Le macchine e l'industria da Smith a Marx
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C. L 32^8-1

Tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell’ottocento si sviluppò un acceso dibattito sulle origini, la natura e le conse­ guenze della rivoluzione industriale. Economisti, saggisti, riforma­ tori cercavano di capire gli avvenimenti che incidevano profonda­ mente nelle strutture della società. Su questo sfondo l’autore collo­ ca il pensiero di Marx sulla storia dell’industria e, attraverso un èsame attento delle fonti, ne segue l’itinerario nel periodo tra gli scrit­ ti giovanili e la pubblicazione del primo libro del Capitale. Nell’am­ bito di questa impostazione l’autore chiarisce come il linguaggio e i concetti di origine hegeliana non siano stati utilizzati a fini esclusi­ vamente filosofici, bensì come strumenti per riformulare su basi differenti l’economia politica classica. Così la dottrina del materia­ lismo storico è considerata alla luce degli interessi di Marx e Engels per la storia economica inglese. Le teorie sullo sviluppo economico e sulle crisi cicliche sono viste in collegamento con le tesi sulla for­ mazione e maturazione politica della classe operaia e con la prassi politica nel periodo 1847-49. E l’idea che nella società comunistica vengono meno la divisione del lavoro e il lavoro manuale è spiega­ ta in base agli studi di Marx sull’organizzazione della fabbrica ca­ pitalistica e sulle sue tendenze di sviluppo. Armando De Palma è nato nel 1937, dal 1969 è assistente ordinario di storia della filosofia presso la facoltà di magistero di Torino. Ha curato la traduzione italiana dei saggi linguistici di Noam Chomsky e attualmente sta lavorando a un’antologia di linguistica matematica.

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169.

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Copyright © 1971 Giulio Einaudi editore s.p. a., Torino

ARMANDO DE PALMA

LE MACCHINE E L’INDUSTRIA DA SMITH A MARX

Piccola Biblioteca Einaudi

Indice

P-7

Avvertenza

Le macchine e l’industria da Smith a Marx Capitolo primo li

15 24 35

1. 2. 3. 4.

La divisione del lavoro come forza produttiva Il dilemma della divisione del lavoro Gli anni difficili del sistema di fabbrica La divisione del lavoro come tecnica razionale: la spe­ cializzazione delle funzioni lavorative

Capitolo secondo 55 62 7i

Gaskell e la crisi dell’istituto familiare Una ideologia dello sviluppo industriale: il capitalista illuminato 3. Dall’industria attraente al sistema automatico: la fab­ brica come luogo di composizione dei conflitti sociali 1. 2.

Capitolo terzo 88 104

117

Le contraddizioni dell’economia politica Ricchezza e miseria: il sottoconsumo nella sociologia di E. Buret 3. La storia dell’industria come storia dell’essenza umana alienata

i. 2.

Capitolo quarto z53

1.

La storia dell’industria come storia della coscienza di classe

6

INDICE

p. 171 177 186

2. 3. 4.

La storia dell’industria come scienza positiva Una revisione concettuale La politica delle alleanze

Capitolo quinto 220 228 239 246

i. 2. 3. 4.

Verso il Capitale Alcuni problemi di metodo Il concetto di cooperazione La forma capitalistica della cooperazione

Capitolo sesto 258 269 275 281

303

Divisione del lavoro ed estraniazione Il sistema di fabbrica e l’uso capitalistico delle mac­ chine 3. Le basi scientifiche del sistema di fabbrica 4. Codice autoritario e subordinazione nel sistema di fab­ brica

1. 2.

Indice dei nomi

Avvertenza

Nel lontano 1961, Raniero Panzieri, nel saggio Sull'uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo («Qua­ derni Rossi», n. 1., pp. 53-72), richiamava l’attenzione su alcune dottrine marxiane relative alla sociologia e alla storia dell’industria capitalistica. Dal modo originale e sti­ molante in cui quell’argomento veniva presentato e uti­ lizzato ebbe origine l’idea del presente lavoro. Il primo capitolo è stato realizzato con un contributo del c.n.r. nell’ambito del gruppo di studio su « La cul­ tura filosofica e scientifica dell’illuminismo». Il capitolo sesto riproduce sostanzialmente, con alcune aggiunte, il saggio L'organizzazione capitalistica del lavoro nel Ca­ pitale di Marx (« Quaderni di Sociologia », xv, 1966, pp. 11-56). Dai saggi Storia dell'industria ed essenza dell'uo­ mo nel giovane Marx (« Rivista di Filosofia», lvi, 1965, pp. 297-334) e Alternative del marxismo italiano («Ri­ vista di Filosofia», liv, 1963, pp. 446-71), pubblicati in collaborazione con Sandro Meliga, sono ricavati rispet­ tivamente i materiali del paragrafo 3 del capitolo terzo e del paragrafo 2 del capitolo quinto. Ringrazio l’amico Meliga per avermi permesso di uti­ lizzare e rielaborare quei testi e per le lunghe discussioni che hanno accompagnato e modificato in vari punti la pri­ ma stesura del presente lavoro.

LE MACCHINE E L’INDUSTRIA DA SMITH A MARX

Capitolo primo

i. La divisione del lavoro come forza produttiva.

Lo sviluppo economico determinatosi in Inghilterra a partire dalla seconda metà del secolo xvm pose agli eco­ nomisti una serie di problemi nuovi che interessavano la produzione industriale e l’organizzazione del lavoro. Nel­ la sua storia della rivoluzione industriale Paul Mantoux osservava che due fatti fondamentali reggono l’evoluzio­ ne dei modi di produzione dal secolo xvn fino alla rivolu­ zione industriale. Da un lato, l’estensione e la moltiplica­ zione degli scambi commerciali sviluppano i rami di pro­ duzione esistenti e ne creano altri, determinando una di­ visione del lavoro più complessa e più diversificata; dal­ l’altro lato, la, divisione del lavoro e i conseguenti muta­ menti tecnici promuovono a loro volta un ritmo più acce­ lerato di attività economiche via via più integrate. Da questo punto di vista gli economisti considerano l’orga­ nizzazione industriale in riferimento alle condizioni per massimizzare la produttività. Queste condizioni sono so­ stanzialmente i nuovi strumenti, le macchine e il princi­ pio organizzativo che consiste nel dividere il lavoro tra un numero più o meno grande di operai, riuniti in uno stesso luogo di lavoro. Anzitutto, l’introduzione e il per­ fezionamento di queste nuove tecniche produttive, sia nel campo dell’ingegneria meccanica sia in quello più spe­ cificamente organizzativo, polarizzano l’attenzione sulle condizioni socioeconomiche della loro realizzazione, cioè sulla concentrazione della popolazione, sulla disponibili­ tà di capitali per investimenti in uomini, materiali e ap­ parecchiature adeguati alle esigenze di una produzione su vasta scala, e sulla necessità di aumentare il capitale

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CAPITOLO PRIMO

per consentire un’ulteriore espansione della divisione del lavoro2. In secondo luogo, per gli economisti di questo periodo lo sviluppo delle attività industriali e commercia­ li e la divisione del lavoro, intesa come forza produttiva che condiziona il miglioramento nella qualità delle mer­ ci e l’espansione dei beni di consumo, vengono conside­ rati come fattori di incivilimento e di progresso. Per Adam Smith, la separazione all’interno di uno stesso me­ stiere di operazioni lavorative eseguite da singoli operai « è in generale maggiormente spinta in quei paesi che go­ dono del piu alto grado di industria e di progresso: ciò che è opera di un solo uomo in una civiltà arretrata, in una società incivilita diviene opera di molti »3. Considerata dal punto di vista del mercato, la divisione del lavoro si configura come divisione sociale del lavoro tra produttori indipendenti, a partire dalla quale gli eco­ nomisti pervengono a una prima analisi, non sistematica, della divisione del lavoro all’interno dell’officina. Questa connessione veniva suggerita dalla stessa estensione delle transazioni commerciali che ponevano il problema di au­ mentare la produttività, risolvibile soltanto con un radi­ cale rivoluzionamento dei principi dell’organizzazione pro­ duttiva all’interno dei luoghi di lavoro. Tale rivoluziona­ mento consistette sostanzialmente nell’adozione su vasta scala della divisione del lavoro. In base a questo princi­ pio, i mestieri artigiani vengono suddivisi in operazioni parziali (cioè semplici e di facile esecuzione), compiute contemporaneamente da operai distinti e combinate se­ condo un piano per realizzare il prodotto finito. Viene così a delinearsi, anche se questi autori non la definiscono concettualmente, quella distinzione della divisione del la­ voro nella società tra produttori indipendenti dalla divi­ sione del lavoro entro l’officina, su cui insisteranno gli eco­ nomisti del secolo xix4. Vedremo in seguito che i teorici dell’organizzazione produttiva considerano la divisione del lavoro quale oggetto specifico di analisi, caratterizzan­ dola sistematicamente in tutti i suoi aspetti e nelle sue leg­ gi di funzionamento. In genere, essi conducevano questo studio in due direzioni: l’analisi empirica dei processi la­ vorativi in determinate manifatture e l’individuazione di

DIVISIONE DEL LAVORO COME FORZA PRODUTTIVA

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leggi tecniche allo scopo di definire un modello di efficien­ za per gli imprenditori. Nel corso dei secoli xvu e xvm si incontrano nei trattati di economia politica soltanto ca­ ratterizzazioni approssimative, sovente formulate sotto forma di constatazioni del senso comune, che individua­ no aspetti parziali della divisione del lavoro, senza peral­ tro affrontare il problema in maniera esauriente. La ragio­ ne del carattere non sistematico di queste osservazioni ri­ siede probabilmente nel fatto che per Adam Smith, come per altri economisti di questo periodo, la divisione del lavoro non è l’effetto di una regolazione consapevole del modo di produzione, ma sorge dalla tendenza naturale de­ gli uomini a scambiare, tendenza che a sua volta è legata all’interesse egoistico predominante nella sfera dell’atti­ vità economica. Uno degli aspetti che in questo periodo viene individuato è il carattere cooperativo che il lavoro assume nella divisione del lavoro, consistente nella mag­ giore forza produttiva sviluppata dal lavoro degli indivi­ dui cooperanti rispetto alla somma dei singoli lavori indi­ pendenti 5. Il processo di suddivisione in operazioni par­ ziali subito dal mestiere artigiano fu illustrato forse per la prima volta da William Petty in una descrizione del­ la manifattura dell’orologio, la quale, assieme a quella de­ gli spilli studiata da Adam Smith, costituì l’esempio clas­ sico di divisione del lavoro a cui generalmente si farà ri­ ferimento nel secolo successivo. In un saggio di aritme­ tica politica del 1682, Petty indicava i caratteri di sempli­ cità e di facilità delle operazioni in cui il mestiere artigia­ no era stato suddiviso, quando diceva che ogni industria viene « divisa in quante piu parti è possibile, affinché il lavoro di ciascun artigiano sia semplice e facile »6. Così Adam Smith, illustrando la natura parziale delle operazio­ ni combinate in una stessa manifattura, osservava che la fabbricazione degli spilli «non soltanto... è un mestiere speciale, ma si divide in molti rami, la maggior parte dei quali è analogamente un mestiere speciale »7. L’estensione del mercato, che aveva sollevato problemi di produttività risolvibili con l’impiego della divisione del lavoro, condizionava anche l’analisi che gli economisti fa­ cevano di tale principio organizzativo, orientando la loro

CAPITOLO PRIMO i4 ricerca sugli aspetti prevalentemente economici del pro­ blema. Infatti le loro osservazioni vertono, in genere, da un lato sugli aspetti positivi che l’uso delle tecniche orga­ nizzative esercita sull’aumento della produttività e dall’al­ tro sui limiti di applicabilità di quelle tecniche misurati in termini di « costi materiali »8. Se le condizioni econo­ miche dell’introduzione della divisione del lavoro con­ sistono nella disponibilità di capitali, la riduzione del tempo di lavoro è - tra le altre cause determinanti l’au­ mento della produttività - quella su cui maggiormente hanno insistito questi autori, i quali di volta in volta in­ dicano come fattori la maggiore destrezza e abilità acqui­ site dall’operaio quando si applica su un’area lavorativa ri­ stretta, l’ordine e la regolarità nell’esecuzione delle ope­ razioni, la giustapposizione spaziale e la relativa contem­ poraneità delle operazioni che rendono possibile un rispar­ mio di tempo nel passaggio da una fase all’altra del ciclo lavorativo9. Come vedremo in seguito, la divisione del lavoro sarà considerata, oltre che dal punto di vista strettamente eco­ nomico, da due altri punti di vista fondamentali: quello organizzativo e quello sociologico. È vero che Petty e Smith mettono in luce alcune caratteristiche tecniche che verranno recuperate più tardi dagli studiosi dell’organiz­ zazione manifatturiera del lavoro, ma ad essi preme soprat­ tutto di giungere, attraverso queste osservazioni, a con­ clusioni economiche generali sull’aumento della produtti­ vità del lavoro e sulla diminuzione dei costi di produzio­ ne 10. Soltanto verso la fine del secolo xviii e nei primi de­ cenni del secolo successivo la divisione del lavoro come tecnica organizzativa diventerà argomento specifico di stu­ dio. Naturalmente, il significato economico delle tecniche produttive e organizzative continuerà a essere indagato dagli economisti dei decenni successivi, ma l’analisi vera e propria di tali tecniche sarà ripresa da scienziati di tutt’altra formazione culturale: ingegneri come Perronet, ma­ tematici come Babbage e chimici come Ure, attraverso os­ servazioni dirette in decine di manifatture e la raccolta di un ingente materiale documentativo, getteranno le ba­

IL DILEMMA DELLA DIVISIONE DEL LAVORO

15

si di quella che sarà la moderna teoria dell’organizzazione scientifica del lavoro. La delimitazione di un campo ristretto e relativamente autonomo rispetto all’oggetto dell’economia politica e del­ l’ingegneria meccanica e, conseguentemente, la formula­ zione di nuovi metodi di indagine adeguati ai problemi specifici di questo campo costituiscono la prova più evi­ dente del nascere della nuova scienza dell’organizzazione industriale, che soltanto alla fine del secolo riceverà le sue formulazioni più compiute11. Naturalmente, gli sviluppi che questa scienza ricevette a partire dalla fine del secolo xviii possono essere compresi soltanto in riferimento ai diversi gradi di sviluppo tecnologico attraverso cui passò l’organizzazione industriale. Pur considerando soltanto la prima metà del secolo xix, vedremo come questa scienza si svilupperà lungo differenti orientamenti, in base alle nuove esigenze imposte dalla meccanizzazione su vasta scala, ma soprattutto in base alle differenti situazioni eco­ nomiche. Ci limitiamo a osservare, per ora, come i proble­ mi pratici di organizzazione del lavoro che gli imprendito­ ri dovettero affrontare costringessero questi nuovi scien­ ziati all’osservazione sul campo, allo studio comparato del­ le industrie nei differenti paesi e all’elaborazione di tecni­ che appropriate di indagine. 2.

Il dilemma della divisione del lavoro.

La connessione - individuata dagli economisti del se­ colo xviii - tra la divisione del lavoro, la produttività e l’espansione del commercio rendeva possibile attribuire alla tecnologia una specifica funzione di progresso; a Smith essa era apparsa quale fattore fondamentale di inci­ vilimento della società moderna. Il ricorso alla divisione del lavoro gli permetteva, infatti, di spiegare sia le condi­ zioni di aumentato benessere degli individui nelle società progredite rispetto a quelle primitive, sia l’invenzione del­ le macchine. Cosi l’interdipendenza tra le tecniche pro­ duttive e l’espansione dei mercati forniva alla nozione di divisione del lavoro il carattere di forza impersonale e

16

CAPITOLO PRIMO

svincolava il concetto di progresso dalla interpretazione che di esso aveva dato la storiografia tradizionale, ripor­ tandolo a singoli eventi e personalità u. Tuttavia, se la di­ rezione fondamentale in cui era stata condotta l’analisi delle tecniche produttive portava a esplicitare soprattut­ to le loro implicazioni economiche, contemporaneamente cominciava a delinearsi l’interesse per le conseguenze so­ ciali che quelle tecniche avevano sulle classi lavoratrici e sulla struttura della società in generale. Nel primo libro della Wealth of Nations, Smith ave­ va già correlato l’accumulazione del capitale, l’appropria­ zione della terra e, implicitamente, la divisione del lavo­ ro e l’esistenza delle classi con un conflitto di interessi tra i padroni e gli operai in merito alla determinazione del salario13. Piu oltre, sempre nel primo libro, trattan­ do del diverso sviluppo dell’economia urbana e di quel­ la agricola e dei loro reciproci rapporti, egli osservava incidentalmente che il mestiere dell’agricoltore richiede una « grande varietà di cognizioni e di esperienza »14, in quanto consiste di « varie e complicate operazioni »15 ; per contrasto, i mestieri esercitati in città, particolarmente i comuni mestieri meccanici, possono essere appresi fa­ cilmente perché « si ripetono sempre uguali, o quasi »16. Da queste considerazioni Smith traeva la conclusione che, a confronto degli artigiani della città, le capacità intellet­ tuali dei contadini sono relativamente più sviluppate17. Ma soltanto nel quinto libro egli tratta esplicitamente di alcuni effetti negativi della divisione del lavoro. La sem­ plicità delle operazioni, che precedentemente aveva indi­ cato quale uno dei principali fattori di aumento della pro­ duttività del lavoro, non richiede particolari doti intel­ lettuali e, poiché l’intelligenza si sviluppa nell’ambito di un’occupazione determinata, la divisione del lavoro con­ duce progressivamente all’atrofia delle facoltà umane. Costretto a passare tutta la vita compiendo poche sempli­ ci operazioni, l’uomo non ha più occasione di esercitare le proprie capacità inventive nel superare le difficoltà connesse a occupazioni più complicate e, dimenticando di essere membro attivo di una comunità, ne trascura gli interessi ed è incapace di difenderla dagli attacchi ester-

IL DILEMMA DELLA DIVISIONE DEL LAVORO

ni, « In tal modo pare che la sua destrezza nel proprio me­ stiere sia ottenuta a spese delle sue facoltà intellettuali, sociali e marziali. Ora, in ogni società progredita e inci­ vilita, è questo lo stato in cui deve necessariamente ca­ dere il povero lavorante, ossia la massa del popolo »18. Confrontando le società primitive a economia preindu­ striale con le società incivilite, Smith traeva un’importan­ te conclusione che fissa i limiti e la natura della sua cri­ tica alla divisione del lavoro. Se nelle società del primo tipo gli uomini possono sviluppare pienamente le loro ca­ pacità in occupazioni diversificate, nelle società progredi­ te e incivilite l’intorpidimento delle facoltà umane è il prezzo pagato per una «grande varietà di occupazioni nell’intera società » 19. In altri termini, in una società di ti­ po industriale e commerciale la divisione del lavoro re­ stringe le attività per ciascun individuo, ma le moltiplica per la società. Cosi le molte cognizioni, l’ingegnosità e l’inventiva non si trovano piu in coloro che sono inseriti nella struttura sociale della divisione del lavoro, ma in coloro che « non dedicandosi ad alcuna occupazione par­ ticolare, hanno l’agio e l’inclinazione di esaminare le oc­ cupazioni degli altri »20. Le persone che si trovano in una posizione sociale che consente loro di rimanere al di fuori della divisione del lavoro sono i privilegiati, in quanto godono dei vantaggi offerti da una società progredita, sen­ za subirne gli aspetti negativi. Esse costituiscono tuttavia un’esigua minoranza rispetto alla gran massa del popolo, e poiché nei paesi liberi, « nei quali la sicurezza del gover­ no dipende moltissimo dal giudizio favorevole che il po­ polo si possa formare della sua condotta, dev’essere cer­ tamente della massima importanza che il popolo non sia disposto a giudicarla temerariamente o capricciosamen­ te »21, Smith propone che lo stato intervenga attivamente promuovendo l’istruzione popolare. Nel Capitale Marx osserva che «A. Smith non ha pre­ sentato neppure una sola nuova proposizione sulla di­ visione del lavoro»22 e cita alcune opere anteriori alla Wealth of Nations nelle quali la specializzazione delle fun­ zioni viene collegata con una serie di effetti positivi, su cui ci siamo soffermati nel primo paragrafo. Questa tesi è sta-

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CAPITOLO PRIMO

ta ripresa da altri ed è ampiamente attendibile Piu oltre Marx, trattando del carattere capitalistico della manifat­ tura, sostiene che Smith, come discepolo di Adam Fergu­ son, aveva riprodotto le tesi della History of Civil Socie­ ty (1767) relative agli effetti negativi della divisione del lavoro24. Come Smith, infatti, anche Ferguson aveva dato una valutazione positiva e negativa della divisione del la­ voro. Nella History of Civil Society > illustrando le « con­ seguenze che risultano dal progresso delle arti civili e commerciali», Ferguson osservava che «un popolo, per quanto spinto da un senso di necessità e da un desiderio di agio, o favorito da una situazione o da una condotta vantaggiose, non può fare grandi progressi nel coltivare le arti della vita a meno che non abbia separato e affida­ to a differenti persone i diversi compiti che richiedono un’abilità e un’attenzione particolari »25. La migliore qua­ lità e la maggiore quantità dei prodotti si risolvono in un vantaggio sia per l’imprenditore, che vede diminuire le spese di produzione e aumentare i profitti, sia per il con­ sumatore, che può soddisfare meglio i suoi bisogni26. Tut­ tavia, se questi sono i vantaggi evidenti della suddivisio­ ne e della separazione delle arti e delle professioni, al­ trettanto evidenti apparivano a Ferguson i loro effetti negativi. Dopo aver osservato che «con la separazione delle arti e delle professioni si aprono le fonti della ric­ chezza »27, Ferguson solleva il problema che maggiormen­ te gli sta a cuore: « Si può anche dubitare se la misura della capacità nazionale aumenti con il progresso delle arti. Molte arti meccaniche, in vero, non richiedono capa­ cità alcuna; esse riescono meglio con una totale soppres­ sione del sentimento e della ragione, e l’ignoranza è la ma­ dre dell’industria come della superstizione. La riflessione e la fantasia sono soggette a errare, ma un’abitudine di muovere la mano o il piede è indipendente da entrambe. Di conseguenza, le manifatture prosperano moltissimo dove meno si consulta la mente e dove l’officina, senza un grande sforzo di immaginazione, può essere considerata come una macchina, le cui parti sono uomini »28. Da un lato la divisione del lavoro è fonte di ricchezza e si identi­ fica con il progresso delle arti e del commercio; dall’altro

IL DILEMMA DELLA DIVISIONE DEL LAVORO

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lato essa comporta una riduzione progressiva delle capa­ cità individuali, rese ormai inutili dalla specializzazione delle funzioni. Però la diagnosi di Ferguson non si ferma a un esame delle conseguenze del sistema manifatturiero del lavoro, ma investe la natura stessa della società che l’industria, con la divisione del lavoro che ne è la forza propulsiva, ha trasformato da barbara in civilizzata: « In base alla distinzione delle professioni, con cui i membri della società raffinata sono separati gli uni dagli altri, si ritiene che ogni individuo possegga i suoi talenti speciali o la sua abilità peculiare, in cui gli altri sono apertamente ignoranti, e la società è fatta consistere di parti, nessuna delle quali è animata con lo spirito della società stessa »29. Incasellati nella rigida struttura della divisione del lavo­ ro, gli individui si distinguono in base alle loro occupa­ zioni, ignorano tutto ciò che non rientra nell’ambito ri­ stretto delle loro attività e, pur contribuendo al progres­ so generale, non rivolgono la loro attenzione e i loro in­ teressi alla comunità cui appartengono30. Le differenzia­ zioni degli individui prodotte dalla divisione del lavoro conducono alla istituzione di una struttura gerarchica nel­ la società la quale conferisce alle differenti occupazioni un grado, una preferenza e una carica emotiva differen­ ti31. In tutto ciò Ferguson vede i presupposti di una so­ cietà in pericolo di dissoluzione. « Se le istituzioni nazio­ nali, adatte alla conservazione della libertà, invece di in­ vitare il cittadino ad agire per se stesso e a mantenere i suoi diritti, offrissero ima sicurezza e non richiedessero da parte sua nessuna attenzione o nessuno sforzo perso­ nale, questa apparente perfezione di governo potrebbe indebolire i legami della società e, in base a principi di in­ dipendenza, separare e estraniare i differenti ordini che si intendeva riconciliare»32. Le istituzioni politiche dello stato commerciale garantiscono la pace e lo sviluppo ar­ monico, ma nello stesso tempo, sollevando i cittadini dal­ la cura dell’interesse pubblico e affidandola a organismi separati, fanno perdere di vista le connessioni generali del­ la società33. Nello stato commerciale « l’uomo si trova co­ me un essere staccato e solitario: egli ha trovato un og­ getto che lo pone in competizione con i suoi simili e li trat­

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CAPITOLO PRIMO

ta come il suo bestiame e il suo podere, per amore dei pro­ fitti che gli procurano. La potente macchina che ritenia­ mo abbia formato la società tende soltanto a porre i suoi membri in contrasto o a far continuare i loro rapporti do­ po che i legami di affetto si sono spezzati »34. Ciascuno, preoccupato della sua sfera ristretta di competenza può ancora nutrire sentimenti di amicizia e di probità, i quali tuttavia nulla hanno che fare con lo spirito nazionale e conservano sempre quel carattere interessato che proviene dalla competizione in cui il commercio e la divisione del lavoro hanno posto gli individui gli uni nei confronti de­ gli altri. Non è difficile scorgere molte analogie tra le posizioni di Smith e quelle di Ferguson, e Marx aveva buoni motivi per attribuire una priorità all’analisi della History of Ci­ vil Society. Entrambi hanno centrato con particolare effi­ cacia il duplice significato della divisione del lavoro, da un lato mettendola in rappòrto con il progresso del commer­ cio e con rincivilimento della società e dall’altro lato rile­ vando il progressivo intorpidimento delle facoltà dell’uo­ mo ormai ridotto a elemento di una macchina. La pub­ blicazione delle lezioni che Smith aveva tenuto all’Università di Glasgow hanno modificato il rapporto di dipenden­ za stabilito da Marx e condiviso da altri nel corso del seco­ lo xix35. Fin dal 1763, infatti, cioè più di un decennio pri­ ma della pubblicazione della Wealth of Nations e quat­ tro anni prima della History of Civil Society, Adam Smith aveva già esposto nelle linee essenziali la sua teoria della divisione del lavoro come forza produttiva e aveva anti­ cipato il duplice punto di vista circa gli effetti della spe­ cializzazione dei mestieri che ricorrerà incidentalmente nella Wealth of Nations. Anche nelle Lectures, infatti, Smith aveva dato inizialmente una valutazione positiva della divisione del lavoro quando affermava che essa « au­ menta l’opulenza di un paese »36. Di qui egli proseguiva con il famoso esempio della manifattura degli spilli, mo­ strando come la divisione del lavoro moltiplichi il pro­ dotto. Ma, come poi nelle Wealth of Nations, egli osser­ vava subito che « in una società incivilita, benché ci sia una divisione del lavoro, non c’è un’eguale divisione, per­

IL DILEMMA DELLA DIVISIONE DEL LAVORO

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che c’è un gran numero di persone che non lavorano af­ fatto »37. E piu oltre, dopo aver accennato alle virtù di puntualità e di probità che, sconosciute in un paese bar­ baro, si ritrovano sempre in un paese commerciale38, av­ vertiva che «ci sono alcuni inconvenienti, tuttavia, che sorgono da uno spirito commerciale»39. Questi incon­ venienti consistono nel fatto che la divisione del lavoro restringe considerevolmente le capacità intellettuali del­ l’artigiano urbano a confronto dell’agricoltore, impedisce alla gran massa della popolazione di ricevere un’istruzio­ ne elementare e tende a estinguere lo spirito marziale nei cittadini40. Di fronte a questi problemi Smith non dava ancora una risposta pratica precisa e si limitava a osser­ vare che « rimediare a questi difetti sarebbe un oggetto degno di seria attenzione »41. È stato rilevato che, nonostante gli accenni agli aspetti limitativi della specializzazione del lavoro contenuti nelle Lectures e l’analisi sociologica più approfondita della di­ visione del lavoro in un contesto non strettamente econo­ mico condotta nella Wealth of Nations, Smith non rag­ giunge la sistematicità e profondità di pensiero che carat­ terizza la History of Civil Society42. È certo che la Wealth of Nations si apre con tre capitoli dedicati agli aspetti eco­ nomici della divisione del lavoro, che in tutta l’opera tro­ viamo continui riferimenti ai suoi vantaggi e alle sue im­ plicazioni per la produttività del lavoro43 e che le sue con­ seguenze dannose sono trattate soltanto incidentalmente nel quinto libro. D’altro lato l’esistenza delle classi, la de­ terminazione conflittuale del salario e la diseguale ripar­ tizione del prodotto - aspetti, questi, connaturati con la struttura stessa della società commerciale - non costitui­ scono per Smith una minaccia alla stabilità sociale44. Cosi la differenza tra l’agricoltura e l’industria per quanto con­ cerne il diverso sviluppo delle facoltà intellettuali non impedisce a Smith di riconoscere un grado maggiore di progresso economico alle società di tipo commerciale ri­ spetto a quelle agricole. Infine, Smith sembra più preoc­ cupato delle conseguenze negative della divisione manifat­ turiera del lavoro che non della divisione del lavoro nella società in generale. Nella misura in cui la divisione del la­

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CAPITOLO PRIMO

voro può costituire una minaccia alla stabilità delle isti­ tuzioni, esistono, secondo Smith, possibilità effettive di al­ terare il corso delle cose. Nel primo libro della Wealth of Nations, tra le conseguenze positive della divisione del la­ voro Smith aveva incluso anche l’invenzione delle macchi­ ne. Egli affermava che « in conseguenza della divisione del lavoro, tutta l’attenzione di ciascun uomo viene natural­ mente diretta verso qualche oggetto molto semplice. È quindi naturale attendersi che l’uno o l’altro di coloro, che si occupano di un ramo particolare di lavoro, trovi pre­ sto metodi più facili e più rapidi per eseguire il suo lavo­ ro particolare, ogni qual volta il carattere di tale lavoro ammetta un simile miglioramento. Gran parte delle mac­ chine che sono usate in quelle industrie in cui il lavoro è maggiormente suddiviso, furono originariamente inven­ zioni di operai comuni, i quali, ciascuno di loro essendo addetto a qualche operazione semplicissima, volsero na­ turalmente la loro attenzione a trovare metodi più facili e più rapidi per eseguirla »45. D’altro lato, a un grado più avanzato della tecnologia e della specializzazione del lavo­ ro, quando cioè l’area lavorativa ristretta ha istupidito gli operai e ne ha soppresso le capacità inventive, interven­ gono i costruttori di macchine e l’« ingegno di coloro che si chiamano filosofi, o uomini di speculazione, la cui pro­ fessione non è il fare qualche cosa, ma l’osservare ogni co­ sa, e i quali per questo motivo sono spesso capaci di com­ binare insieme le capacità degli oggetti più distanti e più diversi »46. Ciò significa che la divisione del lavoro, inve­ ce di arrestare il progresso tecnologico, ne costituisce un fattore propulsivo47. Più minacciosa appariva a Smith l’al­ tra conseguenza della divisione del lavoro, cioè l’ignoran­ za della gran massa del popolo. Ma, anche in questo caso, egli dispone di un rimedio: l’istruzione popolare gestita dallo stato è l’indicazione precisa che Smith avanza per rimediare ai mali inevitabili della società industriale48. Più complessa e articolata è la posizione di Ferguson. Senza dubbio, egli è più interessato a un’analisi sociolo­ gica che collochi la divisione del lavoro in un contesto non economico, e la sua analisi della separazione delle arti e delle professioni sembra assumere una forma maggior­

IL DILEMMA DELLA DIVISIONE DEL LAVORO

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mente dilemmatica e, entro certi limiti, mettere in que­ stione l’impalcatura stessa dello stato commerciale49. Ma anch’egli, in ultima analisi, finiva col giustificare la società scozzese del suo tempo, impegnata in una profonda tra­ sformazione delle vecchie strutture feudali. La teoria del­ lo sviluppo economico - comune a Smith, a Ferguson e ad altri pensatori dell’illuminismo scozzese50 - non con­ sente un ritorno alle società preindustriali né il vagheg­ giamento romantico dell’ideale classico dell’uomo dedito a diverse attività, esperto nelle arti militari e nella politi­ ca e sviluppato in tutte le sue facoltà. C’è un principio che connette le società civilizzate con quella barbara e primitiva: queste società sono legate alla propensione umana al perfezionamento e la divisione del lavoro è un elemento indissolubile di questo sviluppo. Di qui l’inevitabilità del cambiamento nella struttura sociale, in con­ nessione con lo sviluppo economico; lo stato commerciale appariva come il prodotto finale di un processo storico che era iniziato con le società primitive. È vero che il tono cambiava quando Smith e Ferguson consideravano gli effetti dello sviluppo economico sulla società in generale, ma esistevano soluzioni a portata di mano. Smith era in­ dotto a invocare l’intervento dello stato e Ferguson ve­ deva nella « monarchia mista » la forma di governo che avrebbe saputo riconoscere l’esistenza dei conflitti ine­ renti alle società commerciali e sarebbe stata capace di incanalarli nelle forme istituzionali51. Comunque, resta interessante il fatto che, agli albori della rivoluzione in­ dustriale, Smith, Ferguson e altri pensatori scozzesi fos­ sero consapevoli che lo sviluppo della società commer­ ciale poneva problemi la cui drammaticità si sarebbe fatta sentire alcuni decenni piu tardi. « Nessun autore, neppu­ re Smith, - ha scritto Schumpeter, - ebbe un’idea pro­ prio chiara di quel che veramente significasse il processo che poi gli storici economici hanno chiamato "rivoluzione industriale” »52. Le conseguenze dello sviluppo economico sulla condizione umana, su cui hanno insistito gli illumi­ nisti scozzesi, non saranno però estranee agli interessi e alle preoccupazioni di coloro che, nella prima metà dell’Ottocento, porteranno la loro attenzione sulla miseria

CAPITOLO PRIMO 24 delle classi lavoratrici, sulla disoccupazione tecnologica, sul lavoro infantile e, più in generale, sulla dissoluzione delle istituzioni tradizionali.

3. Gli anni difficili del sistema di fabbrica.

All’inizio del secolo xvm l’organizzazione del lavoro nel settore cotoniero non differiva molto da quella degli altri settori tessili, essendo basata essenzialmente sul si­ stema domestico53. « In questo sistema domestico il pa­ dre tesseva e metteva i figli a far pratica nella tessitura. La madre era responsabile dei processi preparatori; in genere filava, insegnava alle figlie come filare e distribuiva l’inserzione, il lavaggio, l’essiccazione, la cardatura, e co­ sì via, tra i bambini »54. In secondo luogo, mancava una differenziazione tra l’agricoltura e l’industria: la famiglia alternava stagionalmente il lavoro dei campi a quello del­ la tessitura, che generalmente costituiva un’attività colla­ terale. Soprattutto dopo la metà del secolo xviii, un rapido tasso di sviluppo esercita una pressione crescente sulla struttura industriale e commerciale inglese, dando inizio a un processo di differenziazione dell’attività produttiva all’interno del sistema domestico. Secondo uno dei primi storici ottocenteschi dell’industria cotoniera inglese, «i manifatturieri ben presto trovarono che non potevano soddisfare l’accresciuta domanda di panni, e la prima con­ siderazione fu come dovessero produrne una maggiore quantità nelle loro rispettive famiglie. Venne loro in men­ te naturalmente che, se avessero avuto un altro telaio o un altro braccio per filare, avrebbero potuto soddisfare questa domanda supplementare. Ma, se erano già tutti occupati, ciò non si sarebbe potuto fare, a meno che non si fossero potuti organizzare in qualche modo, in base al quale lo stesso numero di braccia potesse produrre una maggiore quantità di panno. Separando le loro differen­ ti operazioni e dividendole, con un certo ordine, tra i dif­ ferenti membri della famiglia, essi trovarono che si sa­ rebbe potuto produrre di più. Ma nella piccola cerchia

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di una singola famiglia la divisione del lavoro non poteva essere portata lontano. La considerazione successiva fu: se avessero potuto indurre un vicino a cardare o a filare per loro, sarebbero stati in grado di tessere una quantità ancora piu grande »55. Certe operazioni, come la tessitu­ ra e altri processi preparatori, continuano a essere svolti nella famiglia; altri, invece, come la filatura e la cardatura, vengono affidati a sottofornitori. I mercanti, poi, i co­ siddetti fustian masters, acquistavano le materie prime e le distribuivano ai tessitori, i quali assumevano una certa responsabilità direttiva sulla quantità del prodotto. In­ fine, il fustian master vendeva il prodotto ai veri e propri mercanti. Intorno al 1760, l’introduzione in tutte le branche del­ l’industria tessile della spola volante permise di raddop­ piare la produttività del vecchio telaio a mano, determi­ nando un grave squilibrio nel settore poiché il filo pro­ dotto dai filatori non era più sufficiente ad alimentare il processo della tessitura. Il sistema domestico cominciava a manifestare i suoi limiti intrinseci e, contemporanea­ mente, iniziavano i primi tentativi per superare la stroz­ zatura tecnologica. Con l’introduzione della jenny a par­ tire dal 1767, e con i miglioramenti continuati per più di un decennio, divenne possibile fronteggiare la scarsità di filo per la trama e impiegare un numero maggiore di bambini e di donne. L’uso della forza motrice manuale richiesta da questa macchina, il basso costo e le sue limita­ te dimensioni permisero di ristabilire un equilibrio ancora all’interno del sistema domestico56. Ma, a misura che il numero dei fusi aumentava, diventava sempre più diffi­ cile azionare la jenny a mano e, contemporaneamente, di­ minuiva rapidamente il numero delle persone in grado di investire capitali nell’acquisto di un numero rilevante di macchine. In questo stesso periodo l’invenzione del te­ laio ad acqua, generalmente attribuita a Richard Ark­ wright, permise di superare la scarsità di filo per l’ordito e pose le premesse del sistema di fabbrica vero e proprio, che si sviluppò rapidamente tra il 1774 e il 1785 : « allor­ ché la jenny ebbe compiuto il suo corso innovativo e il te­ laio ad acqua si trovava nello stesso processo, pervenia­

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mo a una soluzione temporanea dello squilibrio nella pro­ duzione di certe specie di panno. I due nuovi tipi di or­ ganizzazione — il cottage costruito attorno alla jenny e l’antica fabbrica costruita attorno al telaio ad acqua - ave­ vano realizzato un equilibrio »57. Tra il 1770 e il 1780 si assiste a un processo di concentrazione della filatura alla jenny e della cardatura a macchina; questo fatto, unita­ mente ai precedenti, condusse la jenny all’interno della fabbrica. Viceversa, la mule di Crompton (1779), che per­ metteva di filare un filo di finezza eccezionale, rimase per un decennio nell’ambito del sistema domestico. « Il si­ stema di fabbrica in Inghilterra prende le mosse da que­ sto periodo. Finora la lavorazione del cotone era stata condotta quasi interamente nelle case dei lavoratori: i cardi a mano, il filatoio e il telaio non richiedevano una stanza più grande di quella di un cottage. Una jenny di piccole dimensioni poteva essere usata anche in un cot­ tage, e così fu in molti casi; quando il numero di fusi ven­ ne aumentato considerevolmente, vennero usati labora­ tori adiacenti. Ma il telaio ad acqua, la cardatrice e le al­ tre macchine, che Arkwright perfezionò, richiedevano più spazio di quanto si potesse trovare in un cottage e più forza di quanta si potesse applicare con il braccio uma­ no. Anche il loro peso rendeva necessario collocarle in fabbriche solide ed esse non potevano essere azionate van­ taggiosamente da nessun’altra forza allora conosciuta se non da quella idraulica. L’uso del macchinario fu accom­ pagnato da una divisione del lavoro maggiore di quella che esisteva nello stato primitivo della lavorazione; il ma­ teriale passò attraverso processi molto più numerosi, e naturalmente la perdita di tempo e il rischio di sprechi sarebbero aumentati molto se fosse stato necessario spo­ starlo da una casa all’altra a ogni stadio della lavorazione. Divenne chiaro che c’erano parecchi importanti vantaggi nel condurre nello stesso edificio le numerose operazioni di una lavorazione su vasta scala. Se si richiedeva la forza idraulica, era economico costruire un’unica fabbrica e montare una sola ruota idraulica, invece che parecchie. Questa organizzazione permise anche allo stesso proprie­ tario filatore di sorvegliare ogni stadio della lavorazione:

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27 gli diede una maggiore sicurezza contro lo sciupio o il consumo fraudolento del materiale; risparmiò tempo nel trasferimento del lavoro da una mano all’altra ed evitò il grave inconveniente che sarebbe derivato dall’incapacità di una classe di lavoratori di svolgere la loro parte quan­ do parecchie altre classi di lavoratori dipendevano da loro. Un’altra circostanza che rese vantaggioso avere un gran numero di macchine in una manifattura è che i meccanici devono essere impiegati sul posto per costruire e riparare il macchinario e che il loro tempo non avrebbe potuto es­ sere occupato completamente soltanto con poche macchi­ ne. Tutte queste considerazioni spinsero i filatori di co­ tone a quell’importante cambiamento nell’economia del­ le manifatture inglesi: l’introduzione del sistema di fab­ brica; e una volta adottato quel sistema, i suoi vantaggi pecuniari sarebbero stati tali che la competizione mercan­ tile avrebbe reso impossibile abbandonarlo, anche se fos­ se stato desiderabile »58. In questa fase iniziale, tuttavia, il sistema di fabbrica conservò molti aspetti della fami­ glia tradizionale59. Nel 1785 la macchina a vapore di Boulton e Watt fu usata per la prima volta in una filanda. Nonostante l’im­ portanza del vapore per gli ulteriori sviluppi dell’indu­ stria, esso « non creò il moderno sistema di fabbrica, ma prestò a questo sistema il suo potere e gli conferì una for­ za di espansione irresistibile quanto se stesso »60. D’altro lato, la macchina a vapore spinse a un più alto livello di specificità i ruoli già esistenti. Anzitutto, il numero di persone in possesso di capitali sufficienti per installare il nuovo macchinario si ridusse ulteriormente e, di conse­ guenza, venne accelerato il processo di differenziazione tra il controllo dei capitali e i ruoli legati al processo di produzione. Nello stesso tempo la disciplina degli operai nel processo produttivo si fece più rigida61. Nonostante questi progressi tecnologici, tra il 1785 e i primi anni del secolo xix, cioè durante il periodo rivoluzionario e le guerre napoleoniche, non si verificò un aumento della produzione quale ci si poteva aspettare. La situazione in­ ternazionale ritardò per un ventennio il pieno sfrutta­ mento delle capacità produttive esistenti62.

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Il progressivo assorbimento della jenny e della mule nelle fabbriche, lo sviluppo dell’industria urbana e la con­ seguente emigrazione verso le città sono i principali fe­ nomeni che tra il 1790 e il 1820 esercitano forti pressio­ ni sulla struttura della famiglia operaia. La progressiva dispersione degli individui nelle fabbriche e l’occupazio­ ne femminile e infantile tendono ad alterare la solidarietà della famiglia e i rapporti tradizionali tra i suoi membri. Comunque, questo processo di spersonalizzazione dei rap­ porti sociali e di differenziazione dei ruoli viene ritar­ dato almeno fino al 1820 da una serie di correttivi che ri­ producono in qualche modo nella fabbrica i rapporti tradi­ zionali. La natura stessa del macchinario impiegato in questo periodo facilitava, piuttosto che ostacolare, i legami na­ turali e affettivi. Per esempio, i giuntatori e in genere gli aiutanti venivano assunti direttamente e a proprie spese dagli operai filatori, i quali naturalmente davano la preferenza ai propri figli63. Questo assetto temporaneo del sistema di fabbrica è stato descritto e criticato da Ure, che lamentava lo spirito di indipendenza e le irregolarità di lavoro degli operai filatori; e Baines, a proposito dei tes­ sitori, osservava che « sotto certi aspetti la loro occupa­ zione è più piacevole, poiché li pone sotto un controllo minore di quello del lavoro di fabbrica. Rimanendo nei loro cottages, il loro tempo è a loro disposizione: possono cominciare e interrompere il lavoro a loro piacere; non sono costretti a obbedire puntualmente alle chiamate della campana di fabbrica; se ne hanno voglia, possono lascia­ re il loro telaio per il bar o gironzolare per la strada o ac­ cettare qualche altro lavoro e, quando sono spinti dalla necessità, possono riguadagnare il tempo perduto con un grande sforzo. In breve, sono piu indipendenti degli ope­ rai di fabbrica; sono i padroni di se stessi»64. La tessitu­ ra era rimasta un’industria domestica, allorché gli altri processi produttivi avevano già fatto il loro ingresso nel­ la fabbrica. Inoltre, essa costituiva ancora un settore ar­ tigiano privilegiato. La meccanizzazione della filatura, in­ fatti, aveva rovesciato il rapporto tra questo processo pro­ duttivo e quello della tessitura: ora era il telaio a mano

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che non riusciva a produrre una quantità sufficiente di tes­ suto. « Quando questa meravigliosa serie di macchine fu fatta conoscere e per il loro tramite vennero prodotti fili di qualità molto superiore a qualsiasi altro filato a quel­ l’epoca in Inghilterra, e inoltre di prezzo inferiore, fu im­ presso un potente impulso alla lavorazione del cotone. Ora i tessitori potevano ottenere una quantità illimitata di filo, a un prezzo ragionevole; i manifatturieri potevano usare orditi di cotone che erano molto piu a buon merca­ to degli orditi di lino usati in precedenza. I tessuti in co­ tone potevano essere venduti a un prezzo più basso di quanto non fosse stato mai conosciuto. Conseguentemen­ te, la loro domanda aumentò. La navetta volava con nuo­ va energia e i tessitori guadagnavano salari eccessivamen­ te alti »65. Questo periodo transitorio del sistema di fabbrica si riflette in maniera significativa anche nella legislazione di fabbrica dei primi due decenni del secolo xix. Il proble­ ma delle condizioni sociali e sanitarie delle classi lavora­ trici non era nuovo. Verso la fine del secolo xvm, alcuni medici incaricati dalle autorità locali di scoprire le cause delle epidemie scoppiate nei grossi centri urbani e di in­ dicarne i rimedi avevano reso di dominio pubblico il pro­ blema delle conseguenze sociali dell’industrialismo. A Manchester, in occasione di un’epidemia di febbre conta­ giosa scoppiata nel 1784, un gruppo di medici raccolti at­ torno al dottor Percival condusse un’inchiesta sulle cause del contagio66, rinvenendole nella concentrazione della po­ polazione nei borghi industriali, nell’assembramento degli operai nelle fabbriche, nell’eccessiva durata della giornata lavorativa dei giovani e nelle scadenti condizioni igieniche delle città. L’ulteriore diffusione delle epidemie portò nel 1795 all’istituzione del Manchester Board of Health e nel 1796 Percival stese delle Resolutions in cui consi­ gliava una regolamentazione legislativa dell’orario e del­ le condizioni di lavoro e controlli rigorosi, auspicando la generalizzazione delle migliori condizioni di lavoro già esistenti in certe fabbriche67. Il campo su cui Percival aveva lavorato - i grandi cotonifici di Manchester e din­ torni - è significativo poiché costituisce la classica scelta

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e il punto di riferimento obbligato di una schiera di in­ tellettuali di tutt’Europa che studieranno l’industria in Inghilterra, la concentrazione urbana a Manchester e la classe operaia nel settore tessile. L’intento di questi me­ dici non era la formulazione di una critica teorica o ideo­ logica al sistema economico del laisser faire e del liberali­ smo, ma le loro proposte di intervento legislativo e di ri­ forma sociale muovevano da un’osservazione spregiudica­ ta della situazione all’indicazione dei rimedi che essa stes­ sa imponeva. Queste ricerche traevano origine da interessi professionali immediati e non aspiravano a quella sistema­ ticità e a quelle generalizzazioni che saranno lo scopo di molti intellettuali dell’ottocento. Tuttavia, a queste pri­ me inchieste va attribuito in larga misura il merito di aver spostato l’attenzione da una considerazione strettamente economica della fabbrica all’analisi delle sue con­ seguenze sociali e di avere individuato una direzione di ricerca fondamentale ~ le condizioni fisiche dei lavorato­ ri - che, insieme all’indagine sulle condizioni morali, co­ stituirà l’area dei problemi della sociologia dell’industria al suo primo nascere; inoltre, la ricerca delle cause del disagio fisico dei lavoratori si sposta dal semplice esame delle malattie professionali alle loro cause specificamen­ te sociali, dentro e fuori la fabbrica68. È interessante, tuttavia, il fatto che i promotori di ima legislazione di fabbrica erano interessati esclusivamente al problema degli apprendisti, i cui maltrattamenti nelle ma­ nifatture che li impiegavano erano noti da tempo69. In­ fatti, nel 1802 Robert Peel fece approvare The Health and Morals of Apprentices Act, che riguardava i giovani apprendisti provenienti dalle parrocchie e quindi soggetti alle leggi sui poveri. Questa legge fissava a dodici ore la durata della giornata lavorativa, eliminava il lavoro not­ turno e rendeva obbligatoria l’istruzione elementare70. È stato osservato che questa legge « segnò la fine piuttosto che l’inizio di un’era legislativa »71, in quanto essa mira­ va piu a mantenere che a rivoluzionare le relazioni tradi­ zionali tra il padrone e l’apprendista. In pratica, la legge non venne rispettata e alcuni preferirono impiegare fan­ ciulli delle città non soggetti alla legge sui poveri72. Con

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le leggi successive si cercò di ovviare a questo inconve­ niente, estendendo l’ambito delle categorie soggette alla regolamentazione: nel 1819 il limite d’età per i fanciul­ li impiegati nei cotonifici venne portato a nove anni e l’orario lavorativo fu ridotto a dodici ore per quelli dai no­ ve ai sedici anni73. Anche in questo caso la legge non fu assolutamente rivoluzionaria; poiché i bambini potevano continuare a lavorare durante le stesse ore degli adulti, la legge non faceva altro che riflettere quel tipo di acco­ modamento della struttura sociale che aveva condotto la famiglia all’interno della fabbrica74. Nel corso del secondo decennio del secolo l’equilibrio tra la struttura dei rapporti sociali e l’organizzazione in­ dustriale del lavoro viene spezzato da una serie di cam­ biamenti simultanei. Sebbene il processo di concentra­ zione delle fabbriche e della popolazione dalla campagna alla città fosse in corso da tempo, certi cambiamenti tec­ nologici avvennero abbastanza rapidamente. A partire dal 1785, allorché Cartwright brevettò un primo model­ lo di telaio, si succedettero una serie di tentativi e di per­ fezionamenti. Intorno al 1820 il telaio azionato da una macchina a vapore aveva già una posizione competitiva che determinò un rapido e drammatico declino dei tes­ sitori a mano. Tra i miglioramenti tecnologici verificatisi nella filatura dopo il 1820, il più importante fu l’inven­ zione della self-acting mule (1825), che sostituì il ruolo del filatore altamente specializzato con quello di un sem­ plice sorvegliante e allontanò ulteriormente il controllo del capitale dal processo di produzione. Infine, il proces­ so di concentrazione iniziato in questi anni e concluso in­ torno alla metà del secolo condusse alla formazione di grossi complessi industriali in cui la filatura e la tessitura erano combinate in un unico processo produttivo. Fino agli anni ’20 l’andamento discontinuo delle tra­ sformazioni economiche e tecnologiche si era riprodotto negli atteggiamenti delle classi su cui veniva esercitata la pressione e sulle soluzioni legislative in cui quegli atteg­ giamenti venivano in qualche modo riconosciuti; ma nel decennio successivo le linee di sviluppo divergono. Da un lato le classi lavoratrici coinvolte nei cambiamenti

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tecnologici cercano o di conservare l’equilibrio tra il si­ stema di fabbrica e una forma tradizionale di struttura fa­ miliare oppure di ripristinare forme economiche preindu­ striali. Il cobbettismo prima e il movimento cooperativo poi, che, seppure in forme diverse, miravano a ristabilire un tipo di economia domestica in contrasto con la diffe­ renziazione tra il lavoro agricolo e quello industriale, tro­ vano i loro maggiori sostenitori tra le classi artigiane in via di estinzione e soprattutto tra i tessitori a mano. At­ traverso la richiesta di una riduzione della giornata lavo­ rativa a dieci ore, gli operai di fabbrica intendevano garan­ tire la continuità dei legami familiari nella fabbrica bloc­ cando il processo di differenziazione e di spersonalizzazio­ ne indotto dalle trasformazioni tecnologiche in corso75. In questo quadro si situa l’azione politica del movimento per le dieci ore. Esso ebbe una natura molto composita: vi aderirono degli economisti classici e alcuni manifatturieri filantropici e su posizioni tory; ma coloro che si misero al­ la testa del movimento e ne formarono l’ideologia furono un gruppo di umanitari tory ed evangelici come Richard Oastler, Michael Sadler, il reverendo George Stringer Bull e Lord Ashley76. Attraverso la richiesta della ridu­ zione dell’orario di lavoro per i bambini e i giovani, questi uomini in realtà investivano lo stesso sistema di fabbrica. « La costituzione di questo paese e il presente sistema di fabbrica non possono esistere a lungo assieme; i loro prin­ cipi sono tanto opposti quanto la luce e le tenebre » - di­ chiarava Oastler77, e Sadler faceva eco proclamando che il sistema di fabbrica « turbava la pace della natura, ren­ dendo le città come in stato d’assedio »78. La filosofia so­ ciale di Oastler e di Sadler non era altro che una difesa della società tradizionale basata su un’economia dome­ stica indifferenziata e organizzata attorno alle funzioni produttive e affettive del padre. Nel discorso tenuto alla Camera dei Comuni il x 6 marzo 1832, Sadler, attaccando i liberali che si opponevano a qualsiasi intervento statale nel rapporto di lavoro, dichiarava che né l’operaio adulto né tanto meno i bambini erano liberi agenti di fronte ai padroni79 e offriva un quadro terrificante delle condizioni di vita delle classi lavoratrici nelle fabbriche. Esponendo

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i mali fisici e morali del sistema di fabbrica, egli compren­ deva nei primi l’orario di lavoro, la giovane età e il lavoro estenuante dei bambini e, in genere, il cattivo stato di salute degli operai80; e nei secondi l’immoralità, l’alco­ lismo, ma soprattutto la rottura dei rapporti tra padre e figlio81 e il rovesciamento dei ruoli nella famiglia82. In questi anni erano apparsi numerosi pamphlets che attaccavano il sistema di fabbrica imputandogli una serie di mali fisici e morali, e i cui autori erano legati al movi­ mento per le dieci ore o comunque interessati a una rifor­ ma legislativa. Furono soprattutto i medici, che conosce­ vano direttamente i distretti industriali dell’Inghilterra, a dare un contributo ai riformatori nella loro azione fuo­ ri e dentro il parlamento. Nel 1831 uscirono le Remarks on the Health of English Manufacturers del medico scoz­ zese John Roberton eThe Effects of the Principal Arts, Trades, and Professions di Charles Turner Thackrah83. Thackrah era un medico di Leeds che attaccava direttamente il sistema di fabbrica e auspicava un intervento le­ gislativo. Nello stesso anno una Enquiry into the State of the Manufacturing Population — scritta da un anonimo manifatturiere84 - confermava le opinioni dei medici. Il reverendo George Stringer Bull, che divenne un attivo leader del movimento, osservava che i mali della fabbri­ ca sono « la perdita o l’assenza di influenza dei genitori e di affetto filiale, in conseguenza dell’età giovanissima in cui i bambini sono mandati a lavorare, e la coercizione, maggiore o minore, con cui s’accompagna, sia da parte dei genitori sia da parte di coloro che sorvegliano il bam­ bino »85. Gli scritti che godettero di maggiore popolarità in que­ sti anni furono la biografia di Robert Blinco scritta da John Brown86 e il pamphlet del dottor James Kay87. Nono­ stante l’utilizzazione dell’opera di Kay fatta dagli agita­ tori del movimento per le dieci ore, egli non condivideva le loro tesi. Kay era un liberale che auspicava l’elimina­ zione dei monopoli, il libero commercio e l’abrogazione delle leggi sul grano. Egli era convinto della bontà del si­ stema commerciale; i mali sono conseguenze accidentali e non necessarie di questo sistema e vanno imputati al ri­

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tardo delle istituzioni nei confronti dello sviluppo indu­ striale88. Cosi Kay prendeva posizione contro il movi­ mento per le dieci ore sostenendo che, nelle attuali condi­ zioni di restrizione del commercio, una riduzione dell’o­ rario di lavoro si sarebbe risolta in un danno maggiore89. Dall’altro lato, egli era convinto che la riforma auspicata dai leaders del movimento non sarebbe bastata a risolvere i problemi delle classi lavoratrici. Per Kay occorreva un lungo processo di adeguamento delle strutture istituzio­ nali alle mutate condizioni economiche e sociali; quindi, oltre all’eliminazione delle restrizioni commerciali, egli indicava in un cambiamento di mentalità dei capitalisti nei confronti dei lavoratori e soprattutto in un « sistema generale di istruzione »90 gli strumenti di una politica gra­ dualistica e a lungo termine91. Nonostante la moderazione della sua posizione politica, Kay non si risparmiava nel denunciare i mali fisici e morali delle classi lavoratrici dei distretti manifatturieri e soprattutto a Manchester, e adot­ tava un linguaggio che non si discosta molto dai più duri attacchi degli agitatori. Cosi egli descriveva a tinte fo­ sche le condizioni sanitarie delle città industriali e delle fabbriche e le loro conseguenze sociali92. Ma è interessan­ te osservare che tra i mali morali e sociali egli indicava so­ prattutto la dissoluzione della vita domestica e il deterio­ ramento dei ruoli nella famiglia93. Tuttavia, a differenza di Sadler, di Oastler e di altri uomini impegnati nel mo­ vimento per le dieci ore, la posizione di Kay è più arti­ colata. Sebbene faccia appello alla responsabilità pater­ nalistica dei capitalisti, egli si rende conto che l’istru­ zione pubblica prelude a un riassestamento dei ruoli fa­ miliari a un differente livello di specificazione, in cui al­ cune funzioni di socializzazione, che il sistema di fabbri­ ca non permette più di svolgere nell’ambito della fami­ glia, vengono svolte all’esterno da istituzioni formali fi­ nanziate dallo stato. Nel gennaio del 1833 viene nominato un comitato par­ lamentare, sotto la presidenza di Sadler, per indagare le condizioni fisiche e morali dei bambini e dei giovani nelle fabbriche, allo scopo di offrire al parlamento una cono­ scenza ufficiale dei fatti. In brevissimo tempo Sadler e i

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suoi amici riescono a mettere insieme una serie di testi­ monianze agghiaccianti. Il grande imputato era il sistema di fabbrica. Attraverso la richiesta di una riduzione del­ l’orario di lavoro per i bambini e i giovani, i Tories mira­ vano a una drastica riduzione della giornata lavorativa per tutti, adulti compresi, dando un colpo solenne alla clas­ se imprenditoriale. Ma il gioco politico era troppo scoper­ to. I criteri con cui Sadler aveva raccolto le testimonian­ ze furono violentemente criticati e la questione venne de­ mandata a una nuova commissione parlamentare. Il si­ stema di fabbrica non aveva ancora trovato un suo equi­ librio nell’ambito del sistema sociale piu ampio.

4. La divisione del lavoro come tecnica razionale: la specializzazione delle funzioni lavorative. Coloro che iniziarono a interessarsi all’effettivo funzio­ namento di una grande industria ritenendo che i processi lavorativi meritassero di essere studiati indipendentemen­ te mediante opportuni strumenti di osservazione, furono uomini che provenivano dalle scienze fisico-matematiche. Coulomb, Babbage e piu tardi Ure sono consapevoli della legittimità di considerare i processi lavorativi come campo autonomo di ricerca e nello stesso tempo insistono con vigore sull’urgenza di condurre indagini in quella dire­ zione. Charles Babbage 94 era giunto ai problemi dell’organiz­ zazione del lavoro industriale da originari interessi mate­ matici incentrati in particolar modo sulla costruzione del­ le macchine calcolatrici. L’incontro con ingegneri mecca­ nici che lavoravano nel campo dell’ingegneria industriale e l’occasione di visitare un gran numero di fabbriche in­ glesi gli permisero di raccogliere un’ingente quantità di materiale informativo sui vari processi industriali e sulle particolari caratteristiche delle macchine impiegate. Di ritorno da un viaggio all’estero, che gli permise di comple­ tare la sua conoscenza in questo campo, tenne una serie di conferenze sulla razionalizzazione dei processi lavorativi

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industriali, successivamente raccolte nel libro On the Eco­ nomy of Machinery and Manufactures (1832). Partendo da alcune osservazioni di Coulomb, egli svi­ luppa i problemi di metodologia dell’osservazione e della costruzione dei questionari, dedicandovi un intero capi­ tolo della sua opera95. Anzitutto, il questionario orien­ ta e facilita l’osservazione, evitando una perdita di tem­ po e favorendo l’attenzione dello studioso che esperi­ sce direttamente un processo lavorativo. A questo sco­ po il questionario offre un utile schema di riferimento dei più importanti argomenti da sottoporre all’osservazione: esso sarà redatto sotto forma di un insieme di domande, la cui risposta è prevista disponendo spazi bianchi o in­ dicando le alternative possibili che potranno essere ra­ pidamente scartate. Particolarmente interessanti sono al­ cune osservazioni sull’interferenza dell’osservatore nel fenomeno osservato: quando si voglia valutare la veloci­ tà di esecuzione delle operazioni lavorative, occorre evi­ tare di farsi notare dall’operaio, il quale tende in genere ad accelerare il ritmo di lavoro quando si sente osserva­ to. In questi casi si possono adottare due alternative: o richiedere la quantità giornaliera di produzione dell’ope­ raio, oppure adottare accorgimenti che evitino l’interfe­ renza dell’osservazione96. Sempre a questo proposito, Babbage opera un’utile distinzione tra le domande diret­ te e le domande indirette, dove le seconde hanno la fun­ zione di verificare l’esattezza delle prime97. Tra le varie domande che Babbage incluse nel suo que­ stionario, due presentano un particolare interesse in quan­ to mettono in luce i problemi di fondo che devono esse­ re affrontati dalla «scienza delle manifatture»; sono le domande inerenti ai gradi di abilità richiesti dalle singo­ le operazioni e la frequenza delle operazioni eseguite nel­ l’unità di tempo. Babbage sistematizza tutte le osserva­ zioni frammentarie che erano state compiute dagli eco­ nomisti e che facevano ormai parte del patrimonio comune della letteratura economica del tempo98; è utile pertanto riassumerle per avere un quadro completo di quei vantag­ gi della divisione del lavoro universalmente riconosciuti quali fattori di aumento della produttività. Il carattere co-

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mune di questi fattori risiede nella riduzione del tempo di lavoro necessario alla produzione delle merci. La specializ­ zazione delle operazioni, che richiede un tempo minore di apprendistato, ha come conseguenza l’economia delle spe­ se di apprendistato e procura piu rapidamente all’operaio una situazione di indipendenza che lo mette in una posi­ zione di vantaggio nel mercato del lavoro. Nello stesso tempo, diminuendo il periodo di apprendistato, diminui­ sce anche la quantità di materiale sprecato in quel pe­ riodo. Quando l’operaio si applica a un’operazione, met­ te in moto forza muscolare e attenzione che, dopo un pe­ riodo più o meno lungo di adattamento, consentono di raggiungere l’effetto utile con il massimo di efficienza. Na­ turalmente, se questo periodo di adattamento dovesse ri­ petersi durante una stessa giornata lavorativa, a causa del frequente passaggio da un tipo all’altro di operazione la somma dei tempi di adattamento sarebbe sempre mag­ giore che se l’operaio si applicasse esclusivamente a una sola operazione. Lo stesso discorso vale per il periodo di assestamento degli strumenti e delle macchine, che sarà minore se essi vengono regolati una volta per tutte e adi­ biti sempre alla stessa operazione. L’applicazione dell’o­ peraio a una stessa operazione e allo stesso strumento po­ ne le condizioni per ulteriori perfezionamenti sia nell’e­ secuzione manuale delle operazioni sia negli strumenti. Petty, Smith e altri economisti del secolo xvm avevano compiuto queste osservazioni in maniera frammentaria, partendo dal riconoscimento dell’esistenza di una certa divisione del lavoro già in funzione nelle manifatture e dei vantaggi che ne derivavano. Il punto di partenza degli studiosi dell’organizzazione del lavoro è l’elaborazione di modelli razionali che permettano di applicare la divisione del lavoro con il massimo di efficienza, aumentando la pro­ duttività nell’unità di tempo. La costruzione di modelli razionali di divisione del lavoro comportava l’adozione di metodi adeguati quali Y analisi quantitativa, allo scopo di stabilire la misura precisa di abilità e di forza richieste dalle singole operazioni. Babbage osservava che « il pa­ drone della manifattura, dividendo il lavoro da eseguirsi in differenti processi, poiché ognuno richiede differenti

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gradi di abilità e di forza, può ottenere esattamente quel­ la precisa quantità di entrambe, quale è necessaria per ogni processo; mentre, se il lavoro complessivo fosse ese­ guito da un solo lavoratore, questa persona dovrebbe pos­ sedere sufficiente abilità per fare la cosa piu difficile e suf­ ficiente forza per quella più faticosa, rispetto alle opera­ zioni in cui il mestiere è suddiviso »99. Per Babbage, dun­ que, la divisione del lavoro non è tanto la soluzione già pronta del problema dell’organizzazione razionale del la­ voro, quanto una sua condizione. Gli economisti del Set­ tecento si limitavano a indicare nella divisione del lavo­ ro la maniera per impiegare una quantità determinata di capitale con il massimo di produttività. Babbage, invece, dà come presupposte le condizioni economiche della di­ visione del lavoro e si chiede quali siano le condizioni or­ ganizzative che massimizzano l’efficienza della divisione del lavoro. Lo strumento che permette di risolvere que­ sto problema è l’analisi dei metodi di lavoro. Tale analisi viene condotta sui fattori che concorrono in ogni opera­ zione lavorativa a ottenere il maggiore effetto possibile, e cioè il peso dell’arto, il peso dello strumento e la fre­ quenza della ripetizione di una stessa operazione. L’anali­ si dei metodi di lavoro si configura da un lato come studio della fatica, che deve tener conto non soltanto della fati­ ca muscolare, ma anche di quella derivante dalla frequen­ za di ripetizione delle operazioni, e, dall’altro lato, come studio dei gradi di abilità richiesti da ogni operazione. I risultati di questi studi permettono di stabilire in modo rigoroso il numero delle operazioni in cui un processo la­ vorativo dev’essere suddiviso, la quantità di fatica e la quantità di abilità richieste da ogni operazione. In base a questi risultati il processo lavorativo viene scomposto nei suoi elementi semplici per essere successivamente ri­ composto nelle operazioni effettive, tenendo conto della possibilità di sostituire determinati strumenti a singole operazioni semplici 10°. Ricomposto il processo lavorativo, diventa possibile assegnare alle singole operazioni gli ope­ rai dotati dei requisiti richiesti stabilendo contemporanea­ mente una gerarchia di salari: «l’effetto della divisione del lavoro, sia nei processi meccanici sia in quelli mentali,

DIVISIONE DEL LAVORO COME TECNICA RAZIONALE

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consiste nel fatto che ci inette in grado di ottenere e appli­ care a ogni processo precisamente quella quantità di abi­ lità e di conoscenza che esso richiede » 101. Stabilito il modello razionale di divisione del lavoro di un determinato processo industriale, Babbage enuncia il principio della proporzionalità numerica che regola l’applicazione di quel modello a una qualsiasi fabbrica: « Quando (in base alla peculiare natura del prodotto di ogni manifattura) si è stabilito sia il numero dei processi in cui è piu vantaggioso dividerla, sia il numero degli indi­ vidui da impiegarsi, allora qualsiasi altra manifattura, che non impieghi un multiplo esatto di questo numero, pro­ durrà Varticolo a un costo maggiore »102. Questo principio della proporzionalità numerica ha la funzione di fornire un criterio per generalizzare l’applicazione del modello, garantendo il massimo grado di efficienza prevista; nello stesso tempo esso rappresenta un tentativo di spiegare i processi di concentrazione industriale e la formazione del­ le imprese giganti. Infatti, a un determinato livello dello sviluppo tecnologico, l’analisi quantitativa permette di stabilire l’ammontare del capitale disponibile al di sotto del quale non è possibile applicare il modello di raziona­ lizzazione più efficiente103. Qualsiasi manifattura che di­ sponga di un capitale inferiore a quello necessario per la soluzione razionale non potrà applicare la divisione del lavoro nel modo più efficiente e produrrà necessariamente a costi maggiori. Ciò spiega la tendenza alla progressiva eliminazione delle piccole imprese, che non sono in grado di competere sul mercato perché non producono a costi di concorrenza. In realtà Babbage non ha visto che il processo di for­ mazione delle imprese giganti e la progressiva concentra­ zione dei capitali devono essere ricondotti non tanto al­ l’aumento del numero degli operai occupati, quanto piut­ tosto allo spostamento degli investimenti verso il macchi­ nario. Babbage accenna, è vero, ai limiti di applicabilità che la divisione del lavoro incontra quando gli strumenti vengono perfezionati o si introducono le macchine. Tut­ tavia, questi limiti non modificano la validità generale della divisione del lavoro secondo i gradi di abilità, ma

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implicano semplicemente una nuova ridistribuzione del lavoro sempre in base al medesimo principio organizza­ tivo; la stessa meccanizzazione del lavoro rimane per lui un fatto casuale di cui non prevede lo sviluppo su vasta scala. Ci si potrebbe chiedere quali siano stati i motivi che hanno condotto Babbage a trascurare l’importanza delle macchine nell’industria e ad attribuire un valore quasi esclusivo alla divisione del lavoro in un periodo in cui la meccanizzazione stava conquistando i settori chiave del­ l’industria europea della prima metà dell’ottocento. Se­ condo Marx, che ha studiato a fondo la letteratura econo­ mica e tecnologica e che può essere considerato uno dei maggiori conoscitori della rivoluzione industriale in que­ sto periodo, Babbage « concepisce la grande industria ve­ ramente solo dal punto di vista della manifattura »104. Il significato esatto di questo giudizio di Marx risulterà chia­ ro in seguito quando si chiariranno le ragioni della distin­ zione marxiana tra la manifattura e la grande industria. Per ora ci limitiamo a osservare come con questo giudizio Marx intenda sottolineare che per Babbage il principio più razionale dell’organizzazione del lavoro è quello fon­ dato sulla distribuzione di lavori parziali che comportano diversi gradi di abilità artigiana. In effetti, in Babbage si trovano elementi che possono convalidare questo giudi­ zio. Le operazioni lavorative che egli studia sono sempre operazioni manuali eseguite mediante strumenti tipici del periodo artigianale quali il martello, la lima, lo scalpello, e cosi via. L’industria che egli prende a modello del pro­ cesso lavorativo più razionale è ancora la manifattura de­ gli spilli, che nella prima metà dell’ottocento aveva su­ bito una meccanizzazione irrilevante, mentre vengono tra­ scurati quei settori, come quello tessile, che avevano su­ bito una profonda rivoluzione tecnologica. Tuttavia, non­ ostante la validità di queste osservazioni, Babbage rimane vicino alla realtà e allo spirito della grande industria, in quanto egli è fondamentalmente interessato agli aspetti innovativi e razionali più che ai residui tradizionali della divisione del lavoro; ciò che lo colpisce nel lavoro delle

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41 manifatture è la semplicità delle operazioni manuali e la possibilità ad essa connessa di sottoporre il processo lavo­ rativo a un’analisi quantitativa dei tempi e dei metodi di lavoro.

1 Cfr. p. mantoux, The Industriai Revolution in the Eighteenth Century, London 1964, p. 41. 2 Per la chiarezza delle sue formulazioni, Adam Smith può essere opportunamente citato su tutti questi punti. Sulla connessione tra lo sviluppo economico e commerciale e le tecniche produttive egli afferma che «la perfezione dell’industria manifatturiera di­ pende interamente dalla divisione del lavoro; ed il grado cui la divisione del lavoro può essere introdotta in una manifattura è regolato necessariamente... dall’ampiezza del mercato » (a. smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Na­ tions, edizione a cura di E. Cannan, London 1920, vol. II, libro IV, cap. ix, pp. 201-2). Per quanto concerne il rapporto tra l’ac­ cumulazione e la divisione del lavoro, egli cosi si esprime: «Co­ me l’accumulazione del capitale, per la natura delle cose, deve precedere la divisione del lavoro, cosi il lavoro si può suddivide­ re sempre piu profondamente soltanto nella misura in cui il ca­ pitale sia stato preventivamente accumulato in quantità sempre maggiore» (ibid., vol. I, libro II, Introduzione, pp. 291-92). 3 Ibid., libro I, cap. 1, p. 9. 4 Questa distinzione, elaborata in riferimento al prodotto, viene espressa da Skarbek come divisione generale da un lato e divi­ sione di funzione dall’altro: «Presso i popoli pervenuti a un certo grado di civiltà incontriamo tre generi di divisioni d’in­ dustria: la prima, che chiameremo generale, conduce alla distin­ zione dei produttori in agricoltore, manifatturieri e commercian­ ti...; la seconda, che si potrebbe chiamare speciale, è la divisione di ciascun genere d’industria in specie... La terza divisione d’in­ dustria, quella che si dovrebbe definire divisione di funzione o di lavoro propriamente detta, è quella che si stabilisce nelle arti e nei mestieri separati e che consiste in ciò che diversi operai ripartiscono tra loro le funzioni che bisogna adempiere per con­ fezionare uno stesso oggetto utile e commerciale, ciascuno dei quali non avendo che una specie di lavoro da compiere, che non ha affatto per risultato la confezione completa dell’oggetto fab­ bricato, e questo risultato non avendo luogo che con la riunione delle funzioni di tutti gli operai che sono occupati per la sua con­ fezione» (f. skarbek, Théorie des richesses sociales, suivie d’une bibliographie de Veconomie politique, Paris 1829, tomo I, pp. 83-84). Piu tardi Marx riprenderà questa distinzione con i con­ cetti di divisione sociale del lavoro e divisione del lavoro.

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5 Osservazioni di questo tipo si trovano, per esempio, in j. bellers, Proposals for raising a colledge of industry of all useful trades and husbandry, with profit for the rich, a plentiful living for the poor, and good education for youth, London 1696 (cit. in K. marx, 11 capitale, libro I, trad. it. Roma 1964, p. 367, nota). 6 The Economic Writings of Sir William Petty, a cura di C. H. Hull, ristampa anastatica New York 1964, vol. II, p. 473. 7 a. smith, Wealth of Nations, p. 8. Un’analisi scientifica dei pro­ cessi lavorativi della manifattura degli spilli era già stata con­ dotta dall’ingegnere francese J.-R. Perronet (Remarques à Part de l’Epinglier, Paris 1762), il quale aveva cominciato ad analiz­ zare le operazioni semplici secondo i tempi di lavorazione (cfr. F. Klemm, Technik: eine Geschichte ihrer Probleme, trad. it. Milano 1959, pp. 261-64). 8 Secondo Smith, « la divisione del lavoro, nella misura in cui può essere introdotta, susciterà in ogni arte un aumento proporzio­ nato delle capacità produttive del lavoro» (Wealth of Nations, p. 9). Sui costi materiali cfr. sopra, nota 2. 9 Su questi argomenti la letteratura economica del tempo è molto vasta. Gli autori e i testi citati qui di seguito rivestono un parti­ colare interesse dal nostro punto di vista in quanto sono stati utilizzati da Marx quali fonti per la sua storia della manifattura. Oltre alle opere già citate di Petty, Bellers e Smith, si vedano: w. petty, An Essay concerning the Multiplication of Mankind, ed. London 1686, e Political Arithmetick, London 1690; The Advantages of the East India Trade to England, London 1720; j. vanderlint, Money answers all things: or, an essay to make 1734; j. Harris, Dialogue concerning Happiness, London 1741; money sufficiently plentiful amongst all ranks of people, London j. steuart, An Inquiry into the Principles of Political Econo­ my, London 1767; c. beccaria, Elementi di economia pubblica, Milano 1804 (ma lo scritto risale a un corso di lezioni tenuto circa un quarto di secolo prima). 10 Per esempio, Petty osservava che « il tessuto può essere reso me­ no costoso quando una persona carda la lana, un’altra fila, un’al­ tra tesse, un’altra stira il filo, un’altra appretta, un’altra compri­ me e imballa, di quando tutte queste operazioni sono eseguite maldestramente dalla stessa mano» (w. petty, Political Arith­ metic, in The Economie Writings of Sir William Petty, vol. I, p. 260) e che «se nella fabbricazione di un orologio, un uomo fabbrica le ruote e un altro la molla; se un altro intaglia il qua­ drante e un altro fabbrica la cassa, l’orologio sarà migliore e meno costoso che se si affidasse a un sol uomo tutto il lavoro » (id., Another Essay in Political Arithmetic, in The Economie Writings of Sir William Petty, vol. II, p. 473). 11 Questa scienza, che oggi è conosciuta con il nome di industriai engineering, ricevette alle sue origini differenti denominazioni:

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Babbage parla di economy of machinery e Ure di philosophy of manufactures. 12 Questo è un punto generalmente acquisito dalla letteratura e un suo approfondimento andrebbe oltre i limiti del presente lavoro. Per uno studio recente sulle principali dottrine storiografiche dell’illuminismo scozzese cfr. A. skinner, Economics and Histo­ ry -The Scottish Enlightenment, in «Scottish Journal of Poli­ tical Economy», xn, 1965, pp. 1-22. 13 «Quali siano i salari comuni del lavoro, dipende ovunque dal contratto concluso ordinariamente tra le due parti, i cui interessi non sono affatto gli stessi. Gli operai desiderano ottenere quan­ to più è possibile, i padroni di dare quanto meno è possibile. I primi sono disposti a coalizzarsi per innalzare i salari del lavo­ ro, i secondi a coalizzarsi per abbassarli» (a. smith, Wealth of Nations, libro I, cap. vili, p. 74). 14 Ibid., cap. x, parte II, p. 141. 15 Ibid. 16 Ibid. 17 «Il comune aratore, benché generalmente considerato come un modello di ottusità e di ignoranza, difficilmente manca di quel giudizio e di quella avvedutezza. È vero che egli è meno abituato alle relazioni sociali dell’artigiano che vive in città. La sua voce e il suo linguaggio sono più incolti, e più difficili ad essere com­ presi da coloro che non vi sono abituati. Ma il suo intelletto, es­ sendo abituato a considerare una maggiore varietà di oggetti, è in generale molto superiore a quello di coloro la cui attenzione è ordinariamente occupata tutta, da mattina a sera, nell’eseguire una o due semplicissime operazioni. Quanto le classi basse del popolo della campagna siano realmente superiori alle classi basse del popolo della città, ben conoscono tutti coloro i quali o per i propri affari o per curiosità abbiano avuto occasione di conver­ sare molto con le une o con le altre » (ibid., p. 142). 18 Ibid., vol. II, libro V, cap. 1, parte III, art. 2, p. 303. 19 Ibid., p. 304. 20 Ibid. 21 Ibid., p. 309. 22 K. marx, Il capitale, libro I, p. 391, nota 44. 23 Cfr., per esempio, j. A. Schumpeter, History of Economie Ana­ lysis, trad. it. Torino 1959, vol. I, p. 227. 24 «Come discepolo di A. Ferguson, che aveva spiegato le conse­ guenze dannose della divisione del lavoro, lo Smith aveva chia­ rissimo questo punto. All’inizio della sua opera, dove la divisio­ ne del lavoro viene celebrata ex professo, accenna solo di passag­ gio ch’essa è fonte delle disuguaglianze sociali. Solo nel quinto libro, sulle entrate dello stato, egli riproduce il Ferguson» (k. marx, Il capitale, libro I, p. 406, nota 70; cfr. anche p. 156, no­

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ta 78). Marx basava il rapporto tra Smith e Ferguson sul fatto che la prima edizione della History of Civil Society risale a nove anni prima della Wealth of Nations. Cfr. anche d. stewart, Lec­ tures on Political Economy, in Phe Collected Works of Dugald Stewart, a cura di W. Hamilton, Edinburgh 18.55, vol. VIII, p.311. 25 a. ferguson, An Essay on the History of Civil Society, a cura di D. Forbes, Edinburgh 1966, parte IV, sez. I, p. 180. 26 «L’artigiano trova che, quanto piu può limitare l’attenzione a una singola parte di un lavoro, i suoi prodotti diventano piu per­ fetti e aumentano sotto le sue mani in maggiore quantità. Ogni imprenditore di manifattura trova che, quanto più può suddivi­ dere i compiti dei suoi operai e quanto più braccia può impie­ gare su oggetti separati, tanto più diminuiscono le sue opere e aumentano i profitti. Anche il consumatore richiede, in ogni ge­ nere di merce, una lavorazione più perfetta di quanto possano eseguire le braccia impiegate a una varietà di oggetti; e il pro­ gresso del commercio non è altro che una continua suddivisione delle arti meccaniche» (ibid., p. 181). 27 Ibid. 28 Ibid., pp. 182-83. 29 Ibid., parte V, sez. Ili, p. 218. 30 «Anche nella manifattura il genio del padrone, forse, è colto, mentre quello del lavoratore inferiore rimane incolto. Lo sta­ tista può possedere un’ampia comprensione delle faccende uma­ ne, mentre i fantocci che impiega sono ignoranti del sistema in cui essi stessi sono coordinati. Il generale può essere un pro­ fondo conoscitore della scienza della guerra, mentre il soldato si limita a pochi movimenti della mano e del piede. Il primo può aver guadagnato ciò che il secondo ha perduto» (ibid., parte IV, sez. I, p. 183; cfr. anche p. 181). 31 « Un primo motivo di subordinazione sta nella differenza dei ta­ lenti e delle disposizioni naturali; un secondo nella divisione di­ seguale della proprietà e un terzo, non meno evidente, nelle abi­ tudini contratte con la pratica delle differenti arti. Alcune occu­ pazioni sono liberali e altre meccaniche. Esse richiedono talenti differenti e suscitano sentimenti differenti; e sia questa o meno la causa della preferenza che di fatto accordiamo, è certamente ragionevole formarci un’opinione del rango che si deve a uomini di certe professioni e posizioni sociali, in base all’influenza del loro modo di vita nel coltivare le facoltà intellettuali o nel conser­ vare i sentimenti del cuore» (ibid., parte IV, sez. II, p. 184). 32 Ibid., sez. Ili, p. 191. 33 Ibid., parte V, sez. Ili, pp. 219-20. 34 Ibid., parte I, sez. Ili, p. 19. 35 Per esempio, F. Lassalle (Herr Bastiat - Schulze von Delitzsch, der okonomische Julian, oder Kapital und Arbeit, Berlin 1893,

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p. 75) condivide l’opinione di Marx. Le lezioni di Adam Smith furono pubblicate da E. Cannan col titolo Lectures on Justice, Police, Revenue and Arms, Oxford 1896. Un’analisi esauriente dei rapporti tra Smith e Ferguson e della letteratura relativa a questo problema è stata compiuta da r. hamowy, Adam Smith, Adam Ferguson, and the Division of Labour, in «Economica», xxxv, 1968, pp. 249-59. 36 A. smith, Lectures, p. 162. 37 Ibid., pp. 162-63. 38 Ibid., p. 253. 39 Ibid., p. 256. 40 Cfr. ibid., pp. 255-59. 41 Ibid., p. 259. Dopo il 1896, alcuni hanno addirittura capovolto il rapporto tra Smith e Ferguson, sostenendo la dipendenza del secondo dal primo: A. oncken, Adam Smith und Adam Fergu­ son, in «Zeitschrift fiir Sozialwissenschaft », xn, 1909, parte I, pp. 129-37, e parte II, pp. 206-16; w. R. scott, Adam Smith as Student and Professor, Glasgow 1937, p. 119; d. kettler, The Social and Political Thought of Adam Ferguson, Columbus 1965, p. 74, nota 35; d. forbes, Introduction, in A. ferguson, History of Civil Society, p. xxxi. 42 Cfr. r. hamowy, Adam Smith, Adam Ferguson, and the Division of Labour, pp. 257-59. 43 Oltre ai capitoli citati della Wealth of Nations, cfr. anche il libro ,- IJEI, cap. 1. ^JÓi opinione diversa erano alcuni autori inglesi dei primi decenni ~ dell’Ottocento — conosciuti come «socialisti ricardiani», ma in realtà interpreti radicali di Smith: j. F. bray, Labour's wrongs and labour's remedy, Leeds 1839; j. gray, The social system, Edinburgh 1831; T. hodgskin, Labour defended against the claims of capital, London 1825; Popular Political Economy, London 1827; The natural and artificial rights of property contrasted, London 1832; w. Thompson, An Inquiry into the Principles of the Distribution of Wealth, most conducive to human Happiness, London 1824. 45 A. smith, Wealth of Nations, libro I, cap. 1, p. 13. 46 Ibid., p. 14. 47 Cfr. N. rosenberg, Adam Smith on the Division of Labour: Two Views or One? in «Economica», xxxn, 1965, pp. 127-39. 48 Questa via d’uscita verrà percorsa sovente nel secolo xix: cfr. e. g. west, Adam Smith's Two Views on the Division of La­ bour, in «Economica», xxxi, p. 23, e i due paragrafi successivi in questo capitolo. 49 Per lo meno così fu interpretato da Marx e da altri. A questo proposito Hamowy dice: «si può, penso, sostenere legittimamente che Ferguson, trattando della divisione del lavoro, possa

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pretendere una priorità su Smith offrendo, non un’analisi eco­ nomica della questione che non fu originale per nessuno dei due, ma piuttosto la prima analisi sociologica, metodica e penetrante, un’analisi che doveva avere conseguenze importanti nella storia intellettuale, contribuendo in maniera sostanziale ai fondamenti sociologici del marxismo. È su questo punto sociologico che la posizione di Marx e di Lassalle, che indicano Ferguson come pre­ cursore di Smith, può essere rivendicata» (r. hamowy, Adam Smith, Adam Ferguson, and the Division of Labour, p. 259). Cfr. anche r. L. meek, The Scottish Contribution to Marxist Socio­ logy, in Democracy and the Labour Movement, a cura di J. Sa­ ville, London 1954, e d. kettler, The Social and Political Thought of Adam Ferguson. 50 Cfr. u. b. Singh, Adam Smith's Theory of Economic Develop­ ment, in «Science and Society», xxin, 1959, pp. 107-32. 51 Ferguson così si esprime: «Nei governi realmente misti, poiché l’interesse popolare trova un contrappeso in quello del principe o dei nobili, si stabilisce effettivamente tra loro un equilibrio, in cui son fatti consistere la libertà e l’ordine pubblici» (History of Civil Society, parte IH, sez. VI, p. 164). 52 j. A. Schumpeter, History of Economie Analysis, p. 183. 53 Per comune ammissione degli storici economici, la rivoluzione industriale ha preso le mosse in Inghilterra nel settore cotoniero. In questo paragrafo ci limitiamo a ripercorrere le grandi linee di questa rivoluzione, fermandoci su quegli aspetti che ci serviran­ no per chiarire alcune ideologie della società industriale formu­ late negli anni tra il 1830 e il 1840. 54 n. j. smelser, Social Change in the Industrial Revolution. An Application of Theory to the Lancashire Cotton Industry, 17701840, London 1959, pp. 54-55. 55 j. Kennedy, Observations on the Rise and Progress of the Cotton Trade, in Great Britain, particularly in Lancashire and the adjoin­ ing Counties, in « Memoirs of the Literary and Philosophical So­ ciety of Manchester», serie seconda, III, Manchester 1819, pp. 117-18. 56 « La jenny era una macchina semplice e poteva essere costruita a basso costo. Essa occupava pochissimo spazio e quindi non com­ portava la costruzione di speciali laboratori. Poteva essere azio­ nata senza una forza motrice esterna e il suo uso non interferiva molto con le abitudini del lavoratore. In ogni caso, essa non pro­ vocò esteriormente grandi cambiamenti nell’organizzazione del­ l’industria. Questa certamente fu una delle ragioni per cui ebbe un così rapido successo. Lungi dal distruggere l’industria a cot­ tage, sembrò dapprima rinvigorirla» (p. mantoux, The Indus­ trial Revolution in the Eighteenth Century, p. 219). «Quale dif­ ferenziazione di ruolo accompagnò l’introduzione della jenny do­ mestica? La riorganizzazione del lavoro non fu drastica; il siste­

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ma domestico rimase intatto. Le attività connesse con la filatura della trama si differenziarono semplicemente in maniera più net­ ta dalle altre attività della produzione tessile del cotone... Ci fu anche una limitata riallocazione del lavoro in famiglia, con i bam­ bini che filavano più di prima. Non emersero ruoli nuovi rispetto al controllo della produzione, al controllo del capitale e al con­ trollo dell’organizzazione industriale» (n. j. smelser, Social Change in the Industrial Revolution, p. 88). 57 Ibid., p. 97. «Il telaio ad acqua filava un filato resistente e com­ patto adatto per orditi; da questo momento gli orditi di lino fu­ rono abbandonati e, per la prima volta in questo paese, le merci furono tessute interamente in cotone. Vennero anche introdotti manufatti di tessuto più fine e delicato, specialmente calicò, imi­ tati da tessuti indiani recanti quel nome. La jenny era partico­ larmente adatta per filare la trama; cosicché le due macchine, in­ vece di entrare in conflitto, vennero usate assieme» (e. baines, History of the Cotton Manufacture in Great Britain: with a no­ tice of its early history in the cast, and in all the quarters of the globe; a description of the great mechanical inventions, which have caused its unexampled extension in Britain; and a view of the present state of the manufacture, and the condition of the classes engaged in its several departments, London 1835, ristam­ pa anastatica London 1966, pp. 163-64). 58 Ibid., pp. 184-85. 59 «Un chiaro esempio era l’uso di assumere intere famiglie negli stabilimenti in campagna... Un sistema di questo genere non sol­ tanto aumentava l’entrata familiare, ma consentiva anche la pre­ senza di un genitore con i bambini durante le ore di lavoro » (n. j. smelser, Social Change in the Industrial Revolution, p. 185). 60 p. mantoux, The Industriai Revolution in the Eighteenth Cen­ tury, p. 338. 61 Cfr. oltre, cap. 11, e n. j. smelser, Social Change in the In­ dustrial Revolution, p. 118. 62 «Il periodo bellico, perciò, fu un periodo di tendenze in con­ flitto. Gli investimenti, che erano stati elevati prima e durante la prima parte del periodo (1785-1800), diminuirono, ma progredi­ rono ancora irregolarmente durante i difficili anni della guerra (1800-1815). La produzione salì irregolarmente, ma non così ra­ pidamente come ci si sarebbe potuto aspettare dalle innovazioni e dagli investimenti precedenti. I profitti furono irregolari e i fal­ limenti numerosi. Il risultato netto fu la persistenza di una va­ rietà di livelli di produttività in condizioni generali di capacità produttiva eccedente» (ibid., p. 122). 63 «Certamente la mule azionata a vapore aveva creato un nuovo tipo di fabbrica. Tuttavia, in virtù di un intricato insieme di con­ trolli basati su legami di parentela e di comunità e in virtù della persistente autorità del filatore, l’anonimia potenziale della vita di fabbrica venne differita. L’abbandono della famiglia operaia

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tradizionale era ben lontano dall’essere completo nel 1820, anche se il sistema di fabbrica prosperava già da quattro decenni» (ibid., p. 193). «In questi anni l’economia della famiglia rima­ neva in una specie di equilibrio transitorio. Parecchi elementi tradizionali dell’economia della famiglia rimanevano nonostante il fatto che l’economia domestica nella filatura si fosse estinta. Nonostante la lunghezza della giornata lavorativa e altre condi­ zioni difficili, questo sistema transitorio della famiglia-in-fabbrica fruttò un’entrata famigliare più elevata e il mantenimento di molti valori tradizionali» (ibid.y p. 271). 64 e. baines, History of the Cotton Manufacture in Great Britain, PP- 494-9565 Ibid.y p. 183. 66 T. percival, A Short Essay written for the Service of the Pro­ prietors of Cotton Mills and Persons employed in them. To inves­ tigate the cause of a contagious disorder in Cotton Mills, which has destroyed many persons, Manchester 1784. Per il lavoro dei medici di Manchester e per i rapporti tra le inchieste sulle con­ dizioni dei lavoratori e la legislazione sulle fabbriche cfr. b. l. hutchins e A. Harrison, A History of Factory Legislation, Westminster 1903, e l’introduzione di M. W. Flinn a e. chadwick, Sanitary Condition of the Labouring Population of Great Britain (1842), Edinburgh 1965. 67 Resolution in Favour of Legislative Protection of Children em­ ployed in Factories. Drawn up by Dr. Percival for the Man­ chester Board of Health (1796), in b. l. hutchins e A. harrison, A History of Factory Legislation, pp. 9-11. 68 Nel Settecento l’interesse dei medici per i problemi del lavoro è orientato esclusivamente sulle malattie professionali in stretta connessione con la divisione del lavoro. Tra questi fu famoso il Ramazzini per la sua opera De morbis artificum diatriba (Mutinae 1713) citata da Adam Smith e da Marx. Soltanto alla fine del secolo si sviluppano i primi interessi di medicina sociale: w. clerke, Thoughts upon the Means of Preserving the Health of the Poor, by Prevention and Suppression of Endemic Fevers, London 1790. 69 Cfr. ibid., pp. 7 sgg.; f. m. eden, The State of the Poor: or, an History of the labouring classes in England from the conquest to the present period, London 1797, vol. I, pp. 420-22. 70 Cfr. j. T. ward, The Factory Movement, 1830-1855, London 1962, p.19. 71 n. j. smelser, Social Change in the Industrial Revolution, p. 270. 72 «La ragione più importante del suo fallimento, tuttavia, era il declino dell’apprendistato basato sul sorgere delle fabbriche a vapore delle città, che rimossero l’ambito di applicabilità dell’Atto» (ibid.). Cfr. anche j. T. ward, The Factory Movement, p. 20.

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73 Ibid., p. 27. Tra i promotori di questa legge ci fu anche Robert Owen (vedi le sue Observations on the Effect of the Manufac­ turing System: with Hints for the Improvement of those Parts of it wich are most injurious to Health and Morals, London 1815, e soprattutto la p. 9 dove sono riportate le sue proposte). 74 Cfr. N. j. smelser, Social Change in the Industrial Revolution, pp. 271-72, e j. T. ward, The Factory Movement, p. 28. 75 Cfr. n. j. smelser, Social Change in the Industrial Revolution, pp. 238 sgg. 76 Cfr. j. T. ward, The Factory Movement, passim. 77 Citato ibid., p. 36. 78 Citato ibid., p. 30. Su Oastler, Sadler e altri riformatori tory e cristiani degli anni ’30, cfr. j. T. ward, Sadler of Leeds: Chri­ stian Reformer, in «York Quarterly», vi, 1958; M. T. Sadler, in «University of Leeds Review», vn, i960; The Factory Move­ ment, passim-, R. b. M. hutton, R. Oastler, in «University of Leeds Review», vi, 1959. 79 «Mi rendo conto che alcuni gentiluomini professano, in linea di principio, una grande riluttanza a legiferare su queste faccende, sostenendo che una tale interferenza è un male... che lo stesso principio del progetto di legge è un’interferenza erronea tra il padrone e l’operaio e un tentativo di regolare per legge il mer­ cato del lavoro. Se questo mercato fosse rifornito da liberi agen­ ti, propriamente detti, condividerei pienamente queste obie­ zioni. In vero, cosi è teoricamente; ma, temo, in pratica la realtà è ben diversa, persino in riferimento a coloro che sono di età matura, e si troverà che, in base a un giudizio imparziale del­ la loro condizione, la decantata libertà dei nostri lavoratori in molte occupazioni è poco più che un nome. Coloro che sosten­ gono la questione in base a meri principi astratti, sembrano di­ menticare, a mio parere, la condizione della società; la diseguale divisione della proprietà o piuttosto il suo totale monopolio da parte di pochi, che lascia ai molti null’altro se non quel che pos­ sono ottenere con il loro lavoro quotidiano; lo stesso lavoro, che non può farsi disponibile agli scopi della sussistenza quoti­ diana senza il consenso di coloro che posseggono la proprietà della comunità - essendo in loro possesso tutti i materiali, gli elementi, chiamateli come vi pare, su cui il lavoro può essere con­ cesso. Quindi, è chiaro che, eccetto in uno stato di cose in cui la domanda di lavoro uguagli completamente l’offerta (ciò che sa­ rebbe assurdamente falso dire che esista in questo paese), il pa­ drone e il lavoratore non si incontrano a parità di condizioni nel mercato del lavoro; al contrario, il secondo, quale che sia la sua età, e chiamatelo libero quanto vi piace, è sovente quasi intera­ mente alla mercè del primo» (Speech of M. T. Sadler, Esq., in c. wing, Evils of the Factory System, demonstrated by Parlia­ mentary Evidence, London 1837, p. 257).

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80 A proposito degli effetti delle macchine, Sadler cosi si esprime: « Ci fu promesso, in verità, e ci si sarebbe potuto aspettare che le grandi invenzioni dei tempi recenti... avrebbero abbreviato alquanto il lavoro umano nella sua durata e ridotta la sua inten­ sità, ed è soltanto compiendo ciò che le macchine possono giu­ stificare la loro stessa definizione, in quanto consistono di inven­ zioni per abbreviare il lavoro umano... Finora, tuttavia, ripeto, l’effetto è stato ben diverso. La condizione degli operai di mani­ fattura è stata resa sempre più dipendente e precaria; il loro la­ voro, una volta impiegato, è in molti casi cosi aumentato da es­ sere totalmente irriconciliabile con la conservazione della salute e persino della vita; l’infanzia stessa è costretta nel mercato del lavoro, dove diventa la docile vittima della crudeltà e dell’op­ pressione; mentre, come ci si può aspettare da un tale stato di cose innaturale, la remunerazione di questa fatica crescente ed eccessiva è regolarmente diminuita, alla fine moltitudini attor­ no a noi vengono ridotte, almeno nella loro condizione fisica, al di sotto del livello dello schiavo o della bestia» (ibid., p. 258). 81 « Fu l’introduzione dell’invenzione di sir Richard Arkwright che rivoluzionò l’intero sistema della nostra industria nazionale. Pri­ ma di quel periodo le incipienti manifatture del paese venivano condotte nei villaggi e attorno al focolare domestico; quell’in­ venzione le trasferì principalmente nelle grandi città e le relegò pressoché a quelle che ora sono chiamate fabbriche. Cosi, i bam­ bini divennero i principali operai; ed essi non eseguirono più le loro mansioni, come prima, sotto l’occhio dei genitori, che li avrebbe distribuiti affettuosamente secondo la loro salute e le loro capacità, ma venne prescritta una sola regola universale per tutte le età, per entrambi i sessi e per ogni condizione e costi­ tuzione» (ibid., p. 261). 82 «Insensibili all’istinto della natura e rovesciando l’ordine della società, invece di provvedere ai loro figli, essi [i genitori] co­ stringono i figli a provvedere per loro, non soltanto per ciò che è loro necessario, ma per la loro intemperanza e la loro depra­ vazione. Essi acquistano l’ozio con il sudore dei loro bambini, il prezzo della cui felicità, salute ed esistenza essi spendono nei covi della dissipazione e del vizio. Così, nelle stesse ore della notte in cui il padre è alle sue orge peccaminose, il bambino an­ sima in fabbrica. Questi miserabili considerano i loro bambini come il loro bestiame; anzi, il sistema conduce a uno stato di de­ pravazione cosi rivoltante, che essi fanno della certezza di avere figli la condizione indispensabile del matrimonio, che essi pos­ sono procreare una generazione di schiavi» (ibid., p. 259). 83 j. roberton, Remarks on the Health of English Manufacturers, and on the need which exists for the Establishment of Convales­ cents’ Retreats, 1831; c. T. thackrah, The Effects of the Prin­ cipal Arts, Trade, and Professions, and of Civic States and Ha­ bits of Living on Health and Longevity, with particular refe­ rence to the Trades and Manufactures of Leeds, London 1831

NOTE

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(2a ed. 1832, ristampa in A. meiklejohn, Work and Times of C. T. Thackrah, Edinburgh 1957). 84 An Enquiry into the State of the Manufacturing Population, and the Causes and Cures of the Evils therein existing,. London 1831. L’autore era William Rathbone Greg, figlio dell’industria­ le Samuel Greg. 85 g. s. bull, The Evils of the Factory System, Bradford 1832, pp. 9-10. 86 j. brown, A Memoir of Robert Blincoe, An Orphan Boy; sent from the Workhouse of St. Pancras, London, at Seven Years of Age, to Endure the Horrors of a Cotton-Mill, through his In­ fancy and Youth, with a Minute Detail of his Sufferings, Being the First Memoir of the Kind Published, Manchester 1832. Cfr. A. E. Musson, R. Blinco and the Early Factory System, in «Der­ byshire Miscellany », 1957. 87 j. p. kay, The Moral and Physical Condition of the Working Classes employed in the Cotton Manufacture in Manchester, London 1832; citiamo dalla 2a ed. dello stesso anno, ampliata e contenente una lettera introduttiva al reverendo Thomas Chal­ mers. 88 « Ritenendo che la tendenza naturale del commercio senza restri­ zioni... sia di sviluppare le energie della società, di aumentare gli agi e i piaceri della vita, e di elevare la condizione fisica di ogni membro del corpo sociale, abbiamo esposto, con mano fe­ dele, sebbene amichevole, la condizione delle classi inferiori con­ nesse con le manifatture di questa città, perché pensiamo che i mali che le affliggono derivino da cause esterne e accidentali» (ibid., p. 78). «L’aumento degli stabilimenti e la conseguente co­ lonizzazione del distretto sono stati estremamente più rapidi dello sviluppo delle sue istituzioni civili. L’ardente antagonismo dell’attività commerciale ha assorbito l’attenzione e ha concen­ trato le energie di ogni membro della comunità. In questa lotta, l’influenza remota degli ordinamenti talvolta è stata trascurata, non per mancanza di umanità, ma per la pressione del lavoro e per mancanza di tempo » (ibid., pp. 79-80). 89 «Qualunque tempo sottratto alle ore di lavoro deve essere ac­ compagnato da una sottrazione equivalente dalla sua remunera­ zione-, le restrizioni del commercio impediscono altri migliora­ menti e temiamo che la condizione delle classi lavoratrici non possa essere molto migliorata, finché i gravami e le restrizioni del sistema commerciale non vengono aboliti» (ibid., pp. 90-91). 90 Ibid.,p. 72. 91 « Quei politici che propongono una seria riduzione delle ore di lavoro, non preceduta dalla eliminazione delle restrizioni com­ merciali, non sembrano pensare che questa misura abbasserà ine­ vitabilmente i salari del povero, mentre il prezzo delle cose ne­ cessarie della vita rimarrà lo stesso. Inoltre, essi non sembrano avere sufficientemente riflettuto che, se questa misura non fosse

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accompagnata da un sistema generale di istruzione, il tempo così accordato sarebbe sprecato o usato malamente. Se si riflettesse attentamente su questa depressione dei salari, accompagnata da un aumento di tempo generalmente speso da gente ignorante nell’ozio e nei divertimenti, i difensori di questa misura sareb­ bero forse meno disposti a considerarla adatta a conferire van­ taggi illimitati alle classi lavoratrici. Ripercorrere il cammino ascendente dal male e dalla miseria è difficile. La salute è ottenu­ ta dopo la malattia, soltanto passando attraverso stati lenti e do­ lorosi. Né i mali che colpiscono la popolazione operaia possono essere alleviati istantaneamente, somministrando un unico rime­ dio degno di nota» (ibid., pp. 91-92). 92 Le pagine su Manchester costituirono un manuale di consulta­ zione per molti altri, da Gaskell a Buret fino a Engels. Sulle con­ seguenze sociali del lavoro di fabbrica cosi si esprime: «Un lavo­ ro prolungato e massacrante, ininterrotto da un giorno all’altro e da un anno all’altro, non è adatto a sviluppare le facoltà intellet­ tuali o morali dell’uomo. La monotona routine di un lavoro fati­ coso e incessante, in cui gli stessi processi meccanici vengono in­ cessantemente ripetuti, rassomiglia al tormento di Sisifo - la fa­ tica, come il macigno, ricade perpetuamente sull’operaio sfinito » (ibid., p. 22). Gli operai «sono impiegati in una mansione che assorbe la loro attenzione e impiega incessantemente le loro energie fìsiche» (ibid., p. 24), devono «sorvegliare i movimenti e assistere le operazioni di una potente forza materiale, che lavo­ ra con un’energia ignara della fatica » e « rivaleggiare con la pre­ cisione matematica, con il movimento incessante e la forza ine­ sauribile della macchina» (ibid., p. 25); di qui «la sottrazione di stimoli morali e intellettuali » e « l’assenza di varietà » del la­ voro di fabbrica (ibid.). 93 Ibid., pp. 23-24, 25, 29, 64 e 69. 94 Charles Babbage nacque a Totnes nel Devonshire il 26 dicembre 1792 da un banchiere da cui ereditò una fortuna considerevole. Studiò a Cambridge al Trinity College, dove strinse amicizia con Herschel e Peacock, con cui fondò nel 1812 la Analytical Society, e tradusse il Calcolo differenziale e integrale di Lacroix. Dal 1828 al 1839 fu professore di matematica a Cambridge. Nel 1823 aveva ottenuto un finanziamento statale per una macchina calco­ latrice, la quale venne progettata, ma non fu mai costruita. Scris­ se numerosi saggi matematici, tra cui Observations on the Ap­ plication of Machinery to the Computation of Mathematical Ta­ bles. Tra le sue opere qui pertinenti ricordiamo: Reflections on the decline of science in England and on some of its causes, Lon­ don 1830; On the Economy of Machinery and Manufactures, London 1832 (tradotta subito anche in francese, in tedesco e in italiano); The exposition of 1861: or, views of the industry, the science and the government of England, London 1851; Passages from the life of a philosopher, London 1864.

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95 Cfr. c. babbage, On the Economy of Machinery and Manufactu­ res , cap, xii: On the Method of Observing Manufactories, pp. 93"9796 «Nel riempire le risposte che richiedono numeri, bisognerebbe fare una certa attenzione; per esempio, se l’osservatore se ne sta con l’orologio in mano davanti a una persona mentre applica la capocchia a uno spillo, il lavoratore quasi certamente aumenterà il suo ritmo e la valutazione sarà eccessiva. Si otterrà una media piu esatta, se si indaga qual è la quantità normale di lavoro gior­ naliero. Nel caso che ciò non possa essere accertato, il numero delle operazioni eseguite in un tempo dato può sovente essere rilevato quando l’operaio è del tutto ignaro che qualcuno lo sta osservando» (ibid., p. 96). 97 «Accade sovente che, in una serie di risposte a tali domande, ce ne siano alcune che, anche se date direttamente, possono anche essere dedotte mediante un piccolo calcolo da altre già date o co­ nosciute; e si trarrebbero sempre vantaggi da queste verifiche per confermare la validità delle asserzioni; o, in caso che non concordino, per correggere le evidenti anomalie... Sovente le do­ mande possono essere formulate in modo che alcune dipendano indirettamente da altre; oppure se ne possono inserire una o due le cui risposte sono ottenibili con altri metodi: questo pro­ cedimento non è privo di vantaggi in quanto ci mette in grado di determinare la validità dei nostri giudizi» (ibid., p. 97). Una storia della metodologia delle scienze sociali nel secolo xix do­ vrebbe comprendere un’analisi delle tecniche di osservazione e di rilevamento dei dati. Dal questionario di Babbage del 1832, attraverso il metodo dell’intervista attiva di Le Play, fino al que­ stionario di Marx del 1880, sono state elaborate parecchie tecni­ che per studiare il comportamento umano in determinate situa­ zioni sociali. 98 Esemplare, a questo proposito, è il manuale dell’economista po­ lacco fréderic skarbek, Ehéorie des richesses sociales, tomo I, capp. iii-iv). 99 c. babbage, On the Economy of Machinery and Manufactures, PP- 137-38io° per risparmiare tempo non sempre è conveniente introdurre un’ulteriore divisione del lavoro: in linea di massima, è possibi­ le fare eseguire al braccio, con un solo movimento, due operazio­ ni invece di una, quando la precedente operazione non richiede una forza eccessiva e quella aggiunta ne richiede in misura tra­ scurabile. Per esempio, nella fabbricazione dei puntali per strin­ ghe, l’operazione consisteva nel tagliare una strisciolina di ferro in pezzetti. A questa si è aggiunta l’operazione della curvatura del pezzetto che costituiva un’operazione a sé, munendo le cesoie di due blocchetti di acciaio. In tal modo la produzione si è tri­ plicata. Cfr. ibid., p. 25. Nel Capitale, Marx riprenderà e svilup­ perà le singole fasi del metodo di analisi e di ricomposizione dei processi lavorativi esposto da Babbage.

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101 c. babbage, Qn the Economy of Machinery and Manufactures, p. 162. 102 Ibid.,pp. 172-73. 103 «L’esatto rapporto che è più conveniente per una fabbrica che impiega cento uomini può non essere il più opportuno per una fabbrica in cui ve ne sono cinquecento» {ibid., p. 173). 104 k. marx, Il capitale, libro I, p. 393, nota 48.

Capitolo secondo

i. Gaskell e la crisi dell'istituto familiare. La sociologia dell’industria come scienza autonoma che studia la situazione delle classi lavoratrici in rapporto alle condizioni di lavoro nella fabbrica e alle istituzioni so­ ciali in generale è la risultante da un lato delle ricerche empiriche compiute dai medici sulle malattie professio­ nali e sulle cause della diffusione delle epidemie nei cen­ tri industriali e, dall’altro lato, del dibattito politico con­ dotto dal movimento per le dieci ore. Sullo sfondo di questo quadro culturale e politico degli anni ’30 si collo­ ca l’indagine del chirurgo Peter Gaskell1. Rispetto agli scritti di cui si è parlato nel capitolo precedente, The Ma­ nufacturing Population of England si caratterizza per l’e­ sigenza sistematica, per una più precisa delimitazione del­ la ricerca2 e per un più accurato esame delle fonti dispo­ nibili. Parlando dei dati empirici su cui si fonda il suo lavoro, Gaskell indica nelle personali ricerche sul campo e negli atti ufficiali del governo inglese le sue principali fonti di documentazione. Tuttavia, a proposito di questi ultimi egli rileva che « sebbene molti fatti preziosi siano stati scoperti da queste ricerche, essi sono in una forma cosi rozza da essere interamente privi di valore», rife­ rendosi con ciò al loro scarso grado di elaborazione siste­ matica3. Egli, inoltre, individua nella rapidità delle tra­ sformazioni sociali che l’industrializzazione aveva ope­ rato nello spazio di una generazione una delle cause prin­ cipali della mancanza di studi più comprensivi e nello stesso tempo avanza l’esigenza di una rigorosa avalutatività su problemi che, per la loro stretta connessione con

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CAPITOLO SECONDO

forti interessi economici e politici, molto spesso erano fatti oggetto di considerazione parziale. Per Gaskell, come in genere per gli scrittori inglesi dei primi decenni del secolo, il trasferimento di masse di la­ voratori dalla manifattura domestica al lavoro di fabbri­ ca, lo spopolamento delle campagne, la formazione dei grandi centri industriali, la macchina a vapore e le altre innovazioni tecnologiche hanno determinato una serie di conseguenze sociali di portata rivoluzionaria per la strut­ tura della comunità e in primo luogo per la popolazione manifatturiera, che viene così assunta come oggetto spe­ cifico di analisi al fine di determinare « le cause che hanno condotto all’attuale deterioramento della condizione so­ ciale e fisica degli operai »4. La ricerca viene condotta su­ gli operai del settore del cotone per le seguenti ragioni: « in primo luogo, questa classe costituisce da sola circa i cinque noni dell’intera popolazione occupata in tutte le manifatture del regno; in secondo luogo, essa è concen­ trata in masse grandi e ben definite; e, in terzo luogo, si può asserire in verità che “ex uno disce omnes” »5. In accordo con i risultati acquisiti dalle ricerche sulle origini dell’industrialismo, Gaskell vede nella distruzione del lavoro domestico, nella omogeneità della situazione operaia in tutti i settori produttivi, nella concentrazione urbana, nella separazione delle famiglie, nella diminuzio­ ne della domanda di manodopera, nella riduzione dell’o­ peraio a una funzione di sorveglianza, nella sua subordi­ nazione alle macchine e nel pauperismo le principali alte­ razioni della struttura sociale. Tuttavia l’autore ritiene che le cause dell’attuale situazione della classe operaia « non siano state assolutamente comprese o siano state va­ lutate in maniera assai inadeguata»6; secondo Gaskell, nella letteratura disponibile su questo argomento manca l’individuazione, all’interno delle suddette conseguenze, di quella che riveste un peso maggiore nella spiegazione causale dell’attuale stato della classe operaia. « Non è la povertà - poiché la famiglia dell’operaio manifatturiero guadagna ciò che è ampiamente sufficiente a soddisfare tutti i suoi bisogni, fatta eccezione di una classe partico­ lare, i tessitori a mano; non è il lavoro di fabbrica consi­

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57 derato in sé; non è la mancanza di istruzione nella comu­ ne accezione del termine no; esso [l’attuale deteriora­ mento della condizione sociale e fisica degli operai] è sor­ to dalla separazione delle famiglie, dallo smembramento della famiglia, dalla distruzione di tutti quei vincoli che congiungono il cuore dell’uomo alla parte migliore della sua natura - cioè i suoi istinti e i suoi sentimenti sociali e che soli possono renderlo un membro rispettabile e lo­ devole della società, sia nelle sue relazioni familiari, sia in qualità di cittadino »1. La scelta che giustifica la connes­ sione tra la dissoluzione della famiglia e lo stato morale e fisico dei lavoratori riposa sull’ipotesi di fondo che i va­ lori sociali e gli strumenti della loro conservazione hanno la loro origine nell’ambiente familiare e trovano in esso quei veicoli di comunicazione che ne garantiscono la sta­ bilità. La famiglia rispetto alla società è un microcosmo che riproduce su scala ridotta i legami sociali e la legitti­ mazione delle norme che li regolano; ciò spiega la funzio­ ne assegnata da Gaskell alla famiglia come garante dell’or­ dine sociale. La trasmissione dei valori avviene mediante Y esempio e l’abitudine, che sono tra i « piu potenti agenti nella produzione delle azioni comuni della vita »8. Nella famiglia gli individui entrano in rapporti diretti, parteci­ pano a valori comuni e riconoscono in tal modo la legit­ timità del comportamento degli altri componenti. Attra­ verso il continuo interscambio, i valori si cristallizzano ve­ nendo a costituire modi di vita universalmente condivisi dalla comunità. « La moralità non consiste tanto di leggi particolari applicabili al pubblico, quanto di abitudini de­ terminate che legano determinate comunità, nelle quali ogni singolo membro fa ciò che fa il suo vicino e in cui tutti condividono il bene o il male di quelli »9. Il modello di famiglia che la rivoluzione industriale ha dissolto è quello che Gaskell ritiene l’unico possibile e che crede di ritrovare nella manifattura domestica. In questa le istituzioni e i valori sono garantiti dai rapporti sociali del sistema cui fanno parte, e questo sistema è caratteriz­ zato in modo sostanzialmente statico. In esso ciascuno svolge la sua parte e si aspetta che l’altro svolga ugual­ mente bene la sua, e in tal modo non si determinano con-

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flitti. La principale istituzione di questo sistema sociale è la famiglia fondata su un’economia che rende possibile uno sviluppo equilibrato della personalità e garantisce per la sua stessa struttura l’autorità paterna, la ricettività del­ l’educazione, un’integrazione fondata sulla reciprocità de­ gli affetti e la garanzia di uno sviluppo psico-fisico equili­ brato, condizionato anche dall’ambiente naturale. Infine, nel sistema sociale le classi sono riconosciute legittime e tra esse ha luogo una forma di cooperazione. Il sistema di fabbrica ha rotto l’equilibrio che esisteva nella famiglia durante il periodo della manifattura dome­ stica; il « risultato del lavoro di fabbrica è la dissoluzione di questi legami familiari; la conseguente abolizione del­ la cerchia domestica e il pervertimento di tutti gli obbli­ ghi sociali che dovrebbero esistere tra genitori e figli da un lato e tra i figli stessi dall’altro lato »10. Una volta che la casa non è piu la sede della famiglia e del lavoro in co­ mune, essa diviene semplicemente un luogo di ricovero per consumare i pasti e per il riposo, perdendo in tal mo­ do ogni significato affettivo per i suoi componenti. Ve­ nuta meno la possibilità del lavoro in comune, i membri della famiglia perdono ogni opportunità di stringere, du­ rante le ore di lavoro, quei rapporti immediati che garan­ tiscono il continuo controllo dei genitori sui figli. Questi, non avendo piu modo di raffinare i propri sentimenti e di interiorizzare le obbligazioni morali, si rendono prematu­ ramente indipendenti: i legami che tenevano assieme la famiglia, cioè i doveri e i sentimenti, vengono sostituiti dall’egoismo, dall’indipendenza e dall’avarizia. I legami affettivi si trasformano in semplici « calcoli e transazioni basati soltanto su questioni pecuniarie» che riducono i membri « a una massa, a un assembramento senz’anima di individui separati e in conflitto » 11. L’analisi dello stato morale dei lavoratori dell’industria si presenta come uno studio dei loro modi di vita, poiché « i costumi domestici e i modi di vita sono mezzi con cui si può formulare un giudizio sulla condizione di una co­ munità » 12. La giornata lavorativa è talmente densa che il tempo per consumare i pasti è estremamente ridotto, il cibo è insufficiente quanto al suo potere nutritivo e tale

GASKELL E LA CRISI DELL'ISTITUTO FAMILIARE

59 insufficienza è accentuata dal fatto che i lavoratori spen­ dono soltanto una minima parte del loro salario per nu­ trirsi; gran parte di esso è spesa nei divertimenti, che con­ sistono esclusivamente nel bere alcoolici e nel passare il tempo libero nelle taverne. Tutto ciò contribuisce ad al­ lentare i vincoli familiari che già il lavoro di fabbrica di per se stesso ha indebolito, a distruggere le qualità uma­ ne e gli affetti familiari sia nelle donne sia negli uomini. La tendenza al bere è condizionata da un lato dall’orario di lavoro estenuante, monotono e di eccessiva durata, e dall’altro lato è imputabile in parte anche alla responsa­ bilità dei lavoratori che potrebbero condurre una vita più civile e più conforme alle convenienze sociali. Le mogli che lavorano in fabbrica tutto il giorno hanno la stessa indifferenza dei mariti verso il ménage familiare e non si curano dei bambini o propinano loro stupefacenti. Tale il fosco quadro che Gaskell traccia della famiglia operaia nei primi decenni dell’ottocento, un quadro non nuovo - come si è visto - e che verrà ripreso e aggiornato da tut­ ti i sociologi della prima metà del secolo, da Villermé a Buret, da Engels a Marx. Di fronte a questa tragica situazione, l’atteggiamento degli imprenditori è di totale indifferenza: Gaskell insi­ ste sulla ristrettezza di vedute e sulla grettezza morale che fanno loro considerare gli operai come semplici strumenti di profitto. « Un certo numero di braccia è richiesto per sorvegliare il lavoro della loro instancabile macchina, con il suo apparato di telai, e così via, per un determinato nu­ mero di ore e per un certo ammontare di salari: ottenute queste cose, non si cura di altro. Egli considera gli esseri umani che affollano la sua fabbrica, dalle cinque del mat­ tino alle sette di sera, soltanto come molti accessori del suo macchinario, destinati a produrre ima certa e ben nota quantità di lavoro, con la spesa minima di capitale. Le lo­ ro passioni, le loro abitudini o i loro crimini gli interes­ sano così poco, come se non avessero alcuna relazione con gli errori di un sistema di cui egli è un membro e un difen­ sore »13. Le stesse cause generali, che hanno condotto alla disso­ luzione della famiglia operaia, hanno allentato i vincoli

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familiari e il senso di comunità nelle nuove classi dirigen­ ti; l’aumento della produzione, l’acquisto di sempre mag­ giori ricchezze, il soddisfacimento sfrenato dei piaceri questi i valori e le aspirazioni che guidano il comporta­ mento di quegli imprenditori che hanno ereditato dalla loro precedente condizione un’insensibilità morale e li­ miti intellettuali non rispondenti alla nuova funzione di­ rigente. In realtà, secondo Gaskell, la loro posizione di­ rettiva nel sistema li investe della responsabilità e del do­ vere di intervenire attivamente « con uno spirito di rigo­ rosa giustizia » per dare una soluzione, compatibile con i loro diritti privati, ai problemi che la rivoluzione indu­ striale ha posto drammaticamente a tutta la comunità e in particolare agli operai. Dipende dalla classe imprendito­ riale in quanto classe dirigente, infatti, il destino del si­ stema sociale. Il suo compito specifico è l’acquisizione della fiducia degli altri uomini, e lo strumento più efficace per ottenerla è l’esempio di una vita conforme ai valori morali e religiosi della famiglia14. La separazione della famiglia, con l’allentamento dei vincoli domestici e la disgregazione dei modelli di com­ portamento, sostituisce i valori della comunità con valori individualistici e perciò provoca la separazione delle clas­ si. La conseguente mancanza di cooperazione tra esse con­ duce da un lato all’isolamento degli operai, che tendono, attraverso la formazione di modi di vita propri, a estra­ niarsi dal resto della comunità; dall’altro all’abbandono da parte della classe dirigente di quella funzione di soste­ gno e di esempio che rende possibile la cooperazione. « La mancanza di simpatia e di un rapporto personale tra il pa­ drone della manifattura e i suoi operai è una causa molto potente che tende a degradare le loro abitudini morali e la loro condizione fisica. Vivendo, come vive la maggior parte degli operai, nelle grandi città ed essendo occupati incessantemente, essi non vedono nulla intorno a sé se non esseri simili a loro. Non esiste una classe media a cui essi possano guardare come a un sostegno e a un esempio. Essi detestano e rifiutano intenzionalmente di imitare, per quanto umilmente o lontanamente, i costumi della fami­ glia del loro padrone, oppure la vedono così poco e da

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essa sono trattati così freddamente e duramente che ali­ mentano la loro volgarità in sua aperta e diretta opposi­ zione » 15. Da questo punto di vista Gaskell non propone riforme per una regolamentazione del lavoro di fabbrica, ma sollecita un differente atteggiamento della classe de­ gli imprenditori verso le altre classi sociali - atteggiamen­ to che è condizionato dal ricupero dei valori della fami­ glia dai quali dipende la possibilità di instaurare rapporti di cooperazione tra le classi16. Infatti, dalla mancata coo­ perazione tra le classi dipende l’attuale situazione di con­ flitto nella società, ed è a partire dalla separazione delle famiglie che è possibile spiegarla. Naturalmente, Gaskell sembra rendersi conto che la crisi dell’istituto familiare presuppone profonde trasformazioni strutturali su cui egli si è ampiamente soffermato; ma proprio perché la principale garanzia della stabilità sociale è un certo tipo di istituto familiare, essa può essere mantenuta soltanto a condizione di ristabilire i valori che ne sono alla base. All’inizio degli anni ’30 l’asse della ricerca sulla società industriale comincia a spostarsi sulle conseguenze sociali dell’industrialismo: l’interesse dell’opera di Gaskell ri­ siede nell’aver conferito sistematicità e completezza al mo­ dello teorico ed empirico sottostante a questo cambiamen­ to di interessi17. Nella misura in cui Gaskell pretende di ricondurre a un unico rapporto l’intero sistema sociale uscito dalla rivoluzione industriale e individua il luogo dei conflitti e della loro composizione nelle relazioni indi­ viduali e immediate della famiglia, egli non fa che riflet­ tere la situazione di disagio in cui si trova l’Inghilterra di questi anni e il modo in cui essa è percepita e valutata in certi strati politici e culturali. Come il rapporto Sadler, così gli scritti che abbiamo esaminato in questo e nel paragrafo 3 del capitolo pre­ cedente ricevettero severe critiche da parte liberale e im­ prenditoriale 18, e tutt’ora gli storici di questo periodo non sono completamente d’accordo sulla situazione effettiva della classe operaia19. Merita tuttavia osservare che, allo­ ra come oggi, i difensori del sistema di fabbrica degli an­ ni ’30 non smentiscono le affermazioni di Kay e di Ga­ skell sul deterioramento della struttura tradizionale del­

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la famiglia20. Il limite di questi autori risiede piuttosto nel fatto che non si resero perfettamente conto che la fa­ miglia, piu che essere in via di sparizione, stava trasfor­ mando la propria divisione del lavoro. Il sistema di fab­ brica stava, cioè, spingendo la struttura della famiglia ver­ so un differente livello di specializzazione. I membri del­ la commissione parlamentare incaricati della prima in­ chiesta sul lavoro dei bambini nelle fabbriche si mossero su un piano differente da quello di Gaskell e altri, e avan­ zarono proposte di riforma volte a rendere maggiormen­ te compatibile la struttura della famiglia con il sistema di fabbrica21. E in questa direzione procedette la legisla­ zione di fabbrica. Il Factory Act del 1833, da un lato li­ mitando la giornata lavorativa a otto ore per i fanciulli dai nove ai tredici anni e a dodici ore per i giovani dai tredici ai diciotto anni e introducendo il sistema a relay, dall’altro rendendo obbligatoria l’istruzione elementare « incoraggiava la separazione dei ruoli economici dell’a­ dulto e del bambino» e «spingeva la differenziazione dell’educazione formale dall’economia domestica a un nuovo livello »23. Questa legge non ebbe vita facile, per­ ché la sua applicazione fu ostacolata sia dai padroni sia dagli operai desiderosi di ristabilire il vecchio stato di cose. Questo carattere «regressivo» dell’opinione pub­ blica perdura fino all’inizio degli anni ’40 e si riflette fe­ delmente nelle posizioni assunte dagli intellettuali che, pur nella diversità delle posizioni politiche, hanno soste­ nuto il movimento per le dieci ore attraverso la denuncia dei « mali » del sistema di fabbrica.

2. Una ideologia dello sviluppo industriale: il capita­ lista illuminato. Se Babbage aveva insistito sugli elementi di razionalità introdotti nel processo lavorativo da un’adeguata specia­ lizzazione, Ure mette in rilievo gli elementi irrazionali, soggettivi e quindi incontrollabili che si accompagnano alle capacità individuali richieste dalla funzione lavorati­ va specializzata.

UNA IDEOLOGIA DELLO SVILUPPO INDUSTRIALE

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Tipico esponente dell’intellettualità inglese della prima fase della rivoluzione industriale, Andrew Ure ebbe mol­ teplici interessi nelle diverse branche delle scienze fisico­ matematiche e fu membro di importanti società scienti­ fiche del tempo24. Durante un viaggio nei distretti indu­ striali del Lancashire, del Chesire e del Derbyshire ebbe l’occasione di visitare numerose manifatture dove osservò direttamente, con il benevolo assenso degli imprendito­ ri 25, i nuovi processi industriali nei diversi settori dell’in­ dustria tessile inglese. Da queste osservazioni ebbe ori­ gine The Philosophy of Manufactures, che fu una delle opere della letteratura industriale piu lette e discusse in Europa26. Con quest’opera Ure si proponeva anzitutto di illustrare e divulgare i vari metodi di lavorazione in atto nell’industria tessile; ma il suo compito non si fermava qui. Egli riteneva che soltanto un’esatta comprensione dei principi che reggono il lavoro meccanizzato potesse con­ tribuire a un’ulteriore espansione commerciale, a migliori condizioni di lavoro e a più alti salari per gli operai. Cer­ tamente egli fu tra coloro che per primi associarono gli effetti delle macchine e del sistema di fabbrica a una rivo­ luzione, non soltanto nei modi di produzione tradizionali, ma nella stessa struttura della società27. Il factory system, per la sua natura rivoluzionaria, aveva trovato violenti op­ positori sia tra i lavoratori sia tra i proprietari terrieri. Le unions erano contrarie all’introduzione delle macchine e a qualsiasi innovazione che potesse condurre a una ridu­ zione della manodopera artigiana; l’aristocrazia terriera aveva ogni interesse a screditare la classe imprenditoriale per mantenere le proprie posizioni di potere e conduceva una violenta campagna diffamatoria, in parlamento e nel­ l’opinione pubblica, contro gli « orrori » del lavoro di fab­ brica. In veste di portavoce della classe media industriale, Ure contrapponeva la funzione di civiltà del factory sy­ stem e l’illuminato spirito d’intrapresa dei fabbricanti che ponevano al loro servizio le risorse della scienza e della tecnica28. In questo contesto politico si colloca la polemica di Ure contro la divisione del lavoro, che egli collega a una fase industriale ormai superata. Ciò che permette a Ure di

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fare il punto sulla nuova fase di sviluppo industriale, ve­ nutasi a creare con l’introduzione delle macchine e con la crescente accumulazione dei capitali, e nello stesso tempo di enunciare una nuova concezione dell’organizzazione del lavoro, è da un lato la collocazione del pensiero di Adam Smith in una fase precedente dello sviluppo economico e dall’altro la critica della divisione del lavoro considerata dall’economista inglese come il miglior tipo di organiz­ zazione per aumentare la produttività. Ure riconosce a Adam Smith il merito di aver dato una descrizione ade­ guata dei processi lavorativi in atto nella seconda metà del secolo precedente, di aver scelto, con la manifattura degli spilli, un modello esemplare di organizzazione fon­ data sulla divisione del lavoro e di aver tratto dalla sua analisi alcune indicazioni pratiche efficaci. In effetti, l’ap­ propriazione di un operaio a una determinata operazione in base ai suoi requisiti di abilità e di destrezza corrispon­ deva alle reali esigenze di una produzione caratterizzata da una quasi nulla applicazione delle macchine operatrici29. Il principio della divisione del lavoro come lo concepiva Adam Smith, - pur con tutti i suoi pregi di razionalità e pur essendo una soluzione insuperabile nel periodo in cui Smith scriveva e, in genere, in ogni situazione in cui non è possibile l’introduzione delle macchine, - presenta inconvenienti che diventano tanto più evidenti quanto più si concreta la possibilità di eliminarli con un’opportu­ na meccanizzazione del lavoro. L’operazione artigiana pre­ supposta dalla divisione del lavoro presenta sempre una stretta correlazione tra l’abilità acquisita, la discontinuità nel ritmo di lavoro e una serie di conflitti sia all’interno della fabbrica sia nel suo contesto sociale. La ragione di ciò risiede nel fatto che la base ancora artigiana dell’ope­ razione lavorativa lascia all’operaio un certo margine di iniziativa personale sul modo di esecuzione, sul ritmo di lavoro, sui rapporti con gli aiutanti - iniziativa che gli conferisce la coscienza di una relativa indipendenza e in­ dispensabilità che possono essere condizioni dell’insubor­ dinazione alla disciplina di fabbrica. «Per la debolezza della natura umana avviene che più l’operaio è abile, più è propenso a diventare caparbio e intrattabile»30, dice

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Ure, individuando nell’intervento attivo dell’operaio la fonte principale dei conflitti, nonché una maggiore capa­ cità contrattuale che costringe l’imprenditore a investi­ re più capitali in salari, e un freno alla produttività del lavoro. Quindi, « ciò che poteva costituire un utile esem­ pio ai tempi del dottor Smith, oggi non potrebbe essere usato senza il rischio di indurre in errore l’opinione pub­ blica circa il principio effettivo dell’industria manifattu­ riera. In realtà, la divisione o piuttosto l’adattamento del lavoro ai differenti talenti degli uomini non è affatto te­ nuto in considerazione nel lavoro di fabbrica. Al contra­ rio, ovunque un processo richieda una destrezza peculiare e una fermezza di mano lo si sottrae al più presto dalle mani dell’operaio abile, il quale è incline a irregolarità di vario genere, e lo si affida a un meccanismo particolare talmente autoregolativo che un bambino lo può sorve­ gliare »31. Qui Ure individua due differenti principi orga­ nizzativi basati su un differente rapporto tra l’uomo e il processo lavorativo. Nel primo caso il processo lavora­ tivo è strutturato in modo tale che le sue diverse fasi de­ vono risultare omologhe rispetto ai requisiti umani. In altri termini, l’insieme delle capacità umane, quali l’abi­ lità manuale, la resistenza alla fatica e l’attenzione, ven­ gono considerate come costanti rispetto alle quali adat­ tare le singole fasi del processo lavorativo. Nel secondo caso, poiché la macchina operatrice sostituisce una o più operazioni manuali, quel rapporto e i problemi a esso connessi non hanno più ragione di sussistere e i requisiti, che prima venivano richiesti all’operaio, diventano ora irrilevanti e superflui. In ciò consiste la differenza tra la manifattura fondata sulla divisione del lavoro e il siste­ ma di fabbrica. La distinzione di questi due tipi di organizzazione del lavoro, formulata in riferimento al livello tecnologico, era un fatto acquisito nella letteratura di questo periodo. Nel­ lo stesso anno in cui usciva The Philosophy of Manufac­ tures, Eduard Baines — lo storico dell’industria cotonie­ ra - dava una descrizione della catena di lavorazione del cotone organizzata in base alla divisione del lavoro tra macchine e indicava nel trasporto del materiale da una

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macchina all’altra, nella manutenzione e nella rettifica le uniche funzioni manuali richieste dal sistema di fabbri­ ca 32. Una distinzione analoga, condotta con particolare ri­ gore concettuale, ricorre in un’opera di Wilhelm Schulz del 1843, in cui si contrappone un «periodo della mani­ fattura intesa come attività artigiana giunta al massimo grado di scomposizione del lavoro artigiano » da un perio­ do posteriore in cui « la successiva divisione del lavoro conduce all’impiego di un macchinario più perfetto e con ciò al... grado della vera e propria fabbricazione mediante macchine »33. Per Ure, il sistema di fabbrica non incontra più i pro­ blemi tecnici relativi al rapporto tra l’uomo e il processo lavorativo, perché si sono trasformati in problemi di inge­ gneria meccanica34 : ciò che è rimasto è esclusivamente un problema di adattamento. Ma un’adeguata comprensione della trasformazione subita dal rapporto tra l’uomo e il processo lavorativo, allorché vengono introdotte le mac­ chine, presuppone una definizione precisa del factory sy­ stem. «Il termine fabbrica designa, in tecnologia, l’azione combinata di diverse classi di operai, adulti e non adulti, nel sorvegliare con abilità e diligenza un sistema di mac­ chine produttive azionate ininterrottamente da una for­ za centrale. Questa definizione comprende organizzazioni quali i cotonifici, le officine di lino, seta, lana e certe offi­ cine meccaniche; ma esclude quelle in cui i meccanismi non formano una serie connessa né dipendono da un pri­ mo motore... Veramente, alcuni autori hanno compreso sotto il termine fabbrica tutti i grandi stabilimenti in cui un certo numero di persone cooperano a un comune sco­ po produttivo e perciò farebbero rientrare nel sistema di fabbrica gli stabilimenti per la produzione della birra, le distillerie, come pure i laboratori dei falegnami, dei tor­ nitori, dei bottai e via dicendo. Ma ritengo che questo ter­ mine, nel suo significato più rigoroso, comporti l’idea di un automa enorme composto di parecchi organi mecca­ nici e intelligenti, i quali agiscono di comune accordo sen­ za interruzione per produrre uno stesso oggetto, essendo tutti subordinati a una forza motrice autoregolata. Se lo

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schieramento di esseri umani in ordine sistematico per l’esecuzione di un’intrapresa tecnica qualsiasi potesse co­ stituire una fabbrica, questo termine potrebbe abbraccia­ re tutti i rami dell’ingegneria civile e militare; perciò ta­ le ampiezza di applicazione è del tutto inammissibile »35. Tentiamo ora di riassumere le caratteristiche fonda­ mentali individuate da Ure per definire il sistema di fab­ brica. Anzitutto, Ure indica nell’azione combinata o coo­ perazione di uomini la condizione minima per l’esistenza di qualsiasi processo lavorativo; in secondo luogo, l’auto­ ma si articola in a) un sistema di macchine operatrici azio­ nate da una forza centrale (la macchina a vapore) e b) una cooperazione di operai che lavorano in ordine sistematico con funzioni di sorveglianza; in terzo luogo, l’automa agi­ sce con continuità. Ora, poiché il perfetto funzionamen­ to dell’automa è condizionato dall’adeguatezza del siste­ ma cooperativo al sistema meccanico, risulta chiaro che, venuta meno la necessità tecnica dei requisiti professiona­ li richiesti dalla divisione del lavoro, il rapporto tra l’uo­ mo e il processo lavorativo pone esclusivamente problemi di adattamento. Se il sistema meccanico aveva permesso di eliminare le fonti di conflitto tipiche della divisione del lavoro, ora l’imprenditore si trova di fronte al nuovo pro­ blema dell’integrazione dei due sistemi componenti il fac­ tory system. La difficoltà - osserva Ure - consisteva so­ prattutto « nell’addestrare gli uomini a rinunciare alle lo­ ro abitudini di lavoro irregolari e a identificarsi con la re­ golarità invariabile del complesso automa... Anche oggigiorno che il sistema è perfettamente organizzato e che in esso il lavoro si è alleggerito al massimo, è quasi impossi­ bile convertire le persone che hanno superato l’età della pubertà, siano esse tratte dalle occupazioni agricole o da quelle artigiane, in utili operai di fabbrica. Dopo essersi sforzate per un po’ di tempo di vincere le loro abitudini indolenti o caparbie, rinunciano spontaneamente al loro impiego oppure sono licenziate dai sorveglianti per la lo­ ro disattenzione »36. Perché — si chiede Ure - la Francia, che pure possiede abili inventori, ingegneri meccanici e macchine, non ha saputo realizzare un sistema di fabbri­ ca in grado di rivaleggiare con quello inglese? La ragione

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risiede nel fatto che l’invenzione meccanica non è suffi­ ciente per fondare una grande manifattura. Indipenden­ temente dalla validità di questa spiegazione, Ure mostra di avere compreso che il problema dell’integrazione dei sistemi meccanico e umano riveste un’importanza deci­ siva per creare un’organizzazione efficiente. Secondo Ure, questo problema è risolvibile mediante l’istituzione di un codice di fabbrica, cioè di una serie di norme che regolino il comportamento degli operai e stabiliscano una discipli­ na inflessibile entro la fabbrica. Tale codice prescriverà, in particolare, il compito obbligato che ciascun operaio deve svolgere alla macchina e, in generale, permetterà di controllare il comportamento disfunzionale dell’operaio ogni qual volta la sua qualificazione professionale e le re­ lative implicazioni di status che essa comporta introdu­ cono elementi di squilibrio nell’integrazione dell’automa. A partire da questo impianto, Ure poteva ricuperare l’analisi quantitativa che Babbage aveva applicato all’or­ ganizzazione tradizionale, trasferendola ai problemi della meccanizzazione del lavoro. Non si tratterà più, quindi, di scomporre un mestiere artigiano nelle sue fasi semplici per appropriare a ognuna di esse un singolo operaio, rico­ struendo in tal modo un processo lavorativo razionale fon­ dato sulla divisione del lavoro. Al contrario, una volta pervenuti agli elementi costitutivi del processo lavorati­ vo, si tratterà di ricomporli quali elementi di uno stesso meccanismo automatico37. In questo tipo di organizzazione le funzioni operaie, a differenza di quelle inserite in un’organizzazione fondata sulla divisione del lavoro, subiscono una trasformazione radicale nel senso di un progressivo svuotamento dell’ini­ ziativa individuale, fino a raggiungere una vera e propria egualizzazione - che è l’ipotesi di sviluppo avanzata da Ure sul futuro della fabbrica moderna38. Questa egualizzazione è stata resa possibile dal progressivo assorbimen­ to delle funzioni di intervento tradizionali, che richiedo­ no l’uso di uno strumento, e delle funzioni di coordina­ mento. Nel sistema di fabbrica il lavoro degli operai si è ridotto alla sorveglianza, la quale richiede attenzione e de­ strezza, ma soltanto nella misura in cui servono a correg­

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gere i « piccoli errori » che sfuggono alle macchine39. L’egualizzazione del lavoro elimina, tra l’altro, l’appropria­ zione permanente di uno stesso operaio alla stessa funzio­ ne lavorativa e la gerarchia delle funzioni secondo i gradi di abilità. Ne risulta la possibilità di realizzare una note­ vole mobilità orizzontale nella fabbrica : « secondo il si­ stema di scomporre un processo nei suoi costituenti e di incorporare ciascuna parte in una macchina automatica, queste stesse parti elementari possono essere affidate a una persona dotata di attenzione e capacità ordinarie do­ po un breve tirocinio e, in caso di emergenza, essa può ve­ nir trasferita da una macchina all’altra, secondo la discre­ zione del direttore dello stabilimento. Tali spostamenti sono in palese opposizione con la vecchia routine della di­ visione del lavoro »40. Uno dei risultati cui perverranno gli scienziati sociali nello studio della fabbrica e del suo contesto sociale è il riconoscimento che l’uomo nel processo lavorativo è un’appendice della macchina. Questa espressione ha un preciso riferimento fattuale; prova ne è che essa costitui­ sce il presupposto e il criterio operativo delle ricerche de­ gli organizzatori ora studiati, rivolte a elaborare quelle regole che permettono di massimizzare la produttività del lavoro. Questo infatti è lo scopo che si prefiggono sia gli economisti dei secoli xvu e xviii nelle loro sovente sporadiche osservazioni sulla connessione tra la divisione del lavoro e la produttività, sia gli studiosi della manifat­ tura che di quella connessione fanno oggetto di ricerca specifica, elaborando metodi adeguati di rilevamento dei dati e tecniche di analisi quantitativa. Babbage e Ure, che rappresentano l’espressione piu si­ stematica e consapevole di questi orientamenti di ricerca, partendo dall’analisi dell’integrazione dell’uomo e del pro­ cesso lavorativo, restringono la considerazione dell’ele­ mento umano a quelle caratteristiche che rientrano come variabili nell’esecuzione dei compiti produttivi. Lo studio dei tempi e dei metodi di esecuzione verte sulla descri­ zione di quelle caratteristiche dell’organismo umano che sono passibili di analisi quantitativa in termini di veloci­ tà, frequenza e fatica. Da questo punto di vista, l’analisi

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dell’uomo ha come modello la descrizione di una mac­ china relativamente semplice atta a eseguire un compito egualmente semplice. Il risultato di questa analisi condu­ ce alla specificazione di un programma dettagliato di com­ portamento perfettamente integrabile nel processo pro­ duttivo 41.1 tipi di operazioni lavorative che sono oggetto di particolare attenzione sono quelle ripetitive, che richie­ dono in misura tendente a zero l’intervento umano. Se per Babbage il problema consisteva nel ridurre a due le alternative di intervento (fatica e abilità), per Ure quelle alternative spariscono, anche se permangono temporanei problemi di adattamento circoscritti al periodo di assesta­ mento della manifattura automatica. Il modello di organizzazione che si può desumere da Babbage, ma soprattutto da Ure, è quello di un sistema altamente integrato, costituito da due sottosistemi - l’uo­ mo e il processo lavorativo - l’uno perfettamente omolo­ go all’altro. Il comportamento di ogni elemento dei sotto­ sistemi è prevedibile rispettivamente mediante un insie­ me di regole (il codice di fabbrica) e mediante la scienza tecnològica. Dal punto di vista dell’elemento umano, l’in­ tegrazione si configura come subordinazione degli operai a una direzione centralizzata, che - per usare le parole di Ure - è la funzione specifica del capitale. È questo il quadro della fabbrica capitalistica che Marx ricupererà nel primo libro del Capitale. Il ruolo che Ure aveva assegnato alle forze produttive della tecnologia co­ me forza propulsiva dello sviluppo industriale e nello stesso tempo l’analisi che egli aveva condotto delle con­ seguenze della meccanizzazione - la completa subordina­ zione dell’operaio al processo lavorativo e le ipotesi dell’egualizzazione delle funzioni e della variazione dei lavori ad essa connessa - gli serviranno di conferma e di docu­ mentazione delle ipotesi piu generali sulle trasformazioni interne al capitalismo e sul suo superamento.

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3.

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Dall’industria attraente al sistema automatico: la fabbrica come luogo di composizione dei conflitti sociali.

Torneremo ancora nel capitolo successivo sui motivi che hanno condotto gli scienziati sociali a integrare l’ana­ lisi puramente produttivistica della fabbrica — propria degli economisti e dei tecnologi - con lo studio delle con­ seguenze sociali della meccanizzazione del lavoro nella fabbrica e nel suo contesto sociale. Intanto è significativo che Ure, pur ponendosi da un esclusivo punto di vista produttivistico, tenti di spiegare la funzione sociale che la tecnologia svolge nella società. Il suo tentativo riveste un particolare interesse sia perché fornisce una certa solu­ zione al problema del conflitto sociale sia perché getta luce sull’ideologia imprenditoriale tipica di quegli anni. Al fine di chiarire il pensiero di Ure sulla funzione socia­ le della tecnologia e sugli strumenti di composizione dei conflitti, occorre tenere presente che l’introduzione delle macchine aveva permesso di eliminare gli inconvenienti della divisione del lavoro connessi con l’abilità e l’indi­ pendenza di cui l’operaio ancora godeva. Naturalmente, le macchine non avevano risolto automaticamente tutti i problemi — almeno nel periodo di transizione, allorché la fabbrica deve ricorrere alla mano d’opera tradizionale o di origine contadina. Tuttavia Ure ritiene che il siste­ ma di fabbrica, proprio per la sua struttura organizzati­ va, sia in grado di controllare, con il codice di fabbrica e con i progressivi miglioramenti del sistema meccanico, tutti i possibili comportamenti conflittuali perché dispo­ ne di strumenti che li soffocano alla radice. Le macchine, infatti, in virtu delle loro illimitate possibilità di perfe­ zionamento, assorbono progressivamente quelle funzioni residue che, lasciando all’operaio ancora un margine di intervento, potrebbero indurlo a comportamenti irrego­ lari e ad atteggiamenti dannosi per l’integrazione dell’au­ toma. « Lo scopo costante e la tendenza di ogni perfezio­ namento del macchinario consiste, infatti, nel fare com­ pletamente a meno del lavoro umano o nel diminuirne il

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prezzo, sostituendo il lavoro delle donne e dei bambini a quello degli uomini, oppure sostituendo il lavoro degli operai non specializzati a quello degli abili artigiani... Questa tendenza a impiegare soltanto fanciulli dagli oc­ chi attenti e dalle dita svelte in luogo di artigiani che pos­ seggono una lunga esperienza, dimostra come il dogma scolastico della divisione del lavoro secondo i gradi di abilità sia stato demolito dai nostri industriali illumina­ ti»42. La manifattura automatica non soltanto risolve i problemi della produttività con la normalizzazione del la­ voro, ma, adottando il principio del livellamento e della mobilità delle funzioni lavorative, riesce a eliminare gli stessi inconvenienti che l’appropriazione a una funzione esclusiva faceva pesare sulle condizioni del lavoro di fab­ brica. L’operaio, «quando trasferisce i suoi servizi da una macchina all’altra, varia il suo compito e sviluppa le sue idee riflettendo su quelle combinazioni generali che risultano dal suo lavoro e da quello dei suoi compagni. Così quella compressione delle facoltà, quella ristrettez­ za della mente, quell’arresto dello sviluppo fisico, che non a torto sono stati attribuiti dai moralisti alla divisio­ ne del lavoro, non possono, in circostanze normali, veri­ ficarsi con la distribuzione uniforme del lavoro »43. Una volta che le macchine hanno ridotto le operazioni a un’u­ nica misura di abilità e di fatica, la mobilità che ne deriva permette all’operaio di sviluppare una conoscenza piu ampia del processo lavorativo a cui partecipa, liberandolo dalla penosa condizione di fatica e di angustia in cui la di­ visione del lavoro lo aveva costretto. L’idea che le macchine, egualizzando le funzioni lavora­ tive, rendano possibile la mobilità degli operai nella fab­ brica è ricorrente nel pensiero politico e sociale di que­ sto periodo. Ure la collega a un’ipotesi di tendenza sulle trasformazioni tecnologiche e più tardi Marx la ricupera come una delle leggi di sviluppo della società capitalisti­ ca, interpretandola secondo una valutazione che fa appel­ lo a strumenti esplicativi non riducibili a un discorso tec­ nologico. Una considerazione analoga a quella di Ure, cioè sostanzialmente ottimistica, degli effetti sociali della mec­ canizzazione del lavoro veniva offerta alcuni anni dopo da

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Wilhelm Schulz, il quale vedeva nelle macchine forze che liberano l’uomo dalla fatica e dalla monotonia del lavoro uniforme, riservandogli esclusivamente una funzione di­ rettiva e intellettuale44. Partendo da un interesse analogo a quello di Ure - l’au­ mento della produttività del lavoro - ma attraverso un cammino concettuale differente, anche Charles Fourier era giunto alcuni decenni prima a individuare nella variazione dei lavori una soluzione razionale al problema della rior­ ganizzazione del lavoro. Nell’Avant-Propos del Nouveau monde industriel et sociétaire, Fourier affermava che il primo scopo del libro era l’elaborazione di un sistema per «quadruplicare improvvisamente il prodotto dell’indu­ stria» e indicava nAP attrazione industriale e nel proce­ dimento delle serie passionali i mezzi atti a realizzare il suo piano di riforma dell’industria e della società45. L’at­ trazione passionale è un impulso naturale, anteriore alla riflessione, che si conserva malgrado l’opposizione della ragione, del dovere, dei pregiudizi, e cosi via46. Essa ten­ de verso il piacere dei sensi, i legami affettuosi, l’unità delle passioni, dei caratteri e degli istinti. Il primo fine dell’attrazione passionale è la soddisfazione degli impulsi sensoriali - il gusto, il tatto, la vista, l’odorato - che la «morale repressiva» della civiltà moderna ostacola nel loro libero svolgimento47. Il secondo fine consiste nella formazione di gruppi e di serie di gruppi qualitativamen­ te diversificati secondo i legami che li uniscono48. La mec­ canica delle passioni, cioè l’impulso all’unità, è il terzo fine dell’attrazione passionale, e consiste nella tendenza a fare concordare gli impulsi sensoriali con gli impulsi affettuo­ si dell’amicizia, dell’ambizione, dell’amore e della pater­ nità 49. Questo accordo viene stabilito mediante l’interven­ to delle passioni distributive o meccanizzanti - che Fou­ rier chiama suggestivamente con i nomi cabalista, far­ falla e composita - il cui scopo è l’armonizzazione delle passioni in ciascun individuo e nei suoi rapporti sociali50. Associare significa formare e sviluppare armonicamente una massa o falange di serie passionali completamente li­ bere, spinte dalla sola attrazione e applicate ai piaceri e alle funzioni industriali51. « Questo calcolo è uno dei nuo­

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vi mondi scientifici, di cui il genio civilizzato non ha do­ vuto aprirsi l’accesso, ma che non ha nulla d’impenetrabi­ le, come ci si può persuadere: tutta la natura è un’immen­ sa meccanica di simpatie e antipatie assai metodicamente regolata e penetrabilissima al genio »52. I diversi gruppi che costituiscono una serie sono tenuti assieme passional­ mente, a condizione che gli individui provino attrazione per una particolare attività53. Di conseguenza, la distribu­ zione delle differenti funzioni tra gli individui deve essere regolata dall’attrazione passionale e non da motivi quali il bisogno, la morale, la ragione, il dovere o da qualsiasi altro genere di costrizione esternaS4. Fourier enuncia quin­ di i principi che regolano la distribuzione interna di una serie e dei suoi gruppi e sottogruppi e la distribuzione esterna o cooperazione spontanea tra le serie della falan­ ge societaria e tra le falangi contigue. Questi principi ven­ gono ricavati analiticamente da un esame delle tre passio­ ni meccanizzanti nelle loro caratteristiche peculiari, nelle loro relazioni reciproche e nelle interazioni con le altre passioni. La proprietà principale della passione cabalista è di su­ scitare le discordie: essa si sviluppa in condizioni di dif­ ferenziazione di opinioni, di gusti e via dicendo. Affin­ ché tra i gruppi nascano le rivalità emulative, la serie pas­ sionale deve soddisfare la condizione della compattezza, in altri termini i gruppi contigui devono svolgere funzioni non troppo differenziate. Per fare nascere il contrasto tra i gruppi di una serie occorre « scaglionarli secondo sfuma­ ture consecutive e ravvicinate, impiegare l’ordine compat­ to e serrato donde nascono le discordie di ciascun gruppo con quelli contigui »53. Si tratta quindi di organizzare le funzioni di una serie lungo una scala compatta in cui cia­ scuna funzione presenta determinate analogie con quelle contigue. Ma per « elettrizzare i gruppi nei loro lavori » occorre suscitare, in contrasto con la cabalista, la passione composita, che nasce dalla riunione di differenti piaceri sensibili e spirituali goduti simultaneamente e la cui fun­ zione consiste nel creare l’accordo nell’entusiasmo56. Essa costituisce il fondamento del principio organizzativo dell’esercizio parcellare, in base al quale ciascun lavoro deve

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essere suddiviso in funzioni differenti che vengono svolte dai membri del gruppo secondo i gusti individuali. Dato un determinato lavoro, si tratta di individuare un certo nu­ mero di categorie di funzioni parcellari; a ciascuna funzio­ ne di una categoria viene addetto qualche membro del gruppo, in modo che ciascuna categoria di funzioni venga coperta da un gruppo. Poiché gli individui possono eserci­ tare da una a tre funzioni differenti, si formano tanti sotto­ gruppi quante sono le funzioni parcellari su cui il lavoro è stato distribuito. « Il mondo civilizzato, obbligando un uo­ mo ad adempiere tutte le funzioni di un lavoro, ostacole­ rebbe il gioco della passione chiamata composita o esaltan­ te »57. La distribuzione parcellare del lavoro non deve es­ sere attuata mediante l’intervento autoritario di un capo: essa si applica spontaneamente e naturalmente quando l’individuo può scegliere liberamente la funzione che me­ glio si adatta ai suoi gusti e alle sue inclinazioni, cioè quan­ do può dare libero corso alle passioni e agli istinti58. Al­ trettanto naturalmente, e soltanto nelle condizioni create dal libero sfogo dell’attrazione, si creerà una distribuzio­ ne gerarchica interna ai gruppi e tra i gruppi di una se­ rie. Ma la passione piu importante, in cui Fourier vede il fondamento del principio della variazione dei lavori, e « il bisogno di varietà periodica, di situazioni contrastanti, di cambiamenti di scena, di episodi piccanti, di novità atte a creare l’illusione, a stimolare nello stesso tempo i sensi e l’anima »59. Questo bisogno si fa sentire ogni una o due ore e, se esso non viene soddisfatto, l’uomo cade nel te­ dio e nella noia. Da questa passione Fourier ricava anali­ ticamente il principio organizzativo dei turni brevi, che consente a ciascun individuo di svolgere nel corso della giornata un certo numero di funzioni differenti passan­ do continuamente da un gruppo all’altro e di mantenere vivo lo spirito di emulazione e l’entusiasmo per il proprio lavoro. « Operando per turni brevissimi di un’ora e mez­ za, due ore al massimo, ciascuno può esercitare nel corso della giornata da sette a otto generi di lavori attraenti, variare il giorno dopo, frequentare gruppi differenti da quelli della veglia; questo metodo è la promessa dell’un­ dicesima passione chiamata farfalla, che tende a svolaz­

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zare di piacere in piacere, evitando gli eccessi in cui cado­ no continuamente i civilizzati che prolungano un lavoro per sei ore, un festino sei ore, un ballo sei ore e durante la notte, a spese del sonno e della salute. Questi piaceri ci­ vilizzati sono sempre nient’altro che funzioni improdutti­ ve, mentre lo stato societario applica la varietà dei piaceri ai lavori divenuti attraenti »60. Il principio dei turni bre­ vi e della variazione dei lavori è la condanna dell’industria civilizzata perché essa, reprimendo il bisogno di varietà, impone agli individui un lavoro uniforme che mortifica il libero attuarsi di tutte le facoltà e potenzialità umane e fa dell’incompatibilità dei caratteri individuali un motivo di discordia61. Mentre nell’industria civilizzata l’interesse egoistico contrappone un individuo all’altro, l’industria attraente armonizza i caratteri e riunisce gli individui nella forma della cooperazione indiretta resa possibile dalla va­ riazione delle funzioni e dalla partecipazione a gruppi dif­ ferenti 62. Partito da una considerazione dell’uomo e dei suoi rap­ porti con gli altri come un meccanismo di istinti e di pas­ sioni naturali, Fourier è pervenuto a definire un tipo di organizzazione del lavoro che si modella su quel mecca­ nismo, individuando in esso la possibilità di una forma di associazione essenzialmente armonica. «Osserviamo be­ ne questa proprietà intrinseca al meccanismo societario: accontentare tutte le classi, tutti i partiti »63. Con l’elimi­ nazione dei conflitti dall’industria si apre la possibilità di sostituire al « mondo capovolto » dell’industria moderna, con la morale repressiva che ne sta alla base, un « mondo a dritto senso » in cui all’armonia e al libero sviluppo del­ le passioni individuali e sociali corrisponde una armonia tra le classi che compongono la società. Come per Fourier l’industria attraente costituiva il pun­ to di partenza per una ricostruzione armonica della socie­ tà, così per Ure il sistema automatico della fabbrica è la premessa del superamento dei conflitti sociali che carat­ terizzavano il periodo della divisione del lavoro. L’inte­ grazione dell’operaio nell’automa coincide - secondo Ure - sia con gli interessi produttivistici dell’imprenditore, perché permette di normalizzare il processo lavorativo,

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sia con gli interessi dell’operaio, che - adattandosi perfet­ tamente all’organizzazione automatica - può sviluppare le sue facoltà. Questo atteggiamento costituisce la premes­ sa di un’ideologia ispirata all’armonia tra le diverse clas­ si sociali garantita a priori dalla struttura tecnologica del processo lavorativo. La forza propulsiva della tecnologia, che garantisce uno sviluppo indefinito dell’organizzazione produttiva, svolge una funzione economica in quanto dif­ fonde il benessere tra le classi sociali, una funzione sta­ bilizzante in quanto risolve i conflitti e una funzione « mo­ rale » poiché sviluppa, con la mobilità delle funzioni, le facoltà umane. In una pagina estremamente illuminante, Ure concepisce la società, alla stregua della fabbrica, co­ me un insieme di sistemi il cui accordo determina l’armo­ nico funzionamento del tutto. Come l’organismo animale è composto di sottosistemi che cooperano a uno scopo co­ mune, pur nella diversità delle loro funzioni, cosi nella società il sistema del lavoro deve essere subordinato e agi­ re in accordo con il sistema morale identificato con il ca­ pitale che trova il proprio sostegno nello stato64. Abbiamo cercato di spiegare l’analogia delle posizioni di Fourier e di Ure per quanto concerne alcuni aspetti del­ l’organizzazione del sistema produttivo e le loro conse­ guenze sociali nella fabbrica e nella società. In realtà, al di sotto di questa identità di vedute, ci sono una differente concezione dell’industria e una differente previsione del suo sviluppo. Esaminando la possibilità di istituire le serie passionali nell’industria metallurgica, del legno e in altre fabbriche e manifatture, Fourier rileva le difficoltà di sod­ disfare le condizioni della compattezza e dell’esercizio par­ cellare per una serie di funzioni e osserva che in questi settori dell’industria ci si dovrà limitare a serie « castra­ te », in cui le varie funzioni parcellari non sono distribui­ te uniformemente nel senso che le funzioni contigue pre­ sentano eterogeneità che alterano l’equilibrio e l’armonia delle passioni.. Secondo Fourier, questi difetti sono inevi­ tabili, ma non costituiscono un’obiezione all’istituzione delle falangi societarie. «Le manifatture tanto esaltate nel sistema politico dei moderni, che le pongono al livel­ lo dell’agricoltura, non figurano nello stato societario che

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a titolo di accessori e complementi del sistema agricolo, funzioni subordinate alle sue convenienze... esse non ter­ ranno che il secondo rango nell’industria e, malgrado le possibilità di beneficio, verranno abbandonate quando non potranno alimentare gli intrighi cabalistici associati all’a­ gricoltura del cantone »65. Da queste considerazioni Fou­ rier trae una differente previsione sul futuro dell’indu­ stria. Ridotte a una posizione subordinata le attività pro­ duttive diverse da quelle agricole, l’industria perverrà a un grado di perfezione tale da contrarre progressivamente il tempo dedicato alla fabbricazione dei prodotti manifatturati in modo da costituire un semplice diversivo del la­ voro agricolo66. La teoria dell’industria attraente si fonda, dunque, sul­ la posizione centrale assegnata al lavoro agricolo. Soltan­ to nell’agricoltura è possibile organizzare in maniera per­ fetta le attività in serie e in cooperazione in base alla di­ sparità e all’eterogeneità dei lavori, dei gusti, dei caratte­ ri, delle passioni. I principi sottostanti alle serie passio­ nali sono la variazione e l’eterogeneità dei lavori, e l’at­ trazione industriale si realizza combinando questi due principi: gli individui passano attraverso serie di lavori differenti. Per Ure, al contrario, la variazione dei lavori presuppone una radicale egualizzazione delle funzioni. Qui Ure si discosta da Fourier sia per una differente con­ cezione dell’industria, sia per ima differente considera­ zione della sua base tecnologica. L’industria che Ure ha davanti agli occhi è quella del cotone, dove l’uso sistema­ tico delle macchine ha livellato le prestazioni a una mi­ sura minima e uniforme. Da questa differente imposta­ zione Ure trae un’importante conclusione relativa alla possibilità per l’operaio di appropriarsi conoscitivamen­ te dell’intero processo lavorativo di una fabbrica. Anche Ure, naturalmente, era legato a un’ideologia imprendi­ toriale che faceva appello all’armonia delle classi, ma l’a­ spetto interessante del suo tentativo è di averla ancorata a una visione piu realistica dello sviluppo industriale o, per lo meno, di averla collegata al settore piu avanzato dell’industria nella prima metà dell’ottocento. Cosi, l’a­ ver sottolineato la necessità di un preciso codice di fab­

INDUSTRIA ATTRAENTE E SISTEMA AUTOMATICO

79 brica dimostra quanto Ure fosse lontano dal facile otti­ mismo della meccanica delle passioni. « Inventare e ap­ plicare un codice efficace di disciplina di fabbrica, adat­ to alle necessità del lavoro di fabbrica, fu l’impresa ercu­ lea, la nobile azione di Arkwright »67, afferma Ure enfa­ ticamente. Il codice di fabbrica è indispensabile sia per­ ché la variazione dei lavori, in un sistema altamente inte­ grato come quello automatico, deve avvenire a discrezio­ ne del master, sia perché la diversità dei caratteri e delle passioni degli operai non è perfettamente compatibile con l’uniformità del lavoro. « Quando il selvaggio nomade di­ venta un cittadino, egli rinuncia a molti dei suoi perico­ losi piaceri in cambio di tranquillità e protezione. Egli non può piu soddisfare a suo arbitrio uno spirito vendica­ tivo sui suoi nemici, né impadronirsi con violenza dei be­ ni di un vicino. Allo stesso modo, quando l’artigiano ri­ nuncia a un lavoro pesante con un impiego e una paga in­ certi in cambio di un lavoro continuativo di genere più leggero con salari regolari, egli deve necessariamente ri­ nunciare al suo antico privilegio di fermarsi quando gli piace, perché con ciò egli getterebbe l’intero stabilimento nel disordine »68. Ciò che per Fourier era il presupposto dell’industria attraente, diventa per Ure una causa reale di conflitti che deve essere eliminata. Mentre per Fourier si trattava di adattare il processo lavorativo alla meccani­ ca naturale delle passioni, per Ure il problema consisteva nel creare ruoli omologhi al sistema automatico. La diver­ sità dei due punti di vista - prescindendo da considera­ zioni ideologiche, per altro irrilevanti - è la diversità del­ le basi tecnologiche considerate. Lo scarso contenuto tec­ nologico dell’agricoltura francese all’inizio del secolo xix giustifica in una certa misura l’utopia fourierista della fa­ lange societaria69; le macchine e la conseguente rigidità della struttura tecnologica e sociale della fabbrica inglese autorizzavano una concezione dell’industria che non la­ sciava spazio ad alternative prevedibili.

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1 p. gaskell, The Manufacturing Population of England, its Mo­ ral, Social, and Physical Conditions, and the Changes which have arisen from the Use of Steam Machinery; with an Exami­ nation of Infant Labour, London 1833. La 2a ed. reca il titolo Artisans and Machinery: the Moral and Physical Condition of the Manufacturing Population considered with reference to Me­ chanical Substitutes for Human Labour, London 1836, ristam­ pa anastatica London 1968. 2 Nello scritto citato di Kay, per esempio, non è sempre chiaro se l’autore si riferisce ai lavoratori in generale o agli operai impie­ gati nelle fabbriche. 3 p. gaskell, The Manufacturing Population of England, p. 2. Qui Gaskell si riferisce all’inchiesta parlamentare condotta da Sadler. Egli così continua: «Non essendo in alcun modo in rap­ porto con manifatture, non avendo il minimo interesse per l’e­ sistenza o la non esistenza di qualsiasi particolare ordine di cose, l’Autore confida di soddisfare un desiderio nella letteratura - e in questo frangente, quando gli animi umani sono infiammati sull’argomento, che sta appena cominciando a ricevere quell’at­ tenzione che le sue dimensioni e il suo enorme valore richiedo­ no» (ibid.). 4 Ibid., p. 7. 5 Ibid., p. 9. 6 Ibid., p. 7. 7 Ibid., pp. 7-8. 8 Ibid., p. 51. 9 Ibid., p. 29.1 termini morality e moral designano l’insieme degli atteggiamenti umani in quanto sono forniti di un significato di valore. 10 Ibid., p. 89. 11 Ibid., pp. 95-96. 12 Ibid., p. 128. 13 Ibid., pp. 71-72. 14 Cfr. ibid., pp. 8-9. 15 Ibid., pp. 170-71. 16 Come per Kay, anche per Gaskell l’istruzione è uno dei mezzi per sollevare lo stato delle classi lavoratrici. Tuttavia Gaskell è piu legato alla concezione della famiglia come strumento legitti­ mo di trasmissione dei valori (ibid., pp. 269 e 270-72). Da que­ sto punto di vista, Gaskell sottovaluta l’importanza di altri tipi di istruzione e di altri mezzi di trasmissione, la cui esigenza si faceva sentire da molte parti: « I bambini impiegati nelle fabbri­ che presentano peculiari tratti intellettuali che distinguono il bambino di città da quello di un distretto agricolo. Essi sono acuti e di intelligenza pronta; una circostanza che nasce dalla

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maggiore varietà di oggetti portati a loro conoscenza precoce­ mente e dal fatto di essere lasciati alle loro risorse. Veramente, non è improbabile che l’attenzione esclusiva richiesta per una particolare mansione possa, in una certa misura, limitare e re­ stringere la capacità generale di acquisire una conoscenza diver­ sificata. Tuttavia non è dimostrato che ciò avvenga; né se fosse, significherebbe molto, poiché questa è una specie di conoscenza che non aumenterebbe molto la loro felicità individuale» {ibid., pp. 211-12). 17 Parlando della Philosophy of Manufactures di Ure (cfr. oltre), Gaskell dice in Artisan and Machinery che « nelle sue ampie ve­ dute meccaniche egli ha trascurato l’attore umano eccetto nella misura in cui forma una parte subordinata nel suo grande dram­ ma del vapore e delle macchine» (p. 133). 18 Cfr. A. ure, The Philosophy of Manufactures, or an exposition of the scientific, moral, and commercial economy of the factory system of Great Britain, London 1835; e. baines, History of the Cotton Manufacture in Great Britain', w. c. Taylor, Factories and the Factory System from Parliamentary Documents and Per­ sonal Examination, London 1844. 19 Cfr. e. j. hobsbawm e r. m. hartwell, The Standard of Living during the Industrial Revolution: A Discussion, in «Economic History Review», xvi, 1963, pp. 119-46, e la bibliografia ivi ci­ tata. 20 Per esempio, W. C. Taylor ammette che «la ragazza occupata tutto il giorno nella fabbrica ha poche possibilità di imparare i particolari dell’economia domestica e della conduzione di una fa­ miglia. Quando si sposa è lontana dall’esser ben qualificata a soddisfare i doveri di moglie e di madre e sovente li trascura en­ trambi» {Factories and Factory System, pp. 45-46). 21 «Uomini disinteressati, freddi, analitici e privi di sentimentali­ smi, essi erano scienziati sociali modello, vivamente approvati da J. S. Mill. Come discepoli del grande Bentham, credevano nel calcolo edonistico e nelle dottrine dell’utilità ed erano insensi­ bili ai richiami a norme morali o etiche» (j. T. ward, The Facto­ ry Movement, p. 94). Cfr. First Report of the Central Board of His Majesty's Commissioners, appointed to Collect Information in the Manufacturing Districts, as to the Employment of Chil­ dren in Factories, and as to the Propriety and Means of Cur­ tailing the Hours of their Labour (1833), e Second Report... (1833), in c. wing, Evils of the Factory System, demonstrated by Parliamentary Evidence, pp. 301-64 e 365-82. 22 Cfr. j. T, ward, The Factory Movement, p. no. Il testo della legge è riprodotto integralmente in c. wing, Evils of the Factory System, demonstrated by Parliamentary Evidence, pp. 431-42. 23 N. j. smelser, Social Change in the Industrial Revolution, pp. 294-95.

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24 Nacque a Glasgow nel 1778 e mori a Londra nel 1857. Iniziò i suoi studi nella città natale, li continuò a Edimburgo e si addot­ torò a Glasgow nel 1801, ivi stabilendosi per esercitare la pro­ fessione di medico. Poiché si interessava principalmente di chi­ mica e di scienze naturali, accettò nel 1804 una cattedra alla Andersonian Institution, da cui insegnò con successo fisica e chi­ mica fino al 1830, anno in cui si trasferì a Londra. Nel 1834 venne nominato chimico del Board of Customs e fu membro della Royal Society di Londra. Le sue opere principali sono: A New Systematic Table of the Materia medica, Glasgow 1813; A Dictionary of Chemistry in the Basis of M. Nicholson’s, Lon­ don 1821; A New System of Geology, London 1829; The Phi­ losophy of Manufactures: or an Exposition of the scientific, mo­ ral and commercial economy of the factory system of Great Bri­ tain, London 1835; The Cotton Manufacture of Great Britain, z vol!., London 1836; A Dictionary of Arts, Manufactures and Mines, London 1839. 25 Che i proprietari e i direttori di fabbrica non fossero molto en­ tusiasti di accogliere visitatori nelle loro fabbriche si spiega con due motivi. Sovente si trattava o di ingegneri che cercavano di carpire i segreti di fabbricazione o, peggio, di ispettori che inda­ gavano sulle condizioni fisiche e morali dei lavoratori. Natural­ mente, per Ure ogni timore era infondato, come dimostra la let­ tura del suo libro sulla scienza delle manifatture, il cui tono apo­ logetico nei confronti dell’industrialismo procurò all’autore il sarcasmo di Marx che nel Capitale lo definisce « der Pindar der automatischen Fabrik». 26 Di questo testo esiste una trad, francese col titolo Philosophic des Manufactures ou economie industrielle de la fabrication du coton, de la laine, du Un et de la soie, avec la description des diverses machines employees dans les ateliers anglais, traduit sous les yeux de l’auteur et augmenté d’un chapitre inédit sur l’industrie cotonnière francaise, etc., 2 voli., Paris 1836.1 rinvii alle pagine si riferiscono alla ristampa anastatica (London 1967) condotta sull’edizione del 1835. 27 « Quando i primi telai ad acqua per filare il cotone furono eretti a Cromford, nella romantica vallata del Derwent, circa sessan­ tanni fa, gli uomini non erano affatto consapevoli dell’imponen­ te rivoluzione che il nuovo sistema di lavoro era destinato a com­ piere dalla provvidenza, non soltanto nella struttura della socie­ tà inglese, ma nelle sorti del mondo intero» (a. ure, The Philo­ sophy of Manufactures, pp. 14-15). 28 Per la polemica sul factory system, vedi il capitolo precedente. 29 « Quando Adam Smith scrisse i suoi immortali elementi di eco­ nomia, poiché il sistema automatico era ancora poco conosciuto, egli fu indotto giustamente a considerare la divisione del lavoro come il grande principio di perfezionamento della manifattura; egli dimostrò, nell’esempio della fabbricazione degli spilli, che

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un artigiano, essendo in grado di perfezionarsi con l’esercizio in un solo punto, diviene un operaio piu spedito e meno costoso. In ciascuna branca della manifattura, egli vide che, in base a que­ sto principio, certe operazioni, come il taglio dei fili metallici in lunghezze uniformi, erano di facile esecuzione e che altre, come la confezione e l’applicazione delle capocchie degli spilli, erano in proporzione piu difficili; ne concluse, allora, che a ciascuna di queste operazioni veniva assegnato naturalmente un operaio di valore e costo appropriati. Questa appropriazione costituisce la vera essenza della divisione del lavoro ed è stata compiuta co­ stantemente fin dall’origine della società. Il lavoratore, dotato di un braccio robusto e di un occhio esercitato, è sempre stato as­ sunto ad alti salari per arare la terra e il bifolco a bassi salari per condurre gli animali» (a. ure, The Philosophy of Manufactures, p. 19). 30 Ibid., p. 20. La tessitura a mano e la torcitura leggera (nella fab­ bricazione dei panni di lana, la torcitura leggera o stubbing è un processo intermedio tra la cardatura e la filatura) sono esempi particolarmente significativi dal punto di vista dei conflitti ine­ renti alla divisione del lavoro: «la torcitura leggera è un’opera­ zione manuale che dipende dall’abilità dell’operaio e che di con­ seguenza partecipa di tutte le sue irregolarità... Quando l’ope­ raio occupato alla torcitura leggera è in ritardo col lavoro, dopo esser stato all’osteria, si rimette al lavoro con irruenza e fa cor­ rere la sua macchina con una tale rapidità che diventa impossi­ bile ai suoi giuntatori seguirlo; tuttavia, se li sorprende mini­ mamente in ritardo, non esita ad alzare sopra il telaio la lunga barra di legno chiamata billy-roller e a batterli senza pietà» (ibid., pp. 8-9). Con ciò Ure voleva anche dimostrare che gli «or­ rori » del sistema di fabbrica non dipendevano dal sistema auto­ matico, né dai proprietari o dai direttori degli stabilimenti, ma dagli stessi operai e, in genere, da fattori tecnologici in via di su­ peramento. Su questo punto cfr. ibid., pp. 177-85 e 299 sgg. 31 Ibid.,p. 19. 32 Cfr. e. baines, History of the Cotton Manufacture in Great Britain, pp. 242-43. Nel 1831 il padre di Baines, Edward, pub­ blicò la prima edizione della sua History of the County Palatine and Duch of Lancaster in quattro volumi, di cui il secondo con­ tiene tre capitoli sulla storia dell’industria cotoniera scritti dal figlio. Questi capitoli vennero pubblicati separatamente nell’ed. cit. del 1835. Un anno dopo uscivano i due volumi de The Cot­ ton Manufacture of Great Britain di Ure. 33 W. schulz, T)ie Bewegung der Produktion. Eine geschichtlichstatisfische Abhandlung zur Grundlegung einer neuen Wissenschaft des Staats und der Gesellschaft, Zurich-Winterthur 1843, p. 37. A proposito dell’analoga distinzione marxiana insisteremo sull’importanza che quest’opera riveste quale fonte di Marx ri­ spetto ai problemi della divisione del lavoro e della fabbrica.

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34 « La principale difficoltà, secondo me, non consisteva tanto nel­ l’invenzione di un meccanismo automatico per la stiratura e la torcitura del cotone in un filo continuo, quanto piuttosto nella distribuzione delle differenti membra di questo congegno, per formare un corpo cooperativo, nell’azionare ciascun organo con delicatezza e velocità appropriate» (a. ure, The Philosophy of Manufactures15). 35 Ibid., pp. 13-14. Questa definizione è molto importante non sol­ tanto perché rappresenta un punto d’arrivo ben definito, in cui gli studiosi della società industriale prendono chiara consapevo­ lezza delle peculiari caratteristiche della meccanizzazione del la­ voro, ma, ai fini del nostro studio, anche perché tale definizione sarà ripresa e sviluppata da Marx in connessione con le sue cate­ gorie interpretative in una direzione che vedremo. 36 Ibid., pp. 15-16. 37 Marx ha riconosciuto l’importanza di questa analisi quando ha obiettato a Proudhon che il processo di ricomposizione del lavo­ ro non avviene per l’operaio, ma nella macchina. Nel Capitale cosi si esprime: «Si apprezzi quindi al suo giusto valore la fan­ tastica trovata di Proudhon il quale... "costruisce” il macchinario non come sintesi di mezzi di lavoro, ma come sintesi di lavori parziali per gli operai stessi» (libro I, p. 466, nota 185). 38 Cfr. A. ure, The Philosophy of Manufactures, pp. 20-21. 39 «In quelle sale spaziose la forza benevola del vapore raccoglie attorno a sé le sue miriadi di servi volenterosi e assegna a cia­ scuno il compito regolato, sostituendo al loro gravoso sforzo muscolare le energie del suo braccio gigantesco e chiedendo in cambio soltanto attenzione e destrezza per correggere quei piccoli errori che occasionalmente si verificano nella sua lavo­ razione» (ibid., p. 18). Nella descrizione dei particolari tecnici delle macchine operatrici impiegate nei diversi settori tessili, Ure indica le operazioni manuali sostituite e quelle richieste. Per esempio, illustrando una cardatrice automatica impiegata nella lavorazione della lana, che esegue l’operazione richiesta median­ te la rotazione di due pettini circolari, osserva: «Queste ruote vengono fatte girare lentamente, mentre un ragazzo, seduto per terra, ne rifornisce una di lana. Quindi vengono fatte girare con grande rapidità, facendo passare la cinghia di trasmissione sulla puleggia adatta, durante la cui rotazione si avvicinano gradual­ mente l’una all’altra. Essendo questo un lavoro di semplice sor­ veglianza e non un lavoro che comporta sforzo e abilità, come la cardatura a mano, ora è compiuto da bambini; ed esso mostra, in un punto di vista singolare, l’effetto del meccanismo automa­ tico, nell’incorporare la destrezza manuale e l’intelligenza in una macchina e con ciò sostituendo il lavoro a basso prezzo e docile al posto di ciò che è caro e caparbio» (ibid., p. 150). «Il prin­ cipio del sistema di fabbrica consiste, quindi, nel sostituire la scienza meccanica all’abilità manuale e la scomposizione di un

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processo nei suoi costituenti essenziali alla divisione o gradua­ zione del lavoro tra artigiani. Secondo il procedimento artigiano il lavoro più o meno specializzato era solitamente l’elemento di produzione più costoso - Materiam superabat opus-, ma secondo il procedimento automatico, il lavoro specializzato viene progres­ sivamente sostituito e, alla fine, sarà rimpiazzato da semplici sor­ veglianti di macchine» (ibid., p. 20). 40 Ibid., p. 22. 41 Alcuni esempi di questi programmi si trovano in Perronet (cfr. F. Klemm, Technik, p. 264); c. babbage, On the Economy of Machinery and Manufactures, pp. 146-47 e 138-46 per la mani­ fattura degli spilli; nonché in Ure per diversi processi lavorativi dell’industria cotoniera (cfr. A. ure, Ehe Philosophy of Manu­ factures, libro II, capp. 2-6). xfj/bid., p. 23. 43 Ibid., pp. 22-23. 44 « Lo scopo costante e l’effetto del progresso scientifico nelle ma­ nifatture sono filantropici, in quanto tendono a sollevare gli ope­ rai dalle rettifiche minuziose che esauriscono lo spirito e affati­ cano gli occhi o dalla penosa ripetizione dello sforzo che defor­ ma o logora le ossa. A ogni fase di ciascun processo manifattu­ riero descritto in questo volume, l’umanità della scienza diverrà manifesta» (ibid., p. 8). Schulz fa eco a queste parole quando os­ serva che, con l’impiego delle macchine, « diventa possibile asse­ gnare alle forze cieche della natura esterna le occupazioni pura­ mente meccaniche e semplicemente ripetitive; mentre l’uomo si riserva il lavoro più alto dell’industria e di queste forze della na­ tura egli diventa la guida e il direttore intelligente, attivo più intellettualmente che fisicamente. Con ciò egli entra in un rap­ porto di attività del tutto nuovo» (w. schulz, Die Bewegung der Produktion, p. 38). 45 c. Fourier, Le nouveau monde industriel et sociétaire, ou in­ vention du procede d’industrie attrayante et naturelle distribuée en séries passionnées, Paris 1829; 2a ed. in CEuvres complètes de Ch. Fourier, tomo VI, Paris 1845, ristampa anastatica Paris 1966, p. IX. 46 Cfr. ibid., p. 47. 47 L’espressione «morale repressiva» è di Fourier (cfr. ibid., p. 71). 48 I gruppi sono quattro: due maggiori (gruppo amicale e gruppo d’ambizione) e due minori (gruppo d’amore e gruppo di pater­ nità o famiglia); essi sono determinati da quattro impulsi affet­ tuosi: amicizia, ambizione, amore e paternità. 49 Cfr. c. Fourier, Le nouveau monde industriel et sociétaire, p. 4950 « Cosi l’uomo, nelle condizioni attuali, è in uno stato di guerra con se stesso. Le sue passioni si scontrano... Di qui nasce la scien­ za chiamata morale, che pretende di reprimerle; ma reprimere

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non è meccanizzare, armonizzare; il fine è di arrivare al meccani­ smo spontaneo delle passioni, senza reprimerne nessuna» (ibid., P- 49)51 Le funzioni industriali sono : il lavoro domestico, agricolo, mani­ fatturiero e commerciale, l’insegnamento e lo studio e l’impiego delle scienze e delle belle arti. 52 c. Fourier, Le nouveau monde industriel et sociétaire, p. 65. 53 «Nella teoria delle passioni, si intende per gruppo una massa coalizzata dall’identità di gusto per l’esercizio di una funzione » (ibid., p. 55). 54 Cfr. ibid., pp. 52 e 58. 55 Ibid., p. 73. 56 «La composita o esaltante crea gli accordi d’entusiasmo. Non basterebbe l’impulso di cabala o spirito di parte per elettrizzare i gruppi nei loro lavori: occorre mettere in gioco i due contrasti, la forza riflessiva della cabalista e la foga cieca della composita, che è la più romantica delle passioni, la più nemica del ragiona­ mento» (ibid., p. 72). 57 Ibid., p. 54. ì 58 « Queste divisioni non devono stabilirsi per ordine di un capo, ma per attrazione, per impiego spontaneo» (ibid., p. 58). Si ha rapporto d’identità tra i membri di un gruppo quando hanno opi­ nioni identiche su una funzione « che hanno scelto passionalmen­ te e che possono abbandonare liberamente» (ibid., p. 73). 59 Ibid., p. 68. é0 Ibid.,p.67. 61 Cfr. ibid., p. 74. 62 Cfr. ibid., p. 75. 63 Ibid., p. 13. Sulle espressioni «mondo a rovescio» e «mondo a dritto senso» cfr. ibid., p. 2. 64 Cfr. a. ure, The Philosophy of Manufactures, p. 55. 65 c. Fourier, Le nouveau monde industriel et sociétaire, p. 140. 66 Cfr. ibid., p. 151. Fourier spinge più oltre le sue previsioni ipo­ tizzando, in luogo della concentrazione industriale nelle città, una dispersione delle manifatture nelle campagne (cfr. ibid., p. 153). Herbert Marcuse, che con molta disinvoltura compie una regressione da Marx a Fourier, sembra non tener conto del con­ testo generale, dei presupposti e delle implicazioni dell’ideale utopico del travail attrayant (cfr. Eros and Civilization, Boston 1955, e Das Ende der Utopie, Berlin 1967). 67 A. ure, The Philosophy of Manufactures, p. 15. 68 Ibid., pp. 278-79. 69 Nemmeno l’industria presenta un quadro differente in questo pe­ riodo. La prima fase della rivoluzione industriale in Francia si

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colloca tra il 1815 e il 1848, ma una industrializzazione su vasta scala si ha soltanto dopo il i860. Nel 1848 il paese era soprattut­ to agricolo. Cfr. A. l. dunham, La revolution industrielle en France (1815-1848), Paris 1951; c. ballot, L’introduction du machinisme dans V industrie francaise, Paris 1923.

Capitolo terzo

i. Le contraddizioni dell’economia politica.

L’interesse di Marx per i problemi economici e sociali risale agli anni 1842-43, allorché sulla «Reinische Zeitung » ebbe occasione di occuparsi dei dibattiti alla Dieta renana sulla libertà di stampa e sui furti forestali, della proprietà fondiaria, della situazione dei contadini della Mosella e della polemica, libero-scambista. Il programma politico che stava alla base di questi interessi era la lotta contro le istituzioni feudali e reazionarie della Germania e la riforma dello stato e della rappresentanza popolare in senso liberale e democratico. Compito degli intellettua­ li è interpretare i diritti dell’umanità che incarnano la li­ bertà razionale, mostrare come tali diritti siano in contra­ sto con l’irrazionalità dell’organizzazione politica e socia­ le e indicare una forma di stato compatibile con quei di­ ritti. Contro la libertà intesa come « proprietà individuale di determinate persone e classi », Marx invocava la « li­ bertà universale della natura umana » realizzata nelle leggi dello stato \ Alla società civile divisa in ordini, in cui pre­ valgono gli interessi particolari, e allo stato in quanto ga­ rante di tali interessi, egli contrapponeva « l’organica ra­ zionalità dello stato » e le « sfere reali » della società, in cui il popolo non fa valere « singoli bisogni contro lo sta­ to », bensì « lo stato medesimo, e precisamente come atto di esso popolo, come suo proprio stato »2. Intorno alla metà del ’43, lavorando intorno a una cri­ tica della filosofia hegeliana del diritto, Marx riformulava la contrapposizione tra l’irrazionalità della realtà politica e sociale e la razionalità dello stato in termini di conflitto tra la società civile e lo stato. Facendo appello al « vincolo

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sostanziale» che unisce gli individui in quanto membri dello stato all’attività e al potere statale, egli individua­ va nella costituzione, nelle istituzioni politiche, negli af­ fari dello stato funzioni che nella democrazia diventano umane, « modi di esistenza e attività delle qualità sociali degli uomini » 3. Attraverso la rivendicazione delle qualità sociali dell’uomo, e riconducendo la vita politica all’uomo reale, Marx intendeva in realtà riconfermare il program­ ma della trasformazione politica della società. Tale pro­ gramma, tuttavia, non era privo di contraddizioni e di ec­ cessive semplificazioni. Nel maggio del ’43 Marx formu­ lava nei termini consueti il problema dell’emancipazione: contro il « mondo alla rovescia » del dispotismo e dell’uo­ mo disumanizzato occorre ridestare l’idea della libertà per « generare dalla società una comunità di uomini con il lo­ ro fine piu alto: uno stato democratico »4. Ma nello stes­ so tempo individuava nel «sistema dell’industria e del commercio, della proprietà e dello sfruttamento umano » un terreno di scontro piu radicale5. A misura che l’orga­ nizzazione economica della società borghese veniva a co­ stituire per Marx un punto di riferimento, egli si convin­ ceva del carattere illusorio della lotta per lo stato demo­ cratico; non appena prendeva in considerazione l’indu­ stria, il commercio e la proprietà privata, gli riusciva dif­ ficile far coincidere la democrazia con l’emancipazione umana. Egli era pur sempre convinto, in polemica con i socialisti e i comunisti, che esiste un « modo politico » di considerare « le lotte, le esigenze, le verità sociali »6 e tut­ tavia prendeva posizione contro le illusioni dell’emancipa­ zione politica. La Questione ebraica1 testimonia questo periodo di transizione nel pensiero giovanile di Marx. Da un lato egli si rende conto che la democrazia non può co­ stituire lo scopo ultimo di una lotta politica il cui obiet­ tivo è la trasformazione radicale della società; dall’altro lato continua a considerare la separazione tra la società ci­ vile e lo stato come l’unico punto di riferimento valido, anche se poi non è in grado di indicare quali forze debba­ no sopprimere tale separazione. Soltanto verso la fine del ’43 Marx arriva a impostare in modo nuovo il problema dell’emancipazione. Indivi­

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CAPITOLO TERZO

duando nel mondo della produzione e nelle sue diramazio­ ni al livello della sfera statale « uno dei problemi princi­ pali del tempo moderno »8, Marx scopriva nel proletaria­ to la forza capace di trasformare la società. Riferendosi per ora alla situazione in Germania, egli indicava nel « mo­ vimento industriale » la condizione che rende possibile la formazione del proletariato. « Per la Germania il proleta­ riato comincia solo a formarsi collo straripante movimen­ to industriale, perché non la povertà sorta naturalmente, ma quella prodotta artificialmente, non la massa oppressa meccanicamente dal peso della società, ma quella prove­ niente dalla sua acuta decomposizione, e principalmente dalla decomposizione del ceto medio, forma il proletaria­ to »9. Il terreno di scontro è costituito dai « rapporti del­ l’industria, e in genere del mondo dei ricchi, col mondo politico »; da questo punto di vista il proletariato rappre­ senta «la possibilità positiva» dell’emancipazione uma­ na, perché una rivoluzione radicale presuppone la « forma­ zione d’una classe gravata da catene radicali » e « non può essere che la rivoluzione di bisogni radicali » 10, Ciò signi­ fica che « le lotte, le esigenze, le verità sociali » non pos­ sono più essere considerate semplicemente « in modo po­ litico », ma devono essere ricavate dai rapporti dell’indu­ stria e della proprietà privata. Con lo studio dell’economia politica iniziato a Parigi nel 1844, Marx si proponeva di individuare anzitutto le leggi che regolano « il movimento industriale » nelle socie­ tà economicamente più avanzate come l’Inghilterra e la Francia e, in secondo luogo, la connessione, per ora sol­ tanto accennata, tra il movimento dell’industria e la for­ mazione del proletariato. Nella Prefazione ai Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx avverte che i risultati cui era pervenuto « sono stati ottenuti attraverso un’ana­ lisi del tutto sperimentale, fondata su un coscienzioso stu­ dio critico dell’economia politica » n. Le stesse idee socia­ listiche, soprattutto quelle sviluppate da Hess e da Engels, e le analisi delle condizioni della classe lavoratrice con­ dotte da economisti e riformatori come Sismondi e Buret, interessavano a Marx nella misura in cui offrivano un con­ tributo critico e tentavano di chiarire la connessione tra il

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movimento dell’industria e il proletariato. Marx si propo­ neva anzitutto di elaborare un’alternativa teorica alla pre­ tesa scientificità dell’economia politica e, in secondo luo­ go, di reimpostare il problema dell’emancipazione umana sulla base dello sviluppo industriale12. Secondo Marx, gli economisti vogliono garantire la fe­ licità della società attraverso l’accrescimento della ricchez­ za, e la condizione originaria che permette di raggiungere questo fine è il lavoro, che essi intendono come attività naturale, in quanto aumenta il valore dei prodotti naturali e costituisce il fondamento naturale dell’appropriazione dei prodotti. Con il concetto di ordine naturale, l’econo­ mia politica non aveva soltanto inteso fare valere una nor­ ma direttiva per la costruzione di una politica economica orientata verso la diffusione del benessere e il raggiungi­ mento della felicità; ma se ne era servito anche per fare valere il postulato metodologico dell’ordinabilità e della coerenza dei rapporti economici. L’ordine, che avrebbe dovuto essere confermato dai fatti sulla base di quel pre­ supposto, era una rete di rapporti sociali reciprocamente dipendenti, che trovavano il loro fondamento ultimo nel carattere naturale del lavoro e della proprietà da esso ga­ rantita. In realtà Marx, esponendo il capitolo sul salario nel primo libro della Wealth of Nations, mostra, con esempi ricavati da Smith stesso, che il mondo dell’econo­ mia si configura non già come una totalità di rapporti ar­ monici, ma come il terreno in cui i conflitti si manifesta­ no con maggiore violenza e si moltiplicano a misura che l’analisi smithiana si approfondisce. Per Smith « il prodot­ to del lavoro costituisce la ricompensa naturale o salario del lavoro »13, ma il funzionamento del meccanismo eco­ nomico, che dovrebbe confermare tale conformazione del­ l’attività produttiva, dimostra, al contrario, che il prodot­ to del lavoro appartiene al capitalista e al proprietario fon­ diario, entrambi in possesso di un potere di comando sul lavoro. «Mentre, secondo l’economista, unicamente col lavoro l’uomo aumenta il valore dei prodotti naturali, e il lavoro è la sua attiva proprietà, c’è, secondo la medesima economia politica, il proprietario fondiario e c’è il capita­ lista che come proprietario fondiario e come capitalista

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sono puramente delle privilegiate e oziose deità, dapper­ tutto superiori al lavoratore e suoi legislatori »14. Attra­ verso un esame dei termini primitivi dell’analisi econo­ mica, Marx dimostra che le categorie di salario, capitale, profitto, accumulazione, concorrenza, rendita fondiaria, e cosi via, presuppongono conflitti sociali di cui gli econo­ misti sono consapevoli soltanto in parte, perché non ne tengono conto nelle loro definizioni e deduzioni. I conflit­ ti tra operai e capitalisti per la determinazione del salario, tra affittuari e proprietari terrieri per la determinazione della rendita, tra proprietari fondiari e capitalisti indu­ striali sui problemi di fondo della politica economica e tra piccoli e grandi capitalisti nel processo di accumulazione del capitale sono sovente ammessi, in tutto o in parte, da­ gli economisti. Essi tuttavia considerano tali conflitti sem­ plicemente come accidentali o come risultato di singole azioni violente e casuali, di cui pertanto occorre fare astra­ zione nella formulazione delle leggi economiche. Astraen­ do deliberatamente da tutti i fenomeni che in qualche mi­ sura possono far inceppare il funzionamento del sistema economico, gli economisti non si rendono conto che i con­ flitti sociali sono in contraddizione coi presupposti del­ l’ordine naturale, della felicità della maggioranza e dell’ar­ monia sociale15. Se il lavoro non garantisce la proprietà dei prodotti e la libertà del lavoratore, ma, al contrario, è subordinato al comando del capitale, ciò significa che esso non è l’attività naturale e originaria dell’uomo per eccellenza: « l’economista suppone un’unità primitiva dei due [di lavoro e capitale] come unità di capitalista e ope­ raio, e questo è il paradisiaco stato originario. Come que­ sti due momenti si scontrino, quasi persone, ciò è per l’e­ conomista un fatto accidentale e però spiegabile solo este­ riormente »16. Gli economisti non si rendono conto che la realtà economica, che dovrebbe confermare l’ordine na­ turale, lo falsifica proprio al livello delle condizioni che lo dovrebbero assicurare. In realtà, l’attività che è com­ patibile con il meccanismo economico della società bor­ ghese è sottoposta alle stesse leggi che regolano la pro­ duzione e lo scambio delle merci. « Ma che il lavoro stes­ so, non soltanto nelle presenti condizioni, bensì in quan-

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to, in generale, il suo scopo è il mero accrescimento di ricchezze, che il lavoro, dico, sia dannoso e funesto, ciò consegue, senza che l’economista lo sappia, dalle sue pro­ prie deduzioni »17. All’economista interessa esclusivamen­ te il carattere strumentale del lavoro; per l’economista il lavoro è una semplice funzione dell’accrescimento della ricchezza ed esiste soltanto nella forma di lavoro salaria­ to. Con le stesse parole dell’economia politica, Marx re­ gistra la strumentalizzazione cui di fatto il lavoratore è soggetto nella società borghese. « S’intende da sé che l’e­ conomia politica considera soltanto come lavoratore il proletario, cioè colui che, senza capitale e rendita fondia­ ria, vive puramente del suo lavoro, e di un lavoro unila­ terale, astratto. Essa può quindi stabilire il principio che il lavoratore deve, come un cavallo, guadagnarsi tanto da poter lavorare. Non lo considera come uomo, nel tempo in cui non lavora; ma lascia questa considerazione alla giu­ stizia criminale, ai medici, alla religione, alle tabelle stati­ stiche, alla politica e agli sbirri dell’accattonaggio » 18. Dalla lettura della Wealth of Nations Marx traeva la conclusione che, nella misura in cui l’economia politica si sforza di trovare nel meccanismo economico una confer­ ma dell’ordine naturale e, conformemente a esso, di ela­ borare regole di azione, perviene a conclusioni che con­ traddicono il fine della felicità. Cosi Smith è costretto a riconoscere l’inevitabile connessione tra la ricchezza della società e la miseria dell’operaio, tra la concentrazione dei capitali e la riduzione dei salari al minimo della sussisten­ za, tra l’aumento delle forze produttive e la riduzione del lavoro a un’attività meccanica e uniforme. « Ma poiché, secondo Smith, non è una società felice quella in cui la maggioranza soffre, e poiché lo stato di massima ricchezza della società conduce a questa sofferenza della maggioran­ za, ed è l’economia politica (e in genere la società dell’in­ teresse privato) che conduce a questo stadio di massima ricchezza, il termine dell’economia politica è dunque l’in­ felicità della società » 19. Il meccanismo economico, da si­ stema armonico e coerente, si trasforma in un sistema di contraddizioni di cui gli economisti, pur riconoscendo di fatto l’esistenza, non sanno rendere conto. Ma se è cosi,

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l’organicità e la coerenza dell’analisi economica è una pre­ tesa che gli economisti non sono riusciti a soddisfare. La tesi secondo cui la scienza economica è un sistema di contraddizioni e di astrazioni non era nuova nella let­ teratura socialistica e riformistica dei primi decenni dell’Ottocento. Con differenti accentuazioni e con conclusio­ ni in larga misura contrastanti, questa tesi risale a Sismondi e a Buret; Engels l’aveva ripresa e riformulata come strumento rivoluzionario nell’Abbozzo di una critica del­ l'economia politica, dove Marx molto probabilmente la incontra per la prima volta. Engels parlava di contraddi­ zioni a proposito dell’economia postmercantilistica del se­ colo xviii e si riferiva in particolare a Smith, che aveva si criticato la dottrina della bilancia commerciale, ma ne ave­ va conservato i presupposti dell’egoismo e dell’avidità di denaro, arrivando a conclusioni contraddittorie quando pretendeva di difendere gli interessi dei consumatori; da un lato Smith proclamava il commercio « legame d’unio­ ne e di amicizia tra le nazioni e tra gli individui »20, ma dall’altro lato spingeva all’estremo « l’ostilità dei singoli, l’infame guerra della concorrenza »21. In questa direzione Engels esaminava anzitutto le categorie di valore, rendita, capitale, lavoro, concorrenza, rivelando la natura contrad­ dittoria delle loro definizioni e riconducendo i conflitti so­ ciali che esse presuppongono alla proprietà privata; in secondo luogo, egli mostrava la contraddittorietà della legge della concorrenza e l’unilateralità della teoria malthusiana. Almeno entro certi limiti, le letture economiche com­ piute da Marx nel corso del 1844 si servono di questo strumento interpretativo. Nei Manoscritti economico-filosojici del 1844, Marx concludeva l’esame dei principali concetti economici sostenendo che Smith, Say e Ricardo descrivono « il processo materiale della proprietà priva­ ta » assumendo la proprietà privata come un « fatto » che non richiede spiegazioni; ma mettendo da parte il proble­ ma di fondare la scienza economica, gli economisti sono costretti a utilizzare concetti contraddittori e mal definiti e a formulare leggi astratte che essi non possono compren­ dere 22. Come per Engels l’espressione ricchezza nazionale

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95 « è stata introdotta soltanto dalla mania generalizzatrice degli economisti liberali », ma in realtà è « priva di sen­ so» nelle condizioni della proprietà privata23, così per Marx il concetto di ricchezza, inteso come «una certa quantità di cose che hanno un valore »24, « presuppone già il concetto del valore, che non è ancora sviluppato; poiché la ricchezza è definita come “somma dei valori”, “somma delle cose valutabili”, che si possiedono » 25. Ma con il con­ cetto di ricchezza gli economisti non soltanto presuppon­ gono quello di valore, ma anche quello di scambio. Per Say, dire che due cose sono una « ricchezza uguale » si­ gnifica dire che « generalmente si consente liberamente a scambiarle l’una con l’altra »26, sicché - osserva Marx «lo “scambio” diventa fin dall’inizio l’elemento essenzia­ le della ricchezza »27. Altrove, dopo aver trascritto alcuni passi della Wealth of Nations sull’origine della divisione del lavoro, Marx rileva che la spiegazione di Smith è cir­ colare, perché riconduce la separazione dei lavori alla ten­ denza della natura umana a scambiare i prodotti e indi­ vidua nella divisione del lavoro la condizione che rende possibile lo scambio28. E a proposito della teoria ricardiana della rendita, per la quale occorre distinguere la ferti­ lità naturale del terreno dalla produttività in quanto con­ seguenza dell’investimento di capitale da parte del fittavolo, Marx afferma che le facoltà primitive e indistrutti­ bili del suolo « sono un’astrazione »29. Le ragioni delle astrazioni e delle contraddizioni vanno ricondotte, secondo Marx, al rifiuto degli economisti di giustificare la proprietà privata. Say aveva sostenuto espli­ citamente nel suo Traité ^economie politique che il fon­ damento e le garanzie del diritto di proprietà e le regole che presiedono alla trasmissione dei beni posseduti non sono questioni pertinenti all’economia politica e che la loro trattazione è demandata alla filosofia, alla giurispru­ denza e alla scienza politica. Secondo Say, per l’economia la proprietà è « il più potente degli incoraggiamenti alla moltiplicazione delle ricchezze »30; concependo la proprie­ tà come un « possesso riconosciuto », « l’economia politi­ ca ne suppone l’esistenza come una cosa di fatto e soltan­ to accidentalmente ne considera il fondamento e le con-

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seguenze »31. La produzione, la distribuzione e il consu­ mo costituiscono l’oggetto dell’economia politica e le ric­ chezze si formano, si distribuiscono e si consumano sol­ tanto se esiste la proprietà. Evidentemente, Engels si ri­ feriva a queste opinioni di Say quando scriveva che l’e­ conomia politica, in quanto « scienza dell’arricchimento », « non si preoccupò di cercare la giustificazione della pro­ prietà privata »32. Leggendo il trattato di Say, Marx si fermava sulla definizione di proprietà e, accogliendo il to­ no polemico dell’affermazione di Engels, osservava: «La proprietà privata è un fatto, della cui fondazione l’econo­ mia politica non si occupa, ma che ne costituisce la base. Non c’è ricchezza senza proprietà privata e l’economia po­ litica è per essenza la scienza deWarricchimento. Dunque, non c’è economia politica senza la proprietà privata. Dun­ que, tutta l’economia politica si fonda su un fatto senza necessità »33. Ma se l’economia politica non è una scienza fondata, ciò significa che la scientificità cui essa aspira è una pretesa che non può realizzare e che pertanto le leggi che essa formula sono false. Per dimostrare la falsità del­ le leggi economiche è sufficiente ricondurle al loro presup­ posto, cioè alla proprietà privata. Questa operazione vie­ ne compiuta in riferimento al concetto di valore di Ricar­ do e alla sua teoria della rendita, che prescinde dalla con­ correnza e quindi dalla proprietà privata, e in riferimento alla legge degli sbocchi di Say. Nell’Abbozzo Engels aveva ricostruito la polemica sul valore tra Ricardo e MacCulloch da un lato e Say dall’al­ tro. Per gli uni il valore di una cosa è determinato dai co­ sti di produzione, mentre per l’economista francese esso è determinato dall’utilità. Ma Ricardo è costretto a fare intervenire le nozioni di compera e vendita per motivare la sua definizione di valore, per la quale si dovrebbe in­ vece fare astrazione dal commercio e dalla concorrenza; a sua volta Say deve ricorrere alla concorrenza e ai costi di produzione per conferire una certa misura di oggetti­ vità alla nozione di utilità definita precedentemente in via puramente soggettiva. « Per rimettere in piedi queste zop­ picanti definizioni, — concludeva Engels, - bisogna pren­ dere in considerazione in ambedue i casi la concorrenza »;

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mentre per Ricardo « la concorrenza rappresenta Futilità nei confronti dei costi di produzione... per Say essa intro­ duce nei confronti dell’utilità i costi di produzione »34. A sua volta Marx osservava che Ricardo, « parlando di valeur échangeable, intende sempre il prix naturel e prescin­ de dagli accidenti della concorrenza, che egli chiama quelque cause momentanee ou accidentelle. L’economia po­ litica, per dare maggiore consistenza e determinatezza al­ le sue leggi, deve supporre gratuitamente la realtà come accidentale e l’astrazione come reale »35. Pur mostrando l’inconsistenza della definizione del valore in base all’uti­ lità, egli accetta la definizione di Say e sostiene che, con la proprietà privata, il valore di scambio è determinato dalla concorrenza, cioè in base al rapporto tra la domanda e l’offerta. Da un lato Say è costretto a rinunciare alla de­ terminazione del valore in termini di utilità, come aveva mostrato Engels : « Per Say la concorrenza sostituisce i co­ sti di produzione. L’utilità, cioè la concorrenza, dipende appunto, secondo lo stesso Say, dalla moda, dal capriccio, ecc. »36. Dall’altro lato Say ha ragione nel definire « chi­ merica» la distinzione tra il prezzo naturale e il prezzo corrente o di mercato. « Egli lo dimostra dicendo che il lavoro, il capitale e la terra non si determinano secondo un tasso fisso, ma secondo il rapporto tra quantità offerte et quantità demandée »37. Per Marx è possibile stabilire una misura oggettiva del lavoro, del capitale e della terra in rapporto ai costi di produzione. Ma per impiegare tale misura è necessario uscire dalla società dell’interesse pri­ vato, ponendosi dal punto di vista della « communauté », nella quale soltanto ha senso prescindere dalla proprietà privata e dalla concorrenza38. Con Say, al contrario, « da­ to che nell’economia politica non si [tratta] d’altro che del prix courant, le cose non sono piu considerate in rela­ zione ai loro costi di produzione e i costi di produzione non sono piu considerati in relazione agli uomini, ma tut­ ta la produzione è considerata in relazione al traffico »39. È difficile stabilire, in base alle osservazioni sparse e so­ vente aforistiche contenute nei quaderni di estratti, se Marx connetteva la determinazione del valore in base alla concorrenza con la sua critica alla legge di Say. Ricardo e

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J. Mill, pur non accogliendo la formulazione di Say, ave­ vano accettato la sua legge degli sbocchi, inserendola nel punto in cui la loro nozione di prezzo naturale veniva a coincidere con la nozione di valore o prezzo corrente in Say. Comunque, la stessa argomentazione che conduce a criticare la definizione di Ricardo serve a Marx per denun­ ciare la falsità della legge di Say; come Ricardo non tiene conto della concorrenza, cosi Say prescinde arbitrariamen­ te dagli effetti della concorrenza. Per Say, Ricardo e Mill, in una società in cui la divisione del lavoro è molto svi­ luppata, gli uomini si procurano i beni e i servizi produ­ cendo beni e servizi equivalenti; in tal modo la produzio­ ne non soltanto aumenta l’offerta di beni, ma crea anche la domanda corrispondente, mettendo gli uomini in con­ dizione di acquistare quei beni. Questa tesi aveva dei pre­ cedenti nella dottrina dell’ordine naturale nei fisiocratici, ma può esser fatta risalire agli scritti antimercantilistici di Boisguillebert, di cui Marx aveva riportato un certo nu­ mero di passi in uno dei quaderni di estratti40. Per Bois­ guillebert, gli uomini sono inseriti nella struttura armo­ nica della divisione del lavoro e, nella misura in cui cia­ scuno svolge liberamente la propria funzione, gli scambi dei beni e dei servizi avvengono regolarmente con giusti­ zia e garantiscono a ciascuno la sussistenza41. Ma non ap­ pena gli uomini creano ostacoli e si oppongono all’ordine naturale e alla giustizia degli scambi, ciò che per ciascuno era superfluo e serviva a garantire la sussistenza di altri diventa strumento di privazione42. Sollecitato da queste affermazioni, Marx prendeva per la prima volta posizione contro la legge di Say che, non senza un certo grado di attendibilità, egli ricollegava alla dottrina dell’armonia degli scambi in Boisguillebert: « B[oisguillebert] spiega la penuria entro l’abbondanza per mancanza di scambio dei prodotti e quindi per la conseguente diminuzione del­ la produzione e del consumo produttivo; ciò rassomiglia a Say che dimostra l’impossibilità della sovrapproduzione con la sua teoria dei débouchés »43. Mostrando l’inconsistenza della comune opinione che i prodotti vengono assorbiti dal mercato in ragione della maggiore o minore disponibilità di denaro, Say aveva for-

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mulato la tesi secondo cui « è la produzione che apre gli sbocchi ai prodotti »44. Una merce è sovrabbondante non perché ci sia scarsità di denaro nelle mani degli acquiren­ ti - il denaro è semplicemente un mezzo di scambio -, ma perché esiste scarsità di altri prodotti con cui quella mer­ ce potrebbe essere scambiata: «molti hanno acquistato meno perché hanno guadagnato meno; e hanno guadagna­ to meno, perché hanno trovato difficoltà nell’impiego dei loro mezzi di produzione oppure perché mancavano loro questi mezzi »45. Ricardo accoglie questa tesi di Say, so­ stenendo da un lato che qualunque importo di capitali trova sempre impiego in una produzione, perché « la do­ manda è limitata soltanto dalla produzione», e, dall’altro lato, che il produttore non può essere, « per uno spazio di tempo abbastanza prolungato, male informato sulle mer­ ci che egli può produrre nella maniera più vantaggiosa per conseguire l’obiettivo che ha in vista, cioè il possesso di altri beni »46; di conseguenza, non è possibile che si produca una merce per la quale non esiste una domanda corrispondente. «I prodotti vengono sempre acquistati con prodotti o con servizi; la moneta non è che il mezzo con cui lo scambio è effettuato. È possibile che una singo­ la merce sia prodotta in quantità eccessiva, cosicché ci sia nel mercato un tale ingorgo da non ricompensare il capi­ tale speso per quella merce; ma ciò non può accadere per tutte le merci »47. Say e Ricardo ammettono che determi­ nati beni possono essere prodotti in eccesso relativamente a tutti gli altri beni, perché la domanda di un singolo be­ ne è condizionata dall’offerta di tutti gli altri beni ed è indipendente dall’offerta di quel bene; ma la stessa cosa non vale per la produzione complessiva di un paese, per­ ché a questo livello la domanda e l’offerta non sono indi­ pendenti 48. Studiando il capitolo sugli effetti dell’accumulazione, in cui Ricardo formula la legge degli sbocchi, Marx aveva già messo in dubbio l’attendibilità di questa legge, allor­ ché individuava nella concorrenza, nei fallimenti e nelle crisi commerciali altrettanti fatti che smentiscono il prin­ cipio della proporzionalità tra l’accumulazione dei capi­ tali e le possibilità del loro impiego. Anzitutto tale pro-

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porzionalità non sussiste nelle condizioni imposte dalla concorrenza e dal suo fondamento, la proprietà privata. Per dimostrare questa tesi Marx distingue l’accumulazione come aumento di un singolo capitale dall’accumula­ zione come « azione ripartita », cioè come aumento del nu­ mero dei capitali49 ; quindi collega la concorrenza con que­ sto secondo tipo di accumulazione e conclude che l’accu­ mulazione dei capitali conduce a una diminuzione delle possibilità del loro impiego produttivo. « Se i capitali - in base al presupposto della proprietà privata, s’intende non fossero troppo numerosi in rapporto agli impieghi del capitale, in generale la concorrenza sarebbe inspiegabile, poiché la concorrenza non è possibile senza che venti sia­ no al posto di tre; dunque si verifica una sovrabbondanza di capitali in relazione all’impiego »50. Tra il principio del­ la proporzionalità e la concorrenza esiste quindi incompa­ tibilità e l’operazione di Ricardo consiste appunto nel pre­ scindere dalla concorrenza51. In secondo luogo, se si am­ mette che qualunque importo di capitale può essere sem­ pre impiegato produttivamente, si preclude la possibilità di spiegare le crisi commerciali: o si ammette l’esistenza delle crisi e allora si deve rinunciare al principio della pro­ porzionalità; oppure tale principio è attendibile, ma allo­ ra Ricardo deve rinunciare alla proprietà privata52. Fino a questo punto Marx ha dimostrato che nel corso del processo di accumulazione si verificano le crisi di pro­ duzione e la conseguente diminuzione dei profitti; nel quaderno di estratti su Boisguillebert, egli conclude il suo ragionamento dimostrando la possibilità delle crisi di so­ vrapproduzione 53. Riferendosi ancora a Say, « che dimo­ stra l’impossibilità della sovrapproduzione con la sua teo­ ria dei débouchés », egli afferma: « La teoria di Say è fal­ sa come tutte le teorie dell’economia politica »54. Ammet­ tendo la possibilità degli ingorghi in un ramo di produ­ zione, in realtà Say ammette implicitamente la possibilità di un ingorgo generale della produzione in tutti i rami. La produzione è caotica perché si effettua nelle condizioni dell’alienazione e della proprietà privata; in altri termini, perché la produzione « non è umana »55. Fin qui Marx ha seguito il ragionamento di Engels, secondo il quale le cri­

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si di mercato si verificano perché gli uomini non organiz­ zano consapevolmente la produzione, ma agiscono « co­ me atomi dispersi senza coscienza collettiva »56 ; tuttavia Marx tenta una spiegazione delle crisi di sovrapproduzio­ ne partendo dalle stesse premesse della legge degli sboc­ chi per metterne in luce il carattere astratto. Say, e con lui tutti gli economisti, partono dal presupposto della pro­ prietà privata senza darne una giustificazione e finiscono per non tenerne conto nelle loro argomentazioni. Cosi, af­ fermando che nell’ambito di un paese la produzione apre gli sbocchi dei prodotti, « Say dimentica che il limite del­ la demande è la proprietà privata »57. Anche nell’ipotesi favorevole in cui un paese produce quanto piu è possibi­ le e in cui tutti posseggono quanti più equivalenti è pos­ sibile, lo scambio avviene sempre tra coloro che sono in grado di acquistare i prodotti e « ciò che vale per un pae­ se, — continua Marx, — vale per i paesi tra loro »58. Per Say, se gli esportatori inglesi non riescono a disfarsi dei loro prodotti, ciò non è dovuto al fatto che l’Inghilterra produce troppo, ma al fatto che i paesi importatori pro­ ducono troppo poco. Il vino francese, obietta Marx, si scambierà con il cotone inglese, se nei due paesi ci sono «candidati solvibili» per il vino e il cotone: anche in questo caso Say dimentica che « la proprietà privata pro­ duce per la proprietà privata »59. In Francia non si pro­ ducono quante più scarpe è possibile, perché milioni di persone sono scalze; per Say si ha sovrapproduzione quan­ do si producono più scarpe di quante possono essere ac­ quistate dalle persone solvibili. Nelle condizioni della pro­ prietà privata, la sovrapproduzione è inevitabile perché dal lato dell’offerta c’è una produzione illimitata di beni, mentre dal lato della domanda il bisogno di beni è deter­ minato dal numero di persone che possono acquistarli. Say e Ricardo avevano ammesso che, in circostanze par­ ticolari e per brevi periodi di tempo, è possibile produrre più merci di quante non siano necessarie per soddisfare determinati bisogni; per Marx, la produzione non soltan­ to eccede « la misura determinata dai bisogni umani in ge­ nerale, ma la misura determinata dall’esiguo numero de­ terminato di persone solvibili »60. Ciò non significa che lo

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sbocco dei prodotti risiede nella produzione di merci in altri rami del paese o in altri paesi, ma che quanti piu uo­ mini è possibile devono possedere prodotti per lo scam­ bio; nelle condizioni della proprietà privata, l’eccedenza non mette in grado quanti più uomini è possibile di scam­ biare i prodotti e di assorbire la produzione, ma fa dimi­ nuire il prezzo al di sotto dei costi di produzione e con­ duce inevitabilmente alla crisi61. Marx sembra indicare due cause generali e concomitan­ ti delle crisi di sovrapproduzione. La proprietà privata produce per la proprietà privata; dunque, scarpe, vino, cotone sono prodotti soltanto in quanto equivalenti per lo scambio. « Per quanto Say ampli l’estensione della pro­ duzione, ne aumenti all’infinito la diversità, di tutti que­ sti prodotti diversi chi ne possiede uno o più li scambierà sempre e soltanto con chi analogamente ne ha alcuni e il cui bisogno è limitato. Dunque i prodotti non si scambia­ no con altri prodotti, ma con i prodotti in quanto pro­ prietà privata »62. L’incoscienza della produzione, il fatto che non è umana e che si effettua nelle condizioni dell’a­ lienazione significa che dal punto di vista della proprietà privata esiste soltanto l’umanità solvibile e che i prodotti non trovano la loro destinazione nel consumo, ma sono soltanto equivalenti per lo scambio di altre merci. « Dun­ que la produzione può superare la demanàe », perché il suo unico valore è il valore di scambio e non la possibilità di soddisfare i bisogni e perché i bisogni dell’« esiguo nu­ mero determinato di persone solvibili» sono limitati63. Di conseguenza, già al livello elementare del rapporto di scambio, cioè nel baratto, sussistono le condizioni delle crisi di sovrapproduzione M. A un livello più sviluppato, in cui Marx fa intervenire il contrasto di ricchezza e miseria, la possibilità diventa una realtà quotidiana. Nelle condizioni della proprietà privata, infatti, gli equivalenti degli scambi sono tali sol­ tanto in quanto sono posseduti dall’umanità solvibile. Gli economisti escludono la possibilità di crisi generali di so­ vrapproduzione, perché per loro è un dato di fatto che la ricchezza si forma dentro la miseria. « Gli economisti non si meravigliano che in un paese possa aver luogo una so­

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vrapproduzione di prodotti, anche se per la maggioranza c’è la piu grande mancanza dei mezzi pili elementari di sussistenza. Essi sanno che la ricchezza ha per condizione una relativa miseria quanto piu estesa possibile »65. Ma con ciò essi occultano il carattere antagonistico della pro­ duzione: da un lato la perdita di valore .delle merci è una conseguenza necessaria dell’abbondanza dei prodotti, per­ ché il loro unico valore è il valore di scambio66 ; dall’altro lato la ricchezza presuppone una massa di persone insol­ vibili che vive nella miseria. In seguito, quando i produt­ tori non riescono a realizzare nemmeno i costi di produ­ zione, gli economisti si meravigliano che le merci abbiano perso il loro valore e devono ammettere che si può pro­ durre troppo rispetto alle capacità di assorbimento del­ l’umanità solvibile. Allora fanno intervenire il commer­ cio con l’estero e auspicano una completa liberalizzazione degli scambi per aprire i mercati alla produzione, senza rendersi conto che, con le merci, essi esportano anche il carattere antagonistico della produzione67. « Gli economi­ sti liberali vedono, in vero, che il monopolio traccia attor­ no agli individui una barriera doganale che rende impos­ sibile lo scambio dei prodotti, ma non vedono che la pro­ prietà privata fa altrettanto»68. Fermandosi all’astratta contrapposizione tra il monopolio e la libera concorrenza, gli economisti non vedono che « con l’aumento della pro­ duzione aumenta la mancanza di debouches, perché au­ menta il numero dei non proprietari»69: il movimento della proprietà privata e l’organizzazione dell’industria ca­ pitalistica crea una sovrabbondanza di prodotti ed esclu­ de contemporaneamente la maggioranza della popolazione dal risultato della produzione70. Le barriere che gli econo­ misti liberali cercano di abbattere non sono quelle che la proprietà privata erige attorno a un numero crescente di uomini, contraddicendo la sua stessa tendenza verso una produzione crescente. Non producendo per la società, ma per il valore di scambio, il movimento della proprietà pri­ vata crea attorno a sé una massa di non proprietari e ri­ duce progressivamente gli sbocchi. Quindi, in ultima ana­ lisi, le crisi di sovrapproduzione sono per Marx una con­ seguenza inevitabile del contrasto tra la ricchezza e la mi­

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seria all’interno della produzione capitalistica, dell’anta­ gonismo tra l’esiguo numero di possessori di equivalenti e la gran massa dell’umanità insolvibile nell’ambito di una produzione illimitata il cui fine è il valore di scambio. 2. Ricchezza e miseria: il sottoconsumo nella sociolo­ gia di E, Buret. Con la spiegazione delle crisi economiche Marx si ricol­ legava alle analisi sociologiche del sottoconsumo che si erano servite della contrapposizione tra la ricchezza e la miseria per spiegare il tipo di sviluppo caratteristico del­ le società industrializzate e i suoi effetti negativi sulle classi lavoratrici. Sismondi con la teoria delle crisi di so­ vrapproduzione, Buret con l’analisi della miseria, Schulz con la descrizione dei processi concomitanti di concentra­ zione e di proletarizzazione sono autori che Marx aveva Ietto a Parigi e di cui si serviva ampiamente. L’attendibi­ lità dei fatti che questi autori utilizzano contro le armonie economiche dei classici e le concezioni ottimistiche dello sviluppo tecnologico non è mai messa in dubbio nei ma­ noscritti del ’44. Buret aveva condotto una critica dell’e­ conomia politica sulle tracce di Sismondi e aveva indivi­ duato nella connessione tra la ricchezza e la miseria un’i­ potesi che permetteva di spiegare la situazione della clas­ se operaia. Egli insisteva soprattutto sulla parzialità e sull’astrattezza della scienza economica, che considera l’o­ peraio soltanto dal punto di vista dei costi di produzione e quindi lo riduce a una merce soggetta alle fluttuazioni del mercato; e proprio a questo proposito Marx aderisce alla sua analisi registrando alcuni luoghi della Misere des classes laborieuses senza apporvi nessun commento, ma con un atteggiamento di implicita adesione71. La connes­ sione tra la ricchezza e la miseria, il conflitto delle classi e la riduzione dell’operaio a merce sembrano dunque lo sfondo comune delle interpretazioni che Buret e Marx davano della società industriale. Resta da vedere in qua­ le misura la contrapposizione tra la ricchezza e la miseria, cui metteva capo l’analisi delle contraddizioni dell’econo­

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mia politica, costituisse per Marx uno strumento inter­ pretativo irriducibile. Ma per risolvere questo problema occorre anzitutto chiarire il significato che Buret attribui­ va a quella contrapposizione. Sia Marx sia Buret partivano da una concezione della miseria diversa da quella che molti autori francesi aveva­ no formulato negli anni 1820-30. Il ritardo tecnologico ed economico della Francia si riscontrava, infatti, in lar­ ga misura nei lavori a impostazione prevalentemente fi­ lantropica che si proponevano di attirare l’attenzione del­ l’opinione pubblica sul pauperismo. I lavori del barone di Cerando, di Duchatel, del barone di Morogues e del vi­ sconte Alban de Villeneuve-Bargemont si collocano in un generico spirito umanitario sorretto dagli ideali cristiani e suscitato da un lato dalla miseria delle classi lavoratrici francesi e dall’altro lato dal crescente disagio della classe dirigente di fronte alle agitazioni operaie72. Tuttavia, se le cause della miseria e delle agitazioni operaie non ven­ gono chiaramente individuate, ciò è dovuto soprattutto al fatto che la povertà non viene considerata come un fe­ nomeno sociale specifico e storicamente determinabile e quindi non viene compiuto nessun tentativo di porre in relazione la povertà con la struttura sociale e con le for­ me di produzione in essa dominanti73. In ultima analisi, questi studi attribuivano le presunte cause del pauperi­ smo allo spirito di imprevidenza e alla degradazione fisi­ ca e morale dei lavoratori, finendo per scambiare gli ef­ fetti con le cause. Si comprende allora come i filantropi auspicassero una generale opera moralizzatrice delle clas­ si lavoratrici e vedessero nella riorganizzazione degli isti­ tuti di beneficenza pubblica e privata un valido strumen­ to di riforma sociale. L’arretratezza della Francia si riflet­ te anche nelle stesse ideologie fourieriste e sansimoniane, che sono state definite opportunamente come « ideologie dell’industrializzazione ritardata »74. L’esaltazione dell’in­ dustria compiuta da Saint Simon e la funzione centrale assegnata alle banche nello sviluppo economico sono si­ gnificative in quanto tentativi di superare il ritardo eco­ nomico e tecnologico della Francia a confronto della vi­ cina Inghilterra. Cosi le dottrine fourieristiche, seppure

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meno ancorate a una visione realistica di una società in­ dustriale in via di sviluppo, erano rivolte in larga misura a mobilitare le forze attive del paese contro le forme di pensiero e le strutture sociali preindustriali. La letteratura sociologica sulle conseguenze sociali del­ l’industrialismo ha origine in Francia tra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’40. Il ruolo svolto dalla tecnolo­ gia nel modellare le istituzioni sociali e nell’imporre vin­ coli all’azione riformatrice veniva definito per la prima volta da Pecqueur proprio in questi anni, mentre il con­ flitto di classe diventa strumento di analisi della società francese e punto di partenza per una politica di rivendi­ cazioni in L. Blanc, Buchez e Cabet75. Contemporanei a questi lavori sono le inchieste promosse dall’Académie des Sciences Morales et Politiques, la prima delle quali fu condotta dal medico L.-R. Villermé ed ebbe come og­ getto le condizioni degli operai nell’industria francese della seta, della lana e del cotone; essa costituisce una del­ le fonti francesi più importanti per molte ricerche ana­ loghe posteriori76. L’interesse di questo lavoro risiede principalmente nella massa imponente di dati sulle con­ dizioni di vita e di lavoro degli operai di fabbrica e so­ prattutto nel tentativo di organizzare questi dati in una visione sistematica che chiarisca le tendenze di fondo del­ l’industrialismo. Tuttavia, se questo tentativo è riuscito a Villermé soltanto parzialmente, i motivi vanno ricer­ cati nell’impostazione essenzialmente moralistica che egli ha dato al problema. Villermé è soprattutto preoccupato di mettere in luce gli aspetti positivi del sistema di fab­ brica, considerando tutto ciò che contrasta i suoi princi­ pi una « offesa della pubblica morale »; e i limiti di questo punto di vista vengono alla luce quando rinviene nella pro­ miscuità dei sessi all’interno delle fabbriche, nella durata eccessiva della giornata lavorativa dei fanciulli e nei pre­ stiti in denaro concessi dai padroni agli operai a titolo di anticipo sui salari le « uniche cause » della degradazione fisica e morale della classe operaia. Nel 1838 l’Académie des Sciences Morales et Politi­ ques aveva indetto un concorso il cui tema consisteva nel determinare « en quoi consiste la misère; par quels signes

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elle se manifeste en divers pays; quelles sont ses causes ». Antoine-Eugène Buret si stava occupando proprio in que­ gli anni di questo problema, anche se entro limiti più de­ finiti e con un’impostazione metodologica più rigorosa di quella imprecisa e generica indicata dal bando di concor­ so. Egli infatti aveva scelto come campo di osservazione la Francia e l’Inghilterra, soprattutto quest’ultima, «il paese privilegiato per gli studi sociali»; e intendeva pro­ cedere sistematicamente da una definizione rigorosa del termine miseria, attraverso un’analisi descrittiva e com­ parata del fenomeno, fino alla sua imputazione causale e alla indicazione degli strumenti economici e politici di ri­ forma. Tuttavia, pur con questi limiti e con la diversa im­ postazione, egli partecipò al concorso con una memoria che ricevette il primo premio nell’assemblea del 27 giugno 1840. Buret continuò i suoi studi, conducendo osservazio­ ni dirette in Inghilterra, e pubblicò nello stesso anno i ri­ sultati in un lavoro che costituì per alcuni anni un pun­ to di riferimento obbligato per molte ricerche sull’argo­ mento 77. Le critiche rivolte da Buret all’impostazione data dall’Académie al problema della miseria costituiscono in real­ tà l’aspetto più interessante del suo lavoro. Esse, infatti, vengono riprese e sviluppate ampiamente in polemica con­ tro gli economisti classici. Con Adam Smith, ma soprat­ tutto con Ricardo, l’economia politica si è venuta a costi­ tuire come scienza esatta, cioè come studio delle leggi che regolano la produzione e la distribuzione della ricchezza. Ora, è possibile costruire una scienza sociale, quale pre­ tende di essere l’economia politica, unicamente con un esame « astratto » del processo di accumulazione e di con­ centrazione della ricchezza? Questa obiezione avanzata al­ l’interno della teoria economica viene sviluppata da Bu­ ret in riferimento alle relazioni tra i fenomeni presi in considerazione dalla teoria e altri fatti « di ordine morale e politico » che non rientrano nella teoria stessa. I fatti su cui poggia la teoria economica sono osservabili nelle società industriali o in via di industrializzazione, tuttavia la teoria non spiega la connessione che esiste tra questi e

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altri fatti sociali « che ne determinano il significato e il va­ lore »78. Partendo dal presupposto che l’economista deve pro­ porsi il fine del benessere nazionale, Sismondi aveva impo­ stato una critica dell’economia politica classica in termini analoghi a quelli di Buret. Il difetto fondamentale degli economisti postsmithiani, e in particolare quello di Ricar­ do, consiste nel non aver preso in considerazione il rap­ porto tra la formazione e l’accrescimento della ricchezza, da un lato, e la popolazione e il benessere nazionale dal­ l’altro lato. Da queste considerazioni Sismondi conclude­ va che la scienza economica è astratta e speculativa, per­ ché omette arbitrariamente i fatti che dovrebbe spiegare. « Le abitudini sono una potenza morale che non è sotto­ messa al calcolo, - osservava Sismondi, - e gli autori di economia politica hanno troppo sovente dimenticato che avevano che fare con uomini e non con macchine »79. Se­ condo l’economia politica, la produzione e il consumo si espandono con un movimento regolare ed equilibrato, in virtu del quale qualunque incremento produttivo troverà sempre i consumatori in grado di assorbirlo. Così Ricardo aveva sostenuto la mobilità degli uomini e dei capitali in un sistema economico a libera concorrenza, negando con ciò la possibilità di una differenza di lungo periodo nei tas­ si di profitto. Per Sismondi, al contrario, l’equilibrio del sistema economico non è una questione definitoria riso­ lubile in via teorica, ma è un fatto empirico che si verifica soltanto a determinate condizioni. Se i produttori non rie­ scono piu a realizzare un certo ammontare di profitti in un particolare settore, essi continueranno a impiegare i loro capitali in quello stesso settore, piuttosto che cerca­ re differenti occasioni di investimento; e ciò, secondo Si­ smondi, soprattutto perché i capitalisti sono nell’impos­ sibilità di cambiare destinazione ai loro capitali fissi e quindi sono disposti a realizzare profitti inferiori piutto­ sto che non realizzarli affatto. In questa situazione, i pro­ fitti potranno mantenersi costantemente al di sotto del li­ vello medio previsto da Ricardo. Dall’altro lato, quando la produzione aumenta con un ritmo piu rapido delle ca­ pacità di consumo della popolazione, si determina una cri­

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si di sovrapproduzione, invece che uno spostamento di manodopera in altri settori. In altri termini, gli operai ri­ marranno nello stesso settore, non potendo sostenere le spese di un nuovo apprendistato, e saranno costretti a la­ vorare un numero maggiore di ore per compensare la dimi­ nuzione del salario. « Perciò la produzione continua an­ cora per molto tempo dopo aver soddisfatto il bisogno; ed essa finalmente viene a cessare soltanto dopo aver pro­ vocato in tutti quelli che avevano contribuito a farla na­ scere una perdita di capitali, di reddito e di vite umane, che non è possibile calcolare senza rabbrividire. I produt­ tori non si ritireranno dal lavoro e il loro numero non di­ minuirà se non quando una parte dei capi d’industria avrà fatto fallimento e una parte degli operai sarà morta di miseria »80. Sicché Sismondi concludeva che « in genere si deve diffidare in economia politica delle proposizioni as­ solute, così come delle astrazioni. Ciascuna delle forze de­ stinate a equilibrarsi in ciascun mercato può subire varia­ zioni da sola e indipendentemente da quella con cui vien messa in equilibrio. Da nessuna parte si trovano quantità assolute, né si incontrano mai forze sempre uguali: ogni astrazione è sempre una delusione. Perciò l’economia po­ litica non è una scienza di calcolo, ma una scienza morale. Essa ci mette fuori strada quando crediamo di orientarci con numeri; essa conduce alla meta soltanto quando valu­ tiamo i sentimenti, i bisogni e le passioni degli uomini » M. Buret riprendeva la critica di Sismondi contro le astra­ zioni economiche quando osservava che lo studio della « fisiologia della società » è ben piu complesso di quanto non presumano gli economisti, preoccupati piu del rigore deduttivo e della semplicità delle loro teorie che non del­ la funzione che esse svolgono nel render conto dei fatti. Per Buret, la fisiologia della società comprende l’analisi delle conseguenze sociali della formazione della ricchezza, conseguenze che nelle società industrializzate si riassumo­ no nel fenomeno della miseria. Da questo punto di vista Buret attribuisce all’analisi della miseria la fondamentale funzione di verificare e rettificare la teoria economica. A Smith e Ricardo egli contrappone i fatti della miseria co­ me strumento di verifica dei principi dell’economia politi­

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ca; contro Sismondi - da cui peraltro accetta tutta la cri­ tica al sistema capitalistico - avanza la possibilità positiva di elaborare riforme efficaci contro i filantropi obietta che prima di pensare di attenuare la miseria occorre co­ noscerne le cause; infine egli mette in luce il carattere uto­ pistico delle riforme propugnate da Saint-Simon e Fourier sulla base dell’analisi dei limiti e delle condizioni entro cui necessariamente si muove ogni azione trasformatrice. In realtà, questi termini polemici possono essere ricon­ dotti a due punti di riferimento metodologici: la verità della teoria scientifica e i valori considerati come strumen­ ti orientativi della ricerca e fini dell’azione pratica. Così, se il problema della verità di una teoria si configura come ricerca di quei fatti che la possono falsificare, il problema dei valori si configura come fondazione scientifica dell’a­ zione riformatrice. Il problema della verificazione viene impostato a partire da una considerazione dei limiti in­ terni ai procedimenti delle scienze sociali. Le scienze so­ ciali hanno in comune con le scienze fisiche la garanzia di validità fornita dall’osservazione dei fatti e la formulazio­ ne delle leggi in base ai fatti osservati, ma se ne discosta­ no per il tipo di fatti e per le tecniche di osservazione. I fatti della fisica sono quelli che meglio si sottopongono al­ l’osservazione, in quanto le leggi costanti e periodiche che li regolano rendono possibile la ripetibilità indefinita del­ l’osservazione; i fatti sociali sono quelli che meno si pre­ stano all’osservazione sia perché non sono regolati da leg­ gi costanti e periodiche, sia perché non sono riproducibili a piacere, né completamente osservabili. Non avendo con­ siderato i limiti e la natura specifica delle scienze sociali e in particolare dell’economia politica, gli economisti han­ no fatto ricorso al modello delle scienze fisiche e hanno preteso di costruire teorie semplici e astratte, trascurando tutti quei fatti che possono andare a scapito della sempli­ cità e dell’astrazione83. Ma obietta Buret, «non è forse contrario a ogni buon metodo scientifico rendere semplice ciò che è complesso, per risparmiar così fatica?... la real­ tà è là per smentire tristemente questa comoda ipotesi » 84. La complessità della realtà sociale non permette di isolare arbitrariamente i fenomeni e di considerarli unilateral-

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mente nella loro astrazione. Se questo è il procedimento adottato in fisica o in chimica, nelle scienze sociali i fatti condizionano ben diversamente la scelta e la definizione del campo di indagine. « È molto piu difficile separare le diverse branche della scienza sociale che non quelle della scienza fisica: l’albero della conoscenza morale non si mu­ tila senza rischi. La teoria della ricchezza non può né de­ ve costituire da sola una scienza, poiché i fatti sui quali la si erige sono indissolubilmente legati a fatti di ordine morale e politico, che ne determinano il significato e il va­ lore »85. Quindi, precisa ulteriormente Buret, criticare l’e­ conomia politica non significa rifiutare la scienza in quan­ to tale, né significa contestare la possibilità delle scienze sociali. Il problema, piuttosto, consiste da un lato nella determinazione dei limiti caratteristici delle scienze socia­ li in quanto distinte dalle scienze fisiche e, dall’altro lato, nella formulazione dei procedimenti di indagine che in rapporto a quei limiti possono legittimamente essere ela­ borati. Uno dei limiti intrinseci ai procedimenti delle scienze sociali è quello proprio delle tecniche di osservazione. Es­ so è fondamentale e, da un punto di vista logico, va affron­ tato per primo perché a partire dai fatti osservati e dal­ l’individuazione delle loro interconnessioni sarà possibile verificare e correggere la teoria economica. Il limite della osservazione si definisce in primo luogo e fondamental­ mente in riferimento alla natura propria dell’oggetto del­ la scienza sociale, che « sfugge allo sguardo di chi lo os­ serva, per non più ricomparire »8fi. Quindi l’osservazione non sarà mai completa né realizzabile da un singolo osser­ vatore in maniera diretta. Naturalmente, ciò non signi­ fica che non sia possibile osservare un fatto sociale; Buret insiste sui limiti dell’osservazione, ma nello stesso tem­ po indica nella « testimonianza » un correttivo di quei li­ miti 87. Il secondo problema connesso all’osservazione nelle scienze sociali - attraverso il quale Buret introduce l’ana­ lisi vera e propria della miseria — è quello dell’ipotesi e della scelta del campo, che condizionano e dirigono l’os­ servazione. Questo problema viene affrontato con un’ana­

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lisi preliminare del termine miseria. Individuato un signi­ ficato « assoluto » di povertà come « insufficienza dei mez­ zi per soddisfare i bisogni presenti e reali »88 e per il qua­ le essa è « la condizione naturale dell’umanità »", Buret formula la definizione di miseria in senso « relativo » ser­ vendosi di due componenti. Il primo è costituito dai biso­ gni sia fisici sia spirituali (religiosi, morali e intellettuali), il cui mancato soddisfacimento determina gravi sofferen­ ze, la malattia e la morte; questa componente si definisce in riferimento ai mezzi alternativi di soddisfacimento, co­ me la carità pubblica e privata90. Il secondo componente consiste nel valore che si assegna agli oggetti di cui si è privi e nell’intensità del desiderio che si prova per essi. La valutazione della miseria si baserà, allora, sull’impor­ tanza variabile dei bisogni che l’uomo prova, in riferimen­ to cioè alla dimensione soggettiva e sociale del fenomeno. Ciò significa che la miseria è un fenomeno che si definisce in riferimento al significato sociale che esso assume all’in­ terno di una determinata società, e soltanto come tale può essere considerato oggetto di studio delle scienze so­ ciali. Si dirà quindi che la miseria esiste come fatto socia­ le soltanto quando, in una determinata società, una clas­ se di persone non dispone dei mezzi per soddisfare quei bisogni che hanno un significato sociale in quella società. In questo senso Buret dice che « la miseria è la povertà moralmente sentita » e che essa è « un fenomeno di civil­ tà » in quanto comporta la « coscienza » della propria si­ tuazione, cioè la consapevolezza del divario esistente tra gli strumenti a disposizione e i bisogni che non possono essere soddisfatti91. A questo punto Buret è in grado di formulare l’ipote­ si orientativa della ricerca; essa consiste nel rapporto di « coesistenza » o « simultaneità » tra la miseria e il grado di civiltà di una società misurato nei termini classici di « ricchezza della nazione » : a un grado massimo di svilup­ po e di concentrazione della ricchezza corrisponde un gra­ do massimo di sviluppo e di concentrazione della miseria. In quanto distinto dal rapporto causale, il rapporto di coe­ sistenza stabilisce semplicemente che «l’intensità del fe­ nomeno relativo della miseria... può misurarsi sull’inten­

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sità del fatto della ricchezza »92. Mentre la distinzione tra il rapporto causale e il rapporto di coesistenza permette di sfuggire alla concezione necessitante e fatalistica della miseria, secondo cui la ricchezza è la causa della miseria, l’assunzione del rapporto di coesistenza permette di indi­ viduare nei paesi di massimo sviluppo economico il cam­ po appropriato per una ricerca sui fenomeni della mise­ ria e nelle aree di massima « accumulazione » industriale, quali i centri urbani, i campi specifici di osservazione93. Stabilito il campo, le tecniche di osservazione devono permettere di rispondere alla seguente domanda: «qual è la condizione fisica e morale delle classi inferiori nelle grandi città, e particolarmente nelle città a produzione in­ dustriale? »94. Coerentemente con l’impostazione metodo­ logica precedentemente delineata, Buret sviluppa la parte osservativa in base alla definizione relativa della miseria, la quale consente nello stesso tempo di scegliere i fatti per farne oggetto di imputazione causale. Tali fatti vengono quindi classificati - in riferimento ai due componenti del concetto di miseria - nelle categorie delle « condizioni fi­ siche » e delle « condizioni morali », quali erano state de­ finite dai sociologi inglesi dell’industrialismo9S. Per Buret, come si è visto, il problema dell’imputazio­ ne causale consiste nello stabilire connessioni tra i feno­ meni osservati per scoprire le cause del rapporto di coe­ sistenza tra la concentrazione della ricchezza e la miseria. A questo scopo egli assume come « assioma » che ogni ten­ tativo di spiegazione dovrà imputare le cause della conco­ mitanza di ricchezza e miseria « ai processi industriali, al­ le circostanze in cui si trovano posti, gli uni in relazione con gli altri, gli agenti della produzione »96; in altri ter­ mini, « la condizione fisica e morale dei lavoratori si mi­ sura esattamente sulla posizione in cui essi si trovano di fronte agli strumenti o ai capitali », nel senso che « piu ne sono vicini e piu la loro vita è assicurata; ed essa si eleve­ rà e migliorerà secondo la misura e l’estensione di questi rapporti »97. Il problema dell’imputazione causale consi­ ste allora nello stabilire una correlazione tra l’insieme dei fatti che costituiscono il « modo di produzione » e l’insie-

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me dei fatti che ne sono la conseguenza, cioè la condizio­ ne fisica e morale dei lavoratori. Secondo Buret, il modo di produzione capitalistico è in una situazione di completa «anarchia». La libertà di la­ voro e la libera concorrenza, che erano stati il risultato della lotta contro gli ostacoli e i privilegi medievali, sono stati i fattori determinanti dello sviluppo industriale e dell’accumulazione della ricchezza. Soltanto in base al li­ bero gioco delle forze individuali e dei relativi interessi si poteva rivoluzionare il modo di produzione artigiano e realizzare quegli alti livelli di produttività che sono tipi­ ci del sistema industriale. I fatti confermano questi aspet­ ti positivi: si è triplicato il capitale produttivo, il livello del benessere materiale si è innalzato ed esteso, le forze della natura sono state in larga misura sottomesse al con­ trollo dell’uomo, la quantità di lavoro è aumentata enor­ memente e la fatica è diminuita. Tuttavia, la funzione po­ sitiva che la libertà incontrollata degli interessi svolge agli inizi dell’industrializzazione di un paese, a un certo gra­ do di sviluppo del sistema conduce a certe conseguenze negative non previste, quali le crisi commerciali, le frodi e le falsificazioni mercantili, le fluttuazioni disastrose nel­ la domanda di lavoro, la concentrazione urbana e la de­ gradazione fisica e morale delle classi lavoratrici che vivo­ no con salari sovente insicuri, il progredire della crimina­ lità e del vizio - in definitiva, la miseria e il disordine sociale. « I vantaggi attribuiti al nostro sistema economi­ co diminuiscono dunque per numero e importanza, a mi­ sura che si sviluppa il sistema »98. Il laisser faire, che ha permesso all’Inghilterra e alla Francia -di trasformarsi in paesi industrializzati, ha condotto nello stesso tempo alla soppressione dell’ordine e alla guerra sociale. Priva di con­ trollo, la tendenza irreversibile dello sviluppo industriale - cioè la concentrazione della ricchezza e la trasforma­ zione del lavoro artigiano isolato in lavoro industriale in comune - ha condotto alla formazione di due classi « alie­ nate l’una dall’altra » ", gli amministratori dei capitali pro­ prietari dei mezzi di produzione e gli operai salariati. I pri­ mi, perseguendo il fine della produzione piu grande pos­ sibile con il minimo costo, considerano i secondi esclusi-

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vamente dal punto di vista del capitale come « strumenti di produzione » 10°; i secondi, preoccupati soltanto di in­ nalzare i salari, considerano il capitalista come un nemi­ co e la miseria come un’oppressione: «non esiste alcun tipo di legame morale tra il padrone e l’operaio,... questi due agenti della produzione sono completamente estranei l’uno dall’altro in quanto uomini »101. Privata dei mezzi di produzione, la classe operaia si trova in una completa di­ pendenza dai capi d’industria, i quali ricorrono ad arbitri e abusi di ogni genere per fare valere i propri interessi. Si comprende, allora, come nell’anarchia del modo di pro­ duzione ogni progresso tecnico, dall’applicazione della di­ visione del lavoro all’introduzione delle macchine, abbia avuto effetti disastrosi per gli operai. Lo sviluppo dell’in­ dustria moderna, che divide il mestiere artigiano « in una serie di piccole funzioni meccaniche » W2, porta ovunque alla sostituzione delle operazioni manuali con « mestieri self-acting » e degli artigiani con operai non abili, donne e bambini. « L’industria esige, per assolvere le funzioni del lavoro diviso, operai a bassissimo prezzo, operai im­ perfetti, e in ciò sta tutto il male. Le occorrono attorno numerose popolazioni che si disputino per vivere funzioni poco retribuite e che non esigano quasi nessun apprendi­ stato, nessun’altra abilità se non quella dell’abitudine, e che mettano in tal modo quelli che le esercitano nella piu completa dipendenza da tutte le fluttuazioni del commer­ cio, da tutti i capricci della speculazione. La maggior par­ te delle funzioni industriali non costituiscono affatto me­ stieri, ma soltanto servizi temporanei che possono essere resi dal primo venuto »; «... e se la sostituzione del greg­ ge dei fanciulli all’operaio adulto è funesta per la società, che essa mina nelle radici stesse della vita, l’amministrato­ re di capitali non deve assolutamente occuparsene; egli non se ne accorge nemmeno, poiché giudica le cose dal punto di vista del suo interesse, che esige la sostituzione dei lavoratori adulti con frazioni di operai corrispondenti all’estrema divisione del lavoro » 103. All’interno della fabbrica la reciproca estraniazione del­ le due classi ha distrutto i rapporti sociali che intercorre­ vano tra il lavoratore e colui che lo impiegava. Durante il

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periodo artigiano esisteva una gerarchia legittimamente stabilita e accettata di comune accordo dai « maestri » e dai « compagnons », entrambi posti sullo stesso piano, i primi dalla posizione raggiunta, i secondi dalle possibilità di avanzamento professionale. Su questa gerarchia si ve­ nivano a instaurare « rapporti continuativi di fraternità e di abitudine »104, che si prolungavano al di fuori del labo­ ratorio e assicuravano nello stesso tempo l’« organizzazio­ ne del lavoro » e la coesione della società. Il modo di pro­ duzione industriale ha distrutto ogni elemento di coesio­ ne e l’anarchia ha soppresso nei rapporti sociali all’interno della fabbrica ogni carattere di sodalità - anzi, non ha sen­ so nemmeno parlare di rapporti sociali. In una analisi, che certamente Marx doveva trovare interessante, dei rappor­ ti estraniati e reificati nel sistema di fabbrica, Buret insi­ ste sul fatto che il capitalista considera gli operai non co­ me uomini, ma come « oggetti », « in massa, confusi con una folla di altri oggetti » W5. Così l’operaio non ha mai di fronte un altro uomo con cui instaurare un « legame mo­ rale ». « I padroni e gli operai, moralmente separati il più possibile, non hanno nemmeno quella reciproca relazione materiale che nasce dalla vicinanza: sovente il direttore di fabbrica abita lontano dalla sua manifattura, che è gesti­ ta per suo conto da impiegati » l06. Anche il lavoro non ha più senso, una volta ridotto a una frazione. L’operaio si trova dinnanzi a macchine perfette « che egli dirige soven­ te senza comprendere », perché non gli si richiede più né abilità né intelligenza107. Gli stessi rapporti tra gli operai si sono alterati: non sono uomini quelli che si vedono la­ vorare in comune nelle fabbriche, ma una massa di ogget­ ti, di corpi isolati dal lavoro diviso, per i quali l’unico rap­ porto possibile è il contatto fisico108. Il rapporto causale tra il modo di produzione e le sue conseguenze sociali non esclude, secondo Buret, l’azione riformatrice volta a ravvicinare le classi che l’anarchia del­ la produzione e della società tiene separate. « Le cause ge­ nerali, - egli dice, - le cause attive della miseria, non stan­ no... al di fuori della portata dell’intelligenza e della vo­ lontà dell’uomo. Esse fanno parte del vasto dominio sot­ tomesso alla sua attività; egli può comprenderle, modifi­

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carie, ridurle con l’aiuto del tempo »109. Da un lato Buret respinge e confuta la correlazione causale tra la ricchezza e la miseria per la quale, in base al riconosciuto carattere necessitante delle leggi dell’economia politica, la forma­ zione della ricchezza conduce inevitabilmente alla mise­ ria delle classi lavoratrici. Dall’altro lato — e qui in violen­ ta polemica con Villermé - egli respinge ogni correlazione necessaria tra la « natura » dell’operaio di fabbrica e la sua povertà. Entrambe le correlazioni sono destituite di valo­ re esplicativo e in ultima analisi hanno il solo scopo di «giustificare» uno stato di cose. Rifiutato ogni tipo di « spiegazione necessitante » no, Buret può cosi affermare la possibilità delle riforme volte a riavvicinare il capitale al lavoro attraverso misure gradualistiche che consentano ai lavoratori di partecipare alla proprietà della terra e dei mezzi di produzione. 3. La storia dell'industria come storia dell'essenza umana alienata.

Con Sismondi, Buret e Engels, Marx ha additato negli economisti una concezione armonica del mondo economi­ co e della società in generale che non lascia spazio, se non a prezzo di astrazioni e contraddizioni, a tutti i fatti che non collimano con quella concezione. Le oscillazioni dei prezzi e dei salari, le crisi, le variazioni del saggio di pro­ fitto sono fatti che in varia misura esulano dal modello economico attribuito ai classici. Di qui il carattere astrat­ to, contraddittorio e falso dell’economia politica. Capo­ volgendo questa impostazione, Marx si propone di rifor­ mulare le proposizioni dell’economia e di ricostruire la società che essa presuppone partendo proprio da quei fat­ ti che gli economisti considerano come accidentali e che non sono in grado di spiegare: «Noi partiamo da un fatto economico, attuale... Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazio­ ne del mondo degli uomini »1U. Fino a questo punto l’o­ perazione di Marx coincide con quella di Sismondi e di Buret; per entrambi si trattava di reimpostare l’analisi

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economica partendo dalla constatazione che la società in­ dustriale progredisce in ricchezza a misura che impoveri­ sce la gran massa della popolazione. Da questa constata­ zione Sismondi arrivava alla conclusione che sulla base del modo di produzione capitalistico le crisi di sovrappro­ duzione sono una conseguenza inevitabile della separazio­ ne del lavoro dalla proprietà. Ma per Marx l’analisi di Si­ smondi rimane a mezza strada. Pur non prendendo diret­ tamente posizione contro Sismondi, gli risponde implici­ tamente con l’analisi del rapporto di scambio nei suoi ap­ punti su J. Mill. Alla pretesa di Sismondi di ripristinare l’equilibrio tra la produzione e il consumo, tra l’offerta e la domanda, Marx afferma che « lo scambio - sotto il pre­ supposto della proprietà privata - deve procedere al va­ lore. Il movimento che media cioè lo scambio fra gli uomi­ ni non è movimento umano, sociale, non è rapporto uma­ no] è l’astratto rapporto della proprietà privata con la pro­ prietà privata, e questo astratto rapporto è il valore, la cui esistenza effettiva come valore è soltanto il denaro » 112. Le astrazioni degli economisti devono pertanto essere ricon­ dotte a una causa più profonda che spieghi a un tempo la contraddizione tra la ricchezza e la miseria e si ponga al di fuori del rapporto di scambio presupposto da Sismondi e dall’economia politica. La miseria dell’operaio non è un fatto la cui soppressione comporta un riaggiustamento del rapporto tra la domanda e l’offerta, tra la produzione e il consumo. Sismondi da un lato e Mill e Say dall’altro non sono in grado di spiegare la miseria dell’operaio all’inter­ no dello stesso rapporto di scambio perché «l’economia politica occulta l’alienazione ch’è nella essenza del lavoro per questo: ch’essa non considera l’immediato rapporto tra l’operaio (il lavoro) e la produzione » m. In questo rap­ porto l’operaio perde il prodotto, che è possesso esclusivo del capitalista; perde la propria attività, perché lavora sot­ to il comando di un potere estraneo; infine perde se stes­ so e l’intera umanità, perché il prodotto e l’attività sono le determinazioni oggettive del proprio essere attraverso le quali egli si pone in rapporto con gli altri uomini. Quel vincolo sostanziale che lega gli uomini attraverso l’inter­ scambio delle attività e dei loro prodotti viene ora rifor-

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mutato sul terreno della produzione materiale. L’unità or­ ganica che costituisce l’umanità e che si oggettiva nelle at­ tività, nei prodotti e nelle relazioni sociali, viene spezzata dalla proprietà privata, che separa il prodotto e l’attività e li contrappone ostilmente agli uomini. Con il termine essenza generica Marx intende una comunità in cui gli uo­ mini si comportano con se stessi e con gli altri secondo l’universalità e la libertà114. « Universalità » significa anzi­ tutto che l’attività umana è in rapporto con la natura, nel duplice senso di alimento per l’uomo e di strumento del suo lavoro11S. Nella misura in cui il rapporto organico del­ l’uomo con la natura è un elemento costitutivo del rap­ porto dell’attività umana con l’universalità, Marx può di­ re che l’estraniazione dall’oggetto delta produzione è l’e­ straniazione dalla vita generica dell’uomo116. Ma « univer­ salità » vuol anche dire che l’uomo è essenzialmente un essere sociale; la sua essenza generica non è altro che il «vincolo sostanziale» che lega gli uomini attraverso le loro attività117. Da questo punto di vista la divisione del lavoro è « l’espressione economica della socialità del la­ voro nell’alienazione umana »118. Il riferimento all’essenza dell’uomo consente allora la comprensione di quelle leggi che l’economia politica ha fatto valere come formule generali astratte. Infatti, ripren­ dendo le categorie con cui l’economia politica ricostruisce il meccanismo economico, Marx le riconduce al lavoro alienato e le spiega come conseguenze dell’estraniazione dall’essenza umana. Quindi «nel lavoro alienato, espro­ priato, l’operaio produce il rapporto a questo lavoro da parte di un uomo estraneo e che sta fuori. Il rapporto del­ l’operaio col lavoro genera il rapporto del capitalista o come altrimenti si voglia chiamare il padrone del lavo­ ro - col medesimo lavoro. La proprietà privata è dunque il prodotto, il risultato, la necessaria conseguenza del la­ voro espropriato, del rapporto estrinseco dell’operaio al­ ta natura e a se stesso » 119. Contro i critici della società in­ dustriale, che ricavano le conseguenze negative del siste­ ma di fabbrica dalla proprietà privata, Marx inverte il rap­ porto di deduzione. La proprietà privata è il risultato del lavoro estraniato; in altri termini, comunque si configuri­

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no i rapporti della proprietà privata, in qualunque misura gli operai partecipino al risultato del loro lavoro, comun­ que si configuri il rapporto tra la produzione e il consu­ mo, tutte queste determinazioni vanno ricondotte a un termine più profondo e irriducibile. La stessa contrappo­ sizione tra la ricchezza e la miseria, con la quale Buret svolgeva una diagnosi della società industriale che mette­ va capo alla riconciliazione del capitale col lavoro, serviva a Marx soltanto come dato di fatto falsificante nei con­ fronti dell’economia politica. Ma un dato di fatto non è ancora una spiegazione. Dopo l’analisi della miseria, de­ lineata in parte nei quaderni di estratti e ricuperata in larga misura da Sismondi e Buret, restava perciò il pro­ blema di una sua deduzione ulteriore. Mentre Buret rica­ va il sottoconsumo da un rapporto imperfetto della pro­ prietà privata con i mezzi di produzione, Marx inverte i termini del problema e deducendo la proprietà privata dal lavoro alienato viene a far dipendere la miseria da que­ st’ultimo. A sua volta l’economia politica, pur riconoscen­ do nel lavoro l’essenza soggettiva della proprietà privata, non la deduce dal lavoro estraniato, anzi la considera co­ me un fatto, con la conseguenza che non può ricondurre le contraddizioni cui il movimento della proprietà privata dà luogo al principio che ha adottato per spiegarla. « Ab­ biamo certamente ricavato il concetto del lavoro espro­ priato (della vita espropriata) dalla economia politica co­ me risultato del movimento della proprietà privata. Ma nell’analisi di questo concetto si mostra che, mentre la proprietà privata appare come ragione e causa del lavoro espropriato, essa è piuttosto una conseguenza di quest’ul­ timo... Poi questo rapporto si rovescia in un effetto reci­ proco »120. L’attività produttiva estraniata non soltanto spiega causalmente la proprietà privata, ma introduce nel rapporto sociale che la costituisce l’estraniazione dall’es­ senza umana e include nella definizione stessa della pro­ prietà privata la categoria della contraddizione. Compiuta la deduzione della proprietà privata dal la­ voro alienato, Marx procede a un abbozzo di deduzione delle altre categorie economiche, mostrando come esse sia­ no un’espressione di uno sviluppo necessario ul. Con la

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reinterpretazione delle categorie economiche sulla base del lavoro alienato, Marx è quindi in grado di generaliz­ zare la contraddizione introdotta nella definizione della proprietà privata a tutte le forme di rapporti sociali a essa connessi. La connessione che gli economisti avevano ten­ tato di stabilire tra le varie categorie economiche diventa allora la connessione organica inerente a una struttura so­ ciale fornita di un significato unitario attraverso il riferi­ mento all’essenza dell’uomo. Inoltre, per la natura stessa di tale riferimento, la scienza sociale che Marx propone va al di là del campo determinato di fenomeni considerato dall’economia classica: se il lavoro è estraniato dall’essen­ za umana, l’estraniazione si generalizza necessariamente all’attività umana nel suo complesso. Con ciò Marx ha conseguito un secondo risultato : le forme di rapporti so­ ciali che gli economisti di volta in volta hanno contrap­ posto l’una all’altra, ora sono comprese nelle loro reci­ proche relazioni e sono ordinate in uno sviluppo storico necessario. « L’economia politica non ci dà alcun chiari­ mento della ragione della divisione di lavoro e capitale, di capitale e terra. Quando, per esempio, determina il rap­ porto del salario al profitto del capitale, vale per essa co­ me ultima ragione l’interesse del capitalista: cioè suppo­ ne ciò che deve spiegare. Parimente la concorrenza entra dappertutto: essa viene spiegata con condizioni esterne. Come queste condizioni esterne, apparentemente acciden­ tali, siano soltanto l’espressione di uno sviluppo neces­ sario, questo, l’economia politica non ce lo dice »122. Con questi risultati Marx prende posizione nei confronti della concezione hegeliana della storia. Sia Hegel sia gli economisti avevano concepito il lavo­ ro come essenza dell’uomo: per Hegel l’uomo, in quanto spirito, è autoproduzione di se stesso; per gli economisti le strutture del mondo umano - la proprietà privata - de­ vono ricondursi al loro principio soggettivo che è il lavo­ ro 123. Inoltre, Hegel « vede soltanto l’aspetto positivo del lavoro » e ciò vale anche per gli economisti, perché ri­ conoscono nella proprietà privata il risultato di un’attivi­ tà naturale originaria. Il lavoro, quale attività spirituale astratta per Hegel, e il lavoro, quale essenza della pro-

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prietà privata per gli economisti, sono in diverso modo principi ugualmente positivi, perché entrambi designano l’attività umana in quanto tale. Nel primo caso il lavoro non può essere inteso nel suo aspetto negativo, perché il soggetto dell’attività esclude l’oggettività come alterità ef­ fettiva e l’estraniazione viene necessariamente a coincide­ re con l’oggettività pensata in cui l’autocoscienza «nel suo esser altro come tale... è presso di sé» 125; nel secondo caso il lavoro che produce la proprietà privata è l’attività umana nella sua struttura naturale e il movimento della proprietà privata è un meccanismo naturale. Per Hegel la oggettività è riducibile all’oggettività pensata, cioè non è altro che un’articolazione interna della soggettività. Quin­ di, per un essere a cui manchi la dimensione di alterità e la cui oggettività sia semplicemente un momento inter­ no della propria soggettività, l’alienazione non può piu essere interpretata come un rapporto costrittivo e quindi negativo 126. Il diverso significato che Marx attribuisce al concetto di oggettività gli permette di inserire l’uomo in una trama di rapporti naturali e sociali interpretati come rapporti di alterità. Cosi intesa, l’oggettività costituisce un condizionamento intrinseco per l’essere dell’uomo127 e, come tale, una sua « determinazione sostanziale » 128. L’at­ tività dell’uomo è oggettiva non perché sia creatrice di og­ getti, ma perché ha che fare con oggetti129 ; quindi il rap­ porto dell’uomo con gli oggetti della sua alienazione è un rapporto di esteriorità effettiva130 e proprio perché gli en­ ti oggettivi, da cui dipende il significato dell’estraniazione, hanno una loro autonomia, essi possono contrapporsi real­ mente e negativamente all’uomo131. Inoltre, la dimensione dell’oggettività non ha soltanto il significato di un limite dell’attività umana, ma anche di un elemento costitutivo e indispensabile « alla manifestazione e conferma delle... forze essenziali » dell’uomo I32. Se l’oggettività coinvolge « una totalità di umane ma­ nifestazioni di vita » 133, si capisce allora perché la proprie­ tà privata sia « l’espressione materiale, sensibile, della vi­ ta umana estraniata» e come la sua soppressione sia la soppressione di ogni alienazione134. La natura, come og­ getto e risultato dell’attività umana, diventa il tessuto

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connettivo dei rapporti sociali organici quando quell’atti­ vità è universale e libera; ma d’altro lato l’universalità e la libertà si attuano soltanto sul terreno dell’oggettività135. Dunque, la proprietà privata è l’espropriazione dell’og­ gettività e la riappropriazione dell’attività umana resti­ tuisce alla natura il suo significato di alimento dell’attività e quindi anche di mediazione dei rapporti sociali. Con il riconoscimento che l’essenza dell’uomo è passi­ bile di perdita e di appropriazione, Marx introduce la di­ mensione storica nella considerazione dell’essere dell’uo­ mo e chiarisce il suo atteggiamento nei confronti della concezione hegeliana della storia. Attraverso l’esame del concetto di alienazione nella Fenomenologia dello spirito, Marx mette in luce il presupposto in base al quale Hegel ha formulato la struttura del processo storico. Il termine di riferimento dell’alienazione è una concezione dell’esse­ re dell’uomo per cui « solo lo spirito è la verace essenza dell’uomo »136. I concetti di movimento della storia, alie­ nazione ed essenza dell’uomo significano in Hegel storia dello spirito assoluto, alienazione di oggetti del pensiero, storia dell’alienazione e della soppressione dell’alienazio­ ne come storia della produzione del pensiero astratto ed essenza dell’uomo come spirito. All’interno di questa cri­ tica, Marx riconosce tuttavia a Hegel il merito di aver usato questi concetti e cioè di aver inteso la storia del­ l’uomo come storia della sua essenza e questa storia co­ me storia dell’alienazione e della sua soppressione. Non si tratta di rifiutare i concetti di essenza dell’uomo e di alie­ nazione, né le categorie a essi connesse di contraddizione e di soppressione dell’alienazione, ma di riformularle. Questa riformulazione comporta una definizione dell’esse­ re dell’uomo per la quale l’autocoscienza viene sostituita all’oggettività naturale e sociale. Con questa operazione Marx ricupera la categoria di soppressione dell’alienazio­ ne, pur modificandone il termine di riferimento: essa di­ venta la soppressione effettiva dello stato di alienazione attraverso il mutamento dei rapporti sociali alienati, men­ tre Hegel lasciava ancora sussistere le istituzioni negate137. La concezione dell’essenza dell’uomo come spirito impli­ cava un concetto di estraniazione per cui l’uomo avrebbe

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dovuto riconoscere la propria essenza realizzata nello stes­ so stato di estraniazione, « poiché in questa alienazione si sa come oggetto, o sa l’oggetto come se stessa per l’indi­ visibile unità dell’esser per sé » n8. E in ciò consiste il ri­ fiuto marxiano del significato positivo che ha in Hegel l’estraniazione. Esiste, tuttavia, un altro senso per cui l’e­ straniazione ha in Hegel un significato positivo che Marx accoglie: «Hegel pensa... che l’autoalienazione, l’espro­ priazione e privazione della propria essenza e oggettività e realtà, da parte dell’uomo, è conquista di se stesso, rin­ novamento del suo essere e oggettivazione e realizzazione sua »; Hegel, cioè, « concepisce... il lavoro come l’atto di autoproduzione dell’uomo e il rapporto a se stesso quale ente straniero, e il manifestarsi di se stesso in quanto en­ te straniero, come la diveniente coscienza generica e vita generica » 139. Il concetto di estraniazione ha, dunque, an­ che per Marx un significato positivo, che Hegel ha rico­ nosciuto e occorre fare valere proprio all’interno della ri­ formulazione del suo termine di riferimento. Da questo punto di vista l’estraniazione diventa la condizione neces­ saria dell’appropriazione all’uomo della sua essenza gene­ rica e la storia dell’estraniazione diventa la storia della realizzazione dell’essenza dell’uomo. A differenza degli economisti, che hanno dato un’immagine dell’uomo con­ forme al modello di relazioni sociali fornito dal meccani­ smo economico dello scambio, della concorrenza e della di­ visione del lavoro, Hegel, pur concependo l’uomo come spirito, ne ha parlato nei termini di un’essenza che si rea­ lizza in un processo storico e le cui forme di oggettivazio­ ne non hanno il significato di strutture naturali definiti­ ve. La « dialettica della negatività », cioè l’estraniazione e la soppressione dell’estraniazione, è il risultato finale del­ la Fenomenologia hegeliana e costituisce al tempo stesso il principio di quella « critica nascosta » in essa contenuta, perché permette di concepire le forme storiche dell’oggettivazione e dell’estraniazione come momenti di un proces­ so, anche se poi l’estraniazione, per l’inadeguatezza del suo termine di riferimento, si riduce all’oggettività pensata. Le tradizionali storie dell’industria, ricuperando un’im­ postazione illuministica, assumevano come filo condutto­

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re particolari manifestazioni dell’operosità e dell’inventività dell’uomo; il merito di Hegel consiste nell’aver col­ legato la storia con l’essenza dell’uomo e nell’aver fornito un modello di sapere caratterizzato da un’esplicita dimen­ sione storica e da una rigorosa concatenazione concettuale degli eventi140. La sostituzione del concetto di attività naturale con il concetto di lavoro alienato aveva permesso di spiegare le contraddizioni della proprietà privata in base al funziona­ mento stesso del meccanismo economico; e il rifiuto del­ l’ordine naturale aveva condotto Marx a una diversa con­ cezione della storia, per la quale le conseguenze acciden­ tali e casuali della proprietà privata venivano inserite in uno schema di concatenazione deduttiva. La connessione dell’attività umana, quale si è configurata storicamente, con la totalità organica espressa dal concetto di essenza generica comportava un nuovo tipo di comprensione delle istituzioni umane e nello stesso tempo costituiva il pun­ to di partenza per l’elaborazione di un nuovo modello di sviluppo storico in alternativa a quello offerto dall’eco­ nomia politica. Il concetto di lavoro alienato conduceva a una diversa impostazione del problema della proprietà pri­ vata, per cui i conflitti da essa provocati potevano essere compresi coerentemente, attraverso l’introduzione di un tipo di spiegazione diverso da quello dell’ordine naturale. Ricondurre la proprietà privata al lavoro alienato significa­ va introdurre il conflitto nello stesso principio fondamen­ tale di comprensione dell’economia politica - l’attività la­ vorativa. L’interpretazione del principio della proprietà privata in termini di conflitto avveniva, infatti, attraverso la mediazione di un modello concettuale desunto da He­ gel. Il concetto di estraniazione, riformulato per quanto riguarda il suo termine di riferimento, era stato ricupe­ rato in una delle principali connotazioni positive che He­ gel gli aveva attribuito, come la condizione necessaria del­ la realizzazione dell’essenza umana. In questo modo la contraddizione immanente al lavoro alienato era interpre­ tata come l’inizio del movimento di riappropriazione del­ l’essenza dell’uomo e i rapporti sociali descritti dall’eco­ nomia politica potevano essere considerati come un mo­

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mento — il momento risolutivo — della storia dell’estra­ niazione. Se la struttura del processo storico si presenta come sto­ ria dell’estraniazione e della sua soppressione, l’ambito dell’estraniazione coincide con la storia della proprietà pri­ vata. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 la sto­ ria della proprietà privata141 viene delineata a partire dal problema della storicità del capitalismo, determinata sulla base del rapporto tra quella forma dell’estraniazione - che l’economia politica ha interpretato con le categorie fonda­ mentali di lavoro e capitale — e la soppressione dell’estra­ niazione, nella forma generale della soppressione della proprietà privata. Nel feudalesimo l’uomo ha già perso la sua essenza con la proprietà privata: «la proprietà fon­ diaria feudale è già, nella sua essenza, terra trafficata, ter­ ra ch’è estraniata dall’uomo... Già nel possesso fondiario feudale il dominio della terra è dominio di una forza stra­ niera sugli uomini» 142. Tuttavia la perdita dell’essenza non appare ancora come quella contraddizione che è « motivo di risoluzione », perché i conflitti sociali nascono ancora nell’ambito della proprietà privata. I conflitti tra affittua­ ri e proprietari fondiari e tra proprietari fondiari e capi­ talisti non nascono dall’opposizione tra l’uomo estraniato e le condizioni della sua estraniazione, ma dai conflitti tra classi diverse che hanno come comune punto di riferimen­ to la proprietà privata, in altri termini tra diversi principi di legittimazione della proprietà privataI43. Questi conflit­ ti generalizzano il principio della proprietà privata e uni­ ficano le condizioni dell’estraniazione nell’unica contrad­ dizione tra il lavoro e il capitale. Quando i conflitti parti­ colari, originati da una molteplicità di interessi contra­ stanti, si unificano in una contraddizione polare, uno dei termini non può piu fare appello a nessuna forma di pro­ prietà privata, perché ne è completamente escluso. « L’ul­ timo risultato è, dunque, l’annullamento della differenza tra capitalista e proprietario fondiario, cosicché, in com­ plesso, ci sono ormai solo due classi della popolazione: la classe dei lavoratori e la classe dei capitalisti »144. La sto­ ria della proprietà privata mostra una serie di conflitti che si succedono e si svolgono a partire da un’originaria op­

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posizione latente che, spinta all’estremo, conduce alla con­ traddizione definitiva, quale condizione della soppressione dell’estraniazione. L’estraniazione è costitutiva della pro­ prietà privata fin dall’inizio della sua storia, e le condizio­ ni della sua soppressione risiedono nello svolgimento at­ tuale di quell’opposizione, nella forma della contraddizio­ ne risolutiva. Ma questo non è altro che la storia intesa come storia della diveniente essenza generica dell’uomo. « Soltanto mediante l’industria sviluppata, cioè per la me­ diazione della proprietà privata, l’essenza ontologica del­ l’umana passione nasce sia nella sua totalità che nella sua umanità »145. La concezione dell’uomo come essere che ne­ cessariamente deve realizzarsi nella sua universalità e li­ bertà diventa il presupposto indispensabile per fondare il senso dei conflitti sociali e il termine della storia. La stessa polemica con le ideologie socialistiche e co­ munistiche serve a Marx non tanto per prefigurare la for­ ma di società che procede dalla soppressione dell’aliena­ zione, quanto piuttosto per chiarire altri aspetti della sto­ ria dell’alienazione. Dopo aver esaminato brevemente le dottrine di Proudhon, Fourier, Saint-Simon, Cabet, in quanto espressioni di forme inadeguate di soppressione della proprietà privata, egli conclude: « Quanto poco que­ sta soppressione della proprietà privata sia una reale ap­ propriazione lo prova precisamente l’astratta negazione di tutto il mondo della cultura e della civiltà, il ritorno alla innaturale semplicità dell’uomo povero e senza bisogni, che non ha ancor sorpassato la proprietà privata, che anzi non è ancor pervenuto alla medesima » 146. A questo ritor­ no innaturale a una rozza semplicità Marx contrappone « il comuniSmo in quanto effettiva soppressione della pro­ prietà privata quale autoalienazione dell’uomo, e però in quanto reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo; e in quanto ritorno completo, consapevole, compiuto all’interno di tutta la ricchezza del­ lo sviluppo storico, dell’uomo per sé quale uomo sociale, cioè uomo umano »147. Se è possibile parlare, all’interno della storia dell’estraniazione, di una « ricchezza dello svi­ luppo storico » e di un ricupero del « mondo della cultura e della civiltà », ciò significa che il campo della cultura,

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pur essendo di volta in volta inserito e utilizzato entro rapporti sociali estraniati, possiede una validità non ridu­ cibile al contesto sociale qualificabile in termini di estra­ niazione. Tutte le tecniche con cui l’uomo ha via via or­ ganizzato le proprie forme di convivenza — l’applicazione della scienza al mondo della produzione - ancorché inse­ rite in rapporti sociali estraniati, costituiscono la « ricchez­ za dello sviluppo storico », cioè la sedimentazione dei ri­ sultati dell’agire e delle qualità sociali e naturali dell’uo­ mo 148. In altri termini, queste tecniche, pur essendo intrin­ secamente sociali - e tali sono il linguaggio, la scienza, e cosi via -, non hanno un significato univoco perché riman­ gono disponibili a una struttura sociale diversa da quella in cui si sono formate. Questo piu ampio raggio di dispo­ nibilità delle tecniche, rispetto alle strutture sociali in cui operano, giustifica l’espressione di « ricchezza » attribuita al mondo della civiltà. Il controllo umano sulla natura fornisce a quelle tecniche un significato per un lato diver­ so e per l’altro complementare a quello offerto dalla strut­ tura dei rapporti sociali, ed è positivo nel senso che quelle tecniche vengono affermate come « ricchezza », cioè come patrimonio di civiltà nel comuniSmo. Ricuperando l’intero mondo della cultura nel comuni­ Smo, Marx individuava una dimensione dell’essere del­ l’uomo non riducibile all’alternativa estraniazione-appro­ priazione dell’essenza e per la quale l’uomo è sempre in progresso rispetto alla natura, cioè al suo corpo inorgani­ co 149. Il progresso rispetto alla natura è il mondo della ci­ viltà, è la condizione permanente dell’esistenza sociale stessa, e in quanto tale non è coinvolto immediatamente nella perdita dell’essenza. La tecnica non costituisce una garanzia del progresso dell’uomo verso la propria umani­ tà, ma non può nemmeno essere coinvolta nel rifiuto dei rapporti sociali che pure ne hanno condizionato lo svilup­ po. Marx poteva così inserire nel ricupero dell’essenza umana, attraverso la soppressione dell’estraniazione, l’ap­ porto della civiltà creata dalla storia della proprietà pri­ vata stessa - e ciò gli permetteva di rifiutare il comuniSmo rozzo -, senza con ciò identificare, come avevano fatto Smith e altri, il progresso della tecnica con il progresso

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umano in quanto tale. Il progresso e la storia della tecni­ ca dicono semplicemente che l’uomo è sempre in progres­ so rispetto alla natura, ma non dicono nulla del rapporto dell’uomo con l’essenza, perché in essi manca la mediazio­ ne dei rapporti sociali. La tecnica ha che fare con l’essen­ za dell’uomo, non nel senso che il suo sviluppo ne garan­ tisca la realizzazione, bensì nel senso che la realizzazione dell’essenza non può farne a meno. Ciò significa che il rap­ porto dell’uomo, come essere sociale, con la natura — il suo progresso rispetto alla natura - è una condizione del realizzarsi dell’essenza umana; ma non è la condizione suf­ ficiente, poiché il concetto di essenza include il riferimen­ to a un’altra dimensione dell’uomo, cioè ai rapporti socia­ li da cui dipende l’uso della tecnica. Per un verso, quin­ di, la civiltà è in una connessione immediata e necessaria con l’essenza, nel senso che il rapporto con la natura co­ stituisce una qualità essenziale dell’uomo; ma per l’altro verso la tecnica è in una connessione mediata con l’essen­ za perché dipende dalla struttura dei rapporti sociali la conformità o meno del suo uso alle qualità essenziali del­ l’uomo. Le forze produttive sono una condizione di quella for­ ma di convivenza che rispecchia l’essenza dell’uomo, per­ ché esse sono gli strumenti che dilatano ed espandono la totale disponibilità dell’uomo a se stesso. La libertà e l’u­ niversalità, come contrassegni dell’agire umano nel comu­ niSmo, dipendono da un lato dall’esclusione di ogni forma di costrizione nei rapporti sociali, e dall’altro lato dal mas­ simo dominio dell’uomo sulla natura. Attraverso questo dominio il carattere umano dei bisogni si connette con la possibilità di soddisfarne il maggior numero. Il comuni­ Smo è la massimizzazione dei bisogni umani e quindi anche delle tecniche per soddisfarli. « L’uomo ricco è al contem­ po l’uomo bisognoso di una totalità di manifestazioni di vita umane » 150. Ma nella società borghese questa manife­ stazione totale delle forze e delle qualità essenziali si at­ tua in forma estraniata. Così, il significato strumentale ed egoistico della produzione materiale attribuisce l’univer­ salità dell’uomo soltanto all’arte, alla letteratura, alla re­ ligione, che pertanto diventano vita contemplativa e cui-

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tura come « essenza generale astratta » dell’uomo. La vita produttiva e la cultura non costituiscono una totalità or­ ganica in quanto manifestazioni di una stessa essenza, ma si rapportano nella contrapposizione tra la vita reale vis­ suta e intesa secondo il valore esclusivo dell’utile egoisti­ co e la vita intellettuale intesa come universalità fittizia; nella società borghese « la coscienza generale è un’astra­ zione dalla vita reale e come tale le si contrappone nemi­ ca »151. La storia dell’industria connessa con l’essenza del­ l’uomo diventa, allora, la storia della forma estraniata del­ le forze essenziali umane. La connessione dell’attività pro­ duttiva con l’essenza, da un lato permette di concepire la produzione materiale come già fornita di universalità e quindi esclude la possibilità di contrapporre all’industria il mondo della cultura come una sfera di attività autono­ ma e indipendente; dall’altro lato permette di rendere conto del carattere che là cultura acquista quando la for­ ma storica correlata alla produzione materiale è la pro­ prietà privata. « Si vede come la storia industria, re­ sistenza divenuta oggettiva dell’industria, sia Vaperto li­ bro delle forze essenziali umane, la psicologia umana sen­ sibilmente presente, che finora non fu vista nella sua con­ nessione con Vessenza dell’uomo, ma sempre e solo in un esteriore rapporto di utilità perché - muovendocisi entro l’alienazione - si seppe vedere come realtà delle forze es­ senziali umane e atti dell’uomo come ente generico sol­ tanto l’esistenza generale dell’uomo, la religione, o la sto­ ria nella sua essenza generale-astratta, come politica, arte, letteratura, ecc. ordinaria industria materiale... ab­ biamo davanti, sotto la forma di oggetti sensibili, estranei, utili, sotto la forma dell’estraniazione, le forze essenziali oggettivate dell’uomo. Una psicologia cui sia chiuso que­ sto libro, cioè precisamente la parte la piu presente sen­ sibilmente e la piu accessibile della storia, non può diven­ tare una scienza reale e con effettiva pienezza di contenu­ to »152. La connessione tra l’industria e l’essenza dell’uo­ mo - che la storia dell’industria come storia della proprie­ tà privata non ha saputo realizzare — non ha potuto essere colta e l’essenza dell’uomo è stata concepita come la sua esistenza generale astratta, come un’universalità fittizia se-

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parata dalla vita reale. Ciò che permette di comprendere l’unità del lavoro alienato e della cultura alienata è il rife­ rimento di entrambi all’essenza dell’uomo, alla totalità della vita umana: « ogni umana attività è stata finora la­ voro, e dunque industria, attività alienata a se stessa »153. Nello stato di estraniazione sia il lavoro ordinario sia l’at­ tività culturale sono qualificabili in termini di scissione della vita individuale dalla vita generica perché entrambi non realizzano l’organicità dell’essenza generica. Inseren­ do la storia dell’industria nella considerazione dell’uomo come essenza, Marx ha stabilito la connessione tra la sto­ ria della cultura e la storia dell’industria e ha ricondotto, tramite la funzione unificante e totalizzante del concetto di essenza, cultura e industria a un medesimo punto di ri­ ferimento; questo punto di riferimento gli ha permesso inoltre di comprendere - mentre ne stabiliva l’unità or­ ganica - la scissione di questi due termini. Cosi, anche il concetto di industria ha subito una radicale trasforma­ zione.

1 K. marx, 'Dibattiti sulla libertà di stampa e sulla pubblicazione delle discussioni alla Dieta, in Scritti politici giovanili, a cura di L. Firpo, Torino 1950, p. 92. Questo lavoro fu pubblicato in una serie di articoli sulla « Reinische Zeitung » durante il maggio 1842. Partendo dal problema della pubblicità delle discussioni tenute alla sesta Dieta renana (maggio-luglio 1841), Marx si pro­ poneva di dimostrare il carattere reazionario dello stato prussia­ no e di delineare una concezione del diritto compatibile con la libertà: la legge «è vera legge solo quando in essa l’inconscia legge naturale della libertà sia divenuta consapevole legge dello Stato. Là dove la legge è realmente tale, vale a dire esistenza del­ la libertà, essa è la vera esistenza della libertà umana» (ibid., p. 105). In una lettera a Ruge del 20 marzo 1842 Marx scriveva: « Ho una gran voglia di dimostrare che la Prussia non può intro­ durre la procedura pubblica e orale nei tribunali, perché vi è in­ compatibilità tra una giurisdizione libera e uno stato che non lo è» (MEGA, 1-2, p. 271). Sull’attività pubblicistica e sulle posi­ zioni politiche di Marx in questo periodo rimandiamo al lavoro di A. cornu, Marx e Engels dal liberalismo al comuniSmo, trad, it. Milano 1962. 2 k. marx, Il supplemento ai nn. 335 e 336 della «Gazzetta Ge­ nerale di Augusta» riguardante i comitati degli ordini in Prussia,

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in Scritti politici giovanili, pp. 254 e 266. In questo articolo, pubblicato durante il dicembre 1842, Marx definiva in questi termini la rappresentanza popolare: «La rappresentanza non va concepita come rappresentanza di un qualunque elemento che non sia il popolo stesso, ma unicamente come la sua autorappre­ sentanza, come un affare di Stato, che, ben lontano dall’essere l’unica ed eccezionale attività politica del popolo, si differenzia dalle altre manifestazioni della vita pubblica solo per l’universa­ lità del proprio contenuto» (ibid., p. 266). K. marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Opere filosofiche giovanili, a cura di G. della Volpe, Roma 1963, p. 32. Questo scritto inedito fu composto tra il giugno e l’ottobre 1843. Lettera di Marx a Ruge (Colonia, maggio 1843), in Annali fran­ co-tedeschi di Arnold Ruge e Karl Marx, a cura di G. M. Bravo, Milano 1965, pp. 65 e 62. «Ma il sistema dell’industria e del commercio, della proprietà e dello sfruttamento umano, ancor piu dell’aumento della popo­ lazione, conduce, all’interno dell’attuale società, a una frattura che il vecchio sistema non può sanare, perché esso non sana e non crea ma soltanto esistè e gode» (ibid., p. 68). Lettera di Marx a Ruge (Kreuznach, settembre 1843), in Annali franco-tedeschi, p. 82. Questo articolo fu pubblicato all’inizio del 1844 sui «DeutschFranzosische Jahrbucher». Preparato per le stampe a Parigi nel dicembre 1843, esso risale in realtà ad alcuni mesi prima e ri­ sente fortemente del lavoro inedito sulla filosofia del diritto di Hegel. k. marx, Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in Scritti politici giovanili, p. 399. Questo articolo fu composto a Parigi nel dicembre 1843 e fu pubblicato nei « Deutsch-Franzòsische Jahrbucher». Ibid., p. 411. Ibid., pp. 399, 406 e 410. k. marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere fi­ losofiche giovanili, p. 147. In realtà il programma era piu ambizioso. Dopo aver abbandona­ to l’idea di scrivere una storia della Convenzione, Marx aveva in mente una serie di monografie dedicate alla « critica del diritto, della morale, della politica, ecc.» e un «lavoro speciale» in cui presentare « la connessione dell’assieme, il rapporto delle singole parti, come anche la critica conclusiva dell’elaborazione specula­ tiva di quel materiale» (ibid.). a. smith, Wealth of Nations, vol. I, libro I, cap. vili, p. 66. Marx si serviva della trad, franc, curata da G. Garnier (Recherches sur l'a nature et les causes de la richesse des nations, Paris 1802).

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14 k. marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 158. Se­ condo Smith, prima dell’appropriazione della terra e dell’accu­ mulazione del capitale «l’intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore », ma nello stato di cose in cui la terra e i materiali di lavoro sono proprietà privata e i lavoratori « servono sotto un padrone», la rendita della terra e il profitto del capitale sono «deduzioni» sul prodotto e quindi sulla ricompensa del lavoro (a. smith, Wealth of Nations, libro I, cap. vin, pp. 66-68). A ciò Marx osserva: «L’economista ci dice che originariamente e idealmente Vint ero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore. Ma ci dice a un tempo che, nella realtà, al lavoratore tocca la par­ te minima e strettamente indispensabile del prodotto» (Mano­ scritti economico-filosofici del 1844, p. 157). Per Smith «ciò che si compra col denaro e con le merci è acquistato col lavoro, come lo è ciò che si acquista con la pena del proprio corpo» (Wealth of Nations, libro I, cap. v, p. 32); Marx cosi interpreta: «L’eco­ nomista ci dice che tutto si compra col lavoro, e che il capitale non è che lavoro accumulato, ma ci dice a un tempo che il lavo­ ratore, ben lungi dal poter comprare tutto, deve vendere se stes­ so e la sua umanità» (Manoscritti economico-filosofici del 1844, pp. 157-58). Analogamente per gli effetti della divisione del lavo­ ro secondo Smith: «Mentre la divisione del lavoro aumenta la forza produttiva del lavoro e la ricchezza e il raffinamento della società, impoverisce il lavoratore sino a farne una macchina. Mentre il lavoro fa sorgere l’accumulazione del capitale, e con ciò il crescente benessere della società, rende il lavoratore sem­ pre piu dipendente dal capitalista, lo mette in una maggiore con­ correnza, lo spinge alla caccia forzata della sovrapproduzione, a cui segue quella atonia» (ibid., p. 158). 15 « Proprio perché l’economia politica non comprende la coerenza del movimento [economico] essa potè contrapporre, per esem­ pio, la dottrina della concorrenza alla dottrina del monopolio, la dottrina del libero mestiere alla dottrina della corporazione, la dottrina della divisione della proprietà fondiaria alla dottrina della grande proprietà fondiaria. Giacché concorrenza, libertà di mestiere, divisione della proprietà fondiaria, furono spiegate e comprese soltanto come conseguenze accidentali, volute e vio­ lente, non come conseguenze necessarie, inevitabili, naturali, del monopolio, della corporazione e della proprietà feudale» (ibid., P-194)16 Ibid., p. 241. 17 Ibid., p. 158. 18 Ibid., p. 159. «La domanda di uomini regola necessariamente la produzione di uomini, come di ogni altra merce. Se l’offerta è assai maggiore della domanda, una parte dei lavoratori cade in mendicità o muore di fame. L’esistenza del lavoratore è così ri­ dotta alla condizione di esistenza di ogni altra merce» (ibid., p. 153). Cfr. A. smith, Wealth of Nations, libro I, cap. vili, pp. Si82.

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k. marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 157. In realtà quando Smith affermava che «non può certo essere fio­ rente e felice una società, la parte di gran lunga maggiore dei cui membri sia povera e miserabile» (Wealth of Nations, libro I, cap. Vin, p. 80) auspicava una politica salariale che estendesse i consumi dei lavoratori. 20 Wealth of Nations, libro IV, cap. in, parte II; ed. Cannan, to­ mo I, p. 457; cfr. F. engels, Abbozzo di una critica dell1econo­ mia politica, in Annali franco-tedeschi, p. 150. 21 F. engels, Abbozzo di una critica dell'economia politica, pp. 150131. «Questo commercio, sotto il dominio della proprietà priva­ ta, deve diventare come ogni altra attività una fonte immediata di guadagno per colui che lo esercita; ciascuno cioè deve cercare di vendere il piu caro possibile e di comprare il piu a buon mer­ cato possibile. A ogni compravendita sono di fronte due uomini con interessi assolutamente opposti; il conflitto è decisamente tra avversari» (ibid., pp. 148-49). 22 «L’economia politica parte dal fatto della proprietà privata. Non ce la spiega. Essa esprime il processo materiale della pro­ prietà privata, il processo da questa compiuto in realtà, in for­ mule generali, astratte, che essa poi fa valere come leggi. Essa non comprende queste leggi, cioè non mostra come esse risultino dall’essenza della proprietà privata» (k. marx, Manoscritti eco­ nomico-filosofici del 1844, p. 193). 23 F. engels, Abbozzo di una critica dell'economia politica, p. 148. 24 j.-b. say, Tfraité d,'economie politique, ou simple exposition de la manière dont se forment, se distribuent et se consomment les richesses, 2a ed. Paris 1814, tomo I, libro I, cap. 1, p. 1. Marx cita dalla 3a ed., Paris 1817; il passo è riportato nel primo qua­ derno di estratti. Cfr. Aus den Exzerptheften (Paris, Anfang 1844-Anfang 1845), in MEGA, 1-3, p. 437 (corsivo di Marx). 25 Aus den Exzerptheften, p. 449. 26 j.-b. say, Eraité d'economie politique, p. 2. Cfr. la citazione in Aus den Exzerptheften, pp. 437-38 (corsivo di Marx). 27 « Poiché la ricchezza relativa è determinata mediante il confron­ to del valore delle cose, di cui si ha bisogno, con il valore di quel­ le che si possono dare in cambio - en échange -, lo “scambio” diventa fin dall’inizio l’elemento essenziale della ricchezza. La ricchezza consiste delle cose di cui “non si ha bisogno”, che non sono richieste per il “bisogno personale”» (Aus den Exzerpt­ heften, p. 449). Il passo di Say, cui si riferisce questo commen­ to, è cosi riportato da Marx: «Ricchezza... la somma dei valori, cioè la somma delle cose valutabili che si possiedono... ricchezza di una nazione... la somma dei valori posseduti dai singoli, di cui questa nazione si compone, e di quelli che i singoli posseggono in comune. La ricchezza... relativa al valore delle cose di cui si ha bisogno, confrontato con il valore di quelle che si possono dare in cambio» (ibid., p. 448). Cfr. j.-b. say, Traile d'economie po-

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litique, tomo II: Epitome des principes fondamentaux de Veco­ nomie politique, pp. 472-73. 28 « Molto divertente è il circolo nella dimostrazione di Smith. Per spiegare la divisione del lavoro egli suppone gratuitamente lo scambio. Ma affinché lo scambio sia possibile, egli presuppone la divisione del lavoro, la differenza dell’attività umana. Spostando il problema nello stato primitivo, egli non se ne è sbarazzato» (Aus den Exzerptheften, p. 458). Questa è l’unica annotazione contenuta nel quaderno di estratti dalla Wealth of Nations. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 dirà che « circa l'essen­ za della divisione del lavoro... gli economisti sono molto all’oscu­ ro e in contraddizione» (p. 246). Anche in Ricardo ci sono ragio­ namenti circolari. Questi aveva sostenuto che le leggi per i pove­ ri avrebbero fatto aumentare progressivamente il fondo per il mantenimento dei poveri fino ad assorbire l’intero reddito netto della nazione (On the Principles of Political Economy and Taxa­ tion, 2l cura di P. Sraffa, Cambridge 1962, cap. v, pp. 105-6) e che esse hanno una tendenza «a mutare ricchezza e potenza in miseria e debolezza; a distogliere ogni impiego di lavoro da ogni fine che non sia quello di procurare la mera sussistenza; a con­ fondere tutte le distinzioni intellettuali; a occupare di continuo lo spirito nel soddisfare i bisogni del corpo, finché, in definitiva, tutte le classi non siano infette dalla piaga della povertà univer­ sale» (ibid., p. 108). Marx, in una annotazione a questo passo, così commenta: « Si badi bene che all’inizio di questo capitolo il filantropo signor Ricardo ha presentato i mezzi di sussistenza co­ me il prix naturel del lavoro, dunque anche come l’unique but del suo lavoro, perché egli lavora in vista del salario. Cosa c’en­ trano allora le “facultés intellectuelles”? Ma Ricardo vuole pro­ prio soltanto distinctions tra le diverse classi. Il circolo vizioso abituale dell’economia politica. Fine libertà dello spirito. Dun­ que la servitù senza spirito della maggioranza. I bisogni fìsici non l’unico fine. Dunque l’unico fine della maggioranza. O inversa­ mente, fine matrimonio. Dunque prostituzione della maggioran­ za. Fine proprietà. Dunque mancanza di proprietà per la mag­ gioranza» (Aus den Exzerptheften, p. 504). Le note a Ricardo sono contenute nel quarto quaderno di estratti. Marx cita dalla trad, franc, di F.-S. Constando con note di Say (Des principes de Veconomie politique et de Vimpót, 2a ed. Paris 1835). È Say che in nota chiama Ricardo «philanthrope éclairé». Il traduttore pone to confound all intellectual distinction = «Il n’y aurait plus de distinctions quant aux facultés intellectuelles ». 29 « Ricardo separa la fertilità del suolo in sé dai frutti che esso ap­ porta, mediante certi apparecchi, al capitale impiegatovi. Una se­ parazione sciocca. Smith osserva a ragione che il capitale per il miglioramento non proviene in genere dal proprietario e che per­ ciò questi non dovrebbe pretendere, in quanto capitalista, una rendita più elevata da una terra migliorata. Le “facultés primi­ tives et indestructibles du sol”, di cui parla Ricardo in quanto

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oggetto della rendita, sono un’astrazione» {Aus den Exzerpt­ heften, p. 498). Per Ricardo la rendita ha origine dalla produt­ tività della terra, cioè è il pagamento per «i poteri originari e indistruttibili del suolo» {On the Principles of Political Econo­ my and Taxation, cap. 11, p. 67). Per le ragioni teoriche e fat­ tuali di questa distinzione, cfr. m. blaug, Ricardian Economics: a historical study, New Haven 1958, pp. io sgg. Smith, al con­ trario, spiegava la rendita con la teoria del monopolio, soste­ nendo che «la rendita della terra... considerata come il prezzo pagato per l’uso della terra, è naturalmente un prezzo di mono­ polio. Essa non è affatto proporzionata a ciò che il proprietario può avere speso per il miglioramento della terra, o a ciò che egli si può permettere di prendere, ma ciò che l’affittuario si può per­ mettere di dare» {Wealth of Nations, Ebro I, cap. xi, p. 146). Quindi, per Smith, la rendita non deriva dalla produttività del­ la terra, ma dal fatto che la terra è divenuta proprietà privata. Marx, a sua volta, traeva la conclusione che, a differenza di Ri­ cardo, Smith tiene conto della concorrenza anche nella determi­ nazione del prezzo dei servizi resi dalla terra: «Secondo Smith, il prix naturel consiste del salaire, della rente e del profit. La rente non fa parte dei costi di produzione necessari, benché la terra sia indispensabile alla produzione. Anche il profitto non fa parte dei costi di produzione. La necessità della terra e del capi­ tale per la produzione è annoverata tra i costi di produzione sol­ tanto in quanto ci vuole lavoro ecc. per la conservazione del ca­ pitale e della terra... Ma soltanto il surplus, l’eccedente di que­ sti [costi] costituisce gli interessi e il profitto, il canone e la ren­ dita fondiaria. Perciò il prezzo di tutte le cose è troppo elevato, come Proudhon ha già dimostrato. Inoltre: il tasso naturale del salario, della rendita e del profitto dipende interamente dalla consuetudine o dal monopolio, in ultima analisi dalla concorren­ za, e non deriva dalla natura della terra, del capitale e del lavo­ ro. Perciò gli stessi costi di produzione sono determinati dalla concorrenza e non dalla produzione» {Aus den Exzerptheften, p. 501). Sulla teoria del valore, vedi sotto. 30 j.-b. say, Traité d’economie politique, tomo I, cap. xiv, p. 135. 31 Ibid., tomo II, Epitome, p. 468. 32 f. engels, Abbozzo di una critica dell’economia politica, p. 145. 33 Aus den Exzerptheften, p. 449. 34 f. engels, Abbozzo di una critica dell’economia politica, pp. *54'55 • 35 Aus den Exzerptheften, p. 502. Considerazioni analoghe sono svolte in riferimento alla scuola ricardiana. Per esempio, a pro­ posito della esposizione del sistema ricardiano fatta da Prevost (in j. R. MAC culloch, Discours sur l’origine, les progrès, les objets particuliers et I’importance de l’economie politique, trad, franc. Genève e Paris 1825; gli estratti e le note di Marx sono contenuti nel quinto quaderno di estratti): « Prevost loda la sco-

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perta dei ricardiani, per la quale il prezzo rappresentato con i costi di produzione non subisce Yinfluenza dell'otre e della de­ mands (p. 180). In primo luogo, il buon uomo dimentica che i ri­ cardiani dimostrano questo principio soltanto con il calcolo delle medie, cioè l’astrazione dalla realtà. In secondo luogo, secondo questa tesi sarebbe sufficiente offrire una merce, senza che la si compri, per determinare il prezzo in base ai costi di produzione. Ma si possono produrre le cose più inutili. In terzo luogo, questi signori ammettono che cause accidentali possono fare oscillare [erhóhen] il prezzo al di sopra o al di sotto dei costi di produzio­ ne. Ma la concorrenza li farebbe alzare o ricacciare al livello dei costi di produzione. Ma che cos’è la concorrenza se non il rap­ porto tra offre e demande? Dunque il rapporto tra offre e demande viene ammesso nella forma della concorrenza. Questi si­ gnori che cosa vogliono veramente dimostrare? Che entro la li­ bera concorrenza il prezzo dei prodotti è mantenuto al pari [57'c] con i loro costi di produzione. Abbiamo parlato altrove dell’ef­ fetto della libera concorrenza quale mezzo di determinazione del prezzo. Esprimendoci astrattamente, il prezzo è determinato dal­ la concorrenza = il prezzo diventa casuale. Se i signori dicono che nessuno vuole vendere al di sotto dei suoi costi di produ­ zione, hanno ragione. Ma volere non è potere» (Aus den Exerptheften, pp. 556-57). Sulle «medie» con cui «si astrae sempre più dagli uomini», cfr. ibid., p. 556. Per la «rappresentazione dei costi di produzione, come unico momento nella determina­ zione del valore » in J. Mill e, in generale, per il carattere astrat­ to e arbitrario delle leggi dell’economia politica, vedi Aus den Exzerptheften, pp. 530-31 (quarto quaderno di estratti da j. mill, Elements d’economie politique, trad, franc. Paris 1823) e la trad. it. in Scritti inediti di economia politica, a cura di M. Tronti, Roma 1963, pp. 5-6. 30 Aus den Exzerptheften, p. 493. 37 Ibid., p. 502. «La distinzione tra il prezzo naturale e il prezzo corrente, che il signor Ricardo ammette con Smith, sembra esse­ re del tutto chimerica. Non ci sono che prezzi correnti in econo­ mia politica. In effetti, cosa vediamo in ogni specie di produzio­ ne? 1) dei servizi produttivi fondiari (l’azione produttiva della terra), il cui prezzo corrente si stabilisce come il valore di qua­ lunque altra cosa, in ragione composta della quantità di questo servizio, offerta e domandata in ciascun luogo; 2) dei servizi resi dai capitali produttivi il cui prezzo corrente, il canone, si regola sugli stessi motivi; 3) infine, dei lavori di ogni genere, il cui prezzo corrente dipende dalle stesse cause» (nota di Say in d. ricardo, Ees principes de l’economie politique et de l’impót, ed. Bruxelles 1835, cap. iv, pp. 67-68). 38 « Poiché Smith ammetteva il prix naturel, esisteva almeno il pro­ blema: il lavoro, il capitale e la terra quale determinazione han­ no nei costi di produzione? Questo è un problema che ha un senso, prescindendo dalla proprietà privata; il prix naturel è i

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costi di produzione. Perciò per esempio nella communauté si tratta di questo: quale terra produrrà un certo prodotto piutto­ sto che un altro? La cosa vale il lavoro speso e il capitale speso? » (Aus den Exzerptheften, p. 502). Si tratta di uno dei rari accenni di Marx all’organizzazione comunistica della produzione; co­ munque egli si riferisce alla tesi di Smith che la determinazione del valore mediante i costi di produzione era possibile nelle for­ me primitive di società, in cui non esisteva proprietà privata dei fattori e dei mezzi di produzione: «In quello stadio primitivo e rozzo della società, che precede l’accumulazione del capitale e l’appropriazione della terra, la proporzione tra le quantità di la­ voro necessario per acquistare differenti oggetti sembra fosse la sola circostanza che potesse offrire una norma per scambiarli l’uno con l’altro» (a. smith, Wealth of Nations, libro I, cap. vi, P- 49)39 Aus den Exzerptheften, p. 502. Qui non si svilupperanno ulte­ riormente le opinioni di Marx sul valore. In questo periodo for­ mativo egli accoglie anche alcune idee proudhoniane, che piu tardi abbandonerà: «Ricardo spiega come il lavoro comprenda l’intera somma del prezzo, perché anche il capitale è lavoro. Say, loc. cit. [vedi sopra, nota 28], p. 25, nota, mostra che egli ha di­ menticato i profitti del capitale e della terra, che non sono forniti gratuitamente. Proudhon ne conclude giustamente che là dove esiste la proprietà privata una cosa costa piu del suo valore-, è precisamente questo tributo che è pagato al proprietario priva­ to» (ibid., p. 494); vedi anche sopra, nota 29. Cfr. p.-j. proudhon, Qu'est-ce que la propriété? Premier mémoire, Paris 1840, cap. iv, seconda proposizione: «La proprietà è impossibile per­ ché là dove è ammessa la produzione costa più di quanto non valga» (in CEuvres complètes de P.-J. Proudhon, tomo I, Paris s. d., pp. 133 sgg.). Affermazioni analoghe si trovano anche in Engels : « il valore di una cosa è differente dal cosiddetto equiva­ lente che in commercio è dato per essa: ciò significa che tale equivalente non è un equivalente. Questo cosiddetto equivalente è il prezzo della cosa e, se l’economista fosse onesto, userebbe questa parola per indicare il “valore di mercato”. Ma egli deve tuttavia conservare ancora un minimo di apparenza, cioè il prez­ zo connesso in qualche modo con il valore, affinché l’immoralità del commercio non venga troppo chiaramente alla luce » ( Abboz­ zo di una critica dell'economia politica, p. 155). 40 Sui precedenti della legge di Say, cfr. j. j. spengler, The Physio­ crats and Say's Law of Markets. I-II, «The Journal of Political Economy», lui, 1945, pp. 193-211 e 317-47. Gli estratti di Marx (ottavo quaderno) sono ricavati dalle seguenti opere di Boisquillebert: Le detail de la France; Dissertation sur la nature des richesses, de I'argent et des tributs; Traité de la nature, culture, commerce et intérèt des grains (pubblicate in Economistes fi­ nanciers du xviiT siede, a cura di E. Daire, Paris 1843).

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41 Dopo aver descritto la vita sociale in termini di divisione del la­ voro, Boisguillebert cosi continua: «tutte le professioni, quali che siano in un paese, lavorano le une per le altre e si manten­ gono reciprocamente, non soltanto per provvedere ai loro biso­ gni, ma anche per la loro stessa esistenza. Nessuno acquista il prodotto del suo vicino o il frutto del suo lavoro se non a una condizione tassativa, sebbene tacita e non espressa, cioè che il venditore ne produrrà tanto quanto l’acquirente, o immediata­ mente, come avviene talvolta, o con la circolazione di parecchie mani o professioni interposte, ciò che è sempre lo stesso; senza di che egli si distrugge la terra sotto i piedi, poiché non soltanto egli farà perire l’altro con questa cessazione, ma causerà anche la propria perdita personale, mettendolo con ciò nell’impossibi­ lità di ritornare presso di sé a comperare, ciò che gli farà fare bancarotta e chiudere la propria bottega. Bisogna dunque che questo commercio continui senza interruzione e anche a un prez­ zo che è tassativo, qualunque sia quello che è ritenuto minimo, cioè a un saggio per cui il mercante non ci perde, cosicché egli possa continuare nel mestiere con profitto; altrimenti è come se non vendesse affatto» (Dissertation sur la nature des rich esses, de I’argent et des tributs, ou l’on découvre la fausse idée qui règne dans le monde à l’égard de ces trois articles, p. 404). 42 «... se è una ricchezza questo ampio possesso di tutto ciò che lo spirito può scoprire al di là del necessario, questa è la situazione più pericolosa e che maggiormente richiede attenzione; altrimen­ ti succede che ciò che è stato istituito per far godere del super­ fluo serve soltanto, quando le misure son mal prese, a privare del necessario, gettando in un istante lo stato dall’apice dell’opulen­ za all’ultimo grado della miseria» (ibid.). 43 Aus den Exzerptheften, p. 576. Dopo àver esposto le condizioni dell’opulenza generale e le cause della miseria (vedi la nota pre­ cedente), Boisguillebert continuava mostrando come un paese può andare in rovina per eccesso di beni: «l’opulenza generale, tanto nei confronti del principe quanto dei suoi popoli in un paese ricco, è un composto generale e perpetuo in cui ciascun in­ dividuo deve lavorare continuamente, con un apporto e una sot­ trazione dalla massa sempre uguali, il pericolo essendo identico da qualunque parte arrivi la diminuzione; avendo ciò osservato esattamente, ne risulta una composizione perfetta in cui si trova tutto, perché vi si apporta tutto. Ma, non appena qualcuno vuole derogare a questa regola della giustizia, prendendo di più o ap­ portando meno della sua parte, arrivando allora la diffidenza, co­ me pure lo sconvolgimento della proporzione dei prezzi, la mas­ sa si corrompe e gli individui, che non trovano più la loro sussi­ stenza, sono costretti a provvedervi con misure eccezionali, mol­ to desolanti e quasi sempre criminali, o piuttosto l’una cosa e l’altra a un tempo. Ciascuno perisce, cosicché si è dimostrato, con l’eccesso di una derrata e la penuria di un’altra, ciò che getta tutti gli uomini reciprocamente nella miseria, mentre la recipro­

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ca compensazione di questi estremi li avrebbe resi molto felici. Succede come se un principe, abusando della sua autorità... per torturare e far morire molti individui in maniera grottesca, ne facesse incatenare dieci o dodici a cento passi l’uno dall’altro: l’uno completamente nudo, benché faccia molto freddo, avrebbe una quantità incredibile di carne e di pane presso di sé, dieci volte più di quanto ne potrebbe consumare prima della morte, che non sarebbe molto lontana, perché egli sarebbe privo di tut­ to il resto e soprattutto di liquori, di cui non avrebbe nemmeno una goccia a sua disposizione» e analogamente per gli altri. In questa situazione, tutti morirebbero di fame, di freddo, di sete, sebbene « in generale, non fossero privi né di alimenti né di abi­ ti» {Dissertation, pp. 422-23). Marx trascrive in parte questo passo e quindi inizia la discussione della legge di Say (cfr, Aus den Exzerptheften, pp. 575-76). 44 j.-b. say, Traité d'economie politique, tomo I, libro I, cap. xv, p. 144. 45 Ibid., p. 149. 46 d. Ricardo, On the Principles of Political Economy and Taxa­ tion, cap. xxi, p. 290. 47 Ibid., pp. 291-92; «0 con .servizi» non compare nella ia ed. su cui è condotta la trad, franc, citata. Marx trascrive in parte i pas­ si citati di Ricardo nel quarto quaderno di estratti (cfr. Aus den Exzerptheften, pp. 509-10). 48 Su questo punto insiste con particolare chiarezza J. Mill: «Par­ lando qui di domanda e offerta, è evidente che parliamo di ag­ gregati. Quando di una particolare nazione, in un particolare pe­ riodo di tempo, diciamo che la sua offerta è uguale alla sua do­ manda, non intendiamo questa uguaglianza in una o in due merci particolari. Intendiamo che l’ammontare della sua domanda, in tutte le merci prese insieme, è uguale all’ammontare della sua of­ ferta in tutte le merci prese insieme. Può benissimo succedere, nonostante questa uguaglianza nella somma generale delle do­ mande e delle offerte, che una o più merci siano state prodotte in quantità o superiore o inferiore alla domanda di queste merci particolari» (Elements of Political Economy, 3* ed. London 1844, cap. iv, sez. Ill, p. 230). Questo passo è trascritto da Marx nel quarto quaderno di estratti (cfr. Aus den Exzerpt­ heften, p. 542). 49 Ibid., p. 510. 50 Ibid. Questo punto è ripreso nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 (P- I7I)> dove Marx mostra che la concorrenza con­ duce a sua volta alla concentrazione dei capitali. 51 « Ricardo spiega dunque la baisse del profitto del capitale e de­ gli interessi, a misura che i capitali aumentano, sebbene i tipi di impiego si moltiplichino col capitale, con la maggiore difficoltà di procurare i mezzi di sussistenza. Egli lascia del tutto fuori gioco la concorrenza» (Aus den Exzerptheften, p. 510).

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52 « Ricardo e tanto meno il signor Say, che è d’accordo con lui e che per primo ha stabilito il principio secondo cui la domanda di prodotti è limitata soltanto dalla produzione stessa, non può rispondere a questa domanda: di dove vengono la concorrenza e i suoi conseguenti fallimenti, le crisi commerciali, ecc., se ogni capitale trova il suo empiei corrispondente? se l’emploi è sem­ pre in proporzione con il numero dei capitali? Con quest’unica proposizione questi signori sopprimerebbero il loro principio supremo, la concorrenza, come pure il fondamento di questo principio... Perché questi sapienti individui arriverebbero al punto da rovinare se stessi e altri, se per ogni capitale fosse di­ sponibile un emploi proficuo? » (ibid., p. 511). Ricardo (On the Principles of Political Economy and Taxation, cap. xxi, p. 290), e con lui Marx, attribuiva a Say la priorità nella formulazione della legge degli sbocchi. Tale priorità è stata messa in dubbio, a favore di J. Mill (Commerce defended; an Answer to the Ar­ guments by which Mr Spence, Mr Cobbett and Others, have Attempted to Prove that Commerce is not a Source of National Wealth, London 1808), da parecchi autori i quali assumono che la ia ed. del Traité (1803) contiene soltanto un abbozzo della legge, sviluppata piu tardi nella 2a ed. (1814). Cfr., per esem­ pio, l’introduzione di J. H. Hollander a d. ricardo, Notes on Malthus, «Principles of Political Economy», Baltimore-London 1928, pp. lxxix-lxxxv. Per un’opinione differente, cfr. j. j. spengler, The Physiocrats and Say's Law of Markets. Comun­ que, si deve a Mill il merito di aver sviluppato le formulazioni di Say per quanto concerne l’impossibilità degli ingorghi generali (Commerce defended, in j. mill, Selected Economie Writings, a cura di D. Winch, Edinburgh-London 1966, p. 135). 53 La natura contraddittoria del processo di accumulazione capita­ listica è individuata da Marx in questo periodo, anche se rima­ ne ancora allo stato di un’intuizione non sviluppata: «L’econo­ mia politica ha non soltanto il miracolo della sovrapproduzione e della supermiseria, ma anche il miracolo di un accrescimento dei capitali con i loro modi di impiego da una parte e dell’assen­ za, a causa di questo accrescimento, di occasioni produttive dal­ l’altra parte» (Aus den Exzerptheften, p. 511). 54 Ibid., p. 576. «Secondo lui la sovrapproduzione non è possibile; se una merce non trova nessuno smercio, è soltanto perché non si produce abbastanza (in un altro paese o nel paese stesso) per lo scambio, come equivalente» (ibid.). 55 «Say ammette, come Mill e Ricardo l’ammettono rifacendosi a lui, che si può avere sovrapproduzione in un determinato ramo di produzione; dunque, poiché in un paese determinato si tratta sempre di prodotti determinati, in tutti i suoi rami di produzio­ ne; la colpa perciò sta nell’incoscienza della produzione e pre­ cisamente nel fatto che essa non è umana, ma si effettua nelle condizioni dell’alienazione, della proprietà privata» (ibid.). Na­ turalmente, prescindendo dai concetti di «umanità» e «aliena­

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zione», queste spiegazioni non soddisferebbero nessun econo­ mista. Senza anticipare troppo, il ragionamento viene sviluppato al di là di una enunciazione di principio, adottando argomenta­ zioni comuni ad altri critici della legge di Say ; ma per Marx, senza l’uso di quei concetti, queste argomentazioni sono altret­ tanto insoddisfacenti. 56 « Se i produttori in quanto tali sapessero di quanto hanno biso­ gno i consumatori, se organizzassero la produzione, se la ripar­ tissero tra di loro, l’oscillazione della concorrenza e la sua incli­ nazione alla crisi sarebbero impossibili. Producete con coscienza, come uomini non come atomi dispersi senza una coscienza col­ lettiva, e sarete al di là di tutte queste contraddizioni artificiose e insostenibili. Ma fino a quando continuerete a produrre nel modo attuale, inconsapevole, irrazionale, abbandonato alla si­ gnoria del caso, le crisi di mercato permarranno» (f. engels, Abbozzo di una critica dell’economia politica, p. 164). 57 Aus den Exzerptheften, p. 576. 58 Ibid. 59 Cfr. ibid., pp. 576-77. 60 Ibid.,p. 577. 61 « Supposto il caso piu favorevole summenzionato, i prodotti, poi­ ché sono tutti disponibili in grandissima sovrabbondanza, dimi­ nuiscono molto di prezzo. Ma i loro costi di produzione hanno un limite determinato. Se i produttori vogliono scambiare quan­ to più possibile, essi devono vendere a una parte di acquirenti che paga al di sotto del costo di produzione, cioè essi devono re­ galare le loro merci, cioè non vendere. Il limite estremo delle vendite in generale sono i costi di produzione più un tanto affin­ ché il produttore abbia un certo guadagno per la sua produzione. Dunque, la condizione di un grosso débouché non sarebbe che anche dall’altra parte si produca il più possibile, ma che quanti più uomini è possibile posseggano prodotti per lo scambio, cioè che tutti fossero ricchi, sebbene anche in questo caso possa an­ cora aversi la sovrapproduzione che ai nostri giorni in genere non ha sicuramente luogo» (ibid.). 62 Ibid. 63 Ibid. 64 Questo punto è sviluppato ampiamente nell’annotazione su J. Mill, dove Marx conduce un’analisi del rapporto di scambio dal­ le sue forme più semplici alle forme più complesse, fino al dena­ ro. Cfr. Scritti inediti di economia politica, pp. 7 sgg. 65 Aus den Exzerptheften, p. 577. 66 « In generale, la più grande ricchezza sarebbe per gli economisti la più grande miseria, poiché essa sottrarrebbe a tutte le cose il loro valore» (ibid., p. 578).

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67 «Benché la produzione abbia luogo in opposizione alla massa de­ gli uomini, essi si meravigliano che essa possa diventare troppo grande per il piccolo numero della restante umanità solvibile. Essi cercano di occultare l’opposizione che ha luogo tra la pro­ duzione di un paese e il numero di coloro per i quali si effettua questa produzione - l’esclusione ostile della maggioranza dal ri­ sultato della produzione - questa opposizione tra la produzione e l’esistenza della produzione per gli uomini entro un paese essi cercano di dissimulare, facendo intervenire il rapporto tra piu paesi, come se il rapporto su scala piu estesa non rimanesse iden­ tico, come se con ciò il carattere antagonistico della produzione venisse abolito e come se alla fine piu paesi, scambiando i loro prodotti, non scambiassero nell’antagonismo stesso che ha luogo in un solo paese» {ibid.). Piu avanti si indicheranno le analogie con la critica di Sismondi alla legge degli sbocchi; si confrontino, per il commercio estero, i Nouveaux principes, dove Sismondi af­ ferma che « con la concentrazione delle fortune in un piccolo nu­ mero di proprietari, il mercato interno si restringe sempre più e l’industria è sempre più costretta a cercare i suoi sbocchi nei mercati stranieri dove più grandi rivoluzioni la minacciano» (j.-c.-L. simonde de sismondi, Nouveaux principes d’economie politique, ou de la richesse dans ses rapports avec la population, Paris 1819, tomo I, libro IV, cap. iv, p. 336). 68 Aus den Exzerptheften, p. 578. 69 Ibid. «... come l’accumulo di capitale aumenta la quantità di in­ dustrie, e però di lavoratori, la medesima quantità di industrie attraverso questo accumulo comporta una maggiore quantità di manufatti, che diventa sovrapproduzione, e con ciò finisce o di disoccupare una grande quantità di lavoratori o di ridurre il loro salario ad un minimo miserrimo » {Manoscritti economico-filosofici del 1844, pp. 156-57). 70 «... il movimento della proprietà privata esige che si produca troppo, nonostante e per mezzo della miseria generale» {Aus den Exzerptheften, p. 578). «La demande in senso economico de­ ve diminuire con l’industria. La massa dei prodotti deve aumen­ tare proporzionalmente, quindi deve oltrepassare sempre più la demande, cioè deve svalorizzarsi» {ibid., p. 579). 71 Cfr. K. marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, pp. 163 sgg. e 177; da Buret è ricavato anche il capoverso alle pp. 176-77 {«Ricardo nel suo libro... Angleterre»). Il nono quaderno di estratti contiene ventiquattro pagine di citazioni da Buret (cfr. MEGA, 1-3, p. 413). Cfr. anche Glosse critiche in margine all’ar­ ticolo «Il re di Prussia e la riforma sociale: osservazioni di un prussiano» («Avanti!», n. 60), in Scritti politici giovanili, pp. 423-46; questo articolo fu pubblicato sul « Vorwarts! » nell’ago­ sto 1844 ed è datato 31 luglio. 72 baron de cerando, Le visiteur du pauvre, Paris 1820; De la bienfaisance publique, Paris 1839; Des progrès de l’industrie, con-

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sidérés dans leurs rapports avec la moralité de la classe ouvrière, Paris 1841; m.-t. duchatel, La charité dans ses rapports avec Vétat moral et le bien-étre des classes inférieures de la société, Paris 1829; baron de morogues, De la misère des ouvriers et de la marche à suivre pour y rémédier, Paris 1832; Du Paupérisme, de la mendicité, et des moyens d’en prevenir les funestes effets, Paris 1834; vicoNTE Alban de villeneuve-bargemont, Eco­ nomie politique chrétienne, our recherches sur la nature et les causes du paupérisme, en Trance et en Europe, et sur les moyens de le soulager et de le prevenir, Paris 1834. 73 A questo proposito Marx distingueva nel ’44 la «povertà sorta naturalmente» da quella «prodotta artificialmente» dalle tra­ sformazioni economiche e sociali (cfr. sopra, nota 9). 74 A. gerschenkron, Economie Backwardness in Historical Per­ spective, trad. it. Torino 1965. Gerschenkron si riferisce propria­ mente soltanto a Saint-Simon e ai suoi seguaci, ma anche il fou­ rierism© può essere considerato in questa prospettiva. 75 Cfr. g. d. h. cole, Socialist Thought: the forerunners (17891870), trad. it. Bari 1967; a. cuvillier, Les antagonismes de classes dans la littérature sociale frangaise de Saint-Simon à 1848, «International Review of Social History», 1, 1956, pp. 433-63; c. h. Johnson, Etienne Cabet and the problem of class antago­ nism, ivi, xi, 1966, pp. 403-43. 76 Rapport de M. Villermé sur l'état physique et moral des ouvriers en soie, en laine et coton, Mémoires de l’Académie des Sciences morales et politiques, n. s., II, 1835. Scritta su commissione dell’Académie, quest’opera venne ripubblicata col titolo Tableau de Vétat physique et moral des ouvriers employés dans les manu­ factures de coton, de laine et de soie, Paris 1840. Su Villermé e sulle inchieste francesi degli anni ’40, cfr. h. rigaudias-weiss, Les enquétes ouvrières en Trance entre 1838 et 1848, Paris 1936. 77 e. buret, De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en Trance; de la nature de la misère, de son existence, de ses effets, de ses causes, et de Vinsuffisance des remèdes qu’on lui a opposés jusqu’ici; avec Vindication des moyens propres a en af­ franchi les sociétes, Paris 1840.1 rinvìi alle pagine si riferiscono all’edizione Bruxelles 1842. 78 Ibid., tomo I, Introduzione, p. 13. 79 j.-c.-l. simonde de sismondi, Nouveaux principes, tomo I, li­ bro IV, cap. 11, p. 312. 80 Ibid., p. 310. A questo proposito Sismondi osserva che «in cia­ scun paese c’è un profitto corrente del commercio cosi come un tasso comune di interesse; questo profitto si egualizza in ogni commercio che è possibile intraprendere e lasciare con facilità; esso serve di base alle speculazioni generali. Ma ogni commercio antico e soprattutto ogni industria che richiede un lungo appren­ distato e molti capitali fissi si sottrae assolutamente a questa con­ correnza. I suoi utili possono essere molto piu alti o piu bassi,

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durante un periodo molto lungo, a paragone con quelli di un’in­ dustria esercitata nello stesso paese da uomini che non dispon­ gono di alcun mezzo per passare dall’una all’altra» (ibid., pp. 311-12); cfr. anche tomo II, libro VI, cap. vi, pp. 215 sgg. È stato giustamente osservato che, diversamente dagli economisti classici, «lo spazio sismondiano non è affatto fluido» (m. lutfalla, Sismondi. Critique de la loi des debouches, « Revue économique», 1967, p. 655). Sismondi teneva presente nella sua analisi la crisi dei tessitori a mano inglesi, subentrata con l’intro­ duzione dei telai meccanici. 81 j.-c.-l. simonde de sismondi, Nouveaux principes, tomo I, li­ bro III, cap. xii, p. 288. 82 Nella 2a ed. dei Nouveaux principes, Sismondi aveva rinunciato alle sue teorie riformatrici, confessando l’incapacità di indicare gli strumenti legislativi per realizzarle: «dopo aver indicato dov’è, a mio avviso, il principio, dov’è la giustizia, non mi sento af­ fatto in grado di delineare i mezzi di attuazione. La distribuzio­ ne dei frutti del lavoro tra coloro che concorrono a produrli mi sembrava difettosa; ma mi sembra quasi al di là delle forze uma­ ne concepire uno stato di proprietà assolutamente diverso da quello che l’esperienza ci fa conoscere» (2a ed. Paris 1827, tomo II, p. 364). Cfr. e. buret, De la misere des classes laborieuses en Angleterre et en France, tomo II, libro IV, cap. 1, pp. 215-16. 83 Per esempio, la concezione classica del salario per Buret è insuf­ ficiente in quanto esso è stato considerato soltanto come un va­ lore di scambio, come una merce il cui prezzo è regolato dall’of­ ferta e dalla domanda. 84 E. buret, De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France, Introduzione, pp. 31-32. 85 Ibid., p. 13. 86 Ibid.,p. 24. 87 «Quando si studia la società, i fatti sfuggono sotto lo sguardo che li osserva per non piu ricomparire. Non è possibile riprodur­ li a volontà e si ottengono soltanto con grandissima difficoltà, poiché ciascun osservatore non ne vede con i propri occhi se non una parte esigua e quindi deve rimettersi per il resto alla testi­ monianza di altri» (ibid., p. 24). Buret insiste a lungo sul pro­ blema metodologico dell’osservazione, soprattutto a proposito dell’utilizzazione delle statistiche ufficiali. La loro attendibilità, la loro accessibilità, ma molto spesso la loro carenza - soprattutto in Francia - sono continuamente discusse. 88 Ibid., tomo I, libro I, cap. 1, pp. 65-66. 89 Ibid., p. 65. 90 La determinazione dei bisogni, il cui mancato soddisfacimento costituisce la miseria, non spetta al medico, al fisiologo o al fi­ lantropo, poiché non è possibile fissarli a priori; «tutto ciò che

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si può fare è cercarli e riconoscerli» di volta in volta {ibid., cap. n,p. 69). 91 Ibid., p. 71. Di qui l’insufficienza, rilevata da Buret, di un’analisi puramente statistica del fenomeno della miseria, basata sul rap­ porto tra i poveri e la popolazione totale. In questo modo si ar­ riverebbe a dire che le popolazioni barbare erano piu povere del­ le popolazioni industriali dell’Inghilterra o della Francia. È l’er­ rore che commette, per esempio, Villeneuve {Economie poli­ tique chrétienne). Cfr. e. buret, De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en E rance, tomo I, libro I, cap. n, p. 73, e cap. iv: Difficoltà inerenti allo studio della miseria, pp. 78-84. 92 E. buret, De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France, tomo I, libro I, cap. ni, p. 74. 93 « Poiché è la ricchezza che mette in evidenza la miseria, ed è il confronto della ricchezza che ne suscita il sentimento nell’animo del povero, è evidente che la si deve trovare soprattutto nelle città, nelle grandi località commerciali e industriali. È qui che si trova la massima accumulazione di ricchezza, la quale, manife­ standosi nel lusso, dà origine ai piu violenti contrasti; nello stes­ so tempo, è qui che agiscono con la massima energia le cause che concorrono alla formazione1 della miseria» {ibid., p. 77). «D’al­ tronde, è dal punto di vista industriale che la miseria riveste per noi un maggiore interesse. L’apparizione e lo sviluppo della mi­ seria nei grandi laboratori è forse il fatto piu considerevole e più significativo che presentino le società moderne» {ibid., libro II, cap. 1, p. 204). 94 Ibid. 95 Buret stabilisce, in via preliminare, una relazione tra le due clas­ si di fatti sopra indicate, per la quale le condizioni morali sono «la conseguenza diretta» delle condizioni fisiche; quindi l’ipo­ tesi da cui parte lo studio delle condizioni morali è che ad un certo grado di intensità della miseria fisica si ha, come «conse­ guenza inevitabile», una degradazione morale (ibid., libro II, cap. iv, pp. 252-53). Tuttavia, a un’analisi più accurata, il rap­ porto univoco si trasforma in causazione circolare e cumulativa: « Le classi che subiscono la miseria sono rinchiuse in un circolo fatale... La miseria fisica porta ben presto con sé la miseria mo­ rale; e questa opera cosi energicamente sulla prima per aumen­ tarla, per farla discendere al limite estremo, da sembrare esserne l’unica causa. Le due miserie si generano l’una dall’altra, per cui risulta quasi impossibile scoprirne le vere e proprie cause, cosic­ ché illustri scrittori hanno fatto pesare sui vizi del povero tutta la responsabilità delle sofferenze e delle privazioni che egli pa­ tisce» {ibid., p. 252). La fonte primaria utilizzata da Buret è j. p. kay, The Moral and physical condition of the working classes employed in the cotton manufacture in Manchester. Non è que­ sta la sede per un esame dettagliato dell’analisi di Buret; non verrà nemmeno rispettato il suo ordine di esposizione, che va dai

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fatti osservati alla formulazione di leggi e all’imputazione cau­ sale e quindi ritorna ai fatti per darne l’opportuna spiegazione e per indicarne i rimedi. Ci limitiamo a fermare l’attenzione su al­ cuni punti che presentano un particolare interesse per i succes­ sivi sviluppi di questo lavoro. E. buret, De la misere des classes laborieuses en Angleterre et en France, tomo II, libro III, cap. v, p. 84. Ibid., p. 86. Ibid., tomo I, Introduzione, p. 47. Ibid., tomo II, libro III, cap. m, p. 56. «... non li considerano come uomini, ma soltanto come strumenti di produzione che devono rendere molto spendendo il meno pos­ sibile» (ibid., tomo I, Introduzione, p. 45). Ibid., tomo II, libro II, cap. vi, p. 15. Ibid. Ibid., p. 17, e cap. vii, p. 32. Ibid., cap. vii, p. 31. Ibid., p. 32. Ibid., libro III, cap. v, p. 92. Ibid., libro II, cap. vii, p. 32. «L’amministratore dei capitali, il capo d’industria, ha ogni giorno sempre piu bisogno di intelli­ genza; gli occorre quasi del genio per cavarsela, perché deve pre­ vedere, come lo statista, le possibilità piu incerte, conoscere gli avvenimenti che accadono nei paesi piu lontani al fine di regolare la produzione e di aprire gli sbocchi ai suoi prodotti; l’operaio, al contrario, attaccato a un particolare che rende superfluo ogni esercizio dell’intelligenza, che non esige nessuna conoscenza, nes­ suna riflessione coerente, discende forzatamente alla condizione di una macchina. L’industria non ha bisogno che del suo corpo; essa gli risparmia la necessità di applicare il suo spirito a dirigere il lavoro. Egli non sa per chi produce e nemmeno ciò che fa; dal­ le sue mani non esce nessun’opera; non comprende i procedi­ menti di cui si serve, nulla sollecita la sua intelligenza e la rifles­ sione non farebbe che arrestare la rapidità delle sue mani» (ibid., libro III, cap. vi, pp. 139-40). «I salariati delle fabbriche non hanno alcuna obbligazione, al­ cun dovere reciproco, cioè non esiste alcun legame morale tra loro. Sono ammassati negli stessi opifici, i corpi si toccano e il frastuono dei telai, l’attenzione fisica che esige la sorveglianza delle macchine, isolano gli spiriti. Tra loro non ci sono né ope­ rai né apprendisti: c’è una folla, non c’è un gruppo organizzato, una compagnia industriale. Soltanto le passioni approfittano di questi assembramenti di bambini e di adolescenti di entrambi i sessi» (ibid., libro II, cap. vii, p. 33). Ibid., tomo I, libro I, cap. ni, p. 75.

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«...noi respingiamo, è noto, la spiegazione della necessità» (ibid., tomo II, libro III, cap. v, p. 84). E prima aveva detto: « Siamo ben lontani dal pensare di considerare la miseria come un fatto di ordine fatale e necessario» {ibid., cap. 11, p. 51). K. marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 194. id., Scritti inediti di economia politica, pp. 7-8. id., Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 196. «L’uomo è un’essenza generica... in quanto si comporta con se stesso come con un’essenza universale e però libera» {ibid., p. 198). « L’universalità dell’uomo si manifesta praticamente proprio nel­ l’universalità per cui l’intera natura è fatta suo corpo inorganico, 1) in quanto questa è un immediato alimento, 2) in quanto essa è la materia, l’oggetto e lo strumento dell’attività vitale dell’uo­ mo» {ibid.). «Allorché, dunque, il lavoro alienato sottrae all’uomo l’oggetto della sua produzione, è la sua vita generica che gli sottrae, la sua reale oggettività di specie, e così trasforma il suo vantaggio sul­ l’animale nello svantaggio della sottrazione del suo corpo inor­ ganico, della natura» (ibid., p. 200). « Come sono gli uomini, così è l’essenza umana. È dunque tutta una cosa: se l'uomo è estraniato a se stesso, la società di questo uomo estraniato è la caricatura della sua reale comunità, della sua vera vita generica; e dunque la sua attività appare a lui come tormento, la sua propria creazione come potenza estranea, la sua ricchezza come miseria; il vincolo sostanziale che lo lega all’altro uomo appare a lui come un vincolo casuale e invece la separazio­ ne dall’altro uomo come la sua vera esistenza» (k. marx, Scritti inediti di economia politica, p. 14). Cfr. anche Manoscritti eco­ nomico-filosofici del 1844, pp. 200-2. Ibid., p. 246. L’«integrazione reciproca dei prodotti dell’attivi­ tà », cioè « l’unità del lavoro umano viene considerata solo come divisione, poiché l’essere sociale esiste solo come suo opposto, nella forma dell’alienazione» (k. marx, Scritti inediti di econo­ mia politica, p. 19). k. marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 202. Ibid., pp. 202-3. Per la deduzione della categoria di salario cfr. ibid., p. 203. «Co­ me abbiamo ricavato, con l’analisi del concetto del lavoro alie­ nato, espropriato, il concetto della proprietà privata, così posso­ no esser spiegate, con l’ausilio di entrambi questi fattori, tutte le categorie dell’economia politica, e noi troveremo in ogni cate­ goria - ad esempio, il traffico, la concorrenza, il capitale, il de­ naro - solo un'espressione determinata e sviluppata di questi primi fondamenti» {ibid., p. 204). Così, alla contraddittoria spie­ gazione dell’origine della divisione del lavoro (in Smith), Marx

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sostituisce un «nesso essenziale», un «rapporto necessario» di deduzione (cfr. ibid., p. 194). 122 Ibid., p. 193. 123 Hegel « intende il lavoro come V essenza, l’essenza che si avvera dell’uomo... Il lavoro che Hegel soltanto conosce e riconosce è il lavoro spirituale astratto» {ibid., p. 264). «L’essenza sogget­ tiva della proprietà privata, la proprietà privata come attività ri­ flessa, come soggetto, come persona è il lavoro... vedi Adam Smith» {ibid., p. 219). 124 Ibid., p. 264. 125 Ibid., p. 266. 126 «La cosa principale è che Voggetto della coscienza non è altro che autocoscienza, o che l’oggetto è soltanto Vautocoscienza og­ gettiva, l’autocoscienza come oggetto. (Posizione dell’uomo = au­ tocoscienza). Si tratta quindi di superare l’oggetto della coscien­ za. L’oggettività come tale vale come un rapporto umano aliena­ to, inadeguato 2SLessenza umana, all’autocoscienza. Il recupero dell’essenza umana estranea, oggettiva, prodotta sotto il segno dell’alienazione, non ha quindi soltanto il significato di soppri­ mere l’alienazione, ma anche Voggettività, e cioè l’uomo vale co­ me un’essenza non-oggettiva, spiritualistica» {ibid., p. 264). In ultima analisi tutto ciò dipende — secondo Marx - da una conce­ zione spiritualistica dell’uomo. Mentre per Hegel l’oggettività, anche nella forma dello sdoppiamento dell’autocoscienza, è ina­ deguata all’essenza umana, per Marx l’oggettività effettiva, come alterità naturale e sociale, è costitutiva dell’essenza umana anche nella sua forma alienata. 127 L’uomo « in quanto ente naturale, corporeo, sensibile, oggettivo, è un ente passivo condizionato e limitato, come è anche l’anima­ le e la pianta» {ibid., p. 267). 128 Ibid. 129 L’uomo « crea, pone soltanto oggetti, perché è posto da oggetti, perché è intrinsecamente natura. Nell’atto di porre qualcosa, non esce, dunque, dalla sua “attività pura” per una creazione dell’oggetto, bensì il suo prodotto oggettivo attesta semplicemente la sua attività oggettiva, la sua attività in quanto attività di un og­ gettivo ente naturale» {ibid.). 130 «Ma se Vuomo reale, corporeo, che sta sulla ferma solida terra, espirando e aspirando tutte le forze naturali, pone, nel suo alie­ narsi, le sue reali, oggettive forze sostanziali come oggetti estra­ nei, questo porre non è Soggetto: è la sua soggettività di ogget­ tive forze sostanziali, la cui azione perciò dev’essere anche una azione oggettiva» {ibid.). 131 « È del tutto ovvio che un ente vivente, naturale, munito e dotato di forze essenziali oggettive, cioè materiali, abbia degli oggetti reali e naturali del suo essere, come altresì che la sua autoalie­ nazione sia il porsi di un mondo reale, ma avente la forma del-

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Xesteriorità, dunque non appartenente al suo essere, e predomi­ nante e oggettivo» (ibid., p. 266). 132 Ibid., p. 267. 133 Ibid., p. 228. 134 « Questa proprietà privata materiale, immediatamente sensibile, è l’espressione materiale, sensibile, della vita umana estraniata. Il suo movimento - la produzione e il consumo - è la manifesta­ zione sensibile del movimento di tutta la produzione fino a que­ sto tempo, cioè la realizzazione o realtà dell’uomo... L’effettiva soppressione della proprietà privata, come appropriazione della vita umana, è quindi l'effettiva soppressione di ogni alienazione» (ibid., p. 226). 135 « Inumanità della natura c’è soltanto per l’uomo sociale : giacché solo qui la natura esiste per l’uomo come legame con Xuomo, co­ me esserci dell’uomo per l’altro e dell’altro per lui; e solo in que­ sto elemento vitale della realtà umana essa è fondamento dell’«mana esistenza (ibid., p. 227). 136 Ibid., p. 263. 137 In Hegel «la soppressione, in cui si congiungono la negazione e la conservazione, l’affermazione, giucca un ruolo caratteristico... Nella realtà diritto privato, morale, famiglia, società civile, Stato ecc., continuano a sussistere; solo che son divenuti dei momen­ ti, delle posizioni, dei modi d’essere dell’uomo, che non valgono isolati, e si dissolvono e producono reciprocamente» (ibid., p. 271). 138 Ibid., p. 269. 139 Ibid., p. 273. 140 « La Fenomenologia è quindi la critica nascosta, ancora non chia­ ra a se stessa e mistificatrice; ma in quanto tiene ferma Faliena­ zione umana - anche se l’uomo appaia soltanto nella figura dello spirito - si trovano in essa nascosti tutti gli elementi della cri­ tica, e spesso preparati e elaborati in una guisa che sorpassa di molto il punto di vista hegeliano» (ibid., p. 263). «L’importan­ te nella Fenomenologia hegeliana e nel suo risultato finale - la dialettica della negatività come principio motore e generatore è dunque che Hegel intende l’autoprodursi dell’uomo come un processo, l’oggettivarsi come un opporsi, come alienazione e co­ me soppressione di questa alienazione; che egli dunque coglie l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo ve­ race perché uomo reale, come risultato del suo proprio lavoro. Il reale, attivo contegno dell’uomo con se stesso come essenza ge­ nerica, o la manifestazione di sé come reale essenza generica, cioè essenza umana, è possibile solo in quanto esso esplichi realmente tutte le sue energie di genere - il che a sua volta è possibile sol­ tanto per l’agire in comune degli uomini, soltanto come risultato storico - e si contenga verso esse energie come verso qualcosa d’oggettivo, il che anzitutto è ancora possibile soltanto nella for­ ma di un alienarsi» (ibid., pp. 263-64).

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141 Cfr. ibid., pp. 188-92 e 210-15. 142 Ibid., p. 188. 143 «La divisione della proprietà fondiaria nega il grosso monopolio, lo toglie, ma solo in quanto generalizza questo monopolio; essa non annulla il fondamento del monopolio: la proprietà privata. Investe l’esistenza non l’essenza del monopolio. Ne risulta ch’essa è sacrificata alle leggi della proprietà privata. La divisione del­ la proprietà fondiaria corrisponde cioè al movimento della con­ correnza nel campo industriale» {ibid., p. 190). 144 Ibid, p. 188. «Ma l’opposizione fra non-proprietà e proprietà è peranco un’opposizione indifferente, non colta nel suo rapporto attivo alla sua intima connessione, e non ancora come contraddi­ zione, finché non è concepita come opposizione di lavoro e ca­ pitale. Anche senza il progredito movimento della proprietà pri­ vata, nell’antica Roma, nella Turchia ecc., questa opposizione può esprimersi nella sua prima forma: e cosi essa non appare an­ cora come posta dalla proprietà privata stessa. Ma il lavoro, l’es­ senza soggettiva della proprietà privata, in quanto esclusione del­ la proprietà, e il capitale, il lavoro oggettivo, in quanto esclusio­ ne del lavoro, sono la proprietà privata come sviluppato rappor­ to di contraddizione e però rapporto energico, motivo di risolu­ zione» (ibid., p. 223). Parallelamente alla storia della proprietà privata, Marx delinea una storia dell’economia politica: il siste­ ma mercantile, i Fisiocratici, Adam Smith, J.-B. Say, D. Ricardo, J. Mill vengono presentati secondo una linea di sviluppo storico che ricalca la storia della proprietà privata dalle forme che richia­ mano ancora illusioni politico-sociali sulle istituzioni estraniate alle forme in cui tali illusioni vengono meno (cfr. ibid., pp. 2io­ ti e 219-22). Questo modello di sviluppo dell’economia politica era stato utilizzato da Engels (Abbozzo di una critica dell’eco­ nomia politica, pp. 143-47), da Schulz (Die Bewegung der Produktion, p. 115) e da Buret (De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France, Introduzione) e quindi non è possi­ bile determinare una fonte unica. Per Cornu il modello sarebbe Schulz (cfr. A. cornu, Karl Marx et Friedrich Engels. Leur vie et leur oeuvre, tomo III: Marx a Paris, p. 97 e nota 2). 145 K. marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 252. 146 Ibid, p. 224. 147 Ibid., pp. 225-26. 148 «Le scienze naturali hanno svolto un’enorme attività e si sono appropriate di un materiale ognora crescente... Ma quanto più praticamente la scienza della natura è penetrata, mediante l’in­ dustria, nella vita umana e l’ha riformata e ha preparato l’eman­ cipazione umana dell’uomo, tanto più essa immediatamente ha dovuto completarne la disumanizzazione» (ibid., p. 232). La pro­ duzione capitalistica e la libera concorrenza neutralizzano i pos­ sibili effetti positivi dell’uso delle macchine. Le nuove tecniche produttive, che permettono di risparmiare tempo di lavoro, do­

CAPITOLO TERZO

vrebbero soddisfare tutti i bisogni materiali e ampliare la sfera dell’attività e della fruizione spirituali; in realtà la durata del la­ voro di fabbrica si è accresciuta e l’operaio è «ridotto ai piu stretti bisogni corporali» (ibid., p. 161). Marx ricavava queste considerazioni da Schulz (Die Bewegung der Produktion), in cui trovava le due funzioni assegnate alla scienza applicata al­ l’industria: radicalizzare la contraddizione nel capitalismo ed es­ sere strumento di liberazione dell’uomo dalla schiavitù in una società in cui gli uomini lavoreranno con le macchine e non co­ me macchine. Sul rapporto Marx-Schulz torneremo nel capito­ lo iv. 149 «La natura è il corpo inorganico dell’uomo: cioè la natura che non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo vive della natura si­ gnifica: che la natura è il suo corpo, rispetto a cui egli deve ri­ manere in continuo progresso, per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo è congiunta con la natura, non ha altro significato se non che la natura si congiunge con se stessa, che l’uomo è una parte della natura» (ibid., pp. 198-99). 150 Ibid, p. 233. 151 Ibid., p. 228. 152 Ibid.,?. 232. 153 Ibid.

Capitolo quarto

i. La storia dell* industria come storia della coscienza di classe. Alla fine del 1842 Friedrich Engels, inviato dal padre in Inghilterra per ragioni di lavoro, si stabilisce a Man­ chester e ivi compie i primi studi e le osservazioni sul cam­ po che costituiranno il materiale dell’inchiesta da lui con­ dotta sulle condizioni del proletariato inglese. Quando Engels arrivò a Manchester nel dicembre 1842 non si erano ancora spenti gli echi delle agitazioni che nel­ l’agosto avevano paralizzato larghi settori dell’industria tessile. Egli aveva alle spalle le esperienze della sinistra hegeliana, ma era stato soprattutto attratto dalle idee di Hess, che nella Europàische Triarchie assegnava una fun­ zione determinante all’Inghilterra nel processo di emanci­ pazione dell’umanità iniziato con la rivoluzione spirituale tedesca e con la rivoluzione politica francese \ Il soggior­ no in Inghilterra rappresentò tuttavia una svolta nella for­ mazione politica e teorica di Engels. Nel corso del primo anno di permanenza in Inghilterra entra infatti in contatto con alcuni esponenti dell’ala sinistra cartista, come James Leach - fautore di misure per limitare l’uso delle macchi­ ne -, ma soprattutto con G. J. Harney, che invocava la lotta armata e riteneva imminente una rivoluzione in In­ ghilterra. Sembra comunque che Engels abbia avuto i suoi primi contatti politici con i socialisti owenisti, in partico­ lare J. Watts, che teneva conferenze alla Manchester Hall of Science. Fu appunto Watts che lo mise in relazione col «New Moral World», l’organo degli owenisti. Anche se per Engels il movimento comunitario non ebbe mai quell’importanza che attribuiva al cartismo, le esperien­ ze comunitarie non furono da lui sottovalutate tanto che,

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CAPITOLO QUARTO

ancora nel 1845, dedicava uno studio alle colonie comu­ nitarie negli Stati Uniti e in Inghilterra e teneva confe­ renze sull’argomento. Del socialismo owenista a Engels interessavano soprattutto gli esperimenti comunitari, in cui vedeva dei tentativi pratici di realizzazione dei princi­ pi comunistici2. Comunque, l’immediato futuro politico della classe operaia inglese era legato, secondo Engels, al­ lo sviluppo del cartismo. In una corrispondenza dal Lanca­ shire sulla situazione dei partiti politici in Inghilterra, Engels scriveva che il radicalismo democratico del carti­ smo offriva alla classe operaia principi conformi alla co­ scienza che essa ha di se stessa3. Accanto a una presenta­ zione schematica della situazione politica inglese4, egli sol­ levava il problema se fosse possibile in Inghilterra una ri­ voluzione e rispondeva affermativamente attraverso una diagnosi della situazione economica e sociale del paese, precisando che « questa risoluzione non sarà politica ben­ sì sociale »s. Le difficoltà per l’Inghilterra di smaltire le merci sui mercati continentali dominati dalla Francia e dalla Germania e le limitate capacità di assorbimento del­ le colonie e dell’America avrebbero ben presto condotto a una crisi. In virtu della struttura di classe della società in­ glese, l’industria da un lato arricchisce il paese, ma dall’al­ tro lato crea « una classe di nullatenenti » che aumenta ra­ pidamente e che non può essere assorbita perché non le è consentito l’accesso alla proprietà6. In questa situazione una crisi commerciale di vasta portata, con i suoi effetti negativi sull’occupazione, creerà inevitabilmente le con­ dizioni per «una trasformazione radicale dell’organizza­ zione sociale inumana »7. Per Engels il problema della ri­ voluzione si poneva allora nei termini di un processo di maturazione politica del proletariato da compiersi nel­ l’ambito di un partito politico8. Se il cartismo era ancora lontano da una visione chiara di questi sviluppi della si­ tuazione, e d’altronde la stessa classe operaia non era an­ cora arrivata a prendere coscienza delle sue capacità ri­ voluzionarie, Engels era convinto che tale maturazione doveva avvenire nell’ambito del cartismo attraverso una elaborazione degli strumenti organizzativi e del program­ ma politico.

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Iff

Le crisi commerciali costituiscono il filo conduttore de­ gli studi di economia politica e di storia dell’industria in­ glese intrapresi da Engels nel corso del 1843, studi che metteranno capo all’inchiesta sulla situazione delle classi lavoratrici in Inghilterra. Infatti, il tema delle crisi econo­ miche nella loro connessione con lo sviluppo del processo rivoluzionario e della coscienza di classe del proletariato viene ripreso nei contributi di Engels ai « Deutsch-Franzòsische Jahrbiicher ». Ma accanto a questi nuovi interessi politici e teorici Engels conservava ancora una concezio­ ne dello sviluppo storico ricavata dagli scritti di Hess. Ta­ li influenze idealistiche agivano non soltanto sul piano fi­ losofico - per esempio attraverso l’uso del concetto di umanità -, ma anche sul piano dell’analisi storica e socio­ logica, allorché Engels, e con lui l’ala sinistra dei Giovani hegeliani, prevedeva una diffusione delle idee comunisti­ che in Germania esclusivamente tra le classi colte e in particolare nella classe dei commercianti9. Al di là di una semplice enunciazione di principio, secondo cui l’organiz­ zazione sociale umana sarebbe nata da una trasformazione radicale della società, c’era la tesi che il comuniSmo, come non è il partito di una classe particolare bensì interessa tutta l’umanità, così non è il risultato di un particolare svi­ luppo economico e sociale, ma di premesse date « nei fatti della civiltà moderna »10. Echi di questo atteggiamento si trovano anche nella Situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), in cui il comuniSmo è considerato « al di sopra del dissidio tra borghesi e proletariato »; a differen­ za del cartismo, che ha un carattere esclusivamente prole­ tario, il comuniSmo è « la causa di tutta l’umanità » e può quindi accogliere in sé anche la parte migliore della bor­ ghesia n. Ma a misura che Engels approfondiva gli studi di economia politica e veniva a conoscenza del passato re­ cente dell’industria inglese e della logica del suo sviluppo, egli doveva modificare in vari punti le proprie convinzio­ ni. Già nel febbraio del 1844, scrivendo sul « New Moral World » a proposito dei « Continental Movements », En­ gels collegava la possibilità di una piu estesa agitazione so­ ciale in Germania con i progressi presenti e futuri del si­ stema di fabbrica in quel paese. Contemporaneamente si

IJÓ

CAPITOLO QUARTO

faceva strada l’idea che lo sviluppo economico e sociale dell’Inghilterra non sarebbe rimasto un fatto isolato, ma si sarebbe ripresentato in forme analoghe e avrebbe eser­ citato effetti analoghi sulla classe operaia in Germania In una lettera a Marx dell’ottobre 1844, Engels riferiva le prime impressioni sulla situazione al suo ritorno in Ger­ mania. Dopo aver rilevato i progressi economici del Wup­ pertal, che stavano trasformando la vecchia struttura so­ ciale della regione, osservava come gli operai fossero già arrivati «all’ultimo gradino della vecchia civiltà». Essi « protestano con un impetuoso crescendo di delitti, rapine ed assassini contro la vecchia organizzazione sociale... se i proletari di qui si sviluppano secondo le stesse leggi di quelli inglesi, capiranno presto che questa maniera di pro­ testare come individui e violentemente contro l’ordine so­ ciale è inutile, e protesteranno come uomini nella loro ca­ pacità universale per mezzo del comuniSmo »13. Ciò che per la Germania era il prossimo futuro, per l’Inghilterra era una realtà: il sistema di fabbrica si è sviluppato in base agli stessi presupposti - l’egoismo e la guerra della con­ correnza - che reggono l’economia politica. Dalla lettura delle opere di Baines, Ure, Kay, Gaskell e altri, Engels ricavava e sviluppava la tesi che la rivoluzione scientifica e tecnica del secolo xvm aveva creato le premesse di una rivoluzione sociale che aveva trasformato le tecniche pro­ duttive e la struttura della società e aveva creato il siste­ ma di fabbrica e il proletariato. La connessione tra la rivoluzione industriale e la for­ mazione del proletariato veniva indicata per la prima vol­ ta in un articolo pubblicato nel ’44 sul « Vorwàrts », in cui Engels esponeva a grandi linee l’evoluzione scientifica, tecnica e sociale che l’Inghilterra aveva subito nel corso del secolo xvm, anticipando alcune tesi che avrebbe svi­ luppato piu ampiamente nell’inchiesta del ’45 14. Nell’XZ»bozzo di una critica dell* economia politica, oltre a sotto­ lineare l’importanza del sistema di fabbrica quale elemen­ to dissolutore delle istituzioni sociali tradizionali, Engels riprendeva e sviluppava l’argomento delle crisi economi­ che, che ora connetteva con il carattere contraddittorio della legge della concorrenza e considerava come fasi ri­

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correnti in cui il mercato viene a trovarsi sotto l’influenza dell’« eterna oscillazione dei prezzi » L’interesse per le crisi era abbastanza recente nella let­ teratura economica. Esso si era sviluppato in parte dalle teorie del sottoconsumo elaborate dai fisiocratici, ma si era concretato in un’area speciale degli studi di economia politica soltanto nei primi decenni del secolo, in connes­ sione con la polemica sugli ingorghi generali. Indipenden­ temente da questo filone di ricerche, alcuni economisti tentarono una spiegazione delle crisi servendosi della no­ zione di ciclo. Cosi, per esempio, Thomas Tooke e John Wade avevano richiamato l’attenzione sul fatto che le cri­ si non erano eventi isolati e casuali, bensì fasi di « depres­ sione » o « stagnazione » di un ciclo commerciale piu am­ pio caratterizzato da periodi ricorrenti con durata deter­ minabile e relativamente costante16. Wade, in particola­ re, aveva enunciato due tesi che Engels ricupera integral­ mente: 1) l’alternanza dei periodi di prosperità e di de­ pressione è inseparabile dalle attività commerciali, sicché le cause delle crisi vanno rintracciate nello stesso mecca­ nismo economico; 2) il ciclo commerciale copre un perio­ do relativamente costante di cinque o sette anni17. Wade precisava anzitutto che l’andamento uniforme e ricorren­ te delle fluttuazioni è rilevabile meno nell’agricoltura che nelle attività commerciali e manifatturiere e indicava una serie di condizioni generali che, in linea di principo, ren­ dono possibile tali fluttuazioni18. Le cause specifiche delle fluttuazioni venivano poi rintracciate nella natura stessa del mercato, cioè nella variazione dei prezzi determinata dal mutevole rapporto tra la produzione e il consumo. Quando la domanda diminuisce, anche i prezzi diminui­ scono; ma il buon mercato delle merci ne sollecita la do­ manda, che a sua volta fa aumentare i prezzi e imprime un nuovo impulso alla produzione. A misura che i prezzi au­ mentano, la domanda progressivamente si contrae e nella stessa proporzione diventa eccedente l’occupazione crea­ ta dalla precedente espansione produttiva, finché non si determina una nuova reazione nel mercato. Per Wade la storia commerciale inglese della seconda metà del seco­ lo xviii conferma la validità dei principi generali che reg­

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gono le fluttuazioni commerciali; non solo, ma dopo le depressioni del 1763, 1772 e 1793, le crisi si sono succe­ dute con maggiore frequenza e regolarità dal 181.5 all’ul­ tima grande crisi del ’25 19. L’andamento dei prezzi, la loro relazione con il consu­ mo, le variazioni indotte dagli investimenti forzati sull’oc­ cupazione, il comportamento del credito, gli effetti della speculazione sono i principali temi che Engels ricava dal­ la trattazione di Wade. Engels, inoltre, ne condivide l’im­ postazione, comune a tutti coloro che si erano occupati delle crisi, secondo la quale il problema consiste essen­ zialmente nel reperire le « cause » delle fluttuazioni. Dal­ l’analisi di Wade, tuttavia, Engels si discosta su un pun­ to fondamentale, relativo alla impossibilità di controllare il ciclo economico e di eliminare almeno gli effetti più gra­ vi delle crisi20. Wade aveva insistito soprattutto sulla spe­ culazione, oltre che sugli aspetti monetari, quale fattore energetico e moltiplicatore nel processo fisiologico dell’insorgere delle crisi. La speculazione, le facilitazioni cre­ ditizie, la moneta cartacea, le cambiali costituiscono fatto­ ri esterni che si aggiungono alle cause generali delle crisi facendole precipitare e aggravandole. Ma proprio perché sono fattori esterni, possono essere eliminati. Le cause re­ lative ai fattori monetari e di sovrapproduzione - che Wade attribuiva alle crisi - cioè il crollo del credito e l’invendibilità delle merci, vengono ricuperate in parte da Engels, che tuttavia le colloca nel contesto più ampio del­ la teoria sismondiana del sottoconsumo provocato dai bas­ si salari. In secondo luogo, Engels connetteva le crisi con l’aumento dell’occupazione eccedente, come Wade, ma in un senso crescente anziché ricorrente. In altri termini, mentre per Wade la recessione rende disoccupata una par­ te della popolazione operaia che nel successivo periodo di prosperità viene riassorbita da una rinnovata espansione produttiva, per Engels la disoccupazione si aggrava da una crisi all’altra e nello stesso tempo riduce il numero dei piccoli capitalisti accelerando il processo di concentrazio­ ne21. Nella Situazione della classe operaia in Inghilterra Engels riprende e sviluppa questa analisi precisando che il periodo di stagnazione coincide con una crisi di sovrap­

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produzione. La descrizione engelsiana del ciclo economi­ co inizia appunto da una situazione di saturazione del mercato interno ed estero delle merci inglesi, che provoca un ristagno della produzione in quasi tutti i settori, una serie di fallimenti nelle aziende minori, che non possono resistere a lungo con i capitali immobilizzati, e una ridu­ zione dell’attività produttiva nelle aziende maggiori. Ca­ dono i prezzi delle merci e la disoccupazione provocata dalla stagnazione mette in concorrenza gli operai tra loro facendo cadere i salari. La concorrenza tra gli operai si manifesta nella fabbrica come aumento del rendimento; il capitalista è allora in grado di licenziare un certo nume­ ro di operai, facendo lavorare gli altri per un numero mag­ giore di ore e risparmiando sul capitale investito in salari. Ma all’aumento della disoccupazione corrisponde una di­ minuzione della domanda di merci e quindi una riduzio­ ne della loro produzione provoca un’ulteriore disoccupa­ zione: «improvvisamente tutta la massa della popolazio­ ne “superflua” balza fuori»22. Come avviene per le mer­ ci, cosi è per gli uomini, e gli economisti hanno ragione nell’affermare che la domanda di lavoro, come quella del­ le merci, regola la produzione degli uomini23. La seconda fase della crisi segna una ripresa dell’attivi­ tà produttiva. Il processo è necessariamente lento, sia per­ ché le merci accumulate eccedono le capacità di consumo, sia perché « la demoralizzazione ancora diffusa tra i com­ mercianti e gli industriali impedisce che i vuoti vengano riempiti troppo rapidamente »24. Ma a misura che le mer­ ci accumulate vengono consumate, i prezzi tendono nuo­ vamente a salire e le industrie riprendono la produzione, riassorbendo la manodopera disoccupata. Con ciò la crisi è superata. La spirale ascendente della domanda all’este­ ro di merci inglesi accelera la tendenza dei prezzi al rialzo in una situazione in cui non sono ancora pienamente sfrut­ tate le capacità produttive e il mercato non si è ancora assestato. « I mercati sono generalmente molto distanti; prima che le nuove importazioni possano giungervi, la do­ manda cresce incessantemente, e con essa i prezzi; si lotta per avere le prime merci in arrivo, le prime vendite rav­ vivano ancor più il commercio, le importazioni ancora at-

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tese promettono prezzi ancora maggiori »25. Si apre quin­ di una seconda fase nel periodo di prosperità, di natura essenzialmente speculativa e caratterizzata in un primo momento da una espansione della domanda all’estero di merci inglesi. In previsione di un’ulteriore ascesa dei prez­ zi, i commercianti nei mercati stranieri cominciano ad ac­ caparrare le merci sottraendole al consumo interno. L’ef­ fetto di tale operazione si fa sentire immediatamente sui prezzi, il cui rapido rialzo induce altri a speculare. Quan­ do le notizie di questa speculazione arrivano in Inghilter­ ra, gli industriali spingono al massimo la produzione per sfruttare la congiuntura favorevole; cosi, mentre l’Inghil­ terra esporta le merci negli altri paesi, ne importa la spe­ culazione, che produce gli stessi effetti: sottrae la produ­ zione al consumo interno e la spinge alla caccia sfrenata del guadagno straordinario. Nella euforia generale gli specula­ tori ottengono facilitazioni creditizie, lavorano con capita­ le fittizio e si indebitano pur di trarre vantaggio dal mo­ mento favorevole. Intanto sulle piazze estere gli specula­ tori devono realizzare nel più breve tempo possibile e quindi vendono al di sotto del prezzo di mercato. Con il moltiplicarsi di queste vendite, il panico mette in subbu­ glio il mercato, « il credito è scosso, una ditta dopo l’altra sospende i pagamenti, i fallimenti si susseguono, e si sco­ pre che la merce sul mercato e in viaggio rappresenta il triplo di quello che il consumo potrebbe richiedere»26. Come contraccolpo, il panico si diffonde anche nel merca­ to interno, provocando altri fallimenti, facendo precipi­ tare i prezzi e arrestando nuovamente la produzione. L’analisi engelsiana del ciclo economico merita una cer­ ta attenzione in primo luogo perché documenta una con­ tinuità di interessi rispetto dA Abbozzo del 1844. La con­ nessione tra le crisi economiche e la contraddittorietà del­ la legge della concorrenza veniva infatti ripresa nella Si­ tuazione della classe operaia in Inghilterra, dove la natura ciclica delle crisi è ricondotta all’« essenza stessa dell’in­ dustria e della concorrenza », al fatto cioè che la produ­ zione e la distribuzione dei mezzi di sussistenza vengono intraprese « non per il soddisfacimento immediato dei bi­ sogni, ma per il guadagno »27. Ricompare anche il concet­

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lól

to di « anarchia » della produzione, il cui significato vie­ ne precisato attraverso una descrizione dettagliata del ci­ clo economico. In questo contesto Engels accoglieva nuo­ vamente I’analisi di Wade e non soltanto per quanto con­ cerne la periodicità delle crisi, ma anche per la meccanica stessa del ciclo. Engels, inoltre, sviluppava alcune osser­ vazioni di Wade relative agli effetti esercitati dalle crisi sull’occupazione, servendosi del concetto di « popolazio­ ne superflua» o «riserva di operai disoccupati»28. Tale concetto, di cui Wade stesso si era servito nella History, era stato utilizzato dai cartisti nella loro battaglia contro la disoccupazione tecnologica e a sostegno delle rivendi­ cazioni dei tessitori a mano29. Il problema era quello del­ l’unità dei lavoratori - occupati e disoccupati, operai di fabbrica e lavoratori a domicilio —, unità che doveva es­ sere realizzata sulla base di interessi comuni da contrap­ porre ai fabbricanti. Che la forza-lavoro non costituisse una classe omogenea, ma consistesse di gruppi operai ete­ rogenei era un luogo comune sovente utilizzato dalle clas­ si medie e dai loro sostenitori per dimostrare che la mi­ seria, il basso tenore di vita, i salari di sussistenza, le cat­ tive condizioni sanitarie non potevano essere attribuiti ai lavoratori in generale, ma riguardavano esclusivamente coloro che non avevano ancora potuto godere dei vantag­ gi derivanti dal sistema di fabbrica. La « Northern Star », in un articolo del 1838, rispondeva con la teoria del « bo­ dy of reserve »30. L’organo dei cartisti si rivolgeva ai tes­ sitori a mano sostenendo che i loro interessi non erano in conflitto con quelli degli operai di fabbrica, perché essi costituivano una riserva da cui i padroni erano pronti ad attingere non appena i secondi pretendessero salari mag­ giori. A sua volta Engels faceva osservare che, in virtù dell’alternanza di periodi di depressione con periodi di prosperità, deve esistere una riserva di operai eccedenti, che vengono assorbiti quando la produzione viene spinta al massimo e licenziati quando subisce un rallentamento. Il carattere anarchico della produzione si manifesta a li­ vello delle merci come alternanza di eccedenza e scarsità, mentre al livello dell’occupazione essa si manifesta sotto forma di attrazione-repulsione della manodopera ecceden­

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te. Engels arrivava inoltre a stabilire una tendenza che gli permetteva di escludere l’interpretazione «fisiologica» del ciclo implicita in Wade. Per Engels, «nel complesso la concorrenza tra gli operai è... costantemente maggiore che non la concorrenza per assicurarsi gli operai»31. Ciò significa che l’assorbimento degli operai eccedenti non av­ viene sia perché il periodo di prosperità è troppo breve, sia perché le crisi si alternano troppo rapidamente. En­ gels infatti prevedeva un ristagno per gli anni 1846-47 che avrebbe condotto l’Inghilterra alla rivoluzione32. Al di là delle previsioni engelsiane - legate in parte agli strumenti analitici adottati e in parte ricavate dalla stessa situazione dell’Inghilterra all’inizio degli anni ’40 - resta una intuizione importante, il collegamento cioè delle cri­ si allo sviluppo storico dell’industria da un lato e alla for­ mazione e maturazione politica del proletariato dall’altro lato. «All’inizio dello sviluppo industriale, questi rista­ gni si limitavano a singoli rami d’industria e a singoli mercati; ma, per l’azione accentratrice della concorrenza, che getta gli operai, rimasti disoccupati in un ramo d’in­ dustria, negli altri rami in cui piu rapido è il tirocinio, e sui rimanenti mercati le merci non piu collocabili su un dato mercato, accostando così progressivamente tra loro le singole piccole crisi, queste si riuniscono via via in un’unica serie di crisi periodicamente ricorrenti »33. Per Engels, come per altri storici inglesi della prima metà dell’ottocento, la storia dell’industria è principal­ mente la storia dell’industria cotoniera, perché da questo ramo della produzione sono iniziate le trasformazioni tec­ niche e sociali, e la storia dell’industria cotoniera inizia con quel periodo che precede la rivoluzione industriale noto nella letteratura come «manifattura domestica» o lavoro a domicilio. La descrizione engelsiana di questa for­ ma di produzione segue da vicino il quadro offerto da Gaskell all’inizio del suo lavoro sulle condizioni di vita delle classi lavoratrici, e da questo autore Engels riprende quella visione « idillica » della società preindustriale che era stata utilizzata nella polemica contro il sistema di fab­ brica. In una economia basata prevalentemente sul mer­ cato interno e in cui la concorrenza non si era ancora ma­

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nifestata nelle sue estreme conseguenze, il salario per­ metteva un tenore di vita decoroso e nello stesso tempo consentiva alla famiglia del tessitore di risparmiare e di affittare del terreno coltivabile. In questo tipo di econo­ mia, in cui l’attività artigiana si alternava con quella agri­ cola, la famiglia si era venuta organizzando secondo il ti­ po patriarcale, su cui si modellavano anche i rapporti ge­ rarchici nella società. « Essi consideravano lo squire — il più importante proprietario terriero della regione - come il loro naturale superiore, gli chiedevano consiglio, gli af­ fidavano la decisione nelle loro piccole contese e gli tribu­ tavano tutti gli onori inerenti a questo rapporto patriar­ cale »34. Ma questa stabilità delle condizioni economiche e sociali della famiglia operaia, che per Gaskell era armo­ nia e equilibrio di un modello di società che il sistema di fabbrica aveva sovvertito e che in qualche modo doveva essere ripristinato, per Engels è « quieta vita vegetativa », « esistenza certo molto comoda e romantica, ma indegna di uomini »35. Alla sicurezza di una condizione economica destinata a conservarsi nel tempo, se non fossero interve­ nute perturbazioni esterne, corrispondeva una mentalità limitata, un livello intellettuale infimo, una chiusura a tutte le sollecitazioni che potessero arrivare dall’esterno di una ristretta cerchia di rapporti personali3Ó. Ben lonta­ no dal conferire un valore positivo a ciò che di idillico e romantico poteva essere in questo tipo di società, En­ gels vede già nella manifattura domestica quella condizio­ ne disumana che il sistema di fabbrica renderà intollera­ bile. « Infatti non erano veramente uomini, ma semplicemente macchine da lavoro al servizio dei pochi aristocra­ tici che fino allora avevano guidato la storia »37. Il processo che condusse alla sparizione di questo tipo di economia era noto nella letteratura storica che Engels riprendeva e non richiede di essere seguito nei partico­ lari. Per Engels, esso è consistito in un processo di diffe­ renziazione dei ruoli produttivi, quale conseguenza di in­ novazioni tecnologiche e organizzative che da un lato con­ dussero alla separazione dell’attività agricola da quella in­ dustriale e, nell’ambito della seconda, della filatura dalla tessitura; e dall’altro crearono una specializzazione delle

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funzioni nell’ambito della famiglia con la comparsa del si­ stema di fabbrica38. Gli altri settori dell’industria tessile subiscono trasformazioni analoghe, le quali si ripercuo­ tono in tutti i rami della produzione, dalla fabbricazione di macchine all’industria estrattiva, dall’agricoltura ai tra­ sporti. Lo sviluppo dell’industria, che richiede la concen­ trazione della manodopera in uno stesso luogo, conduce infine alla formazione delle città industriali, la sede natu­ rale della classe operaia e della piccola borghesia artigia­ na. « Questa è, in breve, la storia dell’industria inglese ne­ gli ultimi sessantanni, una storia che non ha l’eguale ne­ gli annali dell’umanità. Sessanta, ottant’anni fa l’Inghil­ terra era un paese come tutti gli altri, con piccole città, con poca e primitiva industria, e una rada, sebbene rela­ tivamente numerosa, popolazione agricola; oggi è un pae­ se che non ha pari, con una capitale di due milioni e mez­ zo di abitanti, con gigantesche città industriali, con una industria che rifornisce il mondo intero e che fabbrica quasi tutto con l’aiuto delle macchine più complicate, con una popolazione laboriosa intelligente, densa, i due terzi della quale sono occupati nell’industria, e che è composta da classi radicalmente diverse, che costituisce anzi una na­ zione del tutto diversa, con costumi e bisogni diversi da quelli di una volta. La rivoluzione industriale ha avuto per l’Inghilterra la stessa importanza che la rivoluzione politica per la Francia e quella filosofica per la Germania, e la distanza tra l’Inghilterra del 1760 e l’Inghilterra del 1844 è almeno pari a quella tra la Francia ancien re­ gime e la Francia della Rivoluzione di luglio. Il frutto più importante di questo rivolgimento industriale è però il proletariato inglese »39. Engels è il primo a servirsi coe­ rentemente della connessione tra la storia dell’industria e la storia della società; ed è anche il primo a spiegare le trasformazioni nella struttura di classe della società in­ glese servendosi del concetto di rivoluzione industriale, « una rivoluzione - egli scrive - che in pari tempo trasfor­ mò tutta la società borghese, e la cui importanza storica comincia solo ora a essere riconosciuta »40. Sulla base delle ricerche condotte negli anni precedenti da tecnologi, storici dell’industria e sociologi, Engels iso­

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la i principali elementi che costituiscono l’industria mo­ derna, individuandoli nello sfruttamento delle forze natu­ rali, nella sostituzione del lavoro manuale mediante le macchine e nella divisione del lavoro. Questi elementi, operando all’interno della struttura sociale, hanno deter­ minato tre importanti conseguenze: la formazione della classe del proletariato, la formazione della classe dei capi­ talisti e la sparizione della classe media assorbita dalle due precedenti. Queste due classi tendono a un progressivo irrigidimento e i loro rapporti diventano sempre più fre­ quentemente conflittuali: « al posto degli antichi maestri e garzoni subentrarono grandi capitalisti e operai, i quali non avevano alcuna prospettiva di innalzarsi al di sopra della propria classe... venne tolta all’operaio ogni possi­ bilità di diventare egli stesso un borghese... ora soltanto il proletariato divenne una classe reale e stabile della po­ polazione »41. Per Engels la rivoluzione industriale segna il passaggio da una società agricola a una società indu­ striale e la sua importanza storica risiede nella formazione del proletariato che ne è la conseguenza immediata. « La storia della classe operaia in Inghilterra ha inizio nella se­ conda metà del secolo scorso con l’invenzione della mac­ china a vapore e delle macchine per la lavorazione del co­ tone »42. Mentre nella società preindustriale i lavoratori non costituivano una classe in senso proprio, in quanto esistevano le possibilità di ascendere alla classe media, ora il proletariato, nato dalla concentrazione industriale, è le­ gato alla struttura tecnica ed economica dell’industria, che ha privato il tessitore e l’artigiano dei mezzi di lavoro e li ha trasformati in una « classe reale e stabile della po­ polazione »; soltanto ora, infatti, i lavoratori sono in gra­ do di « intraprendere movimenti autonomi »43. La storia dell’industria diventa allora storia della formazione e del­ le condizioni di vita di questa classe e nello stesso tempo storia del processo attraverso il quale i membri di questa classe pervengono alla coscienza di rappresentare uno stra­ to distinto della popolazione e di dover svolgere, per la posizione che tale strato occupa nella società, una azione politica autonoma. « Nel rapporto patriarcale, che velava ipocritamente il suo stato di schiavitù, l’operaio doveva

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rimanere immerso nella morte spirituale, doveva ignorare totalmente il proprio interesse, essere unicamente un pri­ vato. Soltanto quando egli si estraniò dal suo padrone, quando apparve chiaro che era legato a lui unicamente dall’interesse personale, dal guadagno, quando l’affetto apparente, che non resistette alla minima prova, venne a mancare totalmente, soltanto allora l’operaio cominciò a comprendere la sua posizione e i suoi interessi e a svilup­ parsi in modo indipendente; soltanto allora, egli cessò di essere lo schiavo della borghesia anche nei suoi pensieri, nei suoi sentimenti e nelle manifestazioni della sua volon­ tà. E ciò è stato soprattutto opera della grande industria e delle grandi città » Questi fenomeni si sono svilup­ pati con particolare intensità nel settore cotoniero ingle­ se, che era stato indicato da tutti i sociologi come campo di studio privilegiato. Secondo Engels, le caratteristiche classiche del proletariato non sono tanto la degradazione fisica e morale, quanto piuttosto la capacità di condurre movimenti politici autonomi, che è la conseguenza sociale fondamentale dell’industria moderna e che pertanto deve rappresentare l’angolo visuale da cui questa può essere compresa. Gaskell e Buret avevano studiato le conseguen­ ze negative dell’industrialismo nella classe operaia perché in questa classe si verificano in modo più drammatico. Anche Engels vede le stesse conseguenze, ma le conside­ ra come il punto di partenza per l’individuazione del com­ pito che necessariamente esse assegnano al proletariato. Esso diventa allora non soltanto il luogo più adeguato per studiare le conseguenze sociali dell’industrialismo, ma anche l’unico terreno in cui è possibile individuare il mo­ vimento politico che condiziona lo sviluppo futuro della società. Le modificazioni della struttura sociale hanno in comu­ ne l’aspetto di fondo del processo di industrializzazione: la tendenza accentratrice. Essa si manifesta anzitutto nel­ la progressiva concentrazione della proprietà nelle mani di pochi ricchi capitalisti, che dispongono di un capitale per trasformare il laboratorio artigiano in una moderna fabbrica meccanizzata, e per rinnovare continuamente il macchinario. In secondo luogo la fabbrica riunisce un nu­

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mero di operai che si rendono in tal modo disponibili. « Anche la popolazione viene accentrata, come il capita­ le; e ciò è naturale perché nell’industria l’uomo, l’ope­ raio, viene considerato soltanto come una porzione di ca­ pitale, che si mette a disposizione del fabbricante e alla quale il fabbricante restituisce gli interessi, sotto il nome di salario »45. In terzo luogo, si ha un processo di urba­ nizzazione collaterale alla nascita delle fabbriche: resi­ stenza di un grosso stabilimento reca con sé una serie di infrastrutture e di attività collegate, che lentamente si sviluppano e dànno a loro volta un nuovo impulso all’in­ dustria 46. Il processo di industrializzazione ha concentrato enor­ mi masse di popolazione e le ha stipate nelle città: quali sono le caratteristiche generali dei rapporti sociali che si istituiscono in questi agglomerati? La concentrazione del­ le masse non ha sviluppato alcun senso di socialità o di comunità, ciascuno si sente un « singolo » isolato e cosi considera gli altri47. Proprio nella folla delle grandi città è possibile rendersi conto di questa situazione di disgre­ gazione sociale. Nella folla ciascuno considera l’altro co­ me un ostacolo da scansare, ciascuno persegue il suo inte­ resse personale e non ha nulla da spartire con l’altro; l’u­ nico rapporto reso possibile da questa situazione di isola­ mento è la considerazione dell’altro come « cosa » utiliz­ zabile per un fine personale ed egoistico48. Lo strumento che rende possibile questo reciproco sfruttamento è il pos­ sesso diretto o indiretto dei mezzi di sussistenza e dei mez­ zi di produzione, il capitale. La caratteristica dei rapporti entro questa struttura sociale è che essi non avvengono direttamente tra uomini, cioè che il loro significato socia­ le non deriva dallo stesso rapporto umano, ma è mediato dal denaro. Il rapporto fondamentale tra l’industriale e l’operaio non è un rapporto tra uomini, ma tra due « astra­ zioni»: esso non investe, cioè, la totalità delle potenzia­ lità umane, ma è parziale e limitato al lato economico. « Perciò l’economia politica, la scienza del guadagno, è la disciplina favorita di questi trafficanti. Ciascuno di essi è un economista. Il rapporto tra l’industriale e l’operaio non è un rapporto umano ma è puramente economico.

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L’industriale è il "capitale”, l’operaio è il "lavoro”. E se l’operaio rifiuta di lasciarsi costringere entro questa astra­ zione, se afferma di essere non soltanto il "lavoro” ma un uomo, sia pure dotato tra l’altro anche della qualità di es­ sere un operaio, se gli viene in mente di credere che non debba essere comprato e venduto come "lavoro”, come merce sul mercato, il borghese allibisce. Egli non può com­ prendere di avere con gli operai anche un altro rapporto che non quello della compra-vendita, in essi non vede uo­ mini ma "mani” (hands') e con questo appellativo si rivol­ ge loro continuamente, egli non riconosce altro legame tra uomo e uomo, come dice Carlyle, se non quello del paga­ mento in contanti »49. Il rapporto che si instaura tra il ca­ pitalista e l’operaio è un rapporto contrattuale libero, in cui lo scambio avviene tra equivalenti, in cui il capitali­ sta offre i mezzi di sussistenza e in cambio ottiene lavoro. Ma il carattere libero di questo contratto è soltanto appa­ rente, perché l’equivalente che il capitalista concede sotto forma di salario è lasciato interamente al suo arbitrio50. Sulla base di questo rapporto si sviluppa la concorrenza sia tra le diverse classi della società, sia tra i loro singoli membri. Poiché sono i capitalisti che stabiliscono l’am­ montare del salario al limite della sussistenza, si verifica una concorrenza tra strati diversi di operai in possesso di diversi gradi di civiltà e un corrispondente diverso livello di sussistenza, come avviene nella concorrenza tra operai inglesi e irlandesi. Ciò che da un lato è strumento di po­ tere e di ricchezza, dall’altro lato si trasforma in strumen­ to di sfruttamento e di asservimento. La « precarietà » e la « guerra sociale » è la condizione normale di esistenza dell’operaio; «egli sa che oggi ha qualcosa e che non di­ pende da lui stesso se domani avrà ancora qualcosa; sa che ogni mutamento, ogni capriccio del datore di lavoro, ogni cattiva congiuntura negli affari lo può risospingere nel vortice selvaggio dal quale ha trovato momentaneo scampo e nel quale è difficile, spesso impossibile, restare a galla »51. In ultima analisi, l’operaio è una merce che su­ bisce tutte le oscillazioni del prezzo di mercato. La con­ correnza, relazione tipica di una società in cui si produco­ no e si distribuiscono i mezzi di sussistenza « non per il

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soddisfacimento immediato dei bisogni, ma per il guada­ gno » e in cui « ciascuno lavora e si arricchisce per proprio conto », getta il sistema in una completa « anarchia », in cui « tutto avviene alla cieca, in modo irrazionale, più o meno alla mercè del caso »52. Di qui le crisi di sovrappro­ duzione, il ristagno e la miseria. Poiché il fine della pro­ duzione non risiede nel soddisfacimento dei bisogni, ma nella realizzazione di guadagni sempre maggiori, l’aumen­ to delle forze produttive si trasforma da possibilità di svi­ luppo dei rapporti umani e di liberazione dell’uomo dalla fatica in strumento di oppressione e di limitazione di quei rapporti. La disgregazione sociale, il conseguente isola­ mento dell’uomo e la strumentalizzazione dei rapporti nella società borghese trovano conferma nell’analisi del lavoro di fabbrica. Quella libertà apparente, che nella so­ cietà mascherava la costrizione effettiva del rapporto di lavoro, nella fabbrica viene meno di fronte al puro e sem­ plice lavoro forzato e la libera attività produttiva, che do­ vrebbe costituire l’autentico significato del lavoro, si tra­ sforma in attività senza senso, perché il suo fine risiede al di fuori di essa nel denaro. Ricuperando il modello di società preindustriale, che Gaskell aveva riproposto in alternativa alla grande indu­ stria, Engels capovolge la tesi che quel modello doveva provare. La situazione in cui si trovano gli operai, assem­ brati nelle città industriali e oppressi dall’organizzazione del lavoro nella fabbrica, se da un lato ha posto fine a qual­ siasi forma di integrazione nella società, dall’altro lato crea le condizioni per la nascita del proletariato come movi­ mento politico autonomo. « La situazione della classe ope­ raia è il terreno reale e il punto di partenza di tutti i mo­ vimenti sociali del nostro tempo, poiché è la punta più alta e più evidente della nostra attuale miseria sociale »53. L’agglomeramento degli operai in quartieri separati, indicato da Gaskell come ostacolo alla circolazione di valori comu­ ni tra le classi sociali, diventa in Engels il terreno favore­ vole per la costituzione e la comunicazione di idee e atteg­ giamenti contrapposti a quelli della borghesia e quindi conformi al ruolo rivoluzionario del proletariato54. Accan­ to alla storia dell’industria esiste quindi una storia del mo-

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do in cui la classe operaia acquista progressivamente co­ scienza della propria posizione nella società ed elabora i propri mezzi di lotta. All’inizio dello sviluppo industriale, la protesta assumeva la forma rudimentale della rivolta individualistica originata dalla contrapposizione immedia­ ta di ricchezza e miseria. La lotta contro l’introduzione delle macchine costituì un progresso, poiché per la prima volta gli operai agirono consapevolmente come classe, an­ che se poi l’azione si svolgeva in forme disordinate contro un aspetto particolare della loro condizione. Con lo svi­ luppo delle coalizioni, dapprima segrete e in seguito rese legali con la conquista del diritto di associazione, i lavo­ ratori ebbero a disposizione uno strumento che consentì loro di fare valere i propri interessi in forme organizzate. Tuttavia soltanto con il cartismo l’opposizione del prole­ tariato supera i limiti delle trade unions, la cui azione, seb­ bene diretta a sopprimere la concorrenza tra gli operai frenando la caduta dei salari al livello minimo o accele­ randone la tendenza al rialzo, rimane sempre all’interno della legge della domanda e dell’offerta. « Il cartismo è la forma compatta dell’opposizione contro la borghesia. Nel­ le associazioni e nei turnout l’opposizione rimaneva sem­ pre isolata, erano singoli operai o gruppi di operai a com­ battere contro singoli borghesi... Nel cartismo, invece, è l’intera classe operaia che insorge contro la borghesia e muove all’assalto soprattutto contro la sua potenza poli­ tica »55. Secondo Engels, l’ultimo capitolo di questa sto­ ria della coscienza di classe del proletariato sarà una tra­ sformazione interna del cartismo, compiuta attraverso un processo di chiarificazione degli obiettivi politici e so­ ciali. Il cartismo si trova ora a una svolta, poiché i sei punti della Carta possono condurre a una semplice rifor­ ma costituzionale; le stesse rivendicazioni sociali dei car­ tisti da un lato rivestono un carattere reazionario nella misura in cui non tengono conto dello « sviluppo indu­ striale» e dall’altro sono destinate a fallire Io scopo in una prova di forza con le leggi della concorrenza56. Sulla base del cartismo e, in ultima analisi, sulla base del livel­ lo di maturazione politica conseguito dal proletariato in­ glese, si dovrà sviluppare « il vero socialismo proletario »,

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che non si accontenta di una trasformazione in senso de­ mocratico delle istituzioni politiche né rimane impiglia­ to nel dilemma tra le illusioni riformistiche e il ritorno a forme sociali del passato. « L’accostamento al socialismo non può mancare, soprattutto se la prossima crisi, che al più tardi nel 1847, ma probabilmente già nell’anno pros­ simo, seguirà l’attuale congiuntura favorevole dell’indu­ stria e del commercio, e che supererà di gran lunga tutte le precedenti per violenza e furore, con la miseria che por­ terà con sé spingerà sempre più gli operai ad adottare ri­ medi sociali anziché politici »57.

2. La storia dell’industria come scienza positiva.

Alla fine del 1844, quando stava terminando o aveva già terminato gli appunti che compongono i manoscritti del 1844, Marx si incontra a Parigi con Engels, che gli comunica i risultati del suo lavoro e lo mette a parte del­ le letture economiche e sociologiche. L’incontro cade pro­ prio nel momento in cui Marx ed Engels, l’uno indipen­ dentemente dall’altro e seguendo vie differenti, erano giunti ai medesimi risultati: il primo attraverso un ten­ tativo di critica dell’economia politica compiuto in stret­ ta connessione con la riformulazione di alcuni concetti fi­ losofici; il secondo attraverso un’analoga critica, tecnicamente più elaborata, che sovente entrava nel merito delle questioni economiche e che si connetteva con un’esperien­ za di studi sulla storia recente dell’industria inglese e sulla formazione sociologica e politica del proletariato58. L’importanza che l’opera di Engels riveste nella forma­ zione del pensiero di Marx, in particolare per l’interpre­ tazione della storia dell’industria, risiede nel fatto che quest’ultimo poteva scorgere, nei tratti essenziali, il fun­ zionamento nella ricerca empirica dell’impostazione me­ todologica e di alcune idee sviluppate soprattutto in vi­ sta di una critica dell’economia politica e della filosofia tedesca contemporanea; proprio per questo le ricerche di Engels rimarranno un punto di riferimento costante du-

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rante la stesura delle parti storiche e sociologiche del pri­ mo libro del Capitale. Marx era pervenuto alla conoscenza dei sociologi e de­ gli storici dell’industria tramite le letture compiute a Pa­ rigi e il materiale che Engels aveva raccolto in Inghilter­ ra. Nel periodo immediatamente successivo, durante l’esilio a Bruxelles e il breve soggiorno a Manchester, egli incontrava per la prima volta autori come Babbage e Ure che dovevano lasciare una traccia profonda sulle sue con­ cezioni della società industriale. Oltre alle ipotesi parti­ colari che questi e altri autori avevano formulato ciascu­ no nel proprio campo, Marx trovava, applicata su problemi specifici anche se non sempre esplicitamente teorizzata, la connessione tra le forze produttive e i rapporti sociali, che egli avrebbe tentato di definire con maggior rigore servendosene quale criterio metodologico per interpre­ tare non soltanto la storia dell’industria, ma la totalità delle istituzioni sociali59. Eduard Baines, lo storico che Engels aveva utilizzato per ricostruire la storia dell’indu­ stria cotoniera inglese, iniziava la sua History of the Cot­ ton Manufacture in Great Britain con queste parole: « La storia della civiltà consiste in larga misura nella storia delle arti utili. Queste arti formano la base del progresso sociale. Per loro mezzo gli uomini sono sollevati al di so­ pra del vile bisogno, entrano in possesso di comodità e di oggetti di lusso e acquisiscono il benessere necessario per coltivare i piu alti settori del sapere »60. Alla letteratura storiografica che si riconduceva a questa impostazione Marx ed Engels davano un esplicito riconoscimento, che suonava anche come l’ammissione di un debito verso la tradizione empiristica della cultura francese e inglese: « I francesi e gli inglesi, pur avendo compreso tutt’al piu in misura solo parziale il legame fra questo fatto [la produ­ zione] e la cosiddetta storia, specialmente allorché si tro­ vavano imprigionati nell’ideologia politica, hanno fatto però i primi tentativi per dare alla storiografia una base materialistica, scrivendo per primi storie della società ci­ vile, del commercio e dell’industria »61. Qui non ci inte­ ressa rintracciare gli antecedenti immediati e lontani del­ la concezione « materialistica » della storia. Ciò che im-

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porta notare è l’esistenza di una tradizione di pensiero a cui Baines si riallacciava e i cui principali esponenti erano quegli autori inglesi e francesi di cui parlava Marx. La Wealth of Nations} in cui Smith traccia una storia del « progresso naturale della prosperità », la History of Civil Society di Adam Ferguson, la storia del commercio di Anderson, i Principles of Political Oeconomy di James Steuart sono tutte ricerche impostate consapevolmente sul presupposto che « il fondamento della società è la sus­ sistenza degli uomini e le ricchezze necessarie a provve­ dere la forza che deve difenderli »62. Di conseguenza le diverse forme di società e le diverse forme di governo traggono la loro origine dai differenti modi in cui gli uo­ mini si procurano i mezzi di sussistenza63. A partire dallo stato primitivo, la principale occupazione era rivolta a soddisfare i bisogni primari; soltanto quando questi bi­ sogni vennero soddisfatti l’attenzione fu rivolta ad accre­ scere i mezzi di sussistenza. In base a questi presupposti gli storici e gli economisti inglesi del Settecento traccia­ vano una storia della « società civile », in cui lo sviluppo delle forze produttive veniva considerato storicamente inevitabile. La successione dei differenti tipi di organiz­ zazione economica veniva costruita in base ai tipi di atti­ vità predominanti: caccia, pesca, pastorizia, agricoltura, industria e commercio; essi istituivano cosi una connes­ sione fra i tipi di organizzazione economica e i tipi di struttura sociale, mostrando come entrambi i termini del­ la connessione presentassero un processo di sviluppo uni­ forme. In ogni forma di società essi rinvenivano relazioni di potere e forme di subordinazione rispetto alle quali gli individui si collocano in differenti classi sociali; il gra­ do di subordinazione veniva poi determinato dal modo in cui gli individui si procurano i mezzi di sussistenza, poiché i modi particolari di procurarsi tali mezzi equival­ gono a particolari forme e modalità di distribuzione della proprietà. A sua volta, Marx non faceva che richiamarsi a questa impostazione della ricerca storica, quando nelVIdeologia tedesca scriveva che gli uomini « comincia­ rono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza »64. Attraverso la pro-

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duzione dei mezzi di sussistenza, gli uomini non soltanto provvedono alla loro conservazione e alla loro riprodu­ zione fisica, ma nello stesso tempo estrinsecano la loro vita; e tale attività è un modo di essere che è condizio­ nato sia da ciò che producono sia dalle tecniche di produ­ zione, sicché - conclude Marx - il modo di vita degli in­ dividuali, ciò che essi sono, « dipende dunque dalle con­ dizioni materiali della loro produzione »65. Ma se esiste identità tra modi di vita e modi di produzione, la storia deve studiare i diversi modi in cui gli uomini organizzano la produzione e quindi spiegare i diversi modi in cui gli uomini entrano in relazione all’interno dei modi di produ­ zione. A questo scopo Marx istituisce una relazione di di­ pendenza tra le forze produttive, la divisione del lavoro, l’organizzazione interna di una nazione e i suoi rapporti con altre nazioni. « Il grado di sviluppo delle forze pro­ duttive di una nazione è indicato nella maniera piu chia­ ra dal grado di sviluppo a cui è giunta la divisione del la­ voro »66. Le forze produttive e la divisione del lavoro si condizionano reciprocamente, poiché lo sviluppo delle pri­ me comporta un più alto grado di differenziazione delle attività, che consente una migliore utilizzazione delle tec­ niche disponibili. Di conseguenza le forze produttive e l’organizzazione interna di una nazione sono legate da un processo di sviluppo uniforme. Lo sviluppo della divisio­ ne del lavoro, infatti, comporta anzitutto « la separazione del lavoro industriale e commerciale dal lavoro agricolo e con ciò la separazione fra città e campagna », e quindi la « separazione del lavoro commerciale da quello industria­ le»; la divisione del lavoro si sviluppa contemporanea­ mente nei differenti rami di produzione e più tardi si con­ figura come divisione del lavoro tra differenti nazioni67. In questo contesto si colloca il ricupero marxiano del ter­ mine « società civile » nel senso in cui era stato impiega­ to dagli storici e dagli economisti del Settecento : « La so­ cietà civile comprende tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui all’interno di un determinato grado di sviluppo delle forze produttive »68. Il patriarcalismo, la schiavitù, gli ordini, le classi sono forme di rap­ porti che corrispondono a particolari gradi di differenzia-

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zione del lavoro, sono cioè modi diversi in cui gli indivi­ dui organizzano la loro esistenza sociale rispetto al tipo di attività economica predominante e alle tecniche pro­ duttive impiegate. Da questo punto di vista, allo sviluppo della divisione del lavoro corrisponde uno sviluppo del­ la proprietà, poiché «ciascun nuovo stadio della divi­ sione del lavoro determina anche i rapporti fra gli indi­ vidui in relazione al materiale, allo strumento e al prodot­ to del lavoro »69. Il ricupero della tradizione storiografica settecentesca, quale si era venuta consolidando attraverso lo studio del­ lo sviluppo economico e sociale, presenta due aspetti im­ portanti. Il primo, negativo, è legato alla polemica mar­ xiana contro la storiografia empiristica, ma soprattutto contro quella idealistica di origine hegeliana; il secondo, positivo, è legato al diverso atteggiamento nei confronti dell’economia politica che Marx adotta a partire dalTIdeologia tedesca, ma soprattutto nella Miseria della filosofia. In larga misura, questi due aspetti costituiscono il risul­ tato di un processo di revisione dei principali strumenti analitici impiegati nel periodo che va dagli scritti giova­ nili del 1843 ai manoscritti del 1844. La professione di fe­ de empiristica contenuta nell "Ideologia tedesca^ una fun­ zione essenzialmente polemica, da un lato contro coloro che nella storia vedono « una raccolta di fatti morti », una giustapposizione eterogenea di eventi non collocati in un processo di sviluppo, dall’altro contro la storiografia spe­ culativa, che nel processo di sviluppo non coglie che « un’azione immaginaria di soggetti immaginari », lo svi­ luppo dell’autocoscienza, cioè di un principio astratto che sul piano metodologico equivale al privilegiamento delle rappresentazioni che gli uomini hanno di se stessi o che il filosofo attribuisce loro. « Il fatto è dunque il seguen­ te: individui determinati che svolgono un’attività produt­ tiva secondo un modo determinato entrano in questi de­ terminati rapporti sociali e politici. In ogni singolo caso l’osservazione empirica deve mostrare empiricamente e senza alcuna mistificazione e speculazione il legame fra l’organizzazione sociale e politica e la produzione »70. La storiografia diventa allora « scienza reale e positiva » nella

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misura in cui non si limita ad enumerare i fatti, ma li spie­ ga nella loro successione; né pretende di dedurre il pro­ cesso di sviluppo da un principio filosofico astratto. « Là dove cessa la speculazione, nella vita reale, comincia dun­ que la scienza reale e positiva, la rappresentazione del­ l’attività pratica, del processo pratico di sviluppo degli uo­ mini. Cadono le frasi sulla coscienza e al loro posto deve subentrare il sapere reale »71.1 presupposti da cui procede la storia positiva sono empirici, reali - e intanto si può osservare che Marx non li qualifica piu come attributi di una essenza umana; essi sono bisogni, mezzi per soddi­ sfarli, nuovi bisogni, rapporti sociali, e così via. Marx pre­ cisa che i presupposti « di ogni storia » sono in parte na­ turali e in parte sociali, e cioè: 1) la creazione dei mezzi di sussistenza; 2) la produzione di nuovi bisogni; 3) il rapporto sociale, che dapprima è la famiglia e poi si evol­ ve in forme più complesse di cooperazione in cui la fami­ glia diventa un rapporto subordinato. Si tratta quindi di tre aspetti della produzione della vita, che formalmente rimangono costanti attraverso le loro configurazioni par­ ticolari nel corso dello sviluppo storico. « La produzione della vita, tanto della propria nel lavoro quanto dell’al­ trui nella procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall’al­ tra, sociale nel senso che si attribuisce a una cooperazione di più individui, non importa sotto quali condizioni, in quale modo e per quale scopo. Da ciò deriva che un mo­ do di produzione o uno stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato, e questo modo di cooperazione è an­ che esso una “forza produttiva”; ne deriva che la quan­ tità delle forze produttive accessibili agli individui con­ diziona la situazione sociale e che dunque la “storia del­ l’umanità” deve essere sempre studiata e trattata in rela­ zione con la storia dell’industria e dello scambio »72. Qui il concetto di cooperazione viene elaborato da Marx per la prima volta, in connessione con quello di divisione so­ ciale del lavoro; entrambi i concetti gli servivano per esprimere il carattere sociale della produzione ed erano quindi considerati come sinonimi. La cooperazione, in

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particolare, gli serviva per studiare differenti modi di pro­ duzione ed era definita mediante tre variabili: 1) le con­ dizioni della cooperazione: proprietà comune dei mezzi di produzione, rapporto immediato di signoria e servitù, rapporto di denaro tra salariato e capitalista; 2) il modo della cooperazione: tipi di organizzazione del lavoro; 3) lo scopo della cooperazione. La definizione dell’interesse collettivo come « dipendenza reciproca degli individui tra i quali il lavoro è diviso »73, che stabilisce appunto il nes­ so tra la cooperazione e la divisione del lavoro, indica inoltre che il rapporto che sussiste tra gli individui coo­ peranti è un rapporto di dipendenza, suscettibile di assu­ mere significati differenti. La cooperazione sviluppa e mol­ tiplica la forza produttiva degli individui in relazione a differenti tipi di rapporti sociali e a differenti forme di po­ tere sociale. Il potere potrà essere quello della collettività e allora si avrà il « potere unificato » degli individui; oppu­ re potrà presentarsi come « potenza estranea » fuori del loro controllo.

3. Una revisione concettuale.

Negli scritti del 1844 Marx aveva sostenuto che l’e­ conomia politica era un sapere astratto, perché in essa mancava il riferimento delle categorie economiche all’es­ senza umana, cioè le categorie economiche non erano con­ siderate come espressioni dell’essenza umana alienata; inoltre, l’economia politica faceva astrazione dal processo attraverso il quale l’essenza umana ricupera se stessa sop­ primendo l’alienazione. Priva di tale fondamento, con­ cludeva Marx, l’economia politica è una scienza contrad­ dittoria. Nell’IdeoZogàz tedesca il procedimento astratto è quello per cui non viene rappresentato il « processo di vita attivo » degli uomini, il « processo di sviluppo, reale ed empiricamente constatabile, sotto condizioni determi­ nate »74, sicché la storia diventa o una raccolta di fatti, oppure è il risultato dell’azione di un principio specula­ tivo. Anche in questo caso il sapere storico può diventare astratto, allorché viene meno il suo termine di riferimen-

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to reale; ma non si tratta più dello svolgimento di un’es­ senza, bensì dello svolgimento di forme di vita materiale, di modi di produzione, di modi di organizzazione sociale conformi a determinati modi di produzione, di produzione di idee e rappresentazioni condizionate da determinati modi di produzione materiale, e via dicendo. Così non ha senso una storia della libertà, né ha senso parlare in generale di « liberazione dell’uomo », se non si dice chi so­ no gli uomini che devono essere liberati (per esempio, la servitù della gleba) e in quali condizioni di produzione de­ ve avvenire la liberazione (un determinato sviluppo del­ l’agricoltura e dell’industria). Né si può parlare astrattamente di « intuizione del mondo sensibile », di « unità » o di « lotta » dell’uomo contro la natura. Il modo sensibile non è « una cosa data immediatamente dall’eternità, sem­ pre uguale a se stessa, bensì il prodotto dell’industria e delle condizioni sociali»; l’unità dell’uomo con la natura « è sempre esistita nell’industria, e in ciascuna epoca è esistita in maniera diversa a seconda del maggiore o mino­ re sviluppo dell’industria, così come la “lotta” dell’uo­ mo con la natura esiste finché le sue forze produttive si sviluppino su una base adeguata »75. Analogamente, i rap­ porti « dell’uomo con l’uomo » pur costituendo un lega­ me « antico quanto gli stessi uomini », « assume sempre nuove forme e dunque presenta una “storia” »76. Esiste tuttavia un senso debole, per cui le astrazioni trovano posto nella scienza positiva. In luogo delle astra­ zioni quali oggetti specifici della filosofia, subentrano le astrazioni legittime intese semplicemente quali « sintesi dei risultati più generali» e ricavate «dall’esame dello sviluppo storico »71. La filosofia pretende di esistere sulla base di queste astrazioni, di avere conseguentemente pro­ blemi filosofici da risolvere, di liberare l’uomo dalle frasi che esprimono quei problemi; la filosofia non s’accorge che « ogni profondo problema filosofico si risolve con la massima semplicità in un fatto empirico »78. Il risultato finale di questa operazione conduce Marx alla riformula­ zione del concetto attorno al quale ruotava la ricostruzio­ ne dell’economia politica tentata nel ’44. Nella storia « a ogni grado si trova un risultato materiale, una somma di

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forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui fra loro,... a ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze pro­ duttive, capitali e circostanze, che da una parte può sen­ za dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma che d’altra parte impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere... Questa somma di forze produttive, di capi­ tali e di forme di relazioni sociali, che ogni individuo e ogni generazione trova come qualche cosa di dato, è la base reale di ciò che i filosofi si sono rappresentati come "sostanza” ed "essenza dell’uomo” »79. Con ciò viene me­ no anche la possibilità di riformulare l’economia politica deducendone le categorie dal concetto di essenza umana alienata, cioè attraverso « deduzioni teoriche » da un prin­ cipio filosofico astratto80. Al posto di quella deduzione subentra un’analisi storica, economica e sociologica delle forme di produzione e delle relazioni sociali, nell’ambito delle quali si sviluppano le forme di proprietà e le rela­ tive economie politiche. Uno degli aspetti della polemica con Proudhon, iniziata nel ’46 e culminata con la pub­ blicazione della Miseria della filosofia, verteva proprio sul carattere scientifico dell’economia politica, negata pochi anni prima. In quello scritto Marx, dopo aver accettato il sistema di Ricardo nella sua scientificità, poteva affer­ mare: «Ricardo, dopo aver supposto la produzione bor­ ghese come necessaria per determinare la rendita, l’applica tuttavia alla proprietà fondiaria di tutte le epoche e di tutti i paesi. Sono di questo tipo gli errori di tutti gli eco­ nomisti, che rappresentano i rapporti della produzione borghese come categorie eterne»81. La teoria dello svi­ luppo storico delineata nsSi'Ideologia tedesca - la rela­ zione tra lo sviluppo delle forze produttive, i rapporti di produzione e i prodotti ideologici - costituiva la premes­ sa per ricuperare l’economia politica come scienza, con­ sentendo al tempo stesso di identificarne gli errori ideo­ logici. I concetti di forze produttive, di rapporti di produzione e le loro reciproche relazioni presentano, naturalmente, un interesse che va oltre l’ambito della precedente di-

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scussione. La loro elaborazione non avviene infatti a un livello semplicemente metodologico; essi trovano un’im­ mediata applicazione nello sviluppo di un tema che sol­ tanto nei lavori preparatori del 1857-58 e nel Capitale perverrà alla sua compiutezza: la determinazione delle forme di organizzazione del lavoro e della loro successio­ ne storica. Il problema della trasformazione delle forme di organizzazione del lavoro e, più in generale, quello del mutamento sociale è centrale nella sociologia di Marx e trova i suoi strumenti fondamentali di impostazione nell’Ideologia tedesca. Wilhelm Schulz era pervenuto a una formulazione abbastanza precisa della connessione tra le attività produttive e le relazioni sociali, applicandola alla storia dell’industria intesa come storia della « produzione materiale» dell’uomo82. Nel Bewegung der Produktion Schulz indicava nell’« osservazione storico-statistica dei mutamenti della produzione e dell’attuale struttura del suo organismo » l’oggetto della sua ricerca e stabiliva la « legge di movimento » che presiede a quei mutamenti Rifacendosi a Adam Smith egli individuava nella divisione del lavoro questa legge, e la interpretava come una « strut­ tura » sulla base della connessione tra l’espansione delle forze produttive e i rapporti sociali da esse determinati. Questa connessione, infatti, dà luogo a un « organismo » le cui parti costitutive sono in rapporto di interazione; tale rapporto permette di spiegare nello stesso tempo la stabilità dell’organismo e le sue trasformazioni. Mentre la stabilità della struttura è garantita dalla corrispondenza delle attività produttive con le relazioni sociali, il suo mu­ tamento avviene quando un nuovo « spiegamento » delle prime richiede nuovi rapporti84. Questo schema inter­ pretativo serviva a Schulz per delineare una storia del « movimento della produzione » in cui distingueva quat­ tro fasi di organizzazione del lavoro e di corrispondenti rapporti sociali, e per spiegare il passaggio da una fase al­ l’altra. A sua volta Marx, ricuperando e sviluppando lo schema di Schulz, delineava una storia della produzione materiale intesa come storia delle forme della proprietà. La prima di queste forme è la « proprietà tribale », che dipende da un grado di sviluppo della produzione in cui

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la caccia, la pesca, la pastorizia e piu tardi l’agricoltura sono le attività predominanti. La divisione del lavoro non è molto sviluppata ed è il prolungamento delle differen­ ziazioni naturali esistenti nella famiglia e tra le singole famiglie nella società. Già questa forma rudimentale di divisione del lavoro « implica in pari tempo anche la ri­ partizione, e precisamente la ripartizione ineguale, sia per quantità che per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la proprietà, dove la donna e i figli sono gli schiavi dell’uomo »85. La seconda forma di proprietà è quella del­ la « proprietà della comunità antica e dello stato », per la quale i proprietari sono tali di fronte agli schiavi soltanto in quanto appartengono alla comunità. Qui la divisione del lavoro si è sviluppata sino all’antagonismo tra città e campagna e tra stati che rappresentano interessi rurali o urbani. Questo tipo di struttura economica e sociale su­ bisce una evoluzione interna con lo sviluppo della pro­ prietà privata mobiliare e immobiliare e con l’antago­ nismo tra industria e commercio, fino a « condizioni che ritroveremo, soltanto in misura più estesa, nella proprie­ tà privata moderna »86. Il punto di partenza dello sviluppo della «proprietà feudale o degli ordini » - l’agricoltura - è legato alle par­ ticolari condizioni storiche in cui la produzione si venne a trovare con la caduta dell’impero romano: la popola­ zione scarsa e dispersa su una vasta estensione di territo­ rio, l’agricoltura nelle forme ereditate dal mondo antico, la decadenza del commercio e delle altre attività produt­ tive. « Queste condizioni preesistenti e il modo come fu organizzata la conquista, da quelle condizionato, provo­ carono, sotto l’influenza della costituzione militare ger­ manica, lo sviluppo della proprietà feudale»87. Caratte­ ristica di questa forma di proprietà è la sua organizzazione militare e gerarchica con la quale la nobiltà esercitava il suo potere sui servi della gleba. Come per le altre forme, anche in questo caso esiste una contrapposizione tra pro­ prietari e produttori diretti, sebbene essa si configuri in maniera diversa, sotto forma di rapporto immediato tra principi, nobiltà e clero da un lato e contadini asserviti dall’altro88. Con l’aumento della popolazione e la sua con-

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centrazione nelle città ricompare il conflitto di interessi tra la città e la campagna; Partigiano si sviluppa nelle città nelle forme gerarchiche legate alla proprietà fondia­ ria. « La separazione fra città e campagna può essere vista anche come la separazione fra capitale e proprietà fon­ diaria, come l’inizio di un’esistenza e di uno sviluppo del capitale indipendente dalla proprietà fondiaria, di una proprietà che ha la sua base soltanto nel lavoro e nello scambio»89. Naturalmente, la formazione e lo sviluppo di questo tipo di proprietà avviene nell’ambito dell’orga­ nizzazione feudale dei rapporti sociali e quindi vi si mo­ della in un primo momento, anche se in esso esiste già la possibilità dell’instaurazione di rapporti differenti. Nel­ le corporazioni, che costituiscono appunto l’« organizza­ zione feudale dell’artigianato », la proprietà consiste nel « lavoro di ciascun singolo », nel capitale risparmiato e posseduto in forma personale dai singoli artigiani, men­ tre l’opposizione tra proprietari e lavoratori diretti si configura come rapporto gerarchico tra maestri, garzoni, apprendisti e plebei a giornata. Da questo tipo di proprie­ tà si sviluppa la «proprietà privata moderna», che as­ sume la forma sviluppata del « dominio del lavoro e in specie del lavoro accumulato, del capitale »90. Mentre nel­ la piccola industria artigiana non esisteva una ripartizione del lavoro tra individui diversi, ora la divisione del lavoro è una condizione necessaria; così, questa forma di proprie­ tà presuppone che sia completamente sviluppata la divi­ sione tra il lavoro intellettuale e il lavoro fisico, mentre il rapporto di dipendenza dei produttori immediati dai pro­ prietari «deve avere assunto una forma concreta in un terzo elemento, il denaro »91. In virtù del denaro gli indi­ vidui non sono piu legati da vincoli personali, come nelle precedenti forme di proprietà, ed entrano in rapporto sol­ tanto attraverso lo scambio. Strumenti naturali e capi­ tale naturale erano caratteristici della corporazione; stru­ menti creati dalla civiltà e capitale valutabile in denaro sono caratteristici della proprietà privata moderna92. Nell’abbozzo di storia dell’industria contenuto nell’Ideologia tedesca Marx utilizza due differenti correlazio­ ni: i) tra le forze produttive, la tecnologia e l’organizza­

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zione del lavoro da un lato, e i rapporti di produzione che si sviluppano all’interno della cooperazione dall’altro; 2) tra il modo di produzione (che comprende il tipo di coo­ perazione, i rapporti all’interno di essa e in genere tutto ciò che serve a definire un determinato «stadio indu­ striale») e il complesso delle istituzioni della società ci­ vile. Questa seconda correlazione fornisce a Marx il crite­ rio metodologico fondamentale di interpretazione storio­ grafica e presuppone l’attività produttiva quale ambito privilegiato, a partire dal quale soltanto è possibile com­ prendere la storia nella sua totalità. Questa concezione as­ sume « come fondamento di tutta la storia la forma di re­ lazioni che è connessa con... [il] modo di produzione e che da esso è generata »93. In questo modo è possibile spie­ gare la società civile nei suoi stadi e nelle sue articolazio­ ni, il che « consente naturalmente anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche l’interazione di questi lati diversi l’uno sull’altro) » Il modo di produ­ zione è dunque la via d’accesso privilegiata attraverso la quale è possibile abbracciare la totalità delle relazioni e delle forme sociali. Ciò, tuttavia, non significa che sia possibile dedurre dal modo di produzione la totalità delle forme e delle relazioni sociali95, ma soltanto che esso è il punto di partenza obbligato e la condizione necessaria del­ la spiegazione delle istituzioni sociali e dei loro reciproci condizionamenti. In questo senso lo schema storiografico di Marx equivale a quello di Schulz, per il quale la pro­ duzione materiale e la produzione spirituale si sviluppa­ no secondo una stessa legge di movimento, ed entrambi gli schemi costituiscono ima generalizzazione sia della connessione indicata da Engels tra la rivoluzione indu­ striale e la struttura socio-politica, sia degli schemi inter­ pretativi impiegati dagli economisti settecenteschi. Stabilita la connessione tra le forze produttive, le for­ me di cooperazione e le relazioni sociali, Marx indica nel grado di sviluppo della divisione del lavoro il primo ter­ mine della relazione, cioè il parametro rispetto al quale identificare i differenti rapporti sociali. Quando a un dato grado di sviluppo della divisione del lavoro non corri­ spondono adeguati rapporti sociali, la relazione tra le

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forze produttive e le forme di cooperazione si trasforma in una relazione di « contraddizione ». L’eliminazione del­ la contraddizione all’interno dei modi di produzione fon­ dati sulla divisione del lavoro risiede nella possibilità di riorganizzare la produzione sulla base di rapporti diffe­ renti, mentre l’eliminazione della condizione di separa­ zione degli individui risiede nell’abolizione della stessa divisione del lavoro. Infatti, nella misura in cui la divi­ sione del lavoro scinde gli interessi individuali e gli in­ teressi collettivi, in seguito alla separazione delle funzioni intellettuali e di controllo dalle funzioni di semplice ese­ cuzione, la possibilità di eliminare le contraddizioni che derivano da queste separazioni risiede nella sua aboli­ zione96. Una volta definite le forme della proprietà pri­ vata in base ai rapporti tra gli individui in relazione al ma­ teriale, allo strumento e al prodotto del lavoro, Marx è in grado di identificarle con differenti forme della divisione del lavoro, le quali esprimono « in riferimento all’attivi­ tà » ciò che la proprietà privata esprime « in riferimento al prodotto dell’attività »97.1 termini « divisione del lavoro » e «proprietà privata» sono qui usati indifferentemente per designare gli stessi fenomeni, perciò il mutamento so­ ciale in termini di contraddizione può anche essere spie­ gato mediante il concetto di proprietà privata98. Infine, la divisione del lavoro e la proprietà privata comportano una distribuzione dell’attività tra gli individui e quindi una lo­ ro separazione in classi sociali. Con la divisione del lavoro, in quanto coincide con la proprietà privata, nascono dun­ que i conflitti tra l’interesse particolare e l’interesse collet­ tivo, tra l’attività del singolo entro la divisione del lavoro e il potere di chi controlla questa attività. Marx esprime questa scissione contrapponendo alla divisione « volonta­ ria » delle attività la divisione « naturale » degli individui e alla potenza loro estranea della cooperazione naturale il loro potere unificato nella cooperazione volontaria. Nella forma naturale della divisione del lavoro i tipi fondamen­ tali di attività tra cui il lavoro è diviso sono quelli manuali e quelli intellettuali; chi stabilisce questa divisione è un potere particolare separato dalla collettività e il modo in cui essa viene stabilita è l’imposizione autoritaria, mentre

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le singole attività vengono assegnate in modo esclusivo e permanente. Queste possono essere assegnate in modo esclusivo perché la divisione tra il lavoro intellettuale e quello manuale si identifica con la proprietà e quindi con il potere di disposizione sul lavoro altrui. « Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene impo­ sta e dalla quale non può sfuggire »99. La divisione del la­ voro e la conseguente limitazione delle attività individua­ li, la proprietà privata con la relativa scissione tra interessi individuali e interesse collettivo e il carattere autoritario delle diverse forme di cooperazione costituiscono un in­ sieme di limiti e condizionamenti che nel corso della sto­ ria hanno impedito agli individui l’appropriazione della totalità delle forze produttive. O meglio, tale appropria­ zione è avvenuta periodicamente nel corso della storia in seguito al superamento della contraddizione che via via si presentava tra le forze produttive e i rapporti sociali. Ma le condizioni e le limitazioni spiegano come lo sviluppo e l’appropriazione delle forze produttive sia sempre avve­ nuto in maniera casuale, in determinate località, in singo­ li settori produttivi, cioè in un modo che appariva natu­ rale ai singoli individui, perché avveniva indipendente­ mente dalla loro volontà. Di qui il carattere particolare che assume il mutamento sociale: «Queste diverse con­ dizioni, che appaiono dapprima come condizioni della manifestazione personale e piu tardi come un intralcio per essa, formano in tutto lo sviluppo storico una serie coe­ rente di forme di relazione, la cui connessione consiste in questo, che al posto della forma di relazioni precedente, diventata un intralcio, viene sostituita una nuova, corri­ spondente alle forze produttive più sviluppate e quindi al modo più progredito di manifestazione personale de­ gli individui, e questa forma à son tour diventa poi un intralcio e quindi viene sostituita con un’altra » 10°. Sol­ tanto con la proprietà privata moderna questo processo mette a disposizione una massa di forze produttive e un modo di produzione sviluppati su scala mondiale, e spin­ ge alla scissione completa la massa dell’umanità dal mon­ do della ricchezza e della cultura. Con ciò sono poste le

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condizioni dell’appropriazione agli individui della totalità delle forze produttive e della loro trasformazione in « in­ dividui completi »1M. Questo processo di sviluppo, che i filosofi hanno immaginato come «processo di sviluppo “dell’uomo”» e «processo di autoalienazione “dell’uo­ mo” », ora è ancorato alle condizioni storiche determina­ te dalle differenti forme di proprietà. E con la determina­ zione empirica delle condizioni di appropriazione si chiu­ de l’ultimo atto della revisione concettuale iniziata da Marx nell'ideologia tedesca.

4. La politica delle alleanze. L’organizzazione delle associazioni operaie, anche at­ traverso la propaganda dei principi comunistici, e la pre­ parazione di un fronte democratico contro l’assolutismo feudale in Germania sono le due direzioni in cui Marx ed Engels si muovono negli anni che precedono immediata­ mente il periodo rivoluzionario. Nel corso del 1846 la lo­ ro principale attività è diretta a organizzare una rete di comitati di corrispondenza in Germania, a Bruxelles, a Londra e a Parigi, allo scopo di mettere i socialisti tede­ schi in contatto con i socialisti francesi e inglesi, favoren­ do il dibattito e il confronto delle idee e facendo in tal modo circolare la propaganda politica nelle principali sedi europee del movimento operaio. Accettando l’invito della Lega dei Comunisti, Marx ed Engels fondano a Bruxelles l’Associazione degli operai tedeschi, nell’ambito della qua­ le Marx tiene alcune conferenze sul lavoro salariato. A Bruxelles Marx viene eletto vicepresidente dell’Associazione democratica; a Parigi entra in contatto con i demo­ cratici Flocon e Ledru-Rollin, mentre Engels collabora at­ tivamente al loro giornale « La Réforme »; entrambi sono in relazione con i Fraternal Democrats di Londra W2. Ana­ lizzando sul «Northern Star» la crisi della politica di equilibrio condotta dal governo prussiano tra la nobiltà e la borghesia, Engels scriveva nel marzo 1847 che, se i pro­ letari dovevano riconoscere nella borghesia un nuovo di­ spotismo contro il quale avrebbero intrapreso una « war

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to the knife », essi dovevano rendersi conto che occorre­ va prima liquidare lo stato monarchico di diritto divino e il feudalesimo medievale; in questa lotta il proletariato doveva svolgere soltanto « una parte secondaria » e sol­ tanto più tardi avrebbe dato inizio a un movimento auto­ nomo 103. Alla stessa epoca, nella « Deutsche Brùsseler Zeitung », Marx dichiarava che soltanto la riforma delle isti­ tuzioni politiche, qual era intesa dal liberalismo, poteva fornire al proletariato tedesco i mezzi indispensabili per la lotta politica - una costituzione con suffragio univer­ sale, la libertà di associazione, la libertà di stampa. È vero che gli operai tedeschi non possono considerare la rivo­ luzione borghese «come lo scopo finale»; tuttavia essi « possono e devono accettare la rivoluzione borghese co­ me una condizione della rivoluzione operaia »104. Alla base della politica delle alleanze c’era dunque una visione precisa del processo di sviluppo dell’industria ca­ pitalistica e dei conflitti che in essa si manifestano. Di tale visione Marx ed Engels avevano dato una definizione ne­ gli scritti del 1845-46, e di essa si servivano per sostene­ re le loro battaglie politiche. Nella loro polemica contro Weitling prima e Kriege poi, Marx ed Engels facevano chiaramente intendere che il comuniSmo si collocava in una prospettiva di lungo periodo, che i conflitti sociali nell’ambito della società borghese non potevano essere intesi in termini del contrasto tra l’amore e l’odio e che la rivoluzione proletaria non poteva svolgersi secondo la lo­ gica dei colpi di mano, perché presupponeva le condizioni create dal modo di produzione capitalistico105. Accanto alla storia delle forme di proprietà, Marx aveva abboz­ zato nell’ideologia tedesca una storia dell’industria rico­ struita in riferimento a tre forme di organizzazione del lavoro. Le corporazioni medievali, la manifattura e la gran­ de industria venivano disposte in una serie storica allo scopo di dimostrare la necessità dello sviluppo delle for­ me di proprietà privata nell’ambito del quale l’organizza­ zione capitalistica della produzione si collocava necessa­ riamente quale punto terminale della storia dell’industria. Nelle corporazioni medievali, alla cooperazione tra mae­ stri, garzoni e apprendisti corrispondeva un rapporto so-

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ciale patriarcale, il cui carattere immediato garantiva un controllo diretto del maestro sui subordinati non soltan­ to all’interno del laboratorio, ma anche nei loro rapporti esterni. Questo controllo sociale determinava inoltre una separazione di interessi tra i garzoni dei diversi maestri e un rapporto di dipendenza molto forte all’interno delle corporazioni, in quanto i garzoni « erano legati all’ordina­ mento esistente se non altro per l’interesse che avevano a divenire essi stessi maestri » 106. Da questa forma di coo­ perazione risultava un sistema sociale con un alto grado di stabilità, garantito anche dalle possibilità di mobilità verticale offerte dalle corporazioni e dalla conformazione stessa del lavoro artigiano. Infatti lo scarso sviluppo del­ la divisione del lavoro tra le singole corporazioni, ma so­ prattutto al loro interno, esigeva che ogni lavoratore fosse « abile in tutto un ciclo di lavoro »; perciò il passaggio da un grado all’altro della gerarchia sociale comportava una padronanza completa del mestiere artigiano107. Da un la­ to, per il carattere stesso delle operazioni, che richiedeva­ no particolari abilità e una estesa gamma di specializzazio­ ni, il lavoratore era vincolato a un’area lavorativa più o meno estesa, ma pur sempre circoscritta; dall’altro lato, la sfera di attività, richiedendo determinate capacità e un certo senso artistico, suscitava « interesse » e « soddisfa­ zione » per il lavoro e stabiliva un rapporto di dipenden­ za tra gli individui e l’intera organizzazione del lavoro108. Se il presupposto storico delle corporazioni era la divi­ sione del lavoro tra la città e la campagna e la relativa se­ parazione della popolazione in classi, i presupposti storici dell’organizzazione manifatturiera, nata dal sistema cor­ porativo, sono la divisione del lavoro tra le città, lo svi­ luppo del commercio internazionale e la concentrazione della popolazione e dei capitali. Anche in questo caso il fattore principale dello sviluppo è la divisione del lavoro, intesa come forza produttiva e considerata in rapporto al­ l’intensificazione e all’estensione degli scambi commercia­ li 109. La manifattura segnò l’avvento della grande borghe­ sia commerciale e industriale e un differente rapporto tra il lavoratore e il datore di lavoro. « Nelle corporazioni sus­ sisteva il rapporto patriarcale tra garzone e maestro; nel­

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la manifattura subentrò in suo luogo il rapporto di dena­ ro tra lavoratore e capitalista: rapporto che in campagna e nelle piccole città conservò una tinta patriarcale, mentre nelle città piu grandi, propriamente manifatturiere, per­ dette ben presto quasi ogni colore patriarcale » no. La gran­ de industria spinse alle sue estreme conseguenze questo processo di sviluppo. Marx insiste soprattutto sull’uso in­ tensivo delle forze naturali, della scienza, della tecnologia e della divisione del lavoro, che rivoluzionano tutti i modi di produzione del passato, sullo sviluppo delle forze pro­ duttive e del mercato mondiale che superano le limitazio­ ni inerenti alle precedenti forme di cooperazione e gene­ ralizzano i rapporti di denaro a tutti i rapporti sociali. Il processo che va dall’artigianato medievale alla grande in­ dustria rappresenta una progressiva eliminazione dello sta­ to di dipendenza degli operai dal loro lavoro. « L’unico nesso che ancora li lega alle forze produttive e alla loro stessa esistenza, il lavoro, ha perduto in essi ogni par­ venza di manifestazione personale e mantiene la loro vita soltanto intristendola »111. Proprio in quanto vengono me­ no le caratteristiche del lavoro artigiano - abilità, inizia­ tiva personale, estensione dell’area lavorativa - il rappor­ to dei lavoratori col proprio lavoro si configura non piu come « soddisfatto asservimento», bensì come «indiffe­ renza». Ciò che definiva il mutamento sociale fino alla grande industria era il carattere sempre limitato delle ri­ voluzioni, che sostituivano ai rapporti sociali fondati su una forma particolare di divisione del lavoro altri parti­ colari rapporti di proprietà; permaneva dunque la divi­ sione tra il lavoro manuale e il lavoro mentale, cioè una divisione in classi caratterizzata dalla separazione esclusi­ va delle funzioni della produzione e del consumo, dell’ese­ cuzione e del controllo. Soltanto la grande industria ha posto le condizioni per un’appropriazione integrale del­ l’attività produttiva e dei valori a essa propri. Lo sviluppo delle forze produttive ha determinato rapporti sociali che intensificano e potenziano, attraverso l’uso della scienza e della tecnologia, le condizioni e i prodotti del lavoro, concentrandoli nelle mani di gruppi ristretti e separandoli dai produttori. Questi ultimi, costretti in una situazione

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di totale estraniazione, minacciano la stabilità del sistema, perché alla loro totale dipendenza dalle condizioni della produzione fa riscontro la loro totale indifferenza e indi­ pendenza dagli interessi della comunità; a questo punto, infatti, il carattere di comunità delle istituzioni si presen­ ta, piu che in qualsiasi altra epoca storica, illusorio. La via obbligata dell’appropriazione deve dunque passare attra­ verso la necessaria eliminazione della proprietà privata, che nella forma della grande industria si presenta nel suo stato di massima separazione dal lavoro. La connessione dei movimenti rivoluzionari con le crisi cicliche veniva a completare il quadro delle dottrine mar­ xiane del pre-marzo. Questa connessione era già stata in­ dicata da Engels alcuni anni prima, quando aveva previ­ sto per il 1847 una crisi economica che dall’Inghilterra sarebbe dilagata nel resto dell’Europa dando l’avvio al movimento rivoluzionario. Ora che la crisi si era puntual­ mente verificata, Engels poteva riproporre quella connes­ sione in tutta la sua attualità. « La crisi commerciale alla quale l’Inghilterra si vede esposta in questo momento egli scriveva nell’autunno - è, in effetti, piu grave di qua­ lunque crisi precedente. Né nel 1837, né nel 1842 la de­ pressione era così universale come nel momento attuale. Tutti i rami della vasta industria inglese si fermano nel bel mezzo del loro movimento; ovunque c’è stagnazio­ ne, ovunque non si vedono che operai gettati sul lastrico. Inutile dire che un tale stato di cose provoca un’agitazio­ ne straordinaria tra gli operai, i quali, sfruttati dagli indu­ striali durante il periodo di prosperità commerciale, ora si vedono licenziati in massa e abbandonati alla loro sorte. Così i meetings degli operai scontenti si moltiplicano ra­ pidamente »112. Sotto lo stimolo di Engels, anche Marx ar­ rivò ben presto alle stesse conclusioni, ed è significativo che un certo numero di letture da lui compiute in questi anni fossero orientate nel senso di un riesame del proble­ ma delle crisi. Delle crisi egli si occupa in alcune annota­ zioni a proposito degli Essays on some unsettled Ques­ tions of Political Economy di John S. Mill; rimanda agli appunti di Engels a proposito della History of Prices di Tooke; infine commenta positivamente il capitolo Fluc-

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tuations in Employments, in cui Wade espone la sua teo­ ria delle crisi cicliche113. Nello scritto preparatorio per le conferenze sul lavoro salariato, Marx imposta il problema sulla base di un’analisi dello sviluppo capitalistico delle forze produttive e delle sue conseguenze e individua nel­ la legge della concorrenza l’ambito entro cui l’aumento della produzione diventa condizione costrittiva per la so­ pravvivenza del modo di produzione capitalistico. « Per sostenere la concorrenza in queste condizioni, si deve la­ vorare su scala sempre più vasta e concentrare il capitale in mani sempre meno numerose. E affinché questa produ­ zione su scala più vasta sia vantaggiosa, bisogna estendere continuamente e fino all’eccesso la divisione del lavoro e il macchinario » 114. Ciò significa che « la produzione avvie­ ne in condizioni sempre più difficili», poiché è nella na­ tura stessa di questo tipo di sviluppo che il capitale pro­ duttivo (materie prime, macchine e salari) aumenti costan­ temente e quindi richieda uno sfruttamento su scala sem­ pre più vasta115. Inoltre, nel corso del processo di crescita del capitale produttivo le sue parti non seguono un ritmo uniforme di espansione, perché la sproporzione tra le ma­ terie prime e il macchinario da un lato e il salario dall’al­ tro «cresce in progressione geometrica e non aritmeti­ ca »116. In altri termini, il capitale investito in salari di­ minuisce relativamente alle altre due parti costituenti il ca­ pitale produttivo e tale diminuzione si manifesta sul mer­ cato come « eccedenza di operai »117. Tale eccedenza agisce sul mercato sia sotto forma di concorrenza tra gli operai per posti di lavoro resi più accessibili dalla divisione del lavoro, sia sotto forma di concorrenza tra gli operai e le macchine118. « Dunque, una legge generale risulta necessa­ riamente dalla natura del rapporto tra il capitale e il la­ voro: nel corso dell’aumento delle forze produttive, la parte del capitale produttivo trasformata in macchine e materie prime, cioè il capitale in quanto tale, cresce in ma­ niera sproporzionata rispetto alla parte destinata al sala­ rio; in altre parole: gli operai devono dividersi una parte sempre più piccola della massa totale del capitale produt­ tivo. Perciò la concorrenza tra loro diventa sempre più violenta »1I9. Marx può allora collegare a questa concezio-

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ne dello sviluppo la teoria delT« esercito di riserva » espo­ sta da Engels. Proprio perché è nella natura dello svilup­ po che il capitale investito in macchinari e materie prime aumenti in proporzioni geometrica rispetto al capitale in­ vestito in salari, l’offerta di merce-lavoro deve mantener­ si costantemente a un livello superiore alla domanda120. Durante i periodi di crisi o di stagnazione, in cui il ritmo di investimento del capitale subisce un rallentamento o di­ minuisce, la sproporzione tra le forze produttive e il nu­ mero di operai si manifesta sotto forma di disoccupazio­ ne; mentre nel caso piu favorevole in cui il capitalista dà all’impresa un’estensione tale e aumenta la produzione in proporzioni così enormi da conservare o addirittura au­ mentare il numero di operai, la stessa sproporzione si ri­ presenta nella sua massima estensione, per subire un piu alto incremento nel successivo periodo di crisi. Marx è quindi già in possesso degli elementi essenziali di una teoria della « forma ciclica del processo di accumu­ lazione » 121. Lo sviluppo delle forze produttive si configu­ ra come processo ciclico di prosperità, soprapproduzione, stagnazione e crisi, e la natura ciclica del processo è una conseguenza del modo in cui le parti componenti del capi­ tale produttivo entrano in rapporto nel corso del proces­ so di accumulazione122. In altri termini, dal rapporto tra il capitale e il lavoro deriva un tipo di sviluppo che Marx definisce contraddittorio, perché, da un lato, comporta un ritmo di investimento in progressivo aumento, che, dal­ l’altro lato, riduce proporzionalmente le possibilità di im­ piego e di sussistenza di una popolazione operaia in rapi­ do aumento. Da questo punto di vista, le crisi sono la for­ ma in cui un processo di sviluppo strutturalmente squili­ brato trova un temporaneo aggiustamento. Questa fun­ zione equilibratrice del processo di accumulazione, appe­ na accennata nel manoscritto sul salario, viene indicata nel Manifesto del partito comunista, dove si afferma che «la storia dell’industria e del commercio è soltanto sto­ ria della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione»; ciò significa che la borghesia può controllare le forze produttive soltanto a condizione di distruggerle o di espanderle ulteriormente

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con la conquista di nuovi mercati e quindi soltanto me­ diante « la preparazione di crisi più generali e più violen­ te e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stes­ se» . Nei manoscritti del 1844 il problema delle crisi si col­ locava nell’ambito di una discussione della legge di Say, sicché Marx era indotto a insistere soprattutto sulle crisi di sovrapproduzione nelle loro connessioni causali con la capacità di consumo della classe operaia. Nel periodo che va dalla ripresa degli studi economici a Bruxelles fino alla stesura del Manifesto, lo stesso problema si ripresentava a Marx, ma con una differente impostazione. La natura ci­ clica delle crisi e la loro connessione con un processo di acutizzazione della lotta di classe e di maturazione politica del proletariato era il risultato di un nuovo e più profondo interesse per la storia dell’industria capitalistica nel qua­ dro più ampio di una storia delle forze produttive. Rispet­ to al modello di sviluppo che Marx aveva delineato nella Ideologia tedesca e negli scritti del 1847, la Germania veniva a collocarsi in una fase di transizione, in cui a strut­ ture economiche e politiche antiquate si accompagnano forme sociali di tipo moderno: il proletariato, sia pure ancora in forma latente, e la borghesia come classe in asce­ sa, ostacolata nelle sue attività industriali e commerciali dalla monarchia assoluta La necessità del fronte demo­ cratico si legava quindi alle particolari condizioni della Germania e alla previsione di una sua trasformazione in senso borghese e capitalistico. Lo sviluppo ritardato della Germania era definito in riferimento alla storia dell’indu­ stria capitalistica e delle forme di proprietà ricalcata sulla storia economica dell’Inghilterra, che pertanto era consi­ derata come paese capitalisticamente avanzato. Da que­ sta analisi Marx ed Engels ricavavano una teoria per la quale la rivoluzione borghese in Germania diventava la premessa della rivoluzione proletaria. In Germania « gli ordini non si sono ancora sviluppati in classi»; ciò signi­ fica che essi « esercitano ancora una funzione ed esiste una mescolanza, per cui nessuna parte della popolazione può arrivare a dominare le altre »125, cioè in Germania non esi­ stono collisioni di tipo capitalistico e i « nuovi elementi ila

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dissolutoti appaiono non sviluppati»126. Il proletariato deve quindi allearsi con la borghesia in una lotta per la democrazia contro « il guscio politico » in cui la vecchia società costringe quella nuova: soltanto in questa lotta si creeranno « le condizioni per l’unificazione della classe operaia » 127. Quindi la rivoluzione borghese in Germania, il « movimento rivoluzionario della borghesia contro i ce­ ti feudali e la monarchia assoluta», ha la funzione di ac­ celerare il movimento rivoluzionario del proletariato128 e diventa « l’immediato preludio d’una rivoluzione proleta­ ria »129. La posizione centrale che Marx ed Engels asse­ gnavano alla Germania significava che la rivoluzione do­ veva legarsi non alle condizioni di un paese arretrato, ben­ sì alle condizioni di sviluppo diseguale caratteristiche del­ l’Europa in quel particolare momento e, più in generale, caratteristiche dello sviluppo dell’economia capitalistica su scala mondiale 13°. Infatti - essi sostenevano - « non è necessario che per provocare delle collisioni in un paese questa contraddizione [tra le forze produttive e la forma di relazioni] sia spinta all’estremo in questo paese stes­ so »131. Il mercato mondiale non conosce barriere nazio­ nali e l’Inghilterra domina il mercato mondiale. Di conse­ guenza il paese più sviluppato esercita un’influenza a di­ stanza sul paese meno sviluppato, accelerandone o ritar­ dandone il progresso, secondo che si trovi in condizioni di espansione o di recessione; analogamente, il proletariato inglese e il partito cartista non sono indifferenti per la for­ mazione politica del proletariato tedesco, perché il rappor­ to che esiste in Inghilterra tra i lavoratori della manifat­ tura domestica e gli operai di fabbrica è identico al rap­ porto tra il proletariato ancora latente in Germania e il proletariato inglese. Come la teoria della riserva di operai era stata utilizzata in funzione dell’unificazione sociologi­ ca e politica del proletariato inglese, così ora veniva uti­ lizzata in funzione dell’unificazione delle condizioni rivo­ luzionarie a livello internazionale. Alla vigilia delle rivolu­ zioni quarantottesche, Marx ed Engels riassumevano nel M.anijesto del partito comunista la strategia elaborata a partire dal ’45 e ne indicavano gli obiettivi principali: unità di classe del proletariato a livello europeo, lotta con­

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tro la borghesia nei paesi avanzati, posizione subordinata del proletariato e sua alleanza con le borghesie nazionali nei paesi arretrati. Allo scoppio della rivoluzione di marzo, i dirigenti del­ la Lega dei comunisti decisero di trasferirsi in Germania per partecipare in maniera diretta agli avvenimenti, ma soprattutto perché ritenevano che dalla Germania sareb­ be dipeso il futuro della rivoluzione in Europa. Il i° apri­ le essi lanciavano le « Rivendicazioni del partito comuni­ sta in Germania » allo scopo di legare alle sorti della rivo­ luzione gli interessi della grande borghesia, della piccola borghesia, del proletariato e dei contadini, cioè gli strati sociali ostili alle istituzioni della monarchia feudale132. Da un lato quelle rivendicazioni dovevano riflettere la situa­ zione arretrata della Germania e perciò costituivano sol­ tanto un programma intermedio rispetto a quello che il Manifesto indicava al proletariato dopo la presa del pote­ re; dall’altro lato esse si inserivano in una strategia piu ampia che prevedeva la rivoluzione borghese tedesca co­ me « immediato preludio » della rivoluzione proletaria. Il io aprile 1848 Marx arriva a Colonia, capitale della Renania, la regione in cui maggiore era la concentrazione industriale e perciò dove più forti erano la borghesia e il proletariato. Quivi egli si rende immediatamente conto che un’azione ispirata alle rivendicazioni del partito co­ munista avrebbe avuto l’effetto di isolare il proletariato dal movimento rivoluzionario. In un primo momento la Lega dei Comunisti aveva attribuito un peso determinan­ te alle associazioni operaie le quali, pur muovendosi en­ tro limiti strettamente sindacali, costituivano le uniche or­ ganizzazioni operaie di una certa importanza133. La debo­ lezza della classe operaia, la scarsa disponibilità delle as­ sociazioni per una coerente politica di alleanze134 e le ten­ denze anticomunistiche della borghesia, che sotto la spin­ ta delle rivendicazioni operaie non esitava a prendere mi­ sure repressive, e reazionarie, esigevano una revisione del programma della Lega. Anche Engels giungeva alle stes­ se conclusioni e ne discuteva con Marx, riferendogli le dif­ ficoltà incontrate nella diffusione di certa propaganda ne­ gli ambienti radicali. « Tutti han paura di discutere que­

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stioni sociali come della peste, - scriveva Engels; - lo chia­ mano incitamento alla rivolta. Ho sprecato tutta la mia oratoria, adoperato tutta la diplomazia possibile, ma sem­ pre risposte ambigue. Adesso faccio un ultimo tentativo, se fallisce, tutto è finito... Au fond la questione è che an­ che questi borghesi radicali di qui vedono in noi i loro principali nemici futuri, e che non ci vogliono dare in ma­ no nessun'arma che noi rivolgeremmo ben presto contro di loro »135. Engels dichiarava esplicitamente che le riven­ dicazioni operaie rappresentavano un « ostacolo » per gli sviluppi immediati della rivoluzione e che, a maggior ra­ gione, quelle del partito comunista avrebbero compromes­ so la politica di alleanza con la borghesia democratica; le associazioni operaie, pur rappresentando un progresso del­ la coscienza di classe proletaria, costituivano una fuga in avanti rispetto allo stato attuale del movimento rivoluzio­ nario 136. Marx, dunque, disponeva di elementi sufficienti per ri­ conoscere che la borghesia non era disponibile per un’azio­ ne rivoluzionaria basata sul programma comunista e che i movimenti autonomi del proletariato non davano suffi­ cienti garanzie in un eventuale scontro frontale: il rischio era di fare il gioco della reazione, compromettendo il fronte democratico. Quindi non restava che rinunciare ai diciassette punti della Lega e accogliere il programma de­ mocratico quale base dell’alleanza tra il proletariato, le classi medie e la borghesia contro il regime feudale. La parola d’ordine di questa differente linea d’azione si rias­ sume nella democrazia intesa come la forma politica piu adeguata a salvaguardare e a sviluppare le conquiste del­ la rivoluzione; i suoi strumenti organizzativi vengono in­ dicati nelle associazioni democratiche e nella stampa de­ mocratica 137. Da questo punto di vista, Marx conduceva una violenta battaglia sulla « Neue Rheinische Zeitung » contro i governi usciti dalla rivoluzione di marzo, quelli di Vienna e di Berlino, ma soprattutto contro il parla­ mento di Francoforte, per la politica di compromesso che quei governi conducevano con la reazione assolutistica e feudale138. In realtà la rivoluzione di marzo aveva condot­ to al potere l’alta borghesia tedesca, che cercava di conso-

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fidare il potere alleandosi con la reazione nel quadro del­ la monarchia costituzionale. Non si era affatto realizzata quell’alleanza con il proletariato che Marx auspicava; né la rivoluzione conduceva al potere la borghesia secondo i moduli della Rivoluzione francese. Questa tendenza rea­ zionaria assumeva poi aspetti chiaramente repressivi per effetto delle giornate di giugno in Francia: la borghesia tedesca si alienava definitivamente dalla classe operaia e dagli elementi democratici, consolidando la sua alleanza offensiva con la monarchia e la nobiltà. Marx riconosceva questa linea di sviluppo degli avvenimenti allorché scri­ veva che la rivoluzione tedesca non era che « la parodia della Rivoluzione francese del 1789», perché non era riu­ scita ad avere ragione dei privilegi feudali139. Tuttavia egli riteneva ancora possibile risolvere in senso democratico quella che ai suoi occhi non era ancora una scelta definiti­ va della borghesia, bensì un compromesso dettato da una visione contraddittoria dei suoi reali interessi. « Il mini­ stero d’azione vuole creare il dominio della borghesia, con­ cludendo contemporaneamente un compromesso con il vecchio stato poliziesco e feudale. In questo duplice com­ pito contraddittorio, esso vede a ogni istante il dominio della borghesia ancora da stabilire e la sua propria esi­ stenza sopraffatti dalla reazione nel senso assolutistico, nel senso feudale - ed esso le soccomberà. La borghesia non può ottenere il proprio dominio, se non ha provviso­ riamente tutto il popolo per alleato, quindi se non agisce in maniera piu o meno democratica »140. Così, il giugno francese aveva semplicemente dimostrato che il movi­ mento rivoluzionario manteneva, anzi accentuava la sua tendenza a radicalizzare lo scontro di classe. « Il trionfo momentaneo della forza bruta - scriveva Marx all’indo­ mani della repressione della sollevazione degli operai pa­ rigini - è pagato con l’annientamento di tutte le illusioni e le fantasie della rivoluzione di febbraio, con la liquida­ zione di tutto il vecchio partito repubblicano, con la scis­ sione della nazione francese in due nazioni, la nazione de­ gli abbienti e la nazione dei lavoratori »141. I conflitti che la rivoluzione di febbraio aveva celato sotto il manto del­ la fratellanza, si manifestano ora nella loro espressione

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più violenta, nella guerra civile, nella lotta di classe tra il lavoro e il capitale142. La lezione che Marx ne ricavava era dunque una con­ ferma della linea politica adottata per la Germania. In Francia la fratellanza delle classi opposte aveva avuto la funzione di preparare il terreno alla guerra tra il lavoro e il capitale - ed era durata « finché l’interesse della bor­ ghesia era stato fratello dell’interesse del proletariato »143. In Germania, al contrario, dove le « contraddizioni socia­ li » vengono artificiosamente soffocate con la forza, la lot­ ta contro le istituzioni feudali e poliziesche per una for­ ma democratica di stato conserva tutta la sua attualità144. Nel quadro della lotta contro l’assolutismo feudale, la « Neue Rheinische Zeitung » conduceva anche una violen­ ta campagna contro la Russia zarista. La lotta democratica in Germania - ripetevano continuamente Marx ed Engels - non avrebbe avuto alcuna efficacia, se non avesse coin­ volto la roccaforte della reazione; una guerra vittoriosa contro la Russia avrebbe poi condotto con sé la sconfitta della reazione in tutta l’Europa. « Soltanto la guerra con­ tro la Russia è una guerra della Germania rivoluzionaria, una guerra in cui essa può lavare i peccati del passato, ri­ prendere coraggio, vincere i propri autocrati, una guerra in cui, come si conviene a un popolo che scuote le catene di una lunga e pesante schiavitù, essa paga con il sacrifi­ cio dei suoi figli la diffusione della civiltà e si libera all’in­ terno liberandosi all’esterno »145. Ma a misura che in Fran­ cia le forze controrivoluzionarie si consolidavano e che i legami dell’alta borghesia tedesca con la corona si faceva­ no più stretti, Marx ed Engels erano costretti ad ammet­ tere che, ormai, soltanto una minaccia dall’esterno avreb­ be mobilitato le forze rivoluzionarie, la piccola borghesia e il proletariato, in vista di obiettivi comuni. Con la guer­ ra contro la Russia, tutto il popolo si sarebbe raccolto at­ torno alla «patria in pericolo», come era avvenuto in Francia dopo F89; il movimento rivoluzionario avrebbe ripreso vigore e avrebbe distrutto la vecchia società sosti­ tuendo la politica di oppressione nei confronti delle altre nazionalità con la politica internazionale della democra­ zia. « Dunque, finché aiuteremo a opprimere la Polonia,

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finché incateneremo una parte della Polonia alla Germa­ nia, finché resteremo incatenati alla Russia e alla politica russa, non potremo spezzare radicalmente da noi Tassolu­ tismo patriarcale e feudale. L’instaurazione di una Polo­ nia democratica è la prima condizione dell’instaurazione di una Germania democratica »146. Di qui le simpatie nu­ trite da Marx ed Engels per i popoli che combattono per la loro indipendenza, gli ungheresi, gli italiani, ma soprat­ tutto i polacchi, la cui insurrezione costituisce una provo­ cazione contro lo zarismo. L’annessione alla Prussia di buona parte della provincia di Posen - annessione ratifi­ cata dallo stesso parlamento di Francoforte - ben lonta­ na dall’aver « sollevato la Polonia a un gradino della ci­ viltà » 147, non soltanto si inseriva in quella politica di « bri­ gantaggio comune » che poneva la Prussia a fianco della Russia e dell’Austria, ma era lo strumento con cui la Rus­ sia asserviva i tedeschi alla sua politica reazionaria148. La lotta contro l’assolutismo feudale doveva avere per obiet­ tivo immediato « un governo democratico composto di elementi eterogenei », nato cioè dall’alleanza tra gli strati progressisti della borghesia e il proletariato149. In questo senso Marx prendeva posizione nell’ambito delle associa­ zioni democratiche di Colonia, Berlino e Vienna, nei me­ si di agosto e settembre. Ma le aspettative della « Neue Rheinische Zeitung» non erano destinate a realizzarsi. L’armistizio con la Danimarca, firmato dal re di Prussia sotto la minaccia di un intervento russo e ratificato dal parlamento di Francoforte, e la sostituzione del ministero Hansemann con un ministero reazionario rendevano sem­ pre più improbabile una guerra contro la Russia. Il carattere effimero delle insurrezioni di settembre e ot­ tobre e le dure repressioni di Colonia, Vienna e Berlino imposero a Marx un ripensamento degli avvenimenti del 1848 in Germania e in Europa e una revisione dell’inter­ pretazione che di essi aveva dato nel corso del loro svol­ gimento. La borghesia tedesca non si era alleata al popo­ lo per perseguire e portare a termine la rivoluzione; essa era diventata un elemento controrivoluzionario alleando­ si alle forze conservatrici; essa aveva mancato al suo com­ pito storico di abbattere, come aveva fatto la borghesia

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francese nel 1789, il regime assolutistico e feudale che si opponeva al suo sviluppo. Fallimento della rivoluzione borghese, tradimento della borghesia, progressivo conso­ lidamento della reazione assolutistica: questa la linea in­ terpretativa dei fatti del ’48 che Marx adottava in una se­ rie di articoli pubblicati in dicembre150. Prima del ’48 la borghesia tedesca si trovava nella migliore situazione per effettuare una rivoluzione sul modello di quella francese. « Con lo sviluppo della società borghese in Prussia - cioè, con lo sviluppo dell’industria, del commercio e dell’agri­ coltura - da un lato le vecchie distinzioni degli ordini ave­ vano perso il loro fondamento materiale... Dall’altro la­ to, lo stato assolutistico, la cui vecchia base sociale era stata tolta per incantesimo nel corso del suo sviluppo, era diventato un freno per la nuova società borghese, il cui modo di produzione e i cui bisogni erano cambiati. La borghesia doveva rivendicare la sua parte di potere poli­ tico, se non altro per il suo interesse materiale »151. Per ottenere una posizione politica che corrispondesse alla sua posizione sociale, la borghesia e l’opposizione liberale, in cui essa si esprimeva al Landtag unito, rivendicava la li­ bertà di stampa per discutere liberamente le azioni del governo, il diritto di associazione per organizzare libera­ mente l’opposizione politica, la libertà religiosa quale con­ seguenza necessaria della libera concorrenza152. Con la « tempesta di febbraio », tuttavia, l’opposizione liberale si trovò gettata in una situazione contraddittoria da cui non seppe e non volle uscire. La rivoluzione di febbraio aveva preparato alla borghesia la strada verso la conqui­ sta del potere politico, ma nello stesso tempo essa costi­ tuiva la negazione di quella « amichevole transazione con la corona » attraverso la quale la borghesia si illudeva di assicurarsi il potere153. Era questa la ragione dell’incapa­ cità della borghesia tedesca di porsi alla guida del movi­ mento rivoluzionario in marzo. Da un lato, essa vedeva nello stato feudale e burocratico un ostacolo da abbatte­ re; dall’altro lato temeva che nel corso della rivoluzione il proletariato e i suoi alleati si sarebbero rivelati dei nemi­ ci molto più pericolosi. Questo modello di sviluppo eco­ nomico, sociale e politico, che le rivoluzioni del 1648 e

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del 1789 avevano realizzato per l’Europa moderna, non si era ripetuto nella Germania del 1848. « La borghesia prus­ siana non era la classe sociale che, come la borghesia fran­ cese del 1789, rappresentava V intera società moderna di fronte ai rappresentanti della vecchia società, alla monar­ chia e alla nobiltà »; in realtà, essa era « disposta fin dal­ l’inizio al tradimento del popolo e al compromesso con il rappresentante coronato della vecchia società, perché es­ sa stessa faceva parte della vecchia società; essa non rap­ presentava gli interessi di una nuova società contro un’al­ tra, ma certi interessi nuovi nel seno di una società anti­ quata » 1S4. A differenza della rivoluzione prussiana di mar­ zo, le rivoluzioni del 1648 e del 1789 erano state condotte dalla borghesia con una coerente politica di alleanze, con la nobiltà moderna in Inghilterra e con il popolo in Fran­ cia lss. Il fallimento della rivoluzione in Germania denun­ ciava la debolezza della borghesia tedesca, le sue indecisio­ ni nei confronti sia delle classi superiori sia di quelle in­ feriori, la sua incapacità di rompere i legami con la vec­ chia società. « Ben lontana dall’essere una rivoluzione eu­ ropea, essa fu soltanto il pallido riflesso di una rivoluzio­ ne europea in un paese arretrato »156. Da questo fallimen­ to della rivoluzione borghese Marx concludeva con l’im­ possibilità di istituire in Germania una monarchia costi­ tuzionale: ora l’alternativa era il ritorno al regime assolu­ tistico e feudale o una rivoluzione sociale che avrebbe por­ tato a un regime repubblicano157. Se prima la Germania costituiva il punto di partenza di un processo rivoluzio­ nario, le cui fasi erano la rivoluzione borghese contro l’as­ solutismo e la rivoluzione proletaria contro la borghesia, ora la rivoluzione tedesca era destinata a diventare una conseguenza di una rivoluzione proletaria da prepararsi altrove. Ciò significava che il centro motore della rivolu­ zione doveva spostarsi da un paese arretrato a un paese capitalisticamente avanzato. Era quindi naturale rivolgere l’attenzione all’Inghilterra, il paese che dominava l’Euro­ pa con la sua potenza industriale e commerciale. La rivo­ luzione proletaria sarebbe scoppiata in Francia, dove la classe operaia era piu forte; sulla scia di questo solleva­ mento si sarebbero mossi i proletari e i democratici nelle

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nazioni oppresse dall’assolutismo e in particolare in Ger­ mania; il rovesciamento delle classi al potere in Europa avrebbe avuto come conseguenza immediata una guerra contro l’Inghilterra. « Un rovesciamento dei rapporti eco­ nomici in ogni paese del continente europeo, su tutto il continente europeo senza l’Inghilterra, è una tempesta in un bicchier d’acqua. La situazione dell’industria e del com­ mercio all’interno di ogni nazione è dominata dal traffico con le altre nazioni, è condizionata dal suo rapporto con il mercato mondiale. Ma l’Inghilterra domina il mercato mondiale e la borghesia domina l’Inghilterra. La liberazio­ ne dell’Europa, sia l’elevazione delle nazionalità oppresse all’indipendenza, sia l’abbattimento dell’assolutismo feu­ dale, sono condizionati dunque dalla sollevazione vittorio­ sa della classe operaia francese. Ma ogni rovesciamento so­ ciale francese si infrange necessariamente contro la borghe­ sia inglese, contro la potenza mondiale, industriale e com­ merciale della Gran Bretagna. Ogni riforma sociale par­ ziale in Francia, e in genere sul continente europeo, è e resta, in quanto deve essere definitiva, un pio e vuoto de­ siderio. E la vecchia Inghilterra può essere rovesciata soltanto da una guerra mondiale, che sola può offrire al partito cartista, il partito operaio inglese organizzato, le condizioni per un sollevamento vittorioso contro i suoi giganteschi oppressori. I cartisti alla testa del governo in­ glese: soltanto da questo momento la rivoluzione sociale passa dal regno dell’utopia a quello della realtà »158. La tattica adottata da Marx nei primi mesi del 1849 fu l’estremo tentativo di consolidare in Germania il fronte democratico in attesa che il sollevamento della classe ope­ raia francese desse inizio al processo rivoluzionario. La rottura con l’estrema sinistra in seno all’Arbeiterverein di Colonia159 e il rifiuto di aderire alla Lega dei comunisti recentemente costituitasi a Berlino si inquadrano nella politica di alleanza tra il proletariato e la piccola borghe­ sia che Marx ed Engels ritenevano ancora possibile. L’in­ contro tra queste due classi doveva avvenire sulla base del programma di riforme sociali contenuto nelle dicias­ sette rivendicazioni della Lega dei comunisti; l’obiettivo dell’alleanza era dunque quella « rivoluzione sociale e re­

NOTE

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pubblicarla» che Marx aveva indicato quale unica alter­ nativa possibile alla controrivoluzione assolutistica. Tut­ tavia, la speranza di Marx in una nuova rivoluzione in Francia non si realizzò. Il proletariato francese era inca­ pace di sollevarsi e l’elezione di Luigi Bonaparte alla pre­ sidenza della repubblica sanzionò definitivamente la vit­ toria della controrivoluzione. Ormai era chiaro che con­ tinuare nella politica delle alleanze com’era stata conce­ pita nel 1848-49 e in una fase di declino della rivoluzione avrebbe condotto a una spaccatura del proletariato. Nel corso del ’48 la preoccupazione principale di Marx era stata quella di mantenere l’unità del fronte democratico; ora egli conferiva un’importanza crescente all’organizza­ zione di un partito proletario di massa che avrebbe do­ vuto poggiare sull’unione delle diverse associazioni ope­ raie. Egli denunciava l’insufficienza delle associazioni de­ mocratiche, la cui eterogeneità, venuta meno la possibi­ lità di mantenere l’alleanza con la piccola borghesia de­ mocratica, rappresentava ora un ostacolo per la crescita di un movimento operaio autonomo. Il 16 aprile fa uscire l’Associazione operaia di Colonia dal Comitato democra­ tico renano; il 26 e 29 aprile pubblica un appello in vista di un congresso che doveva riunire a Colonia le Associa­ zioni operaie della Renania e della Westfalia; nello stesso mese pubblica le conferenze del ’47 rilanciando i temi del­ la lotta di classe tra salariati e capitalisti. Nel corso degli ultimi mesi del periodo rivoluzionario la « Neue Rheinische Zeitung » era diventata l’organo di un partito ope­ raio.

Per Hess la « riconciliazione » deve passare attraverso la soppres­ sione dell’« opposizione tra la povertà e l’aristocrazia della ric­ chezza » e questa soppressione dovrà avvenire in forma violenta attraverso una rivoluzione; in Germania l’opposizione esiste, ma non al punto da provocare uno scoppio rivoluzionario. «L’op­ posizione di povertà e ricchezza raggiungerà il livello rivoluzio­ nario soltanto in Inghilterra» (m. hess, Philosophische und sozialistische Aufsàtze, 1837-1850, a cura di A. Cornu e W. Mónke, Berlin 1961, pp. 96 e 107).

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2 «Ho sempre inteso lo Harmony Establishment soltanto come un esperimento per dimostrare la possibilità dei progetti del signor Owen, qualora siano messi in pratica, di costringere l’opinione pubblica a farsi un’idea piu favorevole degli schemi socialistici per alleviare la miseria pubblica» (r engels, Progress of Social Reform on the Continent. N. i: France, «nmw», 4 novembre 1843, in MEGA, 1-2, p. 441). In una lettera a Marx riprendeva questo punto, insistendo sull’efficacia propagandistica che la di­ vulgazione di certe idee comunitarie poteva avere in Germania: « I germani non hanno ancora le idee chiare sulla possibilità pra­ tica di attuare il comuniSmo; per eliminare questa deficienza scri­ verò un piccolo opuscolo, dicendo che la cosa è già un fatto com­ piuto e farò una relazione divulgativa sull’attuazione pratica del comuniSmo che si riscontra in Inghilterra e in America. È una faccenduola che mi costerà tre giorni o giu di lì, e dovrà schiarir molto le idee ai nostri. L’ho già visto nei miei colloqui con la gente di qui» (Engels a Marx, Barmen, circa l’8-io ottobre 1844, in Carteggio Marx-Engels, I [1844-51], trad. it. Roma 1950, p. 12). Del resto, il cammino che va dall’owenismo al radicalismo e alla lotta di classe era stato percorso da non pochi leaders car­ tisti. Cfr. j. r c. Harrison, Chartism in Leeds, in Chartist Stu­ dies, a cura di A. Briggs, London 1959, pp. 65 sgg. Sui rapporti di Engels con il cartismo e sulla sua collaborazione al «New Mo­ ral World» mancano ancora studi esaurienti; alcune indicazioni utili si trovano in j. saville, Friedrich Engels et le chartisme, « La nouvelle critique », 1956, pp. 73-90. 3 E aggiungeva: «Tuttavia questo partito è appena in via di for­ mazione e perciò non può ancora agire con tutta energia» (r en­ gels, Stellung der politischen Partei, «Rheinische Zeitung», 24 dicembre 1842, in MEGA, 1-2, p. 358). 4 L’analisi era condotta in termini dei partiti politici nel loro ri­ ferimento alle classi sociali. Sullo « Schweizerischer Republikaner» così scriveva: «È noto che in Inghilterra i partiti sono identici agli strati e alle classi sociali; che i Tories sono identici alla nobiltà e alla frazione bigotta e strettamente ortodossa della Chiesa alta; che i Whigs si compongono dei fabbricanti, dei com­ mercianti e dei dissenters, in generale: della classe media supe­ riore; che la classe media inferiore fornisce i cosiddetti “radi­ cali” e che, infine, la forza del cartismo risiede nei working men, nei proletari. Il socialismo non forma un partito politico com­ patto, ma si recluta in genere nella classe media inferiore e nei proletari» (f. engels, Briefe aus London, «Schweizerischer Republikaner», 16 maggio 1843, in MEGA, 1-2, p. 365). 5 f. engels, Die innern Krisen, «Rheinische Zeitung», io dicem­ bre 1843, in MEGA, 1-2, p. 355. 6 Ibid., p. 354. ’ Ibid., p. 355.

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8 « Per la sua massa questa classe è diventata la più potente in In­ ghilterra e guai ai ricchi inglesi, se essa giunge a prendere co­ scienza della sua forza» (ibid., p. 354). La storia recente del car­ tismo, i cui periodi di maggiore espansione coincidevano con fasi di depressione economica, giustificavano in larga misura queste affermazioni di Engels. È difficile stabilire fino a qual punto egli si rendesse conto che proprio in ciò risiedevano la debolezza e i limiti di quel partito. 9 « C’è in Germania, più che altrove, una possibilità per la forma­ zione di un partito comunista tra le classi colte della società. I tedeschi sono una nazione molto disinteressata; se in Germania un principio entra in collisione con un interesse, quasi sempre il principio farà tacere le pretese dell’interesse. Lo stesso amore per i principi astratti, lo stesso disprezzo della realtà e dell’inte­ resse personale, che hanno portato i tedeschi in una situazione di inesistenza politica, queste stesse qualità garantiscono il succes­ so della comunione filosofica in quel paese. Sembrerà molto sor­ prendente a un inglese che un partito, il quale mira alla distru­ zione della proprietà privata, sia costituito principalmente da co­ loro che hanno proprietà; eppure cosi è in Germania. Possiamo reclutare le nostre file soltanto in quelle classi che hanno ricevu­ to un’educazione abbastanza buona; cioè nelle università e nella classe commerciale. E in entrambi i casi finora non abbiamo incontrato particolari difficoltà» (f. engels, Progress of Social Reform on the Continent. N. II: Germany and Switzerland, «nmw», 18 novembre 1843, in MEGA, 1-2, pp. 448-49). 10 f. engels, Progress of Social Reform on the Continent, «nmw», 4 novembre 1843, in MEGA, 1-2, p. 435. 11 id., La situazione della classe operaia in Inghilterra, trad. it. Ro­ ma 1955, p. 310. Più tardi Engels avrà occasione di sottolineare l’ingenuità di questa concezione del comuniSmo (cfr. id., La si­ tuazione della classe operaia in Inghilterra, Prefazione del 1892, p. 20); tuttavia essa non faceva che riflettere la situazione og­ gettiva in cui le idee socialistiche si erano venute formando in Germania nell’ambiente della sinistra hegeliana, in contatto di­ retto con le classi medie e colte. Appunto nella pratica politica di Engels, Hess e altri comunisti negli anni 1844-45 l’azione di propaganda era rivolta nella direzione di questo ambiente de­ mocratico e radicale, anche se la situazione della classe operaia restava pur sempre «il terreno reale e il punto di partenza di tutti i movimenti sociali del nostro tempo » (ibid., Prefazione del 1845, p. 12). Sulla pratica politica di questi anni cfr. Carteggio Marx-Engels, I (1844-51), pp. 9-11, 25. Sulle assemblee comu­ niste, cfr. anche f. engels, Continental Socialism, «nmw», 5 ottobre 1844, in MEGA, 1-4, p. 338. In assemblee affollate, che riunivano figli di industriali, commercianti, bottegai, avvocati, ufficiali dell’esercito, funzionari e intellettuali - ma di cui En­ gels lamentava l’assenza dei proletari - si tenevano conferenze e dibattiti sulla possibilità di istituire comunità sul modello owe-

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nista. Cfr. f. engels, Rapid Progress of Communism in Ger­ many, «nmw», 13 dicembre 1844, in MEGA, 1-4, p. 341. 12 « I buoni tedeschi hanno sempre pensato che la miseria e le pri­ vazioni esistessero soltanto a Parigi e Lione, a Londra e Man­ chester, e che la Germania fosse completamente libera dai tumo­ ri dell’estrema civiltà e dell’eccessiva industria manifatturiera. Ora, tuttavia, cominciano ad accorgersi che anch’essi possono mettere insieme una quantità considerevole di malattie sociali... Si può facilmente capire quanto favorevole sia questo momento per iniziare una più estesa agitazione sociale in Germania» (f. engels, Continental Movements, «nmw», 3 febbraio 1844, in MEGA, 1-2, p. 455). 13 Lettera cit., p. 11. 14 Cfr. F. engels, Die Lage Englands. 1: Das achtzehnte Jahrhundert, « Vorwàrts», 31 agosto -11 settembre 1844, in MEGA, 1-4, pp. 291-309. 13 id., Abbozzo di una critica dell’economia politica, in «Annali Franco-tedeschi di Arnold Ruge e Karl Marx», p. 164. Cfr. so­ pra, cap. in, § 1. 16 Oltre allo scritto di Wade (cfr. sotto, nota 17) Engels doveva certamente conoscere i Nouveaux principes di Sismondi, anche se quest’opera non è mai citata negli scritti del periodo 1842-45. Alla data di stesura della Situazione della classe operaia in Inghil­ terra (dalla metà di novembre 1844 alla metà di marzo 1845) egli non conosceva ancora la History of Prices di Tooke, che leggerà più tardi. Le osservazioni contenute in un quaderno di estratti, che risale all’estate del 1845, riguardano in particolare le consi­ derazioni di Tooke sulle crisi (cfr. f. engels, Exzerpthefte. Som­ mer 1845, in MEGA, 1-4, pp. 505-6). A differenza di Wade, Tooke accennava a una periodicità decennale delle crisi, che ven­ ne più tardi accettata da Marx e da Engels. Cfr. la Prefazione del 1892 alla Situazione (pp. 20-21). 17 Cfr. j. wade, History of the Middle and Working Classes; with a pupular exposition of the economical and political principles which have influenced the past and present condition of the in­ dustrious orders, London 1833, pp. 211, 219, 254. 18 «Benché l’occupazione rurale non sia esente da fluttuazioni, essa vi è meno soggetta dell’industria commerciale e manifatturiera. Nella seconda i costi sono maggiori che nella prima ed essa è su­ scettibile di uno sviluppo o di una contrazione improvvisi. Una fortunata scoperta di meccanica può quadruplicare all’istante la forza produttiva delle macchine; oppure un manifattore, se lo ritiene opportuno a causa di un ristagno degli affari, può all’i­ stante licenziare i suoi operai e fermare il lavoro dei suoi stabi­ limenti e delle sue fabbriche. Un fittavolo non ha un uguale po­ tere in agricoltura. Nuove terre non possono essere improvvisa­ mente bonificate né abbandonate; né il capitale speso nel miglio­ rare la coltivazione di vecchie terre può essere ritirato veloce­

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mente. Di conseguenza, la domanda di lavoro aumenta o dimi­ nuisce con maggiore gradualità nell’agricoltura che nelle mani­ fatture. Oltre a ciò, i prodotti della prima appartengono princi­ palmente alla classe delle cose necessarie, mentre quelli della se­ conda fanno parte degli oggetti di lusso, del cui consumo si può fare a meno oppure esso varia con la mutevole situazione dell’ac­ quirente o con le fluttuazioni del gusto o della moda» (ibid., p. 253)19 La serie delle crisi è: 1763,1772, 1793,1811,1816, 1818, 18251826. Al tempo in cui Wade scriveva la sua storia delle classi me­ die e lavoratrici, non si era ancora spento il ricordo della grande crisi del dicembre 1825, a cui egli riserva una particolare atten­ zione. D’altronde, il boom che culminò nella crisi del ’25 fu se­ guito da una serie di fluttuazioni in cui periodi relativamente prosperi (1828 e prima metà del 1831) si alternarono con perio­ di meno favorevoli. Il 1833, data di pubblicazione del lavoro di Wade, fu un anno particolarmente fiacco. Cfr. r. c. 0. matthews, A Study in Trade-Cycle History. Economie Fluctuations in Great Britain 1833-1842, Cambridge 1954. Wade osserva che le banche e l’introduzione della carta moneta non fanno parte delle cause generali delle crisi, ma costituiscono fattori esterni che possono rendere più acute le crisi, alternandole in periodi più brevi. Alle cause generali si accompagnano poi certe cause minori, quali le particolari condizioni in cui si effettua il commercio estero, i cambiamenti di moda e di luogo e i perfezionamenti del macchi­ nario. Cfr. j. wade, History of the Middle and Working Classes, PP- 254-5520 Le crisi «possono essere paragonate alla peste che nel passato af­ fliggeva la terra e che ritorna con altrettanta regolarità periodica. Come i progressi della medicina e i mezzi per preservare la salute pubblica ci hanno insegnato ad allontanare o a mitigare la secon­ da, cosi possiamo sperare che una più profonda conoscenza dei principi del commercio ci insegnerà un’analoga capacità di pre­ venzione rispetto alla prima» (ibid., p. 255). 21 Cfr. f. engels, Abbozzo di una critica dell’economia politica, p. 164. 22 id., La situazione della classe operaia in Inghilterra, p. 108. 23 La tesi è di Adam Smith e Malthus, sviluppandola, ha ragione nel sostenere che c’è sempre popolazione superflua, anche se ha torto quando spiega l’eccedenza con la scarsità dei mezzi di sus­ sistenza esistenti. «La popolazione superflua è prodotta unica­ mente dalla concorrenza dei lavoratori tra loro, che costringe ogni singolo lavoratore a lavorare quotidianamente fino al limite delle proprie forze» (ibid., p. 106). 24 Ibid., p. 108. 25 Ibid., p. 109. 26 Ibid. 27 Ibid., p. 107.

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28 Ibid., pp. no sgg. 29 Dolléans ha sostenuto che la teoria dell’esercito industriale di ri­ serva sarebbe stata elaborata da Marx direttamente sulla base di fonti cartiste e la tesi è stata ripresa da altri. Cfr. E. dolléans, Le chartisme (1831-1848), 2a ed. Paris 1949, p. 28; j. h. clapham, An Economie History of Modem Britain. The Early Rail­ way Age (1820-1830), Cambridge 1926, p. 557. Questa tesi non tiene conto né del contributo di Engels, né del fatto che la dot­ trina del «body of reserve» si trova già in Wade (History of the Middle and Working Classes, pp. 224-25) dove il termine sta a indicare una massa di lavoratori sottooccupati a cui i padroni at­ tingono per ridurre il prezzo del lavoro allorché sorgano dispute salariali con i «loro uomini». 30 Cfr. The Factory System, «The Northern Star», 23 giugno 1838, cit. in e. dolléans, Le chartisme, p. 28. 31 f. engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, p. 107. 32 Ibid., pp. 308-9. In Engels manca una teoria del crollo; viceversa c’è una teoria dello sviluppo del movimento rivoluzionario in condizioni create dalle crisi. 33 Ibid., p. 108. 34 Ibid., p. 32. 35 Ibid., p. 33. 36 « Di rado sapevano leggere, e ancor meno scrivere, andavano re­ golarmente in chiesa, non facevano politica, non partecipavano a cospirazioni, non pensavano... erano in ottimi rapporti con le classi piu elevate della società. In cambio di tutto questo, però, erano intellettualmente morti, vivevano soltanto per i loro me­ schini interessi privati, per il loro telaio e il loro orticello, e non sapevano nulla del grandioso movimento che fuori pervadeva l’umanità » (ibid. ). 37 Ibid. 38 Cfr. ibid., pp. 33-36. 39 Ibid., p. 32. 40 Ibid., p. 31. 41 Ibid., p. 45. 42 Ibid., p. 31. 43 Ibid., p. 45. 44 Ibid., p. 147. 45 Ibid., p. 49. 46 Cfr. ibid., pp. 49-50. 47 « La decomposizione dell’umanità in monadi, ciascuna delle qua­ li ha un principio di vita particolare e uno scopo particolare, il mondo degli atomi, sono stati portati qui alle loro estreme con­ seguenze» (ibid., p. 52).

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48 «... soltanto l’industria ha reso possibile che il lavoratore, solo da poco liberato dalla servitù della gleba, potesse nuovamente essere adoperato come puro e semplice materiale, come cosa» {ibid., p. 80). 49 Ibid., p. 291. 50 Cfr. ibid., p. 105. 51 Ibid., pp. 53-54. 52 Ibid., pp. 107-8. 53 Ibid., p. 12. 54 «La concentrazione della popolazione, se da un lato è un elemen­ to di stimolo e di sviluppo per le classi possidenti, dall’altro ren­ de ancora più rapido lo sviluppo degli operai. Questi cominciano a sentirsi una classe nella loro totalità, scoprono che, pur essendo deboli quando sono isolati, uniti costituiscono una forza; il ter­ reno è favorevole per il loro distacco dalla borghesia, per la for­ mazione di idee peculiari agli operai e corrispondenti alla loro posizione nella vita, si rendono conto di essere degli oppressi ed acquistano importanza politica e sociale. Le grandi città sono la culla del movimento operaio, in esse per la prima volta gli operai hanno incominciato a riflettere sulle loro condizioni ed a combatterle, in esse per la prima volta si è manifestato il contra­ sto tra proletariato e borghesia, da esse sono uscite le associazio­ ni operaie, il cartismo e il socialismo. Le grandi città hanno resa acuta la malattia dell’organismo sociale» {ibid., p. 146). Lo stu­ dio del fenomeno della concentrazione urbana nelle grandi città industriali non era nuovo; si può dire anzi che esso ha interes­ sato fin dall’inizio coloro che si sono occupati delle condizioni di vita delle classi industriali. Gli studi di Archibald Alison {The principles of population, and their connection with human hap­ piness, Edinburgh 1840), di Robert Vaughan {^The age of great Cities: or, Modern Civilization viewed in its relation to Intelli­ gence, Morals, and Religion, London 1842) e di Gaskell avevano individuato nella concentrazione della popolazione la causa fon­ damentale della disorganizzazione e dell’allentamento dei vin­ coli sociali, soprattutto nelle classi lavoratrici. Per Engels, al con­ trario, è vero che la concentrazione della popolazione e « il con­ tagio che emana dal cattivo esempio » (Alison) sono fattori che concorrono a diffondere il vizio e la depravazione, ma in realtà le grandi città non fanno che sviluppare maggiormente una si­ tuazione sociale già esistente. In realtà, quegli studi, secondo Engels, attribuiscono a una causa naturale, quale la formazione di grossi centri urbani, ciò che va attribuito a una serie di cause sociali, quali la miseria, l’insicurezza della posizione, l’eccesso di lavoro, il lavoro forzato. 55 F. engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, pp. 245-46. 56 Cfr. ibid., pp. 252-53.

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57 Ibid., p. 253. 58 Ripercorrendo la sua carriera intellettuale, Engels cosi scriveva alcuni decenni piu tardi, non senza un giustificato tono di com­ piacimento: «A Manchester avevo toccato con mano che i fatti economici i quali nella storiografia sinora non hanno alcuna par­ te oppure solo una parte disprezzata, sono, per lo meno nel mon­ do moderno, una potenza storica decisiva; che essi costituiscono la base per l’origine degli odierni contrasti di classe; che questi contrasti di classe a loro volta, là dove, grazie alla grande indu­ stria, si sono pienamente sviluppati, specialmente in Inghilterra dunque, costituiscono la base della formazione dei partiti poli­ tici, delle lotte fr-a i partiti e quindi di tutta la storia politica» (f. engels, Per la storia della Lega dei comunisti, in k. marx e f. engels, Manifesto del partito comunista, a cura di E. Canti­ mori Mezzomonti, Torino 1967, pp. 256-57). 59 Le letture marxiane del periodo 1845-46 sono documentate in una serie di dodici quaderni di estratti in gran parte ancora ine­ diti. In MEGA, 1-6, esiste la descrizione completa di questi qua­ derni (pp. 597-99) e di alcuni testi vengono riportati Ì passi estratti e le annotazioni di Marx (pp. 600-18). Di queste opere, sovente lette in traduzione francese, ci interessano soprattutto le seguenti: j. aikin, A Description of the Country from thirty to forty Miles round Manchester, London 1795; c. babbage, On the Economy of Machinery and Manufactures, London 1832 (trad, franc. London 1833); e. buret, De la misere des classes laborieuses en Angleterre et en France, Paris 1840 (rist. Bruxel­ les 1843); F. M. eden, The State of the Poor: or, an History of the labouring classes in England from the conquest to the pre­ sent period, London 1797; J. w. gilbart, The History and Prin­ ciples of Banking, London 1834; f. quesnay, Le droit naturel, in Physiocrates, a cura di E. Daire, Paris 1846; t. tooke, A History of Prices, and of the state of the circulation from 1793 to 1837, London 1838; a. ure, The Philosophy of Manufactures, London 1835 (trad, franc. Bruxelles 1836); j. wade, History of the Mid­ dle and Working Classes, London 1833. Nella Miseria della filo­ sofia — scritta tra il dicembre 1846 e il giugno 1847, ma intera­ mente basata sulle letture compiute negli anni 1844-46 - vengo­ no citati: A. Anderson, An Historical and Chronological Deduc­ tion of the Origin of Commerce from the earliest Accounts to the Present Time, London, 1764 (cit. come Histoire du commer­ ce); a. ferguson, An Essay on the History of Civil Society, Lon­ don 1767 (trad, franc. Paris 1783); j. steuart, An Inquiry into the Principles of Political Oeconomy, London 1767 (trad, franc. Paris 1789). A Ferguson Marx farà sovente riferimento sia nella Miseria della filosofia sia nel primo libro del Capitale; di Steuart dirà che «in genere si contraddistingue per l’occhio aperto alle differenze sociali caratteristiche fra differenti modi di produzio­ ne» (k. marx, Il capitale, libro I, p. 374).

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60 E, baines, History of the Cotton Manufacture in Great Britain, Prefazione, p. 5. 61 K. marx e F. engels, L’ideologia tedesca, trad. it. Roma 1967, p. 19. 62 F. quesnay, Le droit naturel (1765), in id, (Euvres économiques et philosophiques, a cura di A. Oncken, ristampa anastatica Aalen 1965, p. 376. 63 « Gli uomini si sono riuniti sotto differenti forme di società se­ condo che vi sono stati determinati dalle condizioni necessarie al­ la loro sussistenza, come la caccia, la pesca, la pastorizia, l’agri­ coltura, il commercio, il brigantaggio; di qui si sono formate le nazioni selvagge, le nazioni di pescatori, le nazioni di pastori, le nazioni agricole, le nazioni commercianti... » (f. quesnay, Despotisme de la Chine (1767), in CEuvres économiques et philosophi­ ques, pp. 646-47). Cfr. anche alcuni passi della Philosophic Ru­ rale (1763) in cui Quesnay sviluppa più estesamente il rapporto tra « i mezzi di sussistenza » e « tutti i rami dell’ordine politico » (r. l. meek, The Economics of Physiocracy. Essays and Transla­ tions, London 1962, pp. 57-64). Per Quesnay, ovviamente, esiste un unico modo «naturale» di procurarsi i mezzi di sussistenza, cioè quello che deriva dal libero svolgimento delle leggi che reg­ gono «l’ordine della riproduzione e la regolare circolazione an­ nuale della ricchezza di un paese»; da quest’ordine dipende poi «il migliore governo possibile» (f. quesnay, Le droit naturel, pp. 376-77). In questo senso Quesnay e gli altri storici ed eco­ nomisti sono «imprigionati nell’ideologia politica». Cfr. le anno­ tazioni di Marx su Quesnay (datate Bruxelles, dopo l’agosto 1845 -1846) in MEGA, 1-6, p. 613. 64 k. marx e f. engels, L’ideologia tedesca, p. 8. 65 Ibid., p. 9. 66 Ibid. 67 Ibid. «La posizione reciproca di queste singole suddivisioni è condizionata dai metodi impiegati nel lavoro agricolo, industria­ le e commerciale» (ibid.) 68 Ibid., p. 65; cfr. anche p. 14. * Ibid.,?. 9. 70 Ibid., p. 12; cfr. anche p. 14. 71 Ibid., p. 14. 72 Ibid., p. 20. 13 Ibid.,?. 23. 74 Ibid., p. 14. 75 Ibid., pp. 16-17. 76 Ibid., p. 20. 77 Ibid., p. 14. 78 Ibid.,?. 16.

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79 Ibid., p. 30. 80 Cfr. ibid., p. 32. 81 K. marx, Miseria della filosofia. Risposta alla Filosofia della Mi­ seria del signor Proudhon, trad. it. Roma 1969, p. 135. 82 Wilhelm Schulz (poi Schulz-Bodmer) (1797-1860) era un giorna­ lista tedesco che partecipò alla rivoluzione del 1848. Fu eletto deputato nella sinistra dell’Assemblea nazionale di Francoforte e insegnò come libero docente a Zurigo. È autore, oltre che di un saggio sulle trasformazioni nell’organizzazione del lavoro e sulle loro influenze sociali (Die Veranderungen im Qrganismus der Arbeit und ihr Einfluss auf die sozialen Zustande. Organismus der Arbeit zum Zweck der materiellen Produktion, in «Deutsche Vierteljahrsschrift », 1840), del volume Die Bewegung der Pro­ duktion. Eine geschichtlich-statistische Abhandlung zur Grundlegung einer neuen Wissenschaft des Staats und der Gesellschaft, Zurich-Winterthur 1843. Sebbene Marx utilizzi questo secondo scritto già nel 1844 a proposito degli effetti delle macchine sul lavoro e nella società, la sua tesi centrale non viene ancora accol­ ta. Comunque, dopo il ’44 Schulz non viene piu nominato fino al Capitale, dove il Bewegung der Produktion è citato a proposi­ to della distinzione tra lo strumento e la macchina ed è definito « opera lodevole sotto parecchi aspetti » (libro I, p. 414, nota 88). 83 w. schulz, Die Bewegung der Produktion, p. 8. 84 Per Schulz la legge di movimento è «la legge secondo la quale si misurano i mutamenti della produzione materiale». Essa «è no­ ta, a partire da A. Smith, con il nome di divisione del lavoro. Tut­ tavia si dovrebbe parlare piu propriamente di una struttura, che non soltanto di una divisione, perché ogni nuovo spiegamento delle attività produttive genera nuove relazioni, cosicché in con­ siderazione di queste condizioni nasce l’idea di un vivente orga­ nismo della produzione che progredisce» (ibid., p. 9). 85 K. marx e f. engels, L’ideologia tedesca, p. 22. «La schiavitù nella famiglia, che certamente è ancora molto rudimentale e allo stato latente, è la prima proprietà, che del resto in questa fase corrisponde già perfettamente alla definizione degli economisti moderni, secondo cui essa consiste nel disporre di forza-lavoro altrui » (ibid., pp. 22-23). 86 Ibid., p. io. 87 Ibid.,p. 11. 88 « Questa organizzazione feudale era un’associazione opposta alle classi produttrici, precisamente come la proprietà della comuni­ tà antica; solo che la forma dell’associazione e il rapporto con i produttori diretti erano diversi, perché esistevano condizioni di produzione diverse» (ibid.). 89 Ibid., p. 41. «L’antagonismo fra città e campagna può esistere solo nell’ambito della proprietà privata. Esso è la piu crassa espressione della sussunzione dell’individuo sotto la divisione

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del lavoro, sotto una determinata attività che gli viene imposta; sussunzione che fa dell’uno il limitato animale cittadino, dell’al­ tro il limitato animale campagnolo, e che rinnova quotidianamen­ te l’antagonismo fra i loro interessi » (ibid.). 90 Ibid., p. 40. 91 Ibid. 92 Nelle città medievali «il capitale era un capitale naturale, che consisteva nell’abitazione, negli strumenti del mestiere e nella clientela naturale, ereditaria, e non essendo realizzabile, per le relazioni non ancora sviluppate e per la mancanza di circolazio­ ne, doveva essere trasmesso di padre in figlio. Questo capitale non era valutabile in denaro, come quello moderno, per il quale è indifferente l’essere investito in questa o in quella cosa; esso era invece direttamente legato al lavoro determinato del posses­ sore, inseparabile da esso, e quindi era un capitale connesso con un ordine sociale» (ibid., pp. 42-43). 93 Ibid., p. 29. 94 Ibid., p. 30. 95 « In ogni singolo caso l’osservazione empirica deve mostrare em­ piricamente e senza alcuna mistificazione e speculazione il lega­ me tra l’organizzazione sociale e politica e la produzione (ibid., p. 12). 96 «... questi tre momenti, la forza produttiva, la situazione sociale e la coscienza, possono e debbono entrare in contraddizione fra loro, perché con la divisione del lavoro si dà la possibilità, anzi la realtà, che l’attività spirituale e l’attività materiale, il godimen­ to e il lavoro, la produzione e il consumo tocchino a individui diversi, e la possibilità che essi non entrino in contraddizione sta solo nel tornare ad abolire la divisione del lavoro» (ibid., p. 22). La connessione tra la divisione del lavoro mentale e manuale, la proprietà e il conflitto sociale era già stata stabilita da Schulz in modo molto chiaro. Con la nascita della proprietà privata e con la concentrazione dei capitali, «i singoli raggiungono la sicurez­ za economica e vengono esentati dalla esclusiva preoccupazione per il soddisfacimento dei bisogni corporali. Essi giungono dun­ que a una situazione in cui possono dedicarsi di preferenza al la­ voro spirituale; e di conseguenza sorge in modo netto il grande contrasto che presiede a tutto l’operare umano, il contrasto tra una produzione prevalentemente materiale e una produzione prevalentemente spirituale» (w. schulz, Die Bewegung der Produktion, p. 15). 97 K. marx e F. engels, L’ideologia tedesca, p. 23. 98 «La divisione del lavoro, che implica tutte queste contraddizio­ ni... implica in pari tempo anche la ripartizione, e precisamente la ripartizione ineguale, sia per quantità che per qualità, del la­ voro e dei suoi prodotti, e quindi la proprietà» (ibid., p. 22). 99 Ibid.,p. 24.

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100 Ibid., p. 59. 101 Sul concetto di «appropriazione» cfr. ibid., pp. 64-65. 102 In un discorso tenuto a un’assemblea internazionale organizzata dai Franternal Democrats nel novembre 1847, Marx dichiarava che i cartisti erano « i veri democratici » e che con la loro vittoria si sarebbe aperta per il mondo intero la strada della libertà (ME­ GA, i-6, p. 628). Engels vedeva ne «La Réforme» il difensore dell’idea di un fronte democratico che accoglieva anche i comu­ nisti in una lotta comune per la democrazia. Cfr. E. molnar, La politique d’alliances du marxisme (1848-1889), Budapest 1967, p. io. In un indirizzo dell’Associazione democratica di Bruxelles al popolo svizzero, firmato tra gli altri anche da Marx, il governo democratico elvetico veniva definito come il « modello » che l’Eu­ ropa doveva imitare (MEGA, 1-6, p. 633). Cfr. w. haenisch, Karl Marx and the Democratic Association of 1847, «Science and Society», n, 1937, pp. 83-102. 103 f. engels, The Prussian Constitution, «The Northern Star», 6 marzo 1847, in MEGA, 1-6, pp. 257-58. 104 K. marx, Die moralisierende Kritik und die kritisierende Mo­ ral... Gegen Cari Heinzen, «Deutsche Brùsseler Zeitung», 18 no­ vembre 1847, in MEGA, 1-6, pp. 319-20. «Il popolo, ovvero, sostituendo a questo termine generico \weitschichtigen\ e oscil­ lante un termine preciso, il proletariato... domanda se l’attuale situazione politica, il dominio della burocrazia, oppure quella auspicata dai liberali, il dominio della borghesia, gli offrirà piu mezzi per raggiungere i propri fini. Per questo gli basta soltanto confrontare la posizione politica del proletariato in Inghilterra, Francia e America con quello in Germania, per vedere che il do­ minio della borghesia non soltanto dà in mano al proletariato ar­ mi completamente nuove per lottare contro la borghesia, ma gli procura anche una situazione completamente diversa, una situa­ zione di partito riconosciuto» CDer Kommunismus des Rheiniscben Beobachters, «Deutsche Briisseler Zeitung», 12 settembre 1847, in MEGA, 1-6, p. 271). 105 Cfr. B. NIKOLAEVSKIJ e o. maenchen-helfen, Karl Marx: eine Biographic, trad. it. Torino 1969, cap. io. Il testo della circolare contro Kriege è pubblicato in MEGA, 1-6, pp. 3-21. 106 k. marx e f. engels, L’ideologia tedesca, p. 42. 107 Ibid., p. 43. 108 Questa pagina di Marx riecheggia in modo piuttosto generico un’analisi di Schulz molto piu precisa ed efficace della « struttu­ ra» del lavoro artigiano e delle corrispondenti istituzioni sociali. Definito il « lavoro artigiano » mediante il concetto di « strumen­ to», Schulz cosi prosegue: «Una tale attività artigiana nell’eser­ cizio di determinati strumenti impegna e sviluppa il corpo sol­ tanto in determinate direzioni. A confronto dei popoli selvaggi, lo sviluppo fisico dei nostri contadini e artigiani è perciò unila-

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terale, benché sia più completo in una particolare direzione. Da questo punto di vista, l’attività dell’artigiano è ancora di questo tipo, che lo stesso lavoratore conferisce, attraverso una serie di funzioni differenti) la perfezione necessaria all’uso. Dunque, dap­ prima esiste soltanto una struttura delle attività produttive se­ condo le gradazioni più grossolane) senza che il lavoro sia ancora diviso e distribuito nei suoi singoli elementi. Queste differenti funzioni, da cui ha origine l’attività artigiana, si ripetono via via e attraverso l’abitudine e l’esercizio si trasformano in un’abilità più precisa. Come dunque gli operai e gli artigiani appartenenti a differenti arti in ragione delle loro funzioni e dei loro interessi simili, si dividono in particolari ceti o classi, in confraternite e corporazioni, così si forma contemporaneamente nel senso di queste suddivisioni una tradizione consolidata di usi e diritti, di abilità e destrezze artigiane. Attraverso questa tradizione, anche il mestiere si trasmette facilmente da una generazione all’altra, cosicché si origina una ereditarietà dei mestieri, talvolta soltanto come regola di fatto che comporta eccezioni, talaltra secondo leg­ gi e da ciò deriva una divisione della società civile in un vero e proprio sistema di caste. Tutte le particolari caste, ceti, confra­ ternite o corporazioni, hanno ora una loro storia particolare, in cui esse sviluppano uno spirito e un orgoglio di casta, che tutta­ via nello stesso tempo danno origine e sviluppano certe unilate­ ralità e certi interessi » (w. schulz, Die Bewegung der Produk­ tion, p. 14). 109 Cfr. k. marx e f. engels, L'ideologia tedesca, pp. 43-44. 110 J^.,p.46. 111 Ibid.) p. 63. 112 F. Engels, corrispondenza pubblicata su «La Réforme», 26 ot­ tobre 1847, in MEGA) 1-6, p. 328. Per la crisi economica in Ger­ mania e per i suoi riflessi sul movimento rivoluzionario della borghesia tedesca, cfr. f. engels, The Prussian Constitution) «The Northern Star», 6 marzo 1847, in MEGA, 1-6, pp. 255-57. 113 Su Mill cfr. MEGA) 1-6, pp. 609-10; su Tooke e Engels, ibid.) p. 616; su Wade, ibid., p. 618. Il quaderno di estratti in questio­ ne è datato 1845 (dopo l’agosto) -1846. 114 k. marx, Arbeitslohn, in Werke, vol. VI, p. 549. Questo mano­ scritto risale al dicembre 1847. 115 Ibid. 116 Questa frase manca in Werket vol. VI, p. 550; cfr. MEGA, 1-6, p. 466. 117 Werke, vol. VI, p. 550. 118 Cfr. ibid. Strati crescenti della classe borghese, le cui piccole im­ prese industriali e commerciali non possono far fronte al tipo di concorrenza imposto dalla concentrazione dei capitali in grandi imprese e alla conseguente caduta dell’interesse del denaro, ven­ gono poi a ingrossare le file già sovraffoliate del proletariato.

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119 Ibid,, p. 551. 120 «La grande industria ha bisogno costantemente di un esercito di riserva di operai disoccupati per i periodi di sovrapproduzio­ ne. Lo scopo principale del borghese di fronte all’operaio è in genere quello di ottenere la merce-lavoro il più a buon mercato possibile; e ciò a condizione che l’offerta di questa merce sia la più grande possibile in proporzione alla domanda, cioè che ci sia un massimo di sovrappopolazione» {ibid., p. 552). 121 j. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, vol. II, p. 920. 122 Per la sequenza delle fasi del ciclo economico, cfr. k. marx, Discours sur la question du libre échange, in MEGA, 1-6, p. 445. Il discorso fu tenuto il 9 gennaio 1848 all’Associazione democra­ tica di Bruxelles e pubblicato in volume nello stesso anno. 123 k. marx e f. engels, Manijesto del partito comunista, pp. 107 e 108. «Esse diventano più frequenti e più forti per il solo fatto che, nella misura in cui la massa della produzione, cioè il bisogno di estesi mercati, diventa più grande, il mercato mondiale sem­ pre più si contrae, i nuovi mercati da sfruttare si fanno sempre più rari, poiché ogni crisi precedente ha già conquistato al com­ mercio mondiale un mercato fino ad allora non conquistato o sfruttato dal commercio soltanto in modo superficiale» (k. marx, Lavoro salariato e capitale [1849], trad. it. Roma i960, p. 75). 124 Cfr. k. marx e f. engels, L’ideologia tedesca, p. 52; k. marx, Die moralisierende Kritik und die kritisierende Moral,,, Gegen Cari Heinzen, p. 314. 125 k. marx e f. engels, L’ideologia tedesca, p. 67. 126 k. marx, Die moralisierende Kritik und die kritisierende Moral... Gegen Cari Heinzen, p. 314. 127 Ibid., p. 319. 128 Ibid. 129 k. marx e F. engels, Manifesto del partito comunista, p. 244. «C’è un’altra circostanza da sottolineare. La conquista del po­ tere pubblico da parte delle classi medie della Prussia cambierà la posizione politica di tutti i paesi europei. L’alleanza del Nord verrà dissolta. L’Austria e la Russia, le maggiori saccheggiatrici della Polonia, verranno completamente isolate dal resto dell’Eu­ ropa, poiché la Prussia trascina con sé gli stati minori della Ger­ mania, che hanno tutti governi costituzionali. Quindi 1’equilibrio di potere in Europa verrà completamente cambiato dalle conse­ guenze di questa insignificante costituzione: la defezione di tre quarti della Germania dal campo dell’Europa orientale conserva­ trice in quello dell’Europa occidentale progressista» (f. engels, Lhe Prussian Constitution, p. 258). 130 Come «la grande industria non giunge allo stesso grado di per­ fezionamento in ogni località di un paese », cosi essa non si svi­ luppa in modo uniforme nei diversi paesi (k. marx e f. engels, L’ideologia tedesca, p. 51).

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131 Ibid., p. 52. 132 Le rivendicazioni prevedevano, oltre alla trasformazione della Germania in repubblica, una serie di misure sia di natura demo­ cratica e borghese, come il suffragio universale e la soppressione dei gravami feudali; sia di natura comunistica, come la naziona­ lizzazione della proprietà feudale, delle banche e dei mezzi di trasporto. Cfr. Rivendicazioni del partito comunista in Germa­ nia, in k. marx e f. engels, Manifesto del partito comunista, pp. 270-71. 133 Sulla strada per Colonia, Marx si era fermato a Magonza per di­ scutere le questioni organizzative relative a tali associazioni e aveva collaborato alla stesura di un appello rivolto «a tutti gli operai tedeschi» in vista della formazione di associazioni ope­ raie. Cfr. B. Nikolaevskij e o. maenchen-helfen, Karl Marx, p. 182. Sulle associazioni operaie in Germania, cfr. j. droz, Les revolutions allemandes de 1848, Paris 1957, pp. 514-27. 134 Su questo punto Marx condusse subito una polemica con A. Gottschalk, che alimentava una propaganda antiborghese nell’Associazione operaia di Colonia, a cui intendeva conservare un carattere esclusivamente proletario. Cfr. b. Nikolaevskij e 0. maenchen-helfen, Karl Marx, pp. 184-87. 135 Engels a Marx a Colonia, Barmen, 25 aprile 1848, in Carteggio Marx-Engels, I (1844-51), p. 120. 136 « Se venisse diffusa qui una sola copia dei nostri diciassette pun­ ti tutto sarebbe perduto per noi. Lo stato d’animo dei borghesi è davvero abominevole. Gli operai cominciano a muoversi al­ quanto, ancora in modo molto rozzo, ma in massa. Hanno subi­ to fatto delle coalizioni. Ma proprio questo è d’ostacolo per noi. Il Club politico di Elberfeld emana proclami agli italiani, si pro­ nuncia per il suffragio diretto, ma respinge decisamente ogni di­ battito sulle questioni sociali, sebbene i signori confessino a quattr’occhi che queste questioni verrebbero ora all’ordine del giorno, e facciano intanto notare che noi non dovremmo in ciò anticipare i tempi! » (ibid., p. 121). Cfr. anche la lettera di En­ gels datata 9 maggio (ibid., p. 122). 137 Conformemente a questo cambiamento di linea, verso la metà di aprile Marx partecipa alla fondazione dell’Associazione demo­ cratica di Colonia e nel mese successivo scioglie la Lega dei co­ munisti. Il i° giugno usciva il primo numero della «Neue Rheinische Zeitung», che recava come sottotitolo «Organ der Demokratie». Oltre a Marx ed Engels, la redazione comprendeva membri della Lega dei comunisti, mentre i democratici erano rap­ presentati dal solo Biirgers. Marx partecipa anche alla creazione di un Comitato regionale che riuniva le tre principali associazio­ ni renane, quella democratica diretta da Marx e Schneider, l’Associazione degli operai e degli imprenditori diretta da Becker e l’Arbeiterverein di Colonia. Sull’attività politica di Marx nel 1848-49, cfr. A. cornu, Karl

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CAPITOLO QUARTO

Marx et la revolution de 1848, Paris 1948; j. droz, Les revolu­ tions allemandes de 1848, pp. 527-45 ; h. meyer, Karl Marx und die deutsche Revolution von 1848, «Historische Zeitschrift », clxxii, 1951, pp. 517-34; E. molnar, La politique dalliances du marxisme, pp. 21-74. «La rivoluzione di marzo, il movimento rivoluzionario tedesco in generale, non si lasciano trasformare con qualche gioco di pre­ stigio in incidenti piu o meno importanti» - cosi il ministro Camphausen, presidente del consiglio prussiano, tendeva a li­ quidare le conquiste della rivoluzione (k. marx, Das Ministerium Camphausen, «NRhz», 4 giugno 1848, in Werke, vol. V, p. 32). «Un’assemblea nazionale costituente deve essere, prima di tutto, un’assemblea attiva, attiva in senso rivoluzionario. L’Assemblea di Francoforte fa degli esercizi scolastici parlamen­ tari e lascia agire i governi. Ammettiamo che questo dotto con­ cilio riesca, dopo assai matura riflessione, a escogitare il miglior ordine del giorno e la migliore Costituzione: a che pro il mi­ glior ordine del giorno e la migliore Costituzione, se nel frat­ tempo i governi hanno messo le baionette all’ordine del gior­ no?» {Programme der radikal-demokratischen Partei und der Linken zu Frankfurt, «NRhz», 7 giugno 1848, in Werke, vol. V, p. 40). K. marx, Der Gesetzentwurf uber die Aufhebung der Feudallasten, «NRhz», 30 luglio 1848, in Werke, vol. V, p. 282. «La rivoluzione nelle campagne consisteva nell’eliminazione effetti­ va di tutti i gravami feudali. Il ministero d’azione, che riconosce la rivoluzione, la riconosce nelle campagne annientandola sotto­ mano», cioè ristabilendo «il principale gravame feudale che si riassume nella semplice parola corvées» {ibid., p. 279). Der Bùrgerwehrgesetzentwurf, «NRhz», 22 luglio 1848, in Wer­ ke, vol. V, p. 249. k. marx, Die Junirevolution, «NRhz», 29 giugno 1848, in Wer­ ke, vol. V, p. 133. «La fraternité, la fratellanza delle classi opposte, di cui l’una sfrutta l’altra, questa fraternité proclamata in febbraio... - la sua espressione vera, autentica, prosaica, è la guerra civile, la guer­ ra civile nella sua forma più tremenda, la guerra del lavoro e del capitale» {ibid., p. 134). Ibid. « L’abisso profondo che si è aperto sotto di noi può sviare i de­ mocratici, può farci credere che le lotte per la forma dello stato sono vuote, illusorie, prive di valore? Soltanto animi deboli e codardi possono sollevare questo pro­ blema. I conflitti, che nascono dalle condizioni della società ci­ vile stessa, devono essere condotti fino in fondo; non possono essere eliminati nell’immaginazione. La migliore forma di stato è quella in cui le contraddizioni sociali non sono cancellate, non sono frenate con la forza, cioè artificiosamente e dunque soltan-

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to in apparenza. La migliore forma di governo è quella in cui queste contraddizioni entrano in lotta aperta e trovano cosi la loro soluzione» (ibid., p. 136). 145 Die auswàrtige deutsche Politik und die letzten Ereignisse zu Prag, «NRhz», 12 luglio 1848, in Werke, vol. V, p. 202. 146 f. engels, Die Polendebatte in Frankfurt, «NRhz», 20 agosto 1848, in Werke, vol. V, p. 333. 147 Ibid., 9 agosto 1848, in Werke, vol. V, p. 319. 148 Ibid., 20 agosto 1848, in Werke, vol. V, p. 332. 149 Cfr. b. Nikolaevskij e o. maenchen-helfen, Karl Marx, p. 200; M. rubel, Chronologie, in k. marx, CEuvres, a cura di M. Ru­ bel, vol. I, Paris 1963, p. Lxxiii. 150 Cfr. k. marx, Die Bourgeoisie und die Kontrer evolution, « NRhz », io, 15,16 e 31 dicembre 1848, in Werke, vol. VI, pp. 102-24. 151 Ibid., p. 104. 152 Cfr. ibid., p. 105. 153 Cfr. ibid., p. 106. 154 Ibid., pp. 108-9. 155 « In entrambe le rivoluzioni la borghesia era la classe che si tro­ vava realmente alla testa del movimento. Il proletariato e le frazioni borghesi non appartenenti alla bourgeoisie o non ave­ vano ancora interessi disgiunti dalla borghesia oppure non for­ mavano ancora classi o divisioni di classe autonomamente svi­ luppate. Perciò, dove essi si contrapponevano alla borghesia, co­ me per esempio in Francia dal 1793 al 1794, lottavano soltanto per far valere gli interessi della borghesia sebbene non nel mo­ do della borghesia. Putto il terrorismo francese non fu altro che una maniera plebea per sbrigarsela con i nemici della borghe­ sia, con l’assolutismo, il feudalesimo e la Spiessburgertum» (ibid., p. 107). 156 Ibid., p. 108. 157 «La storia della borghesia prussiana, come in genere la storia della borghesia tedesca da marzo a dicembre, dimostra che in Germania una vera rivoluzione borghese e l’instaurazione del potere borghese nella forma della monarchia costituzionale sono impossibili e che è possibile soltanto la controrivoluzione asso­ lutistica e feudale oppure la rivoluzione sociale e repubblicana» (ibid., p. 124). 158 k. marx, Die revolutionare Bewegung, «NRhz», i° gennaio 1849, in Werke, vol. VI, pp. 149-^0. 159 L’estrema sinistra sosteneva che i lavoratori dovevano presen­ tarsi alle elezioni con liste proprie; prevalse la linea di Marx che era dell’opinione che le candidature operaie erano premature e che per il momento conveniva appoggiare i democratici.

Capitolo quinto

i. Verso il « Capitale ». La storia dello sviluppo economico e sociale esposta nell’ideologia tedesca e ripresa nel Manifesto era impo­ stata su un modello sufficientemente articolato e flessibile da poter trovare una conferma nelle particolari condizioni storiche del 1848 europeo. Se da un lato le possibilità del­ la rivoluzione proletaria venivano ancorate teoricamen­ te alla previsione di uno sviluppo uniforme del capitali­ smo su scala mondiale, dall’altro lato Marx riconosceva che praticamente la rivoluzione si stava compiendo in condizioni di sviluppo diseguale dal punto di vista sia economico sia politico. Attorno alla connessione tra cri­ si cicliche e lotta politica, Marx aveva delineato una storia dell’industria intesa a illustrare le condizioni storiche più generali della possibilità e della legittimità di quella con­ nessione, e in tale contesto Marx collocava un altro rap­ porto importante, quello tra l’Inghilterra da un lato e la Francia e la Germania dall’altro lato. In altri termini, la visione internazionale della lotta di classe precisata nel corso degli anni 1845-47 serviva a superare i limiti nazio­ nali dei movimenti politici e nello stesso tempo consenti­ va di riconoscere le particolarità nazionali in termini di sviluppo economico. Ne risultava un quadro composito, ma costituito di elementi compatibili, perché nel modello di sviluppo desunto dalla storia economica inglese i singo­ li paesi europei venivano a disporsi come fasi più o meno arretrate rispetto al paese più avanzato. Restava quindi la possibilità di ricondurre le diseguali condizioni di svi­ luppo al modello generale impostato sulle condizioni del­ l’Inghilterra e del suo mercato mondiale. A questo scopo,

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per esempio, un’opportuna generalizzazione della teoria dell’esercito industriale di riserva consentiva di spiegare le condizioni di arretratezza della Germania senza che il quadro generale richiedesse modificazioni rilevanti. L’e­ sperienza del ’48, tuttavia, pur non inducendo revisioni sostanziali nell’impostazione generale, contribuì in buona misura a rendere più caute le previsioni e meno flessibile il modello, poiché le condizioni di sviluppo diseguale, in­ vece di essere considerate parti integranti del modello, servono piuttosto a indicare che esso non si è ancora pie­ namente realizzato \ Nelle vicende del 1848-49 Marx vedeva inoltre confer­ mata la validità della connessione tra i movimenti rivolu­ zionari e le crisi economiche. « La storia di ciò che siamo soliti chiamare lo “stato del mercato” - aveva scritto Jones Loyd nel lontano 1837 - è una lezione istruttiva. Troviamo che è soggetto a diverse condizioni che ritorna­ no periodicamente; esso ruota evidentemente in un ci­ clo determinato. Dapprima lo troviamo in uno stato di quiete; poi in uno stato di miglioramento, di crescente fi­ ducia, prosperità, eccitazione, eccessiva attività, agitazio­ ne, pressione, stagnazione, spossatezza; infine ancora in uno stato di quiete »2. Questa caratteristica della storia del mercato acquisita dagli economisti inglesi negli anni 1830-40 era stata utilizzata da Engels e da Marx per una critica delle tesi armonistiche di Say e Ricardo. Ma la « le­ zione istruttiva » che ne avevano ricavata era soprattutto la constatazione che i movimenti politici ricalcano a ri­ troso, per così dire, l’andamento ciclico del mercato. La prassi politica quotidiana nel corso degli anni 1846-49 si basava in larga misura sulla convinzione che qualsiasi movimento rivoluzionario doveva avere come presuppo­ sto immediato una crisi economica. Nella seconda metà del 1849 e ancora nell’anno successivo questa tesi viene riaffermata nelle sue implicazioni positive. Marx ed En­ gels, infatti, rimanevano convinti che esistessero ancora le condizioni di una « ripresa rivoluzionaria » a brevissi­ ma scadenza grazie al perdurare della crisi economica3. Ma anche questa connessione era destinata a subire una revisione, almeno nel senso che Marx ne sottolinea so­

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CAPITOLO QUINTO

prattutto le implicazioni negative. Col passare degli anni quella connessione, più che servire a prevedere una ri­ voluzione a breve scadenza, diventa un elemento partico­ lare di un quadro teorico generale in cui prevalgono le considerazioni su imo sviluppo a lunga scadenza del capi­ talismo; da strumento immediato di lotta politica essa ser­ ve piuttosto a spiegare i meccanismi di riadattamento del sistema4. Per meglio cogliere il significato delle riflessioni criti­ che di Marx all’indomani del fallimento delle rivoluzioni europee è opportuno tenere presente che esse non nasce­ vano semplicemente da un ripensamento retrospettivo. A partire dalle Lotte di classe in Francia fino al reingresso di Marx nella lotta politica nel 1864, tali riflessioni si si­ tuano in un preciso contesto storico. Dallo stadio di indu­ strializzazione dominato dalla produzione di beni di con­ sumo l’Inghilterra stava passando, intorno alla seconda metà del secolo, a una seconda fase che prendeva le mosse da una più rapida espansione delle industrie di beni capi­ tali. Nella produzione del carbone e del ferro vanno in­ fatti rintracciate le cause della « seconda rivoluzione in­ dustriale». In realtà essa era iniziata fin dal decennio 1840, ma il periodo di consolidamento si colloca dopo la seconda metà del secolo e coincide con i grossi investi­ menti degli anni 1851-55. Oltre che della disponibilità di capitali indotta dal precedente processo di accumulazione, essa trovava le sue origini nella crescente domanda di beni capitali proveniente dagli altri paesi in via di indu­ strializzazione e che soltanto l’Inghilterra era in grado di soddisfare. La Germania e gli Stati Uniti non potevano ancora cambiare l’equilibrio a sfavore dell’Inghilterra, che rimaneva quindi il principale beneficiario dello svi­ luppo economico sia dei paesi europei sia di quelli oltre­ mare. Parallelamente all’espansione dell’industria dei be­ ni capitali, si assiste a una forte espansione degli investi­ menti nel settore cotoniero inglese traili85oeili854; dopo la crisi del ’57 il boom degli investimenti assume proporzioni ancora maggiori tra il 1858 e il i860. In que­ sto decennio si compiono nuovi progressi nella raziona­ lizzazione del settore tessile e in particolare, intorno al

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i860, si attua un processo di integrazione della tessitura e della filatura in una sola unità produttiva. La Great Exhibition del 1851 aveva quindi chiuso emblematica­ mente un periodo turbolento e si profilava un periodo nuovo contrassegnato da ciò che nell’euforia generale l’« Economist » chiamava « incessante progresso » e salu­ tava come « destino dell’umanità »5. « È come se la socie­ tà avesse trovato la borsa magica della fortuna », scrive­ rà Marx in una rassegna delle vicende economiche in­ glesi nel ventennio 1846-666. E la borsa magica della for­ tuna aveva anche posto fine a un certo tipo di agitazioni sociali. I grandi movimenti popolari che avevano caratte­ rizzato l’Inghilterra degli « affamati anni ’40 » si erano rivolti contro la struttura di fabbrica del sistema produt­ tivo e contro la struttura di potere del sistema politico. Gli anni ’50 segnano il tramonto di questi conflitti sociali. Il sistema di fabbrica è una realtà non più contestata che le unions cercano di sfruttare a vantaggio di un innalza­ mento dei salari; a sua volta, il sistema di fabbrica ormai consolidato come istituzione entrava in una nuova fase di sviluppo in cui l’espansione del consumo e l’aumento dei salari costituivano le fondamentali tendenze. Gli im­ prenditori cominciavano a sostituire i metodi di condu­ zione dell’impresa basati sul prolungamento della gior­ nata lavorativa e sulla riduzione dei salari con altri meto­ di basati sull’aumento dei salari e sulla diminuzione delle ore di lavoro. Durante gli anni ’50 vi furono importanti fluttuazioni, in particolare quella del 1857-58 succeduta a un perio­ do di prosperità (1854-55) e di boom dell’esportazione (1856-57), le quali tuttavia non contrastarono la tendenza dell’attività economica verso una generale quanto rapida espansione7. Soprattutto la crisi del 1857 fu importante per la storia del ciclo di questo periodo, ma non tanto da alterare il quadro generale dello sviluppo economico; es­ sa comunque costituì per Marx un’occasione di riflessio­ ne. « Non possiamo negare - scriveva a Engels all’indo­ mani della crisi - che la società borghese ha vissuto per la seconda volta il suo secolo decimosesto, un secolo decimosesto che spero suonerà a morto per lei così come il

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CAPITOLO QUINTO

primo l’ha chiamata in vita. Il vero compito della società borghese è la costituzione di un mercato mondiale, al­ meno nelle sue grandi linee, e di una produzione che pog­ gi sulle sue basi. Siccome il mondo è rotondo, sembra che questo compito sia stato portato a termine con la coloniz­ zazione della California e dell’Australia e con l’inclusione della Cina e del Giappone. Ecco la question difficile per noi: sul continente la rivoluzione è imminent e prenderà anche subito un carattere socialista. Non sarà necessaria­ mente crush ata [soffocata] in questo piccolo angolo di mondo, dato che il movement della società borghese è an­ cora ascendant su un’area molto maggiore? » 8/La connes­ sione tra sviluppo e sottosviluppo, tra crisi e rivoluzione, diventava almeno problematica. A parte le considerazioni relative al crollo « naturale » del sistema e alla generazione « spontanea » del partito rivoluzionario9 - dottrine che erano piu il segno di un imbarazzo di fronte ai problemi del breve periodo che non quello di una chiarezza di idee circa la strategia a lunga scadenza - la connessione tra lo sviluppo e l’instabilità, tra l’espansione dell’economia ca­ pitalistica e le sue crisi cicliche rimaneva pur sempre il punto di forza dei ragionamenti marxiani sulle condizioni della rivoluzione socialista. «Una rivoluzione siffatta è possibile solamente in periodi in cui entrambi questi fat­ tori, le forze moderne di produzione e le forme borghesi di produzione, entrano in conflitto tra di loro »10. Ma quan­ to piu diventavano evidenti le connessioni tra la teoria delle crisi cicliche e la teoria della rivoluzione, tanto più appariva chiaro a Marx che esse fissavano precise condi­ zioni limitative a cui il proletariato doveva attenersi per l’immediato futuro. « Data questa prosperità universale, in cui le forze produttive della società borghese si svilup­ pano con quella sovrabbondanza che è, in generale, possi­ bile nelle condizioni borghesi, non si può parlare di una vera rivoluzione... Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L’una però è altret­ tanto sicura quanto l’altra »n. Non rimaneva che uno schema generale di interpretazione degli avvenimenti in cui situare di volta in volta il grado di maturazione politica raggiunto spontaneamente dalla classe operaia-12.

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Il vuoto organizzativo lasciato in Germania dallo scio­ glimento della Lega dei Comunisti, il disfacimento del partito cartista e l’involuzione riformistica di molti suoi aderenti, i segni palesi di un « imborghesimento » del pro­ letariato, il disimpegno politico dello stesso Marx, sono altri elementi di cui si deve tener conto per chiarire il con­ testo in cui si collocano i lavori teorici ripresi da Marx in questo periodo. In questa sede ci limitiamo a un solo aspetto della questione: mentre da un lato Marx constata e cerca di spiegare le mutate condizioni della lotta di clas­ se, dall’altro lato torna a valersi di alcuni strumenti in­ terpretativi desunti dalla dialettica hegeliana. Cosi, ritor­ na il concetto di « alienazione dell’individuo da sé e dagli altri » per esprimere la condizione di vita e i nessi sociali nella società in cui i valori di scambio costituiscono la ba­ se della produzione. L’individuo universalmente svilup­ pato - « l’universalità e l’organicità delle sue relazioni e delle sue capacità » - costituisce di nuovo il termine fina­ le del processo storico13. Per l’individuo, il modo di pro­ duzione capitalistico riappare come «separazione dalle condizioni della sua realizzazione »14. Viene riaffermata l’identità tra processo di alienazione e processo di realiz­ zazione: « Se da una parte le fasi preborghesi si presenta­ no come fasi soltanto storiche, cioè come presupposti su­ perati, le attuali condizioni della produzione si presenta­ no d’altra parte come condizioni che superano anche se stesse e perciò pongono i presupposti storici per una nuo­ va situazione sociale » 15. Ciò significa che lo sviluppo del­ la società borghese coincide con il movimento della sua soppressione; in altri termini « la forma più estrema di alienazione in cui, nel rapporto tra capitale e lavoro sala­ riato, il lavoro, l’attività produttiva si presenta rispetto alle sue stesse condizioni e al suo stesso prodotto, è un necessario punto di passaggio - e pertanto contiene già in sé, solamente in forma rovesciata, a testa in giù, la dis­ soluzione di tutti i presupposti limitati della produzione, e anzi crea e produce i presupposti incondizionati della produzione e quindi tutte le condizioni materiali per lo sviluppo totale, universale delle forze dell’individuo »lé. Lo stesso livello critico della coscienza di classe è indotto

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automaticamente e senza mediazioni politiche dal grado di sviluppo tecnologico e economico17. Affermazioni di questo genere, che costituiscono il tessuto connettivo dei lavori teorici tra il 1857 e il 1858, non si spiegano sol­ tanto come un ritorno ai concetti fondamentali dei mano­ scritti del ’44, la cui funzione era circoscritta alla critica dell’economia politica. Esse hanno come sfondo la situa­ zione europea dopo il 1848 a cui si accennava prima e han­ no ora lo scopo di ristabilire il nesso tra l’analisi della si­ tuazione e la possibilità oggettiva di una ripresa rivolu­ zionaria per gli anni ’50. Nel capitolo successivo si cercherà di mostrare in quale misura Marx conserverà o riformulerà le affermazioni e gli strumenti interpretativi dei Grundrisse, almeno per quanto concerne la storia dell’industria esposta nel primo libro del Capitale. Intanto vale la pena di osservare un cambiamento di giudizio per quanto concerne quella «prosperità universale» che alla fine del 1850 aveva in­ dotto Marx a negare l’esistenza di condizioni rivoluzio­ narie. Con un esame più approfondito della natura del ci­ clo industriale fino alla prima metà degli anni ’60, Marx torna a conferire particolare rilievo ai punti deboli dello sviluppo economico. « La enorme capacità che il sistema della fabbrica possiede di espandersi a balzi e la sua dipen­ denza dal mercato mondiale, generano di necessità una produzione febbrile e un conseguente sovraccarico dei mercati, con la contrazione dei quali sopravviene una pa­ ralisi. La vita dell’industria si trasforma in una serie di periodi di vitalità media, prosperità, sovrapproduzione, crisi e stagnazione. L’incertezza e l’instabilità alle quali la industria meccanica sottopone l’occupazione e con ciò le condizioni d’esistenza dell’operaio, diventano normali con questa variazione periodica del ciclo industriale. Detratti i tempi di prosperità, infuria fra i capitalisti una lotta ac­ canita per la loro individuale parte di spazio sul mercato. Questa parte sta in proporzione diretta del basso prezzo del prodotto. Oltre alla rivalità generata da questo fatto nell’uso di macchinario perfezionato, atto a sostituire for­ za-lavoro e nell’uso di nuovi metodi di produzione, so­ pravviene ogni volta un momento nel quale si tende a ri­

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durre la merce più a buon mercato mediante una forzata depressione del salario lavorativo al di sotto del valore della forza-lavoro » 18. Se da un lato Marx riconosce che il sistema economico non incontra ostacoli nella sua espan­ sione, egli chiarisce che l’espansione avviene in condizio­ ni di instabilità e precarietà, e che in queste condizioni i costi dello sviluppo ricadono sulla classe operaia come nella prima fase dell’industrializzazione. Ne risulta un quadro economico essenzialmente contraddittorio, poiché le stesse cause che sostengono l’espansione generano an­ che le crisi e il ristagno. La coincidenza del processo di alienazione con il processo di realizzazione dell’essenza umana entra ancora una volta in crisi nella sua formula­ zione tipicamente hegeliana. Al suo posto subentra una riformulazione più attenuata in termini di «condizioni materiali », economiche e politiche, consapevolmente ri­ conosciute come tali dagli individui che si propongono di trasformare la società19. E una di queste condizioni era la ripresa della classe operaia di cui Marx riconosce l’esisten­ za a partire dal 1864, sia per giustificare a se stesso un rinnovato impegno politico, sia per conferire nuova vali­ dità alla teoria della lotta di classe adottata negli anni del­ le rivoluzioni europee20. Nell’indirizzo inaugurale all’Associazione internazionale degli operai Marx, passando in rassegna le vicende recenti della classe operaia inglese e continentale, constatava subito come « fatto innegabile » che la miseria della classe operaia non era diminuita dopo il 1848. Lo sviluppo dell’industria e del commercio ingle­ si aveva ricevuto un impulso senza precedenti e le stesse tendenze all’espansione si riscontravano nei paesi mag­ giormente industrializzati del continente. Ma sia in que­ sti ultimi sia in Inghilterra - egli sosteneva - « è ora di­ ventata verità dimostrabile a ogni intelletto libero da pre­ giudizi, che viene contestata solo da coloro che hanno in­ teresse a rinchiudere gli altri in una felicità illusoria, che nessun perfezionamento delle macchine, nessuna applica­ zione della scienza alla produzione, nessun progresso dei mezzi di comunicazione, nessuna nuova colonia, nessuna emigrazione, nessuna apertura di nuovi mercati, nessun libero scambio, né tutte queste cose prese insieme elimi­

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neranno la miseria delle masse lavoratrici; che, anzi, sulla falsa base presente, ogni nuovo sviluppo delle forze pro­ duttive del lavoro inevitabilmente deve tendere a rendere più profondi i contrasti sociali, e più acuti gli antagonismi sociali »21. Questo schema generale di interpretazione do­ veva costituire la base della storia dell’industria elaborata nel Capitale. 2. Alcuni problemi di metodo. Uno dei compiti fondamentali che Marx si propone nel Capitale consiste nell’elaborazione di un metodo che con­ senta di individuare il capitalismo come formazione so­ ciale storicamente determinata. Tale compito è vincolato al problema delle relazioni logiche ed empiriche tra i para­ metri che definiscono il capitalismo e quelli che definisco­ no, nelle loro strutture fondamentali, le forme economi­ che e sociali del passato. NeW Introduzione del’57 (§ 1) questo problema era stato discusso in riferimento al con­ cetto di « produzione in generale » che, secondo Marx, co­ stituisce il punto di partenza comune delle trattazioni di economia politica. Gli economisti22 sogliono infatti intro­ durre l’argomento con un’analisi delle « condizioni gene­ rali » senza le quali non è possibile nessuna produzione. In quel testo metodologico Marx si proponeva anzitutto di stabilire le condizioni di validità e la funzione delle ca­ tegorie generali negli economisti, e in secondo luogo di vedere fino a qual punto fosse possibile ricuperarle dal suo punto di vista. Il primo aspetto che Marx prende in esame è l’oggetto dell’economia politica a partire dal quale si elaborano le astrazioni, cioè il suo presupposto reale. Esso viene indi­ cato negli « individui che producono in società »23. Que­ sta prima generica definizione dell’oggetto dell’economia politica permette di discriminare due possibili punti di partenza. Secondo Marx, il riferimento reale da cui Smith e Ricardo iniziano le loro ricerche è « la produzione del­ l’individuo isolato al di fuori della società »24. Ma questa assunzione è priva di senso perché manca il riferimento

ALCUNI PROBLEMI DI METODO

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empirico: considerata dal punto di vista della sua validità teorica essa è un’idea mitologica, ma considerata dal pun­ to di vista del condizionamento sociale della sua origine non è altro che l’« anticipazione » della società civile, in cui « l’individuo si presenta sciolto da quei vincoli natu­ rali ecc., che nelle epoche storiche precedenti fanno di lui un elemento accessorio di un determinato e circoscritto conglomerato umano »25. Per quel tanto, dunque, che vi è di corrispondente alla realtà in questo concetto, esso è piuttosto un « risultato storico » che non « il punto di par­ tenza della storia »26. Individuato il riferimento empirico dell’astrazione nel­ la produzione sociale, si presenta il problema se sia possi­ bile parlare della produzione in generale. A prima vista sembrerebbe che tale possibilità non esista e che ogni ten­ tativo in questo senso conduca o a una storia delle varie fasi della produzione, oppure all’analisi della produzione quale si presenta in una determinata epoca. In entrambi i casi non è possibile fissare i tratti comuni di ogni produ­ zione e parlare della produzione in generale27. Quindi non è giustificata la pretesa di Adam Smith di elaborare una teoria della produttività, cioè di stabilire le condizioni di impiego dei fattori produttivi per massimizzare la ricchez­ za. L’individuazione dei valori ottimali per le condizioni produttive presuppone la nozione di produzione in gene­ rale, e perciò « si riduce alla tautologia che la ricchezza viene creata tanto piu facilmente quanto piu esistono, soggettivamente e oggettivamente, gli elementi che la creano »28. Di conseguenza l’analisi della produttività non può che limitarsi a un confronto dei gradi di produttività « in differenti periodi, nello sviluppo di singoli popoli »29; essa è scientifica e non puramente tautologica. Ogni ten­ tativo di dare un significato scientifico all’analisi della pro­ duttività viene ricondotto a una delle due alternative so­ pra individuate, che non lasciano spazio per un discorso generalizzato. Seguendo un filo di ragionamento che si riallaccia alYldeologia tedesca, Marx ammette tuttavia la possibilità di utilizzare determinati concetti generali, purché la loro funzione sia esclusivamente selettiva ed economica30. Il

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concetto di produzione in generale, infatti, è costituito da differenti determinazioni, ovvero - riformulando la ter­ minologia marxiana - da un insieme di variabili che de­ vono essere sostituite da costanti affinché possano espri­ mere le forme sociali particolari. Le più importanti tra queste determinazioni generali, o variabili, sono il sog­ getto del lavoro, l’oggetto del lavoro, il prodotto del la­ voro, lo strumento di produzione (lavoro accumulato), il pluslavoro, la cooperazione, la divisione del lavoro. A questo livello di astrazione non è possibile stabilire rela­ zioni empiriche tra le variabili, ma soltanto definizioni che fissano certi nessi logici molto generali. Ogni tentativo di formulare proposizioni per spiegare società determinate a partire da queste definizioni dà luogo a proposizioni fal­ se. Se da un lato queste definizioni non si riferiscono a nessun oggetto determinato - ed è in questo senso che « non esiste una produzione in generale »31 - dall’altro la­ to il tentativo di assumerle in funzione esplicativa ha due conseguenze: a) la pretesa di formulare «leggi di natura della società in abstrado », una possibilità che viene esclu­ sa ammettendo soltanto un discorso sulle forme sociali determinate; b) fatti particolari vengono concepiti come determinazioni universali, in altri termini i « rapporti bor­ ghesi vengono interpolati del tutto surrettiziamente » co­ me forme eterne32. Il procedimento corretto è invece quel­ lo di sostituire alle variabili le costanti corrispondenti alle istituzioni delle società determinate, e di stabilire un si­ stema di relazioni tra queste costanti che permettano la formulazione delle leggi. Si capisce allora perché il con­ cetto di produzione in generale deve essere « qualcosa di complessamente articolato», e «le determinazioni che valgono per la produzione in generale debbono essere iso­ late proprio affinché per l’unità... non venga poi dimenti­ cata la diversità essenziale »33. Nel Capitale, in coerenza con questa impostazione, ol­ tre a determinare i caratteri particolari del modo di pro­ duzione capitalistico, Marx presenta certe strutture come « condizioni naturali eterne » del processo lavorativo in generale, e quindi di ogni suo modo particolare di esisten­ za: il bisogno che col lavoro si deve soddisfare; la «vo­

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lontà conforme a scopo» (o «attività finalistica»); il di­ spendio di energie fisiche e psichiche; l’interscambio tra l’uomo e la natura, che si configura come « appropriazio­ ne », cioè trasformazione della natura; l’oggetto del lavo­ ro, che è la natura stessa, di cui l’uomo si appropria me­ diante i mezzi di lavoro; infine il risultato dell’appropria­ zione, cioè il prodotto34. La funzione di queste condizioni consiste appunto nel selezionare certi aspetti ritenuti si­ gnificativi indipendentemente da ogni formazione sociale particolare e nel fornire l’insieme dei « momenti sempli­ ci», cioè le condizioni minime senza le quali non si ha nessun processo lavorativo particolare. L’attività lavora­ tiva viene considerata come la risposta orientata verso il soddisfacimento di un bisogno, e tale carattere finalistico costituisce uno dei due elementi della razionalità dell’a­ zione, poiché soltanto a partire da uno scopo determinato l’uomo può produrre, regolare e controllare la trasforma­ zione della natura35. Da questo punto di vista l’attività conforme allo scopo è ciò che distingue l’agire razionale dalle forme di agire istintive e animali. Il mezzo di lavo­ ro, inserendosi come « conduttore » tra l’uomo e la natu­ ra, permette di guidare l’azione conformemente allo sco­ po, divenendo cosi il secondo elemento dell’agire raziona­ le36. Perciò i momenti semplici del processo lavorativo possono essere ridotti all’attività conforme a scopo, all’og­ getto del lavoro e ai mezzi di lavoro. Quando Marx definisce le caratteristiche del processo lavorativo come condizioni naturali eterne, perviene a una rigorosa articolazione concettuale di quell’aspetto del pro­ cesso di oggettivazione che corrisponde al rapporto del­ l’uomo con la natura e che nei manoscritti del ’44 era sta­ to definito in contrapposizione all’estraniazione. Infatti, se non si interpreta il paragrafo del Capitale sul processo lavorativo in chiave di oggettivazione, si può obiettare che i tre momenti semplici sono soltanto condizioni ne­ cessarie, ma non sufficienti per descrivere la struttura di un qualsiasi processo lavorativo dato. A chi isolasse que­ sto testo allo scopo di considerarlo la base della sociologia marxiana del lavoro37, si dovrebbe obiettare che esso non vuole riassumere tutte le condizioni necessarie e sufficien­

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ti affinché si dia un processo lavorativo. La « condizione generale del ricambio organico tra uomo e natura » - pre­ cisa Marx - era ciò che interessava stabilire nella defini­ zione del processo lavorativo. « Perciò non abbiamo avu­ to bisogno di presentare il lavoratore in rapporto con altri lavoratori. Sono stati sufficienti da una parte l’uomo e il suo lavoro, dall’altra la natura e i suoi materiali »38. Con la definizione del processo lavorativo Marx intendeva ri­ confermare il principio stabilito nei Manoscritti economi­ co-filosofici del 1844, secondo cui l’attività umana e il rapporto uomo-natura acquistano un significato storico determinato soltanto attraverso il loro riferimento alle strutture sociali; ciò significa che una considerazione so­ ciologica del lavoro richiede come ulteriore condizione una « cooperazione » tra gli individui. Soltanto attraver­ so la dimensione della cooperazione si potranno cogliere le condizioni effettive entro le quali si svolge il lavoro e sarà possibile considerarlo dal punto di vista dell’estra­ niazione 39. Nel § 3 del? Introduzione del ’57, intitolato II metodo dell’economia politica, Marx espone brevemente il proce­ dimento degli economisti dei secoli xvu e xvm. Gli eco­ nomisti del secolo xvn sogliono partire da un dato « rea­ le» o «concreto rappresentato», come la popolazione o la nazione, e giungono « per via d’analisi » ad « astrazioni sempre più sottili » come le classi, il lavoro salariato, il ca­ pitale, sino ai « concetti più semplici » come lo scambio, la divisione del lavoro, i prezzi. Gli economisti del seco­ lo xvm accolgono come punto di partenza questi concetti in funzione della costruzione di un modello attraverso un « processo di sintesi »40. « Per la prima via, la rappresenta­ zione piena viene volatilizzata ad astratta determinazione; per la seconda, le determinazioni astratte conducono al­ la riproduzione del concreto nel cammino del pensiero »41. Mentre il procedimento scorretto è quello che si ferma al­ l’analisi e non perviene alla costruzione del modello, il procedimento corretto è quello sintetico, che presuppo­ ne le categorie astratte a cui si è arrivati attraverso l’ana­ lisi. La chiarificazione e la difesa dei fondamenti gnoseolo­

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gici del metodo « corretto » si sviluppa nella critica mar­ xiana dei capisaldi della logica hegeliana. Per Hegel la struttura logica dell’idea coincide con la struttura logica della realtà; perciò il procedimento scientifico che dall’a­ stratto risale al concreto viene identificato con il processo di formazione della realtà e con la struttura del divenire storico. Il risalire dall’astratto al concreto è il modo in cui si manifesta il processo della realtà: l’ordinamento cate­ goriale che parte da concetti semplici e perviene a concetti complessi coincide con lo sviluppo del reale che parte da fenomeni sociali semplici (come il possesso) e giunge a fenomeni sociali piu complessi (come lo stato). Secondo Marx, Hegel trasferisce sul piano ontologico un procedi­ mento che vale e si giustifica soltanto sul piano metodo­ logico. Il risultato di tale trasferimento è l’identificazione del concreto, inteso come punto d’arrivo della costruzione concettuale, con il concreto che è la realtà stessa. Va os­ servato che, mentre in Hegel il concreto ha un significato univoco, proprio in riferimento all’identificazione di real­ tà e pensiero, Marx tiene ben distinti due significati del termine: il concreto è, in un primo significato, il modello teorico completo; secondariamente è il presupposto og­ gettivo che « rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua autonomia fuori della mente »42. All’identificazione hegeliana del procedimento logico con lo sviluppo del reale Marx contrappone l’esempio del valore di scambio, che è un concetto semplice elaborato a partire o facendo astrazione da un insieme complesso di rapporti sociali, come per esempio la comunità o lo stato. Il valore di scambio « non può esistere altro che come re­ lazione astratta, unilaterale di una totalità vivente e con­ creta già data »43, la quale è il punto di partenza oggettivo presupposto dall’analisi e dalla quale si compiono le astra­ zioni. Poiché il valore di scambio è una relazione antichis­ sima, si spiega l’illusione della « coscienza filosofica » che l’ordinamento categoriale si identifichi con il processo rea­ le, producendolo. Marx invece imposta diversamente il problema del rapporto tra pensiero e realtà. La realtà, in quanto dato oggettivo, è il punto di partenza della ela­ borazione concettuale, la quale istituisce relazioni tra con­

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cetti semplici e perviene a un modello che è « la totalità concreta, come totalità del pensiero, come un concreto del pensiero »44. Pertanto, dire che il valore di scambio (co­ me categoria semplice) presuppone la comunità (come ca­ tegoria piu complessa) non significa altro che esemplifica­ re un’asserzione generale sul rapporto tra concetto e real­ tà, per la quale la costruzione concettuale come prodotto del pensiero ha per presupposto necessario una realtà og­ gettiva. Hegel, viceversa, ha interpretato resistenza remo­ ta di determinati rapporti sociali esprimibili con catego­ rie semplici e astratte, come il punto di partenza dell’or­ dinamento categoriale la cui struttura viene così a coinci­ dere con la struttura del reale. Marx passa quindi a esaminare un secondo problema, chiedendosi se queste categorie semplici non esprimano rapporti sociali storicamente anteriori a quelli determina­ bili mediante categorie1 più complesse. Hegel, per esem­ pio nella Filosofia del diritto, parte dalla categoria di pos­ sesso; e da essa deduce la famiglia, attribuendo a tale de­ duzione un valore ontologico. Conformemente alla critica del procedimento hegeliano, Marx sostiene che « è inesat­ to che il possesso si evolva storicamente a famiglia »; an­ zi esso presuppone sempre questa «categoria giuridica più concreta »45. Cioè, se nella realtà un atto di possesso in­ teso in senso giuridico presuppone sempre almeno la fa­ miglia, dal punto di vista dell’ordinamento categoriale del­ la filosofia del diritto si parte « giustamente » dalla cate­ goria del possesso46. La famiglia è una categoria giuridica più concreta nel senso che la sua definizione presuppone quella della categoria del possesso. Qui abbiamo un esem­ pio di non-coincidenza dell’ordinamento categoriale con lo sviluppo storico. Tuttavia esistono casi particolari in cui questa coincidenza esiste. Per esempio il denaro, che rispetto al capitale è una categoria semplice e può espri­ mere sia rapporti sociali « predominanti » entro una socie­ tà mercantile47, sia rapporti sociali « subordinati » entro la società capitalistica moderna. Essa viene definita, nei suoi rapporti costitutivi fondamentali, da categorie come il ca­ pitale, il lavoro salariato e cosi via, le quali sono « più con­ crete » in due sensi: i) la loro definizione presuppone la

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categoria del denaro - e allora abbiamo il concreto in sen­ so logico; 2) i rapporti che esprimono sono istituzioni di una totalità sociale data, che storicamente presuppongono una totalità sociale le cui istituzioni sono esprimibili per mezzo di categorie piu semplici - e allora abbiamo il con­ creto in senso storico e ontologico. «In questo senso - conclude Marx - il cammino del pensiero astratto, che sale dal piu semplice al complesso, corrisponderebbe al processo storico reale »48. Il senso di questa analisi risiede in una critica della identificazione hegeliana tra realtà e pensiero. Una volta riconosciuto che l’ordinamento logico delle categorie del­ l’economia politica coincide soltanto accidentalmente con l’ordine di successione storica dei rapporti istituzionali espressi dalle categorie, cade ogni possibilità di assumere come canone metodologico quella identificazione; tutta la discussione è pertanto condotta in funzione della critica dell’impostazione hegeliana, che assume come determina­ bile a priori il rapporto tra l’ordine logico delle categorie e lo sviluppo storico. In base al criterio adottato da Marx, « non si tratta della posizione che i rapporti economici as­ sumono storicamente nel succedersi delle diverse forme di società ed ancor meno della loro successione “nell’i­ dea” (Proudhon)... ma della loro articolazione organica all’interno della moderna società borghese»49. Hegel si poneva dal punto di vista della costruzione della storia del­ l’umanità sulla base dello sviluppo logico dell’idea. Il compito di Marx era invece la costruzione del modello concettuale ed empirico della formazione sociale capitali­ stica, per la realizzazione del quale egli non soltanto non poteva accettare la soluzione hegeliana del problema del rapporto tra logica e storia, ma nemmeno il problema stes­ so, significativo soltanto per chi intendesse la logica come rivelazione della struttura categoriale della totalità. Per Marx il problema fondamentale consiste dunque nell’articolazione delle categorie entro il modello della so­ cietà borghese. Rispetto al rapporto tra la rendita fondia­ ria e il capitale industriale, ciò significa che la prima può essere spiegata soltanto a partire dal secondo, poiché « il capitale è la potenza economica della società borghese che

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domina tutto »50. Ma rispetto all’oggetto e al compito del­ l’economia politica questa affermazione ha un significato che è stato sviluppato, piu che Introduzione del}57, in molti scritti precedenti, come l’Ideologia tedesca, e suc­ cessivamente nel Capitale. In breve, dire che il capitale è la potenza economica che nella società borghese domina tutto, significa che esso deve essere considerato in quan­ to rapporto sociale predominante e piu significativo dal punto di vista della dialettica tra forze produttive e rap­ porti di produzione. Nel rapporto tra capitale e lavoro salariato, tale dialettica si manifesta infatti nella sua for­ ma piu antagonistica51. Nel primo libro del Capitale, e in particolare nella quar­ ta sezione dove Marx studia i differenti tipi di organizza­ zione del lavoro e i differenti rapporti sociali a essi con­ nessi, egli impiega appunto uno schema di riferimento in cui la relazione tra le forze produttive e le forme di coo­ perazione viene articolata in due connessioni più partico­ lari: 1) la relazione tra gli strumenti del lavoro e l’orga­ nizzazione del processo lavorativo; 2) la relazione tra l’or­ ganizzazione vista nel suo complesso e i rapporti sociali entro la cooperazione. La connessione tra le forze produt­ tive (strumenti, macchine, organizzazione del lavoro) e i rapporti sociali che si istituiscono all’interno della coope­ razione - sovente implicita negli studi tecnologici e socio­ logici dei primi decenni del secolo - era già stata elaborata Ideologia tedesca, ma non nella forma rigorosa pre­ sentata nel Capitale. Inoltre, a proposito degli accenni sul­ la manifattura e sulla grande industria contenuti in quel­ l’opera, Marx aveva insistito particolarmente sulla con­ nessione tra il modo di produzione e il complesso delle istituzioni della società civile. Queste connessioni defini­ scono le due direzioni di ricerca fondamentali dell’analisi condotta nella quarta sezione {Capitale, libro primo) e nello stesso tempo delimitano un campo più ristretto en­ tro cui studiare le forme di estraniazione inerenti ai rap­ porti sociali capitalistici. Esse erano state già distinte nel­ la Miseria della filosofia quando Marx, in polemica con Proudhon, aveva per la prima volta stabilito i criteri me­ todologici dell’analisi delle strutture organizzative e socia­

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li del processo lavorativo. « Il lavoro si organizza e si di­ vide diversamente, a seconda degli strumenti dei quali di­ spone. Il mulino a braccia suppone una divisione del la­ voro diversa da quella del mulino a vapore »52. Se la con­ nessione tra l’organizzazione del lavoro e i rapporti di coo­ perazione era una specificazione della più ampia connes­ sione tra modo di produzione e società civile, lo studio del­ l’organizzazione del lavoro richiedeva un’appropriata ipo­ tesi esplicativa che stabilisse in quale misura gli strumen­ ti del lavoro condizionano le forme di organizzazione. Negli anni di studio e di preparazione del Capitale, Marx riprende i testi di Ure e di Babbage e approfondisce la sua conoscenza della storia della tecnologia con nuove letture e con la frequenza di corsi pratici per operai spe­ cializzati 53. Attraverso questi studi egli precisa quelle con­ nessioni precedentemente stabilite e ne trova tra l’altro un’importante conferma nella storia dell’organizzazione militare. In una lettera a Engels del 1857 egli osservava che « la storia dell’Army mette in luce con maggior eviden­ za di qualsiasi altra cosa l’esattezza della nostra concezio­ ne del rapporto esistente tra le forze produttive e le con­ dizioni sociali »54. E tornando sullo stesso argomento al­ cuni anni più tardi precisava: « La nostra teoria della de­ terminazione AeR organizzazione del lavoro attraverso i mezzi di produzione dove trova conferma più splendida se non nell’industria di macellare gli uomini? »55. Infine, nella quarta sezione, le due connessioni venivano esplici­ tamente riconosciute come principi direttivi della ricerca sociologica sull’industria: «In genere nella produzione della carta si può studiare vantaggiosamente e nei parti­ colari la distinzione fra i differenti modi di produzione che si hanno in base ai differenti mezzi di produzione, come pure il nesso fra i rapporti sociali di produzione e quei mo­ di di produzione »56. La proprietà privata, la separazione del lavoro manuale dal lavoro intellettuale, la struttura di classe della società erano i termini di riferimento del concetto di estraniazio­ ne nell'ideologia tedesca. Ivi, ma soprattutto nei mano­ scritti del 1844, Marx aveva compiuto il tentativo di con­ nettere le categorie economiche, che gli economisti conce­

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CAPITOLO QUINTO

pivano come determinazioni particolari del sistema eco­ nomico, con il lavoro estraniato, che veniva così conside­ rato quale principio generale di interpretazione della to­ talità dei rapporti sociali. Nel Capitale il concetto di plus­ valore si sostituisce a quello di estraniazione; pur con­ servando le funzioni del secondo, il primo consente a Marx di connettere più strettamente l’analisi economica del modo di produzione capitalistico con l’analisi storica delle sue fasi di sviluppo. Il riconoscimento del plusva­ lore come fine della produzione capitalistica e la teoria se­ condo cui la sua formazione avviene non nella sfera della circolazione, bensì nella sfera della produzione57, doveva­ no condurre Marx a studiare le differenti fasi storiche del­ le organizzazioni produttive come metodi differenti di estorsione del plusvalore. Individuate le condizioni della produzione capitalistica nell’esistenza del lavoratore co­ me « libero proprietario » della merce forza-lavoro, nel ca­ rattere «costrittivo»1 della vendita della forza-lavoro a causa della separazione del lavoratore dai mezzi di produ­ zione e di sussistenza, e infine nell’esistenza del capitali­ sta come proprietario esclusivo dei mezzi di produzione56, Marx indicava in esse il fondamento del rapporto auto­ ritario tra capitalista e operaio e della subordinazione del­ l’operaio al capitalista. L’introduzione delle connessioni tra i mezzi di lavoro e l’organizzazione della produzione, e tra quest’ultima e la struttura della cooperazione, per­ metteva allora di individuare nella storia del capitalismo diversi « stadi industriali » rispetto ai quali studiare le dif­ ferenti forme dell’autorità e della dipendenza, il differen­ te significato del lavoro, in breve le differenti forme di estraniazione. Nella quarta sezione Marx procede dunque su tre direzioni fondamentali di ricerca: l’organizzazione produttiva, i rapporti sociali entro il luogo di lavoro, la connessione tra la struttura della produzione e il conte­ sto sociale. In questa sede non si prenderà in esame il problema relativo alla formazione del concetto di plusvalore, al suo funzionamento e alla sua validità nella teoria economica. Qui è sufficiente stabilirne il significato sociologico, in quanto indica il fine della produzione capitalistica e con­

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seguentemente la dimensione sociologica dell’estraniazio­ ne. Il concetto di plusvalore è considerato qui soltanto nella misura in cui conferisce una determinazione storica al lavoro ed entra a costituire il significato e la natura dei rapporti sociali nella cooperazione capitalistica. Inoltre es­ so permette di considerare l’organizzazione produttiva co­ me un tutto, come un organismo integrato il cui unico sco­ po è appunto la realizzazione del plusvalore. La conside­ razione del plusvalore come unico obiettivo della produ­ zione permette quindi di considerare le forme di organiz­ zazione del lavoro come tecniche particolari per la sua rea­ lizzazione, e in tal modo pone lo studio delle strutture organizzative come condizione necessaria per comprende­ re i rapporti sociali entro la fabbrica. Da questo punto di vista il plusvalore diventa lo strumento principale per integrare due direzioni di ricerca che erano state condotte in modo relativamente autonomo da Babbage e Ure da un lato e da Gaskell, Engels e Buret dall’altro lato. Comun­ que Marx non si è limitato a integrare e sistematizzare di­ rezioni di ricerca preesistenti, ma ha sviluppato le sue ri­ cerche fino a individuare le specifiche strutture sociali del­ le organizzazioni produttive, applicando in questo campo un metodo originale di ricerca.

3. Il concetto di cooperazione. Gli economisti sono stati i primi a considerare le ca­ ratteristiche della cooperazione come tecnica per aumen­ tare la produttività del lavoro, anche se questo argomen­ to è rimasto marginale nelle loro trattazioni rispetto al tema centrale della divisione del lavoro59. Nell’agricoltura e nei lavori più semplici come la pesca, il trasporto di ma­ teriali, il prosciugamento di terreni, ciò che si rilevava era la quantità di forza produttiva sviluppata dal lavoro in co­ mune che è sempre maggiore della somma aritmetica del­ le forze produttive individuali. Cosi nei lavori agricoli, quando il tempo a disposizione è limitato, come per esem­ pio in occasione del raccolto, la cooperazione su grande scala permette di fare ciò che non potrebbe un numero

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CAPITOLO QUINTO

uguale di individui che lavorano singolarmente e in tempi diversi, anche per effetto dello spirito di competizione che nella cooperazione si sviluppa tra i lavoratori. In genera­ le, questi autori consideravano la cooperazione esclusivamente come forza produttiva senza individuarne la di­ mensione sociologica; questa impostazione è implicita an­ che nelle definizioni di fabbrica date per esempio da Ure e da Schulz sulla base dell’obiettivo condiviso dagli ope­ rai cooperanti. Nell'Ideologia tedesca Marx aveva usato per la prima volta il concetto di cooperazione in connessione con la divisione sociale del lavoro, oltre che per esprimere il ca­ rattere sociale della produzione - e da questo punto di vista i due concetti erano considerati sostanzialmente si­ nonimi -, anche per studiare determinati modi di produ­ zione o stadi industriali. Secondo Marx, la produzione va sempre studiata da due punti di vista, « come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall’altra»60. Il rapporto naturale tra l’individuo e l’oggetto del lavoro, che nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 era sta­ to definito con il concetto di oggettivazione, ha trovato la sua formulazione più compiuta nel Capitale con l’ana­ lisi dei momenti semplici del processo lavorativo, in cui, come si è visto, si astrae dalla dimensione sociale della produzione. Il concetto di cooperazione serve quindi a rendere conto di tale dimensione, secondo i criteri adot­ tati nell'Ideologia tedesca. La stretta connessione tra le definizioni di cooperazione e di divisione del lavoro in­ dica che il concetto di cooperazione aveva nell'ideologia tedesca un campo di applicazione molto esteso, in quanto era inclusivo di tutte le attività produttive e delle loro con­ nessioni. Ciò non significa che tale concetto non fosse ap­ plicabile, per esempio, per studiare il sistema di fabbrica; tuttavia non veniva esplicitato in qual modo fosse compa­ tibile con la distinzione tra divisione « sociale » del lavoro e divisione del lavoro. Soltanto nel Capitale Marx defini­ sce rigorosamente la cooperazione nel senso più ristretto facendo intervenire ulteriori determinazioni: «la forma del lavoro di molte persone che lavorano l’una accanto al­ l’altra e l’una assieme all’altra secondo un piano, in uno

IL CONCETTO DI COOPERAZIONE

241 stesso processo di produzione, o in processi di produzione differenti ma connessi si chiama cooperazione »61. I com­ ponenti di questa definizione equivalgono, dato il loro grado di astrazione, a condizioni minime che stabiliscono i requisiti indispensabili affinché il lavoro possa svolger­ si in comune. Queste condizioni, insieme a quelle del pro­ cesso lavorativo, sono gli indispensabili strumenti concet­ tuali che Marx userà di continuo nell’analisi delle princi­ pali forme capitalistiche di cooperazione, come la manifat­ tura e la fabbrica.

1. La « scala della cooperazione » indica il numero de­ gli individui impiegati in un determinato processo lavorativo. 2. La « compresenza spaziale» dei cooperanti stabilisce che gli individui cooperano nello stesso campo di la­ voro e l’uno accanto all’altro, poiché «in generale non si può avere cooperazione diretta fra lavoratori senza che stiano insieme, e quindi il loro agglomeramento in uno spazio determinato è condizione della loro cooperazione »62. Questa condizione, garanten­ do il contatto sociale diretto, è quella che distingue la cooperazione nel luogo di lavoro dalla cooperazio­ ne che si realizza con la divisione sociale del lavoro, cioè a livello della società nel suo complesso. 3. La «contemporaneità» dell’esecuzione delle singo­ le operazioni stabilisce che gli individui lavorano nel­ lo stesso tempo e l’uno insieme all’altro, realizzando una reciproca « integrazione ». 4. In base alle modalità di « assegnazione » delle ope­ razioni a ciascun individuo, è possibile determinare il tipo di organizzazione del lavoro; a sua volta la diversa organizzazione del lavoro definisce differenti tipi di cooperazione. In generale, sono possibili due tipi fondamentali, secondo che gli individui coope­ rino « in uno stesso processo di produzione o in pro­ cessi di produzione differenti ma connessi». 5. Infine, il «piano» della cooperazione indica che la cooperazione è una struttura integrata, orientata ver­ so la realizzazione di uno scopo determinato; esso

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CAPITOLO QUINTO

ha il compito di coordinare le azioni individuali in vista dell’obiettivo comune fissato dal processo lavo­ rativo e/o la connessione dei differenti processi la­ vorativi. Dal punto di vista di un’operazione speci­ fica, questa funzione viene svolta come « funzione direttiva». La compresenza spaziale e la contemporaneità di esecu­ zione sono le « condizioni del lavoro sociale », cioè carat­ terizzano la socialità dell’azione degli individui. Oggetti di lavoro, strumenti, materiali ausiliari, per il solo fatto di essere usati in comune, acquistano un carattere sociale, mentre nel caso di « singoli operai o piccoli maestri arti­ giani indipendenti, anche quando i molti lavorano insieme soltanto perché si trovano nello stesso locale, e non lavo­ rano l’un con l’altro » i mezzi di produzione restano « di­ spersi » e non vi sono le condizioni di lavoro sociale. Le stesse abilità e deficienze individuali si socializzano nella cooperazione, integrandosi o elidendosi a vicenda e dando luogo a una «capacità lavorativa media». Naturalmen­ te queste condizioni sociali diventano rilevanti soltanto quando esiste una scala della cooperazione piuttosto ele­ vata e quando il principio del lavoro cooperativo in un determinato ambito spaziale si è generalizzato a tutta la società - requisiti che sono soddisfatti soltanto nel modo capitalistico di produzione. La socialità sviluppata dalla cooperazione su qualsiasi scala esercita effetti anche su­ gli individui, perché il contatto sociale provoca uno spiri­ to di emulazione eccitando le capacità individuali. Dal punto di vista della produttività del lavoro, il ca­ rattere sociale del lavoro sviluppa ex novo una forza di massa che non era possibile ottenere dai singoli individui che lavoravano l’uno indipendentemente dall’altro. Per misurare la forza produttiva della cooperazione Marx in­ troduce i concetti di « lavoro combinato », che è il lavoro eseguito dall’insieme degli operai cooperanti, e di « ope­ raio combinato » o « complessivo », che indica l’insieme degli operai. La forza produttiva che si sviluppa entro la cooperazione non può essere infatti misurata sommando le forze produttive delle singole parti costituenti, perché

IL CONCETTO DI COOPERAZIONE

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« la somma meccanica delle forze dei lavoratori singoli è sostanzialmente differente dal potenziale sociale di forza » dell’operaio combinato64. Ciò significa che una qualsiasi organizzazione produttiva deve essere sempre considerata nel suo complesso, cioè nelle sue funzioni generali in ba­ se alle quali è poi possibile studiare il funzionamento delle singole parti. Marx perciò si serve coerentemente di un modello organicistico riportando i vari elementi del siste­ ma all’obiettivo verso il quale è orientato e assumendo la funzione direttiva come termine di riferimento. In generale, lo studio dell’organizzazione del processo lavorativo verte sul modo in cui le singole operazioni sono assegnate agli individui cooperanti. A questo livello di generalità Marx parla di « assegnazione del lavoro » e non usa il termine « divisione del lavoro », che riserva per indi­ care un tipo particolare di assegnazione e quindi un tipo particolare di cooperazione. Indipendentemente dal fatto che nella cooperazione vi sia un solo processo di produzione oppure differenti pro­ cessi tra loro connessi, Marx individua una prima forma di cooperazione - che chiama « cooperazione semplice » in cui il processo lavorativo può essere « indiviso » o sud­ diviso in operazioni, senza che però la loro assegnazione si presenti nella forma della divisione del lavoro in sen­ so proprio. Inoltre, indipendentemente dalla suddivisione o meno delle operazioni, queste possono essere identiche per tutti i cooperanti oppure possono essere dello « stesso genere », cioè « omogenee ». Come risulta dallo schema a pagina seguente, ci sono due tipi di cooperazione sempli­ ce che ammettono una forma di divisione del lavoro; tut­ tavia Marx tende ad assimilarle al tipo A che non am­ mette tale divisione. Infatti, nella forma A, l’operazione è indivisa e Marx chiarisce questo punto con le parole di Wakefield: « Ci sono numerosi lavori di specie cosi sem­ plice da non ammettere una divisione in parti, che però non possono essere compiute senza la cooperazione di molte paia di braccia »65. A proposito delle forme sempli­ ci, quindi, Marx insiste maggiormente sulla combinazione delle operazioni che non sulla loro divisione e distribu­ zione, perché «le singole operazioni costituiscono parti

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CAPITOLO QUINTO

continue d’una operazione complessiva» (vedi tipo B)66. Da questo punto di vista il tipo C viene ricondotto ai due precedenti, anche se in questo caso « il processo di lavoro è complicato » e « la semplice massa dei collaboranti per­ mette di distribuire tra differenti braccia le differenti ope­ razioni , e quindi di compierle contemporaneamente»67. Ciò si spiega perché Marx vuole caratterizzare questo ti­ po di lavoro rispetto a quello compiuto da « operai più o meno isolati che debbono applicarsi al loro lavoro in ma­ niera più unilaterale »68. Un secondo problema nasce dalla distinzione tra la for­ ma C e la forma D, caratterizzate rispettivamente con « operazioni dello stesso genere » e « operazioni differenti ». Marx non sempre mantiene questa terminologia, e ab­ biamo visto infatti che egli, facendo l’esempio della pesca con le reti o la fiocina, usa l’espressione « operazioni dif­ ferenti », mentre a rigore si tratterebbe di operazioni del­ lo stesso genere, cioè tutte inerenti al mestiere di pesca­ tore. Questa ambiguità viene meno tenendo presente la definizione marxiana di divisione manifatturiera del lavo-

SCHEMA DELLE FORME DI COOPERAZIONE

Processo lavorativo indiviso Operazione identica per tutti

Processo lavorativo suddiviso e connesso

A

B

Cooperazione semplice (es. sollevare un peso)

Cooperazione semplice (es. catena di uomini)

Operazioni dello stesso genere (omogenee)

Cooperazione semplice (lavori agricoli, di costruzione; pesca)

Operazioni differenti (eterogenee)

Manifattura

C

D

Le forme di cooperazione sono date dall’incrocio dei tipi di ope­ razione e di processo lavorativo.

IL CONCETTO DI COOPERAZIONE

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ro. Per non anticipare l’esposizione, è sufficiente tenere presente che la cooperazione semplice con assegnazione di operazioni dello stesso genere è definita in base alla temporaneità della divisione del lavoro. Il concetto di « divisione del lavoro temporanea » era stato introdotto da Skarbek proprio per distinguere questo tipo di asse­ gnazione da quella in cui le operazioni vengono assegnate in modo « permanente »69. Da questo punto di vista è pos­ sibile allora distinguere rigorosamente le due nozioni di omogeneità e di eterogeneità delle operazioni e definire in base ad esse rispettivamente la divisione del lavoro tem­ poranea e quella permanente. Infatti un processo lavora­ tivo suddiviso in operazioni omogenee o dello stesso tipo non richiede che ciascun individuo si specializzi ed esegua sempre una determinata operazione; egli può di volta in volta cambiare tipo di operazione secondo la necessità del momento. In ultima analisi l’operaio sarà sempre in pos­ sesso di un mestiere (artigiano) completo, anche se in de­ terminate occasioni eseguirà soltanto una o alcune delle varie operazioni richieste da quel mestiere. Una struttura tipica del lavoro in comune, analoga alla nozione di azione lavorativa conforme a scopo, è il «pia­ no » della cooperazione, che garantisce nello stesso tempo la stabilità dell’organismo sociale, l’integrazione degli in­ dividui e il mantenimento dello scopo comune. La com­ plessità del piano può variare in riferimento alla scala del­ la cooperazione e alle forme di organizzazione del lavoro, ma in quanto condizione minima il piano va considerato come una costante in ogni tipo di cooperazione. Il piano e l’obiettivo definiscono quindi l’integrazione e l’interdi­ pendenza delle parti del sistema e sono a loro volta stret­ tamente connessi con la funzione direttiva che serve a coordinare le parti in vista dello scopo comune70. La « di­ rezione » viene infatti definita da Marx in un primo mo­ mento in termini semplicemente formali: «Ogni lavoro sociale in senso immediato, ossia ogni lavoro in comune, quando sia compiuto su scala considerevole, abbisogna, piu o meno, d’una direzione che procuri l’armonia delle attività individuali e compia le funzioni generali che deri­ vano dal movimento del corpo produttivo complessivo,

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in quanto differente dal movimento degli organi autonomi di esso »71. La funzione direttiva va quindi definita in ter­ mini generali e in riferimento alla scala della cooperazio­ ne e al grado di complessità del piano che fissano a loro volta condizioni molto generali. A questo livello di gene­ ralità, per Marx tale funzione « è soltanto una funzione particolare derivante dalla natura del processo lavorativo sociale e a tale processo pertinente »72; in altri termini, per definire la direzione non occorre fare appello a consi­ derazioni differenti da quelle che servono a definire la cooperazione in generale. Ma, anche in questo caso, non appena si debba determinare la forma capitalistica della direzione, occorre prendere in considerazione altri aspetti di questa funzione e impostare il problema non più in ter­ mini formali bensì dal punto di vista storico e sociologico. A proposito di questo concetto occorre osservare che esso costituisce un componente importante del modello organicistico adottato da Marx per studiare le forme di cooperazione. Egli, infatti, concepisce la cooperazione co­ me « corpo produttivo complessivo », cioè come un orga­ nismo costituito da un insieme di strutture o « organi au­ tonomi » e integrati tra loro - cioè le singole attività sono «armoniche». L’armonia e l’integrazione delle strutture non sono a loro volta strutture separate dell’organismo, ma costituiscono una « funzione generale » che garantisce la connessione delle parti. 4. La forma capitalistica della cooperazione.

Lo studio del processo lavorativo dal punto di vista dell’oggettivazione non permetteva ancora di stabilire le con­ dizioni sociali in cui si svolge. L’introduzione di queste condizioni richiede ulteriori determinazioni che cadono al di fuori del quadro concettuale offerto dal processo lavo­ rativo in quanto processo di oggettivazione. Il concetto di cooperazione fornisce appunto uno schema di riferi­ mento per studiare quelle condizioni e conferisce alla ri­ cerca un carattere specificamente sociologico. La defini­ zione della cooperazione capitalistica presuppone a sua volta l’esplicitazione delle condizioni generali del modo

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capitalistico di produzione. Dati questi presupposti, il ca­ rattere capitalistico della cooperazione sarà determinato dal fine della produzione che è il plusvalore, dalla confi­ gurazione del processo lavorativo come « processo di con­ sumo della forza-lavoro da parte del capitalista», dal « controllo » che il capitalista esercita sugli individui coo­ peranti e dalla « proprietà del prodotto » da parte del ca­ pitalista 73. In base a queste condizioni è già possibile rica­ vare due significati di « estraniazione », e cioè l’estraniazione dal prodotto in quanto risultato del consumo di una merce che il capitalista ha acquistato e l’estraniazione del­ l’operaio dal proprio lavoro, nel senso che nella coopera­ zione l’operaio perde il controllo sul proprio lavoro. Una delle condizioni generali del modo capitalistico di produzione è la subordinazione dell’operaio al capitalista cui appartengono il lavoro e il prodotto del lavoro. Que­ sta subordinazione, che in generale gli economisti espri­ mono come « comando del capitale sul lavoro », va consi­ derata in riferimento al concetto di direzione quando i rapporti sociali siano visti all’interno della cooperazione. In questo caso la direzione non avrà semplicemente il si­ gnificato di una condizione minima del processo lavora­ tivo; dato il contesto di rapporti sociali in cui è inserita, essa diviene la funzione esclusiva del capitalista e viene ul­ teriormente determinata come direzione autoritaria. « La direzione del capitalista non è soltanto una funzione par­ ticolare derivante dalla natura del processo lavorativo so­ ciale e a tale processo pertinente; ma è insieme funzione di sfruttamento di un processo lavorativo sociale, ed è quindi un portato dell’inevitabile antagonismo fra Io sfrut­ tatore e la materia prima da lui sfruttata »74. Marx stesso, in polemica con certi economisti, fornisce una verifica di­ retta della distinzione tra concetti che hanno funzioni dif­ ferenti secondo i gradi di astrazione in cui si collocano. L’economista « quando esamina il modo di produzione ca­ pitalistico... identifica la funzione direttiva, in quanto de­ riva dalla natura stessa del processo lavorativo comune, con la stessa funzione, in quanto portato del carattere ca­ pitalistico, quindi antagonistico, di questo processo. Il ca­ pitalista non è capitalista perché dirigente industriale ma

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diventa comandante industriale perché è capitalista »75. Il concetto di direzione, dunque, può indicare una condizio­ ne necessaria della cooperazione oppure può servire a sta­ bilire il significato sociale di un determinato rapporto al­ l’interno della cooperazione. Questa distinzione tra fun­ zioni e significati differenti del concetto di direzione è uno strumento metodologico fondamentale, soprattutto quan­ do si debbano studiare grosse organizzazioni produttive in cui il carattere tecnico della funzione direttiva diventa talmente predominante da oscurare il fatto che essa è sem­ pre anche funzione sociale di un gruppo di potere. Que­ sto procedimento non soltanto impedisce di confondere concetti che si collocano a livelli di astrazione differenti — con le implicazioni ideologiche conservatrici che secon­ do Marx derivano da un uso cattivo delle astrazioni - ma permette anche di stabilire continui rapporti tra l’appa­ rato tecnologico del processo lavorativo, le strutture dei processi di decisione e il significato dei rapporti sociali nella cooperazione. Questa connessione diventa evidente nell’analisi della manifattura e del sistema di fabbrica, do­ ve da un lato il concetto di cooperazione in tutte le sue articolazioni rende possibile la ricerca sociologica e dal­ l’altro lato le categorie di direzione autoritaria e di piano e fine capitalistico della produzione assumono valori dif­ ferenti in questi due tipi di cooperazione. Definiti i due livelli di astrazione su cui si situano le ca­ tegorie sociologiche, si pone ora il problema, in riferimen­ to alla funzione direttiva, di stabilire le sue « note carat­ teristiche specifiche in quanto funzione specifica del capi­ tale »76. Il fine capitalistico della produzione permette ap­ punto di determinare il significato sociale della direzione e in generale di tutti i rapporti entro la cooperazione77. In questo senso si può dire allora che il plusvalore serve da criterio selettivo dei rapporti sociali significativi ed esso ha nel Capitale la stessa funzione che l’estraniazione ave­ va nei manoscritti del 1844 e neW Ideologia tedesca. La direzione autoritaria ha, in generale, una funzione di sfruttamento degli operai impiegati per ottenere la mag­ giore quantità possibile di plusvalore; in particolare essa controlla e reprime il comportamento di « resistenza » dei

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subordinati. Le attività lavorative devono essere regolate mediante norme che garantiscano l’opportuno svolgimen­ to del lavoro e l’uso appropriato degli strumenti78. « Così pure, col crescere del volume dei mezzi di produzione che l’operaio salariato si trova davanti come proprietà altrui, cresce la necessità del controllo affinché essi vengano ado­ perati convenientemente »79. Con l’ingrandimento dell’or­ ganizzazione si richiedono dunque norme di controllo sempre piu elaborate, condizionate nello stesso tempo dal­ la struttura del processo lavorativo sociale e dalla proprie­ tà altrui, rispetto alla quale la direzione autoritaria acqui­ sta rilevanza sociologica. Marx mostra da un lato che la so­ luzione organizzativa posta dalle eventuali trasformazio­ ni nella produzione va riferita alle esigenze tecniche del processo lavorativo, ma dall’altro lato studia tale solu­ zione riferendola alla struttura del processo decisionale esistente nella cooperazione capitalistica80. A differenza delle norme di controllo, le norme che hanno la funzione specifica di reprimere il comportamento di resistenza dei subordinati sono un requisito tipico del funzionamento della cooperazione capitalistica. La distinzione tra norme di controllo e norme di repressione è molto importante perché non soltanto permette di far luce sui criteri meto­ dologici di fondo della sociologia marxiana, ma mostra an­ che come il modello di valore del comuniSmo operi in que­ sto caso all’interno della stessa ricerca empirica. Secondo Marx, mentre le norme di controllo costituiscono la con­ dizione necessaria di qualsiasi organizzazione produttiva ed è sempre possibile discriminare la funzione tecnica dal­ la funzione sociale, le norme di repressione hanno esclu­ sivamente un significato sociale e il loro campo di validità è circoscritto a quelle forme di cooperazione che si costi­ tuiscono in base alla separazione esclusiva tra le funzioni di esecuzione e le funzioni di direzione. Infatti nella fab­ brica comunista, poiché il corpo lavorativo sociale assu­ me in proprio la totalità delle funzioni direttive, non ha più senso parlare di norme repressive81. Dato l’obiettivo del plusvalore, la resistenza degli ope­ rai e la loro repressione sono « un portato dell’inevitabile antagonismo » tra il capitalista e l’operaio. Quindi la com-

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plessità dell’organizzazione richiede norme sempre più autoritarie: «con la massa degli operai simultaneamente impiegati cresce la loro resistenza, e quindi necessaria­ mente la pressione del capitale per superare tale resisten­ za »82. Emerge qui il carattere necessario del conflitto che impone sempre l’individuazione delle norme come stru­ menti repressivi. L’analisi della funzione direttiva mostra come l’interconnessione delle parti del sistema e il loro orientamento verso un obiettivo comune, che da un punto di vista formale vanno considerate « idealmente come pia­ no», si configurano «praticamente come autorità del ca­ pitalista, come potenza d’una volontà estranea che assog­ getta al proprio fine la loro attività » 83. Ciò che nei mano­ scritti si presentava come estraniazione dal lavoro, nel Ca­ pitale - in cui Marx ha proceduto a uno studio analitico del funzionamento delle organizzazioni produttive e dei rapporti sociali al loro interno - si ripresenta in una for­ mulazione assai più precisa e articolata. Marx ha abbando­ nato il linguaggio filosofico degli anni giovanili e si è ser­ vito di concetti che rendono possibile l’integrazione del­ la categoria di estraniazione nella ricerca empirica. L’« en­ te estraneo e ostile » è divenuto la direzione « dispotica » del capitalista, cioè l’insieme delle norme di controllo e di repressione. L’estraniazione dal lavoro viene dunque riformulata sulla base dei risultati dell’analisi delle orga­ nizzazioni produttive e delle strutture della cooperazione; Marx non parla più semplicemente del lavoro che sta al di fuori degli operai, ma dice che «la connessione delle loro funzioni e la loro unità come corpo produttivo com­ plessivo stanno al di fuori degli operai salariati, nel capi­ tale che li riunisce e li tiene insieme » M. Il processo di estraniazione si configura come l’esclusione dalle decisioni che presiedono alla formulazione delle norme, fermo re­ stando che in questo contesto la partecipazione alle de­ cisioni comporta necessariamente l’eliminazione di quell’inevitabile antagonismo che è la condizione dell’esclu­ sione, e nello stesso tempo la modificazione dei fini che orientano quelle decisioni. Il carattere capitalistico della direzione, sia nella coo­ perazione sia nelle particolari analisi della manifattura e

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della fabbrica, porta Marx a privilegiare o comunque a dare un rilievo determinante a tale relazione sociale, at­ tribuendole un ruolo esplicativo rispetto a tutte le altre relazioni che si svolgono nel processo produttivo. I rap­ porti tra gli operai non soltanto vengono continuamente riportati al rapporto della direzione capitalistica, ma il si­ gnificato del lavoro in comune si qualifica proprio in base a tale riferimento. « Come persone indipendenti gli ope­ rai sono dei singoli i quali entrano in rapporto con lo stesso capitale ma non in rapporto reciproco fra loro. La loro cooperazione comincia soltanto nel processo lavora­ tivo, ma nel processo lavorativo hanno già cessato d’ap­ partenere a se stessi. Entrandovi, sono incorporati nel ca­ pitale. Come cooperanti, come membri d’un organismo operante, sono essi stessi soltanto un modo particolare di esistenza del capitale »85. Di conseguenza « la cooperazio­ ne degli operai salariati è un semplice effetto del capitale che li impiega simultaneamente »86. Gli operai sono in un rapporto di subordinazione rispetto ai processi di decisio­ ne, e a tale subordinazione partecipa anche il loro lavoro, in quanto funzione degli obiettivi della direzione. La stes­ sa cosa può essere esaminata da un punto di vista diverso: la forza-lavoro combinata non è riconosciuta dal capitali­ sta se non come somma meccanica delle singole forze-lavo­ ro, e quindi il salario è sempre in ragione della forza-la­ voro singola. Come conseguenza si ha che la forza produt­ tiva sviluppata dalla forza-lavoro combinata è in funzione degli obettivi della direzione e quindi il carattere sociale della forza-lavoro combinata non è acquisito da parte de­ gli operai come significato dei loro lavori singoli. Il carat­ tere sociale della forza-lavoro, derivato dal suo essere for­ za-lavoro combinata, non diventa significato del lavoro in­ dividuale — è estraneo al singolo lavoratore. Anche qui il processo lavorativo riceve le sue determinazioni sociali soltanto in rapporto alla direzione capitalistica: al di fuori di tale riferimento rimane un rapporto tra i singoli lavo­ ratori spogliato di ogni senso sociale. Si ricavano cosi due ulteriori determinazioni dell’estraniazione, riconducibili alle definizioni presenti nei manoscritti del 1844. Nella cooperazione gli operai cessano di appartenere a se stessi,

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perché l’estraniazione dal lavoro si configura come coope­ razione in un processo lavorativo costituito da un piano e da decisioni estranee. « Il processo lavorativo è un proces­ so che si svolge fra cose che il capitalista ha comprato, fra cose che gli appartengono » 87. Ma se i rapporti sociali nel­ la cooperazione sono ridotti a rapporti tra cose, i rapporti tra gli operai sono a loro volta strumentali, perché si con­ figurano secondo criteri non inerenti alla loro libera atti­ vità produttiva, cioè imposti dalla direzione capitalistica. 1 Si veda, per esempio, l’analisi del rapporto tra sottosviluppo e proletariato in Francia in k. marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, a cura di G. Giorgetti, Roma 1962, pp. 111-17 e 250. Sul cambiamento indotto nella tattica delle alleanze cfr. per esempio, ibid., pp. 51 sgg.; uno studio esauriente della que­ stione è quello di e. molnar, La politique dalliances du marxisme. 2 Cit. in j. r. T. hughes, Fluctuations in Trade, Industry and Fi­ nance. A Study of British Economic Development 1850-1860, Oxford i960, p. 229. 3 Cfr. Marx a Engels, 7 giugno e 17 agosto 1849, in Carteggio Marx-Engels, I (1844-51), pp. 129-30 e 134; f. engels, introdu­ zione a Le lotte di classe in Francia, pp. 42-43. 4 Si è sostenuto che i cambiamenti nella situazione dell’Inghilterra dopo il 1850 rendono problematica o comunque difficile da sta­ bilire la connessione tra le «esplosioni» sociali e gli «slumps» del ciclo economico e che quindi non è riproponibile il modello implicito nelle «assunzioni tradizionali degli uomini del 1848» (e. j. hobsbawm, Economie Fluctuations and some Social Mo­ vements since 1800, «Economie History Review», v, 1952, pp. 1-25). 5 The Great Exhibition, «The Economist», 4 gennaio 1851, in / Human Documents of the Victorian Golden Age (1850-1875), a cura di E. R. Pike, London 1967, p. 45. 6 k. marx, Il capitale, libro I, p. 711. Su questo periodo cfr. 1’importante sintesi in e. j. hobsbawm, Industry and Empire. An Economic History of Britain since 1750, London 1969. 7 Cfr. j. r. T. hughes, Fluctuations in Trade, Industry and Fi­ nance. 8 Marx a Engels, 8 ottobre 1858, in Carteggio Marx-Engels, III (1857-60), Roma 1951, pp. 240-41. 9 Engels a Marx, 13 febbraio 1851, in Carteggio Marx-Engels, I, pp. 177-78; Marx a Freiligrath, 29 febbraio i860, cit. in M. rubel, Chronologie (k. marx, CEuvres, vol. I, Paris 1965, p. cix).

NOTE

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10 k. marx, Le lotte di classe in Francia, p. 285. 11 Ibid., pp. 285-86. 12 Cfr. anche le Enthullungen uber den Kommunisten-Prozess zu Kòln. Su questo sfondo si colloca la battaglia condotta da Marx in seno alla Lega dei comunisti che ne determinò la scissione. 13 K. marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica: 1857-1858, vol. I, trad. it. Firenze 1968, p. 104. 14 id., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politi­ ca, vol. II, Firenze 1970, p. 84. 15 Ibid., p. 82. 16 Ibid., pp. 149-50. 17 «Riconoscere i prodotti come prodotti suoi e giudicare la sepa­ razione dalle condizioni della sua realizzazione come separazione indebita e forzata - è una coscienza enorme che è essa stessa un prodotto del modo di produzione basato sul capitale, e al tempo stesso il knell to its doom » {ibid., p. 84). 18 k. marx, Il capitale, libro I, p. 497. 19 «Una formazione sociale non perisce finché non si siano svilup­ pate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e supe­ riori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che sia­ no maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quan­ do le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o al­ meno sono in formazione» (k. marx, Per la critica dell’economia politica, trad. it. Roma 1957, Prefazione, p. 11). 20 Cfr. Marx a Engels, 4 novembre 1864, in Carteggio NLarx-Engels, IV (1861-66), trad. it. Roma 1951, p. 246. 21 k. marx, Indirizzo inaugurale e statuti provvisori dell’Associa­ zione internazionale degli operai, in K. marx e F. engels, Il Par­ tito e l’Internazionale, trad. it. Roma 1948, p. no. 22 Marx si riferisce in particolare ai Principles of Political Economy di J. S. Mill. 23 k. marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I, p. 3. 24 Ibid., p. 5. 25 Ibid., p. 4. 26 Ibid. 27 « Quando si parla dunque di produzione, si parla sempre di pro­ duzione ad un determinato livello di sviluppo sociale - della produzione di individui sociali. Da ciò potrebbe sembrare che, per parlare in generale della produzione, noi dovessimo o segui­ re il processo di sviluppo storico nelle sue diverse fasi, oppure dichiarare fin dall’inizio che abbiamo a che fare con una deter­ minata epoca storica, e quindi ad esempio con la moderna produ­

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zione borghese, che in effetti è il tema specifico della nostra ana­ lisi» (ibid., p. 6). 28 Ibid.) p. 9. 29 Ibid. 30 «... tutte le epoche della produzione hanno certi caratteri in co­ mune, certe determinazioni comuni. La produzione in generale è un’astrazione, ma un’astrazione che ha un senso, nella misura in cui mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione» (ibid.) p. 6). 31 Ibid.) p. 7. 32 Ibid., p. 9. 33 Ibid., p. 7. 34 Cfr. Il capitale) libro I, cap. 5, § 1 : Processo lavorativo. 35 II presupposto da cui parte Marx è « il lavoro in una forma nella quale esso appartenga esclusivamente all"uomo... Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale; egli realizza nell’elemento natu­ rale, allo stesso tempo, il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà» (ibid., p. 212). 36 « Il mezzo di lavoro è una cosa o un complesso di cose che il la­ voratore inserisce fra sé e l’oggetto del lavoro, che gli servono da conduttore della propria attività su quell’oggetto. L’operaio uti­ lizza le proprietà meccaniche, fisiche, chimiche delle cose, per farle operare come mezzi per esercitare il suo potere su altre co­ se, conformemente al suo scopo. Immediatamente... il lavorato­ re non s’impadronisce dell’oggetto del lavoro, ma del mezzo del lavoro. Cosi lo stesso elemento naturale diventa organo della sua attività» (ibid., p. 213). 37 Per esempio 0. lange, Economia politica, parte I, trad. it. Roma 1962; T. KOTARBiNSKi, Praxiology. An Introduction to the Scien­ ces of Efficient Action, trad. ingl. Oxford 1965. 38 II capitale, libro I, p. 218. 39 « Come dal sapore del grano non si sente chi l’ha coltivato, cosi non si vede da questo processo sotto quali condizioni esso si svolga, sotto la sferza brutale del sorvegliante di schiavi o sotto l’occhio inquieto del capitalista; non si vede se lo compia Cincin­ nato arando i suoi pochi jugeri o il selvaggio che abbatte una be­ stia con un sasso» (ibid.). 40 Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I, pp. 26-27. 41 Ibid., p. 27. 42 Ibid.) p. 28. 43 Ibid.

NOTE

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Ibid. Ibid., p. 29. Ibid., p. 28. La quale, rispetto alla società capitalistica moderna costituisce un «concreto meno sviluppato» (ibid., p. 29). 48 Ibid. 49 Ibid., pp. 35-36. 50 Ibid., p. 35. 51 È un merito di Della Volpe Pavere insistito sull’importanza me­ todologica dell'introduzione del *57 (cfr. Logica come scienza ■positiva, Messina-Firenze 1956; Rousseau e Marx, Roma 1962); il suo limite consiste nel peso eccessivo dato alle connessioni formali tra questo testo e il manoscritto giovanile Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Piu gravi i limiti degli studi di Colletti (Il marxismo e Hegel, Bari 1969) per il quale, in definitiva, il Capitale si riduce a un’espansione della gnoseo­ logia contenuta nell'introduzione del ’57. K. marx, Miseria della filosofia, p. 113. Alla fine del settembre 1850 Marx riprende gli studi di econo­ mia politica e durante l’anno successivo compila 14 quaderni di estratti tra i quali figurano le opere di A. Ure, J. H. M. Poppe (Geschichte der Lechnologie, Gottingen 1807) e J. Beckmann (Beytrage zur Geschichte der Erfindungen, Leipzig 1783-1805). Cfr. Marx a Engels, 13 ottobre 1851, in Carteggio Marx-Engels, I, pp. 322. Durante la stesura della quarta sezione del primo li­ bro (1863) riprende gli antichi quaderni sulla storia della tecni­ ca e comunica a Engels le difficoltà che incontra nelle sue ricer­ che. « Inserisco qualche cosa nel capitolo sul macchinario. Vi so­ no qui alcune questioni curiose, che io nella prima stesura igno­ ravo. Per venire in chiaro di esse, mi sono riletto da cima a fon­ do i miei quaderni (sunti) di tecnologia, per le stesse ragioni se­ guo un corso pratico (soltanto sperimentale) per operai del pro­ fessor Willis (in Jermyn Street, l’istituto di geologia, dove anche Huxley tiene le sue lezioni). Mi succede con la meccanica, come per le lingue. Capisco le leggi matematiche, ma la piu semplice realtà tecnica, che richiede intuizione, mi riesce difficile come ai piu gran tangheri» (Marx a Engels, 28 gennaio 1863, in Carteg­ gio Marx-Engels, IV, p. 158). Le «questioni curiose» erano atti­ nenti alla distinzione tra strumento e macchina (cfr. oltre). 54 Marx a Engels, 25 settembre 1857, in Carteggio Marx-Engels, III, p. 94. 53 Marx a Engels, 7 luglio 1866, in Carteggio Marx-Engels, IV, p. 428. 56 II capitale, libro I, p. 424. 57 Cfr. ibid., pp. 220-32.

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58 Cfr. ibid., pp. 200,201 e 363. 59 Cfr., per esempio, j. bellers, Proposals for raising a Coiledge of Industry of all useful Trades and Husbandry, j. Arbuthnot, An Inquiry into the Connection between the Present Price of Provisions, and the size of Farms, London 1773; E. G. wakefield, A View of the Art of Colonization, London 1849. 60 k. marx e f. engels, L’ideologia tedesca, p. 20. 61 II capitale, libro I, p. 367. 62 Ibid., p. 371. 63 Ibid., p. 366. 64 Ibid., p. 367. 65 E. g. Wakefield, A View of the Art of Colonization, p. 168. È indicativo che i testi citati da Marx nel capitolo sulla coopera­ zione si riferiscono essenzialmente ai processi lavorativi nell’a­ gricoltura. 66 II capitale, libro I, p. 368. 67 Ibid., p. 369. 68 Ibid. 69 Skarbek fa l’esempio del carpentiere che distribuisce differenti lavori tra vari muratori per costruire una casa: «ciascuno di essi... ha una funzione differente indispensabile al compimento totale del fabbricato che costruiscono; ma essi sono tutti occu­ pati a uno stesso mestiere; sono tutti carpentieri e la funzione che svolgono esclusivamente per lo spazio di un giorno o per un tempo piu o meno lungo non costituisce affatto l’occupazione esclusiva della loro vita; essi cambiano funzione secondo le esi­ genze del tipo di lavoro che esercitano... questa divisione non è che temporanea» (f. skarbek, Théorie des richesses sociales, tomo I, p. 97). 70 Un concetto analogo, che Marx esamina in riferimento al siste­ ma di fabbrica, è quello di « regolazione sociale » che indica l’in­ sieme delle norme. 71 II capitale, libro I, p. 372. 72 Ibid. 73 Cfr. ibid., p. 219. 74 Ibid., p. 372. Il concetto di direzione autoritaria è stato studiato da Marx come una delle caratteristiche delle forme capitalistiche di cooperazione, ma il suo campo di applicazione può essere esteso a tutte le forme di cooperazione quando si presupponga una società divisa in classi e fondata sulla separazione esclusiva delle funzioni di direzione e di controllo dalle funzioni di esecu­ zione. NeUTdeologia tedesca il concetto di direzione autoritaria veniva espresso con il termine « potenza estranea » e aveva, quan­ to al suo campo di validità, un’estensione analoga. Questo ter­ mine esprimeva, attraverso l’uso della categoria di estraniazione, l’esclusione di determinate classi dal potere e pertanto il suo ca-

NOTE

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rattere autoritario in tutte le società in cui esiste la divisione tra lavoro intellettuale e manuale. Nel Capitale la direzione autori­ taria continua a essere definita, incidentalmente, come «potenza d’una volontà estranea» {ibid., p. 373), ma si presenta il’interno della cooperazione intesa nel significato più ristretto. 75 Ibid., p. 374. 76 Ibid., p. 372. 77 « Motivo propulsore e scopo determinante del processo capita­ listico di produzione è in primo luogo la maggior possibile auto­ valorizzazione del capitale, cioè la produzione di plusvalore più grande possibile, e quindi il maggior sfruttamento possibile della forza-lavoro da parte del capitalista» {ibid.Y 78 Ibid., p. 219. 79 Ibid.,yp. 80 Ciò permetterà - come si vedrà in seguito - di connettere la so­ luzione organizzativa con gli obiettivi capitalistici e quindi di non considerarla come Tunica possibile. 81 SÌ tratta di un modo di ragionare analogo a quello che conduce­ va Saint-Simon a distinguere tra «comando» e «direzione»: «Nell’antico sistema il popolo era irreggimentato rispetto ai suoi capi’, nel nuovo esso è combinato con loro. Da parte dei capi militari c’era il comando’, da parte dei capi industriali non c’è che direzione» {Organisateur, nona lettera, in CEuvres de Saint-Simon, Paris 1869, voi. IV, p. 150)» 82 II capitale, libro I, p. 372. «Questo dispotismo sviluppa poi le sue forme peculiari mano a mano che la cooperazione si sviluppa su scala maggiore» {ibid., p. 373). Marx accenna alla delega di potere attraverso le funzioni di sorveglianza, indispensabile quando la scala della cooperazione assume proporzioni rilevanti. 83 Ibid. 84 Ibid. 85 Ibid., p. 374. 86 Ibid., p. 373. 87 Ibid., p. 220.

Capitolo sesto

i. Divisione del lavoro ed estraniazione. La cooperazione semplice, dal punto di vista delle mo­ dificazioni indotte dai rapporti sociali capitalistici nel pro­ cesso lavorativo, non si presenta come processo lavorati­ vo specificatamente capitalistico. Ai suoi inizi, infatti, il capitalista accoglie dalla tradizione l’organizzazione e le tecniche della produzione; in seguito, in risposta alle esi­ genze della valorizzazione, introdurrà nel luogo di- lavoro innovazioni organizzative che rendono possibile lo studio del processo lavorativo in quanto specificatamente capi­ talistico. La cooperazione semplice, pertanto, si configura non come ima delle fasi storiche del processo lavorativo capitalistico, - caratterizzate, come la manifattura e il si­ stema di fabbrica, dall’introduzione di tecniche specifi­ che, - ma come forma non fissa, accidentale, casuale. Ai suoi inizi la cooperazione capitalistica si distingue dagli altri tipi di cooperazione non perché in essa compaiano nuove tecniche di lavoro, ma perché i rapporti sociali che hanno luogo nel processo lavorativo sono già rapporti ca­ pitalistici. Infatti, trattando della cooperazione capitali­ stica, Marx l’aveva descritta non dal punto di vista delle innovazioni tecniche, ma dal punto di vista del nuovo si­ gnificato sociale che assumono i rapporti tra gli indivi­ dui cooperanti e tra questi e la direzione. Lo scopo della produzione capitalistica, che consiste nella formazione di plusvalore piu grande possibile e quindi in una sempre maggiore esigenza di aumentare la forza produttiva, è il tramite attraverso il quale la cooperazione passa dalle sue forme semplici alle fasi caratterizzate dall’introduzione della divisione del lavoro e delle macchine. E a questo

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proposito Marx riprende la sua tesi che l’esigenza dell’in­ novazione tecnica del processo lavorativo deriva soltanto dalla cooperazione a direzione capitalistica e non dai tipi precapitalistici di cooperazione. Marx colloca storicamente il periodo della manifattu­ ra, « come forma caratteristica del processo di produzio­ ne capitalistico », tra la metà del secolo xvi e l’ultimo ter­ zo del secolo xvin \ e descrive - come aveva già fatto per lo scambio nella prima sezione - il processo attraverso il quale la divisione del lavoro si trasforma in una struttu­ ra sociale consolidata. L’emergenza della divisione del la­ voro come istituzione viene illustrata a partire da una se­ rie di fenomeni casuali; attraverso la ripetizione di que­ sti fenomeni, cioè attraverso l’abitudine dell’artigiano a non esercitare piu il mestiere in tutta la sua estensione, attraverso la considerazione dei vantaggi di razionalità e di efficienza derivati dalla restrizione dell’area lavorati­ va, e cosi via, si giunge alla « cristallizzazione » o « ossifi­ cazione» della divisione del lavoro e alla sua diffusione progressiva in tutti i rami di lavoro. «La cooperazione fondata sulla divisione del lavoro, ossia la manifattura, è alla sua origine una formazione spontanea e naturale. Appena ha raggiunta una certa consistenza e una certa ampiezza di esistenza, diventa la forma consapevole, de­ liberata secondo un piano e sistematica, del modo di pro­ duzione capitalistico»2. A questo punto l’istituzione è completamente formata e viene riconosciuta come strut­ tura sociale dotata di una sua fisionomia e studiata da eco­ nomisti e tecnologi. Nell’illustrare il processo di istituzionalizzazione della divisione del lavoro Marx tratta dell’origine storica della manifattura individuando due genesi differenti, secondo due punti di partenza differenti. La prima forma di ori­ gine si ha quando un certo numero di mestieri artigiani indipendenti nella divisione sociale del lavoro si trasfor­ mano, attraverso un processo di cristallizzazione, in atti­ vità dipendenti nella divisione del lavoro. La seconda for­ ma di origine si ha quando un lavoro artigiano omogeneo, attraverso un analogo processo di cristallizzazione, viene scomposto in varie operazioni eterogenee. Nei due casi,

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quindi, la trasformazione avviene o dall’indipendenza al­ la dipendenza, oppure dall’omogeneità all’eterogeneità; ma in entrambi i tipi di origine della manifattura è pre­ sente uno stesso fenomeno: la riduzione della base tec­ nica del lavoro e l’esclusiva ripetizione di un numero limi­ tato di operazioni rispetto all’antico mestiere artigiano. La « cristallizzazione del lavoro » non è altro che la ri­ duzione dell’area lavorativa e la ripetizione delle opera­ zioni corrispondenti a quest’area ridotta3. La definizione della cooperazione come divisione ma­ nifatturiera del lavoro presuppone un chiarimento preli­ minare del significato di questo concetto, che fin dal 1844 Marx aveva distinto dal concetto di divisione sociale del lavoro4. La funzione di questa distinzione, che allora non era ancora resa esplicita, viene enunciata per la prima vol­ ta nella Miseria della filosofia5, ma diviene operante sol­ tanto nel Capitale, dove la divisione manifatturiera del lavoro è considerata come campo specifico di ricérca. L’at­ tributo comune espresso dai due concetti consiste nel ca­ rattere « sociale » del lavoro definibile in termini di in­ terconnessione o dipendenza delle attività tra le quali il lavoro è diviso, cioè in termini di cooperazione6. Tutta­ via, più che le analogie a Marx preme fissare i tratti differenzianti, che gli servono sia per stabilire le condizioni storiche dell’organizzazione manifatturiera del lavoro sia per muovere una critica all’insufficiente caratterizzazione che i due concetti hanno in Adam Smith. In riferimento ai due noti significati di «cooperazione», nella società i rapporti tra i produttori indipendenti sono mediati dallo scambio di merci, nel luogo di lavoro i rapporti tra i coo­ peranti sono diretti. In riferimento al prodotto, nella so­ cietà i produttori indipendenti producono merci, mentre nel luogo di lavoro i singoli operai non producono il pro­ dotto finito che è invece il termine finale dell’intero pro­ cesso lavorativo. Infine, per far riferimento alla forma ca­ pitalistica di cooperazione, la dipendenza reciproca delle attività nella società borghese si configura come « concor­ renza » e « anarchia », e nel luogo di lavoro come « dire­ zione autoritaria »7. La manifattura viene definita come la cooperazione in

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cui il processo lavorativo è diviso e connesso in opera­ zioni differenti o eterogenee che sono il risultato della scomposizione di un’attività artigiana e che vengono as­ segnate in modo permanente a singoli operai8. Mentre in Babbage la divisione del lavoro era stata considerata come modello di organizzazione razionale, Ure ne aveva messo in luce i limiti e l’aveva contrapposta a un tipo di organizzazione fondata sul sistema automatico. Wilhelm Schulz, delineando una storia della produzione materiale, aveva situato storicamente la divisione del lavoro nel pe­ riodo manifatturiero, intermedio tra la fase artigiana e la fase della fabbricazione con macchine. Anzi, era stato pro­ prio Schulz a usare il termine « manifattura » per indicare l’organizzazione basata sulla divisione del lavoro. Quindi l’individuazione della manifattura come fase determinata nella storia dell’industria era un dato acquisito dalla cultu­ ra storico-economica del tempo, e Marx non faceva altro che ricuperare da Ure e da Schulz il concetto e il termine9. Egli insiste soprattutto sul fatto che l’assegnazione esclu­ siva di un operaio a un’operazione costituisce la condizio­ ne di esistenza del tipo manifatturiero di organizzazione. Questa assegnazione ha tre conseguenze: in primo luogo rende «unilaterale» l’attività artigiana, in secondo luo­ go « restringe » la sfera di azione del lavoro, in terzo luo­ go accresce l’« efficienza » dell’attività lavorativa. Le sin­ gole operazioni del processo lavorativo diviso sono dette « operazioni parziali » o « funzioni esclusive » se conside­ rate dal punto di vista della loro assegnazione; gli operai che compiono le operazioni parziali sono detti a loro volta « operai parziali ». La cooperazione che si realizza con que­ sta organizzazione del lavoro viene definita da Marx co­ me « un meccanismo di produzione i cui organi sono uo­ mini »10. Le unità di analisi o, nella terminologia di Marx, gli « elementi semplici » della manifattura sono l’operaio par­ ziale e il suo strumento. Essi consentono di determinare i caratteri specifici della divisione del lavoro: la sempli­ cità, l’unilateralità, la ripetitività, la differenziazione e la continuità. A loro volta, queste determinazioni si riassu­ mono nel concetto di specializzazione e come tali servo­

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no a definire le caratteristiche sia del lavoratore sia del­ lo strumento del lavoro. Il procedimento attraverso cui si perviene all’organizzazione manifatturiera consiste in primo luogo nell’« analisi del processo di produzione nel­ le sue fasi particolari » 11. Il procedimento analitico ha lo scopo di « scomporre » un processo lavorativo artigiano, che prima veniva compiuto da un solo individuo, in un determinato numero di funzioni lavorative eterogenee; queste funzioni diventano allora « differenti » operazioni parziali che possono essere compiute da « differenti » ope­ rai parziali. La seconda fase organizzativa consiste allora nella « assegnazione permanente ed esclusiva » di una sin­ gola operazione a un singolo operaio. Queste due fasi so­ no strettamente connesse, e proprio questa connessione caratterizza la cooperazione manifatturiera dagli altri tipi di cooperazione, per i quali l’assegnazione delle opera­ zioni non richiede l’analisi del processo lavorativo e nei quali non esiste divisione del lavoro in senso proprio. L’ulteriore condizione restrittiva, su cui Marx insiste par­ ticolarmente, è connessa all’attribuzione permanente ed esclusiva delle operazioni; essa risiede fondamentalmente nella « base tecnica artigiana » della manifattura. Il pro­ cedimento analitico, infatti, parte da un mestiere artigia­ no e giunge sempre a un’operazione artigiana. Ciò signi­ fica che l’esecuzione dell’operazione parziale esige gli stes­ si requisiti che caratterizzavano il lavoro dell’artigiano in­ dipendente, e che la possibilità di sfruttare e sviluppare al massimo grado i requisiti naturali e le specializzazioni richieste dalla funzione risiede nel suo esercizio reite­ rato 12. La connessione tra l’analisi del lavoro e l’assegnazione permanente distingue la manifattura dall’artigianato. In­ fatti, a differenza del lavoro artigiano in cui i requisiti attitudinali si sviluppano nel lavoratore in modo « multi­ laterale », nella manifattura vengono potenziate in modo « unilaterale » soltanto alcune delle disposizioni naturali e acquisite. Inoltre, mentre la serie delle operazioni che compongono un processo lavorativo artigiano sono « di­ scontinue », nel senso che ogni operazione è separata dal­ l’altra dal periodo di tempo in cui l’artigiano passa da

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un’area lavorativa all’altra o da uno strumento all’altro, l’operazione parziale è « continua » data la semplicità del­ la sua struttura e la conseguente area lavorativa ristretta. Naturalmente, la continuità del lavoro dell’operaio ma­ nifatturiero varia a misura che diminuisce la varietà del­ la sua operazione13. Il carattere cooperativo della manifattura, garantendo la connessione delle parti, riunisce processi lavorativi pri­ ma separati in un processo lavorativo diviso ma connes­ so, e determina una continuità tra le fasi lavorative. Lo studio delle tecniche organizzative che garantiscono tale continuità diventa allora lo studio della connessione del­ le parti del sistema manifatturiero. Questo studio con­ duce nuovamente alla considerazione dell’organizzazione come struttura integrata, cioè come un tutto organico («figura complessiva»). Una volta che il processo lavo­ rativo sia stato analizzato nelle sue fasi costitutive, è pos­ sibile prevedere i requisiti richiesti dall’esecuzione delle differenti operazioni parziali, e quindi « adattarle » agli operai che ne sono in possesso14. Poiché ogni funzione ri­ chiede determinati gradi di abilità, sveltezza, attenzione e cosi via, è possibile stabilire una gerarchia di funzioni se­ condo il grado di complessità a cui far corrispondere una gerarchia di forze-lavoro e una scala salariale15. La ricom­ posizione del processo lavorativo e la connessione delle parti è la fase organizzativa conclusiva, che dà luogo alla formazione dei gruppi di lavoro e alla cooperazione dei gruppi. Le condizioni che permettono di realizzare la con­ nessione delle parti vengono espresse da Marx nella for­ ma di « leggi tecniche » del processo lavorativo. La pri­ ma legge - che presiede alla continuità del processo lavo­ rativo e alla reciproca integrazione delle sue parti costi­ tutive - stabilisce che il risultato di ogni operazione deve essere ottenuto sempre in un tempo determinato16. In questo caso l’integrazione indica la reciproca dipendenza delle parti di un processo lavorativo in modo da garantir­ lo da interruzioni che ne potrebbero compromettere l’ef­ ficienza produttiva. Il risultato di questo processo orga­ nizzativo è una catena di lavorazione in cui gli elementi fondamentali possono essere o l’operaio parziale o grup­

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pi di operaii7. La connessione delle parti richiede poi una nuova legge tecnica, che stabilisce la proporzionalità nu­ merica dei gruppi e degli operai parziali. Poiché le diffe­ renti operazioni possono richiedere tempi diseguali di ese­ cuzione, nell’unità di tempo si otterranno quantità dise­ guali di porzioni di manufatto. Questa legge, esprimendo la « regola e proporzionalità quantitativa del processo di lavoro sociale », evita le disfunzioni produttive in termi­ nate fasi di lavoro18. La terza legge tecnica regola lo svi­ luppo della scala della cooperazione, sia in riferimento al numero degli operai parziali tra cui il lavoro è diviso, sia in riferimento al numero dei gruppi tra i quali esiste divi­ sione del lavoro19. Queste tre leggi tecniche esprimono la razionalità del­ l’organizzazione manifatturiera negli stessi termini in cui l’aveva definita Babbage, al quale Marx ricorre sovente come a una fonte fondamentale per la sua analisi della manifattura. La considerazione dei limiti della razionalità di questa organizzazione mostra come Marx abbia utiliz­ zato l’opera di Babbage ponendosi dal punto di vista del­ la critica di Ure, per il quale la divisione del lavoro non rappresentava il massimo di efficienza organizzativa rag­ giunto dal sistema di fabbrica. Il limite fondamentale del­ la manifattura è costituito dalla sua base tecnica artigia­ na. I mezzi produttivi, che sostanzialmente si riducono allo strumento artigiano, ancorché perfezionati dall’uso su un’area lavorativa ristretta, rendono necessario l’a­ dattamento del processo lavorativo ai requisiti attitudi­ nali connessi con l’uso dello strumento stesso. Il proce­ dimento analitico trova un ostacolo invalicabile nell’esi­ stenza dello strumento artigiano e nel fatto che esso deve essere maneggiato dall’uomo. Ciò significa che, oltre un certo limite, l’uso dello strumento arresta necessariamen­ te il processo di scomposizione20. Una seconda carenza, derivante dalla stessa divisione del lavoro tra uomini e quindi in ultima analisi dalla base tecnica artigiana, è co­ stituito dal limite che il principio della continuità del pro­ cesso lavorativo incontra nell’« isolamento » delle diffe­ renti fasi di produzione. Ciò è dovuto al fatto che il mec­ canismo complessivo della manifattura è una combinazio­

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ne di operai parziali, la quale richiede un continuo pas­ saggio di uomini e materiali da un punto all’altro della ca­ tena di lavorazione2l. Questi due limiti spiegano gli alti costi di produzione che la manifattura comportava e le difficoltà tecniche per realizzare un’elevata produttività. Si è visto che nella quarta sezione Marx non conduce soltanto un’analisi delle forme di organizzazione del pro­ cesso lavorativo, ma si propone anche di definire l’uso capitalistico delle forze produttive. Questa seconda dire­ zione di ricerca ha come suo presupposto la considerazio­ ne del fine capitalistico della produzione, e da questo pun­ to di vista l’organizzazione diventa un insieme di tecniche usate per realizzare la maggior quantità possibile di plus­ valore. In riferimento alla manifattura e alla fabbrica è possibile individuare l’uso di due tecniche differenti - la divisione del lavoro e le macchine - che Marx studia nel­ l’ambito della connessione tra l’organizzazione del lavo­ ro e la struttura sociale della cooperazione capitalistica. Tale connessione non soltanto permette una corretta im­ putazione causale delle conseguenze sociali dell’organizza­ zione capitalistica del lavoro nelle sue fasi storiche, ma rende inoltre possibile l’uso del concetto di estraniazione come principio esplicativo. La manifattura e il sistema di fabbrica sono due forme di organizzazione capitalistica del lavoro che sviluppano le forze produttive sociali in mi­ sura diversa e perciò condizionano in modo differente i rapporti sociali nella cooperazione e nella società. L’ana­ lisi dell’estraniazione entro questo campo si presenta al­ lora come l’individuazione del significato che in ciascuna delle due organizzazioni assume il lavoro nel suo rappor­ to con il capitale. Mentre nella cooperazione semplice l’aumento della forza produttiva era una conseguenza diretta del lavoro in comune, l’introduzione della divisione del lavoro permet­ te di realizzare una maggiore produttività e quindi una quantità maggiore di plusvalore. Ciò che prima era stato considerato come un principio per razionalizzare il proces­ so lavorativo, diventa ora una tecnica di sfruttamento del­ la forza-lavoro. I metodi di scomposizione e ricomposizio­ ne del lavoro, che costituivano la tecnica specifica per orga­

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nizzare la manifattura, in base al riferimento del loro uso al fine della produzione, acquistano la funzione di aumen­ tare il potere del capitalista. La quantità di forza produt­ tiva sviluppata dall’operaio complessivo, ossia la quanti­ tà di plusvalore prodotto, permette quindi di stabilire un primo criterio per misurare l’intensità dell’estraniazione. Poiché il concetto di estraniazione era stato formulato indipendentemente dalla considerazione dei vari tipi di cooperazione capitalistica, esso va mantenuto come termi­ ne di riferimento per definire ogni forma particolare di estraniazione. « La divisione del lavoro di tipo manifattu­ riero presuppone Y autorità incondizionata del capitalista su uomini che costituiscono solo le membra di un mec­ canismo complessivo di sua proprietà »72. Tuttavia, quan­ do considera il rapporto di autorità non come semplice presupposto, ma anche nelle sue determinazioni empiri­ che, Marx fa riferimento alle modalità dell’organizzazione del lavoro; nel caso della manifattura, il riferimento ai principi razionali della divisione del lavoro gli permette di individuare la forma di estraniazione in questo tipo par­ ticolare di organizzazione. « Come nella cooperazione sem­ plice, anche nella manifattura il corpo lavorativo in fun­ zione è una forma d'esistenza del capitale. Il meccanismo sociale di produzione composto di molti operai parziali individuali appartiene al capitalista. La forza produttiva che deriva dalla combinazione dei lavori appare quindi co­ me forza produttiva del capitale »23. Con ciò Marx, men­ tre da un lato esprime il carattere costante dell’estrania­ zione dal lavoro nella cooperazione, dall’altro lato riferi­ sce puntualmente la struttura manifatturiera dell’organiz­ zazione - facendo ricorso ai concetti di operaio parziale e di combinazione dei lavori — all’obiettivo capitalistico. La traduzione della proposizione sulla cooperazione con­ siderata in generale nella proposizione sulla manifattura impone lo studio delle tecniche produttive adottate in quella forma particolare di cooperazione. Di conseguenza l’estraniazione dal lavoro è formulata come estraniazione dalle norme che regolano la connessione delle operazioni parziali in cui è suddiviso il processo lavorativo della ma­ nifattura. Inoltre, la riduzione dell’area lavorativa, che

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dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro era sem­ plicemente il risultato della scomposizione del processo la­ vorativo, si configura ora come trasferimento sul piano capitalistico di una parte dell’area decisionale del lavora­ tore. « Le potenze intellettuali della produzione allargano la loro scala da una parte perché scompaiono da molte par­ ti. Quel che gli operai parziali perdono si concentra nel capitale, di contro a loro. Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero »24. Nel lavoro artigiano il piano del pro­ cesso lavorativo si identifica con la successione e la con­ nessione delle fasi dell’intero lavoro compiuto dal singo­ lo artigiano; nella manifattura le leggi tecniche che pre­ siedono alla scomposizione e alla ricomposizione del lavo­ ro vengono imposte all’operaio come piano autoritario. Marx aveva spiegato l’annessione permanente dell’operaio a una stessa operazione facendo riferimento alla base tec­ nica artigiana, perciò senza fare ricorso alla direzione au­ toritaria della cooperazione. Da questo punto di vista la restrizione dell’area lavorativa non è ancora sufficiente a caratterizzare la forma di estraniazione; occorre introdur­ re nella connessione tra la base tecnica artigiana e la di­ visione manifatturiera del lavoro la nozione di direzione autoritaria. « Non solo i particolari lavori parziali vengono suddivisi fra diversi individui ma l’individuo stesso vien diviso, vien trasformato in motore automatico d’un lavoro parziale»25. La direzione autoritaria, in quanto dispone del potere di organizzare il processo lavorativo, subordi­ na maggiormente l’operaio all’autorità del capitalista. La maggiore complessità della funzione direttiva, che tecnicamente si spiega con la necessità di norme di controllo mag­ giormente articolate, rende più autoritario il controllo sul comportamento dell’operaio. Ora « il nesso del meccani­ smo complessivo lo costringe a operare con la regolarità della parte d’una macchina »26. Il potere di organizzare il processo lavorativo con la di­ visione del lavoro permette anche di stabilire una diffe­ renza di intensità dell’estraniazione rispetto alla coopera­

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zione semplice, nella quale i metodi di lavoro e le opera­ zioni non hanno ancora subito modificazioni; la trasfor­ mazione dei metodi di lavoro e delle funzioni lavorative27 instaurano un piu forte rapporto di dipendenza tra l’ope­ raio e la direzione. « Originariamente l’operaio vende la sua forza-lavoro al capitalista perché gli mancano i mezzi materiali per la produzione d’una merce: ma ora la sua stessa forza-lavoro individuale vien meno al suo compito quando non venga venduta al capitale; essa funziona or­ mai soltanto in un nesso che esiste soltanto dopo la sua vendita, nell’officina del capitalista »28. La specializzazione delle funzioni accresce la costrizione dell’operaio a vende­ re la propria forza-lavoro; non soltanto deve subordinarsi alla direzione autoritaria perché non possiede i mezzi di lavoro, ma ora vi è costretto perché ha perso la capacità di esercitare un mestiere compiuto. Così l’estraniazione dell’operaio dal proprio lavoro e da se stesso, conseguen­ za immediata del fatto che egli entra nella cooperazione, si intensifica. Ridotto a una cosa che appartiene ah capita­ lista, diventa ora l’« accessorio » di un meccanismo. La manifattura, pur elaborando metodi razionali che modificano il processo lavorativo, ne ha mantenuta sostan­ zialmente inalterata la struttura tecnologica. Ciò spiega nello stesso tempo i limiti di produttività dell’organizza­ zione manifatturiera e il comportamento dell’operaio an­ cora legato ai valori e alle istituzioni del periodo artigiano. Anche se la specializzazione del lavoro ha reso in larga misura inutilizzabili le abilità artigiane e superfluo l’ap­ prendistato, l’operaio tende a mantenere quei privilegi connessi al mestiere che ne garantivano l’indipendenza. « Poiché a fondamento della manifattura rimase l’abilità artigiana e poiché il meccanismo complessivo che funziona in essa non possiede una ossatura oggettiva indipendente dai lavoratori stessi, il capitale lotta continuamente con l’insubordinazione degli operai »29. Il rapporto di non-adeguazione tra le norme di controllo e il comportamento di resistenza si spiega con la base artigiana che impedisce una analisi scientifica del lavoro. Da questo punto di vista i conflitti che ineriscono alla cooperazione capitalistica as­ sumono una forma particolare. L’insubordinazione ope­

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raia, facendo appello ai valori di una fase storica superata, frena lo sviluppo delle forze produttive e, in ultima ana­ lisi, ritarda il processo di acutizzazione dei conflitti. Se si tiene conto che la manifattura « si presenta come progres­ so storico e momento necessario di sviluppo nel processo della formazione economica della società »30, si può capi­ re perché l’insubordinazione e la resistenza degli operai non hanno un carattere rivoluzionario bensì conservatore. Per Marx questa valutazione del comportamento operaio nella manifattura può essere giustificata soltanto facendo appello alle condizioni di una appropriazione delle forze produttive al corpo lavorativo sociale; esse consistono nel massimo sviluppo delle forze produttive capitalistiche e quindi nel massimo grado di estraniazione - condizioni, queste, che il modo di produzione non è ancora in grado di soddisfare.

2. Il sistema di fabbrica e Vuso capitalistico delle mac­ chine.

Nel Capitale i termini « fabbrica » e « grande industria » designano i luoghi di lavoro della fase dello sviluppo indu­ striale caratterizzata da un uso generalizzato delle macchi­ ne; in generale la fabbrica è un’« officina fondata sull’uso delle macchine », queste essendo intese semplicemente co­ me determinati strumenti di un processo lavorativo31. Trattando del processo lavorativo Marx si serve, per descrivere la macchina, delle definizioni correnti nella scienza meccanica del tempo, in base alle quali « lo stru­ mento di lavoro è una macchina semplice e... la macchina è uno strumento composto » : da questo punto di vista i matematici e i meccanici « non vedono nessuna differenza sostanziale, e chiamano macchine perfino le potenze mec­ caniche elementari, come la leva, il piano inclinato, la vi­ te, il cuneo, ecc. Di fatto tutte le macchine consistono di quelle potenze elementari, qual ne sia il travestimento e la combinazione»32. Questa definizione compare per la prima volta nella Miseria della filosofia, dove la macchina è considerata come «riunione degli strumenti di lavo­

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ro »33. Quindi, descrivendo la macchina nel processo lavo­ rativo, Marx ne parla in termini di « combinazione di stru­ menti semplici»; la macchina, cioè, deve essere conside­ rata in senso tecnico come « un meccanismo che opera in un sol tratto con una massa degli strumenti [artigiani] o di strumenti analoghi, e che viene mosso da una forza mo­ trice unica, qualsiasi possa esserne la forma »34. Sempre da un punto di vista tecnico, Marx rifiuta un altro tipo di definizione di macchina, cioè quello che assu­ me come criterio di distinzione il tipo di forza motrice. Egli rinveniva una definizione di questo genere nel Bewegung der Produktion di Schulz, secondo il quale « si può... tracciare una netta linea divisoria tra lo strumento e la macchina » in quanto la seconda sarebbe quello strumen­ to che non viene azionato da una forza motrice umana, sicché « l’aratro con la forza animale che lo muove, i mu­ lini a vento, ad acqua e a vapore, i fucili e simili sono da annoverarsi tra le macchine »35. Nel periodo della stesura della quarta sezione, Marx aveva incontrato il problema della definizione tecnologica di macchina, che nella lette­ ratura del tempo si poneva, come si è visto, nei termini di una differenziazione dalla nozione di strumento. In una lettera su alcune « questioni curiose » di tecnologia, egli metteva al corrente Engels della « grande battaglia sulla distinzione fra macchina e strumento », e cosi prosegui­ va: « I meccanici (matematici) inglesi, nella loro maniera grossolana, chiamano tool a simple machine e machine a complicated tool. Però i tecnologici inglesi, che tengono maggior conto dell’economia, distinguono le due cose (e dopo di loro, molti, la maggior parte degli economisti in­ glesi) per il fatto che, nel primo caso, la motive power proviene dall’uomo, nell’altro da a naturai force » Nel Capitale osservava che, accettando questa definizione, si arriverebbe all’affermazione paradossale che l’aratro trai­ nato da buoi è una macchina, mentre il telaio circolare del Claussen è uno strumento. Tuttavia, se da un punto di vista tecnologico accetta le definizioni di Babbage, Marx ne mette però in luce i limiti di validità; infatti « la spie­ gazione non vale niente perché vi manca l’elemento sto­ rico »37. La considerazione storica di questo problema per­

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mette di inserire la nozione di macchina entro la connes­ sione tra le forze produttive e i rapporti sociali e in modo particolare tra gli strumenti del lavoro e l’organizzazione del processo lavorativo. Nella lettera citata Marx metteva poi in luce l’importanza della definizione di macchina sia per spiegare un fenomeno storico particolare - la rivolu­ zione industriale — sia per descrivere l’organizzazione del­ la fabbrica : « è indubbio che, se noi consideriamo la mac­ china nella sua forma elementare, la rivoluzione industria­ le non proviene dalla forza motrice, bensì da quella parte del macchinario, che gl’inglesi chiamano la working ma­ chine, non dunque, ad esempio, dalla sostituzione del pie­ de che muove il filatoio con l’acqua o il vapore, ma invece dal cambiamento dello stesso immediato processo di fila­ tura e dal soppiantamento della parte del lavoro umano, che non era soltanto exertion of power (come nel far gi­ rare la ruota), ma invece l’elaborazione, che direttamen­ te concerne l’azione diretta sulla materia da elaborare. D’altra parte è altrettanto indubbio che, non appena non si tratta più dello sviluppo storico del macchinario, ma invece del macchinario sulla base dell’attuale modo di pro­ duzione, la macchina operatrice (ad esempio, la macchina da cucire) è la sola cosa decisiva, perché appena questo processo perviene alla macchina, ognuno al giorno d’oggi sa che può muoverla o con la mano o con l’acqua o col va­ pore, secondo le dimensioni di essa. Per i puri matematici queste sono questioni indifferenti, ma diventano impor­ tantissime quando si tratta di dimostrare la connessione dei rapporti sociali umani con lo sviluppo di questi mo­ di di produzione materiale »38. Mentre la definizione di Schulz non permetteva di individuare nella macchina ope­ ratrice l’unità d’analisi del factory system e le sue conse­ guenze sociali - strettamente connesse con la rivoluzione industriale - la definizione di Babbage, pur essendo for­ mulata in un linguaggio puramente tecnico, costituiva un valido strumento per spiegare quei fenomeni sociali ed economici che interessavano a Marx. Tuttavia, se le defi­ nizioni tecnologiche degli strumenti produttivi gli consen­ tivano di studiare la rivoluzione industriale e di individua­ re le caratteristiche peculiari della fabbrica, esse cadono

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al di là di un tipo di spiegazione che correla l’uso delle macchine con la struttura sociale della fabbrica e della so­ cietà in cui la fabbrica è un fenomeno generalizzato. Quin­ di la correlazione non avviene tra la macchina e la fabbri­ ca, in quanto i due termini appartengono a due linguaggi differenti. Mentre il termine «macchina» appartiene al linguaggio della tecnologia e rientra in una spiegazione tecnica del processo lavorativo, il termine « fabbrica » ap­ partiene al linguaggio storico-economico e rimanda alla spiegazione sociologica dei fenomeni sociali. La correla­ zione resa possibile dal concetto di uso avviene invece tra l’uso della macchina e la fabbrica e rende in tal modo pos­ sibile considerare anche la macchina come un fenomeno socialmente ed economicamente rilevante39. Perciò, an­ che a proposito della definizione di « macchina » occorre procedere, distinguendoli, con due tipi di discorso, secon­ do che interessi studiare le tecniche produttive o le strut­ ture sociali in cui tali tecniche sono inserite. Rispetto al primo tipo di considerazioni acquista autonomia il discor­ so tecnologico, ma il riconoscimento dell’autonomia della spiegazione tecnica non esaurisce l’analisi dell’organizza­ zione; questa infatti, in base ad altri criteri esplicativi, de­ ve essere studiata in riferimento all’uso che ne vien fatto in una data struttura sociale. Da ciò risulta che Marx non critica il discorso tecnico in quanto tale, ma ne critica la pretesa di esaurire il discorso dell’economia politica. Per la descrizione del macchinario Marx si serve della classificazione di Ure, che aveva distinto tre tipi di mac­ chine secondo le funzioni cui sono adibite nel processo lavorativo. «In un’analisi dell’industria manifatturiera, - aveva detto Ure, - le funzioni generali delle macchine e i risultati dei loro perfezionamenti devono essere consi­ derati con attenzione. Ci sono tre tipi di macchine: i) le macchine impiegate nella produzione di forza motrice; 2) le macchine impiegate nella trasmissione e nella regola­ zione della forza; 3 ) le macchine impiegate nell’applicazio­ ne della forza per trasformare le varie forme della mate­ ria in oggetti vendibili »40. Riprendendo questa classifica­ zione, Marx scrive che il « macchinario sviluppato consi­ ste di tre parti sostanzialmente differenti, macchina moiri-

L’USO CAPITALISTICO DELLE MACCHINE

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ce, meccanismo di trasmissione, e infine macchina utensi­ le o macchina operatrice »41. Le prime due parti « esistono solo allo scopo di comunicare alla macchina utensile il mo­ to per il quale essa afferra e trasforma come richiesto l’og­ getto del lavoro »42. La macchina utensile è costituita da uno o piu strumenti o da un telaio che li incorpora, le cui operazioni sono le stesse di quelle eseguite con strumenti analoghi dall’artigiano. Nella macchina operatrice «vedia­ mo ripresentarsi... se pure spesso in forma assai modifica­ ta, gli apparecchi e gli strumenti coi quali lavorano l’arti­ giano e l’operaio manifatturiero; ora però non piu come stumenti dell’uomo, ma come strumenti d’un meccanismo o strumenti meccanici »43. La definizione di macchina co­ me combinazione di strumenti semplici e l’idea che la mac­ china agisca con una massa degli stessi strumenti o di stru­ menti analoghi a quelli artigiani offrono un primo elemen­ to che indica come il discorso tecnologico sia condotto sul modello della tecnologia artigiana. Infatti la macchina utensile « compie con i suoi strumenti le stesse operazio­ ni che prima erano eseguite con analoghi strumenti dal­ l’operaio » “ Impostato in questi termini il problema del rapporto strumento-macchina, l’operazione meccanica per­ de, dal punto di vista del lavoro manifatturiero, qualsiasi rilevanza e con essa viene meno la possibilità di stabilire criteri di riqualificazione del lavoro manuale. Con la macchina utensile cade un secondo limite ineren­ te al lavoro artigiano e, in particolare, all’uso degli stru­ menti. Nell’artigianato e nella manifattura la possibilità per l’operaio di maneggiare contemporaneamente più stru­ menti era naturalmente limitata; viceversa la macchina utensile è emancipata da questo limite organico4S. Nella fabbrica la macchina motrice e la macchina utensile sono tra loro connesse e perciò si condizionano a vicenda: se si amplia la macchina utensile, per esempio aumentando il numero degli utensili, anche la macchina motrice deve su­ bire una modificazione e quindi si richiede una forza mo­ trice più potente per vincere l’attrito. Questa condizione costituisce una delle ragioni per l’introduzione della mac­ china a vapore, la quale permette di superare anche il li­

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mite inerente alla disponibilità e alla dislocazione delle forze motrici naturali46. Riprendendo da.Ure la nozione di sistema, Marx preci­ sa ulteriormente che la fabbrica è