Storia e tecnica della fotografia
 8820342146, 9788820342142

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Il XIX è il secolo delle grandi invenzioni scientifiche e la fotografia è stata una delle innovazioni destinata a cambiare la percezione che l'uomo ha di se stesso. ltalo Zannier, in questa nuova edizione del suo classico volume, ripercorre la storia della disciplina, dalle macchine ottiche, all'eliografia, al dagherrotipo, al rapporto tra fotografia e arte, alla fotografia come strumento di reportage, fino alla foto­ grafia di massa e all'uso di questa da parte delle avanguardie artistiche. L'originalità del volume sta sia nella completezza con cui è seguito il percorso storico della disciplina sia, soprattutto, nell'ampiezza dello sguardo che col­ lega lo sviluppo della fotografia alle evoluzioni tecnologiche, ai cambiamenti sociali fino al momento in cui utilizzare un apparecchio fotografico diviene una pratica di massa. Ogni sezione è seguita da un'antologia di testi, spesso di difficile reperibilità, e da una scelta di fotografie, alcune molto rare, tratte perlopiù da archivi privati. ltalo Zannier è tra i più noti fotografi e storici della fotografia italiana. Ha comincia­ to a fotografare negli anni Cinquanta, affermandosi ben presto a livello nazionale e internazionale. A partire dagli anni Settanta è stato anche impegnato nell'insegna­ mento universitario. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Fantastoria della fotografia (2003), Il sogno della fotografia (2006), Alle origini della fotografia scientifica (2008). Nel2004 l'Università di Udine gli ha conferito la laurea honoris causa.

www.hoepli.it Ulrico Hoepli Editore S.p.A. via Hoepli, 5

-

20121 Milano

e-mail [email protected]

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Storia e tecnica della fotografia

Italo Zannier

Storia e tecnica della fotografia

EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO

Copyright© Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2009

via Hoepli 5, 201 21 Milano (Italy) tel. + 39 02 864871 - fax + 39 02 8052886 e-mail [email protected] www.hoepli.it

Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali ISBN 978-88-203-4214-2

Copertina: mncg S.r.l., Milano Revisione editoriale: Adriana Paolini, Marco Pavesi, Agnese Bendotti Realizzazione editoriale e progetto grafico: Teknoprogetti S.r.l., Milano Stampa: LegoDigit S.r.l., Lavis (TN)

Printed in Italy

Sommario

Capitolo 1- Idea, sogno e gestazione della fotografia

1

Le macchine ottiche

1

Le sostanze fotosensibili

4

Silhouettes e

6

profiles

Antologia

11

Uno strumento per disegnare prospettive Uno

spiraculo nella

camera oscura

11 11

Una lente per vedere più chiaramente

11

Sulla carta si proiettano immagini

13

La profezia di

Giphantie

L'invenzione della fotografia

Capitolo 2- Invenzioni e perfezionamenti

14 15

19

Dalla litografia alla eliografia

19

Joseph-Nicéphore Niépce

21

Louis-Jacques-Mandé Daguerre

25

La dagherrotipia si diffonde

29

William Henry Fox Talbot

33

Dal disegno fotogenico alla calotipia

36

John Herschel e Hippolyte Bayard fra gli inventori

38

Albumina e collodio

40

Gelatina e gomma

44

Antologia La scoperta della

50

héliographie

50

Un favore reso alle arti

52

Il disegno fotogenico

53

Anche Bayard usa la carta

54

La calotipia

55

La dagherrotipia

56

Lastre di vetro all'albumina

58

Come si prepara una lastra al collodio

58

La stampa al carbone

60

Capitolo 3- Fotografia e scienze Fotomicrografie

63 63

Fotografia astronomica

65

Applicazioni in medicina

68

Fotogrammetrie e panoramiche

70

Stereogrammi e fotografia integrale

74

Alla ricerca dell'invisibile

75

Fotografia criminologica

78 82

Antologia Fotografie al microscopio

82

Fotografie di un'eclisse di sole

82

Raggi sconosciuti fotografano l'invisibile

84

Darwin ringrazia i fotografi

85

Misurare con la fotografia

86

La sedia di costrizione

87

Capitolo 4 Fotografia e arte

89

Una rivoluzione nelle arti

89

Pittori-fotografi

90

Modelli fotografici

92

-

Ritratti e

98

cartes de visite

Architetture e opere d'arte

102

La fotografia artistica

108

Il pittoricismo e le sue tecniche

112 123

Antologia L'invettiva di Baudelaire

123

L'epitaffio di Emerson

124

Una tecnica per i pittorialisti

124

La bromoleotipia

126

Come eseguire un viraggio al selenio

127

La fotografia è quasi un'arte

128

Capitolo 5 Fotografia e informazione -

131

Viaggiatori in Oriente

131

Alpinisti ed esploratori

136

La luce artificiale

138

Il sociologo si fa fotografo

142

Nasce il fotogiornalismo

153

Riproduzione e veicolazione della fotografia

156

L'illustrazione fotografica

160

Fotogiornalisti e paparazzi

164

Fotografi in guerra

172 181

Antologia Il dagherrotipo diventa

un

cliché

181

La stampa fototipica

181

La woodburytipia

182

Fotografare il momento decisivo

184

Capitolo 6 La massificazione della fotografia -

La

Daguerréotypomanie

187 187

Ambrotipi, ferrotipi, stereogrammi

188

«Voi premete il bottone noi facciamo il resto»

190

Il fotoamatorismo

193

Circoli e società fotografiche

197

Esposizioni e salons

200

Riviste specializzate

201

Intellettuali e aristocratici

203

Antologia

207

La calunnia fotografica

207

Il ritratto lusinghiero

207

Come fotografare i fantasmi

209

Uno strumento per il voyeur

210

Capitolo 7- Istantanea, movimento, colore, simultaneità

213

Verso l'istantanea

213

La visualizzazione del movimento

215

La celluloide e il cinematografo

222

La riproduzione del colore

223

La pratica della fotografia a colori

227

La diffusione della fotografia

233

Antologia

237

Ed è già cinematografo

237

Si migliora il chiaroscuro fotografico

238

La fotografia dei colori

239

Il colore alla portata di tutti

240

Il primo audiovisivo

242

La televisione come tecnica

242

La televisione come mass-medium

243

Capitolo

8

-

Linguaggio e avanguardie

245

Dal «naturalismm> di Emerson al «purismo» di Stieglitz

245

Lo specifico fotografico

248

Fotografia e avanguardie storiche

259

Fotogrammi e rqyographs

262

Nuove sperimentazioni visive

264

Da

Film und Foto a

Subjektive Fotografie

270

11 dopoguerra in Italia

274

Dal realismo al concettualismo

278

Antologia

287

Sul fotodinamismo

287

Abbasso la fotodinamica!

288

Un manifesto anche per la fotografia

289

Combattere con la fotografia

290

La sequenza fotografica

290

Magie in camera oscura

291

Esperienza visiva e fotografica

291

Una fotografia più soggettiva

292

Comunicare con la fotografia

293

La fotografia cent'anni dopo

294

L'insaziabile occhio della fotografia

295

Una verifica

296

L'inconscio tecnologico

296

I mass-media nel pensiero del papa

297

Bibliografia essenziale

299

Indice dei nomi

301

Idea, sogno e gestazione della fotografia

Le m acch i n e ott i c h e L'occhio dell'uomo è diventato più versatile mediante la fotografia, come se que­ sta fosse una protesi che alimenta la capacità di osservazione, integrando le carenze della percezione visiva, adeguandola quindi alle esigenze fisiologiche e psicologiche determinate dall'inarrestabile sviluppo tecnologico. Si è mimetizzato con quello fotografico, l'occhio umano, e da questo ha appreso nuovi modi di guardare, secondo coni ottici diversi e con una delineazione dei parti­ colari più acuta, adattandosi quindi funzionalmente alle regole culturali che ci sovrin­ tendono e caratterizzano, per cui gli strumenti - qualsiasi utensile, una scheggia di pie­ tra o il marchingegno elettronico di un computer - si sono evoluti coerentemente durante i millenni, come fattori funzionali a garantire le nostre stesse capacità di sopravvivenza. La fotografia, come strumento, si è realizzata attraverso una estenuante ma inelut­ tabile gestazione di un'idea Oa memoria dello sguardo), che si è radicata nel grembo dell'umanità mentre stava formandosi il linguaggio, di cui si è preso coscienza lenta­ mente, durante l'evoluzione storica. Da una iniziale macula oculare in un protozoo, si è sviluppata, giungendo a matu­ razione circa centosettant'anni fa, un'appendice della nostra vista perfezionata, chia­ mata eliografia e poi fotografia, la cui idea era stata alimentata soprattutto dallo stupore per la realtà fisica, di cui si intendeva memorizzare gli eventi, testimoniarne l'esisten­ za, conservarne e trasmetterne l'immagine. La memoria dell'uomo, con la sua funzione di «ritenere, richiamare, riconoscere)), ha sempre cercato garanzie nei segni, sonori tattili grafici, promuovendo una sequenza di processi, che hanno impegnato unitariamente l'evolversi della nostra cultura, giungen­ do alla registrazione visiva della parola, alla sua sintassi, e contemporaneamente alla semantica. Per quanto riguarda l'immagine, si è passati, a poco a poco, dai disegni delle caver­ ne fino alla fotografia e a ciò che ne è conseguito (cinematografo, televisione, inter­ net, videocellulare, ecc.), una "tecnica meccanica", anzi una tecnologia, che realizza immagini talmente ricche di informazioni da costituire una seconda realtà, così illuso­ ria, questa tecnica, da essere ritenuta una stregoneria, al suo continuo, stupefacente apparire. Si era comunque avverato l'antico anelito di poter controllare, e trattenere come in uno specchio magico, il nostro "doppio", preservandone l'immagine, si credeva, dalla corrosione e dalle angoscianti alterazioni del tempo. «Vi sono molti motivi differenti di amare, di ammirare la brillante invenzione della

2

Capitolo

1

fotografia, che sarà l'onore del nostro secolm), scriveva il divulgatore scientifico Louis Figuier1 , ma tra questi soprattutto «la luminosa testimonianza che ha fornito della potenza e dell'alta portata delle fisiche scienze della nostra epoca)). A questa scoperta si era giunti tramite un «meraviglioso concatenamento di fecon­ de creazioni))2, tese inconsciamente ad alimentare la ricerca di una tecnica di raffigu­ razione che fosse un'automatica, simultanea registrazione della realtà fisica visibile. Prima che avvenisse questo «meraviglioso concatenamentm), l'osservazione dei fenomeni che hanno condotto alla fotografia si è indirizzata in due specifiche direzio­ ni, senza tener conto, visto che non ce n'era ancora la necessità, di una possibile com­ penetrazione - che però era latente e per molti versi implicita - dei fenomeni otti­ ci con quelli foto-chimici che l'hanno realizzata. Gli storici della fotografia propongono Aristotele (384-22 a. C.) tra coloro che per primi hanno teorizzato il fenomeno della camera obscura, com'è indicato dall'ottico e astronomo arabo Alhazen lbn Al-Haitham (956-1 038), in un'opera stampata a Basilea nel 1 572 (Opticae Thesaurus Alhazeni Arabis). Qui l'autore descrive il principio di que­ sto strumento utilizzato sia da Aristotele che da lui stesso (chiamato anche Alhazen, Ghazzali, ecc.), per osservare un'eclisse di sole, seguendone le fasi indirettamente nel­ l'immagine proiettata, per non rimanere abbagliati dalla forte luce diretta dell'astro. La camera obscura appare, quindi, soprattutto un mezzo per favorire l'osservazione, agevo­ lare il disegno, consentire una riproduzione più precisa della realtà. L'impegno scientifico dei primi sperimentatori di meccanismi ottici era suggerito e stimolato dalla curiosità per i fenomeni naturali, che a volte sembravano magici ed erano perciò generalmente seguìti con religiosità oltre che con s tupore; l'effetto della camera oscura, così come viene descritta da Cesare Cesariano nel 1 521 in una anno­ tazione alla prima edizione italiana, stampata a Como, del De Architectura di Vitruvio, e, in seguito, da Leonardo, Della Porta, Barbaro, Kircher, ecc., è stato probabilmente osservato in una stanza buia, dove un forellino aveva lasciato penetrare i raggi lumi­ nosi riflessi dall'esterno, proiettandoli, capovolti e rimpiccioliti, sulla parete di fronte, usata come schermo. L'elenco degli studiosi di questa prima "macchina" ottica è cospicuo; e se soprat­ tutto gli astronomi medievali hanno pensato di utilizzarne le prerogative conosciute, sono comunque rare le descrizioni documentate. Roger Bacon (121 4-94) ne scrive in De Moltiplicatione Specium (1 267) e del fenomeno «traccia una figura schematica esattiD)\ ma questa pratica venne allora interpretata come un atto di magia, e Bacon fini con­ dannato dal tribunale ecclesiastico, per aver inoltre praticato la negromanzia. Guillaume de Saint-Cloud, astronomo francese, osserva a sua volta con una came­ ra oscura, «nell'anno del Signore 1 285, il 5° giorno di giugnm), le fasi di un'eclisse sola­ re, facendo «nel tetto di una stanza chiusa una apertura rivolta verso la parte del cielo dove doveva apparire)): lo spiraglio aveva un diametro simile al foro che «si pratica in un barile per togliere il vinO)), ossia un paio di centimetri4. Il numero degli astronomi, scienziati, artisti che avrebbe inventato la camera obscura si moltiplica via via nel tempo, al punto da creare una certa confusione sull'attribuzio­ ne definitiva della sua paternità. Trascrizioni in date diverse degli incunaboli, ed errate o faziose interpretazioni dei testi, hanno favorito polemiche campanilistiche che, sebbene di per se stesse sterili, segnalano quanto interesse ci sia stato per questo e altri analoghi strumenti ottici, spe­ cialmente a partire dal '500. In questo periodo gli studi sulla prospettiva sembrano essere al centro dell'attenzio-

1.

Idea, sogno e gestazione dellafotografia

3

ne di architetti e pittori, che nelle sue regole credono di aver finalmente definito un codice che offre molte garanzie di precisione, tra cui la «verosimiglianza», creando però della realtà un'immagine inedita, da cui traspare già l'idea di fotografia, essendo, infatti, «il loro fine artistico la padronanza ottico-scientifica della natura»5. Il Vasari, nel Trattato della pittura, attribuisce all'Alberti l'invenzione della camera obscura, ma si tratta, invece, di un altro marchingegno ottico6 : mentre Leonardo, nel Codice Atlantico7, oltre a spiegare come si determina il fenomeno della camera oscura (che lui chiama oculus artificialis) , praticando in una stanza buia uno «spiraculo», in un altro appunto ne suggerisce l'applicazione pratica, ponendo un foglio di carta sulla parete dove appare l'immagine («e vedrai tutti li predetti abbietti in essa carta colle lor proprie figure e colori»8) ; Gemma Frisius offre una sua illustrazione della camera oscura (la prima, secondo Gernsheim'\ nel 1 545 in De radio astronomico et geometrico liber, stampato in quell'anno ad Anversa e a Lovanio. Nel 1 550 Gerolamo Cardano (1 501 -76) descrive una camera oscura munita di lente, perfezionata ulteriormente dal patrizio veneziano Daniele Barbaro (1 5 1 3-70), patriarca d'Aquileia oltre che scienziato, che applica - com'egli stesso informa in Della perspettiva, edito a Venezia nel 1 569 - un diaframma dietro la lente; «opera molto utile a Pittori, a Scultori & ad Architetti)), scrive il Barbaro nel frontespizio, as sicuran­ do che «vedrai le forme nella carta come sono e le digradationi e i colori e le ombre e i movimenti, le nubi, il tremolar delle acque, il volare degli uccelli e tutto quello, che si può vedere>)1 0. Nella controversa attribuzione dell'invenzione della camera obscura, (in seguito, con l'applicazione di un obiettivo, si chiamerà camera ottica) compare spesso con evidenza il fisico napoletano Giovanni Battista Della Porta (1 535-1615), allievo del Cardano11. Della Porta, nel trattato Magiae naturalis (1 558), più volte tradotto in volgare dal lati­ no, riferisce alcune sue osservazioni «per vedere le cose in oscuro in una camera che sono fuori illuminate dal Sole)) oppure, di notte, «quello che sarà illuminato di fuori da mille torcie»12; ma si tratta ancora una volta di una stanza e non di uno strumento mobile, portatile o comunque facilmente adattabile all'ambiente circostante. È nel secolo successivo che la camera obscura trova finalmente una sua più funzio­ nale ed estesa applicazione, soprattutto per l'intervento di molti pittori e miniaturisti, che la utilizzano per agevolare dal punto di vista tecnico il loro lavoro poiché facilita il rilievo grafico e abbrevia i tempi d'esecuzione. La "macchina", che per il momento si chiama ancora «camera obscura», sta divenen­ do uno strumento indispensabile per il mestiere di disegnatore, essendo in continuo aumento la richiesta di immagini da parte dei nuovi ceti sociali coinvolti nella vita pub­ blica, mentre si sviluppano contemporaneamente le tecniche dell'incisione (xilografia, acquaforte, puntasecca), che favoriscono la riproduzione e la moltiplicazione delle immagini, avviando un inarrestabile processo di massificazione iconografica, che da allora si è ingigantito a dismisura. A Roma, Marco Antonio Cellio, che nel 1680 compie pionieristici esperimenti "fotografici" con il fosforo (cfr. I . Zannier, Il sogno dellafotografia, Skira, Milano 2006), progetta addirittura un nuovo strumento (1 686) «per trasportare qualsiasi figura dise­ gnata in carta, mediante i raggi solari>)13, mentre il matematico e filosofo gesuita Athanasius Kircher (1 602-80) già da qualche decennio, occupandosi della camera oscura, aveva ideato modelli mobili e addirittura abitabili, di cui aveva pubblicato i progetti in Ars Magna Lucis et Umbrae in decem Libros digesta (Roma 1 646). In una edizione successiva (1 671), Kircher propone - e sembra sia stato il primo

4

Capitolo

1

- un'altra macchina ottica, che può essere considerata una trasformazione della camera oscura: la lanterna magica14. Mentre la camera obscura è uno strumento per la riproduzione, la lanterna magica serve allo spettacolo, alla proiezione delle immagini disegnate e dipinte su supporti tra­ sparenti, quindi alla comunicazione. E il nesso che si determina tra i due mezzi anti­ cipa chiaramente il moderno sistema dell'informazione. «Ecco dunque creata la lanterna magica - scriveva Gioppi - quell'istrumento che ci ha dilettati e meravigliati da bambini, quel giocattolo che da quel tempo ad oggi ha mutato non poco»15: il carattere Iudica, quasi magico, di questo attrezzo, si è perpetua­ to, e da povero spettacolo da fiera, manovrato dal girovago lanternista, personaggio caro ai disegnatori di scene di genere, è progredito sino alle proiezioni meccaniche, cinematografiche e a quelle elettroniche, televisive. Queste 1 5 . Queste lastre andarono perdute e solo i l famoso point de vue d i Gras, tornò alla luce, dopo oltre un secolo, nel febbraio 1 952, in una soffitta londinese, per merito delle infaticabili ricerche di Helrnut Gernsheirn, che a quel tempo viveva e lavora­ va a Londra. Niépce rientrò in Francia nel febbraio 1 828 (Claude morì quindici giorni dopo la sua partenza dall'Inghilterra), ma continuò la corrispondenza con Bauer sino al 9 gennaio 1 829, interrompendo allora questo dialogo, probabilmente perché stava concludendo un accordo, anche d'affari, con Daguerre, dopo un cauto sondaggio, iniziato nel 1 827. Il 1 7 gennaio di quell'anno, Niépce aveva infatti chiesto all'incisore parigino Le­ rnaitre informazioni sul celebre artista e inventore del diorama. Daguerre subentrò, come interlocutore di Nicéphore, al fratello Claude e all'a­ mico Bauer, che forse l'aveva deluso, non essendo riuscito a far accogliere la sua relazione sull'eliografia alla Royal Society. Causa di questo insuccesso, però, era invece stato lo stesso Niépce, che «non volle rivelare il suo segreto>>, sicché gli fu restituita «la Memoria con tutti i saggi e non fu mai prodotto alla Società quest'argornento»16 • Daguerre aveva subito affascinato Niépce con il suo ingegno e la sua personali­ tà, facendogli anche credere che certe sue tele del diorama, anziché dipinte, fosse­ ro state impresse con sistemi «fotografici», talmente rninuziose e «!rompe l'oeil» quel­ le scenografie apparivano ai suoi occhi. Entrambi, comunque, speravano di trarre profitto dalle possibilità offerte dalla tecnica eliografica, se perfezionata; ma, quello di Niépce e Daguerre fu un sodali­ zio non solo d'interesse, in quanto si determinò invece un'amicizia durata sino alla morte di Niépce, per apoplessia, il 5 luglio 1 833. Quattro anni di lunghe ricerche, nella certezza, nonostante le continue delusioni, che l'idea della fotografia sarebbe stata prima o poi felicemente concretizzata. Il contratto tra Niépce e Daguerre era stato siglato a Chalon-sur-Saòne il 1 4 dicembre 1 829, e av rebbe avuto l a durata d i dieci anni se Niépce non fos se scom­ parso prima, lasciando però erede il figlio Isidore, che già l'aiutava. «Dopo la sottoscrizione del presente trattato - recita l'art. III - dovrà Niépce confidare a Daguerre, sotto suggello della segretezza, ch'esser dovrà conservata sotto pena di tutte le spese, danni e interessi, il principio su cui si basa la sua scoperta, e for­ nirgli i documenti più esatti e circostanziati intorno alla natura, all'uso ed ai diversi modi d'applicazione dei processi»; l'articolo IV prevede inoltre che dell'invenzione, proponen­ do una pensione a vita, sia a Daguerre (6.000 franchi all'anno) che a Isidore Niépce (4000 franchi), infine assegnata il 1 5 giugno da Luigi Filippo. La "ditta" degli inventori cambia nel frattempo ragione sociale e invece di Niépce-Daguerre diviene Daguerre-Niépce; il successo è tutto del primo, no­ nostante si riconosca al defunto Niépce qualche merito. Sarà il figlio di Niépce, Isidore, in seguito, a rivendicare al padre la priorità dell'invenzione, sebbene con scarso successo. Il 30 luglio viene fatta un'ulteriore relazione alla Camera dei Pari, e il 1 9 agosto Arago finalmente presenta «al mondo» la stupefacente invenzione, che aveva da tempo destato ovunque un'eccezionale curiosità, richiamando a Parigi scienziati da tutto il mondo, tra cui Samuel Morse, allora professore di disegno e letteratura all'u­ niversità di New York, che aveva incontrato Daguerre il 7 marzo 1 839 e in quell'oc­ casione aveva visto alcuni dagherrotipi. Morse, assieme al collega americano Draper, fu così il primo a introdurre la dagherrotipia nell'America del Nord. Soltanto il 3 e poi il 1 7 settembre di quell'anno, Daguerre però si decise a dare personalmente una dimostrazione pubblica del suo procedimento; aveva invece evi­ tato di partecipare, con la scusa di un improvviso mal di gola, alla storica illustra­ zione di Arago durante l'emblematica riunione congiunta dell'Accademia delle scienze e dell'Accademia delle belle arti di Parigi, il 1 9 agosto21 .

La d a g h e rrot i p i a si d i ffo n d e Il giorno successivo, 20 agosto, Daguerre, che non tralasciava giustamente i suoi affari, diffuse un manuale di 79 pagine (Historique et description des procédés du daguer­ réotype et du Diorama par Daguerre, Susse frères, Paris 1 839) subito ovunque avida­ mente utilizzato. Entro la fine dell'anno ne vennero stampate ben cinque edizioni: la prima, terza e quarta da Susse frères, la quinta in lingua inglese da Belin et C.ie a Parigi, e la seconda invece dal cognato di Daguerre, l'ottico Alphonse Giroux, che da allora si

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Capitolo 2

Appa recchio per la ripresa di dagherrotipi, costruito da Alphonse Giroux e autenticato da Louis-Jacq ues-Mandé Dag uerre, 1 839. Parigi, Col l ection Société Française de Photo­ graphie.

occupò anche della costruzione degli apparecchi per il dagherrotipo (l'attrezzatura, che aveva lo stesso nome del prodotto, costava circa 400 franchi22) . Moltissimi esemplari vennero esportati anche nella penisola italiana (a Milano, dal Duroni; a Venezia, dal Gross; a Trieste. dal Fontana) . La prima edizione italiana del manuale di Daguerre, probabilmente un'edizione pirata, uscì a Genova nel 1 839 con testo francese, presso la libreria Beuf, al prez­ zo di un franco e cinquanta centesimi. In Italia la notizia dell'invenzione della dagherrotipia venne diffusa immediata­ mente e ripetutamente, tramite le «Gazzette)) e i «Messaggierh), ma furono dati inol­ tre resoconti più esaurienti23 in riviste, opuscoli, atti di accademie e istituti scienti­ fici, consentendo a molti di e seguire i primi esperimenti di dagherrotipia24 e avviando artisti e scienziati a una nuova professione, che doveva rapidamente espandersi con successo. La più antica trascrizione di un dagherrotipo ricopiato manualmente in litogra­ fia è stata eseguita a N apoli, nel dicembre del 1 839, da parte del litografo G. Forino. Due dagherrotipi vennero realizzati nella sede dello Stabilimento tipografico del «Poliorama pittorescm), il 14 e il 1 5 dicembre, e pubblicati nello stesso giornale, mediante le litografie di Forino. Il dagherrotipo del 1 5 dicembre, che ha come soggetto una «natura morta)) di gessi scultorei, fu pubblicato il 21 dicembre; l'altro invece, una veduta architettoni-

Invenzioni e petftzionamenti

31

Ferdinand Brosy, 2 0 agosto 1 846. Dagherrotipo. Venezia, Collezione Mario Trevisan.

ca di N apoli ripresa da una finestra dello Stabilimento, appare nel giornale, a piena pagina, il 1 8 gennaio 1 840. Queste due pubblicazioni napoletane precedono l'Album du Daguerréorype répro­ duit (gennaio 1 840) e quello di Charles Philippon, che a Parigi edita una serie di vedute litografiche ricavate da dagherrotipi, Paris et ses environs réproduits par le da­ guerréorype, nel febbraio del 1 840. Seguiranno le Excursions daguerriennes dell'editore Lerebours, nel 1 842, trascritte però all'acquatinta e con l'aggiunta di personaggi - che non si potevano altrimen­ ti fotografare "al vero", per la lunghezza della posa -, disegnati nello stile di Canaletto. In che consisteva la tecnica per eseguire queste immagini lucenti, speculari,

32

Capitolo 2

Plaquette, sul retro di un dagherrotipo di Ferd inand Brosy, 1 846. Venezia, Collezione Mario Trevisan .

ambigue nella loro sfuggevole apparenza, ora in posmvo ora in negativo, come appaiono a seconda dell'inclinazione dell'angolo sotto cui vengono osservate, ossia in rapporto alla luce che le colpisce e vi si riflette? Splendidi oggetti, queste miniature disegnate dalla luce - «specchi della memo­ ria» vennero anche chiamati - sembrarono gioielli, visto che avevano anche il pre­ stigio d'essere composti con un metallo nobile come l'argento. Il procedimento, per il quale rimandiamo il lettore al brano di Giacomo Caneva, pittore-fotografo di origine padovana e trattatista tra i primi in Italia, pubblicato in antologia25, è sostanzialmente suddiviso in cinque fasi, mediante le quali si ottiene l'immagine definitiva: 1 . lucidatura con acido nitrico della lastrina di rame placcato d'argento (dimen­ sioni medie di cm 6 x 4, 1 0 x 1 4, ma le lastre intere sono di formato maggiore, cm 1 6 x 21); 2 . l a lastra viene collocata i n una cassetta di legno dove riceve i vapori di iodio (sulla superficie si forma ioduro d'argento, che è fotosensibile) ; 3. si introduce la lastra, al buio, in uno chassù e quindi nell'apparecchio di ripre­ sa, dove viene esposta per un periodo di tempo che varia da un quarto d'ora a pochi minuti;

Invenzioni e perfezionamenti

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4. la lastra, dopo l'esposizione, viene inserita, sempre al buio, in una bofte à mer­ cure di legno, con una inclinazione a 45°, sopra una capsula di metallo che contie­ ne circa un chilogrammo di mercurio, riscaldato a circa 60° C, con una lampada a olio o a spirito, in una operazione che dura circa 1 0 minuti; 5. si procede al fissaggio in acqua e iposolfito di sodio (inizialmente Daguerre opera con il cloruro di sodio in acqua calda) e a un succes sivo lavaggio in acqua distillata. Nulla di complesso in effetti, e ciò favorì molto la diffusione del dagherrotipo, della cui tecnica si impadronirono ben presto anche modesti artisti e oscuri mestie­ ranti, portando nelle piazze e nelle fiere, con la loro patetica figura di fotografi ambulanti, la mirabolante invenzione, che era di per se stessa uno spettacolo senza pari. Mentre Daguerre proponeva l'invenzione che assieme a Niépce aveva faticosa­ mente realizzato, veniva presentata un'altra tecnica per eseguire, ancor più facil­ mente ed economicamente, rigorose immagini «senza saper disegnare»; un procedi­ mento che, nonostante abbia inizialmente ottenuto minor successo del dagherroti­ po, si diffuse egualmente anche perché più «povero», considerando che il supporto era di carta invece che di rame placcato d'argento. Inventore di questa tecnica di fotografia su carta, o più propriamente del disegno fotogenico (photogenic drawing), in seguito perfezionato nella calotipia (calorype) o talbo­ tipia, fu l'inglese William Henry Fox Tal bot (1 800-77).

Wi l li a m H e n ry Fox Ta l bot Talbot configurò più efficacemente degli altri inventori l'idea della fotografia, caratterizzando questa tecnica, non solo come mezzo di rappresentazione, ma anche di diffusione delle immagini, intuendone l'importanza come moderno stru­ mento di comunicazione visiva, mediante l'invenzione del negativo, che diventa subi­ to emblematico, come matrice, della riproduzione e della moltiplicazione fotogra­ fica. Ricco proprietario terriero, Talbot si era dedicato giovanissimo alle scienze, in particolare a quelle matematiche, fisiche, botaniche e archeologiche; gli strumenti ottici, soprattutto il microscopio, erano dunque d'uso quotidiano per Talbot, che nel 1 822 si mise anche in contatto con l'ottico modenese Giambattista Amici, chie­ dendogli un esemplare del suo microscopio a immersione, tecnicamente tra i più avanzati a quel tempo26. Iniziò allora con l'Amici un rapporto epistolare, concluso nel 1 827 e ripreso tra il 1 839 e il 1 844, attraverso il quale è possibile seguire alcu­ ne tappe fondamentali della sua ricerca, tesa a fissare «meccanicamente» l'impron­ ta fisionomica delle cose, anziché con il disegno, impreciso e non a tutti facile. Talbot aveva studiato al Trinity College di Cambridge, laureandosi nel 1 82 1 ; in seguito aveva viaggiato in vari paesi europei, secondo la tradizione dei ricchi intel­ lettuali del tempo, portando con sé la camera ottica o la camera lucida del Wollaston, per poter schizzare più facilmente scorci e vedute dei luoghi visitati. Proprio dall'uso di questi strumenti, che trovò nonostante tutto complicati, circa dieci anni dopo, nel 1 833 a Bellagio sul lago di Como, mentre stava disegnan­ do, venne a Talbot l'idea di trovare un modo «per fissare il disegno della luce» senza l'intervento manuale, come egli stesso ricorda, nell'Introduzione del libro a dispen-

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La colonna di Nelson, Trafa lgar Square, Londra, di William Henry Fox Ta lbot, 1 843-44. Carta salata da negativo calotipico. Venezia, Collezione Mario Trevisan.

se The Pencil of Nature, del 1 844, che è anche il primo "fotolibro" della storia, essen­ do realizzato con immagini originali incollate su supporti di cartone. «Uno dei primi giorni del mese di ottobre 1 835 - scrive - mi stavo diverten­ do sulle meravigliose sponde del lago di Como, in Italia, prendendo schizzi con la camera lucida di Wollaston, o piuttosto, dovrei dire, tentando di prenderli, ma con la più piccola probabilità di successo, poiché quando l'occhio era mosso dal prisma - nel quale tutto sembrava bello - trovavo che la matita infedele aveva lasciato tracce sulla carta, da guardare malinconicamente [...] . Quest'uso richiedeva una conoscenza del disegno, che sfortunatamente non possiedm�27. «Pensai di tentare un nuovo metodo», continuò Talbot, facendo risaltare la sua natura di scienziato, e adoperò una camera oscura, trovando però anche questa dif­ ficile da usare, «perché la pressione delle mani e della matita sulla carta tendeva a spostare lo strumento». Tutte queste considerazioni, e gli insuccessi come disegnatore, lo portarono a «riflettere sulla inimitabile bellezza delle immagini della pittura della natura,

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che la lente di vetro della camera lascia sulla carta nel suo fuoco, magiche imma­ gini, creazioni di un momento, e destinate altrettanto rapidamente a scompari­ re»28. Si avviò comunque rapidamente alla soluzione del problema (forse sollecitato, scrive il Lécuyer, anche da indiscrezioni dell'ottico parigino Charles Chevalier, del quale era cliente, come Niépce e Daguerre allora) , rispolverando vecchie nozioni di chimica, prime fra tutte quelle relative alle esperienze di Wedgwood e Davy con il nitrato d'argento, di cui esisteva un Rendiconto scientifico del 1 802, che certamen­ te Talbot conos ceva, anche in qualità di socio della Royal Society. «Nel gennaio 1 834 ritornai in Inghilterra - scrive ancora Talbot - e cominciai a procurarmi una soluzione di nitrato d'argento e con un pennello a spalmarne un po' su di un pezzo di carta che veniva quindi asciugato»; continuò a fare esperimen­ ti anche con cloruro e ioduro d'argento, in innumerevoli prove, che gli consentiro­ no di ottenere in breve tempo soddisfacenti risultati, non solo ponendo oggetti a contatto della carta fotosen sibile, per lo più foglie e fiori rinsecchiti, ma anche mediante piccole camere oscure («trappole per topi», venivano chiamate dalla moglie di Talbot quelle scatolette) , costruite dal falegname della sua tenuta di Lacock Abbey. Anche Tal bot ebbe subito il problema di fissare permanentemente le immagini che eseguiva, perché, spiegava allora, queste «avranno un carattere di durabilità, sol­ tanto se saranno allontanate dalla azione diretta della luce del sole», oppure se su­ biranno quel «chimico trattamentm), che egli chiama «processo preservativm), senza però aggiungere altro, nella relazione riportata su «The Athenaeum)) il 9 febbraio 1 839, relativa al Metodo per eseguire sulla carta il disegno Jotogenica29• Questo rapporto fa seguito al primo annuncio pubblico del suo procedimento, tramite Michael Faraday, del 25 gennaio 1 839, alla Royal Institution e a quello dello stesso Talbot alla Royal Society il 3 1 gennaio. Una nota riassuntiva apparve inoltre il 2 febbraio in «The Literary Gazette)). N ei primi esperimenti Talbot riuscì a conservare le immagini lavandole con ioduro di potassio, ma il generoso amico Herschel, durante una visita di Talbot del 1 ° febbraio30, gli propose l'iposolfito di sodio, risolvendo definitivamente il proble­ ma per tutti, visto che lo scienziato inglese autorizzò allora Talbot a divulgare que­ sta sua scoperta. La frenetica sequenza di comunicazioni sul suo metodo è dovuta alla preoccu­ pazione di Talbot che non gli fosse riconosciuta la priorità dell'invenzione, visto che Daguerre aveva presentato per primo il 7 gennaio il procedimento del dagher­ rotipo; Talbot non sapeva ancora che la dagherrotipia era un processo diverso e uti­ lizzò quindi tutti gli espedienti per far conoscere le sue ricerche e porre in risalto le date delle sue scoperte. È da ritenere che Talbot non avesse notizie neppure delle prove di Niépce e della relazione presentata da Bauer alla Royal Society nel 1 827; altrimenti avrebbe ben difficilmente potuto sostenere che i suoi disegni fotogenici erano le più antiche immagini fotografiche esistenti. Inviò lettere sulle sue ricerche a diversi scienziati europei, tra cui l'Amici, che presentò alcune immagini di Talbot all'Accademia fiorentina dei Georgofili, e il botanico italiano Antonio Bertolini, unendovi anche qualche saggio del suo lavo­ ro, come quelli inviati all'Amici, tuttora conservati alla Biblioteca Estense di Modena.

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Rev. Thomas 8/izzard Bel/, di Robert Adamson e David O. H i l l , 1 843-47. Calotipo. Venezia, Collezione Mario Trevisan .

D a l d i seg n o foto g e n i c o a l l a ca l ot i p i a Il procedimento di Talbot venne pubblicato anche su «The Globe» il 23 feb­ braio 1 839, con ulteriori indicazioni tecniche, ma insufficienti per chi volesse veni­ re a capo del suo segreto, tanto da imbarazzare alcuni scienziati incuriositi dalla novità. L'accademico bolognese Enrico Barratta, ad esempio, su incarico del presiden­ te dell'Accademia di Bologna, lesse un rapporto alla XXIII sessione, il 1 6 maggio 1 83931, riassumendo la memoria di Talbot del 3 1 gennaio, integrata dalle più recen­ ti notizie apparse su «The Globe», ma concluse con l'affermare che il processo era «un Arcano, cui non fu dato alla scienza di penetrare».

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Il Barratta però sottolineò che, volendo confrontare le esperienze di Talbot con quelle di Daguerre, «non si potrà a meno di conchiudere che entrambi ottennero presso che gli identici risultati, e che tanto l'uno che l'altro non avendo ritegno di far palesi alcuni dei metodi che bene loro riuscirono a rendere le carte più o meno facili alle impressioni del sole e della luce, furono però in perfetto accordo nel simulare, e nel tacere gelosamente quei mezzi che più sicuri rinvennero affine di conservare le immagini disegnate, eccitando per cotal modo la universale curiosi­ tà>>32. Talbot sembrò essere stimolato dalla polemica sul primato dell'invenzione della fotografia, e migliorò in breve tempo il suo procedimento negativo-positivo, che aveva sul dagherrotipo il vantaggio di consentire la stampa di molte copie, rendendo tra­ sparente con cera o glicerina la carta su cui veniva impressa con la camera oscura l'immagine negativa33• Nell'ottobre 1 840 era già in grado di realizzare fotografie con una posa di pochi secondi, come affermava in una lettera alla «Literary Gazette)) del 5 febbraio 1 84 1 : «Il più breve tempo che mi è riuscito d'impiegare per imprimere un'immagine colla camera os cura è stato di otto secondi, ma non intendo assegnarlo come preciso limite)). Il nuovo metodo di cui fa menzione sulla «Literary Gazette)) del 5 e del 1 9 feb­ braio 1 84 1 34 venne chiamato da Talbot calorype; il brevetto, dell'8 febbraio, fu depo­ sitato a Westminster e registrato il 1 7 agosto, ma fu pubblicato in Francia soltanto nel 1 857 sul «Bulletin de la Société Française de Photographie)). Talbot brevettò molte sue invenzioni, proibendone l'uso senza il suo consenso, contrariamente a quanto aveva fatto Daguerre in cambio però di una discreta pen­ sione; ma i brevetti non impedirono che la tecnica di Talbot, abbastanza facile, si diffondesse rapidamente in Europa e in America, nonostante le preferenze per il dagherrotipo, molto più nitido nei dettagli. In che consisteva la calotipia, o talbotipia, come venne chiamata in seguito? Talbot stendeva una soluzione di nitrato d'argento su della buona carta da lettere e, dopo averla asciugata, la immergeva in una soluzione di ioduro di potassio; la carta così preparata poteva essere riposta al buio per un periodo abbastanza lungo, una volta che era stata essiccata, utilizzandola al momento opportuno dopo averla di nuovo imbevuta di un liquido composto da due soluzioni, A e B: la prima, con nitrato d'argento in cristalli (1 00 grani) , acqua distillata (due once) e un'aggiunta di acido acetico (un sesto del volume complessivo) ; la seconda, con acido gallico dilui­ to in acqua dis tillata. Le due soluzioni erano quindi mescolate in parti eguali. La carta così trattata consentiva di eseguire le calotipie con un brevissimo tempo d'esposizione («cento volte più breve di qualsiasi altra carta))) , facendo appa­ rire l'immagine latente solo dopo lo sviluppo. Il fissaggio era ottenuto sia con bro­ muro di potassio, che con iposolfito di sodio. Le calotipie venivano quindi incera­ te, per renderle più trasparenti e ottenere da questi negativi un numero indefinito di copie positive, che Talbot realizzava spesso con la vecchia tecnica del «disegno fotogenico)), non essendo importante, in questo caso, la m aggiore durata dell'espo­ sizione, che era determinante, invece, nella ripresa di soggetti sia pure in relativo movimento. Talbot fece esperime nti molteplici, con diverse camere oscure e fotografando i soggetti più vari: architetture, paesaggi, sculture, piccoli oggetti casalinghi, in vetro o in porcellana, e anche persone, atteggiate a volte in pose dinamiche, per mimare

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azioni rapide, che non era ancora possibile cogliere, data la scarsa fotosensibilità del materiale. Quest'invenzione viene subito collegata da Talbot a ogni possibile applicazione: dall'illustrazione di libri (The Pencil oj Nature pubblicato in 24 dispense tra il 1 844 e il 1 846, e Sun pictures in Scotland, che comprende 23 calotipi e venne prodotto in 1 1 8 copie nel 1 845) con immagini originali, alla fotoincisione (nel 1 8 52 inventò un proce­ dimento simile all'héliogravure) , alla fo tografia a colori, a quella a luce arti ficiale con scintille elettriche, alla microfotografia, ecc., in un inesauribile, rigoroso lavoro scientifico. N on tralasciò comunque l'aspetto commerciale connesso alla sua invenzione, controllandone l'uso attraverso i molti brevetti, e anche tramite l'attivazione di un laboratorio, che organizzò a Reading nell'autunno del 1 843, dove i suoi assistenti stamparono anche fotografie di operatori estranei all'atelier. Il Talbotype Printing Establishment impiegava una decina di persone ed era diretto da un ex maggiordomo di Talbot, Nicholaas Henneman, che coordinò il lavoro secondo criteri di produzione in serie, per la prima volta nella storia della fotografia; a Reading vennero tra l'altro stampati anche i calotipi inseriti nel libro di William Stirling, Annals oj the Art oj Spain (1 848) , che è considerato il primo volume d'arte illustrato con fotografie. La calotipia con i vantaggi che offriva, una maggiore economia sop rattutto, si diffuse, come s'è detto, nonostante le simpatie che il dagherrotipo continuò a susci­ tare per oltre un decennio, specie nel settore del ritratto, dove sembrava incompa­ rabile. Nel confronto tra la nitidezza del dagherrotipo e la granulosità del calotipo pre­ vale indubbiamente il primo, ma non va dimenticato che allora, ciò che di questa invenzione sbalordiva, era proprio la grande precisione fisionomica e l'estremo det­ taglio dei particolari, in concorrenza con il disegno, anche se osservata mediante una lente d'ingrandimento. N el 1 839, anno di grazia della fo tografia, oltre al disegno fotogenico e al dagherrotipo, altri sono i procedimenti sperimentati: quelli di Herschel e di Bayard hanno il vantaggio di essere stati documentati.

John Herschel e H i ppolyte Baya rd fra g l i i nve ntori Il caso di sir John Herschel è in effe tti molto particolare; lo scienziato, al quale la fotografia deve l'importante scoperta dell'iposolfito di sodio come agente fissa­ tore, venuto a conoscenza dell'invenzione di Daguerre attraverso un amico e col­ lega, Francis Beaufort, che gli scrisse al riguardo il 22 gennaio 1 839, in una sola settimana riuscì, nonostante le poche indicazioni avute (es sendo però al corrente delle ricerche di Talbot), a reinventare il procedimento fotografico, come infatti risulta da alcuni appunti del 29 gennaio, ora conservati allo Science Museum di Londra35. In quello stesso anno, il 9 settembre, Herschel eseguì anche un'immagine nega­ tiva su di una lastrina di vetro di forma circolare, riprendendo un traliccio dell'os­ servatorio astronomico di suo padre, William. Questa immagine, che propone precocemente il vetro come supporto (se si escludono le esperienze fatte da Niépce ), è comunque la più antica lastra fotogra-

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fica su questo materiale, ed è anch'essa conservata allo Science Museum, assieme ad altri importanti incunaboli della calotipia. A Parigi, nel frattempo, un impiegato del ministero delle Finanze, Hippolyte Bayard (1 80 1 - 87), si inseriva tra i grandi inventori della fotografia, senza avere però allora i riconoscimenti che si sarebbe meritato, in quanto tutti erano affascinati dal­ l'invenzione di Daguerre; anche Arago, che si era così attivamente impegnato a difendere Daguerre da ogni attacco, tra cui quello di Talbot36 e in seguito, nel 1 84 1 , di Isidore Niépce37, non ritenne di prendere troppo i n considerazione il lavoro di un modesto impiegato come Bayard, neppure quando poté constatare personal­ mente i positivi risultati di queste esperienze, il 20 maggio 1 839. Bayard, amico di molti artisti parigini, era stato da questi incoraggiato, dopo l'annuncio del 7 gennaio dell'invenzione della dagherrotipia, a portare a termine vecchi studi sulle sostanze fotosensibili ed era riuscito in breve tempo a ottenere soddisfacenti risultati, pur senza conoscere i procedimenti di Daguerre e di Talbot; solo un mese dopo, il 5 febbraio, Bayard era in grado di mostrare alcuni dessins pho­ togénés o images photogénées, come chiamò le sue prove su carta sensibilizzata con ioduro d'argento, direttamente positive, allo scienzi ato Desprets, mem bro dell'Istituto di Francia38• Il 20 maggio si metteva in contatto con Arago e il 24 giugno dello stesso anno esponeva circa quaranta immagini nella Salle cles Commissaires Priseurs, in rue cles Jeuneurs a Parigi, 39. Il giornale parigino «Moniteur o fficiel» recensì questa mostra, che è la prima esposizione pubblica di fotografia, il 22 luglio. Bayard depositò il suo procedimento 1'1 1 novembre del 1 839 all'Accademia delle scienze, descrivendone la tecnica, cui fece cenno anche in una lettera del 1 84040, sia pure approssimativamente. Dopo queste ricerche che tendevano a ottenere immagini positive sulla carta, Bayard comprese, forse per un indiretto suggerimento di Talbot, che il negativo su carta poteva invece consentirgli di moltiplicare il numero delle copie e realizzò di conseguenza un nuovo procedimento, rivelato però soltanto nel 1 8 5 1 , il 1 4 aprile, durante una seduta dell'Accademia delle scienze. Nel frattempo, nonostante lo scarso successo della sua invenzione e probabil­ mente anche per le pressioni di un personaggio influente come Arago, che, secon­ do Lacan, direttore della rivista «La Lumière» (2 settembre 1 8 54), gli avrebbe con­ sigliato di non insistere nel sostenere la validità e la precocità della sua scoperta, per non nuocere a quella di Daguerre, che stava felicemente affermandosi, Bayard ebbe egualmente dal ministero dell'Interno un aiuto in denaro di 600 franchi, che però gli bastò appena per migliorare la sua attrezzatura. Hippolyte Bayard si sentì comunque vittima dell'incomprensione e della furbi­ zia altrui, e, con notevole ironia, non mancò di ribadire il suo disappunto anche in una metaforica immagine, dove appare il suo corpo nudo autoritratto, esposto alla Morgue, simile a quello di un suicida nella Senna, il 1 8 ottobre 1 840, come spiega una didascalia chiarificatrice, stesa di suo pugno in calce alla fotografia. Egli va però ricordato non solo come inventore, ma come fotografo, essendo autore di alcune serie di immagini che sono tra le meno stereotipate di quegli anni - vedute di paesaggi e architetture - dove sono fissate situazioni di luce e scor­ ci di una singolare vivacità prospettica, favorita senza dubbio dalla sua tecnica, più semplice di quella dagherrotipica; circa seicento opere di Bayard, che partecipò nel

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1 85 1 alla «Mission héliographique», sono tuttora conservate nella collezione della Société Française de Photographie. Scrive Lo Duca in un saggio del 1 945: «Bayard resta come il creatore della foto­ grafia, perché al procedimento fotochimico egli ha aggiunto l'amore per l'immagi­ ne, eclissando così la curiosità scientifica delle scoperte dei suoi predecessori».

A l b u m i n a e co l l od i o Negli anni tra il 1 839 e il 1 85 1 , che è la data convenzionale dell'invenzione della tecnica del collodio e, quasi emblematicamente, anche della morte di Daguerre, la foto­ grafia dagherrotipica e calotipica si diffonde, ma al tempo stesso vengono apporta­ ti continui miglioramenti, anche dai singoli fotografi che ne fanno spesso un segreto personale. La ricerca procede soprattutto in funzione dei principali difetti impliciti nel dagherrotipo (esemplare unico) o nel calotipo (granulosità delle stampe); si tende inoltre a ottenere una maggiore fotosensibilità, che è un anelito all'istantanea, e si esplora la possibilità di fissare il colore della realtà, per una maggiore e più grade­ vole >, ossia per la sua eccezionale capacità di rilie­ vo fisionomico, e per la relativa facilità e velocità della sua esecuzione, sembrò essere insostituibile anche a Cesare Lombroso (1835- 1 9 1 9) che, nei suoi studi di criminolo­ gia, se ne servì soprattutto per documentare le sue teorie, sin dal 1 880. Nei manicomi il rito della fotografia diventò d'obbligo, e dappertutto si composero allucinanti album di immagini, che sono comunque una testimonianza, se non della pazzia delle perso­ ne fotografate, di bizzarre teorie scientifiche e di grande crudeltà. Tra il 1 877 e il 1 880, Bourneville e Regnard realizzarono un ampio censimento fotografico delle pazienti del manicomio della Salpetrière20 e, a cura del dottor Jean Martin Charcot (1 825-93) venne pubblicata l'Iconographie photographique de la Salpétrière (1883-85), che è un grande atlante nosografico illustrato. Il laboratorio fotografico di questo ospedale psichiatrico venne allestito e diretto da Albert Lande (1 858- 1 9 1 7), autore di importanti saggi di tecnica fotografica e inven­ tore di vari apparecchi, tra cui alcuni relativi alla cronojotografla. Cesare Lombroso, a sua volta, utilizzerà la fotografia nei suoi studi di fisiognomica e criminologia, compilan­ do nel 1 897 un : L'uomo delinquente, in rapporto all'antropologia, alla giurisprudenza ed alla psichiatria. In Italia, a Reggio Emilia, nel 1 880 utilizzò la fotografia nell'Istituto neuropsichia­ trico S. Lazzaro il medico Augusto Tamburini (1 848-1919) , che avvìò così anche nel nostro paese una pratica seguita sino ai nostri giorni. A Venezia, venne incaricato il fotografo Oreste Bertani di fotografare le "detenute" isteriche all'Isola di San Servolo. Ma la più affascinante ed emblematica applicazione della fotografia in campo medico e, allo stesso tempo, la più utile all'umanità, è stata quella realizzata in seguito alla scoperta dei raggi X da parte di Wilhelm Konrad Rontgen (1 845-1 923), nel dicem­ bre 1 89521, che ha aperto nuove possibilità d'indagine fotografica anche nello spazio invisibile all'occhio umano e alle comuni emulsioni fotosensibili. Queste vennero comunque subito adattate (Eder, Vogel, i Lumière...) alla nuova tecnica della fotografia dell'invisibile, che fece supporre di poter allargare l'indagine visiva nel mondo dell'occulto, sino a fotografare il pensiero, come curiosamente pro­ pose E. N. Santini in un saggio degli ultimi anni dell'Ottocento (Photographie des effluves humains, Mendel, Paris s. d.). Venivano qui affrontate nuove teorie sui «fluidi eterici», i «corpi astrali» e «l'aura», recentemente riesumate con gli esperimenti dei russi Semyon e Valentina Kirlian sull'«aura vivente», che sarebbe registrabile con la fotografia22 mediante un apparecchio da loro progettato, in grado di cogliere radiazioni in parte sconosciute e comunque non altrimenti percepibili. L'indagine fotografica non ha trascurato nulla nel campo della medicina, e dopo lunghe ricerche affiancate dall'evoluzione della tecnica fotografica, si riuscì a foto­ grafare ogni cosa: la retina dell'occhio (le prime foto vennero eseguite in America nel 1 86223, cui si applicarono anche gli italiani Borghi e Bonacini dell'università di Modena, riuscendo a fotografare nel 1 924 il fondo dell'occhio di un coniglio 24; l'in­ terno dello stomaco umano, in fotografie eseguite con una sonda di mm. 1 0 di dia-

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metro, il 25 . Ma la prima idea di impiegare le vedute del terreno per la costruzione di piante e di carte, è dovuta, precisa lo stesso Laussedat26 «al celebre idrografo francese Beautemps-Beaupré, che lo mise in esecuzione dal 1 791 al 1 793», quindi indipen­ dentemente dalla tecnica fotografica suggerita in seguito da Nadar (1 860 circa) , che, però, risolse molti insormontabili problemi, specialmente riguardo alla precisione e alla rapidità del lavoro. Il colonnello Laussedat, in uno dei suoi saggi, ha tracciato anche una esaurien­ te cronistoria delle esperienze italiane nel settore di cui si è magistralmente occu­ pato; egli ammette che il piemontese Ignazio Porro (1 801 -75), topografo e ottico (progettò il tacheometro), abbia iniziato a occuparsi di topofotografia nel 1 85 5 , ma, scrive maliziosamente, «ce devait etre à Paris, où il résidait alors et où j 'ai eu as­ sez souvent l'occasion de le voir et meme de l'entretenir de mes propres recher­ ches». I primi studi seri fatti in Italia, continua Laussedat, risalirebbero al 1 878, per merito dei tecnici dell'Istituto geografico militare, diretto dal colonnello (in seguito, generale) Ferrera, ma il luogotenente Michele Manzi aveva utilizzato la fotografia in

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alcuni rilievi sul Gran Sasso già nel 1 875 e l'anno seguente sul Moncenisio, con la delicata tecnica del collodio umido27 • Queste prime esperienze vennero praticate anche dall'ingegnere Pio Paganini, che assieme al capitano Antonio Clementi realizzò il primo rilievo fototopografico delle cave delle Colonnate nelle Alpi Apuane (1 878), della Serra dell'Argentera nelle Alpi Marittime (1 879) e del Monginevro (1 895), riportati in seguito in cartografie nella scala 1 :25.00028 . Anche la fotografia ) dell'oggetto attribuiva quindi all'immagine una eccezionale, stupefacente sensazione di «doppio)) della realtà. Negli studi cartografici ci si servì normalmente di queste illusioni di tridirnensionalità, non certo per scopi spettacolari, ma perché la stereoscopia consente con il suo codice di controllare con maggiore precisione la dimensione oggettiva degli elementi di cui è com­ posto lo spazio; nei rilievi aerei, a scala urbana e anche, più limitatamente, in quelli dei sin­ goli monumenti, si impiega oggi la ripresa stereografica sistematicamente, utilizzando l'ae­ rofotogrammetria e la fotogrammetria, con strumenti di avanzata tecnologia, sia della dinamica aerea (velivoli speciali, satelliti, ecc.), che della fotografia (riprese a colori, infrarosso, ecc.) e della restituzione cartografica, ossia del trasferimento della fotografia nel disegno. Il primo strumento per questa operazione venne realizzato da Deville nel 1 896, mentre l'austriaco von Orel, nel 1 908, chiamò autografo un rnarchingegno per disegna­ re automaticamente le carte fotografiche.

Al l a rice rca d e l l ' i nvi s i bi l e Queste tecniche di rilievo sono state applicate anche in archeologia, e con esse l'ar­ cheologo Dinu Adarnesteanu, ad esempio, scoprì tra l'altro, nel 1 960, l'intero assetto urbano dell'antica città di Spina, in Emilia, utilizzando l'effetto dei raggi infrarossi su speciali emulsioni sensibili alla loro lunghezza d'onda (oltre 7.000 A0 e quindi maggio­ re di quella dello spettro visibile), che gli consentirono di distinguere, nel contrasto tonale del disegno impresso sulle lastre fotografiche eseguite dall'aereo, diversamente sensibili rispetto alle radiazioni, il segno dei muri perimetrali delle case, ricoperti dal terreno e quindi altrimenti invisibili. Fu Herschel ad affrontare i primi studi in questa direzione, quindi, nel 1 875, Vogel, che mescolò all'emulsione fotografica sostanze coloranti, come le cianine (e ottenne una sensibilità ortocrornatica, parzialmente anche per la luce rossa) e poi Abney, nel 1 880, usando ancora il collodio come sostanza emulsionante, anziché la gelatina, riuscì a ottenere lastre sensibili alle radiazioni di 20.000 A 0•

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Ponte di Bellegarde, di E. Touchet. Anagl ifo.

Capitolo 3

Fotogrtifia e scienze

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Questa tecnica fotografica ai raggi infrarossi venne però risolta a livello industria­ le dalla Kodak nel 1 925, quando alcuni ricercatori americani prepararono una pellico­ la sensibile all'infrarosso, in un intervallo di lunghezza d'onda tra i 7.000 e i 9.000 A 0 • La luce ultravioletta è stata a sua volta utilizzata in molti settori scientifici e vi si ricorre spesso anche nell'esame delle opere d'arte, a integrazione di altre tecniche (fotografia ai raggi X, micro e macro); è stata studiata particolarmente dall'americano Robert Williams Wood (1 868- 1 955) verso il 1 9 1 0, quando eseguì, «con uno schermo speciale permeabile solo alle radiazioni ultraviolette, fotografie di fiori bianchi e oggetti colorati con biacca di zinco e ottenne immagini nere»36• Wood, che realizzò importanti scoperte sulla fotografia a colori con un procedi­ mento brevettato nel marzo 1 899, fotografò anche la Luna con queste emulsioni sen­ sibili all'ultravioletto, «imaginando che se il disco lunare avesse avuto regioni in cui fosse sparso del bianco di zinco o altre sostanze minerali aventi egual modo di com­ portarsi rispetto alle radiazioni ultraviolette, avrebbero dovuto produrre delle macchie nere. E così fu, poiché la regione prossima al cosiddetto Cratere di Aristarco, diede una imagine diversa da quelle ottenute coll'ordinario metodo fotografico di riprodu­ zione»37. Da centosettant'anni, l'indagine fotografica sui più vari aspetti della realtà non ha avuto soste, ed è stata applicata in ogni settore: nella ripresa subacquea (il primo a ottenere buoni risultati fu il naturalista Louis Boutan nel 1 893, servendosi della luce al magnesio, che venne acceso in un contenitore impermeabile) ; nell'analisi dei metal­ li 0e prime ricerche metallografiche risalgono al 1 885 e sono dovute a Werth e Osmond, autore quest'ultimo anche di un saggio, Sur la Métallographie microscopique, del 1 895) e nella registrazione dei fenomeni visivi che si determinano con il movimento dei corpi alle alte velocità. Queste ricerche hanno avuto origine con la cronofotografta di Eadweard Muybridge (1 830-1 904) nel 1 878, di Jules-Etienne Marey (1 830-1 904) nel 1 882, con la strobofotogra­ fta, praticata anche dal pittore Thomas Eakins (1 844-1 9 1 6) sin dal 1 884, ma si sono su­ blimate con le esperienze di Harold E. Edgerton (1 903- 1 990), che al Massachusetts Institute of Technology, assieme a Kenneth Germeshausen e a Grier, ha messo a punto un prodigioso flash elettronico nel 1 933, per analizzare gli spostamenti degli oggetti a velocità di ripresa che superano il milionesimo di secondo. Tra i ricercatori in questo settore, vanno inoltre ricordati Hubert Schardin (nel 1 950 ha ripreso immagini dell'onda sonora creata da proiettili durante la loro dinami­ ca) e Gjon Mili, che ha collaborato anche con Edgerton in ricerche sulla strobofoto­ grafia ad alte velocità.

Fotog rafi a cri m i n o l og i ca Una applicazione scientifica della fotografia è poi quella relativa alla segnaletica poliziesca e alla criminologia, nel cui ambito sono stati tra l'altro impostati i primi studi di semiologia della fotografia, essendo indispensabile la definizione di un codi­ ce visivo, che consenta di censire e di catalogare e confrontare sistematicamente la fisionomia degli individui, tenendo conto dei caratteri trasferiti e fissati nell'immagine fotografica. Fino dal 1 870, in Inghilterra, si fotografarono i criminali, mentre in Francia la poli­ zia si servì della fotografia dal 1 868, per documentare i luoghi dove avvenivano delit-

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ti, predisponendo sistemi di rilevamento, secondo griglie prospettiche determinate dalla lunghezza focale dell'obiettivo; sovrapponendoli all'immagine fotografica, questi schemi grafici consentivano la misurazione delle distanze degli oggetti all'interno del cono visivo, in base a elementari regole dell'ottica e della geometria. Ma fu Alphonse Bertillon (1853- 1 9 1 4) , prefetto di polizia a Parigi, ad avviare nel 1 882 il primo serio servizio di identità giudiziaria o di antropometria segnaletica, come egli amò definirlo. Nel 1 890 Bertillon pubblicò un libro sulle sue esperienze, La Photographiejudiciaire, che sollecitò analoghi studi anche in altre nazioni, tra cui l'Italia. Qui si occupò di que­ sta disciplina, fino dagli ultimi anni dell'Ottocento, un funzionario di polizia, Umberto Ellero, che divenne direttore della Scuola di polizia scientifica, istituita a Roma nel 1 902, autore anche di un rigoroso saggio sull'argomento (La fotografia nelle funzioni di polizia e processuali, SEL, Milano 1 908), dal quale è tratto un brano pubblicato nell'an­ tologia di questo volume38• Ellero, tra l'altro, progettò una ingegnosa macchina per eseguire una fotografia segnaletica di fronte ed una di fianco simultaneamente, e non una di seguito all'altra com'era consuetudine. Le gemelle El/ero così venne chiamato lo strumento - avevano lo scopo di evi­ tare possibili alterazioni della mimica facciale, possibili se le foto venivano eseguite in due riprese, ed erano un metodo assai più pratico e preciso del consueto uso dello specchio, tenuto in mano dal presunto criminale accanto al viso, perché il fotografo potesse, in un'unica immagine, riprendere il volto sia di fronte che di profilo. L'apparecchio di Ellero, forse ancora in uso in qualche stazione di polizia, consiste in due camere identiche, applicate a due treppiedi sistemati ai vertici di un triangolo equilatero, installate in modo che gli assi focali degli obiettivi siano perpendicolari tra di loro, e rivolti verso il terzo vertice, dov'è seduto il malcapitato individuo da scheda­ re. Gli otturatori di entrambi gli apparecchi scattano assieme, per cui si ottiene una fotografia frontale e una di profilo contemporaneamente. Ma, nonostante il rigore scientifico con cui la fotografia è stata applicata sin dall'i­ nizio in questo settore, va segnalato, come scrive Ando Gilardi, che «a differenza di quelle odierne, burocratizzate e meccanizzate nelle rigide specializzazioni dei corpi di polizia, la fotografia giudiziaria di un tempo lasciava spazio a soluzioni formali diver­ se e, a loro modo, creative>>39, non fosse altro che per la necessità di affrontare le note­ voli difficoltà tecniche e quindi i condizionamenti che la fotografia ancora poneva. Vanno ricordate inoltre le applicazioni parascientifiche, già citate, di Cesare Lombroso. In ogni caso, questi primi studiosi, Bertillon e Ellero, che assieme allo svizzero R. A. Reiss40 hanno posto le basi della fotografia criminologica odierna, approfondirono anche gli studi sulla fisiognomica, inevitabilmente collegata alla visualizzazione del volto e della mimica facciale. Il percorso che, dal primo, elementare utilizzo della fotografia segnaletica e di rico­ noscimento, avvenuto probabilmente nel 1 854, allorchè la polizia svizzera promosse la ricerca di un pregiudicato con la diffusione di molte copie di un suo dagherrotipo (ma probabilmente si trattava di una fotografia su carta, già in uso), come afferma il «Journal cles tribunamm del 1 0 settembre 1 8544 1 , ci ha condotti fino alla ricerca del «famigerato Giuseppe Garibaldi» compiuta a Napoli nel 1 860, mediante la distribuzione di innume­ revoli cartes de visite, nel caso questi «avesse a penetrare in luoghi di una guarnigione»42, e poi alla schedatura delle prostitute viennesi nel 1 864, quando venne applicata una loro fotografia sul documento d'identità (negli Stati Uniti d'America vi si provvide nel 1 892), -

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e dei soldati giapponesi a partire dal 1 904, fino ai recenti procedimenti di trascrizione elettronica mediante il computer, come avviene nel cosiddetto ritratto a blocchi, compo­ sto di un reticolo di centinaia di migliaia di piccoli quadrati, memorizzabile (quindi subi­ to rintracciabile) su un nastro magnetico43, ha prodotto una completa catalogazione fotografica di chiunque sia transitato in questo mondo da un secolo a questa parte, fis­ sando la «fisionomia>> umana in un immenso mosaico di immagini, in continua, inarre­ stabile espansione e parte ormai della nostra «memoria collettiva>>. >3). Nonostante ogni rivendicazione di autonomia, la fotografia è rimasta da allora sue­ cuba di questo equivoco, che la fece apparire una tecnica artigianale, simile quindi alla «stampa e alla stenografia>>, come precisava Baudelaire, non essendole, d'altronde, rico­ nosciuto alcun ruolo, come linguaggio, se non una modesta capacità creativa, che susci­ tò comunque l'attenzione di letterati e filosofi, che azzardarono anche cauti elogi alla sua «estetica>>, accomunando in ogni caso la fotografia alle cosiddette «arti minori)), tra cui era compreso persino il giardinaggio4. Alla fotografia si domandò quindi di essere soprattutto fedele al vero, un vero palpa­ bile e miniaturizzato, della cui esistenza essa è oltretutto una garanzia, e ogni perfezio­ namento della sua tecnica ha teso a questo unico scopo, non avendone altri per lungo

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Capitolo 4

tempo, perlomeno sino a oggi, quando con il "digitale" si può intervenire sull'immagi­ ne anche inventando presenze oggetruali, costruendo quindi una realtà "seconda", che nasce dall'immaginazione. La fotografia aiutò così, malgrado l'equivoco sulla sua veridicità, a scoprire comun­ que la realtà, offrendone una nuova coscienza; ha sbalordito fino a oggi con la sua magia, che non è tanto nella sua tecnica, quanto nella rivelazione che essa fa del nostro spazio esistenziale, con la cui immagine siamo costretti a confrontarci quotidianamente. Nel suo codice c'è non solo la capacità, ma la fatalità d'un mezzo per fare arte. Nell'angoscioso tentativo di attribuire «artisticità>) alle loro immagini, e di sottrarle al "ghetto" dell'artigianato, i fotografi hanno creduto a lungo che ciò consistesse nello sce­ gliere un soggetto «esteticamente)) valido e importante per se stesso. Ma la loro non fu un'ingenuità, perché se vennero in seguito comprese le enormi possibilità creative del segno fotografico, duttile alle variazioni dei significati del soggetto, nient'affatto immu­ tabili come si credeva, è d'altronde indubitabile che la specifica qualità della fotografia andava cercata proprio nel vincolo che essa ha con il soggetto, con la sua Jcelta, che va operata nello spazio reale, ritagliandone un frammento, riquadrando, evidenziando, mutando il punto di vista, quindi la prospettiva, infine additando... «Resti la fotografia matematica alle riproduzioni ed agli usi del commercio. Il dilet­ tante deve fare dell'arte e non dovrà trattare qualsiasi soggetto, ma quei soggetti soltan­ to che parlino d'arte e di sentimento))5, scriveva un elzevirista nel 1 896, ribadendo una distinzione che, se in parte è legittima (come in pitrura nel confronto con il disegno «tec­ nico))), è altresì semplicistica e pericolosa; e rutta l'arte ne ha risentito. «La fotografia - scrive Vitali - deve molto all'apporto dei pittori che lasciarono il pennello per l'obiettivo))6, ma al tempo stesso iniziò la sua crisi, proprio per la ragione che in quest'arte annegarono subito decine di pittori, non perché questi fossero artisti «mancati, troppo poco dotati o troppo pigri)), come diceva Baudelaire, ma in quanto era implicito nella loro opera un riferimento alla iconografia della pittura e della grafica, sopratrutto di quest'ultima, che stava ottenendo tanto successo, dopo l'invenzione della litografia, presso un pubblico in rapida crescita, anche se economicamente più modesto e culruralmente più impreparato. Non c'era motivo quindi di modificare gli stereotipi vincenti e d'altronde non sareb­ be stato possibile trovarne subito di nuovi, ma la fotografia, essendo una tecnica diver­ sa, propose, a dispetto di ogni intenzione, immagini diverse; basti considerare l'opera di Talbot (alberi isolati dal contesto e in controluce, dettagli architettonici inconsueti nella loro modestia decorativa, , e avviata con l'intervento di una istituzione pub­ blica, la Commission des Monuments Historiques, fecero parte Henri Le Secq, Hippolyte Bayard, Edouard-Denis Baldus, Gustave Le Gray e Auguste Mestral. Un anno dopo gli Alinari, mentre fioriva la nuova tecnica al collodio, aprivano a Firenze il loro atelier, dedicandone l'attività quasi esclusivamente alla documentazione delle opere d'arte, via via sostituendo con la fotografia le stampe all'acquaforte e le litografie, certa­ mente meno "fedeli". Baldus realizzò tra l'altro, nel 1 855, un reportage dove era già avvertibile il concetto fotografico della sequenza spazio-temporale, riprendendo un itinerario lungo la ferrovia Paris-Boulogne8 per un album commissionatogli dal barone de Rothschild, che pubbli­ cò la raccolta di 74 vedute, in venticinque esemplari. Di Baldus va inoltre ricordato il famoso album eseguito nel 1 875 su Les Palais du Louvre e des Tuileries, che è una delle prime documentazioni sistematiche di architettura, quasi coeva alla grande opera di Ferdinando Ongania a Venezia, dedicata alla Basilica di San Marco (1 877-88). Il pittore Charles Marville (1 81 6-78) fotografò a sua volta soggetti architettonici, come Adolphe Braun (1 8 1 1 -77), che però si compiacque anche di comporre plastiche nature morte di fiori, simili a dipinti. Braun, di origine tedesca, faceva il disegnatore di stoffe e iniziò a fotografare nel 1 853 per «formare una collezione di studi destinati agli artisti»; un lavoro, questo, che si diffuse moltissimo sin dagli anni dell'invenzione, spes­ so con accordi segreti tra fotografi e pittori, visto che questi ultimi si vergognavano della compromissione. Ma in Italia, e in effetti in Europa, il più significativo e influente atelier di fotografie d'arte e di architettura, è stato quello, già citato, dei Fratelli Alinari, a fianco di quello di Giacomo Brogi, mentre a Roma operavano i MacPherson, Anderson, Altobelli, Cuccioni, Tuminello, e altri ancora.

Mod e l l i fotog rafi c i I l modello fotografico offriva indubbi vantaggi ai pittori, anche economici oltre che tecnici; venne favorito quindi l'espandersi di una attività nella quale molti fotografi si specializzarono, producendo nei loro atelier immagini di creazione personale o, più spesso, su commissione, come fu il caso di Durieu per Delacroix.

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Dal punto di vista tecnico, le fotografie offrivano al pittore immagini già trascrit­ te su una superficie bidimensionale, ossia trasferite in un codice affine a quello della pittura, con cui la fotografia ha in comune soprattutto la prospettiva, che è però inde­ rogabilmente "corretta", e inoltre l'inquadratura, che definisce la composizione all'in­ terno di un rettangolo. La fotografia, come sottolineava il Selvatico nel 1 8599 , può «dar lezioni ben altri­ menti fruttuose che non siano quelle fornite dalle statue, dalle preparazioni anatomi­ che, e dalle sudate copie di un modello forzato ad impossibili immobilità». Fu, in pratica, la copia da fotografie, che ebbe fortuna, dando oltretutto al foto­ grafo, sempre più simile a un umile artigiano e disponibile a ogni lusinga, la convin­ zione, nonostante tutte le accuse e i pregiudizi sull'arte fotografica, d'altronde accettati e condivisi, di essere utile, sia pure in modo passivo e servile, alla stregua di un pre­ pararore di vetrini in un laboratorio scientifico, o di un infermiere in sala operatoria. L'essere utile a un artista-pittore risultava quindi per il fotografo in qualche misu­ ra gratificante anche sotto il profilo psicologico, ma è proprio attraverso questo ambiguo coinvolgimento che inizia la sua emarginazione, ancora oggi non sempre risolta. Specialmente in Italia, il fotografo è spesso considerato un operatore di serie B, anche nella letteratura sull'arte, che se ne occupa distrattamente. Il nudo fu uno dei soggetti più richiesti dagli artisti, e una grande clientela di voyeurs alimentò questo mercato, che gabella spesso pornografia per >, come esperimento tecnico, il 30 otto­ bre 1 869. Questi mitici fotografi hanno dato inizio, con Robert Vance, Carleton Watkins, Eadweard Muybridge, Thimothy O'Sullivan, William H. Jackson, alla grande esplora­ zione fotografica del territorio americano, conclusasi poco meno di un secolo dopo, con le epiche, sia pure edonistiche, immagini di Weston e di Adams. O'Sullivan (1 840-82), assistente di Brady durante la guerra di Secessione america­ na e amico di Gardner, ebbe dal governo federale l'incarico di effettuare una campa­ gna fotografica sulle Montagne Rocciose, nel 1 867, ed una, più ampia, all'Ovest, tra il

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l/ luogo delle esecuzioni capitali nel villaggio di Kizo, di Felice Beato, G i a ppone. Albumina a cquare l l ata a ma no. Venezia, Collez i o ne Mario Trevisan.

1872 e il 1874; fu anche a Panama, come fotografo ufficiale dell'United States Geo­ logical Exploration. Contemporaneamente, un suo amico, Carleton Eugene Watkins (1829-1916), eseguiva la prima documentazione della Sierra Nevada. Eadweard Muybridge, prima di impegnarsi nella cronofotografia, era stato a sua volta partecipe di spedizioni geografiche, come eccellente fotografo.

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William Henry Jackson (1 843-1 942) aveva iniziato a fotografare nel 1 867 assieme al fratello Edward, e nel 1 870 venne assunto come fotografo ufficiale della spedizio­ ne geologica di Ferdinand Hayden, che esplorò l'Oregon e le valli dello Yellowstone. L'intatta bellezza di questi luoghi venne segnalata proprio dalle fotografie di gran­ de dimensione di Jackson, talmente efficaci da promuovere un'iniziativa del Governo per la protezione del comprensorio, oggi uno dei parchi naturali più importanti degli Stati Uniti. Tra i più noti e impegnati nella "catalogazione" delle antiche sopravvivenze indi­ gene in America, fu Edward Sheriff Curtis (1 868-1 9 52), che realizzò un'opera foto­ grafica monumentale, The North American Indian, in venti volumi editi con raffinate tec­ nologie di stampa. Non soltanto il paesaggio naturale e l'architettura, soggetti tradizionalmente ideali per le lunghe pose della tecnica primitiva, vennero compresi nel carnet del fotografo­ viaggiatore, ma anche la vita animata delle città cominciò a essere esplorata, non appe­ na le emulsioni si fecero più sensibili e il procedimento al collodio e poi quello alla gelatina si semplificarano. John Thomson (1 837 - 1 921 ), giornalista e scrittore inglese, dopo aver studiato chi­ mica, partì per Ceylon nel 1 862, spingendosi fino in Malacca, India e Cina, dove rea­ lizzò «scene di strada» di eccezionale vivacità per quei tempi, in gran parte trascritte in seguito come illustrazioni xilografiche in volumi su quel mondo esotico, accanto ai suoi suggestivi racconti letterari. Le immagini orientali di Thomson erano comparabili allora solo alle «istantanee)) di Antonio e Felice Beato, eseguite prima in India e poi in Cina e Giappone. A Delhi uno dei Beato, forse Felice, tra i primi fotografi di guerra, realizzò anche un grande panorama della città, ottenuto con 10 lastre di 10 x 1 2 pollici, stampate su carta al sale 5 . Poi, dopo una spedizione a Fort Taku in Cina, dove eseguì la prima sequenza fotografica di un campo di battaglia, Felix andò in Giappone, assieme all'a­ mico giornalista inglese Charles Wirgman, e attivò a Yokohama un atelier e una ditta commerciale in cui lavorarono, come allievi e successori, alcuni tra i pionieri della fotografia giapponese, come Kusakabe Kimbey, Ogawa Isshin, e stranieri, quali l'ita­ liano d'origine veneta (Vicenza) Adolfo Farsari sul finire del secolo, e il barone tede­ sco Raimund von Stillfried. Felice Beato, con Wirgman, fondò anche il primo giornale giapponese in lingua inglese, il > in movimento; ma Nadar fu in grado, nel 1 860, di illuminare ampi spazi delle catacombe parigine con pile Bunsen e di ottenere nitide immagini con pose, però, dai diciotto ai venti minuti. Il magnesio, scoperto come sostanza dal Davy nel 1 808 e con il quale si erano fatte alcu­ ne prove fin dal 1 860, fu finalmente commercializzato nel 1 883. La luce artificiale venne resa di uso più semplice innanzitutto utilizzando meglio il magnesio e, nel 1 925, costruendo speciali lampadine Vacublitz ("Il sole in tasca", fu lo slogan pubblicitario), che contenevano polvere di magnesio e si accendevano con una scintilla elettrica. «Un passo gigantesco per il reportage», si disse, ma il sistema venne migliorato definitivamente qualche anno dopo (1 931), con il lampeggiatore elettronico realizzato dallo scienziato Harold Edgerton, che, miniaturizzato, è sostanzialmente lo stesso illu­ minatore adoperato fino ai nostri giorni, prima dell'automatismo introdotto anche nei piccoli apparecchi "digitali". Il lampo al magnesio fu comunque ampiamente usato negli ultimi anni dell'Ottocento, specie nella fotografia di cronaca - con i miglioramenti contemporanei, come quelli apportati dall'americano Weegee, negli anni Trenta, o dai "paparazzi" italiani, prota­ gonisti della vita notturna, negli anni Cinquanta del Novecento -, e in quella polizie­ sca; la tecnica primitiva non era complicata, ma richiedeva un po' d'esperienza e d'at­ tenzione, per non provocare esplosioni e incendi. Tra le miscele più usate, quella di Goedike e Miethé, così composta: polvere di clo­ rato di potassa, 1 2 gr; polvere di solfuro di antimonio, 2 gr; polvere di magnesio, 6 gr. Con molta cautela il fotografo stendeva un sottile strato di questa miscela sopra una tavola e vi dava fuoco con del cotone fulminante. Questo, pressappoco, era il metodo usato anche da Jacob-August Riis (1 849-1 9 1 4), mitico cronista del «New York Tribune» e dell'«Evening Sun», uno tra i più celebrati ed emblematici protagonisti del giornalismo fotografico, autore di un epico documen­ tario sulla condizione di vita delle comunità di immigrati, relegati negli slums di New York, dove anche Riis era arrivato dalla Danimarca nel 1 870. Con una camera Detective e polvere di magnesio, che incendiava, per ottenere il lampo, su una paletta di metallo, Riis esplorò un mondo sconosciuto, immerso in un'ombra che era anche, oltre che fisica, psicologica, nel buio dei precari, malsani abi­ turi della periferia, dove trovava rifugio una moltitudine di persone, giunte dall'Europa negli ultimi decenni del secolo, con il miraggio di un'America ricca e benefattrice. La luce al magnesio di Riis illuminò questi tuguri, fissandone l'impronta sulle lastre sensibili, rivelando all'opinione pubblica e alle autorità una realtà altrimenti quasi incredibile - le foto furono raccolte poi in un fondamentale volume, How the Other Half Uves, 1 890 - della quale la fotografia offriva un'indiscutibile testimonianza; sono immagini "sociologiche" schiette, eseguite nell'istantaneità di un lampo, dal quale le persone a volte rimanevano abbacinate e attonite, "nuove" anche sotto il profilo estetico, grazie all'aggressività del disegno determinato dal flash, con grande contra­ sto bianco-nero. Queste schede sociologiche servivano a Riis anche come illustrazioni per il giorna­ le per cui lavorava, dove le fotografie erano però trasferite con clichés xilogra.ftci (quindi

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Abitazione di un immigra to, di Jacob Ri is, New York,

1 890 ci rca.

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ricopiate a mano). Ma vennero anche presentate con stampe "originali" in una espo­ sizione pubblica, per mostrare l'ambiente in cui viveva l'altra metà della città.

I l soc i o l ogo s i fa fotog rafo Mentre Thomson o Martin non si erano posti esplicitamente il problema della rap­ presentazione della vita cittadina in termini specificamente, politicamente sociologici, c'era in Riis, come in Lewis Hine, che idealmente ne continuò l'opera a New York, nei primi decenni del Novecento, un'ideologia umanitaristica che li rendeva coscienti ed era forse un'illusione - di svolgere un ruolo politicamente utile, in questo rilievo fotografico, quasi un censimento della povertà senza speranza, di una miseria che la fotografia ha cristallizzato per la nostra e la futura memoria. Lewis Wickes Hine (1 874-1 940) aveva iniziato a lavorare come manovale, iscriven­ dosi tardi all'università e laureandosi in "scienze sociali" nel 1 905 a New York. Autodidatta come fotografo, utilizzò la fotografia per illustrare i suoi articoli sulla vita degli immigrati europei, anche su suggerimento del direttore della scuola in cui inse­ gnava, e scoprì che questo mezzo espressivo gli consentiva di essere assai efficace nel raccontare una vicenda umana triste e quasi improbabile, come quella che stava esa­ minando. Si dedicò alla fotografia inizialmente come docente di sociologia alla Ethycal School di New York. La fotografia divenne, così, l'arma preferita dal sociologo Hine, e nel 1908, quan­ do questi iniziò a lavorare per la rivista «Charity and the Commons», fu lo strumento ideale per i reportage che egli stava realizzando, sui minatori di Pittsburgh, il porto di New York e, soprattutto, lo sfruttamento del lavoro minorile; alcune di queste imma­ gini vennero allora pubblicate in «The Pittsburgh Survey». All'inizio degli anni Trenta, Hine documentò, nelle varie fasi, la costruzione dell'Empire State Building, con immagini che però tendono soprattutto a esaltare il mito della macchina, del progresso, del lavoro, del coraggio e dell'eroismo umano, aderendo alla retorica, anche nazionalistica, dell'America di quegli anni; alcune di que­ ste fotografie furono pubblicate nel libro Men at work 7 • Dall'attività e per iniziativa di Hine nacque nel 1 928 la "Photo-League", un organi­ smo di fotografi e cineasti tesi alla ricerca sociologica; tra questi eccelse, fino ai decenni recenti, Walter Rosemblum (191 9-2004), la cui moglie, Naomi, è tra i maggiori e più rigorosi storici della fotografia, autrice di una monumentale storia di rilievo mondiale. Un impegno sociologico si avverte anche nell'opera di James Van der Zee, «un precursore della fotografia live», scrive Petr Tausk8 , o di Arnold Genthe (1 868-1 942), celebrato ritrattista a New York, che però fotografò «Vivacemente», nel 1 894, il quartiere cinese di San Francisco. Genthe è autore anche di un celebre reportage sul terremoto e l'incendio che colpirono la città nel 1 906, e che riprese suggestivamen­ te con una modesta Kodak Special 3A. Ma il taglio sociologico è spesso implicito nell'opera di molti fotografi, persino di un aristocratico fotoamatore come il conte Giuseppe Primoli (e del fratello Luigi), che fotografò la Roma popolaresca sul fini­ re del secolo, oltre che i salotti e le cerimonie di corte, senza porsi alcun problema di carattere sociologico, ma spinto da un istinto e una sensibilità professionale che si direbbero innati e comunque collegati alla sua cultura letteraria e alla sua vocazio­ ne di diarista - fu amico di pittori come Degas e di scrittori come Zola, durante i soggiorni parigini -, mentre la fotografia, con la sua congenita tendenza inquisito-

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ria e rivelatrice, stava avviandosi a divenire un potente, persuasivo rnass-rnediurn. È invece chiaramente sottinteso l'impegno sociale nel lavoro di August Sander (1 876-1 964), che, nei primi decenni del Novecento, catalogò generazioni di personag­ gi germanici, come emblemi di una razza non sempre necessariamente ariana, median­ te pregnanti, nitide immagini, raccolte poi nel volume Antlitz der Zeit (1 929), che pro­ vocò la censura nazista nel 1 933, quando venne distrutto gran parte del suo archivio, non essendo accettata la visione ironizzante, srnitizzante, a volte al limite della carica­ tura, che Sander offriva del cittadino germanico. Anche il «fotografo clocharc/,> Eugène Atget (1 856-1 927) ha contribuito a un'analisi sociologica dell'ambiente parigino agli albori del secolo, con il suo grande censimen­ to fotografico di Parigi (strade, piazze, vetrine, mestieri ecc.), avviato nel 1 898 e teso soprattutto a "documentare" le ultime sopravvivenze architettoniche e ambientali, eseguito spesso su commissione, come nella serie di lastre conservate negli Archives cles Monurnents Historiques. Egli ha così predisposto un materiale che, funzionale allora ad altri scopi, tra cui quello di servire come modello per i pittori di vedute, rappresenta una sintesi, la scel­ ta, che il fotografo, nello specifico della sua tecnica, è costretto sempre a compiere. , di essere attivamente partecipi alla trasformazione storica del pro­ prio tempo.

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25 rue des Grands-Augustins, d i Jean E u g è n e Auguste Atget, Pa rigi, 1 903. Sta m pa a l l ' a l b u m i n a . Venezia, Fondazione di Venez ia, Archivio Ita l a Zannier.

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Scène de la vie d'un cheval, Photo Rol, P a r i g i , 1 900 circa.

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Temporary Home for colored Children, di Lewis Wickes Hi ne, Was hington, 1 906 circa. Gelatina ai sa li d'argento. Venezia, Co l l ezione Mario Trevisa n .

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Una vetrina a Parigi, d i Jean Eugéne Aug uste Atget, 1 920 circa.

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Una famiglia di neri americani, di Art h u r Rothstein, per l a Farm Security Ad m i n istration,

1 937 circa.

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PotoJ!.rafìa e injòm;a zione

l sl

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Farmer's Kitchen, Ha/e County, di Walker Evans, Alaba m a, 1 936.

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N a sce i l fotog i o rn a l i s m o Questo moralismo circa la funzione sociale e comunque promozionale della foto­ grafia, d'altronde, è individuabile ovviamente anche nel fotogiornalismo commercia­ le, specialmente sulle pagine illustrate di «Life>>, la rivista fondata nel 1 936 dall'editore Henry Luce, sulla scorta delle esperienze redazionali, tecniche e di mercato di giorna­ li tedeschi, come il «Berliner Illustrierte Zeitung>>, il «Miinchner Illustrierte Presse» (di cui Stefan Lorant era il direttore), o di quelli francesi, «Vu» soprattutto (fondata nel 1 928 da Lucien Vogel, uno dei massimi promotori del fotogiornalismo moderno). Queste riviste erano orientate, contrariamente all'ebdomadario americano, dove si affidò subito alle immagini il compito di stereotipare un'idea epica del mondo, a pro­ porre, invece, la realtà soprattutto secondo la retorica dell'istantaneità: ogni immagine doveva essere vivace, immediata - in effetti più "credibile" - come le nuove tecni­ che (gli strumenti, quali la Ermanox o la Leica, minuscoli e agili, gli obiettivi più lumi­ nosi; le emulsioni molto sensibili) potevano concedere, se funzionalmente utilizzate in questo programma di informazione giornalistica, che non poteva fare a meno della fotografia e che ha caratterizzato, da allora, tutta la stampa mondiale, fino al soprav­ vento della televisione, che fu una delle cause della provvisoria prima cessazione di «Life» nel 1 972, di quella del gennaio 2000, quando fu trasformata in mensile, e della malinconica chiusura nel 2007. Destino comunque condiviso da altri rotocalchi, come gli italiani «Tempo» ed «Epoca». L'istantaneità ha occupato un posto determinante nello sviluppo della tecnica e, quindi, del linguaggio fotografico; essa sembrava un traguardo irraggiungibile, ma Arago ne aveva subito colto l'importanza, precisando nella sua relazione del 19 ago­ sto 1 839, come > ts. Nel 1 868 fu perfezionato il procedimento fototipico di Poitevin, da parte di Eugène Albert di Monaco, e due anni dopo, da Johann Baptist Obernetter; con que­ sta tecnica, chiamata anche eliotipia 19, vennero stampati alcuni incunaboli dell'editoria fotografica, tra cui le celebri opera dell'editore veneziano Ferdinando Ongania, quel­ la dedicata alla basilica di S. Marco, già citata, e Calli e canali in Venezia (1 890-92), seguita da Calli, Canali e Isole della LAguna (1 893); a Firenze, oltre agli Alinari, tra i primi a utilizzare la eliotipia, Vincenzo Paganori (parente della madre di Leopoldo Alinari) stampò con questa tecnica nel 1 887, in occasione delle celebrazioni in onore di Donatello, una cartella di trenta tavole, Album delle principali opere di Donatello, che aveva il prezzo di L. 30 e non poteva, quindi, essere considerata una pubblicazione econo­ mica e popolare. La similigravure rypographique venne brevettata da Charles-Guillaume Petit nel 1 878 e fu con una tecnica analoga che venne pubblicata, per la prima volta il 4 marzo 1 880 in un quotidiano, il , nel 1 869. Varie tecniche vennero messe a confronto negli ultimi decenni del secolo scorso, quando «non si trattava che di trovare il metodo più pratico», scrive l'Enrie, ed era >20 . Sul finire del secolo, con la tecnica similigravure, si stamparono immagini fotografi­ che in vari giornali, come il , il «Bradford Telegrapll)) , > uno dei giornali più avanzati del momento. Salomon e Man fecero scuola non soltanto in Germania, e il loro schema operati­ vo venne subito imitato anche da fotografi come Alfred Eisenstaedt, autore di un famoso reportage su Mussolini, o Martin Munk:icsi (1 896-1 963), che nel 1927 lavorò per il «Berliner Illustrierte» giungendo dall'Ungheria, come André Kertész e Robert Capa, che, a loro volta, iniziarono proprio in Germania la magistrale carriera di foto­ giornalisti. Kertész è addirittura ritenuto il maestro anche del mitico Henri Cartier-Bresson, e certamente ha ricoperto tutti i "ruoli" della fotografia, sia nell'ambito della sperimen­ tazione linguistica che in quello del reportage. In Italia gli esordi del fotogiornalismo furono più difficili, se si esclude la costante presenza dell'«lllustrazione Italiana», fondata nel 1 873 e dal 1 876 stampata nelle offi­ cine dei fratelli Treves, che assieme a Weintraub, Danesi, Alfieri & Lacroix, Bertieri e Vanzetti, furono tra i primi a impegnarsi nell'industria fotomeccanica; come giornale illustrato popolare, c'era, inoltre, «La Domenica del Corriere», pubblicata a partire dal 1 898, quale supplemento domenicale del «Corriere della Sera». Nel 1 901 questa testa­ ta diede vita anche a un periodico più intellettuale, «La Lettura», dove la fotografia trovò ampi e funzionali spazi. Tra i pionieri italiani, si qualificò presto Luca Comerio (1 878-1 940), attivo fino dal 1 894 e che nel 1 898 ebbe la ventura di riprendere coraggiosamente, ma soprattutto con antesignano talento giornalistico, alcune fasi della tragica repressione del genera­ le Bava Beccaris, durante i moti operai a Milano, immagini in parte pubblicate su «L'Illustrazione Italiana»; in seguito, preferì dedicarsi al cinema, fondando la Comerio Films, una tra le più importanti case di produzione di documentari; come fotografo e cineoperatore, fu anche presente a Messina e Reggio dopo il terremoto del 1 908 e in Libia nel 1 9 1 5. Luigi Barzini (1 874-1 947), con una Panoram Kodak e una piccolajòlding 6 x 9, rea­ lizzò nei primi anni del Novecento inconsueti racconti di viaggio fotografici, durante la permanenza in Oriente, come inviato speciale del «Corriere della Sera», e le sue foto, inevitabilmente ritoccate per accentuare i contrasti chiaroscurali, trovarono spesso spazio su «La Lettura» e in volumi di racconti di viaggio. Adolfo Porry Pastore! (1 888-1959), che organizzò verso il 1 9 1 0 il primo impianto di fotoincisione in un quotidiano italiano, 24 • Così Cartier-Bresson ha cercato di mediare le esigenze dell'istantaneità fotografica, che, con il suo virtuosismo tecnico, ha portato alle estreme conseguenze, con quelle della struttura formale, compositiva (non pittorica, ma specificamente fotografica) dell'immagine. Egli non sembra voler rinunciare alla «forma>> dell'immagine ed è nell'«organiz­ zazione dei segni)) (necessari e su.fficientt) dice, che vengono espressi i significati, ossia è attraverso questa "coordinazione" semantica che si realizza il linguaggio fotogra­ fico. Ma l'idea bressoniana del «momento decisivo)) (da una frase del cardinale de Retz, posta come dedica nella prima pagina di Images à la sauvette: «il n'y a rien en ce monde qui n'ait un moment décisif))) , da cogliersi, quindi, à la sauvette (istantaneamente, o meglio con precipitazione) propone della scena umana, scrive Claude Nori25 in una sua breve storia della fotografia francese, «una successione di istanti benedetti)), che solo pochi privilegiati potrebbero captare a 1 / 1 25 di secondo. Questa idea è stata largamente contestata, nei primi anni Settanta del Novecento dalla scuola "minimalista", cosiddetta del banalisme quotidien, per la quale, oltretutto, qualsiasi momento della vita è importante e merita di essere fotografato. In Italia, tra i protagonisti di questa "contestazione" culturale, Ugo Mulas (1 928-73), autore di un saggio fotografico fondamentale, come le sue suggestive Verifiche sul linguaggio foto­ grafico, espresse tra il 1 971 e il 1 972. Nel frattempo emerge, più timidamente, ma infine in maniera influente, l'impegno avanguardistico in questa direzione "minimalista" e "concettuale" di Guido Guidi, orientato anche dalle esperienze americane degli anni Sessanta e in particolare dal magistrale Walker Evans. Prende corpo, inoltre, il lavoro di protagonisti della nuova avanguardia europea, -

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Minatori, di E ugene W i l l i a m Sm ith, G ra n B retagna, 1 950. Gelatina ai sali d ' argento . Venezia, Collezione Ma rio Trevisa n .

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La mome Bijou, Bar de La Lune, di B rassa'i Gyula Halasz, Parigi, 1 932. Gelatina a i sa l i d'a rgento. Venezia, Col lezione Mario Trevisan.

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non soltanto italiana, di Franco Vaccari e di Luca Patella, alle prese anche con formu­ le di "poesia visiva" e comunque d'impatto filosofico, definito "concettuale", in una tensione che va "oltre la fotografia". I fotografi della Magnum, nel distribuire ai più importanti rotocalchi del momen­ to («Life», «Paris Match», «Epoca») i loro reportage, differenziandosi in parte dalla cosiddetta "fotografia di ricerca", hanno in breve tempo caratterizzato con il loro stile il fotogiornalismo mondiale, del quale sono stati tra i massimi esponenti, sino alla crisi, che ha afflitto questo settore della comunicazione, con lo sviluppo della televisione, verso la metà degli anni Sessanta. Un fotogiornalismo più sciatto e meno intellettuale, ma provocatorio proprio per la sua "volgarità", è stato, invece, quello realizzato da alcuni fotografi soprattutto ita­ liani, a Roma in particolare, dove si pubblicavano alcune tra le prime riviste scandali­ stiche del dopoguerra. Questi fotografi, armati di una modesta macchina e di un potente flash, spesso «ragazzi di borgata» senza mestiere, ma a volte dotati di un innato intuito per lo «scan­ dalo» politico ed etico, spregiudicati e aggressivi quanto serve per eseguire una fotogra­ fia indiscreta, vennero chiamati «paparazzi», dal nome - secondo alcuni - del perso­ naggio di un fotografo nel fùm di Fellini Lz dolce vita; la parola paparazzo assunse ben pre­ sto un significato dispregiativo, sinonimo di «schiacciabottone» o di «scattino». Fotografi improvvisati, alcuni di questi paparazzi, anche detestabili - come scrive la Freund, che di essi suggerisce un'opinione negativa -, sia pure inconsciamente e loro malgrado, hanno invece proposto un'efficace alternativa all'edonismo dei rotocal­ chi di lusso, in cui la realtà appariva perlopiù levigata e sterilizzata, come se si trattas­ se di una scenografia, dove tutto era però esotico e sublime. La fotografia dei paparazzi apri in effetti uno spiraglio nuovo nella giovane foto­ grafia italiana, invischiata nell'ideologia neorealistica, rivelando e comunque penetran­ do nel mondo della borghesia, quindi restituendo l'immagine di un'altra Italia, rispet­ to a quella contadina e operaia, che primeggiava come soggetto nell'impegno dei neo­ realisti. Questi paparazzi - il più noto negli anni Cinquanta, Tazio Secchiaroli, con il suo lavoro aveva appunto ispirato il personaggio di Fellini mentre stava tracciando una caustica, sorprendente immagine della «Roma by night» - hanno comunque avuto, senza pretenderlo, un illustre predecessore in Arthur Fellig, ossia Weegee (1 899-1 969), che negli anni Trenta, con maliziosa ironia, ma con drammatica consapevolezza, esa­ minò la vita notturna di New York, cercando di fissare attraverso di essa lo stereotipo della città americana. La città, come «luogo del delitto», venne filtrata sistematicamen­ te dal flash a lampade di Weegee, in un catalogo di immagini, che sono in gran parte state raccolte nel 1 945 in un volume, The Naked City, dal quale venne in seguito anche ricavato un film di successo a Hollywood. L'opera di Weegee - polacco di origine, era emigrato negli USA nel 1909 e aveva lavorato come operatore-fotografo alle dipendenze della polizia di New York - ha avuto una influenza determinante sulla fotografia americana contemporanea, in segui­ to ispirando in particolare autori dissacranti come Robert Frank o Diane Arbus, che nella ricerca della realtà "quotidiana", a volte sgradevole e grottesca, hanno conferma­ to, negli anni Sessanta, la crisi del fotogiornalismo classico, affidato soprattutto allo spettacolo dell'istantanea e a quello del colore. Ma il grande fotogiornalismo internazionale del dopoguerra non è rappresentato solo dalle images à la sauvette di stile bressoniano. Vanno ricordate specialmente le più meditate e sofferte composizioni di William Eugene Smith (191 8-79), che ha trasmes-

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Cimitero di guerra a Sebastopoli, di James Robertson, Crimea, 1 855. Venezia, Co l l ezione Mario Trevisa n .

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so la sua pietas nelle intense immagini a luce-ambiente di famosi reportage ( Villaggio spagnolo 1 950, o Minimata, sulla tragedia di un'isola del Pacifico inquinata dal mercurio, ecc.), o le spregiudicate grafie di William Klein (1 928). Klein, dopo un'esperienza di sofisticato fotografo di moda per «Loolo>, «Vogue», «Harper's Bazaar», si è impegnato negli anni Cinquanta in una fotografia cosiddetta pop, distruggendo i vecchi pregiudizi sull'obiettività tecnica (tutto a fuoco, niente con­ trasti eccessivi e deformazioni prospettiche) e leggendo in modo nuovo, mediante un drammatico espressionismo, le città, come New York, Roma, Tokyo, Mosca, che sono state i soggetti di alcuni suoi fotolibri. In particolare il fotolibro New York, edito anche in Italia da Feltrinelli nel 1 954, va considerato un'opera fondamentale, nel rinnovamento della fotografia e in particolare del fotogiornalismo, che appare ora ancor più personalizzato e autorevole esteticamen­ te. È un'opera che contrassegna il nuovo corso della fotografia di reportage, orientato anche dal lavoro più "soggettivo" di un Bill Brandt, di un Brassa1 (Gyula Halasz, nato a Brasso in Ungheria nel 1 899, ha raffigurato con un'enfasi quasi letteraria la «Paris de nuit» negli anni Trenta) o di Robert Doisneau (1 912-97), noto per lo schietto umorismo delle sue fotografie dei «parisiens tels qu'ils sont>>, immagini che sono un suggestivo elzeviro visivo al di fuori della competizione e della speculazione giornalistica, secondo la tradizionale vocazione «artistica» di questo mestiere da vqyeurs.

Fotog rafi i n g u e rra In una esaustiva storia del fotogiornalismo, un ampio capitolo dovrebbe essere riservato, come in generale accade, alla fotografia di guerra, non per settorializzare i temi dell'informazione, ma per ribadire come il fotografo sia spontaneamente, profes­ sionalmente attratto da ogni avvenimento drammatico, catastrofico, quindi dinamico, labile e irripetibile. Nel mestiere del fotografo c'è, purtroppo, spazio per questo aspetto della realtà, che ha creato molti operatori addirittura «specializzati» nel soggetto 27 , non ebbe il riconoscimento che gli spettava a livel­ lo mondiale di primo cronista-fotografo di guerra, un primato che, invece, diede fama universale all'inglese Roger Fenton (1 81 9-69), autore del celebre reportage sulla guer­ ra di Crimea nel 1 855. Pare, comunque, che un certo Tannion, fotografo francese accreditato nella guer­ ra di Crimea, al seguito dell'armata d'Oriente, avesse realizzato, già un anno prima, a scopo «spionistico», alcune fotografie di quel conflitto e che Fenton, avvocato e illu­ stre fotoamatore, presente anche alla corte inglese, oltre che tra i fondatori della Royal Photographic Society (aveva studiato, però, a Parigi pittura con Delaroche e fotogra­ fia con Le Gray), fosse stato inviato in Crimea per rimpiazzare il fotografo-militare Nicklin, che, durante il viaggio in mare, era morto per il naufragio della nave Rip Van Winkle, assieme a due assistenti. Altri due fotografi inglesi vennero inviati in Crimea al seguito delle truppe, gli alfie­ ri Brandon e Dawson, addestrati precedentemente a questo genere di rilievo fotogra­ fico, da Aldemar Mayall; Fenton quindi partì per Balaclava, assieme a tre assistenti, su un carro attrezzato anche come laboratorio, con il compito, si ama ricordare, di ese­ guire un reportage sulla situazione delle truppe inglesi in Crimea, senza eccedere, però, in drammaticità, in modo da tranquillizzare l'opinione pubblica inglese, decisa­ mente contraria a quella guerra inutile e cruenta. In Crimea, i fotografi presenti nei vari campi di battaglia erano comunque numerosi, ma le immagini che di questi sono state conservate sono meno note di quelle di Fenton. Eseguite con una migliore tecnica al collodio umido, le fotografie di quest'ultimo formano un organico corpus di alcune centinaia di pezzi (360, secondo Gernsheim, ma parecchie sono disperse tra i collezionisti) . Fenton, per quanto si conosce ed è stato conservato, rappresenta campi di batta­ glia deserti, ripresi dopo l'evento e senza cadaveri, accampamenti con i soldati in posa, ufficiali che bevono il tè, belle vivandiere che servono il rancio, ecc., ma non ritrae mai dei corpi sui campi di battaglia, che sarebbero stati oltretutto dei soggetti "fotogeni­ ci" e adatti alle lunghe pose del collodio. Nel 1 862, dopo la resa della fortezza di Gaeta, alcuni fotografi napoletani, nel documentare l'evento, misero in posa di cadaveri alcuni compiacenti soldati, pur di suggerirne la drammaticità. Ma il paesaggio bellico di Crimea, invece, appariva quindi ripulito, sterilizzato d'o­ gni segno drammatico, a eccezione delle palle di cannone disperse qua e là, in una famosa immagine che raffigura la Valle della morte, riprodotta in seguito a Londra in xilografia sull'«Illustrated London News», con l'aggiunta disegnata di un volo d'uccel­ li, che il fotografo non avrebbe, comunque, potuto tecnicamente fissare. Oltre a Fenton, tra gli altri erano presenti in Crimea il pittore-fotografo e colon­ nello Charles Langlois (produttore a Parigi di uno spettacolo di Panorama), Frédérich von Martens, Léon-Eugène Méhédin (1 828- 1 905), che si specializzò in questo genere di fotografie e nel 1 859 documentò anche la campagna di Lombardia, raccogliendo le immagini in un album, Campagne d'Italie 1859 (dodici di quelle fotografie sono tuttora conservate alla Bibliothèque Nationale di Parigi), e Pap de Szathmari, di Bucarest, che .

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Dopo la ba ttaglia di Kertch, di D i m itri Ba ltermans, 1 94 5 .

Capitolo

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fotografò, dalla parte dei russi, generali e «ttpn> locali, in costume militare. Il reportage di Roger Fenton, che rientrò in patria ammalato di colera nel giugno 1 855, venne continuato da un altro fotografo e incisore inglese, James Robertson (181 3-88), che nel frattempo era stato nominato capo incisore della Zecca di Costantinopoli, e dai suoi cognati, i giovani Antonio e Felice Beato28 , che erano giun­ ti a Sebastopoli dopo una probabile sosta a Malta e a Costantinopoli. Robertson e i Beato formarono da allora un gruppo che operò lungamente assie­ me, in un itinerario di lavoro che, dopo la Crimea, dove fotografarono anche i milita­ ri russi evacuati 1'8 settembre 1 855, li portò in Egitto, Palestina e India, dove apriro­ no un atelier a Calcutta. In quest'ultimo viaggio, Robertson e Felice Beato, dopo l'arrivo in India, furono al seguito di una spedizione inglese inviata a sedare una rivolta a LU.cknow29 che Beato fotografò dopo gli scontri, riprendendo però, come in seguito (nel 1 859 è a Fort Taku in Cina, durante un'altra rivolta contro gli inglesi e i francesi colonizzatori), anche i cadaveri, in scene di grande drammaticità. Qui, per la prima volta, corpi senza vita compaiono in atroci fotografie, abbando­ nati sul campo di battaglia. Al contrario che nelle fotografie commissionate a Fenton in Crimea, queste di Beato dovevano essere una testimonianza della severità della repressione inglese e un monito per ogni ulteriore tentativo di ribellione. Felice Beato, nel 1 862, si recò in Giappone assieme al giornalista inglese Charles Wirgrnan, dove organizzò un grande atelier commerciale, che diffuse soprattutto foto­ grafie di serene vedute di paesaggio e di architetture giapponesi, spesso finemente colorate a mano da abili acquarellisti, raccolte anche in due album che giunsero in Europa a far conoscere l'ambiente e le usanze giapponesi. Ma nel 1 885 Beato è ancora presente come «fotografo di guerra>> - dopo altre avventure che lo videro anche in Corea durante un attacco della flotta americana al seguito delle truppe inglesi, che dall'Egitto scesero verso il Sudan, per controllare quelle colonie. I due Beato, la cui vita è ancora in parte ignota, potrebbero, per quel poco che di loro si conosce, veramente ispirare un romanzo salgariano. In questo excursus su alcuni emergenti "fotografi di guerra", è opportuno citare il francese Eugène Sevaistre, che eseguì vedute stereoscopiche a Palermo, durante l'as­ sedio del 1 860, dove fu presente anche Gustave Le Gray, giuntavi assieme ad Alessandro Dumas, in visita a Garibaldi; nel 1 861 Sevaistre fotografò, inoltre, come Alphonse Bernoud e Giorgio Sommer, fotografo di origine tedesca stabilitosi a Napoli, il forte di Gaeta dopo i bombardamenti che misero fine al regno borbonico, con Francesco II e la regina Sofia in fuga a Roma, in un esauriente e puntuale catalo­ go 30. Tra gli italiani impegnati anche in queste imprese "militari", va ricordato il sacer­ dote Antonio D'Alessandri, che, oltre ad essere «fotografo pontificio» e noto ritratti­ sta, aprì uno studio assieme al fratello a Roma, ed eseguì una serie di fotografie sul campo di Mentana, dopo la battaglia del 1 867; a sua volta, Gioacchino Altobelli foto­ grafò l'esercito pontificio ai Campi d'Annibale nel 1 868. Tutte fotografie «di guerra>>, queste, sebbene non d'azione, e tali d'altronde vanno considerate anche le immagini che compongono la cosiddetta «serie Migliorato» (1 868) con i cadaveri dei briganti meridionali. A fotografarli furono anonimi autori (anche Giorgio Sommer), che a volte hanno

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ricostruito, su sollecitazione dei militari, finte scenette, dove il macabro si mescola al comico, ma prevale, con i morti che dovrebbero sembrare vivi, nelle foto che illustra­ no i momenti che precedono le esecuzioni capitali, invece già sommariamente com­ piute. Immagini che già avevano una funzione "pubblicitaria", per dimostrare i risul­ tati delle imprese militari contro i briganti. La guerra di Secessione americana (1 861 -65) fu a sua volta documentata da un'é­ quipe di fotografi, organizzata da Mathew B. Brady (1 823-96) e da un suo assistente, Alexander Gardner (1 821 -82), di origine scozzese, che aveva prima lavorato negli ate­ lier di Brady come fotografo ritrattista a New York. Tra i fotografi di questo gruppo, che può essere considerato come la prima agen­ zia fotografica della storia, operò anche Timothy O' Sullivan, già ricordato per le sue esplorazioni geografiche. I fotografi di Brady, che all'avvio del conflitto aveva chiuso i suoi floridi atelier per dedicarsi a questa impresa, utilizzarono la tecnica del collodio e si servirono di un laboratorio viaggiante, una carrozza a ruote alte chiamata Buggy, tirata da due cavalli. Nonostante le difficili condizioni operative, questa grande e capillare documenta­ zione della guerra di Secessione risulta eseguita con una esemplare perfezione tecnica, e venne compiuta con il lucido intento di "catalogare" città, campi di battaglia, accam­ pamenti, personaggi: un complesso di oltre settemila lastre, tuttora conservate, dopo l'acquisto, presso lo stesso Brady, da parte del governo americano. In tutti i reportage che abbiamo ricordato, è però assente ogni vivace azione belli­ ca, la guerra è già passata; al fotografo, quando non è interdetto il lavoro, come risul­ ta da alcune norme in vigore soprattutto nell'esercito francese (se trovato sul campo di battaglia, sarebbe stato fucilato subito, come "sciacallo di cadaveri"!) , non rimane­ va che fissare, nelle pose interminabili del collodio, le tracce quasi metafisiche di vicen­ de trascorse. La fotografia ripropone però quelle scene con un «realismo» immune dall'enfasi che comunemente caratterizza, invece, i disegni e i dipinti di battaglie, dove ogni cosa è vista e trascritta secondo il tradizionale mito dell'eroismo. Ogni guerra ha avuto i suoi fotografi, spesso dilettanti sconosciuti, qualche volta gli stessi militari e ufficiali (anche il Re Vittorio Emanuele III si dedicò alla fotografia, visitando il fronte, durante la Grande Guerra del 1 914- 1 9 1 8), ma le loro immagini hanno comunque il valore di annotazioni spontanee e fedeli spesso più di quelle dei «professionisti»; parecchie di queste fotografie sono emerse da archivi e collezioni esa­ minati negli ultimi anni, come il Fondo Gatti, composto di circa 1 .700 immagini della Grande Guerra ora conservate nell'Archivio storico del comune di Asti, che è stato analizzato, filtrato e presentato in una mostra itinerante e in una pubblicazione scien­ tifica sulla fotografia di guerra3 1 , curata da Angelo Schwarz nel 1 980. D'altronde durante la prima guerra mondiale, venne addirittura istituito uno speciale Servizio Fotografico dell'Esercito italiano, con il compito di documentare le varie situazioni. Accanto a questa schiera di soldati-fotografi d'occasione, che usavano perlopiù pic­ cole, modeste macchine, come la West Pocket Kodak 4 x 6,5, tali da attribuire alle immagini un carattere «familiare», quasi si trattasse di foto per l'album di famiglia, ope­ rano al fronte fotografi-specializzati. Questi coraggiosi fotografi e operatori cine-televisivi sembrano a volte dei "mer­ cenari", inviati dai grandi giornali per alimentare i miti bellici, la pietà per i morti (da contemplare standosene a casa in ciabatte) e l'orgoglio per gli eroi, favorendo la morbo­ sità e la curiosità del grande pubblico di lettori.

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«Fa parte dell'infamia - scrive Gilardi - l'aver salvato la faccia dell'icona ottica. L'aver persuaso cioè, come tuttora accade, che la fotografia ha denunciato gli orrori della guerra, e fu un 'arma contro di essa»32; qualunque arma invece, anche quella foto­ grafica, sembra in definitiva in favore della guerra, non fosse altro perché ne utilizza la fotogenia e ci specula sopra. «È un'idea delirante - continua Gilardi - quella del fotoreporter di guerra paladino [.. ] della pace, di un uso civile della macchina fotogra­ fica in mezzo agli orrori di un conflitto». Una retorica che ha avvolto in un'aura di eroismo pacifista molti fotografi di guer­ ra, soprattutto Robert Capa (André Friedman, 1 91 5-54), che come personaggio è in tal senso emblematico di questo capitolo della storia della fotografia. Capa iniziò questo "mestiere" in Spagna nel 1 936, assieme alla sua compagna Gerda Taro, che mori proprio in quei giorni travolta da un carro armato. Le foto di Capa, anche quella famosa (e chiacchierata, perché qualcuno ha parlato di falso, ossia di una mise en pose) del «miliziano colpito a morte>>, finirono sulle pagine dei grandi rotocalchi, «Vu», «Life»; e come nel caso di questa - fosse pure costrui­ ta, spettacolare e virtuosistica - , sostituirono gli esotici paesaggi colorati del tempo di pace, non soltanto per «informare», ma per affermare simbolicamente che la guer­ ra, anche quella, politicamente «è santa», ed è così che santamente si muore. Durante l'ultimo conflitto mondiale, operarono sui vari fronti alcuni tra i più famosi fotografi; non si trattò più soltanto di Luigi Fiorillo (ad Alessandria d'Egitto, con la spedizione italiana del 1 888), o di Giuseppe Baduel (durante la Grande Guerra fotografò anche dall'aereo e ricevette per questo una medaglia), o di Giuseppe Pessina (fu al fronte durante la ritirata di Caporetto, ma era un sensibile fotoamatore e seppe guardare oltre la paura). I grandi giornali, come «Life», inviarono al fronte i più cele­ brati operatori, come Alfred Eisenstaedt, in Abissinia, o l'eccezionale Margareth Bourke-White, sul fronte russo. La Bourke-White fu l'unico reporter occidentale a documentare la guerra da quella parte del fronte, dove operavano a quel tempo il russo Alexander Uzlijan e il russo di origine polacca Dimitri Baltermants (1 9 1 2-1 990), quest'ultimo famoso soprattutto per un epico, accorato reportage del 1 945 sul campo di battaglia di Kertch, durante la ritirata tedesca. Ma le foto di guerra si assomigliano tutte, persino nel loro estetismo, e di certo non sono meno «belle» le immagini del par­ tigiano iugoslavo Jose Petek, che nel 1 943 organizzò un servizio di propaganda sul fronte clandestino sloveno33• L'italiano Mario De Biasi, nel 1 956, ha fotografato per la rivista «Epoca», con una partecipazione generosa, oltre che coraggiosa, la sanguinosa rivolta ungherese di Budapest; le guerre di Corea, di Suez (dove mori David Seymour della Magnum), d'Indocina (qui mori Robert Capa), del Libano, del Ghana, ecc., hanno impegnato per anni le copertine dei settimanali, sia con le immagini struggenti di David Duncan che con quelle, ora spietate ora sentimentali, di Larry Burrow (1 926-71) del «Daily Express» di Londra e di Donald McCullin, oltre che degli italiani Romano Cagnoni, Mario De Biasi, Angelo Cozzi, Mauro Galligani. Ma la crudeltà della fotografia di guerra si è rivelata soprattutto in una immagine di Edward T. Adams, che, senza tremare (è una fotografia nitida come se fosse stata eseguita in un studio di posa), in 1 / 250 di secondo ha fissato il tempo, assai più breve, che è servito al generale sudvietnamita Loan per uccidere a sangue freddo, con la pistola puntata alla tempia del condannato, come in una recita, un povero ragazzo con le mani legate e un'ampia camicia bianca: forse vittima della fotografia, prima ancora che della guerra. .

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La grande quantità di informazioni che ci raggiungono attraverso immagini di guerra, massacri, distruzioni, sangue, sia nei giornali che negli altri media, ha finito con lo sterilizzarne l'effetto di shock, nonostante l'aggiunta del colore abbia in questi ulti­ mi decenni sostituito il bianco-nero, per certi aspetti meno "realistico". La fotografia a stampa e su video sembra un'immagine "lontana", e per giunta non ha né profumo, né odore, e sembra riguardare soprattutto gli altri.

Note 1

«Camera», Lucerna, n. 1 2, dicembre 1 978, p. 1 3. Tra i manuali di Louis-Desiré Blanquart- Évrard, segnaliamo: La photographie surpapier, Paris 1851; La photographie: ses origines, ses progrès, ses transformations, Paris 1 869. 3 I. Zannier, Antonio e Felice Beato. Album egiziano, Editphoto, Milano 1 978; I. Zannier, Antonio e Felice Beato, Ikona Photo Gallery, Venezia 1 983. 4 Félix Bonfll s pubblicò, oltre a un volume sull'Architeclllre Antique (1 872), cinque album intitolati Souvenirs d'Orient, tra il 1 877 e il 1 878: voli. 1 e 2, Egypte et Nubie; vol. 3, Terre Sainte; vol. 4, Syrie et Cote d'Asie; vol. 5, Athènes et Constantinople. Questa panoramica è conservata nell'archivio della Photographic Society di Londra. 6 L. Gioppi (1891), op. cit., p. 1 2. 7 L. Hine, Men al work, The MacMillan Co., New York 1 932. 8 P. Tausk, Historia de la fotografia en el sigiiJ XX, Editoria! G. Gili, Barcelona 1 978, p. 29. 9 R. Martinez, Eugène Atget, in AA.VV., Venezia 79. La Fotografia, Electa, Milano 1 979, p. 43. 1 0 A. C. Quintavalle, Farm Semrity Administration, Catalogo, Università di Parma, Parma 1 975, p. XVIII. Per un'ulteriore informazione sui fotografi della FSA, si segnala: Dorothea Lange, Catalogo n. 15, Istituto di Storia dell'arte dell'Università di Parma (Centro studi e archlvio della comunicazione), Parma 1972. 1 1 lvi, p. XXXII. 1 2 > - come veniva amabilmente chiamato Nadar dagli amici -, ma che era caro quasi quanto una miniatura su avorio «fatta a mano». Disderi, brevettando nel 1 854 l'apparecchio fotografico a quattro lenti (poi a sei, otto, dodici obiettivi) con cui ottenne i fogli di fotografie multiple cartes de visite, intuì il destino della fotografia e determinò, a modo suo, un nuovo corso nella produzio­ ne dell'immagine, con una tecnica che egli rese più facile e, soprattutto, più econo­ mica. Venne imitato da centinaia di concorrenti, che, secondo la leggenda (ma proba­ bilmente furono altri i motivi) finirono col rovinarlo commercialmente, verso il 1 866, quando scemò anche l'entusiasmo per i cartoncini (cartes de visite) , che non erano più una novità, mentre riscuotevano successo gli stereogrammi, con effetto tridimensionale.

Am b roti p i , fe r rot i p i , ste reog ra m m i Contemporaneamente, per merito del collodio e dell'albumina, si erano inventa­ te altre tecniche fotografiche "povere" come quelle degli ambrotipi, amfitipi eferrotipi, melainotipi, ecc., eseguiti perlopiù da modesti fotografi girovaghi. Di piazza in piaz­ za, questi ambulanti viaggiavano con il loro atelier trasportabile, una camera oscura contenuta in un piccolo carretto-limousine, una specie di carriola, grande meno di un metro quadro. Facevano parte dello spettacolo, in sagre e fiere, dove molti accorrevano al loro arrivo, perché era un'occasione per farsi fare il ritratto: un'operazione che, in breve tempo, diverrà un rito quasi obbligatorio per rutti, anche per i contadini, che fino allora non erano stati coinvolti in questa narcisistica moda, ma che ora desiderava­ no anch'essi lasciare memoria di se stessi ai posteri, sopravvivendo perlomeno in immagine. Il termine amphitype è di Talbot, che brevettò il procedimento nel 1 85 1 , dopo che Herschel si era occupato di un'analoga tecnica; ma furono i francesi Le Moyne (1851) e Adolphe Martin (una sua memoria scritta, su questo argomento, risale al 20 luglio 1 852 ed è depositata allo Société d'encouragement di Parigi) a diffonderne l'uso.

La massificazione dellafotografia

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L'amfitipo consiste in una lastra di vetro albuminato, che, dopo l'esposizione, lo sviluppo (con solfato di ferro a 90°), il fissaggio (con cianuro di potassio) , se appli­ cata su un fondo nero, può apparire di conseguenza, per contrasto con lo sfondo più scuro, positiva, specialmente se osservata in una certa inclinazione. Simile in sostanza è il procedimento dell' ambrotipia, individuato da Scott Archer durante le sue ricerche sul collodio, con cui invece viene sensibilizzata la lastrina di vetro, che diviene, dopo l'esposizione e il solito trattamento sviluppo-fissaggio, un comune negativo; ma se questo è applicato sul velluto nero, si ottiene un effetto d'inversione del chiaroscuro e si legge l'immagine in positivo (per aumentare l'effet­ to, il vetro per ambrotipi veniva leggermente sabbiato su un lato). Gli ambrotipi sono di solito protetti in una custodia decorata, come i più presti­ giosi dagherrotipi, con i quali spesso vengono confusi, e con cui sembra siano stati concorrenziali; «l'uso di questi dagherrotipi artificiali - commenta Lécuyer - si diffuse a tal punto Oltreoceano, che gli Americani si persuasero di avere inventato loro questo processo». I ferrotipi furono ancora più popolari, soprattutto perché molto economici; ese­ guiti direttamente su una lastrina di lamiera verniciata di nero e sensibilizzata al col­ lodio, il loro aspetto risulta positivo, in quanto sfrutta il contrasto, sia pure debole, tra l'emulsione di colore giallastro del collodio e il nero della vernice, che fa da sfon­ do. L'immagine nei ferrotipi risulta naturalmente invertita, come in uno specchio, analogamente ai dagherrotipi. Vennero fabbricate camere speciali per ferrotipia, come il telaio negativo «a molti­ plicatore, con lastra di vetro smerigliato da una parte e telaio negativo dall'altra spiega Gioppi - col doppio scopo della minor perdita di tempo tra la messa in fuoco e lo scoprimento dello strato sensibile, e della possibilità di usare lastre metal­ liche di varie dimensioni, secondo il numero dei fototipi da prendere»5 ; nella parte anteriore, quest'apparecchio poteva montare fino a dodici obiettivi, come per la carte de visite, per poter eseguire sulla stessa lastra, che poi veniva tagliata, altrettanti piccoli ferrotipi. La lamiera del supporto è di circa 2 / 10 di millimetro e viene ricoperta con una vernice composta di bitume di Giudea o nerofumo, sciolto in olio di lino oppure in trementina; si sensibilizza la lastra con una emulsione di collodio iodurato, di cui il fotografo Bettini di Livorno, verso la fine dell'Ottocento, propose questa formula: ), che diviene creativa anche mediante una sapiente e sensibile decontestualizzazione della «forma significativa>), espressa attraverso un calibrato, progettato chiaroscuro fotografico, dove la "nitidezza" iperrealista svolge ovvia­ mente un ruolo fondamentale, caratterizzando lo specifico di questo genere d'imma­ gme. La fotografia ha trovato facilmente spazio anche nell'ambito delle avanguardie «storiche)), in cui è stata coinvolta unitariamente con le altre forme espressive, senza settorializzare il suo intervento. Basti ricordare il coinvolgimento anche teorico di L:iszlò Moholy-Nagy nel Bauhaus di Weimar sul finire degli anni Venti e la passio­ nale dimostrazione estetica di alcuni costruttivisti nell'ambito dell'avanguardia russa, in primis Alexander Rodcenko, pittore, scultore, designer, ma altrettanto influente fotografo. Specialmente in quest'ultimo dopoguerra, soprattutto in Europa, nell'esigenza e nell'enfasi della ripresa culturale, alcuni fotografi, caratterizzati da una comune ideo­ logia, si sono costituiti in gruppi, che sono serviti come riferimento per i giovani fotografi, molti dei quali provenivano dal fotoamatorismo. In Italia, d'altronde, fu quello dei circoli amatoriali l'ambiente in cui si sviluppò maggiormente la ricerca sul linguaggio e la sociologia della fotografia, come il grup­ po La Bussola, il circolo La Gondola, il Circolo fotografico milanese, l'Unione foto­ grafica, il Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia, ecc.; all'estero, tra i più importanti, il Club 30 x 40 (Francia) e i più problematici come Fotoform e Subjektive Fotografie (Germania). Alla diffusione della cultura fotografica hanno contribuito, inoltre, le Esposizioni e i Salons, che hanno conferito alla fotografia l'aura dell'«opera d'arte)), stimolando una più diffusa, spesso velleitaria, creatività. In occasione del centoquarantesimo anniversario dell'invenzione, nel 1 979 si sono svolti ovunque i riti della celebrazio-

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ne, in particolare a Venezia, dove, con la collaborazione dell'International Center of Photography di New York, è stata organizzata la più estesa e completa esposizione della fotografia, da quella degli albori a quella contemporanea, finalmente eviden­ ziando il significato storico e culturale di questo mezzo espressivo. Dieci anni dopo, nel 1 9 89, ovunque, nazione per nazione, è stato avviato con rin­ novato impegno lo studio della fotografia, anche ai fini della conservazione degli archivi, la istituzione di scuole e di musei. In Italia è stato fatto rivivere l'antico atelier dei Fratelli Alinari, via via ampliato nella raccolta delle immagini (circa quattro milioni), fino alla recente istituzione di un Museo specifico della fotografia, a Firenze.

E s p os i z i o n i e sa l o n s La prima esposizione pubblica di fotografie (quaranta immagini) fu quella di Hippolyte Bayard a Parigi, il 20 giugno 1 839, in rue des Jeuneurs. Si trattò però di un fatto privato, un'esibizione personale nell'ambito di una mostra per beneficen­ za. Nel 1 849, invece, la fotografia venne ufficialmente presentata all'Esposizione di Parigi e nel 1 85 1 alla Esposizione universale di Londra, al Crystal Palace, dove gli espositori americani, tra cui Brady, con quarantotto fotografie, guadagnarono cinque medaglie, per la perfezione tecnica e la bellezza dei loro dagherrotipi. All'Esposizione universale di Parigi del 1 855, la fotografia fu accolta nella «26" Classe>>, una sezione dedicata a «disegni e plastiche applicate all'Industria»; questa mostra venne organizzata dalla Société française de photographie, che si occupò anche della rassegna del 1 857, allestita a Parigi nell'atelier di Le Gray, in rue de Richelieu, e successivamente di molte altre rassegne annuali, aperte ai maggiori foto­ grafi del mondo. In Italia, la prima esposizione di rilievo nazionale venne organizzata a Firenze nel 1 86 1 , ma in ogni città la fotografia era da tempo mostrata e premiata nelle varie esposizioni «agrarie, industriali, artistiche»; dopo la fondazione della Società foto­ grafica italiana (1 889), si organizzarono con regolarità esposizioni di fotografia, soprattutto a Firenze e a Torino, dove se ne occupò la Società Fotografica Subalpina, a partire dal 1 900. Alcune, tra le innumerevoli manifestazioni fotografiche degli ultimi cent'anni, risultano particolarmente importanti, se si considerano le implicazioni culturali dell'avvenimento e i suoi effetti: si pensi, ad esempio, alla mostra allestita dal Camera Club di Vienna nel 1 89 1 , quando si accese il dibattito tra «nettisti» e «jloui­ s!Ù>, e ad alcuni fotografi inglesi nacque l'idea di costituire un Club autorevole per lo studio rigoroso della fotografia, il Linked Ring Brotherood di Londra (1 8921 908), anche in opposizione alla Royal Photographic Society; oppure si pensi alla rassegna «Film und Foto», organizzata a Stoccarda dal Deutscher Werkbund nel 1 929, dove per la prima volta vennero messe a confronto le esperienze fotogra­ fiche dell'avanguardia europea, sovietica e americana, evidenziando l'esistenza di uno «specifico» fotografico e, quindi, sottolineando l'autonoma capacità «creati­ va» della fotografia. Nel 1 955, un'altra grande mostra itinerante influì sull'evoluzione della cultura fotografica contemporanea: «The Family of Mam>, curata da Edward Steichen per il

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Museum of Modero Art di New York, che propose l'immagine sociale del mondo postbellico, con un realismo spesso di tono populista, stemperato, però, in control­ lati, a volte estetizzanti, schemi e assemblaggi figurativi. Alla Fiera di Colonia, la «Photokina», istituita nel 1 950, ha affiancato alla sezio­ ne merceologica un ampio settore dedicato alla cultura fotografica, curato da Fritz Gruber. In Italia, analogamente, dal 1 969 una «sezione culturale>> è stata organizzata da Lanfranco Colombo, nell'ambito del SICOF (Salone internazionale cine ottica foto) , che è stata lungamente la maggiore esposizione italiana in questo campo. Sono molte, inoltre, le gallerie private che si dedicano esclusivamente alla foto­ grafia, coinvolta da alcuni anni nei meccanismi del mercato e del collezionismo d'ar­ te, dopo la lontana esperienza di Stieglitz con la galleria «291», aperta nella Fifty Avenue di New York nel 1 905, anche come luogo di dibattito dei problemi della cul­ tura visiva. La prima galleria europea dedicata esclusivamente alla fotografia è stata Il Diaframma, fondata a Milano da Lanfranco Colombo nel 1 967. I grandi musei americani - dal MOMA al Guggenheim al Metropolitan di New York - hanno istituito specifici dipartimenti per la fotografia, producendo rassegne e custodendo collezioni fondamentali per la conoscenza della storia di questa arte; tra gli archivi più importanti, quello del Getty Museum di Los Angeles e di Mark Getty a Londra. In Europa la fotografia ha trovato eguale considerazione, specialmente in Francia, Gran Bretagna e Germania, con istituzioni museali o dedicate al restauro. In Italia, oltre al Gabinetto fotografico nazionale di Roma, a lungo diretto con appassionata competenza da Marina Miraglia, va riconosciuta alla gestione degli Archivi Alinari da parte di Claudio de Polo (dal 1 985) una particolare animazione nel settore espositivo ed editoriale, con nuovi stimoli per la tutela e la conservazione della fotografia, oltre all'apertura di un Museo N azionale a Firenze, nel 2006.

R i v i ste s p ec i a l i zzate Nel 1 890 si pubblicavano in tutto il mondo 76 riviste specializzate, secondo un attendibile censimento del Gioppi. Ma il primo giornale fotografico, nel frattempo scomparso, è stato l'inglese «The Daguerrian Journal» (1850), che nel 1853 cambiò il nome in «Journal of the Daguerreotype and photographic art». Tra le più importanti riviste di fotografia, seguirono nel tempo «La Lumière», del 1 85 1 , che nacque come periodico della Société héliographique, quello della Photographic Society di Londra (1 853) e il «Photographic Journal» di Liverpool, dello stesso anno. In Germania si pubblicò a Berlino nel 1 854 il «Das photographische journal»; in India, a Bombay dal 1 860, il «Journal of the photography of Bombay>>; in Italia, a Milano, Ottavio Baratti fondò, il 5 aprile 1 863 «La Camera Oscura», che dal 1 882 fu diretta da Luigi Borlinetto; in Francia, nel 1 863, Léon Vidal pubblicava «Le Moniteur de la Photographie», e Nadar nel 1 89 1 dirigeva «Paris Photographe». Negli Stati Uniti, Alfred Stieglitz fondò nel 1 897, sulle spoglie di > con­ centrata da una lente).

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«Nulla di più interessante per un pubblico composto di bimbi, ossia di piccoli uomini - scriveva Gioppi 5 -, nulla che attragga di più la loro attenzione o colpi­ sca l'immaginazione quanto questi spettacoli!». Le pitture su vetro e le decalcomanie ebbero, infatti, grande diffusione nell'Ottocento, anche per scopi didattici, e inoltre le fotografie, con il procedimento all'albumina su vetro, vennero subito utilizzate al posto dei disegni, perché, «oltre a rappresentare l'assoluta verità, erano di grandissimo aiuto alla divulgazione della scienza»6• Vari sistemi di ricostruzione del movimento mediante la proiezione, oltre alla consueta lanterna magica, vennero studiati contemporaneamente alle prove di Plateau; vi si applicò Faraday, con la sua ruota, e William G. Horner (1 786-1 837), con lo zoetrope, chiamato in seguito anche ruota della vita, che ebbe grande successo, gra­ zie ad alcuni perfezionamenti, dopo il 1 867. Una variante dello zoetrope fu il praxinoscope, progettato nel 1 877 da Emile Reynaud (1 844- 1 9 1 8) e presentato alla Société française de photographie il 4 giugno 1 880. Ma a quell'epoca anche i fotografi si erano inseriti con successo in questa ricerca sulle immagini in movimento, essendo ormai possibile affidarsi a quell'istantaneità tanto desiderata e indispensabile per queste prove. Pare che Ducos du Hauron sia stato il primo a realizzare un apparecchio di ripre­ sa, «destinato a riprodurre fotograficamente una scena qualunque con tutte le tra­ sformazioni subite durante un tempo determinatm>7 ; non si conosce altro di questo strumento, che fu, però, brevettato il 1 ° marzo 1 864. Con più sicurezza, si può far riferimento, invece, alle esperienze dell'astronomo Pierre-] ules-César J anssen (1 824-1 907), che con un fucile fotografico (o revolver astrono­ mico, come allora venne chiamato), riprese da un osservatorio in Giappone, 1'8 dicembre 1 874, il passaggio del pianeta Venere dinanzi al Sole, scattando un'imma­ gine ogni settanta secondi su un disco rotante foto-sensibile. L'astronomo ottenne in questo modo diciassette silhouettes di Venere, in un'operazione che può essere con­ siderata la prima ripresa cronofotografica. A quel tempo, anche il fotografo Eadweard James Muybridge (1 830-1 904), di ori­ gine inglese, faceva ricerche in questo settore, sovvenzionato da un ricco, estroso americano, Leland Stanford, allevatore e proprietario di cavalli, oltre che ex-gover­ natore della California. Il fotografo era stato sollecitato a interessarsi a questo setto­ re soprattutto da una teoria del movimento deambulatorio di un cavallo in corsa, illu­ strata in un volume del fisiologo francese Jules- É tienne Marey, del 1873. Muybridge, autore anche di alcuni documentari fotografici nell'America centrale, avvierà alcune esperienze per dimostrare fotograficamente la verità o meno delle teorie di Marey, ottenendo nel 1 877 le prime sequenze di un cavallo al trotto, utiliz­ zando un suo metodo, l'automatic electro-photograph, che si rivelò efficace; alcune di queste immagini cronofotografiche vennero pubblicate nello «Scientific Americam> del 1 9 ottobre 1 878, ricorrendo, però, a una trascrizione xilografica. «Se le prime cronofotografie di Occident [Occident era il nome di uno dei caval­ li fotografati da Muybridge - N.d.A.] sono del 1 872 - scrive Gilardi [ma risalgo­ no all'anno successivo, N.d.A.] - è nel luglio 1 877 che si comincia a registrare meto­ dicamente il purosangue non in prese singole, o nell'accoppiata stereoscopica, ma nelle serie poi stampate nelle tavole, con un impianto appositamente studiato e fatto costruire da Muybridge a Palo Alto, una grande fattoria di Stanford»8 •

Istantanea, movimento, colore, simultaneità

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Il fucile fotografico, di J u les-Étienne Ma rey, 1 882.

L'impianto consisteva in una batteria di dodici macchine fotografiche, i cui ottu­ ratori erano collegati mediante cavetti metallici, che attraversavano la pista e veniva­ no strappati dal cavallo durante il trotto. Tra un apparecchio e l'altro c'era un intervallo di 58 centimetri9 e la ripresa avve­ niva su lastre al collodio umido, con una velocità molto alta, pare di 1 /1 .000 di secondo, essendo sufficiente fissare soltanto la silhouette nera del cavallo, che appare stagliata sullo sfondo bianchissimo della pista. I fili metallici tesi sulla pista «comandavano delle elettro-calamite - spiega Gastine nel suo manuale del 1 897 10 - che tenevano chiusi gli otturatori degli appa­ recchi, in modo che percorrendo questa pista a una qualsiasi andatura, l'animale rom­ peva successivamente i fili tesi e determinava lui stesso, automaticamente, l'apertura istantanea degli obiettivi».

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Istantanea, I!Jot•ilmn!o, colore, silmdtaneità

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U n a cronofotografia di Eadweard Muybri dge, 1 878 c i rca.

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Nel 1 881 Muybridge pubblicò The Attitudes of Animals in Motion (S. Francisco), con 200 fotografie, e, sei anni dopo, la celebre raccolta di 781 tavole stampate in fototipia, Animals Locomotion. An Electro-Photographic Investigation of Consecutives Phases of Animai Movenients [ ..] (Philadelphia 1 887), dalla quale sono state ricavate varie edi­ zioni antologiche, più economiche, a partire dal 1 899, ed alcuni reprints1 1 • Nel 1 901 venne, tra l'altro, stampato The Human Figure in Motion (London), dove sono analizzati fotocronograficamente - fu il Marey a proporre il termine photoch­ ronographie, che, però non venne accettato al Congresso fotografico di Parigi del 1 889 - i più vari comportamenti dell'uomo, nell'attività sportiva, come in quella più banalmente quotidiana. Le sequenze di Muybridge, che nel frattempo aveva convinto Marey a servirsi della fotografia per le sue ricerche scientifiche, destarono molto interesse, oltre che in quello scientifico, nell'ambiente dei pittori, specialmente di chi, come Meissonnier, si applicava a grandi composizioni equestri; nella casa parigina di que­ sto pittore, il 26 novembre 1 88 1 , Muybridge proiettò con lo zoopraxinoscopio alcune cronofotografie di cavalli in corsa, mettendo in crisi l'artista, il quale, nel confronto, riscontrò nei suoi dipinti alcuni errori di posizione degli arti dei cavalli, che le imma­ gini fotografiche incontestabilmente rivelavano diverse. Queste serate, che ebbero luogo, in seguito, anche a casa del fisiologo e cronofo­ tografo Jules- É tienne Marey (1 830- 1 904), alla presenza di fotografi, scienziati e arti­ sti, illustrarono in pubblico, per la prima volta con efficacia, la fotografia del movi­ mento, in una proiezione che era già «cinematografo», per merito del praxinoscopio perfezionato, usato in quell'occasione. Le esperienze di Muybridge furono, comunque, fondamentali per gli studi sulla rappresentazione visiva della realtà dinamica, risolti pochi anni dopo da Edison e soprattutto dai fratelli Lumière, con il cinématographe. Le ricerche cronofotografiche si svilupparono specialmente dopo l'adozione delle lastre alla gelatina-bromuro d'argento, più pratiche e sensibili, e trovarono impiego in settori di studio relativamente nuovi, come l'analisi del volo degli uccelli, che questa tecnica rese possibile oltre ogni empirismo e fantasia. Ma il passaggio fondamentale successivo fu l'adozione della pellicola in rullo, come quella r;>roposta da Eastman della Kodak, sul supporto di celluloide. Fu Jules-Etienne Marey a occuparsi con impegno di questi studi, dopo essere venuto a conoscenza delle prove di Muybridge, ed avere affrontato il problema, dal punto di vista teorico, in un dibattito sulla locomozione. Nel 1 882, Marey progettò un fucile fotografico che ricorda il revolver astronomi­ co di Janssen: uno strumento in cui «la canna del fucile, molto grossa, serve da miri­ no e contiene l'obiettivo», mentre, «al posto della batteria, una camera oscura cilin­ drica a meccanismo automatico contiene una lastra sensibile rotonda oppure ottago­ nale, che gira su se stessa, e un otturatore rotante comandato da un movimento ad orologeria» 1 2. Le prime immagini, dodici in sequenza, eseguite con questo «fucile», furono scat­ tate nel tempo di 1 / 720 di secondo, non molto elevato per gli studi che Marey si riprometteva. Marey, comunque, scrive il Potonniée, al contrario di Muybridge e di altri ricerca­ tori, «che erano partiti da esperienze fotografiche, pretendendo di farne un mezzo perfetto di analisi, parte invece da un metodo originale d'analisi, impiegando la foto­ grafia soltanto in quanto è un comodo ausilim> 1 3 ; Marey, infatti, non era fotografo, .

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ma fisiologo, e aveva iniziato i suoi studi sul movimento indipendentemente dalla fotografia, ch'egli però trovò poi utile, applicandola sistematicamente nelle sue ricer­ che, che contribuirono anche alla progettazione aeronautica, essendo il volo degli uccelli, nelle fotografie di Marey, finalmente analizzato con precisione in tutte le sue fasi. Per un certo periodo, Marey risiedette anche in Italia, a Napoli, dove, nel 1 889, realizzò alcune sequenze cronofotografiche sugli uccelli, usando per la prima volta lastre flessibili (tipo Balagny14) e adeguandosi così all'uso di materiali elastici, sostitui­ ti in seguito dalla celluloide. Nel 1 883, con un contributo governativo, Marey costruì a Parigi, nel parco dei Principi, una «stazione fisiologica», per compiere studi, oltre che sulla locomozione animale, anche su quella umana. Questa «stazione» consisteva anche di due hangar, costruiti perpendicolarmente tra di loro, in modo che le aperrure facessero da s fondo buio all'animale o alla per­ sona che vi si trovava di fronte all'aperto, facendo risaltare la silhouette chiara contro il nero. Tra i due hangar c'erano una pista circolare e varie altre apparecchiature, di volta in volta predisposte per gli esperimenti. In Francia la cronofotografia venne praticata anche da Albert Londe, capo del Service Photographique dell'ospedale della Salpetrière 15 , il quale progettò un cronofo­ tografo, presentato nel 1 892 alla Société française de photographie e composto di 1 2 obiettivi applicati su un'unica camera a 1 2 compartimenti, sostanzialmente basato sugli stessi principi degli strumenti progettati da Muybridge. Oltre al lavoro di Londe, va ricordato il contributo di George Demeny, allievo di Marey, che nel 1 892 presentò all'Exposition internationale de photographie di Parigi un suo apparecchio, il photophone, derivato dalle esperienze effetruate con il maestro. Proiettò in quell'occasione una serie fotocronografica di 24 ritratti d'un uomo che pronunciava una frase, e la precisione fu tale da consentire a dei sordomuti di com­ prenderne il significato. Non solo il problema della cronofotografia, ma anche quello della sua proiezio­ ne, al fine di riprodurre una «sensazione di movimentm>, ricostruendo la realtà che era stata all'origine delle singole immagini di queste sequenze, vennero affrontati, inoltre, dal tedesco Ottomar Anschiitz (1 846-1 907) . Questi eseguì riprese analoghe a quelle di Muybridge tra il 1 881 e il 1 883 e riuscì a proiettare una serie di 24 fotografie con un tachiscopio elettrico, facendo coincidere, al passaggio di ogni diapositiva, il brillio di una scintilla elettrica. Proiettando le immagini in sequenza, otteneva così l'illusione del movimento, pro­ ponendo una riproduzione ancor più fedele del mondo reale, che appariva dinamico e non solo in uno statico chiaroscuro, come la fotografia sino ad allora aveva illustra­ to. Di questo apparecchio Anschiitz costruì, in seguito all'intervento della Siemens, 78 esemplari, uno dei quali venne esposto a Chicago, con grande successo, nel 1 893, quando Edison, però, aveva già inventato il kinetographe (1891) e il kinetoscope (1 893). In questa rassegna di protoinventori del cinematografo, vanno segnalate anche le ricerche di Max Skladanowsky, che perfezionò lo strumento di Anschiitz, proiettan­ do 48 anziché 24 fotogrammi, e usando due proiettori simultaneamente. Il pittore americano Thomas Eakins (1 844- 1 9 1 6), sin dal 1 879 in contatto con Muybridge, oltre a utilizzare la cronofotografia nella didattica dei suoi corsi alla Pennsylvania Academy School, realizzò le prime strobofotografie (1884), analizzando il movimento,

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anziché in una sequenza, con un'unica lastra, che registra, uno dopo l'altro, gli spo­ stamenti successivi di un oggetto dinamico. La tecnica di Eakins consisteva nel far ruotare dinanzi all'obiettivo in posa un disco con quattro fori, che formavano una specie di croce di Malta, e lasciavano che la luce pervenisse alla pellicola soltanto quando erano in coincidenza con la lente, «cieca», invece, nelle altre quattro fasi. A seconda della velocità di rotazione del disco, si otteneva un'immagine stroboscopica, con un numero maggiore o minore di «istantanee» dell'oggetto fotografato durante il suo spostamento. La ripresa era eseguita in condizioni di luce particolari, contro uno sfondo nero, affinché il soggetto illuminato potesse stagliarsi chiaramente. Questa tecnica, indipendentemente dalla cronofotografia che, poi, portò al cine­ ma, venne in seguito perfezionata, usando l'illuminazione elettronica, con la quale era possibile ottenere frequenze assai elevate e precise, come nelle spettacolari esplo­ razioni compiute da Harold Edgerton e da Kenneth Germeshausen, fin dal 1930, al Massachusetts Institute of Technology.

La celluloide e il cinematografo Nel frattempo, durante le ricerche sulla fotografia del movimento, si considerò l'op­ portunità di utilizzare, come supporto dell'emulsione fotosensibile, materiali diversi dal vetro; tra i primi ad affrontare e risolvere questo problema furono W Priese e M. Evans, che nel 1890 registrarono una scena in movimento, mediante una sequenza di istanta­ nee impresse su pellicola fotosensibile con il supporto di celluloide. Prima di questo materiale - «specie di avorio artificiale a base di cellulosa, sco­ perto nel 1869 dall'americano Hyatt, che si ottiene spruzzando una carta di tessitu­ ra fina (p. es. da spagnolette) con un liquido contenente il 5% di acido solforico e il 2% di acido azotico che la riduce a pasta molle, la quale, lavata con molta acqua e mescolata con canfora viene compressa nelle forme adatte o ridotta in lamine sotti­ li»16si erano utilizzate diverse sostanze, anche fogli di collodio o di gelatina, che, però, erano estremamente fragili. Le lastre flessibili Balagny, ad esempio, consistevano in fogli di gelatina, resa impermeabile con soluzioni trasparenti di guttaperca e caucciù e ricoperta da uno strato di collodio fotosensibile. Sin dal 1887 si erano fatti esperimenti con la celluloide, reinventata e perfeziona­ ta, per l'applicazione in fotografia, da Hannibal Goodwin, partendo dall'invenzione di Alexander Parkes (1861) e di Hyatt (1869); George Eastman, fondatore della ditta Eastman & Reichenbach, rilevando il brevetto, ne aveva generalizzato l'uso, sosti­ ruendo con la celluloide, nel 1889, il supporto di carta delle prime pellicole. Nel 1891, a Parigi, Vietar Panchon (1863-1935) era in grado di fabbricare pelli­ cole fotosensibili con il supporto di celluloide, e fu questo fabbricante a rifornire i fratelli Lumière nel 1895, costituendo la Société des pellicules françaises, che pene­ trò subito nel mercato europeo. La pellicola di celluloide consentì l'invenzione del cinema; l'elasticità e la resisten­ za del materiale permisero a Edison di eseguire con il kinetographe - che, combina­ to con il fonografo, rappresentò anche uno dei primi tentativi di cinema sonoro - una serie di istantanee, con una celerità di 46 pose al secondo, sopra un rotolo continuo di pellicola sensibile, della larghezza di tre centimetri.

Istantanea, movimento, colore, simultaneità

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A Parigi, i fratelli Lumière, Auguste (1862-1954) e Louis (1864-1948), figli di Antoine (1840-1911), che gestivano una piccola industria di materiali per fotografia, con la collaborazione dell'ingegnere Jules Carpentier, misero a punto un procedi­ mento che trovò subito pratica applicazione e al quale diedero il nome di cinématogra­ phe; ottennero i primi risultati validi nel 1894, ma brevettarono l'invenzione soltanto il 13 febbraio 1895. La prima proiezione pubblica, però riservata, avvenne alla Société Physique di Parigi il 22 marzo dello stesso anno, con il film La sortie des usines Lumière, mentre una proiezione a pagamento ebbe luogo al Grand Café, in boulevard cles Capucines 14, il 28 dicembre, avviando così l'industria del cinema, che propose un nuovo suggesti­ vo spettacolo, ma, soprattutto, un efficace strumento di comunicazione di massa. I primi film dei Lumière, che si proiettavano con la velocità di 15 fotogrammi al secondo, hanno una lunghezza da 15 a 18 metri, per complessive 900 immagini, di mm. 25 x 20, impresse su pellicola della larghezza di 35 mm.; un formato, questo, che verrà conservato e utilizzato anche in fotografia, come nella Leica, progettata da Oskar Barnack, proprio prendendo in considerazione questa pellicola, che oltretut­ to era molto economica. Il cinema, al suo esordio sembrò essere un perfezionamento della fotografia, da cui discende nella logica dell'evoluzione di questa tecnica; un altro linguaggio, con una diversa complessità, anche se con un'identica semplicità e immediatezza comu­ nicativa - utilizzando il funzionale "materiale" fotografico, di eccezionale realismo - stava sviluppandosi contemporaneamente alla sua tecnologia. Nei decenni successivi avrebbe raggiunto quella fedeltà riproduttiva che era stata alla base dell'idea antica della fotografia e che il cinema e la televisione O'olografia, più recentemente, e in seguito la televisione e internet) hanno perfezionato in un ine­ vitabile divenire della tecnica audiovisiva. Mentre il cinema decollava con grande successo popolare, sul finire del secolo XIX, dimostrando che il problema della istantaneità, nonostante i dubbi e le preoc­ cupazioni dei protofotografi, era stato felicemente risolto, anche l'altra carenza della fotografia stava per essere eliminata, ossia l'impossibilità di fissare in immagine il colore naturale. A metterla in dubbio era stato anche Gay-Lussac nella sua relazione alla Camera dei deputati di Parigi il 30 luglio 1839, ma sulla soluzione del problema, invece, era stato buon profeta Arago, durante il discorso del 19 agosto.

La riproduzione del colore Già Niépce, tra le «applicazioni dei processi eliografici)),l7 aveva segnalato come su una lastra eliografica, osservata secondo un certo angolo, «avvi di sorprendente, che sembra ch'essa affetti i colori locali di certi oggetti>>, riportando il fenomeno «alla teoria di Newton degli anelli colorati [ ...] Interessante quanto basta per pro­ vocare nuove indagini e dar motivo ad un più profondo esame», concluse Niépce, dopo aver, però, azzardato questa soluzione: «Basterebbe supporre che un dato rag­ gio prismatico, per esempio il raggio verde, agendo sulla sostanza della vernice e con essa combinandosi, le dia il grado di solubilità necessaria perché lo strato che ne risulta dopo la doppia esposizione del dissolvente e della lavatura rifletta il color verde». Tra gli inventori della fotografia, anche Talbot aveva compiuto ricerche per regi-

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strare i colori, come, d'altronde, Herschel nel 1 839, osservando le variazioni cro­ matiche della carta fotosensibile, in rapporto al colore della luce cui viene esposta. Herschel, che aveva riscontrato come il giallo non producesse alcun effetto, nel 1 841 , invece, ottenne sperimentalmente la registrazione dei colori dello spettro su un foglio di carta sensibilizzata al cloruro d'argento; ma le variazioni di colore su questa sostanza erano già state constatate da Jean Senebier (1742-1 809) nel 1 772 e da Thomas Seebeck (1 770-1 831) nel 1 8 1 O all'università di Jena, come ricorda Goethe nella Teoria dei colori. Daguerre, invece, aveva tentato di ottenere «fosforescenze colorate» con la came­ ra oscura, utilizzando delle polveri colorate, ma senza utili risultati; Arago si era, però, preoccupato egualmente di ricordare anche queste prove all'Accademia delle scienze di Parigi, in una descrizione che è interessante riportare: «Daguerre - spie­ gò Arago - aveva scoperto una polvere, la quale emetteva un bagliore rossastro dopo di essere stata esposta alla luce rossa; un'altra a cui la turchina comunicava una fosforescenza dello stesso colore; una terza che, nelle circostanze medesime, riflet­ teva il verde per l'azione della luce verde; mescolando meccanicamente queste pol­ veri egli otteneva un composto unico che diveniva rosso per la luce rossa, verde e turchino per la luce di questi colori» 1 8 . «Forse agendo in tal guisa, - aggiungeva Arago -, si arriverà a produrre una vernice in cui ciascuna luce imprimerà, non più fosforicamente, ma josjogenicamente i colori». La teoria della tricromia era, d'altronde, nota da tempo e già nel 1 730 il miniatu­ rista Jean-Christopher Le Blond (1 670-1741), rifacendosi a Newton, scriveva in Il colorito che «la pittura può rappresentare tutti gli oggetti visibili con tre colori: giallo, rosso, bleu, il cui miscuglio produce il nero» 1 9 . In Italia, il primo a occuparsi del colore in fotografia, fu Francesco Zantedeschi (1 797 -1 873), professore all'università di Padova, che nel 1 845 riferiva, negli «Annali delle Scienze del Lombardo-Veneto», di aver ottenuto >, era, però, così seducente che più d'un fotografo cercò di far cre­ dere di possedere il segreto di questa tecnica. Un certo S. L. Hill, ecclesiastico di New York, nel gennaio 1 8 5 1 , annunciò sul «Photographic Art Journal» di aver trovato un modo per fotografare i colori («un gentleman onorevolmente conosciuto nella città, ed il cui nome si citava, le aveva avute in mano dette prove, e si chiamava garante della scoperta»21 ) . Ma di questi hillorypes il suo inventore non rivelò il segreto, limitandosi a pubbli­ care un opuscolo che andò a ruba, e addirittura sembrò che la mistificazione fosse rivolta a questo commercio; non ci sono prove in tal senso e se allora non ci fu una svolta nella fotografia, su questa vicenda tuttora rimane il mistero, nonostante le prove scientifiche fatte su alcune lastre di Hill ancora conservate. Certamente più concreti furono, invece, i tentativi di Edmond Becquerel (1 82091), uno tra i più importanti studiosi francesi, avviati nel 1 848, quando riuscì a foto­ grafare al dagherrotipo lo spettro solare, in un'immagine che, purtroppo, una volta esposta alla luce, scomparve, lasciando soltanto «il ricordo dello spettro», come si ironizzò. Anche le successive prove di Becquerel, ottenute per contatto su lastre di rame, utilizzando una soluzione di solfato di rame e cloruro di sodio, non risultarono per­ manenti, se esposte nuovamente alla luce; si ripeteva l'inconveniente, che tanto aveva ritardato l'avvento della fotografia, ossia l'impossibilità di fissare permanentemente l'immagine così ottenuta. N el 1 852, Niépce de Saint-Victor fece esperienze anche di fotografia a colori, con risultati, però, analoghi a quelli di Becquerel; rimane, comunque, la testimonianza di Ernest Lacan (1 829-79), direttore de «La Lumière», che ricordò di avere assistito alla ripresa fotografica a colori di una bambola vestita con stoffe colorate, quando Niépce de Saint-Victor, nel 1 863, aveva esposto alcune prove al Salon cles refusés di Parigi. Lo scienziato inglese James Clerk Maxwell (1831 -79) aggirò, invece, l'ostacolo, riuscendo a ottenere nel 1 861 un'immagine a colori naturali, senza, però, ricorrere a pigmenti o a formule chimiche, ma soltanto applicando le teorie sulla natura dei colori, che si rifacevano a quelle di Young sui tre colori fondamentali. La più antica fotografia a colori esistente, opera di Maxwell, conservata allo Science Museum di Londra, riproduce una coccarda colorata, la cui immagine è, però, visibile soltanto tramite la proiezione di tre diapositive in bianco-nero, con appropriati filtri colorati, gli stessi utilizzati per le tre riprese in bianco-nero. Questo il resoconto che Maxwell ne dà il 1 7 maggio 1 86 1 , pubblicato in Proceeding oj the Rqyal Institution (Londra 1 861 ) : «Tre fotografie di un nastro colorato, rispettiva­ mente ripreso attraverso tre soluzioni colorate (in rosso, in verde, in bleu), sono introdotte nell'apparecchio; esse forniscono immagini rappresentanti separatamente gli elementi rossi, verdi e bleu, come sarebbero stati visti da ognuna delle tre serie di fibre nervose di Young prese a parte. A sovrapposizione compiuta, si vede una immagine colorata, al punto che, se anche le immagini rossa e verde fossero state fotografate con la stessa precisione di quella bleu, si sarebbe avuta l'immagine colorata esattamente come il nastro.

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Se si trovassero sostanze fotografiche più sensibili ai raggi che meno si rifrango­ no, la riproduzione dei colori degli oggetti, potrebbe essere notevolmente migliora­ ta». Soltanto nel 1 873 venne perfezionata la sensibilità ai colori nelle emulsioni in bianco-nero, sino allora insensibili al rosso e affini, e invece ipersensibili al blu, per merito di Hermann Vogel, che aggiunse sperimentalmente dei coloranti nell'emul­ sione, i cosiddetti copulanti cromogeni, rendendo le lastre ortocromatiche. Con queste, Maxwell avrebbe probabilmente ottenuto un migliore risultato. Nel luglio 1 862 Louis Ducos du Hauron (1 837-1 920) inviò all'amico Lelut una memoria dal titolo Solution physique du problème de la reproduction des couleurs par la photo­ graphie, che venne presentata all'Accademia delle scienze di Parigi, ma soltanto nel 1 868, il 25 novembre, ne ottenne il brevetto (> dell'immagine. Nel 1 926 vi si recò anche Strand, che riprese ritratti in primo piano di peones, ma anche architetture locali e nodose radici d'alberi. Vi ritornò nel 1 930-1 932 e fotografò paesaggi con nuvole, mattoni, città morte; nel 1 935 girò, invece, completamente in esterni e con attori che erano autentici pescatori, Redes (I ribelli di Alvarado) , un documentario influenzato da Eisenstein, anch'egli in Messico, con l'operatore Tissé e con Dovcenko, tra il 1 931 e il 1 932, per girare i Que Viva Mexico! Tina Modotti, «rivoluzionaria e artista» - com'è stata definita, in una tardiva, ma infine gratificante scoperta della sua fugace, ma penetrante opera di fotografa5 - si soffermò, a sua volta, sugli aspetti sociali del Messico, pur utilizzando spesso l'aristocratico segno fotografico suggeritole dal magistrale Weston; questi, invece, appariva teso a una fotografia più edonistica, nell'ansia di scoprire nella natura i segni che il suo eros gli indicava, in una duna di sabbia, un ortaggio, una conchiglia, che formano un incomparabile panorama di forme metaforiche antropomorfiche. Nel 1 932 Weston, assieme a Ansel Easton Adams, Imogen Cunningham, Willard Van Dyke, John Paul Edwards, Preston Holder, Dorothea Lange, Alma Lavenson, Sonya Noskowiak, Peter Stackpole, Henry Swift, e il figlio Brett, diede vita al Group f. 64, esprimendone già nella sigla il programma: ossia una fotografia «nitida» al limi­ te delle possibilità di lettura dell'obiettivo, diaframmato quindi nel valore estremo, f: 64, nelle ottiche degli apparecchi di grande formato, usati da questi fotografi. Weston, per ottenere la massima nitidezza fotografica dei particolari, adoperò preferibilmente lastre pancromatiche (che hanno un'ampia capacità di registrare nei toni del bianco-nero, tutti i colori dello spettro, compreso il rosso), di bassa sensi­ bilità (1 6 ASA) e di grande formato 8 x 1 O pollici (20 x 25 cm) . La sua Graflex era dotata di ottiche anastigmatiche (ossia corrette contro l'aber­ razione astigmatica) , quali il «Verito-Wollensak» o il «Graf-Variable», con i quali, potendo distanziare tra di loro le lenti che compongono l'ottica, era in grado di variare funzionalmente la nitidezza delle varie parti dell'immagine. La stampa avveniva, quasi sempre, a contatto, in modo da non ridurre, con l'in­ grandimento, la nitidezza dell'emulsione. Nulla veniva trascurato, pur di ottenere la massima qualità delle immagini, che hanno il fascino del trompe l'oeil e appaiono addirittura iperrealistiche, rivelando un universo sconosciuto, talmente penetrante è la lettura fotografica, capace, come si sa, di vedere oltre la percezione dell'occhio umano. Anche in Europa la ricerca di molti fotografi si estese in questa direzione. Il pit­ torialismo, intanto, concludeva lentamente il suo periodo euforico, isolandosi nei

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cenacoli fotoamatoriali, mentre il giornalismo fotografico diffondeva una vivace, inedita immagine del mondo, per una informazione visiva più spontanea e fedele alla nuova ideologia della realtà, nel clima di ripresa economica o culturale negli anni successivi alla Grande Guerra, ma anche della crisi incipiente che avrebbe condotto al fascismo. Die Welt ist schiin (Il mondo è bello) 6 è il titolo di un fotolibro di Albert Renger­ Patzsch (1 897 -1 966), pubblicato nel 1 928, in cui le immagini sono una sfida alla «documentarietà» della tecnica fotografica e ribadiscono concetti presenti nell'ope­ ra coeva dei fotografi «puri» americani. Alberi, animali, paesaggi, architetture sono esplorati da Renger-Patzsch con lo scopo di individuare forme e strutture grafiche inconsuete, che solo la ripresa fotografica ravvicinata è in grado di evidenziare e riproporre, indipendentemente e oltre scopi descrittivi e informativi scientifici, ma come pura speculazione e suggestione estetica. «La concezione della "bellezza della tecnica" non è più nuova - scriveva allora Carl Georg Heise nella Prefazione del libro - ma le immagini di Renger-Patzsch vanno molto al di là; esse non rappresentano semplicemente la bellezza formale d'un oggetto. Un gruppo di isolatori che brillano dinanzi a un cielo infinito, è come un simbolo della loro funzione». L'esplorazione del linguaggio fotografico, avviata fin dal 1 922, consentì anche a Renger-Patzsch d'individuare nuovi schemi espressivi, con cui esprimere esattamen­ te i significati degli elementi della realtà, ossia i suoi simboli; le figure retoriche sono così chiaramente individuabili nelle sue immagini da convincere anche il più cieco che la fotografia è un linguaggio autonomo e che il fotografo è un operatore esteti­ co in grado di esprimere giudizi, senza altri interventi che quelli consentiti dalla tec­ nica che adopera. Quella della fotografia pura è stata, negli anni Trenta, una fede che si è rapidamen­ te diffusa e, per molti, fu come se la fotografia fosse stata nuovamente inventata. In Italia si avviarono allora in questa ricerca Vincenzo Balocchi7, Achille Bologna8, Carlo Mollino9, Antonio Boggerit0; e, verso il 1 940, Giuseppe Pagano ­ che, con disinvoltura quasi Iudica, ha perlustrato nei dettagli l'ampio panorama del­ l'edilizia rurale italiana t t - e Mario Bellavista, che cercò anche di definire teorica­ mente uno schema per un'ipotetica «fotografia fascista», in uno sforzo inutile e senza risultati, diversamente da quello di Piacentini nell'architettura, ma che lo con­ dusse a esaminare i problemi dello «specifico»t2, come d'altronde nel contempora­ neo, magistrale saggio di Alex Franchini Stappo e Giovanni Vannucci-Zauli, Principi per una estetica fotografica, edito a Firenze nel 1 942. In Spagna, si applicò in questa ricerca Pla Janini, dopo una lunga pratica pitto­ rialista al seguito del magistrale José Ortiz-Echagiie, collaborando anche alla rivista d'avanguardia «Art de la Llum», fondata nel 1 933 e soppressa nel 1 935 dai franchi­ sti. In Cecoslovacchia, Josef Sudek indulgeva, invece, con energia d'avanguardia, in un «realismo magico»t3 suggeritogli dai surrealisti; e così, in Francia, Emmanuel Sougez come Man Ray, con fotografie di dettagli anatomici, primi piani di fiori, ortaggi, oggetti comuni, che allora potevano apparire persino stravaganti, talmente diverse sono queste immagini rispetto alla consueta banalità documentaria. Anche Brassai:, dopo Paris de nuit (1 933), cominciava a eseguire décollages foto­ grafici dai muri parigini, evidenziandone i graffiti nel loro valore semantico, in un percorso visivo ampiamente imitato negli anni seguenti, fino ai décollages di mani-

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festi, considerati pop (ma già presenti nell'opera di Walker Evans, anni Trenta, e, in Italia, di Paolo Monti e Nino Migliori - primi anni Cinquanta - perché l'idea era fotografica!), di Mimmo Rotella. Ma Brassai", già dal 1 923, aveva decontestua­ lizzato piccoli oggetti con una curiosità motivata dalla ricerca sul mezzo fotogra­ fico. Più tardi, sempre a Parigi, anche Jean-Pierre Soudre realizzava «nature morte» dalla stupefacente nitidezza dei particolari, altrimenti irraggiungibile con altri mezzi figurativi, nonostante le successive «sfide» degli Iperrealisti. Dal germanico Erich Angenendt (paesaggi industriali, strutturati dai geometrici segni di ciminiere e di rotaie, che stavano formando un nuovo scenario, dopo quello romantico del mondo contadino, caro ai pittorialisti); dall'olandese Martien Coppens (si avvicinò agli oggetti oltre i limiti consueti, cercando, con la «deformazione» prospettica, di evi­ denziare nuove forme plastiche e di suggerire contemporaneamente un'altra realtà); dall'inglese Bill Brandt, che dal 1 928, quando conobbe Man Ray a Parigi, si dedicò a estrarre, dal paesaggio urbano e da quello di periferia e di campagna, strutture gra­ fiche caratterizzate da un catramoso segno fotografico a «tono basso», anche cogliendo con un supergrandangolare, usato in passato dai poliziotti di Scotland Yard per fotografare i «luoghi del delitto», memorabili sequenze di «prospettive di nudi»14. Da tutti questi autori la fotografia diretta ha ricevuto ulteriori consensi e una defi­ nitiva consacrazione, aggiudicandosi nel mondo culturale un ruolo in precedenza insistentemente contraddetto. D'altronde, il fermento provocato dai movimenti d'avanguardia fin dai primi anni del Novecento, aveva coinvolto necessariamente la fotografia, nonostante le solite diffidenze. Le fotografie di August Sander (1 876-1 964), ad esempio, hanno catalogato i per­ sonaggi della Germania dell'inizio del secolo in una tipizzazione così aspra da indur­ re i nazisti, nel 1 935, a distruggere le lastre e le copie del volume di Sander, Antlitz der Zeit, pubblicato nel 1 929, perché questi «tipi» germanici non coincidevano con l'idea della «razza ariana», com'era intesa da Hitler. Lo stereotipo di Sander si ritrova comunque anche nell'opera coeva di pittori come Otto Dix o Christian Schad, che agivano nell'ambito della Neue Sachlichkeit (la «Nuova obiettività>)) , tesa tra l'altro a riaffermare polemicamente un nuovo reali­ smo, in contrasto con il «soggettivismm) e lo «spontaneismo» di Der Blauer Reiter. Le immagini di Sander, più di altre, proprio per l'apparente semplicità della ripre­ sa, che sembra simile a quella dei fotografi d'atelier, con risultati analoghi ad altret­ tante «schede segnaletiche», dimostrano come la fotografia possegga un suo flessi­ bile linguaggio, con il quale l'operatore riesce a esprimere idee e concetti, e non sol­ tanto informazioni. Sander ha usato questo linguaggio, secondo regole e condizionamenti ele­ mentari, sintetizzabili in tre fattori, comuni d'altronde a ogni fotografia: il campo visivo, ossia la cornice dell'immagine, il punto di vista, l'attimo dello scatto, con una semplicità quasi naif, e comunque con il rigore del criminologo, dello schedatore, e, «rinunciando volutamente a quella descrizione di ambienti che è tema prediletto dei sociologi, ha ripreso le sue persone in una severa posa fron­ tale ed in atteggiamenti raccolti, eliminando ogni mimica, ogni movimento, ogni gesto», come ha scritto Gola Mann nel 1 959, in un testo sull'opera del grande fotografo tedesco 15•

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Fotog rafi a e ava n g u a rd i e sto r i c h e La fotografia venne coinvolta anche in uno tra i primi movimenti d'avanguardia europei, il futurismo italiano, presentato a Parigi il 20 febbraio 1 909 da Marinetti, quasi per una spontanea verifica di certi assunti teorici - che comunque rappresen­ tavano l'avvio dell'era tecnologica - come l'esaltazione della «velocità», della «mac­ china», di tutto ciò che è simbolo del progresso, per una provocatoria dissacrazione della tradizionale cultura borghese, considerata «passatista». A questa «verifica)) - che fu anche giocosa, come molte altre esperienze futuri­ ste, spesso al limite della peiformance, diremmo oggi - si applicarono soprattutto i fratelli Anton Giulio (1 890-1 960) e Arturo Bragaglia (1 893-1 962), con una serie di sperimentazioni fotografiche, iniziate nel 1 9 1 O, relative al «fotodinamismm), inseren­ dosi «nella ricerca futurista come corrispettivo fotografico di una poetica sensoria e psicologica dell'immagine che andava maturando, consapevolmente o inconsapevol­ mente, profonde valenze spiritualistiche))16. «Noi vogliamo realizzare una rivoluzione, per un progresso della fotografia)), scriveva Anton Giulio Bragaglia in un volumetto del 1 9 1 217, che è anche uno tra i primi saggi sull'estetica e la semiotica della fotografia in cui si tenti di analizzare sistematicamente il suo linguaggio, in una prospettiva diversa da quella dei soliti addetti ai lavori. Bragaglia, infatti, si preoccupò allora innanzitutto di precisare che lui e suo fra­ tello non erano dei fotografi, ma che anzi erano «ben lontani dalla professione di foto­ grafi. La quale circostanza dimostra - continuava Bragaglia - come non siamo gente che batte la grancassa per la propria bottegro) 1 8 . N el saggio in cui Anton Giulio teorizza le ricerche fatte assieme al fratello - che pare si occupasse soprattutto della parte «pratica»), tant'è che, in seguito, intraprese la professione di fotografo, oltre che di attore cinematografico, come ritrattista di artisti e divi dello schermo - sono adattati alla fotografia molti concetti del futu­ rismo marinettiano e in particolare di Boccioni sulla pittura, in una suggestiva con­ gerie di aforismi, a volte illuminanti nella loro categoricità: , sperimentale, della storia del cinema italiano. Solo tra il 1 928 e il 1 930, questa pionieristica esperienza d'avanguardia della foto-

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grafia (in effetti anteriore alla «Vortografia>> del grande sperimentatore Alvin Langdon Coburn, ispirato da George Bernard Shaw ed Ezra Pound, del 1 9 1 6- 1 9 1 7, e all'«astrattismo» di Pau! Strand, del 1 9 1 5- 1 9 1 6), venne nuovamente presa in consi­ derazione nell'ambito del movimento futurista, quando Marinetti e Tato (alias Guglielmo Sansoni) scrissero un «manifesto»20 in cui, ricordando l'esposizione e la conferenza dei Bragaglia nel 1 9 1 2 alla sala Pichetti di Roma, suggerirono sedici «regole» per ottenere fotografie, in questa occasione specificamente «futuriste», esplorando, contemporaneamente, alcune facoltà espressive del linguaggio. Tra i fotografi italiani del «secondo futurismo», si evidenziarono Wanda Wulz, Ferruccio Demanins, Tato (Guglielmo Sansoni, autore anche di singolari reac!J-made e montages che risentono, però, del dadaismo), Pannaggi, Paladini, Boccardi, Bertieri, Enrie21 , nel Fotomontaggio si esercitò, allora, anche Bruno Munari, realizzando, tra l'altro, per la Mostra dell'urbanistica alla VI Triennale di Milano del 1 936, una serie di «diorami» simbolistici, su emergenti temi di vita italiana: abitazione, produzione, distribuzione, vita collettiva, svago, comunicazioni22• D'altronde, durante il regime fascista, quella del fotomontaggio fu una tecnica abituale, cui si ricorreva, fino ad abusarne, per accentuare ed enfatizzare la «mistica fascista», facendo largo uso dell'immagine fotografica, di cui si era compresa subito la grande efficacia persuasiva23• Singolare, in quegli anni, il fotomontaggio, La tavo­ la degli orrori, di Pier Maria Bardi, esposto a Roma nella grande mostra del 1 932. Un uso politico del fotomontaggio - che, come tecnica, ha origini antiche, basti ricordare i realistici collages vittoriani di Rejlander, di Robinson o di sir Edward Blount - era stato anche quello di personaggi sconosciuti, quale la «fotografa» Costanza Diotallevi, che a Roma, nel 1 862, aveva collaborato alla costruzione di alcuni fotomontaggi a soggetto osceno, applicando abilmente, sul nudo di una gio­ vane romana, di mestiere «scuffianm, ossia lavorante in un negozio di cappelli, il ritratto di Maria Sofia, regina di Napoli, rifugiatasi con il marito Francesco Il in Vaticano, creando un singolare scandalo storico. La fotografa e il marito Antonio, militare pontificio, «furono arrestati, e nella prima deposizione la Diotallevi - racconta lo storico De Cesare - dichiarò che il Comitato nazionale, o partito piemontese [ ] per fare ingiuria ai sovrani di Napoli, aveva fatto eseguire quelle fotografie in casa di un mercante di campagna [...] sul corpo di una "scuffiara" di venti anni>>24• Nel 1 924 Pio IX venne addirittura «travestito» da framassone, con un fotomon­ taggio, stampato in un coevo opuscolo della massoneria25, il cui intento era quello di ingannare, nonostante la grossolanità tecnica del lavoro, sfruttando la credibilità del «documento» fotografico. Diversi i presupposti, negli anni Venti del Novecento, e gli scopi dei fotomontaggi politici dell'artista dadaista John Heartfield (pseudonimo di Helmut Herzfeld, 1 8911 968), che con forbici, colla ed aerografo creò una tragica immagine della realtà sociale tedesca all'avvento del nazismo. Le immagini composite di Heartfield (fu grafico, piut­ tosto che fotografo), sono caricaturali e grottesche, e mirano a sottolineare, emblemati­ camente, quanto spietati fossero gli assunti della ideologia nazista e dei suoi protagoni­ sti principali, Hitler e Goering, bersagli prediletti dell'artista sulle pagine di ), diretto da Carlo Salinari, e in «Comunità)) di Olivetci, redatta da Renzo Zorzi. Tutte pubblicazioni che diedero spazio alla fotografia di denuncia, anche amatoriale. Primeggiarono inoltre le immagini di Piergiorgio Branzi, Antonio Camisa, Mario Giacomelli, Nino Migliori, che si affidarono piuttosto alla ricca problemacica della Subjekcive o alla classicità della fotografia americana anni Venti, di Dorothea Lange o Walker Evans, lungamente considerato magistrale anche in Italia. Nel frattempo emergeva un autore elegante e poetico come Fulvio Roiter, tra i primi a evidenziarsi a livello internazionale, mediante fotolibri come Ombrie, terre de Saint François, che vinse anche l'internazionale Prix Nadar, mentre si affermavano alcuni giovani, come U go Mulas, Gianni Berengo-Gardin, Ferdinando Scianna e il magistrale Paolo Monti. Il dibattito fu comunque fertile, nonostante si discorresse ancora di «forma)) e «contenutO>), sull'onda dell'idealismo crociano, che pareva un parametro d'estetica intoccabile; i neorealisci combatterono la loro battaglia, politica prima di tutto, chie­ dendo alle immagini di raccontare, se possibile, la storia «verro) dell'uomo, senza maschere estetiche, ma con semplicità. Fu Strand, comunque, a chiarire molte cose, con il fotolibro Un paese, pubblicato da Einaudi nel 1 955, con testi e didascalie di Cesare Zavattini. Il rigore delle nitide, ortogonali immagini di Strand, simili a schede segnaletiche, fu una lezione di stile, oltre che un documento sulla situazione umana di Luzzara, paesino del delta pada­ no, che diventò emblematico di tutta una civiltà contadina che stava scomparendo mentre si sviluppava quella industriale, con protagonisti gli operai al posto dei con­ tadini, che stavano emigrando o si rivolgevano ad altri lavori. Vent'anni dopo, nel 1 975, Gianni Berengo-Gardin, uno tra i fotografi italiani più attenti al problema del linguaggio, ha riletto gli stessi luoghi e rivisto i medesimi per­ sonaggi del libro di Strand, in uno struggente reportage (Un paese, vent'anni dopo, Einaudi, Torino 1 975), che è significativo anche dell'evoluzione della fotografia ita­ liana, raggiunta, nel frattempo, dalle sollecitazioni di maestri come Carcier-Bresson o William Klein, oltre a Robert Doisneau, Brassai: e gli americani Walker Evans, Robert Frank (svizzero d'origine), Lee Friedlander, ecc., avviaci a una fotografia più libera e trasgressiva, rispetto all'eleganza che caratterizza le virtuosistiche immagini di un Carcier-Bresson, alcune raccolte nel fondamentale volume, Images à la sauvette, che fece veramente scuola. Nella fotografia italiana del dopoguerra - come, d'altronde, in quella europea - si sono particolarmente avvertite le contraddizioni tra fotografia e cultura uma­ niscica e si è assistito alla crescita del fotogiornalismo, quindi a una rapida massifi­ cazione dell'immagine, veicolata anche tramite il fotoromanzo («Bolero)), «Grand Hoteh), rappresentano a livello europeo i primi esempi cipologici di questo genere narrativo popolare), che è un'invenzione editoriale nostrana. Si sono posti in luce, allora, alcuni fotografi italiani, rapidamente acquisiti dall'e­ ditoria internazionale: dopo fotogiornalisci classici, come Federico Patellani, è stata la volta di autori di estrazione amatoriale, come Paolo Monti, Fulvio Roiter, Mario De Biasi, Gianni Berengo-Gardin, Mario Giacomelli, Antonio Migliori, Cesare Colombo, Pepi Merisio e Ugo Mulas. Quest'ultimo (1 928-73) , mediante una serie di «verifiche)) sul linguaggio fotogra-

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Capitolo 8

I .ingua!!J!,iO

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at'anJ!,uardie

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Manifesto per Tabacco Road, di Walker Evans, Bridgeport, Connecticut, 1941. Gelatina ai sali d'argento. Venezia, Collezione Mario Trevisan.

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fico, ha sollecitato infine, più di altri, una salutare meditazione e riflessione metalin­ guistica, cancellando antiche e sterili diatribe e avviando la fotografia a svolgere un ruolo primario, concettuale, nel diffidente mondo culturale italiano.

D a l rea l i s m o a l co n cett u a l i s m o Il concettualismo delle verifiche di Mulas46 riabilitò, nel contempo, la fotografia «d'arte», anche altrove proposta con formule che prescindono, definitivamente, dal tradizionale «documentarismo», affidando la creatività fotografica a ogni possibile effervescenza, anche fantastica. Nel frattempo, la televisione stava esautorando la fotografia dai suoi compiti, sino allora quasi istituzionali, dell'informazione visiva, e si iniziò quindi a riesamina­ re le problematiche e i modi espressivi dei fotografi delle avanguardie storiche, ade­ guando e confrontando la loro sollecitazione con la nuova cultura visiva massifica­ ta - Pop e Iperrealista in particolare - che McLuhan ha efficacemente sintetizza­ to e presentato negli aspetti sociologici con il libro Gli strumenti del comunicare 47• Negli anni Settanta si stava comunque dimenticando - ma, forse, molti non se n'erano accorti - che un fotografo come Walker Evans (1 903-75)48 da più di tren­ t'anni aveva esplorato, senza condizionamenti intellettualistici, ma in una spontanea esigenza d'immagine (fece parte della équipe della FSA negli anni Trenta) , lo spazio visivo di città e periferie, cercando, al di là dell'implicito e specifico impegno «docu­ mentaristico», che gli appariva scontato, di cogliere i nessi tra la realtà naturale e quella strutturata, in un catalogo di oggetti, persone, edifici, manifesti, monumenti, ecc., ripresi in sequenza, secondo una congenita vocazione della fotografia, di «sche­ da segnaletica>) della realtà - che, in tal modo, offre anche una diversa, ma coeren­ te nozione del tempo storico e sociologico. Le sequenze di Evans sembrano essere un precoce rifiuto della teoria bressonia­ na, ossia di un'immagine, riassuntiva, definitiva, colta nel suo «momento decisivo», quindi sublime. Ogni attimo, ha osservato Ugo Mulas in un suo saggio, è «significativo» e quindi può essere anche «sublime», se racconta efficacemente un frammento del tempo che trascorre, mentre la luce o un gesto si trasformano nello spazio. Alle sequenze di Evans, nella seconda metà degli anni Cinquanta, erano seguite quelle di un altro americano, William Klein (n. 1 928); ancora immagini di città, New York, Roma, Tokyo, Mosca, realizzate quasi in polemica con le annotazioni «ogget­ tive» di Cartier-Bresson e dei fotogiornalisti della Magnum. Sembra che Klein abbia utilizzato una mitragliatrice, anziché un apparecchio fotografico. Le sue sequenze sono raffiche di immagini nere e bianche, fortemente contrasta­ te, mosse, sfocate, sgranate, sovra e sottoesposte, deformate dal grandangolo, o, all'opposto, dal teleobiettivo: immagini che scavano dentro l'involucro urbano, alla ricerca dei segni drammatici della sua nevrosi. E Klein ripropone questa sua idea di città, fortemente soggettiva e al di fuori dalle solite esigenze informative e turistiche, in libri dove non c'è spazio per la paro­ la, perché le immagini, spesso in sequenza, coordinate dialetticamente sulla pagina, hanno una chiarezza comunicativa autonoma e affidano soltanto alla loro ambiguità, specifica della fotografia, il commento e il giudizio del lettore.

Unguaggio e avanguardie

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Dopo la Leica e il mirino telemetrico, che connotano il fotogiornalismo classico, l'industria ha proposto apparecchi fotografici reflex, monoculari, 24 x 36, quali i Nikon, Canon, Pentax, che suggeriscono nuovi modi di vedere, per poi arrivare sino alle recenti tecnologie digitali, che hanno reso ancora più «facile» la fotografia, mas­ sificando ulteriormente il suo uso quotidiano, ma che impegnano comunque l'intel­ ligenza e la sensibilità dello sguardo, nulla togliendo all'antico potere d'indagine di questo medium, che sembra ora «alla portata di tutti», come lo era negli anni sul fini­ re del XIX secolo, quando la Kodak aveva messo sul mercato il suo apparecchio «No h >. D'altronde l'industria ha anche proposto materiali fotosensibili d'insospettata sensibilità e nitidezza, ormai superati dalle tecnologie cosiddette «digitali», che con­ sentono riprese anche con pochissima luminosità, con rapidità e perfezione descrit­ tiva stupefacente. Ma la fotografia è ideologia, e quindi è comunque l'autore responsabile del risul­ tato, offrendo comunque a tutti l'illusione anche della cosiddetta «creatività»; tutti fotografi, ma, fortunatamente, non tutti «artisti». Si producono, quindi, immagini diverse, perché nascono da strumenti progetta­ ti in coerenza con le esigenze culturali dell'uomo contemporaneo, in un gioco di rimandi, tra tecnica e ideologia, che è senza fine, e che si riferisce coerentemente con i media della comunicazione, della televisione e del computer, oltre che del giorna­ lismo illustrato al quale l'immagine si affida, ormai quasi simultaneamente allo «scat­ to». Il fotografo sceglie nella realtà, con eccezionali libertà da condizionamenti tecnici; è una scelta che si compie soprattutto nella cornice dell'apparecchio, nella cosiddet­ ta >50. Allieva di Lisette Model (1 906-83) - che era giunta dall'Europa a New York, nel 1 937, proponendo una fotografia realistica d'impegno sociologico, i cui modelli richiamano Brassa1 - la Arbus ha cancellato, a sua volta, ogni euforia tecnicistica promossa dal consumismo, quasi fosse nelle inverosimili possibilità offerte dalle nuove tecnologie il segreto per liberare la fotografia dai vecchi condizionamenti, riconoscendole inedite capacità spettacolari, oltre che narrative, con «punti vista» azzardati e trasgressivi. Le immagini della Arbus potrebbero, invece, essere state realizzate con la più semplice tra le macchine fotografiche, oggi anche con un videocellulare, perché fon­ damentale, anche per lei, è stata la capacità di vedere, quindi di scegliere, di estrarre ed evidenziare dal contesto ambientale; e per fare ciò è opportuno, oltre che suffi­ ciente, essere in grado di che gli hanno consentito di dichiarare il suo dissenso con una sferzante ironia, specifi­ cata mediante deformazioni, viraggi, colorazioni, tutti segni allusivi impressi sulla superficie concreta dell'immagine fotografica. Krims ha rifiutato il documentarismo «à la sauvette», in favore di più duttili pos­ sibilità di invenzione e di caratterizzazione fantastica, anche con il fotomontaggio, nel mentre le nuove tecnologie digitali erano già promettenti anche sul piano dell'in­ venzione scenografica, smentendo finalmente la retorica affibbiata alla fotografia come «riproduzione» meccanica, indiscutibile, della realtà. A una raffigurazione surreale della realtà si indirizzano, in questi anni, molti foto­ grafi, da Van Deren Coke ad Alisa Wels (che compie una rivisitazione di vecchie immagini, trasformate e aggiornate con viraggi e solarizzazioni), a Lorenzo Merlo, Paul De Noijer, Alan Dutton, Antonio Migliori, Hishin Shinoyama, Luigi Ghirri, Guido Guidi, Christian Vogt, Joan Fontcuberta, Mark Klett, Luca Patella, Paolo Gioii, Franco Fontana, mediante interventi e manipolazioni, che vanno dal fotomontaggio alla coloritura manuale, alla deformazione programmata della prospettiva, all'alterazio­ ne dei materiali cromatici, questi sempre più istantanei, dalla «Polaroid» all'attuale tec­ nologia digitale, tra i cui maestri va ricordato David La Chapelle. Altri esplorano, invece, le possibilità narrative (e concettuali) della sequenza: si pensi ai tedeschi Bernd (n. 1 931) e Hilla Becher (n. 1 934) che catalogano, come Gabriele Basilico (n. 1 944, in Italia uno tra i più consapevoli critici visivi dell'architettura e degli scenari urbani) , il paesaggio industriale, iterandone i segni analogici; si pensi a Mario Cresci (n. 1 942) che, alla ricerca dell'identità ambientale, progetta spostamenti del punto di vista > altro che quando si richieda di ottenere un duplicato della visione nello spazio fisico; mentre nel procedimento artistico di pittori, fotografi e registi cinematografici, ]'«esatto» ammontare della convergenza dipende unicamen­ te dall'espressione e dal significato che si vuole ottenere; e abbiamo visto come la distorsione serva anzi da utile e legittimo strumento a fine artistico. .

[Rudolf Arnheim, Prospettiva fotogrtifìca, in Arte e perce:done visiva, a cura di G. Dorfles, Feltrinelli, Milano 1962, p. 228. Titolo originale dell'opera: Art and Visual Perception a p.rychology of the creative rye, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1 954].

U n a foto g rafi a p i ù sog gett iva Sul piano tecnologico, la fotografia è la risultante di procedimenti chimici e ottici che possono essere utilizzati e adattati dall'uomo, secondo le sue capacità tecniche e la sua attitudine a creare immagini. Indicheremo i mezzi che sono a nostra disposizione per l'e­ laborazione delle immagini, sotto il nome di elementi della creazione fotografica; nel proces­ so di formazione delle immagini, essi si condizionano reciprocamente. Distingueremo:

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1 . La scelta dell'oggetto (motivo) e l'atto di isolarlo dalla natura. 2. La visione nella prospettiva fotografica. 3. La visione nella riproduzione foto-ottica. 4. Il trasferimento nella scala dei toni fotografici (e nella scala dei colori fotografici). S. L'isolamento della temporalità attraverso la posa fotografica. 1 . Fondamentalmente la fotografia è sempre legata all'oggetto [...] l'atto di scegliere un motivo, di stabilire quale oggetto si sceglie e come lo si vede, è il principio di un pro­ cesso creativo [...].

2. La visione della prospettiva fotografica è un fattore di trasposizione che ci è dive­ nuto del tutto naturale [...]. Noi abbiamo imparato - e ciò vale anche per i non-foto­ grafi - a percepire la natura, non soltanto attraverso la visione normale e fisiologica del mondo circostante, mediante il senso della vista, ma anche in una prospettiva fotografi­ ca, grazie alla rappresentazione fotografica [...]. 3. In molti casi, il più grande ostacolo al lavoro fotografico è l'indifferenza assoluta - in termini positivi, la neutralità scientifica - con la quale l'ottica fotografica registra, per la costruzione dell'immagine, egualmente bene sia gli elementi essenziali che quelli superflui. Questa registrazione fedele, ma inopportuna, è in assoluto contrasto con l'i­ dea fondamentale di ogni creazione artistica, che consiste nell'astrarre, nel saper separa­ re l'essenziale dal contingente [...] . 4. La trasposizione del colore naturale nella scala dei valori fotografici del bianco­ nero, ci fornisce un ulteriore mezzo di creazione [...]. Nell'avvenire, accanto al trasferi­ mento dei toni fotografici del bianco-nero, dovremo considerare come elemento creati­ vo le trasformazioni delle sensazioni naturali nella scala dei toni della fotografia a colo­ ri. Essendo la branca più recente dell'«image-lumière)), la fotografia a colori si sforza ancora di raggiungere la perfezione tecnica e combatte per essere riconosciuta alla pari come mezzo obiettivo per ottenere immagini. In questo settore il compito più proble­ matico sarà quello di superare la contraddizione che esiste tra la registrazione fisico-chi­ mica dell'emulsione fotografica a colori, e la visione psico-ottica dell'occhio [.. .]. S. Con l'istantanea, la fotografia dispone di un mezzo d'espressione unico, grazie alla possibilità tecnica di isolare esattamente il soggetto dalla temporalità naturale [...] . Con il decimillesimo di secondo, persino il miliardesimo, l'occhio umano, eccessivamente lento, si vede rivelare con la fotografia il frammento delle fasi del movimento e vede aprirsi un mondo sino allora sconosciuto. [Otto Steinert, Sur /es possibi/ités de création en photographie, in Subjektive Fotogr4ìe 2, Briider Auer Verlag, Miinchen 19SS, p. 1 8, trad. d. A.] .

Com u n i ca re con l a fotog ra f i a Ilparadosso fotografico Qual è il contenuto del messaggio fotografico? Cosa trasmette la fotografia? Per definizione, la scena medesima, letteralmente la realtà. Dall'oggetto alla sua

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immagine, vi è certamente una riduzione: di proporzioni, prospettiva e colore. Ma questa riduzione non è una trasformazione (nel senso matematico del termine); per passare dal reale alla sua fotografia, non è necessario ritagliare questo reale in unità, e comporre queste unità in segni sostanzialmente differenti dell'oggetto che essi propongono alla lettura; tra questo oggetto e la sua immagine non è necessario disporre un re/ais, ossia un codice; certamente l'immagine non è il reale; ma essa se non altro ne è l'analogon perfetto, ed è proprio questa perfezione analogica che, nel senso comune, definisce la fotografia. Così appare la regola particolare dell'immagine fotografica: è un messaggio senza codice; proposizione alla quale è necessario subito aggiungere un importante corolla­ rio: il messaggio fotografico è un messaggio continuo. Esistono altri messaggi senza codice? A prima vista, sì: precisamente, sono tutte le riproduzioni analogiche della real­ tà: disegni, pitture, cinema, teatro. Ma in effetti, ognuno di questi messaggi mette in chiaro, in modo immediato ed evidente, oltre al contenuto analogico stesso (scena, oggetto, paesaggio), un messag­ gio supplementare, che è ciò che comunemente si chiama lo sryle della riproduzione; si tratta di un senso secondo, il cui significante è un determinato «trattamentm) del­ l'immagine sotto l'azione del creatore, e il cui significato, sia estetico, sia ideologico, rinvia a una certa «culturro) della società che riceve il messaggio. Insomma, tutte que­ ste «arti)) imitative comportano due messaggi: un messaggio denotato, che è lo stesso analogon, e un messaggio connotato, che è il modo in cui la società dà a leggere, in una certa misura, ciò che essa ne pensa. [Roland Barthes, Le message photographique, «Communicatioru), Paris, n. 1 , 1 96 1 , p. 1 28, trad. d. A.].

La fotog rafia cent' a n n i d o po Cos'è l'antica caverna di Platone se non una camera oscura, la più grande, mi pare, che sia mai stata vista? Se Platone avesse ridotto l'apertura dell'antro a un piccolissimo foro, e ricoper­ to d'uno strato sensibile la parete che gli serviva da schermo, sviluppando il suo fondo di caverna avrebbe ottenuto un film gigantesco [...] . A prima vista, solo le «arti di imitazione)), come i l disegno o la pittura, han sapu­ to sfruttare la cattura istantanea delle forme con la lastra sensibile. Quando fu possibile studiare tranquillamente l'aspetto degli esseri in movimen­ to, si rivelarono molti errori d'osservazione: ci si accorse di quel che c'era di fanta­ sioso nel galoppo dei cavalli e nel volo degli uccelli che gli artisti fin allora avevan creduto di sorprendere. La fotografia abituò gli occhi ad attendersi quel che devono vedere, dunque a vedere; e insegnò a non vedere quel che non esiste, cosa che prima era invece perfet­ tamente visibile [...] . Bisogna dunque convenire che il bromuro vince l'inchiostro, nei casi in cui l a sola presenza del visibile è sufficiente, parlando direttamente, senza il tramite d'uno spi­ rito interposto, cioè senza bisogno delle trasmissioni convenzionali d'un linguaggio. Personalmente, non credo che questo sia un male: anzi ...

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Il pullulare di immagini fotografiche potrebbe infine profittare alle Lettere - le Belle Lettere o meglio le Lettere belle ... La fotografia, con le sue conquiste di movimento e di colore, senza parlare di rilievo, scoraggia chi vuoi descrivere la realtà [...] . Venne infine Daguerre. La visione fotografica è ottenuta e si sparge nel mondo con strana rapidità. Si assiste a una revisione di tutti i valori di conoscenza visuale... La fotografia, per parlare il linguaggio dei filosofi, dovrebbe ringiovanire l'antico e difficile proble­ ma dell'obbiettività. La lastra raddrizza il nostro errore per difetto, come il nostro e"ore per eccesso: ci mostra quel che vedremmo se fossimo uniformemente sensibili a tutto quel che imprime la luce, e solo a quel che essa imprime in noi. Infine, quale soggetto più degno di meditazione per la filosofia, di questo prodi­ gioso accrescersi del numero delle stelle, come del numero delle radiazioni e delle energie cosmiche che dobbiamo alla fotografia? Le considerazioni di questo progresso folgorante mi sembrano suggerire una conseguenza assai strana: d'ora in avanti, non bisognerà forse definire l'Universo come un semplice prodotto dei mezzi di cui l'uomo dispone, a un'epoca determina­ ta, per immedesimarsi (pour se rendre sensible) negli eventi indefinitivamente vari e lon­ tani? Se il numero delle stelle diventa nozione inseparabile dai mezzi che a un dato momento fissano quel numero e permettono di individuarlo, e se si tien conto dei perfezionamenti raggiunti, si potrebbe quasi dire che questo numero dell'Universo è una funzione di tempo. [Pau! Valéry, La fotografia ha cent'anni, Intervista a cura di Lo Duca, «Emporium)), Bergamo, aprile 1 939, pp. 2 1 0 sgg.] .

L' i ns a z i a b i l e occ h i o d e l l a fotog raf i a L'umanità si attarda, non rigenerata, nella grotta di Platone, continuando a dilet­ tarsi, per abitudine secolare, di mere immagini della verità. Ma essere stati educati dalle fotografie non è come essere stati educati da imma­ gini più antiche e più artigianali. Per prima cosa, oggi sono molto più numerose le immagini che reclamano la nostra attenzione. L'inventario è cominciato nel 1 839 e da allora è stato fotografato quasi tutto, o almeno così pare. E questa insaziabilità dell'occhio fotografico modifica le condizioni di prigionia in quella grotta che è il nostro mondo. Insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena di guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osserva­ re. Sono una grammatica e, cosa ancor più importante, un'etica della visione. Infine la conseguenza più grandiosa della fotografia è che si dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di immagini. [Su san Sontag, Nella grotta di Platone, in Sullafotografia, Einaudi, Torino 1 978, p. 3]

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U n a ve rifica L'operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander Qualche tempo dopo l'omaggio a Niépce ho voluto verificare un altro aspetto della realtà della fotografia: la macchina. Contro la finestra c'è uno specchio, il sole batte sulla finestra, ne proietta l'om­ bra di un montante contro la parete e insieme proietta la mia ombra. Da quest'ombra si vede che sto fotografando, e la mia azione appare anche nello specchio. In ambedue i casi c'è un elemento comune: la macchina cancella il viso del fotografo, perché è all'altezza dell'occhio e nasconde i tratti del volto. La verifica è dedicata a quello che io credo sia il fotografo che più ha sentito que­ sto problema, e ha tentato di superare la barriera che è costituita dalla macchina, cioè il mezzo stesso del suo lavoro e del suo modo di conoscere e di fare. Forse, qui come nel successivo autoritratto con Nini, c'è l'ossessione di essere presente, di vedermi mentre vedo, di partecipare, coinvolgendomi. O, meglio, è una consapevolezza che la macchina non mi appartiene, è un mezzo aggiunto di cui non si può né sopravvalutare né sottovalutare la portata, ma proprio per questo un mezzo che mi esclude mentre più sono presente. [Ugo Mulas, L'operazione fotografica, in La fotografia, Einaudi, Torino 1 973, p. 1 50. Da Le verifiche 1971- 1972] .

L' i n conscio tec n o l og i co L'inconscio tecnologico non deve essere interpretato come pura estensione e potenziamento di facoltà umane, ma bisogna vedere nello strumento una capacità di azione autonoma; tutto avviene come se la macchina fosse un frammento di incon­ scio in attività. La struttura della macchina è analoga alla struttura dell'inconscio, è priva di profondità ed è estranea ai flussi che l'attraversano. Parafrasando Lévi­ Strauss si può dire che ogni macchina è un organo di una funzione specifica che si limita ad imporre leggi strumentali, che esauriscono la sua realtà, a elementi di altra provenienza. L'ipersemplicità della macchina confrontata alla complessità di funzio­ namento dell'inconscio umano ha una contropartita nell'enorme produttività di cui essa è capace; dominata dalla coazione a ripetere, la macchina tende sempre a supe­ rare ogni limite preventivato e una delle conseguenze di questa produzione è la impossibilità di ripristinare le condizioni iniziali. Per effetto della sua azione la situa­ zione che si viene a creare è paradossale: da un lato l'ambiente subisce una modifi­ cazione irreversibile secondo un processo di sviluppo continuo e lineare che si sosti­ tuisce a quello ciclico della natura, dall'altro il tipo di rapporto inconscio col mondo tende a rimanere bloccato. L'ipertrofia dell'attività stereotipata della macchina crea una dismi­ sura tra le aspettative del nostro sistema nervoso, che si è venuto modellando in milioni di anni su una realtà soggetta a ritmi di mutamenti naturali, e la nuova real­ tà tecnologica. Il mondo, come un enorme luna park, si riempie di specchi defor­ manti che ci restituiscono la nostra immagine, divenuta irriconoscibile. [Franco Vaccari, LaJotogrqfta e l'inconscio tecnologico, Punto e Virgola, Modena 1 979, p. 1 1].

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l mass-med i a n e l pensi e ro d e l pa pa [ ...] Questo guardare, per sua natura «estetico», non può, nella coscienza sogget­ tiva dell'uomo, essere totalmente isolato da quel «guardare» di cui parla Cristo nel Discorso della Montagna: mettendo in guardia contro la concupiscenza. 3. Così dunque, l'intera sfera delle esperienze estetiche si trova, ad un tempo, nel­ l'ambito dell'ethos del corpo. Giustamente quindi bisogna pensare anche qui alla necessità di creare un clima favorevole alla purezza; questo clima può infatti essere minacciato non soltanto nel modo stesso in cui si svolgono i rapporti e la conviven­ za degli uomini vivi, ma anche nell'ambito delle aggettivazioni proprie delle opere di cultura, nell'ambito delle comunicazioni sociali; quando si tratta della parola viva o scritta; nell'ambito dell'immagine, cioè della rappresentazione e della visione, sia nel significato tradizionale di questo termine sia in quello contemporaneo. In questo modo raggiungiamo i diversi campi e prodotti della cultura artistica, plastica, di spettacolo, anche quella che si basa sulle tecniche audiovisive contempo­ ranee. In quest'area, vasta e assai differenziata, occorre che ci poniamo una doman­ da alla luce dell'ethos del corpo, delineato nelle analisi finora condotte, sul corpo umano quale oggetto di cultura. 4. Prima di tutto va costatato che il corpo umano è perenne oggetto di cultura, nel più ampio significato del termine, per la semplice ragione che l'uomo stesso è soggetto di cultura, e nella sua attività culturale e creativa egli impegna la sua uma­ nità includendo perciò in questa attività anche il suo corpo. Nelle presenti riflessioni dobbiamo però restringere il concetto di «oggetto di cultura», !imitandoci al concetto inteso quale «tema» delle opere di cultura e in par­ ticolare delle opere d'arte. Si tratta insomma della tematizzazione, ossia della «agget­ tivazione» del corpo in tali opere. Tuttavia occorre qui far subito alcune distinzioni, sia pure a modo di esempio. Una cosa è il corpo vivo umano; dell'uomo e della donna, che di per sé crea l'og­ getto d'arte e l'opera d'arte (come, ad es. nel teatro, nel balletto e, fino a un certo punto, anche nel corso di un concerto), e altra cosa è il corpo come modello dell'o­ pera d'arte, come nelle arti plastiche, scultura o pittura. È possibile porre sullo stesso rango anche il fùm o l'arte fotografica in senso ampio? Sembra di sì, sebbene dal punto di vista del corpo quale oggetto-tema si verifi­ chi in questo caso una differenza abbastanza essenziale. Nella pittura o scultura l'uomo-corpo resta sempre un modello, sottoposto alla specifica elaborazione da parte dell'artista. Nel film, e ancor più nell'arte fotografica, non il modello viene trasfigurato, ma viene riprodotto l'uomo vivo: e in tal caso l'uomo, il corpo umano, non è modello per l'opera d'arte, ma oggetto di una riproduzione ottenuta mediante tecniche appropriate. 5. Bisogna segnalare già fin d'adesso, che la suddetta distinzione, è importante dal punto di vista dell'ethos del corpo, nelle opere di cultura. E va anche subito aggiunto che la riproduzione artistica, quando diviene conte­ nuto della rappresentazione e della trasmissione (televisiva o cinematografica), perde, in un certo senso, il suo contatto fondamentale con l'uomo-corpo, di cui è la riproduzione, e molto spesso diventa un oggetto «anonimm>, così come è, ad es. un anonimo atto fotografico pubblicato sulle riviste illustrate, oppure un'immagine dif­ fusa sugli schermi di tutto il mondo. Un tale anonimato è l'effetto della «propaga-

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zione» dell'immagine-riproduzione del corpo umano, oggettivizzato prima con l'aiu­ to delle tecniche di riproduzione, che - come è stato sopra ricordato - sembra differenziarsi essenzialmente dalla trasfigurazione del modello tipico dell'opera d'ar­ te, soprattutto delle arti plastiche. Orbene, tale anonimato (che d'altronde è un modo di