di derivazione esterna, per quadri normativi auto-prodotti ed auto-imposti, di volta in volta, storicamente, l’uomo occupa un posto scomodo. Anzi, la sua posizione si connota come particolarmente scomoda e difficile. Una volta che è, quando cioè supera persino il bivio, plausibile ed ammissibile, del singolo non-essere-più, l’uomo è niente altro e niente di più che sforzo, fatica d’essere ancora. Ed è qui che l’affanno ad essere ancora ricollega l’uomo alla sua animalità sebbene, come ha avuto modo di costatare Piovani in pagine di rara intensità e potenza speculativa del suo Oggettivazione etica e assenzialismo, la stessa animalità dell’uomo possa esser «messa lecitamente in dubbio perché manca delle qualità che fanno animale l’animale soddisfacendolo nelle sue previste, adeguate funzioni»55. L’essere umano, difatti, è «così poco dotato per la lotta per la sopravvivenza da poter essere guardato tipicamente come non fatto: l’animal infectum contraddice l’animalità, che è caratteristicamente compiuta negli istinti altamente perfezionati: l’animale, per dir così, vive essendone vissuto». L’uomo, invece, in mezzo a queste esistenze del tutto definite ed attrezzate nelle «loro funzionali adeguatezze», si presenta come non finito. «In mezzo a differenti efficienti, la sua deficienza è di una evidenza clamorosa». Anzi, egli è persino l’indigente per antonomasia. «In mezzo a viventi che, in vario modo, con meccanismi diversi, sono naturalmente dotati di mezzi più o meno idonei a lottare per la sopravvivenza nella prima paurosa selezione, l’uomo si ritrova naturalmente sprovveduto nella sua estrema debolezza»56. Essendo, quindi, il più arrischiante tra gli esseri viventi in ragione della carenza di specifici mezzi atti alla difesa, «l’uomo si caratterizza come il più impaurito dei viventi. Atterrito più d’ogni altro, conosce il terrore». Il suo sforzo, la sua fatica ad essere ancora, allora, passa per questa prima consapevolezza: il suo primo costituirsi, il suo 55

P. PIOVANI,

56

Ivi, p. 79.

Oggettivazione etica e assenzialismo, Napoli 1981, p. 78.

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primo formarsi ed il successivo r-esistere avviene sotto il peso, angosciante, di questa acquisizione. Nella disorientante situazione della «confusione informe di viventi e morenti» l’uomo ha tragica consapevolezza di essere il più vulnerabile al rischio della incombente inesistenza: la scoperta della morte è, quindi, «il primo atto di vita del soggetto umano, morente consapevole tra morenti inconsapevoli»57. Anzi, a voler essere ancora più espliciti, si potrebbe dire che è proprio l’«individuazione della morte» ciò che qualifica la comprensione che l’uomo ha di sé. «Dominato dal tremore, particolarmente inetto, costituzionalmente “malato”, l’uomo si sente de-forme tra formati meglio compiuti». Pur tuttavia, l’uomo «si salva dei-formando [...] la paura che lo terrorizza. Si sottrae alla sua dubbia o carente animalità liberandosene: nella lotta non rimane simile fra simili in una presunta affinità di natura che lo condannerebbe, ma ne evade ammettendo la sua dissimiglianza». «Incompiuto e imperfetto in natura, a rigore senza natura»58, l’uomo si vede obbligato a divenire sostanzialmente privo di compiuto essere, fondando «la propria umanità con una denaturalizzazione. Disadattato al vivere interanimale, belluino, non vi si adatta; lo trasforma». Egli, in altri termini, «fa dell’essere imperfetto il suo essere strutturale. Così fonda la disuguaglianza antropologica fondamentale. Così il più instabile dei viventi, si stabilisce. L’imperfezione originaria, accettata, riconosciuta, cambia segno»59. Ma se l’uomo diviene essendo privo di compiuto essere, cioè si stabilisce assumendo la sua difettività ontologica come struttura ontologica fondamentale, questa forma di consolidamento, allora, è davvero la messa in crisi e il conseguente superamento dell’ultimo bastione disponibile in direzione di una interpretazione metafisicamente fondata dell’umano. Se, infatti, «l’uomo come esistente diventa se stesso nel momento in cui si esaspera ed esalta il timore d’essere cancellato dall’esistenza. Si riconosce esistente conoscendosi nel rischio dell’inesi57

Ibidem. Ibidem. 59 Ivi, p. 80. 58

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stenza», ragion per cui può ben dirsi che «l’inesistenza è al principio del suo esistere»60, gli esistenti stessi «sono in quanto si fanno». Gli esistenti, in altri termini, non possono essere in quanto predeterminatamente sono, bensì «in quanto divengono e il loro divenire è un continuo difendersi dall’inesistenza, una continua assunzione di coscienza della precarietà combattuta. L’esistere è un corpo a corpo contro l’instabilità per ciò non può essere che divenendo»61. Il fondamento dell’esistere, quindi, è da rintracciare nella difettività, ragion per cui la struttura ontologica dell’essere umano «è letteralmente de-ontologica in quanto letteralmente deficitaria». L’essere, allora, «è deessenziale. Il suo essere è solo l’essere ideale: un essere nell’irrealizzabilità, nel permanente divenire. Se si realizzasse in idea, se coincidesse col paradigma inattingibile, esisterebbe come non può mai esistere. L’essere in idea è in quanto non sia. Ogni realtà è in quanto diviene, ma diviene solo in quanto non coincide con l’idea, la quale muove e promuove l’esistere, ma non può esistere che come rivelazione di mancanza»62. È questa la radice che ne dice del «chi» e «cosa» dell’umano: se è grazie al deficere che l’essere dell’uomo è, ovvero l’essere dà realtà all’essere dell’umano non perché è, ma perché non è, in definitiva «il suo essere è il suo non-essere», se ne può concludere che è proprio «quod deest me constituit»63. Quindi, è nel solco della de-ontologia che dev’essere collocato lo sforzo d’essere, la fatica del da-essere dell’uomo. Sebbene volente non volutosi, infatti, quantunque la sua struttura ontologica sia deficitaria, l’uomo continua, in questa tensione verso l’ideale, a voler continuare ad essere. Divenendo e facendosi, espandendosi letteralmente. Provando ad opacizzare il termine essere (essere), da un lato per le difficoltà che il linguaggio impone assoggettandoci a termini strutturati e costruiti sul sapere dell’essere, dall’altro per ricordarci che oramai siamo collocati in un orizzonte de-ontologico, deessenziale, orizzonte che, è bene sottolineare, non consente più salti all’indietro,

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60

Ivi, p. 88. Ivi, p. 125. 62 Ivi, pp. 129-130. 63 Ivi, p. 131. 61

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è possibile riconsiderare che il filo rosso che ne dice della posizione dell’umano è il persistere, è il per-existere nella forma (vivente). Indocile nel suo muoversi (per divenire) costante perché refrattario al suo essere originario, l’uomo si espande consapevolmente, volontariamente, in forma vivente: anzi il vivere per-existere dell’umano è proprio questa volontà, questo tentativo di riscatto dal suo essere. Appena comincia a volere, quando in sostanza si verifica il salto nell’esistenza, che è mobilità, essere in fieri, l’uomo non può che voler continuare ad essere: se accetta di esistere non può che voler-continuare-ad-essere, laddove questa volontà è lo sforzo, sfrenato, di perfezionare tale imperfezione fondativa. Tensione, che storicamente si determina, all’ideale essere su un impianto de-ontologico, l’essere stesso diviene scopo nel senso che non ho un’idea (metafisica) di legame, vincolo, bensì ideali di rimando, di problematico rinvio. Per cui l’essere resta scisso dal dover-essere, ovvero non immobilizza più a nessuno scopo intrinseco: ma lo scopo, di volta in volta, in funzione dell’ideale di rimando di turno, è da rifondare, rilegittimare e perseguire. Persino quando il dover-essere si ispira alla più nobile flessione di un agire a favore dell’umano, non è possibile eludere il transito per la consapevolezza de-ontologica, che implicando e imponendo le sabbie mobili di una nuova e provvisoria rifondazione in toto, apre alla possibilità residuale di un’etica situazionale precaria, perché appunto di volta in volta da legittimare e sottoporre all’accettazione d’altri. Il valore, non essendo più incasellato in una tavola iperuranica che si cala sulla realtà, è perché si fa valorando: e la valorazione, in tavole ogni volta da comporre, scomporre e ricomporre perché l’essere non si disvela necessitando, né è tanto meno necessitazione esso stesso, richiede, sotto questo angolo di visuale, persino un surplus etico. Una eccedenza che si sprigiona dall’ineluttabile bisogno normativo sotto la spinta del minaccioso ricadere nei gorghi dell’essere. Scoprendo e, quindi, essendo pienamente consapevole di non avere altra condizione se non l’essere costitutivo, l’uomo annaspa e si affatica per dar forma ad un agire che possa essere il massimo di condivisione, nella evidenza, assolutamente tragica come la sua condizione de-ontologica gli impone, che tale temporanea e vacillante stabili-

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tà può già domani non trovare più consenso. L’azione è soggetta alla continua variazione e correzione, perché è l’umano stesso ad essere incessantemente variabile. E l’uomo è variabile non solo perché, singolarmente preso, è minacciato dallo spazio della instabile finitezza del tempo che lo incalza. È variabile per sopravvenienti modificazioni fisiche, culturali, conoscitive, percettive: in fondo, al di là della ormai pur inequivocabile considerazione in ragione della quale il progredire dell’umano non necessariamente si risolve in una omogenea spinta verso cose migliori, mi sembra altrettanto chiaro che, al solo volgere un distratto sguardo alla plurimillenaria storia dell’avventura dell’umano, le antropologie filosofiche anche da venire non possano non considerare che la giostra che ha visto «le razze che stavano in disparte» prendere «improvvisamente posto nella corrente centrale degli avvenimenti: le scoperte tecniche» trasformare «il meccanismo della vita dell’umanità; un’arte primitiva a un tratto» avere «una fioritura che corrisponde nel modo più soddisfacente a una segreta aspirazione estetica; le grandi religioni, palpitanti ancora per lo spirito giovanile di crociata» spargere «sulle nazioni la pace del Cielo e la spada del Signore»64, sia in continuo movimento. L’assoluta e, a tratti, angosciante variabilità dell’umano, la cui unica condizione è quella del suo essere costitutivo, implica, allora, di considerare che la questione del «chi» e «cosa», del suo posto, non può che essere sempre aperta, ridefinendosi e riproporzionandosi ogni volta che il contesto, che l’essere umano stesso modifica per colmare l’imperfezione iniziale, lo richiede. E rimarrebbe tale, cioè aperta e costantemente rimodulantesi, persino laddove la cibernetica dovesse giungere a farci considerare non più così assurda, ma possibilità concreta, l’evenienza di rifondare l’agire, e quindi ripensare l’umano, al cospetto di altre sue forme e immagini solo apparentemente «inferiori», perché tecnicamente artificiali.

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A.N. WHITEHEAD,

La scienza ed il mondo moderno, cit., p. 19.

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Gianluca Giannini

«Il simulacro allungò una mano e la batté sulla mia spalla. “Penso che esista un legame fra noi, Louis. Voi e io abbiamo molto in comune”. “Lo so” dissi. “siamo simili”. Eravamo entrambi profondamente commossi»322.

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P.K. DICK,

L’androide Abramo Lincoln, cit., p. 219.

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Per una definizione di biotecnologia Joaquin Mutchinick

Considerazioni preliminari L’intento è chiaro fin dal titolo, e implicitamente lo sono anche i presupposti su cui poggia: uno è la convinzione che di una definizione di biotecnologia non si dovrebbe fare a meno; un altro è che tale definizione non esiste o è inadeguata, per cui se ne tenta una. Eppure vediamo subito che il secondo di questi presupposti pare se non altro discutibile: una definizione di biotecnologia di fatto esiste, basta sfogliare le pagine iniziali di un qualsiasi manuale che si occupi dell’argomento per trovarla. Essa suona sempre più o meno così: biotecnologia è «ogni tecnologia che utilizza organismi viventi (quali batteri, lieviti, cellule vegetali, cellule animali di organismi semplici o complessi) o loro componenti sub-cellulari purificati (organelli ed enzimi) al fine di ottenere quantità commerciali di prodotti utili, oppure per migliorare le caratteristiche di piante e animali, o ancora, per sviluppare microorganismi utili per specifici usi»1. Una

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G. POLI, Biotecnologie, principi e applicazioni dell’ingegneria genetica, Milano 1997, p. 3.

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Joaquin Mutchinick

definizione di biotecnologia esiste, sì; ma se fosse inadeguata? Non possiamo infatti non notare che in questa forma essa appare troppo generale rispetto a ciò che si presenta come una disciplina dalle conoscenze e tecniche ben determinate, osservazione che infatti ritroviamo anche nel testo appena citato: «una definizione così generale includerebbe ovviamente anche tecnologie produttive utilizzate da millenni, quali l’agricoltura, la zootecnia, lo sfruttamento delle attività fermentative dei microrganismi»2. Ci serve allora qualcosa come una definizione specifica di biotecnologia. Sentiamo a questo proposito cosa dicono gli addetti ai lavori: «Le biotecnologie possono essere definite come l’utilizzazione interdisciplinare, l’interconnessione, di un complesso notevole di discipline biologiche, chimiche, ingegneristiche, informatiche, microbiologiche, agronomiche, zootecniche, mediche, terapeutiche, farmaceutiche, industriali. Attraverso l’interazione di queste ricerche e delle conseguenti innovazioni tecnologiche, l’uomo adopera organismi viventi, cellule e relativi costituenti, anche opportunamente modificati, in settori produttivi (dall’agroalimentare all’industriale) per ricavarne, con metodi di produzione industriale, beni e servizi utili»3. Già rispetto all’altra, questa definizione ci sembra più adeguata: qui le biotecnologie costituiscono delle discipline – o meglio: un ambito interdisciplinare – reso possibile dall’interazione di specifici rami della scienza moderna e da precise innovazioni tecnologiche; inoltre il riferimento alla modalità industriale della produzione rende palese il fatto che qui gli organismi viventi si utilizzano in un modo totalmente sconosciuto agli antichi. Sembra dunque confermarsi il sospetto sulla validità del nostro presupposto: di biotecnologia esiste di fatto una definizione, ed essa non sembra affatto inadeguata. Ma domandiamo, cosa si intende qui con “inadeguata”? Che propone un’enumerazione di caratteristiche che non si trovano nel fenomeno da definire? Se questo fosse il senso da dare alla parola “inadeguata”, non potremmo certo dir ciò di 2

Ibidem. G. T. SCARASCIA MUGNOZZA, Introduzione alle agrobiotecnologie, in: Accademia nazionale dei Lincei, XXVI seminario sulla evoluzione biologica e i grandi problemi della biologia: le biotecnologie, Roma 2000, p. 99. 3

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una tale definizione; ma se intendiamo per “inadeguata” che ad essa manca qualcosa di essenziale, che essa lascia da parte un aspetto fondamentale di ciò che definisce? In tal caso le cose cambiano. Ovviamente, nel porre tale questione si è avanzata una tesi, che in negativo può essere formulata così: «la definizione di biotecnologia che vede questo nuovo ambito interdisciplinare apertosi più o meno negli ultimi cento anni unicamente come il risultato di un’interazione di ricerche e di conseguenti innovazioni tecnologiche manca di qualcosa di essenziale». In positivo proviamo a dire: «l’ambito interdisciplinare che siamo soliti indicare con la parola ‘biotecnologia’ diviene possibile solo quando le discipline che interagiscono tra di loro per costituirlo abbiano assunto un carattere ben determinato». Ancora più chiaramente: «La definizione corrente di biotecnologia è inadeguata perché delle discipline che vanno a costituirla menziona unicamente il loro interagire, tacendo però il carattere che esse devono aver prima assunto affinché l’interazione avvenga in un modo ‘già biotecnologico’». È infatti a ragione del loro essere “già biotecnologiche” che queste discipline portano in sé la possibilità di costituire l’ambito interdisciplinare denominato “biotecnologia”. Il filo conduttore Abbiamo dunque notato che la definizione di biotecnologia come ambito costituito dall’applicazione di specifiche conoscenze tecnico-scientifiche alla produzione di beni o servizi mediante l’impiego di «organismi viventi, cellule e relativi costituenti» è giusta, ma abbiamo anche osservato che essa non mette in evidenza il carattere per il quale queste conoscenze tecnico-scientifiche sarebbero per l’appunto delle discipline “già biotecnologiche”. Il che ci pone davanti a due compiti: in primo luogo mettere in luce ciò che fa sì che un insieme di conoscenze tecnico-scientifiche diventi una disciplina biotecnologica; e in secondo luogo proporre una definizione che consideri detto carattere. A tale scopo si è scelto una specie di filo conduttore, un fenomeno entro il quale il carattere delle discipline biotecnologiche potesse essere agevolmente individuato: questo filo conduttore è la fermentazione; si tratterà in pratica di vedere cosa ci permette di in-

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cludere oggi quella “pratica millenaria” tra le “operazioni biotecnologiche”4. Molto probabilmente le tecniche di fermentazione comparvero nel periodo neolitico, quando si cominciò ad avere un’agricoltura organizzata e una produzione più regolare di cereali fermentabili5. La parola deriva dal latino fervere: bollire; infatti in origine si compresero sotto questo nome solo certe reazioni speciali che avvengono in seno a masse liquide o solide con forte produzione di gas. Ad esempio il mosto d’uva, se si abbandona a sé, sviluppa bolle gassose che vanno facendosi sempre più frequenti fino a produrre un movimento simile all’ebollizione. Più tardi, durante il cosiddetto “periodo alchimistico” della chimica, troviamo il termine “fermento” o “fermentazione” usato per designare ogni sorta di alterazione della materia la cui causa non fosse conosciuta, come nel caso della saccarificazione del malto, dell’acetificazione del vino, e della coagulazione del latte, tutti fenomeni in cui non si osserva alcun sviluppo di gas6. L’organismo morente La prima notizia di ciò che possiamo considerare un’analisi chimica del processo di fermentazione la dobbiamo a Van Helmont, nato a Bruxelles nel 1577. Egli infatti, pur spiegando il tutto con poca chiarezza, riuscì a dimostrare che il gas sviluppato nella fermentazione del mosto, da lui definito gas vinorum, era identico a quello rilevabile in altri processi fermentativi e nell’effervescenza di taluni carbonati attaccati da acidi7. 4 La scelta metodologica di seguire lo sviluppo storico di diverse teorie sulla fermentazione finché una di esse non presenti in modo compiuto il carattere che la rende riconoscibile come una conoscenza tecnico-scientifica «già biotecnologica» potrà giustificare la propria validità ovviamente solo a partire dai propri esiti. 5 Cfr. AA.VV., Storia della tecnologia, a cura di C. Singer et alii, tr. it. di F. Caposio, Vol. 1, Torino 1961-1985, p. 279. 6 Cfr. R. GUARESCHI, Fermentazioni e fermenti, Milano 1910, pp. 1-5. 7 Cfr. E. MEYER, Storia della chimica, dai tempi più remoti fino ad oggi, tr. it. di I. Guareschi, Milano 1915, p. 86. La “poca chiarezza” di Van Helmont, un apprezzamento dello stesso Meyer, è imputabile al carattere “animistico” della spiegazione, tanto consona del resto con il periodo alchimistico e iatrochimico; vedi ad esempio la definizione di fermentazione data da Lémery nel 1684: «La

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La parte della storia che più ci interessa però, comincia nel 1680 con un mercante di stoffe e acutissimo osservatore. Leeuwenhoek, servendosi di uno strumento da lui costruito per contare i fili dei tessuti, poté per la prima volta vedere al microscopio quelli che oggi sappiamo essere “organismi viventi” agenti nella fermentazione, le cellule del lievito, che definì come minutissimi corpuscoli di forma globulare. Questa scoperta di fondamentale importanza permise a Georg Ernst Stahl di avanzare la prima teoria del fenomeno: fermentatio est motus intestinus cujus vis corporis, contundentia ad perfetionem ejusdem corporis vel propter mutationem in aliud8. In altre parole, il movimento interno del corpuscolo-fermento provocherebbe nelle materie fermentescibili uno stato di mobilità tale che, queste ultime, costituite da tante minute particelle unite labilmente da materiali di natura salina, oleosa o terrosa, sarebbero necessariamente scomposte e quindi riunite in nuovi raggruppamenti9. Qui dobbiamo però notare una cosa. Se il fermento in quanto corpuscolo non è inteso come un essere vivente, e dunque il suo movimento non è una funzione vitale, ha senso parlare di un “organismo vivente” agente nella fermentazione? Evidentemente no. Difatti Stahl non si sarebbe mai espresso in questi termini, e neanche il più famoso rielaboratore della sua teoria, Justus von Liebig. Ma la posizione di Liebig merita una considerazione più attenta: egli non nega che il fermento possa essere un “organismo vivente”. Essendo in pratica la sua teoria una risposta alle osservazioni di Cagniard de Latour10, egli è obbligato a fare i conti con il fatto che il fermentazione è una ebullizione causata da spiriti che, cercando una via d’uscita da qualche corpo e incontrando delle parti terrestri e grossolane che si oppongono al loro passagio, fanno gonfiare e rarefare la materia fino a quando essi si siano staccati. Ora, in questo distacco, gli spiriti dividono, assottigliano e separano i principi, rendendo così la materia di natura diversa da quella che era precedentemente» (cit. in: C. ZAMBONELLI, Microbiologia e biotecnologia dei vini, Bologna 1998, p. 1). 8 Cit. in: L. PASTEUR, Opere, tr. it. di O. Verona, Torino 1972, p. 152. 9 Cfr. R. GUARESCHI, Fermentazioni e fermenti, cit., pp. 8-15. 10 Nel 1836 Cagniard de Latour, in occasione di un concorso a premio bandito dall’Accademia delle scienze di Parigi, riconobbe nella sua memoria intitolata La Fermentation Vineuse che «il lievito è un ammasso di globuli suscettibili di riprodursi per gemmazione e non una sostanza semplicemente organica o chi-

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lievito di birra vive e si moltiplica. Solo che per lui non unicamente il lievito di birra è fermento nella fermentazione vinosa; lo è ogni sostanza organica azotata in via di decomposizione. Questa sostanza, satura di forze a causa della sua costituzione complessa, si decomporrebbe producendo un movimento vibratorio che si può «facilmente indurre in un corpo atto a riceverne l’impressione e che si trovi allo stato di quiete»11. Egli infatti dirà: «Non è perché è organizzato che il lievito di birra è attivo [...], è la porzione morta del lievito, che è in via di alterazione, che agisce sullo zucchero»12. È chiaro che la resistenza di questo grande scienziato ad attribuire la responsabilità della fermentazione ad un “organismo vivente” lo induce a trovarla in un organismo morente. Orbene, cosa possiamo trarre da questi pochi fatti appena esposti? Innanzi tutto vediamo emergere in tutta la sua portata la difficoltà riscontrata nella definizione di biotecnologia data inizialmente, quella che includeva le cosiddette “biotecnologie tradizionali”. Là avevamo definito la biotecnologia come «ogni tecnologia che utilizza organismi viventi»; ora vediamo che per l’uomo, la fermentazione non è da sempre un processo implicante “organismi viventi”. Questo ovviamente in nulla confuta la definizione generale; e cioè, pur non sapendolo, l’uomo primitivo (come anche quello del XVIII secolo) utilizzava “organismi viventi” ogni volta che disponeva le sostanze per la fermentazione. Inoltre, questa difficoltà ci suggerisce un’aggiunta da mica come si suppone» e che «molto probabilmente è per questo effetto della loro vegetazione che i globuli di lievito sviluppano acido carbonico dal liquido zuccherato e lo convertono in liquido spiritoso» (in: L. PASTEUR, Opere, cit., p. 222). 11 Cit. in: R. GUARESCHI, Fermentazioni e fermenti, cit., p. 17. In modo più chiaro, ecco un’altra citazione di Liebig: «Il lievito di birra e in generale tutte le sostanze animali e vegetali in putrefazione portano su altri corpi lo stato di decomposizione nel quale esse stesse si trovano; il movimento che, per la perturbazione dell’equilibrio, si imprime ai loro propri elementi ugualmente si comunica agli elementi dei corpi che si trovano in suo contatto» (in: L. PASTEUR, Opere, cit., p. 223). 12 Ivi, p. 19. Con il termine “organizzato”, secondo un uso impostosi all’epoca, si intende senz’altro “essere vivente”. Si ricorderà che la parola “organismo” fu coniata nel 1729 da Louis Bourguet proprio per indicare quella caratteristica comune a tutti gli esseri viventi (Cfr. L. BOURGUET, Lettres philosophiques, Amsterdam 1729, p. 6).

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fare alla definizione specifica (quella secondo cui biotecnologiche sarebbero quelle operazioni rese possibili solo dall’interazione di ricerche specifiche e da certe innovazioni tecnologiche) che possiamo esprimere in questi termini: l’ambito denominato “biotecnologia” non si può instaurare finché non si ha a che fare con un “organismo vivente”; finché non si fa della biotecnologia. Vale a dire, oltre l’interazione di ricerche specifiche e le innovazioni tecnologiche, è necessario che la biotecnologia, per essere tale, abbia davanti a sé un “organismo vivente”. Detto in una formula negativa: un’operazione non deve essere considerata biotecnologica finché non è progettata da una teoria che prevede effettivamente l’utilizzo di organismi viventi. Da quest’ultima considerazione, e in funzione di quanto detto fin qui, divengono anche prevedibili gli sviluppi che devono verificarsi nel fenomeno scelto come filo conduttore. Se è vero che esso è oggi una pratica biotecnologica, ciò vuol dire che nel frattempo ha acquisito quel carattere necessario che ci permette di includerlo tra queste pratiche, ossia l’essere un processo operato da un “organismo vivente”. Carattere necessario, ma come vedremo più avanti, non sufficiente. Una funzione vitale Dopo la pubblicazione della teoria di Liebig nel 1839, l’idea che la fermentazione fosse un movimento prodotto da sostanze in decomposizione si impose13. Vediamo cosa dice a proposito di questo Pasteur, uno dei grandi protagonisti del dibattito scientifico di quegli anni: «A mio avviso ecco soprattutto la causa del graduale successo che le idee di Liebig hanno conquistato tra i chimici. Da oltre 20 anni è stato scoperto un gran numero di fenomeni che si pongono al lato della fermentazione alcoolica propriamente detta e nei quali è sembrato impossibile riconoscere l’esistenza di particolari vegetazione crittogamiche, mentre in tutte si trovava nel corso dell’alterazione una sostanza che aveva avuto vita. Per esempio se si pone zucchero 13 C’erano naturalmente altri punti di vista, come ad esempio quello di Berzelius che sarà menzionato più avanti. Tuttavia, per esigenze di chiarezza e di sintesi, e principalmente perché l’obiettivo non è la ricostruzione dettagliata della storia della fermentazione, molti pareri non saranno presi in considerazione.

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disciolto addizionato di creta con una qualsiasi sostanza animale azotata, il caglio, il glutine, la fibrina, la gelatina, il presame, una membrana animale [...], si vede lo zucchero divenire poco a poco acido lattico. Ora queste materie animali sono di struttura, natura e forme molto diverse e l’effetto ultimo dello zucchero è il medesimo. Non c’è che una cosa che sembra essere simile in queste sostanze azotate ed è la loro graduale decomposizione»14. Ossia le osservazioni di Cagniard de Latour sulla gemmazione del lievito di birra erano state generalmente accettate, ma a suffragare l’idea che non fosse l’attività vitale di questo a provocare la fermentazione, bensì la sua decomposizione, c’era il fatto che si avevano, oltre alla fermentazione alcoolica, molte altre fermentazioni in cui il lievito di birra non prendeva parte, mentre una qualunque sostanza azotata in decomposizione era invece sempre presente. Se ora aggiungiamo a quanto appena detto che Pasteur era già intimamente persuaso della vitalità degli agenti della fermentazione, diventa facilmente comprensibile perché si impegnasse a cercare i corrispondenti “lieviti” attivi nella fermentazione lattica15. In questo modo infatti intendeva, in primo luogo, invalidare la teoria che vedeva la causa della fermentazione nel movimento trasmesso dalla materia azotata in decomposizione, e in secondo luogo, allargare anche ad altri processi fermentativi l’idea che responsabile ne fosse un corpo organizzato. In uno scritto del 1857 dal titolo Mémoire sur la fermentation appellée lactique, Pasteur comincia dichiarando: «Mi propongo quindi di stabilire che come esiste un fermento alcoolico, il lievito di birra, che si trova dappertutto ove è dello zucchero che si trasforma in alcool e in acido carbonico, ugualmente esiste un fermento particolare, un lievito lattico, sempre presente quando lo zucchero diviene acido lattico e che, se tutte le sostanze plastiche azotate possono trasformare lo zucchero in questo acido, è perché esse forniscono a questo fermento un conveniente alimento»16. 14

Opere, cit., p. 225. Ho usato la parola “lieviti” perché è quella adoperata da Pasteur; oggi si sa che in realtà i responsabili della fermentazione lattica sono diversi batteri, in particolare della famiglia delle lattobacillacee. 16 L. PASTEUR, Opere, cit., p. 167. 15

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Si vede dunque qual è il cambio di ottica che qui si propone: prima, nella teoria di Liebig, la trasformazione dello zucchero in acido lattico a partire dall’acqua zuccherata e una qualsiasi sostanza azotata veniva spiegata come una scomposizione della molecola di zucchero a causa dei movimenti comunicati dal corpo azotato in putrefazione; ora, nella convinzione di Pasteur, il corpo azotato è il nutrimento di un terzo elemento, di cui sino ad allora non si era ancora congetturata l’esistenza. «Se si esamina con attenzione una fermentazione lattica ordinaria, vi sono dei casi nei quali si possono riconoscere, al di sotto del deposito della creta e della sostanza azotata, dei punti di una sostanza grigia formante talvolta una zona alla superficie del deposito [...]: il suo esame al microscopio non consente, se non si è prevenuti, di distinguerla dal caglio, dal glutine disgregato ecc., così è che nulla indica se questa è una materia speciale, né se essa ha preso origine durante la fermentazione [...]. Infine questa materia è così confusa, molto spesso, con la massa del caglio e della creta da non credere alla sua esistenza. È essa, tuttavia, che esercita il principale ruolo»17. L’esperimento con cui Pasteur si prefigge di isolare questa sostanza è di una semplicità notevole. In alcuni litri di acqua mette insieme 50-100 grammi di zucchero per litro, i principi solubili del lievito di birra, della creta, e infine una traccia di quella sostanza grigia appena menzionata presa da una fermentazione lattica ordinaria18. 17

Ivi, p. 168. Alcune precisazioni: i principi solubili del lievito di birra di cui si parla sono materie azotate e minerali cedute dal lievito messo nell’acqua pura o zuccherata. Con questa soluzione Pasteur intende sostituire la presenza della “sostanza azotata” durante la fermentazione. Infatti, nella sua più tarda Memoire sur la fermentation alcoolique egli dirà che «il lievito porta lui stesso questi principi azotati e minerali immediatamente solubili, almeno parzialmente, sì che al momento in cui è aggiunto all’acqua zuccherata esso ha esattamente tutto ciò che gli abbisogna per vivere» (L. PASTEUR, Opere, cit., p. 247). Prego però di non confondere il lievito di birra della fermentazione alcoolica con il batterio della fermentazione lattica; il fatto che uno possa nutrirsi dei principi solubili dell’altro non è certo una casualità, ma si deve considerare che non sono questi principi l’alimento più conveniente ai batteri (cosa peraltro rilevata empiricamente dallo stesso Pasteur, in: Opere, cit., p. 240. A questo proposito cfr. anche C. ZAMBONELLI, Microbiologia e biotecnologia dei vini, cit, p. 20). La creta invece si aggiunge per 18

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«L’indomani una fermentazione viva e regolare si manifesta [...], una fermentazione lattica tra le meglio caratterizzate»19. Quando questa ha termine, Pasteur osserva la sostanza formata durante la fermentazione: essa «è un po’ vischiosa e di colore grigio. Al microscopio si presenta formata di piccoli globuli [...], molto più piccoli di quelli del lievito di birra»20; e soprattutto, essa ha la proprietà di acidificare ancora l’acqua zuccherata. Da questo esperimento Pasteur trae la seguente conclusione: nel “lievito” lattico troviamo tutti «i caratteri generali del lievito di birra, sostanze – l’una e l’altra – che hanno probabilmente un’organizzazione tale da fargli occupare in una classificazione naturale due generi vicini o due famiglie tra loro prossime»21. Abbiamo accennato che questo è vero solo da un punto di vista che possiamo dire operativo, ossia tutt’e due i microorganismi sono fermenti, mentre dal punto di vista strutturale e morfologico ci sono notevoli differenze fra la cellula dei batteri (procarioti) e le cellule dei lieviti (eucarioti). Ma l’aspetto più fecondo di questa conclusione, aspetto dal quale il lavoro di Pasteur trarrà i suoi maggiori sviluppi, è che il prodotto della fermentazione dipende dalla natura del fermento e del mezzo: «tutte le volte che un liquido albuminoso di conveniente natura contiene un corpo quale lo zucchero, può soggiacere a delle trasformazioni chimiche diverse e dipendenti dalla natura di questo o quel fermento»22. Questo principio lo porterà a scoprire il fermento dell’acido butirrico23; una scoperta di somma importanza che fornirà a Pasteur gli elemantenere la neutralità del mezzo, dato che l’acidità «frena molto la sua azione [del batterio] sullo zucchero» (L. PASTEUR, Opere, cit., p. 170). 19 Ivi, p. 168. 20 Ivi, p. 169. 21 Ivi, p. 170. 22 Ivi, p. 171. 23 Cfr. a questo riguardo la memoria intitolata Animalculi infusori viventi senza gas ossigeno libero e determinanti alcune fermentazioni, in: L. PASTEUR, Opere, cit., pp. 275-278. Già dalle prime righe si vede fino a che punto questo studio sia l’applicazione dei principi ottenuti negli esperimenti su ricordati della fermentazione lattica: «È noto quanto siano vari i prodotti che si formano nella fermentazione chiamata lattica. L’acido lattico, una gomma, la mannite, l’acido butirrico [...]. Io sono stato indotto poco a poco a riconoscere che il vegeto-fermento che trasforma lo zucchero in acido lattico è diverso da [...] quelli [...] che determinano la produzione della materia gommosa [...]. D’altra parte ho ugual-

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menti fondamentali della sua teoria della fermentazione. Il fermento butirrico in effetti presentava delle caratteristiche notevoli; per cominciare, esso era agli occhi di Pasteur un “infusore”24, ma la vera particolarità era «che questi animalculi infusori vivono e si moltiplicano all’infinito senza che sia necessario fornire loro la più piccola quantità d’aria o di ossigeno libero»25. Queste osservazioni, come dicevamo, e alcuni esperimenti decisivi sull’influenza dell’ossigeno nel lievito di birra su cui non ci soffermeremo, lo condurranno a formulare la sua famosa “teoria fisiologica della fermentazione”26. Essa recita: «A lato di tutti gli esseri conosciuti fino ad oggi e che, senza eccezioni (almeno lo si crede) non possono respirare e nutrirsi se non assimilando del gas ossigeno libero, vi sarebbe una classe di esseri la cui respirazione sarebbe abbastanza attiva perché essi possano vivere fuori dell’influenza dell’aria impossessandosi dell’ossigeno di certe combinazioni, donde risulterebbe per queste ultime una decomposizione lenta e progressiva. Questa seconda classe di esseri organizzati sarebbe costituita dai fermenti, del tutto paragonabili agli esseri della prima classe, viventi come essi, assimilanti a lor modo il carbonio, l’azoto e i fosfati, e come essi aventi bisogno di ossigeno, ma da questi differendo in quanto possono, in difetto di gas ossigeno libero, respirare con del gas ossigeno tolto a combinazioni poco stabili. Tali sono i fatti e la teoria che sembra esserne l’espressione naturale»27. mente riconosciuto che questi diversi vegeto-fermenti non potevano dar luogo in alcuna circostanza, se erano ben puri, all’acido butirrico. Vi doveva essere dunque un fermento butirrico specifico. È su questo punto che ho fermato da diverso tempo la mia attenzione». 24 Anche questa identificazione, come quella del “lievito” lattico, è oggi considerata errata. Il fermento butirrico è un batterio anaerobio, e non un protozoo. Questo sia detto unicamente per completezza, dato che è irrilevante per il discorso che stiamo svolgendo. 25 Ivi, p. 277. Nella memoria Esperienze e nuovi punti di vista sulla natura delle fermentazione aggiunge a proposito di questa scoperta: «vivere senza aria ed essere fermento sono due proprietà che li separano da tutti gli essere inferiori [...]. Il raffronto di questi fatti induce a domandarsi se non esista una relazione tra le proprietà di essere fermento e la facoltà di vivere senza l’intervento dell’aria» (L. PASTEUR, Opere, cit., p. 280). 26 Ivi, p. 550 [il corsivo è mio]. 27 Ivi, p. 284.

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Certo questa teoria – di cui una formula stringente potrebbe essere: “la fermentazione è la respirazione in assenza di aria” – oggi non può più ritenersi vera. Ma ciò non inficia la validità di quanto in essa è espresso, ossia il fatto che la fermentazione è tanto quanto la respirazione una funzione vitale28. Ed è questo che Pasteur riuscì a stabilire con i suoi esperimenti e a divulgare grazie alla sua grande popolarità. Ma quel che a noi interessa sapere, la ragione per cui seguiamo da vicino lo sviluppo delle diverse teorie fermentative, è quando il processo della fermentazione assume la forma di una “operazione biotecnologica”. Possiamo dire che diventa tale non appena teorizza l’utilizzo di organismi viventi? Abbiamo già detto che questo è necessario, ma non sufficiente: manca infatti ancora un ultimo passo. Ed è alla fine del XIX, precisamente nel 1897, che i fratelli Büchner lo compiono. La macchina chimica Al fine di ottenere un preparato terapeutico dalle cellule di lievito, Eduard e Hans Büchner triturarono una coltura di queste rompendone la parete cellulare. Ma dato che il “succo” così ottenuto subiva una rapida alterazione, essi credettero bene, per conservarlo, di aggiungere una soluzione zuccherina concentrata. Il risultato però, insospettabile, di questa operazione, fu la trasformazione dello zucchero in alcool ed anidride carbonica29. In tal modo i due fratelli giungevano accidentalmente alla scoperta che un estratto privo di cellule, ossia diventato acellulare dalla pressione meccanica, era ancora in grado di provocare la fermentazione. Ora, il valore di questo esperimento era duplice. Da un lato avrebbe posto definitivamente in primo piano una misteriosa famiglia di sostanze il cui ruolo fondamentale in questi processi si andava gradualmente sempre più affermando. La famiglia dei cosiddetti “cata28

Nella moderna microbiologia infatti, la respirazione e la fermentazione sono considerate due diversi processi esoergonici con cui il fermento soddisfa la sua necessità energetica. 29 Cfr. AA.VV., Enciclopedia internazionale di chimica, Vol. 4, Roma 1971, p. 578.

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lizzatori organici”; sostanze oggetto di intenso studio a partire dai lavori di Kirchhof30, e ribattezzate in seguito “enzimi”. Infatti il fenomeno scoperto dai fratelli Büchner fu attribuito all’esistenza nel lievito di un enzima particolare, la zimasi, capace da sola di operare tutto il processo31. Dall’altro lato, ed è questo ciò che a noi interessa principalmente, con la fermentazione dello zucchero ad opera di cellule morte si stabiliva la completa dissociazione tra funzione vitale e vita. L’esperimento dei Büchner, compiuto dopo che Pasteur aveva eliminato ogni dubbio sul fatto che la fermentazione implicasse una funzione vitale, significava, paradossalmente, che la cellula era capace di una funzione vitale pur essendo morta. Ma questo dato, davvero incomprensibile se espresso in termini “paradossali”, indica in realtà la possibilità di intendere la funzione vitale in termini esclusivamente chimici, cioè la possibilità, in linea di principio, di risolverla completamente in una determinata serie di reazioni chimiche. A questo punto ci toccherebbe ancora domandare se con questo ultimo suo sviluppo – la possibilità di intendere la funzione vitale come un fenomeno puramente chimico – il processo di fermentazione abbia definitivamente assunto la forma di un’operazione biotecnologica. Ma al posto di far ciò, vediamo direttamente come intendono questo stesso processo quelle discipline che formano oggi il corpus della biotecnologia, in particolare la biochimica e la biologia molecolare. Ciò ci permetterà di rilevare un’eventuale similitudine formale tra queste teorie e la spiegazione data dai Büchner. Per prima cosa notiamo che nell’ambito della biochimica il ter30 Fu infatti Kirchhoff per primo, e dopo di lui Payen e Persoz, a dimostrare che la trasformazione dell’amido in glucosio avveniva ugualmente, sia usando acidi diluiti a caldo, che un estratto di frumento (cfr. ivi, p. 579). Poi, nel 1835, il rinomato chimico svedese Jöns Jacob Berzelius denominò questo fenomeno “catalisi” e avanzò l’idea che esso fosse la chiave per spiegare il processo fermentativo. Egli dice al riguardo che «certi corpi hanno il potere, per il loro semplice contatto con altri, di svegliarne le attività assopite e determinare gli elementi delle sostanze composte a decomporsi in guisa che ne risulti una neutralizzazione più completa» (in: R. GUARESCHI, Fermentazioni e fermenti, cit., p. 20). 31 Dovevano passare circa cinquant’anni per accertare definitivamente che la zimasi non è un enzima singolo, bensì una complessa miscela di oltre una decina di enzimi diversi, ossia una lunga catena di reazioni chimiche ognuna delle quali procede soltanto in presenza dell’enzima specifico.

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mine fermentazione subisce un allargamento considerevole. Esso include qualsiasi processo metabolico in cui tanto i donatori che gli accettori di elettroni siano costituiti da composti organici32. Possiamo così osservare che pur comprendendo ora fenomeni prima considerati del tutto estranei, esso conserva tuttavia in questa sua nuova valenza quella caratteristica attribuitagli da Pasteur: ossia si tratta di un processo metabolico, di una funzione vitale. La biologia molecolare ci dice inoltre che questa attività metabolica ossido-riduttiva è operata da un tipo particolare di molecole, gli enzimi; sostanze non più appartenenti a una famiglia misteriosa, ma proteine di cui si conoscono bene i principi. Ma serviamoci di un esempio. Uno dei nomi più salienti della biologia moderna, Jacques Monod, descrive nel suo libro Il caso e la necessità33 il “sistema lattosio”. Questo sistema è in pratica la descrizione di una catena di interazioni stereospecifiche che permette al batterio Escherichia coli di utilizzare il lattosio come fonte di carbonio. L’interazione stereospecifica, concetto centrale di questo processo, è un’associazione non covalente tra molecole. Le principali caratteristiche di questo tipo di associazione, stereospecifica e non covalente, sono due: da un lato la facilità di dissociazione – l’energia che occorre per la rottura di un legame non covalente è molto debole se non addirittura nulla –; dall’altro la necessità di una complementarità sterica tra le due molecole che devono interagire, ciò che dà a questa associazione un alto potere discriminativo. Ora, è precisamente in termini di associazione stereospecifica non covalente che si spiega la capacità di un determinato enzima di “riconoscere” il lattosio e catalizzare l’idrolisi. Ma non solo. Anche il fenomeno per cui questo enzima particolare non viene sintetizzato dal batterio in una coltura in assenza di lattosio, ossia il fatto che l’organismo lo produca solo quando ne ha bisogno, si spiega in base a questo tipo di associazione stereospecifica34. 32

Cfr. AA.VV., Enciclopedia internazionale di chimica, cit., p. 813. J. MONOD, Il caso e la necessità, tr. it. di A. Busi, Milano 1997. 34 Infatti in presenza di lattosio o dei suoi derivati, una molecola si associa stereospecificamente con una proteina detta “repressore” in modo che quest’ultima non possa più associarsi stereospecificamente con un segmento di DNA detto “operatore”, rendendo in questo modo possibile la sintesi dell’enzima (in real33

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Questi pochi cenni rendono evidente ciò che la biologia molecolare ha in comune con la teoria della fermentazione dei Büchner: ambedue descrivono la funzione vitale come un processo puramente chimico. Ed è proprio questo carattere condiviso ciò che ci permette di riscontrare nella spiegazione dei Büchner, sebbene in un modo del tutto inconsapevole e germinale, quel punto di vista che contraddistingue le scienze biologiche moderne, e cioè, per dirla con Monod, «gli esseri viventi sono macchine chimiche per la cui crescita e moltiplicazione sono necessarie migliaia di reazioni chimiche»35; macchine nelle quali ogni prestazione o struttura «di qualunque tipo, è analizzabile in linea di principio in termini di interazioni stereospecifiche»36. Per esprimerci in una formula diremo che l’esperienza dei Büchner capovolse l’intuizione di Pasteur: quest’ultimo dimostrò che il processo chimico era il risultato di una funzione vitale – loro invece, dimostrarono che la funzione vitale era il risultato di un processo chimico. Considerazioni conclusive È apparsa dunque la caratteristica per cui la fermentazione ha assunto la forma di un’operazione biotecnologica? È questo carattere ciò che fa di una disciplina una disciplina “già biotecnologica”? Rispondiamo di sì: sembra appunto essere questa concezione dell’organismo vivente in quanto macchina chimica ciò che contraddistingue la biotecnologia come ambito tecnico-scientifico. Tutte le discipline tà sono più di una). Ad ogni modo, per una descrizione completa e chiara del processo rimando a J. MONOD, Il caso e la necessità, cit., pp. 70-75. Quel che qui mi preme sottolineare è la concezione della funzione vitale come un meccanismo chimico dove ogni “agente molecolare” (proteine, DNA, ecc.) risponde esclusivamente e necessariamente a fattori chimici. 35 Ivi, p. 45. 36 Ivi, p. 46. Così anche, ad esempio Lehninger nella sua Biochimica (A.L. LEHNINGER, Biochimica: le basi molecolari della struttura e della funzione cellulare, Bologna 1979, pp. 1-9), laddove afferma: «Gli organismi viventi sono composti da molecole prive di vita»; organismi le cui «cellule [...] possono funzionare come motori chimici in quanto possiedono gli enzimi [...], la cui grande specificità deriva da un importante assioma della logica molecolare della vita: La specificità delle interazioni molecolari nelle cellule è dovuta alla complementarietà di struttura delle molecole che interagiscono».

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che concorrono a costituire questo ambito hanno infatti già inteso l’organismo vivente come un’unità funzionale di reazioni chimiche. Possiamo dunque dire: l’interazione di diverse discipline è di fatto apertura dell’ambito biotecnologico quando l’insieme delle conoscenze tecnico-scientifiche che vengono applicate si rivolge al vivente come a una macchina la cui costruzione e il cui funzionamento coerente è assicurato da agenti molecolari. A questo punto si rende utile dare uno sguardo a quella tecnica biotecnologica di primissima importanza, appositamente trascurata fin qui: la tecnica del DNA ricombinante, più conosciuta con il nome di “ingegneria genetica”. Sarà solo dopo questa rapida visione d’insieme che potremo formulare finalmente una definizione di biotecnologia. Noi sappiamo che grazie alle tecniche del DNA ricombinante ci è dato di trasferire geni tra organismi che senza l’intervento dell’uomo non potrebbero scambiarsi materiale genetico. Così, con complicate operazioni di “taglio e cucito molecolare”37 che prevedono l’introduzione di un gene estraneo nel genoma di un organismo ricevente, si può ottenere, ad esempio, che un batterio sintetizzi l’insulina umana: questo fu infatti il primo caso di applicazione commerciale dell’ingegneria genetica. Ma la creazione di organismi transgenici per ricavare prodotti utili all’uomo non è il solo utilizzo delle tecniche di DNA ricombinante; si possono inoltre apportare modifiche ad un determinato organismo per renderlo più resistente a malattie e a specifici fattori ambientali; oppure è possibile provocare mutazioni a scopo puramente sperimentale in un modello su cui condurre ricerca biologica di base38. Incontestabilmente, queste tre applicazioni dell’ingegneria genetica ci pongono davanti ad un fatto che è in perfetta consonanza con la concezione dell’organismo indicata prima. In tutti e tre i casi l’organismo vivente – sia in quanto produttore di una sostanza che 37

G. POLI, Biotecnologie, principi e applicazioni dell’ingegneria genetica, cit., p. 13. 38 Questi sono gli utilizzi più significativi; ma si deve anche ricordare, per completezza, la produzione di «strumenti» (vettori, sonde, ecc.). A questo riguardo, cfr. F. GROS, Biologia molecolare e biotecnologie, la civiltà del gene, tr. it di R. De Carolis, a cura di S. Scannerini, Milano 1994.

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non è più un metabolita39 necessario per esso, sia in quanto «migliorato» rispetto a qualcosa e a qualcuno, sia in quanto materiale sperimentale –, in tutti e tre i casi, dicevamo, l’organismo vivente presenta una caratteristica essenziale della macchina: cioè è il risultato del progetto di un altro, è eterodeterminato. Ma per comprendere appieno la differenza che si dà a questo riguardo tra le tecniche di selezione tradizionali e l’ingegneria genetica – differenza che si presenta come un ampliamento e un perfezionamento delle possibilità di determinare in un organismo certe caratteristiche in vista di uno scopo – è necessario partire dalla concezione fondamentale della biotecnologia. Infatti la biologia moderna, in quanto descrizione della «promozione e realizzazione del progetto»40 dell’organismo in termini di interazioni chimiche specifiche, pone l’ingegneria genetica come un “sapere” in grado di raggirare questo progetto, di ingannarlo. Si può dire che la biotecnologia, con l’avvento dell’ingegneria genetica, non solo concepisce l’organismo vivente come macchina, ma che essa è in grado di “macchinare” intorno al suo “progetto”: con le tecniche del DNA ricombinante di fatto il “progetto” dell’organismo viene da altri riprogettato. Proviamo quindi a formulare la definizione che cercavamo: “biotecnologia” è l’ambito interdisciplinare in cui si utilizza l’organismo vivente quale macchina chimica; da questa concezione poi, deriva la possibilità di progettarlo: è infatti grazie all’intendere il metabolismo come una serie di processi chimici che la modificazione e la selezione delle reazioni che si devono verificare nell’organismo diventa possibile. Ora che abbiamo portato a termine i due compiti che ci eravamo proposti, ossia identificare il carattere comune delle conoscenze tecnico-scientifiche che interagiscono nella costituzione dell’ambito biotecnologico e quindi riformulare la definizione, possiamo fare un’ultima riflessione. Come presupposto principale del nostro tentativo abbiamo indicato la convinzione che di una definizione di biotecnologia non si dovrebbe fare a meno. È questo il momento di pre39 Cfr. J. MONOD, Il caso e la necessità, cit., p. 63. «Metabolita» è qualunque sostanza prodotta dal metabolismo. 40 Ivi, p. 76.

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cisare meglio detta convinzione. Essa può dirsi in questo modo: la biotecnologia, in quanto sviluppo fondamentale della scienza moderna, deve essere profondamente interrogata; così si vede in che modo la definizione è necessaria: unicamente come prodotto e mezzo dell’indagine. Dunque, domandiamo, cosa ci ha detto la definizione da noi trovata? Ci ha detto che nella biotecnologia non si dà niente di radicalmente nuovo; che essa non è che l’estrema conseguenza di un atteggiamento già riscontrabile negli studi degli anatomisti del XVI secolo41 e poi portato da Cartesio a programma scientifico, ossia l’interpretazione delle funzioni vitali in base ad un modello meccanico; ma in questo modo essa ci ricorda anche quale è la parte giocata dall’organismo ogniqualvolta la biotecnologia prende la parola: esso è in tutto e per tutto macchina biologica.

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2001.

Si veda, ad esempio, A.

VESALIO,

De humani corporis fabrica, Torino

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Preambolo. L’Operaio (1932) di Ernst Jünger (1895-1998) conserva nella sua tesi fondamentale il movente della propria attualità: nell’età del dominio della tecnica moderna la vita in quanto tale assume la forma del lavoro. Se la realtà delineata ne L’Operaio ha i tratti dell’epopea fordista – routine, oggettivazione, formalizzazione, impersonalità –, Jünger tuttavia comprende già negli anni trenta del Novecento che la produzione è dotata di una tensione in grado di sconvolgere la fisionomia dell’universo-fabbrica. In altri termini, intravede all’opera nel processo di industrializzazione del mondo alcune schegge di quel cosmo magmatico di relazioni che oggi prende il nome, peraltro con una buona dose di approssimazione, di post-fordismo: il tempo in cui la vita indica una funzione del lavoro e perciò non sussisterebbe più alcuna dissociazione tra il prodotto del lavoro e il lavoratore (si assisterebbe, in sostanza, alla decomposizione tendenziale di qualsiasi procedimento di alienazione). Ne L’Operaio il lavoro è la maniera in cui la vita esiste. Accogliendo l’idea nietzscheana che la vita è il criterio gerarchico del reale, Jünger non la considera però una potenza motile e cangiante, ma un principio che incarna l’i-

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nalterabilità dell’essere nel complessivo movimento di accelerazione del mondo stimolato dall’energia sprigionata dalle macchine. Vivere, nell’età dell’espansione vorticosa della tecnica, significa lavorare (vuol dire produrre). Il lavoro diventa perpetuo: non instaura una mediazione con il mondo, ma costituisce il modo in cui il vivente è. Dunque, in questo senso, non è un’attività tecnica. Il titolo del primo capitolo della seconda parte de L’Operaio in ogni caso condensa la logica del nuovo orizzonte concepito dalla trasfigurazione meccanica del reale: Il lavoro come modo di vivere (Von der Arbeit als Lebensart). È l’aderenza strutturale tra la vita e il lavoro quindi la ragione per cui L’Operaio non è soltanto un sintomo iperbolico dell’età fordista, ma anche il segnalatore di un’altra costellazione problematica1. Con la propagazione della tecnica in qualsiasi aspetto dell’esistenza, la giornata lavorativa dura ventiquattro ore. Vivere o lavorare è lo stesso. L’uomo esiste lavorando; alimentando costantemente l’automatismo (il lavoro è l’insieme dell’esistenza). L’oggetto de L’Operaio, allora, non è la qualità sociale e/o economico-politica del lavoromerce, ma la frattura ontologica che si origina a partire dall’osmosi tecnologico-esistenziale tra l’uomo e la macchina e che fa della produzione la logica della vita. Per quanto l’operaio jüngeriano sia immerso in un paesaggio da officina, la sua figura non è quella di chi divide la propria esistenza tra la fabbrica e ciò che lo attende, oltre la fabbrica, in un altro emisfero esistenziale. Il nuovo tipo umano, il lavoratore totale, al contrario, riconosce l’officina ovunque. Allora, in questo orizzonte, non persiste più alcuna distinzione effettivamente percepibile tra una sfera pubblica e una sfera privata dell’esistenza. Anche il complesso mesmerico delle passioni umane, il fondo tradizionalmente più ostile alla messa in forma della comunità umana in 1 In un libro importante Marco Revelli considera giustamente strategico il pensiero di Jünger per orientarsi nello spirito del Novecento: il secolo della «colonizzazione di ogni mondo vitale»; ma forse sbaglia quando valuta L’Operaio un’opera destinata a riflettere esclusivamente la natura delle relazioni di fabbrica. Sottovaluta probabilmente la densità ontologica della produzione nel capolavoro jüngeriano che, peraltro, rappresenta proprio il fattore in grado di legittimare l’idea che il Novecento sia l’età del lavoro totale (M. REVELLI, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie, le insidie del lavoro, Torino 2001, in part. pp. 41-45).

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un ordine politico, non è un fattore di disturbo alla funzionalizzazione del reale. Piuttosto si amalgama nell’apparato ed è integrato e stabilizzato nella vicenda meta-fisica del tecnica. La fusione tra la vita e il lavoro stimola una vera e propria metamorfosi antropologica che fa del mondo un ambiente in cui è possibile soltanto lavorare. L’attività continua della macchina, a cui l’uomo si adegua per resistere nel tempo della propria estinzione, determina fatalmente in modo eccentrico la sua natura. L’uomo diventa in tutto e per tutto un lavoratore. In questo senso risulta comprensibile in tutta la sua portata l’idea jüngeriana che al trionfo della tecnica moderna si accompagna una mutazione antropologica. L’usura dell’individuo borghese (il soggetto liberale) provoca un nuovo tipo umano de-individualizzato: l’operaio2. Nella vicenda ‘secolare’ dell’opera di Jünger la combinazione ontologica tra la vita e il lavoro rimane, peraltro, il fulcro problematico fondamentale anche dopo la sua tematizzazione esplicita nei testi degli anni trenta, cioè quando, a partire dal secondo conflitto mondiale, il suo giudizio sull’età del lavoro totale cambia radicalmente (non rappresenterebbe più l’epoca in cui il nichilismo esaurisce la propria carica distruttiva, ma la fase della sua estrema espansione). Permane l’impulso della sua riflessione quando comincia la lunga e faticosa ricerca di uno spazio e un tempo eterogenei a quelli funzionali al modo di fare della macchina. Infatti, se da un lato la canniba2

Per quanto delineata ad un livello decisamente anti-economico, la scoperta jüngeriana della combinazione ontologica tra la vita e il lavoro avrebbe dovuto promuovere, almeno come polo di discussione polemico, l’attenzione di chi oggi considera la produttività delle facoltà generiche dell’uomo il movente della svolta globale dell’economia-mondo e la logica essenziale della crisi del principio giuridico-politico della sovranità. Jünger, in effetti, anticipa un aspetto fondamentale del nostro tempo: l’epoca in cui il lavoro solo apparentemente scompare, mentre, di fatto, si dissemina ovunque, coincidendo con i caratteri costitutivi dell’esistenza. È allora ingiustificato il disinteresse nei confronti de L’Operaio da parte di chi riconosce che la qualità della natura della natura umana, a partire dalla metamorfosi esistenziale del lavoro, è il nostro dilemma politico essenziale. Paradigmatico in questo senso, per fare solo un esempio, è il pressoché totale silenzio nei confronti dell’Operaio da parte di Hardt e Negri in: Impero (Milano 2001), lì dove, seppure da una prospettiva assai differente rispetto a quella jüngeriana, la declinazione ontologica del rapporto tra il lavoro e la vita è cruciale.

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lizzazione dell’esistenza nell’universo del lavoro ha l’impronta della necessità e dello spirito gregario, questa condizione potrebbe rovesciarsi nel suo contrario qualora si coagulasse una forma di attività inutile. Si assisterebbe ad una dinamica per cui il lavoro non ha più nulla di lavorativo, ma diventa un’azione qualunque in cui la vita dilata costantemente le proprie facoltà generiche. Una dimora singolare in cui il mondo diventa un luogo in cui si può vivere. In altri termini Jünger, anche sulla scia del suo dialogo con Heidegger degli anni cinquanta, nel secondo dopoguerra medita sullo iato potenziale che si staglia tra il lavoro e la produzione (direbbe Heidegger tra il carattere producente e quello provocante della tecnica). Tecnica e guerra Jünger nelle trincee della prima guerra mondiale conosce il fascino algido della tecnica a lavoro. Ne assapora la valenza e violenza oltre-umanistica. Ne coglie la sostanza ammaliante e la potenza inquietante. Testimoniando il carattere epocale della Grande guerra, i suoi scritti giovanili preparano la riflessione degli anni trenta sul valore meta-fisico della tecnica. Anticipando la celebre indagine del secondo dopoguerra di Heidegger sull’essenza della tecnica moderna, svelano il destino del mondo ridotto a mero recipiente del lavoro3. Abbiamo a che fare con una cartografia del reale in cui si constata, alla luce di una battaglia senza precedenti nella storia, l’eclissarsi dell’hu3

Più che anticipare la riflessione di Heidegger, in realtà, l’analisi jüngeriana, considerando la tecnica una potenza metafisica, ne elabora l’orizzonte. Heidegger, come è noto, si è occupato approfonditamente e in presa diretta dell’opera di Jünger già negli anni trenta. Un volume in particolare della Gesamtausgabe, apparso di recente (M. HEIDEGGER, Zu Ernst Jünger, GA 90, Frankfurt a. M. 2004), presenta il materiale di lavoro heideggeriano d’altronde già per buona parte conosciuto nella sua sostanza. È lo stesso Heidegger infatti che nel celebre dialogo con Jünger degli anni cinquanta sulla linea del nichilismo fa dettagliatamente riferimento al suo sforzo di assimilazione, precedente la seconda guerra mondiale, dei concetti chiave de La Mobilitazione Totale e de L’Operaio. Vedi M. HEIDEGGER, La questione dell’essere, in: E. JÜNGER/M. HEIDEGGER, Oltre la linea, a cura di F. Volpi, Milano 1989. Sul confronto Jünger-Heidegger sul nichilismo, rimando al capitolo, «Delineare il nichilismo. Jünger – Heidegger», presente nel mio Lo sguardo sul nulla. Ernst Jünger e la questione del nichilismo, Milano 2001, pp. 81-134.

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manitas moderna. I volumi jüngeriani sono ancora oggi una palestra fenomenologica formidabile per auscultare l’eclissarsi di un mondo con i suoi valori e le sue figure. La «guerra dei materiali» determina un paesaggio inaudito. È la generatrice di una nuova discendenza di uomini. È lo stesso Jünger, d’altronde, ancora nel 1995, a ribadire perché il primo evento bellico totale della storia è l’architrave del suo pensiero: «il vero grande interesse, per me, è stata la tecnica, la cui potenza si è manifestata in modo impressionante nella guerra mondiale 1914-18, la prima “guerra di materiali”»4. La guerra di materiali nomina il logoramento dell’‘umanità’ dell’uomo in una condizione spazio-temporale in cui la vita è massimamente provocata: «la battaglia delle macchine è così violenta, che l’uomo ne è quasi completamente escluso»5. Il soldato, immerso in un uragano di acciaio e sangue, è in balìa di una potenza misteriosa che ne determina le vicende. Il combattimento è stravolto dal progresso della tecnica: l’assalto è precluso e si impone una snervante guerra di posizione; un tipo di conflitto in cui il tempo è sospeso (Jünger raccoglie questa paralisi del tempo in un’immagine efficace: «eternità della trincea»6). La battaglia, l’evento in cui è in gioco la vita al cospetto del proprio limite ontolo4

A. GNOLI/F. VOLPI, I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Milano 1997, p. 21. Ma già nel 1930, in una prefazione ad un volume a sua cura, Krieg und Krieger, Jünger è lapidario: «la guerra è l’evento (das Ereignis) che ha dato la fisionomia al volto del nostro tempo» (E. JÜNGER, Vorwort, 1930; ora in: Politische Publizistik 1919-1933, hrsg. von S. O. Berggötz, Stuttgart 2001, p. 557; tr. it. Prefazione, in: Scritti politici e di guerra. 1919-1933, vol. III (1929-1933), a cura di A. Iadicicco, Gorizia 2005, p. 154). Jünger pubblica i contributi più significativi sulla guerra in un breve lasso di tempo: nel 1920, il più celebre, In Stahlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio); nel 1922, il più ‘filosofico’, Der Kampf als inneres Erlebnis (La guerra come esperienza interiore); nel 1923, il racconto Sturm; nel 1925, i diari Das Wäldchen 125 (Il boschetto 125) e Feuer und Blut (Fuoco e sangue). 5 E. JÜNGER, Der Kampf als inneres Erlebnis, in: Sämtliche Werke Ernst Jünger (d’ora innanzi SW), Stuttgart 1978, Bd. 7, 1980, p. 102. «La battaglia era un brutale scontro di masse, una lotta sanguinosa della produzione e di materiali» (ID., Sturm, SW 15, 1978, p. 16; tr. it. Il tenente Sturm, a cura di A. Iadicicco, Parma 2000, p. 12). 6 ID., Der Kampf als inneres Erlebnis, cit., p. 32. «La trincea. Lavoro, orrore, sangue hanno rivettato questa parola intorno ad una torre d’acciaio gravando su un cervello impaurito» (ivi, p. 25).

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gico, la morte, nel primo conflitto mondiale è regolata dalle macchine. Si delinea cioè come «l’orribile misura della produzione industriale»7. Nelle trincee, dove l’uomo vive come un animale, si prepara una svolta senza precedenti; o meglio: ammettendo che «la macchina rappresenta l’espressione di una nuova epoca dello spirito»8, si progetta una vera e propria trasfigurazione dell’uomo. È sul campo di battaglia che Jünger percepisce il tramonto di una figura – l’individuo borghese storicamente determinato – e vede affiorare una forma di vita estranea a qualsiasi tipo di processo evolutivo. Un essere in grado di assecondare, grazie ad un grado estremo di spersonalizzazione, l’energia scatenata dalla tecnica. «La guerra non esprime una parte della vita, bensì la vita intera, in tutta la sua violenza, allo stesso modo la vita è, nel fondo, di natura assolutamente bellica»9. Se la vita è per natura polemica (dunque, in questo contesto, la volontà di potenza nietzscheana sarebbe la pura volontà di qualsiasi organismo di battersi), fatalmente, mutando lo svolgimento del conflitto militare, si trasforma l’esistenza dell’uomo. Muta sia la sua forma esteriore – il corpo dei combattenti è rimodellato secondo le esigenze della macchina – sia l’ordine interiore (più precisamente: si esaurisce l’interiorità; non a caso L’Operaio esprime un estremo disprezzo per qualsiasi genere di psicologia). Ed allora, i soldati della prima guerra mondiale sono «macchine che dimenticano»10; 7

ID., Feuer und Blut. Ein kleiner Ausschnitt aus einer grossen Schlacht, SW 1, 1978, p. 450. Jünger riconosce in sostanza, in termini generali, che la battaglia si è trasformata in «una competizione della tecnica» (ID., Die Technik in der Zukunftsschlacht, 1921; ora in: Politische Publizistik 1919-1933, cit., p. 23; tr. it. in: Scritti politici e di guerra. 1919-1933, vol. I (1919-1925), cit., p. 31). 8 ID., Krieg und Technik, 1930, ora in: Politische Publizistik 1919-1933, cit., p. 604 (tr. it. Guerra e tecnica, in: Scritti politici e di guerra. 1919-1933, vol. III, cit., p. 205). 9 Ivi, p. 597 (tr. it. p. 198). 10 ID., Der Kampf als inneres Erlebnis, cit., p. 80. «Macchine che dimenticano»: non ricordare si rivela la chance per sostenere una scia di violenza (dolore e morte) senza precedenti. “Dimenticare” è il presupposto per essere continuamente disponibili per l’operatività della tecnica. La tecnica, in una battuta, curvando il tempo secondo le esigenze della macchina, induce la sterilizzazione della memoria per suscitare l’indifferenza nei confronti delle pieghe della temporalità.

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un materiale tra i tanti impiegati nella battaglia11. Animali braccati, figure del sottosuolo, lavoratori al servizio della morte. Nel soldato delle trincee convivono, in un mélange paradossale e violento, il barbarico e la tecnologia. Al fronte della Grande guerra si consuma la storia della modernità. Si scompagina l’utopia della dignità dell’humanitas rinascimentale: il sapere applicato alla tecnologia militare logora l’umano e provoca la sua animalità oltre qualsiasi mediazione sociale. Nel soldato delle trincee si ricompone l’infranto: l’uomo e l’animale coesistono concependo una sagoma oltre-umana. Jünger al fronte scorge un nuovo tipo umano; più duro ed indifferente. A contatto con la tecnica, l’uomo si libera della propria statura sociale e culturale e compie, rovesciandolo, il progetto moderno (sul campo di battaglia si è affacciato lo Übermensch12). La pagine di Jünger più eloquenti sulla Grande guerra sono quelle che, per quanto vergate da un intenso investimento ideologico, insistono sulla tecnica come forza rivoluzionaria. Nei campi di battaglia si sopravvive se si asseconda la potenza delle macchine; se il combattente si confonde con l’apparato tecnologico e diventa un materiale da lavoro tra gli altri. La prestazione fondamentale della battaglia in questo senso è l’evocazione dell’elementare: la vita sul margine del proprio abisso – la morte – nella guerra dei materiali è alimentata dalla tecnica. Elementare, secondo Jünger, è la situazione originaria in cui si trova ogni vivente quando deve lottare per sopravvivere; rappresenta cioè una condizione in cui l’esistenza è sciolta da qualsiasi vincolo sociale. La battaglia, in questo senso, suscitando su vasta scala l’elementare, decreta simbolicamente e materialmente la fine di un’epoca. Tramonta l’ideale del «mondo di ieri»: il dominio della comodità e della tranquillità. I militari condividono l’estremo: la vita consegnata alla soglia della propria estinzione violenta (la tecnica produce un mondo tutt’altro che freddo: il suo universo infatti conosce passioni totali in quanto elementari; provoca un concentrato di acciaio e sangue). L’uomo resiste se risulta compatibile con l’attività a 11

Ivi, p. 77. Ivi, p. 12. Jünger commenta l’incontro con un esploratore: «quello fu il primo soldato tedesco che abbia visto con l’elmetto d’acciaio e mi parve subito l’abitante di un mondo diverso e più duro» (ID., In Stahlgewittern, SW 1, p. 99; tr. it. in: Nelle tempeste d’acciaio, a cura di G. Zampa, Parma 1990, p. 103). 12

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ciclo continuo della macchina. Questo è il motivo per cui l’eroe di questo conflitto non possiede né volto né nome; è il milite ignoto; l’eternamente sostituibile (il sigillo della tecnica impone un generalizzato processo di tipologizzazione delle condotte). L’uomo assolutamente disciplinato. La prima guerra mondiale decreta il trionfo dell’anonimato e perciò l’eroismo diventa la capacità di accudire la volontà della tecnica; è indispensabile di fatto rendere la propria azione assolutamente riproducibile13. Qualsiasi gesto nella «guerra dei materiali» è rigidamente prescritto. Quando un soldato cade, lo si sostituisce come si fa con un pezzo usurato di una macchina. Deceduto uno, ne subentra un altro che ne ricalca la mansione15. Con la tecnica all’opera si lavora e, soprattutto, in maniera essenziale, non si muore: la vita e la morte ontologicamente svaniscono a favore di una attività incessante, vorticosa e ripetitiva. Il lavoratore-Krieger, immerso nella routine, più che perire, cessa di lavorare15. Se, con la tecnica a lavoro, idealmente non si muore, tuttavia lì dove troneggia il suo fantasma, nella «terra di nessuno», aleggia la violenza spaesante del nulla. Infatti, con la devastante potenza di fuoco delle macchine in azione, i nemici si mantengono a debita distanza. Non sono più fisicamente raggiungibili; si celano dietro l’azione di ar13 Jünger, allora celebre capitano di truppe d’assalto, figura mitica ed eroe pluridecorato della prima guerra mondiale, è piuttosto l’eccezione che la regola di questo scontro armato. Durante gli anni della battaglia riceve varie onorificenze militari sino ad ottenere nel settembre del 1918 la più prestigiosa: la croce dell’Ordre Pour le Mérite (lo stesso Jünger dà notizia del conferimento dell’importante riconoscimento al termine di In Stahlgewittern, cit., p. 300; tr. it. p. 329). 14 Ne L’Operaio sul Krieger: «la sua virtù è nella sua sostituibilità, e nel fatto che dietro ogni caduto è già pronto, di riserva, il cambio della guardia» (cfr. ID., Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt, SW 8, cit., 1981, p. 157; tr. it. in: L’Operaio. Dominio e forma, a cura di Q. Principe, Parma 1991, p. 137). 15 La figura della morte costituisce un nucleo problematico nodale del pensiero di Jünger: in particolare, la sua analisi della tecnica moderna si imbatte nell’esaurimento della valenza ontologica della morte in quanto esito fatale del dominio del lavoro totale. Ritornare alla morte, allora, rappresenta nel pensiero dell’ultimo Jünger la soglia per sottrarsi al potere onnipervadente della tecnica. Su tutto ciò, comunque sia, vedi l’ultimo libro pubblicato da Jünger nel 1990 – senza dimenticare la stesura del diario proseguita sino al 1996 – Die Schere (tr. it. La forbice, a cura di A. Iadicicco, Parma 1996).

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mamenti a lunga gittata e si trasformano in un’autorità di morte impersonale. È soprattutto l’aviazione (la grande innovazione della guerra ’14-’18 rispetto a quelle del passato) a reclamare un genere di combattimento al ‘buio’, privato cioè del corpo del nemico16. Il nemico è invisibile (si trasforma in un’idea inquietante ed immateriale) e la morte perciò proviene dal nulla. Al termine di una delle azioni decisive per le sorti della guerra (La grande battaglia), il 21 marzo del 1918, Jünger sembra annotare la fine dell’uomo: L’enorme concentrazione di forze, nell’ora fatale in cui s’iniziò la lotta per un lontano avvenire e lo svolgersi così sorprendente e inatteso degli avvenimenti successivi mi misero per la prima volta di fronte all’imponderabile, di fronte a elementi estranei all’uomo e a lui superiori in senso assoluto. Fu un’esperienza completamente diversa da tutte le mie precedenti; era un’iniziazione che non apriva soltanto le incandescenti camere del terrore, ma anche le attraversava17.

La guerra di materiali induce nel soldato una noia insopportabile. La tecnica propizia un sentimento di indifferenza per la propria sorte. Il vuoto azzanna alla gola i soldati18. La mera funzionalità a cui sono ridotti li pone in una stato di estrema apatia rispetto a ciò che accade intorno. Il niente invade il campo di battaglia; assedia le trincee. Si espande il dominio del nulla. Questa d’altronde è la cifra, non soltanto militare, dell’avvento straripante della tecnica moderna. Il 16

Sul fascino dell’ignoto di cui si alimenta il mito degli aviatori durante la Grande guerra, vedi ID., Das Wäldchen 125. Eine Chronik aus den Grabenkämpfen 1918, SW 1, pp. 355-358; tr. it. in: Boschetto 125. Una cronaca delle battaglie in trincea nel 1918, a cura di A. Iadicicco, Parma 1999, pp. 64-67). 17 ID., In Stahlgewittern, cit., p. 267 (tr. it. p. 290). La guerra dei materiali inaugura una nuova tipologia di scontro armato che prevede la scomparsa dell’uomo laddove, alle sue frontiere, la vita dovrebbe esistere: «dai campi dove si combatte l’uomo in futuro tenderà sempre più a scomparire» (ID., Die Technik in der Zukunftsschlacht, cit., p. 24; tr. it. p. 32). 18 Per quanto Jünger insista a più riprese nei suoi diari sul forte legame che si instaura tra i soldati al fronte, nei momenti cruciali divampa la solitudine. Quando si muore, si muore soli: «quando la morte passava sui campi come le nuvole di un temporale, ciascuno stava per proprio conto; ognuno era da solo nel buio, circondato da sibili e schianti, accecato dall’esplosione dei lampi, col nel cuore nient’altro che un’infinita solitudine» (ID., Sturm, cit., p. 13; tr. it. p. 8).

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soldato appare forgiato dalla fusione della tecnica e da ciò che ne plasma la logica interna: il nulla. Con la macchina a determinare la fisionomia del conflitto, la campagna militare si trasforma in un immenso processo industriale: con la tecnica a dettare le regole e i tempi dello scontro armato, l’elementare evocato dalla battaglia si rivela un esercizio del lavoro. Jünger parla esplicitamente, a questo proposito, della germinazione di un nuovo genere di conflitto: l’Arbeitskrieg19 (la Grande guerra inaugura la serie di conflitti più distruttivi della storia, dal momento che sono intrecciati all’opera del lavoro: la guerra diventa totale in quanto il lavoro è tutto). Diviene «un mestiere e il soldato un salariato a giornata della morte che si alimenta di una quotidianità di sangue»20. La metamorfosi del campo di battaglia in un centro di produzione di energia, la trasformazione del guerriero in un milite ignoto, costituisce la premessa essenziale per l’evoluzione di una società, quella occidentale industrializzata, verso una condizione che le fa assumere l’aspetto di un gigantesco opificio. L’Operaio considera il mondo come un’immensa fabbrica perché riconosce che la meccanizzazione della totalità dell’ente che divampa durante la Grande guerra, una volta terminato il vero e proprio conflitto militare, straripa oltre il campo di battaglia e si diffonde ovunque. Riposa proprio in questa continuità di fondo tra tempo di guerra e tempo di pace il senso di un’annotazione illuminante di Das Grosse Bild des Krieges: durante gli anni del conflitto, «la vita del soldato al fronte si trasformava sempre di più in quella di un Arbeiter, sottoposto alle condizioni pericolose di un tecnico della guerra del lavoro, così come la vita dell’Arbeiter in patria si evolveva in senso militare»21. 19

E. JÜNGER, Das Grosse Bild des Krieges, 1930, ora in: Politische Publizistik 1919-1933, cit., p. 609; tr. it. Il grandioso quadro della guerra, in: Scritti politici e di guerra. 1919-1933, vol. III, cit., p. 209. «Il puro conflitto militare sfocia nel quadro di un gigantesco processo di lavoro» (ivi, p. 608; tr. it. p. 209). 20 ID., Der Kampf als inneres Erlebnis, cit., p. 30. 21 ID., Das Grosse Bild des Krieges, cit., p. 610 (tr. it. p. 211). Ho indagato più diffusamente la centralità della guerra nell’opera di Jünger in Menzogna e verità della guerra, in: «Gli Annali di Eumeswil», 3, 2003, pp. 157-180. Inoltre sul tema, tra il vasto materiale bibliografico, vedi almeno: T. ROHKRÄMER, Die Verzauberung der Schlage. Krieg, Technik, Zivilisationskritik beim frühen Ernst Jünger, in: AA.VV., Der Erste Weltkrieg. Wirkung Wahrnehmung Analyse, hrsg. von

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Tecnica e lavoro Nel 1930 Jünger pubblica un saggio, Die Totale Mobilmachung, in cui, assimilate e sedimentate le impressioni della Grande guerra, si decripta lo spirito di un’epoca. La «Mobilitazione Totale» nomina un approdo della storia umana in cui fisica e metafisica si dissolvono l’una nell’altra. È la maniera per condensare in un’immagine le molteplici traiettorie che costituiscono la realtà forgiata dal primo conflitto mondiale. Manifesta il valore non tecnico della tecnica, esprimendo la logica interna della macchinazione: «non è una misura da eseguire, ma qualcosa che si compie da sé, essa è, in guerra come in pace, l’espressione della legge misteriosa e inesorabile a cui ci consegna l’età delle masse e delle macchine»22. La Mobilitazione Totale è la sigla con la quale Jünger raccoglie, decantata almeno parzialmente l’esperienza della trincea, il senso complessivo della svolta provocata dalla diffusione della tecnica alle frontiere liminali dell’esistenza. La condizione della guerra prosegue in tempo di pace, dal momento che l’uomo, abbandonato il fronte, rimane al servizio permanente dell’automatismo. Denota il senso di una metamorfosi: «il lato tecnico della Mobilitazione Totale non è […] quello decisivo. Il suo presupposto si trova, come il presupposto di ogni tecnica, ad un livello più profondo: lo chiameremo qui la disponibilità [Bereitschaft] alla mobilitazione»23. La tecnica dispone in maniera incondizionata del mondo, colonizzando i sogni, i desideri e i bisogni degli uomini; in una parola: l’interiorità (la tecnica espugna l’interiorità in modo da poterne disattivare l’ostilità nei confronti della produzione totale). Per sostenere la quanW. Michalka, Weyarn 1997, pp. 849-874; M. ALESSIO, Tra guerra e pace. Ernst Jünger maestro del Novecento, Roma 2001. 22 E. JÜNGER, Die Totale Mobilmachung, SW 7, p. 128 (tr. it. La Mobilitazione Totale, a cura di F. Cuniberto, Milano 1997, p. 121). Sul saggio jüngeriano del ’30, vedi C. GALLI, Al di là del progresso secondo Ernst Jünger: «magma vulcanico» e «mondo di ghiaccio», in: «Il Mulino», 301, XXXIV, 5, 1985, pp. 771-786 (argomento più di recente nuovamente discusso da Galli in Ernst Jünger: “Mobilitazione Totale” e nichilismo, in: AA.VV., Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo, a cura di L. Bonesio, Milano 2002, pp. 63-81). Per un confronto più critico-problematico, vedi invece P. KOSLOWSKI, Der Mythos der Moderne. Die dichterische Philosophie Ernst Jüngers, München 1991. 23 E. JÜNGER, Die Totale Mobilmachung, cit., p. 129 (tr. it. p. 122).

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tità di energia promossa dalla Mobilitazione Totale serve una figura in grado, come il Krieger sulla linea del fronte, di comprendere la tecnica, di incoraggiarne la potenza. Né servo né signore della tecnica, ma suo alleato: quando regna la Mobilitazione Totale, «ogni singola vita tende sempre più indiscutibilmente alla condizione dell’operaio»24. Nel mondo sconvolto dall’energia delle macchine prende posto soltanto chi è in grado di esaltare la logica dell’astrazione: l’operaio. In altre parole, qualsiasi individuo nell’era dell’industrializzazione incarna un Krieger del lavoro. L’Operaio, l’o p e r a dell’era della Mobilitazione Totale, pensa una originale e sovversiva figura umana: l’operaio («rivoluzionaria è la nuova specie di umanità che appare nelle sembianze del tipo umano, rivoluzionaria è la persistente crescita dei mezzi tecnici, che nessuno dei consolidati ordinamenti sociali e nazionali può assorbire in sé in maniera davvero coerente»25). Il paladino di un mondo in cui si apprezza l’impersonale. Jünger nella realtà del lavoro totale riconosce il fascino dell’anonimato delle metropoli moderne dove l’individualità muore ed ognuno è come nessuno26. L’operaio di cui discute Jünger non è il rappresentante di una classe sociale; non delinea una forma che emerge con la declinazione industriale della produzione della ricchezza e con la divisione del lavoro capitalistica. Dà corpo invece, in quanto associato con la tecnica, ad una inedita struttura metafisica27. 24

Ivi, p. 128 (tr. it. p. 121). Nel complesso della sua valutazione della tecnica moderna Jünger non manca di evitare l’inconsistente stilizzazione per cui l’uomo dopo esserne stato il signore, con l’incessante progresso delle macchine, ne sarebbe diventato lo schiavo. La figura dell’operaio esclude postulatamente questo atteggiamento ‘umanistico’ – sì/no alla tecnica – per decifrarne-incarnarne l’avvento essenziale. 25 ID., Der Arbeiter, cit., p. 204 (tr. it. p. 178). 26 Nel mondo dell’operaio dominano tre forze: «la macchina, la massa, il lavoratore», in ID., Gross-stadt und Land, 1926; ora in: Politische Publizistik 19191933, cit., p. 233; tr. it. Metropoli e campagna, in: Scritti politici e di guerra. 1919-1933, vol. II (1926-1928), cit., p. 95. È importante notare che ne L’Operaio, dunque qualche anno dopo la pubblicazione del saggio sull’opposizione Metropoli e campagna, una volta approfondita la peculiarità metafisica del lavoro, si avverte che il tramonto dell’individuo borghese induce il collasso della sua potenza polare: la massa. Il Tipo-operaio è al di là di questo gioco di specchi, incarnando la forma indivisibile del mondo della macchina. 27 L’incomprensione di questo aspetto determinante de L’Operaio ne ha

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L’uomo-Arbeiter, in effetti, combacia con la propria funzione produttiva. Non è un soggetto economico, ma una figura assoluta, cioè in grado di caratterizzare, mediante la propria attività, la totalità dell’essere dell’ente in generale. Raccoglie in sé tutte le figure sociali e perciò si presenta come un Tipo umano senza un’individualità determinata. Riduce cioè l’eterogeneità sociale all’univocità della prestazione di lavoro. Uno dei temi cruciali de L’Operaio, non a caso, è l’eclissarsi dell’individuo a favore del Tipo umano: il primo è il borghese, colui che riconosce nella «sicurezza» il valore supremo del proprio mondo ed è ostile alle forze elementari della vita (dolore e morte); infatti, laddove si addensa il vortice molecolare delle relazioni sociali – nella società in cui il lavoro è una merce –, la tecnica è uno strumento di cui rimane velata la potenza ontologica. Valenza che si rivela quando sul campo di battaglia gli strumenti prendono in carico l’esistenza dell’uomo e allora, fatalmente, sopravvivere vuol dire lavorare senza sosta come fanno tutti gli altri. L’Arbeiter-Krieger è colui che coglie la tensione metafisica-elementare della tecnica: «a una pura tecnicità soltanto il tipo umano ha vocazione, poiché egli solo ha con la tecnica una relazione metafisica e modellata sulla sua forma»28. L’Operaio tira le somme della rivolta annunciata al fronte; discute del tipo umano che si arruola senza tregua in funzione della tecnica: «la tecnica delle macchine dev’essere considerata il simbolo di una particolare forma, quella dell’Operaio»29. L’uomo nuovo ricalca l’attività incessante della macchina in modo da provvedere alla produzione continua di energia. La tecnica, in questo senso, travalica il proprio profilo strumentale (il mezzo diventa il fine) e lacera qualsiasi scopo, lasciando spazio esclusivamente alla propria ri-produzione. Elimina l’imponderabile. Qualsiasi movimento risulta, essenzialmeninizialmente pregiudicato la ricezione. Anche due interlocutori privilegiati di Jünger, come Spengler e Schmitt, rimangono peraltro estranei al nucleo dell’opera, incapaci sostanzialmente di cogliere la valenza non-economica del Tipo jüngeriano. 28 E. JÜNGER, Der Arbeiter, cit., p. 277 (tr. it. p. 239). Per un’analisi dettagliata della polarità Tipo-individuo ne L’Operaio, vedi D. CONTE, «Tipo» contro «individuo nell’Arbeiter di Ernst Jünger, in: AA.VV., Il concetto di tipo tra Ottocento e Novecento. Letteratura, filosofia, scienze umane, a cura di D. Conte e E. Mazzarella, Napoli 2001, pp. 247-267. 29 E. JÜNGER, Der Arbeiter, cit., p. 80 (tr. it. p. 69).

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te, statico e indispensabile. Effetto di una ripetizione implacabile per cui non c’è più nulla da decidere. La sua prestazione più sconvolgente, in fondo, è proprio la sua capacità di annichilire il tempo. Di liquidare il valore del novum. Nega qualsiasi evento: «l’esperienza unica, irripetibile e individuale è sostituita dall’esperienza chiara e tipica»30. Non si tratta più di misurare il tempo di lavoro; il tempo in quanto tale è lavoro. Un’in-finita durata senza alcuna rottura. Nessun resto di vita, detto in altri termini, rimane escluso dalla produzione di produzione ininterrotta. Si registra, quando il lavoro bonifica l’esistenza, l’avvento di un tempo in cui domina la routine. Il tempo in cui si consuma l’evento della fine del tempo: vivere vuol dire comportarsi dappertutto come in fabbrica, cioè fare sempre la stessa cosa. La mobilitazione totale, allora, non si rivela altro che una mobilitazione globale del lavoro: non condensa più allora, hegelianamente, la relazione tra l’uomo e il mondo, ma è il mondo (l’intera esistenza, persino il ‘tempo libero’, ricalca la maniera dell’attività lavorativa: «tempo libero e tempo destinato al lavoro sono due varianti che chiamano in causa un’unica e medesima attività tecnica»31). La qualità del tempo si dissolve. È questa la ragione per cui la riproducibilità tecnologica si rivela, al suo massimo grado di efficienza, una figura dell’immortalità. Si propaga l’esperienza tipica, la routine, la ‘ripetizione senza differenza’. Nell’esistenza dell’operaio non succede niente. O meglio: nella realtà del lavoro totale, al fondo, tutte le forme di vita sono identiche. La sua arche-tipicità, infatti, si rivela strutturalmente aliena da qualsiasi creazione storica. La vita che conta nel mondo del lavoro è quella della macchina, cioè quella che non include la morte; piuttosto, la dicotomia essenziale è tra lavoro/non lavoro. La temporalità dell’operaio è ciclica (nel senso dell’eterno ritorno caro al nano di Zarathustra: un flusso senza alcuna qualità in cui è interdetta l’irruzione del tempo), in modo da favorire un’attività altamente funzionalizzata, 30

E. JÜNGER, Der Arbeiter, cit., p. 151 (tr. it. p. 131). Nell’universo della tecnica meccanica, la libertà dell’Arbeiter si dà come obbedienza: non si prendono decisioni in una realtà dove qualsiasi movimento è calcolato; piuttosto si ottempera al proprio compito ‘già da sempre’ prestabilito (ivi, p. 155; tr. it. p. 135). La libertà individuale, in altre parole, è assorbita dalla necessità inderogabile del proprio compito. 31 Ivi, p. 264 (tr. it. p. 228).

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dove letteralmente ‘non si perde tempo’; il tempo non-passa; è. La temporalità tecnologica costituisce una dimensione senza valore e quindi adatta alla produzione-generazione continua di lavoro. Ciò che distingue in maniera radicale l’individuo e il Tipo (il borghese e l’operaio), dunque, è la loro divergente relazione con la temporalità: il primo rappresenta una figura storica e perciò lo si può abbinare ad una classe sociale; il Tipo-Arbeiter, invece, per quanto in grado di condizionare il corso del tempo, è una forma (Gestalt) ‘senza tempo’. Non nasce e non muore. Non conosce generazione. È un’identità pura. Incarna l’eternità e quindi, al principio di un nuovo eone storico, quello della tecnica, raccoglie l’eredità dell’uomo: Una forma è, e nessuna evoluzione la accresce o diminuisce […]. L’evoluzione conosce principio e fine, nascita e morte, da cui la forma è immune. Come la forma dell’uomo era prima della nascita e sarà dopo la morte, così una forma storica è, nel suo nucleo profondo, indipendente dal tempo e dalle circostanze da cui sembra scaturire. I mezzi di cui si giova sono più nobili, la sua fecondità è immediata. La storia non produce forme, ma si modifica in virtù della forma32.

La tecnica promuove la figura di un Tipo che nella libertà riconosce un principio del lavoro: nella società della produzione di produzione «ogni esigenza di libertà appare qui come un’esigenza di lavoro»33. L’operaio è incessantemente disponibile per il proprio incari32

Ivi, p. 86 (tr. it. p. 75). «L’uomo in quanto forma appartiene all’eternità» (ivi, p. 40; tr. it. p. 34). 33 Ivi, p. 71 (tr. it. p. 61). «Ogni aspirazione alla libertà all’interno del mondo del lavoro è dunque possibile soltanto finché essa è un’aspirazione al lavoro. Ciò significa che la misura della libertà dell’individuo corrisponde esattamente alla misura in cui egli è operaio» (ivi, p. 72; tr. it. p. 62). Dunque, ne L’Operaio si concepisce la libertà come una funzione della necessità ontologica del lavoro; tesi che, non sarebbe forse neanche il caso di sottolinearlo, risuona nel monito che campeggia sul cancello del campo di Auschwitz: ‘Arbeit macht frei’. Esergo adeguato della civiltà in cui la produzione di lavoro è tutto. Non è mancato chi allora inevitabilmente ha collegato la diagnosi de L’Operaio e la filosofia del regime nazionalsocialista (accusa a cui Jünger, peraltro, si è in più di un’occasione, e francamente con buoni argomenti, ribellato). Gli interventi più interessanti sul tema sono quelli di U.K. KETELSEN, E. Jüngers “Der Arbeiter”. Ein faschistisches Modernitätskonzept, in: Literatur und Drittes Reich, Schernfeld 1992, pp. 264267; e ID., “Nun werden nicht nur die historischen Strukturen gesprengt, sondern

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co, in grado cioè di eseguire l’attività generale del lavoro senza alcuna resistenza. La tecnica, in quanto distruttrice di ogni resistenza al proprio modo di fare/lavorare, è una potenza planetaria: annienta confini, promuovendo l’«unità imperiale»34 del mondo in quanto forza capace di concepire un generalizzato processo di omologazione (L’Operaio decifra il valore globale della tecnica e la sua capacità di preparare lo Stato mondiale35). Il Tipo è destinato a trionfare ovunque. Non c’è alternativa: «dovunque l’uomo cada sotto la giurisdizione della tecnica, egli si vede posto dinanzi a un inevitabile aut-aut. Non gli resta che una scelta: o accettare gli strumenti propri della tecnica e parlare il suo linguaggio, o affondare»36. Con l’operaio si distende nel mondo l’Immutabile. Nell’accelerazione del reale evocata dalla tecnica moderna rappresenta una dotazione di stabilità. Il tipo-operaio, in sostanza, interpretando in un modo determinato il principio nietzscheano della volontà di potenza, incarna in maniera cristallina il Wille zur Gestalt: la volontà di fornire una sagoma assoluta al mondo. L’impronta della tecnica. L’alterazione del Wille zur Macht nel Wille zur Gestalt jüngeriana probabilmente è il luogo di una torsione che prosciuga il senso originario del principio nietzscheano. Smarrisce infatti ciò che di provvisorio, ineffabile, temporale è inscritto nell’idea di Nietzsche; il grado di impotenza radicato nella potenza legata allo scorrere del divenire e al movimento imprevedibile delle cose del mondo. In queauch deren mythische und kultische Voraussetzungen. Zu Ernst Jüngers Die Totale Mobilmachung (1930) und Der Arbeiter (1932), in: AA.VV., Ernst Jünger im 20. Jahrhundert, hrsg. von H.-H. Müller, H. Segeberg, München 1995, pp. 7795. Vale la pena, invece, per avere un quadro completo della mole degli studi critici su L’Operaio, rinviare alla sezione tematica presente nella bibliografia di N. RIEDEL, Ernst Jünger-Bibliographie 1928-2002, Stuttgart – Weimar 2003, pp. 274-286. 34 Ivi, p. 180 (tr. it. p. 156). 35 Jünger, come è noto, soltanto nel 1960 pubblica uno scritto espressamente dedicato alla questione: Der Weltstaat. Organismus und Organisation (tr. it. in: Lo Stato Mondiale. Organismo e organizzazione, a cura di A. Iadicicco, Parma 1998). 36 E. JÜNGER, Der Arbeiter, cit., p. 170 (tr. it. p. 148). L’esito del potere uniformante della tecnica fa sì, ad esempio, che «il Führer è riconoscibile dal fatto che egli è il primo servitore, il primo soldato, il primo operaio» (ivi, p. 19; tr. it. p. 15).

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sto senso L’Operaio è un saggio straordinario di una determinata esegesi metafisica del pensiero di Nietzsche che conduce sino alla monumentale lettura di Heidegger, laddove, notoriamente, si giudica la volontà di potenza un criterio di stabilizzazione del reale all’ombra della fine di qualsiasi valorazione trascendente del mondo. L’interpretazione di Heidegger del principio della volontà di potenza di Nietzsche, d’altronde, è probabilmente un’occasione propizia per rintracciare la fisionomia fondamentale del pensiero di Jünger sulla tecnica al di là della sua rilevanza fenomenologica. Per questa ragione, per quanto brevemente, in questo contesto è utile attirare l’attenzione su alcuni elementi dell’impresa ermeneutica heideggeriana. L’operaio incarna la volontà di potenza. Vi si deposita la disposizione capitale di un’epoca: la volontà di volontà – il risvolto ontologico della tecnica moderna – è il presupposto della razionalizzazione totale. Se la lettura heideggeriana di Nietzsche è un capitolo cruciale del suo confronto con la tradizione del pensiero occidentale e la filosofia nietzscheana d’altronde, definendo la costellazione concettuale della Machenschaft heideggeriana e della Mobilitazione Totale jüngeriana37, mette a nudo le traiettorie essenziali del tempo presente, va peraltro detto che Jünger, oltre a stimolare l’interrogazione heideggeriana sul valore della tecnica moderna, ne condiziona fortemente anche l’ottica in cui si modella la decifrazione metafisica di Nietzsche. Il ‘Nietzsche’ di Heidegger, insomma, è filtrato tramite il tipo di volontà di dominio dell’operaio. La volontà di potenza corrisponderebbe, infatti, a quel genere di forma (l’operaio) mediante la quale la ragione tecnologica dà un assetto organico al mondo38. 37

Sulla relazione tra il concetto di Machenschaft, elaborato da Heidegger tra metà e la fine degli anni trenta in particolare in alcuni testi ‘segreti’ (Beiträge zur Philosophie e Besinnung) e la Mobilitazione Totale jüngeriana, sia come figure del compimento della metafisica occidentale e sia come tracce per una fenomenologia del moderno, fa il punto S. GORGONE, Machenschaft und Totale Mobilmachung: Heideggers Besinnung als Phänomenologie der Moderne, in: «Heidegger Studien», 22, 2006, pp. 49-69. 38 Sulla presenza de L’Operaio nel pensiero di Heidegger, vedi, ad esempio, un brano significativo de Oltrepassamento della metafisica: il lavoro – ci troviamo appena dopo una esplicita citazione del saggio jüngeriano del ’32 – «perviene oggi al rango metafisico di oggettivazione incondizionata di tutte le cose presenti, le quali dispiegano il loro essere nella volontà di volontà» (M. HEIDEG-

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Nel corso universitario La volontà di potenza come conoscenza (1939) Heidegger mette in luce la concezione della conoscenza e della verità in Nietzsche. Nietzsche giudica la verità come un tenere per vero e perciò la sua valenza effettiva si rivela la logica dell’imposizione. Con la morte di Dio, in un mondo infinitamente interpretabile, è la volontà a determinare la verità: «Nietzsche intende la verità come tenere-per-vero», allora, «è quell’originario tenere-per-vero che dà ad ogni conoscere l’indicazione dell’ente in quanto tale. Il tenere-per-vero ha originariamente il carattere di un comando»39. Comandare significa imporre la verità; vuol dire definire la qualità della vita: «l’essenza della conoscenza ha nel suo intimo il carattere essenziale del comando» e dunque, «il conoscere […] in quanto rappresentare l’ente, ciò che è costante, in quanto assicurazione della sussistenza, è una disposizione essenziale alla vita stessa. Quindi la vita in sé – nella sua vitalità – ha il tratto essenziale del comandare»40. Se la vita è ‘comando’, la sua forma dipende dalla quantità di forza disponibile per valorare/volere il mondo. Il comandare (dominare), allora, si rivela il modo di essere più proprio della volontà di potenza: la volontà è veramente potente quando comanda ovunque, senza limiti; quando ordina il mondo secondo la propria misura. Così ne La metafisica di Nietzsche (1940): «volere non sarebbe mai un voler-essere-signore, se la volontà rimanesse un auspicare e un aspirare, anziché essere dalle fondamenta e solamente: comando»41. Per la volontà volere incessantemente significa schivare il nulla. Volere senza sosta è la condizione della volontà di potenza e perciò è necessario «volere il nulla, piuttosto che non volere» (Genealogia della morale). Per volere ininterrottamente e deprimere il nulla, la volontà in-forma il mondo di sé; lo annichilisce: «“Volere il nulla” significa […]: volere la sminuizione, la negazione, l’annientamento, la devastazione. In siffatto volere, la potenza si assicura ancor sempre la possibilità di comando. Così, dunque, la negazione del mondo non è che una celata volontà di potenGER, Oltrepassamento della metafisica, in: Saggi e discorsi, tr. it. G. Vattimo, Milano 1991, p. 46). 39 M. HEIDEGGER, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Milano 1994, p. 520. 40 Ivi, p. 500. 41 Ivi, p. 752.

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za»42. L’operaio, interpretando il nichilismo attivo della volontà di potenza, raffigurerebbe la forma con cui la tecnica moderna conforma di sé il mondo. Negando in maniera radicale la mondanità del mondo, imporrebbe la propria fisionomia alla realtà. Il ‘Dominio’ del lavoro, pertanto, incarna la metafisica della volontà di potenza. Nell’evoluzione del pensiero di Heidegger, oltre a intervenire nella risoluzione dell’enigma ‘Nietzsche’, come si è molto rapidamente segnalato, l’opera di Jünger ha un significato ulteriore che peraltro travalica la pura dimensione teoretica e che merita l’apertura di una parentesi in grado di gettare un po’ di luce su una «ferita del pensiero» apparentemente non cicatrizzabile. Il famigerato anno di rettorato di Heidegger (1933-34), al di là di qualsiasi altra considerazione sulla vicenda, infatti si presenta, almeno pubblicamente, sotto il segno degli interventi jüngeriani dei primi anni trenta e, in particolare, del «lavoro» come principio generale dell’esistenza43. In questo contesto, tangenziale rispetto al problema ‘Jünger e la tecnica’, peraltro c’è solo lo spazio per dire che Heidegger, con l’adesione istituzionale al nuovo regime, ritiene possibile influenzare, da una lato, il destino dell’Università, in modo da integrarla nel generale processo di trasformazione della realtà tedesca, e, dall’altro, giudicando la costituzione dello Stato nazionalsocialista un evento rivoluzionario, di persuadere il potere hitleriano verso una comprensione autentica della potenza epocale della tecnica come l’età della consunzione del mondo moderno e vettore di trasfigurazione dell’‘umanità’ dell’uomo. Si tratta, dunque, per il rettore dell’Università di Friburgo, di donare un senso attuale alla realtà dove si vive e lavora, cioè di determinare l’esperienza del pensiero in quanto facoltà del lavoro. Il sapere, allora, come servizio, rappresenta il fondamento della comunità. La logica metafisica del lavoro, disarticolando la separazione tra mente e corpo, smonta la polarità classica tra l’attività teorica e quella pratica e favorisce la fusione delle parti sociali che compongono il popolo tedesco. Se lo spirito del celebre discorso di rettorato del 7 maggio 42

Ivi, p. 754. Naturalmente, e non va dimenticato, anche la filosofia del movimento hitleriano si legittima ideologicamente tramite una valorizzazione-rivoluzione-tutela del lavoro: quello nazista è il partito dei lavoratori tedeschi – Nationalsocialistische Deutsche Arbeiter-Partei. 43

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1933 sull’autoaffermazione dell’Università, con il riferimento al servizio del lavoro e a quello delle armi (oltre a quello specifico del sapere) come doveri degli studenti nei confronti del popolo tedesco, non lascia dubbi a tal proposito, la prima citazione pubblica da parte di Heidegger di Jünger è posticipata di circa sei mesi. In occasione della cerimonia per l’immatricolazione degli studenti all’Università di Friburgo, il 25 novembre 1933 (in cui si pone, esplicitamente, il problema dell’«essenza del nuovo studente tedesco»), ribadendo l’idea che il lavoro costituisce la funzione essenziale della comunità degli studenti, Heidegger fa un riferimento esplicito all’Operaio di Jünger. Lo studente tedesco, «impegnato sotto l’autorità della nuova realtà tedesca», è descritto con i tratti specifici del Tipo-umano: «conosciamo la fermezza dei tratti dei loro volti, la tesa chiarezza del loro sguardo determinato, il modo deciso con cui stringono la mano»44. Recependo l’idea di fondo anti-marxiana de L’Operaio – il lavoro non è una merce –, cioè non è comprensibile «dal punto di vista economico», Heidegger pensa piuttosto che «l’uomo pone se stesso, in quanto essere che lavora, entro il dibattito dirimente con l’essente nella sua interezza»45. Il lavoro distingue qualsiasi modalità dell’agire e perciò nel nuovo Stato tedesco, per quanto le funzioni siano ancora diverse, non si dà che un’unica modalità di esistenza possibile: quella del lavoratore. A questo punto in sintesi: Heidegger nell’anno del rettorato, elaborando la riflessione di Jünger sulla tecnica, immagina di contribuire, non senza peraltro una dose massiccia di ambiguità, a corrodere un caposaldo della logica liberale: la divisione del lavoro46. Come se il nazionalsocialismo potesse rappresentare un movimento politico in grado di garantire un’adeguata intelligibilità ontologica della Machenschaft. Come se davvero questo compito epocale si potesse risolvere, come Heidegger sembra pensare tra il 1933-34, nella visione del mondo del Führer-operaio tedesco. 44

M. HEIDEGGER, Lo studente tedesco come lavoratore, in: Scritti politici (1933-1966), a cura di G. Zaccaria, Casale Monferrato 1998, p. 162. Ma è nel capoverso in cui si fa il nome di Jünger che diventa più trasparente la presenza de L’Operaio: «l’essenza del lavoro […] intona adesso interamente il modo in cui l’essere umano è e sostiene il suo stesso aver luogo» (ivi, p. 164). 45 Ibidem. 46 Nell’arco di tempo del rettorato Heidegger ritorna anche in altre occa-

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L’essere del lavoro nell’epoca della mobilitazione totale, platonicamente, è senza tempo e storia. L’operaio lavora in-finitamente e dunque con il tempo si relaziona nella medesima maniera della tecnica: con indifferenza. Non è determinato storicamente; non si è costituito nel divenire, piuttosto la sua misura dispiega l’essere della tecnica con cui invade e organizza il mondo: «la tecnica è il modo e la maniera in cui la forma dell’Arbeiter mobilita il mondo»47. L’impassibilità meccanica dell’operaio, al di là della logica del valore, rivela una forza oltre-nichilistica (la questione del valore anche in Jünger, nietzscheanamente, nomina quella del nichilismo). Con il dominio dell’operaio, Jünger, nel 1932, pensa che la valorazione del mondo si è conclusa; dunque, «ormai è superfluo occuparsi ancora del rovesciamento dei valori – basta vedere il nuovo ed entrare a farne parte»48. Nella società del lavoro totale non c’è margine per una qualsivoglia tensione nichilistica. L’ente nella realtà della meccanizzazione assoluta non esprime un valore per cui, specularmente, potrebbe sorgere un processo di svalutazione; piuttosto la totalità dell’ente è in funzione del movimento ‘imperturbabile’ della tecnica. Il lavoro fagocita lo spazio (‘cielo’ e ‘terra’) di cui si nutre ogni valorazione, quello, per intenderci, in cui hanno senso giudizi morali, polarità come bene e male. Nell’universo da officina si tratta, invece, di sapere se un ente produce o meno. La questione del valore allora è un problema dell’individuo, di chi possiede una doppia struttura: interiorità ed esteriorità. Un genere di bipartizione antropologica che con il dominio della tecnica si scioglie: Lo stretto rapporto del tipo umano con il numero e la quantità, la severa e chiara univocità del suo tenore di vita, sembrano separare drasticamente il suo mondo da quell’altro mondo, ispirato alle muse, in cui l’uomo partecipa della “superiore nobiltà della natura”. La costituzione metallica della sua fisionomia, la sua sioni sul tema del lavoro e sempre con accenti inequivocabilmente jüngeriani: vedi Il servizio del lavoro e l’Università del 20 giugno 1933, intervento pubblicato sulla Freiburger Studentenzeitung (ivi, pp. 146-147); il 22 gennaio 1934, al cospetto di ex-disoccupati (ivi, pp. 168-173); ed infine il 23 gennaio 1934 con un altro breve intervento sempre sulla Freiburger Studentenzeitung (ivi, pp. 173-175). 47 E. JÜNGER, Der Arbeiter, cit., p. 160 (tr. it. p. 140). 48 Ivi, pp. 59-60 (tr. it. p. 51).

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predilezione per le strutture matematiche, l’assenza di distinzioni e diversità psichiche tra i vari esponenti del tipo, e infine la sua buona salute, corrispondono assai poco alle rappresentazioni che ci si è fatti dei portatori di energia creativa. L’elemento tipico vale come figurazione dell’elemento civilizzatore, la quale si differenzia sia dalle figurazioni naturali sia da quelle della cultura e della civiltà: elemento distintivo è l’assenza di valori49.

Privo di qualsiasi disposizione morale nei riguardi del mondo e della propria attività, l’operaio è una figura anticristiana; o meglio: la tecnica moderna «in quanto distruttrice di ogni fede in generale è anche la più decisiva forza anticristiana che mai sia entrata in scena»50. Termina l’incudine della trascendenza; precipita la dissonanza tra l’essere e l’esistenza; è sovrana l’immanenza assoluta. Circonfusa di un alone magico e potenza rituale, la tecnica annienta qualsiasi differenza dell’essere. L’operaio è la materia in cui lo spirito della tecnica assorbe la natura. Ciò, da un lato, comporta la risoluzione del progetto moderno mediante la deflagrazione del gesto teorico cartesiano radicato nella dialettica soggetto-oggetto; ma, contestualmente, annuncia e prefigura la composizione post-moderna dell’umano: l’operaio, in questo senso, sembra preannunciare la fisionomia del cyborg (diventa allora tutt’altro che esagerato quanto Jünger scrive nella premessa de L’Operaio per l’edizione della prima pubblicazione delle opere complete in dieci volumi del 1964: «molto di ciò che allora suonava sorprendente o persino provocatorio è oggi entrato nell’esperienza quotidiana»51). Se il suo corpo non è ancora materialmente assemblato artificialmente, il suo carattere, però, è forgiato dalla macchina. Già con il Tipo, in fondo, non ha più alcun senso distinguere tra artificiale e naturale (nella società del lavoro totale «è caduta la distinzione tra mondo organico e mondo meccanico»52); la questione, infatti, è più primi49

Ivi, p. 233 (tr. it. p. 203). Colui il quale è sorto per debellare il nichilismo della décadence, in realtà, una volta compiuto l’ordine della tecnica, si rivela la figura che lo conduce alla massima esplicitazione della sua essenza, quando cioè la totalità dell’ente vale come puro nulla. 50 Ivi, p. 165 (tr. it. p. 144). 51 Ivi, p. 12 (tr. it. p. 8). 52 Ivi, p. 171 (tr. it. p. 149).

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tiva: nell’era del lavoro bisogna semplicemente verificare se l’uomo è in grado di funzionare/produrre. Dolore e seduzione «La tecnica è la magica danza che il mondo contemporaneo balla» . Lo spessore metafisico della tecnica moderna risiede nella sua energia ammaliante. La razionalizzazione della totalità dell’ente si genera allora, secondo Jünger, a differenza di quanto pensa Max Weber, con un capillare e costante incantamento del mondo. L’operaio lo domina perché lo seduce54. È una potenza magica quella che erompe nella realtà della funzionalizzazione; si sprigiona una forza che plasma qualsiasi ambito dell’esistenza. Nell’epoca della fine del valore e del trionfo dell’organizzazione tecnica del mondo, Jünger sonda lo sconvolgimento della civiltà occidentale tramite un esistenziale in grado di verificare l’avvento del Tipo umano: il dolore. In un saggio del 1934, il dolore nomina, fruendo di una costitutiva «indifferenza ai nostri sistemi di valore»55, il criterio per auscultare la dimensione ‘nucleare’ dell’era della tecnica. È l’unità di misura per accertare la natura di un nuovo eone storico: «quale ruolo svolge il dolore nell’ambito di quella nuova razza umana che si sta ora profilando e che abbiamo designato come l’Arbeiter?»56. Se è vero che durante la prima guerra mondiale deflagra l’elementare, Jünger negli anni trenta ne sorprende l’effettiva penetrazione nella vita quotidiana. Ne rinviene la disse53

53

A. GNOLI/F. VOLPI, I prossimi titani, cit., p. 22. Alla relazione Weber-Jünger in riferimento al senso della modernità è dedicato uno studio specifico, peraltro deludente: H. KIESEL, Wissenschaftliche Diagnose und dichterische Vision der Moderne. Max Weber und Ernst Jünger, Heidelberg 1994. La rappresentazione della valenza magica della tecnica da parte di Jünger, in realtà, è concepita in un romanzo successivo alla fine della seconda guerra mondiale: Die Gläserne Bienen (1957; SW 15; tr. it. in: Le api di vetro, a cura di H. Furst, Parma 1993) descrive l’invasione barbarica della natura da parte della tecnica in modo che la logica della produzione non subisca alcuna interruzione. Ma il romanzo, per l’appunto, esprime anche l’estrema, anodina, fascinazione del processo di meccanizzazione del mondo. 55 E. JÜNGER, Über den Schmerz, SW 7, p. 148 (tr. it. Sul dolore, in: Foglie e pietre, cit., p. 142). 56 Ivi, p. 146 (tr. it. p. 140). 54

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minazione nella stoffa della natura della natura umana. Prova a rintracciarne la perforazione nei caratteri consolidati della vita. Il dolore non è un accidente dell’esistenza del Tipo, piuttosto ne qualifica il modo di essere (vive, infatti, costantemente al limite dell’‘umano’); confuso con l’apparato, l’operaio non soffre. È imperturbabile; indifferente. Nulla ne scalfisce il profilo. Si impone l’era della durezza: evapora il carattere iper-sensibile del borghese e si afferma, invece, l’uomo che lavora senza patemi d’animo. Impassibile come una macchina. Il regno della spersonalizzazione del lavoro totale, l’impero della tipologia, disincarna la singolarità in carne ed ossa e perciò abolisce la sofferenza. Nell’universo dell’operaio qualsiasi afflizione individuale è vaporizzata ed integrata nell’automatismo complessivo di legami sociali talmente uniformati da svanire. Con la mobilitazione totale l’energia evocata è talmente imponente che la minaccia sovrastante l’uomo è di tale portata che il Tipo deve inevitabilmente eludere alla radice la sua incidenza; e perciò liquida le passioni del mondo: L’evolversi in senso oggettuale sia del singolo individuo che delle sue formazioni collettive, quale si sta oggi delineando, non è una novità assoluta. Esso caratterizza al contrario tutti quegli ambiti in cui il dolore è parte delle esperienze immediate e ovvie, e va inteso come il sintomo di un potenziale bellico accresciuto57.

La fine dell’esperienza individuale, al cospetto di una realtà fuori misura, si traduce in una radicale impassibilità nei confronti del tragico. L’energia esplosiva suscitata dalla tecnica moderna a lavoro, la potenza catastrofica che accompagna l’attività della macchina, suscita un’anestesia generale nei riguardi del dolore. ‘Quando non si prova più dolore’, allora, si accerta l’adesione dell’umanità al modo di fare della macchina, la quale, notoriamente, non muore, non soffre, al massimo si rompe. La tecnica scatena un’accelerazione imponente, ma se si resiste, assumendo la modalità del movimento turbinoso del 57 Ivi, p. 172 (tr. it. p. 166). La rivoluzione provocata dalla tecnica, «considerata dal punto di vista del dolore, [...] si presenta come un’operazione mediante la quale la zona della sensibilità viene estirpata dalla vita» (ivi, p. 162; tr. it. p. 156).

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suo dispositivo, si rivela un ostacolo all’aggressione violenta dell’energia della macchina. Diventa cioè «la nostra uniforme»58. Annichilire la potenza del dolore è inevitabile per vivere in un’età in cui il pericolo è la cifra essenziale dell’esistenza59. Il rapporto tra il dolore e il pericolo si rivela in effetti la dinamica non soltanto per cogliere il senso della critica jüngeriana al talento cardine della civiltà borghese – la «sicurezza» –, ma, più in generale, è un barometro ottimale per auscultare l’inflessione della riflessione filosofica sulla tecnica moderna. In questo senso è bene ricordare che il tema del pericolo, a partire anche dai diari di Jünger sulla Grande guerra, diventa, come è noto, snodo cruciale dell’interpretazione heideggeriana dell’inclinazione ontologica della tecnica moderna: nel tempo del suo dominio, quando cioè «la cosa è priva di salvaguardia», ovvero l’essere si risolve compiutamente nell’ente, secondo Heidegger, «l’essere è il pericolo»60. Dunque, il pericolo, quando l’essenza della tecnica – das Gestell – e il mondo sono lo stesso, nomina il senso dell’essere; condensa una lamina ontologica. Alimenta qualsiasi relazione dell’esistenza. Non è un caso allora se proprio in una conferenza dedicata alla statura ontologica del pericolo (1949), inserita in un fondamentale ciclo di conferenze dal titolo programmatico, Sguardo in ciò che è, Heidegger, facendo forse anche implicitamente i conti con il proprio «errore» politico, associ la logica della sterminio alla meccanizzazione del mondo: «centinaia muoiono in massa. Muoiono? Periscono. Sono uccisi. Muoiono? Diventano “pezzi di riserva” di una riserva della fabbricazione di cadaveri. Muoiono? Sono liquidati con discrezione nei campi di sterminio»61. Il pericolo è la situazione dell’esistenza 58

Ivi, p. 174 (tr. it. p. 168). E. JÜNGER, Einleitung: Über die Gefahr, 1931, ora in: Politische Publizistik 1919-1933, cit., pp. 620-626 (tr. it. Introduzione: Sul pericolo, in: Scritti politici e di guerra. 1919-1933, vol. III (1929-1933), cit., pp. 223-229). 60 M. HEIDEGGER, Il pericolo, in: Conferenze di Brema e Friburgo, a cura di F. Volpi, Milano 2002, p. 80. 61 Ivi, p. 83. Sul legame tra la questione della tecnica e l’esperienza politica del nazionalsocialismo in Heidegger, con sullo sfondo lo stimolo della riflessione jüngeriana sulla metafisica del lavoro, fa luce, nel coacervo inestricabile di interventi, C. RESTA, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, in: AA.VV., Heidegger e gli orizzonti della filosofia pratica, a cura di A. Ardovino, Milano 2003, pp. 157-187. Sulla questione inoltre vale la pena ancora rimandare ad uno stu59

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quando una potenza oltre-umana, la tecnica, la sorveglia incessantemente. Se, ad esempio, nelle celebri tesi dell’antropologia filosofica gehleniana la tecnica-cultura è la seconda natura dell’uomo, nel saggio Sul dolore, invece, si mette a punto l’idea che il Tipo-operaio possiede un’unica forma per cui non ha senso distinguere nel suo caso tra organico e non-organico. Tuttavia: con il tendenziale processo di meccanizzazione della totalità dell’ente e la sostanziale immunità del Tipo nei confronti di agenti patogeni connessi alla tecnologia emerge nell’operaio una «seconda coscienza». Il nome di ciò che guida la logica di una figura collocata al di là del tempo, del dolore e della morale. Il processo di oggettificazione travolge la materialità dell’esistenza: Se si dovesse definire con una parola il Tipo che vediamo prendere forma ai nostri giorni, si potrebbe dire che una delle sue caratteristiche salienti è il possesso di una «seconda» coscienza. Questa Seconda coscienza, più fredda, si annuncia nella crescente capacità di vedere se stessi come un oggetto. Ma non bisogna confondere tale facoltà con l’auto-contemplazione operata da una psicologia di vecchio stampo. La differenza tra la psicologia e la Seconda coscienza sta nel fatto che la psicologia elegge come oggetto delle sue osservazioni l’uomo sensibile, mentre la Seconda coscienza è rivolta a un uomo che è ormai estraneo alla sfera del dolore62.

Quando un mondo tramonta, e i suoi valori si disperdono, per orientarsi è necessario penetrare a fondo gli inediti legami che si instaurano con il dolore: «dove nessun valore regge alla prova, il movimento che porta al dolore rimane come un segno mirabile: in esso si rivela l’impronta di una struttura metafisica»63. L’operaio rivoluziona dio di J.-M. PALMIER, Les Ecrits politiques de Heidegger, Paris 1968, in part. pp. 165-212. 62 E. JÜNGER, Über den Schmerz, cit., p. 181 (tr. it. p. 175). La «seconda coscienza» è un prodotto della condizione del Krieger sul fronte della Grande guerra: attonito ed indifferente al cospetto di uno spettacolo di acciaio e sangue di cui è la vittima predestinata. 63 Ivi, p. 191 (tr. it. p. 185). Per un approfondimento del saggio jüngeriano del ’34, vedi V. VITIELLO, Über den Schmerz, in: «Diorama letterario», 222-223, febbraio-marzo 1999 (numero della rivista interamente dedicato a Jünger), pp.

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la relazione con il dolore; lo tipizza. Non soffre più. Cancella la patologia nichilistica dell’età della sicurezza e afferma l’imperturbabilità della forma. Nulla appare ai suoi occhi di acciaio effettivamente impressionante. La catastrofe, come annuncia la Grande guerra, si dimostra la legge della sua realtà. La fine spirituale del dolore allora, essenzialmente, segnala la consumazione dell’uomo; diventa cioè inconcepibile la domanda sulla sofferenza che ne caratterizza, come vuole Nietzsche, il suo modo di essere (Genealogia della morale). Diventa di fatto illegittimo qualsiasi quesito che non fa dell’uomo un (animale-)lavoratore totale.

23-27; e il primo capitolo del volume di S. GORGONE, Cristallografie dell’invisibile. Dolore, eros e temporalità in Ernst Jünger, Milano 2002, pp. 29-69.

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Non ci si può più liberare dagli spiriti che si sono evocati J. W. von Goethe1

Nonostante la meditazione heideggeriana riscontri il culmine della tematizzazione della questione della tecnica in quella che viene considerata la seconda fase del suo percorso, significativi prodromi di tale riflessione sono già rintracciabili negli anni di Sein und Zeit. Eppure, nella bibliografia critica sull’argomento questa «trama nascosta» non ha mai riscosso un particolare interesse, al contrario del vastissimo, a volte perfino eccessivo, scandaglio riservato alla «trama manifesta» di cui sono intrecciate le opere mature. E invece anche su questa trama nascosta e sulle possibili implicazioni speculative che essa dischiude sarebbe importante soffermarsi: ¡rmon…a ¢fan¬j faner≈j krûsswn2. È noto che nel testo del ’27 la Frage nach der Technik non venga affrontata in maniera sistematica; meno noto è che essa in realtà non possa essere trattata in tale maniera per motivazioni che ricon1 Cfr. J. W. VON GOETHE, Der Zauberlehrling, in: Gedichte und Epen I, in: Werke, Bd. 1, Hamburger Ausgabe, München 1998, p. 279. 2 «La trama nascosta è più forte di quella manifesta», in: ERACLITO, frammento 22B54 DK, in: G. COLLI, La sapienza greca, III, Milano 19962, pp. 34 s.

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ducono ai lineamenti essenziali della sua evoluzione nel pensiero heideggeriano. Negli anni di Sein und Zeit, infatti, il concetto di tecnica non può essere inserito in un sistema speculativo di riferimento compiuto, così come avverrà successivamente, quando, nell’orizzonte della cosiddetta storia dell’essere [Seinsgeschichte]3, l’epoca della tecnica verrà pensata in quanto articolazione storica del processo ontologico di disvelamento della verità dell’ente. Tuttavia siffatta mancanza di centralità non pregiudica la possibilità di un approccio originale e interessante alla questione. Prima di giungere alla determinazione storico-ontologico-destinale, la tecnica era infatti già pensata fuori dal mero ambito delle attività dell’uomo e degli attrezzi di cui egli si serve e riferita all’essere stesso dell’esserci e al suo rapporto con il mondo. Anche se lo scopo principale dello Heidegger di quegli anni non era ancora quello di analizzare in maniera sistematica il fondo ontologico della tecnica, le sue ricerche si sono da subito orientate verso il tentativo di sottrarre tale questione fondamentale a un ambito meramente soggettivistico. Lo stesso progetto successivo di una configurazione dell’epoca della tecnica come Seinsgeschichte va infatti interpretato proprio come la possibilità per il pensiero di liberare definitivamente da ogni principio o metodo soggettivistico la tecnica stessa, tentando di dire qualcosa circa l’essere dell’ente e non del soggetto. In questo modo emerge chiaramente che la prospettiva puramente ontologica del cosiddetto secondo Heidegger si delinea prima di tutto come un abbandono di qualsiasi residuo soggettivistico4, e non vi3 Heidegger intende con la locuzione «storia dell’essere» il compimento dell’evento dell’essere come oblio che occulta la propria essenza e che si è imposto come metafisica – ovvero come storia del pensiero obiettivante – e come nichilismo – come dominio della tecnica che provoca, impiega e sfrutta tutto ciò che è fino a farlo diventare niente. «La storia dell’essere non è né la storia dell’uomo e di una umanità né la storia del riferimento umano all’ente e all’essere. La storia dell’essere è l’essere stesso e soltanto esso», in: M. HEIDEGGER, Nietzsche, Gesamtausgabe (d’ora in poi GA) 6, vol. 2, Frankfurt a. M. 1997, p. 447; tr. it. Nietzsche, a cura di F. Volpi, Milano 1994, p. 938. 4 Il tentativo di Heidegger di superare l’ordinaria accezione di tecnica come «un mezzo in vista di fini» [Mittel für Zwecke], oppure come una mera «attività dell’uomo» [Tun des Menschen] si configura in maniera compiuta in: M. HEIDEGGER, Die Frage nach der Technik, in: ID.,Vorträge und Aufsätze, Stutt-

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ceversa come un modo di rarefare la questione della tecnica in una sorta di sublimazione teoretica, sospendendo ineluttabilmente ogni coinvolgimento all’ambito dell’esperienza della vita dell’individuo. Scopo principale del pensatore non è dunque quello di sottrarre ogni riferimento alla tecnica all’ambito ontico dell’essente, ma di sottrarlo a un determinato modo di concepire l’essente. L’istanza di mantenere salda la matrice ontologica della meditazione sulla questione-essere salvaguardando l’inaggirabilità ontica della questione-uomo è infatti presente in nuce già nel capolavoro del ’27, quando Heidegger tenta di schivare una mera derivazione soggettivistica della struttura del Dasein tramite la sua contestualizzazione come In-der-Welt-sein5 – come essere-nel-mondo che viene continuamente determinato da ciò che esso stesso contribuisce a determinare. Nel momento in cui la soggettività viene intesa come un insieme di relazioni che interagiscono nel mondo e non come un soggetto forte, avulso dal mondo che nondimeno pretende di determinare teoreticamente, viene scardinata la tradizionale connessione soggetto-oggetto, e quindi anche la possibilità di pensare la tecnica come uno strumento nelle mani dell’uomo. Se si volesse, dunque, estrapolare dal primo Heidegger una riflessione sulla questione della tecnica a partire dal rapporto dell’esserci con il mondo e dal suo agire in esso si potrebbe delineare una meditazione in sé già articolata, che non viene totalmente assorbita dall’ontologia, ma che anzi si confronta con istanze che problematizzano aspetti rilevanti del rapporto che con la tecnica intrattiene l’uomo. Lo sfondamento ontico-ontologico della Frage nach der Technik si connette infatti a tre elementi fondamentali presenti nelle riflessioni risalenti agli anni di Sein und Zeit, elementi fondamentali destinati a riverberarsi anche nella fase successiva del percorso heideggeriano: 1. la questione della tecnica appartiene alla questione della verità; gart 19978, pp. 10 ss.; tr. it. Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano 1976, pp. 5 ss. 5 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Tübingen 199317, pp. 52-129; tr. it. Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Milano 1976, pp. 76-167.

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2. la questione della verità si articola a sua volta nell’interazione tra autenticità/inautenticità; 3. la questione della tecnica rientra dunque nell’orizzonte dell’interazione tra autenticità/inautenticità [Eigentlichkeit/Uneigentlichkeit]. È possibile infatti rilevare come fin da Sein und Zeit la possibilità di una trattazione della questione della tecnica si configuri per Heidegger in primo luogo ed essenzialmente nell’intima connessione con la domanda sulla verità. La domanda sulla verità sfonda l’ambito meramente ontico perché essa rimanda sempre a una domanda sull’essenza; per questo, pur rimanendo intatta la centralità della vicenda esistentiva dell’esserci nel contesto del mondo, viene definitivamente tracciato in tutta la sua fondamentale inaggirabilità l’orizzonte ontologico, in cui si innesterà la questione della tecnica in quanto tale. Dal momento che però in Sein und Zeit la domanda sulla verità non viene ancora pensata esclusivamente secondo lo statuto del disvelamento – che ne rappresenta solo una possibile modalità tra le altre, anche se si inizia già a profilare una sua inderogabile priorità –, l’unico modo in cui essa può essere meditata nella sua totalità è per Heidegger quello della connessione con l’interazione di autentico e inautentico. La verità è così quella dimensione di autenticità che sempre attiene a una dimensione di inautenticità. Essa è collegata alla continua contestualizzazione mondana dell’esserci che, come abbiamo già ricordato, attiva una serie di rapporti che gli impediscono di relazionarsi al mondo come farebbe un soggetto nei confronti di un oggetto. Per un’analisi dell’interazione Eigentlichkeit/Uneigentlichkeit è necessario evidenziare che con questi termini non si intende in alcun modo una connotazione, un attributo dell’esserci, magari di impronta morale. Heidegger si rifà evidentemente alla derivazione etimologica ricostruita dai fratelli Grimm, secondo la quale il termine eigentlich è l’esatto corrispondente del latino proprius6. Dunque l’autenticità è ciò che è proprio dell’esserci – la sua “propriatezza” –, ma non come qualcosa che è in suo possesso, che ha a sua disposizione e sul quale può sempre contare, ma come ciò che rende possibile il suo progetto esistenziale: 6

J. GRIMM/W. GRIMM,

Deutsches Wörterbuch, Bd. 3, Sp. 102, 63.

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l’esserci è sempre la sua possibilità, ed esso non l’“ha” semplicemente a titolo di proprietà posseduta da parte di una semplicepresenza. Appunto perché l’esserci è essenzialmente la sua possibilità, questo ente può, nel suo essere, o “scegliersi”, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo “apparentemente”. Ma esso può aver perso se stesso o non essersi ancora conquistato solo perché la sua essenza comporta la possibilità dell’autenticità, cioè dell’appropriazione di sé. Autenticità e inautenticità (queste espressioni sono state scelte nel loro senso terminologico stretto) sono modi di essere che si fondano nell’essere l’esserci determinato, in linea generale, dall’essere sempre mio [Jemeinigkeit]. L’inautenticità dell’esserci non importa però un “minor” essere o un grado “inferiore” di essere. L’inautenticità può invece determinare l’esserci, con concretezza più piena, nella operosità e nella vivacità, nella capacità di interessarsi e di provare piacere7.

In questo modo, pur non aprendo spazi di un agire morale, con la dinamica di autentico/inautentico Heidegger connette la questione della verità alla questione dell’agire dell’esserci che è capace di essere autentico solo se riesce ad appropriarsi di se stesso. L’inautenticità non viene denigrata come una dimensione esterna alla “propriatezza” dell’esserci, ma come una possibilità insita al proprio progetto esistenziale. Questa coappartenenza di autentico e inautentico corrisponde in maniera speculare alla coappartenenza di disvelamento e di velamento tramite la quale si articolerà successivamente la dinamica della verità come ¢l»qeia. Ma, prima di procedere con questa analisi – che apre uno spazio originale di interpretazione della questione della tecnica –, è necessario soffermarsi brevemente sui diversi approcci con cui in Sein und Zeit viene affrontata la questione della verità, nonché sui successivi sviluppi di tale problematica in Heidegger. Nel testo del ’27 la Wahrheit viene analizzata infatti sotto differenti prospettive: nella sua inautenticità – verità come Gewißheit8, ovvero come certezza del calcolo e del metodo; nella sua duplice fase ontica di autenticità – veri-

7 8

M. HEIDEGGER,

Sein und Zeit, cit., pp. 42-43 (p. 65). Ivi, § 21, pp. 95 ss. (pp. 125 ss.).

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tà come Entschlossenheit9, ovvero come quella risolutezza con la quale l’esserci corrisponde alla chiamata della propria coscienza in maniera totale, e come Erschlossenheit10, ovvero come quell’apertura che dischiude l’esserci al mondo a cui coappartiene; nella sua fase ontico-ontologica – verità come Entdeckendsein11, ovvero come esserescoprente, e come Entdecktheit12, ovvero come scoprimento dell’apertura stessa del Dasein; nella sua piena autenticità ontologica – verità come Unverborgenheit des Seins13. Questa differenziazione verrà completamente annullata nella concezione conclusiva della verità come disvelamento, concezione verso la quale, come dimostra l’ultima definizione citata, tendono le opere degli anni Venti, e dalla quale partono tutte quelle successive14. Attraverso queste determinazioni della verità dunque riesce già ad emergere la coappartenenza di tecnica e verità, ma in un ambito non ancora pienamente ontologico. In esse, infatti, si può pensare la tecnica in rapporto alle possibilità proprie dell’uomo, e non come evento capace di istituire e dominare un’epoca, quale di lì a poco emergerà chiaramente dagli scritti heideggeriani, quando non sarà più possi9

«Con la decisione [Entschlossenheit] viene raggiunta la verità dell’esserci più originaria, perché autentica», in: ivi, p. 297 (p. 360). 10 «[…] con l’apertura [Erschlossenheit] dell’esserci è raggiunto il fenomeno più rigorosamente originario della verità», in: ivi, pp. 220-221 (pp. 271-272). 11 «L’esser vero [Wahrsein] in quanto esser-scoprente [Entdeckend-sein] è una maniera di essere dell’esserci», in: ibidem. 12 «Lo scoprimento [Entdecktheit] dell’ente intramondano si fonda nell’apertura del mondo», in: ibidem. 13 «L’esser vero del lÒgoj in quanto ¢pÒfansij è l’¢lhqeÚein nel senso dell’¢pofa…nesqai: lasciar vedere l’ente nel suo non-esser-nascosto [Unverborgenheit] (esser-scoperto) [Entdecktheit], facendolo uscire dal suo esser-nascosto», in: ivi, p. 219 (p. 270). 14 Non è un caso che in una nota risalente al 1943 lo stesso Heidegger individui il luogo dove avviene la svolta [Kehre] del suo pensiero nel “salto”, ovvero nel passaggio tra il quinto paragrafo di Dell’essenza della verità – intitolato appunto L’essenza della verità [Das Wesen der Wahrheit] – ed il sesto – La non-verità come velamento [Die Unwahrheit als die Verbergung]. La Kehre può compiersi solo nel momento in cui il pensiero non si interroga più semplicemente sull’essenza della verità, ma tenta di approfondire la dinamica della verità come disvelamento. Cfr. M. HEIDEGGER, Wegmarken, Frankfurt a. M. 19963, pp. 192 ss.; tr. it. Segnavia, a cura di F. Volpi, Milano 1989, pp. 146 ss.

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bile pensare diverse espressioni di verità, ma solo l’unica dinamica ontologica con cui riuscire a meditare qualcosa circa l’essere «senza cura dell’essente»15. La prospettiva è destinata a cambiare a causa della sostituzione del piano ontico dell’esserci con il piano storico della storia del pensiero, storia del pensiero irrevocabilmente identificata come metafisica. Nel momento in cui la metafisica diventa la localizzazione dell’oblio dell’essere che si manifesta nel tempo della povertà che l’umanità sta vivendo, essa risulta essere un luogo di accesso privilegiato all’essere stesso, e la tecnica viene pensata come il correlato storico – un vero e proprio «apriori storico»16 – della metafisica stessa. Nell’ambito di questa prospettiva il discorso heideggeriano sui rapporti tra tecnica e verità si riformula, acquisisce i suoi contorni più noti, diviene più esplicito e stratificato. La connessione che tiene insieme tecnica e verità può ora essere ricondotta all’essere tramite la dimensione fondamentale del Gestell17, termine con cui Heidegger individua nell’“impianto” quell’“imposizione” che è l’essenza stessa della tecnica stessa. Il suo rapporto con l’essere è strettissimo, dal momento che il Gestell rappresenta «un primo, incalzante balenare dell’Ereignis» che, in quanto tale, «inaugura il mondo della tecnica contemporaneo»18. Il Gestell, dunque, non solo ha a che fare con l’Ereignis – con l’evento in cui si essenzia quella dinamica di appropriazione dispropriante con cui l’essere appropria a sé l’ente di-spropriandosi da esso, indicando nel modo più autentico il Sein stesso come la pura ontologicità del Seyn, pur non essendo giammai un «concetto

15

Zur Sache des Denkens, Tübingen 20004, p. 25; tr. it Tempo ed essere, a cura di E. Mazzarella, Napoli 1980, p. 131. 16 E. MAZZARELLA, Tecnica e oikologia: etica e ontologia, in: ID., Ermeneutica dell’effettività, Napoli 1993, p. 115. 17 M. HEIDEGGER, Vorträge und Aufsätze, cit., p. 20 (p. 14). 18 M. HEIDEGGER, Identität und Differenz, Pfullingen 1957, p. 31; tr. it. Identità e differenza, a cura di U.M. Ugazio, in: «aut-aut», Milano 1982, n. 187188, p. 24. La tecnica, infatti, «nella sua essenza è qualcosa che non può essere dominato», poiché attiene all’essere stesso, come il «concernimento essenziale dell’uomo contemporaneo» alla sua verità, come il perenne rimando a ciò che si è trovato ad essere e a quello che massimamente potrebbe pensare; cfr. E. MAZZARELLA, Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Napoli 1981, p. 229. M. HEIDEGGER,

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sommo che tutto abbraccia»19 –, ma ne è un’articolazione peculiare, quella cioè che coincide con ciò che noi possiamo esperire oggi come la verità dell’essere. La tecnica infatti «dispiega la sua essenza nell’ambito in cui accadono disvelamento [Entbergen] e disvelatezza [Unverborgenheit]». L’ambito in cui agisce l’essenza della tecnica è dunque lo stesso in cui si articola l’essenza della verità, ma, mentre quest’ultima fa necessariamente i conti con la Verborgenheit che le coappartiene, la prima impone di pensare quel richiamo al nulla che sempre compete alla Wahrheit, quel buio da cui solo è pensabile la luce della radura della Lichtung, come contestualizzabile in una peculiare «visione del mondo», ovvero quel modo preciso di considerare da parte del pensiero obiettivante la «realtà» come «fondo»20, in quanto oggetto dei propri calcoli e delle proprie verifiche. Considerare il reale come fondo significa contare e ritenere la realtà come un correlato ontico perfettamente riconducibile al proprio pensiero, significa «identificare la presenza di una cosa con la sua disponibilità tecnica»21, in modo da rivolgersi a tutto quello che ci circonda e che ci riguarda come a «un insieme organizzato di forze calcolabili»22, imponendo come legge del reale il «pericolo»23 come apoteosi della dimenticanza, e facendosi irretire dalla minaccia dell’«ingannevole convinzione che attraverso la produzione, la trasformazione, l’accumulazione e il governo delle energie naturali […] la produzione tecnica metterà in ordine il mondo»24. Considerare il reale come fondo significa in ultima istanza cercare di annichilire la l»qh che coappartiene all’¢l»qeia calcolandone una possibile esattezza e ren19

M. HEIDEGGER,

20

M. HEIDEGGER,

Zur Sache des Denkens, cit., p. 22 (p. 127). Vorträge und Aufsätze, cit., p. 24 (p. 15). 21 M. HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, Stuttgart 199711, p. 263; tr. it. In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo e M. Caracciolo, Milano 1973, p. 207. 22 M. HEIDEGGER, Holzwege, hrsg. von F.-W. von Herrmann, Frankfurt a. M. 1960, p. 294; tr. it. Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, Firenze 1968, p. 271. 23 «L’essenza della tecnica è l’impianto [Gestell]. L’essenza dell’impianto è il pericolo. L’essere è nella sua essenza il pericolo di se stesso», in: M. HEIDEGGER, Die Gefahr, in: Bremer und Freiburger Vorträge, GA 79, Frankfurt a. M. 20052, p. 54; tr. it. Il pericolo, in Conferenze di Brema e di Friburgo, a cura di F. Volpi e G. Gurisatti, Milano 2002, p. 81. 24 Ibidem.

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dendola disponibile come un dato accertabile che, anche se difficile da raggiungere, rimane pur sempre raggiungibile. Secondo Heidegger la tecnica, nel momento in cui si articola con la stessa dinamica della verità, ma cercando di occultare l’autentica verità dispiegantesi nella dispropriazione dell’Enteignis propria dell’Ereignis, corrisponde alle imposizioni e alle violenze che, tramite le macchine e le invenzioni tecnologiche, l’uomo compie ogni giorno nei confronti della natura, ma anche nei confronti degli altri uomini e nei confronti di se stesso. La tecnica appartiene all’Ereignis nel momento in cui appartiene alla Seinsvergessenheit, all’oblio dell’essere localizzabile nell’imposizione con cui l’uomo si rivolge alla realtà come ad un fondo, che coincide concettualmente con il modo con cui egli si è posto nei confronti dell’essere sempre e solo come ente. Scrive Heidegger, infatti, che «il Gestell è come Ereignis, ma è tale in modo che dell’Ereignis è al tempo stesso il mascheramento perché ogni “adibire” [bestellen] si vede inserito nel pensiero calcolante e parla così il linguaggio del Gestell»25. La tecnica come una modalità del disvelamento – ma come la modalità inautentica, incapace di rapportarsi con le proprie autentiche possibilità – si articola nella stessa traiettoria in cui si localizza la metafisica come luogo in cui si è disvelato l’occultamento del pensiero dell’essere. Il movimento – come disvelamento – è lo stesso, ma è l’essere a cui ci si rapporta a darsi in maniera differente: per la metafisica è un ente, per il pensiero autentico è l’Ereignis. La coappartenenza di tecnica e verità dunque si fonda sul fatto che la tecnica appartiene all’essere stesso poiché essa, come la verità, è «un modo del disvelamento» [eine Weise des Entbergens26], ma mentre la verità si disvela soltanto provenendo da un nascondimento, alimentandosi di questo nascondimento e rinviando sempre ad esso, la tecnica cerca di intrattenere un rapporto di dominio e di imposizione con questa fase necessaria della verità, qual è la sua l»qh. La domanda sulla verità è indispensabile non solo per comprendere l’espropriazione disvelante che avviene nell’evento dell’essere propria dell’¢l»qeia, ma anche per comprendere l’appropriazione velante 25

M. HEIDEGGER,

26

M. HEIDEGGER,

Unterwegs zur Sprache, cit., p. 263 (p. 207). Vorträge und Aufsätze, cit., p. 15 (p. 9).

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propria dell’accadere dell’epoca della tecnica come oblio dell’essere. La verità, infatti, non può essere esperita in tutta la sua terribile essenza come svelatezza che con il nascondimento non smette mai di fare i conti e da cui viene continuamente dominata, ma, secondo la legge che vuole imporre la tecnica, essa deve essere pensata nella sua essenza come Sicherheit27, come una precisa strategia assicurativa che della l»qh, del velamento, deve necessariamente fare a meno per continuarsi e continuare ad operare e a calcolare. Questo accade perché gli uomini vivono in un’epoca, quella della povertà, caratterizzata dall’occultarsi dell’essere e dal suo nascondimento; esso può dispiegarsi soltanto nella massima mistificazione dell’autenticità che è capace di attuare la tecnica, nel suo modo di rendere «sicuro» in un fondamento anche il nulla. Tale dominio si è imposto nella storia del pensiero con la metafisica che, secondo Heidegger, ha tradito il pensiero dell’origine e delle origini presocratiche, imponendosi come sapere scientifico – come Philosophieren –, e ha fatto dell’oblio dell’essere la sua scaturigine (invece che il suo antagonista), dell’oblio della differenza ontologica la sua ostinazione (invece che la sua eccezione) e dell’ente – come un ente sommo fino all’età moderna e come l’uomo (il soggetto pensante) da Descartes in poi – il suo fondamento, invece che la sua domanda più urgente e problematica. La connessione tra tecnica e verità conduce in questo modo alla totale identificazione del pensiero con l’ontologia. Alla luce di queste analisi, è possibile constatare come la connessione tra tecnica e verità dischiuda una chiave interpretativa con cui tentare di decifrare l’intero percorso filosofico heideggeriano. Nelle opere della maturità essa rischia però di trascurare in maniera irrecuperabile le istanze più proprie e le potenzialità dell’uomo che, nella grande parabola della Seinsgeschichte, sembrerebbe subire pedissequamente la tecnica come un elemento dell’ingranaggio del più

27

Secondo Heidegger la tecnica – come luogo in cui si apre massimamente l’occultamento dell’essere e in cui esso è esperibile per l’uomo e per il suo pensiero – ha come scopo precipuo quello di «decidere» dell’essenza della verità per ridurla ad essere «sicurezza» e dell’essenza dell’essere per limitarla ad essere «una macchinazione»: M. HEIDEGGER, Besinnung, GA 66, hrsg. von F.-W. von Herrmann, Frankfurt a. M. 1997, p. 174.

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ampio impianto [Gestell], quasi ne fosse uno «schiavo»28. Sappiamo che Heidegger risolve questo nodo estremamente critico sostenendo che l’atteggiamento autentico nei confronti della tecnica è quello di un «abbandono alle cose [Gelassenheit zu den Dingen]», un «contegno» [Haltung] – e quindi a tutti gli effetti un agire – che impedisca all’uomo di rimanere soggiogato dal rapporto con gli strumenti da lui stesso creati, permettendogli così, secondo le opportunità, di dire di sì o di dire di no alla tecnica29. In questo modo Heidegger crede di salvaguardare l’irriducibile essenza ontologica della questione riuscendo anche ad aprire uno spazio di azione per l’uomo stesso. Da un lato la questione della tecnica nello Heidegger maturo, dunque, è lontanissima dalla trattazione che come vedremo tra poco su di essa si può evincere nelle prime opere, perché la prospettiva storico-destinale sovrasta quella “fisica-ontologica”, ma dall’altro essa risulta molto vicina proprio per questa fondamentale correlazione alla domanda sulla verità. Abbiamo osservato che in Sein und Zeit la verità dell’esserci risiede nell’intreccio eigentlich/uneigentlich, ed è proprio in riferimento a quanto esposto finora che potrebbe risultare interessante recuperare la dinamica autenticità/inautenticità da cui abbiamo preso le mosse. Tale dinamica, infatti, salvaguarda la centralità dell’esserci, pur non scadendo in una deriva meramente antropocentrica. Mentre la Gelassenheit zu den Dingen rischia di rimanere il manifesto astratto di una meditazione che parla sull’atteggiamento da tenere nei confronti della tecnica, la dinamica Eigentlichkeit/Uneigentlichkeit indica concrete articolazioni di tale atteggiamento. In Sein und Zeit possiamo individuare questo rapporto tra tecnica e possibilità dell’uomo nella dimensione del prendersi cura [Besorgen]30, che secondo le parole di Heidegger consiste nell’«avere a che fare con qualcosa, produrre [herstellen] qualcosa, ordinare [bestellen] o curare qualcosa, impiegare qualcosa, abbandonare o lasciar perdere qualcosa, intraprendere, imporre, ricercare, interrogare, considerare, discutere, determinare [bestimmen]…»31. Mentre il «concetto strut28

M. HEIDEGGER, Gelassenheit, Pfullingen 1959, p. 22; tr. it. L’abbandono, a cura di C. Angelino e A. Fabris, Genova 1989, p. 37. 29 Ivi, p. 23 (p. 38). 30 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, cit., p. 57 (p. 81). 31 Ivi, pp. 56-57 (p. 80).

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turale» della cura [Sorge] – inteso come l’essere dell’esserci nell’unità del suo dispiegamento estatico di presente, passato futuro, ovvero nella sua imprescindibile, essenziale temporalità32 – può e deve essere determinato esclusivamente da un punto di vista ontologico, il concetto correlato di Besorgen può essere riferito all’ambito dell’esperienza che l’esserci intrattiene nel suo rapporto con il mondo. L’esserci non può prescindere dal suo spazio di azione che è il Besorgen, poiché esso stesso articola la sua apertura originaria nei confronti delle cose e degli uomini. Il punto di svolta sulla questione della tecnica in Sein und Zeit è riscontrabile nel fatto che nel Besorgen rientra anche la dimensione della tecnica, esplicitamente ad esempio nei modi [Weisen] dello Herstellen, del Bestellen, del Bestimmen. Proprio queste determinazioni saranno al centro delle analisi che nel celeberrimo Die Frage nach der Technik33 del 1953 Heidegger elabora sull’essenza della tecnica intesa come Gestell. In questo testo siffatte determinazioni rientrano nell’impiego provocatorio con cui l’uomo riduce la natura e gli oggetti a entità meramente calcolabili e sfruttabili. Anch’esse rappresentano eine Weise des Entbergens, un modo del disvelamento della ritrazione con cui l’essere si allontana da ogni orizzonte di comprensibilità teoretica. Ma prima di questa determinazione prettamente ontologica, nelle analisi di Sein und Zeit esse indicavano semplicemente una possibilità dell’esserci tra le altre, senza connotazioni positive o negative. Anche in questo caso alla dinamica Entbergen/Verborgenheit si sostituisce la dinamica Eigentlichkeit/Uneigentichkeit su cui si fonda il Besorgen, perché l’autenticità è, come abbiamo accen32

Cfr. ivi, pp. 182 ss. (pp. 229 ss.). «La parola stellen [alla lettera, «porre»] non rimanda soltanto, nel termine im-posizione [Ge-stell] alla pro-vocazione, ma deve conservare anche la risonanza di un altro «porre» da cui deriva, cioè di quello che si trova nelle parole Her-stellen e Dar-stellen (produrre, presentare) che – nel senso della po…hsij – fa avanzare nella disvelatezza ciò che è presente. Questo produrre che fa apparire, per esempio l’erezione di una statua nello spazio del tempio, e il Bestellen, l’impiego pro-vocante […] sono fondamentalmente diversi, e tuttavia rimangono affini nella loro essenza. Entrambi sono modi del disvelamento, dell’¢l»qeia. Nella im-posizione accade la disvelatezza conformemente alla quale il lavoro della tecnica disvela il reale come “fondo”», in: M. HEIDEGGER, Vorträge und Aufsätze, cit., p. 24 (p. 15). 33

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nato, l’essere proprio dell’esserci verso se stesso, la sua propria identità nel contesto del mondo, la sua capacità di corrispondere alle più proprie possibilità. All’interno di queste possibilità si articolano altresì le possibilità della tecnica, tecnica che potrebbe anche configurarsi come una possibilità non ‘negativa’ se l’uomo fosse capace di relazionarsi ad essa in maniera autentica. Soltanto perché l’uomo è innanzitutto e perlopiù orientato verso l’inautenticità – verso la dispersione dell’anonimato e il decadimento nell’alienazione quotidiana – la tecnica diventa uno strumento deleterio di dominio nei confronti del mondo e degli altri enti. In questo modo si recupera nell’ambito del pensiero heideggeriano una possibilità diversa per l’analisi della questione della tecnica, una possibilità concreta di non considerare la tecnica esclusivamente come un pericolo che sgomenta, ma proprio come una possibilità per l’uomo di relazionarsi alla problematica dell’appropriazione di se stesso. È chiaro che Heidegger non ha seguito questa strada consapevolmente, negando di fatto che la tecnica possa essere una possibilità. Come già accennato, essa è il principio ontologico che destina l’oblio dell’essere che impedisce all’uomo di avere un contatto con la forma più alta di verità, ovvero con la verità come disvelatezza. La tecnica è l’unico accesso ontologico al velamento, ovvero a quel movimento della verità che solo è ancora realizzabile per l’uomo dell’epoca della povertà del mondo. Heidegger ha bisogno di connettere la tecnica alla Seinsfrage non solo per evitare ogni deriva soggettivistica, ma anche per penetrare l’essenza di dominio con cui la tecnica stessa controlla il mondo. Alla luce di questa impostazione non si potrebbe in alcun modo considerare la tecnica in connessione alla dimensione della possibilità, se non in una prospettiva metafisico-obiettivante che identifica la possibilità con la disponibilità, ovvero con la riduzione di tutto a un dato meramente calcolabile. In termini di reale/possibile, dunque, la tecnica sarebbe la realtà del disvelamento, l’unica realtà ontologica che permette di pensare l’essere come l’appropriazione dispropriante dell’Ereignis. Eppure in questo modo Heidegger non tiene fede a una tesi fondamentale di tutta la sua filosofia, alla quale in realtà ha sempre cercato di essere fedele, ovvero il primato – e non solo la priorità – della possibilità sulla realtà: höher als die Wirklich-

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keit steht die Möglichkeit34. Nella tecnica intesa come modo del disvelamento il pensiero heideggeriano compie paradossalmente un piccolo tradimento nei riguardi di se stesso, sostenendo l’apoteosi della fissità del principio di realtà nei confronti della dinamicità dell’essenza della possibilità. Mentre il principio di realtà rischia di implodere in un pensiero che si limita a descriverne la pur fondamentale configurazione, la possibilità attiva una meditazione che tenta di svilupparne in maniera propositiva le sempre nuove articolazioni. Questo paradosso non apre direttamente un’interpretazione positiva o conciliante del fenomeno e del concetto di tecnica moderna, ma di sicuro inserisce e problematizza in una prospettiva più ampia la tecnica nell’orizzonte del pensiero heideggeriano. Tuttavia non è di certo questo l’unico elemento di complessità della questione. È noto come la visione heideggeriana della tecnica – geniale nella sua arbitraria irriducibilità – sia stata aspramente criticata, soprattutto perché essa è a volte apparsa come la raffigurazione di un fato ineluttabile e irreversibile che rischia di annullare ogni possibile spazio dell’agire umano. In tal senso le obiezioni più dure sono state mosse soprattutto nei confronti dell’impossibilità di istituire un’etica che non sia quella – in fin dei conti alquanto sfuggente – ontologische Ethik di cui si parla nel Brief über den Humanismus35 e che di fatto rende impraticabile ogni altro tipo di etica non ontologica. Questo è secondo Heidegger l’unico modo per evitare che l’etica si riduca a ciò che in origine non può essere, ovvero a un «predicare e impartire censure morali»36. È noto che, secondo tali presupposti, l’etica non può più considerata come una dottrina che distribuisce delle regole che sfociano poi in un agire che sia un «portare a compimento»37, poiché essa, nel momento in cui è un pensiero, agisce sem34

M. HEIDEGGER,

35

M. HEIDEGGER,

Sein und Zeit, cit., p. 38 (p. 59). Wegmarken, cit., pp. 353 ss. (pp. 307 ss.). Sugli sviluppi del rapporto tra tecnica ed etica nel pensiero heideggeriano anche in riferimento alle problematiche dell’ecologia, si cfr. le analisi contenute in: N. RUSSO, Filosofia ed ecologia, Napoli 2000, pp. 253 ss. 36 M. HEIDEGGER, Spiegel-Gespräch mit Martin Heidegger, in: AA.VV., Antwort. Martin Heidegger im Gespräch, hrsg. von G. Neske, E. Kettering, Pfullingen 1988, p. 104; tr. it. Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, a cura di E. Mazzarella, tr. di C. Tatasciore, Napoli 1992, p. 128. 37 M. HEIDEGGER, Wegmarken, cit., p. 313 (p. 267).

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pre e solo «in quanto pensa»38. Heidegger stesso indica chiaramente i limiti di ogni etica quando afferma che «non ci è possibile superare la tecnica con la morale», non solo perché la filosofia – come ogni altra «mera intrapresa umana» – non «conosce nessuna strada per una trasformazione immediata dello stato attuale del mondo»39, ma soprattutto perché «la tecnica non è semplicemente né in primo luogo soltanto qualcosa di umano. La tecnica è nella sua essenza un modo ben preciso della manifestatività dell’essere, e attraverso il destino dell’essere deve passare l’uomo»40. Proporre una filosofia morale non considerando l’essenza della tecnica significa cercare soluzioni provvisorie a circostanze critiche che provvisorie non sono, soluzioni che non riescono in alcun modo a fronteggiare una situazione che risulta invece radicale e ineludibile e che, secondo Heidegger, è «solo al suo inizio»41. Estremizzando, si potrebbe addirittura affermare che, nell’ottica di Heidegger, la morale non fa altro che giustificare il dominio tecnico perpetrando l’oblio dell’essere a cui essa appartiene e 38 39

Ivi, p. 313 (p. 268). M. HEIDEGGER, Spiegel-Gespräch mit Martin Heidegger, cit., p. 104 (p.

128). 40

M. HEIDEGGER, Seminare, GA 15, hrsg. von C. Ochwadt, Frankfurt a. M. 1986, p. 433; tr. it. (parziale): Seminari, a cura di M. Bonola e F. Volpi, Milano 1992, pp. 202-203. 41 M. HEIDEGGER, Spiegel-Gespräch mit Martin Heidegger, cit., p. 103 (p. 127). Rimane indubbiamente valida l’ammonizione secondo cui indugiare in siffatte meditazioni potrebbe allontanare dalla concretezza di un’azione morale. Ma, secondo Heidegger, sarebbe più deleteria una visione unilaterale e semplicistica che consideri punto di partenza di ogni filosofia morale soltanto gli «effetti» dell’imposizione della tecnica, e non la sua indicibile provenienza. «Non è la bomba atomica – ribadisce il filosofo – in quanto ordigno di morte il mortifero. Ciò che da tempo minaccia l’uomo di morte – e di una morte che concerne la sua stessa essenza – è l’incondizionatezza del puro volere, nel senso dell’autoimposizione deliberata e globale», in M. HEIDEGGER, Holzwege, cit., p. 294 (p. 271). Non si può indicare nessuna morale autentica se si parte solo dalla situazione di povertà e di coercizione che caratterizza l’era che stiamo vivendo. Secondo Heidegger bisogna partire dalla situazione di mancanza con cui si manifesta la sottrazione dell’essere che ha provocato l’arroganza metafisica che dice di sì a un fondamento ontico e l’inganno della tecnica che dice di sì al «puro volere» di controllare e calcolare tutto: «la bomba atomica è già esplosa da tempo» e rimarrà sempre meno ‘pericolosa’ dell’essenza della tecnica stessa, in: M. HEIDEGGER, Seminare, cit., p. 433 (p. 202).

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consegnarsi a un pensiero inautentico, proprio perché non si interroga sulla sua essenza. Per Heidegger l’etica è, infatti, prima di tutto riappropriazione delle proprie più autentiche possibilità, riappropriazione della possibilità di riconoscere nell’oblio dell’essere l’impossibilità di possedere l’essere. Questa incapacità della filosofia di fornire norme morali condivisibili e di ispirare valori oggettivi viene intesa nella prospettiva dell’etica ontologica come una chiusura della meditazione allo spazio dell’agire, mentre in Sein und Zeit, pur essendo confermata dal richiamo della coscienza alla propria finitezza, essa viene comunque messa in relazione alla possibilità dell’agire. Questa Möglichkeit des Handelns risulta infatti intimamente connessa con la possibilità ontico-ontologica più alta, ovvero il poter-essere dell’esserci: «la coscienza, nella sua chiamata, non dà ingiunzioni “pratiche” di alcun genere, unicamente perché essa desta l’esserci all’esistenza, al suo poter-essere-se-stesso più proprio. Se fornisse, secondo le attese, massime [Maximen] univocamente calcolabili, la coscienza sottrarrebbe all’esistenza niente meno che la possibilità di agire»42. In Sein und Zeit, dunque, il poter-essere dell’esserci si orienta nello spazio dell’agire secondo la prospettiva della possibilità. Nell’ambito di queste possibilità la tecnica occupa un posto che non viene né esaltato, né demonizzato. Rapportarsi ad essa significa recuperare la centralità dell’interazione di autentico/inautentico per un approfondimento della questione della tecnica. Nelle dinamiche della Seinsgeschichte, le istanze essenziali dell’uomo rischiano di essere oscurate, mentre nell’interazione fra autentico e inautentico – pur rimanendo salvaguardato il fondo ontologico –, l’uomo acquista una centralità che nella storia dell’essere non può in alcun modo ricoprire. Se compito del pensiero è esclusivamente quello di analizzare il movimento del disvelamento della storia dell’essere, rischia di annullarsi non solo l’ambito dell’agire, ma anche la possibilità dell’agire. Essa va misurata sull’autenticità della chiamata della coscienza, che in Heidegger fino alle sue ultimissime opere ha un solo nome: quello della finitezza [Endlichkeit]. La prospettiva che nell’evoluzione della questione della tecnica heideggeriana rimane invariata consiste pro42

M. HEIDEGGER,

Sein und Zeit, cit., p. 294 (p. 356), traduzione modificata.

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prio nell’identificazione dell’identità dell’esserci con la finitezza, sia quando l’esserci viene analizzato nella sua contestualità mondana, sia quando viene inserito nel gioco ontologico della dispropriazione appropriante dell’Ereignis. Nel momento in cui il compito del filosofo non può essere quello di indottrinare o emendare gli uomini, il richiamo alla finitezza rientra in maniera determinante nello spazio dell’azione che deve orientarsi verso un orizzonte autentico di finitudine sempre tracciato nell’ineluttabile inautenticità propria dell’esistere. Non esiste un approccio adeguato alla questione della tecnica se non ci si confronta in maniera radicale con l’altrettanto radicale commistione di autenticità e inautenticità dell’esserci, commistione che fonda il primato della possibilità sulla realtà, e in ultima analisi del pensiero problematico su ogni forma di pensiero dogmatico. La questione della tecnica è il culmine della meditazione sulla finitezza nel pensiero heideggeriano, sia se la si voglia lasciare ancorata al solo fondamento ontologico, sia se si voglia tentare di farla rientrare nelle dinamiche più proprie della progettualità ontico-ontologica dell’esserci. Seguire i sentieri della finitezza significa corrispondere alle possibilità più proprie del domandare filosofico, anche se questo cammino autentico è destinato a percorrere in tutta la sua vastità l’orizzonte dell’inautenticità – e forse proprio per questo.

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Derrida non ha mai affrontato tematicamente la questione della tecnica. Tuttavia la tecnica non è semplicemente assente dall’opera di Derrida. È possibile rilevarne tracce fin dall’inizio dell’impresa della decostruzione. In particolare, l’interrogazione della tecnica sembra essere in qualche modo implicata in quella della scrittura, il punto critico in forza del quale la decostruzione si apre un varco nella struttura di opposizioni gerarchicamente organizzata che costituisce la metafisica della presenza, sollecitandone le fondamenta fino a desedimentare la precaria rimozione sulla quale insiste: Tecnica al servizio del linguaggio: qui non ricorriamo a un’essenza generale della tecnica che ci sarebbe già familiare e ci aiuterebbe a comprendere, come un esempio, il concetto limitato e storicamente determinato della scrittura. Pensiamo al contrario che un certo tipo di interrogazione sul senso e l’origine della scrittura preceda o almeno si confonda con un certo tipo di interrogazione sul senso e l’origine della tecnica. Proprio per questo non avverrà mai che la nozione di tecnica illumini semplicemente la nozione di scrittura1. 1

J. DERRIDA, Della Grammatologia (1967), tr. it. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A. C. Loaldi, Milano 1969, p. 11.

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Se la metafisica della presenza, da Platone ad Hegel, fino a Saussure ha definito la scrittura come tecnica al servizio del senso, e quindi come strumento secondario, esterno e subordinato alla presenza del senso, ed allo stesso tempo, come artificio che minaccia l’integrità vivente di questa stessa presenza, allora una riformulazione del concetto di scrittura, quale Derrida intraprende tematicamente in Della Grammatologia, non può non produrre effetti anche sul concetto di tecnica in virtù di una certa origine comune delle relative determinazioni all’interno della metafisica della presenza2. Proprio per questo la nozione ereditata di tecnica non è adeguata alla comprensione di quella di scrittura se non all’interno della concettualità che Derrida vuole decostruire e per la quale la scrittura è appunto una tecnica al servizio del linguaggio. Questo non significa che sia vero il 2 Ivi, p. 39: «Il male della scrittura viene da fuori, diceva già il Fedro (275 a). La contaminazione da parte della scrittura, il suo fatto o la sua minaccia, sono denunciati con accenti da moralista e da predicatore dal linguista ginevrino. L’accento conta: avviene come se, nel momento in cui la scienza moderna del logos vuole accedere alla sua autonomia ed alla sua scientificità, bisognasse ancora fare il processo ad un’eresia. Questo accento cominciava a farsi sentire quando, nel momento di legare già nella stessa possibilità l’episteme ed il logos, il Fedro denunciava la scrittura come intrusione della tecnica artificiosa, effrazione di una specie del tutto originale, violenza archetipica: irruzione del fuori nel dentro, che intacca l’interiorità dell’anima, la presenza vivente dell’anima a sé nel logos vero, l’assistenza che la parola porta a se stessa». Derrida tematizza la trattazione platonica della scrittura, intesa come scena originaria dell’inclusione subordinante della scrittura nella filosofia in: J. DERRIDA, La farmacia di Platone, in: ID., La disseminazione (1972), tr. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Milano 1989. La co-implicazione di tecnica e scrittura guida la riscrittura platonica del mito dell’origine della scrittura. Cfr. ivi, p. 122: «Nel Fedro il dio della scrittura è dunque un personaggio subordinato, un secondo, un tecnocrate senza poteri di decisione, un ingegnere, un servitore astuto e ingegnoso ammesso a comparire davanti al re degli dèi. Quest’ultimo ha accettato di riceverlo nel suo consiglio. Theut presenta una tèchne e un pharmakon al re, padre e dio che parla e comanda con la sua voce assolata. Quando questi avrà fatto sentire la sua sentenza, quando l’avrà lasciata cadere dall’alto, quando avrà prescritto nell’atto stesso di lasciar cadere il pharmakon, allora Theut non risponderà». Su questa coimplicazione originaria ci sia concesso dire solo che per Derrida, in Platone, ritroviamo, da un lato, la matrice del trattamento tradizionale della scrittura come tecnica, strumento ausiliario, dall’altro, però, le motivazioni platoniche per cui la scrittura viene intesa come minaccia all’integrità della presenza viva del senso nell’anima, diventano la matrice per il trattamento tradizionale della tecnica come minaccia per la vita.

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contrario e cioè che la nozione ereditata di scrittura possa da se stessa comprendere e permetterci di spiegare quella di tecnica. Qui Derrida allude piuttosto alla possibilità di rilevare, attraverso la determinazione classica della scrittura in opposizione alla presenza del senso (nell’interiorità dell’anima, del soggetto, della coscienza…) alla quale sarebbe sempre esterna e subordinata, ciò che questa opposizione metafisica rimuove, rimozione sulla quale la metafisica si erige e che non riguarda più solo il trattamento della scrittura empiricamente determinata e storicamente data. Solo una volta messa in rilievo tale rimozione, solo una volta desedimentato ciò che tale rimozione reprime, si potranno valutare gli effetti della riformulazione del concetto di scrittura in ciò che riguarda la tecnica. Questo però non giustifica la semplice assimilazione della tecnica alla scrittura all’interno della decostruzione: se c’è confusione tra scrittura e tecnica, in virtù della radice comune della determinazione di queste nozioni all’interno della tradizione metafisica, questo non significa che tutto ciò che la decostruzione dice della scrittura valga immediatamente ed allo stesso modo per la tecnica3. Se la tecnica è tematicamente assente dall’opera di Derrida è pure possibile rilevarne, attraverso una lettura micrologica, le tracce, e quindi provare a spiegarne l’articolazione con la scrittura, ma per isolarne i tratti specifici e soprattutto gli effetti specifici, in particolare proprio quelli che si riverberano sul concetto stesso di scrittura nel corso della sua rielaborazione decostruttiva che non si esaurisce nei testi esplicitamente dedicati a questo tema, ed in particolare in Della Grammatologia. Il passaggio citato infatti, posto in apertura di Della Grammatologia, orienta, più o meno discretamente, la rielaborazione dell’iscrizione della scrittura nella concettualità metafisica producendo effetti a cascata, che si propagano in modo discontinuo nel corso dell’opera successiva di Derrida fino a quella più recente. In questa prospettiva vorremmo tentare di chiarire l’articolazione tra scrittura e tecnica nel lavoro di Derrida a partire da un’occorrenza precisa in cui tale articolazione ci pare produrre effetti decostruttivi significativi, e cioè spostamenti sia concettuali che storici, ri3

RAZZI,

È questo il limite, ci pare, del lavoro, comunque pionieristico, di G. CHIUScrittura e Tecnica. Derrida e la metafisica, Torino 1992.

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guardanti in particolare la relazione tra la “tecnica” e la “vita”. Un problema oggi all’ordine del giorno. Cercheremo di rilevare le tracce della tecnica discretamente disseminate in Spettri di Marx4. Si tratta di un testo in cui Derrida fa i conti con l’eredità di Marx, discutendo quelli che ritiene siano i presupposti metafisici dell’opera di Marx, in particolare della critica dell’ideologia e della teoria del feticismo della merce. Lungo questo percorso, che non potremo ricostruire nel dettaglio, cercheremo di mettere in serie alcune tracce in modo da ricostruire una trama in cui la tecnica, l’articolazione tra tecnica e scrittura, assume la portata decostruttiva della lettura di Derrida, sollecitando irriducibilmente la determinazione metafisica della “vita” presente nell’opera di Marx e non solo5. La tecnica degli spettri In Spettri di Marx Derrida si intromette nel serrato dialogo che ne L’ideologia tedesca Marx intraprende con Max Stirner, l’autore de L’unico e la sua proprietà6. «Tutto il dibattito – osserva Derrida – qui concerne, certo, lo statuto della generalità concettuale ed il cattivo trattamento che Stirner gli fa subire, secondo Marx, fantomatizzandolo»7. Da un lato Stirner, per il quale qualsiasi elaborazione spirituale, generalità ideale, è una finzione che deve essere demistificata, perché opprime l’uomo nella sua unicità assoluta subordinandolo ad un ordine di valori che gli è sostanzialmente estraneo8. Dall’altro Marx, per 4 J. DERRIDA, Spectres de Marx, Paris 1993; tr. it. a cura di G. Chiurazzi, Spettri di Marx, Milano 1994. Di seguito faremo riferimento all’edizione originale, la traduzione è nostra. 5 Per una lettura più dettagliata di Spettri di Marx mi permetto di rinviare a F. VITALE, Introduzione alla lettura di Spettri di Marx, in: F. VITALE/F.M. CACCIATORE, Materiali, Differenze, in: «Quaderni materialisti», Milano, anno 20042005, 3/4 e a S. REGAZZONI, La decostruzione del politico. Undici tesi su Derrida, Genova 2006, in part. «X. This thing. Gli spettri del politico, il lavoro del lutto e il nome di Marx», pp. 431-504. 6 Cfr. K. MARX/F. ENGELS, L’ideologia tedesca, tr. it. di F. Codino, Roma 1977 1 (1958 ). 7 J. DERRIDA, Spectres de Marx, cit., p. 218. 8 Sulla posta in gioco nello scontro tra Marx e Stirner, cfr. E. BALIBAR, La filosofia di Marx, tr. it. di A. Catone, Roma 1994: pp. 49 s.: «[Stirner] è prima di

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il quale finzioni sono solo quelle elaborate dall’ideologia dominante e che è necessario demistificare in quanto, costruite nell’interesse di una classe, occultano quella prassi reale e concreta della vita umana che dovrebbe essere la loro origine autentica: la produzione umana in vista della soddisfazione dei bisogni propriamente umani e cioè la riproduzione della vita umana attraverso l’elaborazione della natura, «il processo della vita reale […] quale processo della vita di individui determinati; ma di questi individui, non quali possono apparire nella rappresentazione propria o altrui, bensì quali sono realmente, cioè come operano e producono materialmente, e dunque agiscono fra limiti, presupposti e condizioni materiali determinate e indipendenti dal loro arbitrio»9. In effetti è Stirner ad evocare tutte le generalità ideali in quanto “spettri”, e tuttavia lo stesso Marx, che discute Stirner quasi parola per parola, il più delle volte parafrasandone ironicamente il discorso, tenta di sfruttare per proprio conto il ricorso alla metafora spettrale, se ne impossessa e ne resta posseduto: “Come io mi trovo” (da intendere “il giovane si trova”) “dietro le cose, e precisamente come spirito, così più tardi devo trovarmi” (da intendere “il giovane deve trovarsi”) “anche dietro i pensieri, come loro creatore e proprietario. Al tempo delle visioni i pensieri sopraffacevano in me” (nel giovane) “la mente che li aveva generati; come fantasie febbrili aleggiavano attorno a me e mi sconvolgevano con orribile forza. I pensieri erano diventati di per sé corporei, erano fantasmi, quali Dio, imperatore, papa, patria, tutto un anarchico, difensore dell’autonomia della società, composta di individui che sono tutti singoli, proprietari del loro corpo, dei loro bisogni e delle loro idee, a fronte dello Stato Moderno, nel quale si concentra, a suo parere, ogni dominio e che ha ripreso, a proprio vantaggio, gli attributi sacri del potere elaborati dalla teologia politica del Medioevo. Ma, soprattutto, Stirner è un nominalista radicale: intendiamo con ciò che per lui ogni generalità, ogni concetto universale è una finzione forgiata da alcune istituzioni per dominare la sola realtà naturale, cioè la molteplicità degli individui in cui ciascuno è unico nel suo genere». La critica di Stirner è giudicata pericolosa da Marx ed Engels «perché (…) ingloba tutte le nozioni universali, senza eccezione (…). Stirner non vuole saperne di nessuna credenza, di nessuna Idea, di nessuna grande narrazione: né di quella di Dio, né di quella dell’uomo, né di quella della chiesa, né di quella dello stato, ma neppure, decisamente, di quella della rivoluzione». 9 K. MARX/F. ENGELS, L’ideologia tedesca, cit., p. 13.

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ecc.; col distruggere il loro essere corporeo io li faccio rientrare nel mio e dico: io solo sono concreto. E allora prendo il mondo come ciò che esso è per me, come il mio, la mia proprietà; e riferisco ogni cosa a me”. Dopo che l’uomo qui identificato con “l’Unico” ha dunque dato, innanzitutto, concretezza ai pensieri, ossia ne ha fatto dei fantasmi, egli torna a distruggere questa concretezza facendola rientrare nel suo corpo che pone così come corpo dei fantasmi. Il fatto che egli arrivi alla sua propria concretezza attraverso la negazione dei fantasmi indica come sia fatta questa complessa concretezza dell’uomo, che l’uomo deve prima “dire” “a sé” per crederci. […]. L’uomo che da giovane si è messo in testa ogni sorta di stupidità intorno alle forze e alle condizioni esistenti, come imperatore, patria, Stato, ecc., e che le ha conosciute soltanto come sue proprie “fantasie febbrili”, sotto la forma delle sue rappresentazioni, secondo san Max distrugge realmente queste forze togliendosi dalla testa la falsa opinione che ne aveva. Al contrario, poiché non guarda più il mondo attraverso gli occhiali della sua fantasia, egli deve preoccuparsi della loro connessione pratica, conoscerla bene e regolarsi di conseguenza. Distruggendo la concretezza fantastica che essa aveva per lui, egli ne trova la concretezza reale fuori della sua fantasia. Quando per lui è scomparsa la concretezza fantomatica dell’imperatore, per lui è scomparsa non la concretezza, bensì la “fantomaticità” dell’imperatore, del quale solo ora egli può valutare la forza reale nella sua estensione10.

Secondo Derrida, tanto Marx quanto Stirner, pur opponendosi nelle procedure da seguire, intendono scongiurare gli spettri dello spirito (hegeliano, naturalmente), esorcizzarne il potere illusionista e incantatore che opprimerebbe l’uomo. E quindi tutti e due condividono la convinzione che la produzione spirituale sia essenzialmente produzione di spettri, che la metafora spettrale sia in grado di descrivere ed allo stesso tempo svelare la verità occulta della produzione della generalità concettuale in quanto permetterebbe di riconoscerne le condizioni artificiali e perciò stesso artificiose e cioè estranee alla realtà concreta della vita umana della quale il pensiero dovrebbe essere il prodotto immanente11. 10

Ivi, p. 104. Com’è noto, per Marx all’origine la produzione ideale è diretta emanazione della prassi materiale umana (cfr. ivi, pp. 13, 21). 11

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In particolare, secondo Derrida, la metafora spettrale, serve, sia a Stirner che a Marx, ad individuare, nella genesi della generalità concettuale il momento della determinazione mistificante: La produzione del fantasma, la costituzione dell’effetto fantasma, non è semplicemente una spiritualizzazione, nemmeno l’autonomizzazione dello spirito, dell’idea o del pensiero, quale si produce per eccellenza nell’idealismo hegeliano. No, una volta questa autonomizzazione effettuata, con l’espropriazione o l’alienazione corrispondenti, e solo allora, gli sopravviene il momento fantomale, esso gli aggiunge una dimensione supplementare, un simulacro, un’alienazione o un’espropriazione di più. Ovvero un corpo! Una carne! Giacché non c’è fantasma, non c’è mai divenire spettro dello spirito senza almeno un’apparenza di carne, in uno spazio di visibilità invisibile… Perché ci sia fantasma ci vuole un ritorno al corpo, ma un corpo più astratto che mai. Il processo spettrogeno risponde dunque ad un’incorporazione paradossale. Una volta che l’idea o il pensiero sono staccati dal loro substrato, si generano fantasmi dando loro corpo. Non ritornando al corpo vivente dal quale sono strappate le idee o i pensieri, ma incarnando questi ultimi in un altro corpo artificiale, un corpo protetico, un fantasma dello spirito, si potrebbe dire un fantasma del fantasma se, come lo lascia pensare Marx, la prima spiritualizzazione produce già spettri. Ma una specificità più acuta appartiene al fantasma che si direbbe “secondo”, come incorporazione dello spirito autonomizzato, come espulsione oggettivante dell’idea o del pensiero interiori12.

L’elaborazione della generalità concettuale diventa produzione di spettri nel momento in cui, al primo momento di astrazione dell’idealità dalla sua genesi concreta e vivente, e cioè alla sua determinazione quale prodotto autonomo del pensiero di un uomo, segue l’incorporazione oggettiva, l’inscrizione dell’idealità in una forma concreta, un corpo che, altro da quello vivente dal quale è sorto, assicura al prodotto del pensiero una vita autonoma e per questo efficace, e cioè capace di produrre effetti al di là della sua genesi singolare e contingente all’interno del pensiero di un uomo, e tuttavia una vita estranea rispetto a quella dell’uomo che l’ha prodotta.

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J. DERRIDA,

Spectres de Marx, cit., p. 202.

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In particolare, per Marx lo spettro ideologico è il prodotto di un artificio tecnico, degli «occhiali della fantasia», è una protesi tecnica che, prodotta per supplire ad una carenza organica del corpo vivente riguardo alla visione naturale, in realtà la perverte sostituendo alla visione immediata e naturale della realtà concreta quella fantastica e fittizia dell’immaginazione. Dunque lo spettro è un corpo artificiale e cioè altro da quello vivente e naturale, una protesi, e quindi un dispositivo tecnico chiamato a supplire simulandola l’assenza di vita della generalità concettuale conseguente al primo momento di astrazione, e tuttavia un corpo capace di assicurare alla generalità concettuale vita ed efficacia concreta, e cioè la permanenza e la trasmissione della generalità concettuale nell’orizzonte delle istituzioni in cui consiste la tradizione: «La teoria dell’ideologia dipende per molti tratti, lo sottolineeremo, da questa teoria del fantasma. Come teorema stirneriano criticato, corretto o rovesciato da Marx, essa formalizza meno un processo di spiritualizzazione, l’autonomizzazione dell’idealità spirituale, che una legge paradossale dell’incorporazione: l’ideologico, così come, mutatis mutandis, il feticcio, sarebbe il corpo dato, o piuttosto prestato, preso in prestito, l’incarnazione seconda conferita ad una idealizzazione iniziale, l’incorporazione in un corpo che certo non è né percettibile né visibile, ma resta una carne, in un corpo senza natura, in un corpo a-fisico che si potrebbe chiamare, se ci si fidasse di queste opposizioni, un corpo tecnico o un corpo istituzionale»13. Perché Derrida definisce come corpo tecnico la forma dell’oggetto ideale quale appare agli occhi di Marx e cioè come lo spettro, il prodotto dell’ideologia? Per Marx il prodotto dell’elaborazione ideale in tanto è efficace sul piano ideologico in quanto può essere separato dal pensiero vivente singolare e contingente che lo produce ed essere iscritto in una forma oggettiva – un corpo – che ne assicura la permanenza e la trasmissione al di là della sua produzione reale, singolare e contingente e indipendentemente da essa; una forma oggettiva che ne assicura quindi la sopravvivenza al di là della presenza vivente dalla quale ha avuto origine supplendo così alla sua irriducibile contingenza. 13

Ivi, p. 203.

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Secondo Derrida, questa possibilità è di ordine meramente tecnico: l’iterabilità indefinita della funzione che l’iscrizione dell’idealità in una forma oggettiva rende possibile è una prestazione che la nostra tradizione ci ha abituato ad attribuire al prodotto di una tecnica, al funzionamento di una macchina senza vita. E tuttavia proprio questa possibilità conferisce all’oggetto ideale una vita autonoma, altra da quella che siamo abituati a considerare propriamente come vita, e perciò una vita artificiale e quindi falsa agli occhi di Marx che vi riconosce soltanto il potere incantatore dell’ideologia. Per Derrida, al contrario, questa possibilità è la condizione irriducibile dell’elaborazione ideale in generale, e quindi della costituzione di uno “spirito oggettivo” «come luogo della verità, della tradizione, della co-responsabilità, ecc.»14 e quindi, in un senso che dovremo precisare, della vita stessa. Ma prima ancora di orientare la nostra lettura in questa direzione e quindi risalire ai primissimi lavori di Derrida dedicati allo studio, a partire dalla fenomenologia husserliana, delle condizioni di possibilità della genesi delle oggettualità ideali, è necessario rilevare, ancora in Spettri di Marx, un’ulteriore occorrenza del ricorso di Derrida alla tecnica per descrivere tali condizioni, in particolare per coglierne la portata decostruttiva rispetto all’opposizione classica tra “vita” e “tecnica”. Per Derrida, lo si è visto, la concezione della produzione della generalità concettuale come produzione di spettri costituisce il nucleo irriducibile della teoria dell’ideologia di Marx e come tale resta all’opera nella definizione della merce come feticcio. La tecnica del feticcio La lettura di Derrida si concentra sulla conclusione del primo capitolo – «La merce» – della prima sezione – «Merce e denaro» – del 14

J. DERRIDA, Introduzione a «L’origine della geometria» di Husserl (1962), tr. it. di C. Di Martino, Milano 1987, p.114. Citiamo per esteso il passo in cui Derrida individua il motivo più generale che anima lo scritto di Husserl sulla genesi delle idealità della geometria: «In che modo a partire dalle concatenazioni di senso e dalle evidenze di un ego monadico da cui non possiamo non partire, di diritto come di fatto, uno spirito oggettivo in generale può costituirsi, come luogo della verità, della tradizione, della co-responsabilità, ecc.».

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primo libro del Capitale: il famoso paragrafo intitolato Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano15. Marx ha appena descritto la genesi della “forma denaro”, quale incarnazione oggettiva della forma di equivalente generale, a partire dal suo “germe”, «la forma semplice di merce»16. Si tratta, com’è stato giustamente notato, della descrizione del processo di idealizzazione che, a partire dalla realtà concreta dei bisogni umani e della produzione dei mezzi per la loro soddisfazione, si realizza nell’istituzione di una forma oggettiva, vieppiù astratta e universale – il denaro – e perciò capace di rendere possibile il rapporto di valore e quindi lo scambio tra i diversi prodotti di diverse forme di lavoro17. A questo punto per Marx si tratta di spiegare perché la genesi della forma semplice di merce sia in grado da sola di innescare la dinamica di dominio del Capitale: A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che essa soddisfa, con le sue proprietà, bisogni umani, sia che riceva tali proprietà soltanto come prodotto di lavoro umano. È chiaro come la luce del sole che l’uomo, con la sua at15

Il Capitale, tr. it. di D. Cantimori, Roma 19707, Libro I, cap. I, 4. Ivi, p. 84. 17 Cfr. E. BALIBAR, La filosofia di Marx, cit., p. 90: «Si tratta di mostrare come la grandezza di valore di una merce possa essere espressa nella quantità di un’altra, cosa che è, propriamente, il “valore di scambio”. È il punto che appariva a Marx il più difficile e il più importante, perché permetteva di dedurre la costituzione di un “equivalente generale”, cioè di una merce “universale”, estratta dalla circolazione, in maniera che tutte le altre merci esprimessero in essa il loro proprio valore; e, reciprocamente, in modo che essa stessa si sostituisse automaticamente a tutte le merci, o le “comprasse” tutte. Si tratta di mostrare come questa funzione sia materializzata in un genere d’oggetto determinato (i metalli preziosi). […] L’altra faccia di questa materializzazione è allora un processo di idealizzazione costante del materiale monetario, poiché serve ad esprimere immediatamente una forma universale o un’“idea”. Incontestabilmente, a dispetto del suo approccio tecnico e delle difficoltà che esso comporta, questo ragionamento di Marx è una delle grandi esposizioni filosofiche della formazione delle “idealità”, o degli “universali”, e del rapporto che queste entità astratte hanno con le pratiche umane». 16

K. MARX,

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tività, cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. Per esempio quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in cosa sensibilmente soprasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sviluppa dalla sua testa di legno delle chimere molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a danzare18.

La logica spettrale elaborata da Derrida è pertinente: il divenire merce della cosa sensibile, immediatamente presente ed evidente, equivale al divenire spettrale, cosa sensibile-soprasensibile, corpo apparentemente vivente ma artificiale: il tavolo di legno, cosa sensibile, una volta divenuto merce, si anima; da oggetto d’uso, prodotto dal lavoro umano, sua emanazione diretta, diventa cosa viva, autonoma, assume un corpo, una consistenza concreta ed efficace ma indipendente tanto rispetto alle sue naturali proprietà di cosa, quanto rispetto alle proprietà attribuitegli dalla trasformazione del lavoro umano, al suo valore d’uso in vista della soddisfazione di bisogni naturali. Il tavolo diventa spettro, quando da oggetto d’uso diventa merce, oggetto di scambio. L’opposizione tra valore d’uso e valore di scambio, è l’opposizione gerarchica tra una presenza vivente, quella dell’uomo che produce il tavolo per i propri bisogni propriamente umani o per rispondere ai bisogni propriamente umani di altri uomini, e una presenza spettrale, indipendente da questi bisogni umani. In particolare, una volta divenuta merce la cosa non solo diventa spettro ma è capace di generare da se stessa, autonomamente e automaticamente, tutta una serie di altre formazioni fantastiche, chimere, che si addensano in quello che per Marx è l’ordine pervasivo dell’ideologia, in quella «nebbia fantomatica che vela i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci»19. Derrida focalizza l’attenzione proprio su quest’ultimo aspetto, e cioè su ciò che per Marx determina il carattere di feticcio della merce in virtù della sua genesi spettrale: la merce si appropria dei tratti del corpo vivente dal quale ha avuto origine come prodotto del lavo18 19

K. MARX,

Il Capitale, cit., p. 84. Ivi, p. 90 (tr. it. modificata).

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ro umano ed allo stesso tempo li inscrive in un corpo artificiale capace di vivere e funzionare autonomamente e indipendentemente dal lavoro umano vivente dal quale è stata prodotta. La merce-spettro intanto appare spontanea e autonoma e cioè dotata di un corpo vivente, in quanto funziona automaticamente come una macchina, come il prodotto di una tecnica che ne garantisce il funzionamento – lo scambio – regolare ed in linea di principio indefinito – la vita stessa – indipendentemente dalla presenza vivente, reale e concreta ma singolare e contingente, del lavoro umano che di fatto l’ha prodotta: La contraddizione capitale non attiene soltanto all’incredibile congiunzione del sensibile e del soprasensibile nella stessa Cosa, è quella dell’autonomia automatica, della libertà meccanica, della vita tecnica. Come ogni cosa, dall’istante in cui essa entra sulla scena di un mercato, la tavola rassomiglia ad una protesi di se stessa. Autonomia e automatismo, autonomia ma automatismo di questa tavola di legno che si dà spontaneamente il suo movimento, e così sembra animarsi, animalizzarsi, spiritualizzarsi, spiritizzarsi, ma restando comunque un corpo artefattuale, una specie di automa, un figurante, un pupazzo meccanico e rigido la cui danza obbedisce alla rigidità tecnica di un programma. Due generi, due generazioni di movimento si incrociano in essa, ed è in questo che essa figura l’apparizione di uno spettro. Essa ne accumula indecidibilmente, nella sua stranezza inquietante, i predicati contraddittori: la cosa inerte appare improvvisamente ispirata, è d’un tratto paralizzata da uno pneuma o da una psyché. Divenuta come vivente, la tavola rassomiglia ad un cane profetico che si drizza sulle sue quattro zampe, pronto a fronteggiare i suoi simili: un idolo vorrebbe fare la legge. Ma inversamente lo spirito, l’anima o la vita che l’animano restano presi nella cosità opaca e pesante della hyle, nello spessore inerte del suo corpo legnoso, e l’autonomia non è più altro che la maschera dell’automatismo. (…). L’automa mima il vivente. La Cosa non è né morta né vivente, è morta e viva in una volta. Essa sopravvive20.

Il feticismo della merce ha dunque origine dalla sua genesi spettrale, una genesi capace allo stesso tempo di occultare l’origine concreta e vivente – il lavoro umano – della forma merce e di attribuirle una vita autonoma ed efficace – lo scambio –; una vita artificiale che 20

J. DERRIDA,

Spectres de Marx, cit., p. 244.

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usurpa, mimandola, quella naturale propriamente umana trasformandosi in sua condizione e dunque pervertendola irriducibilmente. In particolare, ciò che caratterizza agli occhi di Marx la forma merce come feticcio, secondo Derrida, è la sua ambiguità irriducibile: insieme autonomia e automatismo, vita e tecnica, vita tecnica. La forma della merce è autonoma e indipendente rispetto al suo produttore vivente e quindi è a suo modo vivente perché capace di produrre da se stessa, spontaneamente, i suoi effetti sul mercato, e tuttavia vita artificiale, prodotto tecnico, capace di ripetere indefinitamente la sua funzione, automatismo privo di vita e tuttavia macchina vivente, almeno in apparenza, un’apparenza che per Marx è necessario dissipare per liberare la vita vera e cioè quella propriamente umana che viene usurpata e oggettivata nella forma merce: L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce [zurückspiegelt] agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali. Proprio come l’impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell’occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa, l’oggetto esterno, su un’altra cosa, l’occhio: è un rapporto fisico tra cose fisiche. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti del lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano21.

La forma spettrale della merce da un lato rende oggettivi i prodotti del lavoro, e quindi separa il lavoro dalla sua realtà immediata e vivente, naturale – la soddisfazione immediata dei bisogni, la sfera del valore d’uso – dall’altro nasconde la sua genesi presentando come og21

K. MARX,

Il Capitale, cit., p. 85.

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gettive, naturali, quelle condizioni storicamente determinate della produzione sociale dalla quale la forma merce ha origine: la società borghese quale compiuto sviluppo della forma di produzione contenuta in germe nella forma semplice della merce22. Ancora una volta, l’arcano della forma merce è l’effetto di una visione naturale distorta, il prodotto di una protesi tecnica, un dispositivo ottico artificiale e illusionistico, uno specchio che invece di restituire il riflesso immediato e naturale della realtà ne darebbe una visione rovesciata, facendo apparire come naturale e oggettivo quel che è il prodotto di relazioni sociali storicamente determinate e velando allo stesso tempo queste stesse relazioni che dovrebbe rispecchiare come ciò che è veramente reale e oggettivo. Resta da spiegare il motivo per cui lo sviluppo storico della forma merce, orientato secondo le descrizioni dello stesso Marx alla costituzione di un equivalente generale, di una forma di idealità convenzionale vieppiù astratta, e perciò capace di garantire tali relazioni sociali (la possibilità dello scambio) in un elemento oggettivo in linea di principio universale, si risolve da se stesso, necessariamente, autonomo e automatico, in una fantasmagoria capace di occultare e pervertire le relazioni sociali che in questa forma si oggettivano: «Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste tra gli uomini stessi. Quindi per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che si appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che è quindi inseparabile dalla produzione delle merci»23.

22

Ivi, p. 94: «Queste formule portano segnata in fronte la loro appartenenza a una formulazione sociale nella quale il processo di produzione padroneggia gli uomini e l’uomo non padroneggia ancora il processo produttivo: ed esse valgono per la sua coscienza borghese come necessità naturale, ovvia quanto il lavoro produttivo stesso». 23 Ivi, p. 86.

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È la stessa genesi della merce e cioè quella che per Derrida è la condizione generale della produzione ideale come tale, qui ancora una volta identificata alla matrice religiosa dell’ideologia, a produrre la fantasmagoria illusionista che incanta la società borghese. A questo punto per dissipare la coltre di nebbia fantomatica della produzione di merci che offusca la visione della realtà autentica della produzione vivente, ed allo stesso tempo, liberare il vivente dalle categorie astratte e autonome in cui si incarna lo spettro della società borghese capitalista, Marx fa appello ai lumi della ragione capaci di liberare l’uomo dall’incantesimo del mondo religioso, riconoscendo nella religione una forma storica e perciò arbitraria, un prodotto della civiltà umana, nulla di necessario e naturale: «Il riflesso religioso del mondo reale può scomparire, in genere, soltanto quando i rapporti della vita pratica quotidiana presentano agli uomini giorno per giorno relazioni chiaramente razionali fra di loro e fra di loro e la natura»24. In definitiva, secondo Derrida, ciò che inquieta Marx – l’arcano della merce che è necessario esorcizzare – è il fatto che il prodotto tecnico e artificiale possa assumere e usurpare i tratti del vivente che l’ha prodotto – l’autonomia –, che la tecnica da semplice strumento al servizio della vita possa finire per determinare le condizioni stesse del vivente, che la vita stessa possa essere contaminata e corrotta dalla protesi tecnica che supplisce alle carenze strutturali del vivente. In ultima istanza, che la frontiera che separa e oppone la “vita” e la “tecnica” non sia così stabile e irriducibile come dovrebbe essere perché sia possibile liberare la produzione propriamente umana – la vita stessa – dal misticismo spettrale – artificio e incantesimo – che la vela e l’opprime. E tuttavia, proprio attraverso la lettura di Marx, Derrida ha isolato l’elemento tecnico – l’iterabilità automatica – quale condizione della genesi spettrale che per Marx è propria solo della produzione ideologica e quindi del feticismo della merce, mentre per Derrida appartiene irriducibilmente alla produzione dell’oggettualità ideale in generale. 24

Ivi, p. 93.

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Prima di giustificare l’estensione derridiana della genesi spettrale alla produzione ideale in generale, resta da rilevare un’ultima, decisiva traccia della tecnica all’interno di Spettri di Marx. Bisogna fare un passo indietro, tornare alla diatriba infinita tra Marx e Stirner, seguire la lettura di Derrida che ravvisa nell’opposizione tra “vita” e “tecnica” il fronte comune a partire dal quale sia Marx che Stirner muovono guerra agli spettri dello spirito in favore di ciò che sia l’uno che l’altro, in forme diverse, ritengono sia la vita autentica, il proprio dell’uomo: Tutti e due amano la vita, il che è sempre sottinteso ma non va mai da sé per degli esseri finiti: essi sanno che la vita non va senza la morte, e che la morte non è al di là, fuori della vita, salvo a inscrivervi l’al di là all’interno, nell’essenza del vivente. Essi condividono tutt’e due, apparentemente come voi e me, una preferenza incondizionata per il corpo vivente. Ma a causa di ciò stesso, conducono una guerra senza fine contro tutto ciò che lo rappresenta, che non è lui ma che gli ritorna: la protesi e la delegazione, la ripetizione, la differanza. Il me vivente è auto-immune, essi non vogliono saperlo. Per proteggere la sua vita, per costituirsi in un unico me vivente, per rapportarsi come lo stesso a se stesso, esso è necessariamente portato ad accogliere l’altro all’interno (la differanza del dispositivo tecnico, l’iterabilità, la non unicità, la protesi, l’immagine di sintesi, il simulacro, e questo comincia con il linguaggio, prima di lui, altrettante figure della morte), esso deve dunque dirigere in una volta per se stesso e contro se stesso le difese immunitarie apparentemente destinate al non-me, al nemico, all’opposto, all’avversario25.

Per Derrida al fondo del comune tentativo di esorcismo degli spettri dello spirito hegeliano, c’è la convinzione, propria sia a Marx che a Stirner, che l’incorporazione oggettiva dell’idealità che ne garantisce il funzionamento autonomo costituisca una perversione del vivente stesso. L’intrusione di un elemento tecnico, meccanico, e cioè non-vivente all’interno della vita stessa. La convinzione che tale incorporazione artificiale sia di per sé artificiosa e cioè falsa e falsificante, capace cioè di falsificare la vita stessa nella sua pienezza presente a se stessa. Di contro ad ogni possibile contaminazione con tale ordine arti25

J. DERRIDA,

Spectres de Marx, cit., p. 224.

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ficiale, sia per Marx che per Stirner, è necessario far valere l’irriducibile autonomia del vivente, tener fermo all’opposizione assoluta, ereditata senza essere problematizzata, tra la “vita” e il suo altro, e cioè tra la “vita” e ciò che in virtù di un dispositivo tecnico la rappresenta, la separa dalla sua presenza vivente per conservarla in una traccia oggettiva e iterabile, una forma, per ciò stesso, assolutamente altra da quella della presenza vivente che rappresenta26. Nella prospettiva aperta da Derrida a questo punto, non si tratta semplicemente di rilevare, come pure vedremo, che tale elemento tecnico è una condizione essenziale e ineludibile dell’elaborazione ideale in generale. Bisogna piuttosto riconoscere che ciò che la nostra tradizione ci ha abituato a considerare nell’ordine della tecnica – l’iterabilità, l’automatismo – e quindi nell’ordine dello strumento esterno costruito e subordinato al servizio della vita umana intesa come presenza a sé autonoma ed in se stessa costituita, è al contrario una condizione irriducibile di questa stessa vita. Introduzione all’origine della spettrologia La genesi e la struttura della generalità concettuale è l’oggetto del primo lavoro di rilievo di Derrida: Introduzione a «L’origine della geometria» di E. Husserl27. 26 Bisogna ricordare che attraverso Marx, Derrida prende di mira l’interpretazione di M. Henry, per il quale la filosofia di Marx è una filosofia della vita. Cfr. M. HENRY, Marx, tt. I e II, Paris 1976. In questa prospettiva per Henry L’Ideologia tedesca assume un ruolo decisivo: cfr. ivi, pp. 368-370: «L’Ideologia tedesca riposa tutt’intera sull’opposizione della realtà e della rappresentazione. [...]. L’opposizione della realtà e della rappresentazione è l’opposizione della struttura originale dell’essere come esclusiva di ogni trascendenza, come immanenza radicale e di questa trascendenza stessa come progetto dell’oggettività, come costitutiva dell’intuizione, del vedere, della teoria. […] La soggettività è l’essenza della realtà. Ne consegue che reale è e sarà reputato tale tutto ciò che porta in sé questa essenza della soggettività nel senso radicale che è stato appena riconosciuto, nel senso di una struttura esclusiva di ogni trascendenza, in cui l’essere si prova nell’immediatezza di una presenza in virtù della quale esso è ciò che è e non può strapparsi a se stesso, superarsi in qualsiasi senso sia, rappresentarsi né infine comprendersi, e questo in maniera adeguata o meno. […] All’immanenza radicale di questa soggettività che adesso costituisce per lui la realtà, Marx ha dato il nome che è il suo, egli la chiama la vita». 27 J. DERRIDA, Introduzione a «L’origine della geometria» di Husserl, cit. Il

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Derrida isola la questione di fondo di questo testo marginale e ne mostra la fedeltà al più ampio orizzonte della meditazione husserliana: «A diverse riprese Husserl ritorna ostinatamente su una questione che è fondamentalmente la seguente: in che modo può l’evidenza soggettiva egologica del senso divenire oggettiva e intersoggettiva? Come può dar luogo ad un oggetto ideale e vero, con tutti i caratteri che conosciamo: valore onnitemporale, normatività universale, intelligibilità per “tutti”, sradicamento da ogni fattualità dello hic et nunc, ecc.?»28. Husserl descrive attraverso l’esempio dell’idealità geometrica la struttura dell’oggettività ideale affinché rispetti le condizioni di verità che le sono proprie: il contenuto dell’oggettività ideale deve essere indipendente da ogni referente empirico, la sua espressione da ogni intenzionalità effettiva e contingente e quindi da ogni linguaggio storico-fattuale: «Ogni aderenza ad una contingenza reale è soppressa»29. Sulla base della descrizione compiuta sul piano di una fenomenologia statica si impone a Husserl, sempre secondo l’esempio privilegiato della verità geometrica, la questione della genesi delle oggettualità ideali assolute a partire dalla loro evidenza per la coscienza del «primo inventore»30. testo di Husserl è l’appendice III al § 9a de La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Citeremo il testo di Husserl nella versione presente in quello di Derrida indicandolo con O. 28 J. DERRIDA, Introduzione a «L’origine della geometria» di Husserl, cit., p. 113. 29 Ivi, p. 124. A tale proposito Derrida cita E. HUSSERL, O., pp. 179 s.: «Il teorema di Pitagora, tutta la geometria, non esistono che una sola volta, per quanto sovente e in qualunque lingua possano essere espressi. La geometria è identicamente la stessa nella “lingua originale” di Euclide e in tutte le “traduzioni”; essa è ancora una volta la stessa in ogni lingua, per quanto spesso, a partire dalla sua enunciazione orale o dalla sua notazione scritta originale, sia espressa in modo sensibile nelle innumerevoli espressioni orali o registrazioni scritte ed altre». 30 E. HUSSERL, O., p. 181: «È proprio alle oggettualità ideali e tematiche della geometria che si rapporta ora il nostro problema: come giunge l’idealità geometrica (così come quella di tutte le scienze) alla sua oggettività ideale a partire dal suo originario sorgere intra-personale, nel quale essa si presenta come formazione nello spazio coscienziale dell’anima del primo inventore?».

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Derrida intende mostrare come Husserl per rispondere a questa esigenza sia costretto ad un certo recupero del linguaggio e, in particolare, della scrittura, esclusi dalle riduzioni necessarie per la costituzione – sul piano statico – dell’oggettualità ideale assoluta. Per Husserl infatti, l’idealità giunge alla sua oggettività «per mezzo della mediazione del linguaggio che le procura, si potrebbe dire, la sua carne linguistica»31. Tuttavia il ricorso al linguaggio non contraddice la necessità della sua riduzione, questa infatti – nota Derrida – serviva a far «apparire l’indipendenza della verità nei confronti di ogni cultura e di ogni linguaggio di fatto in generale»32. In definitiva – osserva Derrida – per Husserl «non si tratta altro che di svelare una dipendenza giuridica e trascendentale. Senza dubbio la verità geometrica si mantiene al di là di ogni presa linguistica particolare e fattuale in quanto tale, di cui sarebbe responsabile di fatto ogni soggetto parlante una determinata lingua e appartenente a una determinata comunità culturale. Ma l’oggettività di questa verità non potrebbe costituirsi senza la possibilità pura di una informazione in un linguaggio puro in generale. Senza questa possibilità pura ed essenziale, la formazione geometrica rimarrebbe ineffabile e solitaria»33. Questa pura possibilità dell’iscrizione in un linguaggio in generale è dunque una condizione essenziale per la genesi delle oggettività ideali, della verità in generale. Senza questa pura possibilità la verità «non diverrebbe né onnitemporale, né intelligibile per chiunque: non sarebbe ciò che è»34. La necessità trascendentale di questa incarnazione secondo Derrida impone di pensare «l’originalità del linguaggio costituente», rispettando la riduzione del linguaggio effettivo storicamente costituito35. 31 32

Ibidem. J. DERRIDA, Introduzione a «L’origine della geometria» di Husserl, cit.,

p. 129. 33

Ibidem. Ibidem. 35 Ivi, p. 131. In nota Derrida precisa il significato e il ruolo che viene attribuito al linguaggio, definendolo anche come “trascendentale”: «Parliamo qui di linguaggio trascendentale nella misura in cui, da un lato, questo è “costituente” in rapporto all’oggettività ideale e, dall’altro, non si confonde, nella sua pura possibilità, con alcuna lingua empirica di fatto» (ivi, p. 130, n. 102). 34

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In questa prospettiva, la riflessione di Derrida si allontana dal commento della lezione husserliana per trarre le conseguenze in essa implicite riguardo al ruolo e soprattutto alla struttura – la pura possibilità dell’iscrizione – che deve essere propria del linguaggio quale condizione costituente dell’oggettività ideale, sottolineando in particolare l’intrinseca co-implicazione, la reciproca determinazione di registrazione e trasmissione all’opera nel linguaggio quale condizione di produzione dell’elemento del senso: «Costituire un oggetto ideale è metterlo a disposizione permanente di un puro sguardo. Ora, prima di essere l’ausiliario costituito e oltrepassato di un atto che si porta oltre la verità del senso, l’idealità linguistica è l’ambito in cui l’oggetto ideale si deposita come ciò che si sedimenta o che si mette in deposito. Ma qui l’atto di registrazione originario non è la registrazione di una cosa privata, esso è la produzione di un oggetto comune, vale a dire di un oggetto il cui proprietario originale è così spossessato [...]. È per questo che il linguaggio è l’ambito della tradizione, nella quale soltanto sono possibili, al di là della finitudine individuale, la ritenzione e la prospezione del senso»36. L’oggettività ideale non è semplicemente ciò che una volta prodotto nell’intimità di una coscienza singola viene conservato e trasmesso grazie al linguaggio, inteso come semplice strumento rappresentativo, protesi tecnica esterna e subordinata alla coscienza, origine vivente ma finita dell’idealità, ma ciò che viene prodotto soltanto attraverso questo processo di sedimentazione e prospezione del senso, che non a caso Derrida definisce in termini tecnici e cioè come “registrazione” e più precisamente come “telecomunicazione”37: la pro36

Ivi, p. 131. Ivi, p. 99. Dunque è a partire da questo luogo che bisogna inquadrare la riflessione derridiana su tecnica e tele-tecnologie, molto insistente in testi recenti ed in particolare proprio a partire da Spettri di Marx, e soprattutto in: J. DERRIDA, Fede e Sapere. Le due fonti della «religione» ai limiti della semplice ragione, in: J. DERRIDA/G. VATTIMO, La Religione, Roma-Bari 1995, da cui citiamo almeno l’incipit: «Alla fine vorremmo collegare la questione della religione a quella del male di astrazione. All’astrazione radicale. Non alla figura astratta della morte, del male o della malattia della morte, ma alle forme del male che si legano tradizionalmente allo sradicamento radicale e quindi allo sradicamento dell’astrazione, di sfuggita, ma avverrà molto più tardi, con quella dei luoghi di astrazione che sono la macchina, la tecnica, le tecnoscienze e soprattutto la tra37

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duzione dell’oggettualità ideale implica in se stessa e necessariamente, già all’interno della coscienza singolare e contingente che la produce, l’iscrizione, la registrazione in una forma assolutamente altra da quella della presenza vivente della coscienza che la produce, e cioè una forma arbitraria e convenzionale – artificiale – che ne garantisce la prospezione, e cioè l’iterabilità indefinita – l’automatismo impersonale – al di là del presente vivente della sua produzione all’interno di una coscienza singolare e quindi contingente. Se così non fosse, il prodotto di una coscienza singolare e contingente resterebbe inaccessibile per una coscienza altra da quella che l’ha prodotto ed in linea di principio per la stessa coscienza in un momento altro da quello singolare e contingente della produzione38. Tuttavia, per Derrida è necessario compiere un passo ulteriore: la possibilità dell’iscrizione del senso in una lingua non è sufficiente a garantire la costituzione dell’oggettualità ideale; questa infatti è ancora legata nella sua possibilità alla comunicazione orale, dipende dunque da condizioni empiriche contingenti. Per Husserl – osserva Derrida – è necessaria la scrittura: «È la possibilità della scrittura che assicurerà la tradizionalizzazione assoluta dell’oggetto, la sua oggettività ideale assoluta, vale a dire la purezza del suo rapporto con una soggettività trascendentale universale. Essa lo farà emancipando il senso dalla sua evidenza attuale per un soggetto reale e dalla sua circolazione attuale all’interno di una comunità determinata. «È la funzione decisiva dell’espressione linguistica scritta, della espressione scendenza tele-tecnologica». Cfr. anche J. DERRIDA/B. STIEGLER, Ecografie della televisione (1996), tr. it. a cura di L. Chiesa, Milano 1997, p. 40: «Il modo in cui avevo tentato di definire la scrittura implicava che essa fosse già, come lei ha ricordato, una teletecnologia, con ciò che questo comporta di espropriazione originale». 38 Ivi, p. 140: «Prima di essere l’idealità di un oggetto identico per altri soggetti, il senso è tale idealità per dei momenti altri del medesimo soggetto. L’intersoggettività è dunque anzitutto, in certo modo, il rapporto non empirico di me con me, del mio presente attuale con altri presenti come tali, cioè come altri e come presenti (come presenti passati), di un’origine assoluta con altre origini assolute, che sono sempre mie malgrado la loro alterità radicale. È grazie a questa circolazione degli assoluti originari che la medesima cosa può essere pensata attraverso momenti e atti assolutamente altri. Si torna sempre all’ultima istanza: la forma unica ed essenziale della temporalizzazione».

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che registra, quella di rendere possibili le comunicazioni senza allocuzione personale mediata o immediata, e di essere, per così dire, comunicazione virtuale»39. Questa virtualità è d’altra parte per Husserl un valore ambiguo: rende possibili al tempo stesso la passività, la dimenticanza e tutti i fenomeni di crisi»40. Intesa nella sua dimensione costituente, la possibilità della scrittura in generale è la condizione trascendentale della costituzione del senso. Le sue proprietà strutturali rispondono all’esigenza di conservazione e prospezione del senso in una forma oggettiva, indipendente da ogni contingenza fattuale, esponendolo però alla possibilità dell’equivoco e della dispersione materiale. È questo uno dei motivi per cui la scrittura empirica è stata sempre considerata all’interno della tradizione filosofica almeno con sospetto, rimuovendo di fatto la sua necessità costituente in nome di una presenza piena e immediata del senso nell’intimità dell’anima, del soggetto, della coscienza, ecc., rispetto alla quale la scrittura empirica sarebbe di diritto secondaria, estrinseca ed inessenziale. Lo stesso Husserl, pur riconoscendo la necessità costituente della scrittura, le imporrà – ricorrendo all’idea in senso kantiano, come ideale regolativo – una norma di univocità che resterà sempre e solo un ideale41. «Quindi, la scrittura non è più solamente l’ausiliario mondano e mnemonico di una verità il cui senso d’essere farebbe a meno in se stesso di ogni registrazione. Non soltanto la possibilità o la necessità d’essere incarnata in una grafia non è più estrinseca e fattuale in rapporto all’oggettività ideale: essa è la condizione sine qua non del suo compimento interno. Finché non è impressa nel mondo, o piuttosto finché non può esserlo, finché non è nella condizione di prestarsi ad una incarnazione che, nella purezza del suo senso, è più di una segnalazione o di un abito, l’oggettività ideale non è pienamente costituita. L’atto di scrittura è quindi la più alta possibilità di ogni “costituzione”»42. 39

O., pag. 186. Ivi, p. 141. 41 Per la critica alla normatività di questo principio di univocità cfr. J. DERRIDA, Introduzione a «L’origine della geometria» di Husserl, cit., § X. 42 Ivi, p. 143. 40

E. HUSSERL,

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La scrittura è dunque la condizione della costituzione dell’idealità assoluta; in quanto, intesa come pura possibilità dell’iscrizione e non semplicemente come una scrittura empiricamente determinata, garantisce l’intelligibilità del senso in assenza delle condizioni empirico-fattuali da cui ha origine, e dunque l’iterabilità in linea di principio infinita del senso in assenza non solo del referente, ma anche «di ogni intenzionalità soggettiva realmente presente»43. È per distinguerla dalla scrittura empirica, e proprio come sua condizione, che Derrida chiamerà in seguito “archi-scrittura” la struttura della pura possibilità dell’iscrizione; “archia”, nel senso della condizione di possibilità e non di un’origine “storica”, più o meno mitica44. L’assenza nella forma della generalità ideale di ogni aderenza alla presenza vivente, singolare e contingente che la produce non è – come vorrebbe Marx – l’effetto perverso del rovesciamento ideologico che separa la vita umana dal prodotto della sua elaborazione incorporandolo in una forma oggettiva ad essa estranea, ma la condizione irriducibile di tale elaborazione. Una condizione – la pura possibilità dell’iscrizione, dell’incorporazione spettrale – che altrove Derrida definisce esplicitamente come condizione di produzione tecnica: «Scrivere è produrre un marchio che costituirà una sorta di macchina produttrice a sua volta, a cui la mia futura scomparsa non impedirà in via di principio di funzionare e di fare e farsi leggere e riscrivere. Quando dico “la mia futura scomparsa”, lo faccio per rendere più immediatamente accessibile questa proposizione. Devo poter dire semplicemente la mia scomparsa, la mia non-presenza in generale, per esempio la non-presenza del mio voler-dire, della mia inten43

R. GASCHÉ, The Tain of Mirror, Harvard 1986, p. 255. Gasché sottolinea giustamente la necessità di considerare la dimensione costituente della scrittura come pura possibilità dell’iscrizione: «Notiamo che non è la spazio-temporalità fattuale della scrittura che assicura l’idealità del senso, ma, più fondamentalmente, soltanto la sua possibilità. Dunque l’effetto e il valore di trascendentalità sono legati in maniera essenziale alla possibilità della scrittura». 44 È questo l’equivoco in cui incorre, tra gli altri, J. Habermas, probabilmente sviato dalla sua stessa intenzione di leggere Derrida come un semplice allievo-divulgatore di Heidegger: cfr. J. HABERMAS, Il discorso filosofico della modernità, tr. it. di A. Agazzi, Roma-Bari 1997, pp. 176 ss.

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zione-di-significazione, del mio voler-comunicare-questo, all’emissione e alla produzione del marchio. Questa deriva essenziale legata alla scrittura come struttura iterativa, sciolta da ogni responsabilità assoluta, dalla coscienza come autorità in ultima istanza, orfana e privata dell’assistenza del padre, è proprio quello che condannava Platone nel Fedro»45. La produzione delle generalità ideali rispetta infatti le condizioni della produzione tecnica: se «Produzione significa la messa in opera di un dispositivo macchinico relativamente indipendente, esso stesso capace di una certa ricorrenza auto-riproduttiva e perfino di una certa simulazione reiterante»46, allora si deve riconoscere che «la produzione di una certa idealità (o oggettività ideale) dà luogo a delle operazioni ricorrenti, dunque ad un dispositivo utilizzabile»47 ed è quindi dell’ordine della produzione tecnica. Il gesto di Marx, il tentativo di esorcizzare l’incorporazione spettrale della produzione ideale per restaurare l’immanenza del senso alla vita della coscienza presente a sé nella propria prassi materiale, ripete dunque un gesto più antico, la condanna platonica della scrittura in nome della presenza viva del senso nella presenza viva dell’anima48. Una condanna della scrittura che comanda la rimozione di una verità ancora più antica secondo Derrida. Per Derrida infatti la pura possibilità dell’iscrizione – l’archi45

J. DERRIDA,

Firma evento contesto, in: ID., Margini. Della filosofia, cit.,

p. 404. 46 J. DERRIDA, Psyché. Invention de l’autre, in: ID., Psyché. Inventions de l’autre, Paris1987, p. 42. 47 Ivi, p. 47. 48 Non è un caso, secondo Derrida, che in Marx torni la metafora spettrale per definire ciò che minaccia la presenza viva del senso: cfr. J. DERRIDA, La farmacia di Platone, cit., p. 171: «Per Platone quindi non c’è cosa scritta. C’è un logos più o meno vivo, più o meno vicino a sé. La scrittura non è un ordine di significazione indipendente, è una parola indebolita, non è propriamente una cosa morta: è un morto-vivo, un morto in rinvio, una vita differita, una parvenza di respiro; lo spettro, il fantasma, il simulacro (éidolon) del discorso vivo non è inanimato, non è insignificante, significa semplicemente poco e sempre in modo identico. Questo significante da poco, questo discorso poco garantito è come tutti gli spettri: errante».

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scrittura – quale condizione di possibilità della produzione delle generalità ideali è già all’opera all’interno della coscienza e proprio come ciò che la determina come coscienza: «Prima di aver luogo fra più individui, il riconoscimento e la comunicazione del “medesimo” hanno luogo all’interno della coscienza individuale: dopo l’evidenza viva e transitoria, dopo lo svanire di una ritenzione finita e passiva, il senso può essere ri-prodotto come il “medesimo” nell’attività di una rimemorazione; esso non è tornato nel nulla. È in questo recupero d’identità che si annuncia l’idealità come tale in generale in un soggetto egologico»49. Derrida descrive l’archi-scrittura, la condizione della costituzione dell’idealità, quale struttura essenziale della coscienza finita. La coscienza finita, conservando l’intuizione attraverso la ritenzione, la scioglie dalla sua occorrenza sensibile immediata, presente e viva ma singolare e contingente, le conferisce perciò una prima determinazione ideale – l’identità – che può essere riprodotta aldilà del quiadesso singolare e contingente dell’intuizione immediatamente presente, la inscrive in una forma identificabile e iterabile, dunque già oggettiva. Se così non fosse, non solo non vi sarebbe alcuna possibilità per la produzione ideale in generale, ma nemmeno per l’elaborazione dell’esperienza, la condizione ultima della vita della coscienza: se l’organismo vivente umano non fosse già da sempre in grado di sciogliere l’intuizione dalla sua presenza immediata, singolare e contingente e conservarne la traccia in una forma altra da quella, in vista di un riconoscimento ulteriore, la sua vita consisterebbe in un flusso intuitivo indistinto, la negazione stessa della possibilità dell’esperienza e quindi della coscienza che si forma in virtù di questa struttura originaria50. Nell’Introduzione all’«Origine della geometria» la dinamica della registrazione iterabile quale condizione irriducibile dell’esperienza della coscienza e quindi della sua stessa vita, appare come l’impensa49

J. DERRIDA,

Introduzione a «L’origine della geometria» di Husserl, cit.,

p. 139. 50 È qui il caso almeno di accennare al fatto che nulla di arcano vi è in questa concezione di Derrida. Al contrario il filosofo francese non fa altro che trarre, via Hyppolite, le dovute conseguenze della lezione hegeliana. In particolare dell’esposizione del plesso Erinnerung-Sprache-Gedächtnis nella «Psicologia»,

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to della fenomenologia husserliana: «Questo passaggio dalla ritenzione passiva al ricordo o all’attività della rimemorazione, passaggio che “produce” l’idealità e l’oggettività pura come tali fa apparire altre origini assolute come tali, Husserl lo descrive sempre come una possibilità essenziale già data, come un potere strutturale la cui fonte non è problematizzata. Essa non è forse problematizzabile da una fenomenologia poiché si confonde con la possibilità della fenomenologia stessa. Nella sua “fattualità” questo passaggio è anche quello delle forme inferiori della natura e della vita alla coscienza»51. Tale impensato verrà tratto alla luce in un’opera successiva ancora dedicata ad Husserl, La voix et le phénomène, (1967) dedicato alla teoria husserliana del segno, elaborata nella prima delle Ricerche logiche52. In questo contesto Derrida elabora una critica radicale della definizione husserliana del “presente vivente”, il fondamento stesso della fenomenologia. Derrida mette in discussione la presunta uniall’interno dello «Spirito Oggettivo» secondo la trattazione dell’ Enciclopedia delle Scienze filosofiche in compendio (ed. 1830). Un plesso d’altra parte già costituito nello Spirito Soggettivo della Realphilosophie di Jena (1805-1806) come rileva Valerio Verra in un saggio fondamentale, che citiamo quale indice dell’aderenza tra Derrida ed Hegel a questo proposito: cfr. V. VERRA, Storia e memoria in Hegel, in: ID., Letture hegeliane, Bologna 1992, pp. 14 ss.: «La Erinnerung costituisce il primo momento insieme di distacco dall’intuizione, di formazione di un’area della coscienza dell’io che l’intelligenza riconosce come propria e, riconoscendola come propria, distingue se stessa dal semplice contenuto dell’intuizione, o, meglio ancora, del sentimento indistinto. Si è visto ancora come questo processo sia un processo di universalizzazione, in quanto processo di sussunzione, attraverso una sequenza costitutivamente temporale, nel senso che è proprio il collegamento dell’intuizione presente all’intuizione passata e conservata nell’immagine e nella rappresentazione che costituisce la spina dorsale del processo di universalizzazione. Si è visto ancora come tutto ciò si svolga al limite inferiore dello spirito, in una zona di semioscurità o addirittura di notte, dalla quale attraverso un processo insieme di sussunzione, di unversalizzazione e di appropriamento emergono forme più esplicite ed evolute di spirito». Su questa rielaborazione dell’eredità hegeliana nell’opera di Derrida, mi permetto di rinviare a F. VITALE, Le fonti della decostruzione. Derrida interprete di Hegel, in: «Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche», vol. CXI, Napoli 2000. 51 J. DERRIDA, Introduzione a «L’origine della geometria» di Husserl, cit., p. 139n. 52 E. HUSSERL, Ricerche logiche, tr. it. a cura di G. Piana, 2 voll., Milano 1968.

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tà indivisa e immediata del Presente Vivente, allo scopo di mostrare l’incoerenza del “principio dei principî” della fenomenologia e non solo nei limiti di una teoria del segno, quanto in vista di un’apertura del “presente vivente” alla struttura di rinvio che, secondo Derrida, lo costituisce irriducibilmente, alla sua contaminazione necessaria e “originaria” con l’alterità in generale. Per Husserl – osserva Derrida – «la “ri-presentazione” (Vergegenwärtigung), cioè la riproduzione di una presenza»53 è – a prescindere dalle distinzioni di grado di cui è suscettibile – “il concetto generale” in cui sono compresi tanto la memoria quanto la riproduzione immaginativa: infatti, si articolano entrambe alla ritenzione: ripresentano, anche se in forme diverse, il materiale intuitivo, sciolto dalla sua presenza immediata, impresso e conservato nella memoria attraverso la ritenzione che ne permette allo stesso tempo l’iterazione. Questa è la condizione di possibilità tanto della determinazione della presenza dell’intuizione, altrimenti evanescente nel continuum della percezione, quanto di quella dell’idealità che non sarebbe tale senza la possibilità di un’iterazione indefinita: «Il potere di pura ripetizione che apre l’idealità e quello che libera la riproduzione immaginativa dalla percezione empirica non possono essere estranei l’uno all’altro»54. Derrida intende dimostrare come la presenza del “presente vivente”, origine della coscienza, sia inscritta originaliter in una struttura di rinvio all’alterità in generale: il “presente vivente” – inteso da Husserl come sfera originaria estesa della coscienza – nella sua definizione “in senso largo”55 è dato dall’intreccio della percezione immediata (istante-sensazione) con la ritenzione (ricordo primario), e la protensione (attesa primaria). Husserl però tiene a distinguere rigorosamente fra ritenzione e ripresentazione [Vergegenwärtigung], e – allo stesso tempo – a stabilire una continuità fra percezione e riten53

J. DERRIDA, La voix et le phénomène, Paris 1967, tr. it. La voce e il fenomeno, a cura di G. Dalmasso, Milano 19973, p. 89. 54 Ivi, p. 90. 55 Per questa definizione husserliana di «sfera originaria in senso largo», Derrida fa riferimento, fra molti altri testi analoghi, all’Appendice III delle Lezioni sulla coscienza interna del tempo dell’anno 1905, in: E. HUSSERL, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, tr. it. di A. Marini, Milano 1998.

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zione, quest’ultima però riconosciuta dallo stesso Husserl come percezione non-presente56. Evidentemente Husserl intende escludere la rimemorazione dal “presente vivente”, così come, ad un livello superiore, intende escludere il “segno” dall’immediato rapporto a sé della coscienza, e più in generale la traccia dell’alterità, il non-presente dal “presente vivente”, che Husserl vuole come puntuale presenza a sé della coscienza, nella forma di un’auto-affezione57. È altrettanto evidente però la diffi56 Ivi, § 16, p. 73. Husserl distingue così percezione e ritenzione: «Se adesso sempre a proposito della percezione, spostiamo il discorso sulle differenze di datità secondo cui compaiono gli oggetti temporali, allora, come opposto della percezione, ecco presentarsi qui il ricordo primario e l’aspettazione primaria (ritenzione e protenzione), col ché percezione e non-percezione trapassano l’una nell’altra senza soluzione di continuità» [corsivo nostro]; nel § 17 (p. 75), invece, egli associa la ritenzione alla percezione intesa ora come “origine”: «Se però chiamiamo percezione l’atto che è la sede di ogni “origine” e che costituisce originariamente, allora il ricordo primario è percezione». Derrida, in riferimento a questo passaggio, osserva che «certo Husserl dice che la ritenzione è ancora una percezione. Ma è il caso assolutamente unico – Husserl non ne ha mai riconosciuti altri – di una percezione il cui percepito non sia un presente ma un passato come modificazione del presente», in: J. DERRIDA, La voce e il fenomeno, cit., p. 100. 57 In questo senso, secondo Derrida, Husserl ripete sostanzialmente l’ordine concettuale che presiede alla condanna platonica della scrittura intesa come tecnica al servizio della memoria, attraverso la quale si rimuove l’iterabilità quale condizione dell’esperienza del senso in nome di una memoria viva e pienamente presente a sé che non ha bisogno di ricorrere alla protesi del segno. Cfr. J. DERRIDA, La farmacia di Platone, cit., p. 141: «[Ciò che Platone prende di mira] non è il ricorso alla memoria, bensì all’interno di un simile ricorso, la sostituzione del promemoria alla memoria viva, della protesi all’organo, la perversione che consiste nel sostituire a un membro una cosa, in questo caso, il “tenere a memoria” meccanico e passivo alla rianimazione attiva del sapere, alla sua riproduzione presente. Il limite (tra il dentro e il fuori, il vivente e il non-vivente) non separa semplicemente la parola e la scrittura, ma la memoria come svelamento (ri) producente la presenza e la ri-memorazione come ripetizione del monumento: la verità e il suo segno, l’ente e il tipo. Il “fuori” comincia non alla giuntura di ciò che chiamiamo oggi lo psichico e il fisico, ma nel punto in cui la mnème, invece di essere presente a sé nella sua vita, come movimento della verità, si lascia soppiantare dall’archivio, si lascia allontanare da un segno di ri-memorazione e di com-memorazione. Lo spazio della scrittura, lo spazio come scrittura si apre nel movimento violento di questa supplenza, nella differenza tra mnème e hypómnesis. Il fuori è già nel lavoro della memoria».

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coltà in cui incorre Husserl: l’assoluta presenza a sé della coscienza come “presente vivente” si fonda sulla presenza immediata della coscienza all’intuizione; questa però per essere tale, implica il rinvio all’impressione conservata attraverso la ritenzione, in cui però è sciolta dalla sua occorrenza immediata: implica il rinvio ad un passato che per quanto prossimo non è dell’ordine della presenza immediata; la presenza a sé della coscienza, dunque, è irriducibilmente mediata dalla ri-presentazione, la sua puntualità è differita nel rinvio ad un’intuizione non più immediatamente presente, per il quale si rende necessario il ricorso alla rimemorazione: «Dal momento che si ammette questa continuità dell’adesso e del non-adesso, della percezione e della non-percezione nella zona di originarietà comune all’impressione originaria e alla ritenzione, si accoglie l’altro nell’identità a sé dell’Augenblick [“batter d’occhio”; la puntualità dell’istante]: la non-presenza nel batter d’occhio [...]. Questa alterità è la condizione della presenza, della presentazione, e dunque della Vorstellung in generale, prima di tutte le dissociazioni che potrebbero produrvisi. La differenza tra la ritenzione e la riproduzione, tra il ricordo primario e il ricordo secondario, è la differenza, che Husserl vorrebbe radicale, non tra la percezione e la non-percezione, ma tra due modificazioni della non-percezione»58. In particolare, la coscienza per riferirsi all’intuizione in un presente altro dal presente della sua apprensione vivente immediata, deve necessariamente conservarla in una forma assolutamente altra dal “presente vivente” dell’intuizione singolare – come tale unico e irripetibile, perché immanente al vissuto puntuale della coscienza – e cioè in una forma che ne permetta il riconoscimento al di là e quindi a prescindere dall’istante puntuale dell’apprensione immanente al vissuto della coscienza al quale rinvia, ma che non può presentare come tale. Il “presente vivente” non è dunque origine semplice, puntuale coincidenza della coscienza con se stessa nella forma dell’auto-affezione, ma relazione della percezione immediatamente presente al suo altro che ne conserva la traccia e ne rende possibile l’iterazione. La coscienza per rapportarsi al presente deve necessariamente rinviare a ciò che non è presente, al passato che ne conserva la traccia in sua as58

J. DERRIDA,

La voce e il fenomeno, cit., p. 101.

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senza, rendendone possibile l’iterazione e cioè la presenza alla coscienza (una coscienza quindi effetto e non origine di tale dinamica della ritenzione): il presente in rapporto al quale si costituisce la coscienza è già da sempre e necessariamente inscritto, attraverso la ritenzione, in uno spazio virtuale all’ordine dell’iterazione a venire, e quindi in uno spazio altro da quello della coscienza immediatamente presente a sé nella forma dell’auto-affezione, uno spazio che è suscettibile di essere articolato secondo gradi diversi: la memoria, il segno, la scrittura..., l’idealità oggettiva. Questo rapporto “originario” implicito nella temporalità propria della coscienza, quale condizione della presenza, e che divide già da sempre l’“origine” nel suo senso tradizionale, è ciò che Derrida chiama la différance: «Senza ridurre l’abisso che può infatti separare la ritenzione dalla ri-presentazione, senza nascondersi che il problema dei loro rapporti non è null’altro che quello della storia della “vita” e del divenire-cosciente della vita, si deve poter dire a priori che la loro radice comune, la possibilità della ri-petizione sotto la sua forma più generale, la traccia nel senso più universale, è una possibilità che deve non solo abitare la pura attualità dell’adesso, ma costituirla con il movimento stesso della differanza [différance] che vi introduce»59. La différance indica dunque il movimento che presiede alla costituzione del “presente vivente”, inscrivendo la presenza in una essenziale relazione di rinvio al suo altro, destituendola perciò del valore di origine semplice. La dinamica della différance dischiude quindi l’unità presunta originaria del “presente vivente” all’alterità in generale. La ritenzione dell’intuizione non è omogenea e immanente al “presente vivente”: in quanto atto di registrazione dell’intuizione in vista di un riconoscimento a venire è già e per necessità dell’ordine della ri/rap/presentezione, o meglio ne è la condizione irriducibile. La necessità del rinvio al non-presente nella costituzione della presenza a sé della coscienza implica il riconoscimento di ciò che è sempre stato pensato come semplice esteriorità rispetto alla presenza a sé quale sua condizione. Dunque la nozione di archi-scrittura permette di articolare (senza assolutamente dimenticare le differenze di grado che compor59

Ivi, p. 103.

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ta questa articolazione) la possibilità della produzione del senso in generale alle condizioni irriducibili dell’esperienza e quindi della costituzione della coscienza. Secondo Derrida, proprio questa dinamica dell’archi-scrittura è ciò che viene rimosso all’interno della metafisica della presenza attraverso la definizione e la conseguente esclusione della scrittura come tecnica al servizio del linguaggio e cioè come strumento, esterno e subordinato alla presenza viva del senso prodotta all’interno dell’anima, del soggetto, della coscienza… e proprio al fine di difendere il presupposto della presenza a sé (dell’anima, del soggetto, della coscienza…), di per sé costituita, indipendente da ogni relazione all’alterità in generale, presupposto ancora operante e non problematizzato nell’idea di “vita” che sostiene e orienta il discorso di Marx (e non solo quello di Marx), in particolare la sua critica della genesi spettrale dell’ideologia e della merce-feticcio, il suo desiderio di una “vita” immune da ogni relazione ad altro da ciò che presume essere la vita stessa, di un corpo proprio immune da ogni incorporazione spettrale e finalmente padrone della protesi tecnica alla quale pure deve ricorrere per soddisfare i propri bisogni, le condizioni elementari della sua stessa vita. A questo punto possiamo finalmente comprendere e rilanciare la decostruzione dell’opposizione tra “vita” e “tecnica” all’opera nell’intrusione di Derrida tra Marx e Stirner: «Il me vivente è auto-immune, essi non vogliono saperlo. Per proteggere la sua vita, per costituirsi in un unico me vivente, per rapportarsi come lo stesso a se stesso, esso è necessariamente portato ad accogliere l’altro all’interno (la differanza del dispositivo tecnico, l’iterabilità, la non unicità, la protesi, l’immagine di sintesi, il simulacro, e questo comincia con il linguaggio, prima di lui, altrettante figure della morte), esso deve dunque dirigere in una volta per se stesso e contro se stesso le difese immunitarie apparentemente destinate al non-me, al nemico, all’opposto, all’avversario»60. Ciò che la metafisica della presenza ci ha abituato a pensare nell’ordine dello strumento esteriore, del dispositivo tecnico automatico, privo di vita e di coscienza – non è semplicemente estraneo alla vita, è già da sempre all’opera al cuore del vivente, come ciò che ne rende 60

J. DERRIDA,

Spectres de Marx, cit., p. 224.

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possibile la vita stessa, l’elaborazione dell’esperienza e quindi della coscienza; come ciò che, ad un livello di articolazione ulteriore, rende possibile l’elaborazione e la prospezione del senso, la costituzione di uno spazio virtuale per uno scambio tra coscienze in linea di principio indefinito e quindi aperto all’avvenire. È a partire da questa originaria apertura dell’esperienza all’alterità, quale condizione irriducibile della vita che «bisogna pensare la vita come traccia prima di determinare l’essere come presenza»61, che bisogna pensare la relazione tra vita e tecnica, e cioè prima della sua determinazione intra-metafisica quale opposizione gerarchizzata in cui la tecnica è sempre altro dalla vita, in cui la tecnica dev’essere subordinata alla vita per scongiurarne la potenziale minaccia per la vita stessa. Una vita che la metafisica della presenza ci impone di pensare all’ordine di una presenza autonoma e incondizionata, assoluta, in se stessa costituita prima di ogni relazione ad altro, una vita – questa sì – assolutamente altra da quella essenzialmente finita del vivente umano per il quale la supplenza tecnica appartiene al registro delle sue possibilità essenziali, non all’ordine dei rimedi contingenti e nemmeno a quello degli spettri da esorcizzare.

61

ID., Freud e la scena della scrittura, in: (1967), tr. it. di G. Pozzi, Torino 19902, p. 263.

ID.,

La scrittura e la differenza

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Fig. 1. E. Mendelsohn, Schizzo dell’Einsteinturm.

1. Il caso: la Glasarchitektur. Dinamica e nuovi materiali. «Per le condizioni proprie dell’architettura» – scrive Erich Mendelsohn, in un breve scritto giovanile sul problema di una nuova architettura – «il capovolgimento cui stiamo assistendo nello spirito del tempo significa: nuovi compiti per i mutati scopi costruttivi del traffico, dell’economia e del culto, nuove possibilità costruttive a partire dai nuovi materiali da costruzione: vetro – acciaio – cemento. […] E non è affatto un caso che le tre possibili strade della nuova architettura concordino nel numero e nell’ordine con quelle apertesi nella pittura e nella scultura. […] Appaiono pertanto necessarie, al fine di risolvere i problemi della nuova architettura, tutte le seguenti figure: l’apostolo di un mondo di vetro; l’analista degli elementi spaziali; il ricercatore della forma sia nel materiale che nella costruzione»1. 1

E. MENDELSOHN, Das Problem einer neuen Baukunst [1919], in: U. CONProgramme und Manifeste zur Architektur des 20. Jahrhunderts, Braunschweig/Wiesbaden 1981, pp. 51 ss. [La traduzione del brano citato, in questa occorrenza, e di tutti quelli di cui, nel corso del saggio, non sia esplicita-

RADS,

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Queste righe segnavano, con la chiarezza e l’indicazione del presentimento, il margine teorico della prima esposizione degli schizzi mendelsonhiani presso la celebre galleria berlinese di Paul Cassirer titolata Architektur in Eisen und Beton, ove si trovavano in abbozzo le linee che avrebbero composto l’Einsteinturm di Potsdam (Fig.1). L’attenzione al raffinamento dei materiali, alla composizione analitica dello spazio, alla trasparenza dei profili, alla ricercata morbidezza del disegno, lo aveva già accompagnato oltre la sua maturazione durante l’apprendistato monacense, nella cerchia del Blaue Reiter. Ed ora proprio il fronteggiamento della raggiera di possibilità offerta alla costruzione, appunto, dall’artificialità primaria di Glas-Eisen-Beton – così fittamente intessuti da formare anche graficamente una catena ininterrotta – dalla derivazione di quei sostrati materiali dal tempo, o meglio dalla forma che quell’epoca già aveva loro concesso, lo dispongono dinanzi al compito di ritrovare la radice aedificatoria nell’architettura, il sintagma Bau-kunst nella res aedificatoria, quale fosse la traccia unitaria nella messa in opera delle arti. O l’accordo nella traccia porosa della grafite dei gradi sovrapposti dell’artificio, da cui nemmeno il Baustoff può farsi salvo. Così la torre eretta sul Telegraphenberg – di cui il toponimo Einstein disse, basito, a mezza bocca: «Organisch!» – nel tentativo di conciliare monumentalità ed utilizzo, la profondità tellurica della sepoltura o del laboratorio spettroanalitico con la veriticalità del memento, del Denkmal o dell’osservatorio, della cupola in cui si tendeva il celostato2 – avrebbe illustrato con ogni mente riportata l’edizione italiana, si intendono tradotti dall’autore]. Cfr. I. HEINZE-GREENBERG/R. STEPHAN, Erich Mendelsohn (1887-1953). Gedankenwelten: Unbekannte Texte zu Architektur, Kultur, Politik und fernen Ländern, Cantz 2000, passim. 2 «Il programma della Torre Einstein sul Telegraphenberg a Potsdam esigeva sia la torre che la caverna, in quanto comprendeva nello stesso edificio un telescopio a torre munito di celostato e un laboratorio termostabile sotterraneo. Il collegamento tra il fusto della torre ed il largo zoccolo, era costruito da locali di lavoro e da ambienti per il pernottamento, da una scalinata esterna e un avancorpo. La costruzione creata da Mendelsohn, che pare impastata dalla mano di un demiurgo, non era un simbolo dell’epoca tecnico-scientifica, bensì un simulacro della primigenia forza prometeica, non un laboratorio oggettivo, bensì un monumento che tuttavia, rimanendo preservato dal pathos dei monumenti nazionali di Schmitz, anche grazie alle sue modeste dimensioni, non incuteva ne-

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chiarezza il suo intento. Quel segno plastico – deposito esteso del movimento – che ne denunciava l’affinità con la Linea unica della continuità, modellata pochi anni prima da Umberto Boccioni, aveva da intessere Dynamik und Funktion, la rapidità voluttuosa del tratto con l’asperità spigolosa dello scarto, la linea con le linee in un unitario Gestaltungsbegriff3. Ovvero Begriff als Gestaltung, concetto (solo) come figurazione. «L’architettura di Mendelsohn» – come avrà a dire G. C. Argan – «è immagine che diventa oggetto e non oggetto trasfigurato o idealizzato in immagine»4. Finalmente, avendo alle spalle l’opera, tornava Mendelsohn, dopo quasi un lustro dal quel primo articolo, a guardare attraverso la propria età, alla cui trama scientifica – la formulazione einsteiniana della Relativitätstheorie – aveva costituito e disposto un luogo, cercando nell’unità di quegli elementi, separati dalla misurazione scientifica, Materie und Energie, il compito tutto proprio della costruzione, Bau, in cui l’architetto, Bau-künstler, avrebbe dovuto assolversi. La chiarezza e l’audacia della costruzione si sarebbe riflessa nella semplicità e nella sicurezza della macchina: da docile manovale di un utilizzo mortifero questa sarebbe dovuta diventare l’elemento costruttivo di un nuovo organismo vivente. Ma perché ciò potesse avvenire, sarebbe stato necessario servire la natura con nuovi mezzi. «Dovremmo liberarci della legge di gravità;» – appunta Mendelsohn, quasi sentendo l’eco del lamento di Zarathustra – «dovremmo comprendere la sua logica con un nuovo senso. La precisione delle sue linee, il forte suono del suo movimento ci spingono ad una nuova chiarezcessariamente una soggezione reverenziale. Persino Fritz Lang, il regista di Metropolis, al posto del troppo romantico antro in cui abita e lavora il suo inventore Rothwang, avrebbe senz’altro potuto utilizzare la Torre Einstein quale set per il suo film». W. PEHNT, Per una genealogia delle forme espressionistiche, in: AA.VV., Espressionismo e Nuova oggettività. La nuova architettura europea degli anni Venti, a cura di M. De Michelis, V. Magnano Lampugnani, M. Pogacnik, R. Schneider, Milano 1994, p. 19. 3 Cfr. U. POERSCHKE, Funktion als Gestaltungsbegriff. Eine Untersuchung der Funktionsbegriff in architektonischen Texten, Dissertation, Brandeburgische Technische Universität, Cottbus 2005; in part. pp. 178-188, Funktionsbegriffe der 1920 Jahre: Funktion und Totalität. 4 G. C. ARGAN, L’architettura dell’espressionismo, in: AA.VV., Il Bilancio dell’espressionismo, Firenze 1965, p. 101.

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za, il lucore metallico del suo materiale ci porta ad una nuova luce. Un nuovo ritmo comprende il mondo, un nuovo movimento»5. La tecnica, allora, si sarebbe rivelata come Handwerk, artigianato, il laboratorio come un Werkstatt, un’officina, l’inventore come un Meister, un mastro6. Se la storia dell’architettura è storia della modellazione dello spazio7, è evidente che quel rivolgimento epocale – indicato da Mendelsohn già nel 1919 come presupposto della problematizzazione circa il Neues Bauen – giunto alla coscienza architettonica nella veste di una distinta concezione della forma del luoghi, derivasse dal cambiamento di paradigma scientifico, dalla meccanica classica a quella della relatività; tuttavia questa descrizione pare manchevole. La declinazione della temporalità quale simultaneità o l’articolazione dello spazio nella complessione dei campi, degli Spielräume, ambiti in cui i corpi giocano i propri movimenti, andavano determinando i caratteri stessi della visione, come esaurientemente hanno dimostrato gli studi di S. Kern8, nel più ampio spettro di un’indagine storica della cultura, e quelli di S. Giedion9, più direttamente mirati agli sviluppi delle arti figurative e dell’architettura. L’infrazione dell’ordinamento cartesiano dello spazio, «la sua multilateralità, la molteplicità di rapporti potenziali che esso racchiude»10, da cui nessun osservatore avrebbe potuto ritrarsi, poggiando su un punto di archimedica indifferenza, divenne così un nuovo metodo rappresentativo dei rapporti spaziali, di cui il cubismo elaborò l’espressione più accurata. Eppure su quell’inaudita modificazione del disegno architettonico quanto ai caratteri spaziali, ai volumi, alle dislocazioni dei piani, alla composizione delle piante gravavano altre condizioni. L’invenzione della reti5

E. MENDELSOHN, Dynamik und Funktion [1923], in: U. CONRADS, Programme und Manifeste zur Architektur des 20. Jahrhunderts, cit., pp. 68 ss. Cfr. J. SIMMEN, Schwerelos. Der Traum vom Fliegen in der Kunst der Moderne, Stuttgart 1991. 6 Ibidem. 7 S. KERN, Il Tempo e lo Spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Bologna 1993, p. 192. 8 Ivi, in part. pp. 192-196 e pp. 230-234. 9 S. GIEDION, Spazio, tempo e architettura. Lo sviluppo di una nuova tradizione, Milano 19892, pp. 420-433. 10 Ivi, p. 427.

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cella ad incandescenza, negli anni ’80 del XIX secolo, l’aumento del carico portante del cemento armato, ad opera dell’ingegnere francese F. Hannebinque nel 1892, la costruzione, nel 1903, a Belfast, del primo edificio con condizionamento ad aria, avrebbero – secondo la lezione di S. Kern – liberato gli architetti da molti vincoli strutturali di illuminazione, tenuta statica e ventilazione, rendendo possibile loro di «scolpire liberamente lo spazio interno»11. Poté così avvenire che anche «l’involucro degli edifici si aprisse con le strutture di sostegno in acciaio, le pareti di vetro e l’illuminazione elettrica»12, consentendo una differente correlazione sincronica tra interno ed esterno, spazio chiuso ed ambiente circostante. Quando, nel periodo successivo all’unificazione tedesca nel Reich, la Germania si impegnò in un repentino sviluppo tecnologico e produttivo, a seguito del reinvestimento dei surplus profittuali del settore primario nella formazione di un capitale industriale del tutto nuovo, gli investimenti edilizi ebbero un ruolo eminente. La dedizione febbrile alla costruzione di abitazioni private, in prima istanza, di edifici pubblici e poi, in misura sempre crescente, dal 1852 al 1912, di edifici di impresa, denunciava nella maniera più lucida la silhouette che stava assumendo quell’impero inquieto13. «L’edilizia urbana» – scrive K. Borchardt – «fu un settore guida nell’industrializzazione tedesca; non soltanto stimolò l’industria delle costruzioni ma anche l’industria dei materiali edilizi, l’industria del vetro, l’industria del legno, la distribuzione del gas e dell’acqua e, dopo il 1880, l’elettricità e le tranvie urbane. Senza l’edilizia urbana, non si sarebbero sviluppate le moderne industrie basate sul carbone e sul vapore»14. 11

S. KERN, Il Tempo e lo Spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, cit., p. 192. 12 Ivi, p. 231. 13 Utilizzo qui la definizione di das ruhenlose Reich, che dà il titolo al noto testo di M. Stürmer sulla Germania tra il 1866 ed il 1918. Cfr. M. STÜRMER, L’Impero inquieto. La Germania dal 1866 al 1918, tr. it. di A. Roveri, Bologna 1993, in part. sulla temperie artistica ed architettonica, pp. 59-63, e sul cruciale decennio 1890-1900, quando dinanzi all’impeto del processo di industrializzazione sembrava pararsi il suo precipizio, pp. 341-400. 14 K. BORCHARDT, Hundert Jahre Rheinische Hypothekenbank, Frankfurt 1971, p. 114, cit. in: R. H. TILLY, La formazione del capitale in Germania nel se-

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Allo stesso tempo, cresceva l’esigenza di formare un ulteriore ramo della classe dirigente capace di intendere e di elaborare le nuove questioni che si ponevano nel processo produttivo, quanto alla gestione ed alla ricerca presso le imprese. La richiesta di tecnici di formazione universitaria si evolveva parallelamente alla costituzione di laboratori scientifici all’interno dei complessi industriali, al fine di migliorare i metodi di organizzazione e di utilizzo delle materie prime, come testimoniano i casi esemplari, del gabinetto chimico impiantato dalla Krupp, nel 1862, per l’analisi dell’acciaio, dell’equipe di fisici raccolta all’interno della Siemens & Halske, dal 1872, o della fondazione, dieci anni dopo, di un centro di sperimentazione per la tecnologia produttiva del vetro, presso le fabbriche della Zeiss di Jena15. A ciò corrispose un differente riconoscimento professionale e sociale degli ingegneri forniti di diploma (i Diplom-Ingenieure) e vieppiù, dopo la fine del secolo XIX, di quelli laureati, con il prestigioso titolo di Doktor-Ingenieur. Sotto il profilo associativo, al precedente Verein Deutscher Ingenieure (VDI), fondata nel 1859, si affiancò, nel 1909, il Verband Deutscher Diplom-Ingenieure (VDDI), che non solo avrebbe raccolto figure di più elevata istruzione, ma che avrebbe soprattutto disegnato per sé una più matura e tempestiva Weltanschauung. Come ha esaustivamente dimostrato J. Herf16, la pubblicazione, dal 1922, del periodico, Technik und Kultur, organo della VDDI, parafracolo XIX, in: M.M. POSTAN/M. MATHIAS, Storia economica Cambridge, ed. it. a cura di V. Castronovo, vol. VII, Torino 1979, p. 540. 15 J. KOCKA, Impresa ed organizzazione manageriale nell’industrializzazione tedesca, in: M.M. POSTAN/M. MATHIAS, Storia economica Cambridge, cit., vol. VII, p. 744. 16 J. HERF, Modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, Bologna 1988, p. 224. Cfr. T. MALDONADO, (a cura di), Tecnica e Cultura. Il dibattito tedesco fra Bismarck e Weimar. Milano 1974; J. HERF, The Engineer as Ideologue: Reactionary Modernis in Weimar and Nazi Germany, in: «Journal of Contemporany History», 19, 4, 1984, pp. 631648; K. GISPEN, New Profession, Old Order: Engineers and German Society, 1815-1916, in: «German Studies Review», 14, 10, 1991, pp. 175 ss.; A. HEINEMANN-GRÜNDER, Keinerlei Untergang: German Engineers during the Second World War and in the Service of Victorous Power, in: M. RENNEBERG/M. WALKER (ed. by), Science, Technology and National Socialism, Cambridge 1994, pp. 3050, in part. p. 31.

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sando nella testata il titolo di un libro di E. Meyer del 190817, rappresentò un momento essenziale nella formazione dell’idea di quel technische Gemeinschaftsarbeit – ove la trasformazione tecnica del lavoro veniva riportata alla costituzione di una forma comunitaria, più che ad un’articolazione sociale18 – che avrebbe profondamente segnato il paesaggio culturale e civile della Germania di Weimar. Facendo leva sulla Nachahmungsthese, sulla concezione della tecnica come imitazione, integrazione dell’universo organico, o meglio come sua dichiarata proiezione, Technik als Organprojektion, che trovava nel pionieristico lavoro di E. Kapp19 il loro nume tutelare, veniva eretto in questi anni il dirimente Bildungswert des Bauens, ovvero il valore della costruzione, come formativa di una rinnovata cultura nazionale. Nel tentativo di arginare l’impronta di mera strumentalità della macchina, la sua estraneità, ed il suo impatto dissociativo e conflittuale quanto alla stratificazione ed all’organizzazione sociale, «questi mandarini, gli ingegneri tedeschi tra ‘870 e ‘930» – scrive J. Herf – «condividevano con i loro colleghi umanisti il rifiuto culturale dell’Illuminismo ed erano particolarmente sensibili all’esigenza di porre la tecnica in sintonia con la cultura accademica idealista»20. 17

E. MEYER, Technik und Kultur, Berlin 1906. Tra i testi che contribuirono a formare quella che J. HERF, in Modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, cit., in part. Gli intellettuali-mandarini e la tecnologia, pp. 165-190, e L’ideologia degli ingegneri, pp. 219-264 – definirà l’ideologia degli ingegneri si vedano anche W. WENDT, Die Technik als Kulturmacht, Berlin 1906 e L. BRINKMANN, Der Ingenieur, Frankfurt a. M. 1908. 18 Su come la coppia Gemeinschaft-Gesellschaft rappresenti l’evidente corrispettivo nella cultura civile di quella Kultur-Zivilization, cogliendo forse con ancora più stringenza il tema del conflitto intellettuale e politico nella Germania tra le due guerre, si veda F. TÖNNIES, Gemeinschaft und Gesellschaft, Leipzig 1887; tr. it. di R. Treves, Comunità e Società, Milano 1979. 19 E. KAPP, Grundlinien einer Philosophie der Technik. Zur Entstehungsgeschichte der Kultur aus neueren Geschichtspunkten, Braunschweig 1877; Photomechanische Neudruck, mit einen Einleitung von H.-M. Sass, Düsseldorf 1978. Cfr. Inoltre P. FISCHER, Zur Genealogie der Technikphilosophie, in: ID. (hrsg. von), Technikphilosophie. Von der Antike bis zur Gegenwart, Leipzig 1996, pp. 255-335. 20 J. HERF, Modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, cit., p. 223; sulla definizione di mandari-

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Fig. 2. Disegno della Galerie des Machines.

Ora, se l’ambizione a conciliare, attorno alla centralità della costruzione, ingegneria ed architettura aveva già ampiamente coinvolto l’intero continente europeo, sin dal fronteggiarsi nella Francia napoleonica di due istituzioni, come l’Académie des Beaux-Arts e l’École Polytechnique21, sarà proprio nell’esigenza di edificare nuovi luoghi per le produzioni industriali che la correlazione tra tecnica e progetto architettonico troverà il suo irrimediabile punto di svolta. Basterebbe pensare a quanto sono intricate le vicende dello sviluppo di un’impresa, quale la Saint-Gobain, e la delineazione della Galerie des Machines (Fig.2), per opera di Dudert, nel corso dell’Esposizione Universale di Parigi del 1889 – divenuto agli occhi dei visitatori e dei suoi successivi interpreti l’esempio più chiaro delle possibilità costruttive insite nella combinazione tra acciaio e vetro, e delle loro peculiarità quanto a definire uno spazio idoneo al lavoro delle macchine – per intendere di che tipo fosse la biunivocità in questione. Le campate più ampie e leggere – aventi una larghezza di centoquindici metri ed una lunghezza di quattrocentoventi – consentivano di definire un volume interno di dimensioni tali da ospitare – ben oltre il pretesto espositivo – le pretese spaziali dei sempre più ingombranti macchinari; ed allo stesso tempo la tensione aperta e luminosa del vetro – ancora tuttavia adornato di decorazioni e motivi cromatici, che ne espandevano la nobiltà artistica, quasi celandone le capacità funzionali – era capace di disegnare con levità la definitezza, se non la con-chiusura, dell’ambiente interno22. nato tedesco, si veda F. RINGER, The Decline of German Mandarins, Cambridge 1969, passim. 21 In proposito, si veda S. GIEDION, Spazio, tempo e architettura. Lo sviluppo di una nuova tradizione, cit., pp. 203-219. 22 «Lo spazio interno racchiuso dalla Galerie des Machines del 1889 aveva una cubatura che costituì una conquista senza precedenti in materia. Non v’è un esempio anteriore che si possa paragonarle sotto questo aspetto. Ma il vetro e i

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Non vi è, tuttavia, vicenda che riesce meglio a chiarire il rinnovato accordo tra costruzione architettonica ed avanzamento tecnologico, dell’incontro tra Peter Behrens e l’AEG di Walter Rathenau23. Cercando di praticare il programma del Deutsches Werkbund, costituitosi nel 1907 a Berlino – proponendosi di valorizzare «il lavoro industriale mediante la cooperazione tra arte, industria ed artigianato, attraverso l’educazione, la propaganda e la presa di posizione sulle questioni relative a questi ambiti»24 – questo architetto, che seppe conciliare la compostezza e l’equilibrio classici25 con le dimensioni funzionali esatte dall’industria, seguì per intero l’evoluzione della sua committenza. Come in un disegno di arte integrale, Behrens si curò di progettare, infatti, non solo i corpi di fabbrica, che gli venivano commissionati nel corso dell’evoluzione e della differenziazione produttiva dell’AEG, e gli alloggi connessi per i dipendenti, ma elaborò anche opere di disegno industriale, dando forma ad oggetti d’uso, quali lampade e ventilatori, ideandone il logotipo ed il modello degli muri non delimitavano in senso stretto l’edificio: essi costituivano soltanto una sottile membrana trasparente tra spazio interno ed esterno. E non è quale edificio circoscritto entro limiti precisi che la Galerie des Machines ha dell’importanza. I travi della sua struttura avrebbero potuto essere più o meno numerosi, senza perciò provocare spiccati mutamenti. Il significato estetico di questo ambiente è costituito dall’unione ed interpenetrazione dell’edificio e dello spazio esterno, dalle quali discende un nuovo concetto della mancanza di limiti, e del movimento, in accordo con le macchine che esso contiene». Ivi, p. 260. Cfr., S. DURANT, Palais des machines: Ferdinand Dutert, London 1994, passim. 23 Di indubbio e decisivo rilievo, in questa vicenda, fu la figura di Walter Rathenau, allievo di Helmhotz e Dilthey, nella cui formazione confluirono, come ricorda De Seta, «la fiducia nella cooperazione fra capitale e lavoro, il revisionismo di Bernstein, lo sforzo di scongiurare l’alienazione prodotta dal lavoro meccanico e, per quanto attiene agli aspetti qualitativi dei manufatti, il dibattito e l’azione del Wekbund». R. DE SETA, Storia dell’architettura contemporanea, RomaBari 1993, p. 140. 24 B. RAUECKER, Nochmals zur Kritik des Werkbundes, in: «Die Tat», IX, 1917, tr. it. in: F. DAL CO, Teorie del moderno. Germania 1880-1920, Roma-Bari 1982, p. 236, cit. in: G. D’AMATO, L’architettura del Protorazionalismo, Roma-Bari 1987, p. 64. 25 «Tutta la vita» – afferma Behrens – «deve trasformarsi in una grande arte che ne sia l’equivalente. Ordinare, scegliere, formare, inserire in vasti ambiti ogni cosa in armonia». Cit. in: G. D’AMATO, L’architettura del Protorazionalismo, cit., p. 65.

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opuscoli pubblicitari26. Sviluppandosi l’attività d’impresa, dall’acquisizione dell’esclusiva europea del brevetto per l’illuminazione ad incandescenza di Edison, nel 1881, alla produzione in serie di turbine, poi di trasformatori, resistenze, materiali per l’alta tensione, ed infine all’assemblaggio di grandi motori e di elementi ferroviari, l’impegno di Behrens riguardò, corrispondentemente, prima, nel 1908, il progetto della Turbinenfabrik (Fig.3), poi la ristrutturazione del nuovo complesso, la Maschinenfabrik, sulla Brunnerstrasse, dal 1909 al 1912, che avrebbe compreso su un’area di insediamento molto vasta l’Hochspannungfabrik, la Klein-motorenfabrik, la Grössmaschinenfabrik, e la Neue Fabrik für Bahnmaterial. Nonostante le evidenti differenze che separano le due realizzazioni – la Turbinenfabrik, nella sua fisionomia monumentale, in cui l’imponente frontone poligonale completava l’altezza delle due colonne stilizzate, recanti ancora il movimento scanalato dell’entasi, alloggiando, come in una preziosa cornice, la vetrata d’ingresso, e la Maschinenfabrik, ove lo sforzo progettuale attese piuttosto all’uniformazione stilistica degli elementi, alternando il rigore orizzontale del frontestrada, cadenzato dagli imponenti pilastri, tra cui si tendevano le frequenti pareti di vetro, e la verticalità delle ciminiere e della torre cuspidata, nell’ala ovest – è in ambedue evidente lo sforzo di legare assieme sachliche Schönheit e Maschinenstil, la bellezza propria delle cose e lo stile della macchina. Ovvero la bellezza di quelle cose, in quanto segnate dalla tipizzazione meccanica27. La partitura composta dalle cesure murarie e dal basso continuo del vetro, specie in quel capolavoro dell’architettura industriale che è la Turbinenfabrik, definisce una figurazione dello spazio, un disegno dei luoghi, capace di riecheggiare, quasi acusticamente, il ritmo discontinuo e metallico dell’opera delle macchine28. 26

A riguardo, ivi, pp. 63-79. Storia dell’architettura contemporanea, cit., p. 141 e pp. 149152. Cfr. P. BEHRENS, Kunst und Technik [1910] in: T. BUDDENSIEG/H. ROGGE, Industriekultur. Peter Behrens und die AEG 1907-1914, Berlin 1979, pp. 278-285. 28 «Nel caso dell’AEG berlinese» – scrive König, citato in: G. D’AMATO, L’architettura del Protorazionalismo, cit., p. 74 – «mi pare evidente che la Turbinenfabrik non sia affatto come il ballo Excelsior, la rappresentazione della glorificazione del lavoro, con il minatore a torso nudo che buca il Sempione, all’onesta insegna del socialismo universale. Essa è invece la glorificazione della macchina elettrica in un enorme volume unico dominato dal carro-ponte; in cui il lavoro 27

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Fig. 3. Scheletro delle Turbinenfabrik.

Tuttavia, l’opera di Behrens, lungi dal costituire la premessa per uno sviluppo lineare, senza soluzioni di continuità, secondo lo schema storiografico che dalle britanniche Arts & Crafts, à la Morris, avrebbe condotto al Deutsches Werkbund, prima, ed al Bauhaus poi29, depositò nell’architettura tedesca della prima decade del secolo allo stesso tempo un modello, del tutto irripetibile, ed un punto irrisarcibile di rottura. Una tipologia armonica di costruzione, nei primordi di quella che Giedion30 avrebbe chiamato l’epoca della meccanizzazione, una determinazione delle linee nello spazio, ma anche l’asperità di umano è simile al paziente ragno nel tessere gli interminabili avvolgimenti dei motori elettrici accoppiati alle turbine». 29 È interessante leggere la considerazione che di questi passaggi diede W. Gropius nella scrittura Idee und Aufbau des Bauhaus, del 1923, una sorta di revisione più matura del manifesto di costituzione del Bauhaus del 1918: «Nella seconda metà del XIX secolo si sviluppò un movimento di protesta contro la forza preponderante dell’accademia. Ruskin e Morris in Inghilterra, Van der Velde in Belgio, Olbricht, Behrens (la Darmstädtler Künstlerkolonie) ed altri in Germania, fino al Deutsches Werkbund, avevano cercato e trovato consapevolmente una prima strada per riunificate il mondo del lavoro con gli artisti creativi. In Germania nasceva la Kunstgewerbenschule, che avrebbe preparato una nuova generazione di talenti artistici per l’industria e l’artigianato. Ma l’accademismo scorreva ancora troppo nel sangue di quella generazione, ed un’effettiva preparazione rimaneva ad un livello dilettantistico, il progetto indicato e descritto restava ancora sullo sfondo». W. GROPIUS, Idee und Aufbau des Bauhaus, 1919/23, Weimar/München 1923. Cfr., G.C. ARGAN, W. Gropius e la Bauhaus, Torino 1966, passim; M. FRANCISCONO, W. Gropius and the creation of the Bauhaus in Weimar, Urbana/Chicago/London 1971. 30 S. GIEDION, L’era della meccanizzazione, Milano 1967, passim.

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materiali nuovi, che irrompevano sulla scena lacerando ogni familiarità, ogni quiete, come indicano già i cieli tersi e chiari di cristallo31. Ancora di più lo avrebbe dimostrato la progettazione del Faguswerk, ad opera di W. Gropius, nel 1910, che dalla scuola di Behrens discendeva, ove la sostituzione, completa, invadente, della parete piena con superfici di vetro accostate mediante tenui profili di acciaio, dichiarava l’istanza di una morfologia spaziale definitivamente esposta, resa presente nella sua trasparenza, attraversabile in quanto puramente visibile. La ferrosità della macchina, la sideralità del cristallo e la tensione aperta del vetro si stavano strettamente legando in un allontanamento progressivo da ogni archetipo organico, da ogni nicchia biologica – come ancora nella lettura, che Bloch32 fa della modernità architettonica, è riferito come frattura dall’organico. Eppure proprio attraverso quella catena Eisen-Beton-Glas il Moderno giunse alla sessione più estrema della critica a se stesso, quanto alla costruzione architettonica33. Quanto alla costruzione dello spazio, ovvero alla costruzione come spazio. 31 «L’architettura industriale» – scrive G.C. ARGAN, L’architettura dell’espressionismo, cit., p. 98 – «frantuma le tipologie tradizionali, modellando l’edificio su una necessità funzionale riferita alle operazioni collettive e coordinate della produzione industriale – i rapporti delle masse e dei volumi sono determinati da un dinamismo interno; i singoli elementi non dissimulano la loro funzione specifica né la loro ragione essenzialmente meccanica. La fabbrica è il luogo in cui gli uomini operano una trasformazione della materia liberando la propria spiritualità nella creazione di una nuova e diversa natura. […] Il lavoro collettivo dell’industria è concepito come riscatto e sublimazione della materia, quasi come una nuova alchimia: la materia è portata ad un grado di perfezione soprannaturale, alla tersità ed alla chiarezza del cristallo, ed infatti il cristallo (così lo esalta Taut nella mostra del Werkbund di Colonia nel 1914) è insieme materia e struttura, forma». 32 E. BLOCH, Das Prinzip Hoffnung, 3 Bde., Frankfurt a. M. 1953-59, tr. it. di E. De Angelis, T. Cavallo, Il principio speranza, 3 voll., Milano 1994, 2. vol., pp. 757-861. 33 W. MÜLLER-WULCKOW, Architektur 1900 - 1929 in Deutschland, Reprint und Materialien zur Entstehung. Reprints der vier Blauen Bücher, Bauten der Arbeit und des Verkehrs (1929), Wohnbauten und Siedlungen (1929), Bauten der Gemeinschaft (1929) und Die deutsche Wohnung der Gegenwart (1932), Vorwort von Reyner Banham, (ausführliche Bibliographie, 182 Architekten-Bio-Bibliographien), Königstein/Taunus 1999. Cfr. G. RICCI, La cattedrale del futuro, Bruno Taut 1914-1921, Roma 1982; L. PRESTINENZA PUGLISI, Forme e ombre. Introduzione all’architettura contemporanea. 1905-1933, Torino 2003.

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Ma avrebbe poi imposto la sua irrimediabile durezza il quadriennio bellico, la corporeità disanimata di quella guerra, che avrebbe falcidiato, annichilito una intera generazione, quand’anche fosse sfuggita alle granate. Allora la controversia, cui in queste righe abbiamo accennato, sul rango che avrebbe dovuto assumere la costruzione tecnica, tra Gemeinschaft e Gesellschaft, tra Kultur e Zivilization, avrebbe dichiarato la sua intempestività. Tra l’ideale visionario, in cui ancora avremmo potuto rinvenire il modernismo reazionario degli ingegneri34 od il socialismo romantico di Scheerbart e di Taut35, che preconizzava la costituzione di una comunità di artigiani, raccolti attorno al cantiere di una costruzione simbolica, sotto l’esempio della cattedrale gotica, ed il programma protorazionalistico, ove era piuttosto l’intreccio sociale dei lavoratori a concorrere, attraverso l’unità del lavoro nella produzione industriale, ad indicare l’esordio di una nuova società, non vi sarebbe stata più alcuna conciliazione. E forse è questo il merito scenico dell’architettura tedesca dei primi due decenni del secolo: portare alla luce, nella tramatura delle strutture, nell’articolarsi delle pareti, nell’avvolgimento fantasmatico del vetro, il peso ingente di una frattura. Quell’architettura, accampata sul baratro della Grande Guerra, forse davvero rappresentò un’intemerata avventura in un terreno impraticabile, «come quella che intraprende un’anima spaventata quando di fronte a lei appare il profilo di un destino ineluttabile»36. Di ciò 34

J. HERF, Modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, cit., passim. 35 B. TAUT, Ein Architektur-Programm [1918], in: U. CONRADS, Programme und Manifeste zur Architektur des 20. Jahrhunderts, cit., pp. 38 ss; ID., Stadtkrone, Jena 1919; tr. it., La corona della città, Milano 1973; ID., Alpine Architektur, Hagen 1919; ID., Nieder Sersiosismus!, in: U. CONRADS, cit., pp. 54 ss.; ID., Frühlicht, ivi, p. 60. 36 W. J. SIEDLER, Die Modernität des Wilhelminismus, in: ID., Weder Maas noch Memel, Ansichten vom beschädigten Deutschland, Stuttgart 1982, pp. 94102, cit. in: m. stürmer, L’impero inquieto, cit., p. 62. A riguardo E. Mendelsohn, scrisse nel 1919, nel già citato Das Problem einer neuen Baukunst – ora contenuto in: U. CONRADS, Programme und Manifeste zur Architektur des 20. Jahrhunderts, cit., p. 51 –: «La contemporaneità di decisioni politiche rivoluzionarie e di cambiamenti radicali nelle relazioni umane quanto all’economia ed alla scienza, alla religione ed all’arte danno diritto alla fede in una nuova forma, testimoniano della legittimità di una nuova nascita nella necessità della catastrofe, che ha coinvolto l’intera storia del mondo».

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era avviso l’attesa di Bruno Taut dinanzi al suo tavolo vuoto di fogli e di china37. Quella fu l’architettura tra Espressionismo e Neue Sachlichkeit. Ma cosa si intende con questa quadratura storiografica? La difficoltà di definire questo incrocio consiste, nelle parole di L. Mittner, «nell’antitesi tra urlo e geometria, nello sforzo, cioè, quasi sempre fallito, di conciliare l’urlo che erompe dall’anima angosciata ed inorridita, con una nuova forma geometrica astratta, innaturalmente rigida ed insieme deformatrice»38. Non vi è altro modo per rendere la vicenda ed il destino della forma in questi anni – che avrebbe coinvolto le capacità artistiche, quelle poetiche, quelle filosofiche di comprensione del reale, quelle pratiche della trasformazione politica, ma che eminentemente nella costruzione architettonica avrebbe raggiunto il suo apice espressivo – se non dipingendo un’atmosfera unheimlich, spaesante, quella peculiare del bando, dell’esilio, dell’Heimatlosigkeit, della perdita della patria, e di qualsiasi paternità. «Alla paurosa mitologia delle cose a cui l’uomo non sa più imporre un metro umano, sicché vi è una frattura fra l’uomo e le cose, che non sono più cose dell’uomo ed a lui incomprensibili, corrisponde una nuova e non meno paurosa mitologia della macchina, non più creatura, ma dominatrice dell’uomo»39. Si sarebbe trattato, dunque, ancora una volta di dare forma geometrica all’urlo – come nella poesia di Trakl – di affidare una figura tagliente a quel tempo: di dedicargli una casa inospitale. La figurazione architettonica espressionista, di cui l’opera di Mendelsohn da cui ci siamo mossi è il caso più alto, o, forse, il solo internamente compiuto, «si fonda» – scrive Argan – «sull’inseparabilità, sulla saldatura di oggetto e spazio. […] Lo spazio figurativo si pone sempre come uno spazio artificiale, come un’architettura. […] Il suo contributo essenziale consiste nell’aver identificato totalmente, così nella fantasie 37

Cfr. R. PRANGE, Simbologie cristalline. Le radici romantiche dell’Espressionismo, in: AA.VV., Espressionismo e Nuova oggettività. La nuova architettura europea degli anni Venti, cit., pp. 25-48; S. HAIN, Ex Oriente lux. La Germania e l’Oriente, in: ivi, pp. 49-71. 38 L. MITTNER, L’espressionismo letterario, in Bilancio dell’Espressionismo, cit., p. 13. 39 Ivi, p. 28.

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grafiche come nella strutturalità razionalistica, costruzione e spazialità: nell’aver concepito cioè lo spazio come qualcosa che si costruisce con la forma e non più come qualcosa in cui si costruisce la forma»40. Perché la fisionomia architettonica si stagli più nettamente sul suo sfondo, proviamo a portare l’attenzione su alcune righe che W. Gropius scrisse ormai alla metà del secolo scorso, quasi con un dolente sguardo retrospettivo, alla ricerca di un percorso che lo conducesse al raggiungimento di una cultura ottica. Gli sviluppi nella costruzione architettonica europea, dalla seconda decade del XX secolo, «cozzarono» – scriveva lucidamente, nel 1956, il fondatore del Bauhaus – «contro alcuni ostacoli: contro gli ingarbugliati manifesti, le teorie ed i dogmi, le difficoltà tecniche, che la generale decadenza economica avevano accentuato dopo la guerra, e contro il pericolo di una deriva formalistica. La cosa peggiore era questa: il Neues Bauen era diventato in molti paesi una moda! Imitazione, snobismo, mediocrità falsificavano le profonde ed ampie visioni del rinnovamento, che erano invece proprio fondate sulla veracità e sulla semplificazione. Parole d’ordine false, come quelle della neue Sachlichkeit e funzionale uguale bello avevano deviato la considerazione dell’architettura moderna su percorsi del tutto estranei. […] La liberazione dell’architettura dalla confusione della decorazione, la riflessione sulla funzione dei suoi elementi, la ricerca di una soluzione sobria ed economica è solo il versante materiale di un processo di figurazione, da cui dipende il valore d’uso dell’architettura. Ma più essenziale di questa economia funzionale è l’opera spirituale di una nuova visione spaziale nel processo costruttivo. Mentre cioè la prassi del costruire consiste nel problema della costruzione e del materiale, l’essenza dell’architettura poggia sulla padronanza della problematica spaziale»41. Dunque la questione che premeva sul disegno e sul progetto architettonico riguardava il modulo della rappresentazione dello spazio attraverso la sua configurazione, la forma che lo spazio avrebbe assunto in virtù della sua costituzione materiale e della sua morfologia 40

G. C. ARGAN,

L’architettura dell’espressionismo, cit., pp. 107-108. Cfr. V. L’architettura dell’espressionismo, in: «Casabella», 1961, p. 254. 41 W. GROPIUS, Wege zu einer optischen Kultur [1956], in: W. P. LEHMANN/ H. REHDER/H. BEYER (hrsg. von), Spectrum. Modern German Thought in Science, Literature. Philosophy and Art, New York 1964, pp. 472 ss. GREGOTTI,

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significativa. Se l’interieur dell’abitazione era il costruito, la spazialità non poteva che essere costruzione, laddove però per costruzione non si intendesse esclusivamente assemblaggio o composizione, ma piuttosto il talento di delineare una figurazione locale, di riassestare il luogo come unità figurale. Ma questa, proprio perché non coincidente con la denotazione unitaria di uno spazio immobile, di una declinazione immutabile dello spazio, vale a dire dello spazio come Substanzbegriff, come resto sostanziale, derivava piuttosto, in quanto forma di una variabilità figurativa, da una ripetuta e sempre differente circospezione, da una iterazione cinestetica – per utilizzare gli strumenti acuti dell’analisi fenomenologica. Il luogo come unità figurale è intessuto, pertanto, di movimento, dalla metrica temporale in cui si scandisce la cinèsi. In questo senso, la sua formalità non può non consistere in una costituzione. Ciò, dunque, che si fa presente nell’architettura del primo ventennio del secolo XX, specificamente in Germania, nella faticosa e discutibile coincidenza tra edilizia industriale ed urbana, è la domanda su come dovesse assumere senso la costruzione in base a due nozioni del tutto nuove, rispettivamente, di movimento e di numero: la macchina ed il vetro. Come in una ardita riscrittura della cinematica aristotelica, che proprio nella misurazione del moto risolveva la ragione della determinazione temporale, la macchina rappresenta una modalità cinetica che affida alla fragile regolarità del vetro la sua scansione. Ambedue rimandano al Bauen in una duplice accezione: in quanto artificialmente prodotte ed ancora artificialmente innestate. Ambedue sono figure, immagini che nulla riproducono, che di nulla sono integrazione, od estensione. Piuttosto, vetro e macchina, producono, danno luogo ancora una volta al ritmo del Bauen. Ed ancora una volta, attraverso il Bauen tornano affini lo spazio ed il vuoto, Raum e raum, Raum e räumen42. Laddove però per vuoto non si intenda assenza od interruzione del costruito, ma l’indizio stesso della costruzione. Proviamo adesso a mettere alla prova queste brevi indicazioni 42 A riguardo M. HEIDEGGER, Die Kunst und der Raum, St. Gallen 1969; tr. it. di C. Angelino, L’arte e lo spazio, con un’introduzione di G. Vattimo, Genova 1995.

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teoretiche con le riflessioni che negli anni ’20 attraversavano il Bauhaus, quando la Raumproblematik, il tema della rappresentazione e della configurazione dello spazio, si imbatteva nei germi di una Maschinen- und Glas-Architektur. Utilizzeremo a tal fine il programma istitutivo e pedagogico, scritto da W. Gropius, nel 1923, ed un articolo apparso, nel 1920, sul primo numero del periodico di B. Taut, «Frühlicht», uscito dalla penna di uno dei critici cui maggiormente deve l’architettura moderna, almeno quanto alla sua tassonomia, A. Behne. «Ogni lavoro figurativo» – scrive W. Gropius – «dà forma allo spazio. Ma ogni lavoro parziale deve trovarsi in relazione con una più ampia unità – e questa deve essere la mira della nuova volontà costruttiva – così che tutti i mezzi reali e spirituali della figurazione spaziale devono essere conosciuti da tutti coloro che sono uniti nel lavoro comune. Ma qui domina una grande confusione concettuale. Che cosa è lo spazio, come possiamo afferrarlo e configurarlo? Gli elementi dello spazio sono: numero e movimento. […] Il nostro intelletto concepisce lo spazio matematico attraverso il computo e la misurazione. Oltre le leggi della matematica, dell’ottica e dell’astronomia, è in virtù del disegno, che si forma un mezzo di rappresentazione e di presentazione dello spazio materiale della realtà effettiva, che dovrà essere costruito»43. Dunque, il segno dirimente della formazione spaziale propria alla costruzione in senso lato, ed a quella architettonica, in senso ristretto, è insito nel gesto del disegno, della Zeichnung: la prefigurazione spaziale è affidata al tratto, all’Abriss. Ciò che distingue la Konstruktion matematica dal Bauen architettonico, è la distanza, e la prossimità, tra numero e disegno: nella rappresentazione spaziale di quest’ultimo già si anticipa un modello costruttivo. «Il procedimento creativo di una rappresentazione spaziale e di una figurazione spaziale» – continua Gropius – «è sempre qualcosa di unitario, solo lo sviluppo singolare dell’organo dell’individuo, per il sentire, il conoscere ed il potere, è mutevole e distinto nel Tempo. Può costruire uno spazio artistico, vitale, in movimento solo colui, il cui sapere e potere ubbidisca a tutte le leggi naturali della statica, della meccanica, dell’ottica, dell’acustica e trovi nella loro padronanza il mezzo sicuro, 43

W. GROPIUS,

Idee und Aufbau des Bauhaus, cit.

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per rendere l’idea spirituale, che reca in se stesso, viva e vitale. Nello spazio artistico tutte le leggi del mondo reale, di quello dello spirito e dell’anima, trovano insieme la loro soluzione»44. Che il disegno mostri così la sua precedenza costruttiva, la sua capacità unificante, in virtù della coincidenza tra rappresentazione e configurazione, non risolve tuttavia la questione della sua intersezione con la temporalità, la sua dirimente differenziazione. Ed è a questa domanda implicita che, precisando la sua dottrina formale del lavoro, Gropius afferma lapidariamente: «Il Bauhaus sostiene che la macchina sia il mezzo più moderno di configurazione e cerca con essa un confronto»45. L’unificazione tra Formlehre e Werklehre, che rappresentava la radice istitutiva dal Bauhaus, trovava dunque il suo elemento fondativo proprio nella macchina, in quanto capace di trasformare il lavoro, di indire, sarebbe più corretto dire – come aveva intuito il Marx dei Grundrisse46 – una ulteriore specie di lavoro cognitivo, di una capacità scientifica oggettivata, che si coagulava attorno ai principi del Bauen. Se il disegno, cioè, è indicato come la prefigurazione della spazialità in quanto costruzione, è solo nella macchina che sembra possibile trovare il medio e la modellizzazione più adeguata per cristallizzare nell’opera architettonica la sua propria intonazione epocale. Se, ancora, tornando allo schema prima anticipato, nella costruzione architettonica il disegno assolve alla funzione analitica del numero, è il meccanismo che consente di individuare una specie discreta, artificiale, di movimento. Costruita, anch’essa, fatta ad arte, ma capace di eccedere dal piano della sua fattura: come risulterà dispiegato nel progetto di un Teatro Totale, appunto di una macchina scenica, per Piscator a Berlino, nel 1926. Tuttavia, la ricerca di una forma spaziale commisura instancabilmente costruzione e materiale, o meglio, materiale e possibilità di costruzione. È qui che entra in questione la metrica peculiare del vetro. «Nessun materiale» – avrebbe notato A. Behne – «sopravanza la 44

Ibidem. Ibidem. 46 K. MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, tr. it. di E. Grillo, Firenze 1968-70, II vol. in part. pp. 389-411. 45

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materia così come il vetro»47. Pur riecheggiando già nel titolo la celebre raccolta letteraria di Paul Scheerbart sulla Glasarchitektur48, sembra da subito evidente che le annotazioni di Behne abbandonino il tono profetico, che annunciava una società ed una natura vista sotto altra luce, che delineava un’intonazione cromatica derivante dal modello dei mosaici gotici. Erano stati il colore degli smalti, delle luci, la ricchezza dei cristalli, dei pavimenti a conquistare l’immaginazione di Bruno Taut dal padiglione di Colonia, del 1914, sino al sogno di un’architettura alpina, in cui i raggi vetrosi delle costruzioni avrebbero dovuto integrare, completare, dominare le vette. Adesso, invece, pare farsi innanzi qualcosa di diverso. «Il vetro» – scrive Behne – «è un materiale completamente nuovo, puro, in cui la materia si fonde e si rifonde. Di tutte le materie, di cui disponiamo, questa è quella più elementare. Le altre materie accompagnano il vetro come un resto. Il vetro si comporta oltre-umanamente, più che umanamente. Hanno ragione perciò gli Europei ad averne paura, perché l’architettura di vetro può diventare scomoda. Hanno ragione. Sarà così. E per loro non è una questione da poco. Per la prima volta gli Europei saranno strappati alla loro comodità, alla loro “sporca comodità” [Saugemütliche]»49. Il vetro, però, più che il motivo di quella paura, ne era la voce più acuta: la rivelava, senza offrire una superficie su cui riflettere il suo aspetto. Quando Benjamin nel 1933, nel suo brevissimo saggio Esperienza e povertà, si lasciava dire: «non per nulla il vetro è un materiale freddo e sobrio. Le cose di vetro non hanno “aura”. Il vetro è soprattutto il nemico del segreto…e del possesso»50, dava voce a quella medesima tonalità affettiva. 47

A. BEHNE, Glasarchitektur-Manifest, in: «Frühlicht», Heft 1., 1920, poi in:

J. HERMAND/R. HAMANN,

Expressionismus. Epochen deutscher Kultur von 1870 bis zur Gegenwart, Bd. 5, Frankfurt a. M. 1977, p. 154. 48 P. SCHEERBART, Glasarchitektur, München 1914, tr. it. Architettura di vetro, a cura di G. Schiavoni, Milano 1982, passim. 49 Ibidem. 50 w. BENJAMIN, Erfahrung und Armut, tr. it. di F. Rella, Esperienza e povertà, in: «Metaphorein», 3, 1978, pp. 14 s. Cfr. M. CACCIARI, Dallo Steinhof, Milano 2005, La catena di vetro, pp. 124-128; G. SCHIAVONI, La natura sotto altra luce, in: P. SCHEERBART, Architettura di vetro, cit., pp. 198-203; F. DE AMBROSIS PINHERO MACHADO, Bild und Bewusstsein der Geschichte. Figuratives Denken bei Walter Benjamin, Freiburg-München 2005, in part. pp. 161-168; W. BOCK,

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Il vetro non era tanto inospitale alle tracce, scivoloso, povero, quanto già esperienza della povertà, della mancanza, della scomparsa. L’interieur si era già sbriciolato, prima che il cristallo rivestisse le pareti. Non esponeva una mostra di feticci, ma la loro miseria. The Waste Land, la terra desolata. Il deserto brulicante di George Grosz, le strade deformi di Otto Dix, i segni anonimi di Max Beckmann. Automi repubblicani. Ma cosa celava quel timore se non il vincolo che stringeva il vetro alla macchina, questa materia al suo tempo? Ancora nelle righe che Ernst Bloch dedicava alla costruzione dello spazio cavo, ovvero all’architettura moderna, ciò resta nitidamente udibile. Il richiamo perentorio a staccare radicalmente l’architettura dalla macchina51, muoveva dalla censura della de-interiorizzazione, della riduzione delle abitazioni «a stanze d’ospedale, a scatole collocate su nastri mobili»52, all’insicurezza del vuoto. «L’architettura» – continuava Bloch – «è ovunque pura superficie, eternamente funzionale; per cui anche nella massima trasparenza essa non mostra nessun contenuto, nessun germoglio e nessuna fioritura di un contenuto capace di modellare un vero ornamento. Questa astrattezza si accorda certo benissimo con il vetro»53. Qui termina il quadro dell’epoca: die neue Zeit – avrebbe scritto Mies van der Rohe – ist eine Tatsache54. La posta in gioco sembra ora essersi finalmente scompaginata sul tavolo: il vetro illustra la macchina, la macchina non ammette che il silenzio del vetro. Ma dirimere, od anche solo impostare la diade macchina-vetro, prevede, come già è stato indicato in precedenza, l’individuazione di una specie di movimento e di una specie di metro. Al movimento riferiamo due aspetti, uno locale, l’altro qualitativo, esAuf Augenhöhe mit der Zeit. Benjamins Vorstellung der organischen und der kristallinen Wohntechnik im Zusammenhang mit Paul Scheerbart, in: P. RAUTMANN, N. SCHALZ (hrsg. von), Urgeschichte des 20. Jahrhunderts. An Walter Benjamins Passagen-Projekt weiterschreiben. Ein Bremer Symposion, Bremen 2006, pp. 161-191. 51 E. BLOCH, Il Principio Speranza, cit., vol. 2., p. 851. 52 Ivi, p. 846. 53 Ivi, p. 849. 54 L. MIES VAN DER ROHE, Die neue Zeit [1930].

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senziale: transizione e modificazione, traslazione ed alterazione55. O più semplicemente, moto e trasformazione56, impulso e trasformazione. Nel caso che stiamo esaminando, quello della costruzione architettonica, gli elementi diventano allora formazione e trasformazione, formazione e figurazione. Od ancora, macchinazione e meccanismo. Dunque, la questione che cercheremo di porre, avendo messo in chiaro il pre-testo storico, dell’architettura tedesca dei primi due decenni del XX secolo sarà: quale ruolo assume la materialità del vetro all’interno del nesso di formazione e figurazione dello spazio architettonico, laddove si assuma la macchina come modernistes Mittel der Gestaltung? Laddove uscendo dalla metafora temporale, in cui la macchina può essere latamente richiamata, se ne consideri essenzialmente la mediazione significativa, la medianità costitutiva di una Raumgestaltung? Se cioè lo spazio architettonico funge da unità figurale, in che modo gioca l’idea di unità della macchina come sistema, cioè come unità funzionale non permanente, non conclusa? Ed a questa concezione spaziale come attribuisce misura la tenue e fragile superficie del vetro? Questo fascio di domande trova, certo, compiutamente il suo orientamento nel moderno, ovvero nella riflessione che la modernità architettonica compie dinanzi alla sua crisi, allorquando cioè, quasi inauditamente, si eleva la pretesa di una casa come machine à habiter, come macchina per dimorare, per abitare57. Spogliando il motto di Le Courbusier della sua funzione polemica, dei panni contingenti che assunse la composizione dei cinque principi costruttivi (i pilotis,

55

Teeteto, 181 d; ARISTOTELE, Fisica, III, 1, 201a 10-16. Anche nell’analisi blochiana questi due aspetti sembrano permanere: da un lato la macchina è il trasformatore del lavoro, dall’altro, accogliendo la definizione di Reuleaux, la macchina in generale è «un insieme di corpi capaci di resistenza congegnati in modo da essere costretti, dati determinati presupposti, ad agire in virtù della loro forza meccanica». E. BLOCH, Il Principio Speranza, cit., vol. 2., p. 762. 57 LE COURBUSIER, Estétique de l’ingénieur. Maisons en Série, in: «L’Esprit Nouveau», n. 13 [dicembre 1921], tr. it. Estetica dell’ingegnere. Le case in serie, in: M. DE BENEDETTI, A. PRACCHI, Antologia dell’architettura moderna. Testi, manifesti, utopie, Bologna 1988; ID., Vers une architecture, Paris 1923; tr. it. di P. Cerri, P. Nicolini, C. Fioroni, Verso un’architettura, Milano 1979. 56

PLATONE,

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il tetto-terrazza, il plane libre, la facciata libera e la fenêtre en longueur), che cosa può ancora intendere? Di recente, in un testo dedicato all’analisi filosofica della tecnologia, A. Feenberg, ripropone questo esempio: certo, l’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor non è più un testo di frequente lettura, se non con le lenti dell’archeologia; dunque la serialità urbanistica, la sua costruzione per cerchie e per strati – che costituiva il quasi ovvio corollario della tesi di Le Courbusier, la macchina abitativa ripeteva il meccanismo economico capitalistico dell’allocazione delle risorse – non dovrebbe più fungere da metro ermeneutico. Eppure, quel richiamo assume d’essere tutt’altro che un dejà vù. La mira di Feenberg è quella di mostrare la multilateralità di ciascun oggetto tecnico, tale da non poter essere ridotto alla semplicità di uno strato essenziale: l’esibizione della casa ne sarebbe la prova più evidente. Essa – scrive nell’introduzione a Tecnologia in discussione. Filosofia e politica della moderna società tecnologica – «appartiene al nostro mondo della vita quotidiana e non è semplicemente un dispositivo efficace per raggiungere degli obiettivi»58. La casa sarebbe in altri ter58

A. FEENBERG, Tecnologia in discussione. Filosofia e politica della moderna società tecnologica, Milano 2002, pp. 4 s.: «Per illustrare la mia tesi, propongo quindi di considerare l’esempio di un oggetto tecnico più complesso ma anche più tipico, la casa. La casa, vi chiederete? La casa non è un dispositivo ma un ambiente della vita quotidiana estremamente ricco di significati. Tuttavia essa è anche diventata poco a poco una configurazione sofisticata di dispositivi. Dimenticate la vecchia dimora. Una casa oggi è il centro di tecnologie elettriche, di comunicazione, di riscaldamento, di idraulica e, naturalmente, di costruzione meccanizzata. Per l’imprenditore, la casa è essenzialmente questo insieme di aspetti. Il fatto che noi, che ci occupiamo della casa, la consideriamo da un punto di vista sentimentale, che nascondiamo molti dei suoi dispositivi o che li copriamo con facciate tradizionali e che abitiamo dentro la casa piuttosto che manipolarla come uno strumento, rende opaco il suo carattere fondamentalmente tecnico. In effetti, essa è divenuta la “macchina per vivere” già anticipata da Le Corbusier negli anni ’20. È tuttavia evidente che la casa appartiene anche al nostro mondo della vita quotidiana e non è semplicemente un dispositivo efficace per raggiungere degli obiettivi. Ovviamente, essa raggiunge degli obiettivi, come per esempio quello di ripararci dalle intemperie, ma essa fa evidentemente molto più di questo e appartiene al regno del significato tanto quanto qualsiasi altra cosa. Noi abbiamo “addomesticato” la casa tecnologizzata e ce ne siamo appropriati in molti modi che hanno ben poco, se non addirittura nulla, a che fare con l’efficienza. L’essenza della tecnologia, quale essa sia, dovrebbe in teoria far

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mini, proprio in quanto ordito meccanico, inscindibilmente, luogo e strumento. Ma può bastare questo a risolvere la nostra questione, o semplicemente funge da suo moltiplicatore? Proviamo ora finalmente ad intendere il legame di senso che sussiste tra costruzione architettonica e macchina, per poi tornare alle opere del Movimento Moderno, come ad un supplemento di prova, ripetendo l’itinerario già tracciato da Cacciari per intendere la Glasarchitektur, da Scheerbart a Mies van der Rohe59. 2. Archi-tettura: Tettonica e Macchinazione. a. Tettonica. Avendo, almeno negli auspici, delimitato il capo della nostra indagine, esamineremo su un piano elementare la dimensione significativa dell’architettura, dal suo etimo greco-classico tektosÚnh, al suo conio latino ars aedificatoria, sino alla sua forma germanica Baukunst. In ciascuno di questi casi, come ha definitivamente dimostrato Kenneth Frampton60, l’accento è posto sul tekta…nw, costruisco, da t ûktwn, costruttore, artefice, sia semplicemente falegname o fabbro, sia, in maniera già più complessa e suggestiva, carradore, costruttore di carri, cioè: di un tipo di macchina. È interessante notare come sin da questo stadio etimologico è possibile notare una duplice valenza: quella più generale della costruzione, certo, e quella più specifica, ma non semplicemente figurata o secondaria, dell’ordire, del macchinare. Negli Acarnesi, Aristofane fa dire a Cleone: «ordisca, escogiti ogni sorta di intrigo contro di me», kaˆ p≠n ™p> ™mo… tektain ûsqw, attestandone chiaramente il significato61. Mettiamo in serbo, dunque, come già nell’espressione greca – propria questa complessità. Essa dovrebbe disporre di categorie che permettano di identificare gli aspetti della casa che non sono riducibili a un rapporto mezzi-fini». 59 M. CACCIARI, Dallo Steinhof, cit., p. 128. 60 K. FRAMPTON, Tettonica e architettura. Poetica della forma architettonica nel XIX e XX secolo, a cura di M. De Benedetti, intr. di V. Gregotti, Milano 1999. 61 ARISTOFANE, Acarnesi, 599-600. Usi simili sono rinvenibili ancora in ARISTOFANE, Cavalieri, 462 e significativamente in PLATONE, Sofista, 224, nel sintagma tekta…nein maq»mata, intessere ragionamenti. Cfr. K. FRAMPTON, Tettonica e architettura. Poetica della forma architettonica nel XIX e XX secolo, cit., p. 21.

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ma ciò sarebbe anche del tutto leggibile nelle occorrenze dell’italiano architettare – convivano l’accezione del costruire e quella del macchinare, sia come costruzione di macchine, sia come escogitazione. Pertanto, costruzione, macchina e macchinazione, il cui primo esempio è quello del progetto, ovvero del disegno: si traccia un piano che sarà poi costruibile, e da costruire, e si costruisce secondo quanto è stato pianificato. Tuttavia ciò che stiamo indicando è ben lungi dall’essere una serie continua, come una mera filiazione terminologica: i tre elementi contrassegnati recano tra di sé uno scarto, una differenza, una essenziale disidentità. Il progetto sporge dalla costruzione, la costruzione differisce dimensionalmente dal disegno – proprio in quanto non è affatto piana –, la macchina arricchisce la sua stessa costruzione. Ora, il tentativo interpretativo e teorico di Frampton, che abbiamo assunto come bussola, si converte alle origini del moderno per comprendere come la traccia greca vi si sia trasformata. Individua così, proprio alla metà del XIX secolo – quando cioè venne proposto con forza il tema del rapporto tra architettura e tecnica – il recupero di quella radice apparentemente scomparsa62. Tra il 1830 ed il 1852 furono pubblicati tre testi, il Manuale di Archeologia di K. O. Müller63, La Tettonica degli Elleni di K. Bötticher64 ed I quattro elementi dell’architettura di G. Semper65, che avrebbero rinverdito il significato radicale di t ûktwn. È tra queste pagine che sorge il significato mo62

Ivi, p. 22. K. O. MÜLLER, Handbuch der Archäologie der Kunst, Breslau 1830. 64 K. BÖTTICHER, Die Tektonik der Hellenen, Berlin 1844-52. Cfr. M. SCWARTZER, Ontology and Representation in K. Bötticher’s Theory of Tectonics, in: «The Journal of the Society of Architectural Historians», 52, 3, 1993, pp. 267280; H. MAYER, Die Tektonik Der Hellenen: Kontext Und Wirkung Der Architekturtheorie von Karl Botticher, Fellbach 2004. 65 G. SEMPER, Die vier Elemente der Baukunst. Ein Beitrag zur vergleichenden Baukunde, Braunschweig, Vieweg, 1851; tr. it. I quattro elementi dell’architettura, in: H. QUITZSCH, La visione estetica di Semper, Milano 1991, pp. 171-238. Cfr. ID., Der Stil in den technischen und tektonischen Künsten oder praktische Aesthetik. Ein Handbuch für Techniker, Künstler und Kunstfreunde, 1860; rist. Mittenwald, Mäander Kunstverlag, 1977; tr. it. parziale a cura di A.R. Burelli, C. Cresti, B. Gravagnuolo, F. Tentori, Lo stile nelle arti tecniche e tettoniche o estetica pratica, Roma-Bari 1992. 63

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derno di Tettonica. In uno dei più diffusi Konversation-Lexicon – strumenti, non sempre agili, che sostenevano nel XIX secolo le piacevoli e dotte conversazioni, con una struttura enciclopedica – quello pubblicato tra 1840 ed il 1855 da Carl Joseph Meyer66, si possono leggere due definizioni di Tektonik. La prima, contenuta nel quindicesimo volume, suona: «l’arte di formare gli spazi, in cui si vive, l’architettura in senso lato; ma anche l’arte di costruire utensili e mobili, nella considerazione del rapporto tra le parti portanti e quelle sostenute, siano esse di legno o di altro materiale». La seconda, facente parte invece del trentacinquesimo volume, dedicato al chiarimento di termini tecnici o stranieri, utilizzati nella storia delle arti, recita: «La dottrina della trasformazione della semplice forma dell’opera, corrispondente alla funzione, in forma artistica». Ambedue rimandano ad un principio di costituzione, di tras-formazione, Herausstellen, Ausbildung, orientato allo spazio, e più specificamente, alla forma artistica, od artificiale, dunque in qualche modo tecnica, dello spazio. È tuttavia la seconda definizione a coincidere completamente con quella che ne diede Bötticher – nello studio degli elementi peculiari alla costituzione dei templi greci – argomentando la tensione tra Kernform, forma nucleare dettata dalla funzione che dovrebbe essere soddisfatta dal manufatto, e Kunstform, la sua traduzione artistica che consente di rendere visibile l’articolazione strutturale e spaziale, che altrimenti resterebbe impercettibile. La dualità, segnalata quanto alla sua correlazione dalla Bekleidung, dal rivestimento, rischia di scadere, isolando reciprocamente i due poli, nella disposizione di un versante ontologico e uno rappresentativo. Di qui riparte l’analisi di Gottfried Semper: la sua premessa metodica consiste nella derivazione dagli Urzuständen der Gesellschaft, dalle condizioni fondamentali della società, degli elementi architettonici: a) al focolare, der Herd, corrisponderebbe il materiale della terracotta, der gebrannte Ton, e l’attività della metallurgia; b) al tetto od intelaiatura, das Dach, il legno, das Holz, e la tettonica; c) alla recinzione, die Umfriedung, il tessuto, das Textil, e la tessitura; infine d) al basamento o terrapieno, der Erdaufwurf, la pietra, der Stein, e la ste66

AA.VV., Grosse Meyersche Conversationlexicon, 52 Bänden, [1840-1855], Microfiche-Ed., hrsg. von O. Seemann, Erlagen 1993.

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reotomia. Ciò consente di rivelare il carattere fondamentalmente tessile delle pareti, levando sull’affinità etimologica tra Wand e Gewand, tra il setto che nulla regge e la veste, comprendendo la continuità evolutiva tra la tessitura della stoffa che recinge la capanna, l’istoriazione e la decorazione degli interni. Ma ancora di più permette di distinguere, correlativamente, tra struttura e costruzione, volumetria ed articolazione, stereotomia e tettonica, od, ancora una volta, tra formazione e conformazione. Di notevole importo alla comprensione dello schema costruttivo semperiano è la lettura fattane, attraverso la teoria della pura visibilità, dallo stesso Fiedler, in alcune note sull’essenza e la storia dell’architettura67. Precisando vieppiù il suo assunto, Fiedler sostiene, in primo luogo, che «solo quando l’architettura diventa la pura espressione della forma, compie in se stessa l’opera spirituale della conformazione; solo così infatti essa è davvero un prodotto ed un possesso dello spirito umano, nel senso più alto, tanto da poter elevare la pretesa ad essere considerata come opera d’arte»68. Tuttavia la capacità di esprimere nella sua purezza la forma artistica, attraverso la conformazione dello spazio, si radica in un pensiero architettonico che non sia «un mero inventare e combinare, né un semplice formare e conformare secondo leggi date, ma un processo, che ha, certo, in se stesso le sue leggi, ma che se vuole essere chiamato pensiero, deve impegnarsi nel tentativo di elaborare il materiale datole in un prodotto spirituale sempre più puro»69. E proprio in questo, Fiedler trova coincidenza con il programma semperiano di considerare «la forma senza altra esistenza che nella materia, e la materia non come mero mezzo espressivo dello spirito, ma piuttosto come il materiale in cui la forma in generale giunga all’esistenza»70. Ciononostante, la mina di una 67

K. FIEDLER, Bemerkungen über Wesen und Geschichte der Baukunst, in Konrad Fiedlers Schriften über Kunst, hrsg. von H. Konnerth, München Bd. 2. Nachlaß, Aphorismen - Wirklichkeit als Kunst - über die Kunsttheorie der Griechen und Römer - zur neueren Kunsttheorie - über Wesen und Geschichte der Baukunst, 1914, p. 479 ss. Sul rapporto tra la dottrina semperiana ed il purovisibilismo, si veda R. DE FUSCO, Segni, storia e progetto dell’architettura, Roma-Bari 1989, pp. 11-21. 68 Ivi, p. 480. 69 Ivi, p. 481. 70 Ibidem.

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contrapposizione tra la permanenza sostanziale del basamento e quella rappresentativa del nucleo e del muro di riempimento sembra essersi disinnescata solo sulla superficie visiva, in virtù della pianificazione sin-ottica dello sguardo, nella sua immobilità monoculare. Vale a dire quella contraddizione si risolveva all’interno di una rappresentazione estetica, di una prestazione conoscitiva, che costituiva il nucleo della dottrina della reine Sichtbarkeit, rendendo però possibile il ricorso ad una ulteriore reduplicazione. L’aggiornamento della nozione di tettonica, cui Frampton contribuirà, consentirà di aprire un varco sinora imprevedibile quanto alla costituzione figurale dello spazio. L’introduzione, infatti, della triade topos, typos e tettonica71, cui corrispondono l’insediamento, l’edilizia e la struttura permette di introdurre, nella considerazione della costruzione architettonica, la specificità propria del dominio tattile. Riprendendo il motivo guida del suo saggio, The Visual versus the Tactile72 – ove prende in considerazione il progetto della Saynatsalo Town Hall, realizzato da Alvar Aalto, nel 1952 – è dalla resistenza tattile della forma locale e dalla capacità corporea di leggere l’ambiente, che si rende possibile una costituzione spaziale che non si limiti al dualismo insito nella ripresentazione della façade ma approdi alla presentazione di una poetica strutturale. Qui grava il passaggio dalla raffigurazione alla figurazione, alla costruzione. «Quando struttura e costruzione» – scrive Frampton – «si dimostrano reciprocamente interdipendenti come, tanto per fare un esempio, nel Palazzo di Cristallo di Paxton del 1851, il potenziale tettonico dell’insieme sembra derivare dall’euritmia delle sue parti e dall’articolazione delle sue connessioni»73. Torniamo, dunque, alla prestazione metrica del vetro. Il richia71 K. FRAMPTON, Tettonica e architettura. Poetica della forma architettonica nel XIX e XX secolo, cit., p. 20. 72 Cfr. ID., Critical Regionalism: Six Points for an Architecture of Resistance, in The Anti-Aesthetic: essays on Postmodern Culture, ed. by H. Foster, Seattle 1983, pp. 24-30. 73 K. FRAMPTON, Tettonica e architettura. Poetica della forma architettonica nel XIX e XX secolo, cit., p. 39. «“Atettonico”» – precisa Frampton – «è qui usato per descrivere la maniera in cui l’interazione espressiva è trascurata od offuscata visivamente», in: ibidem.

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mo al ritmo, però, lungi dal richiamare semplicemente il classico parallelo tra musica ed architettura, esemplificato dal motto schellinghiano Architektur ist erstarrte Musik, allegoria cioè dell’organico nell’inorganico, trova senso ulteriore nella complicazione di tatto e movimento nella costituzione dello spazio. L’unico procedimento analitico che può rendere ora evidente l’importo tattile e cinetico, in una sola parola cinestetico, alla configurazione spaziale, è fornito dalla determinazione fenomenologica della Raumkonstitution. La differenza tra il dominio tattile e quello visivo – secondo gli studi husserliani, che confluirono prevalentemente nelle lezioni del 1907, titolate Ding und Raum74 – consiste proprio nella capacità di localizzazione, ovvero di differenziazione e di posizionamento cui accede il primo a differenza del secondo. Le coordinate peculiari della distanza, dell’allontanamento e dell’avvicinamento, sono determinate appunto dalla percezione del tatto. La convergenza di differenze sensibili non ridotte ad unità, ma solo unificabili mediante differenziazione, non coincidenza – i sensibilia termici, quelli della ruvidità o della liscezza, della morbidezza o della solidità, ma anche quelli specifici della propriocezione, dell’orientamento del corpo proprio, Leib, nello spazio, della formazione insomma dello schema corporeo – fanno del tatto invece che un sensorium comune, un senso improprio, non proprio a nessuna delle sue sensazioni75. Il tatto, in qualche mo74

E. HUSSERL, Ding und Raum. Vorlesungen 1907, in Husserliana Gesammelte Werke [HGW], hrsg. von R. Bernet et alii, Den HaagDordrecht/Boston/Lancaster, Bd. XVI, hrsg. von U. Claeges, tr. it. parz. Il libro dello spazio, a cura di V. Costa, Milano 1996. Scrivo prevalentemente, in quanto Husserl tornerà sul medesimo tema nel secondo libro delle Ideen, rimasto allo stato di abbozzo e pubblicato postumo; cfr. ID., Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Zweites Buch, [Ideen II] HGW, cit., Bd. IV, hrsg. von M. Biemel, in part. pp. 143-151; tr. it. a cura di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol II., Libro II, Ricerche fenomenologiche sulla costituzione, Torino 20042, in part. pp. 146-153. 75 Illuminante è l’esempio della mano che toccando la propria stessa superficie, si differenzia indefinitamente tra mano toccante e mano toccata; in proposito si veda E. HUSSERL, Ideen II, cit., pp. 145 ss.; tr. it., cit., p. 148. Sulle affinità tra la dottrina formale del Bauhaus ed il metodo fenomenologico, si veda G. C. ARGAN, W. Gropius e la Bauhaus, Torino 1966, passim. Inoltre cfr. W. KANDINSKIJ, Punto linea superficie, Milano 1968; P. KLEE, Teoria della forma e della figurazione, Milano 1959.

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do obbliga al movimento, alla remissione, al riconoscimento dell’alterità, al contatto, più che all’afferramento. Tatto e movimento implicano in Husserl la costituzione della forma spaziale: emendando la formulazione kantiana della forma dello spazio, come forma della conoscenza, lo spazio diviene forma delle cose, in quanto loro medesima costituzione. Costituzione della forma figurale dello spazio. Lo spazio dunque si distende, ausbreitet, si dispiega, nella ricorsività del gesto, dello spostamento, del rivolgimento: a ciò corrisponde la costituzione dello spazio come sua coscienza interna. Ben lontani dall’alternativa tra atonalità e dodecafonia, che C. Norberg Schulz76 inscriveva simbolicamente tra Husserl ed Heidegger, la Raumkostitution fenomenologica, cui abbiamo accennato mostra di essere uno strumento di straordinaria duttilità, proprio nella comprensione delle modalità di costituzione dello spazio in relazione al riconoscimento del luogo in cui si insedia. In questo modo diviene possibile comprendere la Raumgestaltung come una correlazione intenzionale tra costruire ed abitare77, ovvero la responsabilità tutta storica dell’artefice rispetto alla sua dimensione locale. b. Macchinazione. Essendoci dedicati all’intendimento della distensione, Ausbreitung, spaziale, abbiamo solo prima facie tralasciato il nodo della macchinalità. Ripartiamo quindi dall’intervallo tra disegno e costruzione, per individuare il senso meccanico dell’architettura. Non serve affatto ricordare qui quanto la vicenda della meccanica e quella dell’architettura siano intrecciate, quanto la storia dell’una si rifletta in quella dell’altra come l’evoluzione della dottrina 76

C. NORBERG-SCHULZ, Verso un’architettura autentica, in: Il mondo dell’architettura, con un’introduzione di P. Portoghesi, Milano 1986, p. 199. Cfr. ID., Il pensiero di Heidegger sull’architettura, in: ivi, pp. 39-48. inoltre cfr. ID., Esistenza, spazio e architettura, Roma 1982, passim. 77 Cfr. M. HEIDEGGER, Bauen Wohnen Denken, Darmstadt 1952, pp. 72 ss., poi in: ID., Vorträge und Aufsätze (1936-1953), Gesamtausgabe, hrsg. von F.-W. von Hermann, Abt. I, Bd. 7; tr. it. di G. Vattimo, Costruire abitare pensare, in: Saggi e Discorsi, Milano 1991, pp. 96-108. Per una lettura dell’architettura moderna, a partire dalla lezione heideggeriana, si veda E. MAZZARELLA, Storicità, tecnica ed architettura, in: ID., Ermeneutica dell’effettività. Prospettive ontiche dell’ontologia heideggeriana, Napoli 1993, pp. 171-207.

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dei lavori virtuali illustra in piena chiarezza, da Archimede a Cartesio ed oltre78. Proviamo piuttosto a cercare in un classico rinascimentale della trattatistica architettonica, il Liber de architectura di Francesco di Giorgio Martini79, le tracce indicative per la nostra riflessione. Le argomentazioni – seguendo un percorso ascensivo, in cui al primato della disposizione della casa, seguirà il suo ordinamento urbanistico, che concorda la dimensione degli edifici a quella delle piazze e delle strade, attorno alla centralità simbolica del palazzo di città, quindi la delineazione del foro-mercato, dei mattatoi, delle terme, delle basiliche, infine la costruzione dei forti, dei porti e delle macchine, in specie dei mulini80 – tutta però muove dalla precedenza del disegno. Se infatti è indispensabile alla scienza architettonica la conoscenza di geometria e matematica, ancora di più sembra necessaria l’arte del disegno, in quanto scienza operativa: citando implicitamente il Plinio dell’Historia Naturalis, Francesco di Giorgio Martini definirà quest’arte come antigrafica, perché ante omnia graphicem81. «Molti» – scrive – «avendo fabbricato in mente un edificio con le sue convenienti proporzioni, non possono poi metterlo in opera, non sapendole né a sé, né ad altri col disegno dimostrare»82. Dunque, la funzione del disegno si mostra consapevolmente come costitutiva ed allo stesso tempo performativa, capace di sostenere il significato83 e di rendere così possibile la possibilità medesima della costruzione architettonica. Solo nella composizione grafica infatti, nella prima figurazione bidimensionale dello spazio, che già non è più rappresentazione conforme a qualcos’altro, ma già presentazione di questo qualcosa, si ri78

La meccanica nell’architettura. La Statica, Torino 20033, pp. 20-74; sul principio dei lavori virtuali che indice l’intero ambito della statica, si vedano in part. le pp. 57-68. 79 F. G. MARTINI, Trattato di architettura civile e militare [1471-82], a cura di C. Salluzzo, Torino 1841. Cfr. V. GREGOTTI, Architettura, tecnica, finalità, Roma-Bari 2002, passim. 80 Ivi, p. 193; Sull’ordine della città, ivi, pp. 242-272; cfr. VEGEZIO, De re militari. 81 Ivi, p. 125. La citazione è da PLINIO, Historia Naturalis, XXXV, 77. 82 Ivi, p. 328. 83 Ivi, p. 319. A. GIUFFRÈ,

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vela il compito dell’architettore. Nel disegno, egli dimostra infatti di avere «nell’intenzione e nella mente sua l’edifizio, ma eziandio le cagioni della sua durazione»84, di poter poi operare nel rispetto di queste ultime. Il disegno è capace cioè non di contenere, di trattenere, vale a dire di prevedere, ma di mostrare la frattura temporale cui la costruzione è affidata: ragione e norma dell’architettura, afferma, è di edificare «non per le persone proprie, ma per i posteri ancora»85. Se tuttavia il limite medesimo della costruzione sarà segnalato dalla elencazione dei materiali da costruzione, pietre, calcine, arene e legni86, a seconda della loro maggiore o minore adeguatezza, è il termine di confronto stabilito dal luogo, dalla collocazione dell’edificio o, semplicemente, dell’opera ad impegnare maggiormente Francesco di Giorgio Martini. La serie composta da terra, aria, acqua e venti illustra a sufficienza quale fosse la sua intenzione dello spazio87. Ne è dimostrazione lucida e sufficiente la descrizione dei principi secondo cui costruire un forte. «La bontà delle fortezze» – nota – «sta nell’artificio della pianta anziché nella grossezza dei muri»; non vi è fortezza, seppur attorniata da imponenti guarnigioni, che non si possa espugnare, «non proibendo però la fortezza del sito naturale, come saria qualche asperrimo monte elevato o perpendicolare, intorno espedito, dove la natura più presto che l’arte si debba laudare»88. È la pianta quindi la commisurazione della costruzione con il suo luogo, è nella pianta che si esprime graficamente l’opportunità della collocazione in cui un edificio ergerà il suo profilo. L’orientamento, l’articolazione, la dimensione delle murature trovano in essa la loro possibilità di conformarsi, determinando la propria dislocazione. Qui, dunque, viene alla luce la radice meccanica della costruzione architettonica, e non tanto nel progetto – cui pure Francesco di Giorgio Martini si dedica – di «quindici mulini, un sifone a mantice ed uno a manubrio, cinque macchine per alzare e tirare pesi», perché riesca agevole l’opera. O meglio è nel tracciamento delle linee e nell’enumerazione degli strumenti – facendo vieppiù chiarezza sulla 84

Ivi, p. 131. Ivi, p. 156. 86 Ivi, pp. 133-139. 87 Ibidem. 88 Ivi, pp. 254-255. 85

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compenetrazione tra competenza scientifica, fisica e matematica e geometrica ed ottica e quella architettonica – che diviene evidente la cognizione del distacco, che resta il motivo dominante nella mente dell’architettore. Questa peculiare sorta di autore avrebbe abbandonato la sua opera ad essere abitata: si sarebbe arenato l’inizio, l’¢rc≈, restando in vigore la tekton…a, la costruzione. Ovvero, la macchina nello spazio architettonico. 3. Sulla forma nell’architettura: Mies van der Rohe. Rincasiamo ora nel Moderno. Avendo però tra i nostri attrezzi, per fare uso di una espressione wittgensteiniana, il tracciamento della pianta, la configurazione dello spazio, di cui abbiamo cercato di comprendere la prossimità alla meccanica, quindi la costruzione. Avevamo lasciato quell’epoca alla fondazione del Bauhaus, quando si stava sviluppando il progetto di W. Gropius per la sede di Dessau, nel 1924, quando il tavolo di B. Taut tornava ad affollarsi di progetti ed E. Mendelsohn stava tracciando, tra il 1926 ed il 1928, dopo la torre di Potsdam, le linee morbide e fluenti dei magazzini Schocken a Stoccarda, o l’assetto piramidale, ed in qualche modo piramidale, della fabbrica di cappelli a Luckenwalde, compiuta nel 1930. Anche L. Mies van der Rohe era cresciuto all’atelier di Behrens, anch’egli avrebbe tentato di ripensare l’aspetto di Berlino, nel 1921, con il progetto del Glashochhaus, del grattacielo di cristallo sulla Friedrichstraße, e di rispondere alla socialità delle nuove esigenze urbanistiche nella Weisenhofsiedlung di Stoccarda, tra il 1926 ed il 1927. Già nelle sue tesi di lavoro, del 1924, mostrava con chiarezza la sua concezione architettonica, quanto alla costruzione, ai materiali, alla forma che avrebbe dovuto assumere la figurazione degli spazi. «L’architettura» – scriveva – «è volontà del tempo, colta spazialmente. Vitale. Mutevole. Nuova. Non il domani, non lo ieri, ma solo l’oggi è formabile. […] La forma dà figura a partire dall’essenza del compito, attraverso i mezzi del nostro tempo. […] I materiali sono cemento acciaio vetro. Le costruzioni in acciaio e cemento sono per la loro essenza costruzioni scheletriche. Nessuna pasta alimentare né torri blindate. Accanto alle capriate portanti una parete che nulla reg-

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ge. Dunque costruzioni in pelle e ossa»89. Il rapporto di Mies con la propria epoca è stato icasticamente definito, da F. Neumeyer90, come quello di un razionalista scettico, o per usare una recente locuzione di V. Gregotti91, di una realista critico. Quello che conta, però, è che l’ambito della propria comprensione fosse lo spazio, ovvero la forma dello spazio. Nel progetto architettonico rinveniva la sporgenza della forma su ciascuna funzione, in quanto forma delle funzioni, costruzione logica, sistema assiomatico delle variabili funzionali, di quegli innumerevoli raggi relazionali che l’edificio intratteneva con l’ambiente, il costruire con l’abitare, il luogo con il movimento. La funzione non sarebbe – nelle sue opere si intenda! – mai divenuta funzionamento, usura, ma sempre ancora valenza, corrispondenza, situazione. Il particolare, il dettaglio, che nulla decora, perché è parte e parte non-indipendente, in quanto forma dell’unificazione o della disseminazione92. «Mi rivolgo» – precisava Mies, in un articolo apparso su «Die Form, nel 1927 – «non contro la forma, ma solo contro la forma come scopo. In verità, io la traggo invece dalla serie dei fenomeni e dall’evidenza che se ne trae. La forma come scopo scade sempre in formalismo. Questo mio sforzo invece non si dirige all’interno, ma all’esterno. Ma solo un interno vitale ha un esterno altrettanto vitale. Solo l’intensità della vita ha intensità di forma. Ogni Come è condotto da un Che Cosa»93. Ed era proprio nell’abbrivio del processo di configurazione dello spazio, che la vita sembrava prendere forma. Per poi smetterla, trasformata, come ad ogni esperienza della forma irrimediabilmente accade. Tra Wie e Was e di nuovo Wie. O Quoi où, che dove – avrebbe sussurrato Beckett. 89

L. MIES VAN DER ROHE,

90

F. NEUMEYER,

Arbeitsthesen [1923]. Mies van der Rohe, Das kunstlose Wort. Gedanken zur Baukunst, Berlin 1986, p.11. 91 V. GREGOTTI, L’architettura del realismo critico, Roma-Bari 2004, passim. 92 M. CACCIARI, Res aedificatoria. Il “classico” di Mies, in: «Paradosso», 9, 1994; poi in: «Casabella», 629, pp. 3-7; ID., I frantumi del tutto, in: «Casabella», 684/685, 2001, pp. 4-7; J. J. LAHUERTA, Su alcune fotografie di Mies (frammenti), in: ivi, pp. 38-43. 93 L. MIES VAN DER ROHE, Über die Form in der Architektur, in: «Die Form», 2, 1927, p. 59.

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Fig. 4. L. Mies van der Rohe, Pianta della Villa in campagna in mattoni e terracotta, 1924

Quello che riguardava Mies, non era solo «la costruzione od il suo potenziale tecnico, ma il modo in cui si manifestava la costruzione, come essa veniva donata allo sguardo ammirato. Non nella capacità tecnica, ma nell’effetto estetico che si imprimeva, consisteva il suo primo e peculiare interesse»94. Di ciò fu manifesto – inarrivato ed incompiuto – il progetto della villa in campagna in mattoni e terracotta, del 1924 (Fig. 4). Qui, il disegno esperisce il suo luogo. Non si tratta più dell’applicazione di un principio, di una felice ed ardita convenzione moderna, quella del plane libre. Lo spazio si distende, si allunga. I confini non si barricano a difesa di quell’intimità, a cui ancora Bachelard incardinava la sua poetica spaziale dell’abitazione95. Le pareti si allungano in un indefinito quadrante spaziale. «Tre come le ali di un mulino a vento» – scriverà C. Asendorf – «fino ai limiti del foglio da disegno, le mura cacciate via suggeriscono la rappresentazione di un movimento centrifugo, mentre all’inverso ispessendosi verso il centro ne denotano il risvolto centripeto»96. Se dunque è alla manifestazione della costruzione dello spazio che Mies aspira, nella Landhaus aus Backstein, si dispiega l’articolazione del moto, di una traslazione il cui asse è l’evidenza della terra. Le braccia ampie di un funambolo formano lo schema del corpo nello spazio. 94

F. NEUMEYER, Mies van der Rohe, Das kunstlose Wort. Gedanken zur Baukunst, Berlin 1986, p. 147. 95 G. BACHELARD La poetica dello spazio, tr. it. di E. Catalano, Bari 1975. 96 C. ASENDORF, Neutraler Rahmen – universaler Raum. Zu Mies van der Rohe, in: J. SIMMEN (hrsg. von), Schwerelos. Der Traum vom Fliegen in der Kunst der Moderne, cit., p. 49.

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Cinque anni dopo, nel 1929, L. Mies van der Rohe fu chiamato a costruire il padiglione tedesco all’Esposizione di Barcellona (Fig. 5), individuando un’area, segnata, come suo ideale limite e sfondo, dal fianco del Palazzo di Alfonso XII, che ne avrebbe immediatamente contrassegnato la prospettiva attraverso un punto di fuga storico, in uno, temporale e locale. Già in quella scelta si sarebbe espresso l’impianto significativo di quella costruzione. Non siamo affatto più in un universo di carta. «L’inclusione del corpo di fabbrica» – avrebbe segnalato C. Asendorf – «non significava la sua completa sotto-missione allo schema dato. La distanza e la posizione propria del padiglione rispetto al suo contesto figurativo restava assicurata, dal fatto che esso giungeva significativamente ad espressione nella trasformazione del frontestrada. L’opera costruita ed il contesto si trovavano così in un fruttuoso confronto, che costituiva un vantaggio per ambo i versanti»97.

Fig. 5. L. Mies van der Rohe, Barcelona-Pavilion, 1929.

L’eleganza classica del Barcelona-Pavilion è costituito da un complesso meccanismo plastico98, in cui prende forma tanto il labile volume interno quanto la luminosa apertura esterna. La composizione delle pareti interne, i cui materiali vedevano alternarsi la levigatezza dell’onice a quella del metallo e del vetro, si completava nella sfuggente ortogonalità delle lastre murarie, che sollevavano appena la superficie superiore della copertura. Gli otto montanti metallici cromati, dalla sezione a forma di croce, non dissimulavano certo la loro funzione, ma la avrebbero già trasformata in una scansione dello spazio. Il basamento di travertino era scavato, in un lato dell’interno, da 97 98

Ivi, p. 50. R. DE FUSCO, Storia dell’architettura contemporanea, cit., p. 270.

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una piccola vasca, che rimava quasi con quella molto più ampia, all’opposto lato esterno: la costruzione avrebbe così approfondito la sua dimensione. In un canto, si levava la scultura figurativa di Georg Kolbe, Morgen, così come se «non avesse peso» – scrive W. Tegethoff – «sulla superficie dell’acqua. Tra il marmo levigato, l’acqua ed il vetro, si diffondeva un ricco gioco di rispecchiamenti e di sovrapposizioni, in cui la venatura della pietra corrispondeva ancora allo sfondo naturale, costituendo uno spazio che scorreva via in ogni direzione»99. Nonostante fosse, per utilizzare le parole di Hitchcock, «uno dei pochi edifici grazie al quale il secolo xx può gareggiare con le grandi epoche del passato»100, il Barcelona-Pavilion, fu distrutto terminata la durata dell’esposizione. Ed è forse un peccato non poterne vedere oggi le macerie, ma la sua ricostruzione, non poterne toccare la molla infranta ed inutile dell’ingranaggio, ma la sua ricomposizione fittizia. Oppure poco importa: avremmo solo perso un oggetto comprensibile quanto l’Odradeck dell’onesto padre di famiglia. Dopo una lunga permanenza negli Stati Uniti, in cui aveva riparato per sfuggire alla barbarie nazista, dopo Chicago ed i suoi grattacieli, Mies van der Rohe compì la sua ultima opera, tra il 1965 ed il 1968, a Berlino, la Neue National Galerie. Sulla superficie verde dei prati restava solo vetro sotto un tetto così spesso da sembrare lo zoccolo di un edificio schinkeliano. Chi oggi si aggirasse nella nuova capitale, troverebbe l’esilità dei suoi contorni alla spalle della DeimlerChrysler-Platz. E se riuscisse a fare il periplo di quella piazza chiusa, di quello Hof tutto verticale, potrebbe ancora comparare il vetro brunito a quella trasparenza lieve, ma spigolosa. Entratovi scoprirebbe la profondità che non dà affatto a vedersi, ma che le lastre cristalline continuano ad indicare. Se l’esperienza architettonica della costruzione di vetro contribuisca a descrivere la complessità semantica, recata in seno alla macchina, resta in bilico tra la filosofia dell’architettura e la teoria delle macchine. Proprio come una macchina di vetro. 99

W. TEGETHOFF, Mies van der Rohe – Die Villen und Landhausprojekte, Essen 1981, p. 71. 100 H. R. HITCHCOCK, L’architettura dell’Ottocento e del Novecento, Torino 1971, p. 506, cit. in: R. DE FUSCO, Storia dell’architettura contemporanea, cit., p. 274.

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Wheatfield with crows. È questo uno dei titoli pittorici di Van Gogh più cari al Mumford appassionato di arte, una sentenza che coglie nel segno, che spiega il quadro senza mandarne in frantumi la cornice: un’epigrafe, quasi un epitaffio, per il mondo contemporaneo e per l’uomo che sembra non farne più parte. Campo di grano con corvi. Una distesa di spighe dipinte con rabbia e violenza, nessuna figura umana sotto un cielo incupito da uno stormo di rapaci in volo confuso. È giunto il tempo […] di ripristinare l’uomo stesso in una posizione centrale […]. Abbiamo esplorato il nuovo mondo della macchina e finalmente sappiamo che non è adatto a permanente abitazione umana: una prigione è sempre una prigione, anche quando si chiama razzo o capsula spaziale. È tempo per l’architettura di tornare alla terra e di edificare una nuova dimora per l’uomo1. 1 L. MUMFORD, Discorso tenuto nell’Aula Magna della Facoltà di Architettura di Roma il 26 maggio 1967 per il conferimento della laurea “honoris causa”, a cura di G. Rizzo, in: F. VENTURA (a cura di), Alle radici della città contempora-

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Una prosa in apparenza retorica, quella di Lewis Mumford, impegnato nell’esprimere un verdetto: la bocciatura della macchina – nea. Il pensiero di Lewis Mumford, Milano 1997, p. 243. Per una visione d’insieme che ben presenti – nella laboriosa e spesso contraddittoria concezione mumfordiana al riguardo – i problemi dell’arte come connessi a quelli della tecnica, nonché il significativo climax «svilimento del simbolo – fallimento dell’arte – sopravvalutazione della macchina», cfr. G. NARDI, Arte e tecnologia nel pensiero di Lewis Mumford, in: R. COMINOTTI/G. DELLA PERGOLA (a cura di), Lewis Mumford nella storia e nella critica, Brescia 1992, pp. 25-36: qui, tra p. 28 e p. 30, troviamo una sintesi efficace dei termini in gioco: «È la macchina l’elemento caratterizzante della nostra epoca, attorno al quale si modella la nostra visione della vita […]. Arte e tecnica diventano due punti d’osservazione attraverso i quali giungere a una valutazione complessiva del disagio della nostra civiltà […]. È questo che interessa veramente a Mumford». Per quanto concerne Van Gogh, nei vari appunti al margine Mumford pare incline a sottolinearne la cristianità autentica, avendo egli fatto dell’arte una sorta di «missione apostolica», non dimentico dei duri e stentati trascorsi in miniera, nel Borinage (habitat inorganico par excellence che – in età paleotecnica – assumerà nella mumfordiana “storia della cultura” come “storia della tecnica” un ruolo del tutto particolare). Testo del primo Novecento - e dunque pubblicato in anni decisivi per Mumford - che pure appoggia questa lettura è quello celeberrimo di I. STONE, Lust for Life, New York 1934; tra gli “scopritori europei” degli stessi anni: J. MEIER GRAEFE, Vincent: der Roman eines Gottsuchers, Berlin 1932; W. NIGG, Religiöse Denker: Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche, Van Gogh, Bern/Leipzig 1942. Nel discorso del ’67 di cui sopra (cit., p. 243), Mumford rinvia, tra le righe, a «un libro appena pubblicato negli Stati Uniti il quale dovrà essere completato da un secondo volume»: si riferisce a The Myth of the Machine. Technics and Human Development, edito a New York nello stesso 1967 e seguito, nel 1971, da The Pentagon of Power. Intento del nostro contributo sta nel mettere a fuoco la continuità argomentativa mumfordiana, esemplarmente delineata nei tre testi principali (Tecnica e cultura, Il mito della macchina, Il pentagono del potere) aventi come problema di fondo il rapporto tra tecnica e potere, con particolare riferimento alle diverse accezioni assunte da quest’ultimo. Qualora questo, nella sua dialettica «power»/«can», sia assunto come parola chiave della «natura» dell’uomo – charachter indelebilis della sua stessa umanità – prima che stemma di degenerazione della sua «cultura», lo stesso, dichiarato, «studio della condizione dell’uomo moderno» si estende alla proposta di un «condizionale per l’uomo contemporaneo». In tal senso, Technics and Human Development da sottotitolo significativo del primo tomo di The Myth of the Machine si eleva a paradigma significante per il pensiero mumfordiano tutto, così come attestato tra le righe nei termini di «ciò che sto facendo io, e cioè ripercorrere l’itinerario della continua interazione tra tecnica e sviluppo umano» (cfr. L. MUMFORD, Il Pentagono del Potere, tr. it. a cura di M. Bianchi, Milano 1971, p. 75 – d’ora in poi PP).

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nella sua accezione antisociale, e dunque antivitale – come mondo dell’uomo e per l’uomo, come dimora che non ne sia il sepolcro. Presidente di una giuria interpellata sulle origini della civiltà e sul suo destino, Mumford guarda ai più svariati edifici architettonici come espressioni materiali dello spirito umano ancorato al suo orizzonte storico, alle mode del periodo, ai rischi e alle sfide del tempo. Lui che di architettura non ha mai neppure seguito un corso universitario, assiste al plauso dei suoi non colleghi, ringraziandoli con «un misto di umiltà e orgoglio»2 per l’onorificenza di cui lo ritengono degno. Per la serietà di un allarme racchiuso in un neologismo grato a Emerson: nel suo denunciare il progressivo andarsi «antropolizzando»3 del mondo, con la terra stessa (Wasteland) ridotta a un cervello e la mente umana necrotizzata in esso. Per il sobrio notare lo snaturamento dell’uomo, espropriato della sua cultura ed anzi vittima della presunta superiorità di questa. Un essere storico, l’uomo, un essere storico minac2

Ivi, p. 237. Il testo del discorso (a conclusione del cap. 12 del volume a cura di Ventura) è preceduto da una densa introduzione, corredata dell’atto di delibera emesso dal Consiglio Accademico della Facoltà romana di Architettura, in cui ci si sofferma sull’atmosfera «di grande fermento, non solo culturale» che promuove il nome di Mumford come nobile compromesso tra gli – spesso contrastanti – orientamenti accademici, e dunque eleva super partes il carattere di unanimità della proposta. 3 Cfr. L. MUMFORD, La città nella storia, tr. it. a cura di E. Capriolo, 3 voll., Milano 1997 [vol. I: Dal santuario alla Polis; vol. II: Dal chiostro al Barocco; vol. III: Dalla corte alla città invisibile], in part. pp. 698 ss. Mumford lamenta, qui, la super-organicità di un sistema contraddistinto dall’accentramento, carente dal punto di vista dell’autonomia selettiva, ed è ad onta di tale, nociva, ipertrofia che egli sostiene a più riprese il progetto di «ricollocare al centro della nostra esistenza le immagini, le forze e le finalità della vita», laddove la vita funge da fulcro del «possibile», di contro all’irretimento nel «necessario» proprio di un sistema inorganico. Un importante saggio, che giustamente incrocia le dicotomie mumfordiane «organico e meccanico», «natura e tecnica», ed anzi le confronta con un altro, contemporaneo tentativo di «macchina e umanismo» è quello di F. CHOAY, Mumford allo specchio di Georges Friedmann, in: F. VENTURA (a cura di), Alle radici della città contemporanea, cit., pp. 67-78. La Choay, nel suo La città. Utopie e realtà, colloca tanto Mumford quanto il suo maestro Geddes nella categoria da lei detta Anthropopolis, che pertanto assume anche una valenza positiva, sotto il segno della coappartenenza ¥nqrwpoj-pÒlij. Dobbiamo il rimando a J. RYKWERT, Il concetto di “organico” e la critica dell’architettura in Mumford, in: F. VENTURA (a cura di), Alle radici della città contemporanea, cit., pp. 79-90.

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ciato di finire estromesso dalla sua stessa storia, liquidato elegantemente come «post-istorico». «Uomo», «natura», «tecnica», «storia», «cultura», «macchina», «scienza», «tecnologia»: sono questi i grandi temi che Mumford, nell’arco di una vita quasi centenaria, indaga e scandaglia, rendendoli interrogativi, intrecciandoli scambievolmente fino a percepirne la sottile trama comune. Il «generalist» fiero dei suoi sguardi obliqui, del suo esser scampato alla inaggirabile «monocularità» cui qualsiasi specializzazione, per forza di cose, condanna, rivela tra le prime battute del suo discorso: Alla fine mi sono trovato a riconoscere soltanto un’arte suprema, l’arte di diventare umani4.

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L. MUMFORD, Discorso tenuto nell’Aula Magna…, cit., p. 238. Ci sembra piuttosto significativa una delle conclusioni cui perviene il saggio di Mariska Scotuzzi (Lewis Mumford: l’ultimo umanista, in: R. COMINOTTI/G. DELLA PERGOLA, Lewis Mumford nella storia e nella critica, cit., pp. 75-79), laddove l’autrice si chiede, provocatoriamente: «Che ne sarà dell’uomo che avrà paura?». Invero, si renderebbe qui necessaria una problematizzazione più propriamente “filosofica” circa l’“umanismo” mumfordiano. Un passaggio sui «fedeli servitori della megamacchina» (PP, p. 411) recita: «(Essi) danno per scontato che esista una sola accettabile visione del mondo, la loro, un solo tipo di sapere, il loro, un solo tipo di valida impresa umana, la loro […]. Al limite, ciò che essi vogliono dire è che esiste una sola personalità desiderabile: quella stabilita dalla élite militar-industrialscientifica che farà funzionare la megamacchina […]. Questa dunque è l’estrema pretesa dell’uomo dell’organizzazione: l’autorità di rifare il mondo a propria immagine e somiglianza». Non è un caso che il paragrafo seguente (La tecnica del controllo totale, Ibidem) accolga, tra le prime battute, un accenno alla fruizione della parola «uomo» come né più né meno che «un ripiego linguistico, (giacché) una creatura così uniforme e universale in realtà non esiste, fuorché nelle statistiche»: emerge, qui, una stridente quanto contraddittoria contrapposizione che proprio intorno alla figura di cui abusa – di nuovo, a fortiori, l’«uomo» - preme perché venga al pettine il nodo che assiste, lungo il corso del suo filo, a una costante evoluzione delle estremità di cui consta, fino ad intersecarle nel punto cruciale: da un lato la figura uniforme e universale di cui sopra, dall’altro il suo riflesso ingigantito nello specchio deforme del collettivo. Di mezzo, l’élite motore della megamacchina, mossa dalla sua stessa logica. Di qui, allo stesso tempo, il concreto singolare per cui parteggia Mumford: una pietra che può destabilizzare fino a bloccare, gettata tra gli ingranaggi della megamacchina, un’organizzazione altrimenti disumana.

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Lo stile è colloquiale, il grande «storiografo americano» si rivolge a un’aula gremita citando Tennyson, l’adorato Ulysses che in gioventù amava, un passo incentrato sul peso della responsabilità in età matura. Scivola sui momenti salienti della sua vita, li evoca e poi li supera, si racconta come uomo formatosi in un istituto tecnico, appartenente de jure e de facto al «mondo della macchina»5, iscrittosi alla facoltà di filosofia, positivista inizialmente entusiasta di scienza e tecnica moderne fino al momento cruciale in cui si fa strada un dubbio: che al “progresso” di queste ultime si accompagni, spesso, una «regressione biologica e sociale»6. Un dubbio, questo, suffragato da una 5

Cfr. L. MUMFORD, Tecnica e cultura, tr. it. a cura di E. Gentilli, Milano 1961, p. 14 (d’ora in poi TC). Per un approfondimento autobiografico, cfr. ID., Green Memories: the Story of Geddes Mumford, New York 1947; ID., Findings and Keepings: Anaclets for an Autobiography, New York 1975; ID., My Works and Days: a Personal Chronicle, New York 1979; ID., Sketches from Life: the Autobiography of Lewis Mumford. The Early Days, New York 1982. Pregevole la biografia di D.L. MILLER, Lewis Mumford: a Life, New York 1989. Per la costante presenza esiodea, nonché per la componente “pitagorica” in Mumford, cfr. P. WEST, Mumford come archiego, in «Comunità», anno XXXVI, n. 184, ottobre 1982, pp. 271-279, contributo certo ben presente a F. FERRAROTTI, Appunti su Lewis Mumford come critico letterario, in R. COMINOTTI/G. DELLA PERGOLA, Lewis Mumford nella storia e nella critica, cit., pp. 87-97. Essendo veramente scarso il materiale disponibile in traduzione italiana (basti pensare all’unico esemplare di articolo in occasione della sua morte, ad opera di F. FERRAROTTI, Morto Mumford, profeta della città maledetta, in «L’Unità», 28.01.1990, e alla sorpresa che vi si menziona, non tanto per l’avvenuta scomparsa quanto per la convinzione fosse già deceduto da tempo), riportiamo l’indirizzo web dell’«Archivio Mumford», presso l’Università della Pennsylvania, Van Pelt Library: [email protected]. In ogni caso, ci sembra eccessivo – malgrado lo stimolante percorso “severiniano” di base – considerare persino il lungo silenzio mumfordiano finale come volontà di ennesima, definitiva adesione al divenire, così come “provocatoriamente” proposto da F. VENTURA, Mumford e il suo idolum, in: ID., (a cura di), Alle radici della città contemporanea, cit., pp. 13-66. 6 L. MUMFORD, Discorso tenuto nell’Aula Magna…, cit., p. 241. Ci soffermiamo sul presente discorso ritenendolo quasi un testamento del Mumford maturo, nonché una sintesi chiara e distinta del suo percorso tanto “professionale” quanto esistenziale. Altro contributo dato alle stampe nel ’67 – nel quale Mumford esordisce proclamandosi solo e soltanto «uno scrittore» – che parimenti si distingue per «profonda brevitas», ha per titolo Breve storia della frustrazione urbana, ed è ora disponibile come Dati personali, in: L. MUMFORD, In difesa della città, a cura di C. Mazzoleni, Roma 2001, pp. 22-28.

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conferma con la quale Mumford ribadisce il luogo in cui ha luogo l’essenziale, rintracciandolo nella vita e solo nella vita, nella cui gratuità è in atto la stessa «regressione», inversamente proporzionale all’incedere di un “progresso” degno delle più problematiche virgolette. Il tono predominante non è, però, quello del pentito o del nostalgico, tanto meno del nichilista passivo e rassegnato, quanto quello del “realista teorico” che anche nelle utopie accentua la funzione sociale che se ne può trarre, senza esitare nell’indicare, pure, le «kakotopie» come luoghi nocivi, contrari alla vita, dannosi, mortiferi. Uno di questi luoghi non ameni è il mondo contemporaneo: è a chi ancora lo abita e se ne sente cittadino che si rivolge Mumford, a chi ancora lo guarda e vi dimora nell’ottica della vita, nelle vesti di un uomo che non vuole morire. Un passo del Fedro di Platone per l’anziano «child of the city» significa, più che mai, una lezione: «Gli alberi e i campi non possono insegnarmi alcunché, ma gli uomini nella città possono»7. Passando da Omero a Melville, per Nietzsche attraverso Joyce e Goethe in controluce, con un linguaggio che predilige le opposizioni polari e insieme la chiarezza cristallina del discorso, Mumford coniuga grandi pensieri già pensati all’attualità che quelli autentici perseverano nel contenere. Nel 1962, a quarant’anni dalla pubblicazione del suo primo libro, The Story of Utopias, nella prefazione alla nuova edizione, egli scrive: 7

Cfr. G. AMENDOLA, La città educante di Lewis Mumford e le identità mutevoli del postmoderno, in: F. VENTURA (a cura di), Alle radici della città contemporanea, cit., pp. 155-166, laddove l’autore fornisce tre diverse griglie interpretative circa la coppia pÒlij-paide…a, citando il Fedro [230 d 4-5; nel testo originale è Socrate a sostenere: «t ™ mûn oÂn cwr…a kaˆ t ™ d°ndra oÙd°n m>™qûlei did£skein, oƒ d>™n t¸ ¥stei ¥nqrwpoi»] al quale Mumford stesso si rifà (cfr. The Foundations of Utopia, in D.L. MILLER, The Lewis Mumford Reader, New York 1986, p. 219) allo scopo di distinguere tra uomo da cui poter imparare – quello ricco di esperienze vive – e quello genericamente tale, abbassato alla stregua di alberi e campi, per quanto possa insegnare. Amendola sottolinea opportunamente, inoltre, il debito mumfordiano nei confronti di John Dewey per quanto riguarda la nozione di «maturità» connessa a quella di «cittadino». «La città è la gente»: Mumford cita più volte questo verso di Sofocle, spesso sul finire delle sue conferenze, quasi a chiudere in un solo aforisma il senso di un discorso volto, per esteso, a «una visione sintetica della città come fatto determinante dello

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La mia utopia è la vita in questo momento, qui o in qualunque luogo, portata ai limiti delle sue possibilità ideali8.

Prima dei limiti e degli ideali, in un mondo condannato al «probabile», Mumford indugia sulle «possibilità» che rifuggono da ogni calcolo e combatte la sua battaglia, dicendosi alleato della vita e dell’utopia, delle oasi sociali che esse sono ancora in grado di tutelare. Un programma, quello specificamente mumfordiano, tentato più volte di definire, ora come «umanesimo ecologico»9 ora come «tecnolosviluppo umano» (cfr. C. FERA, Recensione a L. Mumford, La cultura delle città, in: «Studium», n. 11, 1954, p. 153). Bisogna assumere questa sorta di “strabismo critico” nel leggere Mumford: un occhio è fisso sull’uomo e sulla sua natura intesa – al di là della cacofonia – come sua umanità, l’altro ne segue le imprese culturali; compromesso tra i suoi occhi è una natura culturale promossa per ogni evento, di cui autentico lebendiger Boden risulta difesa a gran voce «la vita e solo la vita» (cfr. l’esemplarità dei termini in: L. MUMFORD, Il Mito della Macchina, tr. it. a cura di E. Capriolo, Milano 1969, p. 70 (d’ora in poi: MM): «L’uomo potrebbe essere definito la creatura che non è mai stata trovata nello “stato di natura”, in quanto, non appena diventa riconoscibile come uomo, è già in uno “stato di cultura”»). 8 Cfr. L. MUMFORD, Storia dell’utopia, tr. it. a cura di R. D’Agostino, prefazione di F. Crespi, Roma 1997, p. 7. In maniera molto opportuna C. LASCH, Lewis Mumford e il mito della macchina, in: «Comunità», n. cit., pp. 233 ss., si sofferma sulla compenetrazione tra tradizione utopistica e urbanistica sotto il segno della progettazione della comunità nel suo insieme. Facendo riferimento a una lettera privata di Mumford degli anni ’30 (ove il testo recita: «La vita è meglio dell’utopia»), Lasch accentua, però, un distanziamento ragionato dalla «utopia» in favore della realtà ben più reale della «vita». Il passaggio sopra citato, datato 1962, risulta restituire, allora, una “corsivizzazione illuminata” di un’«utopia» mai del tutto abbandonata, ed anzi adesso – «portata ai limiti delle sue possibilità ideali» – nominata, rinata e risorta in quanto «vita» di contro alla morte come evidente «kakotopia» quanto manifesta «realtà». A riscontrare in Mumford e nella sua “storia romanzata” un aspetto sintomatico di «manicheismo moralizzatore» iperlegato all’al di qua del bene e del male è la già citata F. CHOAY, Mumford allo specchio di Georges Friedmann, cit., pp. 69 ss. 9 Cfr. L. MAZZA, Tre nodi irrisolti, in: F. VENTURA (a cura di), Alle radici della città contemporanea, cit., p. 182. Il saggio citato manifesta il pregio “semi-isolato” di leggere Mumford in «ottica tecnica», anziché in quella – ben più frequente – di mere «scienze sociali». Così la città è indagata nel suo più intimo motivo di interesse da parte dello stesso Mumford: e cioè quale «segno visibile del potere», la cui avvenuta congestione risulta essere, più che il problema centrale, il sintomo meno aggirabile, ma anche meno fraintendibile, di una società priva di

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gia sociale»10. Una «genesi genealogica», in prima battuta, che affonda le sue ambiziose radici in un problematico passaggio: ideali, dedita a nient’altro che al consumismo più sfrenato. Interessante è, inoltre, l’analisi circa l’ambiguità mumfordiana come cifra del rapporto col futuro, nonché l’interpretazione “simmetrica” che ne spiega la capacità critica di anticipazione mettendola in relazione con il continuo ricorrere al passato: la «debolezza pratica» è confinata un punto più in qua del discorso sulla «pianificazione regionale». I soli concetti di «piano» e «pianificazione», ad esempio, meriterebbero tanto in Mumford quanto nei suoi studiosi un maggiore rigore teorico. Basti pensare alle pagine conclusive del bellissimo saggio di G. FERRARO, L’uovo del cuculo. Geddes e Mumford, in: ivi, pp. 90-120, in cui – a proposito del maestro di Mumford – si dice con un ardito paragone che «alla fine Socrate prevale su Aristotele: ciò che spiega anche perché i suoi piani siano più interessanti dei suoi testi scientifici» o a quelle di G. PABA, Lewis Mumford: lezioni di piano dal neighbourhood alla regione, in: ivi, pp. 193-219, con i non casuali versi di Osborn – «Can man plan» – forieri di un ennesimo spunto ermeneutico, qualora recepiti nei seguenti termini: «La conclusione della poesia di Osborn è mumfordiana in senso stretto e indica il limite – la frontiera che non si può valicare – di ogni idea di pianificazione: no man (…) can plan man; nessun uomo (e nessun modello di pianificazione) può pianificare l’uomo». Proprio Paba indicava, a p. 195, il Mumford «più opinabile» nel problematico motto: «Voluntary if possibile, compulsory if necessary», focalizzando il rischio del sistema di pianificazione integrale mumfordiano nel pericolo di sfociare, da un lato, in una macchina conoscitiva totalizzante, dall’altro in una macchina previsionale inesorabile e oppressiva. 10 Curiosa espressione, questa, dal duplice significato: per i sociologi indica, infatti, i metodi tecnici per lo studio dei fenomeni sociali, una sorta di “ingegneria sociale”; per i “non sociologi” risulta essere un’analisi critica della tecnica, per riconoscere se e quando essa sia al servizio della società più che dei profitti. Lo stesso Mumford, sul punto, è volutamente vago, spesso dimentico della sua stessa differenziazione: distingue, sì, tra «Technics» e «Technology» (la prima indica l’arte della trasformazione della natura da parte dell’abilità umana in cose utili agli individui e alla società; la seconda – tout court – la storia della tecnica), intendendo poi per «tecnologia sociale» la necessità di usare la tecnica al servizio umano. Ferrarotti, grande sociologo italiano, propone per Mumford la definizione di «determinismo tecnologico» (cfr. F. FERRAROTTI, Lewis Mumford: il suo contributo alle scienze sociali del nostro secolo, in: R. COMINOTTI/G. DELLA PERGOLA, Lewis Mumford nella storia e nella critica, cit., pp. 45-60. Dello stesso autore, cfr. ID., Macchina e uomo nella società industriale, Torino 1962). Un’espressione che, in tal senso, “accontenti” i vari settori specialistici, rendendo giustizia allo stesso Mumford che da questi rifuggiva, non è stata ancora coniata. Chiara Mazzoleni, dal suo settore, può a buon diritto lamentare una denuncia invero assumibile da tutti i punti di vista coinvolti: la mancanza, cioè, di un’ampia ricezione e di una comprensione adeguata del pensiero di Mumford, cfr. C. MAZ-

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Sia fatta la luce! È con queste parole che comincia veramente la storia dell’uomo11.

Una storia che dissipi le ombre tentacolari che avvolgono l’homo cultura e punti i riflettori sull’homo natura come sua più fedele – prossima e remota nel contempo – chiarificazione: ecco il crocevia mumfordiano a partire dal quale ad esser messo in questione è il valore dei valori, e in primo luogo la nozione stessa di «valore», identificato non più con l’«utile» – il proprium usurato del mondo occidentale, conformato agli interessi via via particolari sovrastanti l’ambito vitale – quanto piuttosto connesso col «possibile», inteso come il di volta in volta aderente alla multiformità della vita, alla sua natura organica intesa quale integralità sacrale. Un «fiat lux», questo, che bada alla tutela del residuum umano come del suo «can»: «Dobbiamo chiederci perché ogni libertà si trasforma in costrizione, perché il motto della nostra società del potere è questo «puoi, dunque devi»; è forse questa la libertà che la scienza ci aveva promesso?»12. Mumford non tollera l’inopportunità di un «ergo» che, effettuando un tale, indebito, salto, snatura il concetto stesso di «potere»: egli guarda con legittimo sospetto al monopolio di un «must» divenuto normale ed anzi doveroso, rispetto ad un «can» dato per scontato ed in tal modo eluso – anziché accolto nella reciprocità del suo «sapere»-«potere» –, come se si dovesse nient’altro che «dovere». Ora, quando la macchina viene prima dell’uomo, quando tutti i valori e tutte le attività dello spirito sono subordinati al fare soldi e al consumare individualmente solo ciò che il denaro può comperare, anche l’ambiente fisico tende a degradarsi e a deteriorarZOLENI, Introduzione a L. Mumford, In difesa della città, cit., p. 19; della stessa Mazzoleni, un più recente contributo, che attualizza le varie implicazioni comportate dalla poliedricità del pensiero mumfordiano, ha titolo La lezione dei classici, in: L. DE BONIS (a cura di), La nuova cultura delle città, Atti dei convegni Lincei, 194, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 2003, pp. 200-208. 11 L. MUMFORD, MM, p. 49. Sul punto, cfr. D.L. MILLER, The Myth of the Machine: I. Technics and Human Development, in: T.P. HUGHES (a cura di), Lewis Mumford: Public intellectual, New York 1990. Lo stesso Mumford ha quanto mai cara l’immagine della luce, in particolar modo connessa all’emergere della coscienza: cfr. MM, p. 48 ss. 12 PP, p. 278.

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si […]. Guardiamo in faccia la realtà […]: abbiamo accettato un’esistenza da catena di montaggio13.

La dinamica che Mumford si sforza di mostrare parte dalla vita – «fenomeno primario» – e ritorna alla vita: da «valore dei valori», nell’orizzonte dell’onnipotenza tecnica, questa si è ridotta a valore aggiunto, degradata e deteriorata quanto l’ambiente che assiste allo svolgersi del suo accadere. Il solo «criterio» del «valore» è divenuto il «potere» privato della sua «misura» e dunque potenziato nell’ausiliare del «dovere», immemore del senso del «limite» commisurato all’umano dell’uomo. L’opera di Mumford intende recuperare la dimensione della machina ex homo di contro a quella imperante dello homo ex machina, ed in tal senso cominciare e finire col ridimensionare la macchina, il can e il must, il sacro vincolo tra natura e cultura; con non minore rigore egli rifiuta la consegna dei polsi della libertà alle manette meccaniche, ovvero il baratto tra l’inestimabilità atemporale di un potere innato e l’incatenamento asociale di un dovere sopraggiunto, l’accomodamento interno per cui la vita si è arresa a morire: Mai prima d’ora l’uomo è stato omogeneizzato […]. C’è il sistema di controllo totale a partire dall’organismo umano ancor prima che sia stato concepito. I mezzi per instaurare siffatto controllo sono il dono estremo della megamacchina, e se gli uomini non fossero sommersi nel soggettivo mito della macchina onnipotente, onnisciente e onnicompetente, tale sistema non avrebbe potuto giungere fino a questo punto. Volgiamoci ora alla tabella di probabili invenzioni future che tutti i fedeli del mito della macchina si stanno adoperando a diffondere, per esempio il profilo del futuro offerto da Arthur Clarke. Di una dozzina e più delle imprese tecniche da lui elencate, dall’allunaggio al controllo del clima, dall’ibernazione alla vita artificiale, non ve n’è una che abbia la minima relazione con il compito storico centrale del-

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L. MUMFORD, L’orizzonte dell’umanità, gennaio 1962, in: ID., In difesa della città, cit., p. 60. La descrizione che segue – sulla «vita che facciamo» – è di un’attualità impressionante, così come parecchi passi di Mumford. Tra i numerosi, segnaliamo la traccia previdente “contro” il computer: cfr. MM, p. 48; a mo’ di prosecuzione naturale – «nessun cervello elettronico può sostituire la mente umana» – cfr. PP, p. 184; sul «cielo (che) oggi incombe sulla terra» cfr. ivi, p. 402; sulla sua stessa precocità di vedute ivi, pp. 430 ss.

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l’uomo, oggi più impellente che mai: il compito di diventare umano14.

L’impellenza dell’appello a tenere il quale Mumford candida se stesso muove dalla umana, troppo umana fiducia riposta nella possibilità di una “emersione da un mito” sfociato ormai in idolatria; è la stessa impellenza da assumere come compito dell’uomo per l’uomo: il richiamo ad essere, riprovando ad essere, quanto egli può ancora diventare. Technics and Civilization «Non vi è alcuna ricchezza all’infuori della vita»15: Mumford cita, tra le primissime righe d’esordio della prefazione all’edizione ita14

PP, p. 411 e 414 [corsivo nostro]. Non si tratta qui, nel tentativo di una lettura filosofica della logica mumfordiana, di un imperativo nel senso di «Devi diventare umano» figlio dello stesso ausiliare che attiva il questionare, quanto piuttosto di un gûnoi oèoj ™ssˆ maqèn [PINDARO, Pyth., II, 72], di un concretare nell’atto il divenire che si è. 15 TC, p. 13. A soffermarsi su Tecnica e cultura è H. PACHTER, Lewis Mumford: un Savonarola americano?, in: «Comunità», n. cit., pp. 239-250. Qui è anche citata la recensione “a caldo” del testo, apparsa su «Yale Review» nello stesso 1934, ad opera di Herbert Read, pungente critico appassionato di frecciatine ironiche: «Una sintesi brillante anche se a volte superficiale di un soggetto indefinito, troppo prolissa per essere scienza, troppo sconnessa per essere storia, troppo concreta per essere filosofia: lo si può definire un libro di profezie». C’è da scommettere che il Mumford “maturo” sarebbe stato fiero di tutti i “difetti” ivi menzionati. Ferrarotti (Lewis Mumford…, cit., p. 56) taglia corto sul punto con un inciso conciso – col quale, tra l’altro, concordiamo –: «Non si può certo dire che Mumford abbia una testa “filosofica”», benché ponga poi l’accento sull’incerta ignoranza di Husserl da parte di Mumford (a “sterzare” sul rapporto con Husserl e la sua Crisi delle scienze europee è anche E. PACI, Recensione a L. Mumford, La condizione dell’uomo, in: «Aut Aut», n. 42, novembre 1957, pp. 530-531). A sollevare la questione della particolare accezione del concetto di «filosofia» nel linguaggio e nel progetto mumfordiano è F. VENTURA, Mumford e il suo “idolum”, cit., in part. pp. 18 ss., optando anch’egli per una maggiore prossimità alla mitologia più che alla filosofia, pur percependo la presenza di questa sotto forma di «attività spirituale autonoma, specchio dei modi di pensare e di agire umano nell’ambito del divenire storico». Oltremodo stimolante la sua argomentazione – sulla quale torneremo, in relazione ad un più vasto discorso sull’Occidente – di cui è sintesi l’interrogativo contenuto a p. 22: «In cosa, allora, il pensiero mumfordiano trascende il contemporaneo?».

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liana, le parole di John Ruskin: sono passati quasi trent’anni dalla pubblicazione di Tecnica e cultura, e l’occasione di una nuova traduzione si presta ad un nuovo bilancio. Retrospettivo, illuminato dal poi, smentito o confermato dai fatti. In realtà, già due anni prima Mumford aveva chiamato se stesso “a rapporto”: quella che nel ’34 sembrava la più solida ossatura teoretica del testo, ovvero la “suddivisione periodizzata” della storia della cultura in tre fasi (eotecnica, paleotecnica, neotecnica) tra loro inestricabilmente connesse, nel ‘59 veniva ad essere inquisita come «il punto più fragile dell’opera»16. Le pagine del ’61 precisano il motivo dell’autocritica, e lo stringono intorno ad un’omissione: un inedito livello “tecnico” era già stato raggiunto prima dell’“alba” eotecnica, ed il suo dovuto riconoscimento avrebbe sfatato il mito borioso che vuole l’Occidente come culla della tecnologia. Ma non è quest’ultima la preoccupazione che attanaglia Mumford; la confessione più asciutta è egli stesso a fornirla, in un denso passo: La validità delle mie interpretazioni è meglio dimostrata, forse, conservando ad esse la stessa forma che io diedi nel 1934. Nessuno dei cambiamenti che io sarei tentato di fare ora, nella trattazione della storia della tecnica, altererebbe l’istanza fondamentale del mio libro: vale a dire che il Weltbild meccanico iniziatosi nel XVII secolo deve ora essere sostituito da una filosofia e da un metodo che rendano piena giustizia alla natura umana, nella 16

Cfr. L. MUMFORD, An Appraisal of Lewis Mumford’s ‘Technics and Civilization’ (1934), in: «Daedalus», LXXXVIII, Summer 1959, pp. 527-536. Nel suo già citato contributo (in part. p. 100 ss.) G. Ferraro definisce “geddesiani” lo sguardo globale adottato da Mumford, volto al costante intreccio tra storia della tecnologia e storia della cultura; la costruzione dell’argomentazione e la tripartizione delle fasi. “Mumfordiana” appare, invece, l’introduzione della fase eotecnica intesa come lenta accumulazione del sapere e progressiva trasformazione della mentalità tra l’autunno del medioevo e la Rivoluzione industriale. Di nuovo “geddesiani” i “difetti” di Tecnica e cultura, su tutti la mancanza di una teoria della transizione dalla fase paleotecnica a quella neotecnica. Squisitamente mumfordiana sembra, allora, la posizione matura assunta in relazione alla logica di antropologia storica retrodatata alla fase precedente l’alba eotecnica: una posizione autonoma che rimette in questione se stessa e manifesta la più aderente coerenza alle idee impostesi nel frattempo, quali – su tutte – la predilezione per «la superiore irrazionalità dell’uomo», predilezione che sposta necessariamente l’interesse sul fronte delle origini dell’uomo e sugli albori della civiltà primitiva.

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sua completezza. Per salvare la scienza e la tecnica, entrambe preziosi strumenti del progresso, dobbiamo per primo salvare l’uomo, divenuto vittima degli strumenti che egli stesso ha creato e sopravvalutato. La tecnica non può trovare risposta ai dilemmi risultati da una evoluzione tecnica unilaterale. L’ipertrofico sviluppo di questo settore può solo aumentare la disparità che ora esiste fra potere fisico e scopi sociali, fra metodo scientifico e disciplina morale, fra la nostra capacità di distruggere e la nostra capacità di creare17.

Il «metodo» contemplato è e sarà quello di una «filosofia positiva» declinata in chiave «biotecnica», tanto consapevole della discontinuità sociale in atto quanto ostinata nel piantare le sue radici in quello stesso humus sociale, forte dell’asserto secondo il quale «la vita fiorisce solamente in un ambiente dove vi è già vita»18, rinvenendo, cioè, nello spazio della comunità umana l’ambiente vitale, la richiesta del riscatto dell’uomo a costo del “progresso” più che del – finora predicato – progresso a costo dell’uomo. Mumford accenna spesso, specie nel corso di questo testo, alla necessità di «assimilare la macchina» come conditio sine qua non per comprenderla e dunque controllarla nella sua inesorabile potenza. Una tale, dovuta «assimilazione» è sia la tappa obbligata per il conseguimento del fine in vista sia la più diretta conseguenza della mancata integrazione nel sociale della macchina 17

TC, p. 15. Poco dopo, dilungandosi anche sulle ragioni della sua affermazione, aggiunge: «Io credo che siamo arrivati al termine dell’Età della Macchina». Capiamo il perché la maggior parte degli studiosi preferisca il Mumford “fenomenologo” al “veggente”, pur riconoscendo la validità della sue “premonizioni”: queste risultano mal poste e controbilanciate da una debolezza pratica di fondo (a tal proposito, cfr. H. PACHTER, Lewis Mumford: un Savonarola americano?, cit., pp. 249 s., nel cui contributo Mumford è definito «un cavaliere errante in un’epoca di mulini a vapore»). In: In nome della ragione, opera del 1951 (tr. it. a cura di L. Bulgheroni, prefazione di R. Musatti, Milano 1959, p. 174), notiamo un assaggio della sua “umiltà” e del suo “orgoglio”: «[Le analisi] che ho svolto in una serie di opere a partire da Technics and Civilization per finire con The Conduct of Life […] sono parallele a quelle compiute nel campo della filosofia da Whitehead, Jaspers e Northorp, nel campo della filosofia della storia da Henry Adams, Scheiwtzer, Toynbee, Sorokin e Ortega y Gasset». 18 Ivi, p. 92. Belle e incisive pagine sulla vita intesa anche nella sua contraddittorietà sono contenute in: L. MUMFORD, Questa è la mia filosofia, in: ID., In difesa della città, cit., pp. 28 ss.

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nella sua fase iniziale, deficit sul quale egli porrà spesso l’accento negli studi successivi. Sin dal paragrafo introduttivo – intitolato Lo scopo dell’opera – Mumford tiene a puntualizzare: Benché molti chiamino volentieri la nostra era “l’Epoca della Macchina”, pochi hanno una chiara idea della tecnica moderna, o sufficienti nozioni sulla sua origine. La storia popolare pone comunemente l’origine della grande trasformazione dell’industria moderna nell’invenzione di Watt della macchina a vapore […]. Per comprendere la parte fondamentale rappresentata dalla tecnica nella moderna civiltà, occorre esplorare attentamente il periodo preliminare di preparazione ideologica e sociale; esaminare non soltanto l’esistenza dei nuovi strumenti meccanici, ma anche la cultura che era pronta ad usarli e ad approfittarne tanto largamente19.

«La macchina» di cui Mumford tratta, infatti, è volutamente distinta dalle macchine, dagli utensili, dalle macchine-utensili che pur vengono citate come esempi: quella che egli lascia precedere dall’articolo sta ad indicare un «accenno sintetico all’intero complesso tec-

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TC, p. 19. Poco più avanti (ivi, p. 25) egli cita Reuleaux, encomiandolo come primo studioso di «morfologia della macchina», ma stigmatizzandone l’ignoranza dell’esistenza di «macchine governate dall’uomo», categoria privilegiata dell’interesse mumfordiano. Una definizione sulla differenza che intercorre tra tecnica e macchine è qui contenuta a p. 331; su quella tra tecnica e scienze, come mondi indipendenti ma collegati, cfr. ivi, pp. 21 ss., 69. Una “definizione definitiva”, in realtà, è inesistente: in linee generali, egli concepisce la tecnica come strumento di disciplina e educazione, comprovante una realtà oggettiva, imputando alle macchine, invece, il difetto di indurre a riconoscere loro una realtà propria, indipendente dall’uomo. Quanto alla polemica con Toynbee (sul suo trascurare i periodi preliminari della Rivoluzione Industriale), cfr. anche PP, p. 199; sulla differente connotazione della voce Etherialization, cfr. ivi, pp. 616 ss. Per quanto riguarda Spengler, un buon quadro riassuntivo del rapporto è contenuto in: L. MUMFORD, Impronte. Oswald Spengler: un filosofo della storia, in: ID., In difesa della città, cit., pp. 44-53. Traduttore italiano de La civiltà nella storia, con C. De Bosis, risulta essere Cesare Pavese (Torino 1950): proprio lo scrittore piemontese, nel 1928, diede alla luce (ma non alle stampe) una semisconosciuta Trilogia della macchina e, dieci anni dopo, il racconto Il campo di grano, che, seppure non sia da annoverarsi tra i suoi capolavori, ha il pregio di affrontare il tema (per Pavese drammatico) del prevalere del cemento sul grano, dell’inesorabile pressione della città industriale sulla campagna.

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nologico»20 che essa stessa crea e dal quale viene, allo stesso tempo, modificata. La temporalizzazione che Mumford fornisce circa la prima apparizione di tale, articolato, “complesso” è stabilita in concomitanza col primo, riuscito tentativo di misurazione regolare del tempo, il cui nuovo concetto sorse, in buona parte, influenzato dalle regole di vita proprie dell’allora nascente monastero. L’«ora et labora» si fa motto per una suddivisione ragionata del tempo, terreno fertile per un nuovo strumento di misura: L’orologio, e non la macchina a vapore, è lo strumento basilare della moderna era industriale. Ché, in ogni fase del suo sviluppo, l’orologio è tanto il fatto fondamentale quanto il simbolo caratteristico della macchina21.

Quel che Mumford tiene a sottolineare è la dissociazione progressiva del “tempo dell’orologio” dagli eventi umani, un lascito tardo-medioevale che convalida in linea di principio il frazionamento di essi in sequenze derivate e misurabili: ad imporsi come «il nuovo am20 TC, pp. 27-28. Per una buona introduzione alle coordinate principali del pensiero mumfordiano nelle molteplici fasi della sua gestazione, cfr. G. DELLA PERGOLA, Il pensiero di Lewis Mumford nella storia e nella critica, in: R. COMINOTTI /G. DELLA PERGOLA, Lewis Mumford nella storia e nella critica, cit., pp. 1120. 21 TC, p. 30, e così alla pagina precedente: «Non forziamo quindi la verità se pensiamo che i monasteri (a quei tempi ve ne erano 40000 che obbedivano alla regola benedettina) contribuirono a dare alle imprese umane il regolare ritmo collettivo della macchina, perché l’orologio non è solo uno strumento destinato a tener conto delle ore, ma anche a sincronizzare le azioni dell’uomo». Mumford ha qui ben presente W. SOMBART, Der Moderne Kapitalismus, München 1928. Già nel 1909, in realtà, V.A. BRANDFORD (in: Syllabus of a Corse of Ten Lectures on Civic and Eugenics. An Introduction to the study of Sociology, London, p. 16) aveva svolto una penetrante analisi del significato sociale della vita del monastero e della ripartizione del tempo ivi realizzata. L’originalità dello specifico contributo di Mumford è stata, invece, sottolineata anche di recente da storici autorevoli, tra cui D.S. LANDES, La storia del tempo, Milano 1984, e J. LE GOFF, che proprio al tema dell’orologio ha dedicato il suo Nel Medioevo: tempo della chiesa e tempo del mercante, in: ID., Tempo della chiesa e tempo del mercante, Torino 1977. Su quest’ultimo punto, cfr. anche C. CIPOLLA, Le macchine del tempo. L’orologio e la società (1300-1700), Bologna 2003. Una ripresa sintetica del tema – nella quale i benedettini vengono definiti «pionieri della meccanizzazione» – è contenuta in MM, pp. 363 ss.; in: ID., La città nella storia, pp. 318 ss., il monastero è interpretato quale tipo particolare di pÒlij.

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biente vitale»22 è «il tempo astratto», nel frattempo diventato punto di riferimento tanto per il pensiero quanto per l’azione. Ancora, lo «spazio», altro membro della classica coppia categoriale, da gerarchia di valori viene ad essere assunto in quanto «sistema di grandezze», volte a misurare «la distanza», di modo che lo stesso rapporto visivo si palesa nella sua nuova veste di «relazione quantitativa». Si fa strada e prende corpo l’idea della «conquista», il weberiano “romanticismo dei numeri” legato alla finanza come economia della tesaurizzazione. Il commercio lontano è intrapreso in vista di guadagni superiori. Il tempo come «denaro», unica forma di possesso priva di limiti prefissabili, si afferma come «ideale» e compendio della classe sociale in ascesa. Mumford percorre una storia che suffraghi la sua linea interpretativa e che privilegi la sua dialettica dell’inversione: con dovizia di suggestioni, egli presenta il capitalismo come corruttore della tecnica moderna, il vero e proprio sfruttatore della macchina, ridotta a mezzo principe per fare soldi e utilizzata per il solo miglioramento economico-finanziario dei pochi. Così il potere della scienza è apparentato con quello del denaro: entrambi fanno capo a quello dell’astrazione, della misurazione, della determinazione. Il metodo scientifico, in particolar modo, viene inquisito da Mumford in quanto implicante un graduale - a suo dire, ancora una volta, antivitale - annullamento dell’io, un’eliminazione delle preferenze umane in favore di una regola livellatrice, di un procedere già tracciato, che mina alla base ed anzi rischia di colpire a morte l’inventiva dell’uomo. Un esempio emblematico ha per oggetto una «uguale e diversa» rappresentazione artistica: Osservate il Bambino Gesù in un gruppo d’altare del tredicesimo secolo: il Bambino è posto su un altarino, a parte, la Vergine è trasfigurata e beatificata dalla presenza dello Spirito Santo: il mito è reale. Osservate le Sacre Famiglie delle tele del sedicesimo e del diciassettesimo secolo: giovani donne alla moda stanno vezzeggiando i loro bambini troppo umani, ben nutriti: il mito è morto. Dapprima vengono lasciati solo abiti lussuosi, infine una bambola prende il posto del bambino vivo: un giocattolo mecca-

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TC, p. 33. Ancora in PP, p. 606, egli ribadisce: «L’idea del tempo è ben più importante di qualsiasi strumento fisico atto a registrarlo».

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nico. Il meccanismo è diventato la nuova religione, e ha dato al mondo un nuovo Messia: la macchina23.

Descrivendo l’irruzione sulla scena di una tale machina sive deus, Mumford si sofferma sul tratto apparentemente invisibile che si accinge, invece, a venire alla luce: una particolare connotazione del deus ex machina come appropriazione indebita di un’immediatezza ora mediata. Una nuova equazione è proposta da Mumford, per chiarire ulteriormente quanto «desostanzializzazione» stia per «suddivisione», «smembramento»: quella tra «vivere» e «lavorare», laddove il lavoro figura come unica specie di vita – dunque equiparata al suo funzionamento – della macchina, e viene estesa al modus vivendi umano: ecco il predicato «vangelo del lavoro» ad opera delle «società meccaniche»24. La guerra, nello specifico, è nominata come «causa prima» della diffusione della macchina. Impercettibile ma fondamentale sembra il tacito passaggio dalla figura del «guerriero» a quella del «soldato». La guerra stessa – più che nietzschianamente «Gesundheit della macchina»25 oltre che «dello stato» – consta di un «peso colpevole» nella società “civile” (per la quale Mumford sempre più spesso aggiunge le virgolette), trasformandosi in «attività professionale»: le uniformi dei soldati rappresentano la prima richiesta su vasta scala di prodotti in serie, richiesta che incorona l’esercito tutto come «consumatore ideale»26. Qui, difatti, l’intervallo tra tempo di produzione e tempo di so23

TC, p. 61. Il succitato G. Della Pergola, pp. 17 ss., fa presente una sorta di promemoria essenziale, da The Myth of the Machine estendibile al percorso mumfordiano tutto, latente persino in Technics and Civilization: «Per Mumford, lo studio sulle origini della macchina e poi lo studio sulla sua evoluzione storica, non ha come centro eminente di studi la macchina, bensì i simboli e il linguaggio dell’uomo». Noi osiamo ritenere che già Tecnica e cultura avanzi in questa direzione, seppur privilegiando il versante politico-sociale della ricezione, rispetto a quello più “genealogicamente” connotato del Mito della Macchina. 24 Cfr. TC, pp. 70 ss.; qui, inoltre, pp. 48 ss., Mumford tratta la trasposizione del concetto di ‘ordine’ da Dio (che «aveva creato un mondo ordinato») alla macchina, questione purtroppo non riassumibile a dovere in tal sede. 25 Cfr. ivi, p. 111. 26 Ivi, pp. 103 ss. Il vanitoso «uomo tecnologico moderno», «questo spettro vestito di ferro» (cfr., MM, pp. 40 ss.) con cui Mumford se la prende, ricorda – seppure più per similitudine di termini che di concezioni – l’Arbeiter jüngeriano,

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stituzione viene ad azzerarsi, e la «distruzione organizzata» si fa in qualche modo garante del ricambio continuo, redditizio e per le casse delle industrie e per la salute della macchina, meno per la fecondità della vita e l’individualità dell’uomo. È proprio un nuovo prototipo umano, «l’uomo frammentario», che Mumford presenta come esito di una tale era, nella quale tocca alla macchina dare una parvenza di ordine ed immolarsi per soddisfare le richieste di un massiccio mercato di consumatori. In realtà, le tre fasi di cui Mumford si serve (in linee generali: quella eotecnica caratterizzata da acqua e legno; quella paleotecnica, da ferro e carbone; quella neotecnica, da elettricità e leghe metalliche), accompagnandole con un’evoluzione al passo (la penna d’oca; il pennino di ferro; la penna stilografica), non sono tra loro recisamente separate, quanto invece ricalcate come sovrapposte e reciprocamente compenetrantesi. Allo stesso modo, dell’«uomo frammentario» è parente strettamente diretto l’«uomo economico»: la macchina non va per nessun motivo dissociata dalle grandi strutture sociali, o anche solo dalle «piccole figure», ad essa correlate. Una «direzione impropria» che Mumford sembra suggerire come tale riguarda il ruolo storicamente “rimpicciolitosi” del lavoratore, Arbeiter ante litteram: da che, agli inizi, riuniva in sé abilità tecnica ed energia motrice, questi finisce via via per assistere – “alleato inerme” – alla piega, sempre più impersonale e meno modificabile, del processo produttivo.

quella «mobilitazione totale» che mette in evidenza il nesso essenziale tra tecnica, guerra e meccanizzazione del mondo. Proprio i soldati sono definiti da Jünger «macchine che dimenticano» [cfr. E. JÜNGER, Der Kampf als inneres Erlebnis, in: ID., Sämtliche Werke, Stuttgart 1978, p. 80] in relazione alla “dinamica” cui le “tempeste d’acciaio” costringono. Ci preme, qui e altrove, aprire parentesi di parallelismi, suggerirle più che chiuderle ed esaurirle. Lo stesso Mumford adotta il modus procedendi dell’accennare, senza alcuna pretesa di esaustività. Sul punto, cfr. G. BALESTRA, Lewis Mumford e la letteratura: lo studio su Melville e altri scritti, in: R. COMINOTTI/G. DELLA PERGOLA, Lewis Mumford nella storia e nella critica, cit., pp. 99-112. La questione del «lavoro» tornerà in MM, in part. pp. 194 ss., inteso come cerimonia e sacramento prima che maledizione e catastrofe. Sull’inaggirabilità dello spettro di Marx, referente più che presente nell’opera mumfordiana, cfr. ID., La condizione dell’uomo, tr. it. a cura di A. Mondini, Milano 1964, pp. 398 ss.

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La macchina si orientava in senso antisociale, e ciò per il suo carattere “progressivo” che la spingeva verso le forme più crude di sfruttamento dell’uomo. La forza e la debolezza del regime eotecnico divennero evidenti nello sviluppo meccanico e nella dissoluzione sociale che a quello si accompagnò nelle industrie tessili27.

La fase eotecnica non è stigmatizzata come antivitale tout court, quanto evidenziata nella sua “doppia possibilità” direzionale di «forza» e «debolezza»; quella paleotecnica imbocca, invece, il vicolo cieco della meccanizzazione del lavoro umano come primo passo verso l’umanizzazione della macchina: in tal modo si rivela come negazione di tutte le premesse, «regno del disordine» che riduce il tempo a merce e la nozione di valore a un calcolo del tempo, il tutto subordinato all’aumento di potenza e all’accelerazione del movimento come scopi assoluti. Il tutto sommato ottimista, ancora giovane, Mumford preferisce definire l’età paleotecnica come «un periodo di transizione», riservando alla fase neotecnica la dignità di realizzare «una svolta», il conferimento di un nuovo senso dell’ordine, il recupero di un discorso nei termini di «energia fluida» di contro alla rigidità eccessiva della «materia solida», il rinnovo di un interesse per le piccole, infinitesimali, “quantità qualitative” a sigillo di un ripristino del legame tra mondo della macchina e mondo della vita. Lo stesso «lavoratore» è ora descritto, sì, come «sorvegliante», ma dotato di gratificanti competenze che la macchina non può ereditare, e della macchina viene adesso messa in luce la «funzione civilizzatrice» ed il «contributo vitale», in essa, nonostante tutto, impliciti. Il «diritto alla vita» appare, difatti, presente più che mai nel nucleo della «nuova tecnica». Ciò nonostante, è nell’atmosfera di ambiguità propria del «periodo di transizione» non ancora scongiurato che Mumford pronuncia il suo atto di accusa e assoluzione nei confronti di quel che assume sempre più le sembianze di un “nemico giurato”, un tempo percepito come l’“amico promesso”: Si può dire […] che la macchina è ambivalente: è insieme strumento di liberazione e di oppressione. Ha fatto risparmiare ener27

Ivi, pp. 163 ss.

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gia umana e l’ha impiegata male. Ha eretto una struttura di ordine ed ha provocato confusione e disordine. Ha servito nobilmente agli scopi umani e li ha deformati e rinnegati28.

The Myth of the Machine L’attenta analisi mumfordiana sul mito della macchina apre con una citazione da se medesimo, un passo da uno studio dedicato alla condizione dell’uomo, dato alle stampe nel ’44: un passo che restituisce l’atmosfera che nell’opera del ’67 si respira a pieni polmoni, ovvero la riconosciuta eccedenza delle attività simboliche umane rispetto alle lavorative, la superiorità del riflettere sul fare, del cervello sulla mano, ed anzi della mente sul cervello. The Condition of Man, sin dall’introduzione, manifestava l’intenzione di sottolineare la caratterizzazione dell’uomo come «animale artigiano […]. Nessun quadro completo dell’uomo può perciò ignorare l’importanza e il significato della sua tecnica»29. Una “tecnica artigianale”, dunque, si impone agli occhi di Mumford come la più autentica «creazione» dell’uomo, degna di un nuovo studio a questi dedicato. L’ascesa della macchina e la caduta dell’uomo sono due parti dello stesso processo: mai prima d’ora le macchine sono state così perfette e mai prima d’ora gli uomini sono scesi tanto in basso30. 28 TC, p. 302. Un passo di Emerson degno di nota circa la doppia possibilità di lettura della scritta di per sé non faziosa «Attenzione alla Macchina» è citato e “commentato” in: PP, cit., p. 309. A soffermarsi sull’influsso del filosofo e poeta statunitense su Mumford è il già citato G. Paba, in particolar modo nel paragrafo dedicato a «Self e margine di energia» [pp. 198 ss.], laddove l’autore prende in esame The conduct of life, testo edito a Londra nel 1952, ultimo dei quattro volumi del ciclo The Renewal of Life (i tre precedenti sono: Technics and Civilization, The Culture of Cities, The Condition of Man), ritenendolo – a partire dalla comune prospettiva dell’uomo come «unfinished animal» [vicino al «nie vollendes Imperfektum» nietzschiano] – insieme «un omaggio e una presa di distanza da Emerson». 29 L. MUMFORD, La condizione dell’uomo, cit., p. 5. La citazione continua con un chiaro riferimento di ribadita coerenza tematica: «il primo libro di questa serie, Technics and Civilization, è dedicato interamente a questo argomento». Che l’argomento riguardi la tecnica e lo sviluppo dell’uomo è quanto osiamo interpretare, estendendo il ciclo di cui sopra ai due volumi sul mito della macchina, come l’unum, il proprium e il continuum del pensiero mumfordiano. 30 Ivi, p. 475.

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Una nuova “dialettica complementare” funge da griglia interpretativa per una nuova interpretazione maturata e sofferta nella quale egli lamenta, altresì, l’effetto di forza “centripeta” esercitato dal «nuovo mondo», fiero di aver reso «la macchina» – sua unica capitale – «misura di tutte le cose». A farne le spese era stata la vita, a rimanere superstite «l’individuo atomizzato», altrimenti detto «l’uomo tecnologico». Un inciso che altrimenti passerebbe inosservato suona in maniera apparentemente “stonata” in tale contesto: Coloro che erano dal lato della vita non compresero che la macchina stessa, propriamente impiegata, era anche uno strumento di vita31.

Un’affermazione del genere è funzionale ad un fermo proposito “neo”-mumfordiano: la dichiarata sfida alla parzialità delle interpretazioni, a una sineddoche che impera come errore prospettico e tende a identificare il tutto con la parte. All’origine la tecnica concerneva l’intera natura dell’uomo […]: di conseguenza, la tecnica aveva il suo centro nella vita e non nel lavoro o nel potere32. 31

L. MUMFORD, La condizione dell’uomo, cit., p. 462; Mumford sta commentando i tentativi compiuti di «sintesi organica» per unire sotto un nuovo segno l’idolum della macchina con quello dell’organismo. Poco più avanti, egli fa riferimento a un simbolo cinese, precisamente all’esagramma indicante la «crisi»: questo viene letto da Mumford alla luce dei due simboli che a loro volta lo costituiscono: «pericolo» e, insieme, «opportunità». Noi preferiamo pensarlo alla greca, come «kr…sij» in senso letterale: «decisione» che nel contempo decide e recide, può non tanto perché deve, ma poiché sa. Proprio l’idolum (voce che fa la sua prima comparsa nel glossario finale di The Condition of Man, cit., p. 515) è al centro dell’articolato contributo di F. Ventura, ove è contenuta la risposta al quesito sopra citato (cfr. Infra, nota n. 15) circa il lascito del pensiero mumfordiano: «La sua opera riflette […] l’essenza dell’Occidente, combinando le diverse interpretazioni senza esibire una loro metodica disamina […]; può essere letta come grande testimonianza delle contraddizioni in cui si dibatte il pensiero occidentale». A detta dell’autore (che si misura in particolar modo con Destino della necessità e Essenza del nichilismo di Severino), l’idolum di Mumford è l’idolum dell’Occidente, ovvero l’incapacità di riconoscere l’identità tra struttura formale dell’agire e struttura formale della tecnica. Riducendo – nella pars destruens della sua opera – la tecnica a «macchinismo», Mumford resterebbe imbrigliato all’interno della stessa logica che combatte, precludendosi da sé la comprensione dell’essenza della macchina. 32 MM, p. 21. «Am Anfang – Tat»: Mumford ha ben presente l’asserto con-

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Il leit-motiv proposto intende essere una sorta di protesta ragionata contro l’ingannevole abitudine di riservare il titolo di «invenzione» ai soli apparecchi meccanici: un «matricidio», in tal senso, appare quello perpetrato dalla «cultura della macchina», rea di aver ripudiato l’«inesauribile creatività» – madre dello spirito umano come natura dell’uomo, generazione dell’homo faber dall’homo ludens – e dunque “vizio all’origine” di un’abitudine non corretta perché non riconosciuta come tale. Come primo, grande successo della tecnica, pure viene riconosciuta una «invenzione sui generis», destinata a incidere sul mito della macchina, ed anzi a lasciarlo qualificare come tale: «la macchina umana collettiva». Già scorgendo il nutrito indice del testo ci si imbatte in “una macchina del tempo” volta a riabilitare la fase primitiva dell’uomo – l’alba precedente il periodo eotecnico –, direttamente mirata contro quel pregiudizio tutto moderno e specioso che cancella con un colpo di spugna i primi passi dell’uomo nel mondo. Passi che, dati storici alla mano, Mumford colloca in una più allargata33 storia della cultura, tenuto nel Faust goethiano, (cfr. ivi, p. 90; per un accenno significativo alla favola dell’apprendista stregone, cfr. PP, p. 269) nonché il sottile filo rosso che lega questo al problema dell’«identità umana» «(la cui) affermazione non è un problema moderno. L’uomo ha dovuto imparare a essere uomo come ha dovuto imparare a parlare; e il balzo dall’animalità all’umanità, netto anche se graduale e non databile, anzi non ancora completato, fu dovuto ai suoi tentativi incessanti di plasmarsi e riplasmarsi. Fin quando non riuscì ad affermare una sua personalità identificabile, egli infatti non era più un animale e non era ancora un uomo. Questa trasformazione è stata, io credo, la prima missione della cultura umana. Ogni progresso culturale è di fatto, se non nelle intenzioni, uno sforzo per rifare la personalità umana. Nel momento in cui la natura smise di modellarlo, l’uomo intraprese con tutta l’audacia dell’ignoranza a rifoggiare se stesso» (MM, p. 69). La stessa crisi del paradigma tutto moderno dell’«homo faber fortunae suae» è percepito come il vero e proprio problema «etico» dell’uomo tecnologico che non sia disposto a finire tale. Per un’aggiornata problematizzazione che tenga insieme le fila del complesso intreccio discorsivo, parlando «della vita alla vita», cfr. E. MAZZARELLA, Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, Genova 2004. 33 Un mancato «allargamento», imprescindibilmente collegato a un «approfondimento» dell’intero processo di associazione, è quel che Mumford rimprovera all’Etica e alla Politica aristoteliche. Nello Stagirita egli apprezza il “biologo” più del “matematico”, nonché la superiorità di vedute rispetto a Platone. L’interpretazione mumfordiana, al riguardo non priva di luoghi comuni né di errori pro-

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con particolare rispetto e interesse nei confronti del linguaggio originario e del regno del rituale, intesi quale accesso privilegiato al mondo del significante e dunque alla natura culturale dell’uomo. Riassumendo le ampie e documentatissime pagine mumfordiane, è l’uomo primitivo a passare per primo dal piano orizzontale della famiglia a quello verticale della società: di qui, con la scoperta di un ordine cosmico, «luce, energia e calore» discendono dall’astro del cielo alla nuova potenza della terra: la piramide. L’immagine che Mumford utilizza non è casuale, così come non lo è il luogo della sua prima apparizione: quell’Egitto che fa di ogni vertice un vortice, della monarchia divina e della regalità il primo motore della «megamacchina». Al di là delle distinzioni tra i vari «nomi» delle macchine – invisibile, da lavoro, militare –, Mumford tiene a evidenziare l’imperativo che esse realizzarono: il primo raduno e sfruttamento di materiale umano. Si annida qui, tra l’altro, la più spiccata differenza tra le modalità di radicamento e sviluppo della macchina antica e quelle della macchina moderna: laddove la prima metteva in atto congegni per sfruttare mano d’opera, la macchina moderna ne attua ugualmente, ma per risparmiare mano d’opera. A non mutare, invece, sono i dispositivi, invero indispensabili per il funzionamento, quasi l’“oliatura” della megamacchina: una solida organizzazione della conoscenza, tanto naturale quanto sovrannaturale, e un’elaborata struttura per impartire ordini e farli eseguire. La piramide delle origini si avvaleva della casta sacerdotale e di una burocrazia rigidamente centralizzata e gerarchicamente ordinata, al cui vertice stavano il sommo sacerdote ed il re. La monarchia divina abbaglia ed ipnotizza: è qui che nasce il mito, al di là dei fattori demoralizzanti che pure, ombre oblique, lo accompagnano. Ed anche qui «divisione del lavoro» sta per «smembramento dell’uomo». I vari riti vengono spesso “desacralizzati”, sì da fare delle aberrazioni ideologiche dei princípi potenti, coercitivi ma vincenti. Almeno fino a un certo punto: spettici, è particolarmente interessante così come proposta in: ID., La città nella storia, cit., pp. 241 ss. In MM, pp. 23 ss., egli rinforza la stoccata ai danni del «limitato razionalismo contemporaneo» premettendo la necessità di una «interpretazione allargata del passato» come «necessaria per sfuggire alle gravi insufficienze delle conoscenze attuali».

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Ciò che venne fortunatamente provato da questa prima rivoluzione è una cosa che oggi è forse bene ricordare: che né la scienza esatta né l’ingegneria resistono all’irrazionalità di coloro che sono alla testa del sistema. E soprattutto che la più forte ed efficiente delle megamacchine può essere rovesciata, che gli errori umani non sono immortali. Il crollo dell’era delle piramidi dimostrò che la megamacchina si fonda su una base di credenze umane che possono sgretolarsi, di decisioni umane che possono rivelarsi fallibili, e di un consenso umano che, quando non si crede più alla magia, può venire meno. Le componenti umane della megamacchina erano per natura meccanicamente imperfette e mai del tutto sicure. Fin quando non si riuscì a costruire autentiche macchine in legno e in metallo in quantità sufficiente a sostituire quasi tutte le componenti umane, la megamacchina rimase vulnerabile34.

Il copione seguente riprende quello già proposto in Technics and Civilization, soffermandosi, però, con maggiore rigore critico, sull’intrusione dello spirito capitalistico nell’etica cristiana, sì da poter affibbiare alla stessa chiesa l’ingombrante appellativo di «megamacchina vaticana». Ovunque prosperò il capitalismo, precisa Mumford, esso instaurò tre norme per testare il successo di un’iniziativa economica: il calcolo della quantità, l’osservazione e l’irregimentazione del tempo (in primis, di nuovo, inteso come denaro) e la concentrazione su astratte rimunerazioni pecuniarie. Ancora, Mumford nota come i valori principali del capitalismo – potere, prestigio e profitto – possono esser fatti risalire, col più superficiale dei trasferimenti, all’età delle piramidi. Mumford accompagna per mano nella storia, tra le sue invenzioni ed i suoi eventi, le caratterizzazioni e le spiegazioni, indugiando sui momenti particolarmente “fertili” per il rinnovo del mito, per la spinta delle varie componenti atte a rianimarlo. Il grande Leviathan meccanico viene pian piano risvegliato e ripescato dalle pieghe assopite della storia: fissazione ossessiva della civiltà occidentale diventa l’espansione della megamacchina riattuata. Col suo proverbiale occhio di riguardo per il medioevo, l’attenta analisi mumfordiana sul mito della macchina cala il sipario annun34

MM,

pp. 317 ss.

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ciando – nel ‘500, alla presenza di Keplero, Copernico e Tycho Brahe – la resurrezione del «nuovo dio sole», dotato di tutte le componenti proprie della megamacchina ed anzi radunate per la riesumazione imminente: «potenza, velocità, movimento, standardizzazione, produzione in serie, quantificazione, irregimentazione, precisione, uniformità, regolarità astronomica, controllo, soprattutto controllo, divennero le parole d’ordine della società moderna alla nuova maniera occidentale»35. Parole d’ordine per le quali egli cercherà presto un minimo comune multiplo, trovando posto in un secondo tomo, in una sola, ripetuta, maiuscola iniziale. The Pentagon of Power «Ponendo il sole al centro del cosmo, Copernico si rivelava più egiziano di Tolomeo»: l’accattivante provocazione mumfordiana risponde più alla sua lettura della storia che alle ulteriori domande che potrebbero esser formulate. Il sole ritornava ad essere una divinità; la regolarità meccanica già raggiunta dall’orologio riproduceva in miniatura l’assoluto ordine cosmico: la grande invenzione faraonica, la megamacchina, veniva nuovamente ricostruita e montata. Roi Soleil al vertice, con al seguito, in vesti leggermente mutate, gli altri famosi funzionari dell’antico sistema: la burocrazia, il sacerdozio, l’esercito. Mumford parla di «presupposto dogmatico» in riferimento al cosmo divenuto sistema meccanico: Nel porre il sole al centro del sistema planetario, Copernico involontariamente pose l’Europa al centro dei due nuovi mondi: quello dell’esplorazione territoriale e geografica, e quello della macchina. Quest’ultimo doveva rivelarsi dei due l’impero più grande e ricco36.

35 Ivi, p. 400. Volendo azzardare un triangolo inscritto nel pentagono del potere, i suoi tre vertici sono nominati come il «pesare», il «calcolare» ed il «misurare con sempre maggior esattezza» (ivi, p. 381). Per una proposta meglio articolata, cfr. A. KOYRÉ, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Torino 2000. 36 PP, p. 63. C. LASCH, Lewis Mumford e il mito della macchina, cit., pp. 232 ss., fa notare la progressiva rinuncia mumfordiana alla «ingenua distinzione» tra tecnologia e interessi pecuniari. Non intendiamo imbatterci nella debolissima

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Almanaccando le pietre miliari della filosofia del tempo, Mumford si sofferma sul Discorso sul metodo cartesiano, ritenendolo la clavis introduttiva a tutto il pensiero moderno: nella predilezione politica del filosofo francese per l’assolutismo, egli è anzi ben fermo nel leggere un tacito assenso in favore di una “militarizzazione” tanto della scienza quanto della tecnica, allora impegnate nel siglare un’alleanza secolare. Lo scienziato è “legittimato” come legislatore in qualità di rappresentante della collettività scientifica: Trasformando l’uomo in una «macchina …fatta dalle mani di Dio» (Cartesio) tacitamente trasformava in dei coloro che erano in grado di progettare e costruire macchine […]. «Il corpo di un uomo» osserva asciutto Cartesio «altro non è che la statua di una macchina fatta di terra». La lunga disputa fra organicismo e meccanicismo ha il suo fuoco in questo dogmatico «non è che». Al fine di provare che la natura e il comportamento delle creature viventi, a sola eccezione dell’uomo, sono spiegabili in base a leggi puramente meccaniche, Cartesio con disinvoltura scelse un modello tutto particolare che da sempre esercitava un grande fascino sui sovrani: l’automa. Il fascino esercitato da questo congegno non era dettato dal capriccio, e non era casuale, tutt’altro; ché le figure automatiche, in forma animale o umana, «animate», come si dice, da un meccanismo a orologeria, costituivano l’incarnazione perfetta dell’esigenza monarchica: obbedienza incondizionata, ordine assoluto, controllo istantaneo, tutte qualità che simili governanti, dall’età delle piramidi in poi, hanno sempre desiderato imprimere nei loro sudditi. Il successo dell’automa, anche del più semplice, conferiva un significato all’interrogativo di Cartesio: non è forse possibile spiegare in modo soddisfacente gli organismi viventi, e dunque governarli, così come si fa con le macchine?37 (pur condotta «con deliberata imprecisione») storia della filosofia mumfordiana. Lo stesso problema dell’«automazione» è affrontato e svolto, dallo storiografo americano, in vista di un’«economia della pienezza» che prenda il posto di una superfetazione del potere e del ciclo conquista-sterminio-vendetta, e dunque come tale non risolto né, però, degno di alcuna menzione filosoficamente rilevante. 37 PP, pp. 130 s. «E l’etica? Che ne è dell’etica?»: sembra essere questo l’interrogativo serpeggiante, in Mumford, sin dalle ultime battute del Mito della Macchina, nelle quali è contenuto un accenno appassionato circa la serietà più unica che rara, esemplarmente coscienziosa, di Leonardo, dotato di uno straor-

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Anche in questo caso, l’atteggiamento mumfordiano è ambivalente: per un verso accusa Cartesio dell’errore più specioso che potesse commettere (l’assumere, a fondamento dell’ipotesi, la tesi che intendeva dimostrare circa l’incapacità di distinguere tra macchine che riproducono, negli organi e nella forma esterna, “animali privi di ragione”, e i modelli per queste); per un altro, invece, lo scagiona in ragione della fiduciosa asserzione circa i due «certissimi mezzi» (linguaggio proprio e volontà in grado superiore a quella animale) dell’uomo, per poi decretarne la definitiva «disfatta teoretica» col tentativo di introdurre, in ambito «organico», la nozione estranea di «meccanismo». Dovendo “spuntare” tale, ben più ampia e complessa, questione, pur articolandola ulteriormente, Mumford taglia corto: La metafora meccanica non è in sé un artificio soddisfacente se si mira a eliminare i fattori puramente umani, poiché gli stessi meccanismi artefatti sono soggettivamente condizionati e le particolarità che in essi simulano determinati aspetti dell’organismo sono appunto ciò che deve essere spiegato. Così come sono, le macchine costituiscono un enigma, non offrono una spiegazione. La risposta a questo enigma sta nella natura dell’uomo38.

Uno dei punti più fermi di Mumford sta nel non esser disposto a concedere alla macchina alcuna dignità quando questa voglia privarne l’uomo. Traspare, infatti, tutta la sua “indisposizione” quando ammette che a macchine sempre più “vive” si accoppia un uomo sempre più meccanico. È una «estraneità reciproca», un intersecarsi di piani diversi, quella che Mumford imputa come impotenza e illegittimità del «potere»39 che, pure, di quel «pentagono» costituisce la base dinario «intuito da veggente» e, soprattutto, consapevole delle implicazioni sociali di ciascuna invenzione. La sua figura è re-interrogata in: ivi, pp. 166 ss. 38 Ivi, p. 137. 39 Per chiarire la differenza tra lo stato come unità politico-amministrativa e la megamacchina, Mumford esibisce una sorta di “declinazione storica” della voce «Power», seguendo i significati riportati dal New English Dictionary nel 1297, nel 1486 e nel 1727, fino a concludere che la megamacchina «è una macchina nel senso tecnico ortodosso del termine, e cioè combinazione di parti resistenti organizzate in modo da eseguire movimenti uniformi e lavori ripetitivi. Si deve però notare che tutte queste forme di potere, ciascuna rafforzante le altre, divennero essenziali per costituire il nuovo pentagono del potere» (cfr. PP, p. 354).

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e, insieme, il vertice. Alla «conquista dello spazio» da parte dell’uomo si associa, infatti, la «conquista dell’uomo» alla quale punta la megamacchina: la diga della vita sembra cedere alla piena della megamacchina; l’inondazione del «quantitativo» rischia di dilagare remando contro i battenti della vita. Potere, Proprietà, Pubblicità, Personalità, Progresso: questa la cinquina accomunata dalle stesse iniziali, alla quale Mumford contrappone una sola e semplice coppia: «probabilità-possibilità», chiasmo tra «can» e «must», terra fertile per un mondo organico della «persona». In questi termini Mumford descrive il divario tra «quantitativo» e «qualitativo»: L’automazione ha […] un difetto di qualità che discende direttamente dal suo eccesso quantificante, in breve, in essa le probabilità aumentano, le possibilità diminuiscono40.

Un’altra tela di Van Gogh – che in tedesco pregnante suona Die Runde der Gefangenen – raffigura con singolare incisività il timore più legittimo del Mumford appassionato di arte e di vita. La ronda dei carcerati. Un cerchio di uomini risucchiato in un buio di stelle spente. Una prigione che è sempre e come non mai una prigione. Una circolarità inerziale che niente e nessuno pare avere il coraggio di spezzare. Thinking the Unthinkable «Porre dei limiti all’espansione del sistema di potere, ecco ciò che è divenuto impensabile»41: così Mumford commenta, a modo suo, un sintomatico titolo di Herman Kahn, e nel definirlo pur lo pensa nella sua più strenua estremizzazione. Il Pentagono del Potere si chiudeva con una “deriva mistica”: Secondo i principi imposti dalla società tecnocratica, il genere umano non avrebbe altra speranza che «andare al passo» con i suoi progetti di accelerato progresso tecnologico, anche se ciò conduce la megamacchina a divorare come un cannibale tutti i vitali organi umani. Ma, per quanti di noi hanno rifiutato il mito della macchina, la fuga è possibile, una via d’uscita esiste ed è una via umana, che già intravediamo nella nostra mente42. 40

Ivi, p. 276. Ivi, p. 509. 42 Ivi, p. 627. La stessa metafora dell’«andare al passo» compare in veste 41

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Già nel tredicesimo paragrafo, intitolato Riepilogo e conclusione, dell’ultimo capitolo – Orientamenti – di Tecnica e cultura, Mumford forniva una summa ragionata del suo primo, promettente, tentativo riguardante la natura culturale della tecnica, arricchendola con un suggestivo e non casuale paragone, che merita di esser citato per intero: «Nel discutere della tecnica moderna ci siamo spinti il più avanti possibile nel considerare la civiltà meccanica come sistema isolato; il prossimo passo da compiere per il riorientamento della tecnica consisterà in una più larga armonizzazione di tutti gli aspetti d’interesse sociale. Sarebbe un errore madornale cercare solo nel campo della tecnica la risposta a tutti i problemi originati dalla tecnica stessa: solo in parte si può dire che sia lo strumento musicale a determinare il carattere dell’esecuzione o l’atteggiamento dell’uditorio: non bisogna dimenticare che esistono il compositore, l’esecutore e gli ascoltatori. Che cosa dire della musica che si è fatta finora? Riandando alla storia della tecnica moderna si può dire che dal X secolo in poi gli strumenti non hanno fatto che essere strimpellati e accordati. Uno ad uno si sono aggiunti nuovi orchestrali che si sono sforzati di interpretare lo spartito. Nel secolo XVII i fiati e gli archi si sono riuniti ed hanno suonato con le loro note squillanti il preludio all’opera della scienza e dell’invenzione meccanica. Nel secolo XVIII furono gli ottoni ad unirsi all’orchestra e così in tutto il Mondo Occidentale risuonò l’ouverture, con il netto spicco dei metalli rispetto al legno. Finalmente nel secolo XIX si fece timidamente sentire fra le dissonanze dello spartito la voce umana, e questo proprio quando entravano in azione, con tutto il loro volume sonoro, i timpani. È stata eseguita tutta la composizione? Nient’affatto. Tutto quanto abbiamo fatto sinora è stato poco più che una prova; essendoci resi conto dell’importanza polemica nella sua sfaccettatura di «malsano adattamento» nel paragrafo su Lo scopo dell’opera, in: TC, p. 20, nel mentre Mumford indica quale caratteristica “limitatamente” occidentale l’aver conformato la propria vita alla macchina, e dunque l’essersi, ad essa, subordinati. Segue l’interrogativo: «Com’è avvenuto tutto questo? Come ha potuto in effetti la macchina prendere possesso della vita europea, fino al punto che questa società si è, per accomodamento interno, arresa alla macchina?». Oltremodo interessante risulta, a partire da questo orizzonte di discorso, il passaggio al riconoscimento della «interplanetarietà» del fenomeno, riconosciuto come tale a chiare lettere in: ID., La condizione dell’uomo, cit., p. 475.

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dei cantanti e del coro, noi ci accingiamo ad orchestrare diversamente la musica, facendo sentire di meno i grossi ottoni e i tamburi e dando rilievo ai violini ed alle voci. A questo punto ci accorgeremo che il più difficile è ancora da venire: nell’atto stesso di suonarla noi dovremo riscrivere la musica e cambiare il direttore e rimaneggiare l’orchestra. Impossibile? No. Per quanto la scienza e la tecnica abbiano ampiamente dirottato dal loro più esatto itinerario, esse ci hanno insegnato almeno una lezione: niente è impossibile»43. In greco antico esiste una sottile differenza tra oÙdûn e mhdûn, entrambi al caso nominativo, di genere neutro: il primo contiene e palesa la negazione obiettiva oÙ, e dunque sta ad indicare una sorta di «nientità» in senso parimenti obiettivo, laddove mhdûn restringe il suo raggio d’azione semantico ad un soggetto, cosciente del niente che nomina. L’¢dÚnaton mumfordiano parla il pluralia majestatis proprio dell’uomo che ha imparato tanto dagli uomini quanto dalle creazioni umane, dalla scienza e dalla tecnica come tali intese nella loro doppia potenzialità valoriale: da un lato come funzioni vitali che alimentano le sorgenti della vita, dall’altro come ostruenti quelle stesse sorgenti, e dunque in veste di inquinanti antivitali. Proprio l’arco cruciale del «can», ovvero la dialettica tra «probabile» e «possibile», impegna ed interessa il Mumford inquisitore della «scienza intesa come tecnologia», memore della raccomandazione baconiana secondo la quale non tutto ciò che è da questa reso possibile è però altrettanto desiderabile. In questa specifica questione, l’automazione come atrofizzazione della vita, a sorpresa, non figura come suo destino irrevocabile. Il richiamo allo «spirito dell’uomo» intende, infatti, fare riferimento alla stessa «natura umana» come al primo e ultimo baluardo, l’impossibile schiavo che non si inchina né mai si piegherà alla macchina: «L’automazione è l’inizio, non la fine dello sviluppo umano»44. 43

TC,

44

PP,

pp. 535-536. p. 577. Per quanto riguarda la nozione di «storia» in Mumford, un peso notevole è giocato dalla lettura nietzschiana circa l’utilità e il danno di essa per la vita. Nell’Epilogo di The Pentagon of Power (pp. 599 ss.) egli riprende da The conduct of Life quanto nel testo del ’71 veniva assunto come tesi di fondo: «La vita umana, nelle sue molteplici forme storiche, nei suoi progetti, è il nostro pun-

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La «via umana» come «via d’uscita», dunque, contempla e salva il «possibile» come caposaldo di una «economia della pienezza» di contro al «probabile» roccaforte della secolare «economia dell’abbondanza». Laddove a perseverare è la ricerca di un «ordine», a cambiare sono i “termini economici” in gioco, allo stesso tempo garanti dell’ineludibile «entropia» di fondo: l’«uomo nel mondo», altra faccia dell’«uomo integrale», prenderà il posto dell’«uomo nello spazio», alter-ego dell’«uomo frammentario, economico, tecnologico». Il progetto dell’“ultimo” Mumford inneggiante all’«uomo integrale» ha come destinatario il cuore dell’«uomo storico», la «persona»: L’unico modo efficace di superare il sistema di potere consiste nel trasferire i suoi elementi migliori a un complesso organico. Ed è nella persona umana, e attraverso di essa, che l’invito alla pienezza comincia e finisce45.

Se è vero che «ognuno di noi, finché ha vita, può svolgere un ruolo districandosi personalmente dal sistema, affermando la priorità della sua persona […] per scrollarsi dalle spalle il giogo del Pentagono del Potere»46, è anche vero che esiste uno spazio sottraibile alla solidità funesta di quella figura piana, ed il suo luogo è nel nucleo massimamente, ancora vitale del tempo dell’uomo nel mondo: Quando parlo del futuro della città, non mi riferisco a ciò che è probabile e dunque prevedibile, ma a ciò che è possibile e, fra l’ampia gamma di possibilità, a ciò che è desiderabile e di valore […]. Quando avremo compreso che ciò che è probabile è diventato umanamente impossibile, allora tutti i cambiamenti possibili e desiderabili diventeranno probabili47. to di partenza […]. L’uomo vive nella storia, attraverso la storia e in un certo senso per la storia, dato che una parte non scarsa delle sue attività consiste in una preparazione dell’ignoto futuro», cfr., ancora, PP, pp. 74 ss.. 45 Ivi, p. 583. Invero, già in Technics and Civilization, Mumford denunciava: «Non è detto che a una globalizzazione delle comunicazioni si accompagni un pari ampliamento della personalità» (cfr. TC, pp. 262 s., tr. leggermente modificata). 46 PP, p. 625. 47 L. MUMFORD, On Guard! The City is in Danger!, in: «University. A Princeton Quarterly», n. 24, Spring 1965, pp. 10-13, tr. it. a cura di E. Besussi e C. Mazzoleni, in: L. MUMFORD, In difesa della città, cit., pp. 83, 92. Sul punto, a mo’ di esempio ultimo della «lineare circolarità» mumfordiana, cfr. la conclusione de

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Mumford ha ben presente il peso dei “termini economici” in gioco. Ha indagato abbastanza «la città nella storia» per poter convalidare le prime parole della sua asciutta prefazione: «Questo libro si apre con una città che era, simbolicamente, un mondo, e si conclude con un mondo che è diventato, per molti aspetti pratici, una città»48. Dal santuario alla polis, dal chiostro al barocco, dalla corte alla città invisibile, dalla megalopoli alla necropoli: Mumford analizza forme, funzioni e finalità di un «luogo culturale» che di volta in volta ha il suo «tempo storico», pur senza postulare alcuna irreversibilità di destino. La città come patrimonio e inesauribile ricchezza, come «probabilità» di «antropolizzazione», territorio ideale per corvi in picchiata, ma ancora, nonostante tutto, «possibilità» di mietitura, trebbiatura, vita e nient’altro che vita. L’utopia che Mumford pretendeva reale: «ritorno alla terra», «nuova dimora per l’uomo», inedito, fertile «campo di grano».

La condizione dell’uomo, cit., p. 514: «Le possibilità di progresso diverranno nuovamente reali quando avremo perduto la nostra cieca fede nei miglioramenti esterni portati dalla sola macchina. Ma il primo passo è personale: un cambio nella direzione dell’interesse che deve volgersi verso la persona. Senza questo cambiamento, non si avranno grandi miglioramenti nell’ordine sociale. Una volta cominciato quel cambiamento, tutto è possibile». 48 L. MUMFORD, La città nella storia, cit., vol. I, p. 9. Sulla lettura di questa, intesa quale «opera proteica […], non riassumibile come pro o contro la città», cfr. D. RIESMAN, Qualche osservazione su «La città nella storia» di Mumford, in: «Comunità», n. cit., pp. 251-258; confinato alla situazione americana, tenendo ben presente la lettura mumfordiana, il lavoro di E.H. MONKKONNEN, America becomes Urban: The Development of U.S. Cities & Towns 1780-1980, Berkeley 1988.

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Indice

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Prefazione TEMI

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Il contributo della teoria delle macchine alle scienze della natura e dell’uomo Nicola Russo

41

Sulla questione di una filosofia della tecnica Agostino Cera

117 Coscienza, memoria e identità nell’orizzonte dell’intelligenza artificiale Alberto Giovanni Biuso 165 La biofilosofia come nucleo del programma teorico dell’antropologia filosofica Joachim Fischer

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197 Fiducia nella tecnica. Sull’interfaccia uomo-macchina nella moderna tecnologia Bernhard Irrgang 217 Le condizioni dell’umano Gianluca Giannini 247 Per una definizione di biotecnologia Joaquin Mutchinick AUTORI E CORRENTI

267 Il tramonto del tempo. La questione della tecnica in Ernst Jünger Pierandrea Amato 295 Percorsi autentici nell’inautentico: note sull’evoluzione della Frage nach der Technik heideggeriana Simona Venezia 313 Spettri della tecnica. Derrida: la tecnica e la vita Francesco Vitale 345 La Macchina di Vetro. A partire dall’architettura tedesca tra Espressionismo e Neue Sachlichkeit Felice Masi 381 The Myth of the Machine: Lewis Mumford e la storia della cultura come storia della tecnica Giulia Longo

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Strumenti e ricerche

Bausinger Hermann, Cultura popolare e mondo tecnologico, 2005 Bellachioma Fiorella, Zeitlose. La passione del viaggio comune tra cura e didattica, 2003 Bentivegna Giuseppe, Dal riformismo muratoriano alle filosofie del Risorgimento. Contributi alla storia intellettuale della Sicilia, 1999 Bentivegna Giuseppe, Filosofia civile e diritto comparato in Emerico Amari, 2003 Bianco Michele, Letture filosofiche. Saggi su Hegel, Sohn-Rethel, Bonaventura e Agostino, 2004 Biuso Alberto Giovanni, Antropologia e filosofia. Elementi di propedeutica filosofica, 1999 Bruno Francesco, Dentro Napoli (a cura di) Francesco D’Episcopo, 2004 Cardillo Enrico, Napoli, l’occasione post-industriale. Da Nitti al piano strategico, 2006 Castagnaro Alessandro, Architettura: accade oggi. Scritti brevi 2000-2006, 2006 Chiacchio Raffaele, Dietro le barricate, 2005 Cimmino Letizia, Sistema mercato, 2005 Cimmino Luigi, Autodeterminazione. Un argomento a favore della ‘responsabilità ultima’, 2003 La competitività del sistema produttivo della provincia di Caserta (a cura di) Mario Mustilli, Francesco Gangi, Fabrizio Fiordilisio, 2005 Contaldo Franco, Bioetica della nutrizione e fine della vita, 2006 Corniola Domenico, Rispetto all'Europa si recuperò il ritardo? Aspetti socio-economici del regno di Napoli nel XVIII secolo, 2004 Corsi Ermanno, Aspetti della Campania nel terzo millennio, 2005

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Corsi Ermanno, Terra di lavoro e di progresso, 2005 Dandolo Francesco, Interessi in gioco. L’Unione degli Industriali di Napoli tra le due guerre, 2005 Daniele Nino, Mezzogiorno in bilico. Riformismo e “rivoluzione liberale” al Sud, 2005 Dante Umberto, La con-presenza. Dal teatro alla televisione passando per il cinema, 2004 De Biase Riccardo, L'interpretazione heideggeriana di Descartes, 2005 De Giovanni Biagio, L’ambigua potenza dell’Europa, 2002 De Masi Domenico, Nitti Francesco Saverio, Napoli e la questione meridionale, 2005 Fedi e culture oltre il Dio di Abramo (a cura di) Giovanni M. D'Erme, 2003 Forziati Domenico, Grattagliano Paola, Mantovano Simona, Musso Paolo, Russo Manlio, La scuola delle emozioni, 2005 Franco Antonello, Essere e Senso, 2005 Franco Antonello, Immagine, senso, ermeneutica, 2000 Gentile Gennaro, Dietrich Bonhoeffer. Una luce sulla Crisi dell’Occidente Cristiano, 2007 Gentili Dario, Il tempo della storia. Le tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin, 2002 Iannuzzi Tino, Uscire dal tunnel, 2004 Iodice Antonio, Alle radici dell’Europa unita. Il contributo dei cattolici democratici in Italia, 2002 Lucia Piero, Intellettuali italiani del secondo dopoguerra, 2003 Lucia Piero, Nel labirinto della storia perduta. Apogeo e fine dell’industria tessile a Salerno, 2006 Marcon Loretta, La notte oscura dell’anima: Giobbe e Leopardi, 2005 Masi Felice, Vicinanza Maria, Emergenza, rischio e decisione. Modelli della decisione sull’emergenza ecologica e bioetica, 2004 Mele Amalia, Da un’altra vita. L’antropologia della cura, 2000 Natura e cultura (a cura di) Bonito Oliva Rossella e Cantillo Giuseppe 2000 Ossorio Giuseppe, La Regione in salita, 2003 Paolini Merlo Silvio, Abbagnano a Napoli. Gli anni della formazione e le radici dell’esistenzialismo positivo, 2003 Paolozzi Ernesto, L’estetica di Benedetto Croce 2002 Paolozzi Letizia, La passione di Emily. Napoli 2004: l’azzardo della lista “rosa”, 2005

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Le regioni meridionali e l’Europa a 25 (a cura di) Enzo Giustino, 2004 Romano Carla, Conoscere l’uomo. Messaggio di Jacques Maritain, 2005 Roveri Alessandro, Richelieu. Un cardinale tra guerre, diavoli e streghe, 2003 Russo Nicola, Filosofia ed ecologia, 2000 Russo Nicola, La biologia filosofica di Hans Jonas, 2004 Tessitore Fulvio, Per Napoli e la legalità, 2005 I Rosselli. Eresia creativa, eredità originale (a cura di) Simone Visciola e Giuseppe Limone, 2005

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Micromegas Collana diretta da Eugenio Mazzarella e Fulvio Tessitore

G.W.F. HEGEL,

Scritti teologici giovanili, pres. di F. Tessitore, a cura di E. Mirri, 1972 (19893). C. PERELMAN, Morale, diritto, filosofia, a cura di P. Negro, 1974. E. TROELTSCH, Etica, religione, filosofia della storia, pres. di F. Tessitore, a cura di G. Cantillo, 1974. MARSILIO DA PADOVA, Il difensore minore, a cura di C. Vasoli, 1975. E. TROELTSCH, La democrazia improvvisata, a cura di F. Tessitore, 1977. P. YORCK VON WARTENBURG, Coscienza e storia, pres. di A. Masullo, a cura di F. Donadio, 1980. M. HEIDEGGER, Tempo ed essere, a cura di E. Mazzarella, 1980 (19985). ARISTOTELE, Meteorologica, a cura di L. Pepe, 1982. G.W.F. HEGEL, Epistolario, vol. i, a cura di P. Manganaro, 1983. P. YORCK VON WARTENBURG-W. DILTHEY, Carteggio, pres. di F. Tessitore, a cura di F. Donadio, 1983. J.J. ROUSSEAU, Saggio sull’origine delle lingue, a cura di G. Gentile, 1984 E. TROELTSCH, Lo storicismo e i suoi problemi, vol. i, a cura di G. Cantillo e F. Tessitore, 1985 (19912).

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420 W. DILTHEY,

Storia della giovinezza di Hegel e Frammenti postumi, a cura di G. Cacciatore e G. Cantillo, 1986. L. RANKE, Lutero e l’idea di storia universale, a cura di F. Donadio e F. Tessitore, 1986. U. WILAMOWITZ-MOELLENDORF, Filologia e memoria, a cura di M. Gigante, 1986. A. BOECKH, La filologia come scienza storica, a cura di A. Garzya, 1987. E. W. TSCHIRNAUS, Medicina Mentis, a cura di L. Pepe e M. Sanna, 1987. M. HEIDEGGER, La ‘Fenomenologia dello spirito’ di Hegel, a cura di E. Mazzarella, 1988 (20003). G.W.F. HEGEL, Epistolario, vol. ii, a cura di P. Manganaro, 1988. F. SCHLEGEL, Sullo studio della poesia greca, a cura di A. Lavagetto, con un saggio di G. Baioni, 1989. E. TROELTSCH, Lo storicismo e i suoi problemi, vol. ii, a cura di G. Cantillo e F. Tessitore, 1989 (19912). W. von HUMBOLDT, Scritti sul linguaggio, pres. di F. Tessitore, a cura di A. Carrano, 1989. J.G. FICHTE, La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, 1989. W. DILTHEY-E. TROELTSCH, Leibniz e la sua epoca, pres. di F. Tessito re, a cura di R. Bonito Oliva, 1989. F.W.J. SCHELLING, Lezioni sul metodo dello studio accademico, a cura di C. Tatasciore, 1989. M. HEIDEGGER, La questione della cosa, a cura di V. Vitiello, 1989. E. MEYER, Storia e antropologia, pres. di F. Tessitore, a cura di S. Giammusso, 1990. M. HEIDEGGER, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica, a cura di E. Mazzarella, 1990 (20012). M. MENDELSSOHN, Jerusalem. Ovvero sul potere religioso e il giudaismo, pres. di N. Merker, a cura di G. Auletta, 1991. J.W.F. SCHELLING, Le età del mondo, a cura di C. Tatasciore, 1991 (20002). K. O. MÜLLER, Prolegomeni ad una mitologia scientifica, pres. di F. Tessitore, intr. di A. Garzya, 1991. P. YORCK VON WARTENBURG, Da Eraclito a Sofocle e altri scritti filosofici, a cura di F. Donadio, 1991.

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421 H. MÜNSTERBERG,

La psicologia e la vita, a cura di E. Massimilla,

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impaginato N. Russo 14

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Finito di stampare nel mese di giugno 2007 ARTI GRAFICHE SOLIMENE Casoria - Napoli