Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart 8857524930, 9788857524931

Lo studio analizza la nozione di relazione che Meister Eckhart delineò nei suoi scritti latini, prendendo parte a quella

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart
 8857524930, 9788857524931

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Lo studio analiua la nozione di relazione che Meister Eckhart delineò nei suoi scritti latini, prendendo parte a quella densa discussione sorta tra il Xli e il Xlii secolo intorno alla categoria che Aristotele aveva definito xp6ç 'tt, vale a dire: in relazione ad alterum; una discussione che coinvolgeva tutti gli ambiti della filosofia, muovendosi tanto sul piano gnoseologico quanto su quello antologico, non meno che su quello teologico. L'indagine si svolge attraverso la lettura dei luoghi cruciali dell'opera latina in cui il maestro domenicano tedesco definì il concetto di relatio, e ripercorre in questo modo le diverse fasi e i diversi aspetti della sua teoria: a partire dagli anni delle prime Quaestiones parisienses sino alle ultime formulazioni in Expositio s. evangelii sec.lohannem. Viene proposto inoltre un commento analitico delle Quaestiones parisienses VII, VIli e IX di recentissima edizione, in cui Meister Eckhart discuteva dalla cattedra di Parigi proprio il problema della relazione. Chiara Paladini si occupa di Storia della filosofia medievale. È dottore di ricerca in Filologia ed ermeneutica del testo presso l'Università del Salento in cotutela con il Thomas-lnstitut di Colonia, dove ha lavorato sulla dottrina della relazione di Meister Eckhart Ancora su Meister Eckhart il contributo "frater Thomas dicitn: Eckhart e Tommaso d'Aquino, apparso nell'ambito del progetto Studi sulle fonti di Meister Eckhart diretto da Loris Sturlese.

Mimesis Edizloai Filosofie VMif.mimesisedizioni.�

12,00 euro

FILOSOFIE N. 337 Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) e Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) COMITATO SCIENTIFICO

Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como) Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como) Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3) Morris L. Ghezzi (Università degli Studi di Milano) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Giovanni Invitto (Università degli Studi di Lecce) Enrica Lisciani-Petrini (Università degli Studi di Salerno) Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna) Paolo Perticari (Università degli Studi di Bergamo) Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari) Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari) Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis) Antonio Valentini (Università di Roma La Sapienza) Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

CHIARA PALADINI

SUL CONCETTO DI RELAZIONE NEGLI SCRITTI LATINI DI MEISTER ECKHART

MIMESIS Filosofie

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Filosofie, n. 337 Isbn: 9788857524931 © 2014 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383

INDICE

INTRODUZIONE 1. Cenni storici alla discussione sulla relazione 2. Sulla necessità di uno studio sulla dottrina della relazione di Meister Eckhart

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I LA RELAZIONE E IL RUOLO COSTITUTIVO DELL’INTELLECTUS. LA PRIMA QUESTIONE PARIGINA E IL SERMO I SULL’ECCLESIASTICO 1. L’unità divina nell’identità di soggetto e oggetto di conoscenza 2. L’Intelletto in quanto tale come principio 3. La realtà della relazione 4. Il doppio aspetto della dimensione dell’Intellectus 5. L’estraneità della relazione rispetto alla sostanza 6. La relazione d’origine 7. La teoria della relazione nella metafisica dell’Intelletto

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II LO STATUS ONTOLOGICO DELLA RELAZIONE IN EXPOSITIO LIBRI EXODI 1. I generi predicamentali 2. L’eccezionalità della categoria della relazione 3. La conoscenza in quantum qualitas 4. La relazione in divinis e la relazione in creaturis 5. La dinamica creativa: una dinamica relazionale

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III IL CONFRONTO CON I CONTEMPORANEI 1. Cenni alla discussione 2. Le Quaestiones parisienses degli anni 1313/1314

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3. Il significato delle Questioni sulla relazione nel contesto della discussione con i contemporanei e nella filosofia eckhartiana IV LA RELAZIONE DI FILIAZIONE IN EXPOSITIO SANCTI EVANGELII SECUNDUM IOHANNEM 1. “In principio erat verbum”: l’‘intimità’ della ratio 2. “unigenitus, qui est in sinu patris, ipse enarravit”. Di nuovo sulla ratio: verbo e immagine 3. L’unità del circolo intellettuale. I trascendentali “ens”, “verum”, “bonum” 4. Paternità e filiazione come espressione di relazione intellettuale CONCLUSIONE. LA DOTTRINA DELLA RELAZIONE DI ECKHART NEL SUO TEMPO 1. I due momenti della relazione nella dottrina di Tommaso 2. Le interpretazioni di Meister Eckhart e Tommaso a confronto

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BIBLIOGRAFIA

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INDICE DEI NOMI

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INTRODUZIONE

1. Cenni storici alla discussione sulla relazione L’ordinamento ontologico stabilito da Aristotele prevedeva che la relazione fosse una categoria, una determinazione accidentale che dicesse dell’ente la sua proprietà di “relativo”, ovvero di essere πρóς τι, in relazione ad un altro1. E dal momento che gli enti si relazionano tra di loro ciascuno in ragione delle sue proprietà inerenti, la relazione era l’unico predicamento a fondarsi, invece che direttamente nella sostanza, in un altro accidente – come la qualità o la quantità; ed era pertanto quello che tra tutti possedeva l’essere di grado più debole: I relativi meno di ogni altra cosa costituiscono una natura determinata o sostanza, e inoltre vengono dopo la qualità e la quantità (…) Il segno del fatto che il relativo non è affatto una sostanza né una cosa che esiste, è che esso solo non ha una forma di generazione e di distruzione e neppure di movimento che sia sua propria2.

Le relazioni fondate nella potenza e nell’atto costituivano così i rapporti causali tra sostanze come il fuoco e ciò che da questo viene riscaldato. Le relazioni fondate nell’unità della qualità di due o più enti davano invece luogo ai rapporti di somiglianza; quelle fondate nell’unità della quantità ai rapporti di uguaglianza. E tuttavia Aristotele annoverò tra i relativi anche entità come l’oggetto di conoscenza, di misura o di pensiero, dei quali la categoria della relazione non si poteva considerare una proprietà inerente, dato che tali enti non sono in sé relativi; essi vengono piuttosto posti in relazione da un intelletto conoscente o misurante, e pertanto solo qualificati come tali3. 1 2 3

Aristoteles, Categ. c. 7, 6a, 36-37; c. 7, 8a, 31-32. Aristoteles, Met, XIV, 1088 a I, 22. Traduzione italiana a cura di Carlo A. Viano, UTET, Torino 2005. Aristoteles, Met. V, 1020 b I, 26-1021 b I, 11.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

Come lo stesso Eckhart tenne a precisare in una Quaestio4 in cui si discutevano esattamente i complicati e durevoli risvolti di questa implicita distinzione tra relazioni reali e relazioni puramente logiche, Aristotele operava con il concetto di “relativo” e non ancora con quello di “relazione”. Diverso fu infatti il discorso per i neoplatonici5, che affiancarono alla nozione di πρóς τι quella di σχέσις (relazione), ereditata dagli Stoici, e che formularono il rapporto tra “relazione” e “relativo” in modo più articolato e preciso. Mentre la dottrina stoica aveva assegnato al “relativo” carattere puramente denominativo, perchè considerava tutte le relazioni come il puro risultato dell’operazione comparativa del pensiero, la lettura neoplatonica rivendicava la realtà dei relativi; i quali, sebbene privi di una materia loro propria e dunque di un’esistenza sensibile, erano certo oggetto d’intellezione piuttosto che di percezione, ma non per questo meno reali: della somiglianza tra Socrate e Platone l’occhio percepisce le rispettive qualità sensibili in virtù di cui i due soggetti si somigliano, e non invece la relazione in sè; e tuttavia tale relazione di somiglianza è reale, nella misura in cui collega realmente tra di loro Socrate e Platone. Convinti del valore ontologico e non solo linguistico-concettuale della tavola categoriale, Porfirio6, Simplicio7, ma anche Ammonio8, Filopono9, Olimpiodoro10 ed Elia11, intesero la categoria della relazione come una forma realmente esistente in ciascun termine di 4

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Eckhardus, Quaest. Par. n. 12, LW I,2, p. 467,29: “Philosophus numquam posuit talem distinctionem secundum dici et secundum esse. Ideo dico quod talis distinctio bene invenitur de relativis, sed non de relatione. Item falsum est quod relatio realis non possit fundari in substantia”. Sulla dottrina neoplatonica della relazione cf. A. Conti, La teoria della relazione nei commentatori neoplatonici delle Categorie di Aristotele, in: Rivista critica di storia della filosofia 38 (1983), pp. 259-283. Porphirius, In Cat. 15-8, Isagoge et in Aristotelis categorias, A. Busse, C.A.G. IV, 1 (Berlin 1887), p. 124. Simplicius, In Cat. 6-8, In Aristotelis categorias commentarium, C. Kalbfleisch, C.A.G. VIII (Berlin 1907), p. 161. Ammonius, In Cat. 15-6, In Aristotelis categorias commentarius, A. Busse, C.A.G. IV, 4 (Berlin 1895), p. 66. Philoponus, In Cat. 31-2, In Aristotelis categorias commentarium, A. Busse, C.A.G. XIII, 1 (Berlin 1898), p. 102. Olympiodorus, In Cat. 30-1, Prolegomena et in categorias, A. Busse, C.A.G. XII, 1 (Berlin 1902), p. 97. Eliae, In Cat. 34-206, in Porphyrii Isagogen et Aristotelis categorias commentaria, A. Busse, C.A.G. XVIII, 1 (Berlin 1900), p. 205.

Introduzione

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rapporto, e in grado di riferire l’una all’altra due o più sostanze distinte12. E tuttavia, l’unico commento tardo-antico alle Categorie ad esser conosciuto lungo tutto il medioevo fu quello di Boezio. Questi veicolò nell’occidente cristiano gli strumenti linguistico-concettuali, attinti alla filosofia platonica e aristotelica, necessari per districarsi in un’indagine che si svolgeva nel contempo sul piano ontologico e gnoseologico: la distinzione tra relativum secundum dici e relativum secundum esse, giunta ai medievali attraverso il commento boeziano, esprimeva la differenza tra termini detti relativi (come l’oggetto di scienza cui si relaziona il conoscente) e termini che sono invece relativi nel loro essere (come padre e figlio, i quali si richiamano reciprocamente e non sarebbero tali l’uno senza l’altro). Nondimeno il problema della relazione era anche teologico, perchè l’urgenza scolastica dell’accordo fra esegesi aristotelica e dottrina teologica richiedeva una riconsiderazione della relazione come “accidente”, innanzitutto in vista della sua applicazione al mistero di un Dio uno e trino: l’opuscolo boeziano De trinitate, che indagava il dogma cristiano per mezzo delle categorie di sostanza e relazione, circolava diffusamente già nel IX secolo13.

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Cf. A. Conti, op. cit., p. 275. Le opere di logica, ivi compresi i commenti, iniziarono a circolare regolarmente solo in un secondo momento rispetto alle opere teologiche, che tuttavia segnarono, per il loro linguaggio tecnico, l’inizio dello sviluppo della logica nel medioevo. Gli Opuscula sacra e il De consolatione philosophie videro ampia diffusione già nel IX secolo. I commenti boeziani si diffusero all’inizio del X secolo, eccezion fatta per il commento alle Categorie di Aristotele. Quest’ultimo iniziò invece a circolare stabilmente solo nel secolo XI-prima metà del XII, insieme alle monografie (De syllogismis categoricis, Introductio ad syllogismos categoricos, De differentiis topicis), a partire da Gerberto. Nell’XI secolo-inizi XII si assiste finalmente ad un uso generalizzato dei trattati della logica vetus e della Dialectica Boetii, non meno che alla rielaborazione delle opere boeziane, come quella da parte di Abelardo: in questo arco di tempo le monografie e i commenti boeziani costituirono i testi fondamentali della formazione filosofica. Per una descrizione dettagliata della diffusione delle opere di Boezio cf. L. Obertello, Severino Boezio, Accademia ligure di scienze e lettere, Genova 1974. Sull’eredità boeziana nell’universo linguistico-concettuale del medioevo cf. M. Grabmann, Die Geschichte der scholastischen Methode, nach den gedruckten und ungedruckten Quellen bearbeitet von Martin Grabmann. Erster Band: Die scholastische Methode vom

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

Quando sopraggiunse la traduzione del commento di Simplicio ad opera di Guglielmo di Moerbeke, intorno agli anni 60 del XIII secolo, il medioevo aveva insomma già assimilato la dottrina delle categorie e l’aveva elaborata sulla base delle nuove esigenze contemporanee. Il terzo fra i modelli di relazione annoverati da Aristotele, quello tra conoscente e conosciuto, era stato definito relatio per accidens, dal momento che qui solo uno dei due termini si presenta realmente relazionato all’altro14; ed era così divenuto il paradigma tradizionale esplicativo della relazione tra l’uomo e Dio15, poiché ben si prestava ad esprimere le caratteristiche di un rapporto irreciproco, in cui cioè solo la creatura fungesse da sostrato reale di relazione. In Dio, il terminus ad di questo rapporto, la categoria della relazione non ha invece alcun fundamentum reale in cui originarsi, perchè la sua sostanza è priva di qualsiasi determinazione accidentale. Proprio come la pietra non ha alcuna relazione reale al geologo ma viene posta in relazione con esso solo in quanto ne costituisce l’oggetto di conoscenza, così Dio sarà riferibile all’uomo solo attraverso una relazione di ragione, puramente logica. L’eccezionalità della categoria della relazione, ovvero la concomitanza dei due momenti, quali l’inerenza ad un termine (esse in) e la riferibilità a quello che le si contrappone (esse ad), era stata variamente interpretata. Tommaso d’Aquino aveva evitato di accentuare troppo la natura reale della relazione; egli attribuì a tutte le categorie un esse ed una ratio, che esprimevano rispettivamente la condi-

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ihren ersten Anfängen in der Väterliteratur bis zum Beginn des 12. Jahrhunderts, Akademie Verlag, Berlin 1957. Le relazioni per accidens si distinguevano dalle relazioni per se, ovvero quelle di somiglianza e uguaglianza, in cui i termini si riferiscono reciprocamente l’uno all’altro. Cf. per esempio Thomas Aquinas, De pot. q. 7 a. 11: “Dicendum quod sicut realis relatio consistit in ordine rei ad rem, ita relatio rationis consistit in ordine intellectuum; quod quidem dupliciter potest contingere: uno modo secundum quod iste ordo est adinventus per intellectum, et attributus ei quod relative dicitur; (…) Quandoque vero accipit aliquid cum ordine ad aliud, in quantum est terminus ordinis alterius ad ipsum, licet ipsum non ordinetur ad aliud: sicut accipiendo scibile ut terminum ordinis scientiae ad ipsum; et sic cum quodam ordine ad scientiam, nomen scibilis relative significat; et est relatio rationis tantum. Et similiter aliqua nomina relativa Deo attribuit intellectus noster, in quantum accipit Deum ut terminum relationum creaturarum ad ipsum; unde huiusmodi relationes sunt rationis tantum”.

Introduzione

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zione reale propria di ogni accidente, data dall’inerenza, e il suo relativo modo di essere logico, astratto dall’intelletto durante la conoscenza. In conformità con la dottrina aristotelica, Tommaso stabilì che la relazione non avesse il suo fundamentum direttamente nella sostanza, ma in un altro accidente, ovvero nella proprietà in virtù di cui gli enti si rapportano (es. Socrate e Platone sono simili in virtù della bianchezza); e in questo egli individuò l’esse reale della relazione, che, tra tutti gli altri predicamenti, restava dunque quello di grado più debole, debilior esse inter omnia praedicamenta16. Il suo carattere di puro riferimento ad alterum rappresentava invece la ratio della relazione, il concetto astratto dall’intelletto. Se pur tenendo conto dei necessari distinguo, il punto di vista di Tommaso può considerarsi rappresentativo di quello dei suoi contemporanei, di una fase cioè non ancora veramente critica della discussione intorno allo status della relazione. Non fu certo casuale, d’altronde, la concomitanza che si verificò tra la riscoperta dei testi neoplatonici e l’acceso dibattito in cui fiorì il tema della relazione, a partire dalla seconda metà del XIII secolo; un dibattito la cui posta in gioco fu così alta che per qualcuno, come Durando di San Porziano, significò addirittura la censura da parte dell’ordine. Le domande intorno alla relazione erano molteplici. I teologi s’interrogavano su quale fosse il fondamento della generazione divina, se cioè la potentia generandi risiedesse nella sostanza di Dio o piuttosto nella relazione, ovvero nel Padre. Era stato questo il partito scelto da Bonaventura17, seguito più tardi e per ragioni differenti

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Thomas Aquinas, De pot. q. 7 a. 9 in co.: “Dicendum quod relatio ad Deum est aliqua res in creatura. Ad cuius evidentiam sciendum est, quod sicut dicit Commentator in XI Metaph., quia relatio est debilioris esse inter omnia praedicamenta, ideo putaverunt quidam eam esse ex secundis intellectibus”; S. C. Gent. 4 c. 14 n. 12: “Propter quod et relatio realiter substantiae adveniens et postremum et imperfectissimum esse habet: postremum quidem, quia non solum praeexigit esse substantiae, sed etiam esse aliorum accidentium, ex quibus causatur relatio, sicut unum in quantitate causat aequalitatem, et unum in qualitate similitudinem; imperfectissimum autem, quia propria relationis ratio consistit in eo quod est ad alterum, unde esse eius proprium, quod substantiae superaddit, non solum dependet ab esse substantiae, sed etiam ab esse alicuius exterioris”. Bonaventura, Sent. I d. 7 a. un. q. 1 (Ad Claras Aquas 1882, 136a): “potentiae distinguuntur per actus: ergo si actus potentiae dicit quid, et poten-

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

da Enrico di Gand18, contro cui Eckhart19, seguendo (almeno in questo) Tommaso20, addusse numerose obiezioni. D’interesse decisamente più filosofico era la domanda sulla differenza della categoria della relazione ed il suo soggetto di riferimento: l’ipotesi dell’identità tra la relazione ed il suo fondamento portava con sé il rischio (che non sfuggì a Duns Scoto21) di postulare l’esistenza di sostanze che fossero in sé relative; fu proprio questa, d’altronde, l’opinione di Eckhart, il quale, sulla scia del suo maestro Alberto Magno, non riconobbe la necessità di distinguere realmente la relazione dal suo fondamento e anzi, in deroga alla dottrina aristotelica delle categorie, giunse a dichiararla identica con la stessa sostanza. Diversa fu l’opinione di Tommaso di Sutton, il quale, facendo appello all’autorità degli antichi (Aristotele, ma anche Agostino, Avicenna e Averroè) sostenne la distinzione reale della relazione dal suo fondamento contro “alcuni che si esprimono diversamente”22. E ci si interrogava, ancora, sul ruolo del primo e del secondo termine del rapporto nella costituzione della relazione: il fundamentum

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tia; et si dicit ad aliquid, tunc et potentia similiter. Sed constat quod generare in divinis non dicit quid, sed ad aliquid”. Henricus de Gandavo, Quodlibet III (Parisiis 1518, f. Lv): “ oportet igitur quod ex parte generantis in eo quo generat, quod est ratio generandi, duo concurrant: et ratio qua assimilat genitum generanti et ratio qua distinguit unum ab alio. Ita quod principalior sit ratio generandi ex parte eius qua distinguit quam qua assimilat. (…) Ratio autem qua distinguit, est paterna proprietas patris constitutiva”. Cf. Eckhardus, Quaest. Par., LW I,2, p. 463. Thomas Aquinas, S. theol. I q. 41 a. 5. Nell’ambito dell’accesa polemica contro Enrico di Gand, Scoto sosteneva che l’idea che una sostanza fosse in se stessa il riferimento ad un’altra mettesse in crisi il principio dell’autonomia degli enti, cf. Duns Scotus, Ord. I d. 3 (Opera Omnia, Civitas Vaticana 1950 et seq., III, p. 197). Sulla discussione cf.: M. G. Henninger, Relations, Medieval Theories 12501325, Clarendon Press, Oxford 1989; Rolf Schönberger, Relation als Vergleich. Die Relationstheorie des Johannes Buridan im Kontext seines Denkens und der Scholastik, E. J. Brill, Leiden-New York-Koeln 1994; Jos Decorte, Modus or res: Scotus’ criticism of Henry of Ghent’s conception of the reality of a real relation, in Via Scoti. Methodologica ad mentem Joannis Duns Scoti, Atti del Congresso Scotistico Internazionale (Medioevo 1 Vol. II), Ed. Antonianum, Roma 1995. Thomas de Sutona, Quodl. 2 q. 7, Quodlibeta, II Band, M. Schmaus (München 1969), p. 221: “Istud videntur auctores sentire de relatione in creaturis, scilicet qod differat realiter ab eo in quo fundatur, quamvis aliqui aliter ponunt”.

Introduzione

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sarà la sua causa reale (come aveva sostenuto Tommaso23, seguito da Egidio Romano24), o piuttosto il termine ad sarà non solo condizione, ma vera e propria causa formale del rapporto (come sostenne poi Eckhart)? Se sul riconoscimento del carattere reale della relazione i filosofi sul finire del XIII secolo convenivano ancora tutto sommato all’unanimità, se pure ciascuno in forma e misura diversa, ci si avviava a discutere ora anche su questo punto; e si aprivano così irrimediabilmente le porte ad una discussione sullo status dell’intelletto, che racchiudeva in sé i motivi per superare definitivamente quella concezione della relazione come proprietà inerente ad una sostanza: il ruolo dell’intelletto era davvero solo quello di prendere atto della realtà sensibile? O era forse proprio l’intelletto a mettere in relazione gli enti tra di loro? O era possibile, ancora, che l’intelletto svolgesse nei confronti degli enti una funzione costitutiva? In cosa consisteva, insomma, la realtà della relazione, ammesso che di questa si potesse veramente parlare? Chiamando in sostegno la dottrina stoica, Giacomo da Viterbo non riconobbe alla relazione in sé alcuna consistenza, all’infuori di quella che le derivasse dall’operazione comparativa del pensiero, solum esse quoddam iudicium intellectus comparantis unam rem ad aliam25. Aureolo individuò nella realtà extramentale solo relazioni in potentia, la cui esistenza reale era condizionata dall’apprensione in actu da parte dell’intelletto conoscente26. Giovanni di Jandun re23

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Thomas Aquinas, In Sent. I d. 2 q. 1 a. 5 expos. ad 2: “Relationes fundantur super aliquid quod est causa ipsarum in subjecto, sicut aequalitas supra quantitatem, ita et dominum supra potestatem”; IV d. 27 q. 1 a. 1 qc. 1 ad 3: “Relatio fundantur in aliquo sicut in causa, ut similitudo in qualitate”. Aegidius Romanus, Quodl. 2 q. 5 ad 1, Quodlibeta (Louvain 1646), p. 61a,23: “cum dicitur, quod relatio non habet realitatem, nisi ex fundamento: hoc aut intelligatur causaliter: aut formaliter. Et, si causaliter, quod verum sit, realitatem relationis fundari in realitate fundamenti, et ortum habeat ex illa realitate”. Jacobi de Viterbio, q. 11 n. 345, Quaestiones de divinis praedicamentis V. 2, Eelcko Ypma O.S.A (Roma 1986), p. 14-15: “Sicut autem idem dicit, fuerunt quidam, scilicet Stoici, qui dixerunt relationem non esse hypostasim, id est non esse aliquid in rerum natura, neque aliquod ens reale praeter illud cui relatio attribuitur, sed solum esse quoddam iudicium intellectus comparantis unam rem ad aliam, verbi gratia ut ipse exemplificat secundum illorum opinionem”. Petrus Aureoli, In Sent. I d. 31 a. 2 (E), Commentariorum in primum librum sententiarum auctore Petro Aureolo Verberio Ordinis Minorum Ar-

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

stò fervido difensore tanto della realtà della relazione quanto della distinzione di questa dal suo fondamento: nella quaestio “Utrum relatio sit ens reale” affermava che tutte le relazioni fundate in entibus realibus sunt realia27; in quella successiva, “Utrum relatio realiter distinguatur a fundamento suo”, che le relazioni in creaturis sunt distincte a fundamento realiter28. Nel suo primo Commento alle Sentenze Durando di San Porziano giunse invece a considerare puramente logiche persino le relazioni di somiglianza e uguaglianza tra gli enti29; questa tesi fu giudicata contraria alla dottrina tomista e fu inserita nella lista di errori ‘contra Thomam’30. In seguito alle disposizioni della commissione, Durando ammorbidì le sue posizioni: nella seconda redazione del suo commento la relazione è definita un modus habendi31; non una res, né al modo delle sostanze né al modo degli accidenti, ma soltanto il modo in cui le proprietà reali si trovano nel soggetto32.

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chiepiscopo: Ad Clementem VIII [I] I (Roma 1596), p. 713: “nec similitudo, nec relatio aliqua est in rebus in actu, sed earum reductio in actum sit per aliquam apprehensionem. Si enim aequalitas esset res, sequeretur, quod reales numeralitates essent in uno subiecto (…) Si ergo qualibet sit res in actu, erit unus homo innumerabilibus realitatibus oneratus, similiter etiam facies hominis cum innumerabilibus realitatibus, quia quot sunt homines, tot habebit reales dissimilitudines et difformitates in facie subiective. Similiter etiam si sunt novem albedines, erunt in qualibet novem similitudines ad novem albedines, et resultabant in universo nonaginta, et si fuerint centum albedines, necesse in actu poni decem millia realitates. Unde cum talis rerum infinitas omnino irrationalis sit, non debet in mentem alicuius venire, quod similitudo et dissimilitudo sint in rebus, nisi in potentia”. Iohannis de Ianduno, In Met. V q. 23 (K), Quaestiones in duodecim libros metaphysicae (Venedig 1553) p. 67. Iohannis de Ianduno, In Met. V q. 24 (M), p. 68. Durandus de San Porciano, In Sent. I d. 30 q. 2: “Quare patet quod fundamentum similitudinis et equalitatis quantum ad formalem rationem fundamenti est unitas speciei que est unitas rationis. Quare relationes super hoc fundate non sunt reales”. Cf. J. Koch, Die Magister-Jahre des Durandus de S. Porciano O.P. und der Konflikt mit seinem Orden, in: Kleine Schriften II (Storia e letteratura 128), Roma 1973, p. 82. Durandus de S. Portiano, Sent. I d. 33 q. 1, ed. Venetiis 1571, repr. Köln 2007, p. 934,330: “relatio proprie est modus habendi essentia”. Durandus de S. Portiano, Sent. I d. 30 q. 1, p. 878,226: “Relinquetur ergo quod, ex quo realitas relationis non est precise realitas sui fundamenti nec precise realitas extremi nec realitas utriusque simul formaliter et quiddita-

Introduzione

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Nei confronti di questa dottrina Eckhart dirigeva una decisa polemica durante il suo secondo magistero a Parigi33. Il suo confratello Durando, magister anche lui in quegli stessi anni, si muoveva in una direzione opposta a quella di Eckhart; una direzione che certamente non attribuiva all’intelletto alcun carattere fondativo né tantomeno riconosceva alle operazioni intellettive alcun grado di sostanzialità. La dottrina della relazione di Eckhart mostrava distintamente quel carattere intellettualista che connotava il pensiero degli eredi di Alberto Magno: essa percorreva una via alternativa tanto alle tesi realiste di coloro che perduravano nel ritenere la relazione una res dal carattere accidentale (come Duns Scoto); quanto alle tesi di coloro che si avviavano verso la considerazione logica delle relazioni (come Durando di San Porziano). Eckhart difese la realtà della relazione, ma nient’affatto la sua natura d’accidente; e affermò che la relazione era identica con il suo fondamento, ma certo non intese l’identità come il risultato d’una considerazione logica. Egli stabilì che ciascuna relazione si fondasse direttamente nella sostanza degli enti; i quali sono il risultato dell’attività di un Intelletto fondativo, ch’è Dio stesso. 2. Sulla necessità di uno studio sulla dottrina della relazione di Meister Eckhart Dico ergo quod relatio, quamvis dicatur minime ens, tamen aeque primum genus praedicamenti sicut ipsa substantia. Hoc enim ipsum nomen primi indicat. Meister Eckhart34

Chi conosce la biografia di Meister Eckhart35 non si stupirà di non trovare nella sua opera alcun trattato specifico sul tema della relazio-

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tive, quod ipsa sit realitas habitudinis medie realiter differens ab utroque vel ipsa non est aliqua realitas secundum se”. Cf. infra cap. 3 p. 49. Eckhardus, in Exod. n. 54, LW II, p. 59, 12-14. Sulla vita e le opere di Meister Eckhart cf. K. Ruh, Meister Eckhart. Theologe, Mystiker, Prediger, C. H. Beck, München 1985, trad it. Meister Eckhart. Teologo, predicatore, mistico, a cura di M. Vannini, Morcelliana, Brescia 1989; L. Sturlese, Eckhart, Tauler, Suso. Filosofi e mistici nella Germania medievale, Le Lettere, Firenze 2010; K. Flasch, Meister Eckhart, Philosoph des Christentums, C. H. Beck, München 2010; A. Beccarisi, Eckhart, Carocci, Roma 2012.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

ne: il luogo tradizionale della discussione teologica sulla relazione, il Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, che Eckhart dovette comporre intorno al 129436, non ci è pervenuto. Dell’ambizioso progetto di sistematizzazione della metafisica eckhartiana, l’Opus tripartitum, ci sono giunti i Prologi e una buona parte dell’Opus expositionum, che contiene i commenti alle auctoritates bibliche; l’Opus propositionum e l’Opus quaestionum, che avrebbero verosimilmente offerto l’occasione per discutere le questioni teologiche nei termini del linguaggio dotto dell’accademia37, non sono mai stati scritti38. E d’altra parte i momenti di riflessione sul concetto di relatio nella sua opera esegetica non sono molto numerosi: Eckhart vi dedicò il Sermo 1 in Eccli. 2439, il quale, insieme con la Quaestio parisiensis I (che riporta un breve ma significativo riferimento alla relazione40), è 36

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Eckhart è attestato quale lector sententiarum della facoltà teologica nella predica pasquale che egli tenne a Parigi nel 18 aprile 1294 (Sermo paschalis, LW V, p. 136). Il lector sententiarum rappresentava già un elevato incarico nella carriera universitaria: presupponeva lo studio delle Arti e il baccalaureato nella facoltà teologica. Il compito del lettorato teologico consisteva nel commentare le Sentenze, vale a dire il tradizionale manuale accademico di teologia, i Libri quatuor Sentententiarum di Pietro Lombardo: quanto ne risultava, il Commento alle Sentenze, costituiva di norma la prima opera importante di un professore di teologia. Quello di Eckhart non ci è pervenuto, ma possediamo la Collatio in libros Sententiarum: questa è la prima parte del Principium, che doveva precedere un corso di lezioni, e doveva esporne l’oggetto. Dell’Opus propositionum conosciamo il piano generale, esposto nel Prologo, e l’esempio di una tesi, ampiamente trattata: “Esse est deus”; doveva contenere più di mille tesi filosofiche in quattordici trattati. In questa parte iniziale dovevano essere trattati i concetti metafisici fondamentali. Nell’Opus quaestionum, la seconda parte, dovevano essere discusse alcune questioni teologiche, disposte così come si presentano nella Summa theologiae di Tommaso, sebbene, Eckhart annuncia, sarebbero state trattate solo alcune di queste, e a seconda dell’occasione offerta dal discorso. L. Sturlese, Un nuovo manoscritto delle opere latine di Eckhart e il suo significato per la ricostruzione del testo e della storia dell’Opus tripartitum, in: Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie 32 (1985), 145-154; id., Meister Eckhart in der Bibliotheca Amploniana. Neues zur Datierung des Opus tripartitum, in: Die Bibliotheca Amploniana, hrsg. von A. Speer, Berlin-New York 1995 (Miscellanea Mediaevalia 23), 434446, ora in: L. Sturlese, Homo divinus. Philosophische Projekte in Deutschland zwischen Meister Eckhart und Heinrich Seuse, Stuttgard 2007, 95-106. Eckhardus, In Eccl., LW II, p. 231. Eckhardus, Quaest. Par. n. 4, LW V, p. 40,12.

Introduzione

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rappresentativo di una fase del pensiero di Eckhart profondamente segnata dall’interesse per i temi dell’intelletto; la relazione si colloca esattamente in questo contesto. In Expositio libri Exodi41, nell’ambito della riflessione sulle categorie aristoteliche, Eckhart presenta la prima e forse la più dettagliata definizione dello status ontologico del predicamento della relazione che si ritrova nella sua opera. In Expositio sancti evangelii secundum Iohannem vien fatto riferimento esplicito al concetto di ‘relatio’ in sette esposizioni42, di cui nessuna è propriamente una trattazione della nostra categoria; e tuttavia questi luoghi si rivelano particolarmente significativi, perché la relazione traduce qui la generazione intellettuale dell’immagine, ad un tempo ontologica e gnoseologica: la relazione di filiazione. Nel suo studio teso a dimostrare la priorità della relazione di univocità nel pensiero di Eckhart, Burkhard Mojsisch notava che il concetto di relazione non è solo un nodo centrale del pensiero eckhartiano, ma il suo stesso fondamento43; eppure, esso rimane apparentemente un tema piuttosto marginale, al punto che anche i pochi riferimenti espliciti al concetto di relatio, accompagnati spesso dal richiamo alla tradizionale lettura agostiniano-boeziana delle relazioni divine, rischiano di essere scambiati per semplici espressioni convenzionali, attinte al patrimonio scolastico comune44. È questo, probabilmente, il motivo per cui Mark G. Henninger non ricordava il nome di Meister Eckhart nel suo studio sulla discussione medioevale intorno alla relazione45. Kurt Flasch ha invece richiamato più volte l’attenzione sulla teoria eckhartiana: già nel 1979 rifletteva sulla lettura eckhartiana della relazione e la interpretava come “inasprimento della dottrina di Teodorico di Freiberg” e “aperta polemica contro Tommaso d’Aquino”46; e 41 42

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Eckhardus, In Exod. n. 27, LW II, p. 32,1. “In principio erat verbum”, In Ioh. n. 34, LW III, p. 27,15; n. 43, LW III, p. 36,5; “Deum nemo vidit unquam…”, In Ioh. n. 197, LW III, p. 157,3; “Quem misit deus, verba loquitur”, In Ioh. n. 360, LW III, p. 305,4; “Mea doctrina non est mea…”, In Ioh. n. 425, LW III, p. 360,9; “Si me sciretis, forsitan et patrem meum sciretis”, In Ioh. n. 446, LW III, p. 382,5; “Non vos me elegistis, sed ego elegi vos…”, In Ioh. n. 647, LW III, p. 562,4. B. Mojsisch, Analogie, Univozität und Einheit, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1983, p. 18-19. R. Schönberger, Op. cit., p. 119. M. G. Henninger, Op. cit. K. Flasch, Kennt die mittelalterliche Philosophie die Konstitutive Funktion des menschlichen Denkens? Eine Untersuchung zu Dietrich von Frei-

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

nel suo ultimo studio su Meister Eckhart ribadiva che le posizioni del maestro tedesco intorno alla relazione erano piuttosto singolari e certamente antitomiste, poiché mai Tommaso avrebbe sostenuto che la relazione avesse la sua origine nell’anima e che proprio per questo fosse un predicamento reale47. In un recente articolo Rupert Mayer rilevava invece la prossimità della teoria della relazione di Eckhart a quella di Tommaso e una distanza dalla dottrina di Teodorico48, nella misura in cui Eckhart e Tommaso concordano nel considerare la relazione un respectus puramente formale, portato cioè alla luce dall’anima, mentre il fundamentum in re si costituisce come sostrato materiale della relazione; la distanza tra la dottrina di Eckhart e quella di Teodorico consisterebbe invece nel fatto che, mentre Teodorico individua la causa della relazione nel soggetto, Eckhart fa derivare la relazione completamente dal terminus che le si contrappone, ovvero dall’oggetto. E d’altronde Rolf Schönberger rilevava la difficoltà di un’analisi esauriente della teoria della relazione di Eckhart49. Il problema risiede innanzitutto nella situazione paradossale che caratterizza questa dottrina, che si presenta come il cuore del pensiero eckhartiano, ed è tuttavia così raramente tematizzata in modo esplicito dal suo autore. In secondo luogo, la sua stessa coerenza interna si rivela problematica: se infatti nella Quaestio parisiensis I Eckhart aveva individuato l’origine della relazione nell’anima, avrebbe poi successivamente sviluppato la sua posizione in una direzione diversa e più affine a quella di Tommaso, sostenendo la realtà delle categorie aristoteliche negli enti extra animam50. L’interpretazione della dottrina eckhartiana della relazione non si è rivelata, insomma, affatto agevole. Le Quaestiones parisienses degli anni 1313/131451 or ora editate, il cui tema centrale di discussione è proprio la categoria della relazione,

47 48 49 50 51

berg, in Kant Studien 63, 1972, p. 182-206. K. Flasch, Meister Eckhart, Philosoph des Christentums, C. H. Beck, München 2010, p. 115-116. R. J. Mayer, Meister Eckharts erste Quaestio Parisiensis oder: Wie kann Gottes Vernehmen das fundamentum seines Seins sein?, in: Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie 54 (2007), pp. 430-463. R. Schönberger, Op. cit., p. 117. Id. p. 119. Die lateinischen Werke, Bd. I,2, Lief. 7-9: Liber parabolarum Genesis. Opera Parisiensia, hrsg. von L. Sturlese, Stuttgart 2011.

Introduzione

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assumono allora per questa ricerca tanto più rilievo, innanzitutto perchè evidenziano l’attenzione del maestro tedesco verso un tema estremamente attuale e dibattuto negli ambienti accademici in quegli anni: Eckhart rispose infatti in queste Questioni a tutte quelle domande intorno alla relazione, che gli erano certamente note anche prima ch’egli decidesse di discuterne a Parigi, ma su cui non aveva ancora preso alcuna posizione esplicita52; nondimeno esse consentono di far luce su una dottrina che, se pure non delimitata entro i confini di un trattato specifico, pervade il pensiero eckhartiano nei suoi punti cruciali, tanto sul piano teologico quanto su quello gnoseologico. Questo studio si propone pertanto di analizzare la nozione di relazione che il Maestro tedesco tracciò nella sua opera esegetica e nelle questioni parigine; l’indagine si è svolta, dunque, attraverso la lettura di quei luoghi cruciali di discussione disseminati nei suoi scritti latini, rimandando per il momento la considerazione delle conseguenze morali ed etiche espresse nella sua opera tedesca. L’analisi sistematica di quei luoghi ha rivelato che egli non utilizzò mai il termine ‘relazione’ in modo casuale, né tantomeno vi si riferì menzionando semplicemente formule scolastiche di patrimonio comune; la categoria della relazione occupò invece nella metafisica di Eckhart un posto ben preciso, ed egli vi si richiamò sempre con precisa cognizione di causa, ovvero ben consapevole della sua portata all’interno del dibattito scolastico del suo tempo. E soprattutto ha rivelato la coerenza di una teoria in cui sin dall’inizio la categoria della relazione non era definita come accidente, come proprietà di una sostanza, ma rappresentava l’attività costitutiva dell’Intelletto. Eckhart riconobbe che la relazionalità non appartiene alla realtà cosale, ma è il carattere proprio dell’Intelletto; che l’unità non può essere una proprietà dell’ente sensibile, ma è una condizione che risulta da un processo relazionale, la cui origine è l’Intelletto. Per questa ragione la relazione – proprio la categoria che si dice minime ens – doveva rappresentare nella sua metafisica l’elemento costitutivo della sostanza. La condizione di questo status eccezionale rispetto agli altri predicamenti risiedeva esattamente nel suo essere priva di sostanzialità. La relazione non deriva, infatti, dalla sostanza, ma le rimane esterna; essa è, in sé, il puro riferimento ad alterum.

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Eckhart vi accenna in In Eccli. n. 11, LW II, p. 241, 2.

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I LA RELAZIONE E IL RUOLO COSTITUTIVO DELL’INTELLECTUS. LA PRIMA QUESTIONE PARIGINA E IL SERMO I SULL’ECCLESIASTICO

Nell’antica intuizione greca della natura relazionale dell’Intelletto e dei processi conoscitivi, Meister Eckhart seppe intravedere la via per ripensare la dimensione divina nel suo complesso, tanto il concetto di essere di Dio quanto quello di operazione. In questa cornice intellettualista, la teoria della relazione (quella derivata dall’atto del pensiero) non poteva restare un corollario metafisico qualsiasi: essa divenne l’elemento indispensabile per interpretare l’attività della sostanza, e quindi di Dio stesso. Fu questa la personale lettura eckhartiana dell’assioma boeziano “essentia continet unitatem, relatio multiplicat trinitatem”; la vita divina si componeva, per Eckhart, di due momenti: l’Intelletto in se stesso, inizialmente rivolto ad intra; e la sua attività generativa, che, originandosi nella sostanza intellettuale, si configura come relazione. Le tre Questioni rimaste del primo magistero parigino di Eckhart e i Sermones et Lectiones sul capitolo 24 dell’Ecclesiastico presentano una notevole affinità stilistica e tematica. La prima delle tre Quaestiones, Utrum in Deo sit idem esse et intelligere, che Eckhart discuteva a Parigi negli anni 1302/03, contiene un breve ma significativo riferimento alla relazione. Si tratta di un luogo dell’opera eckhartiana che ha destato tanto interesse quanto perplessità1, dal momento che la realtà della relazione viene stabilita sulla base della sua origine intellettuale, e ciò costituiva indubbiamente un presupposto inconsueto per il dibattito del tempo.

1

K. Flasch, Kennt die mittelalterliche Philosophie die Konstitutive Funktion des menschlichen Denkens? Eine Untersuchung zu Dietrich von Freiberg, in: Kant Studien 63, 1972, p. 182-206; id. Meister Eckhart, Philosoph des Christentums, Beck, München 2010, p. 115.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

La teoria della relazione è invece più approfondita nel primo dei due sermoni sul capitolo 24 dell’Ecclesiastico, l’esposizione del versetto, “Ego quasi vitis fructificavi suavitatem odoris”; in questo luogo, lo status ontologico della relazione non è definito in modo sistematico, ma la sua posizione nella metafisica eckhartiana è chiarita perfettamente. I due scritti sono profondamente legati nell’intenzione di definire, attraverso il ruolo decisivo dell’atto dell’intelligere, i due aspetti della dimensione divina: l’Intelletto in se stesso (in quantum huiusmodi), e l’Intelletto cum relatione, ovvero la sostanza divina nel suo momento generativo. Essi sono rappresentativi di una fase del pensiero eckhartiano fortemente segnata dall’interesse per i temi dell’Intelletto, in cui il ricorso alla relazione è pertanto orientato in una direzione ben precisa. Per questa ragione la prima Quaestio parigina e il primo sermone di Super Eccli. 24 saranno, di seguito, messi a confronto, a partire dal modo in cui il concetto di relatio si articola nell’uno e nell’altro testo. 1. L’unità divina nell’identità di soggetto e oggetto di conoscenza Nella prima Questione parigina l’unità divina di essere e pensiero è argomentata attraverso le dinamiche della conoscenza. Qui l’Intellectus è considerato esclusivamente come sostanza in sé, prima o a prescindere dalla relazione: l’atto dell’intelligere divino si conclude nella conoscenza di sè, dando luogo ad un’unità assoluta che esclude tutto ciò che le è estraneo e si autofonda nella perfetta identità di soggetto conoscente e oggetto di conoscenza2. 2

Sul tema del pensiero fondativo cf.: V. Lossky, Théologie négative et connaissance de Dieu chez Maître Eckhart, Vrin, Paris 1973; R. Imbach, Deus est intelligere. Das Verhältnis von Sein und Denken in seiner Bedeutung fuer das Gottesverstaendnis bei Thomas von Aquin und in den Pariser Quaestionen Meister Eckharts, Freiburg 1976; K. Albert, Der Grundgedanke der Philosophie Meister Eckharts, in: Meister Eckhart heute, hrsg. von W. Boehme, Karlsruhe 1980, S.11-20; K. Flasch, Procedere ut imago. Das Hervorgehen des Intellekts aus seinem göttlichen Grund bei Meister Dietrich, Meister Eckhart und Berthold von Moosburg, in Abendländische Mystik im Mittelalter, Stuttgard, Metzler 1986; B. Mojsisch, Analogie, Univozität und Einheit, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1983; N. Winkler, Meister Eckhart zur Einführung, Berlin 1997; S. Vianu,

La relazione e il ruolo costitutivo dell’Intellectus

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Eckhart avvia la discussione a partire dalla natura dell’atto dell’intelligere: si tratta di un’operazione immanente all’essere. Questo vuol dire che, poichè la conoscenza si configura come apprensione di una forma intelligibile a cui segue la riconversione dell’intelletto su di sè, il pensiero non si trasferisce all’esterno, ma resta interno al soggetto; perciò deus est ipsum suum intelligere et est etiam suum esse3. In secondo luogo, Eckhart argomenta per mezzo dei concetti di atto primo e atto secondo, desunti da Tommaso. L’essere è il primo atto di ogni sostanza che esista; le operazioni che ne conseguono, però, ne rappresentano un perfezionamento: esse sono, con le parole di Eckhart, veglia dell’anima rispetto al sonno4; per questo, se si ammettesse che l’operazione dell’intelligere è altro dall’essere di Dio, si concederebbe che c’è qualcosa di più perfetto e più nobile della stessa essenza divina. Ugualmente, se si ammettesse in Dio una differenza tra l’essere e il pensiero, vorrebbe dire individuare una potenza passiva all’interno della sua sostanza; l’intelligere, infatti, è un atto, ma tale atto in Dio non consegue da una potenza; è, invece, il suo stesso essere5. Ma soprattutto, l’identità risulta dalla considerazione dell’essere come operazione: se il fine dell’operazione dell’intelletto divino fosse un altro rispetto a Dio; se, cioè, la conoscenza di Dio avesse un oggetto diverso da se stesso, allora si dovrebbe individuare una causa dell’intelligere divino che non sia Dio stesso: Si igitur intelligere sit aliud ab esse dei, erit dare finem ipsi deo alium a se et ab eo quod est6.

All’interno del processo conoscitivo il fine della conoscenza svolge il ruolo di causa, poiché il conoscere è mosso unicamente dal suo oggetto di conoscenza; ma è chiaramente impossibile che l’intelligere divino abbia una causa diversa da Dio stesso, che, cioè, Egli non sia il suo proprio oggetto.

3 4 5 6

L’intellect divin et l’intellect humain selon Maître Eckhart, in: Revue de Théologie et de philosophie 132 (2000), S. 223-237. Eckhardus, Quaest. Par. n. 1, LW V, p. 37,8. Eckhardus, Quaest. Par. n. 1, LW V, p. 38,4. Eckhardus, Quaest. Par. n. 2, LW V, p. 38,7. Eckhardus, Quaest. Par. n. 2, LW V, p. 38,9.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

E infatti (prosegue Eckhart), all’interno della dinamica conoscitiva di Dio, l’essenza si comporta come le specie intelligibili di fronte all’intelletto: così come l’intelligere è mosso dalle specie degli oggetti che si appresta a conoscere, allo stesso modo l’essenza divina è la forma verso cui si volge l’intelligere di Dio: quia sic se habet intelligere ad speciem, sicut se habet esse ad essentiam. Essentia autem divina se habet loco speciei7.

L’unità divina è dunque assoluta, ed è data dalla completa adesione dell’oggetto al soggetto conoscente; completa, perchè non c’è nell’intelletto divino alcuna potenzialità che resti incompiuta, dal momento che tutta la sua capacità viene colmata interamente dall’apprensione dell’unica forma che precontiene tutte le altre, vale a dire la stessa forma divina: se stesso. Come aveva preannunciato all’inizio della questione, Eckhart si è servito, sin qui, di sei argomenti attinti da Tommaso8, per provare l’identità in Dio di essere e pensiero. Ma ad Eckhart non interessa solo indagare la coincidenza di esse e intelligere: Eckhart vuole dimostrare che l’essere divino è fondato sull’Intelletto, e non viceversa, come invece voleva Tommaso; che l’intelligere è un atto costitutivo, e non solo dell’essere creato, ma di Dio stesso. Per questo dichiara esplicitamente: non ita videtur mihi modo, ut quia sit, ideo intelligat, sed quia intelligit, ideo est, ita quod deus est intellectus et intelligere et est ipsum intelligere fundamentum ipsius esse9.

2. L’Intelletto in quanto tale come principio Nella prima questione parigina il termine relatio non è indicativo di una proprietà inerente ad una sostanza, non definisce la condizione accidentale di una res che si trovi in rapporto di uguaglianza o somiglianza con un’altra res. Il dibattito trecentesco sullo status ontologico della relazione è, sin qui, del tutto estraneo all’interesse di Eckhart. Il concetto di relatio viene usato in questa prima Quaestio 7 8 9

Eckhardus, Quaest. Par. n. 2, LW V, p. 39,4. Eckhardus, Quaest. Par. n. 1, LW V, p. 37,5. Eckhardus, Quaest. Par. n. 4, LW V, p. 40,5.

La relazione e il ruolo costitutivo dell’Intellectus

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in un’unica accezione: si tratta della relazione istituita dal soggetto conoscente con l’oggetto di conoscenza. Eckhart vuol provare, ora, che questa relazione è il principio di tutto l’essere; è, cioè, un atto primo e costitutivo, e non, al contrario, un’operazione derivata. Il versetto del vangelo di Giovanni “In principio erat verbum, et verbum erat apud deum, et deus erat verbum” è il primo argomento a favore di questa inversione di termini: il Verbum, infatti, si riferisce all’intelletto, e non all’essere10. Ma Eckhart prosegue: l’intelletto ha ragione di principio, e non solo nella sostanza divina, ma in quanto tale, perchè tutte le operazioni intellettive, di qualsiasi essere pensante, appartengono alla dimensione dell’intelligere. Questa argomentazione si regge sulla teoria della relazione: quella del soggetto conoscente al suo oggetto. Il versetto “Ego sum veritas” del vangelo di Giovanni costituisce l’apertura: Dio, il primo principio, è Verità, e la verità, così come il Verbum, si riferisce all’Intelletto. Com’era già secondo Tommaso, la conoscenza della verità consiste infatti nell’apprensione, da parte dell’intelletto delle creature, dell’essenza delle cose; poiché, dunque, si tratta di un’operazione di conoscenza, la verità implica necessariamente una relazione: Veritas autem ad intellectum pertinet importans vel includens relationem11.

Si tratta della relazione all’oggetto di conoscenza, che presuppone un soggetto che ne sia l’origine, ovvero un principio; da questa relazione conoscitiva tra soggetto e oggetto conosciuto risulta la verità: essa è il frutto dell’atto del pensiero, e pertanto si riferisce all’Intelletto. Ed esattamente in questo consiste la realtà della relazione: nel fatto che si tratta di una vera e propria operazione che ha la sua origine nell’anima, e precisamente nella sua parte più alta, che è l’Intelletto: Relatio autem totum suum esse habet ab anima et ut sic est praedicamentum reale12.

10 11 12

Eckhardus, Quaest. Par. n. 4, LW V, p. 40,9. Eckhardus, Quaest. Par. n. 4, LW V, p. 40,11. Eckhardus, Quaest. Par. n. 4, LW V, p. 40,12.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

La relazione intellettiva presuppone un principio, da cui trae tutta la sua realtà; essa è reale, dal momento che si origina nella sostanza che è il principio di tutto l’essere, finanche di quello divino. L’intelletto, infatti, in quanto tale, è l’unica sostanza increabile, che si trova prima e all’origine di tutto ciò che è creato, ab initio et ante saecula creata13. L’essere invece, dichiara Eckhart in conformità con il Liber de causis, è di per sé la prima delle cose create, perché possiede in se stesso la ragione della sua creabilità14. Il concetto di operazione intellettuale, tanto di quella divina quanto di quella umana, implica di necessità l’idea di un principio, che si trovi all’origine dell’atto di conoscenza; tale principio è l’Intelletto. Questo (e non l’essere) è l’unica sostanza prima, di per sé relazionabile, dal momento che per sua natura costituisce un rapporto con la cosa che si appresta a conoscere. Nella conoscenza umana (ovvero nella verità della conoscenza), l’intelligere realizza l’unione tutta intellettuale tra l’infinita possibilità dell’intelletto e la specie intelligibile. Per questo, anche la conoscenza delle creature si svolge in quella dimensione più nobile che è la dimensione del pensiero (intelligere est altius quam esse et est alterius condicionis15); la specie che è nell’anima, infatti, non ha ragione di ente, poiché appartiene anch’essa alla sfera intellettuale: Ens ergo in anima, ut in anima, non habet rationem entis et ut sic vadit ad oppositum ipsius esse. (…) Quae ergo ad intellectum pertinent, in quantum huiusmodi, sunt non-entia16.

Ma in questo consiste anche tutta la differenza tra l’intelligere divino e quello umano: dal momento che termina nell’unità assoluta, la relazione derivata dall’atto del conoscere è in Dio il fondamento del suo stesso essere e nel contempo dell’essere creato. L’essere di Dio è, infatti, attualità infinita e perfezione di tutte le cose, per cui Egli opera intrinsecamente nella Deità e estrinsecamente nelle creature, suo tamen modo17.

13 14 15 16 17

Eckhardus, Quaest. Par. n. 4, LW V, p. 41,12. Eckhardus, Quaest. Par. n. 4, LW V, p. 41,6-11. Eckhardus, Quaest. Par. n. 5, LW V, p. 42,1. Eckhardus, Quaest. Par. n. 7, LW V, p. 43,13-44,6 (il corsivo è mio). Eckhardus, Quaest. Par. n. 3, LW V, p. 39,12-40,3.

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Nelle creature, invece, l’infinita capacità dell’intelligere non coinciderà mai con il loro esse determinato, poiché se l’intelletto è per sua natura illimitato come la vista è priva di ogni colore, ciascun essere è invece limitato dalla specie. Per questo, nelle creature, l’essere e il pensiero non potranno mai coincidere18. Esse conosceranno, dunque, per mezzo delle altre cose, e la potenzialità dell’intelletto resterà in loro inattuata sino a che non perverranno alla conoscenza di queste. Così, mentre l’intelletto di Dio è causa delle cose, nelle creature il pensiero è mosso dalle cose alla conoscenza: Differt enim nostra scientia a scientia dei, quia scientia dei est causa rerum et scientia nostra est causata a rebus. Et ideo cum scientia nostra cadat sub ente, a quo causatur, et ipsum ens pari ratione cadit sub scientia dei19.

L’intelletto si attua in Dio e nelle creature in modo diverso: nella sostanza divina è origine di un’operazione generativa, mentre nelle creature è origine delle relazioni conoscitive. Si tratta, tuttavia, dello stesso Intellectus: esso ha, in quanto tale, natura di principio, ed è l’unica sostanza increabile, sorgente divina di tutto l’essere creato. 3. La realtà della relazione In questa prima Quaestio il termine relatio indica la relazione derivata dall’atto del pensiero. In Dio il processo conoscitivo si conclude nell’unità assoluta di soggetto e oggetto di conoscenza, espresso nella proposizione “Ego sum qui sum”, cui Eckhart si richiama alla fine della discussione20. In presenza di questa identità di termini, Eckhart non utilizza ancora il concetto di relatio. La relazione, d’altra parte, presuppone necessariamente una distinctio, una differenza di termini. Egli vi si richiama solo a proposito dell’intelligere delle creature, a partire dalla definizione della Verità, che indica propriamente la conoscenza intellettuale. 18 19 20

È, questo, il tema della seconda questione parigina: Utrum intelligere angeli sit eius esse. Eckhardus, Quaest. Par. n. 8, LW V, p. 44,10. Eckhardus, Quaest. Par. n. 12, LW V, p. 48,8.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

La relazione istituita dall’intelletto delle creature con il suo oggetto conduce ad una conoscenza determinata dalle specie, dal momento che per sua natura il pensiero umano non è oggetto di se stesso e deriva, invece, la sua conoscenza dagli oggetti esterni. Questo non pregiudica, però, la realtà della relazione: se pure non si tratta di un pensiero che si autofonda, le operazioni dell’intelletto sono reali; e il Maestro precisa: sono reali, proprio perché derivano dall’intelletto. L’ambiguità che si è intravista in questa affermazione eckhartiana si risolve dunque nel momento in cui si comprende che Eckhart non si riferisce affatto alla realtà materiale e accidentale degli enti. Eckhart allude qui a quello che chiarirà meglio in altri luoghi della sua opera: la realtà della relazione non deriva dalla condizione di accidente, perché questa non le appartiene; la relazione non ha carattere d’inerenza. La conoscenza, insomma, non è un accidente del soggetto; e, d’altronde (Eckhart lo dice chiaramente in questa questione), gli accidenti non sunt entia nec dant esse substantiae21. Le operazioni intellettive (ovvero le relazioni) sono reali perchè si originano direttamente nell’Intelletto, la sostanza che sta a fondamento di tutto l’essere, anche di quello divino. Questo non significa che la conoscenza umana presieda alla fondazione e all’ordinamento del mondo: l’Intelletto possiede in sé i principi delle cose, e tuttavia necessita, per la conoscenza ordinaria, delle impressioni ricevute dall’esterno; nè le operazioni intellettive avranno un valore puramente logico, dal momento che l’Intelletto ha una natura sostanziale. La realtà di cui si parla nella Quaestio parigina non è quella mutevole e transitoria che riguarda il piano puramente cosale; si tratta, invece, della dimensione intellettuale, che è l’unica dimensione divina, l’unica in cui abita la Verità eterna. Qui l’essere trova posto solo nella misura in cui con esse s’intenda l’atto dell’intelligere: Et si tu intelligere velis vocare esse, placet mihi. Dico nihilominus quod, si in deo est aliquid, quod velis vocare esse, sibi competit per intelligere22.

21 22

Eckhardus, Quaest. Par. n. 11, LW V, p. 47,2. Eckhardus, Quaest. Par. n. 8, LW V, p. 45,3.

La relazione e il ruolo costitutivo dell’Intellectus

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4. Il doppio aspetto della dimensione dell’Intellectus Il Sermo I sul capitolo 24 dell’Ecclesiastico è bipartito: la prima parte è un’esposizione del verso “ego quasi vitis fructificavi suavitatem odoris” dal punto di vista della sapientia increata, ovvero del puro intelletto; ed è questa la sezione che a noi interessa. La seconda espone il versetto in riferimento alla beata vergine Maria. Composto da Eckhart a Erfurt in occasione del capitolo provinciale dei domenicani, il sermone mette in evidenza due diverse prospettive d’osservazione: la pura sostanza divina senza relazione e la relazione d’origine, che intercorre tra la creatura e Dio. I termini di cui si compone il versetto sono esplicativi dei due momenti in cui si articola la vita divina. Eckhart li definisce in rapporto ai tre compiti del predicatore degno di diffondere la parola di Dio. Innanzitutto all’uomo è richiesta la purezza del vivere, vitae puritas; questa è espressa nel pronome Ego, in cui è racchiusa tutta la purezza della sostanza. In secondo luogo, è necessario che il predicatore sia sincero nell’intenzione, ovvero che dichiari di proferire non il suo, ma il Verbo di Cristo. Questo secondo punto è occasione per una prima digressione sulla relazione: quasi vitis, infatti, indica la relazione di similitudine che necessariamente dovrà intercorrere tra l’uomo che predica la parola divina e Cristo. Ora, dice Eckhart, la natura della relazione consiste nel non possedere un essere suo proprio, ma nel derivarlo totalmente dall’altro termine del rapporto: nell’essere, cioè, dell’altro, verso l’altro e per l’altro: Relationi autem suum esse est non suum esse; sibi esse est non sibi, sed alterius, ad alterum et alteri esse23.

Così, il predicatore non deve essere o vivere per sé, ma unicamente per Cristo, poiché soltanto a lui appartiene veramente la dottrina di Dio; l’uomo è in relazione di somiglianza con Lui, egli è solo il portatore di una parola non sua. La parola, qui, indica l’operazione: essa appartiene realmente solo a colui a cui appartiene l’essere:

23

Eckhardus, In Eccl. n. 4, LW II, p. 233,1.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

Et quia eius est operari cuius est esse, praedicatoris Christi doctrina non debet quidquam intendere praeter Christum24.

L’uomo, dunque, opera per mezzo di un essere che non gli appartiene; egli ne è solo il portatore, è solo il riferimento a Cristo, con cui è in relazione di somiglianza. L’essere della relazione, che Eckhart ha appena definito “un essere alterius, ad alterum et alteri esse”, rappresenta qui l’essere dell’uomo, che è un essere derivato e non propriamente suo; per questo nel vangelo di Giovanni si legge: “mea doctrina non est mea, sed eius qui misit me”. Infine, l’uomo che predica la parola di Dio deve effondere la dolcezza e il profumo del frutto divino, quasi come il Figlio di Dio; questo si trova espresso nelle parole fructificavi suavitatem odoris. Stabilite le coordinate principali lungo cui si sviluppa la predica, Eckhart avverte ora che bisognerà esporre il versetto innanzitutto dal punto di vista della sapienza increata, ovvero dell’Intelletto: primo exponemus verba praemissa de sapientia increata25. 5. L’estraneità della relazione rispetto alla sostanza La purezza della sostanza espressa nel pronome Ego è la purezza dell’intelletto; Eckhart ribadisce ancora una volta (come aveva fatto nelle Questioni parigine) la natura di principio della sostanza intellettuale e la sua originaria conversione su se stessa. Tanto l’amore quanto la volontà, infatti, per loro natura sono mossi da un oggetto formale: il giusto ama la giustizia e odia tutto ciò che non è giusto; la volontà dell’amante aspira unicamente all’amato e rifugge ciò che è diverso da lui. L’intelletto invece comprende le cause primordiali delle cose, ancor prima che queste siano determinate formalmente: l’intelletto ne possiede i principi in solis puris nudis intellectibus26; esso è la sostanza da cui si origina l’essenza stessa di ogni forma, afferma Eckhart ricordando Avencebrol. Questo risulta da cinque elementi. Innanzitutto, la purezza della sostanza intellettuale risiede nel suo essere unicamente per mezzo di se stessa e null’altro. In questa sussistenza l’intelletto permane eter24 25 26

Eckhardus, In Eccl. n. 4, LW II, p. 233,7. Eckhardus, In Eccl. n. 7, LW II, p. 235,12. Eckhardus, In Eccl. n. 9, LW II, p. 238,6.

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namente, non commisto a nulla di estraneo dalla sua natura, del tutto riversato su se stesso reditione completa27. In secondo luogo, la sostanza intellettuale non è circoscritta da alcun accidente, dal momento che è assolutamente indeterminata. L’assenza di accidenti, e quindi di contenuto categoriale, non indica qui tanto una passività o un’assenza, quanto una pienezza e una perfezione: i generi infatti sono precontenuti nella sostanza intellettuale nella loro forma perfetta, ovvero quella di principio, e coincidono in modo assoluto con la sostanza. Per questo Eckhart afferma che gli accidenti transitano nella sostanza e sono lo stesso essere della sostanza: ego dicit substantiam sine omni accidente, quin immo accidens in ipsa et per ipsam transit in substantiam. Ratio est, quia omnium accidentium in subiecto est idem esse cum ipso esse subiecti28.

All’interno di ogni proposizione, il soggetto è determinato dal predicato; nel caso della sostanza divina questo non avviene, perché gli accidenti non costiuiscono alcuna determinazione e coincidono invece con lo stesso soggetto. L’unica categoria che sfugge a questo irrevocabile criterio è la categoria della relazione. Questa per sua natura non riceve l’essere dal soggetto, ma dall’oggetto verso cui si dirige, ovvero il secondo termine del rapporto: il termine ad. Per questo motivo la relazione non transita nel soggetto, nemmeno nel caso in cui il soggetto sia Dio, e resta così l’unica categoria destinata ad affiancare la sostanza nell’ambito del discorso sul divino: Sed quia sola relatio non habet esse in subiecto nec a subiecto, sed potius ab obiecto et a suo opposito, non transit in substantiam. Et sic manent in divinis tantum duo praedicamenta, scilicet substantia et relatio29.

La relazione rimane esterna alla sostanza, e in questo risiede la sua differenza dalle altre categorie; l’inerenza, che è il modo di essere proprio di tutti i predicamenti, non riguarda la natura della relazione, dal momento che questa non ha l’essere nel soggetto, ma lo riceve dal corrispettivo termine del rapporto: il suo contenuto categoriale è infatti l’ad alterum. 27 28 29

Eckhardus, In Eccl. n. 10, LW II, p. 239,3. Eckhardus, In Eccl. n. 10, LW II, p. 239,4. Eckhardus, In Eccl. n. 10, LW II, p. 239,7.

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Nella sostanza divina, questo comporta che la relazione non transiti nel soggetto al modo degli altri generi, precontenuti in Dio allo stato di pura perfezione; essa segna piuttosto la differenza della sostanza da tutto il resto, il suo essere assolutamente non commista e priva di distinzioni al suo interno. In questo consiste la purezza espressa dal pronome ego, il primo termine della proposizione, ovvero il primo momento della vita divina. L’indeterminatezza dell’Intelletto e la sua differenza da tutto ciò che è determinato sono le caratteristiche proprie della sostanza divina, considerata per il momento a prescindere dalla relazione: ego indica la sostanza prima della sua distinzione nei generi, non la sostanza hanc aut illam, sed substantiam meram simpliciter30. È, questa, l’ultima importante precisazione a proposito del significato del pronome ego: il termine substantia, con cui sinora Eckhart ha designato il puro intelletto, non indica qui alcuna categoria o genere, ma qualcosa di più nobile e più puro, che include le perfezioni di tutti gli altri generi. In quest’unico modo bisogna intendere la sostanza cui fa riferimento il versetto “ego quasi vitis fructificavi suavitatem odoris”: ego non indica il genere della sostanza, perchè la sostanza di cui si parla non è di questo mondo, soggetto alle categorie; la sostanza espressa nel pronome ego appartiene solo al mondo intellettuale31. Eckhart ha esposto, sin qui, la prima parte del versetto: essa racchiudeva simbolicamente il primo momento della vita divina, ovvero l’Intelletto ancora in se stesso. Questa parte del commento, così, è conclusa: Hoc de primo inter tria32. 6. La relazione d’origine Eckhart legge nella successione degli elementi del versetto “ego quasi vitis fructificavi suavitatem odoris” la corrispondenza con i momenti della vita divina: al pronome ego segue, ora, quasi vitis, ovvero il momento della relazione. La sostanza, infatti, non è di per sè diffusiva: nella prima parte del sermone, Eckhart ha argomentato questo con chiarezza; la sostanza è completamente riversata su se stessa, è pura relazione ad in30 31 32

Eckhardus, In Eccl. n. 10, LW II, p. 239,11. Eckhardus, In Eccl. n. 10, LW II, p. 240,2. Eckhardus, In Eccl. n. 10, LW II, p. 240,7.

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tra, non si rivolge “fuori”, ad aliud; essa riguarda solo l’essere di Dio, e questo, per sua natura, è uno. Ma Eckhart aveva anche detto che in Dio ci sono due predicamenti, la sostanza e la relazione: quest’ultima, in ragione della sua natura esterna, non passa nella sostanza e resta di fatto l’unica categoria applicabile a Dio: Ubi notandum quod, cum in deo, ut iam supra dictum est, sint tantum duo praedicamenta, substantia et relatio, substantia in ratione substantiae non est sui diffusiva, tum quia ad intra respicit, ad se ipsam est, non ad aliud, tum quia secundum se et per se esse respicit, quod est unum semper in divinis33.

È insieme alla ratio della relazione, dunque, che l’essenza divina diviene propriamente generatrice; ed è per questo che Santi e Dottori dicono che non è esatto affermare che l’essenza divina genera. Essi affermano che la potenza generativa, la potentia generandi, non è essenza assolutamente, ma essenza cum relatione: Propter quod optime dicunt sancti et doctores quod in divinis essentia non generat. Dicunt etiam doctores communiter quod potentia generandi non est essentia absolute, sed essentia cum relatione. Quid autem principalius, nodosa quaestio est34.

Eckhart accenna qui ad una nodosa discussione, che decide però di non approfondire in questo luogo; i doctores a cui si riferisce sono Tommaso d’Aquino, Bonaventura, Enrico di Gand, i quali si erano chiesti se il principio generativo risiedesse nell’essenza di Dio o piuttosto nella persona del Padre, ovvero nella relazione. Ma Eckhart riprenderà il discorso più tardi, durante il suo secondo soggiorno a Parigi come magister, quando discuterà la Questione Utrum essentia divina esset actualior quam proprietas e sentirà la necessità di prendere parte esplicitamente alla discussione sulla relazione, in corso in quegli anni tra i suoi contemporanei. Per ora, Eckhart si limita a stabilire che la relazione è necessaria affinchè avvenga la generazione, poiché in essa riesiede la ragione della fecondità e della diffusività di Dio; e chiama a suo sostegno

33 34

Eckhardus, In Eccl. n. 11, LW II, p. 240,10. Eckhardus, In Eccl. n. 11, LW II, p. 241,2.

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Boezio, il quale in questo senso affermò che l’essenza racchiude l’unità, mentre la relazione la moltiplica: Oportet igitur necessario quod relatio sit, ratione cuius est fecunditas et diffusio in divinis. Et hoc est quod Boethius dicit:»essentia continet unitatem, relatio multiplicat trinitatem«35.

La relazione, infatti, (e non l’essenza) presuppone di necessità un principio, che sia origine del principiato; questo è evidente se si osserva la relazione generativa di Padre e Figlio: il Padre, infatti, non genera il Figlio in quanto è una sostanza, ma in quanto è il principio del Figlio; perciò è scritto: in principio, ovvero nel Padre, erat Verbum36. Il principio, in quanto primo, stabilisce una relazione d’origine con ciò che procede da lui, poiché il Primo è sempre primo di qualcosa: Principium autem, sicut et li primum, relationem importat ordinis et originis. In De causis enim dicitur:»primum est dives per se«.»Primum«ait, non primus, quia ratione relationis sive ordinis habet deus diffusionem sive fecunditatem tam in divinis quam in creaturis: ‘dat omnibus affluenter’, id est omnia37.

Nella concordanza grammaticale di primum e omnia, Eckhart legge la relazione tra il principio e tutte le cose che si generano da lui: nel Liber de causis c’è scritto “primum est dives per se”; Eckhart nota: primum, e non primus, ad indicare che il principio non è in relazione unicamente con se stesso, racchiuso in una privilegiata solitudine; il principium è, invece, in relazione con tutte le cose, in ragione della sua diffusività e fecondità. Questo principio è l’Intelletto; esso fonda tanto l’essere divino quanto l’essere di ogni cosa che è, direttamente e completamente. È necessario, infatti, che la causa dia tutto a tutto, o ad ogni cosa o a nessuna: Prima enim causa necessario dat omnibus omnia; aut enim omnibus aut nulli, omnia vel nihil38.

35 36 37 38

Eckhardus, In Eccl. n. 12, LW II, p. 241,5. Eckhardus, In Eccl. n. 12, LW II, p. 241,10. Eckhardus, In Eccl. n. 12, LW II, p. 241,11. Eckhardus, In Eccl. n. 12, LW II, p. 242,5.

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La relazione d’origine prevede una corrispondenza fra i componenti del rapporto, tra il principio e il principiato, che si manifesta in una tensione reciproca dell’uno verso l’altro. È questo il senso dell’ultima parte del versetto “Ego quasi vitis fructificavi suavitatem odoris”: la suavitas odoris, la dolcezza del frutto di Dio, attira a sé ogni uomo in cui si genera la sapienza divina. La forza di attrarre a sé è una proprietà dell’amato, che induce l’amante a tendere perennemente verso il suo oggetto. Per questa ragione il giusto è mosso dalla sola giustizia, tende verso di lei e non è attratto da null’altro se non da lei: Iustum enim in quantum iustum nihil prorsus trahit nisi iustitia, et trahit ipsum iustitia et omne iustum, sicut videmus quod oculum sive visum nihil movet vel trahit nisi color et coloratum. (…) Nunc autem sic est quod solum supremum sive altissimum sua vi trahit; omnia quae subsunt trahunt in vi superioris39.

L’oggetto che con la sua forza muove l’aspirazione dell’uomo portatore della parola di Dio è la sapienza divina; questa, infatti, è il principio supremo e più alto, la sapientia increata, verso cui tende tutto ciò che le è inferiore e che si origina da lei. E in questo consiste esattamente la relazione d’origine descritta qui da Eckhart, ovvero il secondo momento della vita della sostanza divina: l’effondersi del principio in tutte le cose, a cui corrisponde la tensione perenne di queste verso la loro causa originaria. Le dinamiche di questo processo sono dinamiche intellettuali: il primo principio è puro intelletto; l’uomo in cui si genera la sapienza divina tende verso di Lui, è mosso unicamente da Lui come dal suo oggetto, allo stesso modo in cui la vista è mossa dal colore. 7. La teoria della relazione nella metafisica dell’Intelletto Nelle Questioni parigine e nei sermoni sul capitolo 24 dell’Ecclesiastico la teoria della relazione si colloca in una metafisica che prevede la primarietà dell’intelletto: Eckhart la difende tanto contro la dottrina tomista della primarietà dell’essere quanto contro i france-

39

Eckhardus, In Eccl. n. 13, LW II, p. 242,11.

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scani parigini40. Non dovrà sorprendere, allora, che nel pensiero eckhartiano il momento generativo si configuri come relazione, dal momento che l’intelletto è una sostanza che per sua natura opera relazionandosi: l’apprensione intellettuale, infatti, è un rapporto all’oggetto. Nella prima questione parigina Utrum in deo sit idem esse et intelligere, questo rapporto è istituito da Dio unicamente con se stesso: Lui, l’oggetto del proprio pensiero, colma tutta l’infinita capacità dell’Intelletto divino, che si riempie di sé, non lasciando alcuna potenzialità incompiuta. Per Eckhart, l’identità di esse e intelligere significa proprio questo: attaverso la conversione dell’intelletto su se stesso e la sua coincidenza, Dio fonda il suo essere. In questa questione l’intelletto è considerato unicamente in se stesso, prima o a prescindere dalla relazione; la sua caratteristica è l’introversione; la stessa che nel primo sermone sull’Ecclesiastico si trova espressa nel pronome ego. Mentre nella prima questione parigina l’autoriflessività dell’intelletto è descritta per mezzo degli argomenti di Tommaso, attinti al patrimonio aristotelico, nella predica Ego quasi vitis fructificavi suavitatem odoris Eckhart si richiama alla tradizione filosofica neoplatonica, citando Porfirio, Avencebrol, il Liber de causis, il Liber XXIV philosophorum, Boezio. L’indeterminatezza dell’Intelletto è ancora una volta il segno della perfetta unità della sostanza divina: l’impossibilità di circoscrivere l’essenza di Dio per mezzo di accidenti non indica tanto una passività o una mancanza, quanto una pienezza traboccante, una sovrabbondanza, che risulta dalla coincidenza assoluta di tutti i generi nell’unico essere divino. In questo luogo, come nella prima questione parigina, il movimento riflessivo dell’Intelletto è il fondamento della sostanza divina, tutta riversata su se stessa reditione completa. Si tratta del primo momento della vita di Dio, caratterizzato dal suo essere totalmente ad intra; la relazione, ovvero il momento generativo, ne rappresenterà invece la seconda fase, la manifestazione ad extra. Si è visto che la bipartizione del sermone rispecchia questi due aspetti: la sostanza (ego) e la relazione (quasi vitis) sono i soli predicamenti ammessi nella definizione del divino, in conformità con la teologia tradizionale agostiniana e boeziana. Decisamente meno

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Eckhardus, Quaest. Par. III, LW V, p. 55-71.

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convenzionale è, però, il modo in cui Eckhart elabora questo principio teologico riconosciuto dalla scolastica. La relazione d’origine non rimane un privilegio dei rapporti intratrinitari, ma riguarda tutte le cose indistintamente, tanto in divinis quanto in creaturis, dal momento che (afferma Eckhart) è necessario che la prima causa dia tutto a tutte le cose, omnia vel nihil. A questa effusione indifferenziata corrisponde la tensione perenne di tutte le cose verso la loro origine. Le due relazioni condividono la stessa struttura, quella dei processi conoscitivi: conoscendo se stesso, Dio è causa del proprio essere e di quello di tutte le cose; le cose, a loro volta, sono mosse dalla loro causa, sicut oculum sive visum nihil movet vel trahit nisi color et coloratum. È questa, infatti, la dinamica prevista da tutti i processi intellettuali: l’oggetto è sempre la causa della conoscenza. Per questa ragione, afferma Eckhart che la relazione, che pure si origina nell’Intelletto, ha tutto il suo essere dal suo termine opposto, ab obiecto et a suo opposito41. È chiaro che solo Dio è oggetto e causa di se stesso; la conoscenza delle creature, invece, sarà determinata, nei processi conoscitivi ordinari, dagli oggetti esterni. Eckhart lo afferma chiaramente nella prima Quaestio parigina: l’Intelletto di Dio differisce da quello delle creature quia scientia dei est causa rerum et scientia nostra est causata a rebus42. E tuttavia, si tratta dello stesso Intellectus: esso ha, in quanto tale, natura di principio, da cui si originano tutte le operazioni intellettuali, quelle divine e quelle umane. Le dinamiche intellettuali sono, per Eckhart, le uniche adeguate ad esprimere la condizione del divino. La teoria della relazione si situa nel cuore della sua metafisica dell’Intelletto, così intensamente tematizzata in queste opere; ne costituisce, difatti, il punto nodale: essa è il complemento indispensabile della sostanza, rappresenta la sua attività ad extra: è l’operazione intellettiva, l’intelligere. Né nella prima questione parigina, né nel primo sermone sull’Ecclesiastico, le caratteristiche della categoria della relazione vengono ancora stabilite in modo sistematico: i due testi non sono dei trattati sullo status della relazione. Nel Sermo I, Eckhart dimostra di essere al corrente della nodosa quaestio sulla primarietà della sostanza o 41 42

Eckhardus, In Eccl. n. 10, LW II, p. 239,8. Eckhardus, Quaest. Par. n. 8, LW V, p. 44,10.

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della relazione nella generazione divina, intorno a cui discutevano sancti e doctores; ma sceglie, per ora, di non entrare nel merito della questione. L’intenzione di Eckhart, in questi testi incentrati sul tema dell’Intelletto, è in primo luogo stabilire la natura di principio della sostanza intellettuale in quanto tale, la sua indeterminatezza, la sua sussistenza e la sua differenza da tutto il resto; in secondo luogo, stabilire che l’operazione che segue a questo stato di quiete, l’intelligere, è un atto costitutivo di tutto l’essere, in divinis e in creaturis, e si configura come relazione intellettuale. La riflessione sulla relazione è funzionale al riconoscimento di questi due momenti. Sulla base di queste premesse, risulta già evidente che il ruolo della relazione non si esaurisce, nel pensiero di Eckhart, a quello della mera significazione categoriale. L’urgenza delle domande di routine per definire lo statuto ontologico della relazione (realtà e accidentalità della relazione, identità della relazione con il suo fondamento, reciprocità della relazione tra Dio e il creato) dev’essere, tuttavia, temporaneamente sospesa, e le risposte rimandate ad altri luoghi dell’opera; una definizione precisa dello status ontologico della relazione in sé verrà data infatti da Eckhart più tardi, nell’Expositio libri Exodi.

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II LO STATUS ONTOLOGICO DELLA RELAZIONE IN EXPOSITIO LIBRI EXODI

Il processo di assimilazione dell’eredità greca aveva messo i filosofi cristiani di fronte alla necessità di confrontarsi con la visione di un mondo strutturato in sostanze e accidenti, e aveva anche offerto così la possibilità di spiegare il dogma trinitario attraverso la categoria della relazione. Si trattava, dunque, di un problema antico, e tuttavia sempre attuale. Per Eckhart, in particolare, la questione era senza dubbio interessante, dal momento che richiedeva di definire con esattezza il ruolo della relazione, ovvero della distinctio, all’interno della sua metafisica, così profondamente segnata dalla tensione verso l’unità. Nel commento al verso “Omnipotens nomen eius”1, in Expositio libri Exodi, Eckhart offre la prima e probabilmente la più dettagliata definizione dello status ontologico della categoria della relazione che si ritrovi nella sua opera. Si tratta di un commento denso, in cui sono approfonditi molti aspetti importanti del pensiero eckhartiano. È diviso in due parti: la prima costituisce una trattazione dell’onnipotenza divina, e affronta temi attuali dell’epoca, come la potentia generandi, la creazione ex nihilo, l’ipotesi che Dio possa compiere azioni malvagie; la seconda parte espone il verso da un altro punto di vista, ovvero la possibilità di definire la sostanza divina con una qualsiasi determinazione: nel versetto si dice, infatti, che omnipotens è il nome proprio di Dio. La digressione sulla categoria della relazione s’inserisce in questa seconda parte, e rappresenta il passaggio finale ma decisivo dell’intera discussione: dopo la sostanza, la relazione è (ancora una volta in conformità a Boezio e ad Agostino) l’unico predicamento adeguato a definire la dimensione divina.

1

Eckhardus, In Exod. n. 27, LW II, p. 32,1.

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La riflessione sulla struttura dell’Intelletto è accompagnata, questa volta, da un’approfondita analisi ontologica della categoria: il carattere d’estraneità della relazione rispetto alla sostanza è argomentato sulla base della sua inconsistenza ontologica. In questo contesto, l’aporia aristotelica, che vedeva la scienza rientrare in due categorie differenti, diviene esplicativa della dinamica dell’Intelletto, e, quindi, del processo di generazione: la conoscenza in quanto qualità costituisce il soggetto, sebbene in quanto relazione si riferisca al suo termine opposto; l’altro assume, in questo processo, il ruolo di vera e propria causa determinante, e non resta la pura condizione del rapporto. Traspare, nelle argomentazioni che costiuiscono questo testo, la precisa consapevolezza di Eckhart tanto delle origini filosofiche del problema, quanto degli aspetti divenuti cruciali. La sua teoria della relazione si sviluppa senza dubbio lungo le coordinate storiche e filosofiche del suo tempo, e tuttavia si colloca già in una prospettiva moderna. Il rifiuto del carattere accidentale della relazione, stabilito con forza in questo commento come in nessun altro luogo della sua opera, segna questa differenza di prospettiva. Per questa ragione, si tratta di un luogo estremamente significativo per la nostra indagine sulla dottrina della relazione. Vediamolo. 1. I generi predicamentali Al fine di stabilire la massima indeterminatezza della sostanza di Dio, Eckhart sviluppa un’accurata riflessione sulle categorie, che costituisce più della metà dell’intero commento. Per prima cosa, egli mette in guardia da un facile malinteso: non bisogna confondere gli enti, le cose, con i generi delle cose e ciò che essi indicano. I dieci predicamenti, infatti, non sono dieci enti né dieci cose, dal momento che uno solo è realmente ente, ovvero la sostanza; i dieci predicamenti sono invece dieci generi, e si dicono enti solo in rapporto ad essa, non in recto, sed in obliquo2. L’analogia che intercorre tra la sostanza e i generi è la stessa che c’è tra la sanità e l’urina: l’urina è sana non in ragione della sanità che le inerisce, perché la salute non è una proprietà che le appartiene realmente; l’urina è detta sana solo perché è il riferimento alla sa2

Eckhardus, In Exod. n. 54, LW II, p. 58,15.

Lo status ontologico della relazione in Expositio libri Exodi

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nità che esiste davvero solo nell’animale; allo stesso modo in cui la ghirlanda all’ingresso è solo il riferimento al vino che si trova nella taverna e nel vaso: Sic urina dicitur sana non sanitate formaliter inhaerente, se sola analogia ad ipsam sanitatem extra (…) quomodo et vinum est in circulo significante vinum esse in taberna et in vase. Hinc est quod omnia huiusmodi novem praedicamenta non sunt entia in recto, sed in obliquo, puta entis. Ratio est, quia sola forma substantialis dat esse3.

In questo stesso senso, i predicamenti non possiedono l’essere; essi sono, unicamente in rapporto alla sostanza, di cui riferiscono il come e il quanto, ma a cui non conferiscono la proprietà di essere qualcosa; questa spetta realmente solo alla sostanza, la quale universalmente è una. I generi, pertanto, condividono tra loro lo stesso status ontologico: al di fuori del riferimento alla sostanza, essi, semplicemente, non sono; non dipendono l’uno dall’altro, né può darsi che qualcuno sia analogato dell’altro. Ma Eckhart annuncia sin d’ora che la relazione non rientra tra questi, perché si colloca su un piano diverso da quello delle categorie; essa si trova sullo stesso livello della sostanza e, sebbene possieda la minima entità, è ugualmente prima e superiore a tutti gli altri predicamenti: Non autem sunt genera analogice, sed sunt genera univoce, alias non essent decem prima genera. Primum enim ut sic non pendet ab alio nec dependet nec analogatur ad aliud. Dico ergo quod relatio, quamvis dicatur minime ens, tamen aeque primum genus praedicamenti sicut ipsa substantia. Hoc enim ipsum nomen primi indicat4.

I predicamenti, dunque, sono detti generi univocamente, dal momento che sono tutti ugualmente un riferimento alla loro origine comune; e, per la stessa ragione, sono detti enti solo in analogia alla sostanza, poichè si generano in essa e lì solo hanno l’essere. Il rapporto di analogia, con cui Eckhart definisce la relazione delle categorie alla sostanza, implica che la fonte da cui l’essere procede negli analogati sia una sola, e che questi siano, allora, solo i portatori di una realtà che non appartiene loro veramente; e, nel 3 4

Eckhardus, In Exod. n. 54, LW II, p. 58,11. Eckhardus, In Exod. n. 54, LW II, p. 59,10.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

contempo, l’analogia implica che l’esse presente a ciascun soggetto che est albus oppure est sciens, sia identico e sia uno solo, indipendentemente dalla sue determinazioni particolari; allo stesso modo in cui la salute è la stessa nell’urina e nell’animale. Nella prospettiva eckhartiana, tutte le determinazioni (ens, tanto quanto albus, iustus, e simili!) sono riferimenti a realtà (l’esse, l’albedine o la iustitia) che non sono vere proprietà del soggetto individuale, ivi compreso il suo stesso essere. L’esse, pertanto, e tutte le altre proprietà non entrano in composizione con l’ente, perché non gli si aggiungono né hanno in lui il loro principio, ma piuttosto lo costituiscono. Ciò presuppone che abbiano un’origine diversa; e questa è l’essenza divina: esse cum ente non ponit in numerum, nec universaliter forma cum formato. Esse autem et omnis forma a deo est, utpote primo esse et forma prima. Nulla igitur in ipso deo distinctio esse potest aut intelligi5.

In Dio, i generi sono racchiusi nello stato di massima perfezione; qui i predicamenti si trovano nello stato di principio e dunque nella condizione di massima unità, poiché in ipso necessario sunt unum simpliciter, quia ‘deus unus’6. Ed è impossibile, quindi, che i generi definiscano la sostanza divina, dal momento che la determinazione è propria solo delle sostanze imperfette, presso cui è necessario che sopraggiungano altre realtà e ne costituiscano l’essere; il quale, diversamente, non è nulla, non basta a se stesso, non è sufficiente a conoscere e necessita che sopraggiunga l’habitus della conoscenza; Dio, invece, basta a se stesso e a tutte le cose: Sic etiam, quia essentia hominis non sufficit ad intelligere et ad scire, propter hoc ipsi additur potentia intellectiva et habitus scientiae (…) Deus autem, utpote primum et supremum, sibi suffucit ad omnia et in omnibus7.

La distinzione tra gli attributi divini, ovvero la potenza, la sapienza, la bontà e simili, si trova dunque unicamente in sola apprehensione intellectus nostri8, perché nella sostanza divina non ci sono distin5 6 7 8

Eckahrdus, In Exod. n. 60, LW II, p. 66,4. Eckahrdus, In Exod. n. 57, LW II, p. 62,10. Eckahrdus, In Exod. n. 51, LW II, p.54,7. Eckahrdus, In Exod. n. 58, LW II, p. 63,14.

Lo status ontologico della relazione in Expositio libri Exodi

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zioni, non c’è moltitudine, non c’è il numero; e tuttavia queste proprietà non sono vanae o falsae attributiones9, perché corrispondono a qualcosa di reale in Dio. Esse riguardano l’intelletto; corrispondono a diverse rationes o conceptiones che il pensiero dialettico, qual è quello umano, riconosce all’interno dell’assoluta indeterminatezza della sostanza divina. 2. L’eccezionalità della categoria della relazione Una volta stabilito che i generi non determinano la sostanza divina, è necessario approfondire la ragione per cui la categoria della relazione sfugge a questo principio; Agostino, Boezio, Santi e Dottori della Chiesa erano infatti convenuti nel riconoscere a Dio due predicamenti: la sostanza e la relazione10. Eckhart dedica, così, la parte conclusiva del commento interamente all’analisi dello statuto ontologico della relazione. L’osservazione premessa a proposito del discorso sui generi deve essere ribadita: non bisogna confondere gli enti, le cose, con i generi e ciò che essi indicano; il rischio di confondere le realtà predicamentali con le proprietà individuali del soggetto ricorre, infatti, a maggior ragione nel caso nella categoria della relazione. Questa non solo non è una proprietà del soggetto singolo, come non lo sono tutte le altre categorie; la relazione è, in sé, il puro riferimento all’altro, il respectus. Per chiarire ulteriormente questa differenza, Eckhart si sofferma brevemente sul modello della predicazione qualitativa: l’attributo albus è primariamente l’immediato riferimento ad albedo, ovvero alla qualità della bianchezza in sè, di cui il soggetto singolo è il portatore; e in ragione di questo e in seconda istanza, l’aggettivo albus assume l’aspetto di proprietà accidentale del soggetto: Albedo enim quamvis sit in subiecto et accidens sive inhaerens subiecto, non tamen significat albedinem per modum inhaerentis, sicut hoc nomen»albus solam quidem qualitatem significat«, sicut albedo et subiectum consignificat sive connotat, et propter hoc significat ipsam per modum accidentis et inhaerentis11. 9 10 11

Eckahrdus, In Exod. n. 61, LW II, p. 66,8. Eckahrdus, In Exod. n. 62, LW II, p. 67,4. Eckahrdus, In Exod. n. 63, LW II, p. 67,12.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

Nel caso della relazione, invece, la situazione è decisamente diversa: la condizione accidentale, la condizione di inerenza, è puramente fittizia: la relazione non indica il soggetto; indica, piuttosto, la sua tensione ad extra. Ripetendo la formula di Tommaso, Eckhart stabilisce che i momenti propri della categoria della relazione sono due: la ratio, ovvero il suo proprio contenuto categoriale, che corrisponde al concetto individuato dall’intelletto; e l’esse, ovvero il fondamento, che corrisponde, invece, alla proprietà essenziale (puta qualitate, quantitate aut huiusmodi12) in cui la relazione si genera. Ma la relazione, secondo il suo genere e secondo la definizione che le è propria, non costituisce in alcun modo una proprietà del soggetto, non vi pone nulla, non si aggiunge alla sostanza al modo di un attributo; la relazione deriva ex altero, ed è diretta ad alterum. Essa è, solo nella misura in cui permane l’altro, ovvero il secondo termine del rapporto; e cessa di esistere, nel momento in cui l’altro viene a mancare. Per questa ragione la relazione è, nei confronti del suo termine di riferimento, simultanea secondo il tempo, secondo natura e secondo il concetto: Relatio igitur secundum genus suum et secundum id, quod est relatio, non ponit aliquid prorsus in subiecto nec dicit aliquod esse nec inesse, sed id quod est ex altero et ad alterum est, ibi oritur, ibi moritur, illi est et illo est et per illud est»simul tempore, natura et intellectu«13.

Per questi motivi la relazione è l’unica tra i predicamenti a non essere principio di alcuna operazione che abbia origine dal soggetto. Dio, infatti, è sapiente, buono e onnipotente attraverso la sua propria sostanza; ma non è, attraverso la sua sostanza, relato ad un altro; lo è, piuttosto, attraverso la relazione. È questa, dunque, la spiegazione eckhartiana dell’assegnazione di due soli predicamenti a Dio, substantia et relatio, su cui convengono tutti i Santi e i Dottori della chiesa: sostanza e relazione non entrano in composizione tra loro nell’unità assoluta in cui versa la sostanza di Dio; la tensione ad extra, propria solo della relazione, è ciò che la rende l’unico predicamento che non passa nella sostanza divina:

12 13

Eckahrdus, In Exod. n. 64, LW II, p. 68,7. Eckahrdus, In Exod. n. 64, LW II, p. 68,8.

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deus substantia sua est sapiens, bonus, omnipotens et huiusmodi, non autem substantia sua est relatus ad alterum quippiam. Propter hoc relatio secundum modum significandi sive praedicandi (…) manet in divinis. (…) Haec est ergo ratio, quare omne genus accidentis transit in substantiam in deo praeter relationem14.

In ambito creato, la predicazione categoriale è l’espressione della finitezza delle creature. Esse sono determinate nei generi; i quali sono, tutti, il riferimento ad una sostanza che non appartiene loro propriamente; e tuttavia formano con il soggetto un unico essere, anche se fossero mille accidenti, proprio perché lo costituiscono. In ambito divino, invece, la predicazione categoriale non può aver luogo, perché Dio non è soggetto ad alcuna determinazione: i generi coincidono con la sostanza completamente, si trovano in essa allo stato di principio. Per questo Eckhart afferma che tutti i generi passano nella sostanza divina; tutti, all’infuori della relazione. La categoria della relazione costituisce un’eccezione perché è l’unica che non deriva il suo essere dalla sostanza, ma, al contrario dal termine che le si contrappone. Per questa ragione, la relazione resta esterna alla sostanza divina, quasi foris stans15; e in questo senso, Aristotele nella Metafisica aveva affermato che la scienza, considerata in quanto relazione, spetta più all’oggetto della conoscenza che al conoscente: Relatio autem sola non sortitur genus suum praedicamentale a subiecto nec per ordinem ad subiectum, sed potius ad illius oppositum. Propter hoc solum genus praedicamenti relationis non transit in substantiam in divinis, sed manet quasi foris stans. Propter quod antiqui dicebant relationes esse assistentes et foris stantes. Et hoc est quod V Metaphysicae dicitur,»quod scientia, in quantum relatio, non est scientis sed scibilis«16.

Il richiamo ad Aristotele è particolarmente significativo; si tratta, infatti, di una dichiarazione che aveva avuto una forte eco nella considerazione medievale della relazione, dal momento che sta14 15 16

Eckahrdus, In Exod. n. 64, LW II, p. 69,2. Il riferimento è alla posizione di Gilberto di Poitiers, poi ritrattata nel Concilio di Reims; con ogni probabilità Eckhart la registra da Tommaso d’Aquino. Eckahrdus, In Exod. n. 65, LW II, p. 69,16.

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biliva il carattere di unilateralità della conoscenza, considerata in quantum relatio: la conoscenza dipende realmente dal conoscibile, ha verso di lui una relazione di reale dipendenza. La dinamica dell’apprensione intellettuale si descriveva, infatti, in questi termini: l’oggetto svolge ruolo di causa, ed è origine, nel soggetto, di un essere intellettuale. Il conoscibile, invece, ha con la conoscenza una relazione puramente logica (secundum rationem), poiché non è legato nel suo essere al conoscente; le si riferisce per un’unica ragione: in quanto ne rappresenta il fine. Per questo, Aristotele affermava che la relazione (di conoscenza) è sempre relazione al conoscibile. In teologia, questo era divenuto il principio per stabilire l’irreciprocità della relazione dell’uomo a Dio, raffigurato nell’oggetto di conoscenza: all’interno di questo rapporto, la relazione ha natura accidentale solo nell’uomo; resta, invece, del tutto esterna alla sostanza di Dio. Ma noi sappiamo che nella prospettiva eckhartiana le determinazioni accidentali sono un riflesso di realtà di cui l’uomo è solo il portatore. Le coordinate entro cui si sviluppa la dottrina della relazione di Eckhart divengono progressivamente sempre più chiare; la costituzione ontologica dell’essere (tanto di quello divino quanto di quello creato) riflette le dinamiche intellettuali. 3. La conoscenza in quantum qualitas La conoscenza è, dunque, in quanto relazione intellettuale, un rapporto del soggetto ad alterum. Ma stabilire il ruolo determinante dell’oggetto all’interno del processo intellettuale significa ammettere che la conoscenza si costituisce ed è qualcosa di reale nel soggetto, sebbene questo non ne sia la causa. Eckhart nota che la natura di operazione, propria dei processi conoscitivi, sembrerebbe contraddire l’idea che la relazione intellettuale derivi ex altero; la conoscenza, infatti, parrebbe essere un’attività che si origina dal soggetto, piuttosto che una proprietà che si trova nel soggetto: Sed contra hoc videtur fortassis quod praedicamentum actionis non significat»ut in agente, sed«potius significat»ut ab agente«. Et secundum hoc eadem ratione non transiret in substantiam, cum non significet

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aliquod inesse sed ab aliquo esse. Sed haec dubitatio solvitur, quia, licet actio non significet ut in agente, id tamen, quod significat, est aliquid et secundum aliquid in subiecto, puta secundum principium sui17.

Si tratta, però, di un dubbio infondato. Sebbene, infatti, il predicamento dell’azione non definisca qualcosa all’interno del soggetto, tuttavia indica qualcosa che si trova nel soggetto in forma di principio. L’esempio dell’atto virtuoso è esplicativo di questa dinamica: esso si origina nella sostanza, lì trova il suo principio; eppure riceve tutto il suo essere e la sua ratio dalla bontà del fine, da cui è mosso. Allo stesso modo la sostanza contiene i principi della conoscenza; sebbene essa sia determinata dall’oggetto conoscibile, che ha, di fatto, ragione di causa. Nel pensiero eckhartiano, la struttura categoriale è espressione di questo processo di determinazione, che (è ormai evidente) segue le dinamiche dei processi intellettuali: si origina nella sostanza, che possiede i principi della conoscenza; deriva dalla relazione ad alterum; e, infine, si costituisce in essere all’interno del soggetto; la conoscenza, infatti, si trova nel soggetto in quantum qualitas. Diversamente dalla relazione, la categoria della qualità rientra nel modo della predicazione convenzionale: essa è l’elemento che riferisce il soggetto alla sostanza di cui questo è portatore (per ripetere l’esempio già visto, il soggetto albus all’albedine). Per questo, la proposizione “la scientia non è sostanza” si dice una proposizione mediata: la scientia non è sostanza, ma solo perchè riguarda il soggetto attraverso la mediazione della categoria della qualità: decem praedicamenta, utpote prima, secundum rationes et modos praedicandi distinguuntur ab invicem primo et per se immediate se ipsis. Non sic de speciebus ipsorum generum. Unde»haec est immediata: ‘qualitas non est substantia’, haec autem: ‘scientia non est substantia«non est immediata, sed»mediata«. Ratio est, quia scientia propter hoc solum non est substantia, quia ipsa scientia est qualitas, quae, inquam, qualitas non est substantia, sed secundum se dividitur»contra substantiam«18.

La proposizione “la sostanza non è qualità” è invece immediata: i generi sono tutti ugualmente primi, non possono includersi o 17 18

Eckahrdus, In Exod. n. 66, LW II, p. 70,7. Eckahrdus, In Exod. n. 67, LW II, p. 71,7.

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essere l’uno il riferimento ad un altro; e per questo si distinguono tra loro immediatamente, a seconda del contenuto categoriale. Sicchè, nelle sostanze create, tutte le proprietà si troveranno distinte nei predicamenti secondo la ratio corrispondente: sciens sarà una qualità nel soggetto, perchè attraverso il tramite della qualità, la scientia si trova in lui; e non potrà mai essere identica con la sua sostanza, perché il genere qualitas e il genere substantia si oppongono secondo la ratio. La situazione è diversa, invece, in ambito divino. Qui, infatti, scientia, bonitas et huiusmodi non si trovano nella sostanza per mediazione dei generi: i predicamenti passano nella sostanza di Dio, tutti, indistintamente, praeter rationem propriam relationi19. In Dio, le categorie costituiscono un’unità con la sostanza, perché la sostanza divina è propriamente il luogo in cui si originano tutti i generi. Per questo motivo, mentre nelle creature la conoscenza è una qualità, in Dio la conoscenza è la sua stessa sostanza: scientia, bonitas et huiusmodi, quae sunt in aliis generibus accidentium, non dividuntur contra substantiam, quia ipsorum genera transeunt in substantiam, ratione quorum generum distinguebantur contra substantiam, ita quod substantia est ipsis loco omnium illorum generum. Propter quod patet secundo quod scientia in divinis est substantia, sicut scientia in nobis est qualitas20.

In Dio, scientia e substantia hanno un unico contenuto categoriale, che è quello della sostanza; allo stesso modo in cui nell’uomo scientia e qualitas appartengono alla stessa ratio predicamentale, ovvero quella della qualità: Scientia ergo in deo et substantia sunt unius rationis praedicamenti, quae est ratio substantiae utrobique, sicut in nobis scientia et qualitas sunt unius rationis praedicamenti21.

D’altra parte, afferma Eckhart, il contenuto categoriale, la ratio, non sono proprie della specie della conoscenza in quanto tale. Le specie, infatti, non possiedono una propria ratio praedicandi, poiché non si distinguono le une dalle altre in base al modo di definire 19 20 21

Eckahrdus, In Exod. n. 67, LW II, p. 72,3. Eckahrdus, In Exod. n. 68, LW II, p. 72,7. Eckahrdus, In Exod. n. 69, LW II, p. 72,16.

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una sostanza; esse si distinguono tra di loro per le specifiche differenze, che delimitano ciascuna specie all’interno del genere: Quae ratio est propria generis, quod est qualitas, non autem speciei, scientiae scilicet, nisi quia ipsa scientia est quaedam qualitas. Speciei enim non est ratio praedicandi, quia species non condividuntur secundum modos diversos praedicandi, sed secundum diversas differentias, quae sub eodem modo communis generis species costituunt22.

La scientia, insomma, non ha carattere di estraneità, non si contrappone affatto alle categorie, al modo in cui esse si contrappongono e si escludono l’un l’altra. Al contrario: essa è una specie, e pertanto, per sua natura, è inclusa nel genere; in Dio, nell’unica ratio della sostanza divina; nelle creature, nel predicamento della qualità. 4. La relazione in divinis e la relazione in creaturis Non è lo stesso per la paternità e le altre relazioni divine. Il rapporto di queste con la sostanza di Dio non è analogo a quello esistente tra la substantia e la scientia: esse non passano nella sostanza divina, perché non ne condividono la ratio. Il carattere di estraneità (che, come Eckhart ha ribadito più volte, è proprio unicamente della categoria della relazione) segna l’impossibilità della processione di una nell’altra e determina la loro coesistenza in ambito divino: la ratio della relazione è distinta dalla ratio della sostanza, e pertanto esse non si includono né si sovrappongono: Secus autem est de paternitate et similibus relationibus in divinis. Non enim est eadem ratio substantiae et ratio relationis, sicut est ratio eadem scientiae et qualitatis in nobis. Relatio enim in divinis manens secundum genus relationis est alia a ratione substantiae, sicut in nobis est alia ratio qualitatis et alia ratio substantiae23.

Le relazioni divine si identificano in paternità, filiazione e spirazione; esse si comportano come vere e proprie rationes, e si oppongono le une alle altre allo stesso modo in cui, in ambito creato, si op22 23

Eckahrdus, In Exod. n. 69, LW II, p. 73,1. Eckahrdus, In Exod. n. 70, LW II, p. 73,6.

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pongono le categorie tra di loro; non sono species, non rientrano e non potrebbero rientrare in alcun genere: Et ideo non eadem ratione simpliciter est deus pater et deus substantia, sed alia ratione est deus substantia et alia ratione etiam pater. Alia, inquam, et alia, condivisa secundum genus aliud et aliud, non solum sicut species a genere, puta scientia a qualitate, ubi non est alia nisi secundum quid24.

Paternità, filiazione e spirazione sono vere e proprie relationes: distinte realmente l’una dall’altra; ciascuna, in sé, il puro riferimento all’altra. Ma, a proposito della natura esterna della relazione, Eckhart deve aggiungere un’altra necessaria considerazione: l’assenza di riferimento alla sostanza e la sua origine ab oppositu implicano non solo opposizione e differenza; esse implicano anche che la relazione non sia una sostanza né abbia una qualsiasi natura sostanziale. La sostanzialità, infatti, spetta ai generi solo in riferimento alla substantia; la, relazione, pertanto, non ha alcuna consistenza ontologica. È questo il motivo per cui l’essere del Padre è la stessa essenza di Dio, allo stesso modo in cui lo sono l’essere del Figlio e dello Spirito Santo; la relazione non distingue l’essenza né l’essere, non definisce la sostanza. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo condividono la stessa essenza sotto rationes diverse: Rursus autem et hoc sollerter notandum quod ratio relationis, quae est genus, cum non sit esse, quia nec inesse, non distinguit esse nec essentiam, quia, in quantum relatio, nec esse nec essentiam respicit nec substantiam, sed se tota oppositum. Propter hoc manet unum esse patris et essentiae in divinis. Similiter de relationibus distinguentibus personas filii et spiritus sancti25.

La relazione non determina l’essenza, la relazione segna piuttosto la differenza; ma dal momento che non ha alcuna consistenza ontologica, non si tratta di una differenza sostanziale. Quanto si predica delle persone divine si predica in ragione delle proprietà personali di ciascuna: Dio genera in ragione della paternità, ed è generato in ragione della filiazione. Il Padre è realmente ge24 25

Eckahrdus, In Exod. n. 70, LW II, p. 73,10. Eckahrdus, In Exod. n. 71, LW II, p. 73,15.

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nerante, ed è tale nei confronti del Figlio, senza il quale non avrebbe alcuna ragione di essere Padre; allo stesso modo in cui il Figlio è realmente generato, ed è tale unicamente nei confronti del Padre. Ma non c’è tra le due persone alcuna differenza di essenza né di essere, perché la generazione divina è esattamente un conferimento d’essenza, che resta una e indistinta nel Padre e nel Figlio; per questo esistono in Dio più persone, ma solo una sostanza, una bontà, una giustizia. Così, dunque, legge Eckhart la definizione boeziana del dogma trinitario: la ratio substantiae riflette l’unità dell’essenza divina; la ratio relationis la moltiplica: Propter quod alia praedicantur substantialiter et in singulari in divinis, alia vero praedicantur relative et in plurali. Est enim una essentia, una bonitas et huiusmodi in divinis, plures autem personae et relationes reales. Propter quod Boethius ait quod essentia continet unitatem, relatio multiplicat trinitatem26.

E lo stesso avverrebbe presso qualunque creatura, se solo le proprietà racchiuse nei generi passassero nella sua sostanza, come avviene in Dio; la scientia, l’albedo e tutte le altre realtà che nell’uomo si trovano distinte, sarebbero identiche alla sua essenza, e non sarebbero qualità in lui, ma la sua propria essenza: Et si in ipso (Martinus) qualitas transiret in substantiam vel si ipsa eius substantia sufficeret ad faciendum ipsum scientem, album et universaliter qualem, procul dubio scientia, albedo et universaliter qualitas esset ipsa substantia Martini, et scientia et albedo et similia essent species substantiae et nequaquam pertineret ad praedicamentum qualitatis, nec essent species qualitatis27.

La categoria della relazione, allora, resterebbe esterna all’essere dell’uomo, allo stesso modo in cui resta esterna alla sostanza di Dio; non avrebbe alcun fondamento in cui originarsi, dal momento che substantia et relatio sono due generi che si oppongono, e, proprio in ragione di questa opposizione, restano i soli predicamenti ammessi in divinis:

26 27

Eckahrdus, In Exod. n. 72, LW II, p. 74,15. Eckahrdus, In Exod. n. 72, LW II, p.75,5.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

Secus de relatione, quae utique non transiret in substantiam Martini nec in modum praedicamenti substantiae. Unde Martinus esset quidem sciens et albus per substantiam, et scientia et albedo in ipso essent substantia, non autem esset Martinus relatus nec referretur ad aliquid per substantiam, sed potius per relationem28.

Ma nell’uomo la conoscenza non è substantia: Martino non è albus e sciens per mezzo della sua propria sostanza e del suo proprio essere; nell’uomo, la scientia è una qualità: perché Martino è bianco ed è conoscente solo attraverso la bianchezza e la conoscenza che si trovano in lui. Per questo, la relazione non resta esterna all’uomo; tutt’altro: in qualitate, quantitate aut huiusmodi (diceva Eckhart all’inizio29) consiste l’esse della relazione. L’esse della relazione è l’unico essere proprio dell’uomo. La ratio praedicandi della relazione, che consiste nell’essere un “puro riferimento all’altro”, dice invece qual è la sua vera natura: essa esprime l’origine esterna dei generi, la loro immediata derivazione ab altero, ovvero da Dio. 5. La dinamica creativa: una dinamica relazionale Nell’esposizione al versetto dell’Esodo “Omnipotens nomen eius”, Eckhart presenta la sua lettura della dottrina aristotelica delle categorie, che si rivela profondamente segnata da influssi neoplatonici: i generi sono determinazioni di un’unica sostanza, quella divina. Nella prospettiva eckhartiana, i generi non sono enti e non hanno la proprietà di conferire l’essere; non solo: l’intero apparato categoriale non ha alcuna corrispondenza reale al di fuori del riferimento alla sostanza divina. Individuare un rapporto di analogia fra le categorie e l’essere significa, infatti, esattamente stabilire l’unicità della sostanza. I generi sono, dunque, l’esplicazione nel creato di quella unità ch’è propria solo della sostanza di Dio e sono, tutti, puri riferimenti alla loro origine; essi si dicono accidenti di un soggetto solo in quanto indicano realtà che si trovano in lui, sebbene non gli appar28 29

Eckahrdus, In Exod. n. 72, LW II, p. 75,10. Vedi sopra n. 12.

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tengano veramente. In questo quadro, la categoria della relazione resta, di fatto, l’unico predicamento reale, dal momento che è il solo a non emergere dalla profondità della sostanza divina e il solo a non penetrare nella sua unità indifferenziata; la relazione, d’altra parte, è esattamente il segno della differenza. Il carattere di estraneità, su cui insiste Eckhart per tutta la lunghezza del commento, è il tratto peculiare della categoria della relazione, tanto in divinis quanto in creaturis; ma ha, nei due ambiti, implicazioni diverse. La relazione resta esterna alla sostanza divina, perché essa è propriamente il segno della dipendenza ontologica ab altero: se la bontà, la giustizia e simili non fossero identiche con la sua sostanza, Dio sarebbe bonus e iustus attraverso la bonitas e la iustitia che si trovano in Lui, ma non sono da Lui; Dio sarebbe, cioè, buono attraverso la relazione alla bontà, e non attraverso la sua sostanza. Ma noi sappiamo che Dio è sapiens, bonus, omnipotens et huiusmodi attraverso la sua propria sostanza, perché Egli precontiene tutti i generi in forma di principio ed è la fonte unica di tutto l’essere. Per lo stesso motivo, non autem substantia sua est relatus ad alterum30: Dio non è relato attraverso la sua sostanza, dal momento che questa è sussistente; lo è, invece, attraverso la relazione. Questa, infatti, secundum modum significandi spetta a Dio nella misura in cui rappresenta la ratio della generazione: il carattere di generante non risponde alla ratio della sostanza, ma a quella di Padre, ovvero della relazione di paternità. Nelle creature si presenta esattamente la situazione inversa: l’uomo è albus, sciens et huiusmodi attraverso la relazione all’albedine, alla scientia e a tutte le altre proprietà che si trovano in lui; ed è relatus attraverso la sua sostanza, poiché questa si costituisce di proprietà che non gli appartengono: finanche il suo stesso essere ha un’origine diversa da quella della sua individualità. La qualità e tutti gli altri generi che “informano” l’uomo sono, dunque, l’esse della relazione; questo rimane, di fatto, l’unico fondamento dell’uomo, un fondamento che, tuttavia, non è suo proprio e gli è, in questo senso, estraneo. La condizione di accidente reale del soggetto rappresenta, infatti, solo uno dei due momenti propri della relazione, ovvero quello che Eckhart definiva fittizio.

30

Eckahrdus, In Exod. n. 64, LW II, p. 69,2.

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La verità, affermava Eckhart all’inizio della trattazione, non rispecchia le cose, ma i modi significandi31: in sé e secundum modum significandi, la categoria della relazione ha puro carattere di riferimento; l’essere non le compete tanto quanto non compete all’uomo, se non nella misura in cui riflette quello del suo termine opposto, e precisamente quello di Dio. L’esse dell’uomo è l’esse della relazione: un esse ab altero e ad alterum. Questo significa che la relazione non svolge affatto, all’interno del processo generativo, il ruolo di causa: questo spetta unicamente alla sostanza, che, come abbiamo visto, è una; la relazione segna piuttosto il momento della differenza e della determinazione di questa nell’essere. Il processo di costituzione ontologica è, d’altronde, un processo relazionale; e le sue dinamiche sono, quindi, quelle intellettuali. Dio, infatti, è origine dell’essere secondo le stesse modalità per cui la relazione all’oggetto è causa di conoscenza: questa produce, nel soggetto, un essere che è l’immagine del conoscibile; nello stesso modo, Dio, puro Intelletto, riversa la sua sostanza nell’essere, che, di fatto, rimane essenzialmente un riflesso. La determinazione nei generi è il frutto di questa dinamica relazionale; e in virtù di questo processo, la scientia, nell’uomo, è una qualità. La lettura eckhartiana della dottrina delle categorie esprime tutta la nullità delle creature all’infuori della loro relazione a Dio; i generi sono solo in quanto espressione dell’unica sostanza intellettuale, la quale, sola, ha una propria consistenza ontologica. L’unico predicamento che, di fatto, gode a pieno titolo della sua denominazione è proprio il predicamento della relazione, il quale è primum genus praedicamenti sicut ipsa substantia32; ma la condizione della sua coesistenza privilegiata al fianco della sostanza è esattamente la sua inconsistenza ontologica. La relazione è, così, nel contempo il segno dell’infondatezza di tutto l’essere creato all’infuori del riferimento a Dio; e nondimeno è il complemento della sostanza nella dinamica in cui si realizza pienamente l’universo eckhartiano. Il quale non gode, in sé, di alcuna autonomia; ma sta, con il Creatore, in una relazione essenziale, dal momento che la relazione è identica con il suo essere. Su 31 32

Eckahrdus, In Exod. n. 63, LW II, p. 67,8. Eckahrdus, In Exod. n. 54, LW II, p. 59,10.

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questo punto Eckhart insisterà a fondo durante il suo secondo magistero parigino. Attraverso il rifiuto del carattere accidentale della relazione e la sua collocazione nella sfera divina, Eckhart compie un passo importante verso una nuova considerazione della categoria della relazione: la relazionalità è una condizione propria solo della dimensione intellettuale; e non riguarda la realtà cosale, se non per conseguenza.

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III IL CONFRONTO CON I CONTEMPORANEI

1. Cenni alla discussione Se per lungo tempo l’indagine sulla relazione era stata motivata principalmente dall’urgenza scolastica dell’incontro fra esegesi aristotelica e dottrina teologica, a partire dalla seconda metà del XIII secolo il problema della relazione si era trasformato in un vero e proprio dibattito tra intellettuali. La posta in gioco era molteplice e si collocava nel cuore di ontologia e gnoseologia: il problema nasceva dall’esigenza di conciliare il carattere d’inerenza della relazione con la sua proprietà di rappresentare una tensione ad alterum; una proprietà che, dunque, coinvolgesse necessariamente più termini. Così, la domanda sull’identità della relazione con il suo fondamento diventava la domanda sull’esistenza di res che fossero in se stesse relative. Nel contempo, interrogarsi sulla realtà delle relazioni voleva dire interrogarsi sullo status ontologico dell’intelletto: l’operazione intellettiva ha valore di pura presa d’atto della realtà cosale o può darsi che svolga, invece, una funzione costitutiva? Spesso gli studiosi hanno richiamato l’attenzione sulla polemica sorta tra Duns Scoto e Enrico di Gand, riconosciuta come punto di svolta della discussione1: l’aspra critica a cui Duns Scoto sottopose le teorie di Enrico di Gand segnò l’inizio di un dibattito che in breve tempo trasformò un tema tradizionale in una questione filosofica tanto delicata quanto spinosa. La diffusione dei nuovi testi aveva giocato un ruolo importante in questo processo. Il commento boeziano alle Categorie aveva offerto al mondo medievale gli strumenti che costituirono l’apparato con1

Cf.: M. G. Henninger, op. cit.; R. Schönberger, op. cit.; J. Decorte, op. cit.

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cettuale della discussione sulla relazione: da un lato, la distinzione tra relativum secundum dici (termine che non è portatore di relazione, ma si dice relativo perché la relazione gli si riferisce come, ad es., ad un fine) e relativum secundum esse (termini relativi nel proprio essere, come padre e figlio); dall’altro, la parallela distinzione tra relatio per se (relazione in cui i termini sono in rapporto reciproco) e relatio per accidens (relazione in cui solo uno dei due termini è portatore reale di relazione). Ma a partire dagli anni ‘60 del XIII secolo, le traduzioni di Guglielmo di Moerbeke avevano ampliato notevolmente il quadro della discussione sulla relazione. Tra i numerosi scritti che tornavano a circolare c’era il Commento alle Categorie di Simplicio, che conteneva un’attenta analisi della categoria della relazione: una fonte preziosa, sia in quanto rappresentativa dell’esegesi neoplatonica della dottrina aristotelica, sia per la ricchezza d’informazioni sulla dottrina categoriale degli Stoici2. Enrico di Gand potè così avvalersi di una più ampia documentazione, che gli permise di confrontarsi con le dottrine che i suoi predecessori non potevano conoscere se non attraverso riferimenti incompleti. La sua teoria si contrapponeva a due diverse linee di pensiero: da una parte c’era la tesi realista, propria di coloro che ritenevano ci fosse una distinzione reale, al pari di quella tra due res, tra il termine della relazione e la categoria della relazione, ovvero tra il soggetto e l’accidente. Dall’altra c’era la tesi, esplicitamente attribuita agli Stoici3, secondo cui il “relativo” avrebbe un carattere puramente denominativo, risultato dell’operazione comparativa del pensiero; e non avrebbe pertanto alcun fondamento reale nell’oggetto, né sarebbe qualcosa nell’anima. La relazione di somiglianza tra due colori sarebbe, allora, nient’altro che l’unità concettuale prodotta da un intelletto che li mette in rapporto. Ma un padre resta tale anche in mancanza di qualcuno che lo riconosca, sive intelligitur sive non intelligitur4: Enrico di Gand definì le relazioni reali nella misura in cui lo fossero i relata, poichè la realtà della relazione coincideva con quella della sua res di riferimento; il momento astratto della relazione, la sua ratio categoriale,

2 3 4

Sulla dottrina neoplatonica della relazione cf. A. Conti, op. cit. Henricus de Gandavo, Quodlibet IX q. 3 (Parisiis 1518, f. CCCXLVIIv). Henricus de Gandavo, Quodlibet III q. 4 (Parisiis 1518, f. LIr).

Il confronto con i contemporanei

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definiva invece il suo modus essendi, che consisteva in un “modo di essere ad aliud”: il respectus. La teoria del modus essendi parve a Scoto contraddire il principio della varietà entro cui si dividono l’essere ed il pensiero, sino al punto da spingerlo ad affermare che la tesi dell’indistinzione della relatio dal suo termine sarebbe contra omnem philosophiam5. Nel pensiero di Scoto, la distinzione tra i diversi predicati dell’ente e quella degli accidenti dalla sostanza segnava, d’altra parte, i momenti di identità e differenza, che stavano alla base della costituzione di tutto il reale. Per di più, l’idea che una sostanza fosse in sè il riferimento ad un’altra metteva in crisi il principio dell’autonomia degli enti: il rischio intravisto da Scoto consisteva nella possibilità di postulare l’esistenza di sostanze che fossero in se stesse relative6. Anche Scoto, come Enrico di Gand e ancor prima Tommaso d’Aquino, individuò nella relazione il momento della ratio, ma non vi attribuì nè valore puramente concettuale né quello di modus essendi, ma piuttosto quello di causa: la ratio categoriale della relazione costituisce la causa del relazionarsi degli enti fra loro7; per questo essa non può identificarsi realmente con il suo fondamento, nonostante la concomitanza che li congiunge in un unico soggetto. La dottrina scotista della distinctio formalis doveva garantire la realtà di questa distinzione e spiegarne la coesistenza in un unico ente. I toni con cui Duns Scoto ribadì tanto la realtà della categoria di relazione quanto la differenza di questa dal suo fondamento furono forse dettati in alcuni casi dall’impeto della sua critica contro Enrico di Gand (nell’ambito di questa polemica, giunse a definire res le relazioni8). Senza dubbio, però, la sua fu la posizione che più fortemente rappresentò le istanze “realiste” all’interno della discussione sulla relazione; che a sua volta aprì il varco a numerose critiche, in testa alle quali si trovava quella del regresso infinito delle relazioni.

5 6 7 8

Duns Scotus, Lect. II d. 1 q. 4-5 (Opera Omnia, Civitas Vaticana 1950 et seq., XVIII, p. 63). Duns Scotus, Ord. I d. 3 (Opera Omnia, Civitas Vaticana 1950 et seq., III, p. 197). Cf. R. Schönberger, op. cit., p. 157. Duns Scotus, Quodlibet III, Vivès XXV, 115b.

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Tali furono, per esempio, le obiezioni di Enrico di Harclay, Pietro Aureolo e, più tardi, Guglielmo di Ockham. 2. Le Quaestiones parisienses degli anni 1313/1314 Le Quaestiones VI, VII, VIII e IX, dicusse da Eckhart a Parigi negli anni del suo secondo magistero, sono state restituite al suo autore grazie agli studi di Markus Vinzent e Loris Sturlese. Fatta eccezione per la Quaestio VI (Utrum omnipotentia quae est in deo debeat attendi secundum potentiam absolutam vel secundum potentiam ordinatam9), le Quaestiones VII (Utrum essentia divina esset actualior quam proprietas10), VIII (Utrum diversitas esset realis vel rationis11) e IX (Utrum differentia secundum rationem sit prior quam differentia secundum rem12) costituiscono un unico blocco di discussione il cui tema centrale è la dottrina della relazione: ognuna di esse rappresenta la risposta eckhartiana a ciascuno dei problemi sorti intorno alla dottrina della relazione e discussi animatamente proprio in quegli anni. Esse sono, pertanto, un documento preziosissimo per ricostruire la dottrina della relazione di Meister Eckhart, non solo perché permettono di far luce direttamente sulla sua posizione, ma anche perché rivelano l’intenzione del maestro turingio di prendere parte in modo esplicito a quella discussione in corso tra i suoi contemporanei, mostrando quali furono gli autori con cui decise di confrontarsi, quali le dottrine che accolse e in quale misura, e quali quelle con cui entrò in aperta polemica. Fra i suoi interlocutori ci furono Tommaso d’Aquino, Bonaventura, Enrico di Gand e Durando di San Porziano. 2.1 La Quaestio VII: Utrum essentia divina esset actualior quam proprietas: una discussione sulle relazioni divine La Questione VII discute la relazione in divinis. Il problema si pone in questi termini: il principio della generazione, la potentia ge9 10 11 12

Eckhardus, Quaest. Par., LW I,2, p. 461. Eckahrdus, Quaest. Par., LW I,2, p. 463. Eckahrdus, Quaest. Par., LW I,2, p. 466. Eckahrdus, Quaest. Par., LW I,2, p. 469.

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nerandi, risiede nella sostanza divina o nella Persona del Padre, ovvero nella relazione? La questione si apre con la presentazione della prima ipotesi, che, come vedremo, sarà la tesi sostenuta da Eckhart: la potentia generandi risiede nell’essenza divina, perché questa indica attualità infinita. Subito segue la tesi avversaria: si potrebbe dire, in contrario, che ogni cosa agisce per mezzo di ciò che è maggiormente agente; il Padre sarà, allora, propriamente agente, perché Egli opera per mezzo della paternità. Prima di procedere alla disamina dei contra e quindi alla discussione vera e propria, Eckhart fa una premessa importante, che bisognerà tener presente per lo svolgimento della questione: Dicendum quod quaestio supponit proprietatem quid actuale et essentia etiam13.

La domanda sul fondamento della potentia generandi non prevede un’alternativa tra una proprietà attiva di Dio e una certa potenza passiva, che debba compiersi in atto: non soltanto l’essere Padre indica una proprietà attiva della sostanza divina, dal momento che anche l’essenza è intesa qui come un principio agente; Eckhart precisa subito che la discussione non si muove all’interno della struttura tradizionale aristotelica di potenza e atto. 2.1.1 L’obiezione a Bonaventura È proprio questo, infatti, il primo equivoco da chiarire. La prima posizione ad essere contestata è quella che individua la potentia generandi nella relazione di paternità (ovvero nel Padre) invece che nell’essenza divina, sulla base di un argomento che si sviluppa in questo modo: 1) la potenza è sempre insita nel suo atto e questo in lei; atto e potenza non possono, pertanto, appartenere a generi diversi; 2) se l’atto è del genere della relazione, sarà dunque necessario che anche la potenza appartenga al suo stesso genere. Se, inoltre, la sostanza divina fosse principio dell’atto generativo, essa comunicherebbe al Figlio quella stessa potentia generativa che

13

Eckhardus, Quaest. Par. n. 4, LW I,2, p. 463,9.

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è invece proprietà esclusiva della persona del Padre; ma è evidente che il Figlio non genera a sua volta. Il portavoce di queste tesi è Bonaventura da Bagnoregio, il quale nel suo Commento alle Sentenze scriveva: potentiae distinguuntur per actus: ergo si actus potentiae dicit quid, et potentia; et si dicit ad aliquid, tunc et potentia similiter. Sed constat quod generare in divinis non dicit quid, sed ad aliquid14.

Ma Eckhart osserva che la relazione tra il Padre e il Figlio non è regolata dalle leggi che regolano le relazioni di potenza e atto. È vero, infatti, che la potenza passiva seguirà nel genere il suo atto; ma la potenza attiva, la potentia generandi, non si presenta affatto come la passività che si suppone in ogni essere in atto; essa è, piuttosto, un principio fondativo di generazione, un principio agente, che risiede nella sostanza e quindi precede la relazione: Potentia passiva et suus actus sunt eiusdem generis, quia potentia de se non habet quod de se ponatur in genere, nunc arguit de potentia activa, quae de se potest poni in genere15.

Inoltre, si dice che nell’essenza est similitudo producti16; ma questo non può certo voler dire che il Figlio è precontenuto nel Padre, al modo in cui l’atto si trova nella potenza, perché si supporrebbe, in questo caso, solo un’identità di forma, l’univocità dei due termini. La generazione divina avviene, invece, in identità di sostanza, in cui la similitudo di cui si parla è assoluta, dal momento che realizza una vera e propria unità: Nec valet dicere quod hoc solum est verum in generatione univoca, non in identica, quia ideo valet in univocis propter unitatem formae, sed hic est maior unitas, quia est unitas numeralis17.

Eckhart rifiuta la tesi di Bonaventura, perché ammettere che la potenza generativa si concluda in un atto significa confinarla in una forma individuata, in una Persona; e significa, quindi, negare che il 14 15 16 17

Bonaventura, Sent. I d. 7 a. un. q. 1 (Ad Claras Aquas 1882, 136a). Eckhardus, Quaest. Par. n. 7, LW I,2, 463, 24-26. Eckhardus, Quaest. Par. n. 5, LW I,2, 463,16-18. Eckhardus, Quaest. Par. n. 6, LW I,2 463, 19-21.

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principio generativo sia un principio assolutamente indeterminato. Per Eckhart, il principio della generazione risiede nell’essenza divina, perchè questa è il fondamento comune, che permane indiviso in una e nell’altra Persona; e necessariamente dovrà precedere la loro differenza tanto quanto la loro somiglianza. D’altra parte, prima l’intelletto coglie la proprietà, in cui si fonda la somiglianza tra due termini; e dopo, la mette in relazione con un’altra che le è simile. Allo stesso modo, l’essenza divina precede le relazioni di Padre e Figlio: semper albedo et fundamentum praeintelligitur relationi18.

2.1.2 L’obiezione ad Enrico di Gand La seconda tesi ad essere discussa è quella che con ogni probabilità aveva il suo rappresentante in Enrico di Gand, il quale, nel III Quodlibet, scriveva: oportet igitur quod ex parte generantis in eo quo generat, quod est ratio generandi, duo concurrant: et ratio qua assimilat genitum generanti et ratio qua distinguit unum ab alio. Ita quod principalior sit ratio generandi ex parte eius qua distinguit quam qua assimilat. (…) Ratio autem qua distinguit, est paterna proprietas patris constitutiva19.

Enrico di Gand sosteneva che due elementi concorressero al processo di generazione: l’assimilatio, che determina la somiglianza tra il generante e il generato; e la distinctio, ovvero il momento della distinzione formale del Padre e del Figlio. La priorità in questo processo spetterebbe, secondo Enrico di Gand, alla differenza e alla relazione, dal momento che la generazione si caratterizzerebbe proprio della distinzione formale delle Persone divine. Così Eckhart riferiva, nella sua Quaestio, quanto alii dicunt a proposito del ruolo principale della relazione nel processo generativo: essi sostenevano che all’essenza certamente si deve la somiglianza tra generante e generato; ma la distinzione da sé è il fine proprio del producente:

18 19

Eckhardus, Quaest. Par. n. 6, LW I,2, 436, 21-22. Henricus de Gandavo, Quodlibet III (Parisiis 1518, f. Lv).

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Alii dicunt quod essentia et proprietas sunt potentia, principalius tamen dicunt proprietatem. Ratio eorum: quidquid est in genito habet aliquid respondens in generante. Sed in genito est natura et relatio. Ergo etc. Principalius tamen importat proprietatem, nam producens assimilat productum et facit distinctum et hoc magis intendit. Ideo proprietas principalior20.

Ma non può essere che la potentia generandi risieda nel Padre, perché il momento generativo non coincide tanto con la distinzione e la relazione, quanto con la comunicazione dell’essenza. La raffinata critica di Eckhart si sviluppa, questa volta, su un’osservazione di natura grammaticale: la costruzione potentia generandi non è una costruzione compositiva né intransitiva: potentia generandi non est constructio compositiva nec intransitiva21.

Nel linguaggio medievale, questo significa che la costruzione “potentia generandi” non definisce una persona o una proprietà individuale, perché essa include in sè due riferimenti a due termini diversi22: “potentia” indica l’essenza assoluta di Dio (potentia dicit absolutum); mentre il genitivo “generandi” indica la relazione di paternità, ovvero il Padre. I due nomi non possono convergere in un’unica definizione. Né tantomeno il genitivo “generandi” esaurisce il significato del suppositum “potentia”, ma piuttosto ne costituisce una determinazione: Determinatio non tollit significatum, sed restringit quantum ad modum supponendi. Sed potentia dicit absolutum. Ergo li generandi non aufert significatum, sed solum restringit etc23

La potentia generandi, allora, non potrà coincidere con la Persona del Padre, nè potrà esserne l’immediato riferimento: essa si riferisce, invece, primariamente (in recto) all’essenza come al suo fondamento, e indica in secondo luogo (in obliquo) il Padre, come una determinazione ed una proprietà dell’essenza. 20 21 22 23

Eckhardus, Quaest. Par. n. 9, LW I,2, 464, 4-8. Eckhardus, Quaest. Par. n. 10, LW I,2, 464,13. Sul significato di constructio transitiva e intransitiva si veda lo studio di A. Beuerle, Sprachdenken im Mittelalter. Ein Vergleich mit der moderne, Walter de Gruyter, Berlin-New Yourk 2010, pp. 299-300. Eckhardus, Quaest. Par. n. 10, LW I,2, 464,10-12.

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È vero, dunque, che il momento della distinzione riguarda la relazione del Padre; ma la distinzione non può essere il principio della generazione. Il fine della generazione è la comunicazione della natura divina, unica e indivisa nel Padre e nel Figlio; per questa ragione e a questo scopo, il Figlio viene generato e distinto dal Padre, e sta a Lui come termine della relazione generativa: quantum ad terminum generationis magis intenditur distinctio. Sed intentio agentis magis est communicare naturam24.

La distinzione non può essere il principio della generazione, perché questa non può essere opera di una forma già individuata: è questo il punto della dottrina di Enrico di Gand che Eckhart non può accettare. Essa ne è, piuttosto, la conseguenza. I sostenitori di quella tesi, dunque, non colsero il vero significato del problema: non capiunt intellectum quaestionis; perchè non sono in discussione le proprietà individuali dell’essenza divina, ci si interroga, invece, sul fondamento ultimo da cui si origina la generazione. Perciò, Eckhart conclude con decisione: Item conclusio est falsa25. 2.1.3 Tommaso d’Aquino L’unica tesi ragionevole sembra essere quella che il confratello Tommaso d’Aquino aveva esposto in I q. 41 a. 5 nella Summa theologiae; Eckhart tiene presente questa questione per tutto il corso della discussione. La potentia generandi, il principio intrinseco della generazione, risiede nell’essenza divina: Alii dicunt quod potentia generandi formaliter et intrinsece est essentia, quod teneo26.

Formaliter et intrinsece la potenza generativa è l’essenza divina; essa resta la ragione comune per cui Padre e Figlio si richiamano rispettivamente l’un l’altro; essa rimane cioè, il presupposto della loro reciproca relazione d’identità. È necessario, quindi, che l’essenza sia anteriore, perché il fondamento precede sempre ciò di cui

24 25 26

Eckhardus, Quaest. Par. n. 11, LW I,2, 464,16-17. Eckhardus, Quaest. Par. n. 10, LW I,2, p. 464,9-10. Eckhardus, Quaest. Par. n. 12, LW I,2, p. 464,18.

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è origine: invertire i termini sarebbe come dire che il principio generativo si fonda nella produzione27: tum quia potentia est fundamentum relationis, qua producens refertur ad productum, nam non potest fundari in productione, etiam in creaturis, quia talis est in producto, ergo fundatur in potentia producendi28.

La generazione è, d’altronde (Eckhart lo ha ripetuto più volte), propriamente una trasmissione d’essenza, una comunicazione dell’identica natura dal generante al generato; e in questa identità si origina, poi, la relazione fra le Persone. Tale generazione avverrà, allora, per modum qualitatis29, ovvero attraverso la comunicazione dell’intima sostanza di Dio. Sarà questa generazione d’identità a determinare la tensione reciproca di un termine verso l’altro, ovvero la relazione di Padre e Figlio; e a stabilire, così, un certo respectum tra le Persone, un “ordine”, per cui il Padre sarà generante nei confronti del Figlio, e questi sarà generato nei confronti di suo Padre. È vero, dunque, che consecutive il Padre genera il Figlio; ma non è vero che la potentia generandi risieda intrinsece nel Padre: ad istam potentiam consequitur quidam respectus (…). Principium connotat ordinem qui consecutive se habet ad eum. Ergo et ad potentiam consequitur respectus. Et ita intelligo illum doctorem qui dicit quod essentia inquantum paternitas est potentia generandi, quod verum esr consecutive, non formaliter et intrinsece30.

I due termini, dunque, sono distinti secondo la ratio, perché l’essenza di Dio genera sotto la ratio del Padre, e sotto quella del Figlio è generata, si determina da quid in quale31. Per questo generante e generato sono identici nella sostanza, secundum rem, e sono diversi secundum modum intelligendi32; la relazione è esattamente il segno di questa differenza.

27 28 29 30 31 32

Eckhardus, Quaest. Par. n. 13, LW I,2, p. 464,21-25. Eckhardus, Quaest. Par. n. 13, LW I,2, p. 464,22 Eckhardus, Quaest. Par. n. 13, LW I,2, p. 464,26. Eckhardus, Quaest. Par. n. 14, LW I,2, p. 464,28. Eckhardus, Quaest. Par. n. 17, LW I,2, p. 465, 11-12. Eckhardus, Quaest. Par. n. 18, LW I,2, p. 465, 14-15.

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Ma tutto quanto detto sinora non è ancora pienamente sufficiente; gli argomenti di Tommaso, riportati da Eckhart fedelmente, non descrivono fino in fondo la natura del processo generativo: modus arguendi, infatti, non est bonus33. È esatto che l’essenza divina s’individua, per così dire, nelle relazioni di Padre e Figlio; e che, per questa ragione, la paternità e la filiazione si dicono “proprietà” divine di un’unica sostanza. Ma bisogna ancora aggiungere che l’essenza divina è una assolutamente, non solo in divinis; essa è il principio di tutte le cose, che sono precontenute nella sostanza di Dio in un modo più nobile: Nam infinitum simpliciter non est nisi unum et hoc essentia, ut dicit Damascenus, quia continet supereminenter omnia. Sed infinitum in genere continet supereminenter communia illius generis. Nec est inconveniens talia plurificari, quia sunt diversarum rationum.

La generazione del Figlio è, allora, il segno di ogni generazione che si origina nell’unica essenza divina, in cui si originano le rationes di tutte le cose; in queste parole è espressa l’intenzione, tutta eckhartiana, di leggere la generazione trinitaria come esplicazione della molteplicità dei generi; dei quali non è illegittimo affermare che si moltiplichino, dal momento che appartengono a rationes diverse. Né, d’altronde, era un argomento di Tommaso quanto Eckhart aveva riferito a proposito del modus della generazione, ovvero che si tratta di una comunicazione qualitativa; e che la qualità è, quindi, il fondamento della relazione generativa. Si tratta, invece, di una personale elaborazione eckhartiana di un aspetto che apparteneva convenzionalmente all’ontologia della relazione, sin dalla formulazione che ne aveva dato Aristotele nelle Categorie e nella Metafisica. 2.1.4 Il segno della relazione essenziale fra Dio e il creato e il superamento della dottrina di Tommaso Tommaso aveva definito la relazione come la categoria che possiede il minor grado di entità, perchè è l’unico accidente che non si origina direttamente dalla sostanza, ma si fonda invece direttamente in un altro accidente, ovvero la qualità:

33

Eckhardus, Quaest. Par. n. 19, LW I,2, p. 465,18.

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relatio realiter substantiae adveniens et postremum et imperfectissimus esse habet: postremum quidem quia non solum praeexigit esse substantiae, sed etiam esse aliorum accidentium ex quibus causatur relatio sicut unum in quantitate causat aequalitatem, et unum in qualitate similitudinem 34.

Anche per Tommaso, la qualità restava il fondamento della relazione, il motivo per cui le creature costituiscono tra loro rapporti di somiglianza; era, questo, un aspetto della teoria della relazione comunemente condiviso nella scolastica. Ma Tommaso non ha mai sostenuto che le processioni divine avvenissero secondo il modo della qualità, e che, quindi, la qualità fosse il fondamento della relazione anche in Dio. Tommaso lo ha invece esplicitamente escluso, innanzitutto per non incorrere nel grossolano errore di attribuire una determinazione alla sostanza divina; ma, soprattutto, per distinguere adeguatamente l’ordine35 del divino da quello a cui appartengono le sostanze create; e, quindi, per escludere la possibilità di un fondamento di relazione che fosse comune alla sostanza di Dio e a quella delle creature: potentia, quae est in secunda specie qualitatis, non attribuitur Deo: haec enim est creaturarum, quae non immediate per formas suas essentiales agunt, sed mediantibus formis accidentalibus: Deus autem immediate agit per suam essentiam36. cum dicitur in divinis processio per modum naturae vel voluntatis, non ponitur in Deo modus qui sit qualitas divinae substantiae superaddita, sed ostenditur similitudinis cuiusdam comparatio inter processiones divinas et processiones quae sunt in rebus creatis37.

Le proprietà di paternità, filiazione e spirazione scandivano i momenti dell’essere divino: distinguendosi in Padre, Figlio e Spirito Santo, Dio si autocostituiva in essere e si divideva da tutto ciò che non è Lui: 34 35

36 37

Thomas de Aquino, S. c. Gent., l. 4 c. 14 n. 12. Cf. anche De pot. q. 7 a. 9 in co. Il motivo principale dell’irreciprocità della relazione tra Dio e la creatura è la loro appartenenza a due ordini diversi: quello divino e quello naturale; cf. Thomas de Aquino, De pot. q. 7 a. 11. Si veda a questo proposito lo studio di H. Krings, Ordo, Philosophisch-historische Grundlegung einer abendländischen Idee, Hamburg 1982. Thomas de Aquino, De pot. q. 1 a. 1 ad 11. Thomas de Aquino, De pot. q. 10 a. 2 ad 10.

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in Deo iste circulus clauditur in se ipso. Nam Deus intelligendo se, concipit verbum suum, quod est etiam ratio omnium intellectorum per ipsum, propter hoc quod omnia intelligit intelligendo seipsum: et ex hoc verbo procedit in amorem omnium et sui ipsius (…) Postquam vero circulus conclusus est, nihil ultra addi potest38.

In questo senso, il Krempel parlava di introversione della Trinità nella dottrina tomista39. Le rationes delle cose, che pure erano precontenute nell’essenza divina, non costituivano certo un fondamento di relazione con le creature, perché la bianchezza e la giustizia che il Padre intelligit intelligendum seipsum non sono della stessa natura di quelle di cui si costituiscono le creature; esse ne sono, sì, la causa esemplare, ma non ne sono il fondamento immediato40. Le creature, invece, agiscono per mezzo delle forme accidentali, le quali non sono proprietà divine, e quindi non conferiscono alcun essere; piuttosto, esse assumono l’essere dalla sostanza individuale di ciascun soggetto. Eckhart ci avverte, ora, che il processo di generazione del Figlio non si conclude nella circolarità dialettica trinitaria, ma è, invece, anche l’immediato riferimento al creato; esso è fondativo non solo dell’essere divino, ma di tutto l’essere immediatamente. Eckhart lo ha argomentato accuratamente soprattutto nell’Expositio libri Exodi41: i generi in cui sono determinate le creature non sono nient’altro che determinazioni di un’unica sostanza, quella di Dio; all’infuori del riferimento a Lui, essi sono nulla, esattamente come sono nulla le creature: queste si costituiscono unicamente dell’essere divino, che, presso di loro, si manifesta nelle proprietà accidentali; come nel commento dell’Esodo, la categoria della qualità porta con sé il riferimento all’essenza divina ed è il segno della relazione essenziale a Dio. Stabilire che la generazione divina del Figlio avviene per modum qualitatis significava, allora, stabilire che il circolo dinamico dell’autoconversione divina non confina la sostanza di Dio ad un ordine diverso da quello a cui appartiene l’uomo, ma passa invece anche per l’anima umana. 38 39 40 41

Thomas de Aquino, De pot. q. 9 a. 9 co. A. Krempel, La doctrine de la relation chez Saint Thomas, Vrin, Paris 1952. Cf. Thomas de Aquino, S. Theol. I q. 15 a. 2 et 3. Cf. cap. 2.

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In questo modo Eckhart prende irrimediabilmente le distanze anche dalla dottrina del suo confratello Tommaso d’Aquino. 2.3 La Quaestio VIII: Utrum diversitas esset realis vel rationis. Identità e diversità: i caratteri distintivi dell’ente Si tratta di una discussione sullo status ontologico della relazione, ovvero della sua condizione in ambito creato; qui Eckhart si propone un obiettivo ben preciso: dimostrare la completa identità della relazione con il suo fondamento, e provarne, così, il carattere reale; in polemica con chi sosteneva la tesi opposta: Durando di San Porziano. Il primo argomento che parrebbe evidenziare la natura puramente logica della diversità è il seguente: questa si dice in modo opposto all’identità42; ma una relazione che si generi in opposizione all’identità non potrà che essere il risultato di una semplice operazione intellettuale, compiuta da un essere pensante che consideri una cosa identica con sé stessa, ovvero la stessa cosa come fossero due. Ma, come si evince dal titolo della questione, Eckhart non utilizza semplicemente il termine relatio, ma preferisce ricorrere al nome diversitas; questa scelta ha una ragione ben precisa. È necessario, infatti, chiarire subito una cosa fondamentale: la relazione di diversità di cui si parla si pone inter extrema realia43, ovvero fra due termini che esistono realmente distinti l’uno dall’altro. Innanzitutto, dunque, bisognerà intendersi sul nome diversitas, attraverso il richiamo ad Aristotele: nella Metafisica il Filosofo definì “diverso” ciò che, in ragione di se stesso, si oppone ad un altro che non è lui: la diversità, pertanto, interessa l’ente nella sua unità; la “differenza” riguarda, invece, cose che non si oppongono interamente, ma nel genere o nella specie, e interessa, dunque, la composizione degli enti: Hic primo quid nomine diversitatis. Nam V Metaphysicae: diversum se ipso diversum est ab eo, quo est diversum, se toto, sed differens non se toto, et ideo est compositum44.

42 43 44

Eckhardus, Quaest. Par. n. 1, LW I,2, p. 466,4. Eckhardus, Quaest. Par. n. 2, LW I,2, p. 466,5. Eckhardus, Quaest. Par. n. 3, LW I,2, p. 466,6.

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Attraverso queste osservazioni preliminari, Eckhart ha posto le premesse fondamentali della questione, e ci ha detto qualcosa di molto importante: innanzitutto, l’identità e la diversità di cui qui si discute sono intese nella loro accezione reale, e non hanno affatto valore puramente logico. In secondo luogo, nella scelta consapevole del termine diversitas al posto di quello differentia, è racchiusa la distanza dall’ontologia tradizionale di stampo aristotelico: la relazione tra enti reali, di cui qui propriamente si tratta, non è di quella natura che, nella definizione aristotelica, riguardava la composizione degli enti in generi e specie; la natura della relazione, il suo status ontologico, rispecchia piuttosto quella condizione di diversità propria delle unità, che si oppongono tra di loro ciascuna in ragione della propria identità con se stessa. La relazione, dunque, non è una proprietà che si aggiunga alle cose al modo degli accidenti, non entra in composizione con l’essere del suo fondamento; piuttosto, si origina in lui direttamente, a definirne, mediante l’identità a se stesso, la diversità da ogni alterum. Dopo aver stabilito cos’è la diversità, bisognerà allora proseguire a spiegare il significato della relazione; e avviare, così, la discussione vera e propria: Secundo quid intelligitur nomine relationis45.

2.3.1 A proposito del fundamentum della relazione: la polemica con Durando Alcuni sostengono che la relazione sia un habitus, che si pone su un piano diverso da quello delle categorie: non è una res, né al modo delle sostanze né al modo degli accidenti; indica, piuttosto, un modus habendi, che denota precisamente il modo in cui le proprietà reali si trovano nel soggetto, ovvero in relazione. E pertanto, sebbene si verifichino vicendevolmente, non coincidono per natura, non sono realmente la stessa cosa, dal momento che il fondamento e la relazione sono rispettivamente una res e un modus habendi: Quidam dicunt quod est habitudo de natura sua, quae est in fundamento et tendit ad terminum realem et non includit in natura sua nec terminum nec fundamentum. Dicunt enim quod quaedam 45

Eckhardus, Quaest. Par. n. 4, LW I,2, p. 466,9.

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praedicamenta tantum dicunt rem, quaedam rem sub habitudine, ut illa sex, quaedam habitudinem tantum, ut relatio. Nam si includeret fundamentum, ipsa praedicaret quid, quod est contra Boethium. Item fundamentum est absolutum. Ergo non est de ratione relationis46.

Per questo, secondo i sostenitori di questa tesi, la relazione non include in sé il fondamento né tantomeno il secondo termine del rapporto; diversamente, predicherebbe qualcosa della sostanza, costituirebbe con lei una realtà absoluta e sarebbe, così, spogliata del suo carattere relativo. Eckhart alludeva alla posizione di Durando di San Porziano, suo confratello, che si trovava in quegli stessi anni a Parigi, anche lui con l’incarico di magister; e si allineava, in questo modo, all’atteggiamento dominante dell’ordine nei confronti del domenicano francese. La questione n. 2 della distinctio 30, criticata da Eckhart in questa discussione dall’inizio alla fine, con riferimenti (come vedremo) piuttosto precisi, si trova nella terza redazione del Commento alle Sentenze, che è successiva alle questioni parigine di Eckhart che stiamo analizzando, e che Eckhart, dunque, quasi certamente non conosceva; è evidente, pertanto, che Eckhart ne lesse una versione precedente. Con buona probabilità, la seconda redazione del commento durandiano fu motivata dall’intenzione di attenersi alle disposizioni del Capitolo Generale di Saragozza, che nel 1309 proibiva le opere che avessero divulgato tesi antitomiste; era, questo, esattamente il caso della prima redazione del Commento alle Sentenze di Durando, che venne notevolmente sfrondato dal suo autore con una lunga serie di omissioni. In questa seconda stesura, però, non rientrò il libro I, il quale, secondo il Koch47, non è mai stato scritto; l’unica versione del primo libro precedente alla terza redazione sarebbe, così, 46 47

Eckhardus, Quaest. Par. n. 4, LW I,2, p. 466,10. J. Koch, in Durandus de S. Porciano. Forschungen zum Streit um Thomas von Aquin zu Beginn des 14. Jahrhunderts (Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters. Texte und Untersuchungen 26) Müster 1927, dimostrò che Durando compose tre redazioni del Commento alle Sentenze: la prima fu terminata entro il 1308; la seconda entro il 1312; la terza stesura viene datata tra 1317 e il 1325. Della prima redazione avremmo solo il primo e il quarto libro, mentre il secondo sarebbe ricostruibile attraverso la documentazione di Pietro da Palude, il quale registrò letteralmente il commento di Durando. Della seconda redazione, invece, ci sono

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quella trasmessa dai manoscritti che sinora la critica, a partire dal Koch48, ha riconosciuto come testimoni della prima redazione. Qui, tuttavia, la questione “Utrum in creaturis relatio differt realiter a suo fundamento”, che suscitò la polemica di Eckhart, è omessa. Al suo posto si trova la quaestio immediatamente successiva, “Utrum relationes que dicuntur de Deo ex tempore sint reales”, in cui sono incorporati solo alcuni degli argomenti della questione mancante; e sarebbe questa, allo stato attuale delle nostre conoscenze, l’unica versione che Eckhart potè leggere. Non resta, dunque, che supporre l’esistenza di una redazione alternativa non pervenuta, in cui la questione si trovasse in origine completa e indivisa: è, infatti, estremamente improbabile che un’ipotetica seconda redazione del primo libro contenesse integrazioni rispetto alla sua prima versione; è invece più verosimile che la questione si trovasse in origine nella prima redazione, fosse stata omessa nella seconda, per poi ricomparire nella terza redazione, che, come sappiamo ancora dal Koch, era quasi del tutto identica alla prima. Non è possibile in questo luogo stabilire quale fu la versione che potè trovarsi nelle mani del maestro tedesco in quegli anni a cavallo fra il 1312 e il 1314; né tantomeno rientra nei fini di questa ricerca. Mi atterrò, pertanto, a registrare la critica di Eckhart, che, come dimostrano i riferimenti testuali, ebbe di mira la quaestio di Durando,

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pervenuti il II, il III e il IV libro; secondo il Koch, il I non è mai stato scritto. La terza redazione è completa. J. Koch, op. cit.. Nel 1960 P. T. Stella , A proposito di Pietro da Palude (In I Sent., d. 43, q. 1): la questione inedita “Utrum Deum esse infinitum in perfectione et vigore possit efficaci ratione probari” di Erveo Natalis, in: Salesianum 22 (1960), 245-325, metteva in dubbio che il testo registrato da Pietro da Palude corrispondesse alla prima redazione del Commento alle Sentenze di Durando, e avanzava l’ipotesi che questo fosse invece testimone della seconda redazione. La ricostruzione di Stella non è stata accettata dalla critica (cf. C. Schabel, R. L. Friedman, I. Balcoyannopoulou, Peter of Palude and the parisian reaction to Durand of st. Pourçain on Future contingents, in: Archivum Fratrum Praedicatorum 71 (2001), s. 183-300). Tuttavia le ultime ricerche degli studiosi di Colonia hanno messo in luce la necessità di riprendere in considerazione la tesi di Stella: cf. F. Retucci, Durandus, in: K. Flasch, Das philosophische Denken im Mittelalter. Von Augustin zu Machiavelli, Stuttgard 2013.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

facendo riferimento all’unica redazione sinora conosciuta in cui compare l’intera questione, ovvero la terza; qui Durando scrive: Relinquetur ergo quod, ex quo realitas relationis non est precise realitas sui fundamenti nec precise realitas extremi nec realitas utriusque simul formaliter et quidditative, quod ipsa sit realitas habitudinis medie realiter differens ab utroque vel ipsa non est aliqua realitas secundum se49.

Secondo Durando, la relazione non è una realtà al modo delle res: in se stessa, la relazione non gode affatto di realtà, né tantomeno coincide con la realtà del suo termine ad o con quella del suo fondamento. Ma Eckhart ribatte: Aristotele scriveva nelle Categorie che “si dicono relative quelle cose di cui ciò che sono vien detto di altro, o comunque in qualche modo in riferimento ad altro”; e in questo modo il Filosofo poneva, alla base della relazione, proprio un fondamento (come la qualità o la quantità) in ragione del quale due cose possono riferirsi l’una all’altra, possono dirsi simili; e infatti Aristotele, nelle Categorie, aveva definito il relato, e non la relazione in sé: Et si arguitur:»ad aliquid sunt, quae hoc ipsum quod sunt«etc., et sic ponitur fundamentum. Item similitudo est plurium eadem qualitas. Ad primum dicendum quod Aristoteles in Praedicamentis definit relatum, non relationem. Ad secundum dicendum quod est definitio materialis50.

Sulla base di queste premesse aristoteliche, la risposta al quesito principale sul significato del nomen relationis risulterebbe essere la seguente: la relazione è una definizione materiale, perché indica la materialità dell’ente. Eppure, altri sostengono che la relazione non coinvolga solo il suo fondamento, poichè alla costituzione della relazione concorrono parimenti il fondamento e il suo termine opposto, nello stesso modo in cui materia e forma concorrono alla specie. Così Eckhart: Sed alii dicunt quod fundamentum et terminus concurrunt ad costitutionem relationis. Sicut enim materia et forma concurrunt ad speciem, ita hic51. 49 50 51

Durandus de S. Portiano, Sent. I d. 30 q. 1, ed. Venetiis 1571, repr. Köln 2007, p. 878,226. Eckhardus, Quaest. Par. n. 6, LW I,2, p. 466,16. Eckhardus, Quaest. Par. n. 5, LW I,2, p. 466,20.

Il confronto con i contemporanei

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Il riferimento è all’ignoto autore della Summa totius logicae, il quale scriveva: Notandum, quod ad costitutionem relationis duo requiruntur: unum ut fundamentum, aliud ut terminus: sine quibus relatio non solum non posset esse, sed etiam non posset intelligi52.

La definizione aristotelica deve, pertanto, essere integrata: è vero, infatti, che nessuna relazione può esistere né essere concepita dal pensiero a prescindere dal suo fondamento; e, certamente, in questo modo, si è compiuto il primo passo verso il riconoscimento dell’inclusione del fondamento nell’“essenza” della relazione, contro la tesi avversaria. Ma la stessa cosa, osserva Eckhart, si potrebbe affermare di qualsiasi altro accidente: Tunc probo sic. Relatio non potest intelligi nec esse sine fundamento. Ergo pertinet ad essentiam relationis. Sed dices: ita potest argui de accidente. Dicendum…53.

Lo sviluppo di questa argomentazione ci è giunto, purtroppo, incompleto; ciononostante, il suo significato è ricostruibile attraverso i riferimenti che seguono nel corso della discussione. La relazione, per sua natura, è un accidente, poiché (come gli altri predicamenti) si riferisce ad un soggetto; ma tale condizione le deriva dal suo fondamento, e riguarda, pertanto, solo l’aspetto materiale, quello di cui, d’altronde, parlava Aristotele. Secondo la sua specie, però, la relazione include qualcosa che non fa parte del suo fondamento: la specie della relazione richiede, infatti, l’opposizione ad un altro, ovvero al suo termine. Ciò è evidente, per esempio, nei rapporti di similitudine, in cui occorre che ci siano due qualità simili, di cui una si trovi nel fondamento e l’altra nel suo termine opposto. Secondo la specie, dunque, le relazioni si oppongono tra di loro in virtù dei rispettivi fondamenti: Relatio est accidens secundum quidditatem, sed quod sit accidens, habet a fundamento. Item una relatio secundum speciem distinguitur ab alia secundum fundamentum, ut patet de aequalitate et similitudine. Item relatio non distinguitur secundum speciem inquantum relatio ab

52 53

Summa totius logicae Aristotelis, tract. 5 c. 2, ed. Parmae 1864, XVII, p. 73b. Eckhardus, Quaest. Par. n. 7, LW I,2, p. 466,22.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

alia. Ergo in quantum talis. Sed quod sit talis habet a fundamento et termino54.

Nella misura in cui dice l’essere del soggetto, la relazione non è, allora, diversa dalle altre categorie; di nuovo in polemica con Durando (Ad primum illorum), Eckhart afferma che la relazione non definisce un’habitudinem55, ma la cosa sub habitudine, ovvero ne indica una qualità individuale, proprio come gli altri predicamenti; e proprio come gli altri predicamenti, si distingue per se stessa realmente, esattamente come si distinguono tra loro le cose. Nel caso in cui un’unica cosa rientri in due categorie diverse, com’è il caso della scientia, bisognerà dire, allora, che queste ne riflettono due caratteri diversi, ma ugualmente reali: noi sappiamo, infatti, che la conoscenza in quanto relazione è dell’oggetto conosciuto, perché questo è la sua causa; ma la stessa conoscenza si determina in qualità nel soggetto conoscente56: Ad primum illorum dicendum quod dicit rem sub habitudine et differt ab aliis sicut res a re, quia res dividitur in decem praedicamenta. Unde relatio non est aliquod aliud praedicamentorum. Et si dicatur quod una res est in diversis praedicamentis, ut patet de scientia, dicendum quod aliquod unum secundum diversa quae habet est in praedicamentis. Nam scientia importat duo realia, scilicet qualitatem et realis respectus57.

Nella sua quaestio, Durando aveva infatti energicamente sostenuto che le categorie in cui si dividono gli enti extra animam non riflettono una ripartizione realmente costitutiva delle cose, ma necessitano dell’intervento del pensiero dividente: divisio entis extra animam non est in decem praedicamenta secundum formales eorum rationes, quia nullum praedicamentum in se constituitur vel ab alio distinguitur nisi concurrente operatione intellectus (…) nec oportet quod semper illud quod importatur formali predicatione sit

54 55 56 57

Eckhardus, Quaest. Par. n. 7, LW I,2, p. 467,1. Cf. n. 43: “Dicunt enim quod quaedam praedicamenta tantum dicunt rem, quaedam rem sub habitudine, ut illa sex, quaedam habitudinem tantum, ut relatio.” Cf. cap. 2. Eckhardus, Quaest. Par. n. 8, LW I,2, p. 467,6.

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aliquid realiter distinctum ab aliis omnibus rebus divisim vel coniunctim acceptis58.

E tuttavia (prosegue Eckhart), se pure la relazione non è diversa dagli altri predicamenti nella misura in cui indica l’essere del soggetto, essa si distingue dagli altri; la ragione è triplice: innanzitutto, è impossibile che una relazione sopraggiunga in un soggetto in mancanza di un nuovo termine; l’altro è la condizione imprescindibile di ogni rapporto: Dico ergo quod relatio distinguitur ab illis sex, quia relatio nova non est sine novo fundamento, sed in illis sex praedicamentis sic, ut patet de ipso ubi et habitu59.

In secondo luogo, il predicamento della relazione non possiede, in senso stretto, un ambito di pertinenza suo proprio: esso dice una certa natura del suo fondamento, che consiste nella tensione ad, nell’“ordinamento” ad un “indeterminato”; gli altri predicamenti, invece, dicono nel contempo il soggetto e la proprietà di cui questo è portatore (come il bianco dice il soggetto e la bianchezza): Item differentia est, quia relatio dicit rem sub ordine ad aliquid indeterminate, sed illa sex dicit habitudinem cum re ad aliquid determinate60.

In terzo luogo, la relazione si origina nel cuore del suo fondamento, si fonda nell’intima natura, nello stesso essere dei suoi termini e ha, pertanto, una dimensione intrinseca che gli altri predicamenti non posseggono: Tertia differentia est quia relatio importat quendam respectum magis intrinsecum, quia relatio inest ex natura fundamenti et surgit ex natura fundamenti, alia vero non sic61.

Gli altri predicamenti non si originano nelle sostanze che pure definiscono, ma hanno altrove il loro principio: essi sono il frutto 58 59 60 61

Durandus de S. Portiano, Sent. I d. 30 q. 1, ed. Venetiis 1571, repr. Köln 2007, p. 883,371. Eckhardus, Quaest. Par. n. 9, LW I,2, p. 467,11. Eckhardus, Quaest. Par. n. 9, LW I,2, p. 467,13. Eckhardus, Quaest. Par. n. 9, LW I,2, p. 467,15.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

dell’immediata comunicatività della sostanza divina; né tantomeno rimangono proprietà degli enti determinati, che, di fatto, sono portatori di un essere che non appartiene loro veramente. Ed è esattamente lì, in quell’esse che è, sì, improprio, ma è l’unico esse, che si origina la relazione: essa sopraggiunge in ciascun ente proprio in ragione della sua determinazione: la singolarità e la divisione sono il suo presupposto; dove l’unità è assoluta (come in Dio), non può esserci alcuna relazione. Pertanto, ribadisce Eckhart, la specie della relazione è data da entrambi: dal fondamento e dal suo termine opposto; essa si costituisce materialmente nel suo fondamento, e nel termine ad trova la sua ragione formale: Ad secundum dicendum quod praedicat quid materialiter. Ad tertium dicendum quod costituit ut materiale. Nam illa species consituitur ex utroque. Nec est ratio eius composita, quia relatio illa non addit aliquid super fundamentum et quod relatio est secundum se62.

Né la sua ratio è composita; tutt’altro: il predicamento della relazione non si compone con il soggetto al modo in cui gli accidenti si compongono con la sostanza, non aggiunge nulla al proprio fondamento; in sé, la relazione è indivisa. 2.3.2 L’identità della relazione con il suo fondamento Eckhart non vuol solo provare l’indistinzione della relazione con il suo fondamento; Eckhart vuol provarne l’identità. A questo proposito, riferisce innanzitutto una certa opinione, secondo cui è improprio affermare che la “diversità” si dica in opposizione alla similitudine, poiché, come sappiamo da Aristotele, il termine “diversum” si dice, invece, propriamente in opposizione al termine “identico”. Esso, pertanto, non sarà indicativo di alcuna differenza reale, poiché la relazione fondata nell’“identico” è una relazione puramente di ragione, che si esaurisce in una proposizione tautologica del genere “un oggetto è uguale a se stesso”. Dall’opposizione alla similitudine risulterà invece una differenza reale, una dissomiglianza, ovvero una relazione tra enti effettiva-

62

Eckhardus, Quaest. Par. n. 10, LW I,2, p. 467,19.

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mente distinti l’uno dall’altro, fondata nelle loro rispettive proprietà. Così Eckhart: Tunc ad propositum dicendum quod si diversitas accipiatur improprie pro similitudine etc., sic est realis, sed si accipiatur ut opponitur identitati, sic est relatio secundum rationem. Ratio est quia fundatur super substantiam63.

Eckhart sembra riportare letteralmente un passo (“si diversitas accipiatur improprie pro similitudine…”), la cui fonte, al momento, non è chiara. Probabilmente, l’opinione riferita da Eckhart fu sostenuta da Durando di San Porziano, il quale dedicò all’argomento un’intera questione; in I q. 1 d. 31, Durando scriveva: Relationum quedam sunt similium nominum (…); quedam dissimilium (…); relationes dissimilium nominum proportionabiliter se habent ad illas que sunt similium nominum e converso, ita quod sicut sunt duo modi reales relationum dissimilium nominum – scilicet illarum que fundantur super numerum et illarum que fundantur super actionem et passionem, tertius autem modus relationum est secundum rationem, scilicet mensure ad mensurabile – sic in relationibus similium nominum duo modi sunt reales, in creaturis duntaxat, scilicet equalitas et similitudo, tertius autem est secundum rationem, scilicet identitas64.

Secondo Durando, dunque, le relazioni di dissomiglianza stanno a quelle di somiglianza, e viceversa. Pertanto, così come solo le relazioni di dissomiglianza fondate nella quantità e nell’azione/passione sono reali, mentre quelle fondate nei rapporti di misura e misurato sono puramente logiche; allo stesso modo solo le relazioni di similitudine (fondate nella qualità) e di uguaglianza (fondate nella quantità) sono reali, mentre quelle fondate nell’identità (ovvero nella sostanza) sono puramente logiche65. 63 64 65

Eckhardus, Quaest. Par. n. 11, LW I,2, p. 467,22. Durandus de S. Portiano, Sent. I d. 31 q. 1 resp., ed. Venetiis 1571, repr. Köln 2007, p. 896,24. Anche se in I d. 30 q. 2 della precedente redazione si trova espressa un’opinione diversa: “… Quare patet quod fundamentum similitudinis et equalitatis quantum ad formalem rationem fundamenti est unitas speciei que est unitas rationis. Quare relationes super hoc fundate non sunt reales”. La tesi secondo cui la similitudine e l’uguaglianza non sarebbero relazioni reali nelle creature si trova nella seconda lista degli errori (“contra Thomam”) rinvenuti dalla commissione nel primo Commento alle Sentenze di

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

Le motivazioni di questa posizione, osserva Eckhart, vanno cercate nelle origini del concetto di relatio: per definizione, infatti, il predicamento della relazione non può fondarsi in quello della sostanza; e d’altra parte proprio Aristotele, nelle Categorie, aveva stabilito che la relazione è l’unico predicamento ad esser fondato in un altro accidente, piuttosto che nella sostanza, come tutti gli altri; la tensione ad (in cui consiste la ratio della relazione) doveva allora presupporre l’inerenza. Una relazione fondata nella sostanza, che si origini nell’identità, dovrà aver natura puramente logica: Tum quia adesse praesupponit inesse. Tum quia philosophus in Praedicamentis omnes relationes fundavit in accidente. Tum quia alias non esset accidens. Relatio vero secundum dici vel secundum rationem potest fundari in substantia. Et ita diversitas est relatio non secundum esse66.

Ma, di contro, Eckhart ricorda che Aristotele non operò mai questa suddetta distinzione tra “relazioni reali” e “relazioni logiche”; invero, tale distinzione si addice agli enti, che possono essere relativi secondo la loro sostanza, secundum esse, oppure logicamente, secundum rationem, quando, cioè, vengono solo considerati tali. Non c’è, dunque, alcun motivo per cui le relazioni fondate nella sostanza dovrebbero essere inevitabilmente logiche e non reali: Sed contra istos. Philosophus numquam posuit talem distinctionem secundum dici et secundum esse. Ideo dico quod talis distinctio bene invenitur de relativis, sed non de relatione. Item falsum est quod relatio realis non possit fundari in substantia67.

Ma anche a questo proposito bisogna essere più chiari; perché, osserva Eckhart, una relazione di questo genere è, per esempio, quella che pone qualcosa di reale ed ha un termine distinto da sé; ma tale è la relazione di Dio alla creatura, la quale, allora, dovrebbe potersi dire reale. Altresì è reale la somiglianza tra Socrate e Platone, perché entrambi convengono nella specie della bianchezza; nondimeno essi convengono nella sostanza, e sono pertanto identici o es-

66 67

Durando (cf. J. Koch, Die Magister-Jahre des Durandus de S.. Porciano O.P. und der Konflikt mit seinem Orden, in: Kleine Schriften II (Storia e letteratura 128), Roma 1973, p. 82). Eckhardus, Quaest. Par. n. 11, LW I,2, p. 467,25. Eckhardus, Quaest. Par. n. 12, LW I,2, p. 467,29.

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senzialmente simili; ma le stesse implicazioni si avrebbero se si dicesse che la relazione è fondata nella materia: Nam illa relatio est, quae ponit aliquid reale et habet terminum distinctum. Sed talis est relatio dei ad creaturam. Item Sortes albus convenit cum Platone albo, ideo similes. Ita etiam Sortes secundum substantiam convenit cum Platone et in hoc sunt idem vel similitudo essentialis. Item relatio si fundatur in materia, haberetur propositum. Sed de hoc statim68.

È necessario, pertanto, definire precisamente i criteri in base a cui stabilire se e quando la relazione abbia effettivamente una natura reale. Fortunatamente, Prospero di Reggio Emilia, lo studente che ha trascritto la questione eckhartiana, ce li ha restituiti con la massima chiarezza; i presupposti della realtà della relazione sono tre: innanzitutto, è necessario che entrambi gli estremi siano una qualche res; questo vuol dire che né la relazione della materia alla forma, né quella dell’ente al non ente sono reali. Attraverso il richiamo al Commento alle Categorie di Simplicio, Eckhart chiarisce meglio quanto in precedenza rimaneva vago: i termini concorrono alla costituzione della relazione nella misura in cui sono entrambi enti reali; l’esse della relazione, infatti, deriva la sua realtà dagli estremi del rapporto, dal fondamento tanto quanto dal suo termine: se uno dei due non è reale, la relazione, di conseguenza, non è reale. Per questo Simplicio scriveva che l’essere della relazione non è solitario, ma è dell’uno in quanto termine, e dell’altro in quanto fondamento: Item ad realem relationem tria requiruntur, scilicet quod utrumque extremorum sit res aliqua. Ideo relatio entis ad non ens non est realis. Unde Simplicius: esse relationis non est solitarium, sed est illius ut termini, et istius ut fundamenti. Ergo ab utroque habet realitatem. Iterum etiam fundamentum est materiale et terminus ut formale, ideo relatio materiae ad formam, quae non est, non est realis69.

In secondo luogo, è necessario che ciascuno dei termini della relazione sia realmente distinto dall’altro, dal momento che il termine ad costituisce la ragione formale della relazione e non è incluso nel fondamento, che si costituisce come materiale; le relazioni d’identità espresse nelle proposizioni tautologiche, pertanto, non sono reali: 68 69

Eckhardus, Quaest. Par. n. 12, LW I,2, p. 467,32. Eckhardus, Quaest. Par. n. 13, LW I,2, p. 468,6.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

Secundo requiritur quod utrumque extremorum sit supposito distinctum, quia dicit ordinem ad aliud, quod aliud est formale. Ideo relatio identitatis non est realis70.

Infine, alla realtà della relazione occorre che si origini nella natura dell’ente, e che non sia il frutto di un’operazione del pensiero, puramente logica. Eckhart può così concludere che la relazione di diversità, che ormai sappiamo essere fondata nell’identità, è reale, dal momento che risponde ai tre requisiti imprescindibili perché una relazione possa dirsi tale: Tertia condicio est quod consequatur ex natura rei et non ex ordine intellectus. Sed ista tria sunt in relatione diversitatis71.

2.3.3 In risposta ad argumenta opponentis Non resta, quindi, che porre le obiezioni finali agli argomenti degli opponenti; non ci si stupirà che Eckhart si rivolga, di nuovo, a Durando di San Porziano. Questi, ancora in I d. 30 q. 1 scriveva che le sostanze per se sussistenti posseggono il modus della sussistenza per via della propria indipendenza; nondimeno le sostanze inerenti ad altre sono altrettante res absolute che posseggono il modus dell’inerenza, e certo in virtù della loro dipendenza. Ed è impossibile che una sostanza sia essenzialmente una relazione, dal momento che, in questo modo, si ammetterebbe la possibilità che una tale sostanza possa dipendere da un’altra al modo dell’inerenza: si otterrebbe così il paradosso di una sostanza che è nel contempo soggetto e accidente. Bisognerà concludere, allora, che la relazione, che è reale ed attuale dipendenza, differisce realmente dal suo fondamento e tuttavia non si compone con questo; la stessa cosa vale per tutto ciò che sia solo un modus. Così Durando: Et videtur michi, salvo meliori iudicio, quod sicut res per se subsistens est res absoluta habens modum talem essendi ex sua independentia, ita res alteri inherens est res absoluta habens modum talem essendi ex sua dependentia. Unde prius est negandum, quia nichil esset quod esset essentialiter respectus, quod esset ponendum, quia 70 71

Eckhardus, Quaest. Par. n. 13, LW I,2, p. 468,9. Eckhardus, Quaest. Par. n. 13, LW I,2, p. 468,11.

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illud quod est pure et essentialiter respectus esset in alio subiective inherenter. Sic igitur patet quod relatio vel quicumque respectus qui est realis et actualis dependentia vel coexigentia alterius differt realiter a suo fundamento, et tamen non facit compositionem cum eo. Et idem est de omni eo quod est solus modus essendi72.

Ma a coloro che sostengono che la relazione non si fonda nella sostanza perché non ne dipende, Eckhart fa notare che la natura della “dipendenza” non assume, qui, il modo in cui un effetto dipende dalla sua causa; nel caso della relazione si deve parlare, piuttosto, di “coesistenza” dei termini, dal momento che è necessario per la costituzione di ogni rapporto che i termini siano più d’uno; e tale è effettivamente il carattere della relazione: Ad argumenta opponentis, quod relatio non fundatur in substantia, quia non dependet, dicendum quod si accipitur dependentia, id est coexistentia, talis est de ratione relationis, non illa talis sicut est effectus ad causam, quia sic relatio realis non esset in divinis73.

(A questo punto Eckhart risponde ad un argomento non trovato nella quaestio di Durando. Ricostruirlo sulla base di quanto ci viene qui riferito, purtroppo, non è possibile; si legge infatti solo che: “Ad secundum quod dicitur: ‘aliquid inest’, scilicet sicut superius in inferiori, alio modo sicut forma in materia. Et sic concedo”74). Altresì Eckhart respinge la lettura durandiana della definizione aristotelica di relazione. Secondo il maestro francese, l’intenzione del Filosofo, tanto nella Metafisica quanto nelle Categorie, sarebbe stata quella di assegnare al predicamento della relazione un carattere denominativo; dicendo che un oggetto bianco si riferisce ad un altro ugualmente bianco secondo similitudine o uguaglianza, Aristotele avrebbe stabilito, insomma, che la relazione tra i due oggetti non è una proprietà essenziale dell’uno nè dell’altro, ma piuttosto una denominazione della qualità della bianchezza: questa si dice simile, poiché posseduta in entrambi i termini, ma certamente in ciascuno indipendentemente dalla bianchezza dell’altro. E per questo, la relazione non sarebbe, allora, un’altra res che si componga con il 72 73 74

Durandus de S. Portiano, Sent. I d. 30 q. 1 resp., ed. Venetiis 1571, repr. Köln 2007, p. 881,312. Eckhardus, Quaest. Par. n. 14, LW I,2, p. 468,14. Eckhardus, Quaest. Par. n. 15, LW I,2, p. 468,18.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

fondamento, né una delle cose esistenti in natura, ma solo una denominazione delle proprietà di queste, nel caso che vengano considerate insieme, cioè in rapporto reciproco. In questo senso, secondo Durando, si può dire con Aristotele che il predicamento della relazione sia fondato nella qualità o nella quantità: Si autem accipiatur respectus solum pro eo quod sufficit ad relationem (…) sicut videtur Philosophus accipere V Metaphysice et in Predicamentis, ubi dicit quod album refertur ad aliud albun et unum quantum ad aliud quantum secundum similitudinem, equalitatem et inequalitatem, sic ergo dicendum est quod talis relatio non differt realiter a fundamento et per consequens non semper facit compositionem cum eo, quia talis relatio non semper est aliquid in rerum natura quod sit essentialiter respectus, set est sola denominatio respectiva alicuius subiecti ex natura plurium. Verbi gratia Sortes dicitur similis Platoni et e converso, non quod ista similitudo sit aliquid quod sit essentialiter respectus, set sic denominatur ex hoc, quod habet albedinem in se et alius habet albedinem sicut ipse (…) Et si sic intellexerunt, non video quod in hoc male dicant quo ad relationes predictas que fundantur super quantitatem et qualitatem75.

Ma quanto all’intenzione del Filosofo, Eckhart osserva che, fondando la relazione nella quantità o nella qualità, Aristotele intese piuttosto indicare il modo in cui la sostanza è fondamento della relazione, ovvero al modo della qualità, al modo della quantità, oppure al modo dell’atto e della potenza: Ad illud de intentione philosophi dicendum quod philosophus dixit quod fundatur in tribus quia vel induit modum potentiae vel modum quantitatis, quia vel modo numeri, et sic substantia ut fundat relationem induit modum quantitatis vel qualitatis76.

Nel V della Metafisica77, Aristotele aveva distinto tre tipi di relazione: le relazioni numeriche, proprie tanto dei concetti matematici come doppio o multiplo, quanto dell’uguaglianza, della similitudine e dell’identità (fondate rispettivamente nell’unità di sostanza, di qualità e di quantità); le relazioni causali, che definivano tutti i rapporti di potenza e atto (come il calore e ciò che può essere riscalda75 76 77

Durandus de S. Portiano, Sent. I d. 30 q. 1 resp., ed. Venetiis 1571, repr. Köln 2007, p. 881,323. Eckhardus, Quaest. Par. n. 16, LW I,2, p. 468,21. Aristoteles, Metaph. V t. 21 (c. 15 1021 b 26-32).

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to); e le relazioni che definivano i rapporti fra un conoscente e un conosciuto o il pensiero e il pensato. Nella lettura eckhartiana, questo voleva dire che la relazione si genera direttamente nell’esse di ciascun soggetto, poiché questo si costituisce esattamente delle proprietà di cui è portatore e non possiede altrimenti alcun essere che gli sia proprio. Qualità, atto e potenza sono, dunque, i modi assunti dall’unica sostanza di cui si costituiscono gli enti e in cui si fonda la relazione, a segnare la diversità propria di tutti gli enti determinati nei generi. Se, dunque, è vero che l’identità di una cosa con se stessa è una relazione puramente logica, non è lo stesso dell’identità di due termini realmente diversi l’uno dall’altro, che, nondimeno, sono costituiti dalla stessa e unica bianchezza ch’è presente a tutto ciò che è bianco: questa relazione è reale, perché si fonda nell’identità della sostanza, nella sua unicità, a portare il segno delle sue diverse determinazioni nell’essere: Ad argumentum quintum dicendum quod identitas eiusdem ad se est secundum rationem, sed alia est identitas duorum suppositorum78.

I motivi della polemica con Durando sono ormai chiari: per Eckhart, è in gioco la funzione costitutiva dell’Intelletto. Nella prospettiva eckhartiana, la dimensione intellettuale è l’unica dimensione divina: Dio è Intelletto puro e la sua propria operazione conoscitiva è fondativa di tutto l’essere; i generi e le specie in cui si suddividono gli enti non sono, pertanto, solo il frutto di un’operazione classificatoria del pensiero, ma riflettono le determinazioni nell’essere di un’unica sostanza intellettuale ch’è in sé indeterminata, ed è divina. Così, le relazioni di conoscenza delle creature non potranno svolgere solo una funzione denominativa delle cose di natura, nè saranno accidenti che si compongano in qualche modo con il loro soggetto; saranno, piuttosto, identiche con esso: l’operazione intellettiva umana è, per Eckhart, una relazione essenziale, nella misura in cui realizza l’unione tutta intellettuale tra l’ultimo fondamento di ogni essere (la sostanza intellettuale) e la specie appresa. Il punto di vista di Durando si avviava verso la direzione opposta: esso certamente non riconosceva all’intelletto alcun carattere fondativo; e riduceva, altresì, le operazioni intellettive a considerazioni 78

Eckhardus, Quaest. Par. n. 18, LW I,2, p. 468,26.

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prive di qualsiasi essenzialità: svuotando del suo carattere sostanziale l’unica dimensione (quella intellettuale) cui, per Eckhart, la sostanzialità spetta di diritto, per la sua natura divina. 2.4 La Quaestio IX: Utrum differentia secundum rationem sit prior quam differentia secundum rem Si tratta di una discussione giunta in forma molto breve: non è rintracciabile, al suo interno, alcuna polemica con una posizione avversaria; né le argomentazioni sono sviluppate in modo da permettere una ricostruzione ampia del tema. Tuttavia, la questione sulla differenza reale o di ragione non è affatto priva di interesse: innanzitutto essa contiene alcuni motivi importanti della teoria della conoscenza eckhartiana. E, in secondo luogo, è complementare alla Questione sulla diversità che abbiamo appena letto: quella riguardava la relazione, ovvero l’opposizione tra una pluralità di termini, che si presuppone siano già enti; questa riguarda invece la loro composizione, ovvero tutti gli altri predicamenti, che concorrono alla costituzione di ogni singolo ente. Il ricorso al termine “differentia”, d’altronde, non è certamente casuale; Eckhart lo ha precisato al principio della Quaestio VIII, richiamandosi alla definizione aristotelica: diversum dice l’unità dell’ente, differens la composizione di generi e specie79. Ora, quindi, il Maestro si domanda: gli enti reali, extra animam, si compongono davvero di qualità, quantità e simili, oppure tali distinzioni sono opera del pensiero, che suddivide il reale in generi e specie? La classificazione secundum rationem consegue da una differenza reale, secundum rem, o è fittizia? Sembrerebbe che la differenza secondo ragione preceda quella reale, perché le categorie differiscono tra loro sulla base della ratio propria di ciascuna; ma, d’altra parte, le cose precedono la conoscenza che si ha di esse: Videtur quod sic, quia attributa differunt ratione. Contra: res est prior ratione80.

79 80

Eckhardus, Quaest. Par. n. 3, LW I,2, p. 466,6. Eckhardus, Quaest. Par. n. 1, LW I,2, p. 469,5.

Il confronto con i contemporanei

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Bisogna, quindi, spiegare il significato di “differenza reale”: innanzitutto, “realis” deriva da “res”, e infatti riguarda le cose; le quali, nondimeno, si dicono, e a ragione, “entità assolute”: la differenza, allora, sta dalla parte dell’essere. In un modo diverso, però, la differenza si può dire fondata in una cosa, nella misura in cui questa è origine della relazione (di conoscenza): Hic primo, quid differentia realis. Quia dicitur a re. Sed res distinguitur sicut et ens. Appropriate tamen res dicitur entitas absoluta. Alio modo, quod dicit relationem fundatam in re absoluta. Ita de differentia81.

La differenza fra i generi, dunque, risiede tanto nell’essere quanto nel pensiero conoscente; e infatti, il termine ratio si può intendere in due accezioni: in un senso, essa indica l’Intellectus; in un altro, la ratio è il concetto e la cosa concepita dall’intelletto: Ratio autem uno modo dicitur intellectus, alio modo conceptus dicitur ratio et res etiam concepta dicitur ratio. Nam secundum se intelligitur intellectione prima, quae intellectio fundatur in intellectu quantum ad firmitatem essendi. Se quantum ad firmitatem significandi fundatur in re, quam significat. Ita de secundis intentionibus modo suo82.

Ogni cosa, infatti, è, in se stessa, il frutto della prima intellezione: l’Intelletto eckhartiano è Dio stesso, e possiede in sé i principi di tutte le cose; attraverso la sua propria operazione conoscitiva, fissa la verità delle cose nell’essere. In questa prima accezione, la ratio è il principio intellettuale che informa immediatamente tutte le cose e ne resta l’intrinseco fondamento. In secondo luogo, la ratio definisce, invece, il risultato della conoscenza: non più causa, dunque, ma prodotto del pensiero, il quale, mosso dal dato sensibile, deriva dagli oggetti la sua conoscenza. Se quantum ad firmitatem essendi si fonda nell’Intelletto, quantum ad firmitatem significandi, allora, la ratio si fonda invece nella cosa significata, ovvero nella cosa conosciuta: consegue da essa, le è posteriore; cosicchè si dice “di seconda intenzione”, nella misura in 81 82

Eckhardus, Quaest. Par. n. 3, LW I,2, p. 469,7. Eckhardus, Quaest. Par. n. 4, LW I,2, p. 469,10.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

cui rappresenta il riflesso di quella ratio originaria, cioè della prima intellezione. Tutte le rationes si fondano dunque nell’Intelletto; né tuttavia le cose hanno in sè un’altra ratio: questa giunge loro per mezzo dell’atto “comparante” del pensiero, che opera la conoscenza. La differenza secondo ragione, infatti, corrisponde alla differenza che intercorre fra i singoli atti intellettivi; dal momento che l’atto di ragione è ordinato all’oggetto dell’intellezione, in cui non c’è alcuna ratio, né, probabilmente, qualcosa d’altro: Et sic ratio fundatur in intellectu, non quod in re sit alia ratio, sed solum ex comparatione actus rationis. Et sic differre ratione est differre actu rationis. Qui actus est rationis in ordine ad rem intellectam, in qua non est, licet sit res quaedam83.

Poste queste premesse con i necessari distinguo, Eckhart può concludere la Questione: la differenza secundum rem precede quella di ragione. Gli enti, infatti, potranno trovarsi o fuori dall’anima oppure al suo interno: non c’è un’alternativa a queste due possibilità; ma nell’anima non c’è alcun ente, perché l’intelletto per sua natura è indeterminato: Tunc ad quaestionem dico quod differentia secundum rem est prior. Non enim est dare differentiam mediam. Nam differentia est passio entis. Sed ens omne vel est extra animam vel in anima. Probo autem propositum. Sicut res esr prior ratione, sic et differentia realis. Item causa est prior effectu. Item differentia realis est ante omnem actum intellectus ex natura rei. Sed differentia rationis sequitur actum rationis84.

Le res precedono le operazioni razionali, e così la differenza tra i generi è reale; la causa, infatti, precede sempre l’effetto. La differenza reale, pertanto, si trova prima di ogni operazione intellettiva, risiede nell’intima natura delle cose, e muove l’atto dell’intelletto alla conoscenza di queste; la differenza di ragione, invece, segue l’atto conoscitivo, ed è quindi posteriore. Per Eckhart, infatti, l’oggetto è sempre la causa che muove ogni tipo di conoscenza. 83 84

Eckhardus, Quaest. Par. n. 5, LW I,2, p. 469,15. Eckhardus, Quaest. Par. n. 6, LW I,2, p. 469,18.

Il confronto con i contemporanei

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3. Il significato delle Questioni sulla relazione nel contesto della discussione con i contemporanei e nella filosofia eckhartiana Nonostante la lettura di queste nuove Quaestiones parisienses non sia sempre agevole, l’analisi puntuale dei testi conduce a risultati oltremodo interessanti. È evidente che Eckhart aveva piena consapevolezza di tutte le problematiche che riguardavano la categoria della relazione. I riferimenti puntuali tanto alle dottrine dei suoi contemporanei, quanto ai luoghi decisivi dell’opera aristotelica, non meno che ai nuovi testi che segnavano in mondo determinante l’evoluzione della discussione (il Commento alle Categorie di Simplicio – di cui, per esempio, Teodorico di Freiberg non fa alcuna menzione), sono l’indice di un interesse nient’affatto marginale, ma, piuttosto, approfondito in tutti i suoi aspetti; e infatti Eckhart vi dedicò tre Quaestiones distinte, ciascuna in risposta ad ogni interrogativo che ruotava, in quegli anni, intorno alla dottrina della relazione. La discussione sul fondamento della potentia generandi (“Utrum essentia divina esset actualior quam proprietas”) rispondeva ad un quesito che si erano posti teologi quali Bonaventura, Enrico di Gand, Tommaso d’Aquino pochi anni prima: in accordo con il suo confratello e in opposizione ai primi due, Eckhart non riteneva possibile che la generazione avesse il suo principio nella determinazione o nella distinzione. Per ragioni differenti, costoro avevano individuato la potenza generativa nella Persona del Padre, ovvero nella relazione; ma per Eckhart la relazione è piuttosto una conseguenza dell’atto generativo, che avviene in virtù dell’essenza: essa si fonda nella sostanza divina, a distinguere la ratio del Padre da quella del Figlio, i quali condividono un’unica essenza ch’è nel contempo generante e generata. Il motivo di rottura con la dottrina di Tommaso, espresso con chiarezza in questa Quaestio, costituisce lo snodo del complesso rapporto fra i due confratelli: nel pensiero di Eckhart, la relazione generativa del Figlio non si conclude in un essere impartecipabile, ma è piuttosto l’origine del dispiegamento di tutta la sostanza divina nella molteplicità dei generi. La risposta eckhartiana alla domanda intorno alla realtà del fondamento della relazione, su cui dibattevano i teologi del XIII e XIV secolo, fu, dunque, radicale: certamente la relazione ha un fondamento reale nell’ente; di più: tale fondamento non è un altro accidente, come

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prevedeva invece l’orientamento filosofico dominante in quegli anni; la relazione è identica con il suo soggetto, si fonda nella sua stessa sostanza, nella misura in cui l’essere proprio di ciascun soggetto non è assoluto, ma è in sé una relazione al Creatore. L’operazione generativa di Dio descritta da Eckhart implicava, infatti, una revisione globale dell’ontologia tradizionale di origine aristotelica, che prevedeva una pluralità di sostanze assolute che fungessero da sostrato agli accidenti; inclusa, tra questi, anche la relazione. Eckhart, invece, può fondare la relazione direttamente nella sostanza perché ribalta lo schema dell’inerenza: i generi non si fondano nel soggetto; viceversa: essi sono il suo fondamento immediato. E se, in senso stretto, i generi non posseggono (e quindi non danno) l’essere, ma ne definiscono solo le modalità, di fatto essi sono le manifestazioni dell’unica sostanza di cui si costituisce ogni ente: la qualità della bianchezza in ogni bianco, come la giustizia in ogni giusto. Come gli altri predicamenti, la relazione è, allora, qualcosa di reale nel soggetto; ma, più degli altri, la relazione è identica con esso, perché resta l’unico predicamento che si fondi nella singolarità dell’ente, nella sua realtà determinata; qui la relazione trova il suo fondamento materiale. La relazione di cui discute Eckhart nella Quaestio “Utrum diversitas esset realis vel rationis” è, infatti, quella che intercorre tra termini che sono già enti: l’identità e la diversità sono i caratteri che contraddistinguono ogni ente, il cui fondamento resta sempre quell’uno indiviso ch’è la sostanza di Dio. Questa non costituisce in alcun modo un ente, non è nessuna di quelle realtà determinate di cui stiamo parlando, non vi si oppone realmente. Gli enti, piuttosto, si oppongono tra di loro, ciascuno in ragione del proprio esse determinato, dell’identità al proprio fondamento; e in mancanza di tali condizioni reali la relazione, semplicemente, non esiste: il suo presupposto è (come abbiamo visto) la realtà dei termini in rapporto, che concorrono alla costituzione dell’esse della relazione. Né Eckhart fa menzione, in questa Quaestio né altrove, delle relazioni così dette “miste”, costituite da un termine che sia portatore reale di relazione ed uno che non lo sia; tali distinzioni (ha detto Eckhart contro Durando) riguardano i relativi, e non le relazioni. La relazione, dunque, esiste oppure non esiste, e non potrà essere irreciproca nè puramente logica; esistono, invece, termini che sono relativi nel loro essere (come tutte le creature) e termini che non lo sono; e Dio (ch’è super ens) certamente rientra tra questi.

Il confronto con i contemporanei

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La differenza fra generi è, dunque, certamente reale, dal momento che (ormai lo sappiamo) è fondativa delle differenze che si rinvengono nella realtà: nella Quaestio “Utrum differentia secundum rationem sit prior quam differentia secundum rem” Eckhart ha stabilito che le rationes sono innanzitutto i principi intellettuali che informano tutte le cose; e in secondo luogo esse sono il frutto della conoscenza umana, nella misura in cui vengono riflesse dall’intelletto delle creature. Proprio come il suo confratello Tommaso d’Aquino, dunque, anche Eckhart non pose le rationes nel mondo esteriore, ch’è il mondo delle cose: esse sono proprie solo della dimensione intellettuale. Ma attenzione: la ratio di cui parla Eckhart non è il risultato di un’operazione mentale mediata dall’astrazione; è, piuttosto, il riconoscimento immediato di quel principio intellettuale originario, una riflessione diretta di quella prima intellezione fondativa ch’era opera del primo Intelletto. È evidente che questo processo è garante dell’oggettività della conoscenza. È, questa, l’unica dimensione divina, che precede tutte le forme di determinazione: quella intellettuale; e l’Intelletto è il principio unitario che permane eternamente a fondamento di tutto l’essere molteplice. Eckhart tornerà in modo più approfondito sulla duplice accezione del termine ratio qualche anno dopo, nel Commento al vangelo di Giovanni, ancora una volta a proposito della relazione. La dottrina della relazione di Eckhart è fortemente connotata di quel carattere intellettualista che pervade tutta la sua filosofia. La sua posizione all’interno del dibattito sulla relazione diverge ad un tempo da quella di coloro che si muovevano verso una considerazione logica della relazione e dalle concezioni più marcatamente realiste. L’identità della relazione con il suo fondamento non è, infatti, il frutto di una considerazione logica di un intelletto conoscente; né tantomeno la realtà della relazione consiste in quella di una res che abbia carattere accidentale. La relazione è realmente identica con il suo fondamento perché si fonda in ciascun esse determinato ch’è il frutto di un Intelletto fondativo, che si esplica nelle rationes di tutte le cose: la sostanza di Dio.

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IV LA RELAZIONE DI FILIAZIONE IN EXPOSITIO SANCTI EVANGELII SECUNDUM IOHANNEM

Nel Commento al vangelo di Giovanni, Eckhart abbandona il lessico tecnico che ha caratterizzato le discussioni scolastiche intorno alla relazione per compiere il passo decisivo: dichiarare più esplicitamente che mai che la relazione di filiazione esprime il rapporto di ogni uomo nei confronti del suo Creatore. Ed invero non solo questo. In quest’opera i riferimenti alla relazione sono più numerosi rispetto a quelli rinvenuti nei commenti precendenti: il termine “relatio” compare infatti in sette esposizioni. Tuttavia, nessuna di queste rappresenta propriamente una trattazione della categoria della relazione. D’altronde a questo punto della sua opera, Eckhart aveva già chiarito la posizione del predicamento della relazione nella sua metafisica e ne aveva definito con precisione lo status ontologico, prima nel Sermo I sull’Ecclesiastico e poi in Expositio libri Exodi; i quali dovevano confluire, insieme con questo Commento, nell’Opus tripartitum. Ora, in Expositio s. evangelii secundum Iohannem, Eckhart ricorre al concetto di relatio per trarne le debite conclusioni e constatare ciò che più gli stava a cuore: il fatto che l’identità d’essenza del Figlio con suo Padre riguarda ogni ente. Nella densa esposizione del verso “In principio erat verbum”1, che costituisce l’apertura del Commento, Eckhart ritorna sulla duplice accezione del termine ratio (principio generativo e principio di conoscenza), a cui aveva già dedicato la Quaestio IX durante il suo secondo magistero parigino, di cui resta, come sappiamo, solo una testimonianza molto breve; di nuovo sulla ratio l’esposizione del versetto “Deum nemo vidit unquam; unigenitus, qui est sinu patris, ipse enarravit”2. Questi luoghi consentono di definire con chiarezza il significato delle relazioni di paternità e filiazione nella dottrina 1 2

Eckhardus, In Ioh. n. 4, LW III, p. 5,2. Eckhardus, In Ioh. n. 187, LW III, p. 156,7.

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eckhartiana: si vedrà che la nascita del Figlio è l’esplicazione di tutte le idee (rationes) precontenute nell’essenza del Padre, che avviene secondo generazione intellettuale; e che la relazione di conoscenza che si origina nelle creature si svolge secondo le stesse modalità. La misura della conformità dei due processi, quello generativo e quello conoscitivo, è evidenziata esplicitamente nell’esposizione del versetto “Quem misit deus, verba loquitur; non enim ad mensuram dat deus spiritum”3, attraverso il parallelismo tra il dispiegarsi trinitario delle Persone divine ed ogni processo di conoscenza, che si costituisce anch’esso di tre momenti; ovvero attraverso la corrispondenza tra Pater e ens da una parte, e Filius e verum dall’altra. Nel verso “Mea doctrina non est mea, sed eius qui misit me”4 Eckhart legge la dichiarazione del Figlio della sua natura relativa, del suo essere il Verbo proferito del Padre; Questi rimane l’intimo fondamento tanto dell’esse quanto alicuius operationis di suo Figlio5. Il versetto “Si me sciretis, forsitan et patrem meum sciretis”6 esprime esattamente la necessità, ad un tempo etica e gnoseologica, di vedere il Padre nel Figlio quale diretto riferimento a Lui; unum sine altero, infatti, non intelligitur7. Ed effettivamente la Scrittura rivela che Dio fruttifica nell’uomo quale suo Figlio, e lì, espresso nell’essere, rimane il suo frutto: è questo, secondo Eckhart, il significato profondo racchiuso nel versetto “Non vos me elegistis, sed ego elegi vos, ut eatis et fructum afferatis et fructus vester maneat”8. Il paradigma del giusto attraversa come un filo rosso tutti questi luoghi in cui Eckhart ricorre al concetto di relatio, a tradurre uno degli aspetti più importanti della dottrina della relazione eckhartiana: la relazione di filiazione. Si è scelto di svolgere questa ricerca procedendo attraverso l’esame del luoghi in cui Eckhart fece uso del termine relatio. Tuttavia, la rilevazione di questi nell’Expositio sancti evangelii secundum Iohannem ha messo in luce la sostanziale unità tematica che li caratterizza; per evitare inutili ripetizioni concettuali, mi sembra dunque il caso di analizzare solo i luoghi più significativi per ripercorrere fe3 4 5 6 7 8

Eckhardus, In Ioh. n. 358, LW III, p. 303,4. Eckhardus, In Ioh. n. 422, LW III, p. 358,2. Eckhardus, In Ioh. n. 424, LW III, p. 360,1. Eckhardus, In Ioh. n. 446, LW III, p. 381,10. Eckhardus, In Ioh. n. 446, LW III, p. 382,5. Eckhardus, In Ioh. n. 645, LW III, p. 560,11.

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delmente la dottrina della relazione di Eckhart in quest’opera. Questi saranno: l’esposizione del versetto “In principio erat verbum”; l’esposizione di “Deum nemo vidit unquam; unigenitus, qui est sinu patris, ipse enarravit”; e infine l’esposizione del verso “Quem misit deus, verba loquitur; non enim ad mensuram dat deus spiritum”. 1. “In principio erat verbum”: l’‘intimità’ della ratio Il denso commento al verso “In principio erat verbum” apre l’Expositio s. evangelii sec. Iohannem, e costituisce una testimonianza preziosa per la lettura della generazione divina secondo Eckhart9. Come vedremo, l’esposizione del versetto si svolge in costante appello alla nozione di ratio. Le rationes, infatti, sono ciò in cui si dispiega l’unità divina quando si apre alla relazione; vale a dire: nel momento generativo, quando l’essenza di Dio si costituisce come Padre nei confronti del Figlio e si manifesta nel Figlio, ch’è tale nei confronti di suo Padre. Dal momento che si tratta di un processo esplicativo e d’apertura, il primo carattere proprio del Figlio è quello di essere precontenuto: per questo si dice nel versetto che il Verbo era in principio: Egli era nel producente, al modo della ratio e della similitudine: procedens est in producente sicut ratio et similitudo, in qua et ad quam producitur procedens a producente. Et hoc est quod Graecus habet: in principio erat verbum, id est logos, quod latine est verbum et ratio10.

Ciò che i greci chiamarono logos, i latini lo chiamarono Verbum e ratio: parola e idea. In questa prima comparazione (più avanti vi tornerà nuovamente) fra la tradizione greca e quella latina, Eckhart annuncia la sua lettura del versetto giovanneo: nel principio si origina quel dispiegamento dialettico delle idee che è la radice di ogni differenza. È, questo, il Figlio; Egli è precontenuto nel Padre come il seme nella sua origine, come la parola in colui che si appresta a pronunciarla, come l’idea (ratio) in cui il prodotto procede dal producente: 9 10

Su questo commento cf. B. Mojsisch, op. cit.; e L. Sturlese, Eckhart, Tauler, Suso. Filosofi e mistici nella Germania medievale, Le lettere, Firenze 2010. Eckhardus, In Ioh. n. 4, LW III, p. 6,8.

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Habes ergo quattuor: procedens est in producente, item quod est in ipso ut semen in principio, ut verbum in dicente, item quod est in ipso ut ratio, in qua et per quam procedit quod producitur a producente11.

A motivo della loro origine divina, le idee o rationes sono ugualmente divine: nonostante la processione dal principio implichi di necessità una distinzione, quanto alla nobiltà della loro essenza esse non subiscono alcuna degradazione; nella dimensione intellettuale, la natura divina resta immutata. Si legge, infatti, che il Verbo era presso Dio, e non sotto di Lui né che discese da Lui, a sottolinearne l’uguaglianza. Padre e Figlio sono dunque in relazione univoca12, dal momento che nessuno di loro è sottoposto all’altro; il Figlio è altro dal Padre nella Persona, ma non nella natura, che è divina quanto quella di suo Padre: quid procedit ab alio, distinguitur ab illo. Et hoc est quod sequitur: verbum erat apud deum. Non ait: aub deo, nec ait: descendit a deo (...). Li enim apud deum sonat in quandam aequalitatem. Ubi notandum quod in analogicis semper productum est inferius, minus, imperfectius et inaequale producenti; in univocis autem semper est aequale (…). Filius est enim qui fit alius in persona, non aliud in natura13.

Nondimeno, la ratio conserva il suo carattere “d’interiorità” anche nelle operazioni compiute nell’essere, che pure non danno luogo ad alcuna relazione univoca, ma generano piuttosto relazioni di analogia14: si tratta tanto della produzione degli enti di natura quanto della creazione artificiale ad opera delle creature. Ora, tra termini congiunti da analogia ci sarà sempre uno che sia superiore ad un altro che gli è inferiore, dal momento che il secondo discende dal suo principio, non permane stabilmente presso di lui ma si immerge, invece, nella natura fisica; e tuttavia, a motivo della sua collocazione originaria, il prodotto analogo non possiede una 11 12 13 14

Eckhardus, In Ioh. n. 4, LW III, p. 6,12. Sull’univocità cf. B. Mojsisch, op. cit.. Eckhardus, In Ioh. n. 5, LW III, p. 7,1. A proposito dell’analogia cf. J. Koch, Zur Analogielehre Meister Eckharts, in: Kleine Schriften I (Storia e letteratura 127), Roma 1973, pp. 367-397; Angela Schiffhauer “Nos filii dei sumus analogice“ Die Analogielehre Meister Eckharts in der Verteidigungsschrift, in: Meister Eckhart in Erfurt (Miscellanea Medievalia 32), Berlin-New York 2005, pp. 356-389.

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natura diversa da quella del suo principio, né, quanto all’essenza, si colloca in un sostrato diverso: l’arca, nella mente dell’artista, è infatti identica con l’intelligere del suo creatore: licet in analogicis productum sit descendens a producente, est tamen sub principio, non apud ipsum (…) Nihilominus tamen, ut est in illo, non est aliud in natura, sed nec aliud in supposito. Arca enim in mente artificis non est arca, sed est vita et intelligere artificis, ipsius conceptio actualis. Quod pro tanto dixerim, ut verba hic scripta de divinarum personam processione doceant hoc ipsum esse et inveniri in processione et productione omnis entis naturae et artis15.

Tutto ciò che è prodotto foris in esse16, dove vige il mutamento e la corruzione, rimane immutabile nella sua forma originaria: quella intellettuale. Solo la generazione intellettuale, di Dio come di qualsiasi ente razionale, non est cum motu nec in tempore17; il frutto di ogni operazione intellettiva conserva, infatti, quel carattere “d’intimità” al principio, che non consente al prodotto di mutare nell’essere o in natura: il Verbum è precontenuto nell’Intelletto, qui si origina eternamente, semper nascitur, semper generatur18. 1.1 Contemporaneità di due caratteri opposti della ratio nelle ‘cose di natura’: identità e estraneità Sono questi i principi della conoscenza umana: le rationes, le idee di ogni cosa; il riflesso di quei principi intellettuali che informano l’essere. Essi rivelano a colui che apprende l’essenza delle cose e rendono possibile la conoscenza intellettuale; sebbene immerse nella materia buia degli enti, le rationes non risplendono meno che se fossero illuminate dalla luce del giorno: verbum, ratio et ars ipsa, non minus lucet in nocte quam in die, non minus interiora latentia quam exteriora patentia illustrat. Et hoc est quod sequitur: et lux in tenebris lucet19.

15 16 17 18 19

Eckhardus, In Ioh. n. 6, LW III, p. 7,12. Eckhardus, In Ioh. n. 7, LW III, p. 8,6. Eckhardus, In Ioh. n. 8, LW III, p. 8,12. Eckhardus, In Ioh. n. 8, LW III, p. 9,1. Eckhardus, In Ioh. n. 11, LW III, p. 11,1.

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In questa bellissima espressione è espresso il significato profondo della nozione di ratio: la precarietà della materia non oscura i principi intellettuali eterni, i principi divini, che ne stanno a fondamento; la ratio, infatti, coincide con la definizione della cosa; è, insomma, ciò che la rende manifesta: Adhuc autem melius notandum quod in rebus creatis nihil lucet praeter ipsarum rationes. Ratio enim rei, quam nomen significat, est diffinitio, ut ait philosophus. Diffinitio autem est medium demonstrationis, aut potius est tota demonstratio faciens scire20.

Essa è pertanto quanto di più intimo ci sia nell’ente, dal momento che ne è il fondamento immediato e in quanto tale è nell’ente; ed è nel contempo ciò che più gli è estraneo, dal momento che non entra in composizione con la sua esistenza fisica e riguarda, piuttosto, la sua definizione: la ratio è tota intus, tota deforis21; informa la materia, soggetta alla corruzione e al mutamento, e conserva tuttavia la sua natura intellettuale immutabile, principio di conoscenza: Est ergo ratio lux tenebris, id est rebus creatis, non inclusa, non permixta, non comprehensa. Et hoc est quod hic, cum dixisset: lux in tenebris lucet, addidit: et tenebrae eam non comprehenderunt22.

Il paradigma della giustizia ricorre a questo punto a tradurre in esempio la nozione di ratio; la contemporaneità di questi due caratteri opposti della ratio (l’identità con il soggetto che ne viene informato e la sua assoluta estraneità da questo) è infatti più che mai evidente nella persona del giusto. La ratio della giustizia informa il giusto, essa è ciò che lui possiede di più intimo; è, infatti, il suo vero fondamento. Quo modo enim iustus esset, si extra iustitiam esset, divisus a iustitia foris staret?23. Ma al di fuori della giustizia e a prescindere da lei, il giusto non potrebbe mai esser generato né esistere in alcun modo. Ed è ancora in in virtù di quest’unico fondamento, e di null’altro, che il giusto compie tutte le sue opere, finanche quelle di conoscenza: quo modo 20 21 22 23

Eckhardus, In Ioh. n. 11, LW III, p. 11,6. Eckhardus, In Ioh. n. 12, LW III, p. 11,16. Eckhardus, In Ioh. n. 12, LW III, p. 12,6. Eckhardus, In Ioh. n. 14, LW III, p. 13,4.

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enim ipsum iustum cognosceret extra ipsam iustitiam?24; la giustizia, insomma, non è una proprietà che si origini nel giusto, ma è piuttosto il contrario. Il principio del suo essere, delle sue azioni e della sua stessa conoscenza è dunque, di fatto, totalmente estraneo al giusto: iustitia omne opus suum operatur mediante iustitia genita. Sicut enim non posset quidpiam iustum gigni sine iustitia, sic nec esse iustum genitum sine iustitia genita25.

Solo riconosciuto come relazione alla sua origine, il giusto ha una sua consistenza ontologica: ovvero cogliendone l’intima ratio, ch’è la ratio della giustizia; al di fuori del riferimento a lei, l’uomo giusto in sé non è nulla, come sono nulla tutti gli enti che vengano considerati nella precarietà della loro esistenza materiale: Res enim omnis creata sapit umbram nihili26. 1.2 L’unicità del principio di essere e conoscenza: la duplice accezione del termine ratio L’opposizione, presente in ogni ente, tra l’identità al suo proprio fondamento e la differenza da questo, si basa su uno dei presupposti più importanti di tutta la filosofia eckhartiana: l’unicità del principio. Se è vero, infatti, che l’uomo giusto compie ogni sua opera attraverso la ratio della giustizia dalla quale è informato, è altrettanto vero che se il fondamento del suo essere e di ogni sua azione fosse ‘altro’ da lui, il giusto non potrebbe veramente vivere, perché omne habens principium operationis suae ab alio, ut aliud, non proprie vivit27. Il giusto, dunque, non è ‘altro’ dalla giustizia: essi condividono un’unica essenza; ma possiede lo stesso essere della relazione: un esse ab alio28. Ora, questo è a sua volta principio di conoscenza: riferimento diretto alla sua origine, rivela dell’ente il suo vero fondamento: la giustizia nel giusto, la bontà nel buono, l’essere nell’ente, et universa24 25 26 27 28

Eckhardus, In Ioh. n. 18, LW III, p. 16,2. Eckhardus, In Ioh. n. 18, LW III, p. 16,5. Eckhardus, In Ioh. n. 20, LW III, p. 17,10. Eckhardus, In Ioh. n. 19, LW III, p. 16,14. Eckhardus, In Ioh. n. 21, LW III, p. 18,5.

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liter concretum suo abstracto29; come il Figlio generato rivela l’essere di suo Padre: Matth. 11: ‘nemo novit filium nisi pater, nec patrem quis novit nisi filius’. Ratio est, quia unum est esse, nec quidquam alienum utriusque est. Eadem autem sunt principia essendi et cognoscendi, nec quidquam per alienum cognoscitur30.

Il principio dell’essere e del conoscere è il medesimo: l’Intelletto, che si dispiega nelle rationes intellettuali fondative, a loro volta principio di conoscenza; il termine ratio, allora, si può intendere in due sensi: ratio dupliciter accipitur: est enim ratio a rebus accepta sive abstracta per intellectum, et haec est rebus posterior a quibus abstrahitur; est et ratio rebus prior, causa rerum et ratio, quam diffinitio indicat et intellectus accipit in ipsis principiis intrinseciis31.

Ciò che i greci chiamarono logos, i latini lo tradussero con ratio e verbum; ma il termine “ratio” indica tanto il concetto quanto la ratio creativa attraverso cui tutte le cose sono fatte32. In un primo senso, infatti, la ratio è (secondo il principio aristotelico) il frutto della relazione del conoscente al conoscibile: causata dalle cose, essa viene ricevuta dall’intelletto ed è, pertanto, posteriore agli enti. In un altro senso, la ratio è il principio intellettuale fondativo delle cose: è l’idea che informa gli enti e in questa accezione, quindi, li precede; questo è il Verbo divino. La nozione eckhartiana di ratio, espressa qui con chiarezza, s’inserisce direttamente nella dottrina che stiamo analizzando; in ognuna delle sue accezioni essa esprime, infatti, la relazione intellettuale, ovvero l’atto dell’Intelletto. Prima dell’operazione la sostanza intellettuale è pura unità, e in questo stato non è prevista alcuna differenza; l’effetto, d’altronde, si trova nella sua causa univoca in modo diverso: qui non ci sono ancora le idee degli enti. Solo intelligendo l’Intelletto genera le rationes: è proprio dell’intelletto, infatti, distinguere un’idea dall’altra, 29 30 31 32

Eckhardus, In Ioh. n. 27, LW III, p. 21,7. Eckhardus, In Ioh. n. 26, LW III, p. 21,4. Eckhardus, In Ioh. n. 29, LW III, p. 22,13. Eckhardus, In Ioh. n. 28, LW III, p. 22,5.

La relazione di filiazione in Expositio sancti evangelii

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collocarla nel tempo, stabilire la priorità di una rispetto all’altra; qui, nell’operazione intellettiva, si trova l’origine della differenza; e quelle rationes generate sono lo stesso Dio generato nel Figlio: semper actu intelligit, et intelligendo gignit rationem; et ipsa ratio, quam gignit ipsum intelligere suum, est ipse deus: deus erat verbum, et hoc erat in principio apud deum, quia semper intellexit, semper filium genuit33.

Con le parole registrate dalla Summa theologiae del suo confratello Tommaso, Eckhart ribadisce, ancora una volta, che le relazioni che conseguono all’atto intellettivo di Dio sono reali; il Figlio, ch’è il verbo generato dal Padre, non costituisce affatto una relazione di ragione, puramente logica, ma è reale, nella misura in cui l’Intelletto e le rationes sono una realtà fondativa: intellectus in deo maxime, et fortassis in ipso solo, utpote primo omnium principio, se toto intellectus est per essentiam, se toto purum intelligere. In ipso quidem idem est res et intellectus. Propter quod relationes, quae consequuntur operationem intellectus in divinis reales sunt. Et sic verbum, scilicet filius, intellectualiter procedens a patre, non est relatio rationis tantum, sed rei, quia et ipse intellectus et ratio res quaedam sunt vel res quaedam est34.

Il dispiegamento dell’unità originaria, l’apertura alla differenza, non produce alcun mutamento di natura, alcuna degradazione della sostanza divina. Ed è la relazionalità dell’intelletto a stabilire la consustanzialità tra il principio e il suo prodotto, tra il Padre ed il Figlio: le rationes sono il frutto dell’Intelligere; queste sono tanto divine quanto il loro Padre. Le parole di Tommaso, rilette nel contesto eckhartiano, significano dunque non più solo la realtà a sé stante dell’essere divino, ma la realtà incondizionata di tutta la dimensione intellettiva; Eckhart torna qui, a più di dieci anni dalla prime questioni parigine, a difendere il primato dell’Intelligere: ipsum principium semper est intellectus purus, in quo non sit aliud esse quam intelligere (…) Iterum et ratio in intellectu est, intelligendo

33 34

Eckhardus, In Ioh. n. 31, LW III, p. 25,2. Eckhardus, In Ioh. n. 34, LW III, p. 27,12.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

formatur, nihil praeter intelligere est. Iterum etiam coeva est intellectui, cum sit ipsum intelligere et ipse intellectus35.

2. “unigenitus, qui est in sinu patris, ipse enarravit”. Di nuovo sulla ratio: verbo e immagine Nell’esposizione di “Deum nemo vidit unquam; unigenitus, qui est in sinu patris, ipse enarravit” Eckhart ritorna sulla nozione di ratio. La lettura eckhartiana del versetto è interessante per due aspetti principali: innanzitutto ci dice qualcosa di nuovo a proposito della dinamica intellettuale in cui si “muove” il principio (vedremo subito in che senso Eckhart parli di moto); e in secondo luogo ricorre alla dottrina dell’immagine36 in un contesto e in una forma che ne dice il rilievo in ambito ontologico e gnoseologico, dal momento che nell’immagine si svela l’intima connessione tra i principi dell’essere e del conoscere. Questi, infatti, sono identici. E per questa ragione ogni cosa è conosciuta nei suoi principi originari; il Figlio, infatti, come tutto ciò che è generato, si trova originariamente nel suo principio e lo conosce, pertanto, così com’è nella sua essenza: Quod autem iustus primo omnium iustitiam videat, in quantum iustus, patet (…) secundo quia eadem sunt principia essendi et cognoscendi; tertio quia omnis res in suis principiis originalibus cognoscitur. Sicut ergo filius et omne genitum per prius est in suo principio, seic et cognoscit primo per prius se ipsum et omne quod noscit iustus in ipsa iustitia37;

e l’essere virtuoso e il conoscere la virtù sono quindi la stessa cosa, nella misura in cui avere la virtù significa apprenderla, ovvero conoscerla:

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37

Eckhardus, In Ioh. n. 38, LW III, p. 32,11. A proposito della dottrina dell’immagine si veda K. Flasch, Procedere ut imago. Das Hervorgehen des Intellekts aus seinem göttlichen Grund bei Meister Dietrich, Meister Eckhart und Berthold von Moosburg, in Abendländische Mystik im Mittelalter. Symposion Kloster Engelberg 1984, hrsg. K. Ruh, Germanistische Symposien 8 (Stuttgard 1986); e L. Sturlese, Eckhart, Tauler, Suso. op. cit. Eckhardus, In Ioh. n. 189, LW III, p. 158,10.

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idem est esse virtuosum et scire virtutem (…) quia ipsam tenere et habere est ipsam apprehendere, id est cognoscere38.

Ora, a proposito del riconoscimento del principio intellettuale, Eckhart ci informa che si tratta di un processo riflessivo: vi si realizza, infatti, il “rispecchiamento” di quelle idee originarie insite negli enti. Le rationes delle cose sono precontenute nel principio, ch’è il Padre ed è puro Intelletto; quelle stesse rationes si relazionano a loro volta all’intelletto dell’uomo, e in questo modo sono principio di conoscenza: in patre, utpote principio quod est intellectus, sunt rerum rationes, quae cognitionem respiciunt ex sui proprietate39.

Così, mentre la generazione naturale procede dall’uno nei molti (ab uno in plura et ad extra), dispiegando la sua unità nella varietà dell’essere, ed è tanto più perfetta quanto più si diffonde e si estende nel molteplice; la generazione di conoscenza che si origina nell’uomo segue il moto inverso, e procede dall’esterno verso l’interno (ab extra ad intus): essa, infatti, è causata dalle cose. Ed è tanto più perfetta quanto più la ratio appresa è indivisa e povera di determinazioni particolari, quanto più si avvicina all’unità: generatio naturalis est ab uno in plura et ad extra, et quanto efficacior, tanto in plura et plus sive longius extra operatur. Intellectualis vero generatio e converso est ab extra ad intus; est enim motus ad animam. Et quanto intellectus quilibet est perfectior et superior, tanto plus universales habet species et pauciores, minus scilicet divisas40.

La ratio, in quest’accezione, è la specie o immagine attraverso cui l’ente è visto e conosciuto; essa non è diversa dall’ente che rappresenta: se lo fosse, mai lo si potrebbe conoscere attraverso di lei; e tuttavia nemmeno l’immagine è indivisa dall’ente di cui è immagine: se questi fossero la stessa cosa, l’immagine non sarebbe d’alcun aiuto per la conoscenza:

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Eckhardus, In Ioh. n. 191, LW III, p. 160,1. Eckhardus, In Ioh. n. 192, LW III, p. 161,7. Eckhardus, In Ioh. n. 193, LW III, p. 161,12.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

si species sive imago, qua res videtur et cognoscitur, esset aliud a re ipsa, nunquam per ipsam nec in ipsa res illa nosceretur. Rursus si species vel imago esset omnino indistincta a re, frustra esset imago ad cognitionem41.

È necessario dunque che l’esemplare e l’immagine, l’ente e la sua ratio, siano unum, e non unus esse42. Con questa considerazione, Eckhart ci ha detto una cosa importante, che bisognerà tener presente lungo il corso della nostra argomentazione: la declinazione neutra significa, infatti, che l’unità non ha, qui, alcuna accezione cosale e che, pertanto, se pure esemplare e immagine non sono la stessa cosa, nemmeno si oppongono al modo in cui si oppongono gli enti tra di loro: unum, ut per ipsam cognoscatur, non unus, ne frustra et inutilis ad cognitionem43. Il bianco e la bianchezza non sono la stessa cosa; ma certamente costituiscono un’unità nell’essenza. L’immagine appresa, generata attraverso l’atto della conoscenza, non deriva, quindi, proprio nulla dal suo soggetto; l’intelletto del conoscente, d’altra parte, non contiene in sé alcuna determinazione, alcuna ratio, alcuna differenza. È invece l’ente che, per mezzo della ratio di cui è portatore, causa la conoscenza; è dall’oggetto che vi si rappresenta, insomma, che l’immagine trae tutto il suo essere. Perciò Eckhart scriveva, nell’esposizione del versetto “in principio erat verbum”: Imago enim, in quantum imago est, nihil sui accipit a subiecto in quo est, sed totum suum esse accipit ab obiecto, cuius est imago44.

E questo è tanto vero, quant’è vero che il Figlio di Dio, il Verbum generato, deriva tutto il suo essere dal Padre, di cui è l’immagine. In sé, il Figlio non possiede niente di diverso e niente di proprio ed è interamente precontenuto nel suo esemplare. Ma dal momento che ne è l’immagine, non manifesta altri che suo Padre ed anche suo Padre, pertanto, è totalmente contenuto in Lui, come l’esemplare si trova totalmente nella sua immagine riflessa. Padre e Figlio dunque s’includono vicendevolmente:

41 42 43 44

Eckhardus, In Ioh. n. 193, LW III, p. 162,8. Eckhardus, In Ioh. n. 194, LW III, p. 162,11. Eckhardus, In Ioh. n. 194, LW III, p. 162,12. Eckhardus, In Ioh. n. 23, LW III, p. 19,5.

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ex dictis patet quod imago est in suo exemplari. Nam ibi accipit totum suum esse. Et e converso exemplar, in quantum exemplar est, in sua imagine est, eo quod imago in se habeat totum esse illius, Ioh. 14: ‘ego in pater, et pater in me est’45.

Nel suo vangelo l’apostolo riferì queste parole di Gesù: ‘ego et pater unum sumus’; ora Eckhart le legge nel modo seguente: “siamo”, disse, perché intendeva quella dualità in cui si definiscono generato e generante, immagine ed esemplare; “uno”, perché il Figlio non ha altro essere all’infuori di quello di suo Padre46. Lo stesso versetto ritorna nell’esposizione da cui siamo partiti: anche qui Eckhart afferma che il Figlio unigenito è unum con suo Padre per l’identità della loro natura, ma genitus perché è distinto da Lui per ordine personale; cioè al modo in cui sono distinti l’immagine e l’esemplare di cui il Figlio è immagine: Et hoc est quod filius, imago patris ipsum enarrans et manifestans, ait: ‘ego et pater unum sumus’: ‘unum propter naturae identitatem’, ‘sumus’ propter imaginis et eius, cuius est imago, distinctionem personalem. Et hoc est quod hic dicitur: unigenitus, unum scilicet, sed genitus, et ideo non unus47.

Padre e Figlio, esemplare e immagine, si riferiscono così l’uno all’altro secondo opposizione relativa: in quanto si oppongono si distinguono, e in quanto relativi, si richiamano reciprocamente, mutuo se ponunt48. Il verso da cui prende le mosse quest’esposizione, “unigenitus, qui est in sinu patris, ipse enarravit”, racchiude in sé esattamente questi due aspetti della vita divina: l’unità e la sua moltiplicazione. Vale a dire: la sostanza e la relazione; quest’ultima rimane l’unica proprietà dicibile di Dio, l’unico predicamento attribuibile a quell’essenza intellettuale divina, ch’è priva, in sé, di qualsiasi determinazione; ma è per sua natura relazionabile: Optime ergo dicitur quod deum nemo vidit unquam; unigenitus, qui est in sinu patris, ipse enarravit. Enarrat enim omne quod est absolutum et unum in divinis, et omne quod est distinctionem et relationis, quae 45 46 47 48

Eckhardus, In Ioh. n. 24, LW III, p. 19,13. Eckhardus, In Ioh. n. 24, LW III, p. 20,1. Eckhardus, In Ioh. n. 194, LW III, p. 162,13. Eckhardus, In Ioh. n. 197, LW III, p. 166,11.

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duo praedicamenta, substantia scilicet et relatio, sola in divinis admittuntur49.

Ancora una volta la categoria della relatio è chiamata a definire il momento operativo dell’Intelletto, che si articola in due processi conformi e intimamente connessi: quello generativo e quello di conoscenza; la dottrina dell’immagine è metafora di uno quanto dell’altro. 3. L’unità del circolo intellettuale. I trascendentali “ens”, “verum”, “bonum” L’esposizione del versetto “Quem misit deus, verba dei loquitur; non enim ad mensuram dat deus spiritum” completa infine la nostra analisi, perchè ci offre la misura esatta della conformità delle due dinamiche intellettuali. L’unità di Padre, Figlio e Spirito Santo in una sola essenza è rappresentativa, infatti, dell’unità in cui si realizza il circolo della conoscenza umana; questo, come il circolo trinitario, è scandito da tre momenti coevi, in cui: il Padre corrisponde all’ente, il quale è la causa della conoscenza; il Figlio al vero, ch’è l’immagine generata; e lo Spirito Santo corrisponde al buono, la proprietà unitiva del fine, che muove la volontà50. L’opera delle tre Persone, dunque, è una ed è indivisa anche nelle creature: indivisa sunt opera horum trium in creaturis, quarum sunt unum principium. Propter quod in creaturis ens respondens patri, verum respondens filio, bonum reapondens appropriate spiritui sancto convertuntur et unum sunt, distincta sola ratione, sicut pater et filius et spiritus sanctus sunt unum, distincta sola relatione51.

Come queste si distinguono per mezzo della relazione, ma s’identificano perfettamente nell’essenza, così “ens”, “verum” e “bonum” sono concetti e, in quanto tali, sono distinti solo logicamente, secundum rationem, e non al modo in cui si distinguono le cose, secundum rem; per questa ragione essi sono convertibili. E per la stessa ragione, 49 50 51

Eckhardus, In Ioh. n. 198, LW III, p. 167,7. Sulla spirazione cf. n. 654, LW III, p. 571,5-14. Eckhardus, In Ioh. n. 360, LW III, p. 304,14.

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nel versetto “hi tres unum sunt”, “unum” non dice la singolarità della Persona, ma indica invece l’unità trinitaria: li unum (…) non sic personam aliquam appropriate respicit, sed continet unitatem52. Come nelle esposizioni viste sopra, Eckhart torna anche in questa, e per ben due volte, sul significato della declinazione neutra di unum, che traduce l’unità d’essenza delle tre Persone: unum, inquam, neutraliter, quod essentiam sive substantiam significat53; e racchiude, così, l’unità che caratterizza il processo intellettivo, quello trinitario che coinvolge Padre, Figlio e Spirito Santo non meno di quello delle creature, che muove dall’ens per articolarsi in verum e bonum. Ma questa evidente simmetria non deve condurre ad un banale equivoco: Eckhart non ripropone qui la tradizionale analogia tra la Trinità e le funzioni dell’anima, che la Scolastica aveva ereditato da Agostino; né intende con “unum”, “verum” e “bonum” quelle proprietà trascendentali dell’essere, che appartengono per essenza all’ipsum esse subsistens e rispondono rispettivamente alle proprietà del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; e competono poi, per partecipazione, anche agli enti. È esattamente nell’intenzione di evitare questo malinteso che Eckhart opera la scelta consapevole di staccarsi dall’interpretazione corrente e di assegnare, nella successione delle proprietà “unum verum bonum”, la prima posizione, corrispettiva del Padre, all’“ens” piuttosto che all’“unum” 54: l’unità dell’essenza, vuole dirci Eckhart, non è una proprietà dell’ente, ma del processo conoscitivo; il quale muove, sì, dall’ente, ma si realizza solo nella produzione della specie nell’intelletto, il “verum”, che si personifica nel Figlio. In questo modo si spiega la premura eckhartiana di ribadire puntualmente ed in più luoghi della sua opera che “unum” non dice il Padre, ma l’essenza: 52 53 54

Eckhardus, In Ioh. n. 360, LW III, p. 305,5. Eckhardus, In Ioh. n. 358, LW III, p. 303,10. In modo decisamente diverso si esprimeva Tommaso, il quale stabilì la corrispondenza di ens con l’essenza comune alle tre Persone e dell’unum con la persona del Padre: “Sed in Deo ista quatuor, ens, unum, verum et bonum, hoc modo appropriantur: ut ens ad essentiam pertineat, unum ad personam patris, verum ad personam filii, bonum ad personam spiritus sancti”, Thomas De Aquino, De ver., 1,1 arg. 5. L’essenza divina è infatti per Tommaso l’essere conchiuso di Dio, cui spettano per conseguenza le proprietà di unità, verità e bontà. Non così per Eckhart.

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in creaturis ens respondens patri, verum respondens filio, bonum respondens appropriate spiritui sancto convertuntur et unum sunt (…) li unum, quod similiter cum ente, vero et bono convertitur, non sic ad personam aliquam appropriate respicit, sed continet unitatem (…). Nec obstat quod ab Augustino unitas patri appropriatur ratione quidem prioritatis sive fontalis diffusionis et originis, quia has rationes positivas, scilicet prioritatis et huiusmodi, non significat li unum55.

Nel versetto “hi tres unum sunt” “unum” non ha ragione d’origine: lì, “unum” non si riferisce alla Persona del Padre, ma all’essenza delle tre Persone; ciò voleva dire che l’unità riguarda in primo luogo il circolo intellettuale, che si realizza nell’identità essenziale del Padre con il Figlio come nell’identità d’essenza di ogni oggetto di conoscenza con la sua immagine o specie. E a riprova di questo, Eckhart chiarisce attraverso un esempio (la conoscenza di una mela rossa) le modalità dell’apprensione di ogni specie da parte dell’intelletto. Così Eckhart: Ultimo ad evidentiam omnium praemissorum exemplariter notandum: pomum dulce et rubicondum gignit, mittit et immittit speciem suam in visu, in quantum rubeum est et se toto quidquid sui rubeum est; et in illo, utpote filio et prole, loquitur, prodit et docet omne quod sui est et nihil aliud, et species illa missa a colorato loquitur verba colorati et haec omnia et nulla alia et nullius alterius, secundum illud infra decimo quinto: ‘omnia quaecumque audivi a patre meo, nota feci vobis’ (…). Sic ergo species missa a rubeo ipsi oculo sive visui docet et in se repraesentat omnia quae sunt rubei se parientis et non aliud in natura a rubeo; si enim esset aliud in natura a rubeo, non conduceret ad cognitionem rubei, sed potius abduceret ab eius cognitione. Est ergo idem in natura, differens in modo essendi: hinc genita, illinc gignens56.

Una mela rossa genera la sua specie nella vista di chi la osservi e vi s’imprime così com’è, rossa e con tutte le sue proprietà. Quell’immagine riflessa, che è filio et prole, rende noto tutto l’essere dell’oggetto che rappresenta; qui, nell’occhio del conoscente, quella specie dice il “verbo del padre”, e nient’altro al di fuori di quello. Quella specie generata, che procede alla vista dall’oggetto, dice e rappre-

55 56

Eckhardus, In Ioh. n. 360, LW III, p. 305,1. Eckhardus, In Ioh. n. 367, LW III, p. 311,8.

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senta tutte quelle cose che sono proprietà della mela, e pertanto la mela rossa e la sua specie non sono diverse per natura; e questo è evidente, perché la specie non distoglie dalla conoscenza della mela, ma piuttosto è funzionale ad essa. Pertanto la mela rossa e la sua specie sono identiche nell’essenza e diverse quanto al modo di essere: lì generante, qui generata. L’unità (quella stessa unità espressa nel versetto “hi tres unum sunt”) si verifica nell’identità dell’ente con la specie appresa, nella misura in cui questa è la sua immagine riflessa, proprio come il Figlio è l’immagine riflessa del Padre; il suo carattere di convertibilità con gli altri trascendentali esprime dunque la riducibilità di ente e immagine ad un’unica essenza, che si trova solo diversamente espressa in “ens”, “verum” e “bonum”, ma rimane sempre una, sia che si manifesti nell’oggetto di conoscenza sia che si generi nell’intelletto del conoscente. Per questo motivo, dunque, “unum” non riguarda la persona né l’ente: perché non vi aggiunge alcun significato, ma indica l’“ens” nella sua essenza: Aut propter hoc li unum personam dicitur non respicere, quia nullam rationem positive addit super ens, quomodo verum et bonum addunt super ens rationes positivas57.

I concetti di “verum” e “bonum” aggiungono invece sempre una ‘significazione’: dicono i diversi modi di essere; sono rationes, e in quanto tali non distinguono l’essenza, ma solo le sue modalità. Molto più che un’analogia tra la Trinità e le facoltà dell’essere umano, questa tesi eckhartiana ricorda un’idea di Alberto Magno, il quale riconobbe l’unità della dialettica intellettuale dei concetti di “ens”, “verum” e “bonum” in un’unica essenza; e nel commento al dionisiano De divinis nominibus riteneva così che ciascun trascendentale fosse un diverso modus significandi della stessa sostanza, considerata sotto rationes differenti: Bonum non addit rem aliquam supra ens, unde bonitas rei est essentia sua, et huiusmodi sunt veritas et unitas, sed addunt tantum modum significandi, unde bonitas est essentia sub alia ratione significata. Est autem duplex modus: unus qui fundatur super negationem, et hic non ponit aliquid in re, sed tantum in ratione; est enim negatio rationis (…) 57

Eckhardus, In Ioh. n. 360, LW III, p. 305,7.

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et hunc modum addit unum supra ens (…) Quidam autem modus est fundatus super affirmationem (…) Et modum fundatum super tales relationes addit verum et bonum supra ens58.

Indivisa sunt opera horum trium in creaturis, quarum sunt unum principium59, aveva premesso Eckhart all’inizio dell’esposizione del versetto: il principio, l’unico, che opera nell’uomo garantendo l’unità di ciascun processo intellettuale è la Trinità. La dottrina dell’immagine non è dunque solo una formula teologica: non lo era stata per il suo maestro di Colonia e nemmeno per il suo confratello Teodorico di Freiberg; né tantomeno lo fu per Eckhart. La conformità dei due processi, quello generativo divino e quello umano di conoscenza, si fonda infatti proprio sull’identità di natura dei due intelletti, quello di Dio e quello dell’uomo, nella misura in cui questo è l’ immagine di quello. 4. Paternità e filiazione come espressione di relazione intellettuale È ormai chiaro che siamo di fronte ad una nuova ontologia tanto quanto ad una nuova teoria della conoscenza; profondamente segnate, l’una e l’altra, dal carattere relazionale dell’Intelletto. Invero si potrebbe anche leggere: dal carattere relazionale di Dio; perché quando si tratta della dimensione intellettuale, immediatamente si varcano le soglie della dimensione divina. È questa una dimensione sempre presente all’essere: se pure immerso nella materia buia degli enti, l’Intelletto resta immutato nella sua natura, identico con l’ente di cui è il fondamento, ma mai commisto con esso; e conserva sempre quel carattere di principio che gli è proprio: l’Intelletto è sempre principio di relazione. Tutta la realtà è infatti il frutto della relazione conoscitiva di Dio: la sua essenza priva di qualsiasi determinazione si determina nelle idee di tutte le cose, dando luogo alla differenza e alla molteplicità. Questo significava anche stabilire che l’identità di ogni cosa con la sua propria ratio intellettuale è nel contempo identità con Dio, nella misura in cui i principi che stanno a fondamento d’ogni cosa conser58 59

Alberti Magni Super Dionysium De divinis nominibus, XXXVII, 1, c. 4 n. 5, p. 116,7. Eckhardus, In Ioh. n. 360, LW III, p. 304, 14.

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vano quella natura intellettuale della loro origine, non sono meno divini del loro Padre: essi rappresentano il Figlio, nient’altro che la manifestazione di Dio nell’essere; e sono a loro volta l’origine di altrettante relazioni di conoscenza, ‘generano’ altrettante relazioni di filiazione nell’uomo. Quelle idee divine, presenti alle cose, sono infatti anche il principio di conoscenza di ogni Intelletto che si appresti a conoscere: esse vengono riflesse dall’Intelletto umano, privo sino a quel momento di determinazioni; ma anche qui la conoscenza non dà luogo ad una copia dell’oggetto che somigli più o meno fedelmente all’originale: l’apprensione si verifica in identità d’essenza. La dottrina dell’immagine, cui Eckhart si richiama così volentieri in questo Commento, esprime esattamente questa dinamica di filiazione, che diventa così (dice bene Loris Sturlese60) ad un tempo teologica e antropologica. Essa coinvolge l’uomo nei principi del suo essere e del suo conoscere: la dinamica trinitaria è riflessa in ogni operazione intellettiva, in cui l’oggetto è esemplare di conoscenza e (come il Padre) si manifesta generandosi nel Figlio, ovvero nell’immagine appresa dall’Intelletto. L’anello di congiunzione, la possibilità dell’intima connessione tra il processo generativo e quello conoscitivo, risiede nella nozione di ratio, già accennata nella Quaestio parigina IX e analizzata a fondo in questo Commento. Ratio si dice in due accezioni: in un senso è il principio intellettuale fondativo delle cose, l’idea che informa gli esseri; in un altro è il concetto, il frutto della relazione del conoscente al conoscibile. Ma queste si corrispondono e costituiscono (proprio come Padre e Figlio) un’unità nell’essenza, nella misura in cui il concetto appreso è l’immagine di quella ratio originaria insita in ogni ente; per questa ragione ogni cosa viene conosciuta non come una copia né attraverso un procedimento astrattivo, ma immediatamente per sua principia et in suis principiis61. Ciò significa che la conoscenza intellettuale in quanto tale non possiede affatto carattere accidentale ed è dunque per sua stessa natura al riparo dalle condizioni transitorie degli esseri, sottoposti al mutamento e alla corruzione; solo agli enti intellettuali spetta il privilegio dell’immutabilità. 60 61

L. Sturlese, Eckhart, Tauler, Suso, p. 65. Eckhardus, In Ioh. n. 20, LW III, p. 17,4; n. 40, LW III, p. 34,1; n. 192, LW III, p. 161,6.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

Le conseguenze di questa posizione si rivelano altrettanto incondizionate sul piano etico: nel momento in cui l’uomo dovesse riconoscere l’idea della giustizia, sarà generato come suo figlio e agirà in lei e per lei solamente, attraverso quell’unico principio ch’è il fondamento della conoscenza non meno che dell’essere; l’uomo non avrà per così dire più alcuna scelta, perché la conoscenza di quella ratio divina determinerà definitivamente il suo essere-giusto. La novità straordinaria della proposta filosofica di Eckhart risiede allora nel riconoscimento del fatto che questa conoscenza di natura essenziale è la conoscenza propria dell’uomo nelle sue condizioni ordinarie; essa non necessita dell’intervento della grazia divina né di alcun lume sovrannaturale infuso. Quanto si dice a proposito della processione intellettuale di Padre, Figlio e Spirito Santo vale davvero anche per la processione e la produzione di ogni ente di natura: ogni relazione intellettiva esprime una generazione in identità d’essenza: Nihilominus tamen (productum), ut est in illo (leggi: in producente), non est aliud in natura, sed nec aliud in supposito. Arca enim in mente artificis non est arca, sed est vita et intelligere artificis, ipsius conceptio actualis. Quod pro tanto dixerim, ut verba hic scripta de divinarum personarum processione doceant hoc ipsum esse et inveniri in processione et productione omnis entis naturae et artis62.

L’Intelletto umano, mosso dagli stimoli del mondo sensibile, è da solo e per sua natura in grado di pervenire ad una conoscenza vera delle cose. L’intervento di Dio, il dono divino della grazia, non rappresentano la condizione per l’apprensione delle verità intelligibili. Essi sono, certo, la condizione per la conoscenza di Dio63. Ma i principi delle cose sono immediatamente evidenti all’uomo; posto che, naturalmente, egli non si arresti alla considerazione materiale e fisica degli enti, ma assuma la consapevolezza del fondamento intellettuale presente ad ogni essere. E varchi così la soglia della dimensione intellettuale: la dimensione divina.

62 63

Eckhardus, In Ioh. n. 6, LW III, p. 7,13. Il corsivo è mio. A proposito della grazia e della conoscenza di Dio rimando al mio contributo “frater Thomas dicit”: Eckhart e Tommaso d’Aquino, in: Studi sulle fonti di Meister Eckhart II (Dokimion 37), a cura di Loris Sturlese, Fribourg 2012.

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CONCLUSIONE LA DOTTRINA DELLA RELAZIONE DI ECKHART NEL SUO TEMPO

Alla luce dei risultati di questo studio sulla dottrina della relazione di Eckhart non si può far a meno di pensare al suo confratello Teodorico di Freiberg1: il principio della spontaneità dell’attività intellettuale; lo status dell’Intelletto, che ha carattere sostanziale e non si pone sul piano delle pure considerazioni logiche; la sua realtà, che non ha nulla a che vedere con la realtà cosale, dal momento che l’Intelletto è reale, nella misura in cui è costitutivo; sono, questi, alcuni dei motivi della teoria della relazione di Eckhart che ricordano la dottrina di Teodorico. E tuttavia, nel momento in cui la si osservi più attentamente, ci si accorge che quelle relazioni essenziali che hanno la loro origine nel soggetto2 non trovano alcun posto nella dottrina di Eckhart, il quale 1

2

A proposito della teoria dell’intelletto di Teodorico di Freiberg cf. K. Flasch, Einleitung, in: Dietrich von Freiberg, Opera omnia I, Schriften zur Intellekttheorie, hrsg. von B. Mojsisch (CPTMA II, 1) Hamburg 1977, p. X-XIII, 1977; B. Mojsisch, Die Theorie des Intellekts bei Dietrich von Freiberg (Beihefte zu Dietrich von Freiberg, Opera omnia, 1) CPTMA, Hamburg 1977; Berthold von Moosburg, Expositio, prop. 193 E, hrsg. von L. Sturlese, Roma 1974. La dottrina di Teodorico prevede due tipi di relazioni essenziali: la relazione dell’Intelletto ai suoi prodotti, e la relazione dell’Intelletto alla sua origine: Theodoricus de Vriberg, De vis. beat. 1.3.3 n. 11, Opera omnia I, p. 58,98: “omnis intellectus in eo, quod intellectus, essentialem respectum habet ad id, quod intelligitur, sicut dicit Commentator Super VII Met. Et non solum ad id, quod intelligitur secundum rationem obiecti, sed magis et essentialius ad id, quod intelligitur secundum rationem sui principii”; De hab. 2,2, Opera omnia II, p. 9,23: “Et talia nullam rem naturae seu aliquam naturalitatem important secundum se in sua essentia inquantum respectus, sed sunt de genere relationis quoad praedicamentum relationis, quod constituitur per actum rationis”.

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Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart

intese la relazione conoscitiva esattamente nella direzione opposta. In questo senso Rupert J. Mayer ha perfettamente ragione, quando afferma che la differenza tra la dottrina della relazione di Eckhart e quella di Teodorico consiste nel fatto che “Dietrich konstituiert das Wesen der Beziehungen vom subiectum relationis aus, Eckhart vom terminus”3; e che, invece, Eckhart e Tommaso d’Aquino concordano nel considerare la relazione un respectus formale, mentre “das fundamentum in re sich dabei materialiter gegenueber der Beziehung verhält”4. E effettivamente Eckhart si richiama a Tommaso in numerosi luoghi in cui tratta della relazione. Nell’esposizione del verso “Omnipotens nomen eius” in Expositio libri Exodi Eckhart ricorre ad un passo estratto dal Commento alle Sentenze di Tommaso, in cui questi aveva distinto i due momenti che caratterizzano la categoria della relazione: innanzitutto il suo contenuto categoriale, che consiste nel riferimento ad alterum (esse ad); e in secondo luogo il carattere d’inerenza della relazione (esse in), che consiste nel suo essere fondata in un altro accidente. 1. I due momenti della relazione nella dottrina di Tommaso La ratio paedicamentalis della relazione non introduce nulla negli enti, dal momento che in sè è il puro riferimento al suo termine opposto; il respectus in quanto tale possiede pertanto consistenza puramente logica; ma nella misura in cui una relazione è reale, essa è innanzitutto un accidente della sostanza e si fonda in un altro accidente (come la qualità o la quantità), che è causa materialis, ovvero il fondamento reale della relazione: Relationes – così Tommaso – fundantur super aliquid quod est causa ipsarum in subiecto, sicut aequalitas supra quantitatem5. Come gli altri accidenti, la relazione reale inerisce al soggetto, il quale (se pure mediato da un accidente) è la causa dell’essere accidentale della relazione6. Qui risiede per Tommaso la possibilità dell’obiettività della conoscenza: le relazioni sono accidenti che si fondano 3 4 5 6

R. J. Mayer, l.c. p. 450. R. J. Mayer, l.c. p. 447. Thomas de Aquino, In Sent. I, d. 2 q. 1 a. 5 exp. tex. ad secundum. Thomas de Aquino, S. theol. I q. 28 a. 2 in co.: “relatio secundum quod est accidens, sic est inhaerens subiecto, et habens esse accidentale in ipso”.

Conclusione

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nella realtà degli enti e, dal momento che questi sono oggetto di conoscenza, vengono portate alla luce dall’anima7. Si può dire con Hermann Krings che “durch den fortlaufenden Strom der Rezeptivitaet die Wesensordnung einer Aussenwelt in den Geist aufgenommen wird”; “Ma” – ancora Krings – “die aufgenommene und die real existierende Ordnung stehen nicht im Verhältnis der Gleichheit. (...) Aussenwelt und Welt des Intelligiblen stehen im Verhältnis der similitudo”8. L’oggetto della conoscenza sta al soggetto come Dio sta all’uomo, ovvero come causa analoga o causa exemplaris. Come fece più tardi anche lo stesso Krings, Anton Krempel sottolineava nel suo monumentale studio sulla dottrina della relazione di Tommaso9 il fatto che il modello aristotelico della dinamica conoscitiva diventa esplicativo del fatto che la relazione tra la creatura e il creatore è reale in un’unica direzione: quella dell’uomo a Dio, come del conoscente al conosciuto; “L’Aquinate entend donc dire” – così Krempel – “que la copie imite son modèle. Une science est vrai selon qu’elle répond intériereument à l’objet, et pas inversement. De même le portrait, la fixation du prix, la perception, les créatures, qui reflètent l’original, la monnaie, l’objet de perception, Dieu”10. L’uomo dipende realmente da Dio, come la conoscenza dal suo oggetto. Nella direzione inversa la relazione resta puramente logica, perchè Dio – così come l’oggetto – non ha in sé nulla che possa fungere da fondamento di relazione verso il suo termine opposto; Dio è in relazione con la creatura solo nella misura in cui rappresenta il fine a cui l’uomo è ordinato, proprio come l’oggetto rappresenta il fine per il conoscente. Dio e l’oggetto non sono determinati dalla proprietà accidentale della relazione; solo nell’uomo creato – come nel soggetto che conosce – la relazione si costituisce come accidente reale della sostanza11. 7

8 9 10 11

Thomas de Aquino, Comp. theol. I c. 67: “Relationes enim reales oportet esse in rebus relatis, quod quidem in creaturis manifestum est: sunt enim relationes reales in eis sicut accidentia in subiectis”; De ver. q. 1 a. 4 ad s.c. 1: „Similitudo proprie invenitur in utroque similium“. H. Krings, Ordo, Philosophisch-historische Grundlegung einer abendländischen Idee, Hamburg 1982, p. 21. A. Krempel, op. cit. A. Krempel, op. cit. p. 478. Thomas de Aquino, De pot. q. 7 a. 1 ad 9: “Ibi enim est realis relatio ubi realiter aliquid dependet ab altero, vel simpliciter, secundum quid. Et propter hoc scientiae est realis relatio ad scibile, non autem e converso, sed secundum rationem tantum, ut patet per Philosophum. Et ideo, cum

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2. Le interpretazioni di Meister Eckhart e Tommaso a confronto Nell’esposizione del verso “Omnipotens nomen eius” Eckhart si richiama esplicitamente al terzo modello aristotelico di relazione. Com’era stato in quella di Tommaso, la relazione tra il conoscente ed il conosciuto rappresenta anche nella dottrina di Eckhart un paradigma importante; ma le intenzioni con cui vi fece ricorso il maestro tedesco si rivelano profondamente diverse da quelle del suo confratello italiano. Non solo l’essere divino, ma l’intera struttura ontologica del reale è, per Eckhart, il risultato di un processo relazionale conoscitivo, in cui l’essenza divina si comporta come oggetto, ovvero come causa: “sic se habet intelligere ad speciem” – così Eckhart nella I Quaestio – “sicut se habet esse ad essentiam. Essentia autem divina se habet loco speciei”12. Ora, attraverso la sua autoriflessione, Dio distingue e genera anche tutte quelle idee che sono il fondamento immediato della realtà. Tutti i generi dell’essere sono il dispiegamento della sostanza di Dio e pertanto non si fondano in quegli enti, a cui pure apparentemente si riferiscono; essi sono, piuttosto, il riferimento alla loro origine. In questo senso Eckhart scrive che la relazione “secundum genus suum et secundum id, quod est relatio, non ponit aliquid prorsus in subiecto nec dicit aliquod esse nec inesse, sed id quod est ex altero et ad alterum est” 13. Il primo aspetto della relazione, ovvero il “riferimento ad alterum” (esse ad), definisce nel pensiero di Eckhart esattamente questa derivazione dell’essere del soggetto da un’origine diversa da quella della sua singolarità. È questa la ragione per cui (come notava già Rolf Schönberger14) Eckhart insiste sul ruolo determinante del terminus ad all’interno della dinamica relazionale, piuttosto che su quello del soggetto. Come il maestro di Hochheim chiarisce nella Quaestio VIII, il terminus ad si comporta come causa formale della relazione; il soggetto si comporta invece in questo processo come sostrato materiale, nella

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Deus ab altero nullo dependeat, sed, e converso, omnia ab ipso dependeant, in rebus aliis sunt relationes ad Deum reales, in ipso autem ad res secundum rationem tantum”. Eckhardus, Quaest. Par. n. 2, LW V, p. 39,4. Eckahrdus, In Exod. n. 64, LW II, p. 68,8. R. Schönberger, op. cit.

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misura in cui la relazione si costituisce in lui ut materiale15. Anche per Eckhart, infatti, la relazione è reale in un’unica direzione: quella della creatura al creatore. Il momento dell’“esse in”, che nella dottrina di Tommaso definiva l’inerenza al soggetto per mezzo d’un altro accidente, esprime ora per Eckhart la realizzazione (ovvero il venire all’essere) della relazione nella qualità e in tutti gli altri generi che costituiscono immediatamente l’uomo; quei generi che dunque non sono affatto il fondamento accidentale di una relazione altrettanto accidentale, ma rappresentano l’unico fondamento dell’uomo. Ne consegue una situazione paradossale: sebbene la relazione sia in sè il puro riferimento ad alterum, essa rimane nella dottrina di Eckhart l’unico predicamento che si fondi realmente nell’essere del soggetto. Una tale posizione non rispecchiava in alcun modo l’intenzione di Tommaso; essa si avvicinava molto di più alla teoria di Teodorico, che aveva fondato tanto il respectus degli enti tra di loro, quanto la dipendenza dalla loro origine, nella stessa sostanza degli enti16, nella misura in cui questi per natura possiedono la stessa essentia eiusdem principii secundum aliud esse17. *** Come nella dottrina di Tommaso, anche in quella di Eckhart la dinamica creativa si riflette in ogni processo di conoscenza, dal momento che Dio è l’origine dell’essere nello stesso modo in cui l’oggetto è 15 16 17

Eckhardus, Quaest. Par. n. 10, LW I,2, S. 467,19. Theodoricus de Vriberg, De intellectu et intelligibili, 8, n. 2, Opera omnia I, p. 141. Theodoricus de Vriberg, De cognitione entium separatorum, 79, n. 2, Opera omnia II, p. 241,27: „Nec potest dici, quod iste respectus dependentiae sit solum per essentiam ratione essentiae in quantum huiusmodi, quia essentia cuiuslibet entis inquantum essentia in rebus creatis habet secundum se absolutum respectum ad se ipsam (…). De ista autem unitate seu una intentione (…) potest expressius dici sic, videlicet quod ipsa est essentia primi principii in se ipsa existens secundum proprietatem substantiae suae, sed intentionaliter secundum virtutem suam diffusa per rerum universitatem, quo tota rerum universitas non solum ab ipso tamquam a causali primo principio, verum etiam inter se secundum partes suas causaliter dependeat. Et sic dici potest, quod invenitur in entibus intentionaliter (…), inquam, attendendo essentiam eiusdem primi principii secundum proprietatem substantiae suae in se ipso, realiter autem attendendo substantias rerum causatarum, quae sunt id ipsum, quod essentia eiusdem pricipii, secundum aliud esse “.

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l’origine della conoscenza per ogni intelletto che conosca. Questo parallelismo risulta particolarmente evidente attraverso l’analisi del concetto di ratio, a cui Eckhart fa riferimento tanto nella Quaestio IX quanto in Expositio sancti evangelii secundum Iohannem. Dal momento che le rationes riposano costantemente a fondamento dell’ente, esse si comunicano e s’imprimono nell’intelletto del soggetto; il quale, privo sino a quel momento di qualsiasi determinazione, riflette immediatamente quei principi intellettuali originari. L’immagine appresa non deriva, insomma, proprio nulla dal soggetto che conosce, poiché questo è in sé indeterminato; l’immagine generata deriva dall’oggetto. Lì ha origine la relazione intellettuale e solo in questa direzione essa è reale: dal conoscente al conosciuto. L’oggetto costituisce l’esemplare per la conoscenza e genera nel soggetto un’immagine, che è essenzialmente identica con lui, proprio come il Padre è identico con il Figlio. In disaccordo nei confronti di Tommaso, Eckhart sostiene che l’immagine non è il risultato di un processo astrattivo; si tratta piuttosto di una riflessione diretta della prima intellezione fondativa, che si conclude in unità assoluta, nella misura in cui la ratio che sta a fondamento dell’oggetto e la ratio appresa dal soggetto coincidono essenzialmente: “est ergo idem in natura, differens in modo essendi: hinc genita, illinc gignens”18. Ciò significa che la conoscenza nell’uomo non dà luogo ad una copia in cui siano rappresentati gli enti di natura, ma ad una perfetta adesione dell’oggetto al soggetto di conoscenza. La possibilità di una tale unità risiede nella natura indeterminata dell’Intelletto in quantum huiusmodi, in grado per sua natura di ricevere immediatamente dagli enti tutte le forme delle cose; proprio questo voleva dire Eckhart, in quegli anni in cui discuteva per la prima volta a Parigi, quando affermava che “scientia nostra est causata a rebus” (ovvero dalle rationes che riposano a fondamento degli enti), e che la nostra conoscenza “cadat sub ente, a quo causatur”19. Ma in questo modo Eckhart si allontanava, in ultimo, anche da Teodorico: questi aveva escluso la possibilità che gli enti natura18 19

Eckhardus, In Ioh. n. 367, LW III, p. 312,4. Eckhardus, Quaest. Par. n. 8, LW V, p. 44,10: “Differt enim nostra scientia a scientia dei, quia scientia dei est causa rerum et scientia nostra est causata a rebus. Et ideo cum scientia nostra cadat sub ente, a quo causatur, et ipsum ens pari ratione cadit sub scientia dei”.

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li potessero essere la causa dell’attività intellettuale, poiché essi non erano in sè portatori di alcun principio intelligibile20; nella prospettiva di Teodorico, era l’intellectus agens (il grunt der sêlen di ogni soggetto conoscente) l’origine essenziale dei suoi propri prodotti. Diversamente dal suo confratello di Freiberg, Eckhart insisteva invece proprio sull’immediata ricettività da parte di ciascun soggetto di quelle rationes, che sono prodotte da un Intelletto che è Dio stesso. Quell’unità relazionale tra soggetto e oggetto, che si realizza in ogni processo intellettuale, diventa allora nel contempo l’unità dell’uomo con Dio; qui si fonda, per Eckhart, la possibilità umana di pervenire alla verità della conoscenza: la sfera intellettuale nel suo complesso è divina. Non v’è dubbio che la dottrina della relazione di Eckhart si sia sviluppata nel contesto della scuola domenicana tedesca; e tuttavia essa non può affatto essere considerata solo “un inasprimento della dottrina teodoriciana dell’origine delle categorie”. Si tratta piuttosto di una nuova teoria della conoscenza, in cui i concetti di ‘intellectus possibilis’ e ‘intellectus agens’ si rivelano per così dire superati; al loro posto si trova quella dinamica relazionale che si articola in Intelletto ‘in se’ e Intelletto ‘cum relatione’: il primo momento definisce la condizione dell’Intelletto indeterminato, che non possiede in sé ancora nessuna differenza ed è pertanto in grado di conoscere tutto; il secondo definisce la relazione dell’Intelletto al suo oggetto, che viene generato nel soggetto secondo la sua stessa essenza ed è con lui uno e identico, come il Padre con il Figlio. All’interno di questa dinamica conoscitiva, l’oggetto viene sempre appreso nella sua forma intellettuale originaria. La novità della proposta filosofica di Eckhart consisteva dunque nel riconoscimento del fatto che quella conoscenza essenziale è propria della stessa natura dell’essere umano: egli non ha bisogno del contributo della grazia divina né di alcun lume sovrannaturale infuso. La conoscenza intellettuale in quantum huiusmodi non ha carattere accidentale e per sua natura è al riparo dalle condizioni transito20

Theodoricus de Vriberg, De orig. 5, 21, Opera omnia III, p. 185: “Sed huiusmodi res non habent rationem causalis influentiae respectu intellectus, et dico influentam, quae est causae per se. (...) Si igitur inter intellectum et huiusmodi sua obiecta attenditur aliqua causalitas, necesse est ipsam inveniri potius apud intellectum respectu rerum quam e converso”.

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rie degli enti; il privilegio dell’immutabilità spetta solo agli enti intellettuali. All’interno del dibattito tra i contemporanei, la dottrina della relazione di Eckhart si distinse tanto dal realismo quanto dalle nuove teorie logiche che si andavano lentamente affermando in quegli anni: la sostanzialità dell’Intelletto era la ragione della realtà della relazione, e non invece la sua natura accidentale; l’identità della relazione con il suo fondamento non era il frutto di una pura considerazione logica, ma era invece il risultato di un processo generativo in identità d’essenza. La teoria eckhartiana si distingueva per il suo intellettualismo: all’interno di questa prospettiva Eckhart seppe ripensare tanto la dimensione divina quanto quella dell’essere; in cui la relazionalità diventava l’elemento costitutivo della sostanza.

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INDICE DEI NOMI

Agostino 12, 39, 43, 46, 107 Alberto Magno 12, 15, 109 Ammonio di Ermia 8 Aristotele 7, 10, 12, 45, 67, 70, 74-75, 78, 80, 8384 Avencebrol 30, 36 Averroè 12 Avicenna 12 Boezio9, 34, 36, 39, 43, 57 Bonaventura 11, 33, 60-62, 89 Duns Scoto 12, 15, 57, 59 Durando di St. Pourçain 11, 14-15, 60, 70-74, 7677, 79, 82-85 Egidio Romano 13 Elia di Alessandria 8 Enrico di Gand 12, 33, 57, 58-60, 63, 65, 89 Enrico di Harclay 60 Giacomo da Viterbo 13

Gilberto di Poitiers 45 Giovanni di Jandun 13 Giovanni Filopono 8 Guglielmo di Moerbeke 10, 58 Guglielmo di Ockham 60 Olimpiodoro 8 Pietro Aureoli 13, 60 Pietro da Palude 72-73 Pietro Lombardo 16 Porfirio 8, 36 Prospero di Reggio Emilia 81 Simplicio 8, 10, 58, 81, 89 Teodorico di Freiberg 1718, 89, 110, 113-114, 117-119 Tommaso d’Aquino 10-11, 13, 17-18, 23-25, 33, 36, 44-45, 59-60, 65, 67-70, 72, 89, 91, 101, 107, 114-118 Tommaso di Sutton 12

FILOSOFIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29.

Deborah Ardilli, Prima della virtù. Esperienza, conoscenza e innocenza nella filosofia di Stuart Hampshire Francesco Borgia, L’uomo senza immagine. La filosofia della natura di Hans Jonas Antonino Trusso, L’uomo allo specchio Fulvio Carmagnola, Il desiderio non è una cosa semplice. Figure di agalma Giovanni Chimirri, Filosofia e teologia della storia. L’esistenza umana in divenire Pietro D’Oriano, Draga Rocchi (a cura di), Il male e l’essere. Atti del convegno internazionale di studi Girolamo Fracastoro, Della Torre ovvero l’Intellezione Giovanni Invitto, Fra Sartre e Wojtyla. Saggi su fenomenologie ed esistenze Mauro La Forgia, Morfogenesi dell’identità Giovanni Leghissa, Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione Giovanni Carlo Leone, Marx dopo Heidegger. La rivoluzione senza soggetto, Stefano Mancini (a cura di), Sguardi sulla scienza del giardino dei pensieri Julia Ponzio, Filippo Silvestri, Itinerari nel pensiero filosofico di Giuseppe Semerari Giovanni Rossetti, Le radici estetiche dell’etica in Gregory Bateson Stefania Tarantino, La libertà in formazione. Studio su Jeanne Hersch e Maria Zambrano Bruno Accarino (a cura di), Espressività e stile. La filosofia dei sensi e dell’espressione in Helmuth Plessner Angela Ales Bello, Patrizia Manganaro (a cura di), Le religioni del Mediterraneo. Filosofia, Religione, Cultura Roberto Armigliati, Responsabilità illimitata. “Per una nuova era di responsabilità” Mimmo Pesare, Abitare ed esistenza. Paideia dello spazio antropologico Francesco Borgia, Appartenenza e alterità. Il concetto di storicità nella filosofia di Martin Heidegger Adriano Bugliani, Contro di sé. Potere e misconoscimento Damiano Cantone, Cinema, tempo e soggetto. Il Sublime kantiano secondo Deleuze Silvia Capodivacca, Danzare in catene. Saggio su Nietzsche Giovanni Chimirri, L’arte spiegata a tutti. Il senso spirituale della bellezza in dieci lezioni Maria Lucia Colì, La natura e l’ontologia in alcuni inediti dell’ultimo MerleauPonty Vincenzo Cuomo, Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene Daniela De Leo, La relazione percettiva. Merleau-Ponty e la musica Gaia De Pascale, Qui non si canta al modo delle rane. La città nelle poetiche futuriste Giovanni Di Benedetto, L’ecologia della mente nell’etica di Spinoza. Amore della natura e coscienza globale sulla via della complessità

30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64.

Josef Dietzgen, L’essenza del lavoro mentale umano e altri scritti Roberto Fai, Genealogie della globalizzazione. L’Europa a venire Fabio Farrotti, Il concetto dionisiaco della vita. Uno studio sul nichilismo Sergio Franzese, Darwinismo e pragmatismo e altri studi su William James Giacomo Fronzi, Etica ed estetica della relazione Giuliano Glauco, L’immagine del tempo in Henry Corbin. Verso un’idiochronia angelomorfica Cristina Guarnieri, Il linguaggio allo specchio. Walter Benjamin e il primo romanticismo tedesco Federico Italiano, Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan Michael Konrad, Amore e amicizia: un percorso attraverso la storia dell’etica Vanna Gessa Kurotschka, Chiara De Luzenberger (a cura di), Immaginazione etica interculturalità Riccardo Lazzari, Massimo Mezzanzanica, Erasmo Silvio Storace (a cura di), Vita, concettualizzazione, libertà. Studi in onore di Alfredo Marini Stefano Marino, Ermeneutica filosofica e crisi della modernità. Un itinerario nel pensiero di Hans-Georg Gadamer Markus Ophälders, Filosofia arte estetica. Incontri e conflitti Riccardo Pozzo, Marco Sgarbi (a cura di), I filosofi e l’Europa Vincenzo Rosito, Espressione e normatività. Soggettività e intersoggettività in Theodor W. Adorno Barbara Scapolo, Esercizi di de-fascinazione. Saggio su E. M. Cioran Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Sui miti. Le saghe storiche e i filosofemi del mondo antichissimo Renato Troncon, Estetica e antropologia filosofica Francesco Valagussa, Individuo e stato. Itinerari kantiani ed hegeliani, Roberta Cavicchioli, Breve storia di un’ingratitudine. Victor Cousin nell’album di famiglia della scuola repubblicana Leonardo Tomasetta, Destra e sinistra. I due corni del dilemma borghese Dario Sacchi (a cura di), Passioni e ragione fra etica ed estetica Mario Alcaro (a cura di), L’oblio del corpo e del mondo nella filosofia contemporanea Luciano Arcella, L’innocenza di Zarathustra. Considerazioni sul I libro di Così parlò Zarathustra di F. Nietzsche Tiziana Carena, La pneumatologia teologico-estetica di Vincenzo Gioberti, Susi Pietri, L’opera inaugurale. Gli scrittori-lettori della Comédie Humaine I Antonio Rainone, Il doppio mondo dell’occhio e dell’orecchio Francesco Giacomantonio, Introduzione al pensiero politico di Habermas. Il dialogo della ragione dilagante Emanuele Profumi, L’autonomia possibile. Introduzione a Castoriadis Fabio Vander, Essere e non-essere. La Scienza della logica e i suoi critici Gianluca Verrucci, Ragion pratica e normatività. Il costruttivismo kantiano di Rawls, Korsgaard e O’Neill Emanuele Mariani, Kierkegaard e Nietzsche. Il Cristo e l’Anticristo Viviana Meschesi, Sistema e trasgressione. Logica e analogia in F. Rosenzweig, W. Benjamin ed E. Levinas Giorgio Brianese, L’arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter Mario Cingoli, Marxismo, empirismo, materialismo

65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. 83. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94. 95. 96.

Nicola Magliulo, Cacciari e Severino. Quaestiones disputatae René Scheu, Il soggetto debole. Sul pensiero di Aldo Rovatti Andrea Amato, Agli esordi dell’esserci. Ancor privi del senso del bene e del male Franco Manti (a cura di), Res publica Luca Marchetti, Oltre l’immagine Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini Rossella Bonito Oliva, Labirinti e costellazioni. Un percorso ai margini di Hegel Luca Gasparri, Filosofia dell’illusione. Lineamenti di glottologia e di critica concettuale Julia Ponzio, Giuseppe Mininni, Augusto Ponzio, Maria Solimini, Susan Petrilli, Luciano Ponzio, Roland Barthes. La visione ottusa Ornella Crotti, La bellezza del bene. Il debito di Hannah Arendt nei confronti di Immanuel Kant Stefano Zampieri, Introduzione alla vita filosofica. Consulenza filosofica e vita quotidiana Vincenzo Comerci, Filosofia e mondo. Il confronto di Carlo Sini Felice Accame, Mario Valentino Bramè, La strana copia. Carteggio fra due avversari su natura e funzione della filosofia con documentazione a sostegno di entrambi Carlo Burelli, E fu lo stato. Hobbes e il dilemma che imprigiona Antonio Di Chiro, La notte del mondo. Luoghi del senso, luoghi del divino Claudio Lucchini, Il bene come possibile processo concreto. Natura e ontologia sociale Manuel Cruz, La memoria si dice in molti modi. La priorità della politica sulla storia Giovanni Invitto, Marleau-Ponty par lui-même. Una pratica filosofica della narrazione di sé Valentina Tirloni, L’enigma del colore. Un approccio fenomenologico e simbolico Giacomo Fronzi, Contaminazioni. Esperienze estetiche nella contemporaneità Alessia Cervini, La ricerca del metodo. Antropologia e storia delle forme in S. M. Ejzenštejn Luciano Ponzio, L’iconauta e l’artesto. Configurazioni della scrittura iconica Chimirri Giovanni, Siamo tutti filosofi (basta volerlo) Bordoni Giorgia, I nomi di Dio. Religione e teologia in Jacques Derrida German A. Duarte, La scomparsa dell’orologio universale. Peter Watkins e i mass media audiovisivi Filippo Silvestri, Segni significati intuizioni. Sul problema del linguaggio nella fenomenologia di Husserl Romeo Bufalo, Giuseppe Cantarano, Pio Colonnello (a cura di), Natura storia società. Studi in onore di Mario Alcaro Stefano Bracaletti, Individualismo metodologico, riduzionismo, microfondazione. Problematiche e sviluppi del paradigma individualista nelle scienze sociali Giovanni Invitto, La lanterna di Diogene e la lampada di Aladino Andrea Camparsi, Irene Angela Bianchi, L’autocoscienza e la prospettiva sul mondo Veronica Santini, Il filosofo e il mare. Immagini marine e nautiche nella Repubblica di Platone Jean-Pierre Vernant, L’immagine e il suo doppio. Dall’era dell’idolo all’alba dell’arte

97. 98. 99. 100. 101. 102. 103. 104. 105. 106. 107. 108. 109. 110. 111. 112. 113. 114. 115. 116. 117. 118. 119. 120. 121. 122. 123. 124. 125. 126. 127. 128. 129. 130.

Barbara Chitussi, Immagine e mito. Un carteggio tra Benjamin e Adorno Marco Jacobsson, Heidegger e Dilthey. Vita, morte e storia Lorenzo Bernini, Mauro Farnesi Camellone, Nicola Marcucci, La sovranità scomposta. Sull’attualità del Leviatano Francesco Barba, Il persecutore di Dio. San Paolo nella filosofia di Nietzsche Augusto Mazzone, Il gioco delle forme sonore. Studi su Kant, Hanslick, Nietzsche e Stravinskij Raniero Fontana, Avodah Zarah, un’introduzione al discorso rabbinico sull’idolatria Victorino Pérez Prieto, Oltre la frammentazione del sapere e la vita: Raimon Panikkar Fabio Martelli, Un libertino nel “Plenilunio delle monarchie” Angelica Polverini, L’inganno dei sensi. La percezione sinestetica tra vista e tatto dall’antichità all’arte del Cinquecento Federica Negri, Ti temo vicina ti amo lontana. Nietzsche, il femminile e le donne Maieron Mario Augusto, Alla ricerca dell’isola che non c’è. Ragionamenti sulla mente Casini Leonardo, Corporeità. La corporeità nelle Ergänzungen al Die Welt di Schopenhauer e altri scritti Giuseppe Campesi, Soggetto, disciplina, governo. Michel Foucault e le tecnologie politiche moderne Bertolini Mara Meletti (a cura di), Ragion pratica e immaginazione. Percorsi etici tra logica, psicologia ed estetica Cattaneo Francesco, Domandare con Gadamer Pantano Alessandra, Dislocazione. Introduzione alla fenomenologia asoggettiva di Jan Patočka Luisetti Federico, Una vita. Pensiero selvaggio e filosofia dell’intensità Fichte Johann Gottlieb, Lezioni sulla destinazione del dotto (1811). La Dottrina della Scienza, esposta nel suo profilo generale (1810) Marcello Ghilardi, Il visibile differente. Sguardo e relazione in Derrida Farotti Fabio, Ex Deo-ex nihilo. Sull’impossibilità di creare/annientare Paolo Aldo Rossi, Paolo Vignola (a cura di), Il clamore della filosofia. Sulla filosofia francese contemporanea Vallori Rasini (a cura di), Aggressività. Un’indagine polifonica Francesco Paparella, Imago e verbum. Filosofia dellʼimmagine nellʼalto Medioevo Gaspare Polizzi, Giacomo Leopardi: la concezione dell’umano tra utopia e disincanto F. Mazzocchio, Le vie del logos argomentativo. Intersoggettività e fondazione in K.-O. Apel Soardo Andrea, Accade l’accadere Antonio Martone, Le radici della disuguaglianza. La potenza dei moderni Pierre Macherey, Jules Verne o il racconto in difetto Elena Irrera, Il bello come causalità in Aristotele Alessandro Amato, L’etica oltre lo Stato. Filosofia e politica in Giovanni Gentile Carlo Chiurco, Etica e sacro. Il Bene e l’Autentico oltre l’Occidente Auguro Ponzio, In altre parole Grigenti Fabio, Giacomini Bruna, Sanò Laura (a cura di), La passione del pensare. In dialogo con Umberto Curi Scoto Eriugena Giovanni, Il cammino di ritorno a Dio. Il Periphyseon, a cura di Vittorio Chietti

131. Di Bernardo Mirko, I sentieri evolutivi della complessità biologica nell’opera di S. A. Kauffman 132. Marrone Pierpaolo, Etica, utilità, contratto 133. Marsili Marco, Libertà di pensiero. Genesi ed evoluzione della libertà di manifestazione del pensiero negli ordinamenti politici dal V sec. A.C. 134. Cortella Lucio, Mora Francesco, Testa Italo (a cura di), La socialità della ragione. Scritti in onore di Luigi Ruggiu 135. Cavarra Berenice e Rasini Vallori (a cura di), Passaggi. Pianta, animale, uomo, in preparazione 136. Elio Matassi, Il giovane Lukács. Saggio e sistema 137. Giacomo Fronzi, Theodor W. Adorno, Pensiero critico e musica 138. Emma Palese, Ex Corpore. Antologia Filosofica sul Corpo 139. Andrea Campucci, Nietzsche: la fine della ragion pura 140. Umberto Lodovici, Religione e politica. Il contributo di Jacques Maritain 141. Tonino Infranca, Lavoro, Individuo, Storia 142 Matteo G. Brega, L’estetizzazione del quotidiano. Dall’Arts and Crafts all’Art Design 143. Romolo Capuano (a cura di), Bizzarre illusioni. Lo strano mondo della Pereidolia e dei suoi segreti 144. Bruno Accarino, Ostilità. Il mosaico del conflitto 145. Nicoletta Cusano, Capire Severino. La risoluzione dell’aporetica del nulla 146. Marianna Esposito, Oikonomia. Una genealogia della comunità. Tönnies, Durkheim, Mauss 147. Georgia Zeami Francesca Presti, Daimonicità del lógos. Socrate nel Protagora e nel Gorgia 148 Marcello Barison, Sulla soglia del nulla. Mark Rothko: l’immagine oltre lo spazio, 2011 149. Fabio Vander, Relatività e Fondamento. Filosofia di Aristotele 150. Giorgio Cesarale, Hegel nella filosofia pratico-politica anglosassone dal secondo dopoguerra ai giorni nostri 151. Francesco Valagussa (a cura di), Immanuel Kant. Prima introduzione alla Critica della capacità di giudizio 152. Marcello Ghilardi, Arte e pensiero in Giappone. Corpo, immagine, gesto 153. Pietro Piro, La peste emozionale, l’uomo-massa e l’orizzonte totalitario della tecnica. Un Seminario, alcuni saggi e materiali per uno schizo-umanesimo 154. Rosa Marafioti, Il ritorno a Kant di Heidegger. La questione dell’essere e dell’uomo 155. Giancarlo Lacchi, Ludwin Klages Coscienza e immagine. Studio di storia dell’estetica 156. Maurizio Guerri, Necessità dell’estetica e potenza dell’arte 157. Susan Petrillo, Augusto Ponzio, Luciano Ponzio, Interferenze 158. Anna Castelli, Lo sguardo di Kafka. Dispositivi di visione e immagine nello spazio della letteratura 159. Silvia Capodivacca, Sul tragico. Tra Nietzsche e Freud 160. Maurizio Guerri, La mobilitazione globale. Tecnica, violenza, libertà in Ernst Jünger 161. Natascia Mattucci e Gianluca Vagnarelli (a cura di), Medicalizzazione, sorveglianza e biopolitica. A partire da Michel Foucault 162. Alfio Fantinel, Tracce di assoluto. Agonia dell’infinito in Giordano Bruno 163. Lisa De Luigi, Animalia. Teoria e fatti della macchina antropogenica

164. 165. 166. 167. 168. 169. 170. 171. 172. 173. 174. 175. 176. 177. 178. 179. 180. 181. 182. 183. 184. 185. 186. 187. 188. 189. 190. 191. 192. 193. 194. 195. 196. 197. 198.

Massimo Canepa, Friedrich Nietzsche. L’arte della trasfigurazione Ginette Michaud, Veglianti. Verso tre immagini di Jacques Derrida Paulo Barone, Utopia del presente Giuseppe Bonvegna, Politica, religione, Risorgimento. L’eredità di Antonio Rosmini in Svizzera Luca Caddeo, L’Operaio di Ernst Jünger. Una visione metafisica della tecnica, 2012 Simona Bertolini, Eugen Fink e il problema del mondo: tra ontologia, idealismo e fenomenologia Enrico Mastropierro, Il corpo e l’evento. Sullo Spinoza di Deleuze Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Volti della memoria Domenica Bruni, Politici sfigurati. La comunicazione politica e la scienza cognitiva Emanuele Mariani, Risonanze impolitiche. Riflessioni filosofiche tra ragioni e fedi Giovanni Chimirri, Teologia del nichilismo. I vuoti dell’uomo e la fondazione metafisica dei valori Angelo Bruno, L’ermeneutica della testimonianza in Paul Ricoeur Maria Grazia Turri, Biologicamente sociali, culturalmente individualisti Leonardo Caffo, La possibilità di cambiare. Azioni umane e libertà mora Francesco Vitale, Mitografie. Jacques Derrida e la scrittura dello spazio Andrea Velardi, La barba di Platone. Quale ontologia per gli oggetti materiali? Davide Gianluca Bianchi, Dare un volto al potere. Gianfranco Miglio fra scienza e politica. In Appendice il carteggio Schmitt-Miglio Riccardo Corsi, Incroci simbolici Francesco Valagussa, L’arte del genio. Note sulla terza critica Vinicio Busacchi, Tra ragione e fede. Interventi buddisti Giuseppe Di Giacomo, Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento Daniela De Leo, Una convergenza armonica. Beethoven nei manoscritti di Michelstaedter e Merleau-Ponty Stefano Bracaletti, Microfondazione. Problematiche della spiegazione individualista nelle scienze sociali Giorgio Palumbo, Finitezza e crisi del senso. La nostra insecuritas e il richiamo dell’assenza Mario Augusto Maieron, C’era una volta un re...! Intorno alla mente (Περί ψυχῆς) tra neuroscienze, filosofia, arte e letteratura Tiziano Boaretti, La via mistica. Itinerario filosofico in quindici stazioni. Massimo Frana, Il segreto dei fratelli del libero spirito Enzo Cocco, La melanconia nell’età dei lumi José Ortega y Gasset, Appunti per un commento al Convivio di Platone, a cura di Pietro Piro Antonio Coratti, Karl Löwith e il discorso del cristianesimo Sarah F. Maclaren, Magnificenza e mondo classico Jean Soldini, A testa in giù. Per un’ontologia della vita in comune Matteo G. Brega, Multimedialità digitale e fruizione parcellizzata. Estetica e forme d’arte del Novecento Francesca Marelli, Fisica dell’anima. Estetica e antropologia in J.G. Herder Mario Cingoli, Hegel. Lezioni preliminari

199. 200. 201. 202. 203. 204. 205. 206. 207. 208. 209. 210. 211. 212. 213. 214. 215. 216. 217. 218. 219. 220. 221. 222. 223. 224. 225. 226. 227. 228. 229. 230. 231. 232. 233. 234. 235. 236.

Tommaso Ariemma, Estetica dell’evento. Saggio su Alain Badiou Gianfranco Mormino, Spazio, Corpo e moto nella Filosofia naturale del Seicento Maria Teresa Costa, Filosofie della traduzione Giuseppe Zuccarino, Il farsi della scrittura S. Fontana, E. Mignosi (a cura di), Segnare, parlare, intendersi: modalità e forme Giovanni Invitto, La misura di sé, tra virtù e malafede. Lessici e materiali per un discorso in frammenti Enrica Lisciani Petrini, Charis. Saggio su Jankélévitch Anthony Molino, Soggetti al bivio. Incroci tra psicoanalisi e antropologia Franco Rella, Susan Mati, Thomas Mann, mito e pensiero J. D. Caputo e M. J. Scanlon, Dio, il dono e il postmoderno. Fenomenologia e religione Friedrich W.J. Schelling, Esposizione del Processo della Natura Stefano Poggi (a cura di), Il realismo della ragione. Kant dai Lumi alla filosofia contemporanea Ruggero D’Alessandro, Le messaggere epistolari femminili attraverso il ‘900. Virginia Woolf, Hannah Arendt, Sylvia Plath Giovanni Invitto, Il diario e l’amica. L’esistenza come autonarrazione Luca Mori, Tra la materia e la mente Alberto Giacomelli, Simbolica per tutti e per nessuno Paulo Butti, Un’archeologia della politica. Letture della Repubblica platonica Erasmo Storace, Ergografie. Studi sulla struttura dell’essere Francesco Maria Tedesco, Eccedenza sovrana Marco Vanzulli (a cura di), Razionalità e modernità in Vico Marcello Barison, Estetica della produzione. Saggi da Heidegger Elio Matassi (a cura di), Percorsi della conoscenza Mirko di Bernardo, Danilo Saccoccioni, Caos, ordine e incertezza in epistemologia e nelle scienze naturali Liliana Nobile, Democrazie senza futuro Giacomo Fronzi (a cura di), John Cage. Una rivoluzione lunga cent’anni, con unʼintervista inedita Paolo Taroni, Filosofie del tempo. Il concetto di tempo nella storia del pensiero occidentale Roberto Diodato, L’invisibile sensibile. Itinerari di ontologia estetica Bruno Moroncini, Il lavoro del lutto, Materialismo, politica e rivoluzione in Walter Benjamin Antonio Valentini, Il silenzio delle sirene: mito e letteratura in Franz Kafka Giuseppe Maccaroni, Sociologia Stato Democrazia Damiano Cantone (a cura di), Estetica e realtà, Arte Segno e Immagine Marino Centrone, Rocco Corriero, Stefano Daprile, Antonio Florio, Marco Sergio (a cura di), Percorsi nellʼepistemologia e nella logica del Novecento Pierdaniele Giaretta (a cura di), Le classificazioni nelle scienze Luca Grion, Persi nel labirinto. Etica e antropologia alla prova del naturalismo Marco Piazza, Il fantasma dell’interiorità. Breve storia di un concetto controverso Emilio Mazza, La peste in fondo al pozzo. L’anatomia astrusa di David Hume Luca Marchetti, Il corpo dell’immagine. Percezione e rappresentazione in Wittgenstein e Wollheim Monica Musolino, New Towns post catastrofe. Dalle utopie urbane alla crisi delle identità

237. Barbara Troncarelli, Complessità dilemmatica, Logica, scienza e società in Giovanni Gentile 238. Emanuele Arielli, La mente estetica. Introduzione alla psicologia dell’arte 239. Emanuele Arielli, Wittgenstein e l’arte. L’estetica come problema linguistico ed epistemologico 240. Giuseppe Fornari, Gianfranco Mormino (a cura di), René Girard e la filosofia 241. Erasmo Storace, Genografie 242. Erasmo Storace, Tanotagrafie 243. Erasmo Storace, Poietografie 244. Erasmo Storace, Il poeta e la morte 245. Lucia Maria Grazia Parente, Segreti mutamenti 246. María Lida Mollo, Xavier Zubiri: il reale e l’irreale 247. Susan Petrilli, Altrove e altrimenti. Filosofia del linguaggio, critica letteraria e teoria della traduzione in, intorno e a partire da Bachtin 248. Pietro Piro, Le occasioni dell’uomo ladro. Saggi, polemiche e interventi tra Oriente e Occidente 249. Giorgio Cesarale, Marcello Mustè e Stefano Petrucciani (a cura di), Filosofia e politica. Saggi in onore di Mario Reale 250. Silvia Bevilacqua e Pierpaolo Casarin (a cura di), Disattendere i poteri. Pratiche filosofiche in movimento 251. Franco Maria Fontana, Immagini del disastro prima e dopo Auschwitz. Il “verdetto” di Adorno e la risposta di Celan 252. Antonello Sciacchitano, Il tempo di sapere 253. Gabriele Scardovi, L’intuizionismo morale di George Edward Moore 254. Fabio Vander, Il sistema Leopardi. Teoria e critica della modernità 255. Riccardo Motti, La mistificazione di massa. Estetica dell’industria cultura 256. Francesco Gusmano, Naturalismo e filosofia 257. Gemmo Iocco, Profili e densità temporali 258. Marco Sgarbi, Kant e l’irrazionale 259. Amato, Fulco, Geraci, Gorgone, Saffioti, Surace, Terranova, L’evento dell’ospitalità tra etica, politica e geofilosofia. Per Caterina Resta 260. Luca Serafini, Inoperosità. Heidegger nel dibattito francese contemporaneo 261. Renato Calligaro, Le pagine del tempo. Scritti sull’Arte 262. Paolo Scolari, Nietzsche fenomenologo del quotidiano 263. Fabio Ciaramelli, Ugo Maria Olivieri, Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa 264. Giovanni Invitto, Lanx satura. Asterischi filosofici su soggetti, temi ed eventi dell’esistenza 265. Vinicio Busacchi, Itinerari buddisti. La sfida del male 266. Plotino, Enneadi. I-II e vita di Plotino di Porfirio 267. Luca M. Possati, La ripetizione creatrice. Melandri, Derrida e lo spazio dell’analogia 268. A. Lavazza, V. Possenti (a cura di), Perché essere realisti. Una sfida filosofica 269. Mattia Geretto e Antonio Martin (a cura di), Teologia della follia 270. Vittorio Pavoncello, Il serpente nel Big Bang 271. Afonso Mário Ucuassapi, Dalle indipendenze alle libertà. Futurismo e utopia nella filosofia di Severino Elias Ngoenha 272. Roberto Fai, Frammento e sistema. Nove istantanee sulla contemporaneità

273. Francesco Giacomantonio (a cura di), La filosofia politica nell’età globale (1970-2010) 274. Alberto Romele, L’esperienza del verbum in corde. Ovvero l’ineffettività dell’ermeneutica 275. John Burnet, I primi filosofi greci, a cura di Alessandro Medri 276. Giovanni Basile, Il mito. Uno strumento per la conoscenza del mondo. Saggio introduttivo attorno all’ermeneutica mitica 277. Andrea Dezi, Potenza e realtà. Il sovrarrealismo ontologico nel pensiero di F.W.J. Schelling 278. Vincenzo Cuomo, Leonardo V. Distaso (a cura di ), La ricerca di John Cage. Il caso, il silenzio, la natura 279. Augusto Ponzio, Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico 280. Alessandra Luciano, L’estasi della scrittura Emily L. di Marguerite Duras 281. Enrico Giorgio, Esercizi fenomenologici. Edmund Husserl 282. Sara Matetich, In no time. Forme di vita, tempo e verità in Virginia Woolf 283. Marco Fortunato, La protesta e l’impossibile. Cinque saggi su Michelstaedter 284. Antonio De Simone, Alchimia del segno. Rousseau e le metamorfosi del soggetto moderno 285. Francesco Giacomantonio, Ruggero D’Alessandro, Nostalgie francofortesi. Ripensando Horkheimer, Adorno, Marcuse e Habermas 286. Fortunato Cacciatore, Isonomia/Isogonia. Percorsi storico-filosofici 287. Vallori Rasini, L’eccentrico. Filosofia della natura e antropologia in Helmuth Plessner 288. Enzo Cocco, Le vie della felicità in Voltaire 289. Rodolphe Gasché, Dietro lo specchio. Derrida e la filosofia della riflessione, traduzione e cura di Francesco Vitale e Mauro Senatore 290. Andrea C. Bertino, “Noi buoni Europei”. Herder, Nietzsche e le risorse del senso storico 291. Franco Ricordi, Pasolini filosofo della libertà. Il cedimento dell’essere e l’apologia dell’apparire 292. Viviana Meschesi, Passaggi al limite. Linguaggio ed etica nei periodi di crisi 293. Franco Sarcinelli, Paul Ricœur filosofo del ’900. Una lettura critica delle opere 294. Federica Ceranovi, Dal giogo dell’idea alla festa del pensiero. I sentieri della ἀλήθεια nel saggio L’origine dell’opera d’arte di Martin Heidegger 295. Augusto Ponzio, Il linguaggio e le lingue. Introduzione alla linguistica generale 296. Augustin Cochin, Astrazione rivoluzionaria e altri scritti 297. Pierfrancesco Stagi, Di Dio e dell’essere. Un secolo di Heidegger 298. L.E.J. Brouwer, Lettere scelte, a cura di Miriam Franchella 299. Franco Aurelio Meschini, Materiali per una storia della medicina cartesiana. Dottrine, testi, contesti e lessico 300. Roberto Gilodi, Origini della critica letteraria. Herder, Moritz, Fr. Schlegel e Schleiermacher 301. Fiorella Bassan, Antonin Artaud. Scritti sull’arte 302. Rossella Spinaci, Razionalità discorsiva e verità 303. Marcella d’Abbiero (a cura di), Passioni nere 304. Umberto Curi e Luca Taddio (a cura di), Pensare il tempo. Tra scienza e filosofia 305. Lucia Parente, Ortega y Gasset e la “vital curiosidad” filosofica 306. Gabriella Pelloni, Genealogia della cultura. La costruzione poetica del sè nello Zarathustra di Nietzsche

307. 308. 309. 310. 311. 312. 313. 314. 315. 316. 317. 318. 319. 320. 321. 322. 323. 324. 325. 326. 327. 328. 329. 330. 331. 332. 333. 334. 335. 336

Cosimo Quarta (a cura di), Per un manifesto della «Nuova Utopia» Mario Augusto Maieron, Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe Antonio De Luca, Annamaria Pezzella (a cura di), Con i tuoi occhi Francesca Michelini, Jonathan Davies, Frontiere della biologia. prospettive filosofiche sulle scienze della vita Andrea Velardi, La vita delle idee. Il problema dell’astrazione nella teoria della conoscenza Annamaria Lossi, L’io postumo. Autobiografia e narrazione filosofica del sé in Friedrich Nietzsche Didier Contadini (a cura di), Menzogna e politica Antonio De Simone, Machiavelli. Il conflitto e il potere. La persistenza del classico Andrea Amato, Il bambino che sono, l’uomo che divento. Genealogia dell’io e narrazione della sua trasmutazione Alessandra Violi, Il corpo nell’immaginario letterario Pietro Greco (a cura di), ArmonicaMente. Arte e scienza a confronto Robert L. Trivers, L’evoluzione dell’altruismo reciproco Matteo Pietropaoli, Ontologia fondamentale e metaontologia. Una interpretazione di Heidegger a partire dal Kantbuch Damiano Bondi, La persona e l’Occidente. Filosofia, religione e politica in Denis de Rougemont G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia (1801-1804) Leonardo V. Distaso - Ruggero Taradel, Musica per l’abisso. La via di Terezín: un’indagine storica ed estetica 1933-1945 Raniero Fontana, Sulle labbra e nel cuore. Il buon uso delle parole nel Talmud e nellʼebraismo Pilo Albertelli, Il problema morale nella filosofia di Platone Gli Eleati, a cura di Pilo Albertelli, 2014, Daniela De Leo (a cura di), Pensare il senso. Perchè la filosofia. Scritti in onore di Giovanni Invitto Susan Petrilli, Riflessioni sulla teoria del linguaggio e dei segni Antonio Romano, Seduzione dell’opera aperta. Una introduzione Gian Andrea Franchi, Una disperata speranza. Un profilo biografico di Carlo Michelstaedter Graziano Pettinari, La misura dell’umano. Ontoteologia e differenza in Jean-Luc Marion Francesco Rizzo, Filosofia della grezza materia. Scritto di teoria del linguaggio, etica, estetica Marino Centrone, Rossana de Gennaro, Massimiliano Di Modugno, Silvia La Piana, Giacomo Pisani, Della Bellezza. La scena della scena Giulio Goggi, Al cuore del destino. Scritti sul pensiero. Scritti sul pensiero di Emanuele Severino Alfred Adler, Ernst Jahn, Religione e Psicologia Individuale, a cura di Egidio Ernesto Marasco, postfazione di Gian Giacomo Rovera Laura Gherlone, Dopo la semiosfera. Con saggi inediti di Jurij M. Lotman Marco de Paoli, La Tragica Armonia. Indagine filosofico-scientifica sulla genesi e l’evoluzione del vivente

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Finito di stampare luglio 2014 da Digital Team - Fano (Pu)