Luce negli occhi, colori nella mente. Scritti di cinema 1961-2000 8880122134, 9788880122135


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Italian Pages 424 [420] Year 2002

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Luce negli occhi, colori nella mente. Scritti di cinema 1961-2000
 8880122134, 9788880122135

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FRIEDA GRAFE

Luce negli occhi colori nella mente scritti di cinema 1961-2000 a cura di Mariann Lewinsky e Enne Patalas

© Cineteca Bologna

Le Mani

Cinema Ritrovato 2002 XVI edizione Mostra Intemazionale del Cinema Libero

con il contributo di:

Comune di Bologna - Settore Cultura Regione Emilia-Romagna - Assessorato alla Cultura Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Direzione Generale per il Cinema Programma Media dell'unione Europea

Cura editoriale di Paola Cristalli e Valeria Dalle Donne

Traduzioni di Elena Broseghini e Luca Vitali

1 edizione italiana: 2002

O Frieda Grafe €> 2002 Le Mani * Microart's Edizioni, via dei Fieschi 1 16036 Recco - Genova Tel. 0185 730153-11 www.lemanieditore.com e-mail: [email protected] © 2002 Cineteca del Comune di Bologna

In quarta di copertina: Akibiyori (Tardo autunno), Yasujiro Ozu, Giappone I960

ISBN 88-8012-213-4

Indice Introduzione Vivre sa vie, 1964 Vent'anni dopo. Che cosa è stata la nouvelle vague, 1981 Jean Lue Godard. Filmare l'altra faccia delle montagne, 1981 Un movimento all'indietro con una certa tendenza in avanti, 1995 La vera storia del cinema. La visione della storia in Go­ dard, 2000

7 17 22 32

37 57

II Mae West. Showfìlia, 1973 Cari Theodor Dreyer. Signori spirituali, donne naturali, 1974 Robert Bresson. Eccessi di un asceta, 1975 Leni Riefenstahl. Contadini fìnti, soldati fìnti e che popolo!, 1975 Max Ophiils. Voce alta e vista lontana, 1978 Ciò che tocca Lubitsch, 1979 Luis Bunuel. L’occhio in pericolo, 1983 Howard Hawks, il Laocoonte americano, 1985

92 101 m ^32 141

III Filmtips, 1973

15$

IV Nicht versohnt di Jean-Marie Straub, 1966 Abbagliati dal nero. Professione: reporter di Michelangelo Antonioni, 1975 Il prezzo dei premi. The Lusty Men di Nicholas Ray, 1983 5

71

75 $4

205 211 219

Sabbia negli occhi. Forty Guns di Samuel Fuller, 1984 Assiderata. Sans toi ni loi, il nuovo Film di Agnès Varda, 1986 Le tre «effe» della casalinga ebrea. Histoires d'Amérique di Chantal Akerman, 1990 V La teoria sarebbe grigia, 1988 Pomodori sugli occhi. La storia del cinema a colori è la storia di una rimozione, 1989 Sbiaditi, i colori della DDR. La tavolozza di Hitchcock e Rohmer come suo intermediario, 1997

VI Dal cinema ingenuo al cinema sentimentale, 1961 Dottor Caligari versus Dottor Kracauer, 1970 Il realismo è sempre neo-, sur-, super-, iper-. Vedere con apparecchi fotografici, 1979 Contributi viennesi per una veridica storia del cinema, 1993 Un'invenzione svizzera. I Grand Hotel nell’industria del­ l’intrattenimento, 1994 Dall’antro anarchico del cinema. All’inizio fu una sonora risata, 1995

219 223

228

235

239 264

281 288

293 304 324

342

VII The Ghost and Mrs. Muir. I fantasmi di cui non ci si libera, 1995-1998

371

Curriculm vitae e nota biografica

393

Nota bibliografica

395

Indice dei titoli e dei nomi

401

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Introduzione Wenzel - L’arte è bella!

Esmeralda - Ma bisogna lavorare tanto. La sposa venduta, Max Ophùls, 1932

Questo libro è pensato in primo luogo per lettori e spet­ tatori con desideri illimitati sulla qualità del vedere e del pensare, dello scrivere e del leggere. Le loro esigenze non hanno nulla a che vedere con il lusso e con il superfluo. In secondo luogo vorrei chiarire come l’intento principale di questa pubblicazione non sia quello di rendere accessibili interessanti fonti storiche. Qui si tratta del presente, si tratta di insistere, in questo momento, sul cinema .come esperien­ za -forte», con testi che dedicano al proprio oggetto un lavo­ ro di percezione radicale e mettono a disposizione del pub­ blico i risultati del proprio spendersi senza risparmio. Frieda Grafe è la più importante saggista di cinema di lingua tedesca; il volume presenta una scelta di testi pub­ blicati nell’arco di quarant’anni. Dovremmo dare dei rag­ guagli storici, spiegare il ruolo centrale svolto in tale perio­ do da Frieda Grafe e suo marito, Enno Patalas, nella cultu­ ra cinematografica, il loro contributo alla conoscenza della nouvelle vague francese e il sostegno dato al giovane cine­ ma tedesco; le illuminanti incursioni nelle varie storie del cinema, la storia del cinema tedesco e di altri paesi (il cine­ ma sovietico, Hollywood, il Giappone, il neorealismo ita­ liano); le recensioni sulle riviste, la collaborazione con i quotidiani, i saggi, le traduzioni, i libri; le conferenze, l’atti­ vità radiofonica e televisiva; le retrospettive, i restauri. L’at­ tività di entrambi è stata autonoma, comune, parallela o complementare. 7

FRIEDA GRAFE ■ SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

Nel corso degli ultimi ventanni si è persa la capacità di immaginare quello che il cinema ha significato nei ventan­ ni precedenti. Oggi risulta chiaro come Frieda Grafe nei suoi testi si sia occupata da sempre dell'inafferrabilità, della precarietà dell’esperienza filmica, come non le premesse al­ tro che muoversi su terreni difficili, concentrarsi su oggetti instabili; come abbia spinto l’esplorazione dei fondamenti del cinema fino alle aree più estreme; da un lato il fanta­ smagorico: significato, arte, impatto; dall’altro la dimensio­ ne materiale: luce, voce, colore. Come nei suoi scritti abbia sempre fatto in modo che si percepisse la consistenza incer­ ta e mutevole dei film e del pensiero, senza trascurare l'im­ pegno verso il pubblico; non conosco altri testi che rispetti­ no tanto l’integrità del loro oggetto e allo stesso tempo lo trattino così audacemente, lasciando infine il lettore più in­ telligente di prima. Forse non è sempre facile seguirla, ma possiamo essere sicuri che vale la pena accompagnarla nei suoi viaggi e che inoltre, lungo il percorso, -ci saranno le cose più inaudite e incredibili da vedere e da assaggiare(come dice Robert Walser a proposito del teatro-cinemato­ grafo). Così, in un saggio su Jean Painlevé, specialista di ri­ prese subacquee su cavallucci marini e seppie, in un solo paragrafo ho imparato che, per L'Atalante di Jean Vigo, era stato lui a fornire per la collezione di curiosità di Michel Si­ mon il barattolo con le mani sotto spirito, e che Eisenstein gli aveva scritto in una lettera: -In fatto di miracoli la ritengo l’unico serio concorrente della Madonna di Lourdes».

Oggi si scrive di cinema in due istituzioni, la stampa e l’università. La prima fornisce informazioni sulla produzione attuale, la seconda informazioni sui recenti apporti storici e teorici. Ambedue operano con tipologie testuali consolidate e funzionali; purtroppo in questi ultimi anni le università la­ vorano soprattutto alla produzione, istituzionale e autorefe­ renziale, di relazioni di ricerca che hanno come obiettivo la trasmissione del discorso accademico. È il discorso accade­ mico, e non il cinema, a determinare le domande e le rispo8

INTRODUZIONE

see. Mi permetto di constatare come tutto ciò non promuo­ va la nascita di idee e testi originali (per non parlare di chiarezza, bellezza, esprit e analoghi desideri impuri). Sa­ rebbe infatti necessario porsi domande senza conoscere in anticipo la risposta e senza l’ossessione di doverne fornire una. Sarebbe necessario il pericoloso coinvolgimento in pri­ ma persona: non dell’ego narcisistico, ma dell’autore che si espone lavorando con i propri mezzi conoscitivi e il pro­ prio linguaggio. Essay significa tentativo, nel senso di una rischiosa ricerca personale spinta sino ai confini delle pro­ prie capacità. In questo contesto le apparenze di forza e de­ bolezza possono trarre in inganno, cosa che una donna è forse in grado di cogliere meglio. Ho il piacere di comunicare che i testi di Frieda Grafe sono testi utili. Essenziali e generosi, spesso di incisiva bel­ lezza, e chi non s’interessa al cinema da un punto di vista teorico, culturale ed estetico, abbandoni pure discretamente la sala: questi testi aiutano a non rinunciare a idee e interes­ si, li incarnano e se ne fanno paladini.

Tipologie testuali con diversi registri e ritmi; le brevissi­ me recensioni di film {Filmtips), da leggersi rapidamente come rapidamente sono state pensate e annotate. Quanto più i testi sono lunghi, tanto più lentamente andrebbero let­ ti: si fanno più densi perché parole e frasi amplificano il lo­ ro timbro, e il campo di risonanza della lingua e del pensie­ ro è ben più ampio della traccia scritta. Il campo di risonan­ za è una forma di precisione - in quanto molto si rivela sol­ tanto in questo registro - e al tempo stesso è dispositivo di lettura: il testo dipende dalla lettura attiva, dalla collabora­ zione dei lettori. Una tale disponibilità corrisponde alla di­ sponibilità dell’autrice nei confronti dei propri temi. Artista del packaging, Grafe lavora in poco spazio su mol­ teplici piani e in più direzioni. Un libro così, con testi relati­ vamente brevi, potrebbe indurre a una lettura ininterrotta, e sarebbe uno sbaglio; purtroppo non esiste la forma del libro a rate, da leggersi nell’arco di anni, con testi che arrivano 9

FRIEDA GRAFE - SCRITTI 01 CINEMA 1961-2000

ogni due-tre mesi, in successione casuale. Si intenda tutto questo come istruzioni per l’uso a una lettura lenta e libera di questo libro. Se nei testi autobiografici è facile fìngere, è inevitabile che i testi di fiction mettano a nudo l’autore, ha detto Naipaul non ricordo più dove, e la cosa è ancora più vera per il saggio. A cominciare dalla scelta dei temi, dall’attenzione per determinati fenomeni, dal particolare rapporto con la lingua. In tedesco si usa dire che tutti, in fondo, cucinano con la stessa acqua. Una delle poche cose personali che so di Frieda Grafe è che lei fa distinzione tra le diverse qualità di acqua. L’acqua di Monaco possiede forse una particolare sapidità linguistica, una sua arguzia affilata? Forse già Mechtiide Lichnowsky vi aveva attinto, e Karl Valentin se n’è av­ velenato giorno dopo giorno. Alla scelta e alla collocazione dei testi si è proceduto in­ sieme a Enno Patalas, tenendo conto dei quattro principali formati d’intervento: critica cinematografica, studi monogra­ fici, brevi recensioni di film e saggi; solo due sezioni pre­ sentano un’omogeneità di contenuto (Nouvelle vague/Godard e Colore). Quindi nessuna completezza tematica e niente hitparade tipo «Il meglio di F.G.«; mancano importan­ tissimi argomenti quali il nuovo cinema tedesco, il cinema giapponese, Fritz Lang, Eisenstein, Murnau e molto altro ancora. Operare una scelta era diffìcile.

Questo libro è il surrogato di un surrogato. Anche per­ ché si tratta di una traduzione. E che poteva fare la tradu­ zione per un testo il cui significato va ben oltre la comuni­ cazione di determinate affermazioni? Ciò che G. scrive non è intraducibile nel senso di un concetto idealistico di lette­ ratura connotato dalla venerazione per l’originale e l’aura della sua unicità. È meno traducibile di altri perché presup­ pone lettori che leggano con l'orecchio e la memoria. E certamente il traduttore non è un medium trasparente...

10

INTRODUZIONE

Così scriveva Grafe nel 1971 a proposito della sua tradu­ zione di una raccolta di scritti di Jean-Luc Godard. La rifles­ sione si adatta perfettamente anche al problema della tradu­ zione dei suoi scritti.

Il mio grazie a Frieda Grafe, Enno Patalas, alla Cineteca del Comune di Bologna, ai traduttori Elena Broseghini e Lu­ ca Vitali per aver reso possibile l’edizione in lingua italiana di questa raccolta. Mariann Lewinsky maggio 2002

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Filmtips

Nit Untartitolai

Be^n Streets. 1973» von Martin Scorceee. Br drahta dioson Film ein Jahr vor Alice lebt nicht mehr hler. Bine Gaechiohte von Dead Eted Kida in Hew Yorks little Italy. Vergilehen nit Hollywood!Ilmen tthnlicher Thematik let diea Hyperrealismue. Im Original, beute und morgen, 22.3o Uhr, in Europa. Weitere Original!eeeungen. Nit Untertitelnx a.Buat n.tti Opera, mlt den Marx Brothers, hie Montag, 22.3o Uhr, in Theat1ner. flfl fair von Julian Duvivier, beute, 18.3o und 22.3o Uhr, im Isabella. Oraye. von Stanley Kubrick, bis Sonntag, 22.3o Uhr, in Eldorado. Ohne Untartiteli fljjgg{g, von Brooks, bla Sonntag, 22.4o Uhr, in Leopold. W41, Ton Huston. Bogart ala San Spade 1st wirklich inswischen ain alter Hut| aber vielleicht, mal sur Abwecbeelung, sin auefUhrlicheres Auge auf die perverse Heldin rlskieren, auf die smarts Brigid O’Shaughnessy, auf Nary Aetor. Norgen in der Lupe 2. Films von Orson Welles Im Stadtmusoum. Haute, 18 Uhri m Lady fryf 1946. Brigids Schwester. Mur daft in dieses Film Biographisohes mitsnielt. Welles tremte slch von seiner Frau Bits Hayworth, indem er kurserhand ihren Mythos wit und im Kino serschlug. - Haute, 21 Uhri 1948. Norgen, 18 Uhri àf* 1942. Morgan,! 21 Uhri 1941. 1921* Auch Frits Lang began», wie Welles im Citlsen Kana, seine Barriere mlt einer Beflexion Ubers Enda. Montag, 19 Uhr, im Cinomonde. und Dienetag, Chaplin-Fllme der Jabra 1915-171 H j grant *Tha Vagfrboftd u.a. Boland Barthes orklKrt unsor OlUck mit Chaplin soi mit sei­ ner komponierten, absolut kUnetlichen Kunst hob ar dan alten Gage neats auf swisohen Blits- und Naseenkultur. Haute, 19 und 23 Uhr, im C inomonde. |H °* 1932» Tori Bobert Flaherty. Wie Menschen ohna Erda le ben, nor vom Warser und auf nacktam Stein. Der Nenech von Aran let ein anderar Mensch. Bls Nittwoch im Werketattkino, Fraunhoferetrafie 9. Das Cinema an dor Hymphenburger Strafie verlohnts denon, die den etwas weiteran Weg su ihm hinaus machen, neuerdIngs mit elnem Doppelprogramm sur Nachtvorstellung, dieemal mit Nusiki

atook (Jimi Hendrix, Joe Cocker, Arlo Guthrie.,,) und Ferfor-

mancg (Mick Jagger), Morgen, ah 22,45 Uhr. - Auflerdem Im Tagea-

programm am Montag Win Venderà* erate Setae durch Deutechi andi

Im ABC, am Freitag, naeh der Abendvoratellung Dlakusalon mlt Hark Bohm Uber daa Jugendverbot aelnea Filma Kordaoe _lat ^ordg S£Sa Beseichnenderweiae aind die Zenaoren Immer dann urn unaere aUBen Klelnon beaorgt, wenn ea urn den Ast geht, auf dem die Al­ tea aelbat eltsen, Aua verglelchbaren GrUnden bllob Vigos Penntt-

lerfilm Zero de oondulte viereahn Jahre lang verboten,

Dattiloscritto di un Filmtip, maggio 1976

F.G.

«So quello che voglio dire, rifletto prima di parlare per essere sicura che è proprio quello che devo dire - pfft! -, improvvisamente non sono più in grado di dirlo» dichiara Nana... Così Frieda Grafe iniziava la sua prima recensione cine­ matografica, pubblicata nel 1962 e dedicata a Vivre sa vie di Godard. Il suo primo articolo, Vom naiven zum sentimentalischen Film (-Dal film ingenuo al film sentimentale»), pubblicato l’anno precedente, trattava del nuovo cinema francese e italiano (si veda sotto, p. 281). Il continuo e in­ tenso confronto di Frieda Grafe con la nouvelle vague e con i suoi autori, durato quattro decenni, viene qui percorso ra­ pidamente attraverso tre testi su film di Godard allora appe­ na usciti (attorno al 1960, al 1980 e al 2000), più due ri­ flessioni retrospettive, a distanza crescente. Fondamentale è stato anche il suo lavoro di mediazione culturale, ovvero la traduzione e la pubblicazione degli scritti di Godard, Truf­ faut e Rohmer, il testo del 1964 con cui si apre questa rac­ colta è apparso in origine come postfazione alla sua tradu­ zione della sceneggiatura di Vivre sa vie.

Vivre sa vie (1964)

All’inizio del film la cinepresa scorre lungo la schiena di una coppia seduta a un bar e immersa in una conversazione. La parete a specchio dietro al bancone lascia intravedere di quando in quando i frammenti di un viso maschile e femminile. Ma non c’è certezza che si tratti dei volti dei due che parlano. Il dialogo non è quindi affatto una introduzio­ ne irrilevante, riveste invece una decisiva importanza per ambedue le persone. Questa scena implica un intero programma estetico. Da subito indica allo spettatore ciò che ci si aspetta da lui e che cosa lo attende. Siamo abituati a film in cui immagine e parola hanno un carattere complementare, in cui l’una conferma l’altra in una imitazione illusoriamente verosimigliante della realtà. I dialoghi vengono inseriti in modo che chi parla e chi ascol­ ta siano mostrati nelle loro reazioni, procedimento dramma­ turgico questo che suggerisce una costante, assoluta unità di apparenza esteriore e parola in relazione al personaggio, e in cui ogni enunciazione è un’enunciazione essenziale, parola essenziale che dischiude, illuminandolo, l’essere au­ tentico dei personaggi. In Godard non c’è questa combinazione funzionale di parola e immagine che pretende di cogliere l’intima natura dei personaggi e di fornircene un quadro completo. Invece si fa comprendere come la parola non accompagni sempli­ cemente l’immagine. Essa anzi viene equiparata all’immagi­ ne come fattore espressivo indipendente. Invece del tranquilizzante accordo di immagine e parola che concorre a incrementare la trasparenza della rappresentazione, in Vivre 17

FRIEDA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

sa vie (Questa è la mia vita) attraverso la costante dissocia­ zione di immagine e parola rappresentazione e mezzi di rappresentazione vengono relativizzati. Questa separazione, inoltre, risulta in una duplice prospettiva: la prospettiva dei personaggi rappresentati e la prospettiva di colui che li ve­ de. La cinepresa di Godard mantiene le distanze, registra. Godard rinuncia a imporre un’opinione allo spettatore me­ diante manipolazioni drammaturgiche. La pretesa di realtà della sua arte non si fonda su una imitazione della realtà, si manifesta anzi nella rivelazione del suo carattere fittizio. L’effetto primario di questo procedimento è la distruzione dell’illusione. Allo spettatore viene impedito di soggiacere a una fascinazione totale. Gli si fa capire che non assiste alla realtà, ma a un film che mostra aspetti della realtà. Il giudi­ zio sul grado di veridicità viene lasciato allo spettatore. Questa separazione di immagine e parola mostra inoltre come gli aspetti emergenti di un dato dipendano dal me­ dium utilizzato. Così la suddivisione del film in dodici qua­ dri attraverso didascalie non è solo un mezzo per rallentare il flusso narrativo e per indicare che il film non è il raccon­ to di un’evoluzione continua. Le didascalie dimostrano co­ me un enunciato linguisticamente formulato e fissato per iscritto sia una versione di una realtà rappresentata che si differenzia dalla rappresentazione per immagini e attraverso il dialogo. Si potrebbe considerare questi tentativi di relativizzazione di Godard come scaramucce estetiche. Ma che sia in gio­ co di più, che sia in gioco la nostra comprensione della realtà mediata dalle forme, diventa evidente quando egli at­ tacca sistemi di segni sulla cui autenticità siamo soliti edifi­ care le nostre idee di realtà. Godard combina le sue imma­ gini fittizie sul lavoro delle prostitute con statistiche sulla prostituzione. Questa duplice prospettiva rende palese co­ me la validità di un enunciato relativo alla realtà sia indi­ pendente dall’obiettività del mezzo espressivo. Lo stesso va­ le per la scena nell’ufficio di polizia, quando Nanà declina le proprie generalità. Certo che tali dati siano un aspetto 18

VIVRE SA VIE

della persona di Nanà. Ma non a caso proprio in questa scena Godard fa dire a Nanà, leggermente modificata, la ce­ lebre frase di Rimbaud tratta dalle lettere del Veggente: Io è un altro. E ancora, quando Nanà misura a spanne la propria statura, i gesti con cui lo fa dicono di più sulla sua persona che non il numero di centimetri. Alla domanda di impiego che scrive alla futura datrice di lavoro Nanà vuole allegare una foto. Nella lettera sta scritto che ora porta i capelli cor­ ti, ma che ricresceranno rapidamente. Allora non assomi­ glierà più a Louise Brooks, ma piuttosto a Brigitte Bardot, come Bardot con la parrucca nera in Le mépris (Il disprez­ zo) assomiglia a Karina. Né il fatto che la sua apparenza sia fissata in immagine, né l’apparenza stessa autorizzano quin­ di un enunciato definitivo sulla realtà. In questo film ci sono molte citazioni. Sono state perlo­ più intese come semplici paragoni, esempi che danno una spiegazione o interpretazione tesa a convalidare la rappre­ sentazione. Ma a ben vedere risulta che essi svolgono pro­ prio la funzione opposta. Godard non afferma che Nanà è come Giovanna d’Arco o Portos, così come non afferma che Vivre sa vie sia la realtà. Gli inserti nelle storie sono piuttosto una specie di appa­ rato critico, varianti tanto della tematica quanto della moda­ lità di rappresentazione del film. Non vi è alcun motivo concreto per interpretare il tema scolastico sul pollo come un parallelo, più o meno defor­ mato e ridotto, del film su Nanà. Si tratta piuttosto di una parodia della separazione essenzialista di forma e contenu­ to. Godard non dice mai che Nanà preserva un cuore puro malgrado il suo lavoro sporco. Godard non intende il suo personaggio soltanto come segno di qualità astratte. Prende sul serio i personaggi nel loro essere così come sono. Il fotoromanzo che la commessa legge nel negozio di di­ schi, pur avendo qualche concordanza di contenuto con il destino di Nanà, rappresenta tuttavia una riflessione sull’af­ fermazione estetica che questo film ripete in sempre nuove forme: la credibilità di un contenuto si costituisce solo me­ diante la forma. 19

FRIEDA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

Si vede Nanà a una proiezione del film su Giovanna d’Arco di Dreyer. Dato che in entrambi i casi si tratta di gio­ vani fanciulle, che alla fine del film muoiono, ci si è spinti alla stravagante affermazione secondo cui Godard avrebbe voluto elevare Nanà al rango di una santa. A prescindere dal fatto che quanto premeva a Godard era soprattutto rap­ presentare la fascinazione o l’influenza esercitata dall’arte, si potrebbe, se proprio si vuole tracciare un parallelo conte­ nutistico, con altrettanta ragione sostenere che Godard qui offra una variante storica sul tema della libertà di una don­ na in una società maschilista. Nemmeno nel racconto di Poe II ritratto ovale si può rav­ visare un paragone con quanto fa Godard. È piuttosto una parafrasi del suo concetto d’arte. È un errore voler afferrare, poiché questo sarebbe un attentato alla libertà della realtà; si deve arrivare a trarre profitto dalle cose, senza afferrarle. Questa è un’affermazione di Godard rilasciata nel corso di una intervista a Jean Collet. L’arte di Godard è un’arte di­ stanziata, per quel che riguarda sia i suoi personaggi sia il suo pubblico. Essa si pone in ogni momento come qualco­ sa di artefatto, e non come un surrogato della realtà. Questo non significa che Godard proponga un’arte senza rapporto con la realtà. La tecnica citazionista fa vedere come per Go­ dard l’arte non sia una forma, ma un fattore della realtà, che produce il suo effetto accanto ad altri fattori. Godard mostra l’arte in azione. Questo è il senso della citazione di Poe o del brano tratto dal film di Dreyer: l’arte si realizza solo nel confronto con l’uomo. Non interessa Godard ciò che, eleva­ to in base a paradigmi sempre mutevoli ai ranghi dell’arte, si riempie di polvere fra le copertine di un libro o su una striscia di celluloide. Il concetto d’arte di Godard è relativo. Quando nei suoi film mostra gli effetti dell’arte, non lascia alcun dubbio sul fatto che egli li ritiene dipendenti dalla disponibilità del sin­ golo. Il film di Dreyer sconvolge Nanà, ma non tocca quasi chi le siede accanto; il racconto di Poe affascina il pittore decisamente di più di Nanà; il racconto di Dumas impres­ siona il filosofo mentre Nanà non sa che farsene. 20

VIVRE SA VIE

La relativizzazione dell’arte non ha nulla a che fare con uno scetticismo a buon mercato. Significa piuttosto una umanizzazione. L’arte appare quindi come qualcosa fatto dall’uomo, qualcosa di temporale. Godard le strappa il velo numinoso che le intessono intorno coloro per i quali gli ar­ tisti ancora sono beneficiati dalle muse e che nell’arte vedo­ no ancora una sorta di Super-realtà. Godard non si sente comunque un genio originale, co­ me dimostra, fra l’altro, la sua tecnica citazionista. Mette in pratica il modo di lavoro che Brecht diceva più adeguato al­ la nostra epoca, e che descriveva come una modalità collet­ tiva capace di sintetizzare tutte le esperienze precedenti per giungere a una descrizione più ravvicinata e valida della realtà. Il film di Godard potrebbe anche consistere per nove decimi di citazioni. Ma che ci importa oggi degli edifìci che uno è in grado di erigere da solo? È una citazione tratta da Brecht, da un racconto che s’intitola Originalità.

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Ventanni dopo Che cosa è stata la nouvelle vague (1981) Quando Truffaut e Godard sul settimanale «Arts- e sui «Cahiers du Cinéma» partirono lancia in resta contro la ban­ da dei quattro - Autant-Lara, Clouzot, element e Delannoy - li legava una giovanile impudenza e un irrefrenabile amo­ re per il cinema. Non volevano migliorare il mondo, il loro impegno era consacrato al cinema. Roland Barthes, che nel­ la Quinta Repubblica di De Gaulle incarnava la quintessen­ za dell’essere di sinistra, quando i primi film della nouvelle vague suscitarono scalpore sulla stampa, affermò sbigottito che ora il talento si era rifugiato a destra. Essi non reclama­ vano per sé in primo luogo le poltrone occupate dagli esponenti della vecchia generazione. A loro premeva far passare nell’ambiente cinematografico francese un’altra concezione di cinema. E non si sognavano nemmeno di modificare la riflessione sul cinema a livello mondiale. Così disse in seguito il critico americano Andrew Sarris. Faceva­ no il tifo per un certo cinema americano, ma lottavano con­ tro il sistema di produzione americano a favore di un cine­ ma nazionale, a favore dei film di Renoir, Cocteau, Becker, Bresson. Oggi si strapazzano pesantemente. Truffaut a proposito di Godard: è invidioso in maniera ossessiva; Godard contro Truffaut: è diventato ciò che disprezzava, un fabbricante di storie, che oltre al tono autobiografico ha smarrito anche il senso morale. Un tempo ognuno dedicava all’altro le formulazioni più belle: «Così come stanno ora le cose, meglio delle domande e delle risposte è il fluire dei sentimenti che si perde nel 22

CHE COSA È STATA LA NOUVELLE VAGUE

mare delle riflessioni, e anche immediatamente il contrario, meglio le dissolvenze, le dissolvenze, le dissolvenze, sino a togliere il respiro, come spesso accade in Francois e solo in lui, perché gli altri non ne sono capaci-. Così, tradotto in parole, è Jules et Jim e Catherine fra loro e il pianista Edouard con i suoi tre fratelli armeni. La loro forza allora, stando all’opinione oggi di Godard, non consisteva unicamente nel fatto che perseguivano il medesimo obiettivo: parlavano tra loro, si scambiavano idee sul cinema. Nel suo ultimo film Sauve quipeut - la vie (Si salvi chi può - la vita), quelli che si amano si prendono anche a botte. E osservano tristemente come in questo mo­ do abbia luogo almeno una comunicazione concreta. Godard girò À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) sugli appunti di sceneggiatura di Truffaut. Truffaut preparò il terreno con Les quatre-cents coups (1400 colpi), che per decisione di André Malraux rappresentò nel 1959 il cinema francese a Cannes. Sempre per decisione di Malraux il festi­ val di Cannes nel 1968 naufragò, quando vi fu un tentativo di togliere a Henri Langlois la direzione della Cinémathèque. Era la fine della nouvelle vague, poi arrivarono i figli di Marx e della coca-cola. I registi divenuti nel frattempo fa­ mosi fecero in modo che Langlois rimanesse al suo posto. Un modo per sdebitarsi, visto che la loro formazione era avvenuta alla Cinémathèque.

Dilettanti semiacculturati Nell’opinione generale ciò che definisce la nouvelle vague è il modo diverso di produrre film: con budget limitati, senza studios e star, utilizzando una piccola équipe. Le condizioni suggerivano ai registi anche i soggetti. I loro critici dicevano che erano dei dilettanti, che non avevano nulla da dire, che rifiutavano l’impegno e si rifugiavano nel formalismo. Che qualcuno appartenga alla nouvelle vague, ne sia il precursore o il beneficiario, dipende dal suo modo di porsi, 23

FRIEDA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 19612000

positivo o negativo, rispetto al movimento. Il citatissimo saggio di Alexandre Astruc sulla «caméra-stylo», se dapprima ha risvegliato un nuovo pensiero intorno al cinema, alla fi­ ne ha vincolato nuovamente il cinema in maniera ancora più salda alla letteratura. La pointe courte (La punta corta) di Agnès Varda fu il primo film indipendente della giovane generazione, ma non condivideva le idee sul cinema della nouvelle vague. Louis Malie è sempre stato un outsider, e in quale misura, soprattutto in rapporto al cinema americano, lo ha dimostrato oggi Atlantic City. -Dal momento preciso in cui si fanno film, non si possono più fare quelli che ti hanno fatto venire voglia di fare film- (Godard). Alain Resnais si distingue per i suoi soggetti. Tutti gli au­ tori dei «Cahiers» si espressero in termini entusiastici su Hi­ roshima mon amour. Per loro era il primo esempio di cine­ ma sonoro moderno. Attraverso il mutato rapporto immagine/testo era nato il nuovo modo narrativo filmico. Emma­ nuelle Riva apparve loro la prima immagine di donna adul­ ta sullo schermo. Avevano visto qualcosa in Hiroshima. La politique des auteurs causò un punto cieco nei loro occhi, che impedì a coloro che la propugnavano di riconoscere come il nuovo derivasse dal testo prettamente letterario di Marguerite Duras, dove si spalancavano gli abissi che sem­ pre in ogni amore si spalancano tra uomo e donna, tra pas­ sato e presente, qui infinitamente rafforzati da altre antino­ mie, Giappone-Europa, documentario-fiction, rappresenta­ zione-immaginazione. Con le sue carrellate Resnais ha sta­ bilito collegamenti tra incolmabili distanze. Marguerite Du­ ras è contraria al cinema imposto dalla nouvelle vague. Ma, al di là delle diatribe, per tutti gli autori essa rappresenta il fenomeno più importante del cinema francese odierno. La nostra forza di critici, dice Godard nella sua storia del cinema, risiedeva nel fatto che non esercitavamo della criti­ ca in senso stretto, ma parlavamo dei film altrui in qualità di registi. Il nocciolo duro della «nuova ondata* era costituito dagli autori che collaboravano ai «Cahiers»: Rohmer, Rivette, Chabrol, Truffaut, Godard. I loro giudizi avevano valore tat­ 24

CHE COSA È STATA LA NOUVELLE VACUE

tico ed erano utilizzati in chiave polemica. Essi lanciavano formule che, tradotte in realtà fino a essere irriconoscibili, sono ancora oggi in circolazione. In alcuni paesi persino sotto forma di teoria. Lanciarono la moda della critica-inno, che metteva in mostra i propri pregiudizi, ma teneva sempre d'occhio lo specifico filmico. Da noi è degenerata in critica di servizio. Si è conservato il tono della presa di posizione soggettiva, poiché esenta comodamente dall’analisi. Così qualsiasi film, basta che sia nuovo, può essere consigliato a) consumatore, e si diffonde la sensazione che nel cinema accadano in con­ tinuazione eventi straordinari. Con entusiasmo i cineasti-scrittori risvegliarono la consa­ pevolezza delle forme specifiche del proprio medium defi­ nendo la propria arte per mezzo delle tecniche relative a ta­ li forme. Ad avviarli su questa strada era stato il loro padrescrittore André Bazin, che per la critica francese impersona­ va ciò che Kracauer, sulle orme di Adorno, rappresentava per i tedeschi, con una grande differenza: la scrittura di Ba­ zin, così spesso intrisa di filosofìa idealistica, portò la giova­ ne generazione a una comprensione più materialista che non l’approccio sociologico di Kracauer, a cui non importa­ va capire -per quale ragione?», in quanto gli interessava uni­ camente «a che scopo?». L’uso dei mezzi tecnici doveva essere preceduto dalla ri­ flessione, questo era il loro postulato. La celebre afferma­ zione secondo cui una carrellata rivelerebbe la posizione morale del regista - volendo, vi si può avvertire l’eco di Sar­ tre: qualsivoglia tecnica rimanda a una metafisica -, non è farina del sacco di Godard, che l’ha soltanto utilizzata, è sta­ ta formulata da Lue Moullet e apparve in un articolo pro­ grammatico su Fuller. Cominciava così: -I giovani registi americani non hanno nulla da dire e Sam Fuller ancora me­ no degli altri. Egli ha qualcosa da fare e lo fa con naturalez­ za, senza il minimo sforzo. Non è un complimento da poco. Disprezziamo i filosofi falliti che preferirebbero fare il cine­ ma senza il cinema e si limitano a imitare le scoperte delle 25

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altre arti. Se hanno qualcosa da dire, che lo dicano, che lo scrivano, che lo predichino se ne hanno voglia, ma ci lasci­ no in pace*. Moullet oggi è il più importante cineasta della seconda generazione dei -Cahiers*. Ignorato da noi come lo sono i film di Marguerite Duras. Non erano cinefili, il loro rapporto con i film altrui era troppo attivo. Non volevano che l’utilizzo cieco del mezzo atrofizzasse la capacità del cinema di contribuire a modella­ re la realtà. Quando noi in Germania tentammo la stessa cosa e cercammo di fare del cinema oggetto di riflessione, coloro che vedevano minacciato il proprio godimento di consumatori si infuriarono dandoci dei -cineasti*. A ragione; il fatto che nel definirci si sbagliassero, dal momento che non cineasti intendevano ma cinefili, era da imputarsi alla foga dello scontro. Quanto infatti i cineasti facevano era cri­ tica a livello pratico, sul piano visivo. A Parigi, dove le mo­ de fioriscono più velocemente e della psicoanalisi di Lacan traboccano le pagine culturali dei giornali, la cinefilia nel frattempo viene criticata come variante cinematografica del feticismo. La parola d’ordine della politique des auteurs fu lanciata per primo da Truffaut nel febbraio del 1955, nel corso di un dibattito per difendere la pellicola Ali Baba et les quarante voleurs (Alt Babà e i quaranta ladroni) di Jacques Becker. La formula gliel’aveva fornita Giraudoux. E recita in lui così: non esistono le opere, esistono unicamente gli autori. Truf­ faut parafrasò: -La politica degli autori consiste nel fatto di negare l’assioma tanto amato dai padri, secondo cui le cose con i film devono andare come con la maionese, che a vol­ te riesce e a volte no*. Truffaut nota come fosse irrilevante che il copione di Becker fosse firmato da dieci co-sceneggiatori, l’autore del film restava in ogni caso Becker. Si trat­ tava di spostare lo sguardo dalla sceneggiatura alla realizza­ zione. Chiamavano autore un regista che garantisse loro lo specifico filmico. Dalla struttura di fondo desunta dalla let­ tura dell’opera complessiva di un regista estrapolavano sin­ gole particelle elementari di un linguaggio cinematografico generale. 26

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La drammaturgia di Godesberg André Bazin metteva in guardia i suoi giovani autori dai pericoli di un culto estetico della personalità in agguato die­ tro al loro metodo. Gli sembrava problematico cogliere l’ar­ te cinematografica, di per sé popolare e collettiva, tramite una concezione derivata dalle arti individuali. I giovani non si facevano problemi, non gliene importava un fico secco di definizioni corrette, scrivevano da agitprop. Per i loro av­ versari questa politica era la prova di un regredire ai tempi della riflessione sul cinema pre-kracaueriana. La nouvelle vague non era solo uno dei molti movi­ menti del «cinema giovane», che nelle sue varianti naziona­ li restava pur sempre essenzialmente un distacco dalla vec­ chia generazione, e non era neppure semplicemente un modello a cui rifarsi. La sua importanza si dispiega nella differenziazione fra politica degli autori francese e cinema d’autore tedesco. Nessuno dei giovani francesi di allora poteva vantare idee sociali e politiche altrettanto chiare di quelle con cui Alexander Kluge promosse lo sviluppo del cinema che portò il denaro nelle tasche non dei produttori ma dei cineasti. Il nostro cinema d’autore iniziò come mo­ do di produzione, i mutamenti estetici arrivarono con la generazione successiva ai firmatari del manifesto di Oberhausen. Nel 1966 Godard dedicò Made in Usa (Una storia americana) a Nicholas Ray e a Sam Fuller, -che mi hanno insegnato il rispetto per il cinema e il suono». Nel 1978 Wim Wenders filmò, riprendendoli in maniera semi­ documentaristica, gli ultimi giorni di Nick Ray: il suo con­ gedo dal cinema americano. Nella concezione del cinema d’autore rientrava, in fun­ zione complementare, il cinema di genere. Tale concezione venne utilizzata in prevalenza per difendere i registi hol­ lywoodiani, visto che la variante più estrema dell’«autore al­ la catena di montaggio» a Hollywood andava per la maggio­ re. Che cosa fa di Renoir, Ophuls, Rossellini e Bresson, Bergman e Antonioni degli autori, si comprendeva da sé. 27

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Ravvisavano la migliore illustrazione del cinema di gene­ re in pellicole di serie B, in piccoli film noir giraci da emi­ granti europei che avevano sviluppato un fiuto particolare per i conflitti dell’individuo nella società industriale di mas­ sa americana. Questi piccoli film ben si prestavano per po­ lemizzare con le pellicole dai soggetti prestigiosi, in cui la problematica finisce per eclissare le immagini. Dopo Les quatre-cents coups Truffaut girò Tirez sur lepianiste (Tirate sul pianista) perché il suo primo soggetto gli aveva attirato falsi ammiratori. Godard non permise nemmeno che questi equivoci avessero luogo, dedicò À bout de souffle a una pic­ cola e scalcagnata casa di produzione di Hollywood. Claude Chabrol, che faceva parte del nocciolo duro delia nouvelle vague, per tutta la vita è rimasto bloccato nel cinema noir. Le sue interviste a Hitchcock, il libro su Hitchcock stesso scritto a quattro mani con Rohmer, un saggio più corposo dedicato ai film gialli, hanno rappresentato, prima che ini­ ziasse (primo tra tutti) a girare film, il suo contributo allo sviluppo del nuovo cinema. L’intenzione si fa palese nei suoi film più tardi: è quella di fare del -cinema di costume francese- appoggiandosi al cinema di genere. Ma il cinema di genere ha le sue radici in America ed è un passepartout solo per la visione europea dell’arte. Per poter fare film co­ me quelli di Hitchcock è necessario che anche nelle inqua­ drature più insignificanti ribollano le angosce del regista. La concezione del cinema d’autore ricorreva alla lettera­ tura per risvegliare, andando oltre il conosciuto, il senso del diverso. -E attirare l’attenzione su noi stessi, i nuovi altri- di­ ce Godard. -Hitchcock è più grande di Chateaubriand- non voleva dire che ambedue facessero la stessa cosa e uno me­ glio dell’altro. Il cinema di genere correggeva in anticipo l’enfasi. Con il cinema il rapporto tra espressione collettiva e individuale in arte aveva trovato un nuovo assetto. E il rapporto fra dentro e fuori si sposta radicalmente. Che non si dovesse guardare in primo luogo al linguaggio come a un mezzo di espressione soggettiva - cosa che la letteratura so­ lo a fatica impara - fu chiaro fin da subito nel cinema. La 28

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forza del cinema americano consisteva nel fatto di non es­ sere mai il mero mezzo espressivo del modo di vivere ame­ ricano. Di questo modo è diventato parte costitutiva. Così si spiega la funzione più attiva che vi svolge il pubblico. An­ che se l’industria fa i film per il pubblico, quest’ultimo è presente nel cinema di genere ben prima delle speculazioni finanziarie. •È nella logica delle cose, il genio creativo della macchi­ na era qua ed esercitava un fascino più forte di quello del­ l’inventore. La fascinazione si irradierà sempre più da Lu­ mière che da Méliès, dal mero impiego della scoperta più che dall’utilizzo per quanto geniale di coloro che con essa realizzano qualcosa» (Rivette). Fra i registi che operano nel sistema del cinema commerciale Godard è l’unico che cambia il cinema cambiando l’uso del macchinario. Noi abbiamo un piccolo Godard, abbiamo Hellmuth Costard, che diffida delle fantasie dei copioni e lascia guardare le sue cineprese.

Minuti e minuti senza un taglio Il tentativo di codificare il linguaggio cinematografico at­ traverso la descrizione delle sue forme si scontrava con av­ versari tanto più agguerriti in quanto gli stessi autori della nouvelle vague avevano acuito la percezione del pubblico per le componenti documentaristiche del cinema del neo­ realismo. Dal lessico fenomenologico delle analisi di André Bazin sul neorealismo si evince, contrariamente a come di solito si immagina la catena causale, che non sono state le idee filosofiche a infiltrarsi in un mezzo espressivo. All’e­ sterno i vecchi confini rimanevano intatti. E tuttavia è stato il modo di ritrarre il mondo esterno reso possibile dal cine­ matografo a modificare il pensiero. In Germania c’è stata la tendenza a spiegare lo sviluppo del cinema francese negli anni Cinquanta e Sessanta con le correnti di altri ambiti artistici. Attraverso Resnais e il suo 29

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L’année dentière à Marienbad {L’anno scorso a Marienbad), il rapporto con il nouveau roman era tangibile. Ma assumere i metodi dello strutturalismo come parametri per valutare quanto la critica cinematografica si prefìggeva non faceva che ricondurre tutto al linguaggio. L’esempio di Robbe-Grillet parla da sé. Se ha fatto cattivi film non è perché muoveva dalla letteratura. Nel cinema non esistono le inva­ rianti sulla cui base lo scrittore elabora le proprie varianti e produce invenzione narrativa; quando nel cinema una im­ magine ne incontra un’altra, entrambe si modificano. È così che nasce il movimento. Ciò che lega la nouvelle vague allo strutturalismo, più ancora che alla semiologia che da esso si sviluppò, è la sua attenzione per l’organizzazione della materia fìlmica. Non sono le cose a contare, dice Roland Barthes, ma il loro po­ sto, la loro collocazione. In Alphaville, une étrange aventu­ re de Lemmy Caution {Agente Lemmy Caution, missione Alphaville), che poi è Parigi trasformata in una città dalle in­ segne luminose, Barthes doveva interpretare una parte. Ri­ fiutò. Quando gli si disse che non amava il cinema, corresse affermando che gli resisteva. Dal punto di vista della tecnica cinematografica la nou­ velle vague è stata l’epoca della definizione della mise en scène. Il neorealismo aveva interdetto il montaggio come autoritario. Anche il cinema del primo Renoir e di Orson Welles, con la sua profondità di campo e le sue azioni si­ multanee, sembrava loro ancora troppo legato allo spazio del palcoscenico con il suo boccascena. Il procedimento che essi privilegiavano era il piano-sequenza. Più che affer­ rarle e fissarle, la cinepresa amava scivolare sulle cose, sugli eventi. Gli esponenti della nouvelle vague crearono un nuovo rapporto fra documentario e fiction. In altre parole, e da un altro punto di vista, essi facevano ricerca con film che erano al contempo spettacolo. Le loro narrazioni nascevano da luoghi reali. Ne è un valido esempio Paris nous appartieni {Parigi ci appartiene) di Jacques Rivette. Nel suo L’amour 30

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fou (L’amorefolte), che durava quattro ore, le vecchie cate­ gorie vengono infrante in maniera ancora più diversificata. Una troupe teatrale sta provando [’Andromaca di Racine. La vita privata fa la sua irruzione sulla scena e la lingua classica conferisce la propria impronta stilistica a problemi privati. Una seconda équipe che gira in 16 mm riprende la pièce teatrale come un tempo il narratore commentava fa­ zione. In Germania Rudolf Thome prosegue sulla strada aperta dal cinema di Rivette. Eric Rohmer concepisce il cinema tramite il romanzo co­ me Rivette lo concepisce tramite il teatro. Anche in lui i problemi con cui si trovano a confrontarsi i personaggi so­ no impensabili senza i luoghi dell’azione, Parigi, Saint-Tro­ pez, Clermont-Ferrand sotto la neve e Annecy. Luoghi che forniscono una prima struttura. In questi film i personaggi parlano tantissimo fra loro, ma non dialogano nel senso convenzionale del termine. Le parole servono solo a carat­ terizzare i personaggi. Non si parla mai in tono drammatico. Parlando si prendono decisioni. Il futuro si mescola già e in continuazione con ciò che si vede. I processi mentali ed emotivi si rivolgono all’esterno e coincidono con quanto viene detto. Le parole, associate alle immagini in maniera inedita, producono in questa estroversione una psicologia filmica. In modo tipicamente francese, Rohmer fa cinema nel solco della tradizione dei moralisti che con la parola scritta intendevano comunicare come pensieri e sentimenti prendessero forma. La sua tecnica discende in egual misura dal cinema muto e dal cinema d’azione americano. Nel cinema non vi sono né opere né autori, questa è l’ul­ timissima parola d'ordine di Godard. Ciò aiuta a scacciare la malinconia che ci coglie a volte quando oggi assistiamo a questi film, ciascuno dei quali allora ci sembrava una picco­ la rivoluzione. Nessuna opera d’autore, quindi. È stato un movimento che ha cambiato le cose.

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Jean-Luc Godard Filmare l’altra faccia delle montagne (1981)

Prima di iniziare le riprese, nell’agosto e settembre del 1959, di À bout de souffle {Fino all’ultimo respiro), Godard sapeva di voler fare un film sulla morte, sull’ossessione di morte del protagonista. Quello era il suo soggetto. Ma ave­ va resistenze a scrivere la sceneggiatura. Per questo il film si basò su vaghi appunti di Truffaut. Oggi Godard è in gra­ do di spiegare perché le sceneggiature contrastano con la sua idea di cinema. Lo fa di frequente e in modo dettagliato nelle interviste, nella sua storia del cinema e nel suo più re­ cente film Sauve quipeut - la vie (Si salvi chi può - la vita). L’idea di sceneggiatura vi è descritta come istigazione alla pornografia, il copione come mera ripetizione che soffoca la vita già in nuce. Come seguendo uno squallido copione, in un hotel di Ginevra un un uomo d’affari cerca di soddi­ sfare la sua voglia di sesso. Il metodo di Godard, di procedere senza prescrizioni, di non aggiungere inquadratura a inquadratura perché azioni e personaggi esigono tale connessione, ma di lasciare che siano le immagini, ciò che è visto, a guidare lo svolgimento, è erroneamente definito improvvisazione e a volte minimiz­ zato. Egli non fa di una mancanza virtù, non si lascia aperte tutte le porte fino all’ultimo istante. Elimina sistematicamen­ te ciò che per abitudine è assurto a norma. I raccordi sba­ gliati che in À bout de souffle avevano gettato nello sconcer­ to gli esperti risultano sbagliati solo se il filo conduttore è una precisa drammaturgia hollywoodiana. Godard se ne serve per spezzare la continuità delle storie narrate. Defini­ sce i suoi film tentativi, progetti, abbozzi, ricerche, happe­ 32

FILMARE L'ALTRA FACCIA DELLE MONTAGNE

ning. Non utilizza il cinema per una rappresentazione reali­ stica, rappresentazione che poi non è altro che un presente differito. Ciò che è compiuto nel cinema equivale a qualco­ sa di morto. Prima che le immagini assumano la forma chiusa di rappresentazione, Godard registra il processo del­ la loro genesi. La vita che egli vorrebbe salvare con il cine­ ma è quanto si rivela in singoli attimi, fra un'immagine e l’altra. In questo modo le vecchie differenziazioni fra -narra­ to, inventato- e -documentaristico- si dissolvono da sé. Per la prima volta le immagini sono immagini. E il prodotto del­ l’immaginazione per Godard sono -images- che si prolunga­ no, non invenzioni che prima passano per la testa. Quando oggi si riguarda La chinoise (La cinese), sbeffeg­ giato nel 1967 dalla sinistra perché i figli della borghesia e i rivoluzionari da manuale non restituivano lo stadio presen­ te della discussione ideologica, non si finisce di stupirsi del­ la precisione con cui Godard ha colto i segni del tempo, che diverranno manifesti per tutti, orizzonte quotidiano, so­ lo negli anni seguenti. Nella sua storia del cinema Godard cita Lubitsch: a un principiante che gli chiedeva la ricetta per commedie psicologiche di successo, Lubitsch avrebbe consigliato di filmare dapprima le montagne. -Chi sa filmare le montagne, sa anche filmare gli uomini-, Godard filma le montagne mostrando quanto sia difficile scalarle in biciclet­ ta. E poiché tanto nel caso della bicicletta quanto del cine­ ma si tratta di movimento, lo sforzo fisico dalle gambe si trasferisce agli occhi. Si teme che il film si arresti se Nathalie Baye non pigia forte sui pedali. Per la prima volta nella serie televisiva France tour de­ tour deux enfants e ora in Sauve qui peut - la vie, Godard rallenta le immagini, ma non con il solito effetto di dilata­ zione del ralenti. Frammenta le immagini per fissare parti­ colari, per vedere lentamente quanto succede rapidamente. Utilizza questa tecnica solo con le donne in quanto, afferma Godard, il movimento rallentato mostra gesti ed espressioni femminili che la velocità normale occulterebbe. Con la ve­ locità normale, invece, gli uomini mostrano già quanto han­ 33

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no da offrire. Si può credergli, se si vuole. Da sempre Go­ dard ha un modo particolare di prendere alla lettera ogget­ ti, modi di dire e anche tecniche portandoli così inaspettata­ mente a parlarci. Quando si pensi a quanto oggi viene rite­ nuto realistico, davanti alle immagini di Godard ci si può chiedere come sia stato possibile che un’unica velocità ab­ bia monopolizzato le molte espressioni del movimento. •Non è criticabile che i cineasti vadano in macchina, ma che il loro sguardo continui a fare i centoventi all’ora quando si recano sui pascoli per fotografare le mucche». Me lo immagino Godard, nel suo videostudio a Rolle in­ tento a decifrare certi segreti dietro le immagini, come il vo­ lontario Michelangelo in Les Carabiniere (J carabinieri) che al cinema balza sul palcoscenico per poter vedere meglio una bellezza al bagno. In Godard ci sono sempre stati que­ sti gesti che segnalano allo spettatore come il riflesso delle immagini sullo schermo non sia tutto quanto il cinema ha da offrire. La materia di cui sono fatte le immagini, la vita propria che esse hanno al di là di ciò che rappresentano, Godard l’ha colta e tradotta in modo affatto persuasivo ne L Anticipation. Le immagini pulsano come plasma. È come se si penetrasse in esse e si fosse presenti nel momento in cui il cinema ha origine. Ben prima della maggior parte dei registi cinematografici Godard ha cominciato a interessarsi alla televisione, non come a un mezzo per rappresentare, bensì come a uno strumento per fare ricerca. Quando rim­ provera alla televisione di non essere nemmeno capace di fare ciò in cui consiste la sua ragion d’essere, ossia produr­ re immagini dirette, vuole dire che tutti gli sguardi delie te­ lecamere producono solo decalcomanie bidimensionali au­ tomaticamente riverniciate di fiction. In Vivre sa vie {Questa è la mia vita) ha infuso vita alle immagini da cinegiornale, che diventano la base della sua storia. Il dramma di Giovan­ na d’Arco, su cui Nana versa al cinema le sue lacrime, si po­ ne a paragone della storia quotidiana di lei. Come siamo ir­ ragionevoli, noi spettatori, che ci lasciamo distogliere dalle nostre proprie storie tanto più facilmente quando esse si 34

FILMARE L’ALTRA FACCIA DELLE MONTAGNE

presentano incarnate da altri personaggi e come siamo due volte irragionevoli quando le storie ci appaiono più realisti­ che quanto più vengono rese verosimiglianti attraverso for­ me narrative obsolete. Quanto Godard stesso ami le vecchie forme narrative e ne pianga la scomparsa lo si riconosce dalle meravigliose immagini che mette in scena per mostrarci, in Weekend, l’assurda verità della finzione, con Pollicino e Alice condan­ nata a una morte terribile, a essere bruciata. E non si può certo dire che tutto ciò sia simbolico. Raramente libri sono stati bruciati in modo altrettanto reale. Godard ha sempre imboccato strade che andavano in di­ rezione opposta al percorso delle storie usuali del cinema. Laddove tutti gli altri vanno alla ricerca della continuità e della scorrevolezza, egli frantuma, anche nella speranza che quando due cose diverse entrano in urto, da ciò stesso ri­ sulti un piccolo dramma con il suo pathos. Fa cinema di montaggio, se lo si intende nel senso più ampio e si tengo­ no presenti la frantumazione e la composizione. La succes­ sione delle inquadrature non è per lui un mezzo per creare un effetto illusionistico. Le inquadrature non si susseguono mai fino a confondersi, restano addizioni, in cui le differen­ ze coesistono. È raro trovare in lui l’opposizione di «o que­ sto o quello», al suo posto invece catene di »oppure-oppure». I suoi dialoghi ping-pong, in cui è riconoscibile la pro­ venienza e l’impronta delle tecniche dell’intervista e dell’in­ chiesta, funzionano nel medesimo senso. Nelle sue trovate non si tratta più di identificarsi con uno dei due personaggi a confronto, essi sono troppo piatti per questo, troppo vici­ ni alla realtà. In definitiva le immagini determinano solo il ritmo che regola l’ascolto e scandisce il pensiero che l’ac­ compagna. Il montaggio, ha scritto Godard in un saggio apparso sui «Cahiers du Cinéma», è il battito cardiaco del cinema. Attra­ verso il montaggio egli trasforma la realtà filmata in segni per creare la distanza che consente di vedere. Nel montag­ gio rientrano anche strategie come quelle adottate nel suo cortometraggio Charlotte et son Jules, dove egli stesso dop­ 35

FRIEOA GRAFE - SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

pia Beimondo. Solo attraverso il suono il parlato diventa commento del personaggio. L’idea fu il risultato di un compromesso. Beimondo non era più disponibile al momento di registrare il sonoro. Ma per Godard anche gli impedimenti sono una realtà viva che mette in moto la creatività. Compromesso non significa per­ tanto prostituzione. In Une Femme mariée (Una donna spo­ sata) Roger Leenhardt lo definisce come il gesto intellettua­ le più coraggioso. La tendenza di Godard a fare ciò che può più che ciò che vuole ha fatto del cinema americano un esempio cui ispirarsi. Egli ha sempre cercato di realizzare tutti i cambiamenti nell’ambito del cinema commerciale, avrebbe voluto alla sua maniera fare film di successo, pen­ sati dal regista per il pubblico. Hitchcock è rimasto fino a oggi il suo grande modello. *Psycho piace perché gli spetta­ tori credono che Hitchcock racconti loro una storia. Questo spiega il fatto che Vertigo (La donna che visse due volte) in­ vece li sconcerti a quel modo-. Godard afferma di aver sempre voluto raccontare storie come le raccontano gli americani nei loro film ma di non esserci mai riuscito. Essi potevano, a suo dire, inventare se­ renamente delle storie perché a loro manca totalmente il senso della storia. Nelle sue storie Godard mescola sempre la sua propria storia. Si tratta per lui di una questione etica: da quando il cinema è nato le immagini sono penetrate tal­ mente in profondità nella nostra vita che sarebbe un ingan­ no fare come se esse fossero solo riflessi. Per Godard il cinema muto era rivoluzionario perché non dipendeva da scrittori di poco conto. Ma se anche egli con il suo cinema vuole ripristinare il potere delle immagi­ ni, non si può concepire un cinema più saldamente ancora­ to al linguaggio del suo. La parola scritta continua a irrom­ pere nelle sue immagini codificando e marcando, tagliente e aggressiva. Così egli scongiura la ancor più grande ag­ gressività delle immagini, che quando non sono mera ripe­ tizione ma scaturiscono da un’invenzione profonda, man­ tengono, proprio come un tempo, una carica sconvolgente. 36

Un movimento all’indietro con una certa tendenza in avanti (1995)

La svolta è avvenuta dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nuovi media annunciarono il cambiamento delle immagini prodotte in massa. Con la nouvelle vague, che non fu mai soltanto la pretesa frattura ottimistica e giovanile, iniziò per il cinema l’epoca della riflessione. E chissà, scrisse Godard su La Téte contre les murs di Franju, che questo cinema che si presume antiquato non sia, se non già quello di oggi, quello del futuro. I giovani registi del futuro andarono a scuola alla Cinémathèque Frangaise. Là, bravi e solerti, impararono le loro lezioni. Crebbero nella rispettosa ammirazione per un de­ terminato cinema, che apparteneva già al passato. Non è così che si diventa rivoluzionari. In un certo senso erano ancora meno d’avanguardia dei creatori del comico ameri­ cano. Non hanno sfasciato nulla, hanno soltanto tolto di mezzo ciò che comunque era già morto. Erano dei vandali con misura. Appartenevano alla stessa classe di giovani snob e alla ricerca di divertimenti di Les Godelureaux di Claude Chabrol, il quale - e questo è il massimo che egli si permette, quanto a finzione da studio mette in scena un party come piccolo film di genere pe­ plum. Con scenografìa naturale, s’intende. I party sono un luogo comune del giovane cinema francese. In Francia allo­ ra si diceva surprise-parile. Ciò che colpisce in quello che realizzarono, nei loro me­ todi da guerriglia per sovvertire un’industria stremata, è l’e­ lemento tipicamente francese, ovvero una tradizione di di­ 37

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lettantismo e di artigianato individuale, i cui sviluppi si pos­ sono studiare nel modo migliore nella strategia di iniziativa personale di Eric Rohmer per la produzione e la distribuzio­ ne dei propri film. Ma anche, sul piano formale, nel cinema a puntate con il quale crea delle serie e dei propri generi. Vi fu ancora una fonte a cui la nouvelle vague attinse, che non dovrebbe mai essere trascurata quando si studiano le invenzioni francesi: un sentimento nazionale di superio­ rità spirituale, la consapevolezza di una missione intellettua­ le che cammina di pari passo con l’impegno per sostenere la propria prassi, se non con la teoria quanto meno con la retorica. André Bazin, spiegarono i suoi allievi, era in grado di rendere la sua appassionata trattazione sulle condizioni fondamentali del cinema emozionante quanto i film di cui scriveva. -Il suo entusiasmo teorico...-. Già molto per tempo il cinema francese, sotto lo sguardo interessato di intellettuali e artisti, ha preso le distanze dalle forme di intrattenimento di massa. Quando dopo la guerra lo Stato, una prima volta nel 1948 con la loi d’aide, e poi nel 1953 con rinnovate misure, sostenne l’industria cinema­ tografica per cercare di contrastare il continuo calo degli spettatori, in tutte le esternazioni ufficiali si sentiva ripetere che il cinema in Francia faceva parte del patrimonio nazio­ nale, che era considerato parte dell’eredità culturale e per questo aveva bisogno di una protezione contro la valanga di cinema d’intrattenimento in arrivo daH’America. Si chia­ mava dunque in campo la qualità - la stessa qualità che di­ venne davvero famosa soltanto con il pamphlet nel quale Truffaut attaccava il tipico cinema -per la classe media-, scritto da sceneggiatori che avevano ambizioni letterarie: li attaccava non per il fatto che avessero perso di vista il gran­ de pubblico, ma perché non avevano le idee chiare su ciò che davvero era il cinema. Nel 1959, mentre stava prendendo forma il fenomeno della nouvelle vague, divenne Ministro della cultura André Malraux. Al Ministero della cultura è subordinato anche il Centre National de la Cinématographie, che dalla sua fon­ 38

UN MOVIMENTO All'lNDIETRO CON UNA CERTA TENDENZA IN AVANTI

dazione nel 1948 rappresenta la cultura cinematografica francese ufficiale. Malraux, al momento della sua nomina, dichiarò che lo Stato non deve dare all’arte alcuna direttiva, ma deve mettersi al suo servizio. Quando nel 1966 vietò La Religieuse {Suzanne Simonin, la religiosa') di Jacques Rivet­ te, tratto da Diderot, Godard gli scrisse una lettera aperta. Da pari a pari, in un certo senso. Non scrisse al regista che era stato un tempo; ma «perché siamo intellettuali, Lei, Di­ derot, e io, e questo dovrebbe certo offrire una base comu­ ne per comprenderci». La funzione degli intellettuali, che dalla fine della guerra dedicarono una grande attenzione allo sviluppo del cinema (meno al film inteso come arte e di più al suo impegno po­ litico), è parte imprescindibile della preistoria delia nouvel­ le vague. Grande influenza ebbe soprattutto Sartre, per tra­ mite del quale la fenomenologia raggiunse sia Bazin che Rohmer. Ma la sua incapacità di capire le immagini e la sua concezione del realismo limitata al letterario, dunque non coniugabile con la nuova concezione realista dei film italia­ ni, li portò a divergenze d’opinione inconciliabili. All’inizio avevano combattuto insieme sulle pagine della rivista settimanale di cinema «Écran Francis», che era nata dalla Resistenza e che sosteneva la nuova cultura cinemato­ grafica. Gli animi si separarono sul caso Citizen Kane {Quarto potere) in maniera sintomatica. Sartre vide il film nel 1945 a New York e ne scrisse un commento negativo: per i francesi non va bene, cose del genere qui ne abbiamo già avute a centinaia, Welles è un uomo notevolmente dota­ to, ma ha una prospettiva puramente politica, e vuole, con tutti i mezzi che si trova a disposizione, cinema, teatro e giornalismo, spingere le masse americane dalla parte del li­ beralismo. E tutto questo, per fare un film, non basta. Sulle stesse pagine gli rispose un anno dopo Roger Leenhardt, difendendo il film in occasione delia prima fran­ cese. Attorno a Leenhardt, con Bazin, Astruc e Tacchella, si formò un gruppo che si schierò per un nuovo tipo di cine­ ma, e si riunì nel cineclub «Objectiv 49», Cocteau e Bresson 39

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presidenti. Cineclub aspramente combattuto dalla vecchia guardia che, per massimo scorno di Bazin, li accusò di esse­ re esteti e formalisti: mentre Bazin nulla aveva più a cuore del mostrare che con il cinema «per la prima volta un’imma­ gine del mondo esterno si forma automaticamente, senza l’intervento creativo dell’uomo». Nel 1949 i dissidenti organizzarono il loro primo Festival du Film Maudit a Biarritz, con un programma di film margi­ nali, rifiutati dalla distribuzione e dal pubblico. Qui si incon­ trarono per la prima volta anche Rohmer e Truffaut. Uno degli organizzatori era Jacques Doniol-Valcroze, il primo ca­ poredattore di «Cahiers du Cinema», fondato nel 1952. La fi­ ne di -Objectiv 49» sarebbe stata preannunciata da un ballo in maschera, in cui Paul Gégauff, uno degli amici più cari di Rohmer, e poi sceneggiatore per lui, per Chabrol e Barbet Schroeder, fece scandalo apparendo vestito da ufficiale del­ la Wehrmacht - come poi Brialy in Les Cousins (/ cugini). Un gesto veramente coraggioso, commentò Chabrol, rivolto contro quelli che il più presto possibile, e a ragione, voleva­ no rimuovere e dimenticare l’epoca precedente. I registi della nouvelle vague, scrisse Edgar Morin nel suo saggio sulle condizioni in cui essa venne a formarsi, profittarono della crisi del cinema, e i loro film di questa fu­ rono i figli. In loro aiuto vennero anche nuovi mezzi tecni­ ci: le cineprese più leggere - gli aderenti alla nouvelle va­ gue furono i primi a servirsi per le riprese di fiction delle ci­ neprese Arri da reportage -, le pellicole cinematografiche più veloci, le lampade photo-flood. Ciò permise loro di gira­ re anche senza il permesso di chi deteneva le leve di co­ mando del settore, al di fuori degli studi e delle loro struttu­ re mummificate, sostenuti da produttori indipendenti come de Beauregard, Dauman, Braunberger e Raoul Lévy. La competenza pratica, anche se suona come un paradosso, quei giovani non l’avevano conquistata con anni di appren­ distato sui set, ma guardando i film.

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Solo il cinema, cinema e basta Bisogna non perdere di vista le circostanze del tempo, ovvero contro chi e contro quale realismo si rivolgessero le risposte di André Bazin alla domanda «che cos’è il cinema». Con i suoi assiomi cinematografici egli non combatteva solo per il medium che consentiva una obiettiva e completa resa del mondo esterno. Il suo nuovo realismo si differenzia in modo definitivo da quello delle altre arti. Non è fedele al principio della rappresentazione, è adeguato al cinema. Grazie alla cinepresa il cinema è un sistema di ripresa li­ bero dalle procedure di legittimazione delle altre arti, dagli sforzi di verosimiglianza e somiglianza. Anche la vecchia questione su contenuto e forma è ormai superata, e può es­ sere eliminata. I segni dei cinema sono incarnazioni. I suoi oggetti sono parte della presenza delle immagini fotografi­ che. Per illustrare ciò che intende Bazin si rifà volentieri a esempi tratti dalla storia naturale: nel film il modello è inte­ grato nell’opera e il rapporto tra i due, come per i molluschi e le loro conchiglie, è -un’architettura specifica, secreta da una carne senza forma». Per Bazin è fuori questione che anche il cinema sia un’arte, e per questo l’inconsueto rapporto che quest’arte ha con la natura viene a trovarsi al centro delle sue rifles­ sioni. Il cinema è l’arte delle relazioni, questa è la definizio­ ne di Bresson; e -relazioni» è il concetto chiave che dà ac­ cesso alla comprensione di ogni film degli Straub. Nulla è più falso - Bazin cita Renoir - dell’idea che il ci­ nema sia una serie di immagini pescate a caso, di per sé au­ tentiche. Le immagini in genere, a causa delle immagini ci­ nematografiche, hanno cambiato di status; e questo vale an­ che per le stesse immagini del cinema. Le immagini dipinte e quelle fotografiche non si trovano in competizione, fosse solo per il fatto che il loro rapportarsi alla realtà è fonda­ mentalmente diverso. Dalla teoria di Bazin i suoi allievi della nouvelle vague hanno tratto la conseguenza che per fare film vivi occorre 41

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avere un rapporto con il cinema di tipo esistenziale, e per questo i loro film contengono sempre anche un momento autobiografico. L’osservazione di Godard, secondo cui la scelta di una carrellata coinvolge la morale, non significa soltanto che un procedimento di tecnica cinematografica ri­ chiede una motivazione consapevole e fondata, invece di essere come nel cinéma de qualité un ghirigoro stilistico; la svolta è una pars pro loto, e dice che la morale nel cinema dipende dalla comprensione delle specifiche caratteristiche del medium. L’autore, che nelle altre arti veniva già dato per morto, nel cinema doveva ancora iniziare a essere sve­ gliato, non come inventore individuale che si cinge della corona d’alloro a proprio vantaggio, ma come istanza di re­ sponsabilità. Godard, che all’inizio, con le sue scelte a favore del montaggio e del decoupage classico, sostenne posizioni ri­ fiutate dai sostenitori della continuità, delle inquadrature lunghe e della profondità di campo, e che in seguito mise spesso in evidenza la propria distanza da Bazin, era tuttavia - è stato Serge Daney a offrirci questa riflessione - anche lui, come tutti quelli della nouvelle vague, in accordo con Bazin sulle cose fondamentali. Sei anni prima di lui si era già rivolto la sua domanda ontologica su cosa sia il cinema, sotto forma di titolo anteposto a un breve scritto in cui so­ steneva che tra Flaherty e Hitchcock, tra Nanuk in agguato per il bottino e il killer in attesa della sua vittima, non vi è alcuna differenza sostanziale, poiché in ogni caso lo spazio, e possiamo accorgercene, si trasforma nel luogo della no­ stra ansiosa attesa. Noi della nouvelle vague, disse Godard non molto tem­ po fa in un’intervista su Allemagne neufzero rispondendo a una domanda sulla funzione del frammento nel film, non abbiamo mai posto una linea di demarcazione tra docu­ mentari e film di fiction. Le immagini nel cinema sono in primo luogo documenti che provengono dal mondo delle cose visibili. 42

UN MOVIMENTO ALL'I NOI ETRO CON UNA CERTA TENDENZA IN AVANTI

La decisione di Godard di girare À bout de souffle con Raoul Coutard, che era stato corrispondente dall'Indocina e fotografo per «Life» e «Paris Match», risale a ben vedere a un consiglio di Jean-Pierre Melville, di girare con direttori di fo­ tografìa che avessero il meno possibile la patina della foto­ grafìa degli studi francesi. La finzione che quasi da sé scatu­ risce dalla realtà e si innalza, quando i desideri si materializ­ zano, dotati di tutte le caratteristiche della realtà - ecco l'in­ venzione che si addice al cinema. Le cose non stanno affatto come le ha descritte la storia del cinema, soprattutto quella americana: secondo la quale Bazin era il teorico e i critici dei «Cahiers du Cinema» ridu­ cevano i suoi progetti a giornalismo cinéphile - prescinden­ do del tutto dal fatto che la summa cinematographica di Bazin è costituita da una raccolta di interventi su riviste e di conferenze scritte per occasioni contingenti. Anche la storia del cinema negli anni Cinquanta aveva un’aura di attualità, a causa dei blocchi e della mancata distribuzione del perio­ do di guerra. L’impulso pedagogico di Bazin e la sua pro­ pria concezione del pubblico gli avevano proibito di eleva­ re il suo scrivere a campi troppo astratti. Per rendere tangi­ bile il nuovo realismo del cinema anche la scrittura doveva restare aderente al suo oggetto. Lo «specifico», allora spesso evocato e che oggi ci si pre­ senta con la serietà di una parola erudita, di un termine scientifico, allora era un grido di battaglia, una formula pie­ na di pathos. I suoi equivalenti, nella lingua quotidiana dei «Cahiers», sempre trionfante e esibita con grande orgoglio, erano: «soltanto il cinema può...», «prima del cinema non si era mai visto, non c’era mai stato».

Nella Francia profonda La vera natura del cinema si mostra nell’incommensurabi­ le, nei film che della peculiarità del proprio mezzo fanno un uso originale e meditato. Questo in Francia nei dopoguerra poteva accadere soltanto per strada e non negli studi, in luo­ ghi e località che non fossero già dei cliché cinematografici. 43

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L’osservazione di Rohmer, che ogni grande film è un do­ cumentario, scaturisce da questa concezione della mutata funzione del ruolo che ha nel cinema il luogo in cui si svol­ ge la vicenda. I registi della nouvelle vague per onestà cine­ matografica avevano sempre fatto soltanto film su ciò che conoscevano - ancora una di quelle frasi fatte e finite, che dispensano da ogni ulteriore riflessione. Delle cose che erano sotto gli occhi di tutti hanno in realtà mostrato aspetti che prima non erano stati recepiti - e la cui resa non era stata considerata degna di merito. I luo­ ghi della vicenda, come la conchiglia di Bazin, non posso­ no essere separati dai loro soggetto. Un realismo cinematografico specifico aveva avuto inizio in Francia già negli anni Trenta. Lo spostamento della linea di demarcazione tra documentarismo e fiction cominciò allo­ ra, e insieme ad esso iniziò un allentamento delle forme nar­ rative. Chiamarlo improvvisazione - La Règie du jeu (La rego­ la del gioco) ne è il miglior esempio - sarebbe un fuorviarne minimizzare qualcosa che in realtà era una mutazione della struttura, e che attaccò a fondo lo statuto dell’immagine. I registi della nouvelle vague filmarono la Parigi dei tardi anni Cinquanta e degli anni Sessanta come Renoir quella degli anni Trenta in Boudu sauvé des eaux (Boudu salvato dalle acque). Che Renoir entrasse nel circuito del cinema soltanto grazie ai quadri di suo padre gli è stato rimprovera­ to, così come più tardi si è voluto attribuire la spavalderia di Chabrol e Godard ai loro patrimoni borghesi. Avere denaro proprio e dilapidarlo per produrre cinema non poteva non lasciare nei film una traccia ideologicamente negativa. Della definizione di cinema d’autore, così come la inten­ de Rohmer, fa parte l’autoproduzione, per disporre del bud­ get secondo il proprio arbitrio. Godard, dal quale altrimenti vengono pronunciati solo atti d’accusa contro i mali del mondo del cinema, imprevedibile come sempre sostiene di provare piacere a scucire denaro per i film, a mendicare, corrompere e ingannare. Questo sarebbe parte dell'inven­ zione del cinema. 44

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La nouvelle vague filmava secondo il modello di Renoir anche la provincia, nel modo in cui lui aveva visto la Costa Azzurra in Toni-, senza cornici pittoresche, con gli occhi del­ l’etnografo. Cari Einstein, che insieme a Renoir scrisse la sceneggiatura, chiamava questa l’étbnologie du Blanc, oc­ cuparsi della formazione dei miti, delle rappresentazioni collettive e delle usanze sessuali degli europei. Quello che in seguito Roland Barthes chiamò i miti d’oggi. Ciò che Jean Rouch scelse come punto cardinale dei suoi film, in modo da dissolvere la linea di divisione tra registrazione etnogra­ fica e finzione fìlmica. Girare con scenografìe naturali era una necessità econo­ mica e una questione di morale cinematografica, che prove­ niva però da una tradizione del cinema francese. Dopo la guerra, nel 1946, ricominciò il Tour de France, come lo chiamò Bazin, con Farrebique di Georges Rouquier, che ebbe in seguito Jacques Demy come assistente. Nel 1948 Roger Leenhardt, nella sua natale Cevenne, girò Les Demières vacances. Il paesaggio fornisce al film il suo elemento epico. Esso determina il suo ritmo più di quanto non lo fac­ cia la vicenda. Lo crea. Mettere in risalto il patrimonio delle proprie province era un atto di opposizione all’internazionalizzazione e alla stan­ dardizzazione delle produzioni cinematografiche che si dif­ fuse dopo la guerra. Quando Godard vuole esprimere una lode del tutto particolare per Jean Rouch lo fa in questo modo: in Rouch ci sono manovre di gru che non sarebbero indegne di Anthony Mann, solo che sono fatte a mano. Tra l’arte cinematografica della nouvelle vague e quella politica di De Gaulle esiste un nesso, non lo si può negare. L’analisi della situazione di allora si complica per il fatto che i giovani, nel perseguire le proprie strategie, ossia per arrivare ai mezzi di produzione, non vollero tuttavia rinun­ ciare all’esempio di un certo cinema americano. Di questo dissidio interiore offre un buon esempio il dramma di Creusa innestato in Le beau Serge. Le rudimentali fantasie del giovane parigino, impersonato da Brialy, il suo sguardo sul45

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la vita della provincia, provocano drammi cinematografici, con la relativa suspence. Il dramma in questo film è basato su una concezione della messinscena che si sostiene e nu­ tre delle diverse visioni dei due amici, i protagonisti. Essi sono la prosecuzione, con propri personaggi, di ciò che Chabrol insieme a Rohmer aveva scoperto essere il noccio­ lo tematico di Hitchcock, lo «scambio» tra due persone, che trasforma il negativo in positivo, e viceversa, uno scambio nel quale si forma sempre una corresponsabilità. Un rap­ porto pensato, un'immagine puramente spirituale, sublima le immagini realistiche del film. Jacques Demy in Lola combina l’ambientazione francese con il cinema di genere americano, progettando un tempo cinematografico più puro. I personaggi, con bello schemati­ smo, sono subordinati l’uno all’altro, tanto che il passato e il presente si dissolvono e raccontano un’immagine che è pu­ ramente presente. Il musicai è evasione allo stato puro. I production values, dai quali in questo genere tutto dipende, in Lola li fornisce la città di Nantes - inoltrandosi persino nella pseudoteatralità delle maniere e delle forme linguisti­ che della provincia francese. Elina Labourdette incarna la generazione dei genitori. Con la sua persona è una citazione di Les Dames du Bois de Boulogne {Perfìdia). Questo è un inchino a Bresson, e in quanto tale diventa pane della co­ struzione temporale del film, che nel cinema moderno fran­ cese è subentrata all’organizzazione spaziale del film muto. In Rohmer ciò che, in quanto caso naturale, rompe le uo­ va nel paniere della finzione sono gii avvenimenti meteoro­ logici e geografici, o i fenomeni urbani della provincia. La natura diventa deus ex machina. Le strade troppo strette di Grenoble insieme all’inattesa nevicata determinano l’anda­ mento della vicenda di Ma Nuit chez Maud (La mia notte con Maud), mentre la prospettiva verticale di Le Genou de Claire (Il ginocchio di Claire), deriva dalla posizione del la­ go d’Annecy, chiuso tra le montagne. I personaggi, come sempre in Rohmer, si impigliano nella rete delle proprie conversazioni. La mancanza di vie d’uscita diventa di nuovo un banale dato geografico. Il clima è afoso e caldo. 46

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La finzione poggia sul documento, la messa in scena sul reportage. Jacques Rozier in Maine-Ocèan coniuga il vec­ chio soggetto cinematografico della ferrovia, che ha dato il ritmo a innumerevoli pellicole, alle ricerche col sonoro in presa diretta, che nel dialetto di Poitiers trovano una base assai armoniosa. Se lo spirito di Monsieur Hulot aleggia sul film, non dipende soltanto dalla localizzazione geografica: a Tati risalgono tutte le sperimentazioni sul sonoro del cine­ ma francese del dopoguerra. La determinazione meccanica della ferrovia, dalla quale all’inizio la storia viene trascinata a tutta velocità, giungendo al mare giunge al termine. Da qui in poi diventa necessario il trasbordo su altri mezzi di trasporto e comunicazione. Questo dona al procedere della storia impulsi inattesi.

I ragazzacci vogliono il potere I critici cinematografici dei «Cahiers du Cinéma» erano un commando di terroristi. I posteri li hanno trasformati in ana­ listi di film. Quanto meno, coloro che a quel tempo erano stati tra i protagonisti oggi la vedono così. Eric Rohmer, al­ trimenti riservato, ha dichiarato, per quello che è il suo mo­ do di fare in maniera assai schietta: se le nostre critiche ave­ vano qualche importanza, era più in considerazione di ciò che noi volevamo fare che non per il modo in cui ci con­ trapponevamo a quanto veniva realizzato. Gettavamo le ba­ si per il nostro futuro fare cinema, e incitavamo i lettori ad apprezzare film come quelli che speravamo di fare, distrug­ gendo quelli che allora ricevevano l’ammirazione generale. Ne venne fuori una maniera assai inusuale di scrivere sui film, e il curioso fenomeno di una rivista di cinema i cui te­ sti erano proiezioni di film futuri. In attesa di tempi migliori, avrebbero fatto cinema con altri strumenti. Questa è soltan­ to la parte dichiarata della loro strategia. Se si considerano attentamente i testi, essi ci rivelano che il loro strumento provvisorio, la lingua, è inadatto per natura a dare adeguata espressione al cinema, alla sua essenza, alle domande e ai 47

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problemi che sono suoi specifici. «Da un punto di vista on­ tologico, il film dice qualcosa che le altre arti non dicono.» L’insufficienza della lingua fu espressa dai componenti del nocciolo duro del gruppo, ciascuno alla sua maniera, conformemente al proprio ethos di autore. Truffaut nel mo­ do più spontaneo, tenuto a freno quanto più possibile da Bazin, nella forma del pamphlet e della polemica. E in se­ guito, ma la linea è assolutamente diritta, nella sua intervi­ sta fiume a Hitchcock, che rappresenta una serie di doman­ de e risposte, da cineasta a cineasta; ciò spiega anche per­ ché questo sia potuto diventare il prototipo di un libro sul cinema, e anche perché, proprio a causa della sua situazio­ ne di partenza, sia rimasto un libro inimitabile. Godard scrisse in una lingua quotidiana, evitando l’osti­ co vocabolario degli specialisti, parlando di preferenza del­ le procedure cinematografiche, ma nello stesso tempo pre­ sentando anche le proprie impressioni e reazioni. Nascon­ deva le proprie conoscenze dietro un modo di citare poco erudito e il più possibile inadeguato, e faceva sì che la lin­ gua finisse per scivolare su qualsiasi gioco di parola o ca­ lembour che gli si offriva. Lo stile che Rohmer adoperava, in vista di quel sovverti­ mento di valori che il cinema si proponeva di applicare agli altri mezzi d’espressione, più che scatenare offensive pole­ miche faceva arrabbiare alcuni dei suoi lettori. I provocatori atteggiamenti di destra con cui su -Les Temps Modernes- ri­ ferì sul Festival du Film Maudit costrinsero Merleau-Ponty a fargli interrompere la collaborazione. Avevo davvero esage­ rato un po’, dice oggi. Per dare conveniente espressione al­ la propria concezione del rovesciamento di high e loti), fa­ ceva ricorso a criteri estetici palesemente antiquati, per ap­ plicarli a oggetti banali o poco degni, come Technicolor, Ci­ nemascope o le tette della bionda esplosiva Jayne Man­ sfield. Per illustrare le sue tesi su) giusto impiego del parla­ to in un film, esprimeva il proprio rincrescimento per il fat­ to che il cinema non sfruttava a sufficienza le risorse che la menzogna gli metteva a disposizione. E proprio qui il pen­ 48

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siero è coerente: la menzogna è la forma ideale della finzio­ ne, che si annida nelle pieghe del quotidiano e si addice a un medium che viene inteso in senso realistico. Rohmer è solito dispiegare le proprie riflessioni in figure retoriche da vecchia volpe, ove possibile ricorrendo a ricercati congiun­ tivi, e con un rispetto della consecutio addirittura cavilloso. Del suo libro su Hitchcock, uscito nel 1957 e che Gilles Deleuze citò come modello esemplare di riflessione cine­ matografica in forma di scrittura, Chabrol in quanto coauto­ re dice che si erano prefìssi di scrivere un libro in cui il me­ todo fosse più importante dell’oggetto. Questo metodo, per merito del quale arrivarono a creare il loro oggetto e diede­ ro vita all’esegesi di Hitchcock è anche - pur se ci si deve chiedere fino a che punto ciò avvenisse consapevolmente un’eco dell’etnologia, dalla celebre trattazione di Marcel Mauss sul potlatch, sullo scambio, il dono, e l’obbligo di accettare. Nei contributi e nelle critiche di Rivette si percepisce in­ nanzitutto come il cinema sottragga terreno e fondamento alla lingua, e la renda atopica. Le storie raccontate si volati­ lizzano nella collisione con la realtà dei luoghi, diventando mistificazioni. Le persone che si preoccupavano di fare chiarezza continuano a inseguire la verità. E tuttavia, fidan­ dosi dell’apparenza e dell’evidenza, non potrebbe mai av­ viarsi il movimento illimitato delle interpretazioni, con la lo­ ro follia. L’evidenza è ciò che in un’immagine cinematogra­ fica, indipendentemente dal fatto che sia finzione o docu­ mentaria, si dispiega da sé. Il garbo linguistico di Rivette è a tal punto aderente all’an­ damento del francese e delle carrellate future che quando si fa il tentativo di tradurlo in un’altra lingua i suoi periodi sembrano scritti in arabo - voglio dire che sembrano orna­ mentali. Un eccellente esempio di ciò è un articolo del 1950 dal titolo -Non siamo più innocenti-, ripreso da Rohmer e fi­ no ad oggi considerato il manifesto per un cinema altro, senza montaggio.

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Gli autori al lavoro È sorprendente come, pur con tante divergenze manife­ ste fin dall'inizio, per un certo periodo, almeno nell'immaginazione del lettore e anche di chi conosceva la rivista sol­ tanto per sentito dire, potesse nascere l’idea di un fronte unitario e tenace. Anche i concetti che si sono legati all’im­ magine dei «Cahiers- come marchi, quello di autore e quello di messa in scena, vennero modellati e sistematizzati soltan­ to da successori e interpreti. Se li si ricerca nei primi testi, si scoprirà che essi vengono impiegati e definiti dai singoli au­ tori secondo le più diverse sfumature. La messa in scena di Godard si contraddistingue per la discontinuità, e non può essere separata dal montaggio. L’una e l’altro sono interdipendenti, come -una cosa ben gi­ rata pianificata in dettaglio-. Se devono essere inquadrature lunghe e a seguire, allora saranno come quelle di Jean Rouch, che tendono al momento in cui tanto più improvvisa­ mente si verifica la frattura, che lacera lo schermo e costrin­ ge lo spettatore a percepire la realtà in una nuova luce. Fino dall’inizio contro tutti gli altri, contro l’esaltazione che allora predominava all’interno della rivista per inqua­ drature in piano-sequenza e immagini di realtà senza salda­ ture, Godard si concentra sul montaggio inteso come pro­ cedimento più autentico del cinema, e sulla singola imma­ gine dell’inquadratura come cellula germinale del film. Il re­ gista per lui non è chi mette in scena, colui che abbraccia lo spazio, non è nemmeno l’inventore della vicenda. Conside­ ra se stesso un montatore, che mette insieme le immagini o le contrappone, anche quelle che sono state fatte da altri. La concreta manipolazione di materiale filmico cominciò per lui quando nei primi anni Cinquanta montò per le Éditions Arthaud riprese cinematografiche di spedizioni scienti­ fiche per proiezioni di filmati culturali. Per Godard il montaggio è rimasto l’autentico momento creativo dell’autore, in cui al film viene dato il suo battito cardiaco. Con il ritmo dalle immagini scaturiscono i pensie­ 50

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ri. Non è rilevante che sia found footage, documentario o propria produzione. I film hanno sempre avuto più autori. In fin dei conti i direttori della fotografia sono gli autori del­ la propria fotografìa e gli attori gli autori delle proprie im­ magini. Tra i successori soltanto Jean Eustache ha avuto un’opi­ nione del montaggio altrettanto alta. Egli accettò alcuni in­ carichi cinematografici per il semplice piacere di montare. «Montare i film degli altri mi ha dato ancora più piacere. Soltanto allora giungevo a una riflessione sui fondamenti, e qui ho davvero portato un mio contributo. Quando Renoir diceva che si dovrebbe assorbire dagli attori aveva ragione, e si capisce da sé, ma bisogna assorbire anche dai tecnici, dall’intero team, per poi assimilare tutto e infine restituire quel che è stato assimilato-. L’autore cinematografico è chi ri-crea ciò che è stato os­ servato. La messa in scena, intesa come organizzazione dello spazio profìlmico in un continuo spazio-temporale, quale venne sostenuta dagli altri autori dei «Cahiers- seguendo la politique des auteurs trasformata in teoria, nella prassi dello scrivere di cinema ha incontrato alcuni considerevoli travi­ samenti. La critica della messa in scena, come la si intende oggi in America derivandola dai testi degli autori della nou­ velle vague, sarebbe la subordinazione di procedimenti ci­ nematografici - dimensioni dell’inquadratura, movimento della macchina da presa, tecnica d’illuminazione - a signifi­ cati astratti. Una codificazione della lingua fìlmica che va a finire in funzioni d’espressione simboliche e psicologiche. Figure stilistiche come Weltanschauung, disse già per scherzo Godard, quando ancora firmava con lo pseudoni­ mo Hans Lucas. La nouvelle vague non ha mai inventariato pragmaticamente le forme del cinema. Se invece la si intende in que­ sto modo, gli sforzi delle sue determinazioni concettuali vengono privati esattamente del motivo che la mosse. Con un uso irriflesso, le forme ormai senza vita vennero tolte di 51

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mezzo per fare posto alla più autentica realtà cinematografi­ ca. Non erano dei fanatici delle immagini. Dal loro modo di intendere il cinema derivò la loro rivendicazione di essere i nuovi realisti. È sufficiente passare in rassegna la galleria dei loro idoli e dei modelli a cui si sono ispirati: Vigo, Re­ noir, Bresson e Rossellini. In quale misura il realismo di questi si distingua da quello dei nostri, lo spiega bene la fi­ gura di Jean Rouch. Ai suoi metodi di osservazione e di ri­ cerca che danno vita a forme cinematografiche si richiama­ no Rohmer e Godard, Rozier e Eustache. I registi americani preferiti dovevano svolgere un’altra funzione. Erano responsabili per quella parte delle loro atti­ vità che Rohmer chiama -vie secondarie della polemica-, mentre i francesi rispondevano alla loro domanda cruciale, cos’è il cinema. Gli americani dovevano essere sfruttati nella battaglia per la specificità del cinema, poiché nella vecchia Europa avevano ancora la supremazia i vecchi standard cul­ turali delle altre arti. Se avessero fatto riferimento alla pro­ duzione collettiva e industriale (primo segno distintivo del cinema americano), l’argomentazione non sarebbe servita alla loro causa. Di conseguenza, si costruivano il loro vero autore americano per colpire il falso autore francese.

L’appoggio del fratello maggiore Lo scandalo della politica portata avanti dal gruppo de­ gli Autori non stava nella difesa di pochi film riusciti di maestri già riconosciuti, quanto nel fatto che ai registi di prodotti in serie venne ascritta una specifica Weltan­ schauung cinematografica. La politica degli Autori era espressione di una doppia misura, e in questo si annida anche il tarlo di tutte le confusioni e i successivi fraintendi­ menti dei due concetti cardinali del pensiero cinematogra­ fico nouvelle vague. Tutto questo non sarebbe successo, dice Godard, se gli scrittori invece di restare sempre attaccati alla loro penna 52

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avessero provato a fare qualche esperimento con le imma­ gini. Se qualcosa di scritto deve esserci, allora la cosa mi­ gliore è che sia direttamente nelle immagini del film, in si­ multanea, come elemento di disturbo reciproco. Se si vuo­ le raccontare, allora la cosa migliore è farlo direttamente, come citazione messa sotto le immagini. Se si vuole fare una biografia dell’autore, allora è meglio farla con la pro­ pria voce, che s’insinua nel corpo di un altro - come in Charlotte et son Jules, la figura di Jules è Beimondo, la sua voce è Godard. In quale modo i dialoghi siano integrati alla messa in scena lo si vedeva realizzato in maniera esemplare negli au­ tori americani più ammirati, dove il laconico è in armonia con l’efficienza funzionale delle immagini, invece che nelle vanitose, ciniche e lubriche spiritosaggini degli sceneggiatori del cinéma de qualité. Si stenta a credere di leggere e sentire giusto - con in mente il ricordo delle circonvoluzio­ ni nelle critiche accuratamente costruite di Rohmer - quan­ do questi concorda nel lodare la lingua stringata di Dashiell Hammet, e dalla sponda anglosassone ci parla del dialogo nei film della nouvelle vague. I film di Howard Hawks rimangono per loro film d’auto­ re esemplari, anche se Hawks li mise in scena seguendo le sceneggiature di Jules Furthman. Perché lo sceneggiatore li aveva scritti con una perfetta conoscenza del linguaggio vi­ suale, e il regista aveva considerato i dialoghi parte inte­ grante della sua concezione filmica. La sua messa in scena consiste in un dinamico allacciamento tra mondo filmato e linguaggio. Nei -Cahiers» si ebbe invece a lungo un atteggiamento di ripulsa verso i film di Billy Wilder, perché in essi, così si ar­ gomentava, lo sceneggiatore che ancora rimaneva in lui non lasciava libertà di parola al regista.

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Più Lumière! Si è raggiunto qualcosa, e se sì, che cosa ne è scaturito? Per i suoi detrattori la nouvelle vague è stata soltanto una moda di giovani fanatici del cinema, privi di problemi, figli della borghesia e senza alcun impegno sociale. Come prova di ciò furono addotte la banalità e la piattezza dei loro sog­ getti. Una moda che venne sostenuta dalla stampa, e che dopo tre anni già si esauriva. Che inoltre, e questo l’aveva aiutata nel suo affermarsi, aveva coinciso cronologicamente con il ricambio generazionale avvenuto nella società del dopoguerra. I giovani registi fecero la loro piccola rivoluzione, diede­ ro il cambio alla vecchia categoria, e cambiarono le forme della produzione. Anche se all’inizio davvero sembrava un nuovo inizio, pieno di fiducia per il futuro di un cinema che sarebbe vis­ suto ancora a lungo, e i giovani parlavano soltanto di un ci­ nema che doveva essere riammesso ai propri diritti, tuttavia ciascuna delle loro iniziative, più per intuizione che per consapevolezza, fu un riflesso condizionato alla crisi provo­ cata in tutto il mondo dall’arrivo della televisione. L’epoca del primo grande medium di massa giungeva al termine. Le possibilità e il pubblico residui suggerivano l’idea di film da produrre in economia per mercati ristretti, in cui l’autore spinto dalla necessità dovesse assumere su di sé le più di­ verse funzioni e responsabilità. In certa maniera era un ri­ torno all’amatorialità - Rohmer dice alla confusione produt­ tiva - della produzione cinematografica francese prima del­ la guerra. Nei -Cahiers» avevano propagandato il cinema di massa americano, spontaneo e spensierato. Ma nei loro film di tut­ to ciò non si ritrovava traccia. Non si era nemmeno mai pensato di raggiungere un pubblico mondiale. L’unico film proveniente dal circuito della nouvelle vague che una volta doppiato trovò accesso ai cinema americani fu Et Dieu créa la femme {Piace a troppi) di Vadim, presumibilmente a cau­ 54

UN MOVIMENTO

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sa di B. B. e d’una certa promessa di audacia francese, che a Hollywood le restrizioni del production code non avreb­ bero mai autorizzato. Per godersi i costumi più rilassati de­ gli stranieri, si era pronti anche ad accettare l’andamento ri­ lassato di una narrazione molto dedrammatizzata rispetto agli standard del gusto americano. Ma la nouvelle vague raggiunge qualcosa che non era mai stato previsto, ciò che Stanley Cavell conferma in The World Viewed-, i giovani della nouvelle vague cambiarono il modo in cui gli intellettuali americani consideravano il cine­ ma, il loro modo di vederlo e di andarvi. Fecero sì che il lo­ ro stesso cinema, il divertimento popolare, apparisse loro in una nuova luce. E con ciò perse la propria innocenza non soltanto il cinema. Esistevano ora due forme di cinema d’arte. L’avanguar­ dia, che si orientava verso le arti figurative, e il cinema che pur orientandosi verso Hollywood per quanto riguardava produzione, intenzioni e approccio col pubblico, non era però commerciale, e rifletteva sulla natura riproducibile del­ le proprie immagini. Nestor Almendros, il direttore della fotografìa di Paris vu par... di Truffaut, di Eustache e di Barbet Schroeder, sul proprio contributo all’estetica della nouvelle vague si espri­ me così: -non costruivamo più la nostra luce, la catturava­ mo-. In questo senso bisogna vedere il confronto con le al­ tre arti - anche nella citazione. Sostenere di fare loro stessi dell’arte non è una vanteria, è piuttosto la consapevolezza che le immagini fotografiche rendono necessario un ripen­ samento del concetto di arte. I registi della nouvelle vague non avrebbero potuto far circolare così a lungo le proprie idee sul cinema se fossero stati soltanto il parente povero del medium di massa, o se avessero dovuto contentarsi di scrivere i loro testi. La nou­ velle vague fu un’offensiva su due fronti. Sempre ponendosi nella prospettiva della dipendenza delle immagini cinematografiche dalla realtà, Rohmer critica i successori della nouvelle vague che sostengono di avere 55

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compreso in maniera corretta la sua domanda ontologica quando fanno film sul fare cinema, autorispecchiandosi. «Il cinema, tra tutte le arti, è quella che meno di tutte può nu­ trirsi di se stessa-. Il cinema dovrebbe preoccuparsi meno del teatro e della pittura, e badare piuttosto ai propri cliché, che proprio perché, a causa della sua natura riproduttiva, sono insiti nel cinema stesso, possono diventare assai più pericolosi.

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La vera storia del cinema La visione della storia in Godard (2000) In principio avevo l’intenzione di fare da semplice inter­ mediario. Rettificare, per togliere un vantaggio a coloro che si sof­ fermano sull’ignoranza di Godard o sulla sua faccia di bron­ zo: non sono stati i russi ma gli americani a liberare Wei­ mar; il povero produttore Pommer andò a Hollywood la prima volta quando venne letteralmente buttato fuori dall’Ufa, e non fu lui ma Laemmle a fondare l’Universal; l’im­ magine, che sta per rivolta, dei tre leoni di Eisenstein che si ergono, è tratta dalla Potèmkin e non, quale simbolo della rivoluzione del 1917, da Oktiabr' (Ottobre). -Si prendono tre inquadrature del leone e si ha un leone che si erge in virtù delle inquadrature e non del montaggio, in quanto il mon­ taggio non ci dice nulla su questo leone, che rimane sola­ mente un leone, ma si ha l’idea di qualcosa che si erge e solleva, e questa è già un’idea di montaggio». C’era di mezzo anche un certo qual senso di responsabi­ lità. Rimettere in moto formule che sono diventate storiche, far sì che le parole d’ordine e i concetti della nouvelle va­ gue continuino a operare. Chiarire come si arrivò ad esse, che effetto sortirono, perché oggi forse non siano più cal­ zanti. Come è avvenuto che ciò che apparteneva alla di­ mensione soggettiva dell’invenzione filmica sia diventato patrimonio di tutti. Quanto è sopravvissuto solo in forma mutila e oggi, esplicitato e collocato nel suo contesto, appa­ re del tutto diverso. Uno dei due Lumière disse a Georges Méliès che il cinema non aveva alcun futuro commerciate Godard conosce l’aneddoto solo in forma succinta e lo in­ 57

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tende come vuole lui: il cinema ha modificato il concetto di tempo... «... un proverbio, falso come tutti gli altri, ha tuttavia il merito di introdurre una distinzione utile». Frasi come que­ sta mi diedero successivamente la spinta - per fare qualco­ sa di utile tanto per i lettori di lingua tedesca quanto per Godard - a tradurre Clio di Charles Péguy, un saggio sulla storia a cui Godard si richiama spesso. Ma che dico: egli ri­ prende, incorpora intere frasi: non a memoria dovrebbero imparare gli attori, ma accogliere un testo dentro di sé co­ me un ospite. Il saggio contiene lunghi brani in cui vengono discusse poesie di Victor Hugo, il che spiega probabilmente perché l’opera non sia mai stata tradotta in tedesco. La popolarità di cui godeva Hugo allora in Francia non è, si direbbe oggi, trasmissibile ai lettori tedeschi. Intraducibile! Del progetto mi rimase l’idea di aiutare a capire quello che altrimenti sa­ rebbe stato ignorato. Infine vi fu ancora un’osservazione di Godard nel corso di un’intervista, secondo cui fra i suoi film degli ultimi anni Allemagne neuf zero era quello che più si avvicinava alle sue idee poiché la solitudine non s’incarnava nel destino di un protagonista, ma riguardava un intero paese, una comu­ nità umana. La storia è sola in quanto non dipende dagli uomini. Da notare che le frasi pronunciate una volta messe per iscritto, anche se per abitudine le si prende per tali, non so­ no più così canoniche e affidabili come ci si presentano. Le parole hanno acquisito un altro valore anche attraverso le esaurienti interviste registrate apparse sui -Cahiers» gialli, con cui i futuri cineasti cercavano di scoprire il segreto del cinema. Godard compariva solo in tre di queste interviste, due con Bresson, nella prima delle quali era soprattutto Jac­ ques Doniol-Valcroze e il caporedattore dei -Cahiers du Cinéma», a tenere banco; all’epoca delle due successive (la terza, con Antonioni, ha per tema soprattutto il colore), Go­ dard è già passato alla regia. In Vivre sa vie {Questa è la mia 58

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vita), in Masculin féminin (Il maschio e la femmina), in Une Femme mariée (Una donna sposata), in La Chinoise (La cinese), integrava interviste, la forma che prediligeva nei suoi film. Le frasi, pronunciate più alla leggera di quanto non lo siano le frasi scritte, si coagulavano in formule, clichés, ri­ petizioni non volute. Per questo è opportuno ora risistemar­ le e ricordare per quale ragione nella seconda metà del ventesimo secolo il cinema si è evoluto in questo senso e non in un altro. Abbiamo svuotato il cinema con i nostri film? Può essere, ammette Godard. Ma un secolo basta e avanza per un mez­ zo espressivo - e qui cita Péguy - un secolo per divenire e perire; come dice Hegel, un’epoca si è conchiusa. Prima dei cineasti, storici e filosofi perspicaci avevano osservato come il cinema avesse modificato l’arte e la storia. Godard lo constata senza trionfalismi, anzi piuttosto con malinconia, talvolta con accenti di autocritica, anche se la vecchia aggressività torna a irrompere ed egli dimentica che fu proprio lui a introdurre la distinzione fra cinema ameri­ cano e Hollywood. La sua (o le sue) Histoire(s) du cinema rimane (rimango­ no) incomprensibili se le si guarda come insegna la storia lineare dei cinema e si dimentica la coesistenza. «Io non parlo affatto di film [...) bensì di momenti; anche se Vivien Leigh evoca nella mente dei più Scarlett O’Hara, la sua im­ magine è ai miei occhi più giusta di quella di Maria Casarès in una celebre scena, perché quello che mi importa è il mo­ mento in cui le due immagini, nella stessa epoca, hanno avuto origine». Se Jacques Aumont - che recentemente ha dedicato un intero libro a Histoire(s) du cinema - avesse saputo che Godard è stato degnamente insignito del Premio Adorno non solo in quanto critico della cultura e per la sua predile­ zione per il frammento, ma anche per il modo molto simile di trattare le citazioni cinematografiche! Anche per Adorno 59

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il rigore delle proprie argomentazioni era più importante della precisione fattuale. A chi gli faceva notare come nel­ l’epilogo di The Great Dictator (Il grande dittatore) non vi siano campi di spighe ondeggianti «come le bionde chiome delle fanciulle tedesche al vento estivo, fotografate dall’Ufa», ma si vedano solo teste di cavolo, rispose brusco: e allora a ondeggiare erano le teste di cavolo. Godard non dice che Murnau e Karl Freund sono com­ plici di Albert Speer e che hanno collaborato al suo duomo di luce e alla sua messa in scena di Norimberga, ma ci mo­ stra in che cosa si poteva trasformare l’illuminazione cine­ matografica, che cosa si cela nella fantasmagoria di luci del cinema. A interessargli è la contemporaneità. È su di essa che egli attira la nostra attenzione. La storia del cinema, questa è la sua tesi, può e deve es­ sere raccontata in altro modo, con i mezzi che le sono pro­ pri, senza la scrittura tendenzialmente sempre astratta e in­ cline ad alterare le cose. Al contempo si rammarica di non poter raccontare alla maniera che tanto ammira nel cinema americano. -Ero fordiano senza saperlo». Il «print the le­ gend», il consiglio dato al giornalista alla fine di The Man Who Shot Liberty Valance (L’uomo che uccise Liberty Valan­ ce), corrisponde pienamente alle sue convinzioni. Il noccio­ lo della verità è celato in maniera visibile nella finzione. Il cinema europeo, il cui orientamento Godard ha contri­ buito a determinare, funzionava diversamente. Nel cinema hollywoodiano la dimensione documentaristica recedeva sempre più sullo sfondo a vantaggio del sistema. Il cinema vivo è anticipatore e proiettato in avanti, in­ grandisce e in questo modo rende visibile. Così era anche a Hollywood. La differenza non sta nel modo di produzione, industriale a Hollywood e artigianale in Europa. La differen­ za risiede in primo luogo nella prospettiva temporale. Il ci­ nema europeo per alcuni anni è stato più lungimirante. Ma ambedue appartengono alla seconda rivoluzione culturale, che dopo la prima, la rivoluzione della scrittura, è stata il ci­ nema. 60

LA VISIONE DELLA STORIA IN GODARD

«Ho sempre oscillato tra romanzo e saggio-, dice Godard dei suoi film. Questo è il miglior modo di definirli, una defi­ nizione che si attaglia, in parte, a quanto si è modificato nel cinema dopo la seconda guerra mondiale.

Quanto più la nouvelle vague è entrata a far parte della storia, tanto più nette si fanno le distinzioni tra coloro che all’inizio ne sono stati i promotori e con alleanze alterne hanno contribuito a determinare il corso della storia del ci­ nema. Nella riflessione sul cinema Eric Rohmer era il più profondo e irremovibile. Truffaut era il più deciso, Chabrol il più zelante, ma anche il più propenso a divertirsi. Chi ha letto le conversazioni di Truffaut con Hitchcock conoscerà l’aneddoto dell’irruzione, registratore alla mano, fatta da lui insieme a Chabrol, nella vasca ghiacciata della fontana nel cortile interno degli studios Saint Maurice, dove dovevano incontrarsi con Hitchcock impegnato con la post­ sincronizzazione di To Catch a Thief (Caccia al ladro). Me­ no noto è il fatto che Chabrol l’anno seguente, su insistenza di Truffaut, andò all’assalto una seconda volta e nel salone dell’hotel George V estorse a Hitchcock altre dichiarazioni su cui fondò la prima opera seria dedicata a Hitchcock stes­ so, scritta a quattro mani con Rohmer. Rivette invece era il più facondo, paladino del concetto di mise en scène, per il quale Godard non mostrava partico­ lare inclinazione e a cui aderiva solo per spirito di gruppo. Tutti avevano in comune la voglia di fare cinema comin­ ciando con i cortometraggi. Decisivo non era il fatto che scrivessero le loro recensioni in qualità di futuri cineasti, co­ me si sente ancora ripetere in continuazione, ma il fatto che si scavassero uno spazio al di sotto del terreno dei profes­ sionisti del cinema che sbarravano loro il passo con condi­ zioni e strutture apparentemente immodificabili e che ave­ vano preso piede solo con il tempo e per abitudine. Come fa notare Daney, essi erano autori anche nel campo della produzione. Con quale spirito volevano fare cinema, su questo non lasciavano dubbi. Non rispondeva al vero quan61

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to affermavano i Delannoy e i Duvivier, che disprezzassero il cinema francese. Lo nega il loro entusiasmo per Gance, Pagnol, Renoir e Guitry, Cocteau e Leenhardt, Bresson, Tati e Becker. Difendevano un certo cinema americano dall’alte­ rigia dei francesi, per i quali la cosa più importante era il te­ sto, il copione e la sua trasposizione. Il concetto di politique des auteurs inventato da Truffaut - nel quale, dice Godard, la politica spariva e restavano so­ lo gli autori - era solo un costrutto sussidiario per sostituire il metteur en scène che riecheggiava troppo il teatro. Così vede la cosa Godard, che rimane tuttora un nemico del tea­ tro. Il Tartiìff(Tartufo) di Murnau è la migliore versione ci­ nematografica di Molière perché la recitazione teatrale si dissolve tutta in cinema ed Emil Jannings è il più grande di tutti perché sa che cosa è un attore di cinema. Prima che la nouvelle vague si diffondesse come movi­ mento in Europa e poi in tutto il mondo, la sua truppa scel­ ta parigina è pensabile solo nella Francia liberata dagli ame­ ricani, e la coscienza nazionale di cui si faceva banditore De Gaulle vi ha giocato un certo ruolo: altrimenti come avrebbe potuto Godard essere tacitamente pronto a soppri­ mere in À bout de soufflé le inquadrature in cui Jean Seberg e Jean-Paul Beimondo camminano lungo gli Champs Elysées accanto alle auto di Eisenhower e De Gaulle?; a lascia­ re che Le Petit soldat, che in realtà doveva essere il suo pri­ mo film, venisse vietato per le torture che superavano il li­ mite?; a trasformare il titolo La Femme mariée in Une Fem­ me mariée? La censura, «questa Gestapo dello spirito», come intervento dispotico del potere statale negli affari del cine­ ma, era una realtà che veniva fustigata là dove faceva la sua comparsa ma a suo modo veniva praticata in tutti gli schie­ ramenti. Altrettanto decisivo fu il fatto che la nouvelle vague, fe­ nomeno disturbante in quanto toccava il senso di superio­ rità estetica dei francesi, prendesse le difese del cinema americano e di tutte le conquiste di Hollywood, occupan­ dosi ampiamente del colore e del cinemascope. Lo stesso 62

LA VISIONE DELLA STORIA IN GODARD

André Bazin, teorico del cinema, che svolgeva funzioni di mediatore nei confronti dei «giovani turchi», dovette in un primo momento essere convinto a prendere in considera­ zione gli americani. Vi contribuì non poco Rohmer, francese con una formazione classica alle spalle. Bazin comprendeva meglio le lunghe inquadrature di Wyler e la profondità di campo in Welles che la maniera con cui Hawks e Hitchcock catturavano lo spettatore. «Welles era il Dio di Bazin, il Dio dei padri e noi dovevamo staccarci dai padri». Era un’altra concezione della sceneggiatura che Godard ammirava nei film americani, il loro modo di raccontare. Al­ la Cinémathèque Henri Langlois, inoltre, mostrò loro quei film che a causa del ristagno provocato dalla guerra non erano riusciti a vedere, e che tanto più diedero ali alla loro immaginazione. «Eravamo figli della liberation e del mu­ seo», e questo museo per la prima volta era un museo del cinema. Ci si toglie di torno una volta per tutte il problema della precisione storica in Godard se si guarda al suo metodo citazionista (sulle orme di Péguy) come a un artifìcio: «Si pro­ cede per scorciatoie, allusioni, rimandi, interrogatori, rudez­ ze, giochi, imbeccate, intuizioni, colpi d’effetto, connessio­ ni, risonanze, analogie, parallelismi. Approfondimenti. In­ telligenza, concordanze». La frase che ricorre più spesso in Clio afferma che Clio è una musa, la più vecchia, e che Mnemosyne, la memoria, è sua madre. Solo quando i moderni si saranno impadroniti della storia, essa non sarà altro che una scienza. Il metodo citazionista di Godard, che dapprima era stret­ tamente correlato con quella che in Francia era la cinefilia, si trasformò lentamente ma costantemente in montaggio. Per lui è l’unica, grande invenzione del cinema. Non si trat­ ta di «tagliare», come si dice in tedesco, ma di un comporre che trasforma la successione in simultaneità e produce in questo modo un impulso mentale. In un breve appello sui «Cahiers» (1968), André S. Labarthe - lo si sente e lo si vede riflesso in uno specchio in 63

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Vivre sa uie ed è colui che va a visitare Berlino in Allemagne neuf zèro - esorta ad archiviare l’espressione mise en scène; dopo aver esaurito il suo compito come grido di bat­ taglia e aver cominciato a ricorrere sulla bocca di coloro contro i quali un tempo era stata escogitata, ora essa, egli sostiene, è d’intralcio allo sviluppo del cinema. Nella sua re­ censione a Une Femme est une femme (La donna è donna) Labarthe era stato il primo, nel 1961, ad accorgersi del di­ verso uso del montaggio. Godard lo impiega in molteplici modi e sviluppa le sue potenzialità. Il montaggio è il suo concetto fìlmico di immagine. 11 procedere per citazioni di cui tanto si è parlato nel suo stile di scrittura e cinematogra­ fico si risolve in montaggio. Il termine descrive il suo rap­ porto con la storia del cinema, con la storia. Il tutto era cominciato già negli anni Cinquanta con i suoi due primi saggi pubblicati sui «Cahiers*, defilati allora rispetto a quanto interessava gli altri autori. Caparbiamente su di essi fondò il suo lavoro fino a quando, soprattutto con la sua Histoire(s) du cinéma, apparve chiaro perché era ri­ masto fedele, fin dalle prime dichiarazioni scritte, alla sua intuizione. Montaggio significa rapporto, e il rapporto esiste prima che si formi l’inquadratura, a cui sussegue un’altra. È confronto fra due cose, non un’equazione. Pare che avesse intenzione di fare un film o una trasmissione sul montaggio e di mostrare, come Champollion nella decifrazione dei ge­ roglifici, che per arrivare a capire vi è bisogno di tre testi. Bisogna mostrare il coesistere degli eventi. A ciò si op­ pone l’abitudine. Il suo più recente agente è la televisione che con la linearità ottunde i sensi rispetto alla simultaneità che è insita nell’originarsi degli eventi stessi e che le imma­ gini contribuiscono a creare. Le immagini creano e al tem­ po stesso scoprono. Noi della nouvelle vague abbiamo scoperto il reale solo tardi, afferma Godard, e sembra dar ragione a coloro che allora rimproveravano loro di gingillarsi con storie di letto anziché affrontare le questioni scottanti del tempo. Dietro vi era una concezione del cinema: filmare solo quello che si 64

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conosce bene. Ancora oggi Godard redarguisce i cattivi re­ gisti che offrono ruoli ad attori senza istruirli in merito, per esempio far recitare a John Wayne la parte di un dentista senza insegnargli come si indossa un camice bianco o si maneggia una pinza, o far fare a Yves Montand la parte di un avvocato senza sapere cosa sia un dossier.

Ancora oggi questo credo traspare là dove Godard affer­ ma che gli storici francesi sono i migliori; sono infatti quelli che conosce meglio. Ma anche quelli che più si avvicinano alla sua concezione della storia del cinema. Michelet, Brau­ del e il poeta e saggista Péguy. Soprattutto Michelet perché attraverso la sua scrittura, il suo stile, era qualcosa di più di uno storico che si attenga alla cronologia degli avvenimenti. Vedeva la storia per immagini. Nel xix secolo era già un ci­ neasta, un modello per Godard. La -Histoire de France* è il suo modello, un modello fatto di parole ma scritto dalla vi­ suale del cronista: la storia della filosofìa di Hegel è per lui l’opera di un romancier de la philosophic. La nuova storia, la storia della vita quotidiana, è legata al nome di Fernand Braudel che Godard cita ampiamente. Co­ sì come la sua accusa che nelle classi delle scuole inferiori sia stata introdotta la nuova storia, mentre nelle superiori si è rimasti alla vecchia, laddove sarebbe stato giusto fare esattamente l’inverso : ma -nessuno me l’ha chiesto». Leggere gli storici, questo Godard chiama fare ginnastica storica, una ginnastica che gli consente di tradurre in cine­ ma ciò che la storia è diventata. -Il senso del tempo, questo per me è storia [...1. Direi che nei film la storia si fa spetta­ colo, quasi dal vivo, ecco cosa fa il cinema, è l’immagine vi­ vente dello svolgersi della storia e del tempo della storia». Anche qui egli si appoggia alla storia scritta, ma anche a Pé­ guy, non agli storici. Nella seconda parte della Histoire(s) du cinéma, Serge Daney, il critico cinematografico di -Libération» (-è stato un po’ come in televisione, la più o meno classica intervista») , afferma che fra tutti gli esponenti della nouvelle vague Godard è stato quello che si è più interessa65

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to alla storia, nel senso di Péguy per il quale la vera storia è il punto nodale tra dato di fatto e memoria. Sono solo la de­ moiselle de l’enregistrement, la signorina che effettua la ri­ presa, dice la sua Clio. Godard riprende la frase e ritiene come lei che attraverso coloro che sanno vedere si annunci qualcosa del futuro. Dopo Omero arriva Tucidide, il croni­ sta dopo il narratore, scrive Péguy, e Godard lo ripete. Mi piacciono entrambi, dice, c’è bisogno di entrambi. Il suo ri­ fiuto di Hollywood oggi è la reazione al fatto che il vedere e lo scoprire sono stati rimpiazzati dal puro imitare. Un film di ricerca in forma di intrattenimento: la sua for­ mula per Une Femme est une femme appare calzante tanto per i suoi film di finzione quanto per i suoi video e soprat­ tutto per la sua concezione di cinema in cui fiction e di­ mensione documentaristica sono strettamente intrecciati. La sua ammirazione per Sacha Guitry va intesa in questo senso: egli ci ha dato con i suoi film dei documenti dell'in­ venzione. I grandi film sono quelli in cui la fusione ha luo­ go perfettamente. «Sono sempre due, all’inizio sono sem­ pre due immagini più che una, questo per me è sempre l’immagine, l’immagine fatta da due immagini, ossia la ter­ za immagine-. Il costante lamento di Godard di non poter raccontare come faceva il cinema di una volta, come i grandi ameri­ cani che sapevano avvincere il pubblico, è autentico. Il grande pubblico è parte costitutiva del cinema, per questo Hitchcock per lui è il migliore. In base alla concezione con­ venzionale le trame fìlmiche di Godard - in questo fedele al proprio ethos cinematografico - non sono racconti, ma re­ soconti, reportage, come si dice all’inizio della sua Histoire(s). Sono immagini che documentano, e prendono forma da ciò che è stato visto e udito. Alla comprensione dell’im­ magine contribuiscono più di quanto non sappiano fare le nuove immagini dei nuovi media. I cultural studies vengono dall’America. Noi europei avevamo ben motivo di invidiare agli americani il fatto che 66

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da loro la ricerca sul cinema venisse tanto rapidamente ac­ colta in seno alle università. Ma Stanley Cavell, docente di filosofia a Harvard, vede negli scritti della nouvelle vague la molla che ha fatto scattare qualcosa negli intellettuali ameri­ cani, ha aperto loro occhi e orecchie rispetto ai prodotti usciti da Hollywood. Il sogno americano venne diffuso da Hollywood, l’arte americana è arte di massa. Ben presto si profilò il pericolo che il cinema nell’accademia divenisse puro oggetto di studio. Andò perduto o perlomeno occulta­ to ciò che lo differenzia rispetto alle altre arti e costituisce la sua specificità. «Io penso che solo il cinema è in grado di non dover ricorrere ad altro per rielaborare ciò che è». Esso fa vedere e sentire resistente senza ridurre la propria visio­ ne come le parole già cariche di significato. Anche questo lo si ritrova in Péguy: «Materia e suoni hanno una ricchezza espressiva infinitamente più grande del significato-. Questa è la vera, nuova storia di cui Godard si è fatto banditore con le sue storie. Il cinema ha dato la propria impronta a un secolo - Pé­ guy dice: lo ha riempito. Ha modificato la storia e l’idea di arte. Attraverso la combinazione di ambedue, attraverso il montaggio, ha stimolato un nuovo modo di pensare. Quando Freud parla di pensiero simbolico che si espri­ me per immagini, e si sforza di fare della psicoanalisi una scienza, di ottenere per questa cittadinanza dentro le uni­ versità, descrive questo tipo di pensiero come una presa di coscienza imperfetta. Per Godard, che scoprì per esperien­ za diretta la psicoanalisi solo tardi - forse attraverso AnneMarie Miéville - , cinema e analisi sono i perseguitati del se­ colo in quanto, ciascuno a suo modo, dicono ciò che non si vuole sapere. Per fondere sulla pagina antico e moderno, vecchio e nuovo, Péguy dovette risalire a Clio. Godard cita Péguy, ma per lui le cose sono più facili, perché opera con una inven­ zione che non è più costretta alla consecuzione della scrit­ tura per rivisitare ed esplorare il secolo. Per la storia di tale secolo fa affidamento sul cinema che in questi cento anni 67

FRIEDA GRAFE - SCRITTI Di CINEMA 19612000

ha visto la propria nascita e la propria fine, la propria infan­ zia fino alla propria senescenza. Il concetto di immagine di Godard si differenzia da quel­ lo dei suoi predecessori, ma è altrettanto diverso da quello dei nuovi media. Il video non fa parte del cinema, ne è una propaggine, benvenuto come mezzo sussidiario, per deci­ frare, scoprire, riscoprire - come si vede in Sauve quipeut la vie dove egli accosta video e film. E anche in sede di montaggio. Il video incontra il suo favore perché da solo, senza tecnici, senza équipe che lo intralci, può nel frattem­ po sperimentare da sé, cosa che egli chiama pensare con/attraverso la manipolazione, pensare con le mani. L’al­ tro modo di pensare, il pensiero puro, egli lo considera il peccato originale dei filosofi tedeschi, di Kant, la cui ragio­ ne è pura, ma proprio per questo non in grado di includere il mondo che cambia. Con il digitale, scompare il negativo; nel cinema esisteva il positivo e il negativo di Hegel, nella sua forma materiale più elementare, ne era l’immagine: il digitale lo sostituisce con la linearità. Colpisce e sorprende come Godard per la sua definizio­ ne di cinema ricorra spesso alla parola miracolo, prodigio. Indubbiamente c’entra anche qui Péguy, che quando si trat­ ta di cogliere il problema della temporalità e delia creatività poetica lo utilizza impavidamente. In Godard entra in gioco anche La morte di Virgilio di Broch, la cui fatale bellezza egli cita: Viigilio, il poeta, vuole che la sua opera sia distrut­ ta, poiché essa, sebbene la sua transitoria bellezza desti l’entusiasmo degli uomini, non afferra mai il reale, essendo essa solo forma, replica, consolatoria. E tuttavia Godard non si stanca di sottolineare quanto solo il cinema è in gra­ do di fare. Sulle orme di Péguy, intende il cinema come l’angolo retto che risulta dall’incontro della profondità della storia con il futuro. Si può far ruotare questo angolo e dopo che lo si è fatto vorticare a sufficienza ne nasce un cerchio.

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Dal 1972fino al 1988, nell’inserto di fine settimana del­ la -Suddeutsche Zeitung-, Frieda Grafe pubblicò regolar­ mente lunghi contributi monografici, le cosiddette Filmseiten (-Pagine di cinema-). Lei stessa decideva impostazione grafica, titoli e, innanzitutto, immagini e didascalie. Tema principale di queste Filmseitcn era l'opera dei grandi cinea­ sti del passato; molte di esse nascevano in stretta relazione con le retrospettive organizzate dal Filmmuseum di Monaco di Baviera, di cui Enno Patalas dall'aprile del 1973 aveva assunto la direzione.

Mae West Showfilia (1973)

È un'attrice comica; non una vecchia attrice comica, l’u­ suale ruolo per caratteriste in cui le frustrazioni diventano oggetto o spunto per situazioni che fanno ridere. Il sesso è anche il soggetto di Mae West, solo senza infingimenti e non nel senso riduttivo che oggi il termine ha assunto. Sex era il titolo del suo primo spettacolo degli anni Venti: uno spetta­ colo su misura per lei, scritto sul suo corpo. Sul «New York Times- non si poteva recensirlo, perché Sex era una parola tabù che allora non aveva ancora ricevuto (’imprimatur. Ciò che Mae West esprime del sesso è l’elemento visivo, sono i gesti. Tratta la voce come una parte del corpo. Quando canta fa vibrare la voce in modo così intenso che non rimane altro che la vibrazione. Quello che ha da dire non è sconvolgente e nemmeno quanto succede nei suoi spettacoli è provocante. L’aura dell’indomito, del primitivo si fonda su altro. L’oggetto della sua rappresentazione, il mai sino a quel momento articolato, produce un effetto così selvaggio per­ ché è remotissimo dal linguaggio e prossimo alla realtà in modo tanto inquietante che, per gli spettatori, quanto vedo­ no sulla scena e quanto suppongono accadere dietro la sce­ na si fondono. Lo si vede in tutti i suoi film, inquadrature che riprendono il pubblico mentre fìssa la scena affascina­ to. Queste inquadrature rappresentano il di più rispetto alle sue esibizioni teatrali. Mae West non si limita a mostrare, lei mostra come si mostra, e mostra l’effetto negli sguardi e nelle reazioni delle sue vittime. 71

FRIEOA GRAFE • SCRITTI 01 CINEMA 1961-2000

In Belle of the Nineties celebra le sue doti un uomo con una voce lievemente da castrato. Lei, in corrispondenza, as­ sume varie pose, come nei tableaux vivants. E che differen­ za fra quanto lui decanta e quanto lei mostra! Questo numero esprime tutto il suo programma. Lei è la constatazione, messa in scena, che sul terreno del rapporto erotico a una finzione risponde un’altra finzione. Ai puritani con la fobia delle immagini, questo ha fatto pensare che ci fosse di mezzo l’inganno. Tu sei una farfalla, canta l’uomo, e Mae West agita le braccia come pale di un mulino a ven­ to, un’immagine arcaica con risonanze da sfinge alle porte di Tebe, il monstrum, mezzo bestia, mezzo donna. Il parlato nei suoi film si riduce a lines, battute, gesti lin­ guistici, a doppi sensi laconici che demoliscono le conven­ zioni e trascina chi ride dalla parte di lei, Mae, anche contro la sua volontà: «Quando ci vado piano, sono mostruosa­ mente veloce!*; «Bisogna essere in due per mettere in diffi­ coltà qualcuno».

La statua della libertà Mae West è un puro prodotto dei Roaring Twenties, quando i rigori della legge si allentavano e i sottofondi pre­ mevano verso l’alto. Il mio più temibile concorrente nei ti­ toli di prima pagina è Al Capone, afferma. Ma ebbe a che vedere con la legge sia nella realtà che nei film. Nei suoi spettacoli non fu possibile rinvenire niènte di scandaloso, ma finì dentro perché «il personaggio che Miss West incar­ na, i suoi sguardi, il suo modo di camminare, i suoi tic, i suoi gesti conferiscono ambiguità alle parole e alle situazio­ ni». Prima di andare in prigione, riuscì a suo modo a sferra­ re un calcio alla legge: l’aula del tribunale, disse, non era poi male come palcoscenico, solo più noioso di Broadway. Nei suoi film si arriva perlopiù a un patto tra lei e la giusti­ zia. Non è che ci sia da stare tranquilli davanti a queste singo­ lari apoteosi: non le basta sposarsi, deve prendersi anche un poliziotto: in She Done Him Wrong (Lady Lou) persino uno che si è travestito da membro dell’esercito della salvezza. 72

MAE WEST

Non ha mai girato più di un film con lo stesso regista, perché messa all'angolo a dover scegliere fra due mali, op­ tava sempre per l’ignoto. Nei film l’atteggiamento del regi­ sta di turno nei confronti della femminilità appare evidentis­ simo e insieme a esso il modo dei registi di rapportarsi con la propria virilità. Da tutto ciò risultano le più diverse mes­ sinscene di Mae: senza amore e poco ispirato il lavoro di Walsh, comicissimo e americano al cento per cento McCarey, sofisticato Lowell Sherman. I film più tardi scadono un po’, sono più miti e meno aggressivi. I registi credevano di aver capito Mae West. Le facevano recitare solo rivisitazioni di seconda mano dei suoi ruoli di un tempo. Inoltre riduce­ vano il suo corpo agli standard di bellezza dominanti. Per Every Day’s a Holiday il suo guardaroba venne disegnato da Schiaparelli, troppo elegante per lei. Inoltre lei semplicemente non era più abbastanza grassa da ottenere l’effetto dei suoi primi film. Che erano come un pugno in un occhio. Che lei potesse diventare l’idolo sessuale dei suo tempo, così senza seno e con i fianchi da matrona guglielmina, è dipeso solo dalle forme, dalle sue forme, dal suo stile. Lei semplicemente si presentava come un idolo, fatto e rifinito. Niente in lei è realistico; Mae West è veramente il montag­ gio che ne fece più tardi Dall. Fatto di un battito di ciglia, di un’andatura al rallentatore sempre minacciata da una totale stasi, di un gesto della mano che solleva una immaginaria cascata di capelli, una bocca aperta a mimare una sensualità senza parole. E poi tutta la bardatura, vestiti, pellicce, dia­ manti, come un cavallo da circo. Lei è la più bella, la più desiderabile, assicurano i nomi che porta. Lei è Cléo, Lady Lou, Flower Belle o soltanto Belle.

Il ballo in maschera Lei si tramuta da sé in feticcio e si adorna e si arma di tutte le qualità e di tutti i predicati che possono venire in mente per descrivere la femminilità. Si circonda di femmini­ 73

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lità come di una seconda pelle. Ma quanto più spessa la in­ dossa, tanto più schiettamente sembra dire: «Che mai sarà femminilità?*. In modo analogo funzionano le sue richieste di parità con gli uomini per quanto riguarda la scelta e il numero dei suoi amanti. Vedete, dice, sono come voi, ciò che pretendo non è niente di più di quello che voi cercate. Il divertimento davanti alle sue esibizioni è un po’quello delie barzellette che non si capiscono fino in fondo. Lei fa capire che non è del tutto così come appare. In questo mo­ do viene impedita ogni identificazione e sottratto l’alimento a qualsivoglia idealizzazione. La sua esagerata adesione al­ l’idea di femminilità è mimetismo. Per un osservatore atten­ to balza agli occhi ciò che fa la differenza rispetto a quanto viene imitato. Ma dove finisca l’imitazione e dove cominci il suo essere se stessa è difficile da dirsi. Non si può separare il falso dal vero. L’aspetto scandaloso nel fenomeno Mae West, nel suo personaggio, nelle sue invenzioni sta proprio qui: lei inscena e porta alla rappresentazione una sfera in cui queste categorie apparentemente fondamentali non hanno più alcun valore. Femminilità come qualcosa che non corrisponde ad al­ cuna realtà fissabile, come qualcosa che si fonda su imma­ ginazioni e desideri; femminilità come qualcosa che ha bi­ sogno degli occhi degli altri per esistere; femminilità come perifrasi, immagine, metafora degli uomini per l’alterità del­ la donna; e femminilità come ciò che le donne cercano nel­ lo sguardo degli uomini come proprio rispecchiamento perché non possederla è per loro uno spettro altrettanto mi­ naccioso di quanto lo sia per gli uomini l’impotenza. Ma il modo affatto esplicito con cui Mae West sembra di­ re tutta la verità sulla femminilità, le conferisce nel suo esi­ birsi un che di maschile. Se si guarda una seconda volta, lo si nota: lei cammina, guarda, reagisce come un uomo che imiti una donna. In fin dei conti non ho avuto bisogno degli uomini quanto gli uomini hanno avuto bisogno di me, scri­ ve nella sua autobiografia: Mae è una tigre di carta, opulen­ ta, in rilievo.

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Carl Theodor Dreyer Signori spirituali, donne naturali (1974) Si dice che le donne abbiano fornito pochi contributi al­ le scoperte e alle invenzioni della storia della civiltà, eppu­ re vi è forse una tecnica che esse hanno in effetti inventato: quella dell’intrecciare e del tessere. Se così fosse, viene spontaneo tentar di indovinare il motivo inconscio di que­ sta riuscita. La natura stessa sembra aver fornito il modello da imitare, facendo sì che, con la maturità sessuale, il pelo pubico cresca fino a coprire il genitale. Il passo successivo consistette nel far aderire l’una all’altra le fibre che sul cor­ po erano conficcate nella pelle cd erano soltanto ingarbu­ gliate fra loro. Se respingete come fantasioso quest’accosta­ mento e ritenete che l’influenza della mancanza del pene sul configurarsi della femminilità sia una mia idea fìssa, mi cogliete, naturalmente, privo della possibilità di difendermi (Freud).

Su questa pagina dovrebbero comparire delle immagini, tanto numerose da far sì che la parola scritta riesca ad avan­ zare solo inciampandovi. Fotografìe che forino il testo come nei film di Dreyer gli oggetti appesi, specchi, quadri e fine­ stre forano i muri. Riproduzioni di tribunali, profani ed ec­ clesiastici, di congregazioni di uomini che giudicano infanti­ cide, streghe e sante, di padri che danno in matrimonio le figlie come loro pare e piace. Ma anche fotografìe di testi che in modo violento sbarrino e arrestino il flusso delle im­ magini fìlmiche. Decreti, attestati, istruzioni su come intor­ no a mezzanotte si trafigga con un palo il cuore ai vampiri. E poesie, poesie di amore in Gertrud (1964), che cantano quanto all’esistenza è lecito conoscere solo nella sfera della licenza poetica. 75

FRIEDA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

Poi ci sono immagini di braccia maschili tese, a cui le donne hanno appeso matasse di lana per poter meglio av­ volgerla in gomitoli. Un'altra inquadratura: una coppia di sposi che mangia da un’unica pentola con due cucchiai le­ gati da una catenella. E ancora il tavolo con la cerata a qua­ dretti in Ordet (1955), su cui Inger spiana la pasta e su cui più tardi si stenderà per mettere al mondo il suo bambino morto. Infine l’ultima immagine dell’ultimo film di Dreyer: una porta bianca in una parete bianca, che Gertrud, con i capelli bianchi, un essere ormai quasi spettrale, ha chiuso dietro di sé. Non più disposta ad ascoltare oltre le frigide chiacchiere degli uomini sul dovere, l’onore, il lavoro, la legge e la passione. I concetti sublimi, a parere di Nietzsche i più ordinari e vuoti, -d'estrema esalazione della realtà sva­ porata*. (Sarebbe sciocco rinunciare del tutto ai garanti, quanto più folli e misogini tanto meglio). Gertrud aveva preso i concetti alla lettera e voleva infon­ dere loro vita. Ed era diventata scomoda. Non aveva capito, proprio come Michael Kohlhaas, che leggi e realtà sono an­ tagoniste, due registri per loro natura diversi.

Uno spazio come un setaccio Amo in particolare le pareti bianche, aveva affermato Dreyer, muri bianchi sono presenti in quasi tutti i miei film. Muri bianchi si vedono sorgere in Vampyr (Il vampiro, 1932), quando la farina che esce dal mulino cade ritmicamente trasformandosi piano piano in prigione, trappola, tomba per il vecchio dottore. I muri in Dreyer sono fatti di una molteplicità di particelle luminose, trasparenti. Il mate­ riale sviluppa una propria vita: Vampyr deve la luminosità e le strutture che ne derivano a un errore nella stampa. Vampyr va visto dopo Mikaèl (Desiderio del cuore, 1924), versione cinematografica del romanzo di Hermann Bang, la storia di un principe dei pittori che conduce una vita alla Stuck. L’Ottocento, e con lui l’idealismo, chiude la sua ulti­ ma finestra e si adagia sul letto di morte. 76

CARL THEODOR DREYER

In Mikaèl vi è un’inquadratura di natura, di paesaggio, che fa l’effetto di un turbine che minaccia tutto quanto vi è intorno. In Vampyr se ne concretizzano le conseguenze. Le immagini del cinema hanno dissolto le immagini fìn-de-siècle e già sono loro subentrate. È innegabile che la coscienza di Dreyer fosse in ampia misura determinata dall’esperienza di vivere una svolta epo­ cale. I suoi film ne recano l’impronta. Sono transizioni, infra-mondi. Quanto siano sconvolti i suoi personaggi lo si avverte tanto chiaramente perché egli fa muovere i suoi at­ tori con molta lentezza. E così la cinepresa. Si ha tutto l’agio di udire le parole, di esplorare gli ambienti. Lascio che la parola venga in primo piano, affermava Dreyer, e realizzava versioni cinematografiche di pièces teatrali anche per far sì che attraverso il cinema il teatro si oltrepassasse aprendosi a più vasti orizzonti. Prima che comunicazione di significati, i suoi dialoghi sono modulazioni, musicalmente sovradeterminati, una molteplicità di accenti. Ciò che della lingua si esprime nel­ l’eco: la sua fine - in Vampyr e in Ordet, dove il folle Johannes con voce smorzata recita la Bibbia o ripete mono­ tonamente frasi e parole. E in Gertrud il gemito degli uomi­ ni. Il suo inizio invece è in Dies irae (1943), lì è allo stato grezzo, grida come di bambino che dalla soffitta penetrano fin dentro la parrocchia dove gli sgherri catturano la vec­ chia perché sia processata come strega. Nel mezzo vi è il regno della parola, dell'ordine, dell’or­ dine parlato. Dove è ammesso ciò che appare chiaro, uni­ voco, dimostrabile, il mondo degli interrogatori, del procès verbal dove vigono formule sempre uguali ed è possibile emettere verdetti, mantenere l'ordine. De La passion de Jeanne d’Arc (La passione di Giovanna d’Arco, 1928), con la sua sequela di primi piani, il più puro, il più cinemato­ grafico di tutti i film di Dreyer, il regista diceva che era un film sul linguaggio, il linguaggio come strumento di tortura, un film sul terrorismo linguistico.

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FRIEOA GRAFE - SCRITTI 01 CINEMA 1961-2000

Troppo onore I rappresentanti della parola formano in Dreyer una stra­ na setta. Gli araldi della parola sono dignitari ecclesiastici, pastori, giudici, tiranni familiari, patrigni omosessuali e arti­ sti della parola, poeti. Du skal aere din hustru (L'angelo del focolare, 1925): onora tua moglie. La storia di un capofami­ glia rovinato da tre donne che in un primo momento l’han­ no sostenuto: la madre, la vecchia balia, la moglie. Dreyer introduce nell’immagine forme che hanno la funzione di rendere comprensibili le strutture a esse sottese che le ge­ nerano. Nel guardare, dapprima non ci si accorge che rima­ ne un po’ di simpatia per questo patriarca che è un autenti­ co abominio. È il suo volto triste che ci fa segno. È il gran­ de escluso, quando tutti gli altri membri della famiglia fan­ no blocco. La sua esclusione non è la conseguenza del suo comportamento ripugnante. A sopraffarlo è il suo status di pater familias. Il film tratta del molto citato «comportamento di ruolo* con cui gli uomini diventano padri controvoglia perché so­ no nati in sistemi simbolici che non sono in grado di gover­ nare. In Dreyer, i padri, i tutori dell’ordine, sono oppressi dal loro stesso prestigio, da quanto il loro status, il loro sta­ tus sociale nel senso più ampio, pretende da loro: il padre in Praesidenten (Il presidente,192$), il padre in Dies irae, che ha da essere padre di famiglia e padre della propria co­ munità. Quando in Ordet i due padri litigano a causa dei fi­ gli, cui viene impedito di sposarsi per la diversità delle loro confessioni, sembra di sentir latrare due cani rabbiosi sullo sfondo. Essi giustificano il loro comportamento nel nome del Pa­ dre, non come i padri reali che essi sono. È l’ordine simbo­ lico a imprimere il proprio suggello a quello reale. E ad am­ bedue si sottrae Gertrud, quando non permette che sulla sua tomba sia inciso il suo nome, né quello da nubile, né quello da sposata, solo amor omnia. In definitiva vuole es­ sere solo se stessa. Degli specchi offerti dagli uomini che l’hanno amata, si è sbarazzata prima. 78

CARL THEODOR DREYER

Gertrud è l’invenzione di un uomo; l’invenzione di due uomini: il film è nato da un lavoro teatrale di Hjalmar Sòderberg. Gertrud è una statua, un monumento, come molte altre donne in Dreyer. Le sue pretese sono assolute, proprio come i contorni del film, i suoi spazi, i gesti delle sue figure sono duri e angolosi. Le sue pretese sono troppo idealisti­ che, vi si riconosce il lungo détour per fare a meno dei ma­ schi. Ma talvolta si sentono frusciare le lunghe vesti, si in­ stalla una certa intimità. E allora parte per Parigi, per studia­ re da Charcot, il maestro di Freud. Il nome reale in un con­ testo d’invenzione apre una breccia, come era avvenuto con l’immagine di natura in Mikael. Un ordine da lungo tempo in vigore viene incrinato. Con la realtà si affaccia un’altra dimensione.

Il ritorno del rimosso Ciò che qui emerge non era morto, solo celato; invisibi­ le per il sedimentarsi di convenzioni. Qualcosa di remotissi­ mo e primordiale, suscettibile ancora di essere modificato, è Pràstànkan (La vedova del pastore, 1920). L’anziana mo­ glie del pastore, che al suo quarto matrimonio s’imbatte in un bellimbusto con amante a causa delle prebende di cui beneficia, manda all’aria tutta la vita nella quale fino allora è stata immersa. Da oggetto di scambio, da oggetto tra og­ getti, ai quali è affezionata, come lei dice, perché rappre­ sentano la sua vita, ritrova la strada per tornare ai senti­ menti della gioventù. Con stupore del suo ambiente esce sempre più spesso di casa per recarsi sulla tomba del pri­ mo marito, cui la legavano sentimenti che lei ritrova nella coppia di imbroglioni. La virulenza del soggetto viene potenziata dalla comicità del film che contribuisce fortemente a scuotere i vincoli. L’epilogo del film tuttavia è terribile, crudele come solo i film di Dreyer sanno esserlo; l’anziana donna muore, la gio­ vane si infila nei suoi vestiti. 79

FRIEDA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

Perfino la terribile figura materna, la vecchia Merete in Dies irae, dimentica di sé e più realista del re quando si tratta di difendere le leggi del mondo degli uomini, ha il suo momento di debolezza, in cui smargina. Quando trova il figlio morto, accanto alla polena della dimora del canoni­ co si materializza un’apparizione del tutto diversa, somi­ gliante alla vecchia, mite strega la cui condanna al rogo Me­ rete ha reputato giusta. In un saggio di Freud del 1926 si legge che la vita ses­ suale femminile è per la psicologia un dark continent che fa l'effetto di essere tanto più oscuro quanto più in tutto il testo, per quanto lo si percorra in lungo e in largo, non si rinviene nessun’altra espressione inglese. Con ciò egli non intende tanto, come più tardi Wilhelm Reich, la minaccia che metterebbe in pericolo, a opera delle donne, l’ideologia autoritaria una volta che si riconoscesse loro ufficialmente il diritto alla sessualità: ciò che Freud ha piuttosto in mente è che la femminilità si sottrae alla possibilità di essere traspo­ sta sul piano della rappresentazione, quindi alla sublimazio­ ne. Vale a dire che la sessualità femminile non obbedisce alle leggi della rimozione e che vi è bisogno di una grande censura per soffocarla. Anne, la giovane strega in Dies irae, è sposata con un uomo molto più anziano di lei. Con il più perverso e pove­ ro di tutti i pastori, il quale dopo la morte della prima mo­ glie, grazie alla sua posizione, ha preso in moglie una gio­ vane donna. Dal primo matrimonio ha avuto un figlio che ha gli stessi anni della giovane moglie che egli non ha mai toccato. E quando il giovane si fa vivo, il sistema crolla: la successione delle generazioni comincia a confondersi. An­ ne è solo l’anello debole della catena. La natura si è aperta una breccia nelle sedimentazioni della civiltà. «Nella Bibbia come in tutte le antiche legislazioni tradizionali la confusio­ ne nel succedersi delle generazioni è esecrata...-. Si avverte come lentamente il pericolo si accresca: da un innocuo gio­ co a nascondino all’inizio per fare una sorpresa al vecchio pastore prende avvio il tradimento, il peccato originale. 80

CARL THEODOR DREYER

Nell’interrogatorio Anne ammette di avere facoltà strego­ nesche quando vede il suo amore tradito dall’uomo che si riallinea all’ordine patriarcale. La catena si richiude di nuo­ vo. Dove era differenza, contraddizione, ora regna nuova­ mente l’armonia. Un coro di fanciulli con il Dies irae facilita alla donna la morte sul rogo.

Dentro/fuori Il baratro che per un attimo si è aperto, il disordine che si sta diffondendo, il pericolo che minaccia le leggi, mostra­ no il fondamento su cui poggia l’ordine. Maitre in francese ancora oggi è sinonimo di avvocato. Con -Maestro- viene interpellato in Mikaèl il principe dei pittori il cui magistero volge alla fine perché la natura irrompe. Chiudi la finestra, dice il pittore al suo servitore, e con questo l’ultima traccia di mondo esterno sparisce dal suo atelier. L’irruzione della natura in Mikaèl coincide con l’irruzione della donna; la donna, dice Baudelaire, è naturale, ossia abominevole. Dreyer ci fa vedere come la natura delle donne ammetta peraltro tutte le forme della mascherata, in Mikaèl Nora Gregor nelle vesti della principessa Zamikoff è un vero spaventapasseri. Scoprire il lato recondito delle cose non significa in Dreyer ricercare profondità ideali. Il suo aldilà non è come in Fritz Lang l’elemento ctonio, i cunicoli, le caverne e le segrete sotterranei. Sta sullo stesso piano del visibile. Ciò che conta non è cosa sta dietro alle immagini, ma ciò che in esse appare come regione inesplorata. L’aldilà dei film di Dreyer, quanto egli cela dietro soggetti o costumi storici, è l’aldiquà rimosso e censurato. Costruisco case, lamenta il folle Johannes in Ordet, in cui nessuno vuole abitare, e prende due candelabri con le candele accese e li appoggia sul davanzale. Lo stesso potrebbe dire Gertrud. La tematica mistica di Dreyer dà spesso l’impressione di essere in contrasto con la natura realistica del suo medium. 81

FRIEDA GRAFE - SCRITTI DI CINEMA 1961*2000

È vero, Dreyer a volte si comporta al pari di uno stregone, come Anne in Dies irae quando mette alla prova le sue for­ ze soprannaturali e con sorpresa e terrore si accorge che la cosa funziona. Mediante il cinema Dreyer fa risuscitare i morti. Ma bisogna fare ancora un altro passo, per seguirlo. Mediante il cinema non si limita a mostrarci il reale, ma ci indica la qualità segnica del reale. Egli rende visibili gli or­ dini simbolici e le loro coercizioni. Modifica l’usuale rap­ porto del segno con il concetto. Con il suo indugiare sugli oggetti, con lo spessore dei corpi egli protesta contro l’idea della totale traducibilità di tutto in tutto. Per lui c’è qualcosa che blocca la circolazione delle riproduzioni, dei simboli. Il lavoro, dice Marx, non è l’unica fonte della ricchezza mate­ riale, ne è il padre, come la terra ne è la madre. Quando In­ ger in Ordet muore, il padre consola il figlio dicendogli che lei ora è in cielo, ma il figlio, inconsolabile, ribatte: -Ma io ho amato anche il suo corpo». Il punto focale dei film di Dreyer non compare in modo diretto. Egli si limita a tracciarne i contorni. Le immagini non sono che residui di infinito, di informe, di possibile, ie­ ratici e rigidi, al fine di estendere la propria limitatezza. Nei film di Dreyer mai è possibile identificarsi con un solo per­ sonaggio, non vi sono eroi o malvagi. Le controversie sono piuttosto di natura cosmica, ma non astoriche. Quanto in lui collide sono ordini di diverso genere, o meglio l’ordine che entra in urto con il disordine. Non ci si deve lasciar ingan­ nare dalle conclusioni spesso quietistiche dei suoi film. Esse fomentano la collera. E a ben vedere, il miracolo alla fine di Ordett la resurrezione, rappresenta il trionfo del disordine. Un evento sottratto alla cornice di qualsiasi interpretabilità, di qualsiasi contesto. Un punto zero, un’altra regione invisibile, un vuoto nella catena della causalità. Quando Freud incominciò a descrivere l’inconscio, a concepirlo sul piano teoretico, potè solo constatare come l’apparato con­ cettuale delle scienze esistenti non funzionasse più. Come esso sia il grande Altro, da cui dipendiamo, e che in un pri­ mo momento è possibile concettualizzare solo ricorrendo a categorie negative. 82

CARL THEODOR DREYER

Vedendo oggi i film di Dreyer, si è portati a pensare che siano fuori dal mondo. Quando Gertrud nel 1964, per desi­ derio di Dreyer, fu proiettato per la prima volta, il pubblico della première era gelato dallo sgomento. Penosamente scosso, constatò un caso di senescenza avanzata. Il film era diverso da quello che ci si aspettava, diverso dal ricordo de­ gli altri film di Dreyer. -Del tutto naturali* disse Dreyer -sono gli interpreti. Parlano, camminano con un ritmo affatto na­ turale*. Una volta visti, tornano sempre.

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Robert Bresson Eccessi di un asceta (1975)

Agire -Ora lei naturalmente è qualcuno, un capitalista». Così si dice del prestatore su pegno nel racconto di Dostoevskij La mite. Egli aveva tratto la sua giovane moglie dal niente, dal­ la miseria più nera. Le voleva dare un’esistenza. Lei si sot­ trae ai suoi piani, che sono un sistema mercantile di dare e prendere, in cui ogni cosa ha la sua forma ben definita, una collocazione precisa e un prezzo fìsso. Si ribella. Sfugge al suo (di lui) sistema fondato sul risparmio, splendendo il de­ naro per cose senza valore. Paga in base al valore che le cose hanno per colui che è costretto a smerciarle. Lei vole­ va impegnare un crocefìsso per denaro. Così si erano cono­ sciuti i due. Lui aveva preso il crocefìsso e rinunciato al banco dei pegni. In fin dei conti, non si può immettere nel­ la circolazione ciò che garantisce il denaro. Senza tabù niente ordine. Ma le storie di soldi per la mite non sono che l’inizio. In seguito riprende indietro sé stessa. Nessuna comunicazione più. Niente amore, niente parole. La trasposizione del racconto nel film di Bresson, dai tor­ tuosi intrecci di denaro, linguaggio e amore nel xix secolo al contesto della Parigi di oggi, avviene senza alcuna forza­ tura. Il proprietario del banco dei p>egni è un banchiere che è stato buttato fuori. La cancellazione della distanza tempo­ rale non trasforma la storia in un oggetto di pura contem­ plazione artistica e di -visione distaccata»: mostra anzi come cento anni non abbiano modificato in nulla le strutture 84

ROBERT BRESSON

profonde del capitalismo. Sono più virulente che mai come statuto del commercio economico, sessuale e linguisticosimbolico. Il mondo è un unico, gigantesco banco dei pegni, di­ sgregato in singoli oggetti e individui isolati. Mi ero immagi­ nata qualcosa di più ampio respiro per la mia vita che un matrimonio, dice la mite disdicendo il contratto sociale. Si uccide. Giovanna d’Arco, nel film di Bresson: «Costringetemi og­ gi a confessare e domani ritratterò*. Si lascia legare al palo della tortura. Per lei la vita non è un valore di scambio. Le eroine di Bresson sono spesso giovani donne che rifiutano di farsi coinvolgere in qualsiasi commercio. Mandano in ro­ vina il sistema. Provocano crisi. Per morire Mouchette si av­ volge in una sorta di abito nuziale, si sdraia per terra, si la­ scia rotolare più volte giù per un pendio fino a quando le riesce di sprofondare nello stagno del villaggio. La fine di Giovanna d’Arco è ancora più crudele, la si priva perfino della sua propria morte. Ovunque si volga: i preti o i solda­ ti, i gretti tutori dell’ordine, cavano da lei profitto. Non si dovrebbe scambiare per cristiano culto della pul­ zella ciò che è piuttosto irruzione della civiltà perduta delle amazzoni. Le fanciulle in Bresson si rifiutano agli uomini perché nel sistema dominante la strada che passa attraverso l’amore genitale, la riproduzione, porta ineluttabilmente alla produzione. Queste giovani donne sono l’incarnazione dell’eccesso. Sconcertante per la comprensione maschile è soprattutto l’assolutezza come presupposto del loro agire. Lo stupore davanti a tale assolutezza è stato spesso in passato motore del fare artistico. Solo in Bresson e nei suoi film recenti il femminile si presenta come il polo altro, non simbolizzato, dell’invenzione narrativa. Viene così demarcato un confine, una soglia: la differenza che produce invenzione, il fonda­ mento della rappresentazione. L’interiorità, che rende diffìcile la frequentazione dei film di Bresson, non ha nulla di idealistico. È la decisione di non 85

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dare forma, di non violentare quella sfera del non-formato che rappresenta l’altra parte dell’invenzione. Non immagine che si contrappone al pensiero, o all’espressione a favore del significato - e possibilmente ancora un piccolo plusva­ lore da mettere in conto all’arte. «Il cinematografo è l’arte» dice Bresson -di non rappresentare nulla con le immagini».

Il cinematografo non danza con qualunque musa •Tanto intensamente amo il teatro, tanto intensamente, proprio per questo, io combatto». -Il senso della poesia si realizza nel suo contrario, nell’odio per la poesia». Due frasi alate come variazioni sul tema, animate dallo stesso para­ dosso, descriventi lo stesso infra-spazio, che è anche il car­ dine del cinema di Bresson. «Cinema» è sbagliato. Bresson non si vede come un intrattenitore del popolo. Il suo me­ dium è il cinematografo. Il cinema è sulla strada sbagliata, già da tempo, dice Bresson. Misconosce la propria vera natura. Emula le arti della parola, che sono legate alla dimensione tempo, alla li­ nearità. Il cinematografo è pluridimensionalità. Prima di tut­ ti i possibili significati della storia, è simultaneità di piani, tra i quali si compiono i processi. Il cinema che si fìssa sul racconto si affida alla psicologia, ripetendo qualcosa che è già stato pensato. L’interiorità viene esternata in forme stan­ dardizzate. Il cinematografo è in grado di registrare moti spontanei. Le sue più grandi potenzialità risiedono nel suo essere li­ mitato. Per rappresentare l’intuitivo può utilizzare solo stru­ menti esterni. Ma in arte, attraverso il cinema, al corpo è sta­ ta conferita una funzione altra, più diretta. Non è un media­ tore di pensieri. La sua semplice presenza diventa l’oggetto del cinematografo, che cattura il puro splendore del non­ pensato. Da «C’era una volta» si passa a «La prima volta». In primo luogo va mandato in tilt il meccanismo della scrittura, della letteratura, che trasforma le cose in parole. Nel film di Bresson su Giovanna d’Arco i dialoghi proven86

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gono esclusivamente dagli atti processuali. «Senza prendere la penna in mano« afferma Bresson, «con le risposte date ai suoi giudici Giovanna ha realizzato un lavoro letterario». L’ultimo film di Bresson Lancelot du Lac {Lancillotto e Gine­ vra} ha per oggetto quella parte delle leggende del Graal che tratta del folle amore tra Ginevra, moglie di re Artù, e Lancillotto, il più audace dei cavalieri della Tavola rotonda: essi si rendono colpevoli, colpa non provata, perché hanno oltrepassato il limite della venerazione e dell’affetto consen­ titi, «... la regina lanciava occhiate furtive a Sir Lancillotto, per le quali in Arkansas sicurissimamente l’avrebbero fatto fuori a pistolettate» (Mark Twain, Un americano alla corte di re Artù). Per Bresson queste leggende, tradizione poetica orale, sono le fonti della letteratura. E anche l’incoercibile controparte della lirica trobadorica, con la sua obbedienza a regole rigorose e il suo ideale amoroso squisitamente omo­ sessuale. Lancelot inizia con la decadenza della Tavola rotonda. Con l’ardente ricerca di un nuovo obiettivo comune. Il san­ gue sgorga a secchi dalle armature. Esse tengono in piedi gli uomini quando la vita da tempo si è dileguata da loro. Soprattutto li trattengono al suolo. Quando essi escono dal­ le loro armature si ha l'impressione che debbano sollevarsi in aria come mongolfiere, come astronauti sulla luna, che abbiano dimenticato la propria zavorra. La meta inimmagi­ nabile di cui vanno alla ricerca - Hitchcock la chiamerebbe il MacGuffìn - , il Graal, è un vaso, un contenitore. In Lancelot le forme sono presenti con le corazze, le ar­ mature e il clangore che esse provocano. Ciò che si sente è più drammatico di quel che si vede: ogni traccia di dimen­ sione individuale scompare. Nel medioevo, affermano gli storici, nella gerarchia dei sensi l’udito occupa il primo po­ sto. Solo molto più tardi la vista dal terzo posto, dopo l’o­ dorato, guadagna il primato assoluto. «Le forme trascinano con sé i ritmi», dice Bresson, e: «I rumori sono la dimostra­ zione concreta che c’è vita». 87

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In lui si vede davvero per la prima volta una gestualità storica. Agli interpreti non rimane il tempo per mimare. Essi esprimono precisamente quanto consente la continua lotta con la tenuta da combattimento. Sono sempre in azione. E questo è il punto in cui i film di Bresson si incontrano con il cinema che egli tanto disprezza, il cinema hollywoodiano: là dove è realmente cinema d’azione. Lancelot, un cupo film in costume, mostra la fine della leggendaria epoca cavalleresca e nella povertà dei suoi mezzi, nella soppressione di ogni tratto pittoresco, è una sorta di annuncio della fine della finzione. Nel preciso mo­ mento in cui essa trapassa in documentarismo e la rappre­ sentazione diventa superflua. Come se con il cinema fosse diventato possibile uno spazio in cui non vige cesura tra vi­ ta e sua rappresentazione. Uno spazio in cui tutto è messo a nudo, il dentro e il fuori non sono separati, ma intrecciati. Uno spazio in cui i ritmi che generano il visibile sono più avvincenti ed esercitano una maggior presa rispetto alle sto­ rie. Il grido di una gazza, il galoppo circolare di un cavallo ferito impazzito, l’accostamento inedito tramite il montaggio di un’immagine a un’altra. Quando nel 1966 Bresson girò Mouchette, da Bemanos, fece indossare alla protagonista degli zoccoli così informi che ogni sua grazia di fanciullina per ciò stesso si dileguò. Dominique Sanda, che egli istruì per il ruolo della -mite», in precedenza era mannequin. Di lei fece un manichino di vi­ brante intensità. Bresson lavorava solo con attori non professionisti. La loro dizione grezza e il loro sgomento davanti alla cinepre­ sa disinnescavano falsi fascini e ingannevole charme. Ma anche, dove subentrava la riflessione, stadi primordiali, pre­ figurazioni di stilizzazioni, oltrepassamenti del mero sponta­ neo. In Lancelot i cavalli - come già l’asino in Au hasard, Balthazar - sono non professionisti al quadrato. Non che Bresson fosse del tutto insensibile all’autosufficienza della professionalità, allo splendore della padronanza delle for­ me. Pickpocket del 1969, il suo quinto film, è innegabilmen­ 88

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te una confessione. Il cinema di per sé è troppo vicino ai trucchi del borseggiatore, mostrati alio spettatore con scon­ finata sensualità. Tali trucchi sono Ersatz, surrogati, fughe, détours, così dice l’ultima dichiarazione del ladro, prodotti da una mancanza, sotto la sua spinta. Sono la spazializzazione di desideri inesauditi. Prima di dedicarsi al cinema, Bresson dipingeva. Le arti della parola sono i nemici mortali del cinema. Verso la pit­ tura e le sue facoltà immaginative egli conserva ancora una grande propensione. Tra i pittori contemporanei egli ap­ prezza gli informali che si battono per la «significatività del­ l’informe», Wols soprattutto, il pittore della materia brut. È stata la combinazione del meccanico e dello spontaneo a spingere Bresson verso il cinema, ossia la stessa combina­ zione che all’inizio guadagnò al cinema le simpatie dei sur­ realisti. Bresson definisce la cinepresa una macchina prodi­ giosa. Non gli serve come mezzo per riprodurre, per copia­ re la realtà, ma come incorruttibile apparecchio da ripresa, capace di registrare momenti sublimi che sfuggirebbero alla percezione umana deformata: il vento spira dove vuole. La pittura può solo fissarli, la cinepresa li registra come pro­ cesso. «Strutture, indipendenti dal volere dell’autore, non oggetti, ma ciò che essi fanno scattare in me, action pain­ ting*. Da Au hasard Balthazar. Il maestro si dà ai giochi di parole?

Esplorare l’interno Il cinematografo, non solo la cinepresa, è la trappola in cui si impigliano cose per le quali, quando se ne parla o ad­ dirittura se ne scrive, sono a disposizione solo espressioni come mistica o metafisica. Il cinema prova la loro esistenza. Un progetto non realizzato di Bresson è un film su Igna­ zio di Loyola, il quale aveva compilato un libriccino di eser­ cizi spirituali, un manuale che conteneva istruzioni per evi­ tare le immagini che distraggono, ma anche ricette per pro89

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vocare immaginazioni profìcue al raccoglimento; come si fa tabula rasa e si crea uno spazio che, essendo vuoto, attira come un risucchio risposte, una scenografia per esperienze non discorsive. Per Bresson, che non fa mistero di essere cattolico, l'aldilà si presenta nella luce dell’aldiqua. Immagi­ nazioni e fantasie fanno parte della realtà. Giovanna parla delle vesti e delle voci dei santi che le appaiono come fos­ sero buoni vicini, con rabbia dei suoi inquisitori che peral­ tro concludono ben volentieri affari con gli inglesi, lascian­ do salva l'apparenza e l’ordine costituito. Per il giovane pittore in Quatre nuits d'un reveur (Quat­ tro notti di un sognatore) si fa giorno quando di notte si ac­ cendono le luci artificiali, quando si stagliano cose fatte di pura luce, come un bateau mouche sulla Senna. La foresta sull'isola di Noirmoutiers, il luogo dove è stato girato Lan­ celot, infestata dai cavalieri di re Artù, diventa la quintessen­ za del mondo delle fiabe, senza che mai Merlino debba far ricorso alla bacchetta magica. Lo scarno, il banale produco­ no il surplus, il fantastico, come la laconicità del sogno rive­ la il non detto. Bresson cerca la resistenza per amore della frizione che fa scaturire la scintilla. Poiché il cinema basato sulla rappre­ sentazione ci fa vedere solo costellazioni probabili di causa ed effetto, tanto più intensamente in Bresson si sperimenta­ no le fratture e la frammentazione. Egli maltratta i suoi spet­ tatori. Negli strati che precedono la rappresentazione, o la sottendono, i suoi film sono brutali. Il nuovo contesto fun­ zionale in cui viene portato il linguaggio apparentemente naturale del cinema, lo trasforma in artificiale. In Un condamné à mort s’est echappé (Un condannato a morte è fug­ gito) gli oggetti rudimentali di una cella si trasformano in un perfetto strumentario per l’evasione. Avvincente non è la storia, avvincente è il mutamento delle cose, e quello degli uomini che ne consegue. •L’uomo* scrive Michel Foucault -è un’invenzione recen­ te, che è possibile abbia già fatto il suo tempo*. Gli eroi e le loro azioni appartengono a questa epoca della maitrise de soi, del dominio di sé. 90

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Sentimenti illuminati Come i sentimenti modificano l’aria che si respira, questo è quanto vorrei mostrare, afferma Bresson. Da quando gira a colori, i suoi film appaiono meno inquietanti. Ora sembra meno posseduto dalla furia di frammentare ogni continuità e di far quasi scomparire il mondo dietro una quantità di cache. La sensualità, che nei primi film si era concesso di produrre soltanto con ellissi, è entrata in modo più tangibile nella superfìcie dei suoi film. Sono diventati più morbidi e seducenti, tanto che viene da pensare alle incantevoli nuan­ ces del bianco e nero nel suo secondo film Les Dames du Bois de Boulogne (Perfìdia) tratto da Diderot con Maria Casarès. Oggi i suoi colori sono smorzati e terrosi. Ciò che ha l'aria della quiete è invece silenzio di morte. In precedenza i suoi film erano lunghi percorsi che portava­ no a una catastrofe, a una crisi. Oggi hanno una duplice fi­ ne, una all’inizio e una all’epilogo. Sangue che scorre dopo che è già subentrata la morte. Dalla prima immagine essi sottolineano la vanità di tutti i tentativi di rianimazione attraverso l’arte. A dispetto della loro apparenza modificata, continuano a essere ciò che so­ no sempre stati: carneficine, distruzione violenta. Costruzio­ ne di un edifìcio fatto di forme, che serve solo una volta e poi viene distrutto. In cui la vita per un momento si trattie­ ne. -Ma su questo stato di inebriamento rovesciai ben pre­ sto acqua gelata. Proprio in questo consisteva la mia idea» (Dostoevskij, La mite). I detrattori di questi film dicono che sono anacronistici, astorici, regressivi. Essi sono immolazioni, pura testimo­ nianza di tutto ciò che va oltre il bisogno, l’utilità sociale, e la sfruttabilità. Essi spazializzano un movimento, un ritmo, un élan oltre i confini del finito. Sono un impennarsi contro la morte prima della definitiva sepoltura.

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Leni Riefenstahl Contadini finti, soldati finti, e che popolo! (1975)

Danzatrice di formazione, esordì come attrice in Bergfìlme, film di montagna, dove contava più il dominio del cor­ po che la scuola drammatica: da Arnold Fanck imparò co­ me si fotografa la natura. Allora i diritti dei registi erano an­ cora meno tutelati di oggi. Di Der beilige Berg di Fanck, in cui Riefenstahl soprattutto danza, i russi attraverso il rimon­ taggio fecero una leggenda, una fiaba popolare. I cambiamenti al film di Fanck la ispirarono nel suo Dos blaue Licht (La bella addormentata, 1932), racconta Leni Riefenstahl. L’aspetto puramente documentario del film, il limitarsi a fotografare nebbie, non l’ha mai, sostiene, inte­ ressata; mentre invece l’ha interessata come attraverso il do­ cumentario il realismo dell’immagine fìlmica si lasci stilizza­ re. Nell’ottica della storia del cinema la presunta mistica del­ la natura si dissolve in riferimenti univoci al cinema fantasti­ co. In Das blaue Licht il pittore giunge alle montagne come il sensale in Nosferatu nella terra dei vampiri. Con riprese a effetto accelerato di nuvole, lune rotolanti e scintillio di cristalli, Riefenstahl crea nel suo primo film gli stessi effetti che raggiungerà con dissolvenze incrociate nel prologo del suo film sui giochi olimpici (1936-38). Una ten­ sione che non scaturisce dall’azione narrata o dagli eventi fotografati. Vecchi contorni si dissolvono in nuove forme. Una statua greca non si trasforma certo in un reale atleta, ma in un'immagine filmica totalmente stilizzata, più vicina alla sensibilità degli anni Trenta e più accessibile alle masse incolte del codice dell’arte antica. 92

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Das blaue Licht, il suo film d’esordio, fu realizzato da Riefenstahl insieme a Béla Balàsz, il teorico del cinema marxista e compagno di lotta di Gyòrgy Lukàcs dai tempi della repubblica dei consigli. Scrissero insieme la sceneg­ giatura, lui fu coproduttore del film e supervisionò le ripre­ se mentre lei, nel ruolo della protagonista, stava davanti al­ la cinepresa. Il cinema è l’arte popolare del nostro tempo, dice Balàsz, solo, purtroppo, non nato dallo spirito popola­ re: è lo spirito popolare a nascere da lui. Agli spiriti idealisti questo aspetto dell’arte ha sempre fatto paura. Platone l’ha bandita dal suo Stato. Nell’epoca della riproducibilità delle arti, dei mass media, la diffusione delle idee ha assunto di­ mensioni inaudite e un’inaudita velocità. È stato possibile un approccio infinitesimale alla pseudo-physis della realtà. Davanti ai nostri occhi la «finta natura» non si trasforma in seconda natura, ma in ciò che appare naturale.

L’ordine simulato Fu attraverso Dos blaue Licht che si stabilì il legame con Hitler. Il film lo colpì al punto che incaricò Riefenstahl di realizzare il film sul congresso del partito, Der Triumph des Willens (LI trionfo della volontà, 1934). Sorprendente che proprio una donna avesse il compito di filmare questo chiu­ so raduno maschile. Ma inspiegabile solamente se ci si fa un’idea troppo semplice delle potenzialità che il cinema rappresentava per il fascismo: un’idea insomma come quel­ la di Goebbels, che con la sua educazione classico-gesuitica si riteneva un intellettuale superiore alle masse e nel cinema non poteva vedere altro che un mezzo di propaganda con­ trollabile sotto tutti i punti di vista, una seduzione calcolata. L’estetizzazione e la teatralizzazione della politica cui in­ dulgono i nazisti aveva sicuramente radici nel passato di aspirante pittore di Hitler, come nel suo odio piccolobor­ ghese per la borghesia e la sua cultura: odio però accompa­ gnato da un autentico fiuto per tutto ciò che una società di 93

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massa trasformata dalla tecnica esigeva in fatto di nuove forme artistiche. La struttura psicologica delle masse prefasciste è caratte­ rizzata, l’hanno confermato tutti gli studiosi, da una con­ traddizione fra tendenze rivoluzionarie, dinamiche, che pre­ mono per l’abolizione delle forme di vita borghesi, e una pavida immobilità reazionaria, che continua a imitare le vecchie forme. Arte piccoloborghese come farsa, parodia dell’arte borghese. In essa il ceto medio si mostra come la classe più povera: né adibita ai mezzi di produzione né loro detentrice. E così Hitler agisce sulla sovrastruttura. Si serve del nuo­ vo medium e della sua ricezione collettiva, capace di unifi­ care le masse. Tale medium gli dà la possibilità di progetta­ re, nell’immagine, a livello simbolico, quell’unità cui man­ cava il fondamento. Le contraddizioni economiche veniva­ no dissolte sul piano formale, alle masse veniva fatta indos­ sare l’uniforme. Uomini costretti al lavoro obbligatorio co­ me contadini-comparse, il popolo del partito della nsdap come un esercito di uomini del seguito, appartenere al qua­ le appariva una meta ambita. In questo il regime nazista era veramente fantomatico. Wilhelm Reich nel suo libro sui fascismo: i comunisti non si erano preoccupati dei desideri e dei piaceri delle masse, per questo i nazisti ebbero gioco facile con loro; ve­ dere la base materiale della vita solo nella dimensione eco­ nomica era una illusione razionalistico-idealistica. Il film sul congresso del partito traduce in immagine l’i­ dea di festa popolare di Hitler. È lo stesso apparato di massa a mettersi in mostra in questo film. La folla non appare co­ me qualcosa di caotico, amorfo, si esibisce in geometrica configurazione. È pura speculazione affermare che queste immagini potessero funzionare solo per i nazisti. Doveva preesistere nei singoli una propensione a sentirsi al sicuro, al riparo in una simile cornice. Così come peraltro si può pensare che chi allora guardava queste immagini con spirito desto, intravedesse come in un lampo che cosa l’aspettava. 94

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Montagne di donne Uno sguardo ai film hollywoodiani di quegli stessi anni toglie ai film nazisti la loro unicità. Sono a loro volta film kolossal, in cui il cinema fa sfoggio della sua capacità di of­ frire prospettive non-umane e di rappresentare le masse, rassicurando l’uomo nella massa che anch’egli in ogni mo­ mento può diventare protagonista della storia. Il monumentalismo in arte non era solo una esagerazione retorica dei nazisti, priva di qualsiasi retroterra. In tutti i manifesti e le teorie dei futuristi esso appare come l’espressione adeguata alla società di massa. Numeri musicali dell’epoca con coreo­ grafìe e figurazioni composte da corpi umani propaganda­ no lietamente e senza farne mistero l’american way of life. Non vi sono criteri stilistici fascisti definiti, esiste la miseria dell’arte che si fa propaganda; ragion per cui è più facile af­ ferrare per la loro ideologia Breker o Thorak, i quali ripro­ ducono puri contenuti con l’aiuto di forme note. Una celebre immagine del film sul congresso del partito: masse schierate in configurazione geometrica tra le quali lungo una strada fatta sgomberare avanzano, ripresi dall’al­ to, minuscoli, Himmler, Hitler e Lutze. Fra tante, questa im­ magine è considerata prova irrefutabile del modo di filmare fascista di Riefenstahl. Oggi si sa che la regista non voleva questa prospettiva dall’alto. Avrebbe voluto immergersi nel­ la folla con una lunga carrellata che seguisse i tre personag­ gi in movimento. Ma uomini delle sa che imponevano le di­ stanze glielo impedirono. Sono un bravo montatore, diceva Leni con civetteria. Avrebbe dato una falsa immagine sintetica del congresso del partito mescolando cronologia e luoghi in accordo con le proprie idee. Lo stesso rimprovero le è stato mosso a proposito del film sulle olimpiadi. Ma pretendere di dimo­ strare, su questa sola base, che Riefenstahl abbia prodotto arte nazista è una mossa maldestra. Il suo concetto dinami­ co di arte non solo annullava svolgimenti temporali fìssati, modificava soprattutto la rigida aggressività dei fotogrammi

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in cui erano inquadrate figure umane. La regolare geome­ tria degli uomini in uniforme nel corso della parata viene trasposta in altro ritmo. Non si tratta dell’usuale direzione dello sguardo dell’osservatore autarchico, che si posa sul­ l’oggetto marcando dei confini. Nel film Olimpia lo sguardo scivola fin dentro il maratoneta giapponese, nel film sul congresso del partito lo spettatore viaggia in auto insieme a Hitler. Ai metodi non ortodossi con cui la regista girava film documentari corrispondono, nei suoi film d’invenzione, tecniche per le quali raccontare, rappresentare contenuti che si possono fissare verbalmente, non costituisce l’obietti­ vo primario. Si può definire frivola la Riefenstahl; nel film sul congres­ so del partito e sulle olimpiadi si possono riconoscere i trat­ ti del film su commissione; ma lei non era più interessata al­ la nsdap di quanto non lo fosse allo sport. Se oggi cerca di mondarsi della macchia dei suoi passi falsi fascisti, non fa che avvitarsi sempre più in una irruente e verbosa impoten­ za. Avrebbe lavorato in attesa dell’unico progetto che le sta­ va veramente a cuore, la versione fìlmica della Pentesilea di Kleist, la storia della regina delle amazzoni. In un regime che attribuiva alle donne circonvoluzioni cerebrali più ridot­ te e le dichiarava incapaci di intendere e volere a livello po­ litico, per un (ale progetto, ovviamente, non c’erano soldi. Il contenuto delle immagini che lei trasforma in film è troppo grave perché ci si autorizzi ad analizzare le articola­ zioni filmiche. Le interpretazioni dei suoi film sono pertanto spesso improntate a una ingenuità incapace di prendere le distanze, una ingenuità che reagisce alle immagini come fossero la realtà: con conclusioni affrettate, che convincono solo perché sono le più ovvie. Il culto del corpo dei suoi film è considerato indizio di nazismo. Il fatto che nel film sui giochi olimpici mostri più interesse per la squadra ame­ ricana composta di neri piuttosto che per militareschi ariani non quadra. Le orecchie a sventola di Jesse Owens e i suoi denti storti a quale ideale classico di bellezza corrispondo­ no? Con un pizzico di autoironia si potrebbe quasi dire: la 96

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Riefenstahl riprende senza imbarazzo il suo tipo. Nessuno ha parlato di culto del corpo idealizzante quando per anni e anni da tutti gli schermi venivano propagandati come pa­ rametri ideali il seno di Jane Russell, le gambe di Marlene e il sedere di Marilyn.

All’assalto delle cime Nel suo studio From Caligari to Hitler il cinema di alta montagna viene interpretato da Siegfried Kracauer come specifico prodotto tedesco sul terreno di coltura del prefa­ scismo; in particolare i film di Fanck sono per lui esempi dell’aneiito idealistico verso le cime e della fuga dalla mise­ ria sociopolitica. Triumph des Widens è il punto finale, «il definitivo fondersi di entrambi i culti, il culto per le verte e il culto per il Fuhrer». A questa idea si riallaccia una catena di associazioni che opera in tutto il libro: natura/ mistica/ annebbiamento/ fantasie di onnipotenza. Le analisi ideologico-critiche delle sceneggiature intra­ prese da Kracauer segnano la rinascita della critica cinema­ tografica tedesca dopo il 1945. Adorno: «Sono diventate l’ovvio presupposto di qualsivoglia riflessione sul medium». Questa ovvietà, qui è il punto debole, il punto cieco. Le te­ si di Kracauer hanno fornito le formule che fanno sembrare il cinema tedesco degli anni Trenta e Quaranta come esplo­ rato e liquidato. Anche da noi, il recente risveglio d’interes­ se per Leni Riefenstahl non vuole la riabilitazione delle qua­ lità estetiche di una regista, la cui valutazione finora era sta­ ta unilateralmente determinata dalla sua immagine politica. All’estero ci si è sempre interessati ai suoi film perché essi, al di là della propaganda, hanno una loro collocazione nel contesto internazionale della storia del cinema. La tematica dell’alta montagna non è un’invenzione te­ desca. Nel 1918 Erich von Stroheim mise in scena il Titolo a Hollywood: un ufficiale dell’impero austro-ungarico eroto­ mane disturba la quiete contemplativa di una coppia di 97

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americani in cerca di ristoro sulle Alte Alpi - oppure: al cit­ tadino sfinito a causa della brama di denaro viene ricordato che la natura non è solo paesaggio durante le vacanze, che le aspettative della moglie non si limitano solo ai soldi che porta a casa. La natura, sempre associata alla mistica, viene in Kracauer - e Susan Sontag in un suo saggio prosegue su questa linea - registrata come infallibile tratto distintivo dei film fa­ scisti, la campagna come rifugio dai problemi della metro­ poli, come topos di un mondo sano. In altri contesti queste sarebbero argomentazioni convincenti. Ma natura è solo una parola. La natura al cinema non è la natura nelle arti classiche. L’errore, di stampo idealistico, sta nel fatto che il cinema, in ossequio alla tradizione, viene visto come me­ dium di rappresentazione antropocentrico. Per i primi teori­ ci del cinema come Elie Faure o Jean Epstein il nuovo me­ dium tecnico si differenziava da quelli che l’avevano prece­ duto per il fatto di consentire prospettive cosmiche. L’onni­ presenza dello sguardo della cinepresa, che superava infini­ tamente le facoltà percettive dell’occhio umano, questo per Dziga Vertov e Jean Vigo era il cinema. I mezzi che i nazio­ nalsocialisti misero a disposizione della Riefenstahl le con­ sentirono, nei film sul congresso del partito e sui giochi olimpici, di compiere il passaggio dalla prospettiva dello spettatore abusivo al cineocchio, che ininterrottamente è al tempo stesso nelle cose, sotto e sopra di esse. Kracauer getta uno sguardo rapido a Das blaue Licht. La conclusione chiarificatrice che ne trae è fissata da tempo. •Figli e figlie degli abitanti della valle sono affascinati dalla luce magica in cima alle montagne». Al suo sguardo somma­ rio è sfuggito che sono solo i ragazzi a voler salire fino las­ sù e che ci vanno contro la volontà delle loro ragazze; e che il pittore che viene dalla città, desideroso di combinare affari, consiglia di trasformare in soldi la luce azzurra ema­ nata dai cristalli. Junta, l’italiana (Kracauer: »la giovane zin­ gara») che vive da sola in alto sopra la valle, conosce la stra­ da che porta alla luce. Attraverso un camino nella parete 98

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rocciosa. Non è la vetta che attira magicamente gli uomini, è una grotta nella cima. A venire saccheggiato qui è un grembo. •La morte del padre depriva la letteratura di qualche go­ dimento. Quando non c’è più un padre, a che scopo ancora raccontare storie. Non ritorna forse ogni racconto a Edipo? Raccontare, non è andare sempre in cerca delle proprie ori­ gini, parlare dei propri litigi e scontri con la legge?-. (Roland Barthes). Leni Riefenstahl non racconta una storia inventata da lei, ripete una leggenda, senza autore. Ne è la protagonista, questo si deve guardare. Le spiegazioni che fornisce Kra­ cauer sono racconti, quasi dei polizieschi, dei gialli.

Realtà danzata Riefenstahl parla il linguaggio dei corpi. Si sa quale fascinazione esercitavano le danzatrici alle soglie del xx secolo. Hofmannsthal andava in estasi per l’-incomparabile- Ruth St. Denis, che a suo dire nulla aveva da spartire con la cultura, nulla illustrava, era vita sensuale nella sfera divenuta ormai spettrale della fantasia europea. La Riefenstahl era allieva di Mary Wigman. La sua recita­ zione sullo schermo non è melodrammatica come nella maggior parte dei film europei, ma nemmeno realistica co­ me in quelli americani. La sua mimica è parte di una conce­ zione dei propri ruoli fondata sulla danza. Con il movimento delle donne l’interesse per la Riefen­ stahl ha conosciuto di recente un nuovo impulso. Dato lo scarso numero di registe in gara, non potevamo permetterci di cavillare troppo dal punto di vista ideologico. La Riefen­ stahl, a dispetto degli sbagli politici, era indispensabile co­ me bandiera. Una donna che è riuscita a governare l’intera macchina cinematografica. Uno dei circa cinquanta camera­ men del film sui giochi olimpici racconta come la regista avesse diretto l’organizzazione con il piglio di un ufficiale di 99

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stato maggiore. Poi, meravigliato, constata che tuttavia ave­ va sempre l’impressione di un modo di lavorare basato sul­ l’intuizione. La Riefenstahl ha fatto in tutto quattro film. Tiefland (Terre basse), l’ultimo, subì dei ritardi a causa della guerra, e quando uscì nel 1954 fece l’effetto di un bambino nato morto. Solo quattro film. Per un’opera così limitata, una fa­ ma immensa. E continua a rappresentare oggi, a settantan­ ni, un grandioso capro espiatorio. Avrebbe dovuto sapere con chi veniva a patti. E se il profondo abisso fra attività politica e attività artistica fosse la conseguenza di un pen­ siero gerarchico? Non occuparsi solo di ciò che è utile, ma dei bisogni. E anche dei sogni e dei desideri, l’altra grande parte della nostra vita quotidiana, considerata apolitica solo in un mondo in cui a dettar legge è il discorso del Maestro (Lacan). Al quale le donne sono autorizzate a partecipare solo quando, esercitate nell’isteria, si adeguano alle forme dominanti e si interessano alla politica, che non ha mai pensato di rappresentare i loro interessi.

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Max Ophuls Voce alta e vista lontana (1978) È sul passato più prossimo che si deposita sempre lo strato più spesso di polvere. Liebelei, diceva Ophùls, era una pièce antiquata, cosa che non gli impedì di realizzarne una versione cinematografica e di amare Schnitzler per tutta la vita. Che non fu molto lunga, dal 1902 al 1957, da Saarbriicken ad Amburgo. Passando per Vienna, Berlino, Parigi e Hollywood. Lo si avverte molto bene nei suoi film: a una tale velo­ cità, l’uomo era destinato a morire di crisi cardiaca. Come eccitazione e lunghe inquadrature in Max Ophùls potessero andare d’accordo, Jean-Marie Straub se lo spiegava così anni fa: è il punto dove qualcosa compie il salto dallo psichico al fìsico. Punto intorno a cui si orbitava a Vienna e che venne scoperto alle soglie del xx secolo. •Die verliebte Firma è stato il primo film in cui mi sono sentito sostenuto dall’inizio alla fine, è stato il mio primo tentativo di dare un’impronta al film tramite il ritmo». Si trattava del suo secondo film (1931), un film turbolen­ to, dove si scivola sulla neve e sull’acqua, dove il telefono recita una sua parte, e già si scorre fluidamente tra la vita davanti e la vita dietro le quinte. Quando in Ophùls si leva il sipario, lo si vede dall’ombra che si proietta sulle persone nei palchi. In De Mayerling à Sa­ rajevo (Da Mayerling a Sarajevo) un sipario si leva addirittu­ ra in orizzontale. Un tappeto, destinato a proteggerla, viene arrotolato scoprendo un’aquila bicipite intarsiata nel pavi­ mento, e inizia la messinscena del compleanno dell’impera­ tore. «Il film non coincide necessariamente con gli eventi sto­ rici, ma abbiamo studiato minuziosamente i documenti».

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Con rapidi movimenti la polvere di Ophiils turbina nei nostri occhi. A lui basta che riconosciamo i contorni, le silhouettes, le ombre. Le dame hanno il viso velato, quasi metà del corpo ricoperta di merletti; lunghi guanti satinati conferiscono drammaticità ai movimenti delle dita. In Ophiils gli specchi invece di riflettere rifrangono. La rappre­ sentazione non viene resa più verosimigliante in virtù di una realtà che a essa farebbe da base. «Lei è in servizio qui da molto?», chiede in La Ronde .il giovane conte senile all’uomo che lo fa entrare e uscire dal­ l’avventura amorosa. È lui che tira i fili di tutto il film, una invenzione di Ophùls, un apocrifo di Schnitzler. Adolf Wohlbrùck con voce melliflua, lupo che ha appena inghiot­ tito il gesso, risponde: «Io non sono in servizio, io sono qui per amore dell’arte, per amore dell’arte di amare». Per questo i film di Ophùls sono anacronistici, inattuali. Sono univocamente apolitici, tanto che non c’è nemmeno bisogno di mobilitare la cattiva coscienza, quando non ci si fa più caso. L’amore è così borghese. È asociale, afasico. Gli amanti si amano sempre per l’eternità. I film di Ophùls sono come poesie in un giornale, fuori luogo. Sono frivoli, poco seri. Anche se ruotano sempre in­ torno a questo: che, quando le cose si fanno serie, quando entrano in gioco l’intransigenza, la purezza, il gioco è finito. È finito con i movimenti fuggenti dei suoi film. Uno sparo, ragazze, donne saltano nel vuoto. La vita si arresta. Ophùls è un acrobata di primo rango. Come ogni gran­ dissimo artista, lo fa senza rete. Libero sopra l’abisso. L'a­ more è il soggetto che predilige perché si muove al di là della logica. Circola inoltre liberamente al di fuori dell’eco­ nomia di scambio, che altrimenti governa la vita. Gli orec­ chini, i cuori di diamanti di Madame de... sono lasciati infi­ ne come dono, come gesto votivo su un altare della Ma­ donna. Non sono un moralista, dice Ophùls. La cosa disturba quelli tra i suoi sostenitori che gli attribuiscono la critica di costume e vorrebbero in questo modo mescolare alla sua ar­ 102

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te un po’ di legittimazione. Per Ophuls l’arte non è né décor né sovrastruttura. L’arte è dentro la vita stessa. Egli fonde le durezze e le asprezze dei suoi modelli: Schnitzler, Maupas­ sant, Stefan Zweig, Colette, Louise de Vilmorin. Malgrado tutti i veli e i sipari che si levano e sollevano, non scopre nulla. Le sue maschere non nascondono, sottolineano.

L’ornamento non è un delitto Arte della maschera esatta, così Ophuls descrive la com­ media americana, fondamento di tutto il mestiere cinemato­ grafico: la grande linea espressiva che si muove attraverso il film come una carrellata lungo la scenografia. In dieci anni a Hollywood gli hanno fatto fare quattro film. In essi i mo­ vimenti non sono tanto prolungati e folli come nei suoi film europei. Ma vi recitano Douglas Fairbanks jr., James Mason, Barbara Bel Geddes e Joan Bennett. Non si può chiamare doppia vita quella che i borghesi conducono in Le Plaisir (Jlpiacere), tutto avviene troppo in pubblico. Ophuls fa vedere piuttosto come tutto vada in pezzi. Quando Madame Rosa in Le Plaisir non si intrattiene con un cliente, canterella sommessamente, poi canta senza tregua, un po’come una sonnambula, non pienamente in sé. Così in Ophuls sono le donne che sono scese a patti con il mondo degli uomini. Madame Rosa non canterella per la felicità. Esprime il ritmo che le è stato inculcato. La vita nella casa di piacere è una festa continua. Il battito del polso è sempre al di sopra del normale. Adolf Loos, l’architetto viennese, un precursore della Nuova Architettura, che con Karl Kraus fustigava la falsità, l’inattualità della capitale imperial-regia, chiamava la sua «amata Vienna» una città alla Potèmkin, cartapesta tenuta in­ sieme da colate di calcestruzzo. Solo a poco a poco la fun­ zionalità propugnata allora ha perso il suo fulgore, e ora si comincia a vedere come la sua economia di mezzi fosse parsimonia al servizio dell’ordine esistente. 103

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Nel 1926 Ophuls era regista al Burgtheater, e dei suoi ventuno film solo quattro sono forse ambientati a Vienna. Ma l’effetto dei suoi film era così viennese che persino Billy Wilder, che doveva pur sapere chi gli era compatriota, insi­ ste nell’annoverarlo fra gli esponenti della scuola del Wie­ ner Film. Nel 1900 Vienna era un fossile con lunghe tracce del passato e al contempo culla di immani innovazioni. Era la città dei sogni. Com’è possibile, pare abbia detto Freud a proposito del Paracelsus di Schnitzler, che un autore di tea­ tro sia così informato di queste cose? E come in risposta Schnitzler in una lettera a Theodor Reik: le strade d’accesso all’inconscio sono più numerose e diversificate di quelle che la psicoanalisi si sogna e interpreta in base ai sogni. Un’infinita camminata per la Vienna notturna. Un ufficia­ le accompagna cortesemente a casa una Mizzi. Con la sua lunga sciabola al fianco la precede di alcuni passi. Prima di arrivare a casa, la distanza che li separava viene recuperata. I due sono una coppia. Non ho mai incontrato un’opera teatrale, dice Ophùls a proposito di Liebelei, così colma di silenzio. Per quanto i due si muovano allo stesso ritmo, i balli senza fine in Liebelei (Amantifolli), in Madame de... (/ gioielli di Madame de...), in Letterfrom a Unknown Woman (Lettera da una sconosciuta), e anche in Werther, sono se­ gni di un accordo che prescinde dalle parole. Essi impon­ gono i loro tempi peculiari. La maggior parte degli spettatori ha perduto oggi la pa­ zienza estetica, dice Ophùls; i miei film sono tratti cLalIe più intime fibre dell’uomo, chi non è disposto a imbarcarvisi, vada pure al museo delle cere. Ophùls mette in scena momenti di esaltazione, ciò che non è funzionale, l’eccesso. Nessuna psicologia, nessuna analisi dei suoi personaggi; invece, il dramma degli impulsi e dei destini. Il cui carattere coatto, il cui movimento che sempre e ancora si ripete, il cinema era il mezzo più adatto a restituire. Ancora Wohlbrùck in La Ronde-. Chi sono? Uno di voi. L’incarnazione della vostra brama. Della vostra bra­ ma di sapere. 104

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La direzione presa è insolita. Il cinema, in generale, sol­ lecita il pubblico a identificarsi con i suoi personaggi. Ophiils ambienta i suoi film di preferenza nel passato perché ciò lo agevola nel far emergere l’aspetto arcaico del mondo dei sentimenti. L’inconscio appartiene sempre all’ieri. Il passato in Ophùls è un’opzione formale. Un momento trascorso, irripetibile, si dispiega nel modo più limpido sul­ lo sfondo del passato. I flashback nei suoi film non rendono presente ciò che è stato, essi operano una distanziazione e dispongono lo spet­ tatore alla atemporalità e anche all’astrazione. Così la voce dei suoi narratori ti mette nella posizione di infantile attesa, come un tempo, quando del cantilenare di una voce aveva­ mo bisogno per scivolare nel sonno senza paura. I film di Ophùls sono sempre dominati da una voce, da un punto di vista, da quanto uno ha intimamente elaborato da sé. La Tenóre ennemie (La nostra compagna), girato in Francia nel 1938: i morti giocano al destino; gli amanti e il marito si cullano nel lampadario sopra i convitati a una fe­ sta di fidanzamento che dovrà condurre a un matrimonio di convenienza. Non sono altro che vaghe incarnazioni dei pensieri della madre sulla propria vita sprecata, per la quale a sua volta nello stesso momento - sempre fatale - furono il calcolo, la convenienza ad azionare gli scambi. Ciò che è occultato e ciò che si è abituati a percepire e a prendere per realtà, per cosa manifesta, Ophùls lo porta sullo schermo collocandolo sullo stesso piano. Il cinema ha fatto degli uomini delle ombre, può astrarre dai loro corpi. I contorni sono quelli, ma il resto è pura spettralità, puro se­ gno. Le nuove immagini non attingono più vita dal fatto che esse ritraggono qualcosa, simulano il movimento, che, come ognuno sa, si basa sulla ripetizione. Il cinema di Ophùls è un cinema del passato, un cinema delle ombre, in quanto il suo luogo è la relazione, costantemente minaccia­ ta di stasi, tra le fasi di un’immagine. Ovviamente Ophùls preferiva girare in studio che in esterni. Per mostrare che le pareti vanno abolite. E perché

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in lui i luoghi sono una questione di coreografìa, movimen­ to tra punti. Componeva gli spazi ed essi erano certamente l’eco di quanto l’irrompere del cinema aveva significato per chi dal teatro era abituato all’unità vivente di palcoscenico e pubblico in carne e ossa. In Liebelei l’imperatore fa ingresso nel suo palco, il pubblico si volta dando le spalle al palco­ scenico. E ancora una volta La Ronde, ancora una volta Wohlbruck: «Gli uomini vedono sempre la realtà in modo parzia­ le, ne vedono solo un frammento, io ho una visione a tutto tondo». A paragone del teatro il cinema è solo un frammento, un intervallo temporale, e se il pubblico sia disposto ad ac­ cettare quanto gli viene offerto non c’è più modo di con­ trollarlo. I movimenti sempre un po’ esagitati, eccessivi, nei film di Ophùls sono come i segnali disperati di qualcuno che non è sicuro di farcela. Facendo cinema, è impossibile sapere se tutto il proprio amore verrà accolto dal pubblico. Così muto non era mai stato, così remotamente distante. Quando dal film muto si passò ai sonoro, racconta Ophuls, aveva pensato che forse c’era bisogno di uno come lui, uno che fosse esperto della parola. Poi, come nessuno in precedenza e in seguito, si prese cura della parola al ci­ nema; la inseguiva con la cinepresa, riprendeva la lingua parlata, l’aspetto fìsico delle voci. L’intonazione, il ritmo. Per questo in lui il movimento è una faccenda dell’udire, che attraverso le orecchie si trasmette agli occhi traducen­ dosi in percezione. Divine, girato in Francia tra le due guerre, si svolge in un music hall. Come nasce uno show. Prima, prima che venga montato, regna un ininterrotto, caotico brusio. Nes­ suno sente cosa dice l’altro. Non è mai esistito un film con un tale frastuono davanti o dietro a porte chiuse. Quando il giorno della prima si alza il sipario, tutto tace, allora esi­ stono solo corpi esibiti, quadri viventi da cui ogni vita si è dileguata. 106

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Quando Ophuls realizzò la versione cinematografica di Werther, del romanzo fece un Lied, in cui la parola attinge uno stato elevato, come la danza rispetto al movimento quotidiano. Egli opera un arrangiamento dell’opera di Goethe. Il tempo in Werther si dilata e si contrae, seguendo i sentimenti degli amanti, non ha più nulla a che fare con il tempo cronometrico. La durata del primo tètè-à-tète fra Charlotte e Werther, durante un gioco dei pegni, dipende dalla benevolenza degli altri giocatori che aspettano fuori e contano. Essi misurano il tempo e in questo modo i numeri perdono il loro antico significato. Il Werther a volte si muo­ ve al ritmo di una poesia, a volte al ritmo di una melodia popolare, a volte di una musica da camera, oppure tutto il suo movimento si concentra in un padrenostro recitato feb­ brilmente. Quando infine la morte si avvicina, essa arriva a rimorchio del suono cadenzato e strascicato delle campane. Ah, com'è allora possibile...

I militi ignoti della borghese morale Fondamentalmente in Ophùls sono sempre in gioco i sovratoni espressivi della parola, al di fuori della immediata funzione significante: modo di articolare e di rivolgersi al­ l’altro. In Ophùls l’opera appare come l’intrattenimento di un tempo dei borghesi. In La signora di tutti l’opera accen­ de melodrammaticamente i sentimenti, che portano all’a­ more e alla morte. Ma già la musica proviene dalla radio. Un po’ scaccia la solitudine, un po’ la rafforza. Pervicacemente Ophùls impone la propria concezione estetica, anche a rischio che gli spettatori alimentati ad ac­ tion e a -efficacia» si agitino nervosi sulle loro poltrone. Alle corti dei sovrani, in The Exile (Re in esilio") nell’Inghilterra di Cromwell, presso Ludwig di Baviera in Lola Montès, ogni informazione è trasmessa innumerevoli volte. La strada fra l’ordine impartito e la sua esecuzione è lunga come i corri­ doi che si susseguono nei palazzi reali. Nel percorso ciò che viene comunicato si smarrisce, si spegne come un suono. 107

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La ripetizione verbale in Ophuls è una forma artistica af­ fatto consapevole e voluta; è possibile che sia banalmente ra­ dicata nella realtà, nella deformazione professionale. Le pro­ ve sul palcoscenico, la possibilità che una frase venga pro­ nunciata per cento volte in cento modi diversi. C’è sotto, an­ zi dentro, qualcosa. Non esiste in effetti alcuna ripetizione. La ripetizione è la finzione di coloro che non sono capa­ ci di sentire. Il maitre de plaisir in La Ronde canta sempre la stessa melodia. Solo il legame fra gli affari è sempre lo stes­ so. Quando si dice l’amore, la voluttà, il piacere, nella ge­ neralizzazione le sfumature vanno perdute. Le definizioni, le parole sono cliches, di cui si può avere ragione in virtù dell’espressione, dell’intonazione. Madame de...-, i puntini sono naturalmente in primo luo­ go una forma di discrezione. E tuttavia il titolo ci dice tutto di questa Madame. Che la sua esistenza è pura dipendenza. Ella esiste soltanto come moglie di qualcuno. Madame de... mente in continuazione. Suo marito vi è abituato, sa come prenderla. La menzogna è in un certo senso la sua seconda natura. Così come gli analisti dopo Freud e Lacan spiegano che la lingua onnipotente è la se­ conda natura di noi tutti. Madame de... incontra il grande amore della sua vita. La sua prima, sepolta natura preme per emergere, ma ora le mancano le parole giuste, parole che siano un tutt’uno con i suoi sentimenti. E questa è la fine del suo amore. In Ophuls sono sempre le donne a pagare di più. In Letter from a Unknown Woman un uomo, a grande distanza di tempo, si rimette per la seconda volta con la stessa donna, senza neanche riconoscerla. La sua lettera lo raggiunge quando lei è ormai morta. Per chi ascolta Ophuls, vale a dire per chi conosce i suoi film, il suo nome si associa a un movimento fluido, a un concatenarsi glissante. La morbidezza dei suoi film è la loro durezza. Quel che scorre è solo racconto, la convenzione della letteratura lineare. Anche questo ancora in modo esa­ gitato, affinché vi sia rappresentazione di ciò che un tempo 108

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essa ha tenuto insieme per noi. Altrimenti tutto cadrebbe a pezzi. Charlotte in Werther confessa: vedo mio marito, ma sento la voce dell’altro. Ophiils ha lavorato con piacere per la radio. Dopo la guerra, in particolare nel Baden-Baden: l’aria pullulava di trasmissioni. In francese, radiodijfusion. Da quando è stato possibile separare la voce dal corpo, emittenti e riceventi si perdono sempre più di vista. Ma è diventata più comprensi­ bile la parte della lingua che solitamente la comunicazione occulta, l’indomabile.

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NOTE AGGIUNTE ALLA SECONDA EDIZIONE DEL TESTO IN LUBITSCH. A CURA DI HANS HELMUT PRINZLER E ENNO PATALAS, 1984.

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Lubitsch non ha creato nessuna star. Le star facevano parte del mate­ riale a disposizione, di volta in volta, degli studios. E le superstar so­ no per lui superoggetti. Con i quali egli ci mostra in cosa si sono tra­ mutati gli antichi eroi. Nel suo mondo artificiale e frivolo persino una femme fatale sarebbe stata troppo fatale. L’esempio più bello: in che modo utilizza la Gar­ bo in Ninotcbka. Proprio come Henny Porten in Koblbiesels Tòcbter. Quando ci sono di mezzo le donne non ci si può fidare delle appa­ renze, neppure al cinema. La bellezza non conta. È l'artifìcio che se­ duce. Le donne aggressive, le uniche, senza dubbio, a interessare Lu­ bitsch, sono affascinanti non perché sono simili agli uomini, ma per­ ché mostrano di possedere un illimitato talento per l'imitazione. Con­ cetti moralizzanti come simulazione o piacere perdono in relazione a loro il proprio significato. Che cosa mai ancora vuol dire qui, quando l’artifìcio è in loro innato al pari di un Istinto? Josef von Sternberg aveva inventato la Marlene sintetica, che nei suoi film reca sempre l’impronta della sua (di lui) paranoia; mentre la ma­ scolinizza, si appropria a livello personale di tratti femminili. In Lubit­ sch la femminilità assurge a principio di incertezza. In Angelo Marle­ ne è una Instant-Marìene, un concentrato di tutti i ruoli interpretati in precedenza.

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Ciò che tocca Lubitsch (1979)

Hollywood: una conversazione a tavola in casa Hitch­ cock. A un ospite che sosteneva che anche le donne erano una questione di gusti, nel senso che alcuni le volevano eleganti e in ghingheri, altri invece senza artifìci, al natura­ le e sane d’aspetto, Lubitsch replica stupitissimo - nel suo inglese che ancora dopo anni e anni di permanenza ameri­ cana suscita l’impressione di qualcuno che stia facendo la caricatura di un tedesco - «Who vants dar?-. Lubitsch e l’ascesa del cinema tedesco erano quasi la stessa cosa. A lui, come si diceva allora, il cinema tedesco doveva il suo riconoscimento mondiale. Mary Pickford, la ‘fidanzata d’America-, una donna d’affari che sapeva il fatto suo, se lo portò a Hollywood nel 1922, quando in quel pae­ se i prussiani non li si poteva tanto soffrire. Non alto, non biondo, «non sembra neanche un tedesco-, avrebbe affer­ mato Pickford. Occhi scuri come chicchi d’uva e un gran naso semita, da Pulcinella. Noi a Berlino, racconta Lubitsch, credevamo che Hollywood fosse una città fatta di assi di le­ gno all’estremo confine del selvaggio West. Ancora nel 1976 Mary Pickford era lungi dall’aver superato la delusione che le aveva procurato Lubitsch: un tipo tarchiato e bisunto, di­ voratore imperterrito di patate, German fried potatoes-, e inoltre per lui nei film le porte erano sempre più importanti delle persone. Rosita è ambientato a Siviglia durante il car­ nevale, il breve lasso di tempo in cui è il popolo a coman­ dare. La folla vive, vive la scenografìa, vive l’insieme. La star non è che una parte del tutto1. Lubitsch non ha mai concesso primi piani alle star. Inve­ ce spesso campeggiano oggetti, in primo luogo porte, bu­ lli

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Dai tempi di Passagenwerk di Walter Benjamin, opera composta fra il 1927 e il 1929, la filosofia non ha più riflettuto in modo altrettanto se­ rio e positivo sulla moda. Per Benjamin essa è una creazione del di­ ciannovesimo secolo. E al diciannovesimo secolo Lubitsch è legato dalla sua mentalità operettistica. Il pipistrello, che filmò ben due volte, è una creazione dei librettisti Meilhac e Halévy. •La moda è in costante, preciso contatto con le cose a venire grazie all'incomparabile fiuto di cui il collettivo femminile dispone nei con­ fronti di ciò che il futuro ha in serbo. Chi fosse in grado di leggere questi segnali segreti delle cose a venire, conoscerebbe in anticipo non solo le nuove correnti artistiche, bensì anche i nuovi codici del diritto, le nuove guerre e le nuove rivoluzioni*. In Lubitsch invece niente riguardo al futuro si lascia decrittare dalla moda. Essa non è accidentale, ma non è neppure segno di qualcosa d'altro. È annuncio, promessa, non informazione. Funziona, come la moda reale, solo in modo estremamente parziale. Non la si può in­ dossare, né in società né in strada, proprio come gli spazi lubitschiani non sono abitabili, ma puro scenario stilizzato in ossequio alla mo­ da. La moda è un codice, ma non un codice segreto, uno dei tanti che articolano i suoi film. E tutti servono all’effetto di artificio. Lubit­ sch vorrebbe che lo spettatore guardasse i suoi film come una passe­ rella, come qualcosa di effimero, momentaneo, superficiale. Mettendo in scena la moda egli vuole far sì che gli oggetti del mondo vengano visti in modo nuovo, sottratti alla loro sfera ordinaria. La lo­ ro natura non è più definita dal loro valore di scambio. Ciò a cui am­ bisce è che lo spettatore subisca il loro potere seduttivo. Si tratta di un potere non accessibile alla ragione, un potere che ha proprie regole del gioco e una propria verità, indipendente dai giudi­ zi di valore su cui si regge il mondo razionale, il mondo economico. In Lubitsch qualcosa viene sacrificato e lo è, non vi è ombra di dub­ bio, con la massima leggerezza. Il principio di realtà. A trionfare sono gli effetti, la mera parvenza. La loro autosufficienza ha un che di im­ pudente. Come un mago Lubitsch fa sparire i corpi dietro i vestiti, così che non si hanno occhi che per gii involucri. I corpi, ossia chi entra nel letto di chi, sono faccenda del tutto secondaria. Vorrebbe fare come le donne che con tutti i mezzi di simulazione di cui dispongono lascia­ no credere agli uomini che anche loro non hanno in mente altro che quello per cui smaniano i maschi.

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chi della serratura, maniglie. Ma soprattutto nei suoi film gli oggetti diventano autonomi. Dotati di valenza allusiva, ma non si andrebbe molto lontano se si volesse interpretarli in chiave simbolica. Il linguaggio aveva umanizzato gli oggetti. Nel film muto essi hanno propria esistenza. Hanns Sachs - l’autore di Freud, mein Meister und mein Freund [Freud, mio maestro e amico], apparso dapprima in lingua inglese nel 1945 - passato con dispiacere del mae­ stro al cinema e persona molto attenta a tutte le connessio­ ni della propria disciplina con la nuova arte, scrisse a pro­ posito della commedia muta di Lubitsch Three Women. C’è qualcuno a cui una donna allenta la cravatta. L’uomo per niente interessato se la riannoda. Dopo Freud, dice Sachs, ognuno sa che cosa rappresenti la cravatta. Ma per Lubitsch in questa scena il procedimento è più importante del signi­ ficato. Ancora più tipici del suo modo di utilizzare i segni cinematografici sono altri momenti: per esempio, quando Pauline Frederick la mattina dopo il primo incontro con il suo impetuoso corteggiatore se ne sta nella sua sala da ba­ gno superaccessoriata e si passa delicatamente la cipria so­ pra una chiazza bluastra. Ciò che in altri è secondario, diventa in lui punto chiave. Sceglieva con grande cura architetti e scenografi, perché il loro lavoro, nel suo cinema, crea, accompagna e completa quello degli attori. La scenografia funziona da collettore. Lubitsch lavora solo con i migliori stilisti, con Travis Ban­ ton, Adrian, Irene. Ragione sufficiente per non prendere i suoi film troppo sul serio. La moda, il preoccuparsi di esse­ re à la page, è cosa frivola. Frivole sono le donne che pen­ sano unicamente a se stesse, che non s’interessano per nul­ la di quanto le circonda. Lubitsch, invece, si rappresenta il tutto diversamente. Egli sa in primo luogo guidare gli spet­ tatori maschi, tenendoli come per le briglie, senza che se ne accorgano. E fa loro credere di essere capaci di scorgere la verità sotto i vestiti2.

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Lubitsch intende i vestiti come una seconda pelle delle donne, che si limita a trasmetterci solo una sensazione della prima. I riflessi di un abito di Travis Banton sono al contempo centinaia di segnali che fan­ no riflettere sulla presenza precaria delle immagini nel cinema. In fondo quanto Lubitsch tenta di cogliere nei suoi film non è che un momento fra l’emergere e il dileguarsi. Vale a dire, la parvenza delle immagini.

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Society A volte appare come una vendetta di coloro cui egli apriva gli occhi su verità così sgradite il fatto che per tutta la vita gli imputassero mancanza di gusto. Herbert Ihering, che era stato molto colpito dai film berlinesi di Lubitsch, scrisse che egli aveva assolutamente bisogno di un consu­ lente in fatto di gusto. Lotte Eisner, anche lei ebrea berline­ se, fece di Murnau, così profondo, grave, così mistico, il suo eroe del cinema. Trovava Lubitsch troppo ebreo. Un sem­ plice commesso di boutique sull’Hausvogteiplatz che faceva di tutto per apparire -in». Le porte! Viste così, sono forse un problema razziale. Lubitsch e il suo successo sono il prodotto dei folli e spumeggianti anni Venti. Si viveva di pura apparenza, peri­ colosamente, senza niente su cui posare i piedi. La preca­ rietà rendeva inventivi e scuoteva le antiche certezze. Lubitsch aveva iniziato facendo l’attore per Max Rein­ hardt e aveva anche recitato in lavori teatrali inconcepibili oggi su palcoscenici seriosi. In Sumurun, una pantomima di enorme successo, recitava alternandosi nella parte di buffone gobbo con Valeska Gert. Quando filmò la pantomi­ ma nel 1920, quello fu anche il suo ultimo ruolo. Il cinema muto deve essere stato uno shock per la gente di teatro, per il teatro di parola. Più in Europa che in Ameri­ ca, dove era ovvio e necessario ricercare espressioni non verbali per un vasto pubblico plurilingue. In Europa il cine­ ma muto mandò in crisi i vecchi strumenti codificati. «Il ci­ nema, con tutte le sue forze, ci strappa la terra sotto i piedi» scriveva Brecht nel 1920. Lo sfacelo della parola, lamentato da Hofmannsthal nella Lettera di Lord Chandos, segna la fi­ ne di una cultura imperniata sulla parola. L’-uomo difficile», disgustato dal chiacchiericcio della società viennese, se ne va al circo. Si lascia intrattenere dalle arti mute. A Hollywood Lubitsch filma nel 1925 Lady’s Windermere Fan (Il ventaglio di Lady Windermere). Era il colmo. Il film dimostra come i celebri epigrammi di Oscar Wilde potesse115

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II Witz è una forma di astrazione. Pieno di Witz è il modo di Lubitsch di operare i tagli, di tralasciare, di procedere al montaggio. Accanto alla moda, accanto al teatro, il Witz è un modello fondante della sua estetica, un concetto di natura visiva. È una tecnica di cortocircuito, che lascia spazio alle supposizioni, alle allusioni, ai desideri, spazio altrimenti occupato e assediato dall’invasiva realtà con le sue cause e i suoi effetti che scaturiscono dalle cir­ costanze. Il Witz in primo luogo stacca momentaneamente la corrente del lin­ guaggio con la sua funzione mediatrice e stabilisce una comunicazio­ ne diretta con i corpi e le cose. Tali comunicazioni si articolano in corpi e oggetti sottilmente elaborati e tatuati. Oggetti incongruenti vengono in contatto, un contatto contagioso. Viene messo sullo stes­ so piano ciò che non lo è. Il giocare con il senso e il significato ope­ ra una svalutazione dei valori che stimola al riso, mentre contempora­ neamente il terreno sprofonda sotto i nostri piedi.

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ro esistere anche senza parola. È pura delizia per gli occhi, ancora oggi. Illustra che cosa sia l’eleganza in Lubitsch. Décor da gran mondo e toilettes stravaganti. Ma il tocco de­ cisivo lo dà l’economia dei mezzi. Equazioni risolte senza ombra di resto. L’impressione di leggerezza e il piacere so­ no tanto intensi perché tutto fila velocemente, senza intop­ pi. In modo fulmineo. A Lotte Eisner - fonte di inestimabile valore con il suo saggio sul cinema tedesco muto, divenuto ormai opera di riferimento, in quanto all’epoca assistè di persona alle pri­ me di questi film e ci trasmette pertanto insieme ai suoi giu­ dizi lo Zeitgeist - i primi film di Lubitsch non dicono nulla. Slapstick ebraico, dice. Con il Witz ebraico questi film han­ no in comune il fatto che in essi Lubitsch prende in giro se stesso anziché gli altri5. Der Stolz der Firma, storia di ascesa sociale, con lui nelle vesti di un azzimato giovane commes­ so smanceroso e poi socio, e Scbuhpalast Pinkus, girato e interpretato da lui, ancora una storia di scalata sociale am­ bientata nel milieu che egli, figlio di sarto, ben conosceva.

Prosperity Come si diventa un buon imprenditore nel campo del­ l’abbigliamento era per lui un soggetto encomiabilissimo. Nelle vesti di Siegi Lachmann o di Sally Pinkus egli è già, in piccolo, ciò che sarà il futuro Groucho Marx, personaggio di un’impudenza totale, avido di successo e che si crogiola in una illimitata sopravvalutazione di se stesso. Groucho lo fa con le parole. «Sally schmust» (si profonde in carinerie) come dice una didascalia in berlinese-yiddish. Per questo lo si vede per lunghi tratti non muovere affatto la bocca. L’ef­ fetto dello «schmusen*, di questa sua autorédame si vede. L’altro tipo di rédame è già presente in questi film. I nomi delle ditte berlinesi che mettono a disposizione vestiti, cap­ pelli e scarpe compaiono nei titoli di testa. 117

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La definizione di slapstick ben si adatta a questi film, film grotteschi li si chiamava allora; dello slapstick hanno infatti il ritmo e la velocità. Mai in precedenza, in nessuna delle arti, il corpo umano, anche solo come ombra, come silhouette, aveva giocato un tale ruolo; a dispetto della loro presenza fisica, in teatro gli attori erano essenzialmente de­ gli altoparlanti. Nei film berlinesi di Lubitsch Emil Jannings campeggia imponente, figura di grande stazza come Fatty Arbuckle o Oliver Hardy. La sua sola presenza rende cine­ matografico Kohlhiesels Tòcbter. Henny Porten nei panni di ambedue le figlie, è pura gag cinematografica, e il giocare sulle apparenze è Lubitsch allo stato puro. E rimane ambi­ guo se sia voluto o meno il fatto che Henny Porten quando deve essere naturale, semplicemente se stessa, risulta una perfetta imbranata, mentre quando fa la parte dell’imbranata dispiega uno charme cui alla fine soggiace non solo Jan­ nings ma anche lo spettatore. Il film è una versione in chiave popolare di La bisbetica domata. Lubitsch all’epoca realizzava spesso versioni grot­ tesche di opere tratte dalla letteratura alta, da Shakespeare e da drammi imperniati su figure di sovrani, da E.Th.A. Hoff­ mann: ma già allora più vicine all’operetta che agli originali. Egli trasceglie nelle trame cui si ispira il punto che solo il film è in grado di rendere manifesto. Qui si tratta di un gio­ co di effetti, non più di caratteri, e nemmeno di rappresen­ tazione in senso tradizionale. Si tratta di un nuovo humour, uno humour che anche quando l’azione si svolge in campa­ gna è antifolkloristico. A dominare è una cultura urbana che non si perita di funzionare in base a leggi che governa­ no la vita cittadina negli ambiti più banali. Per tirare il pub­ blico dalla propria parte, una platea la più vasta possibile, quasi tutto è consentito. In una intervista rilasciata nel 1920 a un giornale ameri­ cano Lubitsch dichiara: «La scena abbonda di interpreti don­ ne che con il grande talento della loro anima fanno dimen­ ticare le loro fattezze esteriori. Nell'attore cinematografico anche le fattezze esteriori svolgono un ruolo di enorme im119

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portanza. La bellezza si fa quasi talento». E sarebbe proprio tale esteriorità, soprattutto incarnata da figure femminili pri­ ve di talento, graziose e ben agghindate, a tenere lontani dal cinema tanti intellettuali. Quattro anni più tardi, dopo aver scoperto Adolphe Menjou nel film di Chaplin A wo­ man ofParis (Una donna di Parigi), il film che avrebbe im­ presso alla carriera di Lubitsch la svolta verso il moderno ci­ nema delle commedie di costume, scrive da Hollywood: «Il film è un’arte visiva, e quando un attore deve dare l’idea di un elegante uomo di mondo, non è sufficiente la sola forza espressiva interiore, anche l’aspetto deve essere in sintonia con il tipo che si vuole rappresentare. Non solo il cervello e il cuore, ma anche gli occhi vogliono la loro parte». Nel leggere queste citazioni la mente corre subito a Brecht. I suoi sforzi di carpire il segreto di questi film primi­ tivi, in Chaplin spesso melodrammatici, sfornati da Hol­ lywood. Lo colpiva la dimensione dell'esteriorità, l’irriducibilmente non-analitico-, registrava come il nuovo medium sovvertisse il vecchio ordine esistente. Reagiva adottando misure di salvaguardia. Convinto che la razionalità potesse padroneggiare la situazione che si era venuta modificando. Distanziazione, tecnica dello straniamente, erano strategie atte a combattere le vecchie formule del teatro. Nel cinema le cose funzionano diversamente. Esso vive principalmente di suggestione, seduzione, atmosfere che ingenerano paura. Sconvolgentemente nuovo, ha scritto Ihering. «La civiltà og­ gi è talmente protettiva che non è quasi più possibile farci rabbrividire». I salutari shock morali che Hitchcock avrebbe voluto infliggere agli spettatori mirano allo stesso punto de­ bole cui mira il tocco (touch) alla Lubitsch, come veniva de­ finita con ammirazione la ricetta segreta con cui egli elet­ trizzava il suo pubblico. Ciò che separa la differenza tra il touch e la suspense è in fondo soltanto una questione di genere.

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Fidelity Fra tutti i film di Lubitsch Hitchcock prediligeva in som­ mo grado il muto The Marriage Circle, una commedia di costume - definizione, questa, tutta da gustare ancora pri­ ma di accettarla come tale. Il film si svolge nella Vienna di Schnitzler, tra -specialisti di malattie nervose- che hanno problemi con le loro mogli. È la storia di un triangolo allar­ gato, il girotondo cui allude il titolo inglese. Non viene in­ franta in modo spettacolare alcuna convenzione, ci si arre­ sta sul limitare di situazioni scabrose. Brevi momenti di se­ duzione senza parole, di cedimento sensuale contro la pro­ pria volontà, di equivoci e ambivalenze. Pure velleità che restano trasgressioni, a dispetto della costanza dei rapporti. Sono le regole in base alle quali tale mondo si orienta a provocare i continui tradimenti. In Lubitsch la fonte di ogni guaio è la convivenza istituzionalizzata nel matrimonio. Il matrimonio è una camicia di forza anche quando c’è di mezzo l’amore. In Bluebeard’s Eighth Wife (.L’ottava moglie di Barbablù), l’Enrico vin in versione moderna finisce per soccombere. Da quando Lubitsch vive in America, i rappor­ ti si sono rovesciati. Con i suoi film è un figlio dell’inflazione. Per tutta la vita si trovò a dipendere invariabilmente dalle epoche di crisi, che gli ispirarono le sue migliori pellicole. Era un profittato­ re dei periodi di instabilità, uno speculatore della Depres­ sione. Il boss nella sua Die Austerprinzessin (La principessa delle ostriche) del 1919 possiede di tutto e di più, incarna una forza d’acquisto miliardaria. Solo durante la crisi econo­ mica poteva essere realizzata una pellicola come Trouble in Paradise (Mancia competente), con tutta la sua impertinen­ za. To Be or not to Be (Essere o non essere) deve la sua na­ scita al grande dittatore. Era attratto dalle cifre immani, cui non si può correlare più alcuna idea concreta. -Fare film per un pubblico di 25 milioni di persone». Produzione di massa non significava per lui assolutamente un venir meno della qualità. Sognava 123

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Si potrebbe pensare che Lubitsch abbia trasformato il mondo degli af­ fari in soggetto artistico o al contrario in stile di comportamento. Già agli esordi della sua carriera, in Der Stolz der Firma, troviamo il Siegi Lachmann di Ravitsch il quale deve la sua irresistibile ascesa nel mondo degli affari al fatto che invece di allestire diligentemente la sua vetrina, esercita le sue arti seduttive nei confronti di una collega di lavoro e finisce così per piombare all'estemo attraverso la lastra in­ franta. Fra la cornice del palcoscenico con il suo boccascena cui era avvezzo lo spettatore c lo schermo rettangolare Lubitsch incunea e ritaglia un’altra cornice, la vetrina. La scena diventa per lui spazio espositivo. In Design for Living (.Partita a quattro} i prodotti e i loro clienti sono pasti sullo stesso piano, Miriam I lopkins e E.E. Horton insieme alla loro camera da letto fanno parte del mondo delle merci. È il risultato dello sguardo dal di fuori, dello sguardo attraverso la cinepresa. Sono trovate di questo genere che avrebbero dovuto mandare in bestia i censori più di tutte le preposte di menage à trois. Lubitsch corredava i suoi film di tutti i segni esteriori dei predoni in­ dustriali. Essi interpellano un pubblico di acquirenti, sono allettanti, vere e proprie reclames, fatti apposta per catturare lo sguardo. Que­ sta è probabilmente la ragione per la quale Zukor nel 1935 lo nominò direttore di produzione della Paramount. Un fraintendimento dei suoi film in chiave realistica, ritenerlo un uomo d'affari e scambiare il suo senso per il cinema con il senso degli affari. I suoi film illustrano co­ me nel cinema l'arte dell'ingegno individuale diventi industria pro­ duttrice di articoli per una fruizione di massa. Essi riflettono in imma­ gini il business cinema. Al contempo però Lubitsch fa tutto il possibile perché il gretto mon­ do degli affari, attento unicamente al prefitto e intriso di idee sul plu­ svalore, venga traviato nel momento in cui le sue leggi sono trasfor­ mate e rifunzionalizzate in mere regole di un gioco. I suoi film non sono la banale constatazione che gli affari strutturano l'intera vita so­ ciale, ma piuttosto la dimostrazione di come si passa fare la parodia di tali leggi ferree - apparentemente reali nella misura in cui sembra­ no naturali, razionali ed economiche -, di come si possa azzerarle. Il lato immorale dei suoi film non risiede nel fatto che in essi si parli furtivamente, a mezza bocca, di ciò che non è lecito dire in pubblico, ma nel fatto che egli cattura lo spettatore con storie che non si cura­ no né di essere verosimiglianti né di essere credibili, storie che non hanno più bisogno della realtà come garante.

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l’eccezionaiità come patrimonio di tutti, Vexcèlleticy come commonplace. Così Gertrude Stein ha visto Hollywood: og­ getti a buon mercato prodotti con la massima cura, utiliz­ zando i materiali più costosi, da artisti pagati con compensi superlativi. Il cinema come forma d’arte dell’epoca indu­ striale è un affare. Per Lubitsch il denaro, nei suoi film, non è un feticcio e senz’altro non olet. Nella versione cinemato­ grafica di Wilde, Lady Erlynne prende, senza avere la sensa­ zione per questo di prostituirsi, da un uomo che è relativa­ mente un estraneo, un assegno per saldare il conto in un negozio di abbigliamento. Il truffatore di Trouble in Paradi­ se manda alla sua facoltosa amata una quantità smisurata di rose, a sue (di lei) spese, senza che questo infici il piacere che la donna prova alla loro vista4. All’epoca dell’inflazione più nera Lubitsch girava a Berli­ no megafìlm con miriadi di comparse, in cui Kracauer vede­ va prefigurate le masse naziste manipolabili. Lubitsch dice di aver voluto umanizzare la storia: in realtà peggiorandola, sostiene Kracauer, e oltraggiando in Madame Dubarry la grande Rivoluzione francese nella misura in cui fa di essa la cornice entro cui ha luogo l’ascesa sociale di una cocotte. In pellicole come Anna Boleyn e Weib des Pharao si assiste di continuo a costellazioni di singoli con le masse. I vertici delle gerarchie non sono mai invidiabili. Essi hanno il pote­ re di procurarsi ciò che loro aggrada. Di gente pronta ad ac­ condiscendere ce n’è a iosa5. Solo che, non impediti da al­ cun ostacolo i piaceri ben presto si raffreddano. Una gelida interscambiabilità si diffonde e permea tutto. Oggetto del film non è il racconto della storia, bensì l’illustrazione di co­ me i rapporti si formino e si disfino. Le figure esemplari so­ no validi paradigmi, sorta di summae. Più tardi in America, in Forbidden Paradise e Love Parade (Jlprincipe consorte), i potenti sono donne che si prendono in modo ancora più sfacciato ciò che vogliono. Nel suo periodo berlinese Lubitsch cambia volentieri ge­ nere, a film spettacolari seguono Kammerspiele. Non ha im­ portanza lavorare con le masse o con pochi personaggi, e 125

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La moda è l'ideale paradigma per l'invenzione e le libertà nella cultu­ ra di massa. Il suo lusso, le trasgressioni che essa consente sono il potlatcb della produzione. Ma soprattutto, dice Godard nella sua sto­ ria del cinema, Hollywood era un intenzionale business del piacere. Il tradimento continuo, che non è tale, questo è il palese segreto del cinema. Lubitsch inette in scena la vuota essenza del cinema.

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La parvenza, con il suo luccichio, rappresenta un potere reale, alla cui luce artificiale la realtà sbiadisce. Scompare l'originalità, scom­ paiono le radici. Resta una superficie scintillante. Si dovrebbero vede­ re i film di Lubitsch solo in copie al nitrato. Esse hanno bisogno del­ l'argento. L’audace artificialità di questi film corrisponde a una precisa strategia. Ai segni è preclusa la strada a ritroso o la strada verso il basso e così essi si muovono in circolo, in una circolarità sospesa. Sono esonerati dalla necessità di esprimere un senso. Lubitsch toglie loro l’innocen­ za. Li rende consapevoli e autosufficienti. Egli ammalia i segni affinché essi così ammaliati esercitino la loro ma­ lia sullo spettatore. È un’unica grande manovra diversiva, che inizia con una superficiale, apparente adesione al reale e culmina nell’as­ senza di senso, nel nonsense. Si tratta della lotta alquanto impietosa fra due poteri: la donna, o me­ glio, la femminilità incarna quella scandalosa forma di potere in cui autenticità e mascherata sono indissolubilmente intrecciate. Le donne con la loro inclinazione per l'artificio corrompono per la loro stessa natura ogni idea di linearità e di profondità e tutte le nette distinzioni fra bene e male. In Lubitsch i potenti, i detentori del potere come Luigi xv, Enrico viti, il faraone Amenemhat, ma anche la zarina Caterina e la padrona del­ l'impero dei profumi Coler, diventano col tempo vittime dell’altro po­ tere che ha le proprie regole; la seduzione si impadronisce talmente di loro che essi diventano a loro volta seduttori. Ed ecco la sorpresa: perfino Jannings, il goffo Jannings, può recitare la parte del sedutto­ re. E Herbert Marshall, l’imbroglione-gentleman in Trouble in Paradi­ se, è il seduttore sedotto, vulnerabile a qualsiasi fascino. È l’eterno in­ deciso fra due donne, come Miriam Hopkins in Design for Living lo è fra due uomini e ancora un terzo, seppure svantaggiato. Lubitsch pre­ sta attenzione a che le sue figure da puri ruoli non si trasmutino in

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l’assenza del parlato nel cinema muto non è mai un proble­ ma. Le didascalie sono per lo più salaci, ma intercalate con molta parsimonia. Fin da subito egli opera in modo da far ammutolire lo spettatore per lo stupore davanti all’agire de­ gli oggetti muti. Ciò significa per lui visualizzazione: non superamento di una mancanza, ma scoperta del mondo pri­ vo di linguaggio. L’espressionismo come idea in sé è cinema a pieno tito­ lo, ha scritto Herbert Ihering. Quello che ne ha fatto il cine­ ma espressionista si è rivelato un vicolo cieco. Invece di far sì che l’esterno giungesse a esprimersi, i segni esteriori fu­ rono costretti nuovamente a rappresentare l’interiorità. Lu­ bitsch dichiarò che trovava molto più ricca di prospettive la stilizzazione rispetto all'espressionismo. Conferì una tale in­ tensità agli oggetti dei suoi film che il nuovo ritmo vitale si trasmetteva agli occhi come per caso. Il cinema come arte tecnologica poteva meglio delle al­ tre arti mostrare in anticipo gli automatismi. Lubitsch confe­ zionava film come si confeziona la moda, che è reattiva e vive di variazioni sul tema. Non creatività quale potenza primigenia fondata sull’originalità. Pare che Lubitsch sia sta­ to colto da uno scoppio terribile d’ira a un’anteprima della Giovanna d’Arco di Dreyer: uno stile troppo individuale, che insegnamento mai se ne poteva trarre? Il cinema come arte dell’autorealizzazione era per lui pura follia.

Publicity La moda non è in primo luogo imitazione, bensì muta­ mento. Lo sceneggiatore prediletto di Lubitsch a Hollywood, Samuel Raphaelson, ricorda che il regista davanti a ogni idea si accertava che fosse different, qualcosa di diverso. Così si arriva al ritmo meccanico dei suoi film, le forme si dispiega­ no come se non avessero bisogno di preoccuparsi dei con­ tenuti. I suoi film sono frutto di sapiente calcolo, calibrati al­ la perfezione, una perfezione cristallina (in yiddish: geklarfff 127

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caratteri. Confezionati con tratti spinti all'eccesso, che in realtà sono piuttosto sigla, cifra, essi dimostrano la vittoria della finzione, della si­ mulazione. Uomini effeminati, donne virili. Hitchcock in altra salsa: che l'anatomia osi mostrare il suo brutto ceffo.

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Esistono teorie illuminanti sul perché l’ermeneutica ebraica è così fondamentalmente diversa da tutte le altre praticate in Occidente: gli ebrei non avevano né un imperatore né un papa cui appellarsi e di conseguenza non subivano la costrizione dell’interpretazione unica, dell’unico senso. Quando stile e forma non sono semplicemente al servizio dell'espres­ sione, diventano autonomi, parlano per sé stessi. I padri della Chiesa rimproveravano agli ebrei di interpretare le Scrit­ ture in chiave puramente umana, fisica, disdegnando la ragione. Il fatto che i film dei primordi fossero muti, non era avvertito affatto da registi come Lubitsch alla stregua di una mancanza, ma piuttosto co­ me una liberazione dalle costrizioni che il linguaggio impone al co­ pione. •I want all action to explain itself without titles*, disse una volta Lubit­ sch a un giornalista del -New York Times* che raccontava entusiasta ai suoi lettori come, a differenza di altri film che arrivavano anche a 250 didascalie, il regista in The Marriage Circle ne avesse impiegate solo 54 e in Three Women addirittura solo 42. 11 copione ideale per lui, aveva affermato Lubitsch, era un copione senza parole. La seduzione è qualcosa di passeggero, fugace e muto. Essa passa at­ traverso gli occhi. È il contrario della comunicazione, un attimo, subi­ taneo, racchiuso in se stesso, im-mediato. Nell’andirivieni del discor­ so smarrirebbe il proprio oggetto. Nei suoi film sonori degli anni Trenta Lubitsch utilizza il parlato in chiave piuttosto mimica, inducendolo a una sorta di Sprecbgesang che trapassa senza grandi fratture nelle arie e nei numeri musicali. Con i suoi film-operetta egli si sottrae semplicemente alla costrizione di un uso della lingua in senso realistico.

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Un doveroso memento per Jean Eustache che così si esprime a pro­ posito della versione francese di The Merry Widow (La vedova allegra): •Ogni immagine, anche all’interno di una inquadratura, è una sorpre­ sa. Deludente il film è solo per chi non tragga alcun piacere dallo sti­ le o dalla recitazione dell'interprete, per chi si limiti a seguire il plot,

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A lui non successe quello che era accaduto ad altri regi­ sti di film muti, autori come Griffith e Stroheim. Il cinema sonoro non era per lui una sciagura, bensì una sfida. Ricon­ vertirsi, adeguarsi, cavare il meglio dal nuovo, non signifi­ cava minimamente un degradarsi per lui. Nelle situazioni grondanti pathos dei suoi film lo si sente ancora sghignaz­ zare dietro la cinepresa. Egli era realmente prosaico, e feli­ ce di esserlo. Con l’avvento del sonoro cominciò a girare ì suoi filmoperetta, nei quali brillavano star come Maurice Chevalier e Jeannette MacDonald. Kracauer levava alti lai sul fatto che Lubitsch, assieme a Hollywood, aveva snaturato Chevalier, l’aveva internazionalizzato togliendogli ciò che più lo carat­ terizzava. In Lubitsch il penetrante charme parigino di Che­ valier viene stilizzato a pura sigla, cifra. Ricorda alla lontana Sally Pinkus, l’affettato e smanceroso commesso di bouti­ que che a sua volta si ritiene irresistibile. Lubitsch inscena, sotto forma di stupide trame da libretto infiorettate e ambientate in regni balcanici o nella città di Vienna, sfacciate storie di sesso o di voyeurismo in cui lo spettatore viene trascinato. Si è sconcertati davanti al primo stupido scherzo che muove alle risa. La situazione fa pensa­ re all’aneddoto del principe Metternich che a Parigi, dopo aver assistito con la moglie alla prima rappresentazione di La bella Elena di Offenbach, le avrebbe detto: «Non è gra­ devole per una signora aver presenziato in un certo senso ufficialmente a un tale spettacolo»7. I film di Lubitsch sono confezionati come la moda e fan­ no l’effetto della moda. Seducono. Risvegliano desideri e piaceri. Lubitsch dimostra da dentro, con i mezzi del cine­ ma, la nostra inclinazione a essere contagiati. Dimostra inol­ tre senza minimamente infiorare la cosa che il cinema vive di questo. Desideri e piaceri nella società industriale non hanno nulla di naturale, sono frutto di calcolo. Il touch alla Lubitsch è il non detto, che tutti compren­ dono come tale, è la messinscena pensata come una trap­ pola per l’inconscio. Non corrisponde al vero l’affermazio129

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la vicenda, senza vedere come essi sono raccontati e recitati. Natural­ mente ciò non è razionale, ma quando si guarda un film, non vi è nulla di razionale, mai, neanche per un solo attimo. Lubitsch non te­ me le lunghe inquadrature, succedono talmente tante cose, non ha nemmeno bisogno di cambiare angolatura. L'intero film è esemplare. Dal '68 i piani-sequenza sono usuali, nel cinema francese come in quello americano, lunghe inquadrature che vengono a noia, si aspet­ ta che il rullo finisca perché si sa che è lungo trecento metri e più lunga l'inquadratura non può essere. Se in precedenza uno amava i piani-sequenza, non era in ragione della durata ma di ciò che vi suc­ cedeva. In virtù del tempo dell'immaginario, non di quello della pel­ licola. Ora si tratta solo di un atto di forza...* («Cahiers du Cinéma», n. 320). * 8

In Design for Living l’accordo dei partner che intendevano iniziare una nuova vita a tre senza ricadere sempre di nuovo nelle tristi peri­ pezie dei vecchi triangoli prevede: niente sesso. Naturalmente si tratta di una battuta, non certo deH’ultima parola. E se Lubitsch l'avesse inteso sul serio? Supponiamo che sia così. Il tito­ lo originale significa «progetto di vita*. Il sesso non lo interessa, per­ ché significa la fine del gioco. Il sesso per lui è una cosa troppo piat­ tamente naturale. Nella sua scala di valori, insieme al potere, alla po­ litica e alla ricchezza, rientra nella lista di tutte quelle cose che hanno in sé una finalità. In LubiLsch si gioca con il piacere, egli non guarda mai all’output. Proprio come il denaro per lui esiste solo per dissipar­ si nel lusso, non per accumularsi in ricchezza. Egli è il grande consu­ matore di ciò di cui gli altri hanno fatto incetta, soddisfatto solamente quando alla fine non rimane nulla. La scena in cui in Trouble in Paradise i due maestri della truffa si de­ rubano a vicenda con arte sopraffina sintetizza elegantemente e tra­ duce in gesto queste considerazioni. Oggi così si definisce una performance: quando i corpi si mischiano tanto indissolubilmente con i pensieri che si ha il passaggio all'atto, e quando le leggi, che hanno sempre a che fare con qualcosa di scritto, vengono mandate all’aria da regole libere c alternative che si creano la propria espres­ sione.

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ne di un censore dell’Hays Office secondo cui si capisce quello che dice, ma non si può dimostrare che lo dice8. Le sue celebri omissioni, le sue ellissi che trovano la loro più piena espressione nella funzione assegnata alle porte nei suoi film, non sono un tacere allusivo pago di sé. Tutto è lì squadernato alla luce del sole in immagini senza parole. Scoperto, sia di qua sia di là delle porte. O spalanchiamo gli occhi, attoniti, o la bocca in una sonora risata.

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Luis Bunuel L’occhio in pericolo (1983) C’era una volta, inizia in modo del tutto innocuo; e poi accade questa cosa dell’occhio tagliato. Si dice che Bunuel sia caduto ammalato per una settimana dopo aver girato la prima scena all’inizio del suo esordio cinematografico, Un Cbien andatoti, in cui un rasoio, rapido come una stretta nuvola che trascorre davanti alla luna piena, sfregia un oc­ chio da parte a parte. Il montaggio suggerisce che si tratta dell’occhio di una giovane donna. La visione di questa scena rimane intollerabile, non im­ porta quante volte la si sia vista. Da queste immagini una luce riverbera su tutte le altre che seguiranno. Nella sceneggiatura, che Bunuel stese con Dall, furono ammesse solo immagini che si sottraessero a un’interpretazione razionale. Immagini prodotte automati­ camente. Come il piccolo scrigno destituito di significato che misteriosamente compare in modi diversi nel film e che trentasette anni più tardi troviamo ancora in Belle de jour {Bella di giorno) - e ogni spettatore è libero di metterci dentro quello che gli pare. Si tratta di immagini radicali, che il film si limita poi a realizzare. Poiché i film di Bunuel sono finiti, montaggio compreso, quando è finita la sceneggiatura. È per questo che nella fattura i suoi film hanno anche qualcosa di rigido, convenzionale, freddo. Bunuel disprezza la tecnica artistica, ma la domina così perfettamente da fame sparire ogni trac­ cia. Ciò che rimane, è cliché cinematografico. Bisogna credergli quando afferma di non avere mai per­ seguito con le immagini dei suoi film intenti blasfemi o poli132

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tici o simbolici e analitici. Questa sarebbe la pista sbagliata, quella causale. Odia le dichiarazioni e irride le interpretazio­ ni in quanto sfociano in un solo significato; e lo scovare i suoi intenti non farebbe che allontanare gli spettatori dal giungere alle loro proprie reazioni. Accosta le cose in modo così serrato che esse si corrompono per contagio epidemi­ co. Da qui nasce nei suoi film il movimento e il cambiamen­ to: da concetti e da rappresentazioni che cedono e si am­ morbidiscono. I confini fissi, le differenze cominciano a confondersi, tra bene e male, giusto e sbagliato, fra amore normale e amore folle. Nazarfn, che vuole solo il bene, combina solo disastri, come Viridiana. Il bene l’ha pervertita. Et, del 1953, è un film messicano, lo studio di un para­ noico a partire da prospettive indirette, niente a cui ci si possa realmente aggrappare, e da ellissi, cui viene sacrifica­ to tutto ciò che nelle storie realistiche costituisce il tema principale. È l’incertezza, la mancanza di prove che fa usci­ re di senno il marito tormentato dalla gelosia. Abita dietro le spesse mura d’una casa liberty, le cui linee non sono co­ sì sinuose come quelle dei famosi edifìci di Gaudi a Barcel­ lona, ma che conserva ancora sufficienti tracce di quella •orripilante e commestibile bellezza- che Dall aveva scoper­ to in questa architettura. Il movimento è raramente in Bunuel qualcosa che viene da fuori. Le sue immagini sono mosse dalla metamorfosi delle cose, delle persone e delle situazioni, più che in virtù della cinepresa. La cinepresa in Bunuel si muove quel tanto che consente allo spettatore di scivolare in un altro mondo. L’immagine dell’occhio in Le Chien andalou è sicura­ mente un’immagine di castrazione, ma anche molto più di questo. Per libere associazioni si può ricondurla alle osser­ vazioni nelle memorie di Bunuel, nelle quali egli lascia tra­ sparire il suo parteggiare piuttosto con le madri, Madonna compresa. L’ordine gerarchico, con Dio e i padri in cima, è per lui la quintessenza dell’irrigidimento simbolico ed è ri­ masto l’oggetto d’elezione dei suoi attacchi. L’occhio, in analisi, è sempre il vigile occhio paterno. In Le Fantóme de 133

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la liberté (Il fantasma della libertà) uno struzzo attraversa impettito una camera da letto coniugale in una dimora bor­ ghese, con uno sguardo da sognarselo di notte. Bunuel voleva portare alla luce i mondi interiori, i pen­ sieri di onnipotenza, i sogni, gli istinti, gli «affetti-, nelle loro manifestazioni sempre incerte: non forma, non carne e per­ tanto mai totalmente arte. Archibaldo de la Cruz come Fran­ cisco in El è un artista immaginario, e le argomentazioni realistiche e casistiche dei suoi giudici non possono né scagionarlo davanti a se stesso né salvarlo da se stesso. Il surrealismo è probabilmente questo, dimensione do­ cumentaristica e dimensione deirimmaginario fuse in una realtà ben conosciuta, e che tuttavia non raggiunge mai lo statuto dell’obiettività. Buhuel insiste nel dire che il suo film Simón del desierto è un documentario su uno stilila. In que­ sto senso anche La Voie lactée (La via lattea) sarebbe un documentario sull’eresia. Bunuel racconta di un sogno che l’ha perseguitato per tutta la vita, in cui non riesce a salvarsi da sguardi estranei che gli impediscono di andare a letto con una donna. Il pa­ ranoico Francisco ha problemi analoghi. Per questo infila un grosso ago nel buco della serratura dietro il quale presu­ me vi sia uno sgradito importuno che vuole assistere alla scena. Tale ago è destinato, non v’è dubbio, all’occhio dello spettatore. Questi film non sono per voyeur e amanti dell’arte. «Che cosa p>osso contro coloro che sono ciecamente avidi di no­ vità, anche quando essa prende a schiaffi le loro più profonde convinzioni; contro la stampa, che è menzognera o si lascia comprare; contro questa ottusa gentaglia che ha trovato bello e poetico un film che in definitiva non era che un disperato, appassionato appello all’assassinio?- Così scri­ veva nel 1929, dopo che Un Cbien andalou aveva trovato più ammiratori di quanto avrebbe voluto. Il film successivo, L'Age d’or, fu proibito per cinquantanni.

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La gag e la vita quotidiana La fascinazione che promana dall’horror Bunuel ha cer­ cato di utilizzarla nei suoi film, e le immagini davvero trau­ matizzanti che gli sono riuscite agiscono ancora oggi, per­ ché sono dirette e non sono debitrici di nessun tipo di arte. Il surrealismo nel cinema è cominciato, ha detto Bunuel, -nel momento in cui ci siamo chiesti che cosa avremmo po­ tuto fare di meglio, con mille spettatori, che demolire i loro valori-. Ed è finito, a suo dire, quando si è trasformato in vita. Per Bunuel il cinema non è mai stato un mezzo per ri­ flettere la realtà. Los olvidados tifigli della violenza), anche se si possono ravvisare delle somiglianze con Sciuscià di De Sica, è tutto fuorché neorealismo. Buhuel era convinto che non si fosse neppure cominciato a sfruttare le potenzia­ lità del cinema, che per lui iniziano oltre la scena del reale, oltre il sistema percettivo. -Quando la palpebra bianca dello schermo si apre...- L’immagine cinematografica non è spec­ chio, bensì abisso, voragine. Oggi Un Chien andalou e Z'/lge d’or sono bandiere del­ l’avanguardia. Sono film nati come attacchi al cinema puro; contro il cinema individualista europeo impestato di lettera­ tura, contro Gance, Epstein e Dulac, ma anche contro Fritz Lang e Murnau e Eisenstein. L’unico modello era il cinema americano, come prodotto industriale anonimo con sentimenti standardizzati e azioni normalizzate. Del cinema americano, in modo estremamen­ te selettivo, solo alcune comiche. Fra queste solo il primo Chaplin; il Chaplin più tardo fa ridere solo intellettuali e ar­ tisti, dato che ha voltato le spalle al mondo dei bambini. In­ vece Buster Keaton, ecco il programma surrealista. Poiché nei suoi film trionfano gli oggetti, l’illimitata fantasia scaturi­ sce dalle cose stesse: sono tutte frasi, locuzioni e pensieri tratti da un testo che Dall dedicò a Buhuel nel 1927 e da una intervista fatta insieme a lui. In Buster la vita propria degli oggetti non è malvagia. Gli oggetti sono pieni di misteri, in essi si cela un genio. Le mac­ 135

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chine, i congegni che nei suoi film non funzionano secondo le intenzioni dei loro inventori, egli li usa in modo talmente ingenuo che accanto a meccanismi calcolati ne entrano in azione altri, inattesi, a farsi beffe di ogni funzionalità. La cinepresa metteva un monocolo all’occhio dei surrea­ listi, dirigeva il loro sguardo sulla vita magica e affascinante degli objets trouvés. Persino gli oggetti più banali attraverso la riproduzione filmica acquistavano l’aura di feticci. In mo­ do scandaloso, uso incongruo e culto degli oggetti andava­ no meravigliosamente d’accordo. Venivano offerti in sacrifì­ cio mentre li si sottraeva alla circolazione usuale. Nelle sue memorie Bunuel cita con comico rammarico un’esternazione di André Breton risalente agli anni Cin­ quanta secondo cui lo scandalo, ahimè, era diventato im­ possibile. Nella forma attenuata delle farse e degli scherzi Bunuel ha continuato sempre a praticarlo, come riferiscono tutti quelli che hanno lavorato con lui. Cosa che fino alla vecchiaia gli conferiva un’irriverenza che riusciva sempre a disgustare qualcuno. Eric Rohmer: «Unico, il suo modo di raccontare storie. Ma quelle stupidaggini!». I suoi film sono pieni di trappole. Il punto in cui lo scherzo finisce e si inizia a fate sul serio non viene marcato. Il dosaggio è come quello che troviamo nei film di Buster. Si provi a immaginare il suo viso immobile, da Neuc Sachlichkeit, e davanti a lui un pubblico che si piega in due dalle risate. Attraverso la dislocazione dal piano verbale al mondo degli oggetti e della osservazione del reale il Witz nel cine­ ma è diventato gag. Il procedimento rimane identico: attra­ verso scorciatoie e semplificazioni riduttive giungere a solu­ zioni cui solitamente il senso e la causalità sono d’intralcio. Il nocciolo del fenomeno, il suo enigma: neanche Freud con la sua interpretazione del motto di spirito è riuscito a venirne a capo. Le lunghe disquisizioni non portano a nul­ la, hanno bisogno di tempo; e il Wìtz è il guizzo di un atti­ mo, l’evidenza che non si può spiegare, l’evento surreale. La gag al cinema è realtà portata all’eccesso, intensificata. 136

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Invece di soluzioni spesso genera catastrofi. Ma non manca il divertimento: per esempio per il fatto che il dominio ter­ roristico della verosimiglianza come suprema categoria rap­ presentativa è ormai acqua passata. Il Witz in Bunuel è una metamorfosi operata dalla magia e dalla forza d’attrazione delle forme che si mescolano, sen­ za che il sapere con i suoi distinguo vi possa mettere becco. Lo scandalo, l’arma dei surrealisti, era una gag che si fa­ ceva vita. In ogni caso uno spettacolo, uno spettacolo con la realtà come palcoscenico. L’appello all’assassinio è più scandaloso dell’assassinio stesso. Non esercita la propria violenza sulla vita, ma sui valori e le convenzioni. I surreali­ sti avevano scoperto che l’opinione pubblica vi reagiva con maggior suscettibilità che non quando un assassinio direttamente si compiva sulla vita. Lo scandalo non è più possibi­ le in quanto oggi, nello stato di coercizione realistica, i se­ gni vengono presi sempre alla lettera. L’entusiasmo di Bunuel per il modo di vivere americano e per il cinema americano si è raffreddato quando la vita l’ha portato a confrontarsi con la lotta per la sopravvivenza in America. Dal 1940 visse, spesso disoccupato, a New York e a Hollywood, fino a quando nel 1946 trovò da lavorare nel cinema in Messico. Come il suo rapporto con la vita tecnologizzata sia cambiato, lo descrive nell’ultimo capitolo delle sue memorie, in cui ritorna, modificata, una frase che in precedenza aveva pronunciato un personaggio della Vote ladée: il mio odio per la scienza e il mio orrore per la tec­ nologia mi faranno approdare all’assurda credenza in Dio. Nel 1943, per intervento delle autorità cattoliche, perse il posto di montatore presso il Museum of Modem Art a New York. L’Age d’or, che gli aveva fruttato nel 1930 il suo primo contratto, e il soggiorno, a Hollywood, dopo tredici anni continuava a produrre i suoi effetti. I suoi conti con l’America Bunuel li fece nel I960 con The Young One, dopo Robinson Crusoe l'unico film che egli abbia girato in lingua inglese. Dall aveva già trovato ameri­ cana la tecnica dell’oc d'or. The Young One è il più ameri137

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cano di tutti i film di Bufiuel, sebbene girato in Messico con tecnici messicani. Doveva essere girato in South Carolina, in uno Stato che gli americani annoveravano nella Bible Belt. Il film è veloce, girato senza pretese, come una pellicola di serie B. Ma al tempo stesso è un autentico Bunuel: un falso film documentario come Las burdes, che simula uno stile realistico di rappresentazione, e poi, mescolato con i temi principali di razzismo e puritanesimo, il soggetto profonda­ mente surrealista della seduzione di una minorenne. La co­ sa naturalmente va da sé, in quanto tutt’attorno non vi è che natura, più selvaggia che paradisiaca. Un nero viene ac­ cusato di aver violentato una bianca, termine che nessuno userebbe per designare quanto il guardacaccia bianco ha combinato sull’isola deserta con la minorenne. Alla fine c’è un mercato fra puritani e razzisti, in cui l’innocenza della vergine viene sacrificata senza scrupoli. Il film, che Bunuel annovera fra i suoi prediletti, fin da subito fu poco amato, soprattutto in America. Si fa ricorso a due grandi temi solo per farli collidere senza risultato: sen­ za risultato dal punto di vista della presa di coscienza. Poi­ ché le cose in definitiva si aggiustano sulla base delle loro condizioni intrinseche. Il tutto come prodotto di un ordine segreto e cinico con in più la nota piccante che un prete, un reverendo, ci mette del suo come ricattatore. Alla riuscita del film, ha detto Buhuel, è mancata l’icasti­ cità pittorica del bianco e nero. Al posto di questa egli fa ri­ corso all’obiettività estatica, eccessiva, mediante la quale i surrealisti incalzano, ancora e sempre con successo, il prin­ cipio di realtà. Più fedeli alla natura che con il cinema non è dato essere. Il film non è altro che un unico gesto ponziopilatesco di non immischiarsi, di grande presa di distacco: affari vostri, mi tengo fuori. All’ironica, parodistica, giocosa indifferenza in fatto di fe­ de di Bunuel non si è mai creduto quanto egli avrebbe volu­ to. Ogni volta che nei suoi film fa la sua comparsa la religio­ ne, essa, dai suoi detrattori come dai suoi sostenitori, che fanno di ogni erba un fascio, è stata recepita come blasfemia. 138

LUIS BUfilUEL

Madonne di plastica La Vote lactée è un film sulle eresie, sulla base di ricer­ che estremamente accurate. Le dottrine deviazioniste che hanno scosso il cattolicesimo sono solo il punto di parten­ za. Come sempre in Bunuel il problema ruota intorno alla realtà delle rappresentazioni immaginarie. L’intero mondo delle meraviglie cristiano dal suo punto di vista si presta molto a dare rilievo alle idee surrealiste. Le eresie sono de­ liri logici, perverse controdeterminazioni che reclamano ad alta voce immagini filmiche, perché gli interrogativi che sol­ levano provengono da una comprensione realistica del mondo: il rapporto padre-figlio nella trinità - il ruolo dello Spirito Santo, per Bunuel, già da un pezzo ha esaurito la sua funzione; oggi noi viviamo l’epoca della religione dei fi­ gli -, l’immacolata concezione, perché un Dio buono ha permesso che il male facesse il suo ingresso nel mondo, perché ha bisogno del demonio per sedurre, com’è che il falso può presentarsi con tutta l’apparenza del vero. In un necrologio dedicato a Bunuel da una rivistra cine­ matografica inglese si poteva leggere che tutto questo ciar­ pame religioso oggi non interessa più nessuno, che Buùuel è morto e sepolto, sorpassato giacché fin nelle più intime fi­ bre delle sue invenzioni egli è tributario del cattolicesimo. Il rapporto di Bunuel con la religione (con tutti i distinguo del caso, dal momento che l’uno lavorava con le parole, l’altro con le immagini), non è diverso da quello di Joyce, che al pari di lui nutriva un grande interesse per le eresie. Per am­ bedue la religione è un arsenale di invenzioni dell’immagi­ nario collettivo. Per Bunuel è il legante universale, un au­ tentico mass medium. Come tutti i miti essa conduce negli strati profondi a-verbali. I rituali cristiani - in El la lavanda dei piedi nella liturgia della settimana santa - non vengono demistificati. Buftuel se ne serve come di uno spettacolo arcaico, la cui estraneità esercita una fascinazione. Certamente rappresenta i gesuiti come i primi tecnici della seduzione di massa, ma in modo del tutto manifesto mostra più indulgenza per l’arbitrio e la 139

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crudeltà delle loro forme che per una liberalità affatto priva di forme. Proprio come un feticcio gli è sempre più vicino di un oggetto d’uso. Egli ha avuto bisogno della religione per i suoi film. I surrealisti avevano bisogno dei borghesi per i loro scandali. Nei suoi film Bunuel rappresenta i codici con i quali la bor­ ghesia codifica la propria vita. I codici hanno la proprietà di produrre attraverso la ripetizione stereotipi e cliches. Codifi­ care non significa in questo caso proteggere tesori misterio­ si, bensì far emergere delle strutture ponendo l’accento su di loro. Gli ultimi film di Bunuel trattano di borghesia, li­ bertà, avidità non in modo diretto, ma mostrando il loro fa­ scino, la loro spettralità e la loro discutibilità. El angel exterminador {L'angelo sterminatore') avrebbe voluto girarlo a Parigi anziché in Messico, per dare maggior peso alle cose, alla cornice in cui la storia si svolge. Nel film i rituali sociali non sono l’elemento decisivo, Io è invece il fatto che essi si sviluppano a partire dalle cose. Alla coazio­ ne a ripetere di un evento mondano segue la liturgia. Ci si reca in chiesa per il Te Deum di ringraziamento. Dalla zat­ tera della Medusa la società trova scampo nell’arca di Noè. Ma anche questo film rischiamo di farcelo sfuggire se ci si accosta ad esso mediante equazioni semantiche. Si do­ vrebbe invece osservarlo come un Ufo, vedere come i suoi meccanismi operano e funzionano. Libero dalle costrizioni del reale, tutto in ogni caso si svolge solo nella testa. In Cet obscur objet du désir {Quell'o­ scuro oggetto del desiderio) Bufiuel fa recitare il ruolo della protagonista femminile a due attrici diverse. In fondo è la stessa cosa, ha dichiarato. Come il dirty old man, il vecchio sporcaccione, che fa bere alla novizia Viridiana una pozio­ ne soporifera, affinché assuma il ruolo della moglie morta, anche qui ancora una volta è l’uomo, e non il suo oggetto d’amore, a essere vittima di un amourfou. Le donne sono, di volta in volta, secondarie. Perché la cosa più folle nell’amourfou è questa: esso è un sentimento teoretico, total­ mente speculativo. Tipico degli introversi, degli eremiti e dei sognatori. 140

Howard Hawks Il Laocoonte americano (1985)

Il Ventesimo Secolo è un espresso sulla linea ChicagoNew York, nella commedia di Hawks del 1934. Il film è trat­ to da una pièce teatrale. Hawks l'ha attivata tecnicamente trasponendola sulle ruote del direttissimo. L’unità di azione, luogo e tempo del teatro classico non viene quasi toccata, solo che nel cinema si parla piuttosto di continuità. Una delle cifre dei film di Hawks è la linea­ rità, la vettorialità. Ha fatto road movie per terra, acqua e aria, western, film di gare automobilistiche, film di guerra e le più svelte commedie di tutto il genere. In questo caso il suo modello era Harold Lloyd, l’uomo che immancabilmen­ te mostra come meglio ci si adegua, per funzionare senza attriti, al modo di vivere americano improntato alla tecnica. Fra il 1926 e il 1970 Hawks ha girato più di quaranta film, alternando in bella simmetria film d’azione ottimisti e commedie pessimiste. Competenza, specializzazione, gran­ dissimo mestiere sono il loro cardine. Nelle commedie inve­ ce del professionista troviamo spesso il professore. Dallo specialista esclusivamente concentrato sul proprio orticello a chi, esperto di un campo specifico, se ne va per il mondo con i paraocchi o ben deciso a imporsi senza riguardi per nessuno, il passo è breve. Anni fa, quando Eric Rohmer ancora scriveva recensioni, e in Hawks studiava e analizzava uno dei suoi registi prefe­ riti - la cui stringatezza, funzionalità e rifiuto di tutti i trucchi sono fino a oggi rimasti per lui esemplari - constatò con meraviglia quanto Hawks, regista di film d’azione, avesse conservato del teatro: in definitiva tutto, fuorché la teatralità. 141

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Per quella mancava il tempo. Hawks costruì una nuova drammaturgia, con la quale poteva fissare la velocità, il tempo relativo, nell’immagine in movimento. Twentieth Century (Ventesimo secolo) è la concatenazio­ ne di movimento tecnico, azione e ritmo dei dialoghi; due anni prima nel gangster film Scarface aveva accumulato cri­ mine su crimine, accompagnando il tutto con raffiche di mi­ tragliatrice, e aveva inequivocabilmente dimostrato come l’omicidio in America fosse diventato produzione da catena di montaggio. La velocità, dice Hawks, non solo genera vio­ lenza, è essa stessa, per sua natura, violenza.

Mobilitazione totale Il ritmico rumore del treno in Twentieth Century regola il registro vocale degli interpreti. Per lo spettatore sottolinea inoltre la rapidità delle immagini filmiche; è come se anche lui viaggiasse sul treno. Tra i media che riproducono il mo­ vimento e i mezzi di trasporto che influenzano le modalità della visione e la prospettiva esiste un'identità di fondo. Lontano, all’orizzonte di Twentieth Century, spunta Hol­ lywood come tentazione e pericolo per il teatro. L’antago­ nismo dei sessi, che fa di ogni film di Hawks un film di guerra, in cui la mobilità e la capacità di reazione contano più della strategia pianificata, in questo film è altrettanto a tinte hollywoodiane: il futuro appartiene alle star, non più ai registi. Di Hawks i cinefili francesi degli anni Cinquanta fecero la loro bandiera per la teoria del cinema d’autore. Hawks partecipò alla stesura di tutte le sceneggiature dei propri film. Il montaggio non lo interessava particolarmente, ma per avere il pieno controllo non delegava mai. A Hol­ lywood però, per essere totalmente autori, occorreva so­ prattutto essere il produttore dei propri film. Per Hawks non era una questione di indipendenza, corrispondeva alla sua idea di film come prodotto commerciale, tecnico, frutto di un lavoro d’équipe. 142

Gli europei che si interessano di arte cinematografica pensano subito che tenere d’occhio i risultati dei box office porti necessariamente all'autocensura e alla limitazione del­ la libertà artistica. Il punto di vista americano viene formu­ lato così da un professore di Harvard: «I suoi film mi sem­ brano il prodotto di una testa brillante, colta quanto spre­ giudicata, che si accompagna inoltre a un grande mestiere. Si potrebbe dire l’opera di un artista. Nelle interviste a cui acconsentiva volentieri dopo essere stato scoperto dagli in­ tellettuali si atteggia a cowboy. Io non ci vedo altro che il naturale prosieguo della sua brillantezza, della sua cultura e della sua spregiudicatezza. Sembra essere ben conscio che un artista americano per crearsi un pubblico e conservarlo non deve assolutamente apparire come tale, e soprattutto non deve prendersi per tale» (Stanley Cavell è professore di estetica e di teoria generale dei valori, la sua analisi delle commedie hollywoodiane si intitola Pursuits of Happiness ltr.it. Alla ricerca della felicità-La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, n.d.r.J, lo stile e il ragionamento della sua trattazione avvalorano la tesi prediletta di Hawks secondo cui è assurdo e innaturale tracciare un confine definito tra genere serio e genere comico). Noi in Europa conviviamo ancora faticosamente con la tendenza a mettere sullo stesso piano cultura commerciale e cultura alta. Gli americani riflettono in modo pragmatico i cambiamenti avvenuti nei modi di produzione dell’arte nel­ l’epoca della tecnica. Hawks, ha scritto Henri Langlois, è il Gropius del cine­ ma, progetta film come si progettano motori e ponti. Hawks si è laureato in ingegneria in una università della East Coast. Prima di tornare a Hollywood, dove dapprima produsse slapstick comedies in due atti, partecipò a gare automobili­ stiche e progettò automobili da corsa. Combattè nella prima guerra mondiale come aviatore in Francia. Che era il grande desiderio di William Faulkner; il fatto che rimanesse inesau­ dito rappresentò una frustrazione per tutta la vita. La guerra finì prima che potesse arruolarsi. Nei racconti e nella vita privata, finché gii fu possibile, fìnse di avervi partecipato. 143

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Amori di uomini Con il breve racconto di Faulkner La paga del soldato, che Hawks lesse su un giornale nel 1929, iniziò tra i due uomini un’amicizia destinata a durare tutta la vita. Devono essere stati una coppia comica. Tutti e due abbottonati, ugualmente parchi di parole, ma nell’invenzione dediti al culto della parola. Facevano grandi bevute insieme, andava­ no a caccia insieme: due cacciatori della domenica, secon­ do il loro rigoroso codice di professionisti. Si vestivano allo stesso modo, con un leggero tocco di noncurante eleganza inglese, ed entrambi avevano un debole per le uniformi. Nei film di Hawks le uniformi sono in un certo senso un travestimento legittimo, finzione applicata al vestiario che viene legittimata dalla realtà, proprio come il massimo dei suoi desideri sarebbe che l’agire dei suoi attori si riducesse a un semplice recitare la finzione, a fare «come se», senza immedesimazione, giocando tutto sull’understatement. In Ceiling Zero {Brume), in Bringing up Baby {Susanna), in His Girl Friday {La signora del venerdì), in The Big Sleep {Il grande sonno) il telefono funziona come un realistico ap­ parecchio di finzione, che fa un attore di chiunque lo usi. Il rapporto di Hawks con Faulkner nella vita era una love story fra uomini, come sempre se ne presentano nei suoi film, in sempre nuove varianti. Amore che nasce dalla sti­ ma, ammirazione per le capacità dell’altro. Nessun amore fì­ sico. Amori fatti di fumo. Per i due film ambientati nella prima guerra mondiale e The Road to Glory {Le vie della gloria) Faulkner scrisse la sceneggiatura. A parte la tematica, non sono tipici film da Hawks. Il primo film sonoro di Hawks, Dawn Patrol, per il quale scrisse da sé la sceneggiatura, ha più a che fare con il racconto Turn About che con Today We Live a cui si ispi­ ra. Hawks prende da Faulkner l’idea che uno continua l’o­ pera là dove l’altro è stato costretto a rinunciare, e anche l’idea della circolarità: far finire una storia al punto dove è cominciata. 144

In fondo non si potrebbe immaginare niente di più di­ verso degli stilizzatissimi film di Hawks e dei romanzi a in­ castro di Faulkner, con le loro frasi che non finiscono mai. L’unica cosa che hanno in comune è l’impronta del parlato. La scrittura di Faulkner reca il segno dei tall tales, dei rac­ conti di tradizione orale degli Stati del Sud, e Hawks ha un orecchio infallibile per captare la trasformazione dall’ingle­ se all’americano, nella lingua quotidiana plasmata dalla vita di ogni giorno. Nelle sue commedie è un parlato-action, che si autonomizza come lucido delirio. Una American zaniness, una peculiarità nazionale, una follia assolutamente tipica, viene citata con amore e orgoglio da tutti i suoi inter­ preti americani. La parola d’ordine di Hawks, la «cinepresa all’altezza del­ l’occhio» - solo agli europei poteva saltare in mente di in­ terpretarla in senso umanistico - era una reazione nei con­ fronti della scuola espressionista tedesca, che con Murnau e soprattutto Sunrise {Aurora) aveva suscitato un’enorme im­ pressione a Hollywood. Fig Leaves, il secondo film di Hawks, del 1926, è una sorta di irrisione del culto del ge­ nio, dei film d’arte dei registi europei. Un probo lattoniere americano rischia di perdere la moglie attratta da un coutu­ rier francese, perché le donne hanno appunto un debole per le cose inutili e superflue. Il modello che sta dietro al borioso stilista bellimbusto e al suo modo di trattare le don­ ne potrebbe essere Josef von Sternberg, il cui film Un­ derworld {Le notti di Chicago) Hawks stava preparando. In seguito Hawks, a una domanda su Lauren Bacall, aveva ri­ sposto dicendo che lei era la versione morbida della Marle­ ne Dietrich di Sternbeig. A differenza degli europei, Hawks si era sempre premu­ rato di sottolineare il lato meccanico, non inedito, seriale delle sue invenzioni. Aveva una predilezione per i remake. The Crowd Roars {L’urlo della folla), del 1932, lo rifece trent’anni dopo come Red Line 7000 {Linea rossa 7000), Bringing Up Baby diventa nel 1963 Man’s Favorite Sport? {Lo sport preferito dall’uomo), dal western Rio Bravo {Un 145

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dollaro d'onore) quindici anni più tardi trarrà El Dorado. Un remake non è una ripetizione, in Hawks è una permutazio­ ne. Abbiamo cercato semplicemente, dichiara ai suoi inter­ vistatori, di fare l’opposto, di mettere una donna al posto del protagonista maschile, di cavar fuori da una situazione seria un numero musicale. Di Faulkner ammirava soprattutto l’abilità di tradurre il vecchio in nuovo. Per Hawks l’immaginazione è la capacità di riorganizzare il noto e farlo funzionare in nuovi contesti. Lo interessano dapprima dettagli, parti, scene, situazioni che si vengono a costruire fra i personaggi; la story, il rac­ conto è secondario, la continuità viene simulata attraverso la velocità. Il famoso aneddoto secondo cui né lui né Faulkner sape­ vano chi in The Big Sleep (Il grande sonno) inseguisse chi, perché e come mai, si rivela così del tutto credibile. Le tra­ me sono troppo il frutto di un’ invenzione. Avrebbe amato più di tutto filmare rapporti fra persone, vecchi con giovani, professionisti con dilettanti. Nei suoi due film con Humph­ rey Bogart e Lauren Bacall, To Have and Have Not (Acque del Sud) e The Big Sleep, ci si accorge chiaramente che ciò che in questi film fa scintille proviene dalla vera storia d’a­ more fra i due protagonisti. Se solo si guarda con sufficiente attenzione, si scoprirà in tali momenti il punto in cui nel modo di recitare america­ no dalla rappresentazione si passa alla performance, una interpretazione che si fonda su una prestazione corporea di reale immedesimazione. -It’s all for real-, è tutto vero, è una frase ricorrente nelle interviste a Hawks. Al cinema per lo spettatore la cosa diventa veramente eccitante, appassio­ nante, emozionante solo quando gli sfuggono di mano tutti i criteri con cui è solito separare reale e fittizio. Accanto alla velocità fanno parte degli elementi di fondo delle invenzio­ ni di Hawks, del suo giocare con la realtà, tutte le forme di ribaltamento delie situazioni. Leigh Brackett, che aveva già lavorato a The Big Sleep e fu poi autrice delle sceneggiature di tardi western e di Ha146

tari!, raccontava come negli ultimi anni Hawks avesse per­ so ogni interesse per le trame. A suo dire il pubblico era so­ vralimentato di trame e il tempo delle storie era ormai defi­ nitivamente tramontato. C’era bisogno solo di numeri e, per tenere insieme il tutto, di un po’ di velocità. Si sarebbe cer­ tamente stupito nel sapere che proprio la televisione avreb­ be rafforzato la tendenza che lui, con i suoi film, aveva im­ maginato come futuro del raccontare.

Donne affusolate In Hawks la critica è implicita, è critica in azione. Hawks si esprime attraverso le potenzialità che derivano dalla natu­ ra del suo mezzo. His Girl Friday è il film in cui critica con maggior asprezza il modo di vivere americano. Gli avveni­ menti che di solito nei film e nelle trame rappresentano il climax drammatico scivolano via come se nulla fosse: un uomo innocente che deve venire impiccato, una donna che si getta dalla finestra. Sono tutte cose secondarie a parago­ ne della necessità che sui giornali se ne parli a tamburo bat­ tente, che il newspaper game, lo stesso vecchio trucco, con­ tinui a funzionare al solito ritmo. I due protagonisti, una volta che la bufera è passata, sono osservati in tutta calma, repellenti, ripugnanti. Rosalind Russell marcia come un dra­ gone nel suo tailleur gessato maschile, la mano posata sui fianchi inesistenti, la tesa del cappello sollevata e i guanti da moschettiere. Vorrebbe abbandonare la professione del reporter per condurre una vita da donna, ma lei è un ani­ male da tiro, ha il lavoro nel sangue, non può mollare, mo­ stra che cosa significa un lavoro ben fatto agli uomini che la guardano ammirati. Ma gli uomini non la guardano ammira­ ti perché vedono qualcuno che fa qualcosa di veramente diverso da loro. La guardano ammirati perché vedono il lo­ ro stesso lavoro, solo fatto in modo migliore. Il mondo di Hawks tende all’uniforme, all’unisex, al mondo in jeans, praticamente indistruttibile. La sua lotta fra 147

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i sessi si conclude in un funzionamento con minori attriti, nella riconduzione sotto un unico denominatore della pic­ cola differenza fra uomo e donna. Rosalind Russell è una delle numerose figure femminili aggressive - le sue eroine positive - che Hawks ha inventato per il piacere suo e del suo pubblico, al fine di mostrare che anche alle donne pia­ ce andare a caccia e che lo fanno con competenza. Ah, le donne americane!, geme Cary Grant, maggiore francese in I Was a Male War Bride (Ero uno sposo di guer­ ra), così come il farmer immigrato svedese in Searchers (Sentieri selvaggi) di John Ford commosso e pieno d’amore esclama: Ah, questo paese! Cary Grant come sposa di guer­ ra non è che il vecchio soggetto della Zia di Carlo, solo ri­ verniciato ambientandolo subito dopo la seconda guerra mondiale, tra Heidelberg, Francoforte, il Neckar e Bre­ merhaven, dove le soldatesse sono più energiche degli uo­ mini, indossano i pantaloni meglio di loro e guidano la mo­ tocicletta, anche se con un po’ di fatica data la loro corpo­ ratura, come i soldati maschi. Ancora Leigh Brackett: nel loro insieme i personaggi di Hawks non sono tipi casalinghi, non si parla mai di siste­ marsi e fondare una famiglia. Per prima cosa l’eroe deve aver accettato una donna come accetterebbe un uomo, solo dopo può cominciare a considerarla una donna. Ma non si arriva mai a tanto nei film di Hawks. La comu­ nanza basata sulla cooperazione, come futuro che si pro­ spetta all’uomo e alla donna, è sempre e solo l’estremo happy end, la scritta finale colma di promesse. Con il film successivo ricomincia da capo la vecchia guerra. L’orda pri­ mitiva di Hawks ancora una volta si stacca dalla realtà, dal­ la civiltà, dalla società in cui uomini e donne vivono con idee, interessi, funzioni diverse. I suoi personaggi conducono un’esistenza marginale che si regolamenta non in base alle leggi, ma in base a un pro­ prio codice d’onore non scritto che scaturisce dal loro lavo­ ro, dalle loro azioni. Vivono in grandi spazi aperti, in base a libere leggi. Quando la fase pionieristica è passata e il nuo­ 148

vo si istituzionalizza, coloro che vogliono vivere in libertà partono per nuove imprese. Gli eroi di Hawks sono fuori­ legge, calpestano per superficialità o arbitrio le norme, e pagano per questo spesso con la vita. Ma come si vede nel caso di James Cagney in Ceiling Zero, un film di genere aviatorio degli anni Trenta, gli indipendenti e gli istituziona­ lizzati non possono vivere gli uni senza gli altri. All’infuori della donna senza marito in Sergeant York (Il sergente York), che ha dovuto allevare da sola i suoi figli, in Hawks non ci sono figure di madri. E nell’opera complessi­ va di Hawks questo film è molto insolito. Copre un arco temporale più ampio rispetto agli altri suoi film, e per dirla con Faulkner, procede a passo di mulo. È un film da sangue-e-suolo, la cui prima parte si svolge in un altipiano ab­ bandonato da Dio ne) Tennessee e la seconda durante il conflitto mondiale sui campi di battaglia della Francia scon­ volti dalla dinamite e dalle trincee. Per il resto nessuna madre, ma fratelli e sorelle che si amano tra loro e compagni di avventura legati l’uno all’altro nella prosperità e nella disgrazia che si rivolgono l’uno al­ l’altro chiamandosi Pop e Kid. Il gruppo ha totalmente so­ stituito la famiglia. È come se nella loro smania di muoversi più velocemente volessero far dimenticare le proprie origini superando la forza di gravità del loro corpo. Il fatto che an­ che loro un tempo, nella vita prenatale, sono stati «passeg­ geri di donne-.

Il sesso degli angeli In Only Angels Have Wings (Avventurieri dell’aria) Hawks fa dire a Jean Arthur, mentre insieme a Cary Grant osservano un aereo in cielo, che esso si muove lassù come un essere umano. Più tardi in Air Force (Arcipelago in fiam­ me) i soldati diventano parte del loro bombardiere che ha un nome di ragazza e di cui parlano come di un essere femminile. Sono diventati una sola cosa con il corpo di me­ dilo del loro aereo, è la loro casa, l’aria è il loro elemento. 149

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Hawks vuole che ci si diverta nei suoi film e ai suoi film. Per raggiungere questo obiettivo, tutto è lecito per lui. Così si è sbarazzato nel modo più rapido possibile di tutti i diffi­ cili problemi che nascono dalla legittimazione dell’arte. Più di ogni altro regista ha fatto film che hanno riscosso un grande successo di pubblico e, in certa misura, anche fra gli intellettuali. Il ventesimo secolo volge alla fine. I media elettronici sono subentrati a quelli meccanici. Come molla dell’inven­ zione, la velocità capace di annullare le distanze ha fatto il suo tempo.

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Ill

Alla fine del 1970 la -Suddeutscbe Zeitung- introdusse i Filmtips, ovvero brevi recensioni dei film in programmazio­ ne nei cinema di Monaco, che comparivano nelle pagine culturali ogni martedì e venerdì, ed erano redatte da diversi collaboratori. I Filmtips di Frieda Grafe (dal dicembre 1970 fino al novembre 1986 circa trenta all'anno, nell'insieme circa 450, relativi a migliaia difilm) nel 1993 vennero rac­ colti in forma di libro, una cosa del tutto eccezionale per un genere giornalistico così effimero. Una volta di più, la scelta è stata molto diffìcile. Fare l'antologia degli highlights, dei punti alti di diciassette annate? Seguire singoli temi e titoli? (Grafe sfruttava queste occasioni per dar luogo, su un dato film o regista, a osservazioni sempre nuove). Oppure farne una raccolta didattica, un -Come usare un contenitore mo­ desto per raggiungere i fini più elevati della critica cinema­ tografica e il miglior entertainment-? Alla fine si è scelto di presentarne un’annata completa. Si riceve così anche un assaggio di storia locale della programmazione delle sale e di cultura cinematografica dell’epoca. Abbiamo scelto l’an­ no 1973 perché nell’insieme della nostra pubblicazione i primi anni Settanta sono poco presenti, e perché in quell’an­ nata di Filmtips compaiono temi (Ozu, bang, Sirk) impor­ tanti per Frieda Grafe, e che sarebbero altrimenti rimasti del tutto ignorati. La numerazione 57-92 si riferisce all’ordine progressivo dei Filmtips nella riedizione del 1993- Poiché il testo tedesco presentava alternativamente il titolo originale e il titolo di distribuzione tedesca o uno solo dei due, abbiamo sempre reintegrato il titolo originale.

Filmtips Monaco 1973

57 The Man from Laramie, 1955, di Anthony Mann. John Ford e John Wayne, Budd Boetticher e Randolph Scott, Anthony Mann e James Stewart. I western di Mann sono come il protagonista: lenti, quasi flemmatici, si ha molto tempo, e anche molto spazio, per guardarsi intorno. Sono veramente western di routine. Martedì e mercoledì al Turkendolch. Which Way to the Front?, 1970, di Jerry Lewis. Jerry è bravissimo quando fa la parte del povero imbecille, ma dai ricchi sa trarre ancora di più. Fino a giovedì, proiezione notturna all’Eldorado. The Brides of Dracula, i960, di Terence Fisher. -Un sorri­ so crudele spalancò la sua bocca lasciando scorgere tra le labbra vermiglie denti aguzzi, candidi come l’avorio. Uno dei miei compagni di strada bisbigliò all’orecchio di un altro il verso della Lenore di Bùrger: Poiché rapidi cavalcano i morti». Questa volta nel chiarore lunare le pale di un muli­ no che girano formano una croce, una croce d’ombra che porterà la morte a Dracula. Mercoledì e giovedì, proiezione notturna al Leopold. A nous la liherté, 1931, di René Clair. Per questo film Clair ha rubacchiato da Chaplin, da City Lights-, per Modem Times Chaplin ha rubacchiato da A nous la liberté, in cui un avaro imbroglione e un vagabondo sentimentale, ex com­ pagni di cella ora in libertà, constatano insieme che il dena­ ro non rende felici. Se non si amano il Clair più tardo e cer­ te cose in Chaplin, con questo film si capisce il perché. Ori­ ginale con sottotitoli, giovedì all’isabella. 153

FRIEOA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 19612000

La Règie du jeu di Renoir al Theatiner, in originale con sottotitoli. City Lights di Chaplin al Rex. Baisers volés, proie­ zione notturna al Theatiner. 2.1.73

58 Shanghai Express, 1932, di Josef von Stemberg. La battu­ ta in realtà non è tratta da questo film, ma dall’ultimo film di Marlene con Sternberg. Interrogata da un uomo in uniforme sul perché e il per come del suo viaggio, Marlene risponde secca: -Single, pleasure trip». Originale con sottotitoli. Da oggi programmazione diurna al Theatiner (seguirà critica). The Big Heat, 1953, di Fritz Lang. La cosa folle nei lungometraggi americani è che in essi il quotidiano diventa tanto favoloso, quanto nei film espressionisti di Lang il fantastico si trasforma in realtà tedesca. Lee Marvin che getta in faccia a Gloria Grahame il caffè bollente è come Buhuel che len­ tamente con il suo rasoio sfregia da parte a parte il globo oculare. Domenica, proiezione serale al Leopold. Creature from the Black Lagoon, 1954, di Jack Arnold. Il mostro con le branchie e la donna bianca. Scienziati vanno alla ricerca in Amazzonia di creature prediluviane. Trovano ben più che mere tracce. Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondem die Situa­ tion, in dererlebt, 1971, di Rosa von Praunheim. La racco­ mandazione certo nota di Mr. Potter: quando una conversa­ zione ha bisogno di essere rianimata, quando in società si vuole brillare per conoscenze particolari, basta affermare che quanto è stato detto è vero in generale, ma non va be­ ne per il Sud. Il film che non è stato trasmesso dalla televi­ sione bavarese. Da oggi a lunedì, programmazione diurna, all’isabella. Film muti tedeschi allo Stadtmuseum. Per la penultima volta. Oggi Tagebuch einer Verlorenen, 1929, di G.W. Pabst. Domani Der Meister von Nurnberg, 1927, di Ludwig Berger. 154

Di Jean-Marie Straub: Der Brdutigam, die Komodiantin und der Zubàlter e Chronik der Anna Magdalena Bacb, 1968. Domenica alle lie 13.45, al Theatiner. AU’Undependent Film Center: L’Aged’orBuftuel, 1930. Oggi e domani, ore 22.30, al cinema della Rottmannstrasse. 19. 1. 1973

59 Sergej M. Eisenstein. Cinque dei suoi film in occasione dei settantacinque anni dalla sua nascita. -È il pathos a far sobbalzare lo spettatore sulla poltrona. Ciò che gli strappa l’applauso, che lo fa urlare. In breve, tutto ciò che lo manda •fuori di sé». In altre parole: l’azione del pathos, intrinseco all’opera, finisce per spingere lo spettatore all’estasi. Ekstasis significa letteralmente: «uscire da se stessi»... Perché si produca l’effetto patetico, gli elementi e le peculiarità di un’opera devono trovarsi in una particolare condizione... la condizione estatica. Il che presuppone ancora una volta che si compia il salto, ininterrottamente, dalla quantità alla qualità». I cinque film: Bronenoseè Potèmkin, 1925, Time in tbe Sun, 1932, Staèka, 1924, Oktiabr’, 1927, Aleksandr Nevskij, 1938. Jean-Luc Godard, À bout de souffle, 1959, da oggi a gio­ vedì, programmazione serale al Theatiner. Une Femme ma­ riti, 1964, oggi programmazione serale, al Leopold. Film che all’inizio erano nuovissimi e ora fanno già parte della storia del cinema, ma non per questo diventano vecchi. Perché inaugurano davvero un’epoca. Man’s Favorite Sport?, 1963, di Howard Hawks. Un gallo depone un uovo. Un non pescatore scrive il manuale ideale per pescatori professionisti. A un uomo cade in grembo una donna. L’happy end fa intravedere catastrofi ancora più grandi di quelle accumulate dal film. Ecco Hawks di nuovo snervante al massimo. Mercoledì e giovedì, programmazio­ ne serale, all’Eldorado. 155

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La frusta e il corpo, 1963, di Mario Bava. La contessa Nevenka, in un castello vittoriano in riva al mare, ha in mente una sola cosa: suo cognato Kurt. Che è un sadico. I loro rapporti perversi, ma assolutamente univoci Bava li materializza non tanto alla sua maniera (titolo tedesco Die Stunde, wenn Dracula kommt) quanto secondo i dettami delle in­ glesi Hammer Productions. Kurt è interpretato da Chri­ stopher Lee. Programmazione serale, al Leopold.

60 My Darling Clementine (versione tedesca), 1946, John Ford. Gli Earp contro i Clanton in una sfida all’O.K.Corral e Shakespeare a Tombstone. In principio erano le tombe, poi lentamente arrivò la civiltà. Oggi domani, programmazione serale, al Leopold. Belle de jour (originale con sottotitoli), 1967, di Luis Bunuel. I desideri, la realtà e il rapporto fra di loro. Il cine­ ma che trasforma le fantasie in immagini reali. Da sabato a lunedì, aH’Isabella. W.C. Fields e film di Betty Boop. Fields, un comico cic­ cione con un grosso naso da ubriacone e un alto cilindro, molto più malvagio di Charlie, e non ne fa mistero: uno che odia cani e bambini non può essere una cattiva persona. Uno dei suoi lungometraggi si intitola Mai dare una chance a un imbecille. In situazioni penose perlopiù si mette a can­ tare. Una delle sue canzoni è formata unicamente dal titolo •Oh, in Kansas le galline hanno belle gambe...». Betty Boop era la Mae West dei cartoni animati. Tutt'e due hanno avuto uno straordinario successo, ragion per cui venne loro torto il collo dalla «Legion of Decency», la so­ cietà per la soppressione del vizio. La scomparsa di Betty Boop venne rimpianta perfino da Adorno. Cortometraggi con W.C. Fields intorno al 1933 e cartoni animati di Betty Boop intorno al 1935, di Max Fleischer, domenica, proiezio­ ne serale, al Leopold. 156

FILMTIPS

Metropolis, 1926, di Fritz Lang, roba da pennivendoli ci­ nefili, secondo l’«Angriff- di Goring. Oggi, alle 18.30, allo Stadtmuseum. Der Golem, urie er in die Welt kam, 1920’ di e con Paul Wegener. «La morta materia si anima, la forma senza vita co­ mincia a respirare-. I film degli esordi inscenano in sempre nuove varianti la sorpresa che le immagini potessero im­ provvisamente muoversi. Domani, alle 18.30, allo Stadtmu­ seum. Love Happy, 1950, di David Miller. L’ultimo film dei fra­ telli Marx. Più Harpo che Groucho, pertanto più soave del solito, con un numero di Chico al pianoforte particolarmen­ te comico. Shanghai Express, 1932, di Josef von Sternberg. In origi­ nale con sottotitoli. Programmazione diurna al Theatiner. Two Faced Woman, 1941, di George Cukor, con Greta Gar­ bo. Sabato, ore 14, al Theatiner. Bad Day at Black Rock, 1956, di John Sturges. Sabato e domenica, proiezione serale all’ABC. 9.2.73

61 Film tedeschi 1919-26, allo Stadtmuseum. Esiste oggi in Germania una specie di scuola o meglio un gruppo di atto­ ri tragici di cui non c’è l’equivalente in Francia: Albert Bassermann, Fritz Kortner, Theodor Loos, Fritz Rasp, Peter Lor­ re. Ma, per amor del cielo non mi paragoni, come fanno molti, a Conrad Veidt. Questi è un artista che è passato armi e bagagli al parossismo e all’eccessivo, ciò che io cerco sempre più di evitare. In Germania esiste anche un intero gruppo di operatori cinematografici la cui illuminotecnica non ha eguali. Essi ricercano l’effetto psicologico della luce, e tentano di creare un'ambiance dove l’uso delle luci ac­ quista valenza psicologica, così da corrispondere allo spiri­ to della scena- (Antonin Artaud). Oggi Das Cabinet des Dr. 157

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Caligari, 1919, Robert Wiene. Domani Der Gang in die Nacht, 1920, di F.W. Murnau. Dopodomani Metropolis, 1926, di Fritz Lang. Le Déjeuner sur l’berbe, 1959, Jean Renoir. Un film sulla felicità, sull’arte di essere felici. A dar credito a Renoir: è so­ lo una questione di mobilità, di apertura a quanto ci circon­ da. (Un esempio ex contrario: Les Deux anglaises et le conti­ nent di Truffaut.) Versione originale. Domani, ore 20, all’Institut Francis, Kaulchstrasse. Notorious, 1946, Alfred Hitchcock. Come in guerra si possono arruolare le donne. Mettendo a repentaglio la loro vita, s’intende. Solo che della fama si fregiano gli altri. Cary Grant veramente fantastico nel suo ruolo particolarmente ri­ pugnante del ruffiano; costringe Ingrid Bergman a prosti­ tuirsi. Un film che va visto sul grande schermo, in bianco e nero, il grigio del televisore non basta. Versione originale, mercoledì e giovedì, proiezione notturna, all’Eldorado. Sempre di Hitchcock, Suspicion, 1946, da oggi sino a giovedì, proiezione notturna, al Theatiner. Rancho Notorious, 1951, di Fritz Lang. La vecchia storia, tanto semplice che una canzone la può facilmente riassume­ re: un vecchio pistolero, un giovane svelto a sparare, una ex regina da saloon. Chuck-a-luck-. 1. una ruota della fortuna, roulette verticale, 2. il nome di un ranch in cui si nascondo­ no i fuorilegge, 3. una canzone, la cui funzione drammatur­ gica è sintetizzare allo spettatore l’azione là dove egli deve essere solo informato. Come sempre in Lang: il sovrapporsi di mondi diversi che si pervertono l’un l’altro. Nel sotto­ mondo western, nel famigerato ranch ci arriviamo come at­ traverso un buco nell’immagine. Versione originale, merco ledi e giovedì, proiezione notturna, al Leopold. Giovedì, sempre di Lang, alle 18.30, allo Stadtmuseum, Metropolis. Belle de jour, 1967, di Luis Bunuel, versione originale, ancora oggi all’isabella. Shanghai Express, 1932, di Josef von Sternberg, originale con sottotitoli, oggi e domani, al Theatiner. Ivan Groznyi, parte II, 1948, di Sergej M. 158

Eisenstein, originale con sottotitoli. Giovedì al Theatiner. Der 30. Januar 1945 (Kolberg di Veit Harlan), domani all’isabella. 13.2.73.

62 Il famoso chiaroscuro del cinema tedesco muto, dice Lotte Eisner, non è solo un’eredità del teatro e non solo un’invenzione di Max Reinhardt. Ma la gestualità -gotica» delle attrici del cinema degli anni Venti origina da lui. Nel 1913 Reinhardt girò a Berlino due film: Eine venetianische Nacht e Die Insel der Seligen. Al museo del cinema dello Stadtmuseum, il primo oggi, il secondo domani, sempre al­ le 18.30. Gentleman Jim, 1942, di Raoul Walsh, con Errol Flynn. Uno sportivo che nutre aspirazioni da idolo dei salotti, il tutto intorno al 1890 sulla Barbary Coast, a San Francisco. La storia vera del campione mondiale dei pesi massimi, il campione dei campioni (per gli eroi di Walsh vale solo e sempre il tutto o niente), James J. Corbett, per certi versi una prefigurazione di Cassius Clay. Da oggi all’ABC. Macbeth, 1948, di e con Orson Welles. Lo spazio narra­ to, questa è l’invenzione più peculiare di Welles. Contrav­ venendo ugualmente a tutte le teorie specifiche del teatro e a tutte le teorie specifiche del cinema, questo film lo rea­ lizza con i mezzi di cartapesta del teatro. Di Welles Roger Planchon afferma che la mitologia dei suoi film è intrisa di Shakespeare. The Lady from Shanghai, Mr. Arkadin e Touch of Evil bisognerebbe vederli a partire da Shakespea­ re. Con Macbeth e luci e ombre Welles ottiene lo stesso ef­ fetto che con Bannister (Sloane) e gli specchi in The Lady from Shanghai, copia e originale si colgono solo a un se­ condo sguardo. Versione originale, domenica, proiezione serale, al Leopold. 159

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Duck Soup, 1933- Un film dei fratelli Marx, come ognun sa. Ma anche un film di Leo McCarey. Un nome da ricordare. Ancora oggi McCarey si meraviglia di non essere impazzito: «Era quasi impossibile tenerli insieme tutti e quattro. Ne mancava sempre uno. Non volevo affatto fare un film con loro, ma furono irremovibili. Erano gli esseri più pazzi sca­ tenati in cui mi sia mai imbattuto». Lunedì e martedì, proie­ zione serale, al Leopold. Moneyfrom Home, 1953, di George Marshall. Dall’epoca in cui Jeny Lewis era in tandem con Dean Martin. Il film mostra che cosa i due avevano in comune e come cambia il gusto. A lungo Dean Martin considera Jerry Lewis lo sfondo che gli consentiva di spiccare al meglio. Fino quando un giorno si accorse che era lui a esserne il contorno comico. 2.3.73

63 Film latinoamericani al Lenbachhaus, giovedì ore 20, versioni originali con sottotitoli: Al grito de este pueblo, 1972, di Humberto Rios. Lotta di liberazione del terzo mon­ do dal neocapitalismo, rappresentata storicamente ispiran­ dosi all’esempio della Bolivia. Planas - Testimonio de un etnocidio, 1970, di Marta Rodriguez e Jorge Silva. Il reportage di una etnologa sullo sterminio degli indios in Colombia e sul conseguente vandalismo culturale dei bianchi. One plus One, 1968, di Jean-Luc Godard. Disintegrazio­ ne, distruzione, analisi simulata dei mezzi cinematografici borghesi. Violenza per mezzo dell’eterogeneità dei procedi­ menti della fiction. Giovedì all’isabella. La spada della tigre gialla. Un film seriale, che qui al momento fa la sua comparsa senza il prima e il dopo appa­ rentemente necessari alla sua comprensione. Un film di spada di Hong Kong. Uno dei più cheap, ha scritto uno che se ne intende. «Quando non ci sono quaglie, si mangiano i merli». In programmazione diurna aU’Arri. 160

FILMTIPS

Gentleman Jim, 1942, di Raoul Walsh. Un solido, imper­ territo film di uomini, pieno di avventure, carrierismo e smargiassate. Programmazione diurna all’ABC. Million Dollar Legs, 1932, un film con W.C. Fields di Ed­ die Cline, con Jack Oakie e Ben Turpin. L’autore della sce­ neggiatura era Joseph L. Mankiewicz (77?e Barefoot Contes­ sa). Fields odiava le donne, i bambini e quindi ovviamente il Natale. Morì il giorno di Natale del 1946. I suoi esecutori testamentari trovarono nella sua stanza da letto 700 casse di birra. Ha recitato in film di Griffith, Lubitsch, Cukor e McCarey. I suoi film migliori sono quelli girati da registi poco co­ nosciuti. È transitato con facilità dal cinema muto al sonoro. Il suo campo specifico è la comicità verbale, il nonsense. In una versione cinematografica di Alice nel paese delle mera­ viglie ha impersonato - chi altri? - Humpty-Dumpty, inven­ tore di termini ibridi, senza nesso o riferimento, cellule ger­ minali di una lingua schizofrenica. Versione originale. Mer­ coledì e giovedì, proiezione notturna, al Leopold. Playtime, oggi al Tiirkendolch. Duck Soup, oggi, proie­ zione notturna, al Leopold. Tbe Lavender Hill Mob, comme­ dia inglese, oggi e domani all’isabella. Arsenic and Old La­ ce, fino a giovedì, proiezione notturna a) Theatiner. DerStu­ dent von Prag, con Wegener, per l'ultima volta, mercoledì allo Stadtmuseum. Dr. Strangelove, mercoledì e giovedì al Rex. La caduta degli dei di Visconti, mercoledì e giovedì al Rex. Danton, 1921, con Jannings, Krauss, di Winterstein, per l’ultima volta allo Stadtmuseum. Les Enfants du Paradis di Carnè- Prévert, giovedì, originale con sottotitoli, al Thea­ tiner. 6.3.73

64 Trovarsi d’accordo sui capolavori non è diffìcile. Ma sco­ prire che cosa sia quel qualcosa in più di certe produzioni hollywoodiane i cui autori privi della minima inventiva si 161

FRIEOA GRAFE ■ SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

attengono ottusamente alle solite ricette, quello sì varrebbe la pena. È possibile che sia solo l'aura della perfezione che si presenta da sé. The Crusades, 1935. Cecil B. DeMille: ha girato 75 film. Lui era là fin dagli esordi. Ha fatto di tutto, e non è giusto lodare solo i suoi polpettoni storici. Che cosa gli premeva: mobilitare le masse, dentro i suoi film e davanti ai suoi film. Motteggiare oggi i suoi film è come ridere di un’auto d’epo­ ca, o di Walter Scott, Wagner o Balzac. The Strange Door, 1951, di Joseph Pevney. Horror della fabbrica Universal. Lunedì e martedì, al Tiirkendolch. Montana, 1950, di Ray Enright. Un allevatore di bestia­ me contro un allevatore di pecore. Domenica, proiezione notturna, al Leopold. The Hustler, 1961, di Robert Rossen. Paul Newman nelle vesti di un asso del biliardo. Davanti a questo attore dell’Actors’ Studio ci si chiede sempre a che cosa mirasse vera­ mente la formazione con Strasberg e Kazan. Rappresenta­ zione della naturalezza, della naturalezza americana. In ogni modo, dice Hitchcock, non riescono mai a limitarsi a quanto gli viene richiesto. Vogliono sempre giocare su una doppia sponda. Oggi e domani, proiezione notturna, all’ABC. Dos Lied einer Nacht, 1932, di Anatole Litvak. Con Jan Kiepura e Magda Schneider. «Molto sole sui tornanti e sui pendii. Notti azzurre con ghirlande di luce: il lago di Luga­ no, il romantico castello sulle rocce di Gandria, il malinco­ nico bacino di Morcote. A ciò si aggiungano canzoni che si riallacciano al paese e alla gente- (Vom Werden deutscher Filmkunst [Il divenire dell’arte cinematografica tedesca J, Cigaretten-Bilderdienst 1935). Film di David Rimmer (.Blue Movie, Surfacing on the Thames, Variations on a Cellophane Wrapper e altri). Film che presentano allo spettatore analisi di titoli di film e gli fanno cogliere le illusioni spazio-temporali del cinema. Due programmazioni, con conferenza, alla Stadtische Galerie nel Lenbachhaus, Luisenstrasse 33- Parte I oggi, parte II doma­ ni, sempre alle 20.

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filmtips

Monkey Business, 1931, regia di Norman Z. McLeod. E sia cancellato per noi il giorno dove non si è danzato nean­ che una volta! E falsa sia per noi ogni verità che non ci strappa una risata. Oggi e domani, proiezione notturna, al Leopold. 23.3.73

65 El Angel exterminador, 1962, di Luis Bunuel. Da oggi a giovedì, proiezione notturna,al Theatiner. Ensayo de un crimen, 1955, di Luis Bunuel. Originale con sottotitoli, giovedì al Theatiner. Che cosa si deve essere e che cosa vedere per cadere vittime della malia del discre­ to fascino della borghesia. Narcotizzare lo spettatore, dice Bunuel. Animal Crackers, 1930, con i fratelli Marx, di Victor Heerman. Cinema frenetico; ma anche «come su un profilo di assoluta bellezza improvvisamente si disegna una terribi­ le malattia-. Versione originale, proiezione notturna, merco­ ledì e giovedì, al Leopold. The Great Race, 1964, di Blake Edwards. Appartiene al recentissimo filone dei film-nostalgia, ed è dedicato a Laurei e Hardy. Se non si ha un rapporto disturbato con il passato e si lascia la fede nel progresso al xix secolo, si scopre che la coppia slapstick Tony Curtis e Jack Lemmon è una sorta di buona combinazione sforna-gag, a differenza di certe nuovissime produzioni tipicamente televisive. Oggi, proie­ zione notturna, all’Eldorado. Emil und die Detective, 1931, di Gerhard Lamprecht. Qui i bambini possono imparare come non lasciare che si abusi di loro in film in cui gli è concesso solo di recitare in veste di piccoli adulti. L’unica consolazione del film: Fritz Rasp, miglior attore di tutti i George messi insieme. Solo una vol­ ta, mercoledì, allo Stadtmuseum. Ich bei Tag und du bei Nacht, 1932, di Ludwig Berger. Il film sarà salace quanto il suo titolo promette - evocando il 163

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sesso come i film horror evocano la morte - in salsa di lam­ poni? Martedì allo Stadtmuseum. Westfront 1918, 1933, di G. W. Pabst. Film di guerra pa­ cifista. Le ferite della guerra lastricate di idee umane univer­ sali. Giovedì allo Stadtmuseum. Strohfeuer di von Trotta/Schlòndorff, martedì e merco­ ledì all’isabella. Rebel without a Cause, di Nicholas Ray, martedì, proiezione notturna, al Leopold. Berlin-Alexanderplatzdì Pier Jutzi, mercoledì, solo alle 16, al Theatiner. 27.3.73

66 Rebecca, 1940, di Alfred Hitchcock. Il suo primo film americano, tratto da un soggetto molto inglese. La storia con le sue spiegazioni la si scorda presto, nella memoria s’imprimono le situazioni da incubo.- essere colti in fallo co­ me bambini, non essere all’altezza della situazione, vergo­ gnarsi in continuazione per qualcosa senza un reale motivo. Da oggi all’ABC. Angel, 1937, di Ernst Lubitsch. You walk like an Angel, you look like an Angel... Miti, iconografìe si sono modifica­ ti. Vedere un angelo quando arriva Marlene con le sue mo­ venze e il suo sguardo? Piuttosto un dragone, con i segni distintivi di una Venere in pelliccia. Programmazione diurna al Theatiner. Film di Delmer Daves. Demetrius and the Gladiators, 1953. Film ambientato nell’antichità con Victor Mature - la cui vigliaccheria a Hollywood era risaputa - nelle vesti del­ l’impavido schiavo greco liberato. Oggi e domani, program­ mazione notturna all’ABC. Bird of Paradise, 1951. Film sui Mari del Sud, famoso per il colore plastico: in Germania da anni si può vedere solo in bianco e nero. E tuttavia vale la pena. A Summer Place, 1959, tratto da un bestseller. Lunedì e martedì, proiezione notturna, all’ABC. 164

FILMTIPS

Some Came Running, 1958, di Vincente Minnelli. Proble­ matica di provincia. Frank Sinatra pluriamato: da una terri­ bile intellettuale, da una incantevole confezionatrice di reg­ giseni (Shirley MacLaine) e da un giocatore malato, che è l’immagine della salute (Dean Martin). Sinatra fraintende tutte le sue chances, ma ne trae comunque profitto. È uno scrittore e in un certo senso dà oro in cambio di piombo. Oggi e domani, proiezione notturna, all’Eldorado. Saskatchewan, 1954, di Raoul Walsh. Un’insolita variante del western in virtù dei suoi colori. Soprattutto il rosso (The Canadian Mounted Police) e il verde (molto paesaggio nel Canada del Sud). Lunedì e martedì, proiezione notturna, al­ l’Eldorado. Das Testament des Dr. Mabuse, 1932, Fritz Lang. Una ra­ ra, bella copia di un film sulla follia. Nel quale, molto prima che Michel Foucault le analizzasse, emergono le contiguità fra internamento psichiatrico e reclusione. Alla fine, come spessissimo in Lang, il sogno di una grande piromania. L’in­ cendio del mondo, appiccato da Hitler. Domani, ore 21, al­ lo Stadtmuseum. Oggi allo Stadtmuseum: alle 18.30 Kameradscbaft, 1931 di G.W. Pabst, ore 21 Der Hauptmann von Kopenick, 1931, di Richard Oswald. Domani alle 18: Ich bei Tag und du bei Nacht, 1932, di Ludwig Berger. Belle de jour, di Luis Bunuel, programmazione diurna, al Rex. Circus, di Charles Chaplin, domenica, matinée, al Theatiner. Pardners, von Norman Taurog con Jerry Lewis, oggi e domani proiezione notturna, al Leopold. 13.4.73

67 Rebecca, 1940, di Alfred Hitchcock. Hitchcock racconta a Truffaut che si sforzava di non utilizzare le peculiarità degli ambienti come semplice sfondo, facendone elementi della sua drammaturgia. E si chiedeva sempre: che cosa c’è qui di 165

FRIEOA GRAFE - SCRITTI 01 CINEMA 1961-2000

particolare? Cioccolata in Svizzera, il papa a Roma, tulipani in Olanda. E l’Inghilterra? Aristocrazia, case di campagna imponenti, domestici arcidevoti. Programmazione diurna all’ABC. La Mariée était en noir, 1967. Un thriller di Truffaut. Proiezione notturna al Theatiner. La Règie du jeu, 1939. Jean Renoir: -Mi dicevo che invece di soffermarsi stupidamente sempre e solo sulla presunta incomprensione del pubblico bisognava rivolgersi a lui con soggetti autentici nella tradizione del realismo francese... A partire dalle immagini di mio padre e dei pittori della sua generazione ho incominciato a studiare la gestualità france­ se...-. Giovedì al Theatiner. You Can’t Take It With You, 1938, di Frank Capra. L’apo­ logeta del piccolo uomo. John Doe, così si chiama in Ame­ rica, ce la farà a sistemare tutto. Mercoledì e giovedì, proie­ zione notturna, al Leopold. Cowboy, 1957, di Delmer Daves. In molti western si dice che i cowboy puzzano, e la vasca da bagno, dopo un lungo treck, viene al terzo posto dopo le ragazze e il whisky. Glenn Ford se ne sta nella vasca con un sorriso da neo­ nato e spara sugli scarafaggi che escono dalle crepe. Merco­ ledì e giovedì, proiezione notturna, all’ABC. Kid Galahad, 1961, di Phil Karlson. Rock con Elvis. Mer­ coledì e giovedì, proiezione notturna, all’Eldorado. Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondem die Situa­ tion, in der er lebt, 1971, di Rosa von Praunheim. Una forma più adeguata per il suo soggetto Praunheim non poteva in­ ventarsela. Non lascia distanza fra immagini e commento. Sono una cosa sola, si specchiano, narcisisticamente, le une nell'altro. Allo spettatore il compito di sceverare. I cine-vouyeurs naturalmente affermano che non è venuto a capo del suo tema. Oggi e domani, proiezione notturna, al­ l’isabella. Angel, 1937, di Ernst Lubitsch. Programmazione diurna (escluso il giovedì) al Theatiner. Saskatchewan, 1954, di Raoul Walsh, oggi, proiezione notturna, all’Eldorado. A 166

FILMTIPS

Summer Place, 1959, di Delmer Daves, oggi, programma­ zione notturna, all’ABC.

Film tedeschi dei primi anni Trenta: M, 1931, di Fritz Lang. Come in Mabuse il regista articola la paura davanti alla perversione. Per demarcare normalità e patologia Lang spesso ricorre solo al vetro. Oggi e doma­ ni all'isabella. Der blaue Engel, 1930, di Josef von Sternberg. Ragazzi, canta Marlene, stasera mi cerco un uomo e oscilla fra -l’o­ stacolo al traffico- Unrat (Emil Jannings) e -l’atto di forza al­ la Mazeppa- (Hans Albers). Giovedì e venerdì all’isabella. Màdchen in Uniform, 1931, di Leontine Sagan. La storia di un collegio prussiano che fa pensare immediatamente a Zèro de conduite di Jean Vigo e anche a Risveglio di prima­ vera di Wedekind. Lo scortese pregiudizio che le ragazze non sanno tenere il passo rispetto ai ragazzi viene confer­ mato in modo penetrante da questo film. Oggi, alle 18.30, allo Stadtmuseum. Niemandsland, 1931, di Victor Trivas. Storia pacifista che si svolge in una trincea, con musiche di Eisler. Canta Ernst Busch. Ogi, ore 21, allo Stadtmuseum. 17.4.73

68 Griffith e storia fanno rima in tutti i possibili significati e collegamenti. Judith ofBethulia-. tratto da una storia apocri­ fa dell’Antico testamento; The Birth of a Nation-, come sono nati gli Stati Uniti; Intolerance-, una piaga dell’umanità rap­ presentata ricorrendo a esempi storici. Di più: Griffith inau­ gura la storia del cinema, inventa la narrazione cinemato­ grafica. Ciò che oggi rende per noi tanto avvincente la sua opera si può esprimere con due metafore: i suoi film sono orme del passato, la sua opera assomiglia all’emersione di 167

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un nuovo continente. Delle didascalie nei film muti Roland Barthes scrive che esse interrompono il flusso delle immagi­ ni come una -sorsata salutare-: una questione di punto fer­ mo. In Griffith immagine e parola scritta vanno sempre d’accordo; la scrittura in lui ha qualcosa di testamentario. L’irruzione delle immagini nel flusso della lingua e della scrittura dei mondo logocentrico è come il ritorno di un re­ moto rimosso. Da oggi: 13 film di David W. Griffith allo Stadtmuseum. Oggi alle 18 Judith of Bethulia, 1914; alle 20 The Birth of a Nation, 1915; domani alle ore 16 Intolerance, 1916. The Sun Shines Bright, 1953, di John Ford. Eiezione sul volgere del secolo con vecchi uomini vanagloriosi. Ford combina il tutto con il destino di una prostituta. Come spes­ so in lui traluce qualcosa del matriarcale sepolto. Dei suoi 129 film è quello che predilige. Lunedì e martedì, proiezio­ ne notturna, all’Eldorado. The Birds, 1963, Alfred Hitchcock. Un film in cui si pos­ sono tranquillamente chiudere ogni tanto gli occhi, ma bi­ sogna tenere le orecchie ben aperte. Due film di genere di Sierck/Sirk: Schlussakkord, 1936; melodramma puro, vale a dire le tragedie più terribili filano via lisce come l’olio. Armonia della convenzione. Sabato, ore 14, e mercoledì, ore 16, al Theatiner. Sign of the Pagan, 1954: ambientato nell’antichità con Jack Palance nelle vesti di Attila e in altro ruolo da protagonista la prima ballerina Ljudmila derma, di cui Sirk dice che le sue emozioni non si esprimono mai sul suo viso, bisogna guardarle invece i pie­ di. Da oggi a domenica, ore 13-30, al Rex suU'Agricolaplatz. Fantascienza all’ABC: The Day the Earth Stood Still, 1951, di Robert Wise. Che cosa ne è degli Ufo e della fantascienza quando qualcuno vuole cavarci qualcosa di meglio. Oggi e domani, proiezione notturna. It Carne from Outer Space, 1953, di Jack Arnold. Lunedì e martedì, proiezione notturna. Aguirre, der Zom Gottes, di Werner Herzog. Si dice che ogni buona fiction è la drammatizzazione del suo proprio funzionamento. Tutto diventa gabbia in questo film, la natura 168

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nella sua imponenza, la dimensione tempo, le idee. La spedi­ zione di Herzog verso l’El Dorado non è stata certo una gita domenicale. Programmazione diurna al Cinemonde. Big Sleep, di Hawks, in originale con sottotitoli, oggi al Turkendolch. Modem Times di Chaplin, da oggi a domeni­ ca, programmazione diurna al Rex, proiezione notturna al­ l’Eldorado. Jules et Jim, da oggi a lunedì, proiezione nottur­ na, al Theatiner. Touch di Bergman, domenica, proiezione notturna, al Leopold. 4.5.73

69 Griffith allo Stadtmuseum. Oggi, alle 21.15,Wiry Down East, 1921: il ritorno nel Kentucky, dove Griffith era nato; per lui sinonimo di grembo familiare, di sicurezza e vita tranquilla. Eden. Modelli: il saldo, autonomo filone del tea­ tro americano, il locale («home-spun») melodramma. Ogni Stato aveva il suo. Una musica che conosciamo. Hearts of the World, 1918: lavoro su commissione, propaganda di guerra per gli alleati della prima guerra mondiale. Con Erich von Stroheim che impersona vari tedeschi cattivi. Suggerimento di lettura: il saggio di Eisenstein Dickens, Griffith e noi (apparso in tedesco in Ausgewàhlte Aufsàtze, Berlin I960). «L’anti-intellettualismo dell’uno e riperinteliettualismo dell’altro formavano insieme la spina dorsale del­ l’arte cinematografica nei primi cinquant’anni della sua esi­ stenza» (Jay Leyda a proposito di D.W.G. e S.M.E). Minnelli all’isabella. Oggi Gigi, 1958: cantato e danzato, ma non un vero musical. Mercoledì The Sandpiper, 1964: l’azione è ambientata nel Big Sur di Henry Miller. Uno sguardo abbastanza impietoso soW’american way of life e sugli ideali americani. Giovedì Some Came Running, 1958: chi ancora non l’ha visto, ha perso uno delle performances più brillanti del cinema americano degli anni Cinquanta. Minnelli a proposito del suo film: colori come all’interno di un juke-box, piuttosto realistico. 169

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Sternberg e Sierck al Theatiner. Shanghai Express, 1932, giovedì, programmazione diurna. Schlussakkord, 1936, mer­ coledì alle 16. Ford al Leopold. The Sun Shines Bright, 1953. Ancora oggi, proiezione notturna. Jack Arnold all’ABC. Un nome che è una garanzia di fan­ tascienza di qualità. It Came From Outer Space, 1953- Mar­ ziani atterrano in Arizona. Mercoledì e giovedì: The Incredi­ ble Shrinking Man, L’incredibile storia di un uomo che si restringe sempre più mentre al contempo il mondo s’ingrandisce sempre più. Con Conrad Veidt: Dos Cabinet des Dr. Caligari, 1919, ancora oggi, proiezione notturna, all’isabella. Con Robert Mitchum: The Way West, 1968. Mercoledì c giovedì, proiezione notturna, al Leopold. L’antefatto de La Mariée était en noir di Truffaut: «Avevo letto il libro da ragazzino, di nascosto da mia madre. Che leggeva molti gialli. Il titolo me l’ero scordato, ma certe co­ se non le ho mai dimenticate. Per esempio il capofamiglia, che per una vendetta muore murato in un armadio. Che co­ sa potevo inventarmi per ritrovare il libro?». Domani e do­ podomani, proiezione notturna, all’Eldorado. 8.5.73

70 Quattro classici. Che tengono ancora, non a dispetto del fatto, ma proprio perché li si vede e rivede. Con piacere di­ verso, con diverse esperienze, con un diverso atteggiamen­ to, perché non si è più presi dall’attesa dell’affatto nuovo, dell’ignoto. Il che non significa assolutamente una tranquil­ lizzante ripetizione. Spesso anche lo shock nel vedere come qualcosa di vecchio sotto un’altra luce acquisti una straordi­ naria freschezza. Come emani una nuova aura. È così. La Grande illusion, 1937, di Jean Renoir. Un film contro la guerra o anche semplicemente un film di guerra. E un clas170

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sico come La Règie du Jeu (Roosevelt e Goring lo ammira­ vano moltissimo, Goebbels lo dichiarò il film nemico nume­ ro uno). Lunedì e martedì al Rex suirAgricolaplatz. Citizen Kane, 1941, di Orson Welles. Il tutto e le sue parti. Una vita acquista interezza nel momento in cui trova la sua fine. L’immagine su un manifesto elettorale, che promette la fede nel progresso e il successo, viene mandata in pezzi da pa­ role come Xanadu e Rosebud. Lunedì al Theatiner. On the Waterfront, 1954, e East of Eden, 1955, di Elia Kazan. Quan­ do uscì il primo, si trovò che un buon soggetto - lotte sin­ dacali - veniva sacrificato alle idee hollywoodiane dei film imperniati sulla figura di un eroe. Il modo di guardare a questi film viene modificato da The Godfather. Ambedue i film di Kazan promuovono un nuovo tipo di interprete e un nuovo stile di recitazione. La rivolta contro i padri degli an­ ni Cinquanta ha come marchio di riconoscimento il giub­ botto di pelle (Marion Brando) o le Lumberjack (James Dean). Proiezione notturna, lunedì e martedì, all’Eldorado e proiezione notturna, domenica al Leopold. Epigoni di Hollywood: They Shoot Horses, Don’t They?, 1969, di Sydney Pollack, un allievo di Kazan. Dalla frenesia degli anni Venti alla Depressione degli anni Trenta, ma si continua a ballare, per la pura sopravvivenza. Venerdì al Tùrkendolch. The Last Picture Show, 1971, e What’s Up, Doc?, di Peter Bogdanovich. Nella finzione l’allusione è tut­ to. Ma Bogdanovich si irrigidisce nell’ammirazione, bramo­ so di identificarsi con i suoi maestri oppure li insegue con la lingua fuori, e il risultato è sempre lo stesso. All’Eldorado e all’ABC da oggi. Allo Stadtmuseum. Film di David W. Griffith. Way Down East, 1920. -Un piccolo villaggio nel New England-. Poi arri­ va l’immagine. Non è tautologica, incarna la lingua, la svi­ luppa, dissolve i luoghi comuni di cui è fatta. Un film per­ verso quando si scopre che il morbido volto infantile di Lil­ lian Gish è fatto apposta per ricevere i colpi del destino. Oggi, ore 18. Alle 21 film del festival di Oberhausen di que­ st’anno (due diverse programmazioni).

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Belle de jour di Bunuel, da oggi all’isabella. Dr. Strange­ love di Kubrick, da oggi a lunedì, proiezione notturna al Theatiner. La Chinoise di Godard, originale con sottotitoli, lunedì e martedì, proiezione notturna, all’ABC. I fratelli Marx in Cocoanuts, versione originale, lunedì e martedì, proiezione notturna, al Leopold. 25.5.73

71 Un cinematografo cambia faccia. Tanto più meritorio in quanto il Rex sull’Agricolaplatz lavora in periferia. Una buo­ na sala di zona. Non film rarità, ma neanche film che si ve­ dono tutti i giorni. E molto diversi fra loro. La Grande illu­ sion, 1937, di Jean Renoir. Erich von Stroheim nelle vesti dell’ ufficiale prussiano von Rauffenstein era libero di met­ tere in scena se stesso. Il famoso poggiacapo è una sua in­ venzione. Carmen Jones, 1954, di Otto Preminger. Le pro­ blematiche da movimento di liberazione dei neri e delle donne si potenziano a vicenda. -... qui manca ogni pro­ prietà, per la cui conservazione e trasmissione ereditaria fu­ rono creati la monogamia e il dominio maschile*. Dorothy Dandrige canta: -You go for me and I’m taboo*. Domani. A Time to Love and a Time to Die, 1958, di Douglas Sirk. I tito­ li sono segnali, fanali. Funzionano come prologo. Essi rac­ contano a loro modo il film in anticipo. Dice Sirk. A Hollywod è riuscito a imporre il proprio titolo, in Germania si dovette ripristinare il titolo del romanzo di Remarque. Il film sta nel campo elettrico fra i due. Solo che da noi c’è probabilmente qualcosa da ridire contro un figlio di due pa­ dri. Giovedì. Ciné-tracts/ Nouvelle société, 1968-70, degli stati maggiori del cinema francese Mai 68 e del gruppo Medvedkin. -Non fate film politici, fate politica con i film- (Godard). Organiz­ zato dall’Internationales Forum der Filmavantgarde (iff). Oggi allo Stadtmuseum: filmati sulle giornate dedicate al cortometraggio dal festival di Oberhausen del 1973, alle 18 e alle 21 (due diverse programmazioni). 172

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I Marx Brothers in Cocoanuts, versione originale, oggi, proiezione notturna, al Leopold. La Cbinoise, originale con sottotitoli, domani, proiezione notturna, al Leopold. On the Waterfront di Kazan, proiezione notturna all’Eldorado. Le Procès di Orson Welles, da oggi a giovedì, proiezione not­ turna, al Theatiner. Satyricon di Fellini, mercoledì e giovedì all'isabella. 29.5.73

72 Film di Peter Nestler (I). Jean-Marie Straub su di lui: Nestler è il più importante cineasta tedesco del dopoguerra. Tipi che semplicemente riprendano, o filmino, dipingano, disegnino ciò che vedono senza prima tentare di imporvi una forma facendo così dileguare la realtà, diventano sem­ pre più rare». Domenica, alle 22, all’Isabella: Am Ziel, Aufsatze, Muhlheim - Ruhr, Ein Arbeiterclub in Sheffield (orga­ nizzato dall’iff). Film di Yasujiro Ozu (1903-1963). Oggi inizia allo Stadt­ museum un ciclo di suoi film. Verso i quali ci si può aprire un varco - senza sopprimere la loro alterità - pensando a Jean Renoir e a quanto ha dichiarato a proposito dei propri film e dello studio della tipica «gestualità francese*. Il reali­ smo del giapponese Ozu non consiste soltanto nella minu­ ziosa descrizione della vita piccoloborghese del proprio paese. Ozu prende il realismo talmente sul serio da non consentire a se stesso e al suo medium di creare l’illusione della vita in movimento. Il cinema rimane in lui quello che è, una successione di inquadrature discontinue. Si avverte come l’elemento soggettivo individuale formicoli sotto la neutralità e la generalità delle sue immagini emblematiche, ma l’espressione diretta non gli è concessa. I film di Ozu sono spietati. Le ripetizioni a ogni livello in tutti i suoi film sono quasi insopportabili. Descrivono la mancanza di pro­ spettive di una classe che non ha fatto niente altro che imi­ 173

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tare, a un gradino più basso, il costume borghese. Ci si chiede che cosa abbia da spartire la poesia dei suoi titoli con la sobrietà dei film. -Autunno in un campo di grano-, •Una storia di steli ondeggianti-, -Sapore di luccio sauro». É l’aura poetica del banale. I film di Ozu sono affascinanti. Oggi , alle 18, Umaretewa... (i genitori dovrebbero vederlo assolutamente in compagnia dei figli). Alle 20, Ohayó. Sa­ bato, ore 18, Dekigokoro. Alle 20, Kohayagawa-ke no Aki. Film di Douglas Sirk. All That Heaven Allows, 1955. La fonte di ispirazione di Sirk è l’americano e rousseauiano Thoreau. Idee hippie avant la lettre. La leccata superficialità di Sirk si ribalta, perché l’oggetto del film è la natura e la naturalezza. Un sottile smontaggio degli stereotipi dell’ame­ ricano semplice e onesto. Si capisce che non erano altro che una pubblicità molto ben inventata. Domenica, proie­ zione notturna al Leopold. Sign of the Pagan, 1954. Lunedi, proiezione notturna all’Eldorado. Man Without a Star, di King Vidor, uno dei grandi, vec­ chi americani. Un western. Anche questo un film nello spi­ rito di Thoreau. Un cowboy (Kirk Douglas) mal sopporta che l’America si parcellizzi e con recinzioni di filo spinato trasformi la terra in proprietà. Lunedì, proiezione notturna al Leopold. Buster Keaton, Seven Chances, al Theatiner. Shanghai Express, di Joseph von Sternbeig, da venerdì a lunedì proie­ zione notturna al Theatiner. Kuhle Wampe, di Dudow/Brecht, al Tùrkendolch. Dos Unbeil, di Peter Fleischmann, proiezione notturna all’isabella. L'Enfant sauvage di Francois Truffaut, lunedì, proiezione notturna all’ABC.

73 Due film di Yasujiro Ozu, allo Stadtmuseum: ore 18, Ukigusa Monogatari, 1934; ore 21, Ukigusa, 1959- I remake da noi si fanno per ragioni commerciali. Se è andato bene la prima volta, si ragiona, anche una seconda volta frutterà si­ curamente qualcosa. Pensata da produttori. Ozu invece ha 174

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realizzato spesso nuove versioni di soggetti che non hanno incontrato il favore del pubblico. E mai per trarre profitto da qualcosa di riuscito, ma per espellere da quei soggetti unicità, originalità e drammaticità. Grado zero di significato. •Vent’anni, come passa presto il tempo». A tali frasi si ac­ compagnano décors eternamente giapponesi, privi di movi­ mento, con le loro geometriche ripartizioni, che appiattisco­ no lo spazio in un foglio di carta millimetrata. Bisogna ve­ dere i due film uno dietro l’altro, e allora si vedono tre film. Il terzo, un film intermedio: dal muto al sonoro, da bianco e nero al colore, quasi con la medesima tecnica e il medesi­ mo contenuto; a prescindere che tale contenuto non è che una variante dell’unico tema di Ozu: i rapporti interfamilia­ ri. La minimalità delle differenze affila lo sguardo. Touch of Evil, 1958, di Orson Welles. Chi era Citizen Ka­ ne? Un puzzle, cui mancano i pezzi decisivi. Questo film fa fare all’esplosione della realtà un ulteriore passo avanti, con sequenze acrobatiche, tanta profondità di campo, e una mobilità della cinepresa che fanno credere che nulla possa sfuggire. Il funzionario onesto e il poliziotto corrotto sono segnati dal touch of evil. Dove sta il bene e dove il male? Una drammaticissima storia di confine. Fino a dopodomani, proiezione notturna al Theatiner. Tre film di Luis Bunuel. Al Turkendolch: oggi El Angel exterminador, 1962; domani e dopodomani Belle de jour, 1967. Al Tivoli: Le Charme discret de la bourgeoisie, 1972. Due film di Douglas Sirk. Proiezione serale all’Eldorado. Oggi Sign of the Pagan, 1954; Domani e dopodomani Cap­ tain Lightfoot, 1955: la rivoluzione irlandese finanziata al ta­ volo da gioco. Colori ancora più belli del solito in Sirk. Love With the Proper Stranger, 1963, di Robert Mulligan, appartenente a quella generazione di registi americani che viene dalla televisione. La differenza fra un melodramma al­ la Sirk e un melodramma alla Mulligan è al tempo stesso la differenza fra cinema e televisione. Cinema divenuto grigio. Domani e dopodomani, proiezione notturna, al Leopold. 175

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Due film di Peter Fleischmann. All’Isabella. Oggi e do­ mani nella programmazione diurna: Jagdszenen aus Niederbayern, 1968; oggi in proiezione notturna: Das Unheil, 1971. Un’occasione per constatare che si preferisce sempre ciò che si conosce perché si fa meno fatica. Il secondo, screditato, film di Fleischmann è il migliore. La sua critica era più caotica e persistente. Macunaima, 1969, di Joaquim Pedro de Andrade. Una commedia brasiliana, da tropici. Uno spettacolo di trasfor­ mazioni totali. Con il cannibalismo come coazione a consu­ mare dei più poveri. Giovedì al Theatiner. Eine Sacbe, diesicb verstebt, 1971, di Hartmut Bitomsky. Cinema didattico: a proposito di economia politica. Doma­ ni, ore 22, all’isabella. 3.7.73

74 Due melodrammi di Sirk. Un genere, afferma Hitchcock, particolarmente soggetto alla moda e destinato a un rapido invecchiamento. Questi film, pertanto, quando li si guardi oggi» giocano almeno su tre sponde. Imitation of Life, 1959, con un sontuoso funerale cinematografico di una madre ne­ ra, che finisce sottoterra a causa della lacerazione razzista della figlia. Mahalia Jackson canta. Le cateratte delle lacrime si aprono da sé. Domenica, proiezione notturna al Leopold. The Tarnished Angels, 1957. Tratto da Pylon {Oggi si vola] di William Faulkner, che lo considerò il miglior adattamento cinematografico di un suo testo. Il bianco e nero della pelli­ cola è l’accessorio adeguato alla storia che si svolge all’epo­ ca della Depressione e mette in scena eroi kaputt. Robert Stack nelle vesti di un celebre aviatore, asso della prima guerra mondiale, che in tempo di pace è costretto a esibirsi in pericolose gare acrobatiche per sopravvivere. Lunedì, proiezione notturna al Leopold. The Great Dictator, 1940. Proiezione principale e nottur­ na all’Eldorado. 176

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City Lights, 1930- Domenica, matinee al Theatiner. Film di Peter Nestler (II). «Invece di mostrare quello che c’è, ciò che si è sperimentato, molti si censurano (infatti si vuole ancora fare un film), trovano un appiglio, qualcosa di esotico, e di quanto era davanti alla macchina da presa non è rimasto nulla. Questo è l’inizio della cattiva coscienza e qui comincia il reporter televisivo di consumo». Domenica, ore 22. Eine Sache, diesich versteht, di Bitomsky, 1971, che doveva essere proiettato mercoledì, verrà programmato ora domenica alle 23.45. Organizzazione dell’iff all’isabella. Le Scandale, 1966. Erano ancora tempi in cui Chabrol non si prendeva così sul serio. Sabato al Theatiner. Allo Stadtmuseum continua la retrospettiva dedicata a Ozu. Quattro varianti di una decadenza familiare, laddove il termine decadenza è già troppo enfatico. Soprattutto nel ca­ so di Kohayagawa-ke no Aki, che tratta di un vecchio inde­ gno, ci si trova davanti alla voluttà della rovina. Ozu aveva un debole per tutto ciò che era occidentale, dal dentifricio alla birra tedesca agli pseudonimi. Banshun, 1949, oggi alle 16. Tokyo Monogatari, 1953, con sottitoli, oggi alle 21. Bakushu, 1951, domani, alle 18. Kohayagawa-ke no Aki, 1961, domani, ore 21. 6.7:iò

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Due film di due giovani vecchi. La Maman et la putain di Jean Eustache al Cinemond (vedi la critica). Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Se il pubblico almeno esi­ gesse di vedere i suoi primi film, allora sarebbe valsa la pe­ na essersi prostituito e chiunque potrebbe vedere così quanto conta per lui poter continuare a fare film. Al cinema Casino. I corvi, 1971, di Ivo B. Micheli. Un film didattico, che ci­ ta Foucault e Horkheimer. Robinson come direttore di un manicomio nel deserto. Su deserto e schizofrenia scrivono Deleuze/Guattari; sul falso ritorno di Robinson alle origini 177

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in Defoe - in quanto la sessualità vi è esclusa e viene ripro­ dotto un mondo puramente economico, che elimina ogni traccia di fantastico a favore del «reale- - scrive Pierre Macherey nella sua «teoria della produzione letteraria». Ne / corvi i pazzi rifiutano di adeguarsi. Originale con sottotitoli. Mercoledì, ore 22, all'isabella. Douglas Sirk al Leopold. Proiezione serale. E oggi anco­ ra The Tarnished Angels, 1957. Mercoledì e giovedì: Written on the Wind, 1956. Di una povera, giovane ragazza cui alla fine non rimane niente all’infuori dei suoi enormi campi pe­ troliferi. Come quasi sempre in Sirk preziosità visiva e ste­ reotipi narrativi trascinano insieme il tutto verso un film au­ tenticamente americano. Jerry Lewis al Cinema. Ancora oggi The Delicate Delin­ quent, 1957, regia di Don McGuire. Come Charlie in Easy Street Jerry diventa poliziotto. Per inclinazione verso quale ordine? Mercoledì e giovedì: The Ladies’ Man, 1961, diretto da lui. Si libera dal trauma, quando la sua fidanzata lo pro­ muove all’esame di maturità. Segue una sorta di romanzo educativo. Contro la sua volontà diventa ragazza tuttofare nel pensionato femminile della signora Wellenmelon, che lo spettatore vede tagliato in due come una casa delle bambole. Yasujiro Ozu allo Stadtmuseum. Oggi: Sóshun, 1956. Un matrimonio ormai consunto viene rappezzato per il fatto che il marito viene trasferito da Tokyo a Osaka. Per tre an­ ni. Ore 20.30 Tokyo Monogatari, 1953. Tutti e due i film in originale con sottotitoli. The Legend of Lylah Clare, 1968, di Robert Aldrich. Que­ sta potrebbe essere la storia di Josef von Sternberg e Marle­ ne Dietrich. La cosa buona del film è la sua volgarità. Mer­ coledì e giovedì, all’Eldorado. The Great Dictator di Chaplin, all’Eldorado (segue di­ scussione). Le Charme discret de la bourgeoisie di Bunuel al Tivoli. La Mariée était en noir di Truffaut, proiezione serale, all’ABC. Les Enfants du Paradis, di Carné-Prévert, originale con sottotitoli, giovedì al Theatiner. 178

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76 Lilith, 1964, di Robert Rossen. La faccenda dei ragni che diventano schizofrenici attraverso la trasfusione di sangue umano. Il film la cita. La storia si svolge in un manicomio. Un mix di amour fou e melodramma: quando idee di singo­ larità e stereotipi collidono ne nascono bizzarri eccessi. La cinepresa è di Eugen Shuftan, ossia Eugen Schiifftan nativo di Breslavia, di antica scuola. A lui si deve la fotografia di Metropolis, ai tempi in cui i cameramen erano ancora dei veri inventori. Domenica, proiezione serale, al Leopold. The Wild One, 1954, di Laslo Benedek. Un film su una banda di centauri. Il primo del suo genere. Per questo Ken­ neth Anger lo cita in Scorpio Rising. Una banda capeggiata da Brando. Oggi e domani, proiezione serale, al Leopold. Donovan’s Reef, 1962, di John Ford. Per spettatori cui piace l’infantilismo dei vecchi e la serietà dei bambini. Oggi e domani, proiezione serale, all’ABC. Di Joseph Losey: The Assassination of Trotsky, 1972, da oggi a domenica; Accident, 1967, lunedì e martedì, entram­ bi all’isabella. -La storia di uomini di diversa provenienza, che cadono nella stessa trappola, la storia di questa trappo­ la*. E anche la Storia - con la S maiuscola - come trappola. Nei film di Losey tutto diventa la stessa cosa. La Maman et la putain di Jean Eustache, originale con sottotitoli, al Cinemonde. Play It Again, Sam, di Woody Al­ len, in originale, lunedì e martedì, proiezione serale, al Leo­ pold. Der junge Tòrless di Volker Schlòndorff, oggi al Tùrkendolch. Al Theatiner: oggi Viridiana di Bunuel, doma­ ni Psycho di Hitchcock, dopodomani The Touch di Bergman. Domenica alle 22 l’iff ripropone all’isabella film sulla Spagna: Espoir di Malraux, Francia 1939, Spanienl, Germa­ nia federale 1973. 27.7.73

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77 Anaparastassi, 1970, di Theodor Angelopoulos. Come si racconta nel modo più sincero un omicidio di cui non si è stati testimoni? Il regista intraprende una duplice ricostru­ zione, da fuori e da dentro: come viene rilevato dalla poli­ zia e come il caso si presenta in base agli atti processuali e ai racconti di chi vi ha preso parte. Oggi al Theatiner. What’s New, Pussycat?, 1965, di Clive Donner. Questa è Parigi! Con Sellers e O’Toole e Romy Schneider e Paula Prentiss. E Woody Alien, cui si deve anche la sceneggiatu­ ra. Mercoledì e giovedì, proiezione notturna, al Leopold. In proiezione serale Play It Again, Sam di Woody Allen, in originale. John Boorman: un inglese che utilizza mezzi hollywoo­ diani per criticare l’America. Il suo cinema oscilla fra il poli­ ziesco e il fantastico {Point Blank, 1967, mercoledì e gio­ vedì, proiezione serale, all’ABC); civiltà e natura {Deliverance, 1972, giovedì al Turkendolch). Due film di Jerry dai tempi del sodalizio con Dean Mar­ tin, di Norman Taurog. Al Cinema: Living It Up, 1954, oggi. The Caddy, 1953, mercoledì e giovedì. Nel primo si canta molto. Wild Rovers, 1972, di Blake Edwards. Uno dei migliori nuovi western sull’invecchiamento del West, del western e dei westerners. Le Testament d’Orphée, 1959, Jean Cocteau. Un saggio filmico sulla nascita, la vita e la sopravvivenza di metafore poetiche. Originale con sottitoli. Mercoledì al Theatiner. Due volte Tati: Les Vacances de Monsieur Hulot, 1953, quando la Bretagna era ancora l’amabile, modesto, vuoto paradiso delle vacanze della piccola gente senza pretese. Mercoledì al Rex. Playtime, 1965, giovedì a Solln. Frenzy di Hitchcock, fino a giovedì, proiezione notturna, al Theatiner. Letjat zuravli di Michail Kalatosov, mercoledì all’isabella. The Time Machine, di George Pai, mercoledì al Tiìrkendolch. What's Up, Doc?, di Peter Bogdanovich, ver­

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sione originale, mercoledì e giovedì, proiezione notturna, all’Europa. Let the Good Times Roll, all’Ufa-Luitpold. Film e videotapes di Takahiko Rimura all’Undependent Film Center giovedì, ore 20, alla Stàdtische Galerie di Lehnbachhaus, Luisenstrasse 33. 31.7.73

78 Charulata, 1965, un «fuoco di paglia» indiano, in cui le possibilità per la donna di realizzare la sua vita sono ancora peggiori che nel film tedesco e quindi per fame di vita, co­ me nelle sorelle Brontè, diventano solo passioni. Il film è più dolce, più devoto, più letterario del suo pendant tede­ sco. Uno sguardo benevolo, partecipe, impotente di uomini sui problemi delle donne. Èssi sono impegnati con cose molto importanti da fare. Di Satyajit Ray da un romanzo di Tagore. Giovedì al Theatiner. Due film di Bob Fosse. Sweet Charity, 1968. Il primo film diretto da lui, dopo aver dato, come ha scritto Godard, ali ai film di Stanley Donen con i suoi balletti. Anche qui le parti danzate sono la cosa migliore, e le ballerine Chita Rivera e Paula Kelly rubano la scena a Shirley MacLaine. La trama è un rifacimento delle Notti di Cabiria. Mercoledì al Rex. Ca­ baret, 1972, al Regina. The Young Owe di Bunuel, I960. Un nero accusato ingiu­ stamente di violenza carnale, bianchi lascivi e bigotti, una minorenne consenziente, il tutto su un’isola paradisiaca da­ vanti alla costa del South Carolina. L’unico film «americano» di Buftuel. Mercoledì al Theatiner. The Crimson Pirate, 1952, di Robert Siodmak. Quando gli europei si mettono a trafficare con i generi hollywoodia­ ni, in questo caso film di avventura, e per essere più precisi avventura sul mare, si può star sicuri che da qualche ango­ lino faranno saltare fuori le loro riserve: non penserete che siamo così ingenui... «Credete solo a ciò che vedete» dice 181

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Burt Lancaster all’inizio, oscillando acrobaticamente da un albero maestro all’altro, «oppure, meglio ancora, credeteci solo a metà». Come se il vero frequentatore del cinema già non lo facesse senza esserne richiesto. Non basta un pirata e la sua storia, deve esserci anche un movimento di libera­ zione di mezzo, che precipita i corsari in conflitti morali e procura al pubblico una buona coscienza nelle scene di battaglia. E tuttavia: se si prescinde dalla pedanteria di Siodmak, rimane un bell’intrattenimento. La dicitura «per bambi­ ni dai dodici anni» risale a un’epoca in cui non c’era ancora la televisione e le copertine dei settimanali illustrati erano più decenti. Sullo schermo panoramico il cinema tortura quanto è stato girato in formato normale. Un obbrobrio, ahimè usuale. Al Peterhof. Due film di Arthur Penn. Billy the Kid (The Left Handed Gun), 1958. Con Penn il western ha cominciato a perdere la sua innocenza. Il celebre eroe in lui non è un monumen­ to, bensì un ragazzo all’epoca della pubertà, pieno di ansie e paure. E anche un burlone un po’ ritardato. Le maniere da Actor’s Studio di Paul Newman diventano un efficace ele­ mento di demistificazione. Giovedì al Tùrkendolch. Bonnie and Clyde, 1967, giovedì al Rex. Rashomon di Kurosawa. In originale con i sottotitoli. Modern Times di Chaplin oggi al Rex. The Great Dictator al­ l’Eldorado e in versione originale all’ABC. Mogambo di Ford, oggi all’Eldorado, proiezione notturna. Sempre in proiezione notturna The Pink Panther di Blake Edward al­ l’ABC. AI Theatiner da oggi a giovedì African Queen di Hu­ ston, da oggi a giovedì in proiezione notturna all’ABC. Der blaue Engel di Sternberg mercoledì all’isabella. North by Northwest di Hitchcock, mercoledì e giovedì in proiezione notturna all’Eldorado. 21.8.73

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79 Commedie: The Cameraman, 1928, di Edward Sedgwick, con Buster Keaton. Buster cambia mestiere: da fotografo a cameraman del cinegiornale della mgm. Il passaggio professionale sempre legato alle vicende personali - gli riesce con l’aiuto di una scimmietta addestrata a suonare un organetto. Che ha fatto funzionare la cinepresa di Buster. Da oggi al Tivoli. Duck Soup, 1933, di Leo McCarey. Groucho come presi­ dente di un paese il cui simbolo non è la statua della li­ bertà, ma che si chiama pur sempre Freedonia: all’infuori della pomposa vedova Teasdale che lo finanzia, nessuno ha fiducia in lui. L’unico film dei fratelli Marx girato da un buon regista. The Geisha Boy, 1958, di Frank Tashlin. Jerry innamorato di un coniglio. Al Luitpold.

Western: North West Mounted Police, 1940, di Cecil B. DeMille. È vero che il Canada non fa parte del West, ma per struttura e tecnica il film appartiene al genere horse-opera. Il titolo te­ desco fa riferimento all’uniforme rossa dei rangers canadesi. Un film-primizia in technicolor. Lunedì, proiezione nottur­ na, all’Eldorado. My Darling Clementine, 1946, di John Ford. Una città selvaggia, dice Walter Brennan ai cowboy, che gli chiedono come arrivarci e indica una strada con tre lampioni sperdu­ ta nella pianura.Lunedì, proiezione notturna, al Leopold. Westward the Women, 1951, di William Wellman. Come il western è arrivato alle proprie donne-uomo; non si inten­ dono le signore dei saloon, bensì le madri. Lunedì, proie­ zione notturna, all’ABC. Shenandoah, 1964, di Andrew V. McLaglen. James Stewart combatte da solo la guerra che distrugge la sua fa­ miglia. Oggi e domani, proiezione notturna, all'Arena. 183

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Film musicali: It’s Trad, Dad!, 1961, primo film di Richard Lester, il regi­ sta dei Beatles. Mad Dogs and Englishmen, 1971, di Pierre Adige. La tournée di Joe Cocker attraverso gli States nel 1970. Da og­ gi a lunedì, proiezione notturna, al Theatiner. Let the Good Times Roll, 1973, di Sid Levin e Robert Abel. Gli inizi del rock, le sue trasformazioni, e come è tornato di moda. Mescolato con riprese di cinegiornale e spezzoni te­ levisivi degli anni Cinquanta. Versione originale. Oggi e do­ mani, proiezione notturna, all'Europa. Continuano: Belle de jour di Bufiuel, oggi, al Theatiner. Der blatte Engel, oggi all’Arena. Exodus di Preminger, saba­ to al Rex. Les Enfants du Paradis di Carné-Prévert, originale con sottotitoli, domenica all’isabella. Saboteur di Hitchcock, domenica, proiezione notturna al Leopold. Noz iw wodzie di Polanski all’isabella. 24.8.73

80 A completamento della serie di Raoul Walsh alla televi­ sione: Gentleman Jim, rubacuori, idolo dei salotti, e boxer, il quale contrariamente all’usuale immagine dei campioni dello sport e anche agli eroi più taciturni di Walsh reagisce fulmineamente tanto con il destro che con le parole. Una spiegazione fornita dal film: il padre irlandese. Un vecchio indegno. The Unforgiven, di John Huston. Ripresa di un western con tematica razzista del I960. Audrey Hepburn come fan­ ciulla indiana, mentre Lillian Gish, l’eroina di Griffith, suona Mozart nel più profondo Texas. Pierre et Paul, 1970. Pierre è il figlio e Paul il padre. Quando muore Paul, Pierre dà fuori di testa. Non che fosse particolarmente affezionato a Paul. La morte è semplicemente l’innesco di un nuovo rapporto con il mondo che lo 184

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circonda. Come già nel primo film degli Allio tratto dalla brechtiana «vecchia dama indegna*. Batman and Robin, 1943, di Lambert Hillyer. Il primo sequel dei serial dedicati a Batman, quando il genere stava già per tramontare. Le avventure dell’eroe del fumetto por­ tate sullo schermo non possiedono il glamour di Musidora, Fantómas e Pearl White, celebrati dai surrealisti come «gran­ di creazioni di questo secolo*. Originale con sottotitoli, mer­ coledì e giovedì, proiezione notturna, all’ABC. Satyricon di Fellini, oggi al Rex. Tom Curtain di Hitch­ cock da oggi a giovedì, proiezione notturna, al Theatiner. Domani due film di Bergman: Tystnaden all’isabella, Ritos al Theatiner. Drole de drame di Carné-Prévert, originale con sottotitoli, giovedì al Theatiner. Strohfeuer di Volker Schlòndorfif giovedì all’isabella.

81 Videotapes, multi-screen film e computerfilm di Stan VanDerBeek. Essi dovrebbero «sviluppare una nuova lingua visiva che potrebbe servire a far circolare fra tutte le culture concetti esistenziali di ampia portata così da incrementare la velocità di comunicazione tra esse e promuovere una mi­ gliore comprensione di sé e reciproca*. Dopo la proiezione è prevista una discussione con l’autore. Mae West: l’elemento liberatorio in lei è che con il suo corpo grottesco, con il suo aspetto grottesco abbia potuto diventare un sex symbol ai suoi tempi. A scatenare l’attivi­ smo contro di lei delle leghe per la soppressione del vizio, che le impedirono di esercitare la sua professione nel 1936, non fu certo il fatto che i suoi film proponevano la piena li­ bertà di scelta dei partner da parte delle donne. Parlava in modo irriverente di cose di cui usualmente si parlava in modo mistificatorio o a mezza bocca. Allo Stadtmuseum: I’m No Angel, 1933. Mae West scoprì Cary Grant, un partner passabilmente incolore ed elegante, ma anche dotato di au185

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toironia. Una coppia mostruosa. Belle of the Nineties, 1934.1 suoi numeri più belli. E con Duke Ellington. Goin ' to Town, 1935. Poiché ha sfortuna, vince ai dadi un marito con un patrimonio immane. Klondike Annie, 1936. Walsh nelle ve­ sti di regista e lei come presunto membro dell’esercito della salvezza in Alaska. Passi da me uno di questi giorni, è un suo modo di dire ricorrente e al contempo lei lancia uno di quei contro-sguardi che fanno pensare e aspettare qualsiasi cosa. Taza, the Son of Cochise, 1953- L’unico western di Dou­ glas Sirk. Le scene di combattimento con gli Apaches sono sì scene di genere, ma le qualità del film risiedono là dove sempre si trovano in Sirk, nelle scene intrise di intimità e li­ rismo. Oggi e domiani, proiezione notturna all’ABC. La Maman et la putain, 1973, di Jean Eustache. L’ultima possibilità di vedere il film che rappresenta la summa delle esperienze della nouvelle vague. È istruttivo vederlo ora, perché oggi al Tivoli proiettano il nuovo film di Truffaut, che il regista intende come una sorta di bilancio finale di un’epoca. In originale con sottotitoli. Programmazione diur­ na al Cinemonde. La Victoria di Peter Lilienthal, ancora oggi, proiezione notturna, al Tùrkendolch. Prosegue all’ABC A Streetcar Na­ med Desire di Elia Kazan. La Voie lactée di Bunuel, oggi al Theatiner. La versione originale di Jeremiah Johnson di Syd­ ney Pollack, da oggi a domenica, proiezione notturna, al­ l’Eldorado. Smultronstàllet di Bergman, domenica al Theati­ ner. Suspicion di Hitchcock, domenica, proiezione notturna, al Leopold. I Marx Brothers in Horse Feathers, lunedì e mar­ tedì, proiezione notturna, al Leopold.

82 Mae West allo Stadtmuseum. I brillanti sono i trofei, l’u­ nica traccia solida, che gli uomini lasciano su di lei. -Santo cielo, che razza di diamanti*, dice in uno dei suoi film una 186

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guardarobiera, cui segue immediatamente la replica: -Con il cielo non hanno niente a che vedere, mia cara». E anche le sue memorie recano il titolo: Goodness Had Nothing to Do With It (Avon Book Division, New York 1959). Oggi: Go West, Young Man, 1936, di Hathaway, 18.30. Every Day's a Holiday, 1937, di Edward Sutherland, ore 21. Due film con Marilyn: il sesso e il suo idolo, quando gli uomini presero nuovamente il sopravvento. Let’s Make Love, I960, di George Cukor, oggi, Some Like It Hot, 1959, di Billy Wilder, mercoledì e giovedì, proiezione notturna, al Leopold. Women, 1971, di Andy Warhol e Paul Morrissey. Tre tra­ vestiti in tre specifiche versioni dell’eterno femminino, che peraltro è un’invenzione maschile. Programmazione diurna al Luitpold e a Kino 2 dello Stachus-Kino-Center. Due film che hanno fatto di Marion Brando un idolo: A Streetcar Named Desire, 1951, di Elia Kazan, all’ABC. The Wilde One, 1954, di Laslo Benedek, mercoledì proiezione notturna, all’Eldorado. The Sad Sack, 1957, di George Marshall, con Jerry Lewis. Da non confondere con cose come Due marines e un generale o Un militare e mezzo. In questo film più tardo di Lewis (già senza Dean Martin), la logica di Jerrry e la mentalità dell’esercito americano collidono, e ne scaturisco­ no per entrambi momenti creativi. Programmazione diurna al Leopold. - The Nutty Professor, 1963, di e con Jerry Lewis. Mercoledì al Rex. Horse Feathers, 1932, di Norman McLeod, con i fratelli Marx. Alla fine i tre sposano una donna. I do, rispondono al­ l’unisono Groucho e Chico nel corso della cerimonia nuzia­ le, e Harpo annuisce. Oggi, proiezione notturna, al Leopold. Seven Chances, 1925, di e con Buster Keaton. L’incubo di Buster di avere cento fidanzate. Al Theatiner. Due film di Hitchcock: Psycho, I960, fino a giovedì, proiezione notturna al Theatiner; Marnie, 1964, mercoledì e giovedì, proiezione notturna, all’ABC. L’influenza fatale del­ le madri. 25.9.73 187

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83 Douglas Fairbanks a Olympia. Quando si muove in oriz­ zontale e cammina come un comune mortale, ciascuno dei suoi gesti appare frenato: non importa che pieghi un ginoc­ chio davanti alla sua adorata levando le braccia per dire -tuo con tutto il corpo e tutta l’anima- o che giuri eterna vendetta al malvagio minacciandolo con il pugno serrato. Ma quando la situazione è matura e si arrampica sulle pare­ ti balzando di mobile in mobile o con una sciabola per ma­ no mena sonori fendenti, allora si sa dove risiedesse la libe­ razione per coloro che facevano il giovane cinema. Libertà anche dal copione. Action è tutto. Fairbanks padroneggiava alla perfezione quanto faceva, non mimava. Era efficace e non semplicemente più bravo dei suoi avversari, di volta in volta, a battersi, correre, nuotare, arrampicarsi. L’ideologia di questi film: il futurismo, americano. Oggi The Three Mu­ sketeers, domani The Iron Mask, domenica Don Q, Son of Zorro, lunedì The Gaucho. Film di pirati all’ABC. Fairbanks con il Black Pirate è il capostipite di questo genere. La cosa migliore è andare a vedere questi film con dei bambini, il divertimento come adulti ne trae vantaggio. A Hard Day's Night, 1940, di Mi­ chael Curtiz. Domani The Pirate, 1942, di Henry King. Do­ menica The Crimson Pirate, 1952, di Robert Siodmak (an­ che sabato e domenica, proiezione notturna, al Rex). Lu­ nedì The World in His Arms, 1952, di Raoul Walsh. Friedrich Ermler allo Stadtmuseum. In tutti i film di Ermler il presente è disseminato delle macerie del passato. La dinamica di tali film si fonda sulla tensione fra vecchio e nuovo. 11 suo grande tema: come è difficile capire il nuovo e utilizzarlo per gli occhi e il cervello programmati da seco­ li di vita diversa. In Bauem un kulak uccide la moglie che ama; la madre di lui che torna dall’esilio gli rimprovera di aver tradito i propri genitori. E tuttavia l’inquadratura della giovane donna impiccata assurge a simbolo di un futuro migliore. Ermler opera con quei mezzi del cinema che il 188

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suo amico e contemporaneo Eisenstein usava intenzional­ mente con molta parsimonia. Oggi, 18.30: Frammento di un impero, 1929; 21: Contropiano, 1932. Domani, 18.30: Bauem, 1935; ore 21: Sie verteidigt ibr Land, 1943. Nella versione originale russa, con indicazioni sul contenuto o traduzione a voce delle didascalie. Gorkis Kindheit (Gorki-Trilogie, prima parte), 1938, di Mark Donskoi. Domenica, matinée, al Theatiner. John Ford al Turkendolch. Oggi Fort Apacbe, 1948; saba­ to e domenica Wagonmaster, 1950; lunedì She Wore a Yel­ low Ribbon, 1949. Inoltre domenica, al Leopold proiezione notturna: The Sun Shines Bright, 1953. Nella serie dello iff con film del Forum internazionale del Nuovo Cinema di Berlino: Los Traidores, 1973. Riflessio­ ni sulle contraddizioni del movimento sindacale. Autori: un collettivo. Domenica, proiezione serale, all’isabella. Nella serie di film del festival internazionale di Mannheim all’isabella: lunedì Zwartziek, 1972, di Jacob Bijl. Problemi in un matrimonio provocati dall’incomprensione del marito. Procedimento di rappresentazione come in Dos Fernsehgericbt lagt: improvvisazioni documentaristiche in una cornice di fiction. Olandese con sottotitoli in francese. Love Happy con i fratelli Marx e Marilyn Monroe, oggi e domani all’isabella. La Victoria di Lilienthal all’isabella. Man ' Favorite Sport? di Hawks, lunedì e martedì, proiezione notturna, al Leopold. The Beguiled di Don Siegei in versio­ ne originale oggi e domani, proiezione serale, al Leopold. All’Undependent Film Center, sempre alle 22.30 al Cine­ monde, oggi: Ahblendungen di Irm e Ed Sommer. Sabato: Sodoma di Otto Muehl. Domenica: Ekstase di Gustav Machaty con Hedy Lamarr. 19.10.73

84 Bruno der Scbwarze, 1970, di Lutz Eisholtz. Un braccian­ te e insieme sonatore ambulante di cortile in cortile, trattato 189

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come un pazzo dal suo ambiente. Come possono esibirsi quelli a cui è data appena la possibilità di sopravvivere, fi­ gurarsi quella di sviluppare il proprio particolare talento. In una serie dell’iff, domani, proiezione serale all’isabella. Film di Friedrich Ermler allo Stadtmuseum. Oggi: 18.30 Veliki perelom, 1946, allo Stalingrad-Kino. Ore 21 Katka buma^nyj ranet, 1926, un melodramma, un melodramma rus­ so comico dell’epoca della nep, con affaristi, mercato nero e candidati al suicidio. Le doglie prima della nascita di un mondo nuovo. The Black Pirate, con Douglas Fairbanks. Il primo. Gran­ de successo del technicolor: 1927. Due colori soprattutto, l’arancione e il verde-azzurro intenso. Una sequenza di in­ vasione sottomarina, che da sola merita che si vada a veder­ lo. Oggi all’Olympia e domani all’ABC. Prosegue il festival dedicato a Douglas Fairbanks all’Olympia: mercoledì The Taming of the Shrew, 1929. Gio­ vedì Reggie Mixes In, 1916 e A Modern Musketeer, 1918; qui viene spiegato il fenomeno Fairbanks: durante la gravidanza la madre dell’eroe Ned Thacker ha letto solamente Dumas ed egli è venuto al mondo mentre imperversava un ciclone. E continua il festival del cinema di corsari all’ABC: oggi The Golden Hawk, 1952, con Rhonda Fleming; giovedì The Master of Ballantrae, 1953, con Errol Flynn. imagination, l’immaginazione, non è la capacità di creare immagini del reale, ma è piuttosto la capacità di creare immagini che si lasciano alle spalle il reale» (Gaston Bachelard, L’acqua e i sogni). Film di cappa e spada in seconda serata all’ABC. Ancora oggi Moonfleet, 1955, di Fritz Lang. Se non ci fossero coloro che li venerano, non ci sarebbero eroi. L’amore esaltato di un ragazzino per il capo di una banda di contrabbandieri nel xvui secolo in Inghilterra. A mezzo fra Dickens e roman­ ticismo gotico inglese, con cimiteri, spiriti e soffitti a volta in locali sotterranei. C’era una volta Ford... Al Tùrckendolch i suoi film: Gi­ deon of Scotland Yard, 1958; mercoledì The Searchers, 1956; giovedì The Horse Soldiers, 1959. 190

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I film di Hitchcock in tarda serata al Cinemonde. Merco­ ledì e giovedì Dial Mfor Murder, 1954. Un Hitchcock il cui fascino consiste nella strepitante drammaturgia teatrale. La sua gag più grande: insistere sull’-unità di luogo». Buster Keaton in The Cameraman, programmazione diurna all’Arri. A Night at the Opera, oggi e domani al Thea­ tiner. Man ’s Favorite Sport ? di Hawks, oggi, proiezione not­ turna, al Leopold. Touch of Evil di Orson Welles, mercoledì e giovedì, proiezione notturna al Leopold. 23.10.73

85 Reed -México insurgente, 1971, di Paul Leduc. Un tema molto attuale: come si racconta la guerra e che cosa ha da fare la cinepresa là dove parlano le armi. Resoconto rico­ struito dell’anno 1914, quando la rivoluzione messicana si stava ormai estinguendo. Con Pancho Villa e John Reed, il giornalista americano che più tardi racconterà la Rivoluzio­ ne d’Ottobre ne 1 dieci giorni che sconvolsero il mondo. In originale con sottotitoli. Oggi, 18.30, allo Stadtmuseum. Asylum, 1972, di Peter Robinson. Con schizofrenici nello Kingsley Hall di Ronald Laing. I cineasti hanno tentato di partecipare alla Community invece di limitarsi a essere os­ servatori. In originale con sottotitoli. Mercoledì, 22.15, all’i­ sabella, nella serie dell'iff. Oggi viene proiettato il film che non si era potuto programmare mercoledì, Weg des Hans Monn, 1972, di Andrea Kettelhack. Film premiati all’xi festival cinematografico di Ann-Arbor, 1973- Questo festival è dedicato esclusivamente al film spe­ rimentale americano. Mercoledì, ore 18, all’Amerika-Haus. I film dei fratelli Marx. Margaret Dumont, che in essi re­ cita sempre la parte della dignitosa e composta signora con mentalità carepaket: -Dopo tre settimane come partner di Groucho ero sull’orlo di una crisi di nervi. Mi faceva corre­ re, mi tirava via la sedia da sotto il sedere, mi metteva rane

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nella vasca da bagno, a casa cuoceva bistecche nel camino, e mi rendeva impossibile la vita sullo stage e anche altrove. E tuttavia, non vorrei perdermi uno solo di questi momenti. Amo questi ragazzi». Monkey Business, all’Olympia. A Night at the Opera, originale con sottotitoli, al Theatiner. The Pink Panther, 1963, di Blake Edwards. Molto rosa dipinto intenzionalmente su un fondo cupo; slapstick più commedia da salotto. Al Theatiner in serata. Film di corsari: film di avventura, il cui élan è potenziato dall’acqua. Se abbandonano troppo il loro elemento ondeg­ giante, finiscono per assomigliare all’albatros della famosa poesia di Baudelaire. All’ABC: oggi 'The Golden Hawk, mer­ coledì Capitarne Morgan, giovedì The Master of Ballantrae. The Lawless Breed di Raoul Walsh, ancora oggi, proiezio­ ne serale, al Leopold. Rebel without a Cause, ancora oggi, proiezione serale, all’Eldorado. The Birds di Alfred Hitch­ cock, proiezione serale, al Cinemonde. Morte a Venezia di Luchino Visconti all’isabella. 6.11.73

86 The Canadian, 1925, di William Beaudine. Vecchio quanto il cinema. Nel 1904, dodicenne, cominciò la sua car­ riera cinematografica, nel 1962 girò Lassie’s Great Adventure. The Canadian era considerato perduto ed è stato ritrovato recentemente: protagonista è la Dale Fuller di Erich von Stroheim. Lunedì. Ore 18, all’Amerika-Haus. Animal Crackers, 1930. Questo secondo film dei fratelli Marx può vederli ora anche chi trova gli spettacoli notturni proibitivi per l’ora. -Come sarebbe meglio per i bambini se anche i genitori mangiassero gli spinaci». Groucho nelle ve­ sti del capitano Jeffrey T. Spaulding. Versione originale, pro­ grammazione diurna, all’Olympia. Moonfleet, 1955, di Fritz Lang. I ragazzi, che leggono vo­ lentieri Treasure Island, ameranno anche Moonfleet di John 192

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Meade Falkner: Lang ha modificato il libro. L’eroe decenne nel film si chiama John Mohune. A bocca aperta e con oc­ chi di coniglio attraversa un cimitero crepuscolare. Cade in un sepolcro e si trova davanti al suo idolo, il ladro-gentiluo­ mo Jeremy Fox, i cui temibili contrabbandieri si nascondo­ no nelle volte sotterranee. All’ABC. Riot in Celi Block 11, 1954, di Don Siegei. Film ambienta­ to in un carcere. Il migliore, a detta di Siegei, per il fatto che il produttore, Walter Ranger, s’intendeva di esecuzione della pena. Aveva sparato a sua moglie, la bella Joan Bennett. Lu­ nedì e martedì, proiezione serale, al Leopold. Jeremiah Johnson, 1972, di Sydney Pollack. Un western sui cacciatori di animali da pelliccia, diverso da quelli di Wellman o Hawks. Anche J.J., detto il «mangiatore di fega­ to-, era una figura leggendaria. Strappava ai nemici il fegato e se lo mangiava. Questi dettagli pittoreschi non sono per Pollack così interessanti come le descrizioni delle condizio­ ni di vita di allora e le ragioni che intorno al 1840 spingeva­ no un uomo ad abbandonare la «civiltà bianca-. Versione originale, domenica, proiezione serale, al Leopold. Film di pirati all’ABC: oggi Captain Horatio Hornblower di Raoul Walsh; domani Anne of the Indies di Jacques Tour­ neur; domenica Against All Flags di George Sherman; lu­ nedì Pirates of Tortuga di Robert D. Webb. Il nuovo cinema messicano allo Stadtmuseum. Oggi: 18.30 El Cambio di Alfred Joskowicz, alle 21 Reed - México insorgente di Paul Leduc: versione originale, l’ultimo film con sottotili in tedesco, gli altri con sottotitoli in inglese. Sette film di Truffaut, da lunedì all’isabella, dapprima Tirez sur le pianiste. Inoltre Fahrenheit 45\ di Truffaut, do­ mani, proiezione serale aH’Arri. Anaparastassi, 1970, di Theodor Angelopoulos, lunedì e martedì, proiezione serale, all’isabella. 9.11.73

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87 Douglas Sirk allo Stadtmuseum. I film tedeschi di Sirk, con i quali avviò la sua uscita dall’Ufa e che lo fecero cono­ scere all’estero. Due volte Zarah Leander. E una volta Willy Birgel - nella versione tedesca dei ruoli interpretati a Hol­ lywood da George Sanders. Oggi alle 18 Zu neuen Ufem, sabato La Habanera, entrambi del 1937. Oggi alle 21/1 Scandal in Paris, 1946. Un Sirk non melodrammatico, quin­ di non proprio un Sirk tipico, ma un Sirk molto divertente. Sanders con la sua spocchiosa, irresistibile dizione inglese nelle vesti di Vidocq, il criminale diventato l’effìcientissimo capo della polizia parigina perché leggeva nella psiche cri­ minale come in un libro aperto. Balzac lo ammirava molto: Vautrin ne ha i tratti. Tipicamente sirkiano è il tema della cecità, qui in variante comica. Vedere e tuttavia non vedere, perché fidarsi delle apparenze è già essere colpito dalla ce­ cità. La lingua, i testi, i dialoghi, sono il passo a latere, lo scarto, che conferisce alle immagini un senso ambivalente e coinvolge lo spettatore nel gioco offrendogli una chance su un piano di parità. (Con sottotitoli.) Sabato alle 21: Lured, anche questo del 1946. Assolutamente nella tradizione del giallo inglese. Seguito di A Scandal in Paris nella misura in cui, come sostengono i teorici del romanzo poliziesco, le probabili memorie apocrife di Vidocq avrebbero dato origi­ ne al genere. Di nuovo con Sanders. Woody Alien in originale. Il momento della verità per lui. I suoi fan affermano che la comicità dei suoi dialoghi non è traducibile. All’Europa Play It Again, Sam, al Leopold Everything You Always Wanted to Know About Sex But Were Afraid to Ask (qui doppiati nella programmazione diurna), ambedue del 1972. The Murder ofFred Hampton, 1970, di Mike Gray. Dove­ va diventare un film sulle Pantere Nere: l’intenzione fu su­ perata dagli avvenimenti e il film divenne un elogio funebre a Fred Hampton, il presidente delle Pantere Nere, e una ri­ cerca sulle circostanze che hanno condotto alla sua morte. 194

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In originale con sottotitoli. Lunedì e martedì, proiezione se­ rale, all’isabella. Elia Kazan al Tiìrckendolch: inizialmente i suoi film ave­ vano una struttura più drammatica, all’epoca ogni suo film faceva scoprire un attore. Brando, Dean, Beatty. Poi arriva­ rono i film più epici. L’ultimo film, The Visitors, passato in televisione, è fiction documentaria. In Francia è apparso dall’editore Stock un’esaustiva intervista con Michel Ciment, Kazan par Kazan. Da sabato a lunedì: A Streetcar Named Desire, 1951. Lunedì e martedì, all’Eldorado: East of Eden, 1955. Francois Truffaut all’isabella. Oggi La Mariée était en noir, 1969; sabato e domenica Jules et Jim, 1961; lunedì L’Enfant sauvage, 1969. All’Olympia e al Regina: La Nuli américaine, 1973. Crime in the Streets, 1956, di Don Siegei. La rivolta gio­ vanile nel quartiere italiano di New York. Con John Cassa­ vetes. Lunedì e martedì, proiezione serale, al Leopold. Film di pirati all’ABC. Oggi A Hard Day’s Night di Mi­ chael Curtiz. Domani The Pirate di Henry King. Domenica The Crimson Pirate di Robert Siodmak. Lunedì The World in His Arms di Raoul Walsh. La bora de los hornos, prima parte. Domenica, proiezio­ ne serale all’isabella (iff). Hamlet di Olivier, originale con sottotitoli, domenica, matinée al Theatiner. A Night at the Opera con i fratelli Marx, programmazione diurna (eccetto la domenica) al Theatiner. The Nutty Professor di Jerry Lewis, lunedì e martedì al cinema West, Grafelfing. The Unforgiven di John Huston, oggi al Turkendolch: Pinocchio di Disney, domenica, matinée, al cinema Olympia. 16.11.73

88 Michelangelo Antonioni all’isabella. Interdipendenza di alienazione sociale e psichica. «Che questo viaggio non sia 195

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qualcosa da cui si debba essere guariti, ma che esso stesso sia una via naturale di guarigione dal nostro terribile stato di alienazione che chiamiamo «normalità». Oggi, dopo Laing e Cooper, certi aspetti dei film di Antonioni appaiono sotto una nuova luce. Bisognerebbe rivederli. Godard sui film a colori di Antonioni: i loro dialoghi sono più semplici e fun­ zionali, perché il colore ha assunto il ruolo tradizionale del •commento». Oggi Blow up, 1966; mercoledì Deserto rosso, 1963; giovedì La notte, I960. Elia Kazan al Tiìrkendolch. Oggi: Sea of Grass, 1947. Cir­ cola raramente, il suo secondo film, più un film da star sy­ stem che il film di un autore-regista. Con Spencer Tracy, Katharine Hepburn, Melvyn Douglas. Non un vero western, anche se è ambientato al tempo della colonizzazione del Nuovo Messico c la cornice in cui si svolge è la classica sto­ ria delle lotte fra latifondisti e peones. Mercoledì Viva Zapa­ ta, 1951; giovedì On the Waterfron, 1954. Oggi all’Eldorado, ultimo spettacolo: East of Eden, 1955. Douglas Sirk allo Stadtmuseum. Oggi: Boefje, 1939: Sirk l’ha realizzato in Olanda, la sceneggiatura l’ha scritta insie­ me a Zuckmayer. Unica proiezione alle 18. Sleep, My Love, 1948: un uomo tenta di spingere alla follia la moglie erede di un ricco patrimonio. Ore 21. Ambedue i film in originale. Film sul tema dell’aborto: Abort 71, un film norvegese, e Kinder fur dieses System, film della Repubblica federale. Mercoledì, serie dell’iff all’isabella. The Nutty Professor di Jerry Lewis, oggi al cinema West, Grafelfing. The Murder of Fred Hamptons di Mike Gray, ori­ ginale con sottotitoli, oggi, proiezione serale, all’isabella. Crime in the Streets di Don Siegei, oggi, proiezione serale, al Leopold. Belle de jour di Bunuel, mercoledì al Theatiner, Jeremiah Johnson di Sydney Pollack, versione originale, mercoledì e giovedì, proiezione serale, all’Europa. The Lady Vanishes, originale con sottotitoli, giovedì al Theatiner. 20.11.73

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FILMTIPS

89 Kissin’ Cousins, 1965, di Gene Nelson, con Elvis che in­ terpreta due ruoli; oggi e sabato, proiezione serale all’Arena. The Executioner, 1969, di Sam Wanamaker, che perse­ guitato da McCarthy abbandonò l’America, cosa che non è decisiva per la comprensione del film, ma che è importante sapere; domenica, proiezione serale all’Arri. Douglas Sirk al Museo del cinema. Quattro film che rap­ presentano un digest della sua opera: Stùtzen der Gesell­ schaft, l’esordio in Germania dalla forte impronta teatrale (domani alle 21). Take Me to Town, un film in provetta, un western da ridere (oggi alle 18). All I Desire, tutto ciò che serve al mèlo. Una cittadina di provincia (borghesi) in anta­ gonismo con il grande mondo (artisti). Problemi familiari. Quando i sentimenti giungono al punto di ebollizione, Bar­ bara Stanwyck balza in sella e galoppa incontro alla natura (domani alle 18). Written on the Wind, uno dei grandi film della fase tarda, con lo smalto del technicolor e una storia di decadenza concentrata in due generazioni come poli del­ la tensione (oggi, alle 21). El primer ano, 1972. Il primo anno di governo di Allende. Un film della Scuola d’arte e di comunicazione dell’univer­ sità cattolica del Cile, rielaborato ai fini di una migliore com­ prensione in Europa dal gruppo francese Sion (fra gli altri, Chris Marker). Domenica, proiezione serale all’isabella (iff). Ein Traum Frankensteins, Hampelmann e Stasis, tre nuovi film di Fritz André Kracht, proiezione serale al Cine­ monde (Undependent Film Center). College, Paleface e The Goat di Buster Keaton da oggi in programmazione diurna al Theatiner. Strangers on a Train, oggi e sabato, proiezione serale all’isabella. La Voie lactée di Bunuel,da oggi a lunedì, proiezione serale al Theatiner. Liebelei di Ophiils, sabato alle 14, mercoledì alle 16 al Thea­ tiner. Il film di Truffaut al Tiirkendolch: oggi Tirez sur lepianiste, sabato La Mariée était en noir, domenica Jules etJim, lu­ nedì Fahrenheit 451. 7.12.73

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90 French Cancan, 1955, di Jean Renoir. Montmartre della Beile Époque. I colori e le figure di Renoir poste in movi­ mento dal figlio e dal cinema. Episodi tratti dalla vita di Danglard, il creatore del Moulin Rouge e del cancan. Il mo­ tore del film è la danza. Come nei culti, nei riti: una chiusu­ ra, uno scioglimento estatici, scatenamento. Versione origi­ nale. Al Leopold. I film di Truffaut al Tùrkendolch. Oggi La Mariée était en noir, 1969, mercoledì Baisers volés, giovedì L’Enfant sauvage, 1969. Yawar Mallku, 1969, di Jorge Sanjinés. Un film indiano, fatto per gli indiani. Sugli «aiuti* degli Usa al terzo mondo. In originale con sottotitoli. All’Isabella. Per la serie dell’iff «sulla situazione della donna-: Akkord, 1971, di Kratisch e Lùdcke e Werbraucht wen?, 1972, di Valeska Se houle. All’Isabella. The Cardinal, 1963, di Otto Preminger. Due cardinali. Uno storico, abbellito dal regista: Innitzer a Vienna; un altro prelato, americano, frutto d’invenzione. Preminger a propo­ sito della Chiesa cattolica: un interessante mix di totalitari­ smo e se non democrazia, perlomeno di autonomia indivi­ duale. All’Olympia. Tarantula, 1955, di Jack Arnold. Un mostro primordiale, un ragno gigantesco, messo in libertà dall’epoca nucleare. All’Arri. Douglas Sirk. Oggi allo Stadtmuseum: ore 18 The Tarni­ shed Angels, 1957, ore 21 Imitation of Life, 1959, ambedue in originale. Due dei film più importanti della sua opera. Da raccomandare con riserva, perché a disposizione esistono solo copie a passo ridotto, il che su colore e cinemascope può produrre effetti distorcenti. Mercoledì e giovedì all’El­ dorado: Taza, Son of Cochise, 1953- Dramma familiare tra gli Apaches. Rock Hudson dipinto di rosso e tirato di qui e di là. College, Pale face e The Goat di Buster Keaton, pro­ grammazione diurna al Theatiner. Schloss im Schatten di 198

FILMTIPS

Fritz Lang, oggi, proiezione serale, all’ABC. The Big Sleep di Howard Hawks, da oggi a giovedì, proiezione serale, al Theatiner. Liebelei di Ophùls, domani, alle 16, al Theatiner. East of Eden di Elia Kazan, mercoledì e giovedì, proiezione serale, all’Arena. Carnal Knowledge di Mike Nichols, ver­ sione originale, mercoledì e giovedì, proiezione serale, al­ l’Europa. 11.12.73

91 The Pilgrim, 1923- L’ultimo film di Chaplin in quattro atti, un concentrato di tutte le sue invenzioni: dopo arrivarono i lungometraggi. Il pastore arrivato di corsa annuncia la paro­ la di Dio mimando. Invece di tenere un sermone sul tema di Davide e Golia, interpreta sul pulpito i due ruoli. Solo un ragazzino capisce e applaude. Gli adulti si attengono al comandamento: nessuna immagine. Insieme a The Gold Rush all’Eldorado. - The Great Dictator, sempre di Chaplin, do­ menica, matinée, al Theatiner. Rio Bravo, 1959, di Howard Hawks. Con una musica fu­ nebre messicana si cerca di logorare degli assediati. Ma un cast tanto grande naturalmente non capitola: Walter Bren­ nan, John Wayne e Dean Martin. Domenica, proiezione se­ rale, al Leopold. L’Homme de Rio, 1963, di Philippe de Broca. Un lungo cammino dal parigino Musée de l’Homme alla polvere rossa di Brasilia. Sul tutto aleggia lo spirito di Douglas Fairbanks. Domani al Turkendolch. The Young One di Bunuel, oggi al Theatiner. A Hard Day’s Night di Michael Curtiz, oggi all’ABC. Cabaret di Bob Fosse, da oggi a lunedì all’isabella. Lady in Cement di Gordon Douglas, oggi, proiezione serale, all’Arri. Psycho di Hitchcock, oggi domani, proiezione serale all’isabella. Yeah! Yeah! Yeab! di Richard Lester, oggi e domani, proie­ zione serale, all’Arena. Shanghai Express di Sternberg e Ju199

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les et Jim, domani a! Theatiner. The Pirate di Henry King, domenica all’ABC. 28.12.73

92 La desolazione dell’offerta cinematografica di Monaco per Capodanno innalza la mediocrità ai vertici. Jack Smight fa polizieschi di tutte le sfumature. Anche Banacek, andato in onda sul terzo programma, è suo. In The Moving Target aleggia l’ombra di Bogart. Perché vi recita Lauren Bacall, ma anche perché il regista fa l’occhiolino a The Big Sleep. Kaleidoscope ha iniziato la sua carriera con il titolo II Truf­ fatore gentiluomo. Le vie che qui la legge prende per rista­ bilire l’ordine sono tutt’altro che rettilinee. Questa è una specialità nei film di Smight; egli perlopiù insiste sospettoso sul privato, quando si tratta di fare giustizia: free enterprise fino alle ultime conseguenze. Le storie di Smight non sono così innocue come la loro forma. Mercoledì e giovedì, proiezione serale: The Moving Target, 1965, all’Eldorado; Kaleidoscope, 1966, all’ABC. The List ofAdrian Messenger, 1962, di John Huston. Non tutti i giorni. La tematica dei «dieci piccoli indiani* combina­ ta con la caccia alla volpe in Irlanda, dove il regista ha una tenuta. Truffaut a proposito di Huston: uno di quei tipi che non riescono a venire a capo della realizzazione di un film, ma si comportano come se la vita fosse loro più cara. Do­ mani, proiezione serale, all’ABC. Fantasia di Walt Disney, 1940. Come un manuale popo­ lare per l’interpretazione dei sogni. Bisogna dimenticare il materiale di partenza del film, il pandemonio della cultura europea, allora ci si diverte. Nel suo genere, infatti, è -un lo­ cus communis fantasticheggiante-. Domani, proiezione se­ rale, all’Eldorado. 200

FILMTIPS

The Gold Rush di Chaplin, all’Eldorado. Blow Up di Anto­ nioni, oggi al theatiner. Shanghai Express di Sternberg, mer­ coledì, ore 16, al Theatiner. Cabaret di Bob Fosse, oggi al­ l’isabella. What’s Up, Doc? di Peter Bogdanovich, da martedì a giovedì, al cinema West, Grafelfing, e a Solln. 31.12.73

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IV

Nel 1957, con la nascita della rivista mensile -Filmkritik-, fondata e diretta da Enno Patalas, prendeva avvio l'impresa di maggiore portata dell’intera critica cinematografica di lingua tedesca; fino all'inizio degli anni Settanta -Filmkritik- fu uno straordinario strumento di orientamento, un luogo di discussione sull'estetica e la politica cinematografi­ ca e di autoriflessione della critica. Nei dieci anni tra il 1962 e il 1971 vi apparvero le recensioni di Frieda Grafe sui nuovi film francesi, italiani e tedeschi; in seguito il suo lavo­ ro di critico continuò presso la -Suddeutsche Zeitung*, di cui sarebbe rimasta regolare collaboratrice per treni’anni.

Nicht versòhnt di Jean-Marie Straub (1966) Posso capire il malumore di Boll e la sua delusione per l’ingratitudine di Straub, ma non rispetto i suoi sentimenti. Boll ha regalato a Straub i diritti di Machorka-Muffi e di Nicht versòbnt; e non per «altruismo o idealismo» ma perché «disprezza la tradizionale industria cinematografica». Che co­ sa volesse fare Straub, non lo interessava granché. Se l’aves­ se interessato di più, si sarebbe forse accorto che Straub ap­ partiene proprio alla categoria dei «non riconciliati», alla quale nel suo romanzo con grande sforzo letterario tenta di insufflare vita. Ma in questo modo lo prende per un pove­ raccio che ha bisogno delle storie altrui per realizzare le proprie idee; per fare questo, dice Bòli, la «materia» è lì, la si trova «per strada». E proprio lì Straub l’ha trovata, sotto for­ ma di tascabile di un famoso scrittore tedesco del dopo­ guerra. Per Straub, infatti, l’arte non è un epifenomeno. Nicht versòbnt oder Es hilft nur Gewalt, wo Gewalt herrscht (Non riconciliati ossia solo la violenza aiuta dove violenza regna) ha poco da spartire con le usuali versioni cinematografiche di romanzi, dove un presunto rispetto per l’invenzione dell’autore raramente si traduce in qualcosa di più di una scarna sinossi dell’originale letterario. Straub, francese, voleva fare un film sulla Germania di oggi. Non è stata l’impotenza artistica a spingerlo verso il romanzo di Boll, ma la convinzione che la vita di un paese più che nel­ l’architettura delle sue città o negli uomini per le strade si mostri nelle sue idee e invenzioni; che della realtà di un paese fanno parte tanto i suoi sogni quanto le sue fobie, tanto la messa al bando del Partito comunista quanto la fra­ 205

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se di Boll: «Ero gracile di aspetto, quasi piccolo, qualcosa a mezzo fra un giovane rabbino e un giovane bohémien, ne­ ro di capelli, vestito di nero, con l’aria vaga di chi viene dal­ la campagna*. Straub tratta il romanzo di Boll come un documento; il modo in cui lo utilizza ci dice in primo luogo che egli si sente non tanto l’interprete che ha compreso tutto, bensì un semplice lettóre di Boll a cui mentre procede nei testi ven­ gono in mente delle immagini; che ricorda cose congruenti con quanto Boll descrive, che si rappresenta gesti e parole descritti e che ha nell’orecchio il tono, la cadenza che po­ trebbero adattarsi a tali testi: la voce «che scandisce le paro­ le» del giovane Heinrich Fahmel quando ordina la colazione al Café Kroner, la -soave voce in cui risuona la melodia di Weide meine Lammer (Pascola i miei agnelli] di un eterno Avvento» di Johanna Fahmel o la -voce di chi ha appena ter­ minato le scuole» di Hugo. È il momento di comunicazione con l’opera che Straub cerca di rappresentare. Non pretende che ci siano un certo Fahmel o un certo Schrella esistenti al di fuori del romanzo. Non evoca i testi di Bòli da profondità personali, mostra co­ me i testi letterari hanno una realtà propria, non sono ripro­ duzioni ma possiedono un’articolazione autonoma. Il tono neutro e il ritmo serrato del parlato, che Straub si sforza di restituire, non hanno nulla a che vedere con il dilettantismo o la sciatteria. Così porta la lingua a una trasparenza che prima le conferisce il suo proprio valore, e poi trasmette la consapevolezza che le storie narrate e le immagini inventa­ te sono da intendersi come proposte soggettive e approssi­ mazioni al racconto nella sua totalità. In questo modo il film acquista la superfìcie scabra, l’a­ spetto sintetico, la struttura frammentaria già presenti nelle intenzioni dello scrittore. Fa sì che allo spettatore sia impos­ sibile smemorarsi e infilarsi dentro i personaggi della finzio­ ne. Egli non è indotto né all’identificazione né alla distanziazione rispetto a certi personaggi come accade nel roman­ zo di Bòli, personaggi che a dispetto della ben dosata auto­ 206

NICUT VERSOHNT

critica lo scrittore circonfonde dell’aura di eletti. Non può abbandonarsi alla storia, abbandono che invece il romanzo - malgrado la struttura temporale alla moda, tra i cui pre­ cursori Faulkner sicuramente avrebbe annoverato il cinema, mentre Boll probabilmente indicherebbe solo Faulkner con la sua scorrevolezza consente. Straub ha restituito a quanto ha tratto dal romanzo la sua sequenzialità cronolo­ gica. Stranamente il ritorno a questa convenzione narrativa, che generalmente è ritenuta garantire la continuità, produce un effetto che è proprio il suo contrario. È anzi essa a met­ tere in luce le fratture, precariamente colmate, fra passato e presente. Mentre Bòli in fin dei conti appare come l’onni­ potente narratore che governa il tempo, e a sua volta il pre­ sente, malgrado la frantumazione temporale, appare come l’utile prosecuzione del passato - analogamente l’adozione di Hugo, più che l’aspetto della rifondazione di un nuovo ordine, assume quello di un’incorporazione nel clan dei Fàhmel -, Straub mostra senza controllarli frammenti di pre­ sente che diventano autonomi e agiscono per virtù propria, emanando fasci di luce che investono in cgual modo passa­ to e presente. Il presente diventa più comprensibile, ma il suo essere tale non appare mai come fatale necessità. Nien­ te doveva per forza andare come poi è andato. Per rendere manifesto questo, in Straub gli inserti di realtà passata e presente, pur presentati sullo stesso piano, rimangono di­ sponibili, non integrati alla finzione. Funzionano da indizi, da materiale dimostrativo, non vengono assorbiti dalla storia. In un’altra storia potrebbero testimoniare qualcosa d’altro. Non si presentano come fos­ sero le cose stesse, bensì solo come segnali delle cose. Lo mostrano con la massima evidenza le citazioni dal passato. La retroproiezione, tutt’altro che perfetta dal punto di vista tecnico, delle macerie di un’abbazia distrutta di fronte alla quale l’abate dice che si troveranno i colpevoli, non è im­ perfetta per incapacità; in fin dei conti Straub non era obbli­ gato, per inserire la lettera del Kaiser, a ricorrere al materia­ le del cinema muto, che egli usa senza preoccuparsi che l’i207

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nizio delle righe risulti tagliato. Gli importa invece sottoli­ neare che il suo film è una struttura composita, dove le sin­ gole parti mettono in moto il pensiero in direzioni diverse. Egli evita consapevolmente che documento e narrazione confluiscano l’uno nell’altro a formare un tutto livellato, una forma artistica paga di sé. La dimensione documentaristica giova alla narrazione e viceversa. Straub ha strutturato il sonoro in sintonia con tutto que­ sto. Invece dello sterile sonoro doppiato, che esiste soltanto nel cinema tedesco, putgato da ogni elemento che possa disturbare l’effetto illusionistico, in Straub si sente realmente parlare tedesco: renano e bavarese, tedesco del Nord e del­ la Vestfalia con un’impostazione bavarese e la sua «esse for­ te- esageratamente accentuata. Quando gli attori non pro­ fessionisti sembrano incepparsi per incapacità, lo spettatore (anche se la cosa lo disturba violentemente), se ne sente toccato più direttamente che non dall’attore esercitato che mimi una dizione -corretta». A Straub non interessa la dizio­ ne anonima, frutto di esercizio, che innumerevoli altri film ci hanno inculcato come l’unica «naturale» e adeguata a cer­ te situazioni e a certi personaggi. Voleva dicitori per il testo di Bòli, e non interpreti che con voce impostata e toni per­ suasivi manipolassero emotivamente il pubblico. Preferiva l’inflessione spontanea delle voci al modello di dizione imi­ tato, perché gli stava a cuore in primo luogo di far capire allo spettatore come qui era anche la sua storia a venire esposta. Non doveva rimanere alcuna possibilità per lui di installarsi senza farsi coinvolgere entro una storia in sé con­ chiusa di personaggi inventati da cima a fondo. La presenza fisica di oggetti, voci grezze e gesti nel film lega alla realtà il romanzo di Boll più saldamente di quanto mai avrebbe po­ tuto fare la letteratura, e gli conferisce una dimensione in più che giustifica pienamente l’impresa di Straub. A confutazione della critica che accetta la parte visiva del film, ma non gli riconosce un uso consapevole del sonoro, va affermato che ambedue gli aspetti sono costruiti come complementari. Così Straub, per la scena fra Nettlinger e 208

NICHT VERSOHNT

Schrella, non cerca di ricostruire la sala da pranzo di un al­ bergo con la maggior veridicità possibile. Si limita a sugge­ rire il décor. Si avverte chiaramente che la cinepresa inqua­ dra questo tavolo nell’angolo, perché tutt’attorno non ci so­ no affatto altri ospiti. Ma ciò non pregiudica minimamente la rappresentazione. Il senso di disagio da cui è colto lo spettatore davanti a questa conversazione disturbante e as­ surda si trasforma nella consapevolezza che non c’è pace fra gli antagonisti del passato, ma un armistizio colmo di odio. E davanti all’apolide Schrella che se ne sta seduto rigi­ do e immobile, ci si sente improvvisamente tedeschi, ci si sente Nettlinger. La credibilità e l’intrinseca necessità di un film come questo non dipende dalle costellazioni finemente elaborate di personaggi e situazioni del romanzo di Boll, ma da come lo spettatore si colloca nei loro confronti, dalla sua capacità di reazione e dalla sua sensibilità e soprattutto dalla sua di­ sponibilità a rispondere a determinati segni. In nessuna del­ le descrizioni che Boll tratteggia della famiglia Fahmel il le­ game fra spirito di clan e disperato isolamento si esprime con tanta concisione ed efficacia come nella inquadratura di Nicht versòbnt in cui si vedono il nonno e il figlio salire in automobile e chiudere le portiere uno dopo l’altro, dopo che si sono conosciute, separatamente, le loro storie sepa­ rate. Sarebbe sbagliato e non corrisponderebbe sicuramente alle intenzioni di Straub dire che nel pavimento della hall dell’albergo, che si vede chiaramente dietro Nettlinger quando questi chiede con fare brusco del direttore, si possa indovinare il segno -SS*. Ma un’altra storia che si svolgesse in questo medesimo luogo non scatenerebbe associazioni di questo genere. Così come il camino che si scorge nella scena della stazione fra padre e figlio non rimanda certo a un campo di concentramento, pure nell’ambito di questa particolare conversazione produce l’effetto di una latente minaccia; orienta il pensiero e fa capire meglio quanto la guerra ha potuto allontanare questi due uomini, e quanto ha atrofizzato la capacità di comunicare del più giovane. 209

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Sorprende che Straub lesini su tutto ciò cui generalmen­ te viene lasciato amplissimo spazio, mentre il centro del film è occupato da apparenti aspetti secondari. I grandi eventi vengono rappresentati solo in modo mediato, per lo più raccontati. Direttamente viene mostrata la vita che li precede o che a essi è seguita. Il gesto violento della vec­ chia Johanna Fàhmel, alla fine del film, Straub lo mostra co­ me lo sparo di avvertimento che deve essere per lo spetta­ tore. Possibili riflessioni morali non vengono dibattute. Nel­ la scelta delle scene e nella conduzione dei dialoghi appare chiaro come il concetto di arte di Straub sia diametralmente opposto a quello di Bòli. Straub non usa frammenti di realtà per imbastire una rappresentazione credibile della realtà stessa. Non fa prima esperienze per poi comporle in una ri­ costruzione convincente e persuasiva. Si serve della finzio­ ne per tornare continuamente alla realtà, della quale sente improvvisamente di poter essere corresponsabile; e ci si vergogna quasi del fatto che leggendo il romanzo di Bòli si provava la sensazione di essere legittimati a volgere uno sguardo critico sulla Germania, senza sentirsi toccati in pri­ ma persona come tedeschi. Non si raccomanderà mai abba­ stanza di riprendere in mano il libro di Boll dopo aver visto il film. Non perché sia necessario a comprendere il film di Straub, che non è concepito perché ogni singola parola, ogni personaggio vengano collocati nel contesto del rac­ conto. Il libro di Boll andrebbe letto perché attraverso il film di Straub si è modificato. Fa l’effetto di essere più nudo e più grave, perché solo ora, dopo quell’ultimo movimento di macchina, è diventato per sempre un indice puntato ver­ so la Germania.

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Abbagliati dal nero Professione: reporter di Michelangelo Antonioni

(1975) Il film è preceduto dalla fama della sua ultima scena, del suo virtuosismo tecnico. Una inquadratura lunga ben sette minuti attraverso una finestra d’albergo munita di inferriata mostra una plaza quasi vuota antistante un’arena, la cui curvatura occupa a tal punto lo sfondo da apparire anche dàll’esterno come uno spazio in sé conchiuso, fino a quan­ do la cinepresa compie un lento movimento verso l’alto e si scorge il cielo sopra l’antico edificio che all’improvviso fa l’effetto di una rovina crivellata di buchi o di un fondale in un quadro di De Chirico. In virtù del movimento si dimenti­ ca per un attimo l’inferriata. Soffermarsi sulla durata dell’in­ quadratura (sette minuti) sarebbe come mettersi a rimisura­ re i meandri delle colonne barocche nella cappella di Mo­ naco o le linee sinuose del tetto della Casa Mila di Gaudi e accertare dove iniziano e finiscono. Monaco e Barcellona sono i luoghi dove si svolge l’azione e dove è stato girato il film; ma anche Londra, questa volta non con il Big Ben, ma con il Bloomsbury Center. Edifici come contrassegni parti­ colari sul passaporto delle città, indizi per identificarle. La loro scelta mostra concordanze. Coglierle nelle loro linee con un solo sguardo è diffìcile. L’occhio ha bisogno di tem­ po per seguire i contorni che definiscono le loro forme. Per l’uomo sul letto nella stanza d’albergo la piazza anti­ stante l’arena è l’ultima scenografìa della sua vita. Egli esce di scena. In realtà avrebbe voluto andare ancora a Tangeri, ma era senza dubbio solo una scappatoia. Rimane attaccato a un capo, a una estremità d’Europa. Tutto era cominciato nel deserto, nel Ciad, dove la diversità delle forme, la loro 211

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sterminatezza, si sottraevano alla possibilità di essere resti­ tuite, rese. Il suo reportage suli’Africa riluttava a comporsi. Uno stregone nero, uno dei suoi intervistati, l’aveva dissua­ so completamente dal suo progetto spiegandogli come fun­ ziona il linguaggio, e in definitiva il suo mestiere: «lingua umana crea una comunicazione, in cui remittente riceve dal ricevente il suo proprio messaggio in forma rovesciata». Da quel momento è il bianco ad apparire nell’immagine, come centro costantemente dislocato della storia che egli voleva costruire sugli altri, un reportage obiettivo per la televisio­ ne, ma sempre analogo, pur nella sua diversità, al mondo delle proprie rappresentazioni. All’inizio sembra quasi un film muto. Nel deserto africano, in cui il reporter cerca di stabilire contatti con la guerriglia, il tentativo di intendersi per mezzo di brandelli di lingue europee naufraga comple­ tamente. Anche lo spartire le sigarette non lo porta lontano. I neri non intendono il gesto come una prestazione cui debba corrispondere una controprestazione. Sembra vigere un’altra economia, un’altra circolazione. Non il costante scambiare una cosa con l’altra, come nei sistemi occidentali. Contro la ieratica impenetrabilità nera tutto sembra rimbal­ zare. Significativamente la cosa riguarda anche il mercato delle immagini, delle riprese, mercato che crolla davanti al­ la nudità del deserto, che si sottrae alla possibilità di essere ritratto. L’unico bianco in cui si imbatte è un mercante d’ar­ mi. Quando questi muore, gli si presenta l'opportunità di li­ berarsi della sua vecchia identità. Ancora un baratto. In questo film i bianchi, che si tratti di mercanti d’armi o me­ diatori di notizie, sono i trafficanti, i galoppini del potere. La storia in cui il reporter s’imbarca dopo che il suo pro­ getto di reportage è fallito ovviamente non può diventare totalmente la sua. E gli sarà fatale. Muore di questa storia. Ma è un tentativo suicida di sganciarsi dall’eterno traffico delle immagini e di dare alla vita, anche alla propria, una consistenza. Al tempo stesso per il film, per Antonioni, il re­ portage non realizzabile rimane la realtà rimossa, senza la quale la storia non sarebbe pensabile, il suo reale sostrato. 212

Ciò traspare in maniera particolare nella sequenza fatta di immagini autentiche, girate prima dell’esecuzione di un combattente per l’indipendenza. Qui la realizzazione è più patetica e brutale che in qualsiasi western all’italiana. Ma si avverte come esista segno e segno, immagine e immagine. L’intensità, la concretezza che ci tocca discende dalla com­ binazione di due diverse catene iconiche. Mai Antonioni, neanche dove faceva dipingere intere schiere di case, è stato manifestamente più artificioso che in questo film. Si ha l’impressione che certe immagini si pre­ sentino con un’aura, evidenziate tutt’attorno da uno spesso tratto come per dire: io sto per qualcos’altro, io rappresen­ to. In questo modo il rapporto che usualmente si produce nella narrazione fìlmica, dal segno fìlmico alla realtà, si ri­ balta qui in maniera irritante. I segni sono tanto più adegua­ ti alla realtà quanto meno danno a intendere di essere reali. Il rovesciamento delle formule dei film d’azione contri­ buisce senz’altro. Jack Nicholson, il reporter, assomiglia tan­ to poco ai suoi modelli, i duri dei film di Fuller o di Wilder, quanto Belmondo in À bout de souffle a Humphrey Bogart. Che qualcuno scompaia e il vuoto che lascia dietro di sé di­ venti la scia che risucchia la storia, Antonioni l’aveva già sperimentato in L’avventura. Ora lo scomparso è costantemente in scena quale testimone delle azioni che la sua scomparsa mette in moto. Si tratta delle azioni più antiche che il cinema conosca: cacce e inseguimenti. Ma si tratta di movimenti dilatati, aberrazioni, scomposizioni ottiche. La dilazione fra due morti. Il film si disgrega nelle sue singole componenti, si disin­ tegra. È pertanto assurdo rintracciare paralleli tra lo stato mentale dei personaggi e il mondo circostante tradotto in immagine, come si è sempre cercato di fare con i primi film di Antonioni. La separazione fra un contenuto essenziale e una forma inessenziale non è più possibile. Il fuori non si comporta in maniera paradigmatica rispetto al dentro. Gli specifici segni filmici un tempo subordinati alla storia, al protagonista, acquistano una autonomia sterminata. La ten­ sione del film scaturisce da altre fonti rispetto a quelle della 213

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SCRITTI DI CINEMA 1961 2000

suspense narrativa. La comunanza di tratti, di peculiarità, viene utilizzata per operare la fusione delle cose. Le analo­ gie fanno scattare quel gioco di spostamenti e traslazioni propri del lavoro onirico: due uomini, che si scambiano identità e trovano la morte quasi nella stessa identica posa, due donne e le rappresentazioni che esse si fanno dello stesso, identico uomo, stanze d’albergo che si assomigliano, due ragazze deH’Avis-Rent-a-Car, ugualmente vestite di ros­ so, sorridenti allo stesso modo, sia che noleggino automo­ bili a Barcellona o sia Monaco. Ciò produce un’oscillazione, un tremolio, una perdita dei contorni, tutto si scolorisce. Bianco su bianco, come lo schema di un modello che appa­ re sulla parete bianca di una stanza, come un pezzo di cal­ ce che si sbriciola. E poi tutta la polvere verso la fine del viaggio e del film, prima della morte di fronte all’arena. An­ che i neri a un primo sguardo si assomigliano tutti allo stes­ so modo; non si riesce a distinguere i ribelli dai fedeli al go­ verno, dai colonizzati. Fino a quando non ci si accorge che ciò non ha alcuna importanza, che si tratta di qualcosa di generalizzato. Che il colore nero, ovunque compaia, comin­ cia a dominare. Nel film si scontrano due sistemi cromatici. Il primo è quello tecnologico, artificiale, intercambiabile dei film hollywoodiani che ha preso il posto del vecchio bianco e nero. Esso collide con l’altro, che si oppone alla rappre­ sentazione. E che non è più lì per rendere più colorita e vi­ va la storia. In L’eclisse Monica Vitti si dipingeva di nero il volto e con trofei di safari si trasformava in una danzatrice voodoo. In questo film è in gioco l’autentico cromatico. 11 nero si fa problema. Il nero non è un attributo, un qualcosa di ag­ giunto, un colore da cui si possa astrarre senza modificare la storia del film. Il colore diventa autonomo. Pelle. Dismet­ te la sua funzione di servizio, e al contempo disinnesca il processo di surrogazione che governa il nostro sistema estetico. Esso è il residuo irriducibile, ciò che non è sussumibile. Un’espressione astratta, incolore, lascia il posto a un’espressione iconica concreta.

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Il prezzo dei premi The Lusty Men di Nicholas Ray

(1983) Il tipico cinema americano anni Cinquanta: documento e intrattenimento. La formula l’ha trovata lo stesso Ray per i propri film. Questo film sui cowboy campioni di rodeo ri­ mane, a trent’anni di distanza, l’uno e l’altro. Nel frattempo pesi e prospettive si sono ovviamente spostati. Ray non è un regista qualunque nella storia del cinema. Per due gene­ razioni di cineasti egli è stato un modello, un maestro, un padre. Fotografato in bianco e nero da Lee Garmes, il ca­ meraman dei film di Sternberg con Marlene, oggi The Lusty Men Ul temerario) fa l’effetto del principio della fine: fabbri­ ca dei sogni e sogno americano si sono dissolti l’uno nell’al­ tro in una dissolvenza incrociata. Il finale è terribile: i cowboy battuti escono dall’arena in­ sieme alle loro fidanzate sotto una gigantesca insegna indi­ cante l’uscita. Si è ancora commossi per la morte di un pro­ tagonista, ed ecco che sui volti di coloro che andranno avanti si stampa lo stereotipato, credulo, largo sorriso dell’happy end. Il tema di Ray non è soltanto l’assurdità dell’esistere, bensì la sua versione americana, il tran tran, la routine, l’automatismo. Destini individuali in rapporto con la vita collettiva. Tre protagonisti, due uomini e una donna, ma certo non semplicemente sullo sfondo del rodeo. Tutto si allinea piattamente sullo stesso piano. L'arena con le sue leggi, la gara, i soldi guadagnati in fretta, la grande folla che assiste passiva si impongono subito come una rappre­ sentazione generica, non come riproduzione di una realtà. Lo svolgimento nelle arene del rituale sempre uguale, gli 215

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uomini che cavalcano cavalli selvaggi e tori e catturano vi­ telli a tempo di record, tutto ciò non ha il ritmo degli spet­ tacoli all’aperto, bensì quello della catena di montaggio. I due uomini vogliono la stessa casa, la stessa donna. La stessa vita? Perfino la saggezza che sopraggiunge dopo il di­ sastro si ripete. Realtà cinematografica. Quando la luce nel film è blanda, è difficile dire se è l’alba o il tramonto. Quan­ do è forte ed esageratamente chiara, allora è la luce dei ri­ flettori che non fa differenza fra giorno e notte. Con il bian­ co e nero Ray opera smorzando e astraendo come più tardi farà con il colore. Il vestitino nero di Susan Hayward quan­ do si reca al party dei cowboy è fuori posto e carico di si­ gnificato come il vestito bianco di Joan Crawford in Johnny Guitar. Noi abbiamo scoperto l’autore Ray con gli occhi dei regi­ sti della nouvelle vague, prima nei loro saggi critici, poi nei loro film: ma certo, da lì ha preso Godard, da lì viene l’uso di insegne e scritte, lì ha visto come la realtà non si trasfor­ mi in immagine, bensì si contragga in segno. Ray era il loro campione. Con lui si ha la dimostrazione delle loro teorie della realizzazione specificamente fìlmica, che liberata dalle pastoie naturalistiche europee trasmette movimento, azione endogena in termini visuali. In lui i registi nouvelle vague indicano che cosa sia arte nei prodotti di massa usciti da Hollywood. L’esempio da loro additato era ben scelto. Ray faceva ci­ nema hollywoodiano ma prendendo le distanze. Usava per esempio i generi solo come citazioni, mai come forma da realizzare in quanto tale o da rinnovare variandola. E a Hol­ lywood Ray era un ribelle, il regista come figura tragica. Ray reagiva spesso bruscamente ai suoi ammiratori francesi. Trovava che nei suoi film ponessero eccessivamente l’ac­ cento sulle questioni formali e trascurassero il suo dissidio con la società americana.

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THE LUSTY MEN

Vanitosi, fastidiosi, bramosi Wim Wenders, la seconda generazione, ha avuto vita più facile: la pop-art ha nel frattempo modificato lo sguardo che si posa sui prodotti dei mass-media. Le forme avevano già fatto breccia. Alla ricerca di un padre cinematografico, Wenders riprese anche il suo tema principale, la ricerca del paradiso perduto a cui gli uomini che fanno fatica a diven­ tare adulti credono di aver rinunciato. Nel quadro della politica di riassetto rooseveltiano verso la fine degli anni Trenta, Nicholas Ray raccolse per la Li­ brary of Congress documenti di arte popolare orale, ballate, songs. Imparò a conoscere la povertà delle regioni rurali e la molto americana risposta ad essa, il vagabondare, l’anda­ re alla deriva nella vaga speranza di impiantarsi da qualche parte nell’immenso paese. Molti dei suoi film sono in rap­ porto diretto con le sue esperienze all’epoca. Il cantante e raccoglitore di folksongs Burl Ives, la cui autobiografia ap­ parsa nel 1948 si intitolava «The Wayfaring Strangers», è il protagonista in Wind Across the Everglades (Il paradiso dei barbari) di Ray, e il film su Jesse James doveva mostrare come nell’arte popolare il confine fra vita e invenzione ten­ da a essere fluido, giacché le ballate che celebravano que­ sto eroe popolare nacquero mentre egli era ancora in vita. In The Lusty Men il fedele amico di Robert Mitchum, il vec­ chio venditore di biglietti Davis, è un’antologia ambulante, l’incarnazione della tradizione narrativa popolare. A paga­ mento mostra la gamba che un toro gli ha massacrato. Gli uomini che esibiscono nell’arena la loro abilità, abi­ lità che un tempo era un lavoro, non trovano alcun rappor­ to con il denaro che guadagnano in quel modo. Con quei premi non si possono pagare ciò che vogliono avere. Il de­ naro che dovrebbe aiutarli a comprarsi una casa non è il vero motivo del toro vagabondare. Sembra non esistere an­ cora alcuna strada tra uomo e donna e alcuna prospettiva di armonizzare i desideri e le esigenze dell’uno con quelle dell’altro. Si preannuncia minaccioso quell'irrigidimento dei 217

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fronti che il movimento di liberazione della donna avrebbe portato con sé negli anni seguenti. La donna, interpretata da Susan Hayward, è aggressiva e troppo cittadina. Interessava Ray unicamente come figura femminile contesa dai suoi due uomini. Gli uomini, Mit­ chum e Kennedy, dovettero imparare a cavalcare cavalli e tori per apparire credibili. Susan Hayward non ha imparato a maneggiare nel modo giusto uno spazzolone o a cuocere uno stufato. Non ha che da guardare con aria di superiorità gli uomini con la loro infantile smania di giocare e compe­ tere e la loro voglia di essere osannati. Un ruolo niente af­ fatto bello. Gli uomini, che estraniano il loro lavoro in spettacolo, show, si procurano in questo modo anche una nuova forma di solitudine, così come le strade americane si creano i pro­ pri barboni e il fare soldi ha dato altri volti al successo e al fallimento. Alla fine Mitchum - del tutto irragionevolmente, solo per reagire a un’offesa - si precipita ancora una volta nell’are­ na. -Eroismo assurdo- scrisse al riguardo Eric Rohmer nel 1956. Ma questa è una visione unilaterale. Mitchum si serve dell’arena per pareggiare un conto personale, così che al­ meno la morte non sia un incidente, bensì la sua propria morte. Con l’aiuto di Wenders, Ray ha fatto qualcosa di si­ mile.

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Sabbia negli occhi Forty Guns di Samuel Fuller (1984) Il cinemascope, fa dire Godard a Fritz Lang in Le Mépris (Il disprezzo), va bene per i funerali e i serpenti a sonagli. È il marchio che caratterizza il cinema anni Cinquanta. E certo non solo una manovra strategica dell’industria cinematogra­ fica contro il piccolo schermo, che si andava diffondendo a rapidità vertiginosa. In Fuller e altri importanti registi dell’e­ poca, come Nicholas Ray, l’orizzontalità impronta l’immagi­ ne. Apre il vecchio spazio che era ancora orientato nel sen­ so della scena, visto che si girava negli studios. Diventa li­ nea di fuga in cui vanno smarriti azione e caratteri. In que­ sto film Fuller riesce persino a trasferire una spirale in oriz­ zontale, trasforma l’interno della canna di un fucile puntato in cannocchiale. I cambiamenti di cui parlano questi film sono strettamente correlati con le nuove dimensioni dell’immagine. So­ lo per il fatto che lo schermo adesso appare come un para­ brezza lo spettatore ha una diversa percezione del movi­ mento al cinema. L’eroe dei western di Fuller non cavalca mai un ronzino. Attraversa la regione guidando in posizio­ ne pressoché fetale un carro. Fa precedere i titoli di testa da una coorte di cavalieri schierati in duplice fila, guidati da una donna su un cavallo bianco. La polvere che essi sollevano offusca l’immagine anche per lo spettatore. Un primo indizio che per il film il senso della vista non sarà prioritario e che non ci si deve di­ sporre al puro guardare. Nel corso della proiezione com­ paiono altre inquadrature offuscate, sfocate, deformate, mo­ tivate da cause come miopia, ma anche amore e odio che 219

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rendono confusa la percezione. Nel linguaggio cinemato­ grafico tali inquadrature vengono definite soggettive, cosa che in Fuller, più che altrove, è puro controsenso. In un film non si tratta di assumere il punto di vista di un perso­ naggio. Lo schermo è l’occhio. Il regista mira direttamente al pubblico. In un improbabile primo piano gli occhi di Barry Sulli­ van, simili a quelli di un insetto, vengono a trovarsi ciascu­ no a una delle due estremità dello schermo, che appare co­ me la fenditura di un carrarmato. Questa non può essere la prospettiva della vittima in preda alla paura verso cui questi occhi si dirigono; sono ancora lontani dal villaggio, a mezza strada. Sono un paio d’occhi slogati, un frammento corpo­ reo distaccato dal tutto, come, nell’inquadratura precedente, gambe isolate dal resto che si stanno avvicinando. Questo showdown, all’inizio del film, invece che con una sparato­ ria, finisce, contrariamente alle regole, con un colpo infetto dal calcio del fucile.

A caratteri cubitali Fuller ama spingere all’eccesso, caricare, evidenziare ogni tratto con grosse sottolineature. È impressionante per­ ché nel fare questo non si risparmia mai, si fa sempre coin­ volgere. Filma senza copertura. Solo così si spiega come mai da tutta questa ricerca degli effetti, da tutta questa artifi­ ciosità delle immagini e dei testi scaturisca un tale senso di immediatezza. Questa è art brut, ha scritto di lui un pittore americano. Fuller afferma di utilizzare nei suoi film solo materiale da prima pagina e rinvia così al proprio apprendistato, al perio­ do in cui girava l’America scrivendo di cronaca nera per tut­ te le possibili testate. E ciò che fa con i suoi film è proprio giornalismo con le immagini. Non si tratta solo del fatto che nei suoi film continuano ad apparire scritte. Le stesse imma­ gini sono come un linguaggio riprodotto tipograficamente, 220

FORTY GUNS

stampato. Come qualcosa che si contrae e si concentra in un’immagine-testo che in definitiva esige di essere letta. Con sequenze lunghissime, con dissolvenze incrociate, con motivi musicali inseriti per sottolineare e disvelare il signifi­ cato del soggetto, egli ci fa capire come si debbano decifra­ re le sue intenzioni da tutto quanto si vede sullo schermo. Non ha alcuna intenzione di fare del realismo, niente a che fare con la cinepresa all’altezza dell’occhio e la sua presunta prospettiva naturale, «a misura d’uomo», che produrrebbe un’immagine il più possibile trasparente dell’azione. Del\'action in lui resta solo ciò che già Laurei e Hardy avevano fatto di questo feticcio americano: l’esplosione del disastro. Con il genere, il western, succede qui la stessa cosa. Quando il film è finito, è solo una forma saccheggiata, stra­ pazzata, sfruttata all’esaurimento, investita da un tornado che spazza via e sradica ogni cosa, da cui anche Barbara Stanwyck e Barry Sullivan devono mettersi in salvo stri­ sciando sul terreno. Fuller distrugge le forme per liberare movimento, emozioni. La violenza, potenziata dal cinema, assurge a violenza della natura. I cataclismi che scoppiano sono gigantesche punizioni purificatrici per crimini compiuti da un intero paese. Per mostrare la decadenza americana dei valori, non gli viene in mente niente di più impressionante che il capovolgimen­ to dell’usuale struttura di potere. È una donna che piega la legge, che domina il paese, l'intera Arizona, terra desolata. Barbara Stanwyck, il tesorino biondo del noir di Billy Wilder Double Indemnity (La fiamma del peccato}, invec­ chiata, gli occhi che fanno l’effetto di prendere la tangente per un primo colpo apoplettico, è più forte di tutti gli uomi­ ni perché il magnetismo erotico potenzia ulteriormente la sua forza. Quando alla fine insegue ancora il suo killer al servizio del governo, il pubblico in sala di solito si scatena. I due tagliano insieme la corda, ma all’orizzonte non si pro­ fila alcuna schiarita. A questo proposito il film, nella sua primitiva rudezza, non lascia alcun dubbio: entrambi sono vecchi e kaputt. 221

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Il film è una sorta di storia negativa della creazione, una genesi distopica, il mito di una decadenza. Il filosofo Gilles Deleuze, nella sua teoria del cinema recentemente apparsa, afferma che il cinema americano per lungo tempo non ha fatto che girare in molteplici varianti un unico film, la nasci­ ta di una nazione e di una civiltà. Con Fuller tutto questo fi­ nisce. Forty Guns è una pietra miliare.

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Assiderata Sans toi ni loi, il nuovo film di Agnès Varda

(1986) La Provenza, la sua luce in inverno, ha il colore della la­ vanda. Ma non come nei quadri di Bonnard. In quelli vibra il sole. Le inquadrature di Agnès Varda invece tintinnano per il gelo e sono in Fujicolor. Un violaceo tendente al bor­ deaux si spande tutt’attomo, ebbro di vino come i mostri che usciti da un carnevale dionisiaco danno il colpo di gra­ zia alla giovane barbona Monà. Monà è una vagabonda. Fa turismo gratis. La regione che solca a passi energici è un pezzo di entroterra della Co­ sta Azzurra. La sua casa se la porta sulle spalle, una tenda di tipo mimetico che assomiglia ai tronchi dei platani che svol­ gono un ruolo importante nel film. Monà è morta all’inizio del film, immersa nel vino e assi­ derata. Poco dopo risorge dal mare. Con un procedimento a ritroso il film insegue, componendole come in un caleido­ scopio, le tracce che la sua breve vita ha lasciato dietro di sé. Un brano di spiaggia uniformemente ondulata per fazio­ ne del vento invernale, che ritagliato dall’inquadratura asso­ miglia a un pezzo di deserto o a un curatissimo giardino zen. Una nature morte. È una delle immagini-lemmi del les­ sico di Varda. Quadri viventi che non sono al servizio del­ l’azione. In essi il soggetto si concentra in pura presenza fi­ gurativa, si isola trasformandosi in cifra, freezedframe, foto­ gramma. Varda si distingue qui dai suoi coetanei della nou­ velle vague: da sempre i suoi film hanno un’impostazione fotografica di fondo e una spinta volontaristica ad afferrare e fissare le cose nell’attimo. 223

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Il gelo è fotografato in un modo che lo sentiamo nelle narici. Le immagini, dopo essersi rese indipendenti dall’a­ neddoto, dischiudono e affilano altri sensi.

Di morte naturale Il film continua e Mona si lascia andare e si abbrutisce sempre più. È un declino a ritmo accelerato. La nostra com­ passione viene tenuta a freno attraverso ostacoli cinemato­ grafici e narrativi. La sporcizia nella dimora degli extraco­ munitari marocchini, per esempio, in cui lei per breve tem­ po trova rifugio, è una cosa a sé, non è lì come indizio di condizioni di sfruttamento e lavoro indegne. La sporcizia è un altro modo di vivere, diverso dal nostro con il suo asetti­ co contesto vitale. Che si esprime in un sublime gesto di Assonna - Assouna è il tunisino che si prende cura di lei, la ospita, le fa da mangiare, le mostra come si potano le viti quando questi, dopo che lei se ne è andata, si porta alla bocca il suo scialle e vi affonda il naso. Un gesto che lega odore e sentimento. La putrefazione, ha detto un uomo celebre in una sua frase celebre, tanto nella storia quanto nella natura è il la­ boratorio della vita. A essere maggiormente attratta e respinta da Mona è una professoressa che la fa salire in macchina, una bioioga spe­ cializzata nella ricerca di un virus del platano portato con sé dagli americani nel 1945 che minaccia gravemente la so­ pravvivenza dei platani nella Provenza. Nel personaggio della platanologa è Varda stessa che implicitamente si mette in gioco. Altrimenti si tiene con accentuati movimenti di macchina a rigorosa distanza, mantenendo il distacco dalla protagoni­ sta. Mona e i movimenti della macchina rimangono due co­ se ben distinte. Per mostrare come Monà vede il mondo e non come lei, la regista, lo interpreta. Questo lo fanno gli altri, quelli che l’hanno vista. Nel modo più intollerabile un 224

$AN$ TO/ NI LOt

filologo, che dopo il *68 dalla politica è passato all’ecologia. Tutto il film, ha affermato Varda, non è che un unico travel­ ling, sminuzzato, scomposto con le azioni inserite nelle la­ cune. Un unico falso movimento, con il quale viene creato un senso temporale che non segue automaticamente lo svolgimento del film. E inoltre corrisponde a Mona: non­ azione, no action. Mona è la protagonista del film, ma non è la cosa princi­ pale. Come nel film di Varda Le bonheur (Il verde prato del­ l'amore) l’oggetto del film era la descrizione, a prescindere da riflessioni psicologiche o morali, del concetto di felicità, qui il tema è la solitudine, un fortissimo bisogno di indipen­ denza che respinge gli altri, una libertà di movimento senza scrupoli, la brutalità dell’essere soli. Una giovane ragazza che non vuole contatti, che quasi non si serve del linguag­ gio, che non si interessa di nulla, che non vuole nulla. Che non ci si deve immaginare vittima degli altri. Che vaga sen­ za meta, fino a quando muore.

Monà è più un sintomo che un individuo. La surreale lu­ ce invernale mostra una Provenza sepolta sotto i detriti del turismo estivo. Le discariche dell’epoca della plastica hanno sfigurato il paesaggio originario. Appare americanizzata con i suoi dropouts che fumano hashish accampati in case disa­ bitate (per definirli i francesi usano il termine americano squatters), circondati da una musica ad altissimo volume, per lo più americana, che trancia ogni parola. La giovane cameriera con i suoi stracci colorati sintetici sembra più ca­ liforniana che mediterranea, se paragonata con l’Angèle di Pagnol, con la Jenny Helia di Renoir, in Toni - se è consen­ tito qui un personale flashback. Il sudario di Monà è un involucro di plastica, pratico, con la lampo e i buchi per l’aria. Ciò vale per gli oggetti davanti alla cinepresa. A questi si aggiunge lo sguardo sintetico di Varda, quando le sue im­ magini fotografiche si sovrappongono a quelle dipinte, che 225

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in precedenza componevano l’immagine che ci eravamo formati di questo paesaggio, in cui per quasi un secolo il nostro contemplare e vedere aveva affondato le proprie ra­ dici. Cézanne, Renoir, Van Gogh, Matisse, Braque. L’oggettivismo descrittivo di Varda è behaviorismo che conduce a immagini che assomigliano alle fotografie di Les Krims, o ai lunghi racconti cinematografici che Cindy Sher­ man con una sola posa, un solo vestito, narra in una sola foto. Fa la sua comparsa nel cinema un lato inusuale delta finzione quando Varda fa parlare i suoi attori non professio­ nisti nel loro proprio ambiente, e per mezzo del personag­ gio inventato della vagabonda cristallizza fantasie reali. Le immagini coniugano, in maniera sconcertante, un’ag­ gressiva artificiosità con un profondo senso della natura. Il ciclo delle stagioni, ha detto una volta Varda, ha qualcosa di pacificante e tuttavia è al contempo profondamente crudele. Il film non è la storia di un caso da criminologi, lo sguardo che getta al passato non è un flashback, le sue in­ dagini non hanno nulla a che vedere con quelle di un de­ tective, le testimonianze sono particolarmente false perché sono recitate da dilettanti. Iniziare con la morte della ragaz­ za è una strategia che non spiega nessuna morte, che ha di mira una isolata tranche de vie.

Quando i film hanno la forma del puzzle, è sempre in gioco il tempo. Diversamente che in Citizen Kane (Quarto potere) di Welles qui i testimoni parlano alla regista, dentro la cinepresa e con lo sguardo rivolto a noi. Attraverso lo sguardo veniamo coinvolti nella storia. Ciò che si viene componendo nelle testimonianze fortemente soggettive non è il ritratto di Monà - lei ormai è lontanissima, già morta. Monà continua ad andare, dopo essere inciampata nella propria tomba. Nei travellings la sua andatura si fa più auto­ noma. Il movimento si concretizza in modo più diretto che in tutti i film on-the-road,- nei western o nei film a base di corse automobilistiche. Agnès Varda ha una perversa capa226

SANS TOI NI LOI

cità di immobilizzare il tempo che scorre nelle sue immagi­ ni, e che si accumula in esse come in cisterne. Una piccola, seria ragazza paffutella, una vecchia cui piace la grappa e fra loro due le diverse età delle donne e il loro specifico modo di essere sole. Una serie di ritratti del­ l’essere donna. Il tempo viene decronologizzato, non più una linea continua dalla culla alla morte, ma un tempo cicli­ co. Così finisce per apparire quasi astratto. Condensato a ogni modo, in una zona ristretta, in una quotidianità assai lontana da drammi. Il film è dedicato a Nathalie Sarraute.

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Le tre «effe» della casalinga ebrea Histoires d'Amérique, il nuovo film di Chantal Akerman

(1990) Le voci, per quanto alcune impacciate nell’articolare i suoni americani, sono una delizia a sentirsi. Sono la colon­ na portante del film e cullano lo spettatore con il ritmo del­ le onde che giocano ai piedi del Williamsburg Bridge come riflessi sulle pareti domestiche di Brooklyn. La luce nel grembo della tiepida notte estiva è calda e accogliente. E solo alla fine del film - con il giorno il senso di essere al ri­ paro svanisce - l’ambiente appare nella sua desolazione. Era, su un terreno vacillante, un luogo dove rimanere solo in virtù dell’illuminazione e dei suoni. Le storie, cui prestano voce attori ebrei che parlano ri­ volgendosi alla cinepresa, fluiscono e avvincono come un racconto. Vengono interrotte e staccate da sketch in forma di dialogo, che al cinema, com’è noto, sono diventate gag. Come quella della porta girevole in movimento a ritmo ver­ tiginoso, un buttafuori meccanico, al cui ritmo americano appunto si ispirò Chaplin in The Cure (La cura'). L’affinità, la parentela fra storie e scenette, lo spirito che le anima e determina il loro costrutto sghembo, è inconfondibile. Per Chantal Akerman il progetto iniziò anni fa con l’in­ tenzione di filmare dei racconti di Isaac Bashevis Singer. Si modificò quando la regista cominciò a elaborare storie in­ viate da emigranti ebrei a giornali di New York. I ricordi rie­ vocati, e non solo i ricordi, ma anche le storie inventate, dovevano avere un carattere collettivo. Nel corso della realizzazione del film, raccontò Aker­ man, gli sketch, le storielle spiritose, premevano sempre più per venire in primo piano, togliendo la parola alle sto­ 228

histoires d'amérique

rie prolisse. E quello che ne risulta è il nonsenso come chance per il nuovo di nascere, come incarnazione della voglia di vivere ebraica. Coniuga ricordi terribili e futuro. Il lato più comico delle storielle spiritose di Chantal è che so­ no arcinote. Routines è l’espressione americana in termini di scenotecnica.

Il divieto biblico di utilizzare immagini, cui i racconti ebraici devono tanta della loro vivacità e immediatezza, in questo film si è associato con il rifiuto da parte di Chantal Akerman di fare del cinema narrativo commerciale. Già nei film precedenti la regista aveva separato immagini e suoni per una più intensa sperimentazione di entrambi, affinché si avverta quanto manca alle immagini cinematografiche convenzionali. Allo spettatore viene negato ciò che è abituato a vedere, e deve invece confrontarsi con lacune e lungaggini. Aker­ man non ha mai fatto mistero riguardo a chi parla dai suoi film e da quale punto di vista essi vengono guardati. In questo film la parola rientra nel corpo, quale miglior serba­ toio per i ricordi. Si sentono gli emigranti deplorare la perdita di ciò cui hanno dovuto rinunciare per riuscire in America, le donne costrette a girare con le maniche corte, gli uomini costretti a tagliarsi la barba e i lunghi riccioli ai lati del viso. Ma che cosa è mai questo rispetto alla negazione della propria identità da parte di coloro che hanno fatto grande il cinema di Hollywood? Mayer, Goldwyn, Thalberg, Zukor e Stroheim e Lubitsch e Sternberg, tutti costoro hanno misco­ nosciuto la Legge delle leggi. L’industria delle immagini che ha contribuito al trionfo del visivo, che ha creato in tutto il mondo una instant-cul­ ture - abolendo al contempo l’autore - pagava i propri splendori e le sue perfette illusioni con perdite sempre più grandi, con un sempre maggior distacco dalla realtà.

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La pura sopravvivenza Con i suoi film semidocumentaristici, semisperimentali, seminarrativi, Chantal Akerman cerca la propria strada per­ correndo vie traverse tra racconto e sperimentazione. La memoria collettiva che il film vuole tenere desta, di contro alle rimozioni della generazione dei padri, concerne i ricor­ di dell’olocausto e tutte le perdite precedenti. La più dram­ matica era la rinuncia alla lingua materna, su cui nella patria di un tempo si fondava l’autorità patriarcale. Un'unica volta, proprio all’inizio del film, quando il rac­ contare storie viene descritto come retaggio tradizionale della famiglia ebraica e si capisce quanto sia imparentato con la preghiera, la regista fa sentire la propria voce, dicen­ do in prima persona: la mia propria storia è piena di lacune e di lacerazioni, e non ho figli. Per la cineasta ebrea europea, che non può avere a che fare con il commercio delle immagini hollywoodiano senza mettere in gioco il suo proprio essere donna, è inevitabile dire -io». Il suo lamento personale sul fatto di non avere figli rende le sue immagini più autentiche e legittima la forma del suo film. In modo indiretto, molto ebraico, viene così posto l’interrogativo bruciante sui corpi al cinema. Con le immagini non è consentito resuscitare, non è consentito rappresentare ciò che non c’è più, ciò che è passato, ciò che è andato perduto. Davanti a questo non si può far finta di non sentire. Le immagini che rappresentano il passato falsificano il ri­ cordo. Per questo è meglio tenere desti, rievocandoli, ricor­ di inventati e sempre più lacunosi. Mostrare i buchi perché altri li colmino con i propri brandelli di memoria. Il sottotitolo americano del film è Food, Family, Philosophy (cibo, famiglia, filosofia). Si riferisce in particolare a una storia del film in cui un uomo chiede a un altro la ricetta del suo successo con le donne. Anche qui tutto, ancora una volta, dipende dal saper far loro la corte con le parole (yid­ dish: schmuserì). Perché il cuore di tutte le donne s’inteneri­ sce davanti a questi temi. 230

HISTOIRES D'AMÉRIQUE

Il film ha due dediche che richiedono una spiegazione. Come in questo film tutto, anche le dediche, non sono solo qualcosa di privato. Pochi di noi sapevano che Jacques Le­ doux, il direttore della Cinémathèque di Bruxelles che negli anni Sessanta, quando il cinema -diverso» aveva ben poche chances di giungere al pubblico, aveva organizzato a Knokke il convegno sul cinema sperimentale, si chiamava in realtà, come il padre, Silberberg. Hub Bals è stato diretto­ re del Filmfestival di Rotterdam dove si incontrano e mo­ strano i loro film tu.tti quelli che lottano e resistono contro le caterve di immagini di provenienza americana da cui sia­ mo sommersi.

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Nel dibattito sul cinema, a livello subliminale, agisce una gerarchia di parametri assai stabile e assai poco messa in discussione: il primato dell’immagine sul sonoro, del mon­ taggio sulla scenografìa, della luce sul colore - dunque, la vecchia distinzione kantiana tra Arte (da prendere sul se­ rio) e stimoli (secondari). Frieda Grafe si è sempre interessa­ ta in modo particolare agli aspetti trascurati: scenografia, colore, formato dell'immagine, lingua intesa come voce. Licht im Auge, Farbe im Kopf (-Luce nell’occhio, colore nella testa-) era il titolo di una Filmseite dell’agosto 1988, l’itima ad apparire sulla Suddeutsche Zeitung-. Pur nel rife­ rimento all'aspetto cromatico del cinema, in questa sezione abbiamo voluto presentare altreforme di lavoro sul cinema, al di fuori dell'attività di scrittura, praticate da Frieda Gra­ fe: la cura di programmi per rassegne, l’intervista e la confe­ renza (la trascrizione di una trasmissione radiofonica se­ gue nella sezione VI). Su invito del Festival Internazionale del Cinema di Berli­ no nel 1988, Frieda Grafe curò una retrospettiva sul cinema a colori dal titolo FarbFilmFest, e ne progettò il catalogo re­ lativo, una piccola opera d'arte totale di venticinque pagi­ ne. Theorie wàr grau era il testo introduttivo. A ciascuno dei dodici film era dedicata una doppia pagina: a sinistra, il ti­ tolo del film, un ’immagine, e sotto cast, credits e informa­ zioni tecniche; a destra, su due colonne, il testo di Frieda Grafe. In una terza colonna, sul margine destro, come un titolo a più avvincenti di un thriller, esse possono essere lette una dopo l'altra o anche in relazione alla pagina corrispon­ dente. -Il colore non è dove lo vediamo. Il verde non si trova sul­ la foglia d’insalata. Il rosso non è una qualità della stoffa di un vestito- (Harald Kilppers, Das Grundgesetz der Farbenlehre?. E così il rosso non è una qualità dei pomodori, ma il corrispondente vegetale e tedesco dell’espressione -prosciutto sugli occhi-, che assai meglio marca, con due lucenti mac­ chie di colore rosso, il diffuso daltonismo nei confronti del cinema.

La teoria sarebbe grigia Introduzione a FarbFilmFest (1988)

Il colore nel cinema è stato soppiantato dalla narrazione, come in pittura dal disegno.

Il colore si lascia più perifrasare che descrivere. Le emo­ zioni che esso libera sono in parte prevedibili; per il resto, l’effetto è soggettivo, determinato da ricordi visivi, tattili, emozionali. Sorprendente che gli scienziati dubitino di cogliere con i mezzi loro propri il colore nella sua totalità e rinviino agli artisti, mentre gli artisti cercano di darsi una copertura attra­ verso la scienza. Il modo in cui Eisenstein descrive il mutamento semanti­ co nel simbolismo di determinati colori, fa emergere prepo­ tentemente un’affinità con le Urworte, il cui controsenso venne analizzato da Freud.

Nella descrizione del colore risulta irritante il fatto che il dizionario ci aiuta sì a decidere se lo si debba considerare un aggettivo o un sostantivo, ma al contempo noi percepia­ mo con assoluta nettezza come tali suggerimenti siano dei pregiudizi. Quando mi viene voglia di un risotto allo zafferano, mi è diffìcile capire se mi raffiguro il colore o il gusto.

Goethe definisce i colori psicologici come incessante­ mente volatili, quelli fìsici come permanenti e quelli chimici come stabili. 235

FRIEDA GRAFE • SCRITTI 01 CINEMA 1961 2000

La pellicola dei film a colori non conosce patina, solo deterioramento. Per Dreyer e Eisenstein attraverso il colore nasce la quar­ ta dimensione del cinema. Baudelaire trova le donne obbrobriose perché troppo prossime alla natura, mentre altri nella confessata inclina­ zione delle donne per i vestiti, i trucchi, i profumi ravvisano la prova della loro falsità, superficialità e artificiosità.

Non esiste un fondamento inconfutabile in base a cui determinare la percezione del colore, né qualcosa di analo­ go per quanto riguarda il suo significato, ragione per cui si dovrebbe definire il colore piuttosto un indizio. Mitchum canta: «Beauty is only skin deep, but on the girls it looks so good». Dopo che il technicolor si è ritirato dall’industria dell’in­ trattenimento, effettua ricerche soprattutto per l’esercito e la NASA.

Ancora oggi nel lavoro di riproduzione e stampa la pelle umana è presa come parametro di tutte le altre sfumature cromatiche. Il colore al cinema è soggiaciuto una seconda volta alla rimozione allorché da lusso, negli anni degli esordi, è di­ ventato una cosa scontata. Vedo qualcosa, qualcosa che tu non riesci a percepire.

Se è vero che il ricordo riattualizzato e le associazioni acuiscono la percezione del colore, si dovrebbe pareggiare la perdita che la vista naturale subisce a causa delle con­ venzioni. 236

LA TEORIA SAREBBE GRIGIA

Questa mia selezione è stata determinata da molto arbi­ trio e da un poco di necessità.

Opfergang Veit Harlan, Ufa, Berlin, 1942-44 Agfacolor, 35mm The River Jean Renoir, Orientai International, Culver City, 1949-51 Technicolor, 35mm The Belle of New York Charles Walters, MGM, Culver City, 1952 Technicolor, 35mm Will Success Spoil Rock Hunter? Frank Tashlin, 20th Century Fox, Los Angeles, 1957 Color by DeLuxe, 35mm Cinemascope

Borez i kloun Konstantin Judin und Boris Bamet, Mosfìlm, Moskau, 1957 Sovcolor, 35mm House of Usher Roger Corman, Alta Vista, American International, Hol­ lywood, I960 Pathécolor, 35mm, Cinemascope Akibiyori Yasujiro Ozu, Shochiku, Tokyo, I960 Agfacolor, 35mm Ercole al centro della Terra Mario Bava, SPA Cinematografica, Roma, 1961 Eastman Color/Technicolor, 35mm, Totalscope 237

FRIEOA GRAFE ■ SCRITTI DI CINEMA 1961 2000

Made in US.A. Jean-Luc Godard, Rome-Paris /Anouchka/Sepic, Paris, 1966 Eastman Color, 35mm, Techniscope Tre film sperimentali: Anticipation of the Night, Stan Brakhage, 1958, 16mm Serene Velocity, Ernie Gehr, 1970, 16mm Gloria!, Hollis Frampton, 1979, 16mm Professione: Reporter Michelangelo Antonioni, CCC, Roma/Concordia, Paris/C.I.P.I, Madrid, 1974-75 Metrocolor, 35mm

One From The Heart Francis Coppola, Zoetrope, Los Angeles, 1981 Eastman Color, 35mm, Technovision

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Pomodori sugli occhi La storia del cinema a colori è la storia di una rimozione Conversazione con Miklos Gimes (1989) Voleva iniziare la nostra conversazione con un 'osserva­ zione personale, spiegando per quale motivo si interessa al colore nel cinema, senza esserne una -esperta-. Sul tema colore e cinema a colori non ho da offrire alcu­ na nuova prospettiva, così come non ho soluzioni per i pro­ blemi che il colore ha sempre creato alla scienza, alla pittu­ ra o alle teorie estetiche. Sono soltanto un’appassionata. Rudolf Arnheim ha detto che il colore è un medium pro­ teiforme. e si riferiva al fatto che anche in un quadro restau­ rato non vediamo più i colori originali. Conservare i colori quali li ha concepiti l’artista non e un problema che esiste soltanto da che sono stati girati film su pellicole a colori. Se ho cominciato a interessarmi più a fondo al colore nel cinema è perché mi sono resa conto che nella visione di un film il colore è un fattore davvero decisivo al quale però, quando si scrive di cinema, viene dedicato solo uno spazio minimo. Mi sono chiesta se ciò avesse a che fare con la mia tendenza a interessarmi di problemi frivoli, o se gli altri ve­ dono le cose in modo diverso da me. Ho iniziato a prestare attenzione a come venivano rece­ piti i film nei quali il colore era il risultato di una scelta in­ tenzionale.. Il colore nelle analisi dei film non è mai stato in primo piano. Nemmeno nei libri il cui soggetto è il rapporto tra pittura e cinema - in Décadrages di Bonitzer al colore sono dedicati esattamente tre periodi. In un libro di Jacques Au239

FRIEDA GRAFE - SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

mont uscito da poco c’è sì un capitolo dedicato al colore, ma anch’egli si occupa più volentieri della luce che del co­ lore. Questo fatto io non lo critico, lo trovo soltanto sinto­ matico. Forme - mise en scène, cadrage, point de vue contenuti e ideologie si lasciano descrivere più facilmente del colore e dei suoi effetti. E così le cose sono sempre an­ date a discapito del colore. Nel colore cinematografico mi sono sempre imbattuta per necessità, perché mi interessavo alla moda nei film, alle scenografie e all’architettura cinematografica, tutti aspetti che avevano una relazione con il colore e dove diventava chiaro che determinati registi trattavano il colore come i pit­ tori, come una sfida alla norma razionale. Quando ho ripreso in mano la Teoria dei colori di Goethe ho letto in merito anche un libro di Albrecht Schòne, un germanista di Gottinga, che nella disputa tra Newton e Goethe si schiera a tutto vantaggio di Newton - piuttosto strano, che un germanista preferisca salvare il punto di vista scientifico di Newton invece di quello dell’arte. Fondamentalmente nella teoresi il colore è sempre sotto­ posto a un processo di rimozione. Quello che volevo sape­ re era per quale motivo. E perché anche nel cinema conti­ nuava a essere così. Per me il colore non è qualcosa che aderisce al soggetto esteriormente. Il colore - un vestito rosso in film di Nicholas Ray, un blu-technicolor sul margine superiore dell’immagi­ ne quando Fred Astaire sonnambulo balla sul colmo di un tetto - un colore intenso, impiegato intenzionalmente, è una traccia che ci conduce all’interno di un film e che si di­ stacca dalla linea narrativa. Per i registi che sono consape­ voli del colore è un materiale esplosivo, che li libera per un istante dal vincolo di una narrazione ordinata. Infine questo confrontarmi con il colore mi ha attratto anche perché nelle opinioni e nelle teorie di un tempo, che ne fanno oggetto di disperezzo, il colore viene messo in re­ lazione con la femminilità. Pochi si sono spinti al punto del francese Charles Blanc, un contemporaneo di Delacroix: -Il 240

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colore è essenziale, ma di importanza secondaria, e deve ri­ manere subordinato alla forma. Altrimenti distrugge la pittu­ ra: essa viene portata dal colore alla rovina, come l’umanità lo fu da Èva». Se si prescinde dalla polemica, quello su cui vale la pena di soffermarsi è: il colore è esteriorità, è secon­ dario, non mai essenziale. Il capovolgimento avvenne nel XIX secolo. Con la pittu­ ra moderna il colore divenne l’elemento primario («La couleur crée la forme» - Cézanne). Nella pittura e nel cinema la mutata concezione del co­ lore implica un cambiamento nella posizione che lo spetta­ tore assume nei confronti dell’arte. Egli non guarda più una scena con distacco, o con distacco segue una narrazio­ ne, ma viene attratto dalle proprie emozioni - gli impres­ sionisti parlavano di sensazioni - all’interno del processo delle immagini.

Nel dibattito su cinema e pittura in primo piano c’è il la­ voro dei direttori della fotografìa, ovvero il problema della luce. Quando si parla del lavoro con la macchina da presa si fa riferimento al colore assai di rado. I direttori della foto­ grafia si esprimono poco sul colore. Preferiscono parlare del materiale a colori. Ci sono delle dichiarazioni di Gislain Cloquet sul perché insieme a Resnais egli abbia scelto ma­ teriale Eastman e non materiale asiatico: per il motivo che la sua colorazione calda contrastava maggiormente con gli eventi del passato, con l’orrore dei fatti che accadevano nel campo di concentramento, perché riportava quel luogo al suo stato naturale. È raro disporre di simili informazioni sul­ le decisioni preliminari, su come un film assume il suo co­ lore. Rohmer parla della luce e del colore, e del suo lavoro con Nestor Almendros per Pauline à la plage. Racconta che scelsero pellicole Fuji per i toni del verde e del bianco, per­ ché voleva una luminosità lattiginosa per i colori autunnali 241

FRIEOA GRAFE ■ SCRITTI DI CINEMA 1961 2000

della Normandia, e anche per correggere l’inclinazione ver­ so i toni marroni e rossi di Almendros, «la sua tavolozza spagnola» (Almendros è cubano). Inoltre aveva consegnato ad Almendros una riproduzione di La Biouse roumaine di Matisse, perché si facesse un’idea dei colori che voleva per il film. Per Rohmer, secondo ciò che lui stesso dice nell’intervi­ sta, come modello i pittori sono più importanti dei registi. Proprio lui, che negli anni Cinquanta diffuse la cinefilia, ve­ de oggi in essa la ragione della desolazione in cui si trova il cinema. Il cinema non può generare le proprie immagini soltanto da sé. Rohmer non sta parlando di un’imitazione della pittura, non vuole immagini pittoriche. Immagina in­ vece, per scalzare le immagini cinematografiche stereotipa­ te e in stile pubblicitario, una combinazione delle esperien­ ze maturate dalla pittura e dal film a colori. Tutto il Godard successivo al ’68 ruota attorno al proble­ ma del colore e alla pittura. Naturalmente Passion, ma an­ che Sauve qui peut e soprattutto Lettre à Freddy Buache. Questa è la nuova pittura di paesaggi svizzera. Non ha più nulla a che fare con quel colore riproduttivo che nei film di Hollywood e in quelli che li imitano in modo meccanico sottolinea la credibilità e la verosimiglianza della vicenda. In questi film di Godard il colore diventa autonomo, soven­ te con un espresso riferimento ai pittori. Nel film su Losan­ na viene citato Paul Klee. E invero non viene citato nel mo­ do usato abitualmente da Godard per i nomi di scrittori. Tramite la citazione di Klee lo sguardo dello spettatore sul paesaggio viene trasformato. Il colore crea l’immagine del film. t -------“ IrTgenerale negli ultimi anni si è potuto osservare una ri­ nascita dell’interesse per i colori dei film, che fa espressamente riferimento alla pittura. All’inizio del cinema a colori era già stato così. Dreyer, che non ha mai girato a colori, in esso vide la possibilità di liberare il cinema dal realismo che cerca di riprodurre la realtà. Riteneva che il colore fosse estremamente funzionale a ciò che lui aveva fatto con la lu­ 242

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ce, ovvero articolare il campo tra le immagini e catturare così l’invisibile. Eisenstein vedeva le cose in maniera simile. Sono molto istruttive al riguardo alcune dichiarazioni di Aumont: Eisen­ stein avrebbe sì cercato con grande entusiasmo di introdur­ re il colore nei suoi film, ma nel risultato finale era tuttavia un colore addomesticato da un calcolato sistema di senso. Ciò che qui è istruttivo è che ancora una volta il colore, an­ che là dove Eisenstein lo introduce - per quanto ne è capa­ ce - in modo estatico, viene piegato e ricondotto a un siste­ ma. Eisenstein continua a rimanere il campione del montag­ gio, della mise en scène e del calcolo. Si tratta, con varianti, sempre dello stesso procedimento. Il colore è pericoloso, perché è antisistematico e antirazionale. Fino a che non vie­ ne riassicurato per descrivere, è meglio lasciar perdere. Contemporaneamente al ridestato interesse dei registi per il colore - che in Godard è anche una reazione all’osti­ lità verso le immagini degli anni politicizzati dopo il *68 qualcosa dal cinema si è introdotto nei quadri dei pittori. Me ne accorsi visitando una mostra collettiva che venne presentata in America con il titolo German Art of the Late ‘80s. Questi pittori di sicuro non sono dei cinefili, e del loro rapporto con il cinema, tolto Heinz Emigholz, non so nulla. Tuttavia nei loro quadri vi è una nuova visualità che mi ri­ corda il cinema. Come prova non c’è nessun bisogno di ci­ tare Warhol. Nei quadri a cui mi riferisco questo rapporto ri­ mane più latente, ma non può sfuggire.

Quali sono gli elementi che nel lavoro di questi artisti le hanno ricordato il cinema? Naturalmente il legame principale è la fotografia, in bianco e nero e a colori, ma oltre a questa vi sono anche tecniche di montaggio e di movimento che sono come quelle del cinema. Le installazioni monumentali e in parte monocromatiche di Gerhard Merz destano in me associa­ zioni che, attraverso i kolossal storici, non importa se di 243

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Hollywood o italiani, mi riportano al mondo classico. Il contesto visivo di questi artefatti artistici non ha più nulla a che fare con la limitatezza delle opere pittoriche. Esse tra­ passano nella realtà, come le immagini del cinema. Il colore non è più semplicemente il vecchio colore dei pigmenti dei pittori. Il nero di queste opere è già quasi co­ me il bianco e nero del cinema. Mi viene da dire che l’a­ spetto tecnico del cinema è entrato nel modo di osservare del pittore e ha cambiato la natura delle immagini. Tutto questo sono però soltanto impressioni, che devono essere verificate. In che modo è ancora possibile oggi creare delle imma­ gini? Dove comincia un’inquadratura, e dove finisce? Pren­ dere immagini cinematografiche dalla realtà e delimitarle è diventato un problema che riguarda la generale visibilità del mondo. Il vedere è mutato; così come è mutato il vede­ re dei registi, altrettanto lo è quello dei pittori; e dove il ve­ dere fa causa comune, eccoci davanti a un campo che si può indagare, per sapere come viviamo con le immagini e che cosa le immagini producono su di noi. Il cinema e le arti - questo -e» è importante guardarlo in entrambe le direzioni. È possibile che il futuro delle nuove immagini sia proprio qui. Il film Der Neapeifries (Il fregio di Napoli) di Gaudenz Meili è un esempio di cinema in cui si prova a entrare nel­ l'immagine, e non a ritrarre con distacco, per creare qual­ cosa di nuovo con gli elementi propri del pittore.

La forma del fregio è già sulla via che porta al cinema, contiene un movimento per immagini, una narratività visi­ va, il tempo nell’immagine. I primi cortometraggi di Resnais sono un tentativo - co­ me quello di Meili cui lei ha fatto riferimento - di cogliere la pittura con le forme del cinema. Paradossalmente Resnais ha girato i suoi Van Gogh, Gauguin e Guemica in bianco e nero. Sicuramente questo non aveva a che fare con le con­ 244

POMODORI SUGII OCCHI

dizioni di produzione stabilite da Braunberger, ma ancora oggi è un buono stimolo per riflettere sul rapporto tra il ci­ nema e il colore. Non ci porta molto lontano dire che il colore è stato un progresso necessario, da un mezzo d’espressione più pove­ ro a uno più ricco, e che si è affermato quando l’industria era abbastanza avanzata per renderlo remunerativo. Quando inizia la storia del cinema a colori? Si dimentica facilmente che i primi film erano colorati. Restaurandone oggi i colori, si riproducono le condizioni in cui quei film venivano prodotti e proiettati all’epoca. Quando Eric Roh­ mer si esprime contro il restauro a colori dei film muti, di­ fende la visione di quei film con la patina che essi avevano nei tardi anni Quaranta e all’inizio degli anni Cinquanta. Negli anni Venti i film avevano i colori. Se poi sia possibile raggiungere di nuovo il colore originale, questa è un’altra domanda. Anche le mie prime reazioni al Nosferatu a colori sono state negative. Se però si pensa al fatto che Murnau nella sceneggiatura di Scbloss Vogelòd annota espressamen­ te di volere le scene del sogno in bianco e nero, allora ci si fa un’idea di come a quel tempo la pellicola colorata rap­ presentasse il mondo esterno, normale. Lo spettrale, il fan­ tastico, Murnau lo vedeva in bianco e nero. Nella critiche cinematografiche del tempo non si parla mai del colore. Naturalmente anche perché era un colore codificato, con soltanto alcune tonalità che rimanevano più o meno identiche. Ma aveva una sua importanza, aveva, si­ curamente per Murnau, una funzione. Quando in Nosferatu l’immagine diventava rosa ciò indicava il crepuscolo e an­ nunciava «adesso inizia l’ora del vampiro-. Nelle copie in bianco e nero il vampiro se ne va a spasso in piena luce diurna. E c’è davvero qualcosa che non quadra. Anche in Méliès, in Le Voyage à travers l’impossible, il so­ le, cattivo e ingordo, era dorato. Nella prima copia di Greed, di Stroheim, le cose che avevano a che fare con l’a­ vidità erano colorate a mano in oro; e quando nella Potèmkin di Eisenstein viene innalzata la bandiera, era co245

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lorata a mano in rosso. Per il resto nel cinema sovietico non erano in uso né imbibizione né viraggio.

Quando incomincia l’uso consapevole del colore? L’uso consapevole del colore è sempre dipeso dai singo­ li autori, sebbene vi siano anche interessanti film a colori prodotti dal sistema in un certo senso automaticamente. Sa­ rebbe molto interessante cercare di scoprire che importanza ha il colore in relazione al Super-Cine-Western. Un autore consapevole del colore è per esempio Mit­ chell Leisen, e Lady in the Dark è un film esemplare per mostrare quello che si poteva fare a Hollywood con il colo­ re. Leisen per i sogni utilizza il colore in modo monocroma­ tico, e lo contrappone quindi all’uso realistico che ne fa nella vicenda principale. Renoir impiegò il colore in The River {Ilfiume'), in Le Carosse d’or {La carrozza d’oro), in Eléna et les hommes (Elia­ na egli uomini) in modo né realistico né fittizio, nel signifi­ cato corrente di queste distinzioni. Lui stesso dice di inten­ derlo in modo realistico, ma non vuole con ciò riferirsi a un legame oggettivo. Se ne serve per dirigere l’attenzione dello spettatore su aspetti dei suoi materiali, dei suoi soggetti, che hanno il loro fondamento nel colore. Determinate tonalità di verde e di blu di The River sono strettamente legate alla storia che il regista racconta, hanno a che fare con essa più direttamente di quanto potrebbero mostrare l’uso della ci­ nepresa, o la costruzione della trama, o il montaggio. Ciò ha verosimilmente a che fare con l’atto della percezione del colore, e con il modo in cui essa passa attraverso la macchi­ na da presa. Renoir era dell’idea che fosse possibile fotogra­ fare a colori, e che questo colore fosse diverso da quello dei pittori. Io lo interpreto così: il colore attraverso la mac­ china viene fissato in un modo diverso da come fa direttamente l’occhio umano. Questo perché il processo percetti­ vo dell’occhio attiva sempre anche l’immaginazione di chi guarda, cosa che modifica la percezione del colore. Nei film 246

POMODORI SUGLI OCCHI

di Renoir si può vedere il colore prima che diventi un attri­ buto degli oggetti. Due anni fa nella New York Review of Books ho letto un articolo su un pittore che a causa di un incidente divenne daltonico. Fino a quel momento non sapevo che la rappre­ sentazione del colore fosse generata da un processo diviso in due momenti. Da un lato la costruzione del colore sulla retina, che dipende dalla luce. Ma poi interviene un secon­ do generatore di colore, nel cervello. Nel caso di questo pittore si era accertato che le sue funzioni retiniche erano normali, e che nulla era stato danneggiato. I valori del gri­ gio poteva descriverli distinguendo fino nelle gradazioni più sottili. Ma vedeva tutto il mondo in grigio, un orribile grigio topo, che per lui era diventato dirty. Per poter sop­ portare una vita del genere cominciò a vivere esclusivamente di notte - e forse anche questo dovrebbe darci da pensare sul perché amiamo i film visti al cinema, perché siamo tanto affezionati al vecchio bianco e nero. Ciò che nel pittore era stato danneggiato era la funzione nel cervello, quella che, come processo d’esperienza indivi­ duale, come immaginazione, rappresenta il secondo mo­ mento della percezione del colore.

Due anni fa lei ha organizzato per il festival di Berlino una retrospettiva del cinema a colori. Oltre a Renoir e Leisen, quali altri rapporti esemplari con il colore indicherebbe? Antonioni ha sempre inteso il colore come uno strumen­ to per descrivere i campi interiori. Soltanto lui, con pieno ri­ gore, ha esteriorizzato il colore a questo fine. Gli americani hanno usato piuttosto il colore come protesta contro le re­ gole di realismo degli studios, dove i consulenti temperava­ no la gamma dei colori in nome della verosimiglianza. Cer­ te combinazioni di colore in Nicholas Ray e in Minnelli fan­ no credere che i colori abituali degli studios li ispirarono a sviluppare una propria tavolozza. Il giallo e il blu nei we­ stern di cavalleria di Ford sono in primo luogo realistici, ma 247

FRIEDA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

in maniera analoga è rilevante, in senso positivo, che giallo e blu nel loro effetto finale siano importanti almeno quanto la fila di cavalleggeri che cavalca all’orizzonte. In Ford que­ sti sono i colori nazionali, in cui si esprime l’autorappresentazione americana. Una pellicola Sovcolor degli anni Cinquanta potrei rico­ noscerla all’istante, senza alcuna altra informazione, e so che il materiale a colori dei russi è un ulteriore sviluppo di un Agfacolor. Il colore si può immaginare soltanto come contesto. Il colore puro non esiste. Sono le situazioni cro­ matiche complessive che determinano, ad esempio, un mo­ do nazionale di sentire il colore, una coloritura nazionale. Per comprendere questo, Viva l'Italia di Rossellini è una splendida lezione. Come pure le tonalità verdi delle pellico­ le Sovcolor hanno a che fare con la realtà russa. Il verde di Boris Barnet in Borjez i kloun, che in parte venne girato in Ucraina, è davvero un verde diverso da quello che voleva fissare Renoir quando girò The River. È possibile che siano soltanto i comignoli bianchi come zucchero filato a creare l’unicità del verde mandorla dell’Ermitage di Leningrado, ma nessuno in Europa occidentale avrebbe potuto appro­ dare a quel verde. Mentre qualcuno, come Hawks, elegge a dominio effetti­ vo del proprio cinema il procedere funzionale delle storie, registi come DeMille o Leisen fanno della scenografia - e delle relazioni cromatiche - lo strumento preferito con cui articolano le loro vicende. Fino a un certo punto il look dei film di DeMille dipende naturalmente dalle persone che la­ vorano per lui, e dallo studio. Ma la Paramount era appun­ to uno studio per il quale l’allestimento scenografico (pro­ duction values) era importante esattamente quanto per la Universal lo era il genere horror. Quando qualcuno come Leisen, che fu art-director per DeMille, diventa regista - e lui è uno dei pochi che da que­ sto settore sono passati alla regia - allora è ovvio che della sua specialità abbia fatto l’oggetto d’attenzione della propria regia. 248

POMODORI SUGLI OCCHI

In generale il colore è rimasto per lo più un aspetto se­ condario della regia. La sola cosa evidente è che è stato preso molto sul serio dai registi omosessuali. In Murnau è molto grande per esempio l’interesse verso tutto ciò che ri­ guarda l’arredamento e l’architettura, poiché lui, in contra­ sto con un cinema maschile e funzionale, non fa cinema d’azione. Perché per esempio il colore è una componente così importante nel melò? Nel cinema d’azione il colore è in ogni caso funzionale, subordinato al movimento, alla mo­ tion. demotion invece va a braccetto con il colore. Eisenstein però si è accostato al colore in un modo ben differente.

Per Eisenstein il colore è il materiale esplosivo all’interno del suo sistema altrimenti ben calcolato, il subliminale, che egli prese in considerazione molto seriamente come alter­ nativa. Non lo temeva per la sua razionalità, per lui il colo­ re era la possibilità di una sincerità necessaria. Il colore in Ivan è una liberazione. È chiaro - e a quanto pare ciò ha a che fare con la guer­ ra - che Eisenstein si è confrontato con il colore pittorico in modo serio e intenso. Dovette immaginarsi più colore di quanto poi potesse impiegarne. Ma sempre ci permette di capire che per lui il colore è lo strumento dell’eccesso, esta­ tico, una parte assolutamente necessaria della sua teoria del pathos. In che senso Eisenstein aveva una conoscenza psicologi­ ca del colore?

Che la sua idea dell’impiego del colore appaia spesso un po’ limitata e psicologizzante, e poco specificamente cine­ matografica, deriva dal fatto che le sue teorie sul colore de­ rivavano da libri, e soltanto nei suoi scritti si poterono esprimere. Solo il fatto che egli si confronti in dettaglio con i colori di E1 Greco o delle stampe giapponesi, respingendo 249

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invece i pittori moderni, basta a renderci scettici. Tuttavia in Ivan il colore funziona in modo più rivoluzionario di quan­ to egli non descriva nelle sue teorie. Anche la sequenza della scrematrice in Staroe i novoe (La linea generate) è un frammento di film a colori, è il fiu­ me di bianco del latte che scorre, ed è questa la dinamica che fa saltare in aria il sistema. Io la vedo così, ma forse questa è una mia esagerazione, un sogno. Esiste il kitsch nel cinema a colori? In generale, si possono impiegare per il cinema simili categorie della critica d'arte, come appunto "kitsch*?

Non ci porta a niente. Il «buongusto», che nella pittura è il metro di valutazione per distinguere il kitsch dalla qualità, nel cinema lo si dovrebbe preferibilmente evitare. Recente­ mente ho visto due film su Cleopatra, uno in Technicolor di Gabriel Pascal, un uomo proveniente dall’ambiente attorno ad Alexander Korda, e uno in bianco e nero di DeMille. De­ Mille, per la gente di buon gusto, è brutale nel suo rico­ struire l’Egitto all’americana. Del film inglese, nonostante gli esterni girati in Egitto, si poteva intuire subito che era un film a colori degli anni Cinquanta. I colori però non erano mai volgari o crudi come in Hawks, o in Tashlin o in Jeny Lewis, nei quali sempre si impongono i colori americani. Tutto era color pastello, attutito, una tavolozza adattata al buongusto. Proprio questo era il punto che io in questo film potrei indicare come kitsch. Il kitsch nel cinema non ha nulla a che vedere con il buongusto che domina nelle altre arti. Non sono però nem­ meno sicura che il kitsch abbia in generale a che fare con l’arte, visto che nella sua definizione è così dipendente dal buongusto. Se devo definire la qualità del colore di un film direi che essa si può cogliere al meglio dove l’autore, all’interno del proprio progetto, fa rigorosamente quello che vuole. Se cer­ ti film di Minnelli si muovono entro un loro preciso ambito 250

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di colori, allora ciò non può dar luogo, almeno così credo, ad alcun kitsch, perché Minnelli non imita né la pittura né il buongusto, ma si muove con rigore entro il proprio sistema di colori. E questa è una qualità di un film. I colori squillanti di Tashlin o di Nutty Professor (Le folli notti del dottor Jerryll) di Jerry Lewis non sono di buon gu­ sto. Eppure, come sono importanti questi film quando ci si deve fare un’idea di quel che erano gli anni Cinquanta! Jerry Lewis e i film di Tashlin sono la dimostrazione della ri­ voluzione cromatica che si è compiuta in America.

Cosa intende con rivoluzione cromatica?

Arrivò al potere l’acrilico, i colori acrilici; colori da gran­ di magazzini, che furono assunti come propri nuovi colori per primi dai pittori. Oggi nei quadri dei pittori ritornano i colori degli anni Cinquanta, che sono penetrati nella realtà anche attraverso i film. Provi a vedere come Godard in Made in USA (Una storia americana) impiega i colori primari - il vestito verde a ri­ ghe viola di Karina: solo trent’anni prima nessuno avrebbe osato accostare simili colori. Non si adattavano l’uno all'al­ tro. Godard mostra come questi colori innaturali siano di­ ventati il nostro ambiente quotidiano; in un garage di Made in USA troviamo uno accanto all’altro bidoni blu acceso, rossi e gialli. Tra quei bidoni, Godard nel montaggio inseri­ sce un giardinetto con dei fiori. Si capisce così che i colori naturali, che per secoli hanno determinato la nostra conce­ zione del colore, non hanno più alcuna chance. I colori concentrati di Godard, i suoi colori primari, mostrano come i colori artificiali escludono le sfumature naturali. In Week End non si vede più il paesaggio ma delle auto e e il colore creato dagli incendi. Godard non ha mai fatto un uso realistico-meccanico del colore, ma sempre un uso selettivo, co­ me un pittore, con una tavolozza volontariamente ridotta.

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FRIEOA GRAFE • SCRITTI 01 CINEMA 1961 2000

Come stanno invece le cose per Rohmer?

Rohmer è stato uno dei primi che nei Cahiers hanno scritto sui film a colori e lo hanno difeso. Ha visto la grande importanza che aveva per Hitchcock, per esempio in Under the Capricorn (Rpeccato di Lady Considine) in un tempo in cui per i colori striduli del cinema gli altri non facevano che storcere il naso. Oggi, dopo che la fotografia a colori, ormai perfezionata, è diventata uno standard, e dopo che le foto patinate della pubblicità hanno ottuso e congelato lo sguar­ do, lui di nuovo gira in 16 mm, perché ciò gli permette sfu­ mature e distinzioni che con il 35 mm non si riescono più a ottenere. Nei 16 mm vede una maggiore possibilità di tener­ si alla larga dagli stereotipi. I colori sporchi del 16 mm non sono per Rohmer più spontanei o più vicini alla realtà, sono più lontani dalla pressione delle immagini patinate. Blue Velvet (Velluto blu) di David Lynch ritorna ugual­ mente alla realtà dell’acrilico, distingue i colori impiegati, spezzettati, ironizza. David Lynch ha scoperto il valore emotivo che il colore può avere per il suo cinema. Non usa il colore in modo simbolico, ma come Hitchcock per mettere paura, o per de­ stare ribrezzo. Cerca di fare con il colore ciò che in Era­ serhead aveva sperimentato col bianco e nero. Ha sfruttato appieno la carica che il colore può avere nel produrre di sentimenti di anormalità. Si sa che durante le riprese di Lady in the Dark di Mitchell Leisen, quando alla pausa pranzo gli «uomini blu* andarono alla tavola calda, ci fu chi si sentì male. A questo contesto ben si adatta la citazione di Philipp Otto Runge che ho trovato in Wittgenstein: «Imma­ ginarsi un'arancia blu, un verde rossastro, o un giallo violet­ to, provoca il turbamento di un vento del nord che soffia da sudovest.»

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POMODORI SUGLI OCCHI

Oggi i film in bianco e nero vengono colorati elettronicamente. Ciò indica che la storia del cinema viene attualizzata?

L’attualizzazione è un argomento dei commercianti, dei venditori. Semplicemente io non credo che la gente preferi­ sca vedere in televisione Casablanca colorato piuttosto che in bianco e nero. Sono abituati a Bogart come eroe dei film noir. Si sa che fu la televisione a produrre l’impulso che portò all’affermazione del cinema a colori negli anni Cin­ quanta. Per poter continuare a fare affari con la televisione a colori, i produttori conclusero che avrebbero dovuto gira­ re a colori. I film in bianco e nero colorati elettronicamente, con i loro colori cadaverici e malati, sembrano colorati a mano, come erano un tempo le locandine nelle vetrine dei cine­ ma. La colorazione invece di attualizzarli rende i film più vecchi. L’argomento di chi difende la colorizzazione è che la realtà è appunto a colori. Ma in televisione i film colorati fanno l’effetto di un nuovo sistema cromatico, e non di una televisione a colori. Ora appaiono ancora più spettrali di quanto non siano in bianco e nero. Se la colorizzazione l’a­ vrà vinta, allora vincerà soltanto come abitudine, e non giu­ stificata da una maggiore vicinanza alla realtà. Gli spettatori vogliono davvero il colore?

Le informazioni che abbiamo sono contraddittorie. Dalla televisione tedesca si apprende che non ci sarebbe alcun motivo per la colorizzazione, poiché da un’indagine tra gli spettatori non è risultato alcun parere contrario ai film in bianco e nero. In America al contrario sembra che i tele­ spettatori si siano espressi a favore della colorizzazione. È un dato che possiamo interpretare?

Forse perché la perdita dello spazio del film porta con sé già una prima banalizzazione, un appiattimento delle forme 253

FRIEDA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 1961 2000

espressive. Queste perdite si assommano fino a raggiungere una piattezza tale per cui alla fine resta soltanto la storia, sicché, se anche viene colorata un po’, non ha più impor­ tanza. Di tutto ciò che un tempo costituiva la peculiarità di questi film, non si vede più nemmeno la metà. Chi si cura più degli intenti con cui per esempio un Huston ha conce­ pito i suoi film? I film sono in primo luogo un prodotto di consumo. Noi in Europa siamo un po’ all’antica, e dietro ai film vediamo un poco di più gli autori. In America non esi­ ste il diritto d’autore. Il prodotto di massa, che è senza au­ tore, appartiene alle compagnie, che ne fanno ciò che vo­ gliono. Ma anche a Hollywood i singoli registi hanno lascia­ to sul prodotto di massa l’impronta del loro stile. Jacques Aumont, nel libro che ho già citato, sostiene una tesi sulla quale occorre riflettere, che il risorto interesse dei registi per la pittura si indirizza contro la televisione. E anche Scor­ sese, quando dice di volere rappresentare il peso del colore sulla tela, si muove in questa direzione. È impossibile che abbia voluto riferirsi allo schermo televisivo. Godard ha detto che per lui è indifferente lasciare i pro­ pri film in bianco e nero come sono, oppure colorarli. Solo che vorrebbe colorarli lui stesso, e non semplicemente la­ sciare l'operazione all’industria. Esattamente allo stesso mo­ do ha reagito in rapporto alla pubblicità all’interno dei suoi film durante la trasmissione televisiva. Supera i vandali: non vorrebbe avere la pubblicità solo in due punti, preferirebbe averla addirittura in cinque o sei punti. Anche qui fa solo quello che ha sempre fatto: mettere volta per volta sotto il torchio lo stato attuale del cinema commerciale e rielaborarlo individualmente. Colorerebbe i suoi film in bianco e nero, come in passato ha rielaborato i colori del cinema americano facendone i colori primari di altri film suoi. Questa è la sua strategia, che deriva dal suo modo di concepire il cinema. Sottrae le cose alla macchina del sistema, e ne stravolge il funzionamento. È un mago del compromesso, prodigo di trucchi: «Volete un piccolo film noir? Bene, facciamolo.» Quello che poi ne esce è À bout de souffle. Oppure, quando gli viene richiesta una sgranata fo­ 254

POMODORI SUOLI OCCHI

tografia da documentario, fa Les Carabiniere. Nello stesso modo si comporta di fronte alla colorazione. E’ la maniera in cui gli artisti si sono sempre difesi contro la pressione della produzione di massa. Questo intendevo dire quando ho parlato di rivoluzione dei colori acrilici. Come colori da grande magazzino non erano interessanti. Ma sui quadri dei pittori ci permettono di riconoscere come pensa la nostra società, il nostro tem­ po. La mobilità di Godard è sempre stata ammirevole. Gli viene in mente in quale modo potersi difendere. Ma evi­ dentemente oggi questo è importante ormai solo per pochi. Da noi i suoi film non arrivano più nemmeno nei cinema.

Oggi deve essere tutto colorato, anche i quotidiani. E così il colore appiattisce. Nei film il colore è soltanto un ulteriore elemento dello spettacolo culturale? Quando qualcosa di nuovo riesce a imporsi diventa una convenzione, ed è sempre una perdita. Tuttavia il fatto che il colore si sia imposto non significa che gli autori che han­ no attenzione per il colore non possano trovare inaspettate possibilità nel suo impiego. Il colore non è assolutamente più, come era all’inizio del cinema a colori, il lusso della fantasia. È diventato non spettacolare, perché è la vita quo­ tidiana. Gli occhi, a causa dell’eccesso cromatico presente nella vita quotidiana, sono diventati ciechi al colore. Ma le cose non devono restare così. Se gli strateghi del marketing sostengono che tutti vogliono sempre tutto colorato, allora mi chiedo come mai il colore preferito nella moda dei gio­ vani da tre o quattro anni sia il nero.

1 giovani registi come si rapportano alfatto che il colore è quotidiano e ha smesso di essere colore?

Nel momento in cui un filmmaker si rende conto della convenzione ha già una possibilità di scavalcarla. Può ren­ dere questo visibile, e l’immagine colpisce. 255

FRIEDA GRAFE - SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

Come stanno le cose con Scorsese?

Fondamentalmente Scorsese ha sempre guardato al colo­ re come a un problema del cinema. Lo ha fatto espressamente, per esempio, negli homemovies in bianco e nero di Raging Bull (Toro scatenato). Qui considera il problema dall’interno, da dentro le immagini verso 1’esterno. Nei suoi film ci sono sempre dei momenti in cui il colore si rende in­ dipendente, diventa un elemento in sé, e non ha a che fare soltanto con la riproduzione della realtà. Per lui il colore è il dominio del cinema, destituito da quello della televisione il confronto con la televisione e la falsa intimità delle sue immagini che porta a una mancanza di distanza è diventata in King of Comedy (Re per una notte) un film intero. L’ingenuità maldestra e la malinconia di Nick Nolte si sommano al peso specifico del colore, proprio come Scor­ sese si era riproposto di mostrare in New York Stories. Ci si può benissimo immaginare il puro scorrere della storia con un altro attore, ma quello che Scorsese voleva esprimere coi colori era la difficoltà di vivere. Si dovrebbe guardare una volta New York Stories insieme a un videoclip per Mi­ chael Jackson, per vedere quali sono i colori che egli mette in relazione alla televisione. Credo che Scorsese si veda co­ me un regista-pittore. Il video, come i folli movimenti della cinepresa in After Hours (Fuori orario), mostra che oggi nella nostra sfera visi­ va video e cinema sono collegati. Che è necessario cogliere entrambi. Quando fa un videoclip, Scorsese si introduce au­ tomaticamente nel campo delle immagini pubblicitarie. Se poi questo significhi anche entrare nel campo di un colore utilitaristico, a differenza di quello più autonomo del cine­ ma, sarebbe una cosa da indagare.

Ifilm prodotti negli studios egiziani o indiani sono spes­ so molto colorati, vistosi, con tinte cariche. La colorazione europea o americana è effetto dell'acculturazione, o è il ri­ sultato della storia del cinema? Oppure si può dire che i bambini e il popolo amano le cose variopinte? 256

POMODORI SUGLI OCCHI

Allora tra il popolo mi ci metto anch’io. Se c’è qualcosa che mi annoia, è proprio 1’aspetto addomesticato del colo­ re. Quando i fauve hanno cominciato a impiegare i loro co­ lori selvaggi, hanno attuato una differenziazione, in contra­ sto con i colori armonizzati dominanti. Ai tempi di Goethe poteva essere giusto dire che il popolo ama il variopinto. Oggi il popolo preferisce i mobili IKEA, e questi non sono certo variopinti.

In India la gente non compra mobili IKEA. Un simile ef­ fetto dell’acculturazione, che parte dal variopinto e sbocca nel •design», c’è anche sul piano della storia del cinema?

Nel cinema non s’è trattato fin dall’inizio di acculturazio­ ne, quanto di superare un problema tecnico. Nathalie Kalmus aveva idee molto chiare su come dovessero essere creati certi fondali monocromi per evitare l’effetto del vario­ pinto. Si tratta di questi sfondi, mobili e tende dai colori crema e rosa. Se si volevano mettere in risalto nel modo mi­ gliore le star, era necessario che gli sfondi venissero mante­ nuti entro i toni smorzati della monocromia. A Hollywood il colore venne sempre ridotto in considerazione della credi­ bilità della vicenda. Più i film erano variopinti, più l’occhio veniva distolto dalla cosa principale, dallo scorrere della vi­ cenda «realistica». C’è un manuale dell’industria cinematografica dei tardi anni Cinquanta, Elements of Color in Motion Pictures. Da esso si ricava che per i film storici ci si informava con gran­ de precisione sui colori e le forme delle varie epoche; ma per assecondare gli spettatori la tavolozza cromatica di que­ sti film subiva sempre un intenzionale avvicinamento al gu­ sto degli anni Cinquanta. Nel dettaglio i film vanno bene, ma l’impressione complessiva è quella di una storia come •differita». Lo spettatore deve ricevere ciò che meglio può comprendere. Nei film che provengono dal Terzo Mondo lo scorrere della vicenda spesso non è l’elemento determinante; lo è 257

FRIEDA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

invece il momento dell’osservazione, della visione, dell’oc­ chio che si pasce. Se si può fermare l’occhio, allora l’occhio può passeggiare tra le immagini. Nel cinema sperimentale è indiscusso che il colore possa essere un elemento autonomo. Si può però supporre che an­ che Hitchcock sarebbe più povero, se non avesse lavorato con il colore. Hitchcock non sarebbe soltanto più povero, ma non avrebbe nemmeno fatto determinate cose se non avesse avuto il colore come momento d’ispirazione. Quando in To Catch a Thief (Caccia al ladro) spegne una sigaretta in un rosso d’uovo, questo è veramente qualcosa di diverso di quando in Suspicion (Il sospetto) fa risplendere un bicchiere di latte. Hitchcock non vuole soltanto definire i personaggi: per esempio in Vertigo (La donna che visse due volte) il verde è il colore della morte, e per questo Kim Novak indossa un abito verde. Con la messa in scena del colore sa come diri­ gere lo spettatore in precise direzioni.

Com’è stato per Hitchcock il passaggio dal bianco e nero al colore? Il suo primo film a colori fu Rope (Nodo alla gola), dopo venne Under Capricorn, con bellissimi colori alterati, di cui ricordo soprattutto il rosa con un’energica punta di blu. Il suo direttore della fotografia, Jack Cardiff, ha raccontato il lavoro di ripresa su American Cinematographer. Quanto a Psycho, è interessante che Hitchcock abbia detto a Truffaut che quel film fu il suo primo confronto con la televisione. Per quanto riguarda l’horror non ha dovuto rinunciare a nulla. In seguito ha avuto una preferenza per i fondali colorati, per esempio in Mamie, sfondi teatrali, completamente ir­ reali, come anche in Rope. In Trouble with Harry (La con258

POMODORI SUGLI OCCHI

giura degli innocenti) si vede come Hitchcock abbia lavora­ to in modo consapevole con contesti cromatici differenti. Senza il giallo e il marrone rossiccio dei boschi autunnali del Vermont non avrebbe fatto quel film. Edward Hopper è il caso contrario di un pittore quasi ci­ nematografico. Il colore di Hopper è altrettanto irreale del colore nel ci­ nema. L’iperrealismo di Hopper risiede nelle forme, non nel colore. L’impressione di autenticamente americano non vie­ ne mai dal colore. Il suo colore è irreale, esattamente come nel cinema. Non ha importanza che si tratti di horror, melo o di un musical: i registi si sono serviti del colore per allontanarsi dal realismo e non per consolidarlo ancora di più con colo­ ri vicini alla realtà. In Antonioni e Scorsese le cose non stanno diversamen­ te. Quando un autore ha consapevolezza del colore, lo im­ piega pensando agli spettatori. Con la consapevolezza del colore come strumento creativo, la posizione dello spettato­ re è mutata. I registi che in questo senso usano il colore con consapevolezza lo usano esattamente come lo usano i pitto­ ri. Il colore nella pittura non viene subordinato alla forma nel modo che sarebbe richiesto dall evento rappresentato. Lei ha detto che il colore rallenta lo svolgersi degli avveni­ menti.

Non lo svolgersi degli avvenimenti, ma la narrazione. Ci sono testi di Eisenstein sul Cinematismo in cui egli dice che il cinema può essere utilizzato per portare il movimento dentro all’immobilità dei quadri dipinti. Per Eisenstein il co­ lore nel cinema era la possibilità di descrivere dei processi. Non di determinazione, ma di dissoluzione, diversamente da come agisce il cinema di narrazione. Un movimento resta all’interno dei quadro, ma viene de­ finito da una delimitazione temporale completamente diffe259

FRIEDA GRAFE • SCRITTI 01 CINEMA 19612000

rente. Non ha più bisogno di profondità, di immagini nette in profondità, come era per Orson Welles. Nel momento in cui diventa piatto, instaura nello spettatore un rapporto fon­ damentalmente diverso verso il colore. Dreyer al riguardo aveva idee e teorie molto curiose. Diceva che finalmente nel cinema potevano esserci immagini realmente bidimen­ sionali, e non solo immagini con la profondità. Non più l’il­ lustrazione della realtà, ma immagini mentali, senza la profondità della rappresentazione reale.

Questo significa che la pittura è superiore al cinema?

No. I primi pittori che hanno sviluppato la prospettiva, in correlazione con le rappresentazioni scientifiche del loro tempo, hanno avuto un nuovo quadro di raffigurabilità del reale. Ma quando nei quadri la prospettiva diventa una ba­ nalità assoluta, esattamente come il colore, allora ci ritrovia­ mo di fronte all’effetto di logoramento a cui Dreyer si riferi­ sce. Lui vuole mostrare cose che nella realtà non sono visi­ bili. Dreyer ha anche consigliato ai pittori di studiare le xi­ lografìe giapponesi, poiché la loro pittura si muove sulla su­ perficie. Si tratta quindi di mandare in frantumi l’uso pietrificato delle forme quotidiane per portare alla luce qualcosa che nella realtà non è stato visto. Questo ci porta alla questione del -trauma della cinema­ tografìa-, su cui si accapigliano gli storici dell’arte. È vero o no che il bianco e nero possiede ancora una parte minima difinzione, che viene distrutta dal colore?

Non riesco a immaginare che Renoir abbia creduto che il cinema sentisse l’obbligo di mostrare di più della pittura, solo perché è un medium analogico o riproduttore. Penso che sia una insinuazione che proviene dalla parte opposta. Questa idea del «trauma* ricompare sempre presso quegli autori che si avvicinano al cinema con i pregiudizi che ven­ 260

POMODORI SUGLI OCCHI

gono da altre arti, come Roland Barthes o Sartre. Ma questo non è assolutamente mai stato un problema del cinema. •Trauma della cinematografia» - ci sento sempre implicito un giudizio di valore. La finzione nel cinema è qualcosa di diverso dalla finzione in pittura. Renoir, che già molto pre­ sto, nel 1933, prese posizione a favore della pellicola a co­ lori, era tanto contrario all’imitazione della pittura quanto era contrario alla esatta resa dei colori della realtà. •Tout est fiction* diceva. Questo, soprattutto da parte di un regista che viene annoverato tra quelli realisti, non sembra suonare come un trauma. Egli sa che in un medium riproduttivo e fotografico la finzione sta altrove. Che allo spettatore di un film a colori non rimanga nulla da fare è un luogo comune e inutile. Si deve essere ciechi se in Home from the Hill {A casa dopo Turavano} vediamo Robert Mitchum seduto nella sua grande poltrona rossa e questo non mette le ali alla nostra fantasia. L’effetto viene daH’immagine d’insieme. Funziona grazie al rosso, come se fosse un marchio. Barthes credeva di sapere che cosa nel­ l’arte si era trasformato a causa dei media «tecnici». La carat­ teristica principale delle arti basate sulla riproduzione è l’a­ nalogia. Nell’estetica classica l’analogia è stata disprezzata. Copiare, imitare, lo possono fare tutti. Ma anche con fram­ menti della realtà si possono creare artefatti. Il colore del ci­ nema non è natura, è chimica. Il cinema, nonostante sia basato sulla riproduzione, è un artefatto. Alcuni hanno un’idea dell’astrazione tale per cui credono che sia la necessaria consacrazione finale di tutte le vere arti. Per loro soltanto l’astrazione innalza l’arte sul piedistallo. Ma quando nel cinema la luce si spegne e le im­ magini incominciano a muoversi sullo schermo, questo tipo di teorici non sono più in grado di cogliere la differenza tra una inquadratura totale e un campo medio. Vedono la fin­ zione, ma non vedono la messinscena. Questa, però, non è una carenza del cinema.

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Il bianco e nero è tomato di moda, è una cosa da cinefi­ li. C’è qualcosa che il bianco e nero rende possibile e il colo­ re no? Ci si deve chiedere come mai determinati autori oggi preferiscono girare in bianco e nero. È una reazione com­ prensibile, per stimolare lo sguardo, per punzecchiare la percezione, dopo che il colore, divenuto ormai convenzio­ ne, ha spianato tutto. Io credo che Wim Wenders lavori con Henri Alekan co­ me direttore della fotografia perché vorrebbe riallacciarsi a una precisa tradizione europea. Alekan era assistente di Carnè, e il film noir europeo è derivato dal suo bianco e nero; e Alekan aveva anche già filmato con Ophùls gli spi­ riti nei lampadari al di sopra dei convitati a nozze. Ma ha avuto anche esperienze di film a colori, sulle quali riferisce nel suo libro, con grande profondità. Il suo bianco e nero oggi è di quelli che sono passati attraverso il colore, così come Wim è passato attraverso le proprie esperienze ame­ ricane. Jim Jarmush fa un cinema in stile newyorkese, e girare in bianco e nero è un modo per opporsi al cinema di Hol­ lywood. Se girare in bianco e nero è soltanto un atteggia­ mento, e non una decisione, allora per i film funziona come se fosse colore.

Jarmush e Wim Wenders fanno infatti un bianco e nero quasi •pittorico».

Ma è un bianco e nero pittorico diverso da quello dei re­ gisti del cinema muto, che, come il bianco e nero dei gran­ di direttori di fotografia del film noir, è una questione di lu­ ce. Per Jarmush si tratta di un post-colore. I giovani diretto­ ri della fotografia fanno oggi bianco e nero a colori.

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POMODORI SUGLI OCCHI

Cosa intende con •bianco e nero della luce*? Che, nelle sue differenzazioni, è nato dalla mancanza di colore. Il bianco e nero a colori dà voce al trauma della ci­ nematografia, è un’astrazione.

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Sbiaditi, i colori della DDR La tavolozza di Hitchcock e Rohmer come suo intermediario (1997)

Tra i registi di film a colori, Hitchcock rappresenta un ca­ so speciale. I suoi esegeti non si sono mai preoccupati par­ ticolarmente del fatto che egli girasse i suoi film neri a colo­ ri, e anche gli effetti del suo umore nero sul colore sono ri­ masti ampiamente ignorati. Lui, ad ogni occasione, non mancava di sottolineare che al bianco e nero preferiva il co­ lore. Ma non parlò mai del colore in pittura, del quale tanto si discuteva quando all’inizio del secolo esso cominciò a li­ berarsi dalla figura, dal disegno e dalla classica regola se­ condo la quale il colore doveva trovare il suo fondamento nel disegno. In Hitchcock troviamo riferimenti di ogni tipo al design, talvolta con allusioni che si possono tradurre dall'inglese soltanto a stento. Parlando della stesura della sceneggiatura dice: 'When I am designing a scene with a writer...» Poi però il significato qui evidente di progetto e progettazione cam­ bia e diventa riferimento alla scenografia e allo spazio sce­ nico, fino a considerare le grandezze scalari dell’inquadra­ tura. Per Hitchcock il montaggio avviene prima del lavoro di ripresa, quando scrive la sceneggiatura - un fatto che ha grandi conseguenze, perché in questo modo si fondono im­ magine e inquadratura, tecnica ed estetica. Nella maggior parte degli studi e delle analisi condotti sui suoi film non si parla mai del colore, con l’eccezione di Eric Rohmer. Rohmer fin dall’inizio, ovvero dal primo film a colori di Hitchcock, Rope {Nodo alla gola}, che analizzò in dettaglio nel 1950 sulla -Gazette du Cinéma», comprese la 264

SBIADITI, I COLORI DELLA DDR

funzione costitutiva che per Hitchcock aveva il colore. Do­ po il film muto e il film sonoro in bianco e nero, per Roh­ mer il film a colori è la terza e definitiva tappa nell’evolu­ zione del cinema. Distingue due diversi impieghi del colo­ re: quello del buongusto sociale e quello più specifico del cinema, che usa il colore di oggetti e motivi, dei luoghi, delle stagioni e dei vestiti, per ottenere effetti drammatici ed emotivi; in cui le qualità del colore non sono caratteristiche oggettive ma sono il frutto di una serie di relazioni. Per i propri film Rohmer fa volentieri riferimento ai pitto­ ri. A Leonardo Da Vinci e a Hugo Hartung per Ma Nuit cbez Maud (La mia notte con Maud), a Ingres per L’Amour l’après-midi (L’amore nel pomeriggio), a Fussli per Marquise von O. (La marchesa von...), per Le Genou de Claire (Ilgi­ nocchio di Claire) a Gauguin, per Pauline à la plage (Pauli­ ne alla spiaggia) a Matisse e al pittore di paesaggi norman­ no Boudin. Con la sola eccezione di Marquise von O. i qua­ dri non vengono imitati, ma rappresentano un impulso ini­ ziale e un modo di comunicare con il direttore della foto­ grafia. Indicano poi da ultimo fino a che punto il colore nel film sia qualcosa di differente. Ciò non di rado portò a di­ scussioni con Nestor Almendros, che fu suo direttore di fo­ tografia in otto film, e del quale Rohmer dice che tende al cromatismo dei pittori spagnoli del XVII secolo, un colore cupo, ricco di ombre, chiaroscuri ed effetti plastici. I vestiti bianchi che Moidele Bickel della Schaubuhne disegnò per Marquise von O. vennero poi tinti con il tè. Rohmer è ammiratore incondizionato di Matisse, in parti­ colare del suo bianco e del suo audace modo di impiegare le strisce - verticali, orizzontali e oblique, una accanto all’al­ tra. Tra i moderni Matisse è il pittore più decorativo, che di­ pinge con colori vivaci e senza ombre. Traeva ispirazione dai colori delle stoffe, dei vestiti, dell’arredamento. Dipinge­ va «murales». Il suo obiettivo era spingere le sue «semplifica­ zioni» al punto di fondere l’uno nell’altro disegno e colore. Per le sue immagini aveva inoltre un ideale inconsueto: avrebbero dovuto essere per tutti un benefìcio, rilassanti come una poltrona costruita ad arte. 265

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La macchina da presa, che fotografa i colori e non li adatta secondo il gusto e l’abitudine come fa l’occhio uma­ no, restituisce il colore come materia e nell’effetto che pre­ cede qualsiasi significato, che commuove ed emoziona. L’a­ spetto del colore rimosso dalle pretese di assolutismo della pittura moderna riacquista i propri diritti - quell’aspetto che il Goethe della Teoria dei colori tratta nella categoria dei co­ lori fisici e chimici, cioè i colori dei tintori. A tali colori va tutto il suo interesse, perché sono legati ai materiali. Dalla loro mescola si può apprendere meno sulla causa e sulle origini dei colori e più sulle loro condizioni e circostanze: il colore nell’interazione con la luce, e come il colore, reso vi­ sibile e percettibile dalla luce, vive.

Iniziata con l’uscita del film nel 1948, la ricezione di Ro­ pe è stata fino ad oggi condizionata dalla prova di forza ci­ nematografica fatta da Hitchcock, che lo girò per così dire in una sola inquadratura in corrispondenza all’opera teatra­ le da cui è tratto, per simulare lo svolgimento ininterrotto della vicenda, dalle 19 30 alle 22.15. Un’idea stupida, disse Hitchcock a Truffaut. Non sarebbe stata cinematografica, scrisse Rohmer, se si fosse trattato di un film in bianco e ne­ ro, ma grazie al colore diventa invece una scelta funzionale, specificamente cinematografica. Per Hitchcock tecniche e procedure sono fonti di ispirazione. E una delle sue regole ferree è, una volta che sono prese, quella di sfruttare tali decisioni al massimo delle loro possibilità. Hitchcock sovente giustifica i suoi effetti e le sue gag particolari sostenendo una loro presunta funzionalità, ma bisognerebbe non lasciarsi ingannare dall’aura matematico­ economica di questa parola. Per lui «funzione* è un artificio che racconta una storia con efficacia. Innanzitutto in un film il colore, quando non lo si domi­ na alla perfezione, sottolinea ancor più ogni cambio di in­ quadratura. Si vede, dice Goethe, scaturire un colore sui bordi, sull’orlo delle immagini. Per questo Hitchcock in Ro­ pe, per aumentare ancora l’impressione di continuità, lega il 266

SBIADITI, I COLDRI DELLA DDR

colore alla luce del giorno che trapassa nella sera. Gli even­ ti, fino a che irrompe l’oscurità e la luce delle lampade de­ termina il tono cromatico, sono immersi in una sorta di in­ daco, che è un colore di passaggio tra il blu e il violetto. È un tramonto artificiale, le cui ombre che si colorano sempre più di violetto sempre più inglobano gli spazi e diffondono inquietudine, in relazione alla quale Goethe nota che essa si sprigiona nel crescendo dal giallo al blu, al rosso. Hitchcock, che in Rope lavorava ancora con le tecniche d’illuminazione diretta in uso a quel tempo, a dominante rossa, si trovò costretto a girare di nuovo gli ultimi cinque rulli del film, non soltanto perché a causa dell’effetto di oscuramento i volti erano divenuti sempre più rossi, ma an­ che perché i toni arancio, che diventavano sempre più cal­ di, non corrispondevano più all’atmosfera del film. I colori nello spazio trovano a posteriori una loro moti­ vazione nella gigantesca finestra che il formato in cinema­ scope apre sul salotto del cinema. Sono la scenografia e l’ambiente che dettano i movimenti degli attori e della mac­ china da presa. L’appartamento disposto per il lungo tra­ sforma la scena teatrale in uno spazio filmico. In generale, tutto viene allungato e distorto come in un’anamorfosi - co­ sì come lo sono gli argomenti e le dottrine del povero pro­ fessor James Stewart. La corda attorno al pacchetto dei libri non è soltanto uno scherzo crudele architettato da uno de­ gli assassini ai danni dei genitori della sua vittima. Subito fin dalla prima scena, quando i ragazzi assassini discutono se sia il caso di aprire le tende, si fa allusione alla dipen­ denza del colore dalla luce; a quanto pare si tratta di mo­ strare la diversa condizione psicologica in cui si trovano uno di loro dopo l’uccisione preferirebbe restare ancora nella penombra, mentre l’altro, più sfrontato, nella chiara luce del giorno troverebbe la propria bravata ancora più grandiosa: si indica così quale dei due vede chiaramente e quale in modo offuscato. In un’ampia intervista su Tom Curtain (Il sipario strap­ pato) che Hitchcock concesse all’-American Cinemato267

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grapher», una rivista specializzata di fotografia cinematogra­ fica, nominò, e questa volta in modo tutt’altro che negativo, Rope: quel film era teatro dilatato; una sequenza corrisponde ai dieci minuti di un rullo di pellicola nella macchina da presa, e all’interno di questo arco di tempo la macchina as­ sume tutte le posizioni che le sono possibili, attira lo sguar­ do dentro l’immagine - è come se io mettessi in mano ad ogni singolo spettatore un binocolo da teatro, per mezzo del quale egli, senza avvedersi della macchina da presa, possa seguire le figure e lasciar errare lo sguardo. Dei colori del film non era soddisfatto. L’illuminazione nei film a colori girati in studio è per abitudine ancora lega­ ta alle consuetudini del film in bianco e nero: con una luce a caduta, proveniente da lampade situate in alto, fissate su impalcature di legno, tutt’attorno a set senza soffitto. I diret­ tori della fotografìa della nouvelle vague ( in primis Raoul Coutard, fotografo soprattutto per Godard) girando in sce­ nari naturali svilupparono tecniche per lavorare soltanto con luce riflessa: le lampade, al di fuori del campo della macchina da presa, vengono orientate verso i soffitti dei lo­ cali e da lì la loro luce ricade, senza creare ombre particola­ ri, diffondendosi per la scena. Questa resta immersa in una luce morbida, uniforme, e in tal modo scompaiono i duri contorni delle figure e degli oggetti. La tecnica di illuminazione dell'età del glamour, che enu­ cleava i personaggi e li separava intenzionalmente dallo sfondo, rendeva il film a colori statico, facendolo assomi­ gliare alle luccicanti immagini della pubblicità. Per questo in Torn Curtain Hitchcock scelse una luce riflessa, sempre indiretta, secondo un altro stile: sarebbe stato il suo primo film con colori naturali, realistici e conformi alla pellicola. Se ha proceduto secondo i suoi metodi abituali si sarà chie­ sto: cosa c’è nella DDR? E si sarà risposto: i colori del socia­ lismo reale. La parola d’ordine che diede a sé e ai suoi col­ 268

SBIADITI, I COLORI DELLA DDR

laboratori fu, a partire dal momento in cui il film si svolge nella Germania Orientale, di lavorare prevalentemente con toni grigi e beige. Soltanto qua e là un pizzico di rosso, per guidare l’occhio sul rosso delle uniformi dei Vopos. Si sente la freddezza che striscia fuori dai colori impalliditi, disse. Il film inizia sul mare della Norvegia, con un freddo di­ verso, un freddo azzurro, del colore del Mar Glaciale. Con una tipica gag alla Hitchcock la spia che viene dal freddo sopraggiunge dalla direzione opposta. Con un cromatismo pallido, oppresso e grigio - ma in mezzo vi è la variopinta Copenhagen - si era come instaurata da sé un’atmosfera spettrale, racconta il direttore della fotografia John Warren. Il rosso - un caliginoso rosso marrone, se paragonato al co­ lore rosso consumistico, quello dei prodotti industriali, della vestaglia di Julie Andrews sul letto della sua squallida came­ ra d’albergo di Berlino Est - esplode nell'interminabile sce­ na dell’assassinio nella fattoria, sperduta e adagiata tra i campi invernali. Il rosso, dice Goethe nel capitolo sull’«effetto sensuale e morale del colore», si conficca concretamente nell’organo visivo. Egli ricorda come i teli rossi mandino in collera gli animali e prosegue: -ho anche conosciuto persone di cultu­ ra per le quali risultava intollerabile, in una giornata altri­ menti grigia, imbattersi in un abito scarlatto». Ma anche i colori della DDR, che si suppone - a diffe­ renza della varietà di colori del Technicolor e di Hollywood - siano naturali, in pellicola sono autentici colori cinemato­ grafici. Si orientano sui toni pastello e acquarello, trasparen­ ti, che erano il marchio di fabbrica delle prime pellicole Agfacolor, le quali anche a Hollywood avevano fama di essere invidiabilmente vicine ai colori naturali. L’interesse america­ no per i procedimenti Agfa, che durante la guerra erano sta­ ti ulteriormente sviluppati, era così grande che già nel 1945 venne mandata in Germania una commissione governativa americana per interrogare gli scienziati che si trovavano sot­ to la custodia dell’esercito americano. Questo va tenuto presente quando si pensa al rapporto tra colore e politica, e 269

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alla presunta frivolezza con cui Hitchcock in Tom Curtain trattò il tema. Hitchcock per Tom Curtain a Hollywood ha riprodotto questi colori Agfa. Eccettuati alcuni spezzoni che furono gi­ rati nella DDR del tempo per rendere più autentico il film, le riprese furono fatte a Hollywood, negli spazi della Universa! City. Poiché non era stata concessa alcuna autorizzazione per le riprese, nella DDR venne spedito soltanto un operato­ re, che fece fìnta di fare un reportage di viaggio, e riprese solo i pochi soggetti che Hitchcock desiderava avere. Anche se nei titoli di testa del film leggiamo -Technico­ lor-, questo ha ancora poco a che fare con il celebre primo sistema a colori. I film della Universa! - anche i celebri film in Technicolor di Sirk - dopo il 1950 vennero girati con ma­ teriale Eastman, e nei laboratori Technicolor venivano sol­ tanto sviluppati con il sistema di stampa Technicolor a tre colori, grazie al quale viene garantita la celebre densità e stabilità del colore. Hitchcock descrive in quale modo riuscì a ricreare la DDR a Hollywood in modo tale che sembrasse autentica: Paul Newman esce dal suo albergo, e guarda la strada. Stac­ co su una vera ripresa di Berlino, con un autobus giallo che si avvicina. Stacco: Newman attraversa la strada e sale sul­ l'autobus - l'autobus è stato ricostruito, e si muove all’inter­ no delio studio. Al resto ci pensano gli occhi dello spettato­ re, che grazie al colore giallo legano perfettamente l’una al­ l’altra le due inquadrature. Il modo in cui procede con edifìci e prospettive, spiega Hitchcock, gli viene dalla scuola berlinese - sono cose che aveva imparato all’epoca del cinema muto, lavorando come art director e production designer presso l’UFA. La sequen­ za del museo in Tom Curtain consiste in inquadrature opa­ che, totali dall’alto sul pavimento dipinto; su pareti dipinte sono dipinti quadri appesi, e solo alcuni minimi particolari della scenografia sono davvero costruiti per i primi piani con gli attori. Anche la costruzione di vetro e acciaio dell’e­ dificio dell’aeroporto di Berlino Est è dipinta.

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Per l’atmosfera del film, caratterizzata dal colore tedesco, fin dalla preproduzione Hitchcock si assicurò l’assistenza di Hein Heckroth - e non soltanto a causa della sua origine te­ desca. Nei titoli di testa egli compare come Coordinator of Production Design. Heckroth, che era pittore, emigrò nel 1933. Sua moglie era ebrea. Dal 1943 viveva in Inghilterra, dove era direttore della sezione di Arti figurative della Dar­ lington School of Art. Nel 1944 grazie all’intermediazione di Vincent Korda lavorò per la prima volta per il cinema, e dal 1945 divenne una sorta di scenografo interno per Powell e Pressburger. Con The Red Shoes {Scarpette rosse) ricevette nel 1948 l’Oscar del colore per production design e art di­ rection. Il rosso teatrale e i colori del balletto vengono dopo il sangue di Gromek sul cappotto grigio di Newman, cappot­ to che, significativamente, è presente fin dall’inizio del film; l’innamorato se ne serve come coperta aggiuntiva sulla na­ ve priva di riscaldamento. È simile al fazzoletto di Desde­ mona nell’Ote7/o. La fuga all’ultimo minuto da Berlino Est ci porta poi attraverso il palcoscenico di un teatro. Paul New­ man e Julie Andrews, immersi nelle rosse luci di scena, si tengono per mano, come Hansel e Gretel, tra i danzatori del balletto Francesca da Rimini - anche qui di nuovo: cos’è lo spettacolo culturale della DDR? Un balletto con una diva russa su musica di Cajkovskij Questa scena sul palco è una perfetta sintesi di Hitchcock e Heckroth. Un esempio del realismo fiabesco di Hitchcock, e una dimostrazione di ciò che egli intende quando dice che una scenografìa deve sempre essere sfruttata al cento per cento. In Tom Curtain la nuova arte ruba lo spettacolo a quella vecchia. Le immagini colorate in monocromia - in Rear Window {La finestra sul cortile) Hitchcock fìnge che la monocromia sia una reazione dell’occhio provocata dalla luce di un flash - sono un ricordo del teatro melodrammatico della sua in­ fanzia, nel quale la luce di scena diventava rosa per la gio­ vane eroina e di un verde sinistro al sopraggiungere del cat­ tivo. Questo verde cadaverico ha un ruolo di rilievo anche 271

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in Vertigo (La donna che visse due volte), dove Hitchcock lo introduce sotto forma di una pubblicità luminosa la cui luce penetra dalla finestra. «Attorno alla fine del secolo sapevano benissimo quello che stavano facendo» disse Hitchcock nel­ la sua ultima lunga intervista su Rolling Stone. Non impiegavano il colore in maniera simbolica, ma co­ me rimando, come un indizio, una spinta. In questo modo si suscita un’atmosfera che, secondo la definizione di Hitch­ cock, è presentimento, timore diffuso. Per i cliché grossola­ ni e astratti a cui ricorre il film in bianco e nero, in partico­ lare il film noir, egli ha solo disprezzo. Quanto al suo avere girato con Psycho ancora un film senza colori nel I960, for­ nisce come spiegazione che non sarebbe mai riuscito a fare accettare alla censura senza tagli la scena a colori della doc­ cia, con tutto quel sangue. Senza contare che essa avrebbe disgustato lo spettatore, e avrebbe disgustato anche lui. Hitchcock preferisce i delitti con ambientazioni idillia­ che, o anche quotidiane, murder by the babbling brook, a causa del contrasto, quando qualcosa di sporco, non previ­ sto, si fa largo, quando si sviluppa in maniera contrappunti­ stica da colori amabili. O anche che la vicenda, la storia, venga spinta in avanti da impulsi di colore. Con differenze e contrasti che parlano da soli, egli pungola la percezione dello spettatore, mostrando nel film a colori una grafica o una fotografia immobile, sempre un poco con il secondo fi­ ne di portare lo spettatore a decidere da quale parte vi sia più vita. Ricordiamoci del bravo ispettore di Suspicion (Il sospetto), che in realtà avrebbe dovuto concentrare la pro­ pria attenzione davanti a sé, e il cui sguardo veniva magne­ ticamente attratto in un’altra direzione, sulla stampa di un Picasso del 1931, che certamente vedeva a colori. In Torn Curtain la televisione si incarica della «raffigura­ zione della realtà». Nel contesto hitchcockiano questo signi­ fica: una funzione di sorveglianza aumentata e generalizza­ ta. Lo spazio privato e soggettivo si restringe in modo allar­ mante. 11 panico cresce quando coloro ai quali viene data la caccia sono inseguiti dalle proprie immagini televisive sbia­ 272

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dite. Le invenzioni giocate sul sosia del film muto, che na­ scevano dal timore di una perdita d'identità causata dalle immagini meccaniche, al confronto di questo erano fantasie innocue.

Da quando Hitchcock gira film a colori per visualizzare le proprie storie si serve, con grande impano, della moda. Dice: raccontarla cinematically. Ai colori dell’abbigliamento dei suoi personaggi dedica durante la preparazione dei suoi film la stessa attenzione che dedica aU’arredamento e agli edifìci, e sicuramente più che a coloro che li indossano, gli attori. In Rear Window il rapporto assai problematico tra James Stewart e Grace Kelly viene raccontato principalmente attra­ verso i vestiti. Quando lei, nel suo sofisticato abito bianco e nero da Quinta Strada entra nel piccolo appartamento del fotoreporter, realisticamente traboccante di fotografìe in bianco e nero, la massa di stoffa ondeggiante della sua gon­ na d’organza limita ancora di più la comunque già minima possibilità di movimento di lui. È incomprensibile - ma si può spiegare con la generale disattenzione per la moda vi­ sta come elemento sociale aggravante - , che i censori del cinema a Hollywood non abbiano tagliato quello che avvie­ ne sullo schermo quando Grace Kelly compare con il suo minuscolo ed elegantissimo heautycase nero e comunica a Stewart di essere decisa a trascorrere la notte presso di lui. Due pressioni sul bottone, la borsetta si apre e ne sprizza fuori un negligé rosa che prende volume, un vero incubo (se si pensa che Hitchcock in Notorious riuscì a conservare il celebre bacio più lungo della storia del cinema soltanto grazie a un montaggio alternato - il regolamento permette­ va soltanto scene brevi, della durata di pochi secondi!) Le gag cromatiche di Hitchcock si fanno più sottili alla fi­ ne di Rear Window, quando la socialite ha ottenuto di po­ tersi prendere cura della seconda ingessatura di Stewart, e giace sul suo letto come un’odalisca, nelle più orripilanti combinazioni di colore offerte dall’abbigliamento sportivo 273

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americano, pantaloni blu intenso e blusa arancione, e si istruisce, leggendo un libro sul Tibet, in vista di futuri viag­ gi di lavoro. Ma non appena Stewart si appisola, in un lam­ po lei tira fuori da sotto un cuscino un numero di Vanity Fair, e guarda con voluttà le fotografie a colori dei modelli haute couture. «Noi raccontiamo- disse Hitchcock in un contesto diverso ma assolutamente paragonabile, «in una serie di inquadrature composte di immagini, scenografie e paesaggi. Essi sono enormente importanti, perché in ogni momento rilasciano dichiarazioni e fanno affermazioni-. James Stewart davanti a un pubblico di studenti di un college di Los Angeles ha raccontato del suo lavoro con Hitchcock. Disse che era in tutti i sensi un uomo visivo e non stimava molto il linguaggio, non vi prestava grande at­ tenzione; quando l’assistente alla sceneggiatura gli fece no­ tare che Stewart continuava a pronunciare frasi diverse da quelle che erano nel copione, lui disse soltanto: «mi sembra ragionevole, e da un punto di vista grammaticale mi sembra corretto-. Che Hitchcock abbia fatto di lui, sul quale gravava l’immagine di persona poco loquace, l’insegnante dei due giovani assassini di Rope, è coerente con la sua opinione secondo la quale poche parole acuiscono l’attenzione per segni e tracce. In Torn Curtain ci dimostra con quanta effi­ cacia sappia astrarsi dal linguaggio e rinunciare a esso. Nel­ l’aula magna dell’università di Lipsia deve essere messa alla prova l’autenticità della diserzione di Newman. Con le sue formule, corrette solo a metà, egli incuriosisce il suo collega della Germania Orientale, del quale vuole spiare il maggior progresso scientifico. Quindi si tiene tra i due un colloquio a porte chiuse, politicamente non autorizzato, un violento scambio di colpi secondo tutte le regole della disputa reto­ rica, ma in silenzio, per formule, che tuttavia hanno il loro effetto di risonanza emozionale. In ogni caso sempre a Lipsia Hitchcock allestisce una scena da film muto che sembra ispirata a Murnau, e che nel film di quest’ultimo su Faust esiste già come quadro ripro­ dotto, formato da tre Bócklin. In Torn Curtain i colori sono 274

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tali da far credere che il laboratorio di sviluppo abbia rice­ vuto l’indicazione di prendere a modello l’imbibizione e il viraggio dei film muti. John Warren, il direttore della foto­ grafia, riferisce che per riuscire a ottenere il giusto effetto visionò innumerevoli film insieme a Hein Heckroth. C’è un’idea di Gilles Deleuze, su quale sia il modo mi­ gliore per avvicinare i film di Hitchcock, che da quando l’ho letta, anni fa, non mi vuol più uscire di testa. Si dovreb­ be guardarli come una tela tesa sulla cornice di un telaio, il cui tessuto, intrecciato di disegni, prende forma davanti ai nostri occhi. La trama del film è soltanto la cornice che tie­ ne insieme la rete delle relazioni, che sono il piano immagi­ nario su cui circolano i sentimenti, i desideri e l’alternarsi dei pensieri. Il consiglio di Deleuze fa tornare in mente l’origine tessi­ le dell’arte, in cui tecnica ed estetica sono intrecciate in ma­ niera inseparabile, e porta la regola di Hitchcock, che trama e figure non devono staccarsi dallo sfondo, a congiungersi con gli sforzi di Matisse, perché nel quadro colore e dise­ gno divenissero tutt’uno. Quando si riesce a seguire i singoli fili colorati che si presentano e poi di nuovo scompaiono, verosimilmente si giunge più facilmente, nei primi piani e negli sfondi che si intrecciano, sulle tracce delle intenzioni che stanno dietro alla sua opera. Al modo in cui Hitchcock attua il mobile in­ trecciarsi dei piani della percezione soggettiva e oggettiva, di quelli propri con quelli dello spettatore. La luce con cui Tom Curtain - proprio perché cade at­ traverso una fessura sottile, attraverso uno spacco nel tessu­ to - illumina l’ampio campo del colore, solleva, concentrata e allusiva, i problemi che in tutte le considerazioni sul colo­ re non sono mai soddisfatti, né sanno giungere a risoluzioni definitive: dopo la priorità del disegno sul colore, quella della costruzione sulla materia; se i colori siano un fenome­ no della superfìcie o invece penetrino a fondo nella mate­ ria; se sono comprese meglio pittoricamente nei volumi di 275

FRIEDA GRAFE - SCRITTI 01 CINEMA 1961-2000

Cézanne o nelle superfici decorative di Matisse; se l’analisi dello spettro dei colori di Newton sia più corretta del mi­ scuglio di tesi derivanti da osservazioni ottiche e sulle tintu­ re di Goethe. Se il mondo sotterraneo sia un mondo di om­ bre sbiadite o un fuoco infernale rosso incandescente. E infine se anche questo scienziato americano con i gla­ ciali occhi azzurri di Paul Newman, insieme al quale tremia­ mo, sappia lasciare dietro a sé questa cortina di ferro sol­ tanto pensata, o se non si tratti invece di un cattivo sogget­ to, un personaggio che per motivi politici ruba segreti scientifici, ammazza persone e imbroglia la moglie. Alle prese con tutti questi problemi irrisolti l’immagine filosofica di Deleuze che vide i film di Hitchcock come un arazzo è un aiuto pratico. Egli, con uno scherzo del pensiero, ricom­ pone il dibattito che discute se i film di Hitchcock siano fet­ te di torta o fette di vita, se debbano essere gustate da un’e­ lite o come intrattenimento di massa. Il colore può essere rappresentato dai media fotografici come un fenomeno naturale, e negli esiti che questi produ­ cono può essere utilizzato. Con esso si può intraprendere e raggiungere qualcosa, e per questo motivo è diventato dop­ piamente naturale. La moda è qualcosa di simile al colore naturale delle città, che anima deserti di pietra grigia e permette alla luce di giocarvi. Per questo, sostiene Rohmer, essa è lo strumen­ to più efficace per dimostrare la differenza sostanziale tra il colore della pittura e il colore nel cinema. Hitchcock pensa tutti i suoi soggetti a colori - talvolta il colore è addirittura la sua prima fonte di ispirazione, e in ogni caso è per lui più importante della mise en scène. Per l’importanza della scelta del colore dei vestiti si ap­ pella al suo direttore della fotografia Almendros, che a sua volta nel suo lavoro la pone al di sopra di tutto il resto, pri­ ma della dosatura della luce, della scelta delle ottiche e dei filtri. Negli ultimi anni egli trova però da rimproverare ad Almendros un ritorno alla fotografia a colori classica, con una accresciuta tendenza a orientarsi sul colore della pittu­ 276

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ra. Hitchcock dice, molto brutalmente, che si tratta di un diffuso complesso dei direttori della fotografìa nei confronti dell’arte. Almendros al contrario riconosce di avere imparato tutto quello che la moda significa per la fotografìa a colori nel ci­ nema da Rohmer. Nella combinazione dei colori si ritrova­ no raramente quelli proposti da couturiers e designers. So­ no costoro tuttavia a dare l’impulso perché nelle strade compaiano determinati colori. Ma colui che li accosta è chi li indossa, a seconda di come gli stanno, di come si vede, in rapporto alla propria immagine di sé. Rohmer in ciascuno dei suoi film riduce ogni volta la ta­ volozza dei colori, già limitata dalle necessità della vita di tutti i giorni, a tre colori primari. La femme de l’aviateur (La moglie dell’aviatore') è un film in verde, blu e giallo. La scel­ ta del giallo ha avuto come conseguenza che uno dei suoi personaggi è diventato impiegato delle poste. Il verde è il verde dei parchi di Parigi, e dei loro stagni, e in un tono oscuro esso domina l’interno della casa dell’attrice. Il blu è il blu dei jeans e il blu mare. Per motivi simili a quelli che spinsero Hitchcock a cam­ biare il suo stile di illuminazione in Torn Curtain, Rohmer girò i suoi film in 16 mm per aumentare l’effetto di realtà e per limitare il carattere delle immagini che, a causa di una fotografìa a colori perfezionata, con i loro forti contrasti e contorni e con la loro precisione glaciale sono sempre vici­ ne alla pubblicità. Un film in verde, blu e giallo si trova già comunque dalla parte fredda dello spettro. Quando il giallo e il blu si mescolano, e le loro componenti restano bilancia­ te, nasce un verde che rasserena l’animo. Quando il loro miscuglio avviene alla perfezione, ed è generato dal movi­ mento, lo si potrebbe addirittura ritenere un colore sempli­ ce, dice Goethe. In conclusione ecco ancora una comunicazione prove­ niente da Goethe, questa volta citata come si conviene, e della quale prometto che giustificherà il titolo delle mie considerazioni: «Tutto ciò che ha vita anela al colore, al par­ 277

FRIEOA GRAFE • SCRITTI 01 CINEMA 1961-2000

ticolare, alla specificazione, all’effetto, al non traparente, fi­ no all’infinitamente piccolo. Tutto ciò che è decrepito si spinge verso il bianco, verso l’astrazione, verso il generale, la trasfigurazione, la trasparenza».

{Conferenza tenuta al Museo del Cinema di Monaco di Baviera il 25 ottobre 1997)

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VI

In relazione al colore nel cinema Frieda Grafe osservò che veniva sottoposto a una seconda rimozione, nel momen­ to in cui diventava standard. Le sue esemplari riflessioni del 1979 sui realismi e sul vedere per mezzo di apparecchi foto­ grafici e la sua analisi critica della funzionalizzazione del­ le immagini sono straordinariamente attuali, poiché oggi dobbiamo chiederci se e a quale livello, da quando le imma­ gini sono diventate così ovvie e la tecnologia delle immagini così presente e disponibile, esiste ancora una riflessione sul­ lo stato della cultura dell’immagine. Di un tale ambito di riflessioni partecipa, nei saggi qui raccolti sui temi più diversi, la sua visione del cinema come medium aperto a materiali esteticamente eterogenei. Come nei suoi testi Frieda Grafe apriva finestre, con illustrazioni, con citazioni, o presentando un film o un aspetto del cine­ ma dal punto di vista di un altro regista - Hitchcock, Roh­ mer, Godard, Eisenstein - allo stesso modo si serviva delle al­ tre arti - architettura, letteratura, pittura - o del decorso diacronico della storia del cinema, per raggiungere una vi­ sione prospettica.

*

Dal cinema ingenuo al cinema sentimentale (1961)

Romanzo e cinema Nelle critiche a Hiroshima mon amour non di rado il di­ scorso cadeva sul processo di crescente avvicinamento del cinema alla letterarietà; nelle critiche a L'avventura di Anto­ nioni abbondano i rimandi a Proust e a Virginia Woolf. Il lettore di queste critiche che non abbia visto i film potrebbe pensare che gli autori vogliano attirare un pubblico fino ad oggi riluttante a prendere sul serio il cinema come mezzo artistico, oppure che i registi siano completamente ignari delle leggi fondamentali del loro medium specifico. Sta di fatto che al neorealismo e alla sua esplicita rappresentazio­ ne documentaristica di drammi collettivi sono seguite pelli­ cole imperniate su una problematica intimista, la cui rap­ presentazione si svolge su un piano più psicologico. Se si pone mente a questa evoluzione non è ingiustificato pensa­ re alla letteratura, soprattutto al romanzo, il cui percorso si snoda in maniera analoga dai romanzi di costume di Balzac sino all’arte raffinata di Proust. Il tentativo di un paragone strutturale rimane legittimo solo nella misura in cui lo si intraprenda tenendo costantemente presenti i nessi tra la natura sensoriale di ciascun medium artistico e i presupposti della capacità umana di ri­ cezione: è necessario essere sempre consapevoli che nel romanzo si ha a che fare con una disciplina estetica le cui leggi sono regolate in primo luogo dalla dimensione tempo, mentre in virtù della fusione di elementi ottici e tonali tem­ po e spazio risultano nel cinema elementi costitutivi allo stesso titolo. 281

FRIEDA GRAFE • SCRITTI 01 CINEMA 196) 2000

Nelle forme artistiche del cinema della nouvelle vague non ci si trova affatto di fronte a una semplice trasposizione in campo filmico di tecniche del romanzo; sembra piuttosto trattarsi di processi similari di intellettualizzazione tanto nel romanzo quanto nel cinema. Dal momento che i procedi­ menti principali del romanzo sono già stati indagati, è pos­ sibile, avvalendosi di essi come di strumento d’analisi, pro­ vare a chiarire il nuovo assetto estetico del cinema attuale.

L’intellettualizzazione del romanzo si può cogliere tanto nello scemare dell’interesse per la pura azione quanto nel fatto che il lettore è sempre più informato sui processi crea­ tivi. In questo caso il piacere del pubblico risiede nella sco­ perta del meccanismo, del congegno, scoperta che va di pari passo con l’intenzione dell’autore di stimolare la colla­ borazione del lettore. Da dichiarazioni di Resnais sul suo film Hiroshima si evince che egli aveva pensato in un primo momento di gi­ rare un documentario sullo stesso tema. Ma la consapevo­ lezza che un semplice resoconto della catastrofe avvenuta tredici anni prima non era un mezzo adeguato a metterla in relazione con la nostra vita attuale lo spinse a cercare una nuova forma espressiva. L’esordio di taglio documentaristi­ co, gli inserti delle riprese a Hiroshima, sono le tracce non cancellate di una tale ricerca e al contempo un indizio per la comprensione strutturale del film. Se Resnais non ci tra­ smette altrettante informazioni sulla genesi della sua opera di quante ne fornisce Proust nel suo grande romanzo, è tut­ tavia il caso di ricordare qui il percorso da Jean Santeuil al­ la Recherche. Anche per lui la forma espositiva del romanzo nel senso del rendiconto non era sufficiente a esprimere la complessità delle proprie esperienze. Solo la riflessione su un libro da scrivere poteva dare all’interno del romanzo la chiave per decifrare la sua composizione. La mescolanza di narrazione e riflessione nel romanzo moderno, che condu­ ce sempre a una rottura dell’effetto illusionistico nel lettore, 282

DAL CINEMA INGENUO AL CINEMA SENTIMENTALE

è documentata ulteriormente nel frequente intervento del narratore, come avviene per esempio ne La montagna in­ cantata o in L’Eletto di Thomas Mann. Un parallelo cinematografico di questa sorta di disincan­ tamento lo si trova in La Signora senza camelie di Antonioni, quando si vedono Lucia Bosè e Alain Cuny provare una sce­ na. Ancora più marcata la somiglianza di procedimento ro­ manzesco e filmico si fa nella pellicola di Truffaut Tirez sur lepianiste {Tirate sul pianista} in cui la resa a livello visivo di riflessioni formali si è trasformata in principio stilistico. L’ini­ zio del film, usuale per un poliziesco, va messo in relazione con il trattamento affatto anticonvenzionale del seguito, e così l’epilogo del film è comprensibile solo se si confronta lo svolgimento dell’azione in ogni sua fase con gli elementi co­ struttivi, che conosciamo in base alla struttura della fiaba. Unicamente dallo stabilirsi di un rapporto fra due forme di rappresentazione discende l’unità del film e si evidenzia la pretesa che esso avanza nei confronti dello spettatore, ossia il fatto che all’autore del film come all’autore di un romanzo moderno sta a cuore di poter contare non su consumatori lu­ culliani bensì su un pubblico attivo. Quando Saroyan, nel film prima citato di Truffaut, davanti alla «soccorrevole signo­ ra della porta accanto», che dopo aver stipulato il contratto si mette a sua disposizione, le copre con il lenzuolo il seno nu­ do commentando che al cinema non si può vedere una sce­ na del genere, compie un gesto che è anche indubitabilmen­ te una stoccata alla censura francese; ma è in primo luogo una dimostrazione della tecnica adottata dal regista per otte­ nere l’effetto antillusionistico.

Citazioni e rimandi Il fatto che l’autore conti sulla collaborazione di un pub­ blico informato si manifesta anche in un altro procedimento in voga sul volgere del xix secolo soprattutto in romanzi eclettici - gli esempi abbondano nelle opere di Huysmans, 283

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Barrès, D’Annunzio e del primo Heinrich Mann - e che og­ gi ritroviamo nei film di Chabrol, Truffaut, Godard. Si tratta di rimandi e citazioni. Nei romanzi degli autori citati personaggi e situazioni vengono spesso caratterizzati rinviando a prototipi più o meno conosciuti. Di questo procedimento-scorciatoia si ser­ vono diversi registi della nouvelle vague. Chabrol in Les Cousins (I cugini) e Truffaut in Les Quatre-cents coups {I 400 colpi) citano Balzac. La figura del protagonista di À bout de souffle {Fino all'ultimo respiro) di Godard rimane incomprensibile se si ignora il rimando a Humphrey Bogart e a un certo genere di cinema americano. Il film di Truffaut Tirez sur le pianiste è pieno di allusioni: il pianista si chia­ ma Saroyan, uno dei fratelli di Saroyan si chiama col nomi­ gnolo di Chico che rimanda ai fratelli Marx, e a Parigi è ri­ saputo quanto Lars Schmeel abbia a che fare con l’attuale marito di Ingrid Bergman, Lars Schmidt. In Les Mistons Truf­ faut ricostruisce addirittura il vecchio film di Lumière L’Arroseur arrosé. L’eclettismo comincia già a ribaltarsi quando Beimondo in À bout de souffle dà come suo falso nome, fra i tanti, quello di Lazio Kovacs, vale a dire lo stesso nome che por­ tava nel film interpretato in precedenza, ossia À double tour (A doppia mandata) di Chabrol. L’ultimo film del regista, Les Godelureaux, rappresenta il culmine della mania citazionistica in quanto consiste di pura autoreferenzialità. La sua decifrazione presuppone la conoscenza di tutti i film precedenti di Chabrol. In tale esoterismo fa concorrenza a qualsivoglia opera ultramanierista. Rimandi e citazioni strutturano questi film come il dialo­ go conferisce una struttura specifica a opere meno com­ plesse. Se si estendono i confini di questo principio formale sino a definirlo come il riflettersi del passato nel presente e viceversa, allora a questo punto bisogna riandare a Senso di Visconti.

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DAL CINEMA INGENUO AL CINEMA SENTIMENTALE

Simultaneità e polifonia Da quando la domanda -E poi?» ha smesso di essere l’e­ lemento strutturante primario del romanzo, si è assistito ai più diversi tentativi di infrangere i confini della mera conse­ cuzione, fondamento principale del romanzo come arte del­ la temporalità. Un classico modello di tale impresa è la famosa scena della festa degli agricoltori nella Madame Bovary flaubertiana, in cui l’azione si svolge contemporaneamente su tre pia­ ni: sulla strada si muove la folla, sulla tribuna che la sovra­ sta le autorità si profondono nei loro roboanti discorsi e su un altro piano ancora ha luogo la scena pseudoromantica fra Emma e Rodolfo. Nello snodarsi narrativo le voci dei tre gruppi si mescolano tra loro. Nel nostro contesto non è tan­ to importante l’effetto satirico prodotto dalla descrizione di eventi contemporanei quanto il procedimento della simulta­ neità che sfida il lettore a vedere quanto accade a un livello della scena sempre in relazione con gli altri due. Attraverso questo procedimento l’autore è riuscito, senza interventi di­ scorsivi, in virtù della pura strutturazione di una scena, a creare una configurazione complessa che produce effetti sia sul piano emotivo sia su quello intellettuale. Non è questa la sede in cui esaminare come tale procedimento sia stato sublimato nell’evoluzione del genere romanzo. A sottoli­ neare la portata del problema basti il rimando alle vere orge di simultaneità e polifonia in Joyce e Virginia Woolf, Faulk­ ner e Proust. Nel cinema, la ricerca di un allargamento dei mezzi espressivi attraverso la simultaneità si complicava in conse­ guenza del fatto che le leggi che lo governano sono deter­ minate tanto dal tempo quanto dallo spazio. Le potenzialità di nuove forme dovevano necessariamente trovarsi nella sfera di azione di ambedue queste dimensioni. La tecnica del flashback sfiora appena il problema della simultaneità. Adempie, riprendendola, la stessa funzione svolta dal pro­ logo nel romanzo classico. 285

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La simultaneità come principio organizzatore estetico di un’intera opera in campo cinematografico si trova per la prima volta in Resnais, nel film-memoria Hiroshima mon amour. È significativo che il tempo cronometrico dell’azio­ ne sia compresso allo stesso modo che nell’ Ulisse di Joyce, mentre nel ricordo in ambedue le opere vengono evocati lunghi archi spaziotemporali. Solo dalla contrapposizione del tempo fìsico con il tempo psicologico, con il tempo vis­ suto, nasce il tempo che per Proust è la -durée réelle». Co­ stitutiva della struttura del film di Resnais non è solo questa forma ideale di tempo, bensì anche una sorta di luogo idea­ le che scaturisce, in sintonia con il mezzo, da una contrap­ posizione di immagini. A entrare in gioco non sono solo le possibili connessioni tra l’anno 1944 e l’anno 1958, ma an­ che i due luoghi di Hiroshima e Nevers separati da ventimi­ la chilometri. Presenza temporale e presenza spaziale del passato presiedono a questa rappresentazione di un tentati­ vo di felicità individuale a fronte di un dramma collettivo. L’unità del film discende dalle immagini e dalle parole del­ l’oblio e del ricordo in movimento fluttuante. Fluttuazione, movimento tra ricordo e oblio, tematizzano a loro volta il penultimo film di Antonioni, L’avventura. Il mare e le sue voci assumono qui, lungi da una funzione meramente decorativa, la stessa importanza del linguaggio onirico che suggerisce l’oblio in Hiroshima mon amour. Come nel film di Resnais tutto ruota attorno a un passato che è attuale e a una assenza che si fa presenza-, proprio come Hiroshima mon amour il film di Antonioni è un film di relazioni. È la «trovata» con cui l’autore fa sparire la ra­ gazza Anna all’inizio del film a consentire la rappresentazio­ ne della problematica del film stesso: solo con l’assenza di Anna, enigma irrisolto, viene suggerita, fino all’ossessione, la sua continua presenza. Il fatto che anche alla fine non si venga a sapere nulla del destino di Anna si pone sullo stes­ so piano della «chiave aperta- nel romanzo moderno. Né il contemporaneo autore di romanzi né il regista si sentono narratori onniscienti, che dall’alto di una postazione privile­ giata osservano una tranche de vie in sé conchiusa. 286

DAL CINEMA INGENUO AL CINEMA SENTIMENTALE

Così Sartre spiega la posizione del romanziere moderno rispetto a quella del romanziere ottocentesco: -Se volevamo dar conto della nostra epoca, dovevamo passare dalla tecni­ ca romanzesca della meccanica newtoniana alla relatività generale, dovevamo popolare i nostri romanzi di soggetti la cui coscienza è a metà lucida, a metà obnubilata». Come nei romanzieri che abbiamo citato prende forma nei film di Resnais e Antonioni l’immagine della sconcertan­ te imperscrutabilità della nostra attuale condizione, che non si può cogliere con le vecchie categorie scientifiche. Il su­ peramento del tempo cronologico e del luogo geografico a opera della simultaneità e della contrapposizione crea una ideale, non astratta temporalità e spazialità, la cui realtà è ir­ reale e la cui irrealtà è reale.

... in realtà non si capisce perché il cinema non possa essere definito una forma visiva della letteratura, come lo è il teatro. Ovviamente continuerebbe a restare in misura suf­ ficiente non-letteratura, come il teatro in un certo senso non è letteratura, ma appunto teatro, pura e vitale mise-enscène. A prescindere dalla diversità dei procedimenti visi­ vamente percepibili, dal teatro lo differenzierebbe il fatto di essere ancora meno legato in senso meccanico al testo. Anche la sua drammaturgia sarebbe diversa da quella del teatro o della letteratura scritta (Alfred Andersch, Das Kino derAutoren [Il cinema d’autore], -Merkur«).

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Dottor Caligari versus Dottor Kracauer ovvero la salvezza della realtà estetica (1970) L’anniversario di Caligari dovrebbe anche essere una giornata commemorativa della critica cinematografica tede­ sca. Il titolo di questo film è così legato al nome di chi nel­ l’opinione di Adorno ha fatto della critica cinematografica tedesca una «critica di rango», che a volte mi appare come una sorta di anagramma. E allora succede che io citi: Sieg­ fried Cracauer, Von Kaligari bis Hitler. Questo libro in Ger­ mania è alle origini di una scuola di critica cinematografica, il cui programma è realistico-sociologico; al film, che è ser­ vito da paradigma per le tesi del libro, ha procurato, perlo­ meno tra i cinefili tedeschi, una celebrità ambigua. Persino analisi che non condividono le premesse del metodo kracaueriano tramandano i suoi pregiudizi nei confronti del film, pregiudizi di natura esclusivamente contenutistica. All’estero si chiama caligarismo ciò che nei film tedeschi viene percepito come influsso stilistico espressionista. Sulle orme delle tesi kracaueriane si potrebbe chiamare caligari­ smo ciò che nei film precedenti al secondo conflitto mon­ diale prefigura, a detta di Kracauer, il minaccioso avvento di Hitler in figure di tiranni avidi di potere. A proposito del dottor Caligari, che conduce una doppia vita come direttore di manicomio e imbonitore assassino: «Anch’egli usava la forza ipnotica per sottomettere alla propria volontà strumen­ ti umani, tecnica che come punto di partenza e obiettivo fi­ nale lasciava presagire quel «potere di soggiogare gli animi* cui Hitler per primo, in seguito, farà ricorso in misura mas­ siccia*. La cosa risulta così convincente che non è più distin­ guibile dall’aver ragione a posteriori. Con il film, quando lo 288

DOTTOR CALIGARI VERSUS DOTTOR KRACAUER

si veda oggi, ha ben poco a che fare. È una supposizione extrafilmica, provata unicamente dalla tesi del libro. Un teorico francese del romanzo ha espresso recente­ mente il suo stupore per il fatto che dopo secoli di lettera­ tura vi siano ancora lettori che credono di potersi sdraiare sulla parola letto. Kracauer vede nel cinema un mezzo arti­ stico che per via del suo «realismo di fondo» consente una riproduzione diretta del mondo, una possibilità di «salvezza della realtà fisica». Ma fin dall’inizio nel cinema è stata pre­ sente anche l’altra tendenza, che non ravvisava nella capa­ cità dell’immagine filmica di duplicare il mondo un atout, bensì un ostacolo da superare. All’origine della storia del ci­ nema stanno i fratelli antagonisti Méliès e Lumière.

Insieme ai pittori Ròhrig e Reimann, Hermann Warm progettò le scenografìe del film, e ne è il vero autore; il re­ gista Robert Wiene non è molto di più di un funzionario degli studi cinematografici. Per questo Warm potè realizzare la sua concezione di film come «disegni animati» al punto che i mezzi analitici kracaueriani si rivelano del tutto inade­ guati a questo film, e se mai adeguati al massimo a film tipo Lumière. Gli attori in Caligari non corrispondono più all’idea di personaggi. Sono un prolungamento della scenografìa, è la scenografia che crea la loro silhouette. Quando un guardia­ no notturno attraversa le quinte per accendere un lampione dipinto, improvvisamente acquista qualcosa di innaturale, di folle: Warm racconta come la bizzarra sceneggiatura de­ gli autori Janowitz e Mayer esigesse naturalmente un décor bizzarro, e che quindi si era risolto per una realizzazione in chiave espressionista. Tutto ciò suona alquanto meccanico, ma mette in luce un’idea condivisa dalla maggior parte dei pionieri del cinema: l'idea che con il nuovo medium si sta­ va facendo strada un cambiamento nel modo di rappresen­ tare l’uomo. Il cinema ideale, afferma Josef von Sternberg, sarà totalmente sintetico. Ai suoi film e a Caligari è sottesa una esperienza comune: con le possibilità di rappresenta­ 289

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zione del cinema l’individuo sparisce dal centro dell’inven­ zione. Caligari, dice Sternberg, gli ha insegnato come lo sfondo -sia stato caricato di emozionalità». Un critico inglese ebbe a scrivere allora a proposito di Caligari che lo sfondo era balzato in primo piano. Se le cose fossero andate come volevano gli autori della sceneggiatura, la scenografia avrebbe dovuto essere realiz­ zata da Alfred Kubin. Che l’incarico toccasse a un funziona­ rio degli studi cinematografici, è la riprova per Kracauer, e per i suoi epigoni, della corruzione e dell’avidità dell’industria cinematografica tedesca e della sua tendenza a soffoca­ re ogni spirito rivoluzionario. Ma né a Kracauer né ai suoi pappagalleschi discepoli passò per la testa nemmeno che le tendenze rivoluzionarie potessero essere insite nel nuovo medium stesso. A loro sono più familiari gli sforzi indivi­ duali degli autori borghesi e quindi li prediligono. Stando a Kracauer il soggetto di Caligari perse in viru­ lenza perché venne modificata la sceneggiatura. Al film venne assegnata una cornice «che ribaltava quello che era l’intento iniziale. Infatti, mentre la storia in origine intende­ va rappresentare la follia insita in ogni autorità, la versione di Wiene celebrava Tautorità stessa e attribuiva la follia al suo antagonista». Anche Fritz Lang, cui era stata in un primo tempo proposta la regia, era a favore di una tale cornice per l’azione. Se si dimenticano le idee non realizzate della sceneggiatura e si prescinde completamente dalle tesi kracaueriane del tiranno, allora si vedrà un film del tutto diver­ so da quello visto da Kracauer. Un film che perde quanto a tesi programmatiche, ma che ci guadagna in quanto film, poiché la linearità della sceneggiatura si dissolve e nasce una rete di riferimenti e allusioni alla cui decifrazione si of­ frono molte chiavi interpretative. Kracauer difende come soggetto originale una sceneg­ giatura che è in toto una compilazione di motivi tratti da te­ sti letterari noti, da E.T.A. Hoffmann al Golem di Meyrink, la cui trasposizione filmica aveva fortemente influenzato, co290

DOTTOR CALIGARI VERSUS DOTTOR KRACAUER

me essi stessi ebbero a dichiarare, gli autori della sceneg­ giatura. Niente era più adatto a tale soggetto che rivestirlo di una delle forme predilette dal romanticismo, la cui fun­ zione è quella di staccare completamente le storie dal terre­ no del reale così che il loro finale non sia realmente una fi­ ne e che il loro inizio si perda in ricordi, sogni, nella follia o anche in un libro, come in Heinrich von Ofterdingen o nel Manoscritto trovato a Saragozza di Potocki. Il sapere dello psichiatra Caligari, cui egli deve il suo potere, l’ha at­ tinto da un antico libro, il cui autore si chiamava Caligari e che a sua volta aveva un medium di nome Cesare. Queste spiegazioni fornite alla fine hanno soltanto la funzione di confondere. Non apportano quasi nulla alla comprensione del film, ma sicuramente generano una totale incertezza. È come in Tbe Big Sleep (Jl grande sonno) di Howard Hawks o ne La Nuit du carrefour di Renoir. Si ha un accumulo ec­ cessivo di analogie; quando tutto è identico non si riesce più a venire a capo di nulla. «Devo diventare Caligari» pul­ sano tutt’attorno a Caligari scritte estatiche spingendolo al­ l’assassinio. L’ipnotizzatore Caligari è a sua volta ipnotizza­ to. Vittima del suo libro. Per me questo film non è una premonizione di Hitler. È un’eco della svolta copernicana che a opera di Freud scon­ volse l’autoconsapevolezza dell’individuo; combinata con un medium che come nessun altro è fatto per provare le scoperte freudiane. Riproduzione, ripetizione è già la picco­ la morte. Non presenza: solo rappresentazione. Il cinema guarda la morte al lavoro, dice Godard.

Il cinema come disegno animato è una potenzialità del cinema che viene tanto poco realizzata per il fatto che i re­ gisti raramente sono pittori o architetti e che il décor è an­ cora e sempre solo un veicolo. Che Dos Cabinet des Doktor Caligari (Jl gabinetto del dottor Caligari) malgrado la sua ri­ voluzionaria concezione scenografica non abbia innescato una rivoluzione cinematografica va probabilmente ascritto alla circostanza che il film venne concepito nello spirito di 291

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una pittura segnata dall’irruzione di intenzionalità letterarie nelle arti figurative. I disegni animati di Warm prendono al­ la lettera l’espressionismo. Quando nei quadri espressionisti percepiamo del movimento, lo troviamo nella cornice, nei movimento raffrenato che minaccia di far esplodere la cor­ nice stessa, nella tensione fra quiete e movimento. Animare una tale pittura significa minarla alla base. Come la fotogra­ fia rappresentò un superamento del naturalismo, in Caliga­ ri la pittura in movimento attraverso l’immagine in movi­ mento viene condotta ad absurdum. Dos Cabinet des Doktor Caligari è un caso esemplare nella storia del cinema tedesco, un cominciamento subito atrofizzato. La spiegazione del dottor Kracauer: «Il loro [dei registi] ritirarsi negli studi rappresenta una parte di quella ri­ tirata generale nel guscio della propria interiorità». Vorrei che i registi tedeschi si riallacciassero là dove, a partire dal 1920, non si è fatto quasi più niente. Vorrei che la situazio­ ne economica non fosse tale per cui studi cinematografici sono sinonimo di superproduzioni. L’atelier di Méliès non lo era certamente. Dal momento che non esistono studi di questo genere per i giovani, essi sono costretti a copiare dal vero e a fissare eternamente la propria immagine riflessa nello specchio. La realtà fisica la si può salvare solo condu­ cendola oltre se stessa, non duplicandola. Solo da qui co­ mincia il cambiamento. Nel Caligari del 1920 non erano rivoluzionari né la sce­ neggiatura né la scenografia. Rivoluzionaria era la funzione del décor nel giovane medium. Poiché deviava dalla norma e tentava di modificarla. Dall’argomentazione kracaueriana il film venne portato esattamente al livello dai quale si ap­ prestava proprio allora a scendere. Non si dovrebbe addos­ sare troppo la colpa a Kracauer. Anche lui è una vittima dei libri.

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Il Realismo è sempre neo-, sur-, super-, iper-. Vedere con apparecchi fotografici (1979)

Nel mondo dell'arte finzione è una parola

in qualche modo equivoca. Esiste l'idea che

finzione e autenticità si escludano a vicen­

da. Per come la vedo io, la parola finzione indirà una tecnica per mettere in evidenza la verità. Yvonne Rainer

Quanto segue ha avuto il suo principio a Vienna. Poi si sono aggiunte riflessioni, esperienze e domande che si ri­ presentano ogni volta che si ha a che fare con film vecchi o nuovi, e che nella loro contraddittorietà e insolubilità sono il pane quotidiano di chi si occupa di cinema. Qual'è la par­ te della realtà che il cinema vede, e in che modo la vede? Che cosa è cambiato nel modo di raffigurarla, dacché la realtà viene ripresa e riprodotta da un’apparecchiatura neu­ trale, e non è più solamente riflessa da uno sguardo che se ne interessa? In quale modo un oggetto diventa cosa, un se­ gno con un significato? Perché i realismi del cinema si logo­ rano così presto? La ripetibilità meccanica trasforma quello che appena prima era inedito e straordinario in una pietan­ za qualunque? Il cinema rende evidente che anche il reali­ smo non è altro che un sistema di segni; per questo le sue pretese di verità non si esauriscono nel riflettere un mondo esterno già conosciuto. Il tema dell’ultima grande retrospettiva al Museo Austriaco del Cinema è stato il neorealismo italiano. Il programma ab­ bracciava esattamente quei film che vengono indicati dalle 293

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storie del cinema come i più rappresentativi di questa cor­ rente cinematografica. Non i precorritori, non gli eretici, non i ritardatari. Non Gente del Po di Antonioni, non Amore in città, la cine-pravda di Zavattini, non Banditi a Orgosolo di De Seta. Un programma che prometteva l’essenza stessa, la norma neorealistica. Un evento di storia dell’estetica, evidente quanto lo è il riconoscimento, condiviso da tutte le teorie cinematografiche, del naturale realismo del cinema. Con ciò non si può ovviamente che intendere sempre e soltanto il suo effetto. La selezione era dunque ben fatta. Se fossero state prese in considerazione le particolarità ci si sarebbe potuti dire «è nei suoi capolavori che si trova il neoreali­ smo-. Avevamo invece i capolavori e un potente concetto fantasma. Dal punto di vista dello stile cinematografico il neorealismo più di qualunque altro cinema è fissato in schemi, ed è la negazione stessa delle proprie intenzioni. Da principio si trattava di un’attitudine nel modo di filmare, di un nuovo modo di registrare, un sistema di partecipazio­ ne diretta che si adattava a ogni particolare situazione e momento. Come avviene spesso nel caso degli inizi, anche quelli del neorealismo si è preferito immaginarseli eroici, come una Resistenza culturale. Contro il cinema fascista dei -telefoni bianchi-, che era meno una variante di Hollywood fatta a Cinecittà che una trasposizione del teatro leggero europeo. Ma i fronti della realtà anche allora correvano in maniera obliqua. La prova: Rossellini coi fascisti fece tre film, e l’im­ pegno di Visconti di La terra trema è andato tranquillamen­ te a esaurirsi in film-opera borghesi decadenti. Il primo a sostenere pubblicamente il Neorealismo fu nel 1943 il critico Umberto Barbaro. Con questo termine egli non intendeva più realtà immediata, ma soltanto un nuovo modello per il cinema. Si doveva guardare verso la Francia, ai film di Carnè e dei fratelli Prévert. Questi avevano già una loro etichetta. Si chiamavano realisti poetici.

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IL REALISMO È SEMPRE NEO-, SUR-, SUPER-, IPER-

America-Europa e ritorno La frattura la segnò Ossessione, di Visconti. Fino a quel momento non si era mai visto il paesaggio italiano riempire fino a tal punto lo spazio del cinema. E in esso giovani sca­ pestrati e reietti, che non si adattavano per nulla all’immagine ufficiale. Renoir, di cui Visconti era assistente, gli aveva consigliato il romanzo americano di James M. Cain, The Po­ stman Always Rings Twice (Renoir tuttavia non ha mai volu­ to essere il padre del realismo. Il suo realismo, a parer suo, si fonda sul sonoro in presa diretta, e ancora oggi gli italia­ ni questo non sarebbero in grado di farlo. Rossellini era della stessa opinione). La scelta di Visconti di un testo americano non fu dovuto soltanto al casuale suggerimento di Renoir. Cesare Pavese ha scritto che negli intellettuali italiani la Resistenza si formò sul ro­ manzo americano preso come immagine di contrasto all’ar­ te fascista. Fu un quadro che si compose congiungendo ele­ menti tratti dai romanzi di Shenvood Anderson, O. Henry, Dos Passos, Richard Wright. Questo entusiasmo letterario per l’America si raffreddò assai presto dopo la liberazione dal fascismo. Ebbe vita breve, breve quasi come - con leg­ gero ritardo temporale - il neorealismo. In questi romanzi, scrisse Pavese, si vede nascere la sto­ ria davanti ai propri occhi, perché la loro lingua mira a un solo risultato, rendere giustizia alle nuove realtà. L’oggettività della letteratura americana ha fonti e motivazioni diver­ se da quelle del realismo europeo. «Riprese con un’immagi­ ne e un sonoro magistrali, che tocca al lettore stesso deci­ frare, strutture non gerarchiche». Esso lascia parlare i mezzi tecnici. Pavese si rifa espressamente ai capitoli del romanzo 1919 di Dos Passos intitolati La settimana dell’esposizione mondiale e L’occhio della cinepresa. Descrive -l’incredibile realismo» del cinema americano dopo aver visto The Crowd (La /Glia') di King Vidor. Il mondo esterno, che con tutta la sua potenza e con insistenza si spinge in avanti. Dopo l’in­ venzione della cinepresa gli oggetti hanno una propria logi­ 295

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ca. L’ottica ha rimosso il soggetto che descrive. Il mezzo è diventato oggetto. Il visivo è autonomo. La nuova lingua è così concreta perché cerca soltanto di cogliere l’attimo; non raffigura e non rappresenta. Più tardi, i riferimenti all’America nei film del neoreali­ smo saranno motivati dai contenuti. Gli Americani sono sbarcati. Soldati semplici in Paisà, in Sciuscià (che sta per •shoeshine») di De Sica, e nel Bandito di Lattuada, per il quale il modello è evidentemente il film melodrammatico americano, e che ha in tutto e per tutto l’andamento di un film americano di gangster, nonostante l’attualissima realtà italiana. Rivedere questi film è stato pieno di sorprese. Qua e là ci sono momenti di piacere per chi è stato bambino duran­ te la guerra, brevi sincopi di musica americana. Nel mio ri­ cordo erano film di rottura, nel senso di un rinnovamento estetico. «Niente attori, niente storia, niente messinscena, niente cinema». Oggi si vedono invece tutti i legami con i realismi precedenti; la realtà, come sempre avviene, viene rimossa a favore di una illusione sempre più perfetta. I bambini in questi film, soprattutto in De Sica, sono una sorta di garanzia di spontaneità. E come lui li sfrutta! Così i suoi film acquistarono quella loro commovente «inquadratu­ ra dall’altezza di cane». Ciò che allora in Ladri di biciclette venne recepito come realtà non edulcorata, oggi svela tutti i suoi artifici. Il rapporto tra padre e figlio ci dice tutto. Che splendida figura di padre è al contrario Chaplin, in The Kid. Sciuscià è un film duro con protagonisti bambini. I genitori sono assenti. Ed è sintomatico che abbia un finale surreale. Attorno all’«anno zero» nel cinema è mutato qualcosa. Il nuovo realismo non era un realismo migliore per il fatto che, se confrontato con i suoi precedenti, ridusse in manie­ ra tanto spettacolare la distanza tra realtà e arte. Le vicende di Roma città aperta e di Germania anno zero di Rossellini toccano tutte le collaudate corde del cinema narrativo. An­ che le sue storie, così attuali, arrancano all’inseguimento del loro tempo. La conclusione aperta di Sciuscià, la fredda in­ 296

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sensatezza della guerra, che inghiotte ogni sforzo individua­ le, diventa un po’ meno priva di senso se si tiene presente che Rossellini girò il film quando il fascismo era già sconfìt­ to e il caos quasi ricondotto all’ordine. Il film presenta un fallimento, ma a posteriori. •La forza di Paisà sono alcune precise immagini di peri­ colo, di sofferenza e di morte, che restano nella coscienza di ciascuno come con il tratto particolare delle esperienze reali. Queste immagini hanno un’autonomia che le rende più forti e più importanti di tutte le idee a cui è possibile ri­ condurle». Questa è una critica del 1948 di Robert Warshow, sulla rivista -Partisan». Se si legge la sua descrizione del film verrebbe da credere che il cinema fìsico fu inventato in Eu­ ropa, senza Keaton, Hawks e Fuller. La neutralità della mac­ china da presa e la velocità dell’azione danno vita a un film senza più spazio per riflessioni e idee. In questo film egli loda ciò che nei romanzi americani impressionò tanto Pave­ se. È il lettore/spettatore che deve decidere da sé. La realtà con cui si trova a fare i conti non è riflessa e interpretata nel vecchio senso. Le manca la conclusione liberatoria delle storie narrate. Come il mondo reale, essa resta ambigua. Ancora Warshow, alla lettera: -La realtà dei personaggi non dipende dalla caratterizzazione; essi arrivano sullo schermo che sono già adulti, e in pochi istanti sono più rea­ li di quanto si potrebbe renderli in mezz’ora. Sono visibil­ mente reali.» I film neorealisti non apparvero più realistici a causa del­ le masse, della gente semplice, della loro quotidianità. Gli individui e le analisi psicologiche del romanzo borghese di­ ventano superflue perché non ci sono più storie che hanno bisogno di essere rese credibili. Il vecchio rapporto tuttavia non è invertito, l’elemento documentario non arriva ad ave­ re il sopravvento a spese dell’elemento narrativo. Rossellini si serve della coincidenza fantastica, che era la componente essenziale dell’estetica surrealista, né affida tutto all’appa­ recchiatura, come farà in seguito il cinéma vérité. Lo sguar­ do della macchina da presa e quello del regista sono abbi­ 297

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nati. È soltanto grazie a una nuova modalità della percezio­ ne che nel campo visivo si presenta una nuova realtà.

Una tecnica con prontezza di spirito Già nei primi film post-fascisti le narrazioni sono soltan­ to comici, ragnatele per intrappolare frammenti di realtà. Sono concreti momenti di opposizione contro la mania im­ perialista di stabilire significati e di permeare un mondo nuovo ed estraneo con una vecchia intelligibilità. Nei film di Rossellini lo spettatore vede e sa o sente di essere visto. Il mondo omogeneo del cinema della rappresentazione vie­ ne perforato da sguardi estranei. In questi film capita di sentirsi esclusi. E questo provoca una partecipazione mag­ giore di quella suscitata dai film di identificazione massima. Siamo talmente abituati a essere rimpinzati di storie lisce che quando sullo schermo compare qualcosa di immotiva­ to, come il finale di Viaggio in Italia di Rossellini, tutti gri­ dano al miracolo. Warshow, che descrive con tanta precisione quanto c’è di nuovo in Paisà, lo condanna poi a causa delle sue strut­ ture narrative, inverosimili e grossolane. Il messaggio per lui è inaccettabile. Quando Warshow dice questo non si riferisce a una morale, ma al vecchio modo di narrare. Rossellini, come anche Renoir, si è sempre lamentato che scrivere la sceneggiatura è la fase più fatico­ sa della lavorazione di un film. Avrebbe preferito potersi li­ mitare agli episodi, alle situazioni, senza la zavorra dei pas­ saggi esplicativi. Tutto al presente. Il realismo nei film di Rossellini è nuovo, e il vecchio triangolo tra autore, film e spettatore vi risulta risistemato. La realtà raffigurata ha la stessa importanza dello sguardo dello spettatore che si posa su di essa, mentre l’autore, per il fatto di avere come coproduttore lo spettatore e per l’ave­ re davanti alla macchina da presa una realtà che non è af­ fatto intelliggibile, si è privato del suo potere. L’indetermi­ 298

Il REALISMO È SEMPRE NEO-, SUR-, SUPER-, IPER-

natezza di quanto viene mostrato smuove e distrugge la compiaciuta sicurezza che scaturisce dal presunto naturale realismo del cinema. La finzione è ormai soltanto esperien­ za immaginifica. Senza mimesis. In Siamo donne, del 1952, tratto da un’idea di Zavattini, quattro celebri attrici recitano in chiave autobiografica da­ vanti alla macchina da presa. Un campo d’azione ristretto, e molta importanza aH’autenticità. Più tardi, in un’intervista, Rossellini raccontò che nell’episodio di Ingrid Bergman tut­ to era stato improvvisato: avvenne come avvengono le cose nella vita. Ad eccezione della storia, tutto era autentico. Mi viene in mente a questo proposito Hellmuth Costard, sgo­ mento di fronte agli intervistatori che volevano ascrivere il suo Piccolo Godard al cinema documentaristico. Lui lo ave­ va concepito come film di fiction, e aveva anche creduto che questo si vedesse dal film stesso. La finzione tuttora viene sempre presentata come sepa­ rata dalla realtà. Un autore, un inventore, è qualcuno che traspone qualcosa in una storia. Ma rendere l’occhio consa­ pevole del fantastico nel quotidiano, come spettacolo spon­ taneo, non è diffìcile, quindi non è arte. Quando qualcosa è così quotidiano, così poco fìnto che non è possibile distin­ guerlo dalla realtà, allora non lo si è elaborato. Negli anni Venti, quando la novità del cinema non era ancora stata del tutto occultata, e i pittori sapevano quanto avesse cambiato anche il loro sguardo, Fernand Léger scris­ se: la rovina del cinema è la sceneggiatura, e se potesse li­ berarsi di questo peso esso diventerebbe un gigantesco mi­ croscopio, con cose mai viste e mai sentite prima. E Walter Benjamin, poco più tardi, con la stessa enfasi: il cinema, l’u­ nico prisma nel quale per l’uomo d’oggi si dispiega l’am­ biente che lo circonda. La tradizione antinarrativa e antillusionistica, è quella delle strutture minime, fino a Rossellini. E anche oltre. Rossellini schernisce i pazzi del cinema un­ derground americano, ma quando parla del suo cinema-mi­ croscopio come esempio gli viene in mente Sleep di Warhol. Rossellini dice di lavorare in maniera scientifica, e con questo intende dire sperimentale - non si riferisce alla veri-

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fìcabilità di un’arte realizzata seriamente : osservo delle co­ se, che metto in contatto tra loro, in modo che diventino evidenti e si rappresentino da sole. Un’arte che procede in modo sperimentale, come la scienza, si interessa ai processi e non rispecchia quello che è già accaduto. Le sue conqui­ ste dipendono in modo evidente dai suoi strumenti L’idea di un cinema libero dall’apparecchiatura è un’invenzione di persone che hanno ancora sul naso i vecchi occhiali dell'ar­ te della rappresentazione. Rossellini per ottenere maggiore mobilità s’inventò uno zoom mobile e un intero sistema di carrellate, per registrare cose che altrimenti non sarebbero potute apparire. Le sue immagini dirette dipendono dalla tecnica come il pensiero dipende dalla lingua. Costard dice che anche la sua attrezzatura è un materiale a cui lui dà for­ ma. Per la pittura ciò è accettato da tempo. È risaputo che i dipinti di De Koonig divennero quel che sono perché egli decise di non guidare più il pennello con il polso, in con­ trasto con la tradizione Occidentale, o anche con una écriture automatique intesa all’americana.

L’uomo con la cinepresa in testa Il primo esegeta del neorealismo è stato André Bazin. È sua la citazione «Nessun cinema è puro cinema-. Non era un teorico, ma i francesi dispongono di un vocabolario che fa­ cilmente assume un’aura accademica. E tuttavia è da lui che veniamo a sapere nel modo migliore come agì a suo tempo il nuovo realismo. Lui è un neorealista. Dovette descrivere il nuovo con uno stumentario concettuale antiquato. E così avvenne che da un punto di vista verbale giungesse alle conclusioni sbagliate. I suoi testi sono una buona occasione per esercitarsi a leggere in direzione contraria al senso delle parole. Oggi è un gioco da bambini e anche una stupidag­ gine dimostrare che la sua visione del cinema è idealistica, perché davvero con la sua capacità di esaltare e con la sua partecipazione egli fu in grado di dare vita a una trasforma­ zione del cinema. Trasparenza, questa era la sua parola 300

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d’ordine, attorno alla quale ruotava tutto. E così egli chia­ mava illusione demistificata il cinema che non prende più la vie traverse delle storie: un cinema narrativo dedramma­ tizzato. Poi scrisse più di frequente sulla realtà che sulla tra­ sparenza. Non è per nulla facile scrivere su ciò che è tra­ sparente con parole opache. La maggior parte di coloro che oggi vogliono dare una base teorica al cinema, scrivono di preferenza sul cinema di montaggio e non sul cinema della sequenza; scrivono su Ei­ senstein piuttosto che su Vertov, e non soltanto perché l’a­ nalisi implicita nel montaggio ha un maggiore prestigio in­ tellettuale. Il montaggio reca su di sé l’impronta del linguag­ gio, e per questo se ne può parlare più facilmente. Germania anno zero, le rovine di Berlino nel 1947: tutto è luminoso e arioso, perché le finestre sono infrante e i mu­ ri sfondati; nelle grandi case che sono rimaste in piedi in ogni stanza abita una famiglia, mentre nei corridoi regnano un movimento e una partecipazione come soltanto per stra­ da nei paesi meridionali. La paura, pure di Rossellini, è sta­ to girato sette anni più tardi a Monaco. L’intera era Ade­ nauer si materializza nella maniglia di una porta, in un pic­ colo cancello in ferro battuto, in uno spioncino in un muro di una villa di periferia. Un film tetro. Il concetto di trasparenza di Bazin si può facilmente ro­ vesciare anche dalla testa ai piedi. L’aura dell’arte, diceva Walter Benjamin, è persa una volta per tutte da quando l’ar­ te è diventata meccanicamente riproducibile. In cambio egli trovava nelle deserte vedute di strade parigine di Atget qualcosa di allucinatorio, di surreale e inquietante. Riverbe­ rano di cruda realtà. È l’attimo arrestato, 1’ -inconscio otticoirradiante. Non una mitica essenza del visibile ma un puro inizio, l’unicità semplicemente fissata, con la quale, soprat­ tutto, non è possibile identificarsi. Feuillade sulla scorta di questa esperienza ha creato le sue serie di Judex e Fantómas, i fantasmi dell’ubiquità dell’automobile, delle città di­ ventate abbaglianti e chiare, dell’uomo fotografico, senza corpo. Magritte, che tra l’altro era un grande fan di entram­ 301

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bi questi eroi, ha dipinto la stessa esperienza: l’invisibile si vede in modo neutro, giusto, ben marcato, analogo alla nuova visione che viene dalla fotografìa. Volevo ancora una volta provare a raccontare qualcosa, molto semplicemente, ma mi chiedo se ancora c’è qualcosa. Questo era il problema di Gertrude Stein, quando nel 1934 iniziò Everybody’s Biography - Pavese ha tradotto anche i suoi libri. L’arte antirappresentativa blocca l’automatismo che trasforma tutto ciò che si vede in immagini, e tutto quello che si scrive in storie. L’ambivalenza dell’evidenza presente nei quadri di Ma­ gritte, il cui oggetto è la natura delle immagini riprodotte tecnicamente, ha ispirato gli iperrealisti americani di oggi, che si richiamano espressamente a lui. Il neorealismo estrae dalla vita quotidiana la .sua briciola di straordinarietà. Gli basta dispiegare il generale, e nel differenziarsi delle singo­ larità le cose diventano concrete. Il realismo fotografico prende le mosse dalla realtà riprodotta, dallo stereotipo, dalla formula, dallo slogan. Abbraccia un ambito minimo di invenzione personale, che ormai si realizza soltanto nella differenza. Le sue immagini sintetiche sono sguardo puro. Mostra, invece di illustrare, e non conta sull’interpretazione. Il reale che vi viene colto è la differenza tra due tipi di im­ magini. Una foto della realtà non è la cosa stessa. Questo si mostra al meglio nella pittura. E così, il vecchio potente principio della mimesis nell’arte, sempre valido, viene por­ tato all’assurdo, e insieme con esso anche la cosiddetta pro­ spettiva scientifica, che fin dal Rinascimento non ha infor­ mato soltanto la pittura, ma anche il modo di vedere, com­ preso quello di molto fotografare fino a oggi. Negli oggetti brutti e banali dei nuovi realisti non biso­ gna mettersi subito a cercare intenzioni satiriche o di critica. È più importante il mimetismo. Contro i suoi contempora­ nei realisti Flaubert scrisse il romanzo «da copista» Bouvard et Pécuchet, il degrado delle idee a opinione dominante e a idiozia. Il percorso che compie ogni novità, fino a che giun­ ge a naturalizzarsi. Nelle sue lettere Flaubert soffriva e si la­ 302

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mentava di quanto lui stesso fosse già stato infettato da tut­ ta questa bètise, di cui sapeva che avrebbe potuto svelarla soltanto scrivendovi dall’interno. Il suo romanzo dovette quindi essere privo di immagini e di corpo, perché tutto verteva su materiali di seconda mano. Bettwurst, di Rosa von Praunheim, è tutt’altro che uno scherzo giocato alle spalle di sua zia Luzi. Le immagini mo­ strano dove la finzione si annida. Non c’è più bisogno di in­ ventare nulla, né di affibbiarla ad altri personaggi. I cliché sono fantasie ipertrofiche. La realtà, il quotidiano, ne sono pieni. E come sono seducenti, come sono affascinanti! Qua­ si come l’antica arte degli illusionisti. L’unica istanza davvero generale del neorealismo, che si è mantenuta ancora nei realismi di oggi - e che Warshow in Paisà percepiva come mancanza di morale - è l’atteggia­ mento neutrale di fronte a ciò che si vede. Warhol vorrebbe essere una macchina per registrare, anche se è meno inte­ ressato all’immagazzinare di quanto non sia interessato alla possibilità di poter premere da sé stesso il pulsante con la scritta «cancellare».

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Contributi viennesi per una veridica storia del cinema (1993)

Was du dorten suchst Wirst du nicht fìnden. J.V. Sternberg, Hollywood 1968

Gli autentici Wienerjìlme sono nati extraterritorialmente, altrove, dopo che il concetto di autentico era stato modifica­ to a opera dei cinema. Che essi discendano da autentiche esperienze viennesi o da nostalgici vagheggiamenti di estra­ nei, non ha importanza. L’elemento viennese comunque ra­ senta sempre il cliché. E tra cliché e cinema il passo è breve. La storia del cinema viennese è un fantasma in quanto non legata a un luogo, il suo è un cinema privo della di­ mensione spazio. Che allo Stato austriaco mutilato mancas­ se il mercato per una industria cinematografica redditizia, in grado di affrontare la competizione; che, diversamente da quel che succedeva a Berlino, non circolasse il denaro dei nuovi arricchiti; che nella capitale, diversamente che nelle metropoli, si restasse attaccati alle tradizionali arti figurative, tutto questo si rivelò un vantaggio. Così il cinema fin dall’i­ nizio fu internazionale-austriaco. I centri cinematografici di altri paesi trassero profitto dall’amore per l’arte, dalla lievità, dall’edonismo, dal modo di vivere viennesi. Vienna era un serbatoio di sogni. Ma traboccava anche di talenti, dei quali il nuovo, spregiudicato, medium poteva aveva bisogno. Per via della lingua, la strada di tali talenti portava diret­ tamente a Berlino. Ovunque si guardi nel cinema tedesco, si trova sempre Vienna, o meglio la Wiener connection. Se al nostro bene culturale nazionale, il grande cinema tede­ 304

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sco, si sottraessero per celia gli elementi viennesi, il super­ bo edificio crollerebbe. Senza Carl Mayer, Willy Haas e Berthold Viertel, per non parlare della cinepresa scatenata di Karl Freund, avremmo solo un Murnau dimezzato o an­ cora meno. Per Mabuse, Die Nibelungen (/ Nibelunghi) e Metropolis senza le realizzazioni di Fritz Lang saremmo an­ cora fermi alle invenzioni di Thea von Harbou. Il fatto che il tedesco naturalizzato Fritz Lang, stando a quanto racconta il connazionale Edgar Ulmer, nel realizzare le proprie idee si comportasse negli studi cinematografici con maggior spietatezza di qualsiasi prussiano, non intacca l’essenza del­ le sue immagini, la loro modernità. Non solo i vertici del cinema muto tedesco, ma anche i suoi esordi sono d’ispirazione austriaca, a partire dai serial esotici e gialli di Joe e Mia May; in ambito germanofono corrispondono ai serial di Feuillade e Musidora in Francia. La svolta in direzione della Neue Sacblicbkeit venne, prima di Spione e M, con i film d’educazione scientifico-sessuale di Richard Oswald. Il pilastro del cinema sonoro tedesco ai suoi primi passi è l’operetta viennese, che Wilhelm Thiele traghetta verso il musical tedesco, per il quale Billie Wilder e Walter Reisch scrivono le sceneggiature. E quando con Menschen am Sonntag prende vita la prima nouvelle vague, ne fecero parte subito, con Ulmer, Wilder e Zinnemann, ben tre viennesi. • Con Willi Haas come redattore del «Filmkurier- anche la critica cinematografica berlinese assume ai suoi esordi ac­ centi da Cacania. Affinché tutto il mondo sapesse che la lingua tedesca non apparteneva solamente ai tedeschi e che la variante parlata in Austria era dotata di accenti di inaudito char­ me, su incarico del governo austriaco Josef von Stern­ berg progettò nel 1937 un film poi non realizzato per via dell’Anschluss. Il tedesco che Sternberg parlava e scriveva verso la fine della sua vita era sovradeterminato da un’intera esistenza 305

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trascorsa in America. Ma la voce narrante, il commento al suo ultimo film, The Saga ofAnatahan, che egli stesso dice in inglese, assomiglia a un monologo interiore austriaco. Per il tedesco, soprattutto il tedesco del Nord, di cui Her­ mann Broch ha scritto che infonderebbe al popolo austria­ co un particolare riserbo, il viennese ha la consistenza e il fascino della lingua materna, del babytalk. Figurarsi che persino a corte, a dispetto del più rigido cerimoniale, si par­ lava un tedesco venato delle medesime, morbide sfumatu­ re. Il viennese è un tedesco liquido, nel quale si sente che la lingua prima di generare - una volta assunta la forma di comunicazione - dei significati, è una matrice sonora che inclina, volgendo le spalle al senso, ai suoni. A dispetto del­ la profusione di diminutivi e vezzeggiativi, sorprende per la sua tenera brutalità, la durezza estrema della convenzione del parlato. Questo è il suo paradosso: il viennese è un co­ dice, che tuttavia rimane più intensamente legato al corpo dei parianti. I suoni sono più vicini all’inconscio delle im­ magini. In Maskerade (Mascherata) di Willi Forst, in cui il costu­ me è la nudità e un manicotto scivola via come una ma­ scherina, mi delizia ogni volta il marito e dottore cieco con il suo roboante espressivo tono teatrale, che non riconosce il corpo nudo della moglie in effìgie. È un amante dell’arte che dimentica il mondo circostante quando disquisisce con il fratello di interpretazioni musicali: una perfida trovata, questa coppia di fratelli, da parte di Forst che senza tener conto della dizione, o forse proprio a sua causa, fa interpre­ tare le due parti da un viennese e da un amburghese. In Adolf Wohlbruck, che recita nel ruolo del protagonista, la spaccatura e la tensione austro-tedesca è già per nascita in­ teriorizzata. Mezzo viennese e mezzo tedesco, è diffìcile di­ re che cosa in lui sia tagliente e che cosa duttile. Sono stata corteggiata dall’uomo più elegante di Vienna, dice nel film Paula Wessely. Prima ha danzato insieme, infinite volte, il valzer. Quando nel 1924 Cari Theodor Dreyer voleva girare a Berlino un film tratto dal romanzo Michael di Hermann 306

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Bang, non gii riuscì di trovarvi attori adatti: «Ci sono qui de­ gli eccellenti e profondi caratteristi, ma manca loro la ne­ cessaria eleganza-. Fece interpretare poi il suo film da attori viennesi, Walter Slezak e Nora Gregor.

Il primo esule del cinema viennese, il primo cacciato dal proprio paese è stato Arthur Schnitzler. Nel 1913 venne rea­ lizzata a Copenhagen dalla Nordisk una versione fìlmica di Liebelei, dopo che era fallito il progetto di una produzione viennese per la quale Schnitzler aveva insistito che si ingag­ giassero attori del Burgtheater. Ai quali era vietato fare cine­ ma. Il che non era una particolarità viennese: la stessa osti­ lità nei confronti del cinema regnava nelle istituzioni teatra­ li tedesche che proibivano ai membri delle compagnie di esibirsi su un set anziché porsi al servizio della parola poe­ tica. Sorprende che Schnitzler si aspettasse un’interpretazio­ ne ottimale delle sue invenzioni da attori di un teatro di prosa tanto celebre. In modo inusuale per uno scrittore allora, egli infatti si era sforzato - sono le sue parole - di comprendere le leggi artistiche proprie del medium cinema e di elaborare un pro­ getto che a tali leggi corrispondesse. Si stupì degli eccellen­ ti attori impiegati nella versione cinematografica danese, dopo che in un primo momento nacquero controversie sul­ le parti scritte, le didascalie, i testi di raccordo nella sceneg­ giatura. Schnitzler voleva un film senza didascalie: «È valido artisticamente solo un film che si compone di immagini coerenti e comprensibili per se stesse». Per soggetti da trasporre in film fra gli autori contempo­ ranei si attinse con sorprendente frequenza a Schnitzler, e non solo in Europa. Cecil B. De Mille realizzò nel 1921 una versione americana da Anatol con Gloria Swanson come protagonista, versione particolarmente attenta all’allestimen­ to scenografico e alle luci. Nei testi di Schnitzler vi è chiara­ mente qualcosa fra le righe che ben si accorda con il nuovo medium. E il cinema era capace di visualizzare qualcosa che non si lasciava ridurre alla trama, al plot. «Il contenuto del 307

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film- scriveva Schnitzler -per sua natura sarà sempre in qual­ che modo dozzinale». Questa dozzinalità fa parte per lui del cinema e non gli impedisce di essere o diventare arte. Max Ophùls, che amava in modo particolare Schnitzler, spiega l’affinità dello scrittore con il cinema con il fatto che in lui fra visione ed emozione si insinuano dettagli realistici che spezzano il mero svolgimento dell’azione. L’offerta di realizzare una versione filmica di Liebelei, la si doveva, a dire di Ophùls, al grande successo di Der /Con­ gress tanzt {Il congresso si diverte)', a Berlino nel cinema sonoro, nato da poco, si punta su soggetti viennesi. Ophùls, che come nessun altro regista tedesco si intendeva di toni e cadenze, aveva allora, nel 1932, ancora Vienna nell’orecchio. Nel breve periodo in cui lavorò al Burgtheater gli aveva­ no giocato un brutto tiro, l’avevano oltraggiato, licenziato dopo sei mesi contravvenendo al contratto quando non ri­ sultò più gradito, in quanto ebreo, a influenti personaggi della repubblica cristiano-sociale. E tuttavia quando Ophùls cominciò a girare a Berlino fece un cinema talmente impre­ gnato di Vienna che i suoi film fecero di lui un regista vien­ nese. In Die verliebte Firma, il suo primo lungometraggio •con esso ho trovato il mio proprio ritmo» - i toni berlinesi si mescolavano con quelli austriaci. Nelle Alpi e a Babel­ sberg viene girato un Singspiel. La musica era di Bruno Granichstaedten. Ernst Verebes interpreta il ruolo dell’assistente alla regia Pulver, che sopraffatto dalla velocità berlinese co­ mincia a balbettare, più spasmo che voce, e inoltre parla con un fortissimo accento ungherese. Per i suoi film viennesi avrebbe meritato un piccolo mo­ numento da qualche parte sul Ring, aveva dichiarato Ophùls a un giornalista del -Figaro» che l’aveva intervistato sul set de La Ronde. I suoi film viennesi, che videro la luce a Berlino, Hollywood e Parigi, hanno un elemento che li accomuna e che sino a oggi, nell’analizzare lo stile di Ophùls, le lunghe inquadrature dove i personaggi si perdo­ no o il tempo sembra come abolito, non è stata abbastanza 308

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apprezzato. È la cinepresa di Franz Planer, direttore della fotografìa di Liebelei, dei due cortometraggi Valse brillante e Ave Maria degli anni Trenta, e di Letterfrom an Unknown Woman {Lettera da una sconosciuta) e The Exile {Re in esi­ lio) girati in America. Queste lunghe inquadrature sono il battito cardiaco, rallentato dalla musicalità, dei suoi film.

Nel maggio del 1921 Sternberg incontrò Schnitzler. »Fu il primo a darmi un incoraggiamento artistico. Vienna era per me Schnitzler, Schiele, Klimt e Kokoschka». Possedeva di­ pinti e disegni di Schiele e Kokoschka. Ispirato decisamente a Schnitzler era il suo film The Case of Lena Smith - distri­ buito in Europa con il titolo Prater - girato in parte sul set di Wedding March {Sinfonia nuziale) di Stroheim. Un film che si considera perduto. E basato sul flashback. Un prolo­ go e un epilogo nel corso della prima guerra mondiale fan­ no da cornice alla vicenda principale, che si chiude sullo scorcio del secolo. Un mèlo: una ragazza di campagna un­ gherese si lascia abbagliare dallo scintillio e dallo charme di un’uniforme da ufficiale. Una di quelle fanciulle che Stern­ berg descrive nella sua autobiografìa come apparivano ai suoi occhi di ragazzino al Prater , fanciulle «che non aveva­ no nient’altro in mente che farsi sedurre». Marlene, la vamp, a purely aesthetic satisfaction, drai­ ning tbe blood from your body, vendica tutte le dolci fan­ ciulle viennesi sedotte nella letteratura e nella realtà. Anche Marlene, in Dishonoured {Disonorata), è bersaglio della ca­ sta che conduce la guerra con nuovi mezzi. Ma non è più una vittima. La superiorità si è dislocata nel campo opposto e ha fatto della donna un essere più completo. Come spia non è un avversario da sottovalutare. In luogo dell’unifor­ me, allo scopo di sedurre e sviare, dispone di innumeri mises e toilettes provocanti. Ma né la professionalità né il pa­ triottismo possono intaccare la sua passione. Sternberg la dota della qualità che egli pone al di sopra di tutte. Una cal­ ma rilassatezza non altera, non ironica, bensì distaccata, soffusa di malinconia e disincanto tutto mitteleuropeo. 309

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Sternberg ha girato un altro, un terzo film sempre nutrito di humus viennese che ci fa capire al posto di chi nell’ico­ nografia generale è subentrata la sua star, il suo astro ful­ gente, il suo idolo. The King Steps Out è la versione filmica dell’operetta di Fritz Kreisler Sissi-, assistente alla regia era Wilhelm Thiele, specialista del genere dai tempi di Berlino. Riguardo a questo film Sternberg nella sua autobiografia af­ ferma che la funzione del regista non è quella di manipola­ re valori già belli e pronti, ma di creare quanto deve essere visto e sentito. E verso la fine della sua vita: in un’occasione mondana venne proiettato il mio film The King Steps Out che fu ammirato da tutti e piacque anche a me, come se non l’avessi fatto io. La protagonista non è Sissi. Che cosa lo interessasse in questo lavoro su commissione era l’immagine, le apparizio­ ni del giovane Francesco Giuseppe. Come si era arrivati al­ l’immagine che i sudditi si erano fatta del loro sovrano pri­ ma dell’avvento della fotografia. In quali forme circolavano i suoi ritratti. Come lo si vedeva, come ce lo si raffigurava. Come la gente reagiva quando egli faceva la sua comparsa in pubblico. Della Sissi di Grace Moore, star dell’operetta americana con molti vezzi da prima donna, non si è curato minima­ mente. Lei, cosa del tutto inusuale al cinema per l’epoca, canta perfino e non in playback. Ma Francesco Giuseppe (Franchot Tone) viene rappresentato così glamorous, così sfolgorante di bianco, che in lui si focalizza tutta la luce, co­ me in Marlene quando interpreta la zarina rossa. Nei quadri Sternberg si stupiva di come i pittori tenesse­ ro sotto controllo ogni centimetro della loro tela, per poi ar­ rivare al punto. Il che per un artista dell’immagine significa­ va intraprendere qualcosa di analogo. Questa è la sua para­ noia viennese: pur affatto conscio che il proprio medium era arte industriale, volerla esercitare come un genio solita­ rio, come un artefice che nella propria bottega crea tutto da solo, compresa la propria star. Egli è Marlene, poiché la sua immagine è fusione del modello e della visione di colui che fabbrica immagini lu­ 310

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minose in movimento con calcolati effetti. È thè master of the scene, le maitre de la scène, la traduzione sternberghiana di mettre en scène. In Germania Max Reinhardt rinnova il teatro. Per la sce­ na americana la corrispondente rivoluzione è legata al no­ me di Joseph Urban. NeH’allestimento di pièces e show egli traduce in pratica le teorie drammaturgiche di E.G. Craig e A. Appia per quanto concerne l’organizzazione spaziale e le luci. Dal 1920 crea moderni set cinematografici per il newyorkese Cosmopolitan Film di Hearst. Con la sua ge­ stione della art direction, scenografìa e allestimento diven­ tano elementi attivi dell’espressione scenica.

La, problematica del décor cinematografico è in certa qual misura anche quella dell’architetto. Il punto di osser­ vazione dell’immagine in movimento, diversamente da quello del quadro, è flessibile e architettonico. Il cinema ha la stessa, intrinseca capacità di scivolare sugli oggetti speri­ mentata da colui che osservi un’architettura. L’architettura consente innumerevoli punti di osservazione, che variano a ogni passo, a ogni volgere del capo, a ogni movimento degli occhi. Anche l’immagine in movimento, pur se il suo spazio appare allo spettatore piatto, ha questa potenzialità dell’illimitato cambiamento del punto di osservazione. Nato a Vienna nel 1872, Urban era architetto e sceno­ grafo, vicino agli atelier viennesi, per i quali aveva allestito uno spazio al Chicago Art Institute. Diciotto anni prima, al­ l’esposizione universale di St. Louis era stato premiato per l’allestimento del padiglione austriaco. In Bauwelt Friedrich Kurrent sottolinea il suo talento per le costruzioni effìmere e l’architettura celebrativa temporanea di cui aveva dato prova sulla Ringstrasse in occasione del giubileo dell’impe­ ratore Francesco Giuseppe nel 1908. L'art director americano è l’erede diretto del cerimoniere di corte. La componente egizia dell’art-déco del cinema americano potrebbe discendere proprio da lui; a ventanni Urban aveva curato l’arredamento del palazzo Abdin del kedivè al Cairo. Negli anni Venti per 1’ impresario Ziegfeld 311

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si era occupato dell’allestimento delle revues Follies, essen­ do contemporaneamente art director del Metropolitan e la­ vorando per la Fox agli esordi del cinema sonoro in film di Borzage e Walsh, Frank Lloyd e David Butler. Reinhardt e Urban arrivarono insieme a New York, dove Urban progettò per Reinhardt, dopo la sua trionfale tournée teatrale in America, il mai realizzato teatro che avrebbe do­ vuto portare il suo nome. Ambedue spregiudicati nel loro rapporto con l’arte e l’entertainment e aperti ai cambiamenti che il nuovo me­ dium portava con sé, diedero alla regia cinematografica im­ pulsi che in un primo momento erano venuti loro dal cine­ ma muto: far vedere, mettere in mostra, fondarsi su possibi­ lità espressive non verbali, legate al corpo, alla luce e allo spazio. Valutato con i parametri della modernità, per la qua­ le il décor è una forma di mascheramento - inautentica, im­ posta, convenzionale - quanto essi facevano era spesso in­ distinguibile dal kitsch. Per la comprensione tradizionale dell'arte era soltanto superficie senza niente dietro. Vienna è la città del décor per eccellenza, scriveva Her­ mann Broch, e in sintonia con tale decoratività gaia, spesso gaia fino a rasentare l’idiozia, con un popolo di sudditi avi­ di di piacere e di spettacoli. E Adolf Loos: una città illusoria, fantasmagorica, che soffriva del fatto che gli ultimi sovrani non erano più capaci di adempiere la loro funzione rappre­ sentativa e vivevano e si divertivanono come i borghesi. Quando Vimperium, che nella sua estensione attingeva all’opulenza di forme delie riserve orientali, si ridusse allo Stato mutilato che non poteva legittimarsi con lo sfarzo né poteva permetterselo, i viennesi amanti del décor se ne an­ darono per il mondo e svilupparono di conseguenza forme democratiche, industriali, internazionali. Reinhardt, che soprattutto negli anni tardi delia sua atti­ vità in Europa fu più un produttore che un regista, nel 1928 realizzò al Deutsches Theater di Berlino un backstage musi­ cal dal titolo Artisten, nel quale, seguendo il genere, l’azio­ ne non rappresenta che un esile pretesto per una serie di

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numeri. La ricezione fu tutt’altro che univoca, specialmente fra i critici, i quali non volevano che venisse ricordato loro da quali fonti provenissero quelle novità che essi avevano celebrato nelle realizzazioni classiche di Reinhardt. Vi furo­ no voci che parlarono di ritardo e nell’allestimento dello spettacolo videro un tentativo fallito di rivaleggiare con 1’0pera da tre soldi di Brecht. Altri ancora lamentarono la con­ taminazione americana del teatro tedesco. E il contravveleno doveva essere questo: «Quando l’acro­ batica danzatrice ebbe dato dimostrazione della flessuosità del suo corpo apparentemente privo di ossa, bastò il singul­ to di un comico per cancellare tutto l’effetto... il viennese Hans Moser, che con un raschio in gola dà scacco matto a un intero varietà». Un triplice fraintendimento: un miscono­ scimento dell’istinto di Reinhardt per le nuove modalità espressive sulla scena, del rapporto delle forme di spettaco­ lo popolari con l’Arte e della specialità di Moser di recitare con la sola voce, anche senza testo, esprimendo con il cor­ po tutta la sua carica di impudente bastian contrario. Era il debutto berlinese di Moser. Le realizzazioni sceniche di Reinhardt così incentrate sull’ornamentale corrispondevano allo sfrenato edonismo de­ gli anni Venti. Ma dare il massimo spazio aH’esteriorità, mo­ strare invece di parlare, era anche la reazione allo stile di recitazione dissezionatore degli anni precedenti. Reinhardt musicalizzava le voci. Dopo il pathos incorporeo degli atto­ ri di tradizione ottocentesca con le loro voci impostate egli si batteva per una organizzazione ritmica dell’intero evento scenico con illuminotecnica da varieté e una percezione spaziale di tipo fìlmico, che integrava scenicamente anche lo spazio esterno naturale. Un teatro, diceva Urban, è più di un palcoscenico e di una platea, è un luogo nel quale espe­ rire una vita di grado più intenso; e perché si generi questo sentire intensificato luogo ed esecuzione devono coopera­ re. 11 senso per i production values, come si dice a Hol­ lywood, il piacere del fasto sembrano essere un retaggio viennese. Descritto da Broch come eredità del passato da 313

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metropoli barocca, quando si avvincevano gli spettatori col­ mandoli di stupore con le delizie per gli occhi e le grandi parate.

Il caso Erich von Stroheim pone lo spettatore di fronte una variante ancora più filmica dell'impiego del décor. Una variante più naturalistica, meno raffinata poiché egli proce­ deva unicamente in base alla prassi cinematografica di Grif­ fith improntata alla scena melodrammatica vittoriana. Stroheim intensifica l’opulenza decorativa in orge, in ecces­ si di fasto, stoffe, dettagli. Così il décor diviene il motore del tutto. Il protagonista è lui stesso perché gli piaceva da mori­ re infilarsi in un’uniforme. Il figlio illegittimo, cacciato di ca­ sa, si appropria con i suoi mezzi di ciò che gli è stato nega­ to. Come riprova di questo, una citazione di Kafka pescata molto lontano, ma non tirata per i capelli, a proposito di Karl Kraus e della sua scrittura, che un non ebreo non si so­ gnerebbe mai di formulare così: «... in questo mondo tede­ sco-ebraico quasi nessuno può fare altro che mauscbeln, parlare all’ebrea nel senso più vasto del termine, l’unico senso in cui va inteso, ossia come usurpazione silente o a voce alta di un possesso altrui, che non si è conquistato, ma rubato con un (relativamente) fugace colpo di mano e che rimane un possesso altrui*. In questi film, scriveva Billie Wilder nel 1929 in Querscbnitt, si vede come il loro autore si strugga di nostalgia per la sua patria. Nelle sue realizzazioni viennesi Stroheim ha messo insieme la pompa della Chiesa cattolica, il cerimo­ niale di corte e il rituale militare. I) modo in cui essi si com­ penetrano produce il suo stile che Orson Welles con straor­ dinario acume e penetrazione, ben prima che si venissero a conoscere le vere origini di Stroheim, aveva definito baroc­ co ebraico, quel barocco in cui ci si imbatte, ogni volta con significati diversi, nei -misteri* di Reinhardt, in Ulmer che si proponeva di trasfondere nei suoi cortometraggi accenti di medievali morality plays, nelle lunghe, seducenti inquadra­ ture di Preminger con il loro formidabile indugiare, laddove 314

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in The Cardinal (Il cardinale) mette in connessione l’Ame­ rica e Vienna, nelle immagini vibranti e debordanti di Stern­ berg, negli arabeschi dei movimenti di macchina dei film di Ophùls. La finta genealogia di Stroheim non l’aveva mai tratto in inganno, afferma Billie Wilder: erano il suo tono, la sua di­ zione a tradirlo. Il fasto che Stroheim perseguiva non è in primo luogo critica a una società e al suo stile rappresenta­ tivo e di vita, che in quel modo mascherano il loro vuoto e la loro perversione. Esso mostra - così Lotte Eisner giustifi­ ca l’amore di Stroheim per il lusso - come il décor nella sua grandiosa maestà venga degradato da uomini indegni che lo infestano. Stroheim non racconta, mostra. Egli attira a ogni costo lo sguardo e lo ammalia nuovamente con lo sguardo. Costrin­ ge a guardare e tiene a distanza. In lui, ha scritto Rohmer, l’essere è apparenza, che risucchia tutta la sostanza del mondo interiore. Ne è l’incarnazione e non meramente il segno. Ciò che imparò da Griffith, Io rivolge contro il cinema americano, i cui valori - tempo e denaro ed economia nar­ rativa - egli distrugge senza inibizioni. Ritorna al cinema ostentativo dei primordi; il che non raffrena solo il ritmo, ma abolisce il tempo. Anche il naturalismo più feroce in Greed {Rapacità) ha movenze ieratiche e si fa allegoria. Il più fervido ammiratore di Stroheim, Renoir, vedeva in Greed e Tbe Merry Widow (Im vedova allegra) documenti etnografici di pari valore: la verità sulla Mitteleuropa e l’A­ merica al volgere del secolo. Che uno sia tratto da un ro­ manzo naturalistico e l’altro si rifaccia a un’operetta, non fa per lui alcuna differenza, ciò che conta non è la trama, ben­ sì la veste esteriore. Il direttore della produzione della mcm, Thalberg, per di­ mostrare il proprio potere, assegnava a Stroheim i soggetti viennesi, genere d’intrattenimento. Nelle sue mani persino La vedova allegra assume tinte cupissime e la storia diviene quella della rovina e dell’ascesa di una innocenza oltraggia­ 315

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ta che vuole vendicarsi. Gli antecedenti della storia nel luo­ go ove è ambientata l’operetta, i profondi Balcani, occupa­ no più della metà del film. Parigi con la sua ricerca del pia­ cere - Maxim’s, un ballo all’ambasciata, le cavalcate al Bois - diventa la cornice per un ardente melodramma. Stroheim conclude il film con un epilogo fortemente americano: una running gag e una cerimonia nuziale e di incoronazione in stile bizantino. Il suo ruolo prediletto, quello del seduttore affascinante e ributtante, dovette affidarlo a due attori. Il cattivo lo lascia sfrenatamente imperversare. Il buono, una star degli stu­ dios, pare l’abbia maltrattato al punto che questi per la rab­ bia e lo sfinimento non riusciva più a recitare, ridotto infine a interpretare se stesso, performance, questa, cui Stroheim stesso faceva ricorso e che gli sembrava l’unica adeguata al cinema. Era limitato, ottuso, ingenuo. Aveva la testa piena di clichés, che si confacevano al medium cinematografico. Ama­ va gli ordini militari e le uniformi, anche se li pervertiva come faceva con il denaro americano -, rifunzionalizzandoli in costumi, dal momento che solo così erano per lui ac­ cessibili. Che egli abbia escogitato da sé la propria cerimo­ nia funebre o l’abbiano fatto quelli che lo conoscevano be­ ne, non importa: un’orchestrina gitana, racconta Renoir, suonò valzer viennesi. Kraus, Broch, Haas, Kracauer sono concordi nell’affermare che l’operetta parigina venne riportata dall’operetta viennese al livello da cui si era elevata, ossia alla sala da ballo, e in questo modo andò perduta tutta la carica satirica di cui l’aveva dotata Offenbach affinché l’edonistica società del Secondo impero potesse rispecchiarvisi. Il passo succes­ sivo furono i film-operetta di Lubitsch che snaturarono l’e­ rotismo viennese e lo charme parigino facendone un artico­ lo di consumo internazionale, di una frivolità rozza, al servi­ zio del divertimento e della curiosità del pubblico di massa. Al posto del rispecchiamento, mera evasione. 316

CONTRIBUTI VIENNESI PER UNA VERIDICA STORIA DEL CINEMA

Nella regia coreografica di Lubitsch le attese e l’edoni­ smo dello spettatore sono comprese nel calcolo quali gran­ dezze fisse, ma attive. Lo spettatore viene usato e per ciò non può sprofondare nell’illusione. Lei, signor Polgar, scris­ se Lubitsch nella rubrica della posta del -Berliner Tageblatt-, dovrebbe saperlo meglio di ogni altro. Lei viene dalla città dell’operetta tedesca, lei dovrebbe sapere che cos’è intratte­ nimento. Il pubblico è cambiato con il medium. Esso porta al ci­ nema la propria brama di piacere. In Europa Lubitsch rea­ lizzava i suoi film in modo ancora diverso. Il suo touch non è esclusivamente un modo per aggirare la censura america­ na, quanto in egual misura un gioco a gatto e topo con il pubblico. Raffrenando, promettendo, alludendo all’esaudi­ mento, non si giunge mai al piacere puro. Se è vero che in lui -la carne non è triste-, è però un poco torpida, indiffe­ renziata, prigioniera della coazione a ripetere. Un riflesso di tutto questo si avverte anche nel sorriso irresistibil-stereotipato di Maurice Chevalier e nelle effusioni canore di Jeanet­ te MacDonald. In scatola. Fa riflettere il fatto che The Merry Widow di Stroheim sia stato il suo unico successo di cassetta, mentre la versione di Lubitsch del 1934 non soddisfo nemmeno lontanamente le aspettative. Per l’insuccesso di Lubitsch si addussero due spiegazioni. Il genere, il film-operetta era ormai passe per il grande pubblico, e per gli amanti dell’operetta il film era troppo algido, così sophisticated, più saccarina che strug­ gente dolcezza. Già ai tempi del cinema muto Lubitsch faceva film-ope­ retta, interpretava il Pipistrello come prigione coniugale, ma con sovratoni berlinesi. A Berlino avrebbe dovuto girare an­ cora la versione cinematografica di Walzertraum di Oscar Straus, progetto poi ripreso da Ludwig Berger in quanto Lu­ bitsch restò in America, dove più tardi traspose lo stesso soggetto nel film sonoro The Smiling Lieutenant {l’allegro lenente}. Per i suoi musical Lubitsch si assicurava sempre la collaborazione di Ernest Vajda per la sceneggiatura, il quale 317

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aveva origini ungheresi; grazie a Molnar, Biro, Lengyel, Nikolaus Laszlo, Bus-Feketé il cinema bouleuardier a Berli­ no, Parigi e Hollywood è pervaso di ispirazione ungherese in Lubitsch, Leisen, Wilder, Borzage. Il ruolo di James Ca­ gney nel film di Wilder One, Two, Three (Uno, due, tré) era stato scritto da Molnar per Max Pallenberg. Lubitsch avreb­ be voluto realizzare la trasposizione cinematografica anche del Rosenkavalier, rimasto fino alla sua morte il progetto dei suoi sogni, progetto che non potè realizzarsi perché egli non voleva che la parte di Ottavio venisse interpretata da una donna e non trovava un attore che assomigliasse a Va­ lentino. La regia di Lubitsch non ha più segreti quando si capisce che la story per lui è un libretto, quanto più noto tanto me­ glio. Questo apre al pubblico occhi e orecchie per quello che egli esprime nelle differenze. Lubitsch si serve dell’operetta viennese come Offenbach della mitologia greca. S’infi­ la in una forma bell’e pronta. (Tipicamente ebraica, motteg­ giava Schnitzler dopo aver letto VElektra, Hofmannsthal: spogliare l’eroina greca della sua sublimità e del vecchio Sofocle fare una «pièce di successo»), Lubitsch cominciò la sua vera carriera a Hollywood con una commedia di costume ambientata a Vienna. Trasferì il luogo dell’azione della pièce teatrale da Berlino a Vienna. Marriage Circle è il «Girotondo» di Lubitsch: Hitchcock l’ap­ prezzava moltissimo, probabilmente a causa del concatena­ mento dell’azione preciso come un orologio, in cui si sente lo strepito meccanico delle apparecchiature dei medium. Più che dai personaggi la storia viene pilotata dall’attrezze­ ria, dai maliziosi oggetti che demarcano gli itinerari dei rap­ porti. Che cosa ci sarà mai a Vienna? Alla domanda pragmatica di Hitchcock su quali fossero le peculiarità di Vienna in quanto set, Lubitsch rispose con i clichés e gli stereotipi che passano per la testa di chiunque: dolci fanciulline e di con­ seguenza mogli sventatene, neurologi, movenze che incli­ nano alla danza, lingua melodiosa («You put music in the 318

CONTRIBUTI VIENNESI PER UNA VERIDICA STORIA DEL CINEMA

muffins», nelle tortine), un décor opulento e signori che quando non sono ufficiali indossano l’uniforme dell’uomo di mondo, il frac: come Fred Astaire, nato bensì a Omaha, ma che in realtà si chiamava Austerlitz e il cui padre, nato a Vienna, era sbarcato in America ai primi del secolo. Come città dei sogni Vienna era predestinata a essere la città del cinema, lo stile «da torte decorate» monarchico- -un Kaiser con baffi di panna montata» - fotogenico come ParisParamount. Uno «stile-democrazia», dall’arciduca fino al can­ tante popolare e masse popolari inoccue, dedite al semplice piacere di vivere e ai pacifici valori estetici (Broch). Appena passati alla storia, questi erano i presupposti ideali per il ci­ nema che si fondava sull’entertainment e la popolarità. Film-operetta e musical, più che altro film imperniati su motivi di successo, erano per Erich Pommer, produttore dell’Ufa cresciuto alla scuola di Hollywood, l’arma più po­ tente per vincere la battaglia volta a conquistare i mercati europei dopo la guerra dei brevetti del sonoro. Il primo di tali film, il prototipo, Die Drei von der Tankstelle, lo fece gi­ rare a Wilhelm Thiele che veniva da Vienna. Seguirono Der Kongress lanzt (Jl congresso si diverte), Ein blonder Traum, Walzerkrieg, Icb und die Kaiserin. Da Vienna venivano, di volta in volta, i soggetti, la musica, gli sceneggiatori Billie Wilder e Walter Reisch, con il contributo anche di Felix Salten, e gli attori Mady Christians, Paul Hòrbiger, Willi Forst, Oskar Sima - gioviali, lievi, pieni di contegno pur sull’orlo della catastrofe. «Sarà il vino», cantano in duetto Willi Forst e Fritz Kortner sulla sedia a rotelle che rulla prima che l’Atlantic affondi nel film di E. A. Dupont.

In tutto questo divampa una latente piccola guerra etni­ ca, scaramucce tra Berlino e Vienna, nella quale - e qui Siegfried Kracauer si rivela miope - i viennesi non sono i rammolliti, ma semplicemente hanno più classe. «Stenda un folto tappeto sul parquet, sta per arrivare l’ambasciatore di Prussia.»

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FRIEOA GRAFE • SCRITTI 01 CINEMA 1961 2000

Interrogato da Peter Bogdanovich sui suoi rapporti con Otto Preminger, Edgar Ulmer prende recisamente le distan­ ze da questo genere di film commerciali: eravamo ossessio­ nati dall’arte. Ulmer e dopo di lui Preminger erano stati as­ sistenti di Reinhardt al Theater an der Josephstadt. Nel 1931 Preminger mise in scena con grande successo Voruntersuchung, allora oggetto di accesissime polemiche, del penali­ sta berlinese Max Alsfeld. E sempre nel 1931 Front Page di Ben Hecht, di cui in seguito Hawks e Wilder realizzarono versioni cinematografiche, il cui titolo tedesco era Reporter. Quando il ventottenne Preminger assunse nel 1933 per due anni la direzione del teatro, la programmazione finì per as­ somigliare a quella di un teatro di Broadway, cose di attua­ lità mescolate con l’intrattenimento musicale e il boulevard: proprio come più tardi la sua filmografia. Tanto più sorprendente scoprire quante tracce questi film abbiano lasciato nelle opere dei registi della nouvelle vague. Rivette che nel 1957, quasi da una postazione per­ duta, difendeva la Saint Joan (.Santa Giovanna) di Premin­ ger, oggi sta realizzando una versione filmica della Jeanne d’Arc. Il rapporto diretto con Preminger non è rappresenta­ to dal personaggio storico, ma dalla forma di cinema-teatro, di cinéma impur, che ci mostra, al cinema, un’obiettività che discende dal teatro. E anche dal dottor Otto Preminger, laureato in giurisprudenza. In Saint Joan, come in molti film di Preminger, il processo costituisce il nucleo dramma­ tico con un linguaggio che non è letterario, bensì codificato in modo peculiare e dotato di una sua peculiare retorica. Ragione per cui dai feticisti dell’immagine questi film sono spesso ricusati come non-cinematografìci. Rohmer a proposito di Use Court Martial ofBilly Mitchell (Corte marziale) di Preminger: ammirevole il modo in cui senza cadere nel pathos letterario, servendosi di temi di at­ tualità, il dibattito viene elevato a livello universale, a volte con frasi di una bellezza degna di Corneille. Chi vuole può scorgere, dietro la lode di Rohmer, il deli­ nearsi del suo futuro modo di procedere, e il rapporto che 320

CONTRIBUTI VIENNESI PER UNA VERIDICA STORIA DEL CINEMA

nei suoi film i plot più banali, quotidiani e minimali hanno con i titoli e i motti dei suoi cicli, proverbi popolari, detti e massime di vita. Al metodo di Preminger, al sistema di Preminger basato su lunghe inquadrature in cui allo spettatore vengono mo­ strati grandi brani senza interventi di messinscena perché egli vi eserciti la propria capacità di giudizio, poco importa di linguaggio fìlmico e di grammatica dell’inquadratura. Es­ so sublima la realtà attuale con mezzi della prassi teatrale e della prassi giuridica. Le sfaccettature, i punti di vista - già qui è in ballo il cinema -, le opinioni da cui sono composte le situazioni e i personaggi drammatici, rimangono in una polivocità reale di fondo, che suggerisce allo spettatore la necessità, beyond a reasonable doubt, di soppesare accura­ tamente il proprio verdetto. A dispetto della sua inclinazione teatrale Preminger gira­ va volentieri on location. Con questo egli non aggiunge credibilità alle proprie finzioni. Forse il contrario. Mediante l’apertura alla realtà egli toglie loro l’univocità drammaturgi­ ca tipica della scena. E si ha ogni volta l’impressione che questo tipo di aper­ tura dello spazio tradizionale dell’arte in virtù dell’esperien­ za americana - anche nell’americano Fritz Lang succede la stessa cosa - discenda dallo scontro e dal confronto con una legalità che in Europa è concepita e praticata in modo tanto diverso. E che tale apertura abbia modificato il cinema da mezzo artistico a mezzo di comunicazione, a medium. I primi successi di Preminger in America, da Laura {Ver­ tigine) ad Angel Face {Seduzione mortale) erano polizieschi che esercitarono a lungo la loro influenza su Godard, Truf­ faut e Chabrol. Nacquero all’epoca in cui, soprattutto a ope­ ra degli emigrati, si sviluppò il genere del film noir e come tali vengono considerati. Lo sguardo critico, dal di fuori, sulla società americana è presente anche in essi. Ma tale sguardo non si comunica mediante la famosa fotografìa in bianco e nero così gravida di atmosfera, facilmente ricondu­ cibile al cinema espressionista degli studi cinematografici 321

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berlinesi. I film di Preminger sono esposti in piena luce: •Non dimenticherò mai il fine settimana in cui Laura morì. Un sole splendente brillava in cielo come un’enorme lente focale...*. Quante volte siamo caduti, e insieme a noi molti spettatori, nella trappola di questa falsa confessione! Questa parole sono dette da un attore teatrale newyorkese che Pre­ minger faticò non poco a imporre per questo ruolo. Non ha un aspetto hollywoodiano, e non parla come si parla a Hol­ lywood. L’anatomia di un omicidio che così prende l’avvio non si fonda mai, neanche per un momento, su effetti me­ taforici della cinepresa. «Il mio ideale di mise en scène è quando non si avverte la cinepresa*. Dipingere in bianco e nero non gli conviene, e nemmeno il sistema-Lubitsch, co­ me egli lo definisce, sempre pronto a sacrificare una intera situazione drammatica a una buona trovata, a un effetto ben congegnato.

Gli autentici polizieschi erano l’esatto contrario delle su­ perproduzioni, low-budget film, film di serie B che, anche per ragioni economiche, a differenza dei film che sfruttava­ no tutti i registri dello spreco, operavano al minimo con lo specifico del nuovo medium. Mentre Preminger come regi­ sta si appropria dell’istituzione cinema, e al contempo si in­ fila nella parte del producer, recitandola con lo stesso pia­ cere con cui recita la parte del nazista in Margin for Error e Stalag 17, coloro che preferiscono vedersela con luci e om­ bre, scandagliano la tecnicità del nuovo medium. A dispetto di tutte le suggestioni a livello di ideazione prese a prestito dalla pittura e dalla poesia, per Sternberg la prima esigenza che si pone al regista cinematografico è il dominio della cinepresa come strumento per manipolare la luce. La tecnica non è un ostacolo alla sua arte, bensì il suo presupposto. I problemi cominciano quando s’intromette l’industria che pensa solo al profitto. Il capitolo della sua autobiografia dedicato esclusivamente alla luce è nelle sue premesse e nelle sue conclusio­ ni molto vicino a quelle del cameraman John Alton che nel 322

CONTRIBUTI VIENNESI PER UNA VERIDICA STORIA DEL CINEMA

1948 pubblicò il suo Painting with Light. Nella prassi le im­ magini di Sternberg si dissolvono in un bianco diafano, mentre quelle di Alton prediligono la plasticità e l’atmosfera creata dalle ombre. Alton, che in Ungheria si chiamava Johann Altmann, nato a Sopron, aveva lavorato a Berlino, Vienna, Parigi e Londra, Buenos Aires e Hollywood. Il suo ingresso nel cinema lo fece negli stessi studios della Co­ smopolitan per cui lavorava anche Urban. A Hollywood curò la fotografia di celebri film in bianco e nero di Anthony Mann, Joseph S. Lewis e Allan Dwan. La pomposa mgm, sempre attenta a far vedere dove andavano a finire i soldi, lo impiegò solamente perché Vincente Minnelli insi­ ste per averlo come collaboratore. Per il resto le sue conce­ zioni, troppo individualistiche e volte alla sperimentazione invece che alla ripetizione industriale, non erano ben tolle­ rate. In Designing Woman {La donna del destino) gli saltò persino in mente di combinare scherzi con il colore. A Hol­ lywood - come Sternberg, come Stroheim - godeva di pes­ sima fama, fama di artista e di puro. Un altro suo libro, se­ miautobiografico, tratta di un ragazzo che sogna di diventa­ re un celebre pittore. Per la fotografìa del grande balletto finale di An Ameri­ can in Paris (Un americano a Parigi) gli fu assegnato un Oscar. Girato con materiale a colori, ma con illuminazione da bianco e nero. Intorno al I960, dopo un litigio, volse le spalle all’industria e sparì da Hollywood. Si diceva che fosse tornato in Europa e si dedicasse alla pittura. Recentemente è rispunta­ to a Hollywood alla prima del film Visions of Light. E nato poco dopo la nascita del cinema e vorrebbe girare ancora un cortometraggio sul potere della luce.

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Un’invenzione svizzera I Grand Hotel nell’industria dell’intrattenimento 1994

Le connessioni tra questa tipologia edilizia e la settima arte sono molteplici, e sono intrecciate le strade dei loro re­ ciproci rapporti nella storia del cinema e nella realtà. Devo­ no esservi profonde radici comuni, delle quali la parte visi­ bile, la sovrastruttura, è un indice sufficiente. Il Grand Hotel è un topos cinematografico, forse persino un’allegoria del cinema, perlomeno di una determinata epoca del cinema. Allo stesso modo in cui il Ritz divenne sinonimo di alta classe, l’eleganza danzante di Fred Astaire, con il frac come seconda pelle e il top bai come logo, incarna per un attimo l’estremo movimento del cinema, il suo librarsi staccandosi dal suolo. In sintonia con l’ibrida natura del cinema il suo rapporto con il Grand Hotel è fisico e simbolico, con di­ mensioni ideologiche e edilizie. Il Grand Hotel al cinema è un’istituzione in cui storia del cinema e storia sociale si ri­ specchiano e illuminano a vicenda. Non vi è un metodo per rintracciare, nel vasto campo della storia del cinema, le opere che presentino affinità con questa particolare architettura. Si può attenersi ai rapporti di parentela. Per esempio a Lubitsch come figura-guida e alla Paramount come punto di raccolta, dove Hans Dreyer, architetto proveniente dalla scuola dell’Ufa, fu per vent’anni art director. I grand hotel sono l’elemento più stabile nella sdrucciolevole-allusiva drammaturgia filmica di Lubitsch, in Monte Carlo {Monte­ carlo), Trouble in Paradise {Mancia competente), Desire {Desiderio), dei quali era produttore, e ancora in Blue324

I GRAND HOTEL NELL'INDUSTRIA DELL'INTRATTENIMENTO

beard’s Eighth Wife (L’ottava moglie di Barbablù), Ninotchka e To Be or Not To Be (Vogliamo vivere). Come sceneg­ giatore Billie Wilder fu allievo di Lubitsch. Il suo Love in the Afternoon (Arianna) è ambientato al Ritz di Parigi, che Alexandre Trauner riprodusse fedelmente negli studi di Boulogne; l’atmosfera lubitschiana viene intensificata da at­ tori come Gary Cooper e Maurice Chevalier: per le riprese in esterni di Some Like It Hot (A qualcuno piace caldo) Wil­ der si recò all’hotel Coronado nelle vicinanze di San Diego, passato alla storia degli hotel come primo edifìcio intera­ mente elettrificato. Avanti! (Che cosa è successo tra tuo pa­ dre e mia madre?) Wilder lo girò sulla costa amalfitana; Jack Lemmon, un industriale stressato, si meraviglia del buon gusto di suo padre appena intravede l’hotel in cui il vecchio signore per anni ha intrattenuto una liaison estiva con una manicure del Savoy di Londra: «È tutt’altra cosa dall’Hilton». Da Billy Wilder la strada ci porta, via Midnight (La signora di mezzanotte), a Mitchell Leisen (che aveva colla­ borato alla sceneggiatura), regista di due film esplicitamente imperniati su hotel, Hands Across The Table (I milioni della manicure) e Easy Living (Che bella vita), scritto quest’ulti­ mo da Preston Sturges ammiratore di quel Sacha Guitry le cui commedie a loro volta - Quadrille è ambientata princi­ palmente al Ritz -, insieme a quelle di Lubitsch, furono il modello cui si ispira Stavisky (Stavisky il grande truffatore) di Alain Resnais, l’immaginaria biografia di uno storico le­ stofante che fa la spola fra il Claridge di Parigi e l’Hótel du Palais a Biarritz. Nel cinema l’arte si è commercializzata. L’industria hol­ lywoodiana vuole divertire, realizza i suoi film anticipando i sogni e i desideri del pubblico e mirando deliberatamente a procurare piacere. Non si differenzia in questo sostanzial­ mente dalle strategie degli speculatori finanziari del xix se­ colo, come Bénazet per esempio, che a Baden-Baden sfrut­ tavano la brama edonistica della leisure class di allora. Sem­ pre lì, nel 1853, la commissione degli stabilimenti balneari nell'appalto di nuovi progetti edilizi decise per ragioni com­ 325

FRIEOA GRAFE ■ SCRITTI 01 CINEMA 1961 2000

merciali di optare, di contro a un «puro gusto artistico*, per una «architettura alia moda* in quanto «la cosa principale non era tanto la formazione del senso artistico quanto l’appagamento del pubblico in base ai suoi gusti*. Come archi­ tetto venne scelto uno scenografo parigino. Divertimento schietto, spiritoso come il teatro boulevardier, che non perde mai di vista il pubblico: nella prefazio­ ne agli scritti sul cinema di Sacha Guitry, Francois Truffaut ravvisa in questa mentalità il suo più grande contributo al cinema. Scende in campo contro gli intellettuali che voglio­ no spaccare l’arte in opere di pensiero e divertissements. Per lui Guitry è il genio che fa riflettere divertendo. Ginger Rogers in Top Hat (.Cappello a cilindro) - am­ bientato, come la maggior parte dei suoi film, in un lussuo­ so Grand Hotel Art-Déco - rivolta a Fred Astaire in tono mordace: -Certa gente fa tutto per denaro*. Al che Astaire: •Non c’è nulla da obiettare se questo procura piacere a mi­ gliaia e migliaia di persone*. Il piacere del film sta tutto nel­ la leggerezza dei due. La loro fuga dalla realtà: quando, partendo da movimenti ordinari, finiscono per abbandonar­ si a passi di danza. Più lussuosi sono i locali dell’hotel, tan­ to più movimentati i numeri che eseguono, e spesso sono i mobili a determinare le loro figure coreografiche. Pirotteando su tavoli e poltrone, mentre le piastrelle del bagno fan­ no riecheggiare più forte i loro passi di step, trionfano della quotidianità. È il puro giubilo - che si trasmette allo spetta­ tore - di vivere Vattimo, in assenza di gravità e liberi dalla pressione del tempo. Lubitsch prende talmente sul serio l’elemento immagina­ rio insito nel Grand Hotel che questo diventa in lui l’emble­ ma della spensieratezza del cinema. Esso sfiora i confini del cattivo gusto, senza, miracolosamente, cadervi. Qui sta il sottile momento critico di questi film. Anche per lui il diver­ timento costituisce una componente essenziale del cinema. Nei suoi film i Grand Hotel non sono solo un ambiente confortevole e lussuoso, ma incarnano l’aspetto non serioso del cinema. Proprio in questo sta la sua forza. E la spensie326

I GRAND HOTEL NELL'INDUSTRIA DELL'INTRATTENIMENTO

ratezza è ancora l’arma migliore nella lotta contro il fasci­ smo. In To Be Or Not To Be, Lubitsch usa in modo del tutto naturale il fastoso décor da hotel dei suoi film ambientati sulla riviera, per la Varsavia occupata dai nazisti. I film di Lubitsch si nutrono di una duplice esperienza di instabilità. In Germania negli anni della repubblica di Wei­ mar egli era il più puro rappresentante del cinema dell’in­ flazione, in grado di fare i suoi film dal traboccante décor perché il valore del marco scendeva in picchiata. In Ameri­ ca trasse profitto dalla Depressione che in un breve spira­ glio di maggior libertà nei costumi consentì la nascita della sophisticated comedy. Oggi, in pieno postmoderno, l’affinità con il cinema e l’impronta delle pratiche che al cinema si ispirano sono ine­ quivocabili. Raramente gli architetti celebri del modernismo hanno costruito Grand Hotel. Il lusso è in contraddizione con il credo della funzionalità e con la razionalità tecnica. Solo Peter Behrens ha progettato un Grand Hotel a Sanre­ mo; e come membro della Filmliga egli si è battuto per una cinematografia libera dagli influssi della letteratura. L’Imperial Hotel di Tokyo di Frank Lloyd Wright, un Grand Hotel metropolitano, è stato demolito nel 1967. In alcune foto ap­ paiono folkloristici dettagli di terracotta simili a quelli dei costruttori Hunte e Kettelhut, che lavorarono per Fritz Lang nei Nibelungen (1 Nibelunghi) e Metropolis. I bagni in Shi­ ning sono copiati da un hotel dell’Arizona progettato da Frank Lloyd Wright. Jean-Luc Godard, che girò un film da Grand Hotel, De­ tective, nella scenografia reale del parigino Terminus SaintLazare, scrive nella sua storia dei cinema: ci ho messo mol­ to a capire che il cinema a differenza di altre industrie è un business in deficit, non per far soldi, ma per spenderli. Quando Stroheim girò nel 1921 Foolish Wives (Femmine folli), per il quale aveva fatto ricostruire con estrema preci­ sione negli studios il casinò di Montecarlo e il confinante Hotel de Paris e il film invece di mezzo milione di dollari finì per costare più del doppio, la publicity superò la mania 327

FRIEDA GRAFE - SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

dissipatrice del regista pubblicizzando per mesi e mesi con insegne luminose a Times Square i costi sempre crescenti del film. E scrivendo l’iniziale di Stroheim con il simbolo del dollaro. Nelle storie ufficiali del cinema si dice a questo punto che il film di Stroheim assicurò alla casa di produzione Uni­ versa! il suo posto come Major company, in altre parole: co­ me casa di produzione che poteva permettersi delle perdi­ te. Dietro la mania di Stroheim di ricostruire una realtà che già esiste non vi è l’intenzione di una illusione perfetta. Ciò non avrebbe alcun senso. Quindici anni più tardi, in Top Hat {Cappello a cilindrò), l’azione si sposta da un hotel di lusso londinese a un hotel di analoga categoria a Venezia, una Venezia sintetica, e non perché Hollywood non sapes­ se o potesse far di meglio. I conoscitori della storia dei Grand Hotel sanno che Cesar Ritz, a cui i suoi storiografi at­ tribuiscono qualità da regista, traspose in un cortile interno del suo Savoy a Londra il Canal Grande, consentendo ai suoi illustri ospiti di viaggiare sul posto, senza cambiare città. Il realismo eccessivo di Stroheim paradossalmente mette in evidenza la natura di pura apparenza del cinema. Sono le tecniche di riproduzione che hanno trasformato il mondo in immagini e quinte naturali. All’inverso le ricostruzioni in studio, ossia interni che fungono da esterni, portano a com­ pimento l’abolizione delle barriere architettoniche. Il tema di questi film, come delle storie di giocatori del xix secolo, non è l’acquisizione o il guadagno: al tavolo da gioco non si guadagna nulla, non si fondano ricchezze. Si tratta invece di potlatch, di un’offerta sempre eccedente, di dissipazione improduttiva. La differenza sta solo tra denaro di antica o meno antica data. Così in parte nasce anche l'opprimente bellezza dei film di Visconti e delle sue sceno­ grafie attente al minimo dettaglio: egli mette in gioco un décor, che è la sua stessa pelle. L’architetto francese Robert Mallet-Stevens , unico fra i suoi colleghi, progettò per un breve periodo, negli anni 328

I GRANO HOTEL NELL’INDUSTRIA DELL*INTRATTENIMENTO

Venti, strutture architettoniche per diciassette film. A diffe­ renza degli architetti tedeschi dell’epoca, di cui si dice che avevano puntato per un momento sul cinema al fine di spe­ rimentare almeno negli studios i progetti che non era con­ cesso loro di realizzare, Mallet-Stevens costruiva un’altra ar­ chitettura, che si confaceva al cinema: -Nel cinema la regola aurea è l’apparenza. Le costruzioni architettoniche cinema­ tografiche devono sembrare vere e non essere reali». Un décor fastoso è per Alain Resnais un autentico ele­ mento cinematografico. Il suo Stavisky... ha irritato i propu­ gnatoti della precisione storica e della resa realistica. Del truffatore, ladro di gioielli e impresario Stavisky egli ha fatto un personaggio puramente cinematografico. Il suo credo, il suo concetto di credito corrisponde esattamente a quello del Publicity Department dell’Universal: in forma teorica queste riflessioni si possono leggere nell’analisi adorniana della Teoria della classe agiata di Veblen. Per attrarre maggior denaro, bisogna spendere a piene mani il denaro che non si ha. 1) denaro che non serve per pagare ma per godere non deve affatto essere guadagnato in maniera onesta. Stavisky in Resnais incarna gli anni Tren­ ta, una «società che vive al di sopra dei suoi mezzi». In mo­ do teatrale, eccessivo, eclettico. L’architettura da Grand Ho­ tel è per questo Zeitgeist il rifugio ideale. Stavisky vive nei Grand Hotel e vi sbriga vari affari. Quando Stavisky uscì, lo si considerò un tributo alta moda del momento, uno dei tanti film con i quali negli anni Settanta si riscoprivano gli anni Trenta. Ma il particolare rapporto di questa moda con il cinema non venne colto. Il carattere tutto apparenza del­ l’epoca, la sua vertiginosa precarietà, l’instabilità di una ric­ chezza non ereditata ha la sua giusta collocazione nel cine­ ma. Nel cinema si vive a credito. Il medium che non si fa problema di afferrare la realtà visibile, ha come supremo compito quello di conferire aH’immaginario il suo reale sta­ tus e di problematizzare così la realtà ufficiale. Come modello per il suo Stavisky Resnais pensava a Sa­ cha Guitry; «come Sacha Guitry interpretava la parte di Luigi 329

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XVI o Luigi XIV, senza che lo spettatore neanche per un momento dubitasse mai che egli, Sacha Guitry, recitava la parte del re*. Stauisky doveva dapprima chiamarsi BiarritzBonheur, poi Alexanders Imperium: Imperium era il nome del teatro di Stavisky. Che si tratti di speculazioni politiche, finanziarie o di show-business, tutto egli maneggia in base al medesimo principio. Non perché nutrisse sentimenti fa­ scisti - ha anche complottato con la destra spagnola -, Sta­ visky ha anticipato l’estetizzazione della politica che i nazi­ sti perseguirono con minore eleganza, ma perché il suo ap­ proccio a tutte le imprese era mediatico. Agiva come un vi­ veur, edonista e megalomane, e raramente teneva i piedi su quel terreno che fino a oggi, di contro al sapere tecnologi­ co, viene designato come la realtà. In America nel 1934 contro la corruzione dei costumi operata dal cinema venne adottato il codice Hays. Di uno dei funzionari di questa istituzione incaricato di vagliare i film di Lubitsch si tramanda l’osservazione secondo cui si capisce quel che il regista vuole dire, ma purtroppo non è possibile dimostrarlo. Lubitsch si serve del cinema per ma­ terializzare l’apparenza sensibile, categoria, questa, dell’e­ stetica classica. La promiscuità nei suoi film si fonda sulla dissoluzione delle vecchie strutture di classe, premendo sul pedale del­ l’esagerazione da operetta, affinché venisse capita dagli americani fin nel Midwest. Si allude visivamente alle cose senza ritrarle direttamente. Accanto a quello drammaturgi­ co, una determinata architettura assume un particolare, nuovo valore simbolico. Tramite la prospettiva, dal Rinasci­ mento in avanti i dipinti sono legati all’architettura e spesso fondati su di essa. In questo tipo di cinema l’architettura serve a destabilizzare. I film non sollecitano l’identificazione, né il lusso osten­ tato suscita sentimenti d’invidia. Tali reazioni vengono im­ pedite dalla struttura ellittica che continuamente rimanda a ciò che nell’immagine non c’è: non solo al contesto, ma an­ che all’altra faccia della medaglia. Le critiche mosse a questi 330

I GRAND HOTEL NELL’INDUSTRIA DELL’INTRATTENIMENTO

film, apparentemente in nome del realismo, mostrano solo come sotterraneamente il modo di pensare in termini di pubblicità elabori l’estetica capitalistica. Tutto è un filo sopra le righe, troppo grande, troppo bianco, appunto paramount. I membri lievemente scimuniti del bel mondo non rappresentano una classe, sono invece un prodotto estetico. Possono essere anche tranquillamente degli acconciatori (Monte Carlo), impiegati di banca nullafa­ centi (Bluebeard’s) o scrocconi che campano facendo i gi­ golò (Ninotchka), figure svarianti dal comico al miserabile. I cavalieri d’industria truffatori, invece, i ladri scalatori di facciate delle case, e le gold diggers vogliono il plusvalore, lavorano duramente e vivono pericolosamente. Negli anni Trenta Claudette Colbert ha interpretato spessissimo ruoli di questo genere, ora di aristocratica declassata, ora di chorus girl che tenta l’arrampicata sociale, sempre alla caccia di de­ naro. In Midnight vive sotto le mentite spoglie della baro­ nessa Cerny ovviamente al Ritz di Place Venderne, trascor­ rendo i weekend in un castello proprietà di un borghese che le spiega come l’abbia comprato da un nobile per un tozzo di pane: 41 commercio ha vinto sulla tradizione*. Il re­ gista Leisen a proposito del suo film: i set erano gigante­ schi, abbiamo sperperato i soldi come marinai ubriachi. Dall’architettura seria quella filmica si distingue per il fat­ to che non ha bisogno dell’ufficio del catasto. È un’architet­ tura senza suolo e fondamenta. I cui spazi, come ogni spet­ tatore sa, ma tende a dimenticare, non hanno soffitti per consentire libertà di movimento alla cinepresa, alle gru, ai microfoni. I nuovi spazi, senza pianta, si compongono in in­ quadrature e si definiscono attraverso la dimensione tempo. Tra palazzi, hotel e cinema si è insediato uno sconcer­ tante sistema di connessioni, reso ancora più complicato dal fatto che per un periodo, soprattutto in America, i luo­ ghi dove i film venivano proiettati e i luoghi high life ritratti nei film erano architettonicamente. Quando Friedrich Wilhelm Murnau nel 1923 era alla ri­ cerca di motivi e palazzi per il suo Finanzen des Grossher331

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zogs, trovò in Dalmazia, sull’isola di Rab, un Grand Hotel che gli servì per le riprese in esterni e che più tardi fece ri­ costruire parzialmente negli studi cinematografici di Berlin, come sede del governatore di un ministato minacciato dal­ la bancarotta. Quando invece Alain Resnais per L’année dentière à Marienbad (Z 'anno scorso a Marienbad) ebbe bisogno di un Grand Hotel ideale, lo fece assemblando di­ versi castelli della Baviera: Nymphenburg, Schleissheim e Amalienburg. Nelle metropoli i Grand Hotel rappresentano i nuovi monumenti e in quanto tali sono espressione dell’essenza della società. Vista dal Central Park la skyline di New York, formata dalla Ritz Tower, dallo Sherry-Netherland, dal Sa­ voy Plaza e dal Plaza, citata in molti film come establishing shot, è il simbolo del nuovo mondo. Il Grand Hotel come melting pot e meeting point diventa la quintessenza della mobile società americana in cui le barriere di classe vengo­ no superate dinamicamente con ascensori che in Disney si chiamano «people movers-. Un film di Mitchell Leisen, Hands Across The Table, per costruire le sue storie si attiene a una variante tutta americana della grande bótellerie, il Re­ sidential Hotel, dove nei piani alti dei grandi alberghi vivo­ no, nelle loro suites, degli ospiti permanenti. Così nel film un giovane milionario costretto sulla sedia a rotelle, che vi­ ve in alto, entra in contatto con la manicure dell’albergo che abita in basso. L’esito più progressista nella combinazione Grand Hotel/invenzione cinematografica lo si trova in The Internatio­ nal House con W.C. Fields del 1933. Poiché si tratta di im­ magini nuovissime - e in alcuni casi ispirate dalla marijuana -, anche le prospettive sono insolite, e la cinepresa è straor­ dinariamente mobile. Arrivato dall’America, Fields atterra in Cina sul tetto di un Grand Hotel dove si tiene un congresso in cui si discute della scoperta di uno scienziato cinese. La scoperta si chiama «radioscope- ed è quanto oggi conoscia­ mo come televisione. La pista di decollo dell’aereo è al tem­ po stesso il set per un gigantesco numero musicale ispirato 332

I GRANO HOTEL NELL’INDUSTRIA DELL'INTRATTENIMENTO

a Busby Berkeley, con ragazze impacchettate nel cellophan e altri materiali trasparenti. Per Finterò film Fields non si se­ para dal suo cilindro e di fronte a fili del telefono totalmen­ te ingarbugliati si mette a strillare qualcosa a proposito di un pasticcio di spaghetti cinesi.

In Europa i Grand Hotel hanno letteralmente soppianta­ to i palazzi. A Parigi il Ritz e il Carillon si insediarono, man­ tenendone le facciate, in antiche dimore aristocratiche. A Berlino, con il patrocinio dell’imperatore Guglielmo II, l’Adlon si stabilì nel Palais Redern ristrutturato da Schinkel. La disinibita varietà immaginifica e la teatrale voluttà mi­ metica che si scatenò in questo genere di costruzioni venne superata solo dai palazzi che si vedono nei film degli anni Venti e Trenta. Il Centfox ad Atlanta (Georgia) come l’Adlon ospita locali orientali, egizi, moreschi, mentre il Paramount a Oakland è puro art-déco, il che significa che sono già sta­ ti integrati gli influssi esotici: aiuta a immaginare l’effetto che i set in bianco e nero di Cedric Gibbons, Van Neste Polglase, Cameron Menzies avrebbero suscitato se allora si fos­ se girato con materiale a colori. L’architettura - la costruzio­ ne di Timothy Pflueger venne iniziata in piena Depressione, e il Paramount, una volta terminato, fece bancarotta - si dis­ solve in un movimento che nasce dal gioco combinato di luci e colori. Rispetto ad altre architetture, il cinema punta più spesso sul Grand Hotel. Esso diventa la cifra del mutamento socia­ le nel rapporto fra arte e pubblico. Il crescente ruolo dell’America nel rapporto con l’Europa vi ha sempre una parte. Il Ritz di Parigi, non importa se in Lubitsch, Mamoulian, Lei­ sen, Wilder o nei francesi, in Sacha Guitry o Jacques Becker, è il luogo in cui America ed Europa si incontrano. Per la pseudosocietà cosmopolita ed eterogenea, desi­ gnata con il termine Ritzonia dallo studioso dell’arte Ber­ nard Berenson, i Grand Hotel erano luoghi di autorappre­ sentazione: il pubblico, anziché contemplare l’arte creata da altri, fa parte esso stesso del quadro. Nella società borghese 333

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l’arte era diventata rappresentazione del proprio mondo. Così nel suo romanzo Lady Barberina Henry James descri­ ve lo stato d’animo di una aristocratica inglese che vive a New York:

(...] questi effetti d'immagine che, come ella confusamente avvertiva, erano propri di persone appartenenti a classi dedite alle arti espressive. Lady Barberina non se ne era ovviamente mai occupata, ma sapeva che la sua classe di appartenenza vedeva il proprio compito non nell’esprimersi, ma nel godere, non nel rappresentare, ma nell’esse­ re rappresentata. L’ostentato affastellarsi di forme di vita aristocratiche in luoghi di borghese opulenza non è la celebrazione di tale opulenza, ma un palese consumo. Le regole di vita sociali si fanno ruoli e teatro. Questo è il punto in cui interviene il cinema. I film di Lu­ bitsch non approfittano dello splendore di una classe che un tempo dava il la per offrirlo a un pubblico che lo ammi­ ri con animo innocente. In questi film Lubitsch infrange l’immagine del cinema, così come in ogni capocameriere si ravvisa un signore in frac profanato. I suoi ricchi nullafa­ centi incarnano, perfidamente, gli spettatori, l’ultimo pub­ blico che nella letteratura di intrattenimento è diventato un fattore tanto decisivo. I media hanno fatto sparire il pubbli­ co nella sua vecchia forma, quella di un collettivo riunito. Le sale chiudono perché non esiste più il pubblico in per­ sona. L’incredibile moltiplicarsi dei festival ovunque e il lo­ ro successo sono indice del desiderio di comparire, in quanto pubblico, nel cinema.

Da luoghi dello spirito imprenditoriale boighese i Grand Hotel sono diventati simbolo di prestigio borghese. Le for­ me raffinate di vita qui esibite ne erano i requisiti, gli ap­ prezzati ospiti dell’aristocrazia rappresentavano la forma di pubblicità meno dispendiosa. Quanto esclusivo fosse quel tipo di società lo si arguisce dal fatto che al Ritz di Parigi prima della prima guerra del ‘14-’18 un Maitre d’hótel con 334

I GRANO HOTEL NELL'INDUSTRIA DELL'INTRATTENIMENTO

un monocolo decideva chi ne faceva pane o meno. Nei film americani esiste - fino a oggi, persino in The Shining di Kubrick - il ruolo standard del maggiordomo dall’accento inglese che è più compito del suo padrone e meglio di lui sa che cosa il signore debba indossare e in quali occasioni. In Lubitsch è la servitù che celebra svagata le regole di un’altra classe, la vera snob. Nel romanzo di Vicky Baum Menschen im Hotel, che a Hollywood diventò un Greta-Garbo-film che s’intitolava Grand Hotel, le forme, invece, svolgono un’altra funzione. Gli aristocratici declas­ sati, per via della compitezza delle loro maniere, si prestano in particoiar modo a essere impiegati nel Grand Hotel. Il la­ dro di gioielli, nel romanzo e nel film, è al tempo stesso un aristocratico che protetto dal proprio nome può intrapren­ dere le sue incursioni e fare bottino. In questi alberghi travestiti da palazzi si annida sin dall’i­ nizio, a causa delle loro arie usurpate, il tarlo dell’inautenti­ co e pertanto una parentela con il cinema. Nei primi poli­ zieschi di Fritz Lang, in Kàmpfende Herzen, in Spione, pren­ dono alloggio negli hotel di lusso, per travestirsi, tanto lo stimato agente di cambio, che è anche falsario e trafficante di gioielli, quanto il grande detective. Del Grand Hotel fanno parte, al pari d’una solleticante incertezza circa l’identità degli ospiti, coloro che vi penetra­ no furtivamente, i ladri che si arrampicano sulle facciate: la spiegazione più superficiale dell’inclinazione del cinema per questi sportivi imbroglioni è quella realistica: la ricchez­ za accumulata attirerebbe appunto i ladri. Solo che il cali­ bro dei cineasti che li eleggono a protagonisti ci incoraggia a supporre che a questi personaggi si sia trasmesso qualche tratto della nuova esperienza dello spazio generata dalle immagini cinematografiche. La cosa è cominciata quando il cinema era ancora ai suoi primi passi. Il primo episodio del famoso serial di Feuillade Fantómas si intitola Le Voi du Royal-Palace-Hotel. Fantómas è un trasformista dalle molte­ plici maschere e si serve dell’ascensore dell’hotel per mette­ re a segno i suoi colpi. Alla fine appare in sogno al com­ missario che indaga nei panni d’un uomo di mondo in 335

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mantello da sera, sciarpa di seta bianca e cilindro. I gentleman-ladri in Lubitsch, Hitchcock, Wilder - qui il caso è particolare in quanto Audrey Hepburn si nasconde all’esterno, sulla facciata del Ritz - sono attratti dalla piattez­ za delle immagini fìlmiche. L’arrampicarsi sulle facciate, in­ sieme con i movimenti verticali degli ascensori, dirigono lo sguardo sulla loro bidimensionalità, sulle nuove dimensioni e gli spazi del cinema. Ci si fa un’immagine sbagliata del Grand Hotel se vi si associa l'idea di società chiusa. Sono, al contrario, luoghi della permeabilità e del mescolarsi; lusso, gioielli, denaro in abbondanza sono simboli logori, obiettivazione di una ses­ sualità liberamente circolante. In Vicky Baum si dice: i con­ cetti di moralità nel Grand Hotel erano estensibili. In Henry James: il rigore, con cui ogni apparenza di intenzionali o inattese avventure viene repressa, non è il tratto meno pe­ culiare deH’enorme promiscuità generale. Nella trasposizio­ ne cinematografica del Giocatore di Dostoevskji, The Great Sinner (Il grande peccatore) del 1949, si ha l’impressione che il film consenta libertà di costumi che non si addicono a uno stabilimento balneare tedesco del xix secolo. Ma il re­ soconto di un giornale del 1846 su La moda balneare del xix secolo evoca: «...la natura mista che caratterizza la so­ cietà odierna, che accanto alle esigenze aristocratiche inclu­ de elementi democratici, accanto all’esclusività la più sfre­ nata licenziosità». Il probo cronista è chiaramente scioccato dal fatto che l’ozio allenti i costumi, mutamento questo sto­ rico ed esteso a tutte le classi. Nel suo Dàmonische Leinwand (Lo schermo demoniaco) Lotte Eisner critica la superficialità di Lubitsch come menta­ lità da vaudeville che renderebbe impossibili film della por­ tata di Der letzte Mann di Murnau. Murnau trova che Lubit­ sch sia troppo legato al teatro. Nella sua visione solo il me­ dium, non il suo pubblico, è degno di essere esplorato. Il piacere della seduzione per lui non è un soggetto, proprio come per Lubitsch il Kammerspiel con un tavolo e una se­ dia davanti a una parete spoglia non potrebbe rappresenta­ 336

1 GRANO HOTEL NELL'INDUSTRIA DELL'INTRATTENIMENTO

re il film ideale. In Lubitsch, Hitchcock, Truffaut, il pubblico è un elemento essenziale dell’istituzione cinematografica. Il cliente è sovrano - e anche vittima. Un particolare elemento del Grand Hotel è stato incor­ porato molto prontamente dalla drammaturgia filmica. La porta girevole, in Chaplin, è un generatore di gag che mo­ stra come film comico, cinema quale medium del movi­ mento e architettura interagiscano. La porta girevole com­ pare per la prima volta in The Cure {La cura) del 1917, con Charlie che fa l’infermiere in una clinica di lusso. Molto più tardi riapparirà ancora una volta in A King in New York (Un re a New York). Il film è nato negli studios inglesi, ma è am­ bientato principalmente al Ritz di New York. Chaplin, lui stesso King of Comedy in esilio, venuto via dall’America e soggiornante al Beau Rivage di Losanna, un Grand Hotel prediletto dai monarchi in esilio, recita la parte di un re scacciato da un paese orientale che vive al Ritz e che per mantenersi svende la sua regalità alla pubblicità. Il numero di danza più lungo della storia del cinema, nel musical The Gay Divorcee (Cerco il mio amore) con la cop­ pia Gingers/Astaire, ha come sfondo scenico una quantità di porte girevoli vorticanti. Più di un quarto d’ora dura •Dancing the Continental». Anche qui, come in un rebus, dentro e fuori si scambiano le funzioni, il che propizia a una più precisa percezione della linea mossa e danzata. La coppia danza con la lievità di una piuma e di un’ombra, lo spazio è immenso. E tuttavia tramite gli effetti in bianco e nero e la moltiplicazione all’infinito dell’immagine, la preci­ sione delle movenze di Rogers e Astaire è improntata al meccanismo del medium che la riproduce.

Come l’aristocrazia ha perso la propria aura quando in­ vece di frequentarsi in maniera esclusiva nei palazzi privati ha cominciato a frequentare i luoghi pubblici, così tramite il cinema i Grand Hotel sono diventati fenomeni di massa. In The Gay Divorcee l’hotel è affollato per la sola presenza di un gigantesco corps de ballet. La funzione dei monumenti 337

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nelle architetture di un tempo era, scrive Georges Bataille, di impressionare le masse e di imporre loro un attonito si­ lenzio. I nuovi monumenti, che si vedono al cinema, sono luoghi d’intrattenimento e mettono in mostra in modo subli­ mato il carattere di massa. Quando Henry James descrive il vecchio Waldorf Astoria noi europei pensiamo alle piazze, a tutti i luoghi destinati alla sosta ristoratrice che non esistono più nelle strade di New York. La loro ampiezza richiede una organizzazione perfetta, che tende al militaresco. In Bellboy (.Ragazzo tutto fare) Jerry Lewis fece del duro tirocinio del valletto una fonte di gag e del surreale iperadempimento del dovere l’unica pos­ sibilità di sottrarsi in quanto individuo alle pretese della massa. Ma Hedda Adlon riferisce con orgoglio come l’impe­ ratore Guglielmo riconoscesse nei valletti schierati i coraz­ zieri del suo reggimento Pappenheim, proprio come Lorenz Adlon aveva pianificato che succedesse. Gli storici dell’arte hanno registrato il diverso modo di rappresentare l’architettura quale sintomo di mutamenti so­ ciali. I Grand Hotel delle metropoli, che diventarono luoghi di convegno per uomini d’affari - i diplomatici che al Sa­ cher di Vienna facevano politica, come si vede nel film omonimo di Erich Engel, si servivano di séparés - introdus­ sero la massificazione delle istituzioni di lusso, le profana­ rono con il lavoro e il continuo accapigliarsi per il profitto. L’insegna «Palast Hotel* in Màdchen Rosemarie (La ragazza Rosemarie) di Thiele appare più volte in dissolvenza e gli spettatori sanno benissimo come sia inteso invece il Frank­ furter Hof. I rudi commercianti di asbesto del film non sono fondamentalmente più volgari di Wallace Beery, il sudatic­ cio fabbricante tessile sassone nel vecchio Grand Hotel. So­ lo il cinema e la grande hótellerie hanno da allora perduto molto del loro splendore. Con la seconda guerra mondiale sono spariti ogni lusso e ogni eleganza. Ma in tutti i film ambientati in hotel troviamo ancora in Thiele lo sguardo della cinepresa diretto verso l’al­ to a sottolineare la verticalità e l’assenza di profondità, sulla 338

I GRAND HOTEL NELL'INDUSTRIA DELL’INTRATTENIMENTO

facciata resa uniforme dalla successione delle finestre. Presto però lo sguardo si dirige verso il basso, a seguire il denaro che Gerd Fròbe lancia alla prostituta nel cortile. Il concetto di sessualità che l’autore della sceneggiatura e il pubblico si fanno, corrisponde al Grand Hotel messo a nudo. Il sesso non è altro che lavoro salariato. La Nitribitt così come il ba­ rone von Gaigern in Grand Hotel pagano con la vita.

Quando con soggetti specificamente filmici il medium viene riflesso in lavori di registi che non ravvisano la loro più importante funzione nel far divertire il pubblico con storie, anche i Grand Hotel appaiono in una luce concet­ tuale. Essi sono l’impalcatura dei film. Strutturano i film ol­ tre la fare da cornice elegante in cui si muovono celebrità e magnati. Non solo in Der letzteMann (L’ultima risata), ma anche in Tartujf (Tartufo) e Sunrise (Aurora), Murnau incrocia esplicitamente due concezioni spaziali, due linguaggi spa­ ziali. Che sono chiaramente sovradeterminati . Lo spazio della cinepresa si mescola allo spazio architettonico, il che significa un mutamento nel simbolismo architettonico che dal Rinascimento in avanti ha predominato in pittura. Lo spazio filmico dinamico non è legato a una pianta, è proie­ zione. In Murnau spesso uno spazio costruito corrisponde a una inquadratura. In Der letzte Mann egli combina due mezzi di trasporto non sincronici - l’ascensore che scende per i corpi, la cinepresa per gli occhi più veloci - in un mo­ vimento che conduce fuori dal «gigantesco casermone». Il Grand Hotel come superdimora internazionale rappresenta per noi il racconto tradizionale e la funzione dell’architettu­ ra. Come idea che ha preso a modello i palazzi feudali, es­ so rappresenta un anacronismo nell’epoca della mobilità metropolitana, e la sua architettura in fin dei conti appare una fissazione, analoga a quella del vecchio portiere per la propria uniforme. Qui si annuncia la fine delle costruzioni solide ben impiantate nel terreno e l’effìmera estetica delle immagini elettroniche indagata e descritta da Paul Virilio. Ciò che ha preso avvio come borghese spirito d’intrapre­ 339

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sa - senza l’utopico orizzonte della modernità - con l’archi­ tettura da Grand Hotel contrassegnata dalla voluttà citazionista e mimetica ed è continuato con la scenografìa da film volta spasmodicamente a divertire, è giunto a pieno compi­ mento nell’estetica populistica del postmoderno: oggi essa è più cinema del cinema stesso. Quando S.M. Eisenstein a Hollywood cercava di realizza­ re il suo progetto di casa-di-vetro, gli fu offerta la trasposi­ zione cinematografica del Grand Hotel di Vicky Baum. Le costruzioni in vetro come prolungamento delle sue teorie del montaggio e la connessa stereoscopia cinematografica lo occupò dai tempi delia sua visita ail’hotel Hessler di Ber­ lino nel 1926. In America la sua idea trovò nuovo alimento quando s’imbatté nei progetti di una torre di vetro elaborati da Frank Lloyd Wright. Eisenstein non pensava minima­ mente alla melodrammatica contemporaneità dei più etero­ genei destini e al loro casuale intrecciarsi descritti nel ro­ manzo di Vicky Baum. Voleva mostrare come le abitudini percettive siano anacronisticamente improntate a concezio­ ni spaziali obsolete. Lo interessavano le rappresentazioni si­ multanee e la molteplicità dei punti di vista. Ma Hollywood non sapeva che farsene di soggetti senza story. In The Bellboy {Ragazzo tuttofare) di Jerry Lewis, più di trent’anni dopo, un producer della Paramount totalmente folle presenta così tra risate nervose il film: «Niente story, niente plot, solo sequenze comiche». Quando la costruzione di un film non dipende più in modo parassitario dalle sto­ rie, interviene l’architettura. Nella ricezione di Marienbad ha prevalso fin troppo l’in­ teresse per la rappresentazione del lavoro della memoria, mentre la fittizia architettura da Grand Hotel ha attirato troppo poco l’attenzione su di sé. Ma Resnais aveva sottoli­ neato esplicitamente come, durante le riprese, pensasse più alla struttura che alla storia. Con una forma filmica compo­ sta da una molteplicità di punti di vista e di osservazione egli sferra l’attacco alla sola prospettiva centrale. Anche lo spettatore si trova spiazzato dal momento che al protagoni­ 340

I GRANO hotel nell'industria dell'intrattenimento

sta viene sottratto il posto al centro della storia. Dentro e fuori non sono più categorie fondamentali dello spazio fil­ mico bidimensionale non più delimitato da mura o pareti; Marienbad è una scultura filmica, un oggetto compatto, di­ ce Resnais, ricavata con mezzi derivati dalle arti figurative. Il Grand Hotel è finto, la società che vi è radunata è spettra­ le, appartiene all’altroieri, il giardino francese è natura falsi­ ficata a opera di interventi architettonici. Tutto l’insieme ci dà un’immagine di cosa sia la rappresentazione. Le immagi­ ni prodotte dai montaggio non distruggono una unità real­ mente esistente, ma sempre una concezione unificante che ha determinato la percezione.

Tutte le finzioni basate sui Grand Hotel sono attraversate come da un filo rosso dall'allusione, più o meno chiara, al palazzo costaiito da Dedalo, prigione del Minotauro. Una geniale invenzione in Jerry Lewis, associata a scopo dimostrativo con la riorganizzazione di uno spazio libero, è il ragazzo tuttofare che con sovrumana velocità - per que­ sto nel cinema esistono le ellissi - e i movimenti febbrili di un insetto ammobilia l’enorme salone delle feste del Fontai­ nebleau in Florida con le seggiole per una proiezione cine­ matografica. Davanti a Citizen Kane (Quarto potere) di Orson Welles Borges credeva di aver compreso la ragione del particolare terrore che incutono i labirinti cinematografici: il loro centro vuoto. Ma forse incute ancora più timore il fatto che i labi­ rinti rigidi attraverso il cinema si mettano in movimento. Le immagini dello schermo, i fotogrammi, delimitati solo prov­ visoriamente dal cash, sono centrifughi.Ragione per cui al­ cuni registi,quando nei loro film collocano immagini che ri­ specchiano il loro lavoro, prediligono labirinti naturali in forma di tele di ragno. Essi danno l’impressione di una co­ struzione disciplinata, ma la metafora è piuttosto arbitraria, e quindi tanto più convincente quanto più ha deliberatamente di mira la brama edonistica dello spettatore.

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Dall’antro anarchico del cinema All’inizio fu una sonora risata 1995

Attorno all’inizio del secolo, contemporaneamente all’affermarsi dei media di massa e alla loro diffusione, uno stra­ no movimento a ritroso, un paradosso, animò la vita cultu­ rale del nuovo e del vecchio mondo. Le avanguardie europee guardavano verso l’America. Wedekind, Max Reinhardt, più tardi Brecht, si lasciarono ispirare per il teatro da quella che chiamavano l’arte ameri­ cana dello spettacolo e del corpo. Il futurista Marinetti in uno dei suoi manifesti celebrò la dinamica del teatro-va­ rietà, nato dairelettricità. Picasso si riforniva da Gertrude Stein di giornali americani per leggerne i fumetti e seguire i tiri dei Katerjammers kids, una banda di ragazzini che getta nell’insicurezza il mondo degli adulti. Eisenstein propagan­ dava il suo montaggio delle attrazioni, che considerava con interesse le procedure dei numeri del circo e del MusicHall: l’attenzione del pubblico viene suscitata attraverso shock e frammentazioni - egli montava quindi usando det­ tagli affascinanti e frammenti, secondo una prospettiva nuo­ va e attuale. In America, al contrario - nello sforzo di raggiungere la rispettabilità, ma innanzitutto per massimizzare i profitti, grazie alla standardizzazione di un’industria di intratteni­ mento che diventava sempre più importante - si tentava di allontanarsi dal vaudeville, la versione americana del va­ rietà, e dalia sua estetica. Come il suo corrispondente euro­ peo esso era basato sui numeri e sullo spettacolo, dipende­ va dai virtuosismo e dall’abilità dei singoli performers e si riproponeva di suscitare l’emozione del pubblico in modo assolutamente immediato. 342

dall'antro anarchico dei cinema

Ispirati dal vaudeville e dai suoi autori, i primi film comi­ ci nacquero senza personaggi e senza avvenimenti che, se­ condo continuità e causalità, cercassero di raggiungere dei culmini drammatici. Vi erano invece stereotipi, figure comi­ che, screen characters in gag mozzafiato, nelle quali se la cavavano o meno. Situazioni temerarie di fronte alle quali ammutolivano tanto gli attori quanto gli spettatori: muti per la tensione acrobatica gli uni, e per incredulo stupore gli al­ tri. C’è una duplice ragione per cui «gag» (letteralmente, ba­ vaglio) divenne la parola cinematografica per indicare l’ef­ fetto comico: il fatto che i primi film fossero muti e l’inten­ zione di indurre il pubblico, con le brevi sequenze comi­ che, a soffocare dalle risate. Il genere comico è quello più commisurato alla sua for­ ma e ai modi di produzione del cinema, e il suo successo presso il grande pubblico non va ricondotto soltanto al bi­ sogno di quest’ultimo di essere intrattenuto e alla sua inge­ nua ricerca di divertimento. In Europa le arti, con l’ideologia borghese, erano diven­ tate realiste. Ciò che esse cercavano di togliersi di dosso, in America venne trasformato dall’industria cinematografica nel canone di ciò che oggi viene chiamato il cinema classi­ co di Hollywood. Ora che il cinema compie cent’anni, per mettere a poste­ riori una solida base alla sua storia, tutti si dedicano con so­ lerzia a studiare le sue origini. Sarebbe però bello che tutti gli scavi e ritrovamenti archeologici potessero ricostruire non soltanto la ricezione ma anche il divertimento degli spettatori di quel tempo, perché il loro piacere potesse tor­ nare a contagiare anche noi.

La finzione nel cinema iniziò con la breve farsa dei fra­ telli Lumière L’Arroseur arrosé-. un birbone fa un tiro a un giardiniere salendo, alle sue spalle, sul tubo di gomma del­ la canna e bloccando il flusso dell’acqua, di modo che quando il giardiniere si mette la canna sotto il naso per controllare, lo schizzo gli esplode in faccia - atteso dallo 343

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spettatore con gioia maligna. Si può dunque sostenere che il genere che sta alla base della storia della cinematografìa narrativa è il comico. Anche il gioco infantile, sotto forma di practicaljokes, vi prese parte fin dall'inizio - un primo indi­ zio del fatto che nei film comici realtà e scena entrano in una nuova relazione Luna con l’altra. La storia risaputa secondo cui il cinema delle origini avrebbe fatto il suo debutto all’interno delle fiere è vera sol­ tanto a metà. Il divertimento popolare già con il varietà era diventato un intrattenimento socialmente accettato. Quando sul palcoscenico del celebre London Palace (dove si esibi­ vano anche i tre Keaton, con il piccolo Buster nel ruolo del­ lo «strofinaccio umano», introdotto e manovrato da suo pa­ dre) salì W.C. Fields, «the Distinguished Comedian and Greatest Juggler on Earth, the Eccentric Tramp», tra gli spet­ tatori vi era anche il Principe di Galles. Il teatro possedeva un palco reale. E nel 1912, a Berlino, Guglielmo II non vol­ le perdere l’occasione di stringere la mano a Max Linder, il beniamino del pubblico che si era fatto un nome con il ci­ nema, in occasione del suo spettacolo al Wintergarten. Di Linder scrisse Kurt Tucholsky un anno dopo sulla Schaubiìbne, dicendo che era uno dei pochi che avessero compreso la natura, le leggi, il ritmo e l’andamento del ci­ nema: Max: presto presto. Non fa in tempo a vedere una dama per strada, che subito deve seguirla, non può fare diversamente. 1 suoi occhi si spalancano per lo stupore, tanto che se ne vede soltanto il bianco, mentre il corpo, serrato nel corpetto, si piega sulle sue cerniere - e via!... questa sem­ bra essere l'unica forma in cui il cinema diventa sopporta­ bile: tre minuti di parodia, di farsa, gesti esagerati delle ma­ ni, una bocca sorridente, ma non una singola parola...

Nel primo decennio del nuovo secolo, e fino alio scop­ pio della Prima Guerra Mondiale, Italia e Francia erano i maggiori produttori e fornitori di film al mondo, mentre il primo comico cinematografico di fama mondiale fu Max 344

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Linder. Si andava ad assistere a fìlmini della durata massima di dieci minuti, per vedere Max, l’eroe eponimo, cimentarsi nelle più varie situazioni della vita: Max et son cbien Dick, Max et sa belle-mère, Max cocber de fiacre, Max professeur de tango, Maxfait du ski, Max hypnotise, per ogni film una piccola idea, con una specifica trovata cinematografica - in America da questo particolare tipo di lampo di genio, carico di ritmo e nonsense, nacque la gag. Fatti quotidiani, bana­ lità che, poiché erano girate con la cinepresa, si trasforma­ vano in stranezze. In Max si vede già l’immagine della star più tardi costniita negli studi, la maschera individualizzata, che balza fuori dal cinematografo come la cosa piti naturale del mondo. Già prima delle pellicole di Max realizzate dalla Pathé altri produttori francesi e italiani, per crearsi un pubblico costante, avevano puntato su serie realizzate intorno a per­ sonaggi comici. Anche questi clown dovevano affrontare piccole avventure, o piuttosto combattere con piccole av­ versità, dato che non facevano propriamente parte delia schiera degli uomini piti astuti. Dietro a questi tipi, che portavano sempre lo stesso nome, non vi erano sempre gli stessi attori - con grande disagio degli odierni studiosi di cinema. Nome e modo di presentarsi del personaggio co­ mico - e in questo si annunciava già un primo spostamen­ to della problematica dell’autore, che attraverso tutta la sto­ ria del cinema costituisce la principale differenza rispetto alle altre arti - il suo aspetto esteriore, stilizzato fino a di­ ventare un marchio, con il nome come sigillo, erano pro­ prietà delle case di produzione. Capita così che quando un produttore italiano si accaparra un attore di una serie fran­ cese di successo, costui appare a Torino come Cretinetti, mentre a Parigi la serie di Boireau viene proseguita con al­ tri attori. E quando essi venivano esportati, ricevevano ogni volta il nome che nel paese di destinazione veniva usato comunemente per il pagliaccio. Il personaggio diventato famoso in tutto il mondo grazie a Max Linder era Max Linder. A partire dal 1909 apparve nei 345

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film della Pathé con il proprio nome, e con il suo abbiglia­ mento caratteristico - nella maggior parte dei casi autore delle proprie farse, aiutato da un regista che si preoccupava dei dettagli tecnici delia messinscena. Linder improvvisava le sue apparizioni e le sue storie sul luogo delle riprese. Il Max cinematografico, un piccolo e agile francese, un signo­ rino sempre in caccia di divertimenti, con la giacca di un ti­ ght e i pantaloni a righe, con cilindro, bastone e ghette e immacolati guanti di un giallo burroso, è la prova migliore del fatto che il genere comico viene in ultima istanza soste­ nuto dal pubblico nazionale, al quale è visibilmente legato assai più dei generi seri, elevati e immortali. Con i comici si consolidano in Europa la farsa, la satira e la parodia. Ma ri­ mangono un’imitazione, per quanto esagerata, di un model­ lo rispettabile e della realtà. Le eterne storielle di donne e la salacità dei film di Max Linder, il loro esprit de boulevard, in America non vennero apprezzati granché, e divennero anzi un handicap per i suoi film, di cui si ammiravano tecnica e ritmo. Inoltre si trovava che le sue acrobazie, in considerazione del fatto che era un ex attore di teatro, erano più che onorevoli, ma tuttavia insufficienti per essere presentate al cinema. Le sortite e le scappatelle di Linder terminano sostanzial­ mente in maniera conciliatoria, con il ritorno nel grembo della società ordinata, nella famiglia. Quello che il pubblico americano si aspettava dal comico era qualcosa d’altro. Il comico cinematografico americano non è il ritratto ma il sintomo della vita americana, e soprattutto è una originalis­ sima invenzione del Nuovo Mondo. Le sue immagini sulla pellicola sono la quintessenza dei tentativi sempre falliti di integrarsi in un ordine in cui ci si sente stranieri e insicuri. Ancora nei lungometraggi dei grandi comici che sono do­ minati da vicende narrative complesse, Keaton, Chaplin e Langdon rimangono degli eccentrici, che si spingono fuori dalla cornice della finzione e restano sempre per strada.

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In America la commedia cinematografica si collegò dap­ principio allo sviluppo del vaudeville, la variante nazionale del varietà. Attorno al principio del secolo, sotto lo slogan di «Nuovo Umorismo», si discusse animatamente su un filo­ ne urbano e popolare dell’industria d’intrattenimento. I suoi nemici argomentavano con ragioni simili a quelle presenta­ te in Germania da un movimento di riforma contro il cine­ ma in generale, ossia il ritorno a forme rispettabili, conci­ lianti. Il Nuovo Umorismo era aggressivo, e prendeva di mi­ ra tutta la partecipazione e la lotta per il successo della so­ cietà americana. A suo modo strapazzava il materialismo americano, e in certa misura era la sua cristallizzazione estetica. Gli specialisti dicono che esso è nato dal SaloonEntertainment irlandese che si mescolò con il teatro gergale ebraico-tedesco. Anche Buster Keaton nei suoi numeri di vaudeville, nel ruolo del figlio che fa da capro espiatorio al padre, come quest’ultimo portava un’arruffata parrucca ros­ siccia, che rendeva entrambi riconoscibili come irlandesi per ogni spettatore. Quale fosse il compito della lingua nel Nuovo Umorismo lo si può immaginare benissimo pensan­ do ai fratelli Marx, che portarono con successo nel cinema sonoro l’anarchia dei primi tempi. Anche a Berlino esisteva lo slapstick, inteso come pro­ verbiale prontezza di battuta. Lubitsch, in farse che si chia­ mavano Der Stolz der Firma (t.l. L’orgoglio della ditta), Der Blusenkonig (t.l. Il re delle camicette), Schuhpalast Pinkus (t.l. Il palazzo delle calzature Pinkus) e nella serie Meyer regge tranquillamente il confronto con la smania arrivistica e la colossale sfrontatezza di Groucho. E pure Lubitsch in questi film è un immigrato, anche se proviene solo dalla non troppo lontana Polonia. Il tocco di Lubitsch, che per lo più viene individuato soltanto nella grana sofisticala delle sue commedie hollywoodiane, scaturisce dalla stessa dispo­ sizione spirituale. Non esistono battute eleganti, perché in esse qualcosa si frantuma sempre, il buon gusto prima di tutto. Il burlesque fece un gigantesco balzo in avanti, un salto qualitativo, quando prese ad occuparsene Mack Sennett. È 347

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indiscusso che il suo slapstick californiano - irrazionali cor­ se a ostacoli, villanie nude e crude, ma tecnicizzate - fu la prima vera e propria specializzazione cinematografica. Di­ rettamente, lui non ha inventato nulla: i suoi caratteristici Keystone Cops, un’orda di poliziotti sempre in corsa, che se­ minano confusione, esistevano già prima, in Francia. Lui li ha semplicemente adoperati in serie. Le sue bellezze al ba­ gno sono chorusgirls lasciate libere nella natura, rese pro­ vocanti dal movimento. Procedeva sempre secondo lo stes­ so schema, con elementi che rimanevano identici, artificiali e ridotti come nella commedia dell’arte, ma moltiplicando i personaggi ne faceva uno squadrone. Con lui il cinema non divenne soltanto surreale, ma addirittura astratto nel ritmo e nel montaggio. Già nel 1915 un contemporaneo descriveva i Keystones come «i cubisti del cinema-. Ciò vuol dire spazi ristretti, tempo serrato, prospettive piene di spigoli. Sennett era canadese di origini irlandesi, cantante fallito e attore di melodramma. Fu tra i primi a spostare la produ­ zione cinematografica dalla costa orientale a Hollywood, che allora era ancora una località sonnacchiosa tra pianta­ gioni di aranci - il terreno era economico, il clima costantemente soleggiato, condizioni assai favorevoli alle riprese e ai tempi rapidi delle produzioni. Dalla sua fun factoiy, alla quale per essere industria d’intrattenimento mancava anco­ ra l’organizzazione, ma che in cambio consentiva la massi­ ma spontaneità, uscirono Chaplin e Fatty Arbuckle, Harry Langdon e Harold Lloyd, Ben Turkin e Al St. John. L’elemento portante della sua estetica era la gag che mandava tutto all'aria. La confusione distruttiva alla fine di ogni piccolo film, il finale aperto. Gli studios di Sennett, la Keystone Company, avevano fama di essere un’assoluta gabbia di matti, in cui i parteci­ panti cercavano di superarsi a vicenda nell’inventare le cose più assurde e nel presentare i più audaci giochi di abilità. All’inizio Sennett faceva anche il regista; in seguito soltanto il produttore, che da una torre posta nel mezzo degli stu348

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dios sorvegliava quello che combinava il suo plotone. Le discussioni sulla sceneggiatura erano discussioni sulle gag, che avevano spesso al centro la figura dell’Uomo Selvaggio, così descritto dallo stesso Sennett:

Un uomo privo di qualsiasi forma di ragione, praticamente incapace di comunicare a parole quello che gli gira per la testa, ma con una sfrenata capacità d'immaginazio­ ne. Poteva restare a sedere ore intere, senza dire una paro­ la. Poi all improwiso gli usciva: quella nuvola... e spesso non c’era bisogno d’altro, perché grazie a una specie di co­ municazione telepatica quelli meno matti di lui si impos­ sessavano della nuvola, e ne facevano qualcosa. Come prova dell’evoluzione iniziata dal film comico con la sua specializzazione ecco ancora una testimonianza del­ l’epoca, che nel contempo la dice lunga su come le conqui­ ste del genere comico si trapiantarono nella struttura del ci­ nema in generale. Si tratta di una dichiarazione di Frank Ca­ pra, che girò commedie di successo negli anni Trenta e Quaranta. Ai tempi del cinema muto egli era un gagman negli studi di Sennett, e lavorava di preferenza per Harry Langdon, il piccolo sognatore dalla faccia di farina, al quale il mondo poneva soprattutto enigmi di natura sessuale: Il gagman è l’invenzione più recente degli studi cine­ matografici. È l'esperto di umorismo - per l’umorismo visi­ vo - quello che crea le risate dove normalmente non ve ne sono. Egli è in grado con una svolta comica di sciogliere la tensione anche nel dramma più cupo. Spinge in avanti la trama con piccoli eventi comici in quei punti che altrimenti sarebbero soltanto noiosi, ma che sono necessari. È un ve­ ro e proprio narratore di storie, solo che al posto delle pa­ role come strumento usa le azioni. I gagmen, scrisse Buster Keaton nel 1924, hanno preso il posto dei veterani - dei clown che inciampano, delle basto­ nate, delle tegole volanti e dei sigari esplosivi. Non sono però soltanto dei perturbatori della quiete che escogitano 349

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sorprese fulminanti, sono diventati responsabili anche della continuità, del procedere e dei collegamenti delle storie sul­ lo schermo. Lungo il suo cammino la gag - che non deve essere puramente visiva: anche con le parole si possono creare cose - si è consolidata, diventando la categoria di ba­ se della narrazione cinematografica. Una gag per essere co­ mica non ha come presupposto necessario una situazione comica. Non si definisce soltanto attraverso brevità, accu­ mulo, velocità e sorpresa. Agisce senza parole e concreta­ mente. A Hollywood è diventata il motore del nuovo modo di raccontare. Il suo oggettq è il mondo delle cose che com­ prende gli uomini, il suo ritmo è il battito delle macchine.

La pellicola sonora, si è soliti dire, ha dato il colpo di grazia alla comicità visiva del film e ha messo fine all’anar­ chia dell’età dell’oro. L’industria, che in America si organiz­ za sempre secondo le leggi del profitto, non concesse più spazio alla sua imprevedibilità. E nemmeno alla sua inso­ lenza nel demolire i valori. In Francia tuttavia negli anni Trenta la produzione cine­ matografica era ancora un’attività artigianale, traballante e poco seria. Là l’insegnamento di Mack Sennett continuava a produrre i suoi effetti. In Boudu sauvé des eaux (Boudu sal­ vato dalle acque} Jean Renoir tira un brutto scherzo al tea­ tro leggero. Il suo Uomo Selvaggio è Michel Simon, il clo­ chard Boudu. Senza volerlo, ma con un considerevole ef­ fetto, irrompe nell’esistenza piccolo borghese di un libraio sulla sponda della Senna. Rimane un eccentrico e alla fine, senza essere stato corrotto dall’aver gustato le benedizioni della civiltà, ritorna alla libertà del vagabondo - che viene relativizzata dal fatto che all’inizio ha cercato di togliersi la vita. Lui tuttavia non è - un barbone malinconico, espulso dal sistema sociale. Il suo omaggio a Chaplin collega Renoir alla critica del cinematografo contro l’elemento comico autocompiaciuto e umoristico del teatro d’intrattenimento francese. Verso il suo modello Renoir non fu meno disinibito di quanto non sia 350

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Boudu con la sacralità della vita borghese, quando si puli­ sce le scarpe con le tende di pizzo e, con orrore del suo bi­ bliofilo benefattore, si soffia il naso nella Fisiologia del ma­ trimonio di Balzac. Oltre a ciò va a letto con sua moglie. Ma questo il libraio lo può mandare giù facilmente - con l'aiuto delle convenzioni francesi. Nel 1932, quando Boudu venne lanciato, l’autore del testo da cui era tratto, René Fauchois, si indignò. 11 suo la­ voro nel film era stato ribaltato. Per lui il clochard, sotto l’influsso filantropico del libraio, veniva recuperato alla vi­ ta borghese. Grazie a un prologo e un epilogo nella natu­ ra Renoir aveva fatto saltare la cornice della scena, e con essa anche la morale di questo tipo di teatro. Dopo la guerra Fauchois, per motivi sconosciuti, cambiò tono: era un film ammirevole, e Renoir non aveva potuto compren­ dere le sue intenzioni perché il suo testo allora era ancora incompleto. Renoir ha mantenuto nei suoi film successivi lo spirito di ribellione della comicità popolare americana e le sue forme. Non ha mai abbandonato gli inseguimenti, con i quali il ci­ nema trasferì il suo diletto per i movimenti folli in spazi che grazie alla cinepresa erano divenuti mobili. Ma fu una rive­ lazione scioccante quando nel suo cinema quegli insegui­ menti si trasformarono in caccia all’uomo. La Règie du jeu {La regola del giocò), il suo film di cattivo presagio prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, a causa della commistione tra registri alti e bassi incontrò alla sua uscita un’irosa incomprensione. La farsa all’americana si intende come imitazione irrispettosa di un modello che gode di sti­ ma, e fonde in un unico quadro tempestoso la norma e le sue aberrazioni. Nel castello di La Règie du jeu la vita viene scombussola­ ta secondo tutte le regole della farsa, e in questo modo il film diventa una parodia. L’andamento della sua trama mo­ stra facilmente la corda, e non si può certo parlare di un’e­ voluzione dei personaggi. La recitazione intenzionalmente si approssima al semplice travestimento. Lo stesso regista vi 351

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compare come un imbranato. Spesso i dialoghi consistono in frasi fatte, che si trasformano, con un colpo di mano, in running gags. La caccia, un tempo intrattenimento dei grandi borghesi, si restringe e diventa una metafora che culmina in una cor­ sa priva di senso, in un inseguimento alla cui fine non si impilano le carcasse delle automobili ma, con un amabile inchino, si compiange la vita. Il castellano, che raccoglie strumenti per la musica popolare, recita la sua parte come un guitto. Fa da intrattenitore dei suoi ospiti. In ogni mc> mento di Dalio, l’attore, traspare che non appartiene al ge­ nere drammatico, ma che in realtà serve la musa leggera. Il pubblico della prima, e ancora per lungo tempo in se­ guito, fu esterrefatto, e comprese del tutto correttamente che il suo tanto celebrato realismo conservatore aveva rice­ vuto non soltanto un calcio nel didietro, ma anche un colpo mortale. Fino al suo ultimo film Renoir ha contaminato il realismo classico con il divertimento popolare, con numeri da circo, farse, canzonette cantate a squarciagola da una chanteuse del caf conc’ - in America il suo palcoscenico sarebbe sta­ to il saloon. Per farsi meglio comprendere egli apre le sue storie cinematografiche con sipari di peluche e mostra i fili da cui i suoi personaggi sono mossi. Filmò la Commedia dell’arte e il Cancan francese, mentre in Le Déjeuner sur l’herbe {Picnic alla francese} il vento della Provenza rag­ giunge velocità pari a quella dei tornados contro cui com­ batteva Buster Keaton.

In Francia il cinema americano, e prime tra tutti la farsa, aveva tra i più appassionati sostenitori la serrata schiera dei surrealisti. Le farse erano le munizioni della battaglia cultu­ rale. Nei film di Mack Sennett esaltavano la messa in libertà di una poesia che il caso e gli automatismi ponevano in evi­ denza e portavano su una falsa strada. Il nuovo umorismo per loro era nero, profondamente nero. Di questi film ama­ vano il mutismo trasognato, l’aggressiva selvatichezza, il la352

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to anonimo e quello infantile. Amavano il cinema come prodotto di scarto della civilizzazione. Il surrogato, si entu­ siasmò Bunuel, è una caratteristica surreale americana. La loro posizione era la reazione alle devastazioni che l’esperienza della Prima Guerra Mondiale aveva prodotto negli animi dei giovani. Jacques Vaché, il migliore amico di André Breton, che poco dopo lo scoppio della guerra si tolse la vita, gli scrisse dal fronte:

È arrivata la tua lettera, io sono a terra, senza pensieri, quasi privo di voce, più che mai registro inconsapevolmen­ te molte cose, senza riflettere - tornerò dalla guerra dolce­ mente rimbecillito, è assai probabile, simile a questi incre­ dibili scemi del villaggio (e lo desidero)... oppure ... oppu­ re che razza di film farò! - con automobili impazzite, con ponti che crollano e enormi mani che sullo schermo si al­ lungano verso dei documenti! ... inutile e inestimabile!

Tra i comici i surrealisti avevano i loro idoli. Il loro schie­ rarsi a favore di un preferito non era dettato da motivi di qualità cinematografica, ma da ragioni di ideologia surreali­ sta. Il cinema per loro non era esattamente una nuova arte. Della comicità di Chaplin, che difesero con grande rullo di tamburi quando l’opinione pubblica americana lo perse­ guitò a causa della sua vita amorosa, presto si stufarono. Troppo sentimentale, troppo affascinante, troppo dedito al­ l’integrazione. Verosimilmente troppo europeo. In Harry Langdon trovarono in maggior misura ciò che cercavano nel cinema - anche se ciò che ne scrisse Salva­ dor Dall parlava più per lui che per il gruppo: Harry Langdon mi colpisce per la sua vita istintiva, viva quanto una goccia d’acqua. Harry Langdon è come una creatura che si muove ancora più inconsapevolmente degli animali stessi. Apre la bocca per ridere e non sa perché. Harry è la vita allo stato elementare, vegetativa, rimasta in­ dietro rispetto ai suoi stessi gesti, ancora di più delle ame­ be di Joan Mirò. All’improvviso il suo volto si corruccia, al353

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1’improwiso fa dietro front, aU’improwiso si siede. - La vo­ lontà è completamente disattivata. Si muove come una pianta di fagiolo che mette le foglie.

È il bambino in là negli anni, perverso e polimorfo, che non riuscirà mai a inserirsi nel mondo degli adulti - la fron­ tiera scottante che dovrebbe tenere d’occhio chiunque vo­ glia fare un elenco dei temi e degli oggetti preferiti della commedia - verso il quale non mostra peraltro alcun inte­ resse. Quando in preda all’ebbrezza dell’azione supera i propri limiti, in ciò non si nasconde mai l’intenzione, com’è nel caso di Buster Keaton, di mostrare che anch’egli a mo­ do suo è capace di agire. Succede così, per forza meccani­ ca. Quando venne interrogato sul suo modo di procedere, Langdon seppe rispondere solamente: *Vd go into my routi­ ne* - che si può tradurre così: «Faccio il mio numero». La routine, come la gag, è uno dei mattoni con cui si costrui­ sce la farsa, e appartiene al cinema come vi appartiene il costume del clown cinematografico. E se mettiamo tutto in­ sieme, questa è la matrice da cui è venuta fuori la star. Se la gag è l’intoppo che fa saltare il corso realistico del­ la vicenda, allora la routine è la parodia - per mezzo di un’azione meccanica stilizzata - del raccontare ininterrotto e motivato. Essa proviene dal varietà, dal circo. In W.C. Fields, un altro comico apprezzato dai surrealisti, le routines sono numeri da giocoliere oppure sketch co­ struiti nello stèsso modo, in cui egli maneggia delle parole, cioè il testo. Esse restano legate al corpo dell’attore, alla sua abilità, e per questo non sono trasferibili come è trasferibile un ruolo. Routine è l’intero personaggio di Harpo Marx, che non conosce controllo e lascia semplicemente venire fuori tutto. Quando senza distinzione segue una qualsiasi gonnella, ma anche quando si dedica a suonare l’arpa nel suo modo an­ gelico. Anche il fatto che i Fratelli Marx, come tutti sanno, fossero uniti da veri legami familiari incrementa il loro effet­ to comico. Sono gli eterni ragazzi che commettono birichi354

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nate. Giocare impedisce di diventare noi stessi un giocatto­ lo. Questa era una massima dei surrealisti, che venne svi­ luppata da Georges Bataille in un breve testo che si occupa dei Pieds Nickelés, una striscia comica francese dei primi del secolo, molto popolare, con tre piccoli mostri sfacciati, tre super-bambini - Godard in Pierrot le fou dimostra quanto rispetto ha di loro. Viene da ridere anche se si tiene presente che lo spirito dei Fratelli Marx si trasmette ai surrealisti prevalentemente attraverso il movimento, routines incluse, poiché le cono­ scenze linguistiche e del mondo americano che avevano Artaud, Dall e Soupault, che allora scrissero entusiasti su di loro, non possono certo essere state sufficienti per seguire le svergognate vanterie di Groucho o il gergo malandrino di Chico, che pur sguazzando nel nonsense erano comunque i figli di una concreta realtà americana. La vera anarchia della comicità, con la quale essa si op­ pone all’assimilazione all’interno di una comunità e nella vi­ ta sociale condotta ordinatamente, è che essa, pur come in­ trattenimento di massa, si rivolge al singolo spettatore, sen­ za il cui inconscio individuale non può funzionare. In que­ sto le vengono incontro la situazione dell’oscurità in sala e il particolare rapporto con il pubblico. Il pubblico con il cinema è diventato importante, e non soltanto dal punto di vista dell’arte più alta, quella delle ra­ gioni economiche. Lavorare per lo spettatore, dice Jean Re­ noir, è un’idea molto progressista e assai confacente a) cine­ ma. E Freud nel suo trattato sull’umorismo dice che esso ha successo quanto più assume un orientamento aggressivo e tendenzioso. Il riferimento al pubblico, e all’attuale e al sociale, impe­ discono che l’elemento comico sopravviva alla sua epoca e acquisti un valore eterno, come la tragedia. Molte gag, e qui non sono di aiuto né la pietà né la venerazione per l’autore, oggi appaiono piatte perché non sappiamo più leggerne i segnali e perché non sentiamo più i timori e le costrizioni che, in quanto importanti elementi scatenanti, sono parte della risata. 355

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Per esempio, il motivo per cui Buster Keaton in The Fro­ zen North tiene fermo il suo cappello da cowboy con un laccio di cuoio sotto il mento, prova ad arrotolare le sue si­ garette con una mano sola e piange grandi lacrime di glice­ rina. Bisogna infatti sapere che nello slapstick non vengono parodiate soltanto le persone, non solo gli idoli del momen­ to, come nel caso del film di Keaton l’eroe western William S. Hart, ma anche situazioni, nel senso più ampio, come per esempio l’arredamento, gli oggetti o il pubblico stesso. La gag, e questo lo dicono tutti i suoi inventori, è un puro atto di equilibrismo: il pubblico, che deve e vuole ridere, guarda gli attori con uno sguardo da intenditore, mentre l’i­ dentificazione è di importanza secondaria. Non gli esce mai di mente invece la domanda sul modo in cui le cose avven­ gono. Ma nello stesso tempo è proprio questa domanda che, quando diventa troppo pesante, indubbiamente uccide la battuta. Tra tutti i generi cinematografici, scrive Eric Rohmer, quello comico è il più informativo. Dicendo così non pensa tanto alle informazioni del tipo: che cosa spingeva il pub­ blico a ridere, in quali epoche, e come la critica reagisce ai film comici, e come vi reagiscono gli studiosi, i quali oggi con legittima avidità si gettano sulle prime pellicole comi­ che, con la speranza di scoprire il cinema nel suo stato na­ turale. A Rohmer interessa la struttura, la costruzione del film, che con la comicità si denuda in una specie di smon­ taggio naturale e che scompone il cinema nelle sue singole componenti essenziali. Fondamentalmente il movimento del cinema è spezzettato, e il suo fluire è un’illusione ottica, un movimento di immagini singole. Lo testimoniano gli equilibrismi di Buster, le sue celebri posizioni inclinate, ma lo fa anche il suo volto ampio e immobile che, come un’in­ quadratura fìssa all’interno dell’immagine, è in costante di­ saccordo con le sue gambe, corte e veloci. Le proporzioni non corrispondono, e da questo nasce un’insicurezza fìsica che si placa soltanto quando i suoi gesti diventano mecca­ 356

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nici, automatici, non umani. Queste impressioni si trasmet­ tono allo spettatore che lo guarda in modo assolutamente diretto. Sullo specchio dell’anima, il volto di Buster, non succede nulla. Rohmer prende partito contro Chaplin a favore di Kea­ ton, che considera il vero genio del cinema. Chaplin mani­ pola, anche se con mezzi nuovi, vecchi significati, per de­ stare emozioni. Buster si confronta con un nuovo ambiente e le sue reazioni, dettate da questo ambiente, portano il marchio della necessità e della funzionalità. A entrambi il medium richiede un’assoluta padronanza dell’espressione corporea, che in Chaplin tende verso la danza, mentre Kea­ ton tratta il proprio corpo come un motore, come se egli agisse sulla frizione oppure, altrettanto importanti, sui freni. Nella descrizione che Rohmer dà della tecnica di Keaton si vede come tra le altre cose si sviluppano l’idea e la teoria della messinscena che hanno influenzato il discorso critico cinematografico francese degli anni Cinquanta e, insieme alla nouvelle vague, il cinema europeo. Con Keaton per Rohmer il film diventa un’arte esterna, un’arte spaziale. Di­ venta moderno, ovvero consapevole delle proprie virtù visi­ ve e autoriflessivo. La riflessione esiste da quando il cinema non è più soltanto una meditazione intellettuale, ma anche una rottura all’interno dell’immagine. La spazialità del cine­ ma, così argomenta Rohmer, ha la priorità sulle forme tem­ porali, perché questi film essendo muti si rivolgono di pre­ ferenza all’occhio; il muto mise in luce stilizzazioni specifi­ che, funzionali all’apparecchiatura, che spesso nei loro ef­ fetti non possono essere descritte a parole. Su di esse quin­ di, in modo del tutto coerente con la filosofìa di vita di Bu­ ster, sarebbe opportuno tacere. Se le gag di Keaton spesso non provocano risate sonore né un sorriso soddisfatto e meditativo, ciò non significa che esse in quanto gag non siano efficaci, o che falliscano per nostra ignoranza o per nostra incapacità di comprenderle. Al contrario: esse funzionano per sé o come Keaton vuole. Solo contro un mondo che diventa sempre più tecnologico, egli dimostra che l’ingegneria non è tutto. Come un artigia357

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no, o come un esperto di piccoli lavori manuali, egli riadat­ ta strumenti di precisione e insensati oggetti di lusso, ren­ dendoli utili per la sopravvivenza individuale. Le fedi funzionaliste dell’industria, la sua lodata suddivisione del lavo­ ro, falliscono: Buster fa tutto da solo. Robinson americano, egli conduce una lotta titanica contro la tecnica. Ne fa la pa­ rodia. Ciò che egli fa è talmente assurdo - e inverosimile, come se per mezzo della ragione pratica si dovesse mettere sotto processo anche la vecchia logica della narrazione. Il caso, inteso come obiettività, diventa un elemento cru­ ciale del suo particolare eroismo. In General anche la gran­ de storia dell’America viene fatta dal popolino. Per questo durante la discussione della situazione prima della battaglia decisiva Buster non siede alla tavola rotonda, ma sotto di essa. La macchina cinematografica di Keaton è una presa in giro di tutti coloro che detengono il potere nella vita quoti­ diana. Ciò che ne esce è un dilemma positivo, e in questo modo viene infine detronizzata la tragedia seria. Le leggi, la cui infrazione un tempo nella tragedia destava l’ira degli dei, nella società industriale sono ridotte a mere istruzioni per l’uso, nella migliore delle ipotesi a norme. Del tutto in­ giustificato vivere nel timore di esse. Il divertimento è un corroborante come la guerra, scris­ sero Adorno e Horkheimer nella loro resa dei conti, segna­ ta dalle ferite, con l’industria culturale americana. Inoltre, dice Freud, il senso di superiorità non è un buon punto di partenza per riuscire a dominare il comico. L’incessante sus­ seguirsi delle gag, che non lasciano riposare il diaframma dello spettatore, Buster Keaton le chiama cartoon gags. Le ammira nei comici come Larry Semon, e le individua nella loro forma migliore nel periodo in cui i film erano ancora brevi, in due atti. Alla lunga però non fecero più presa sul pubblico, perché erano troppo fantastiche e non commisu­ rate alla realtà. Il loro elemento immaginifico tuttavia, esa­ gerato e caricaturale, è perfettamente cinematografico, ed 358

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era necessario per distinguere il realismo del cinema da quello classico. Attraverso il suo specchio deformante fu possibile ritornare alla vita propria delle cose, le quali, con il loro modo di raccontare, hanno un proprio senso. Le gag sono l’elemento esplosivo per spezzare il vecchio sistema di significato. In quanto caricatura esse sono l’immagine ci­ nematografica concentrata, il segno del film al quale ritorna entusiasta il cinema degli anni Cinquanta, a Hitchcock, Wil­ der, Tashlin e Jerry Lewis, dei quali Godard divenne uno zelante allievo. Le disquisizioni accademiche sul cinema dicono - so­ prattutto da quando ci si interessa di più per gli inizi - che il suo genere comico mostra soltanto la storia di un declino galoppante. Ciò che questo medium ai suoi inizi possedeva come più proprio e ciò che vi era in esso di più progressista sarebbe stato addomesticato e assimilato allorché il cinema si organizzò in industria d’intrattenimento, e si orientò verso il pubblico del ceto medio, in grado di pagare. Avrebbe perso la sua innocenza, si sarebbe traviato e corrotto. Di sicuro i soggetti, le situazioni e i personaggi comici sono cambiati. Anche il film sonoro, al quale viene addos­ sata la colpa di avere messo fine alle tendenze anarchiche dello slapstick, non di rado ha portato come conseguenza a un collegamento con il teatro, con la letteratura e la narra­ zione. Tuttavia questo non significa che in sé esso debba essere riformatore o conservatore. Quando il sonoro viene impiegato nel cinema come in precedenza vi veniva impie­ gato il silenzio, con consapevolezza, le comiche degli anni Trenta non sono meno aggressive e distruttive di quelle del muto. Con il tempo i bersagli della comicità sono cambiati, e altrettanto sono cambiate le norme da infrangere di cui essa ha bisogno. La comicità dello slapstick, che nelle battaglie a suon di torte di faccia distruggeva prodotti alimentari di lus­ so o che della celebre Ford Modello T, quando Buster e Fatty erano i proprietari del garage, lasciava indietro soltan­ to un cumulo di rottami, non ha più valore, per il fatto di 359

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compiacere un pubblico proletario, di quanto ne abbia lo sberleffo di Groucho Marx al materialismo americano. Le carneficine di materiali continuano infatti a esistere nelle screwball comedies degli anni Trenta, riscaldate da scara­ mucce verbali, e significativamente in registi come Preston Sturges e Howard Hawks, le cui invenzioni sono sempre genuinamente e autocriticamente americane. La berlinese prontezza alla battuta di Lubitsch, che era una specie di assimilazione delle gag con un sottofondo yiddish, a Hollywood si è trasformata in un tocco di non­ chalance. Ma il divertimento con cui egli domina con mano sicura il pubblico e lo mena per il naso è sempre lo stesso. Le commedie di costume non sono più conservatrici di quanto non lo siano le farse solo perché si svolgono nella migliore società, e maniere e convenzioni sono solo forme più innocue delle leggi. Da un punto di vista esteriore, nel loro insieme, si possono annoverare tra le consuete storie d’amore, come viene richiesto dalla romantic comedy. Ma fondamentalmente la loro struttura non è cambiata. Alla ba­ se resta la battuta, la forma corta e frammentaria, che vive sull’omissione e su un montaggio allusivo. Senza covare il sovvertimento sociale, portano alla rovina le forme della narrazione affabile. Esse mirano a un disinvolto dispiega­ mento del piacere, che viene gustato con gli occhi e con le orecchie. La domanda che viene da porsi espressamente riguardo al cinema, e in maniera assai particolare quando si tiene conto della sua comicità, è se l’intrattenimento in generale possa essere progressista, o nella migliore delle ipotesi uto­ pistico, ovvero, con risultati validi per il dopodomani. La ri­ sposta fornita dai critici óe\\'entertainment è prevalente­ mente negativa. Adorno, che lo chiama divertimento, è convinto che l’intrattenimento sia soltanto conforme al si­ stema, e che la più leggera delle muse sia un inganno per la massa. Umberto Eco, in riferimento gli studi sul carnevale di Bachtin, ai periodi fìssati dal calendario per la trasgres­ 360

DALL’ANTRO anarchico del cinema

sione popolare e giocosa delle regole dominanti nega non soltanto un qualsiasi effetto rivoluzionario, ma dichiara il carnevale un elemento di stabilizzazione del potere. La cul­ tura popolare, scrive Eco, è sempre determinata dalla cultu­ ra superiore. Nella sua sfrenatezza la figura del clown che rompe le regole è barbarica, rivoltante, animalesca, e trova consenso presso il pubblico, con un’immedesimazione mo­ mentanea negativa, soltanto come capro espiatorio, e su di lui vengono scaricati i propri impulsi incivili e le proprie voglie. L’intrattenimento viene bollato a causa della sua origina­ ria affinità con il commercio e il divertimento; è apologia delta società, dice Adorno, ed essere allegri significa essere consenzienti. L’intrattenimento non ha alcuna parvenza del mistero della sublimazione estetica, è surrogato allo stato puro. E non rimane nulla. E se anche fosse? La comicità è un’esplosione momenta­ nea, senza alcun plusvalore intellettuale, e la comicità del cinema è una negazione tanto più basilare in quanto il suo materiale diretto è la realtà cui essa attinge e che trasforma in immagini. Non vi è nulla di più impossibile che pensare la sciocchezza, almanaccava Roland Barthes. Con le imma­ gini sonore forse potrebbe tuttavia funzionare. Nella produ­ zione d’intrattenimento del cinema si potrebbe forse scor­ gere la possibilità di accumulare non valori ma uso, metten­ do in evidenza il consumo grazie al divertimento che circo­ la tra i protagonisti sullo schermo, il pubblico e gli organiz­ zatori del film. Lubitsch aveva in Europa un fratello francese - così si è espresso Francois Truffaut - che era Sacha Guitry. Guitry è spiritoso nella stessa ostentata maniera in cui Lubitsch è di­ vertente. Come Lubitsch attingeva i soggetti dell’operetta e agli scrittori teatrali ungheresi, per lui la riserva cui attingere era il teatro leggero. In quale misura egli considerasse con­ servatore il proprio compito di intrattenitore lo mostrano senza equivoco i suoi film seri. E tuttavia quello che ha 361

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scritto, rappresentato, recitato e filmato era così mutevole, spezzettato, così pieno di svolte repentine che persino un pubblico smaliziato fa fatica a scorgere cosa ci sia alla base dell’illusione creata dalla sua retorica teatrale. Le possibilità di fraintendimento che egli offre sono così complesse che proprio a lui, che odiava e disprezzava i tedeschi e che tra le due guerre non permise una sola volta di rappresentare a Berlino le sue pièces, capitò di essere sbattuto in galera co­ me collaborazionista. Anche se può sembrare che dai suoi pezzi teatrali rica­ vasse soltanto dei fìlm-in-scatola, Guitry fu il primo che filmò la lingua, questo grande orgoglio della Grande na­ tion, ciò da cui la Francia ancora oggi si sente più autenti­ camente rappresentata. Lo slancio e l’impulso della lingua lo affascinano, e met­ tono ogni contegno in pericolo. Le Mot de Cambronne è un film in versi che per trenta minuti gira attorno alla parola di Cambronne, per poi eluderla. Fino a che, come ultima bat­ tuta, essa scappa di bocca alla serva maldestra, che fino al­ lora era rimasta muta. Quando tra il rumore delle porcella­ ne in frantumi il vassoio le sfugge di mano ella esclama: «Merda!». Che splendida gag! Lubitsch, soprattutto nei suoi film berlinesi, nella descri­ zione dei piaceri tratta il sesso e il cibo come componenti di pari valore. Guitry mostra che anche la lingua è uno sti­ molo che provoca divertimento e procura piacere. E questo risulta ancora più comico quando la circonda con il suo pathos, e come se fosse una forma cava, fatta di toni pom­ posi, la rafforza e consolida con il proprio aspetto da ele­ fante, acconciato con tutti gli attributi del francese elegante degli anni Trenta. Di questa cavità e inautenticità i suoi film risuonano, mi­ nando l’autenticità realistica sulla quale il cinema insiste co­ sì tanto per distinguersi dal teatro - Lubitsch con il suo di­ spiego di scarti hollywoodiani esercitò un’equivalente criti­ ca al segno realistico. Della battuta, intesa come dice Freud quale la «più sociale tra le attività dell’anima che tendono al piacere», nelle umoristiche invenzioni di Guitry è rimasto 362

dall’antro anarchico Dei cinema

innanzitutto il suo incoercibile indirizzarsi al pubblico. Gui­ try recita frontalmente, rompendo l’illusione, sempre in po­ sa, per e verso il pubblico. I suoi film sono pieni di a-parte, come nel viaggio in macchina di Bonne chance, del 1934, dove attraverso il parabrezza si vede una strada di campa­ gna e si sente che egli spiega alla sua compagna di viaggio in quale modo vengono costruiti nel cinema simili viaggi: «Si mette molto semplicemente la cinepresa nella macchi­ na». «E il dialogo?» -Quello viene registrato dopo, in studio». Lei lo trova del tutto inverosimile, incredibile. E anche il film è incredibilmente frizzante, leggero, e infrange tantissi­ me regole, ma soltanto perché non cerca di illustrarne nem­ meno una. Le esaurisce edonisticamente.

In America i film con W.C. Fields offrono uno splendido esempio di come il teatro d’intrattenimento si sia fatto ispi­ rare dal film sonoro. Fields ha resistito a ogni forma di adat­ tamento al racconto lineare e coerente, e all'evoluzione dei personaggi, riuscendo a trarre vantaggio dal cinema sonoro. La sua figura comica nata dagli sketch del vaudeville, un sottomesso marito piccolo borghese tormentato da una San­ tippe - un repertorio inestinguibile per il teatro leggero con lui, con le sue mani che si muovono in spasmi contrat­ ti, diventa un originale, un asociale. Anche come sconfìtto è abbastanza disgustoso perché si possa contare su una man­ canza di reazione da parte del pubblico. Oltre a questo egli coglie ogni occasione per uscire dal ruolo, di modo che an­ che nel cinema lo spettatore non viene mai abbandonato dalla sensazione di assistere a un reality show. •My name is Oglethorpe P. Bushmaster, of Puxsanwney, Pennsylvania. Non vi è alcuna parentela con il portatore del nome Fields-. Con queste scarne parole non si ha però nemmeno la metà dell’impatto che la sua voce sa dare alla frase, mentre il suo corpo immobile diventa un corpo di ri­ sonanza, sul quale prende forma un’immagine della voce. Come Buster Keaton con la sua imperturbabilità, anche Fields trae i suoi migliori effetti dalla propria mancanza di 363

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humor, che gli scaturisce da tutti i pori, ed è subdolo quan­ to Charlie è affascinante; è un autarchico e un solitario, e ci si chiede in quale modo sia mai giunto alla famiglia, anima­ li compresi, che lo tormenta a quel modo. La forzata ricerca del piacere, che in altri comici punta principalmente al ses­ so, in lui è autarchica. A lui procura piacere fisico ciò che fa andare su e giù la strozza. Un fanfarone stereotipato e una ribellione borbottante è tutto quello che dell’azione è rima­ sto. Ciò che egli fa con la sua voce e ciò che nei suoi film al dialogo ancora resta da fare è una beffa di qualsiasi funzio­ ne comunicativa della lingua. Il suo parlato pendola tra un borbottio vigliacco e, quando il whisky gli ha sciolto la lin­ gua, inarrestabili fanfaronate. E per evitare di accostarsi alle donne inventa, come formula di anatema, complimenti e vezzeggiativi stravaganti. Il timore di fronte al sesso aggressivo di Mae West lo tra­ sporta alle metafore più selvagge. Guardando le mani di lei, mentre si leva il suo ridicolo cilindro, dice con voce stridu­ la: «Oh, questa simmetria delle dita! E terribilmente morbi­ de, come il braccino di un neonato*. Bisogna però sapere che egli odiava particolarmente i bambini piccoli. Baby LeRoy, dietro e davanti alla cinepresa, per lui era un avversa­ rio fortissimo. Il suo vocabolario è amplissimo. Le sue fonti erano a quanto si dice i romanzi di Charles Dickens, che amava e studiava continuamente. Molte delle sue espressioni è inuti­ le cercarle nei vocabolari; ma questo, nonostante la loro idiomaticità e contrariamente a ogni definizione, non reca alcun danno alla loro comprensibilità. Le sue pure gag sonore ci fanno capire quanto ha impa­ rato da Mack Sennett, ai tempi del cinema muto. Con mec­ canica ben lubrificata, recita meccanicamente tutte le disav­ venture con cui deve combattere alla ricerca di un po’ di sonno, su di un seggiolino pieghevole, fuori sul balcone, scacciato dal letto matrimoniale dal russare della moglie. E anche questa volta, in It’s a Gift, il puntino sulla i è un’orgia linguistica di tipo particolare - un’orgia davvero americana: 364

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un assicuratore tenta di appioppargli una polizza di primis­ sima mattina. Fields con il linguaggio distrugge la narrazione, alla ma­ niera dello slapstick. Muta le parole in colpi di scena, tra­ sforma il significato delle locuzioni con la semplice ripeti­ zione. Con il ritmo e l’intonazione piega la lingua a un uso del tutto personale. Ama sillabare, cosa particolarmente adatta a demolire le parole. «Mister Carl LaFong, L maiusco­ lo, a minuscolo, F maiuscolo, o minuscolo, n minuscolo, g minuscolo». In questo modo passa il tempo del suo sonno. Le parole torturano i nervi. Negli anni Cinquanta l’industria hollywoodiana dell’in­ trattenimento fece nascere un gigantesco regista di comme­ die, alto 1,93 e del peso di 240 libbre, che sintetizzava tutte le tendenze del comico cinematografico. La sua comicità spinge fino al parossismo la problematica per la quale i teo­ rici dell’estetica e gli studiosi della cultura di massa conti­ nuano a chiedersi se sia possibile o meno attribuire una funzione critica a quella comicità cinematografica che vive del piacere della visione e dell’intrattenimento. Godard, nei suoi entusiastici scritti del tempo, dichiarò: •Frank Tashlin ha fatto assai più che rinnovare la commedia americana, ne ha inventato un nuovo genere. D’ora in poi, quando si parlerà di un film americano non si dovrà più di­ re ‘questo è alla Chaplin’ ma bisognerà dichiarare a voce al­ ta ‘questo è alla Tashlin’». - Truffaut, con la sua recensione a The Girl can’t Help It, si affiancò a Godard: «Chiamarlo una parodia non basta. Frank Tashlin è un grande cineasta, poiché ha risolto il problema della commedia satirica, addi­ rittura della commedia critica, in quanto, invece di prendere in giro mettendo in cattiva luce gli aspetti detestabili della cosa di cui fa la parodia, egli si immerge in essa superando­ la nei suoi eccessi». Eric Rohmer, il terzo della famosa ban­ da di Cahiers du cinema, sempre il più misurato nelle sue affermazioni, argomenta con criteri formali:

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La caricatura si fa incontro alla natura grafica del cine­ ma. Tashlin è il primo vero caricaturista dello schermo. Co­ me è noto, egli fa in un primo tempo disegnatore di fumet­ ti. In lui l’inquadratura caricaturale non limita l’espressione, ma l'arricchisce anzi di innumerevoli sfumature... Non nega il movimento, semplicemente non lo mostra di getto, ma nel passaggio da un momento di immobilità all'altro, in una maniera che corrisponde alla discontinua natura del ci­ nema, come al tempo del muto era ancora evidente.

Tashlin costruisce le sue gag rapidamente, con inesora­ bilità meccanica, come nello slapstick. Del montaggio esibi­ sce le funzioni distruttive. Come i clown dello slapstick fa la parodia delle celebrità dei media e dei fatti del giorno. I suoi film sono specchi deformanti, curvilinei, come bene si adatta alla silhouette generale degli anni Cinquanta. Così egli manda in frantumi la pretesa di realismo propria del medium, e sottolinea il suo specifico rapporto con la realtà. Insoddisfatto del mondo dei cartoons, chiuso in se stes­ so e troppo artificiale, in cui ogni tratto di penna può sod­ disfare qualsiasi fantasia di onnipotenza, Tashlin si rivolse al cinema, che pure può contare su qualche trucco per ren­ dere reale ciò che è inverosimile. Dapprima lavorò come gagman per Harpo Marx e Bob Hope. Come regista svi­ luppò, spesso ruotando attorno alla figura di Jerry Lewis, la sua comicità al passo coi tempi, schizofrenica e isterica. Se­ condo le sue dichiarazioni, il suo soggetto preferito è l’uo­ mo americano, il feticista delle tette, con la sua incapacità di diventare adulto; oppure, in accordo con un dibattito condotto volentieri negli anni Cinquanta: che cosa succede al cervello umano sottoposto, senza interruzione a una die­ ta a base di fumetti? In Artists and Models (Artisti e modelle} Jerry è infatuato di una protagonista dei fumetti, Bat-Lady, di cui non è capace di riconoscere il modello, la brava ra­ gazza della porta accanto. Il passo successivo di Tashlin, dopo fumetti e cartoni animati, fa quello di dare nei suoi film un corpo alle imma­ gini della pubblicità e della televisione. I fumetti, delle cui 366

dall'antro anarchico del cinema

forme Tashlin fa un uso cinematografico, visualizzando quindi il loro effetto, sono soltanto una parte della realtà mediatica che nei suoi film egli trasforma e ripresenta sgar­ giante, variopinta e in Cinemascope: si dispiegano immagi­ ni cinematografiche inarrestabili nel loro cammino verso la pubblicità, stelle che diventano modelle, forme del corpo e gesti in cui pulsa la sensualità del rock’n’roll, e realtà che portano il marchio della paccottiglia televisiva. I suoi successori sono numerosi e differenti. In Francia Rivette prese spunto da Artists and Models per Celine et Ju­ lie vont en bateau. Godard rimase il suo più zelante segua­ ce - prima del ’68 con i suoi film a colori, e anche dopo con Soigne ta droite, in cui lui stesso recita la parte del clown stupido, sprofondato nella lettura di L'idiota di Do­ stoevskij. In America la sua eredità si limita più direttamen­ te alla coniugazione di cartoon e cinema in Roger Rabbit, Gremlins e nei film di Tim Burton. Se soltanto adesso gli storici dell’arte scoprono che i film di Tashlin sono stati veri precursori critici della pop-art, di­ venta di nuovo attuale e scottante (poiché mercato dell’arte e show-business vanno a braccetto) la domanda se l’intrat­ tenimento industriale-popolare non contenga dunque un granello di movimento indipendente. Un movimento senza dirette intenzioni sovversive, ma sanamente destabilizzante e aperto al rischio, costantemente in bilico sulle soglie del buon gusto.

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VII

«When a woman writes a book - ». Con questa frase ini­ zia la piccola pubblicazione in inglese nella collana BFI Film Classics dedicata a The Ghost and Mrs. Muir di Joseph Mankievicz, anno: 1995, autrice: Frieda Grafe. È un libriccino, una specie di programma di sala. Conta circa 50pa­ gine, un quarto delle quali sono occupate dalle immagini del film. Subito, ancora prima del testo, c'è l'immagine di Cene Tierney, nel ruolo di Lucy Muir, con il suo spavaldo cappello piumato - d'usignolo o di gabbiano - e in mano il pacchetto con il manoscritto. Sotto, come didascalia, la frase iniziale del testo: -When a woman writes a book...*. Come illustrazione conclusiva, senza didascalia, troviamo l'im­ magine finale delfilm, con la coppia unita, nello splendore luminoso dell'eternità, dopo la morte di Mrs. Muir. Frieda Grafe non ha mai scritto un libro. Usuo più lungo testo pubblicato - su Fritz Lang - conta circa settanta pagi­ ne, in cui pure almeno un terzo è occupato da illustrazioni selezionate e disposte con cura estrema. Nel 1992 apparve un libro fotografico realizzato in collaborazione con Silke Grossmann, in cui a ogni pagina con un’immagine della fotografa corrispondeva una pagina di testo della saggista. Nei suoi saggi Frieda Grafe ha sempre mantenuto i regi­ stri della lingua e dell'immagine aperti e in reciproca comu­ nicazione, come ha sempre mantenuto il proprio riflettere aperto verso la riflessione del lettore. Permeabilità, circola­ zione, mobilità sono concetti che nei suoi scritti si ripresen­ tano di continuo. I suoi testi mostrano il pensiero in azione. Non si interessa a quello che, elevato ai ranghi dell'arte, si impolvera tra le copertine dei libri o su una striscia di cellu­ loide; e non le interessa venire chiusa tra le copertine di un libro, elevata ai ranghi dell'arte (le ultime due frasi sono ri­ prese, con grande libertà, da Frieda Grafe, Vivre sa vie, 1964, cfr. sopra, p. 20).

The Ghost and Mrs. Muir I fantasmi di cui non ci si libera (19951998)

Quando una donna scrive un libro. Dove la cosa può condurre. In ogni caso indietro, e all’esperienza di come ciò che siamo sia intrecciato agli altri e tragga origine da loro. «Quanto non hanno saputo della vita avrebbe riempito un’intera enciclopedia», si dice nel romanzo cui il film è ispirato. Per fortuna ad aiutarci nella vita ci sono i libri. La voce che detta a Mrs. Muir il suo primo e unico libro è quella di un capitano morto, presunto suicida. Un’occhiata al suo ritratto la fa ricredere. Si è insediata nella casa di lui in riva al mare. Si è rifugiata lì venendo via da Londra, per sottrarsi alla tutela della parentela acquisita con il matrimo­ nio. È una parassita, ostinata, in ogni senso. Così lei ritrova se stessa. Di un posto inquietante fa la propria casa e sfida un fantasma. È una scrittrice ingenua e così scaltra. Basta che le attra­ versi la mente la parola «coito» e lei la prende come prova della reale esistenza del capitano: lei non avrebbe mai espresso in modo così diretto la cosa! Da dove dobbiamo credere che provenga il suo sapere? Naturalmente dai libri letti quand’era ragazzina nella biblio­ teca di suo padre. Da lì la strada conduceva direttamente al matrimonio con un architetto che avrebbe dovuto ristruttu­ rare proprio la biblioteca patema. Nel 1945 la Fox acquistò i diritti per la trasposizione ci­ nematografica del romanzo pubblicato in Inghilterra The Ghost and Mrs. Muir, la cui storia, anche se gli indizi tem­ porali sono assai scarsi, si svolge in ogni caso nel presente. Gli autori dell’adattamento, che pensavano a un woman’s

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weepie, fecero di Mrs. Muir, in ossequio al cliché della ro­ manziera sensibile che spesso scriveva usando uno pseudo­ nimo maschile, una donna vittoriana. The Ghost and Mrs. Muir (Ilfantasma e la signora Muir) è un film senza ambizioni trasgressive e tutto fuorché un film d’autore. Stando a quanto racconta Philip Dunne, che stese la sceneggiatura, Mankiewicz contribuì solo ai dialo­ ghi. Dialoghi così ostentatamente arguti che invece dei per­ sonaggi si sente parlare l’autore. In una intervista ai «Cahiers du Cinema* Mankiewicz dichiarò che, fosse stato lui lo sce­ neggiatore, avrebbe dato tutta un’altra impronta alla faccen­ da e messo in evidenza altri aspetti. Ma persino questo non­ intervento fa di The Ghost and Mrs. Muir un autentico film di Mankiewicz, se si è disposti a fare propria la definizione che Godard ventenne formulò: i suoi film sono come ap­ puntamenti mancati. Indipendentemente dalle sue intenzioni deliberate qual­ cosa dello spirito di Mankiewicz deve essere entrato nel film, qualcosa di estraneo che gli appare solo in un secon­ do tempo, retrospettivamente, proprio. In una prospettiva d’autore, non importa se motivata da Mankiewicz o costrui­ ta dallo spettatore che conosce la sua opera, il film acquista una dimensione supplementare. Vi si trovano accostati in modo casuale, fantomatico, quegli elementi che poi, svilup­ pati, caratterizzeranno i suoi film. Ma nel momento in cui nasceva il film, Mankiewicz doveva essere cieco. Pensa in termini di credits là dove il soggetto solleva quella problematica d’autore che gli preme tanto. Vede una storia d’amore là dove il problema è il rapporto fra i sessi e l’androginia del pensiero. Gli viene servito su un piatto d’argento un soggetto da film sonoro: linguaggio non tanto come espressione ma come motore, linguaggio come ma­ schera, come convenzione, come qualcosa che attraversa il parlante, mette a nudo i suoi più profondi recessi proprio perché sono costituiti dal linguaggio. Inoltre gli si offre una dimensione temporale, l’ideale flashback che ha sempre so­ gnato, non soltanto espediente narrativo ma presente e pas372

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sato congiunti a formare un’unica cosa: eppure egli crede di fare del cinema di genere, un formula picture* E lui, il cele­ bre bomme à femmes tanto fiero di essere un acuto cono­ scitore e consigliere delle donne, si lascia sfuggire la possi­ bilità di raccontare dall’interno la storia di una donna. Pensa alla vita meravigliosa che avremmo potuto vivere insieme, sussurra la voce del capitano a Lucy addormentata. E ancor di più al film meraviglioso che Mankiewicz avrebbe potuto fare, e che certe sue parole ci lasciano immaginare: Gli uomini sono fatti perlopiù di grossolani blocchi pre­ vedibili che si incastrano gli uni agli altri. Gli uomini reagi­ scono come si è insegnato loro a reagire. Le donne invece sono come composte di vento. Sono fatte di minimi impul­ si e reagiscono a minimi impulsi. Modulazioni, colori, suo­ ni. Riescono a sentire quanto gli uomini non riescono a sentire.

Non appartengono al senso del romanzo le parole con cui nel film il capitano, il fantasma, prende commiato dalla signora Muir dormiente: «Lucia, amore mio, tu hai scritto il libro, tu e nessun altro». Il romanzo lascia in sospeso i rap­ porti di proprietà intellettuale. Anche le iniziali del suo au­ tore non consentono di risalire al suo sesso. R. A. Dick era uno pseudonimo. Josephine Aimée Campbell Leslie pub­ blicò il suo primo romanzo nel 1945, a quarantasette anni. Le iniziali rimandano al padre Robert Abercromby. Che di professione faceva il capitano. Aveva sempre desiderato avere un altro aspetto, confessa Lucy nel romanzo al capita­ no, -un naso aristocratico, da romano, come quello di mio padre». Certo questo piccolo, anonimo film girato in studio non va rivalutato per il fatto che vi si mescoli la vita con tratti autobiografici. Ma è come se qualcosa che ha avuto inizio sotto falso nome continuasse a generare altri pseudonimi, come se si propagasse un allentamento dei legami saldi, co­ me se si diffondesse una problematicità della descrizione che al di là del linguaggio afferra anche le immagini e ren­ de dubbia la loro provenienza. L’atmosfera entra in compe­ 373

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tizione con le immagini troppo dirette e si addensa in forme cui fa eco il vocabolario di Mrs. Muir e della cuoca cock­ ney, che si lascia andare a un linguaggio da marinai e a im­ precazioni assai poco femminili: Blast your eyes! Le frottole da marinai di Mrs. Muir appaiono come libro di un autore anonimo. Alla ricerca di un editore, Mrs. Muir si imbatte in uno scrittore che a sua volta si serve di uno pseudonimo. Con il suo aiuto riesce a piazzare il proprio li­ bro, lui le concede di presentarsi all’appuntamento con l’e­ ditore al posto suo. Lei riesce a essere ricevuta solamente come sua sostituta. Questo autore è un cinico; odia i bam­ bini, ma con il nome di Uncle Neddy pubblica libri per bambini che riscuotono un grande successo - idiozie, ciar­ pame della peggior specie, dice Mr. Sproule, l’editore che con quei libri fa un sacco di soldi. Miles Farley è un donnaiolo compulsivo; al ricordo di es­ serci cascata, la signora Muir del libro anni dopo non prova né umiliazione né rimorso. Ciò che lui ha rappresentato per lei, non glielo può togliere nessuno. L’affetto che prova per lui è l’espressione dell’autoconsapevolezza che ha conqui­ stato con la scrittura. Era l’uomo dei suoi sogni. «Eri inna­ morata di un uomo che non è mai esistito, che esisteva solo nella tua testa e nel tuo cuore» le spiega il capitano. Il film utilizza queste parole del libro, solo che il capitano le dice riferendole a se stesso. Ciò che Mrs. Muir nel libro e nel film ribalta è la successione delle sequenze, secondo cui l’e­ sperienza viene prima dei libri, la vita prima dell’invenzio­ ne. Lei si insinua con il pensiero dentro il ritratto di un uo­ mo e ne fa la propria storia. Dalla cornice esce uno spacco­ ne, «a booming foghorn of a man» che principalmente emet­ te sentenze, pregiudizi e stereotipi sulla femminilità e la vi­ rilità, su «reasonable men and foolish women», e che ha bi­ sogno di una dattilografa per dare al racconto della propria vita una forma linguistica passabile. Lui, infatti, non domina la grammatica inglese. Ne esce un testo acefalo, con il quale l’autrice combina l’affare della sua vita e si acquista il diritto di installarsi in una casa altrui. 374

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Il capitano Gregg è un buon poltergeist, dal momento che è una creazione dei desideri di Mrs. Muir. La loro coabi­ tazione e ciò che ne risulta, un libro scritto insieme, ha l’in­ canto di una trasgressione ingenua, ma non per questo me­ no liberatoria. Niente sesso. Quanto solitamente nei film hollywoodiani non si può fare ed è punito dalla censura, qui è il presup­ posto positivo generatore della storia: il desiderio confessa­ to di Mrs. Muir, desiderio che non porterebbe a nulla inter­ pretare come processo di rimozione o inibizione. Persino il carattere allusivo di oggetti caricati di valenza erotica, come il cannocchiale in camera da letto, di cui il regista fa un og­ getto di culto, vitello d’oro intorno a cui danza la cinepresa, rimangono pertanto inoffensivi e non suscitano un doppio senso, anche se la Legion of Decency classificò il film come •per tutti ma con parti moralmente discutibili». C’è ambi­ guità, senza dubbio, ma l’inconciliabilità di due esseri pro­ venienti da sfere diverse che si vogliono bene affonda le ra­ dici in terreni più arcaici. Essi generano proiezioni. Il modo in cui maschile e femminile vengono incrociati e come i lo­ ro contrassegni cambino continuamente il lato loro asse­ gnato, porta dinamismo dentro la trasgressione. Quando il film uscì in America ebbe solo tiepide acco­ glienze. Philip Dunne incolpa di tutto il libro cui il film era ispirato: «La pecca di fondo è che non appena il fantasma sparisce, la storia si affloscia... Questa era la debolezza irre­ parabile del testo». Il romanzo non soffre tali problemi in quanto il fanta­ sma, diversamente che nel film, per le sue buone ragioni sparisce solo momentaneamente e mai definitivamente dal­ la storia, e l’idea di scrivere un libro insieme si affaccia solo nella seconda parte del romanzo, dopo Vaffair infelice di Lucy con il donnaiolo Miles Farley. Le difficoltà in cui in­ cappa la sceneggiatura nascono dall’adattamento, che fa di una storia di ascolto tutta interiore uno spettacolo di imma­ gini, e dalla circostanza che un romanzo femminile - una 375

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fantasia femminile sul ritrovamento di sé, con sovrattoni re­ motamente comici - dovesse venire ricucito in ardente sto­ ria d’amore, in ossequio alle idee che l’industria hollywoo­ diana degli anni Quaranta si era fatta dei film di donne de­ stinati ad avere successo. Alla romanziera Leslie e al suo libro succede ciò che si attribuisce a Mrs. Muir quando cerca di pubblicare il pro­ prio libro. Le donne scrivono romanzi femminili, libri di cu­ cina, semmai storie d’amore di poeti romantici. Non che da un trattamento più rispettoso del romanzetto sarebbe venuto fuori un film migliore. Fu una fortuna che nessuno di coloro che vi mise mano si sentisse responsabile in quanto autore. Così il materiale potè autonomamente con­ tinuare ad agire con contraddizioni, fratture e incongruenze. ■La casa è haunted-, dice Lucy estasiata, in un totale capovol­ gimento degli scenari abituali nelle case degli orrori, con donne perlopiù masochiste nel ruolo di vittime. Mrs. Muir s’innamora della casa al primo sguardo «come se mi avesse dato il benvenuto e mi avesse implorato di salvarla-. Nel tentativo di adeguare il romanzo al regime fìlmico, non si presentarono solo gli usuali problemi di visualizza­ zione. Mrs. Muir non vede fantasmi ma sente dentro di sé la voce del capitano. -La voce non esisteva nella realtà, non la sentiva con le orecchie. La sentiva venire direttamente in mente come avviene con un pensiero-. Le intenzioni degli adattatori, che si rivolgevano soprat­ tutto al pubblico femminile, esigevano un radicale rifaci­ mento, i cui dettagli sono significativi. Il luogo dell’azione non è più una solitaria, cadente e inquietante dimora ingle­ se, bensì un’ariosa e luminosa villetta californiana. Nel ro­ manzo non è il capitano a pretendere che Lucy sposti il proprio ritratto nella stanza da letto, è lei a farlo spontanea­ mente infrangendo così nella propria immaginazione il grande tabù; nella storia d’amore confezionata a Hol­ lywood, dove la cosa avviene per desiderio del capitano, essa si rivela un modo allusivo di aggirare la censura, quel modo che Lubitsch praticava da maestro. 376

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Per chiarire a se stessa - e perché Miss Leslie chiarisca ai propri lettori - in che modo questa voce di fantasma vada intesa, Mrs. Muir nel libro cerca un analista che le prospetta di sublimare e razionalizzare la voce. Ma Mrs. Muir ha le proprie idee su come acquietare dentro di sé l’inquieto fan­ tasma. Questo «come» sarò il libro. Per esteriorizzare la prospettiva femminile tutta volta al­ l’interno, che non è isterica identificazione senza distanze, il classico film hollywoodiano ha bisogno di più di un con­ certo di voci tra loro differenziate. Ha bisogno della sua sto­ ria con personaggi in carne e ossa, poiché non riesce a con­ cepire come il pubblico possa essere affascinato e sedotto in altro modo. Così facendo il film arriva ai limiti della vero­ simiglianza, e per poter funzionare rovescia quasi la buona fede del pubblico in riflessione attiva sul mezzo. Tbe Ghost and Mrs. Muir si permette allusioni ultraespli­ cite al cinema come gioco di ombre materializzato e alle sue immagini fugaci che, simili ai sogni, si volatilizzano. In­ dulge a spiegazioni pedanti e a raddoppiamenti quasi cari­ caturali. Accanto al ritratto del capitano che «non gli rende giustizia-, a volte è appeso un altro ritratto dipinto da Miles Farley: Mrs. Muir in costume da bagno. E non è sufficiente che vi sia un libro, attraverso cui una donna si appropria dell’indipendenza maschile: anche Miles Farley, il sarcastico imbroglione, deve scrivere libri per bambini. E la figlioletta di Lucy ha a sua volta una storia con un vecchio marinaio e amico paterno, che su una specie di stele di legno incide il nome di lei tanto in profondità che né il mare né il tempo potranno scalfirlo ed esso rimarrò «per l’eternità e oltre-. Il fantasma si ritrae discretamente dalla vita di Lucy, per­ ché non vuole essere d’intralcio ai rapporti che lei ha con i vivi, dopo che in un primo momento, in modo prettamente terreno, ha mostrato gelosia nei confronti del rivale. Nel li­ bro egli è presente solo quando lei glielo concede. È l’ami­ co fraterno -e non ha nulla di un amante»; il che è contrad­ detto dall’analista con la sua concezione freudiana della ne­ gazione. Nell’affermazione di Mrs. Muir egli vede l’incon­ 377

scia repressione dei suoi istinti naturali. Non prende nem­ meno in considerazione il legame con il padre. A dispetto del suo aspetto giovanile Mrs. Muir non è la giovane ragazza lacerata fra desideri e angosce sessuali co­ me in Rebecca di Daphne du Maurier. Non è vittima delle proprie fantasie e allucinazioni, lei ne gode. È stata sposata e ha una bambina. È vero che Mrs. Muir si abbandona spes­ so e volentieri ai sogni, ma sogna con piacere e senza catti­ va coscienza. Ben presto nel film il tempo cronometrico viene ostenta­ tamente ribaltato in tempo fìlmico, un’ora trascorre in un lampo, l'orologio batte le quattro e un secondo dopo sono le cinque. A un quadrante si sovrappone un altro quadrante. Ispirate dalia casa, le proiezioni di Mrs. Muir ritornano al passato e al contempo costituiscono la base della sua nuova vita. Il volgersi all’indietro della protagonista non impedisce al film di procedere in un movimento che, sottolineato dal­ le musiche di Bernard Herrmann, assomiglia a quello del­ l’alta e bassa marea. La vecchia dimora, che nel genere horror rappresenta sempre il problema dell’identità tradotto in termini spaziali, diventa il suo rifugio di contro alla prigione delle conven­ zioni. E la donna ha l’impressione che la casa voglia essere salvata da lei. Il fantasma della casa diventa il suo confiden­ te nonché complice nella sua liberazione dai vincoli matri­ moniali che ancora persistono. Lei non si irrigidisce sotto lo sguardo del capitano come la protagonista di Suspicion (Il sospetto) di Hitchcock sotto lo sguardo del militaresco padre. Le sue fantasie animano il rigido ritratto, e lei lo smonta. «Il quadro non le rende giu­ stizia* spiega al fantasma, e di fronte alla cuoca Martha esprime i suoi dubbi sul fatto che lui possa essersi ucciso. Infine dissolve l’effìgie dipinta nella storia di lui scritta da lei. Così pacifica il revenant. Restituisce alla casa, che gode­ va di cattiva fama, il suo buon nome, immaginandosi una fi­ gura paterna piuttosto indegna. 378

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Alla celebre domanda di Freud sulla differenza di fondo, su ciò che vogliono le donne, si risponde in The Ghost and Mrs. Muir con una controdomanda, in cui si vuole sapere che cosa spinge gli uomini a prendere il mare. Il padre ideale, il parametro degli uomini che verranno dopo di lui, viene, in modo del tutto visivo, staccato dal piedistallo della posizione simbolica e calato nella dimensione del reale e dotato fra l’altro, dalla figlia innamorata, di qualità conside­ rate stereotipi della femminilità. Il capitano è sempre emozionalmente sul punto di esplodere e non si domina, il che si esprime nel suo modo di comunicare fatto di imprecazioni e di esibizioni della propria autorità in forma di tonanti strepiti. Non sa scrivere e quando parla fa errori di grammatica. Si arroga il diritto di essere naturale, dal momento che segue i propri istinti, so­ stenendo di aver avuto per questo una vita più piena. Lei invece ha un rapporto distaccato con la lingua, proprio per­ ché non ha una lingua propria. Si appropria di quella ma­ schile e ricava profitto dai suoi effetti. Il capitano non è solo dotato di tratti femminili. È un comportamento infantile, gli spiega Mrs. Muir, fare scherzi da coboldo a coloro che varcano la soglia di quella casa. El­ la modifica la grande usanza: è il padre a essere educato dalla figlia. I romanzi horror del xix secolo scritti da donne, la cui ri­ stretta cerchia di personaggi e i sempre identici luoghi dove si svolge l’azione rimandano a costellazioni familiari arcai­ che, erano il pendant femminile del Bildungsroman, intro­ spettivo e di scrittura sonnambolica. Quando in The Ghost and Mrs. Muir, tanto nel film quanto nel romanzo, si mettono insieme gli scarsi indizi temporali, balza agli occhi che entrambi tralasciano di no­ minare la prima guerra mondiale. Già per questo il tempo vi appare come tempo asociale, interiore. Ciò che i film noir degli anni Quaranta imperniati su figure di donne regi­ strano come crisi nel rapporto fra i sessi, scatenata dalla 379

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guerra, è accentuato in Mrs. Muir dal genere inglese horror, trasposto in un passato astorico, nel tempo dell'esplorazio­ ne psichica. Nel romanzo Mrs. Muir, per essere sicura che il suo commercio con i fantasmi non abbia nulla a che fare con un’eventuale crisi di mezz’età, va a cercarsi persino un analista. Cosa cui il film non ha potuto ricorrere, poiché l’effetto sarebbe stato troppo realistico e troppo legato al­ l’attualità. Mankiewicz stesso è stato in analisi da Otto Fenichel, ap­ partenente alla più intima cerchia viennese di Freud; un’a­ nalisi che, in là negli anni, ricorda ancora come tormentata davanti alla cinepresa di Michel Ciment. Mankiewicz era noto per la tendenza a sottoporre a un’analisi selvaggia le proprie donne e attrici o a portarle dallo psicoanalista. La rappresentabilità del tempo fusionale dell’analisi diventò il vero oggetto dei suoi film insieme al rapporto, strettamente a quello connesso, fra i sessi. L’orientamento verso il passa­ to dimostra come il loro tempo sia quello dell’anamnesi. Es­ si non sono volti retrospettivamente all’indietro, ma cercano il radicamento nel passato. Quanto poco nei suoi film pas­ sato e presente si lasciano separare l’uno dall’altro, altret­ tanto il comportamento dei suoi personaggi è univoco dal punto di vista del gender, anche quando fìnge di essere sul­ la traccia della femminilità delle donne. Il fantasma di Mrs. Muir è una forma di flashback tradot­ ta in immagine, il tratto distintivo che finirà per siglare tutti i futuri film di Mankiewicz. È un indizio precoce del fatto che i suoi flashback non sono un qualsivoglia espediente narra­ tivo, bensì un continuo confrontarsi con il tempo filmico, dove per lui immagine e parola tendenzialmente tendono a divergere. Il fantasma del capitano Gregg è la forma condensata della presenza fìlmica. Quando fa la sua comparsa la prima volta è solo una silhouette, l’ombra della sua larga schiena, che entra nell’immagine e impedisce allo spettatore di ve­ dere Mrs. Muir mentre dorme. La seconda volta, di notte, nella cucina buia, sembra che sia Mrs. Muir con la luce del­ 380

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la sua candela, con il suo gesto da fìat lux, a costringerlo a rivelarsi. L’ombra che la sua apparizione getta è affilata co­ me una silhouette, e palesemente posizionata in modo non realistico. È il film stesso che con le parole e le immagini consegna allo spettatore le chiavi con cui trattare i fenomeni che ap­ paiono sullo schermo. Nella piena luce del giorno Mrs. Muir è in conversazione familiare con il capitano quando arrivano gli esecrati parenti, i blasted inlaws. Mrs. Muir esorta il fantasma a nascondersi velocemente, a dileguarsi, to decompose. Il capitano la corregge: to dematerialise. Quando un fantasma al cinema si dematerializza, solo al­ lora mostra di quale materia sia fatto veramente. Le immagi­ ni sullo schermo sono permeate di sguardi orchestrati, stac­ cati dai personaggi, che conducono fuori dal film. Invece di riflettere la realtà, la guardano. Invece di limitarsi a fotogra­ fare il visibile, lo disgregano. «You are the most ostinate woman I ever met», le dice l’u­ no, e l’altro: «Oh, Lucia, you are so little and so lovely-. Fra le due affermazioni vi è un intero programma di modi di rappresentarsi la femminilità, una solida base per una narra­ zione filmica che ha di mira un pubblico eminentemente femminile. Inoltre, si sa, le storie horror scritte da donne, non importa se nate dalla paura o dal desiderio, sono anche sempre storie d’amore, il genere narrativo prediletto dalle donne, in sintonia con il loro orizzonte esperienziale e le lo­ ro fantasie di autoconferma. Ma Lucy non desidera un uo­ mo. Lei vorrebbe essere un uomo, poter parlare in modo ef­ ficace come un uomo, essere libera come un uomo. Il libro di Mrs. Muir non è scrittura nel senso stretto della parola, non è letteratura, ma solo annotazione di un raccon­ to, frottole da marinaio, autobiografia, il cui inizio, svolgi­ mento ed epilogo è scritto dalla vita stessa. Delle sue frasi si dice nel romanzo: -Lucy poteva sentire la voce di lui muo­ versi nella stanza, come se il capitano andasse su e giù per il cassero di poppa. Cercava di immaginarselo come un uo381

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mo giovane...-. Il film fornisce la sua propria interpretazio­ ne, rigorosamente freudiana, di una attività mentale tipica­ mente femminile, di sogni diurni, evocati dall’inattività e dall’isolamento. -Io il mio libro l’ho sognato, mai avrei potu­ to pensarlo-, spiega Mrs. Muir alla figlia divenuta nel frat­ tempo adulta. Le idee di Sproule e Farley sono già interpretazioni-ab­ bellimenti del romanzo, immaginazioni spontanee, aggiunte al film da un collegio di autori, che così crede di venire in­ contro alle aspettative e ai desideri delle donne. Nella pre­ sunzione di fare opera di mediazione insinuano fra la scrit­ trice e le spettatrici le proprie proiezioni, un tentativo di spostare all’indietro le lancette degli orologi - cosa che pe­ raltro successe nella realtà, quando dopo la seconda guerra mondiale le donne che avevano nel frattempo conquistato una maggiore indipendenza vennero riportate, nella gerar­ chia sociale, allo status prebellico e ricacciate nel privato. Affinché servano meglio il concetto di love story, decisi­ ve risposte che si leggono nel romanzo, così come immagi­ ni e tratti peculiari, vengono attribuiti ad altri personaggi: l’amazzone di cui parla l’autrice non è la Lucy che il capita­ no ha ribattezzato Lucia, bensì la cuoca che armata di sec­ chio e scopa ingaggia un corpo a corpo con la casa a lungo trascurala. Ma ancora più profondamente agisce la strategia della ri­ scrittura, che nel film trova per quello che di volta in volta è l’altro sesso il suo giusto complemento di coppia, poiché sia ristabilito quell’equilibrio e rispecchiamento dei sessi in base al quale funziona il film classico hollywoodiano. Il ro­ manzo non termina con la coppia, finalmente riunita nella morte, che va ringiovanita verso l’eternità, ma con la salma di una donna morta in solitudine e tuttavia non infelice, che abbandona il proprio involucro corporeo come una biscia la vecchia pelle, suggerendo un concezione ciclica del tem­ po e non quella di una storia lineare con un capo e una fi­ ne precisa. «Il corpo della piccola Mrs. Muir era adagiato quietamente nella poltrona, il capo reclinato, gli occhi di lei 382

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fìssi, senza vederli, negli occhi dipinti del ritratto del capita­ no Gregg appeso alla parete-. Un genere popolare e un medium popolare, con un re­ gista che non è ancora un autore affermato, pretende dallo spettatore più di quanto pretenda un’opera di consistenza estetica definita che aspira, nella sua soggettività, a essere unica. Si possono intendere i continui riferimenti del film alla luce, alle immagini, agli sguardi e al vedere come auto­ riflessione del medium su se stesso. Ma è probabile che sia­ no pensati per ricordare allo spettatore il patto stretto all’ini­ zio: prendere sul serio i sogni diurni come fossero la realtà. La storia non si sforza, come solitamente succede, di essere credibile. Il film richiede allo spettatore lo sforzo di aprirsi a un concetto di realtà ampliato fino a includere l’invisibile. Mrs. iMuir incarna l’immaginazione non professionale dello spettatore. Le sue invenzioni sono originali e popolari come lo sono i sogni. Concretizza un’idea della scrittura co­ me attività simulata, che diviene possibile solo prendendo le distanze dalla propria persona. In questa dissociazione Mrs. Muir diventa l’autrice della propria vita. Tutto ciò non è solo paradossale, ma triste da morire. Nel romanzo il ca­ pitano fantasma spiega che cosa significhi avere una vivace fantasia: la capacità di essere non-originali, ricettivi nei con­ fronti di punti di vista altrui e disponibili a condividerli col pensiero. Per quale ragione poterlo vedere, domanda Mrs. Muir, dal momento che egli non possiede un involucro fisico. La risposta chiarificatrice del capitano a Mrs. Muir porta lo spettatore, già pronto a rinunciare a ogni razionalità e ab­ bandonarsi senza ritegno alla finzione, al suo posto fuori della finzione: «Tutto quanto lei vede è un’illusione dei sen­ si, come una lanterna magica-. Ciò significa che la cinepre­ sa, il regista, tutti fanno come se anche i loro sensi si la­ sciassero ingannare. Lo spettatore è sollecitato a identificar­ si non tanto con i personaggi sullo schermo quanto con lo sguardo che cade su di loro. Esiste, coniata non si sa da chi, la categoria dei -registi 383

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donna-. Registi che non si limitano, nei loro film, ad acco­ starsi con maggiore comprensione ai temi femminili. Nei lo­ ro film attraverso il movimento viene dissolta la visualità oggettivizzante. È una liberazione dal cinema-identificazio­ ne sessualmente determinato. È già esistito nei film muti di Murnau, che coinvolgeva la cinepresa nell’evento, e nei -primissimi piani glissanti- di Dreyer. Ma con l’avvento del sonoro, in Renoir e Mizoguchi, in Ophiils e Antonioni, è so­ praggiunto un movimento di altro registro. Come si può fare, si chiedeva Dreyer mentre girava Vampyr (Jl vampiro), per dare alle immagini la dimensione supplementare dello sguardo senza arrestarle nei loro natu­ rale fluire? Come è possibile, in un medium visivo, aggiun­ gere a quanto è visto il modo in cui uno vede? Provi a immaginarsi che noi si sia seduti in una stanza normale. Improvvisamente veniamo a sapere che nella stanza accanto c’è un cadavere. In un attimo lo spazio in cui siamo seduti viene trasformato completamente; tutto acquista un altro aspetto; la luce, l'atmosfera sono cambia­ te sebbene siano rimaste fisicamente identiche. Anche quando la sceneggiatura cerca di abbassare a semplice storia d’amore quanto il romanzo vuole sia inteso come immaginazione, la decisione di trattare l’immaginario in modo del tutto normale salva qualcosa delle intenzioni deH’autrice. Alle immagini rimane collegata potenzialmente la modalità di uno sguardo altro.

A un primo sguardo il film dimostra, con la sua rilettura del romanzo e la sua tensione a visualizzare, l’onnipotenza delle immagini fìlmiche. Solo gradatamente ci si accorge che sono minacciate da una latente asincronia, da suoni che ad esse non si accordano. Da suoni che sono nell’aria o che so­ no solo aria, atmosfera. Da presenze incorporee, percepite dapprima dal cane della piccola Anna con le sue orecchie ritte. Con l’aiuto di suoni insistenti esse si addensano in allu­ cinazioni che in fin dei conti sono solo voci interne che 384

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hanno preso corpo, pensieri repressi, sentimenti mascherati. Il fantasma si manifesta la prima volta in una sonora risata, quando Mrs. Muir esprime un pensiero formulato a mezzo, in cui compare la parola clean. L’orologio che annuncia la sua prima, ancora spettrale, apparizione, è concepito come ruota del timone. Segna le ore non come un orologio nor­ male, ma con il doppio rintocco di una campana di nave, misura il tempo onirico di Lucy con una dissolvenza. Fin dai titoli di testa, le orecchie sono sollecitate dalla musica fluttuante di Bernard Herrmann, alla quale eccezio­ nalmente venne concesso di prendere il posto della nota si­ gla della Fox. Un presagio che diventa univoco in sequenze successive: nel ribaltamento dell’usuale rapporto immaginesuono, che sottolinea l’abisso fra ciò che viene visto e ciò che viene udito, la musica a volte prende il sopravvento e determina il point-cie-vue della scena in modo più decisivo di quanto non faccia l’organizzazione delle immagini. La musica assume su di sé la narrazione, come una voce off, e suggerisce la rappresentazione di mondi separati, di spazi separati. Mankiewicz menava gran vanto di avere inventato per W.C. Fields la routine dei famosi titoli ornitologici, i -little tomtits-, e «magpies- e -chickadees*. Come ha detto Michel Caine che ha recitato nel suo ultimo film, sapeva rendere visibili le parole. A volte addirittura ci infila i suoi scherzi, per esempio quando introduce un’immagine a comprovare la parola. Con il suo tono da smargiasso il fantasma spiega a Mrs. Muir che ha risolto tutti i problemi di danaro e che lei adesso scriverà un libro, un libro! Lei è scioccata, e pron­ tamente dietro di lei appare un’intera libreria: ogni spettato­ re di mente pronta è libero di rendersi rapidamente conto che Mrs. Muir ha già nutrito dentro di sé questo proposito. •La parola che lei sta vanamente cercando in questo mo­ mento è 'brass'' spiega Miles Farley alla scioccata-estasiata Mrs. Muir. Miles/ Sanders non è un eroe, non è bello, è un beau parleur, Lubitsch direbbe uno scbmuser. Seduce con le parole Lucy che ci casca: -You must be a magician-. Con 385

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questo lei intende anche il tono simulato, recitato di lui, al cui fascino prontamente soggiace. La lotta per conquistare i favori di Lucy è combattuta da due voci, da due diversi modi di parlare. Non è vero quanto afferma il capitano, che reclamizza la propria schietta onestà, ossia che Lucy, come tutte le donne, si sia fatta ciecamente ingannare dal suo seduttore. Il capitano Gregg non è un poltergeist comune. Lo si ve­ de quando compare la prima volta non nei sogni di Mrs. Muir, ma nella sua cucina, evocato dagli stizziti rimproveri di lei: un fantasma vigliacco, chi ha mai sentito una cosa si­ mile. Proietta, cosa che com’è noto nessun fantasma fa, un’ombra affilatissima sulla parete. È lo sguardo di Mrs. Muir, sono gli occhi grandi come fari di Gene Tierney, rafforzati dalla luce della candela tenuta sollevata, a fotogra­ farlo. È la loro proiezione. Ma in questo modo alla forza dell’immaginazione femmi­ nile era concessa una troppo libera volontà. Trasferita dalla sfera uditiva al registro visivo, la storia condizionata dal me­ dium si sviluppava in storia d’amore, anche se il capitano deve affermare che non ha né un corpo né desideri carnali. Il suo outfit sempre uguale ne fa in modo univoco una figu­ ra simbolica: ritto, tronfio, reclamante attenzione, in panta­ loni neri, dolcevita, giacca scura con le spalle imbottite e come unico richiamo ad attirare lo sguardo la fìbbia della marziale cintura. Stupisce che non lo si veda mai con il co­ pricapo che porta nel ritratto. Dietro dev’esserci stato il ri­ fiuto da parte di Rex Harrison, ben conscio del look, il qua­ le trovava che i berretti con la visiera non donassero al suo viso. A meno che dovesse apparire un poco degradato, sen­ za la dimostrazione di potere incarnata dal suo copricapo. È lui che anche senza essere visto, vede tutto e sotto il suo sguardo, per lui, lei diviene qualcuno. Crescendo, nutri­ ta dalle aspettative di lui, da Lucy diventa Lucia. Lei non si guarda nello specchio per contemplarsi, ma per vedere con gli occhi bassi come lui la veda. Ciò che più tardi vede nel­ lo specchio, e che lo spettatore naturalmente non vede, 386

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quando in treno si sistema in modo civettuolo la pettinatu­ ra, è lo sguardo di Farley su di lei, lo sguardo dell’uomo che esisteva solo nella sua immaginazione. Ne La lumière et la prole Jean-Louis Schefer si chiede se i ritratti siano specchi. Sono specchi, ne è sicuro. Non rispecchiano però le nostre figure, ma ciò che a noi man­ ca, i nostri difetti: «Rispecchiano il sublime, ragion per cui anche l’osceno, che non manca in noi, in pittura è sempre incompleto». Di Mankiewicz si racconta che sapeva trarre dalle sue at­ trici le migliori prestazioni quando aveva anche un legame sentimentale con loro. Il pettegolezzo ha un significato più recondito. Potrebbe fornirci la chiave per capire come nel cinema, se paragonata con il suo modo di funzionare nelle arti antiche fondate sull’individualità, la relazione dell’autore con l’opera si sia modificata in corrispondenza alla relazione star/performance. La realtà dei corpi è implicata in modo di­ verso. Così vicini agli occhi da avere l’impressione che li si possa afferrare, non sono mai stati più irraggiungibili. The Ghost and Mrs. Muir passa per essere un film ro­ mantico dato che si presume sia una storia d’amore. È ro­ mantico perché la nostalgia - nostalgia maschile e femmini­ le: le due tendono a divergere - occupa in quanto inappa­ gabile il centro vuoto della storia - la lacerazione è al cen­ tro della storia - e il potere della finzione supera momenta­ neamente questa fondamentale inconciliabilità. Con il ro­ manticismo il rapporto fra i sessi divenne problematico, e in questo le donne che scrivevano avevano una loro parte, poiché cominciarono ad articolare il loro essere diverse e a collocare in una luce più adeguata e chiara l’»enigma della donna», - tanto comodo per la rappresentazione maschile con il quale Freud rimuoveva la femminilità che costituiva per lui una faccenda problematica. -With talk came the Jew [Con il parlato arrivarono gli ebrei]», così Mankiewicz descrive i cambiamenti nell’indu­ stria cinematografica, quando con il cinema sonoro e l’esi­ genza di testi da recitare iniziò l’importazione negli studios 387

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di Hollywood dell'intelligencija dalla costa Est. Il fatto che nel cinema muto i corpi così vivi non potessero parlare, rendeva inquietante il loro apparire. Le voci dei film sonori non hanno mai superato del tutto il fatto di essere state se­ parate dai corpi; né sono mai completamente ricresciute in­ sieme. Anche quando il parlato fu sincronizzato, mantenne un carattere di posteriorità e una certa indipendenza, che si contrapponeva alla subordinazione all’immagine prevista da considerazioni realistiche. Per la lingua parlata questa era l'opportunità di diventare artificiale. Sotto l'influsso della tecnica poteva trasformarsi da categoria puramente referenziale a categoria simbolica. (Nel racconto breve In the Cage Henry James ha riflettuto dal punto di vista letterario sulla dissonanza fra corpo e lin­ guaggio indotta dai nuovi mezzi di comunicazione). A differenza di quanto solitamente accade nell’industria cinematografica, Mankiewicz approfondisce lo scisma parola/immagine assegnando al parlato il predominiosulla mes­ sinscena: Sono un eretico cinematografico - un anatema contro tutti coloro che trovano più facile collocare una cinepresa che guidare un attore. Sono conosciuto come un seguace dell’eresia secondo cui nei film non epici il contributo del­ la parola deve essere equivalente a quello dell’obiettivo. Sono noto anche per la mia predilezione per gli attori che hanno studiato dizione rispetto a coloro che si gingillano solo con i capelli. Myfilms talk a lot - hell, I talk a lot.

Ciò che Mankiewicz sa del parlato e il modo in cui lo impiega come uno strumento di azione e non in primo luo­ go come espressione, l’ha imparato tanto a scuola e all’uni­ versità quanto sul divano dello psicoanalista. Filma la lin­ gua come forza propulsiva fìsica, opponendosi così con­ temporaneamente alle idee e alle immagini della mascoli­ nità imperanti nel cinema americano, a causa delle quali la metà migliore del cinema sonoro restava inattiva: «No, il ruolo dell’uomo, che attualmente è in voga, non mi interes­ sa particolarmente come autore e/o regista. Deve continua­ 388

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mente attaccar briga fisicamente con il suo avversario: la forma di confronto più priva di fantasia». Il potenziale delle parole non si esprime in primo luogo nei dialoghi dei suoi film. Mankiewicz lo pratica già sul set nel lavoro con gli attori, di preferenza con le donne, con­ dotte dalla parola e dal discorso a performances che non fanno venire fuori una femminilità illusionistica, ma le sciol­ gono da legami considerati immodificabili. Lo interessano donne attive, donne intriganti, donne lacerate: «Performing women» - sempre l’avrebbero affascinato e spaventato; non avrebbe mai smesso di pensare a loro, di imparare da loro e di scrivere di loro. L’abolizione delle differenze fra i sessi, che in altre circo­ stanze avrebbe potuto essere inquietante, è in lui, e dal mo­ mento che avviene al cinema, una tattica-performance per l’eliminazione dei pregiudizi a motivazione sessuale e per la cancellazione delle linee di demarcazione consolidate. Pas­ sando per la nuova articolazione di immagini e suoni essa introduce dinamismo nel rapporto fra i sessi. Ciò che rende così divertente The Ghost and Mrs. Muir, a dispetto del baratro che si spalanca al suo centro, è lo scambio delle armi, e il fatto che esso funzioni a meraviglia. Mrs. Muir combatte con le armi di un uomo, senza rinuncia­ re anche per un solo momento alla sua identità femminile. La faccenda non è tanto che Mankiewicz volesse fare un ci­ nema americano per adulti con più arte o con più testa: egli mostra come con invenzioni fìnte si poteva ovviare alla bio­ logia quale destino immodificabile.

«Ecco, già metà della mia vita se ne è andata, e io che cosa ho combinato?», sospira Mrs. Muir. La cuoca Martha le ricorda che è pur sempre la madre di una figlia. Per questo, pensa Lucy, non si può pretendere alcun credit. E allora si accinge a fare qualcosa di reale a partire da quanto ha a di­ sposizione. Un’opera, foss’anche unica, che non viene au­ tenticata né tramite il nome né tramite la persona. Ovviamente la disputa fra le due donne in questa forma non è presente nel romanzo. 389

FRIEDA GRAFE • SCRITTI 01 CINEMA 1961-2000

Un autore cinematografico, nella definizione di Mankiewicz, non è il garante dell’unità stilistica o artistica di un’opera. La qualità di autore a Hollywood è una funzione determinata e confermata dal credit, e il cui coronamento è l’omino d’aigento dell’Oscar. È mobile e molteplice. La ci­ nepresa e il suo occhio non sono l’unica possibilità di arti­ colare una prospettiva d’autore. Solo il calcolato amalgama di elementi creativi di diversa provenienza mediatica, cia­ scuno con la propria relativa autonomia, produce la tensio­ ne di cui il cinema vive. Il regista che intenda essere autore e che per portare sul­ lo schermo quanto aleggia nella sua mente si serve di attori che sceglie come propri sostituti, dipende dalle loro capa­ cità e dalla loro presenza cinematografica. Si serve dei dele­ gati che il cinema mette a disposizione. L’originalità è qual­ cosa che appartiene agli artisti di un tempo. «Ho sviluppato una grande capacità di assumere il colore dell’ambiente cir­ costante, senza assorbirlo; una capacità di essere partecipe di quasi tutto senza diventare mai parte di alcunché».

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5Z AM WQCHBNENDE

Una Filmseite di Frieda Grafe, «Sùddeutsche Zeitung» 18/19.1.1985

Curriculum vitae, 1965 Frieda Grafe, nata il 20 agosto 1934 a Millheim an der Mohe. Ha ricevuto una educazione cattolica e piccoloborghese. Nel 1955 ha conseguito la maturità presso il Neusprachliches Gymnasium di Soest (Vestfalia). Ha studiato germanistica, romanistica, filosofia a Monaco, Parigi e Munster. La più forte esperienza formativa del­ la sua vita: le università quali covi del pensiero patriarcale. 1 primi seri contatti con il cinema a Parigi, dove alla Sorbona le consiglia­ no di studiare Murnau per capire meglio Tespressionismo tede­ sco. Da quel momento intensa frequentazione delle sale cinema­ tografiche, propiziate dal fatto che l’università si trova nel quartie­ re dei cinema. Rientra in Germania, dove torna a rivolgersi alla letteratura con una tesi sulle opere giovanili di Heinrich Mann che non porta a termine perché nel 1961 si trasferisce a Monaco. La­ vori di traduzione. Dal 1962 svolge attività giornalistica esclusivamente per «Filmkritik». Sposata dal 1962, un tìglio. Abita a Monaco 13. in via Ainmillerstrasse 7. (Tratto da -Filmkritik», 4, 1965, n. 100)

Dal 1972 Frieda Grafe collalx>ra alla -Sùddeutsche Zeitung*. Ha tradotto testi di Truffaut, Godard, Bunuel, Rohmer, Virilio, Toklas. Ha pubblicato i libri Ini Off. Filmartikel (con Enno Patalas), Hanser Verlag 1974; Beschriebener Film 1974-1985, a cura di Petra e L'we Netteibeck, Die Republik n. 72-75, 1985; Silke Gros­ smann, Photographien (testi di Frieda Grafe), a cura di Heinz Emigholz, Stuttgart 1992; Filmtips Frieda Orafe, a cura di Fritz Gottler e Heiner Gassen, KinoKontexte 4, 1993; The Ghost and Mrs. Muir, BFI Film Classics, London 1995; Nouvelle Vague, Wien 1995. In occasione del Premio 01-Award 2000 della Hochschule der Kunste di Berlino, è stata pubblicata una biobibliografia di Frieda Grafe e Enno Patalas dal titolo Doppelleben (Doppia vita). 393

Nota bibliografica Indichiamo di seguito titoli ed edizioni originali dei testi pre­ senti in questa raccolta. Ringraziamo gli editori per averne con­ cesso la traduzione e pubblicazione.

Vivre sa vie (1964) Traduzione di Elena Broseghini Jean-Luc Godard, Die Geschichte der Nana S. (Vivre sa we),.in Reihe Cinemathek, Ausgewahlte Filmtexte, Band 9, 1964; poi in Frieda Grafe, Enno Patalas, Im Off, Filmartikel, Munchen 1974.

Vent’anni dopo. Che cosa è stata la nouvelle vague (1981) Traduzione di Elena Broseghini Zwanzig Jahre spàter. Was die Nouvelle Vague war. Nach einer Reihe im Miìnchner Filmmuseum. -Suddeutsche Zeitung-, 13 /14.1.1981; poi in Frieda Grafe, Beschriebener Film 1974-1985, Nr. 72-75, a cura di Petra und Uwe Nettelbeck, «Die Republikn.72-75, Salzhausen-Luhmuhlen 1985.

Jean Lue Godard. Filmare l'altra faccia delle montagne (1981) Traduzione di Elena Broseghini. Die Riickseite der Berge fìlmen. Zu einer Godard-Retrospektive in Zurich und seinem Film Sauve quipeut (la vie). «Die Weltwoche*, 28.1.1981; poi in Beschriebener Film, 1985.

Un movimento all’indietro con una certa tendenza in avanti (1995) Traduzione di Luca Vitali Eine Riìckwartsbewegung mit einer gewissen Tendenz nach vorn, in Frieda Grafe (a cura di), Nouvelle Vague, Wien 1995. 395

FRIEDA GRAFE • SCRITTI Dl CINEMA 1961-2000

La vera storia del cinema. La visione della storia in Godard (2000) Traduzione di Elena Broseghini Die tatsachliche Kinogschichte. Godards Geschichtsbild, in Viennale 2000, Wien 2000.

Mae West. Showfilia, 1973 Traduzione di Elena Broseghini Mae West, Showlust. -Suddeutsche Zeitung-, 10.10.1973; poi in Im Off, 1974

Cari Theodor Dreyer. Signori spirituali, donne naturali, 1974 Traduzione di Elena Broseghini Geistliche Herren und natiirliche Frauen. Die Fiime von Cari Theodor Dreyer. «Suddeutsche Zeitung-, 9/10. 2.1974; poi in Im Off, 1974

Robert Bresson. Eccessi di un asceta, 1975 Traduzione di Elena Broseghini Asketenexzesse. Robert Bresson und seine Filmo. «Suddeutsche Zeitung*, 22/23. 2.1975; poi in Beschriebener Film, 1985.

Leni Riefenstahl. Contadini finti, soldati finti e che popolo!, 1975 Traduzione di Elena Broseghini Falsche Soldaten, falsche Bauern und was fur ein Volk. Am Beispiel Leni Riefenstahl: Film im Nationalsozialismus. «Suddeutsche Zeitung*, 13/14.9.1975; poi in Beschriebener Film, 1985.

Max Ophùls. Voce alta e vista lontana (1978) Traduzione di Elena Broseghini Laut gesprochen und fern gesehen. Max Ophuls’ Filme im Munchner Stadtmuseum. «Suddeutsche Zeitung», 22 /23.7.1978; poi in Beschriebener Film, 1985.

Ciò che tocca Lubitsch (1979/1984) Traduzione di Elena Broseghini Was Lubisch bertihrt. 30 seiner Filme im Munchner Stadtmuseum. •Suddeutsche Zeitung», 22/23.9.1979; poi in Beschriebener Film, 1985. Seconda versione ampliata, in Hans Helmut Prinzler, Enno Patalas (a cura di), Lubitsch, Zurich, Munchen, Luzern 1984. 396

NOTA BIBLIOGRAFICA

Luis Bunuel. L’occhio in pericolo (1983) Traduzione di Elena Broseghini Nichts furs blosse Auge. Zum Gesamtwerk von Luis Bunuel. Eine Retrospektive im Munchner Filmmuseum. «Suddeutsche Zeitung», 17/18.12.1983; poi in Beschriebener Film, 1985.

Howard Hawks. Il Laocoonte americano (1985) Traduzione di Elena Broseghini Amerikanischer Laokon oder die Howard-Hawks-Story. Zur Re­ trospektive im Munchner Filmmuscum. «Suddeutsche Zeitung-, 19/20.1.1985; poi in Beschriebener Film, 1985.

IH

Filmtips (Monaco, 1973) Traduzione di Elena Broseghini •Suddeutsche Zeitung», Gennaio-Dicembre 1973; poi in Fritz Gòttler und Heiner Gassen (a cura di), Filmtips Frieda Grafe, KinoKonTexte 4, Miinchen 1993.

IV

Nicht versòhnt di Jean-Marie Straub (1966) Traduzione di Elena Broseghini Nicht versòhnt, von Jean-Marie Straub. «Filmkritik» 3/66; poi in Im Off, 1974.

Abbagliati dal nero. Professione: reporter di Michelangelo An­ tonioni (1975) Traduzione di Elena Broseghini Von Schwarz geblendet. Professione: reporter, von Michelangelo Antonioni. «Suddeutsche Zeitung-, 20/21.9.1975; poi in Beschrie­ bener Film, 1985.

Il prezzo dei premi. The Lusty Men di Nicholas Ray (1983) Traduzione di Elena Broseghini Die Lust und ihre Preise, von Nicholas Ray. «Suddeutsche Zei­ tung', 2.3.83; poi in Beschriebener Film, 1985. 397

FRIEOA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 1961 2000

Sabbia negli occhi. Forty Guns di Samuel Fuller, 1984. Traduzione di Elena Broseghini Sand in die Augen, von Samuel Fuller. «Suddeutsche Zeitung», 3/4.3.1984; poi in Beschriebener Film, 1985

Assiderata. Sons toi ni loi, il nuovo film di Agnès Varda (1986) Traduzione di Elena Broseghini Blaugefroren. Sans toi ni loi, von Agnès Varda. «Siiddeutsche Zei­ tung», 24.4.1986

Le tre «effe» della casalinga ebrea. Histoires d'Amérique di Chantal Akerman (1990) Traduzione di Elena Broseghini Die drei F’s der jùdischen Hausfrau. Histoires d’Amérique von Chantal Akerman. «Suddeutsche Zeitung», 8.2.1990 V

La teoria sarebbe grigia (1988) Traduzione di Elena Broseghini In Frieda Grafe, FARBFILMFEST 1-12 , Internationale Filmfestspiele Berlin, Berlin 1988

Pomodori sugli occhi. La storia del cinema a colori è la sto­ ria di una rimozione (1989) Traduzione di Luca Vitali Tomaten auf den Augen. Die Geschichte des Farbfìlms ist die Geschichte einer Verdrangung. Gesprach mit Miklos Gimes. In Film und die Kunste, Cinema, n.35, Basel/Frankfurt a.M. 1989.

Sbiaditi, i colori della DDR. La tavolozza di Hitchcock e Roh­ mer come suo intermediario (1997) Traduzione di Luca Vitali Verblichen, die Farben der DDR. Hitchcocks Palette und Rohmer als Vermittler. Conferenza tenuta al Filmmuseum Munchen, 25.10.1997.

398

NOTA BIBLIOGRAFICA

VI

Dal cinema ingenuo al cinema sentimentale (1961) Traduzione di Elena Broseghini Vbm naiven zum sentimentalischen Film, -Filmkritik» 5/1961.

Dottor Caligari versus Dottor Kracauer (1970) Traduzione di Elena Broseghini Doktor Caligari gegen Doktor Krakauer oder die Errettung der àsthetischen Realitat. -Suddeutsche Zeitung-, 25-2.1970; poi in Im O#1974

Il realismo è sempre neo-, sur-, super-, iper-. Vedere con ap­ parecchi fotografici (1979) Traduzione di Luca Vitali Realismus ist Immer-, Neo-, Sur-, Super-, Hyper-. Sehen mit photographischen Apparaten. -Suddeutsche Zeitung», 13/14.1.1979; poi in Beschriebener Film, 1985

Contributi viennesi per una veridica storia del cinema (1993) Traduzione di Elena Broseghini Wiener Beitrage zu einer wahren Geschichte des Kinos, in Chri­ stian Cargnelli und Michael Omasta (a cura di), Aufbrucb ins Un-

gewisse. (Asterretebische Filmscbaffende in der Emigration vor 1945, Wien 1993. Un’invenzione svizzera. I Grand Hotel nell’industria dell’in­ trattenimento (1994) Traduzione di Elena Broseghini Eine Schweizer Erfindung. Die Grandhotels in der Unterhaltungsindustrie, in Ausstattung, Cinema, n. 40, Basel/Frankfurt a.M. 1994.

Dall’antro anarchico del cinema. All’inizio fu una sonora ri­ sata (1995) Traduzione di Luca Vitali Aus des Kinos Hexenkùchc. Am Anfang war schallendes Gelachter. Emissione radiofonica, SDR, Stuttgart 1995.

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FRIEOA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 1961 2000

VII

The Ghost and Mrs. Muir. I fantasmi di cui non ci si libera (1995-1998) Traduzione di Elena Broseghini Tbe Gbost and Mrs. Muir. Die Geister, die man nicht ios wird, Vortrag, Wien 1998 (versione abbreviata, per una conferenza tenuta a Vienna, di Frieda Grafe, The Gbost and Mrs. Muir, BFI Film Clas­ sics, London 1995).

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Indice dei titoli e dei nomi À bout de souffle (J.-L. Godard, 1959), 23, 28, 32, 43, 62, 155, 213, 254, 284 À double tour (C. Chabrol, 1959), 284 À nous la liberté (R. Clair, 1931). 153 Abel, Robert, 184 Abercromby, Robert, 373 Accident, The (J. Losey, 1967), 179 Adlon, Hedda, 338 Adorno, Theodor W., 25, 59, 156, 288, 358, 360 s. Adrian, 113 After Hours (M. Scorsese, 1985), 256 Age d’or, L’ (L. Bunuel, 1930), 134 s., 137 Aguirre, der Zom Gottes (W. Herzog, 1972), 168 Air Force (H. Hawks, 1943), 149 Akerman, Chantal, 228-230 Al Capone, 72 Al grido de estepueblo (H. Rios, 1972), 160 Albers, Hans, 167 Aldrich, Robert, 177 Alekan, Henri, 262 Aleksandr Nevskij (S.M. Eisen­ stein, 1938), 155

Ali Baba et les quarante voleurs (J. Becker, 1954), 26

All I Desire (D. Sirk, 1953), 197 All That Heaven Allows (D. Sirk, 1955), 174

Allemagne neuf zèro (J.-L. Go­ dard, 1991), 42, 58, 64 Allen, Woody, 180, 193 Almendros, Nestor, 55, 241 s., 265, 276 s.

Alphaville, une étrange aventu­ re de Lemmy Caution (J.-L. Godard, 1965), 30 Alsfeld, Max, 320 Alton, John, 322

American in Paris, An (V. Min­ nelli, 1951), 323

Amore in città (C. Zavattini, 1953), 294

Amourfou, L’ (J. Rivette, 1968), 30

Amour l’après-midi, L’ (E. Roh­ mer, 1972), 265

Anaparastassi (T. Angelopoulos, 1970), 180 Andersch, Alfred, 287 Anderson, Sherwood, 295 Andrade de, Joaquim Pedro, 176 Andrews, Julie, 269, 271 Angel (E. Lubitsch, 1937), 164 Angel exterminador, El (L. Bunuel, 1962), 140 Angel Face (O. Preminger, 1952), 321

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FRIEDA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 1961 2000

Angelopoulos, Theodor, 180 Anger, Kenneth, 179 Animal Crackers (V. Heerman, 1930), 163, 192 Anna Boleyn (E. Lubitsch, 1920), 125

Autant-Lara, Claude, 22 Avanti! (B. Wilder, 1972), 325 Ave Maria (M. Ophuls, 1936), 309 Avventura, L' (M. Antonioni, 1959), 213, 281, 286

Année dernière à Marienbad, L’(A. Resnais 1961), 30, 332, 340 s. Anticipation, L’ (J.-L. Godard, 1967), 34 Antonioni, Michelangelo, 27, 58, 195 s., 212 s., 247, 259, 281, 283, 286 s., 294, 384 Appia, Alphonse, 311 Arbeiterclub in Sheffield, Ein (P. Nestler, 1965), 173 Arbuckle, Fatty, 348 Arnheim, Rudolf, 239 Arnold, Jack, 154, 168, 170, 198 Arroseur arrosé, Z'(L. Lumière, 1895), 284, 343 Artaud, Antonin, 157, 355 Arthur, Jean, 149 Artists and Models (F. Tashlin, 1956), 366 s. Assassination of Trotsky, The (J. Losey, 1972), 179 Astaire, Fred, 319, 324, 326, 336 Astruc, Alexandre, 24, 39 Asylum (P. Robinson, 1972), 191 Atalante, //(J.Vigo, 1934), 8 Atlantic City (L. Malle, 1980), 24 Au hasard, Balthazar (R. Bres­ son, 1966), 88 s. Aufsatze (P. Nestler, 1963), 173 Aumont, Jacques, 59, 239, 243, 254 Auster prinzessin (E. Lubitsch, 1919), 123

Bacall, Ijiuren, 145 s., 200 Bachelard, Gaston, 190 Bachtin, Mikhail, 360 Balàsz, Béla, 93 Bals, Hub, 231 Balzac, Honoré, 162, 194, 284, 351 Banditi (A. Lattuada, 1946), 296 Banditi a Orgosolo (V. De Seta, 1961), 294 Bang, Hermann, 76, 307 Banton, Travis, 113 Barbaro, Umberto, 294 Bardot, Brigitte, 19, 55 Barefoot Contessa, The (J.L. Mankiewicz, 1954), 161 Barnet, Boris, 248 Barrès, Maurice, 284 Barthes, Roland, 30, 45, 168, 261, 361 Bashevis Singer, Isaac, 228 Bassermann, Albert, 157 Bataille, Georges, 337, 355 Batman and Robin (L. Hillyer, 1943), 185 Baudelaire, Charles, 81, 236 Bauem (F. Ermler), 188 Baum, Vicky, 335, 340 Bava, Mario, 156 Baye, Nathalie, 33 Bazin, André, 25, 27, 29, 38-41, 43-45, 48, 63. 300 s. Beatty, Warren, 195

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INDICE DEI TITOLI E DEI NOMI

Beau Serge, Le (C. Chabrol,

Birth of a Nation, The (D.W.

1957), 45 Beaudine, William, 192 Beauregard de, Georges, 40 Becker, Jacques, 22, 26, 62, 333 Behrens, Peter, 327 Bel Geddes, Barbara, 103 Bellboy, The (J. Lewis, I960), 338, 340 Belle de jour (L. Bunuel, 1967), 132, 156 Belle of the Nineties (L MacCarey, 1934), 72, 186 Beimondo, Jean-Paul, 36, 53, 62, 213, 284 Bendek, Laslo, 179 Benjamin, Walter, 112, 299, 301 Bennett, Joan, 103, 193 Berenson, Bernard, 333 Berger, Ludwig, 154, 163, 317 Bergman, Ingmar, 27, 169 Bergman, Ingrid, 284 Berkeley, Busby, 332 Bernanos, Georges, 88 Bertolucci, Bernardo, 177 Bettwurst (R. von Praunheim, 1970), 303 Bickel, Moidele, 265 Big Heat, The (F. Lang, 1953), 154 Big Sleep, The (H. Hawks, 1946), 144, 146, 200, 291 Bijl, Jacob, 189 Billy the Kid (A. Penn, 1958), 182 Bird of Paradise CD. Daves, 1951), 164 Birds, The (A. Hitchcock, 1963), 168 Birge, Willy, 194 Biró, Lajos, 318

Griffith, 1914), 167 s. Black Pirate, The (A. Parker, 1927), 190 Blanc, Charles, 240 Blaue Engel, Der (J. von Stern­ berg, 1930), 110, 167 Blaue Licht, Das (L. Riefenstahl, 1932), 92 s., 98 Blue Movie (D. Rimmer), 162 Blue Velvet (D. Lynch, 1986), 252 Bluebeard’s Eighth Wife (E. Lu­ bitsch, 1938), 123, 325, 331 Blusenkònig, Der (E. Lubitsch, 1917), 347 Boetticher, Budd, 153 Bogart, Humphrey, 146, 200, 213, 284 Bogdanovich, Peter, 171, 320 Bòli, Heinrich, 205-210 Bonheur, Le (A. Varda, 1965), 225 Bonitzer, Pascal, 239 Bonnard, Pierre, 223 Bonne chance (S. Guitry, 1935), 363 Bonnie and Clyde (A. Penn, 1967), 182 Boorman, John, 180 Borges, Jorge Luis, 341 Borjez i kloun (B. Barnet, 1957), 237 Borzage, Frank, 312, 318 Bosè, Lucia, 283 Boudin, Eugène, 265 Boudu sauvé des eaux (J. Re­ noir 1932), 44, 350 Brackett, Leigh, 146, 148 Brando, Marlon, 171, 195 Braque, Georges, 226

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FRIEDA GRAFE ■ SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

Braudel, Fernand, 65 Braunberger, Pierre, 40, 245 Brecht, Bertold, 21, 115, 121, 313, 342 Breker, Arno, 95 Brennan, Walter, 183, 199 Bresson, Robert, 22, 27, 39, 41, 46, 52, 58, 62, 84-91 Breton, André, 136, 353 Brialy, Jean-Claude, 40, 45 Brides of Dracula, The (T. Fi­ sher, 1960), 153 Bringing up Baby (H. Hawks, 1938), 144 e s. Broca, Philippe de, 199 Broch, Hermann, 68, 313, 316 Bronenosei Potemkin (S.M. Ei­ senstein, 1925), 57, 245, 155 Brènte, sorelle 181 Brooks, Louise, 19 Bruno der Scbwarze (L. Eisholtz, 1970), 189 Buftuel, Luis, 132-140, 154,156, 158, 163, 181 Burger, Gottfried, 153 Burl, Ives, 217 Burton, Tim, 367 Bus-Feketé, 318 Butler, David, 312

Cabinet des Doktor Caligari, Das (R. Wiene, 1920), 289-292 Cagney, James, 149, 318 Cain, James M., 295 ■ Cajkovskij, Pyotr L, 271 Cameraman, The (E. Sedgwick, 1928), 183 Campbell Leslie, Josephine Aimée, 373 Canadian, The (W. Beaudine, 1925) 192

Capra, Frank, 166 Carabiniers, Les (J.-L. Godard, 1963), 34, 255 Cardiff, Jack, 258 Cardinal, The (O. Preminger, 1963), 198, 315 Carmen Jones (O. Preminger, 1954), 172 Carnè, Marcel, 262, 294 Carosse d’or, Le (J. Renoir, 1952), 246 Casablanca (M. Curtiz, 1942), 253 Casarès, Maria, 59, 91 Case of Lena Smith, The (J. von Sternberg, 1929), 309 Cassavetes, John, 195 Cavell, Stanley, 55, 67, 143 Ceiling Zero (H. Hawks, 1936), 144, 149

Celine et Julie vont en bateau (J. Rivette, 1974), 367 ferina, Ljudmila, 168

Cet obscur ohjet du désir (L. Buftuel, 1977), 140 Cézanne, Paul, 226, 241, 276 Chabrol, Claude, 24, 28, 37, 40, 44, 46, 49, 61, 284, 321 Champoilion, Jean-Francois, 64 Chaplin, Charlie, 121, 135, 153 s., 169, 199, 228, 296, 337, 346, 348, 350, 353, 357, 365 Charcot, Jean-Martin, 79 Charlotte et son Jules (J.-L. Go­ dard, 1959), 35, 53 Charulata (S. Ray, 1965), 181 Chateaubriand, René, 28 Chevalier, Maurice, 129, 317, 325 Chien andalou, Un (L. Buftuel, 1929), 132-135

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INDICE DEI TITOLI E DEI NOMI

Chinoise, La (J.-L, Godard, 1967), 33, 59 Christians, Mady, 319 Ciment, Michel, 195, 380 Citizen Kane (O. Welles, 1941), 39, 171, 226, 341 City Lights (C. Chaplin, 1931), 153 Clair, René, 153 Clay, Cassius, 159 Clément, René, 22 Cline, Eddie, 160 Cloquet, Gislain, 241 Clouzot, Henri-Georges, 22 Cocteau, Jean, 22, 39, 62, 180 Colbert, Claudette, 331 Colette, 103 Collet, Jean, 20

Condamné à mort s‘est echappé, Un (R. Bresson, 1956), 90 Cooper, David, 196 Cooper, Gary, 325 Corbett, James J., 159 Corneille, Pierre, 320 Corvi, I (I.B. Micheli, 1971), 177 s. Costard, Hellmuth, 29, 299 s.

Court Martial of Billy Mitchell, The (O. Preminger, 1955), 320

Cousins, Les (C. Chabrol, 1958), 40,384 Coutard, Raoul, 43, 268 Cowboy (D. Daves, 1957), 166 Craig, E.G., 311 Crawford, Joan, 216

Creature from the Black La­ goon (J. Arnold, 1954), 154 Crime in the Streets (D. Siegel, 1956), 195

Crimson Pirate, The (R. Siodmak, 1952), 181

Crowd Roars, The (H. Hawks, 1932), 145

Crowd, The (K. Vidor, 1928), 295

Crusades, 7be (C.B. DeMille, 1935), 162 Cukor, George, 157, 161 Cuny, Alain, 283 Cure, The (C. Chaplin, 1917), 228, 337 Curtis, Tony, 162

D'Annunzio, Gabriele, 284 Da Vinci, Leonardo, 265 Dali, Salvador, 73,133, 135, 355

Dames du Bois de Boulogne, Les (R. Bresson, 1945), 46, 91 Dandrige, Dorothy, 172 Daney, Serge, 42, 61, 65 Dauman, Anatole, 40 Daves, Delmer, 164, 166 Dawn Patrol (H. Hawks, 1928), 144

Day the Earth Stood Still, The (R. Wise, 1951), 168 De Chirico, Giorgio, 211 De Gaulle, Charles, 22, 45, 62 De Koonig, Willem, 300 De Mayerling à Sarajevo (M. Ophùls, 1940), 101 De Seta, Vittorio, 294 De Sica, Vittorio, 296 Dean, James, 171, 195 Déjeuner sur l'herbe, Le (J. Re­ noir, 1959), 158, 352 Dekigokoro (Y. Ozu, 1933), 174 Delacroix, Eugène, 240 Delannoy, Jean, 22, 62

405

FRIEOA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

Deleuze, Gilles, 49, 177, 222, 275 s. Delicate Delinquent, The (D. McGuire, 1957), 178 Deliverance (J. Boorman, 1972), 180

Demetrius and the Gladiators (D. Daves, 1953), 164 DeMille, Cecil B-, 162, 183, 248, 250, 307 Demy, Jacques, 45 s. Dernières vacances, Les (R. Leenhardt, 1948), 45 Design for Living (E. Lubitsch, 1933), 124 Designing Woman (V. Minnelli, 1957), 323 Desire (F. Borzage e E. Lubit­ sch, non accreditato, 1936), 324 Detective (J.-L. Godard, 1985), 327

Douglas, Kirk, 174 Douglas, Melvyn, 196 Dr. Mabuse (F. Lang, 1922), 167

Drei von der Tankstelle, Die (W. Thiele, 1930), 319 Dreyer, Carl Theodor, 20, 7579, 81-83, 126, 236, 242, 260, 306, 384 Dreyer, Hans, 324 Du skal aere din hustru (C.Th. Dreyer, 1925), 78 Duck Soup (L. McCarey, 1933), 160,183 Dulac, Germaine, 135 Dunne, Philip, 372 Duras, Marguerite, 24, 26 Duvivier, Julien, 62 Dwan, Allan, 323

East of Eden (E. Kazan, 1955), 171

Easy Living (M. Leisen, 1937), 325

Deux Anglaises e le continent Eclisse, Z’(M. Antonioni, 1962),

(F. Truffaut, 1971), 158 Dickens, Charles, 364 Diderot, Denis, 39, 91 Dies irae (C.Th. Dreyer, 1943), 77, 80-82 Dietrich, Marlene, 97, 145, 154, 169, 178, 215, 309 Dishonoured (J. Von Sterneberg, 1931), 309 Disney, Walt, 200, 332 Donen, Stanley, 181 Doniol-Valcroze, Jacques, 40, 58 Donner, Clive, 180 Dos Passos, John, 295 Dostoevskji, Fedor, 84, 91, 336, 367 Double Indemnity (B. Wilder, 1944), 221

214 Edwards, Blake, 163, 180, 192 Ein blonder Traum (P. Martin, 1932), 319 Einstein, Carl, 45 Eisenhower, Dwight, 62 Eisenstein, Sergei M., 8, 10, 135, 155, 189, 169, 235 243, 245, 249, 259, 340, 342 Eisholtz, Lutz, 189 Eisner, Lotte, 115, 117, 159, 315, 336 El (L. Bufiuel, 1952), 133 s., 139 El Dorado (H. Hawks, 1967), 146 El Greco, 249 Eléna et les hommes (J. Renoir, 1956), 246

406

INOICE DEI TITOLI E DEI NOMI

Femme mariée, Une (J.-L. Go­

Ellington, Duke, 186 Emigholz, Heinz, 243

Emil un die Detective (G. Lamprecht, 193D, 163 Engel, Erich, 338 Enright, Ray, 162,

Ensayo de un crimen (L, Buftuel, 1955), 163 Epstein, Jean, 98, 135 Eraserhead (D. Lynch, 1978), 252 Ermler, Friedrich, 188 Et Dieu créa la femme (R. Va­ dim, 1956), 54 Eustache, Jean, 51 s., 55, 128, 177, 186 Every Day’s a Holiday (A. E. Sutherland, 1937), 73 Executioner, The (S. Wana­ maker, 1969), 197 Exile, The (M. Ophuls, 1947), 309

Fairbanks, Douglas, 103, 188, 190, 199 Falkner, John Meade, 193 Fanck, Arnold, 92, 97 Fantasia (W. Disney, 1940), 200 Fantóme de la liberté, Le (L. Buftuel, 1974), 133 Farrebique (G. Rouquier, 1946), 45 Fauchois, René, 351 Faulkner, William, 143-146, 176, 207 Faure, Elie, 98 Femme de l’aviateur, La (E. Rohmer, 1980), 277 Femme est une Femme, Une (J.L Godard, 1961), 64, 66

dard, 1964), 36, 59, 62, 155 Femsehgercht tagt, Das (J. Bijl), 189 Feuillade, Louis, 335 Fields, W.C., 156, 160, 332, 344, 354, 363, 365, 385 Fig Leaves (H. Hawks, 1926), 145

Finanzen des Gross Herzogs (F.W. Murnau, 1923), 331 Fisher, Terence 153 Flaherty, Robert J., 42 Flaubert, Gustave, 302 Fleischer, Max, 156 Fleischmann, Peter, 176 Fleming, Rhonda, 190 Flynn, Errol, 159, 190 Foolish Wives (E. von Stroheim, 1921), 327 Forbidden Paradise (E. Lubit­ sch, 1924), 125 Ford, Glenn, 166 Ford, John, 153, 156, 168, 179, 183, 247 Forst, Willi, 306, 319 Forty Guns (S. Fuller, 1957), 222 Fosse, Bob, 181 Foucault, Michel, 165, 177

France tour detour deux enfants (J.-L. Godard, 1977/78), 33 Franju, Georges, 37

French Cancan (J.

Renoir, 1955), 198 Freud, Sigmund, 67, 79 s., 82, 108, 235, 291, 355, 379 Freund, Karl, 60, 305 Frozen North, The (B. Keaton, 1922), 356

407

FRIEDA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 19612000

Frusta e il corpo, La (M. Bava. 1963), 156 Fuller, Dale, 192 Fuller, Samuel, 25, 27, 231, 219, 220 s., 222, 297 Furthman, Jutes, 53 Fussli, Johan Heinrich, 265

Gange, Abel, 62, 135 Garbo, Greta, 110, 157 Garmes, Lee, 215 Gaudi, Antoni, 211 Gauguin, Paul, 265 Gay Divorcee, The (M. Sandri­ ch, 1934), 337 Gégauff, Paul, 40 General, The (B. Keaton, 1926), 358 Genou de Claire, Le (E. Roh­ mer, 1970), 46, 265 Gente del Po (M. Antonioni, 1943-1947), 294 Gentleman Jim (R. Walsh, 1942), 159, 161, 184, Germania anno zero (R. Ros­ sellini, 1948), 297, 301 Gert, Valeska, 115 Gertrud (C.Th. Dreyer, 1964), 75, 77, 79, 83 Gbost and Mrs. Muir, The (J. Mankiewicz, 1947), 371 s., 377, 379, 387, 389 Gibbons, Cedric, 333 Gigi (V. Minnelli, 1958), 169 Giraudoux, Jean, 26 Girl can't Help It, The (F. Tash­ lin, 1956), 365 Gish, Lillian, 171, 189 Godard, Jean-Luc, 11, 16-22, 24 s., 27-29, 31-34, 36 s., 39, 42-45, 48, 50, 53, 57-68, 155,

160, 172, 196, 216, 219, 242 s., 251, 254 s., 268, 284, 291, 321. 327, 355, 359, 365, 367, 372 Godelureaux, Les (C. Chabrol, 1969), 37, 284 Godfather, The (F.F. Coppola, 1972), 171 Goebbels, Joseph Paul, 93 Goethe, Wolfgang von, 107, 240, 257, 266 s., 276 s. Goin' to Town (A. Hall, 1935), 186 Gold Rush (C. Chaplin, 1925), 199 Golden Hawk, The (S. Salkow,1952), 190 Goldwyn, Edmund, 229

Golem, wie er in die welt kam, Der(P. Wegener, 1920), 157 Grand Hotel (E. Goulding, 1932), 335, 339

Grande illusion, La (J. Renoir, 1937), 170, 172 Granichstaedten, Bruno, 308 Grant, Cary, 148 s., 158, 185 Gray, Mike, 194 Great Dictator, The (C. Cha­ plin, 1940), 60, 199 Great Race, The (B. Edwards, 1964), 163 Great Sinner, The (R. Siodmak, 1949), 336 Greed (E. von Stroheim, 1924), 245. 315 Gregor, Nora, 81, 307 Gremlins (J. Dante, 1984), 367 Griffith, David W., 129, 161, 167, 169, 171, 184, 315 Gropius, Walter, 143 Guattari, Felix, 177

408

INDICE DEI TITOLI E DEI NOMI

Guernica (A. Resnais, 1950),

Histoires d'Amérique (C. Aker­

244 Guitry, Sacha, 62, 66, 325 s., 329 s., 333, 361-363

man, 1990), 230 Hitchcock, Alfred, 28, 36, 42, 46, 48 s., 61, 63, 66, 123, 158, 162, 164 s., 168, 176, 252, 258, 264-277, 336, 359, Haas, Willy, 305 378 Hands Across Tbe Table (M. Hitler, Adolf, 93-95, 288, 291 Leisen, 1935), 325, 332 Hoffmann, E.T.A., 119, 290 Harbou, Thea von, 305 Hofmannsthal, Hugo von, 99, Hardy, Oliver, 221 318 Hart, William S., 356 Home from the Hill (V. Minnel­ Hartung, Hugo, 265 li, 1960), 261 Hatari! (H. Hawks, 1962), 146 Hawks, Howard, 53, 63, 141- Homme de Rio, L' (P. de Broca, 1963), 199 150, 155, 169,193, 199, 250, Hope, Bob, 366 291, 297, 320, 360 Hopkins, Miriam, 124 Hayward, Susan, 218 Hearts of tbe World (D.W. Grif­ Hopper, Edward, 259 Hòrbiger, Pau), 319 fith, 1918), 169 Horkheimer, Max, 177, 358 Hecht, Ben, 320 Horse Feathers (N. McLeod, Heckroth, Hein, 271, 275 1932), 187 Heerman, Victor, 163 Horton, Edward Everett, 124 Hegel, Georg Wilhelm E, 59, 68 Hugo, Victor, 58, 206 Heilige Berg, Der (A. Fanck, Hustler, (R. Rossen, 1961), 162 1926), 92 Huston, John, 184, 200, 254 Hélia, Jenny, 225 Huysmans, Joris-Karl, 283 Henry, O., 295 Hepburn, Audrey, 189, 336 I Was a Male War Bride (H. Hepburn, Katharine, 196 Hawks, 1949), 148 Harrison, Rex, 386 I'm No Angel (W. Ruggles, Herrmann, Bernard, 378, 385 1933), 185 Herzog, Werner, 168 s. Ich bei Tag und du bei Nacht Hillyer, Lambert, 185 (L. Berger, 1932), 163 Himmler, Einrich, 95 Ich und die Kaiserin (F. Hollan­ Hiroshima mon amour (A, Re­ der, 1933), 319 snais, 1959), 24, 281 s., 286 Ihering, Herbert, 115, 121, 127 His Girl Friday (H. Hawks, Imitation of Life (D. Sirk, 1958), 176 1940), 144, 147 Histoire(s) du cinéma (J.-L. Go­ Ingres, Jean-Auguste, 265 dard, 1994, 1995, 1997), 59, Insel der Seligen, Die (M. Reinhardt, 1913), 159 64-66

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FRIEDA GRAFE • SCRITTI 01 CINEMA 1961 2000

House,

International

The

(1933), 332

Intolerance (D.W.

Griffith,

1916), 167 Irene, 113

It's a Gift

MacLeod, 1934),

364

Ivan Grdznyi (S.M. Eisenstein, 1944), 249 s. Jackson, Mahalia, 176 Jackson, Michael, 256

Jagdszenen aus Niederbayern (P. Fleischmann, 1968), 176 James, Henry, 334, 338, 388 Jannings, Emil, 62, 119, 126, 167 Janowitz, Hans, 289 Jarmush, Jim, 262 Jeremiah Johnson (S. Pollack, 1972), 193 Johnny Guitar (N. Ray, 1954), 216 Joyce, James, 139, 285 s. Judith of Bethulia (D.W. Grif­ fith, 1913), 167 Jules et Jim (E Truffaut, 1961), 23

Kafka, Franz, 314 Kaleidoscope (J. Smight, 1967), 200 Kalmus, Nathalie, 257 Kampfende Herzen (F. Lang), 335 Kant, Immanuel, 68 Karina, Anna, 19 Karlson, Phil, 166 Kat’ka bumaznyj ranet (F. Ermler, 1926), 190 Kazan, Elia, 162, 171, 195 s.

Keaton, Buster, 135, 183, 297, 344, 346 s., 349, 352, 354, 356-359, 363 Kelly, Grace, 273 Kelly, Paula, 181 Kennedy, George, 218 Kid Galahad (P. Karlson, 1961), 166 Kid, The (C. Chaplin, 1921), 297 Kiepura.Jan, 162 King in New York, A (C. Cha­ plin, 1957), 337 King of Comedy (M. Scorsese, 1983), 256 King Steps Out, The (J. von, Sternberg, 1936), 310 Kissin's Cousins (G. Nelson, 1965), 197 Klee, Paul, 242 Kleist, Heinrich von, 96 Klimt, Gustav, 309 Klondike Annie (R. Walsh, 1936), 186 Kluge, Alexander, 27 Kohayagawa-Ke no Aki (Y. Ozu, 1961), 174 Kohthaas, Michael, 76 Kokoschka, Oskar, 309 Kongress tanzt, Der (E. Charell, 1931), 308, 319 Korda, Alexander, 250 Korda, Vincent, 271 Kortner, Fritz, 157, 319 Kracauer, Siegfried, 25, 97 s., 125, 129, 288 s., 290, 292, 316, 319 Kraus, Karl, 314, 316 Kreisler, Fritz, 310 Kubin, Alfred, 290 Kubrick, Stanley, 335 Kurrent, Friedrich, 311

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INDICE DEI TITOLI E DEI NOMI

Ubarthe, André S., 63 s. Ubourdette, Elina, 46 Lacan, Jacques, 26, 100 Ladies’ Man, Tbe (J. Lewis, 1961), 178 Ladri di biciclette (V. De Sica, 1948), 296 Lady from Shanghai, The (O. Welles, 1947), 159 Lady in the Dark (M. Leisen, 1944), 115, 246, 252 Lady Windermere’s Fan (E. Lu­ bitsch, 1925), 115 Laing, Ronald D., 191, 196 Lamprecht, Gerhard, 163 Lancaster, Burt, 182 Lancelot du Lac (R. Bresson 1974), 87, 88 Ung, Fritz, 10, 81, 135, 154, 158, 165, 167, 190, 192 s„ 290, 305, 327, 335 Langdon, Harry, 348 s., 353 Unglois, Henri, 23, 63, 143 Last Picture Show, The (P. Bog­ danovich, 1971) 171 Uszlo, Nikolaus, 318 Uttuada, Alberto, 297 Laura (O. Preminger, 1944), 321 Uurel, Stan, 221 Leander, Zarah, 193 Ledoux, Jacques, 231 Leduc, Paul, 191 Lee, Christopher, 156 Leenhardt, Roger, 39, 45, 62 Legend of Lylab Clare, The (R. Aldrich, 1968), 178 Léger, Fernand, 299 Leigh, Vivien, 59 Leisen, Mitchell, 246-248, 258, 318, 325, 332 s.

Lemmon, Jack, 163, 325 Lengyel, Menyhert, 318 Les Krimes, 226

Let the Good Times Roll (S. Le­ vin, R. Abel, 1973), 184

Letter from an Unknown Wo­ man (M. Ophuls, 1948), 104, 108, 309

Lettre à Freddy Buache (J.-L. Godard, 1984), 242

Letzte Mann, Der (F.W. Mur­ nau, 1924), 336, 339 Levin, Sid, 184 Levy, Raoul, 40 Lewis, Jerry, 153, 160, 177, 250 s., 338, 340 s„ 359, 366 Lewis, Joseph S., 323 Lichnowsky, Mechtilde, 10 Liebelei (M. Ophuls, 1932), 101, 104, 106, 307-309 Lied einer Nacbt, Das (A. Lit­ vak, 1932), 162 Lilith (R. Rossen, 1964), 179 Linder, Max, 345 s. List ofAdrian Messenger, The (J. Huston, 1962), 200 Litvak, Anatole, 162 Lloyd, Frank, 312 Lloyd, Harold, 141, 348 Loia (J. Demy, 1961), 46 Lola Montès (M. Ophuls, 1925), 107 Loos, Adolf, 103, 312 Loos, Theodor, 157 Lorre, Peter, 157 Losey, Joseph, 179 Love Happy (D. Miller, 1950), 157 Love in the Afternoon (B.- Wil­ der, 1957), 325 Love parade (E. Lubitsch, 1929), 125

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FRIEDA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

Love With the Proper Stranger Man from Laramie, The (A. (R. Mulligan, 1963), 175 Lubitsch, Ernst, 33, 110-117, 119, 121, 123-126, 128-130, 161, 164, 229, 316-318, 322, 324-327, 330, 333, 336, 347, 361 s., 385 Lukacs, Gyorgy, 93 Lumière, fratelli, 284, 289, 343 Lusty Men, The (N. Ray, 1983), 215, 217 Lynch, David, 252

M (F. Lang, 1931), 167, 305 Ma nuit chez Maud (E. Roh­ mer, 1969), 46, 265, 305

Macbeth (O. Welles, 1948) 159 MacDonald, Jeannette, 129, 317 Macherey, Pierre, 178 Machorka-Muffi (J.M.StraubD.Huillet, 1963), 205 MacLaine, Shirley, 165, 181 Macunaima (J.P. de Andrade, 1969), 176 Madame de ... (M. Ophuls, 1953), 102, 104, 108 Mddchen in Uniform (L. Sagan, 1931), 167 Mddchen Rosemarie (R. Thiele, 1958), 338 Made in Usa (J.-L. Godard, 1966), 27, 251 Magritte, René, 301 Maine-Ocèan (J. Rozier 1985), 47 Malle, Louis, 24 Mallet-Stevens, Robert, 328 s. Malraux, André, 23, 38 s. Maman et la putain, La (J. Eu­ stache, 1973), 177, 180 Mamoulian, Rouben, 333

Mann, 1955), 153

Man Who Shot Liberty Valance, The (J. Ford, 1962), 60 Man Without a Star (K. Vidor, 1955), 174

Man's Favorite Sport?

(H.

Hawks, 1963), 145, 155 Mankiewicz, Joseph Leo, 161, 372 s., 380, 385, 387-390 Mann, Anthony, 45, 153 Mann, Heinrich, 284 Mann, Thomas, 283 Mansfield, Jayne, 48 Margin for Error (O. Premin­ ger, 1943), 322 Mariée était en noir, La (F. Truffaut, 1968), 166, 170 Marker, Chris, 197 Mamie (A. Hitchcock, 1964), 258 Marquise von O. (E. Rohmer, 1976), 265 Marriage Circle, The (E. Lubit­ sch, 1924), 318 Marshall, George, 160, 187, Martin, Dean, 160, 165, 199 Marvin, Lee, 154 Marx Brothers, 23, 82, 157, 160, 163, 183, 191 s., 284, 354 s., 347 Marx, Chico, 284 Marx, Groucho, 347 Marx, Harpo, 354, 366 Masculin féminin (J.-L. Go­ dard, 1966), 59 Maskerade (W. Forst, 1934), 306 Mason, James, 103 Master of Ballantrae, 'The (W. Keighley, 1953), 190

412

INDICE DEI TITOLI E DEI NOMI

Matisse, Henri, 226, 242, 265, 275 s. Mature, Victor, 164 Maupassant, Guy de, 103 Maurier du, Daphne, 378 Mauss, Marcel, 49 Max cocker defiacre (M.Linder, 1912), 345 Max et sa belle-mère (M. Linder, 1910), 345 Max et son chien Dick (M. Lin­ der, 1912), 345 Max fait du ski (M. Linder, 1910), 345 Max hypnotise (M. Linder, 1910), 345 Max professeur de tango (M. Linder, 1912), 345 May, Joe, 305 May, Mia, 305 Mayer, Carl, 229, 289, 305 McCarey, Leo, 73, 160 s., 183 McGuire, Don, 178 McLaglen, Andrew V., 183 McLeod, N.Z., 163, 187 Meili, Gaudenz, 244 Méliès, Georges, 29, 57, 245, 289, 292 Melville, Jcan-Pierre, 43 Menjou, Adolphe, 121 Menscben am Sonntag (R. Siodmak, E.G. Ulmer, F. Zinnemann, 1930), 305 Menzies, Cameron, 333 Mépris, Le (J.-L.Godard, 1963), 19, 219 Merleau-Ponty, Maurice, 48 Merry Widow, The (E. Lubitsch, 1934), 128 Merry Widow, The (E. von Stroheim, 1925), 315, 317

Merz, Gerhard, 243

Metropolis (F. Lang, 1926), 327, 305 Mcyrink, Gustav, 290 Michelet, Jules, 65 Micheli, Ivo B., 177 Midnight (M. Leisen, 1939), 325, 331 Miéville, Anne-Marie, 67 Mikael (C.Th. Dreyer, 1924), 76 s., 79, 81 Miller, David, 157 Miller, Henry, 169 Million Dollar Legs (E. Cline, 1932), 161 Minnelli, Vincente, 165, 169, 247, 250 s. Miro, Joan, 353 Mistons, Les (F. Truffaut, 1957), 284 Mitchum, Robert, 217 s., 236, 261 Mizoguchi, Kenij, 384 Modern Times (C. Chaplin, 1936), 153 Molière, 62 Molnar, Ferenc, 318 Money from Home (G. Mar­ shall, 1953), 160 Monkey Business McLeod, 1931), 163 Monroe, Marilyn, 97 Montana (R. Enright, 1950), 162 Montand, Yves, 65 Monte Carlo (E. Lubitsch, 1930), 324, 331 Moonfleet (F. Lang, 1955), 190, 192 Moore, Grace, 310 Morin, Edgar, 40

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FRIEDA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 1961 2000

North West Mounted Police

Morrissey, Paul, 187 Moser, Hans, 313

Mot de Cambronne, Le (S. Gui­ try, 1936), 362 Mouchette (R. Bresson, 1967), 88 Moullet, Luc, 25 s. Moving Target, Tbe (J. Smight, 1965), 200 Mr. Arkadin (O. Welles, 1955), 159 Mulligan, Robert, 175

Murder of Fred Hampton, Tbe (M. Gray, 1970), 194 Murnau, Friedrich Wilhelm, 10, 60, 62, 115, 135, 145, 245, 249, 274, 331, 336, 339, 384 My Darling Clementine (J. Ford, 1946), 156, 183

Naipaul, Vidiadhar, 10 Nestler, Peter, 173, 177 New York Stories (M. Scorsese, 1989), 256 Newman, Paul, 162, 182, 270 s., 274, 276 Newton, Isaac, 240, 270 Nibelungen, Die (F. Lang, 1924), 305, 327 Nicholson, Jack, 213

Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondem die Situation, in der er lebt (R. von Praunheim, 1971), 154,166 Nicht versòbnt (J.-M. Straub, 1966), 205, 209 Niemandsland (V. Trivas, 1931), 167 Nietzsche, Friedrich W., 76 Ninotchka (E. Lubitsch, 1939), 110, 325, 331

(C.B. DeMille, 1940), 183 (F. W. Murnau, 1922), 92, 245 Notorious (A. Hitchcock, 1946), 158, 273 Novak, Kim, 258 Nuit du carrefour, La (J. Re­ noir, 1932), 291 Nutty Professor (J. Lewis, 1963), 251

Nosferatu

O’Toole, Peter, 180 Oakie, Jack, 161 Offenbach, Jacques, 129, 316 Ohayo (Y. Ozu, 1959), 174 Oktjabr’ (S.M. Eisenstein, 1927), 57 Olimpia (L. Riefenstahl, 1936), 96 Olvidados, Los (L. Bunuel, 1950), 135 Omero, 66 On the Waterfront (E. Kazan, 1954), 171 One plus One (J.-L. Godard, 1968), 160 One, Two, Three (B. Wilder, 1961), 318 Only Angels Have Wings (H. Hawks, 1939), 149 Ophiils, Max, 27, 101-109, 262, 308 384 Ordet (C.Th. Dreyer, 1955), 76 s., 81 s. Ossessione (L. Visconti, 1943), 295 Oswald, Richard, 305 Owens, Jesse, 96 Ozu, Yasujiro, 173 s., 178

Pabst, G.William, 154, 164

414

INDICE DEI TITOLI E DEI NOMI

Pagnol, Marcel, 62, 225 Painlevé, Jean, 8 Paisà (R. Rossellini, 1946), 296298,303 Palance, Jack, 168 Patlenberg, Max, 318 Paris nous appartieni (J. Rivet­ te, 1961), 30 Paris vu par ... (C. Chabrol, J. Douchet, J.L. Godard, J.D. Pollet, E. Rohmer, 1964), 55 Pascal, Gabriel, 250 Passion (J.-L. Godard, 1982), 242

Passion de Jeanne d’Arc, La (C.Th. Dreyer, 1928), 77, 127 Patalas, Enno, 7 Paul Gauguin (A. Resnais, 1950), 244 Pauline à la plage (E. Rohmer, 1983), 241, 265 Paura, La (R. Rossellini, 1954), 301 Pavese, Cesare, 295, 302 Péguy, Charles, 58 s., 63, 65-68 Penn, Arthur, 182 Petit soldat, Le (J.-L. Godard, 1960), 62 Pevney, Joseph, 162 Pflueger, Timothy, 333 Picasso, Pablo, 342 Piccolo Godard (H. Costard, 1978), 299 Pickford, Mary, 111 Pickpocket (R. Bresson, 1959), 88 Pierre et Paul (R. Allio, 1970), 184 Pierrot le fou (J.-L. Godard, 1965), 355

Pilgrim, The (C. Chaplin, 1923), 199

Pink Panther, Tbe(R. Edwards, 1963), 192

Pianos - Testimonio de un etnocidio (M. Rodriguez, J. Silva, 1970), 160 Planchon, Roger, 159 Planer, Franz, 309 Platone, 93 Playtime (J. Tati, 1965), 161 Poe, Edgard Allan, 20 Point Blank (J. Boorman, 1967), 180 Pointe courte, La (A. Varda, 1954), 24 Polglase, Van Nest, 333 Pollack, Sydney, 171, 193 Pommer, Erich, 319 Porten, Henny, 119 Potocki, Jan, 291 Powell, Michael, 271 Praesidenten (C.Th. Dreyer, 1920), 78 Prdstànkan (C.Th. Dreyer, 1920), 79 Praunheim von, Rosa, 154, 166, 303 Preminger, Otto, 172, 198, 314, 320-322 Prentiss, Paula, 180 Presley, Elvis, 166 Pressbuiger, Emeric, 271 Prévert, Jacques, 294 Primer ano, El (Scuola d’arte e di comunicazione dell’uni­ versità cattolica del Cile, 1972), 197 Proust, Marcel, 281 s., 285 s. Psycho (A. Hitchcock, I960), 36, 258, 272

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FRIEOA GRAFE • SCRITTI 01 CINEMA 19612000

Quadrille (S. Guitry, 1937), 325 Quatre nuits d'un rèveur (R. Bresson, 1971), 90

Quatre-cents coups, Les (F. Truffaut, 1959), 23, 28, 284 Racine, Jean, 31

Raging Bull (M.

Scorsese,

1980), 256

Rancho Notorious (F. Lang, 1951), 158 Ranger, Walter, 193 Raphaelson, Samuel, 127 Rasp, Fritz, 157 Ray, Nicholas, 27, 215-219, 240, 247 Ray, Satyajit, 181 Rear Window (A. Hitchcock, 1954), 271, 273 Rebecca (A. Hitchcock, 1940), 164 s. Red Line 7000 (H. Hawks, 1965), 145 Reed - Mexico insurgente (P. Le­ duc, 1971), 191 Reed, John, 191 Règie du Jeu, La (J. Renoir 1939), 44, 166, 171, 351 Reich, Wilhelm, 80, 94 Reik, Theodor, 104 Reimann, Walter, 289 Reinhardt, Max, 115, 159, 311314, 320, 342 Reisch, Walter, 305, 319 Religieuse, La (J. Rivette, 1966), 39 Renoir, Auguste, 220 Renoir, Jean, 22, 27, 30, 41, 44 s., 51 s., 62, 154, 158, 166, 170, 172 s„ 198, 225, 246248, 260 s„ 291, 295, 298, 315, 350, 384

Resnais, Alain, 24, 29, 244, 282, 286 s., 325, 329, 332, 340 Riefenstahl, Leni, 92 s., 95, 97100 Rimbaud, Arthur, 19 Rimmer, David, 162 Rio Bravo (H. Hawks, 1959), 145, 199 Rios, Humberto, 160 Riot in Cell Block 11 (D. Siegel, 1954), 193 Riva, Emmanuelle, 24 River, The (J. Renoir, 1950), 246, 248 Rivera, Chita, 181 Rivette, Jacques, 24, 29-31, 39, 49, 61, 320 Road to Glory, 7be (H. Hawks, 1936), 144 Robbe-Grillet, Alain, 30 Robinson Crusoe (L. Bunuel, 1952), 137 Robinson, Peter, 191 Rodriguez, Marta, 160 Rogers, Ginger, 326, 337 Rohmer, Eric, 24, 28, 31, 38-40, 44, 46, 48 s., 52-55, 61, 63, 136, 141, 218, 242, 245, 252, 264-266, 276 s., 315, 320, 356 s., 365 Ròhrig, Walter, 289 Roma città aperta (R. Rosselli­ ni, 1945), 296 Ronde, La (M. Ophuls, 1950), 102, 104, 106, 108, 308 Rope (A. Hitchcock, 1948), 258, 264, 266 s., 274 Rosita (JL. Lubitsch, 1923), 111 Rossellini, Roberto, 27, 52, 248, 294, 296-301 Rossen, Robert, 162, 179

416

INDICE DEI TITOLI E DEI NOMI

Red Shoes, Tbe (E. Pressburger, M. Powell, 1948), 271 Rouch, Jean, 45, 50, 52 Rouquier, Georges, 45 Rozier, Jacques, 47, 52 Runge, Philipp Orto, 252 Russell, Jane, 97 Russell, Rosalind, 147 e s.

Schloss Vogelòd (F.W. Murnau, 1921), 245

Schlussakkord (D. Sirk, 1936),

168 Schmidt, Lars, 284 Schneider, Magda, 162 Schneider, Romy, 180 Schnitzler, Arthur, 101-104, 307309 Schóne, Albrecht, 240 Sachs, Hanns, 113 Sad Sack, The (G. Marshall, Schroeder, Barbet, 40, 55 Schuhpalast Pinkus (E. Lubit­ 1957), 187 sch, 1916), 347 Sdgfl of Anatahan, Tbe (J. Von Sciuscià (V. De Sica, 1946), 296 Sternberg, 1953), 306 Scorpio Rising (K. Anger, 1963), Sagan, Leontine, 167 179 Saint Joan (O. Preminger, Scorsese, Martin, 254, 256, 259 1957) 320 Scott, Randolph, 153 Saken, Felix, 319 Scott, Walter, 162 Sanda, Dominique, 88 Sea of Grass (E. Kazan, 1947), Sanders, George, 194 196 Sandpiper, The (V. Minnelli, Searchers Q. Ford, 1956), 148 1964), 169 Seberg, Jean, 62 Sanjinés, Jorge, 198 Seggwick, Edward, 183 Saroyan, William, 283 s. Sellers, Peter, 180 Sarraute, Nathalie, 227 Semon, Larry, 358 Sarris, Andrew, 22 Sennett, Mack, 347-350, 352, Sartre, Jean-Paul, 25, 39, 261, 364 287 Senso (L. Visconti, 1954), 284 Saskatchewan (R. Walsh, 1954), Sergeant York (H. Hawks, 165 1941), 149 Sauve qui pent - la vie (J.-L. Shakespeare, William, 119 Godard, 1979), 23, 32 s., 68, Shanghai Express (J. von Stern­ 242 berg, 1932), 154 Scandal in Paris, A (D. Sirk, She Done Him Wrong (L. Sher­ 1946), 194 man, 1933), 72 Scarface (H. Hawks, 1931), Shenandoah (A.V. McLaglen, 142, 1964), 183 Schefer, Jean-Louis, 387 Sherman, Cindy, 226 Schiaparelli, 73 Sherman, Lowell, 73 Schiele, Egon, 309 Shining, ’The (S. Kubrick, Schinkel, Karl Friedrich, 333 1980), 335 417

FRIEOA GRAFE ■ SCRITTI DI CINEMA 1961-2000

Shuftan, Eugen, 179

Staroe i novae (S.M. Eisenstein,

Siamo donne (L. Zampa, L Vi­

1929), 250 Stavisky (A. Resnais, 1973), 325, 329 Stein, Gertrude, 125, 302, 343 Sternberg von, Josef, 145, 154, 158, 167, 178, 215, 229, 289, 305, 310, 323 Stewart, James, 153, 183, 267, 273 Stolz der Firma, Der (E. Lubit­ sch, 1915), 124, 347 Strange Door, The (J. Pevney, 1951), 162 Strasberg, Lee, 162 Straub, Jean-Marie, 101, 173, 205-208, 210 Straus, Oscar, 317 Stroheim, Eric von, 97, 169, 178, 229, 245, 314-317, 323, 327 s. Sturges, Preston, 325, 360 Stiltzen der Gesellschaft (D. Sirk, 1935), 197 Sullivan, Barry, 220 s. Summer Place, A (D. Daves, 1959), 164 Sun Shines Bright, The(], Ford, 1953), Sunrise (F.W. Murnau, 1927), 144, 339 Surfacing on the Thames (D. Rimmer, 1970), 162 Suspicion (A. Hitchcock, 1941), 258, 272, 378 Swanson, Gloria, 307 Sweet Charity (B. Fosse, 1968), 181

sconti, A. Guarini, 1952), 299 Siegei, Don, 193, 195 Sign of the Pagan (D. Sirk, 1954), 168 Signora di tutti, La (M. Ophuls, 1934), 107 Silva, Jorge, 160 Sima, Oskar, 319 Simón del desierto (L. Buftuel, 1965), 134 Simon, Michel, 8, 350 Sinatra, Frank, 165 Siodmak, Robert, 181 s. Sirk, Douglas, 168, 172, 174176, 178, 186, 194, 197, 307 Sleep (A. Warhol, 1966), 299 Slezak, Walter, 307 Smight, Jack, 200 Smiling Lieutenant, The (E. Lu­ bitsch, 1931), 317 Soigne ta droite (J.-L. Godard, 1987), 367 Some Came Running (V. Min­ nelli, 1958), 165, 169 Some Like It Hot (B. Wilder, 1959), 325 Sontag, Susan, 98 Sóshun (Y. Ozu, 1956), 178 Soupault, Philippe, 355 Spada della tigre gialla, La, 160 Speer, Albert, 60 Spione (F. Lang, 1928), 305, 335 St. John, Al, 348 Stack, Robert, 176 Stacka (S.M. Eisentstein, 1924), 155 Stalag 17 (B. Wilder, 1953), 322 Stanwyck, Barbara, 197, 221

Tacchella, Jean-Charles, 39 Tagore, Abanin Dranath, 181

418

INOICE DEI TITOLI E DEI NOMI

Take Me to Town (D. Sirk, 1953), 197 Tarantula (J. Arnold, 1955), 198 Tarnished Angels, The(D. Sirk, 1957), 176, 178 Tartuff (F.W. Murnau, 1925), 62, 339 Tashlin, Frank, 250 s., 359, 365367 Tati, Jacques, 47, 62, 180 7hz«, the Son Of Cochise (D. Sirk, 1953), 186 Tendre ennemie, Im (M. Ophuls, 1938), 105 Terra trema, La (L. Visconti, 1948), 294 Testament d'Orphée, Le (J. Coc­ teau, 1959), 180

Testament des Dr. Mabuse, Das (F. Lang, 1932), 165,

Téle contre les murs, La (G. Franju, 1958), 37 Thalberg, Irving, 229, 315

They Shoot Horses, don't They? (S. Pollack, 1969), 171 Thiele, Wilhelm, 305, 310, 338 Thome, Rudolf, 31 Thorak, Joseph, 95 Three Women (E. Lubitsch, 1924), 113, 128 Tiefland (L. Riefenstahl, 1954), 100 Time in the Sun (S.M. Eisen­ stein, 1932), 155

Time to Love and a Time to Die, A (D. Sirk, 1958), 155 Tirez sur le pianiste (F. Truf­ faut, I960), 28, 283 s. To Be or Not To Be (E. Lubitsch, 1942), 123, 325, 327

To Catch a Thief (A. Hitchcock, 1955), 61, 258

To Have and Have Not (H. Hawks, 1944), 146 Tone, Franchot, 310 Toni (J. Renoir, 1934), 45, 225 Top Hat (M. Sandrich, 1935), 326, 328 Torn Curtain (A. Hitchcock, 1966), 267 s., 270-272, 274 s. Touch of Evil (O. Welles, 1955), 159, 175 Tracy, Spencer, 196 Traidores, Los (R. Gleyzer, 1973), 189 Trauner, Alexandre, 325 Triumph des Widens, Der (L. Riefenstahl, 1934), 93, 97 Trivas, Victor, 167 Trouble in Paradise (E. Lubit­ sch, 1932), 123, 125 s., 324 Trouble with Harry, The (A. Hitchcock, 1955), 258 Truffaut, Francois, 22-24, 26, 28, 32, 38, 40, 48, 55, 61 s., 158, 165 s., 170, 186 ,200, 266, 283 s., 321, 326, 336, 361, 365 Tucholsky, Kurt, 344 Tucidide, 66 Turkin, Ben, 348 Turpin, Ben, 161 Twain, Mark, 87

Ukigusa (Y. Ozu, 1959), 174 Ukigusa Monogalari (Y. Ozu, 1934), 174 Ulmer, Edgar, 305, 314, 320 Ultimo tango a Parigi (B. Ber­ tolucci, 1972), 177

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FRIEDA GRAFE • SCRITTI DI CINEMA 19612000

Umaretewa (Y. Ozu, 1932), 174 Under the Capricorn (A. Hitch­ cock, 1949), 252, 258

Underworld (J. von Sternberg, 1927), 145

Unforgiven, The (J. Huston, I960), 184

Unheil, Das (P. Fleischmann, 1971), 176 Urban, Joseph, 311

Vacances de Monsieur Hulot, Les(j. Tati, 1953), 180 Vaché, Jacques, 353 Vadim, Roger, 54 Vajda, Ernest, 317 Valentin, Karl, 10

Valse brillante de Chopin (M. Ophuls, 1936), 309

Vampyr (C.Th. Dreyer, 1932), 76 s.

Van Gogh (A. Resnais, 1948), 244 Van Gogh, Vincent, 226 VanDerBeek, Stan, 184 Varda, Agnès, 24, 223, 227

Viaggio in Italia (R. Rossellini, 1953), 298 Vidor, King, 174, 295 Viertel, Berthold, 305 Vigo, Jean, 8, 52, 98, 167, Villa, Pancho, 191 Vilmorin, Louise de, 103 Virilio, Paul, 339 Visconti, Luchino, 284, 294 s., 328 Visions of Light (A. Glassman, T. MacCarthy, 1992), 323 Visitors, The (E. Kazan, 1971), 195 Vitti, Monica, 214 Viva l'Italia (R. Rossellini, 1960), 248 Vivre sa vie (J.-L. Godard, 1964), 17, 19, 34, 58, 64 Vaie laetée, La (L. Buftuel, 1968), 134, 137, 139

Voyage à travers {'impossible, Le (G. Méliès, 1904), 245

Variations on a Cellophane Wrapper (D. Rimmer, 1970), 162 Veblen, Thorstein, 329 Veidt, Conrad, 157 Velikij perelom (F. Ermler, 1946), 190 Venetianische Nacht, Eine (M. Reinhardt, 1913), 159 Verebcs, Ernst, 308 Verliebte Firma, Die (M. Ophuls, 1932), 101 Vertigo (A. Hitchcock, 1958), 36, 258, 272 Vertov, Dziga, 301

Wagner, Richard, 162 Walser, Robert, 8 Walsh, Raoul, 73, 159, 165, 184, 186 Walzerkrieg (W. Thiele, 1933), 319 Wanamaker, Sam, 197 Warhol, Andy, 187, 243, 303 Warm, Hermann, 289, 292 Warren, John, 269, 275 Warshow, Robert, 297 s., 303 Way Down East (D.W. Griffith, 1921), 169, 171 Wayne, John, 65, 153, 199 Wedding March (E. von Stroheim, 1926), 309 Wedekind, Frank, 167, 342

420

INDICE DEI TITOLI E DEI NOMI

Weekend (J.-L. Godard, 1967), 35, 251 Wegener, Paul, 157 Weib des Pharao (E. Lubitsch, 1920), 125 Welles, Orson, 30, 39, 63, 159, 171, 175, 226, 314, 341 Wellman, William, 183, 193 Wenders, Wim, 27, 217, 262 Werter (M. Ophùls, 1938), 107, 109 Wessely, Paula, 306 West, Mae, 71-74, 156, 185, 364 Westfront 1918 (G.W. Pabst, 1933), 164 Westward the Women (W. Well­ man, 1951), 183 What’s New, Pussycat? (C. Don­ ner, 1965), 180 What’s Up, Doc?(J?. Bogdanovi­ ch, 1972), 171 Which Way to the Front? (J. Lewis, 1970), 153 White, Pearl, 185 Who framed Roger Rabbit (R. Zemeckis, 1988), 367 Wiene, Robert, 289 s. Wigman, Mary, 99 Wild One, The (L. Benedek, 1954), 179 Wild Rovers (B. Edwards, 1972), 180 Wilde, Oscar, 115 Wilder, Billy/Billie, 53, 104,

213, 221, 305, 314 s., 318320, 325, 333, 336, 359 Wind Across the Everglades (N Ray, 1958), 217 Wise, Robert, 168 Wittgenstein, Ludwig J., 252 Wohlbruck, Adolf, 306 Woman of Paris (C. Chaplin, 1925), 121 Women (A. Warhol, P. Morris­ sey, 1971), 187 Woolf, Virginia, 281, 285 Wright, Frank Lloyd, 327, 340 Wright, Richard, 295 Written on the Wind (D. Sirk, 1956), 178, 197 Wyler, William, 63

Yawar Mallku (J. Sanjinés, 1969), 198

You Can’t Take It With You (F. Capra, 1938), 166

Young One, The (L. Buhuel, 1960), 137, 181

Zavattini, Cesare, 294, 299

Zèro de conduite (J. Vigo, 1933), 167 Ziegfeld, Florenz, 311 Zinnemann, Fred, 305 Zukor, Jerry, 124, 229 Zwartziek (J. Bijl, 1972), 189 Zweig, Stefan, 103

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Dopo Cinema-La creazione di un mondo (le Mani 2001 ». la Cineteca di Bologna prosegue nell.» ricerca e nella traduzione di importanti scritti inter­ nazionali di cinema, che non Iranno tino ad oggi trovato un’edizione italia­ na l na sene editoriale che si propone di rendere finalmente accessibili con­ tributi e uni di autentico rilievo per il loro contributo storico come per la singolarità e densità dell'esperienza critica che rappresentano.

Frieda Grate (Mulheim an der Mohe, 1934), voce appartata e inconfondibile della critica europea, è la più autorevole e la più singolare saggista di cine­ ma di lingua tedesca. Fondamentale, fin dagli anni Sessanta, la sua funzione di interprete intermediario di tendenze e teorie, dalla nouvelle vague al neo­ realismo illuminanti le incursioni nel cinema del passato, affidate perlopiù a esemplari -pagine di cinema- sul quotidiano -Sùddeutsche Zeitung- e sulla rivista -Filmkritik- Luc ida osservatrice del rapporto tra i sessi (che la porta a riconoscere, con geniale sintesi, come -ogni commedia di Hawks sia un film di guerra-), indagatrice del dato materiale sensuale del cinema (luce, colore, voce). Grafe ha mantenuto teso, negli anni, il filo della riflessione sulla domanda essenziale: che cos e il cinema. Il suo lavoro si potreblx- con buone ragioni inserire nella scia del grande essay tedesco, di scuola kracaueriana e benjaminiana; leggendo, per la prima volta in edizione italiana, i testi di que­ sta raccolta, si è portati a pensare di lei. come lei stessa ha scritto di Max Ophùls. che -come ogni grande artista, quello che fa lo fa senza rete».

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