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Italian Pages 180 Year 1991
Gigliola De Donato
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Gli Studi Letteratura
Questo volume è stato realizzato con il
contributo dell’Università degli Studi di Bari Dipartimento di Linguistica, Letteratura e Filologia Moderna della Facoltà di Magistero.
Gigliola De Donato
Lo spazio poetico di Guido Gozzano e altri saggi
Editori Riuniti
I edizione: ottobre 1991 © Copyright Editori Riuniti, 1991 Via del Tritone, 61/62 - 00187 Roma
Grafica Luciano Vagaggini CL 63-3493-8 ISBN 88-359-3493-1
Indice
Prefazione Lo spazio poetico di Guido Gozzano I. Poetica dell’intelligenza e poesia della crisi in Guido Gozzano II. Gozzano scrittore in prosa III. La dinamica dell’utopia nella tradizione letteraria
di «Paolo e Virginia» IV. Epifania, morte e rovesciamento parodico dell’Ulisside 127
Note
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Indice dei nomi
Prefazione
Nel raccogliere in volume questi miei saggi gozzaniani, che corrono lungo l’arco di circa un decennio, non ho mancato di interrogarmi circa l'opportunità di una tale riproposizione, e mi sono data una risposta rassicurante, non foss’altro perché essi sono destinati a nuovi lettori. I saggi elaborati in momenti diversi — il primo come corso universitario, gli altri per commissione o per occasione — sono unificati, come spero che si comprenderà, da una idea che li connette tutti dentro un disegno critico che si è arricchito senza perdere di coerenza. Mi sono giovata di un metodo che compone in dialettica unità il testo, il contesto e l’extratesto. Se ci sono riuscita giudicherà il lettore. Dal canto mio devo dire che — a parte il tono un poco acceso di alcune di queste pagine, a causa di un certo mio dissenso verso quella critica che ha giudicato in passato, ma continua ancora oggi, in
forma più insidiosa, a giudicare Gozzano quale poeta della passività,
del disimpegno, della pigrizia morale — non mi sento di cambiare nulla di questi scritti che oggi trovano una sistemazione unitaria. L’analisi condotta da me sull’opera in versi e in prosa dello scrittore torinese, resta, a mio avviso, in piedi nella sua interezza, di-
rei nella sua organicità tra parte e parte. Con essa ho inteso aggiungere un filo di luce in più alla comprensione di quelli che mi sembrano i tratti eminenti della sua poesia. Una poesia che si fa strada, in
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Prefazione
modo abbastanza curioso, procedendo per smorzature e ricusazioni, rinunziando deliberatamente a messaggi ritenuti improponibili, facendo mostra addirittura di denegare se stessa. Viene perciò riconfermato con questi saggi quel carattere così sfuggente e cosi gozzaniano, tra malinconico e gioioso, tra amaro e sorridente, tra banale e sofisticato, che è proprio del suo contegno
morale e dello stile della sua arte. Il suo è il riconoscimento non indolore, anche se in apparenza affabile e quasi scherzoso, della perdita verticale di identità pubblica dell’intellettuale, anzi, della caduta
di valore dell’io poetico in un tempo di mercificazione universale, insomma dell’inefficacia pratica e civile delle lettere. Ma se Gozzano continua ad emergere fra tutti i crepuscolari, non è certamente per quello che si ritiene uno sterile gioco estetizzante, bensi, a mio vedere, per quel tanto di riflessione critica in più che vi dedica, rispetto agli altri, sul senso del proprio tempo, pur senza averne l’aria; e perciò per quella tensione conoscitiva e giudicante (non foss’altro per le ripercussioni provocate nell’io) che si indovina tra le righe dei suoi scherzi e dei suoi «futili» giochi di sillaba e di rima; insomma, per lo spessore colto, in senso lato, della sua poesia. Perciò, ferme restando l’importanza e la validità di quei contributi critici che si sono infittiti in questi ultimi anni, moltiplicando le possibilità di lettura e di fruizione della poesia di Gozzano, con utili indagini sullo stile, sulle fonti letterarie, sulle concordanze, sul-
le strutture retorico-formali, simboliche poetico, ritengo altrettanto importante — profilo sottile di un cosi smaliziato poeta sue fonti culturali e filosofiche. Ne verrà
e psicoanalitiche del testo senza timore di indurire il — dare qualche spazio alle ricavato un ritratto d’arti-
sta, non dirò severo, ma schivo e serio, e persino amaro nella scelta
non facile in tempi di ideologie, per non dir altro, attivistiche e nazionalistiche, di una filosofia della rinunzia, tra Schopenhauer, Leo-
pardi e Nietzsche: si tratta di una rinunzia pronunziata in sordina, senza abiure clamorose e demagogiche, ma con una spiccata propensione al rovesciamento ironico, abbastanza nuovo nella nostra poesia di eredità ottocentesca. Insomma, la felice lievità delle sue favole in versi, la sua affabilità narrativa, la sorridente e iridata screziatura lirica del suo tessuto rit-
Prefazione
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mico-verbale, possono far correttamente parlare di un processo di distillazione ultima di ogni sostanza corporea dei suoi materiali poetici. E ciò, grazie al distanziamento volontario dell’io da una materia dolente di meditazione, in cui si coagulano ragioni esistenziali, psicologiche, storiche, filosofiche. Le quali ragioni, per quanto filtrate dal gioco letterario, restano come il nocciolo più segreto e più intimo del suo poetare. Poiché all’origine c’è una storia di iniziazione intellettuale e morale alla crisi del proprio tempo di transizione, di cui Torino era uno dei milieux nell’Italia di fine-secolo. È dunque possibile leggere Gozzano, al di lì della impalpabile trasparenza del suo stile, anche per via filosofica, sulla traccia di Nietzsche, Schopenhauer, Maeterlinck, Leopardi e Pirandello; leggerlo, cioè, sub specie ideologiae, senza tuttavia negare la sua indefettibile fedeltà alla parola poetica? Io credo di si; e ci vorrebbero studi più aggiornati, oltre quelli per altro ancora utili del Piromalli, e i saggi fondamentali del Sanguineti. Diversamente non mi riesce plausibile l'assegnazione alla sua poesia di un posto, e non secondario, nel panorama delle nuove lettere del Novecento, da parte della critica più recente. La sua impercettibile «rivoluzione» ha lasciato un segno più durevole di quanto non sembri. La sua disaffezione alla retorica, il suo signorile dileggio del «sublime», la sua «placida» morte al mondo, la sua ricerca di una «via del rifugio», tanto al di là della storia e dell’uomo, fino a sconfinare nell’universo delle crisalidi e dei cristalli, portano su un’altra sponda. C'era da ridefinire la misura dei valori, visibilmente compromessi dalla modernità industriale, c'era da ridimensionare la percezione del mondo e della cultura del passato, amplificata o per fede o in malafede, c'era da metter fine alle parole maiuscole. E Gozzano lo ha fatto, intaccando il luogo di sublimazione di detti valori, la Parola Poetica. La sua poesia nasce in laboratorio, in un laboratorio di riconversione dei pezzi di un motore in disarmo. La lingua poetica viene riciclata artificialmente, manipolata per altri usi, risemantizzata. Le immagini consegnate da un'alta e secolare tradizione retorica vengono assoggettate, non senza pena, alla pallida riduzione della oleografia, ora malinconica ora grottesca, e censurate senza cipiglio, ma con
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Prefazione
una piccola punta di scetticismo. Quel. mondo di un tempo, pieno di innocenza e di bellezza (ma sarà poi vero?), diventa non più credibile, simile alle figure di un arazzo, fredde e astratte, di pallore ce-
reo, come le antenate delle sue poesie giovanili; da custodire tuttavia gelosamente nello scrigno delle cose morte. Ma per tornare al presente volume, occorre dire cosa contiene. Esso consta di quattro saggi: il primo è un tentativo di analisi globale dell’opera poetica di Gozzano. A partire dalla categoria fondamentale dell’ambivalenza, in esso si esaminano figure, simboli e si-
tuazioni della «perplessità» crepuscolare, considerata come condizione permanente e malata dell’io poetico in crisi, ma anche come osservatorio privilegiato di quella che ho definito «poetica dell’intelligenza», quale strumento che evidenzia e acutizza la dissociazione dell’io, la sua sindrome di disadattamento alla realtà e al presente, e che insieme riesce ad alleggerire, grazie al distanziamento critico, «la pena di colui che sa la sua tristezza vana e senza mete». Il secondo saggio, sulle prose di Gozzano, tenta per la prima volta una ricostruzione organica dell’iter percorso dall’autore, da un giornalismo brillante e alla moda ad una scrittura di maggiore impegno, non estranea al tentativo di una spregiudicata analisi sociale che gli permette alcuni sorprendenti agganci alla problematica pirandelliana e che si acuisce al senso delle situazioni stridenti. L’analisi di Paolo e Virginia si colloca, con una sua connotazione precisa, all’interno di uno scenario di cultura più largo: ciò che si è cercato, è descrivere l’intero arco storico delle origini e della fine di
un resistente mito letterario, quello dello stato di natura, attraverso la lettura critica di una serie di campioni significativi della letteratura europea tra Sette e Novecento. In un tal quadro la voce di Gozza-
no non poteva certo mancare. Ad un mito cosi luminoso egli porge la grazia crepuscolare, sorridente e malinconica, della sua ambigua e accattivante ironia. L’ultimo saggio, nato nella sua prima redazione (1983) dal proposito di intervenire nella piccola «querelle» attorno alla poesia Invernale, cerca la connessione tra fiction letteraria e sostrato ideo-filosofico, attraverso una ricognizione che dal testo gozzaniano rimanda a passi nicciani, ben presenti al poeta, come rivela del resto il suo Albo
Prefazione
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dell’officina. In tal senso l’apparentamento, proposto da Sanguineti, di Invernale a Falsetto degli Ossi di seppia, per quanto suggestivo, mi sembra alquanto fuorviante, né mi paiono convincenti altre letture della poesia. In margine ad essa ho successivamente allargato la ricerca con la perlustrazione del mito di Ulisse nella tradizione letteraria dell’Otto e del Novecento. G.D.D. Roma, 7 luglio 1991
Lo spazio poetico di Guido Gozzano
= eci
I
Poetica dell’intelligenza e poesia della crisi in Guido Gozzano*
Gozzano poeta del disimpegno?
Un poeta «senza aureola» quale il Gozzano ebbe coscienza di essere, non offre, proprio in forza della sua voce smorzata e del suo
pudore antiretorico, molti appigli, al di fuori del suo modesto gruzzolo di versi, al critico in cerca di pezze d’appoggio e di verifiche. A cercare infatti tra i suoi scritti editi ed inediti, a voler frugare nella sua «officina» di poeta, non si va molto lontani sulla strada delle scoperte: uno scarno patrimonio di considerazioni estemporanee sull’arte e sulla poesia, del quale è tributario in buona parte di Oscar Wilde, ma anche di Schopenhauer; molte suggestioni ed echi di poeti antichi e nuovi, da Dante a Petrarca fino a Leopardi, D’Annunzio, Pascoli e Graf; e poi Jammes e Rodenbach e Laforgue; e calchi
evidenti sui testi di Maeterlinck e Pierre Loti, e Zola', tutti presenti con motivazioni diverse nell’opera sua e in diverso modo «utilizzati» da Guido; un problematico «attraversamento» di D'Annunzio;
un modo di poetare che sembra privilegiare come oggetto stesso del discorso poetico le parole degli altri quasi si trattasse del «sogno di un sogno»; nessuna organica illustrazione ex cathedra sulle sue ragio*
Questo saggio riproduce parzialmente il volume pubblicato con il titolo Lo spazio poetico di Guido Gozzano presso l’Adriatica editrice (Bari, 1982).
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
ni di poetica, se si esclude la piuttosto occasionale intervista al direttore del «Momento» del 22 ottobre 1910, caricata di una forse ecces-
siva responsabilità critica da parte degli studiosi; e poi veloci confidenze epistolari agli amici, e per lo più in negativo, a dichiarare cioè lo scontento perpetuo dei propri versi”; talune collaborazioni giornalistiche’, ma nessun «serio» impegno e nessuna compromissione ideologica con le riviste e i movimenti che allora «contavano»*; tutto qui. Ed è l’esatta misura dello stile di una vita «provinciale», scettica e senza disperazione: un modulo di vita esemplarmente negati vo, quantunque fecondo di imitatori e seguaci. A farlo uscire dalla sua nicchia di poeta crepuscolare e postdannunziano valse soprattutto, come è noto, l’attenzione che vi pose Montale’, con il quale si fa avanti con migliore evidenza un’immagi-
ne di Gozzano, poeta della «obsolescenza», liquidatore delle parole maiuscole e del falso sublime; «squallido» e «virile» iniziatore del Novecento, come dirà poi Sanguineti. A partire infatti da quelle pagine montaliane, si apre la stagione più fervida e più ricca di sorprese nella critica gozzaniana, e ad uno ad uno si vengono dipanando nodi e aspetti particolari concernenti problemi di periodizzazione del Novecento letterario italiano, che hanno come punto non secondario d’intreccio, nel crocevia delle diverse linee di tendenza della transizione letteraria otto-novecentesca, per l’appunto il nodo-Gozzano: ora respinto indietro, verso i poeti «borghesi» dell’ultimo Ottocento, tra Betteloni, Pompeo Bet-
tini e Stecchetti, ora ricollocato nel miliex crepuscolare, ora proiettato in avanti, a provocare effetti d’influenza sulla poesia del Novecento verso Montale e Pavese. In un tal quadro di questioni si iscrive anche il problema riguardante il nesso di continuità e/o diversità, all’interno della parabola espressiva che collega / colloqui, le prose di Verso la cuna del mondo e il poemetto incompiuto Le farfalle. Si rintracciano nuove prove della appartenenza di Gozzano al «cuore del proprio tempo», quale
«annunciatore degli uomini di pena» che già gli stanno intorno, ma aspetteranno per rivelarsi «di essere dall’altra parte dello spartiacque della guerra»: e in definitiva si tratta di operare un’opzione di tipo etico-ideologico più che di valore in senso puro, se cosi possiamo di-
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re, a vantaggio di un Gozzano «ultimo», vicino a quel Novecento metafisico e simbolico che stava per nascere, a petto di un Gozzano cui «il velo dell’ironia», il «malizioso gioco letterario» e «una tradizione troppo illustre» impediscono «ogni possibilità di svolgimento» (intendi, in senso moderno). Si cerca in fondo un progresso verso il Novecento, al di là degli effettivi risultati artistici dei suoi frammenti incompiuti’. Eppure tornando a rileggere / colloqui e mettendoli a confronto con le prose dall’India di Guido e con i suoi ultimi versi, noi non ci sentiamo di condividere questa linea ascendente verso Le farfalle, o quantomeno riteniamo si possano tirare, a partire dall’assoluta centralità dei Colloqui, nuove linee di ricerca, come recentemente è sta-
to suggerito”. Vale la pena allora rileggere Gozzano e cercare tra le righe dei suoi scritti, sottintesi rapporti tra poetica e poesia, e sulla scorta di tale sottilissima trama tentare di precisare i lineamenti di un «ritratto d’autore» che, grazie alla consapevole ambiguità del poeta, paiono ancora sfuggenti e mutabili ad ogni pur piccola variazione di giudizio, e perciò dinamicamente esposti a rinnovati usi di lettura, a dispetto della «facilità» del suo dettato stilistico, e nonostante la cosiddetta povertà delle sue risorse inventive*. È un fatto che l’esegesi critica intorno al Gozzano si sia arricchita, e insieme complicata, soprattutto a partire dal citato saggio di Montale, e in seguito con Sanguineti, Antonielli, Guglielminetti?,
per nominare solo alcuni dei protagonisti. Grazie ai quali una verità sembra ormai accertata, e cioè che il dettato «prosastico» e «minore» di Gozzano, lungi dall’essere una mimesi apologetica e consolatoria di un piccolo mondo consunto (crepuscolare appunto) che vede esaurire con essa i suoi ultimi aromi, è riconosciuto come artistica-
mente funzionale a provocare effetti di stridula dissonanza tra aulico e prosaico, tra universo sublime-decadente e realtà mediocremente borghese, sprigionando cosi «scintille» destinate a consumare fino
in fondo le idolatriche fedi nel valore-letteratura e a distruggere i feticci di tutti i possibili Assoluti, e insieme svelare la prosaicità borghese del quotidiano; o a riconfermarne la preminenza e il privilegio, ad un grado tuttavia di estraniata assolutezza, rispetto alla «banalità borghese». Tutte le successive analisi sull’opera di demitizza-
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zione inaugurata da Gozzano, hanno precisato la qualità del suo attacco, non solo agli istituti poetici e linguistici della tradizione illustre, ma agli stessi comportamenti di costume, dalle aristocratiche pose superomistiche e perverse del vate D'Annunzio, alle goffe e «nefande» ingenuità sentimentali tardo-romantiche; fino a coinvolgere, nell'esame della crisi dei valori, passato e presente, realtà e sogno, gli istituti conservativi della tradizione e gli squallidi riti dell’universo borghese (depositati fondamentalmente nella sede privilegiata degli «atroci» salotti ottocenteschi): e in ciò parve consistere il tratto autentico della poesia di Guido che ottenne cosi il diritto ad una riconferma clamorosa quale «primo poeta» del Novecento italiano: Il livello sublime — sostiene Sanguineti — ormai fatalmente falsificato, della tradizione ridotta a dannunzianesimo, e il livello vitale ma scostan-
te e impuro del parlato, l’eleganza squisita del canto e la volgarità insolubile della prosa, si coniugheranno insieme, in forzosa congiunzione, e si
mortificheranno e castigheranno a vicenda. Il facile e ingannevole estetismo [...] si corromperà a contatto con la dura e provocante verità di un livello basso di quotidiana intonazione [...] e per contro, l’insorgere realistico del prosaico, del parlato, denunzierà la miseria concreta delle cose, l’impossibilità di una redenzione estetica della vita!°
egli prendeva atto di una nuova condizione della sensibilità moderna e liquidava con sorridente fermezza, i miti di tutta una stagione dell’arte borghese: cosicché convenientemente egli vuole essere riconosciuto, pur negli avvolgimenti del suo «bello stile», come il primo poeta del nostro novecento!!
Il limite che tuttavia veniva denunziato, a leggere bene tra gli interstizi di un tale edificio critico, riguardava il carattere «quietistico» della denunzia! o «eminentemente povero di messaggio»!, o perfino moralmente accidioso per pigrizia «interiore»!*, privo di punti fermi”, incapace per «passività spirituale» di impegno civile, al punto da aver il Gozzano «proibito a se stesso una misura più umana e agonistica della vita»!; cosicché perfino uno dei più attenti e acuti lettori di Gozzano, vogliamo dire il Getto, finisce per concludere che «tutta la maggiore opera poetica [di lui] ha in sé qualcosa che la-
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scia un po’ incerti, una lieve aura di prezioso artificio», trovandone la spiegazione in «uno sguardo troppo insistito sullo specchio riflettente la sua privata persona»!”. Implicitamente, ovvero in modo del tutto esplicito, tale carenza morale si ribalta in défzi/lance, in torbidità autobiografica, in impotenza poetica, in gioco parodistico o in occultamento ideologico di una condizione reale di emarginazione, cosicché alla fine non sembra compiuta quella operazione di rovesciamento ironico del D'Annunzio, e dunque del valore-letteratura,
in cui sembrava consistere il significato precipuo della sua ricerca poetica. La virtù del silenzio cosi cara ai crepuscolari è guardata con sospetto e quasi con cipiglio, sfiora il giudizio di immoralismo che trapela qua e fra là le righe: Il silenzio dei crepuscolari se ha un significato non è quello di un rifiuto sdegnoso, ma piuttosto di un discreto appartarsi, fatto più di rinunzia e anche un po’ di pigra incomprensione, che di motivato giudizio morale e storico, di una scelta di esistenza senza impegni di lotta, risolta nella privatissima intonazione dell’ancora possibile canto, nella coltivazione di quell’esiguo margine ancora concesso alle cose poetiche e alla loro traduzione in parole e in ritmi!*.
Infine il Gozzano non avrebbe del tutto «attraversato» il D’Annunzio, e una buona dose di estetismo gli sarebbe rimasta invischiata nei versi; e il suo contegno narcisistico, sia pure introiettato 0 «rientrato», esibirebbe ampi margini di falsa coscienza borghese misurabile in una sorta di complementare dialettica, in qualche modo schizoide, tra «rifiuto» e «integrazione borghese». L’oscillazione cosi tipica del ritmo gozzaniano, quel suo itinerario poetico cosi soggetto all’afasia del disadattato, e perciò cosi incerto e vago nel suo procedere, cosi sterilmente interrogativo su mete e propositi, vengono anch'essi inquadrati in uno schema ideologico forse un tantino rigido, anziché diventare occasione per una più complessiva e più «laica» ricognizione del «messaggio» gozzaniano. Lo Zatti!” infatti attraverso procedure ermeneutiche di tipo formalistico individua nell’opera poetica di Gozzano una serie di relazioni tematiche riconducibili a due fondamentali sistemi simbolici antite-
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tici che trovano, l’uno nella costellazione: donna-desiderio-farfalla,
l’altro in quella: scrigno-guaina-villa-cuore-solaio, i due estremi del ritmo bipolare di Gozzano. Il critico tenderebbe cosi a dimostrare la presenza di una dinamica contraddittoria e insoluta, tra rifiuto, difesa, esilio, e dunque negazione del desiderio (nella seconda costellazione simbolica), e tentazione vitale, aspirazione all’integrazione
borghese, adeguamento ad «un principio di realtà» contro «un principio di piacere» (nella prima costellazione simbolica). Analogamen-
te il D'Annunzio, «personaggio gozzaniano» assolverebbe ad un ruolo di mediatore e insieme di «ostacolo al soddisfacimento gozzaniano di integrazione borghese» (p. 138); cosicché egli sarebbe insieme oggetto di ammirazione reverente e di polemica invidia e agente di un desiderio «concorrente e rivale e non già alternativo» (ivî). Gozzano insomma evita la denunzia della sua crisi di identità, e la
rinvia sine die?°, mediante la diversione ironico-giocosa, grazie alla maschera melodrammatica della propria patologica inettitudine alla vita pratica e del proprio conseguente rifiuto del reale, contraddetti tuttavia dal suo desiderio (impotente) di integrazione borghese. Cosicché, mentre pare che venga ribadito il procedere «contrappuntistico» dell’ars poetandi di Guido, si perde tuttavia di vista il significato ultimo di tale insistita oscillazione bipolare: il ritmo alterno di un protagonista non retorico di un’età di transizione; quel ritmo che consiste, come vedremo meglio, in una interrogazione straniata sopra di sé, attraverso un avvicendamento di sondaggi, nella ricerca di una inutile e pur sempre ritentata prova di riconoscimento della propria identità storico-sociale. La valenza critica di Gozzano risulta cosi, crediamo, alquanto ri-
proporzionata e la qualità innovatrice della sua ambigua dissacrazione, assunta sotto il segno dell’ironia, perde parte di quella icasticità che pure gli era stata riconosciuta. Si finisce con l’avvalorare la tesi secondo cui il «dramma» di Gozzano, di fronte alla dura presa d’atto del divorzio tra arte e vita, consiste «nella impossibilità di prefigurare un ruolo diverso [della letteratura] da quello, per cosi dire, canonizzato dalla tradizione umanistica, e al tempo stesso nella consapevolezza della fine del mandato che quel ruolo giustificava e autorizzava, della distruzione del sistema di valori che garantiva alla
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. letteratura la sua efficacia conoscitiva, l'applicazione coscienziale
della realtà»?!
Questa contraddizione, apparentemente insanabile, sarebbe invece secondo il Pappalardo risolta dal Gozzano grazie ad un agente di primaria importanza quale il desiderio di recupero dell’identità personale, salvaguardata dalla pratica gozzaniana di progressivi atti di rinunzia, e opposta antagonisticamente alla realtà storico-sociale: ciò metterebbe in funzione il meccanismo della memoria, vale a dire
della parola poetica, mediatrice di essa, che risarcisce e «preserva» l’identità perduta attraverso una vicenda complessa di progressive riappropriazioni di passato, sia soggettivo che collettivo, nell’atto stesso della «consolatoria evocazione» di esso, sede privilegiata dei «valori» («gli ideali e i sentimenti di un tempo perduto, una realtà... desiderabile perché ricca di tutto ciò che il presente ha dissipato», p. 89). La poesia troverebbe cosi nella memoria «il suo ultimo asilo», conservando «il suo tradizionale statuto di funzioni»; e ciò nono-
stante la revoca dell’«investitura egemonica» di essa da parte di un presente che ha mercificato e massificato e perciò distrutto ogni valore. «L’offesa della storia» viene cosi neutralizzata nell’esplorazione del «vuoto orizzonte del presente». Un acquisto di conoscenza dunque assicurato: 1) dalla illuminazione della frattura insanabile prodottasi nell’organicità del mondo storico-naturale, 2) dalla frattura radicale tra arte e società, 3) dalla tormentata scelta del «privato», come «rifugio» dell’identità del letterato. La conclusione ultima dell’interessante e problematico saggio del Pappalardo, con il quale tuttavia non possiamo concordare, consiste nel rilevamento del «carattere consolatorio» della poesia gozzaniana, nella «illusoria riesumazione del passato», nella «nostal-
gica contemplazione di esso», con cui il poeta, in cerca di riparo alle «ingiurie del presente», si sforza di protrarre «la durata di un tempo storico irreversibilmente declinato» e di «esorcizzare l’obsolescenza di un mondo in cui soltanto si giustificano le ragioni e l’essere della poesia» (p. 90). In tal modo, messo definitivamente in mora :/ modo d’essere caratterizzante dell’esplorazione artistica di Gozzano, vogliamo dire /4 forza dell’ironia, l’autore sembra voler riproporre,
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originalmente aggiornato, un discorso che la critica ha largamente superato.
L’aridità sentimentale
Alla base dell’iter artistico di Gozzano vi è dunque l’acuta e tormentata percezione di uno status etico-intellettuale radicalmente alterato, in seguito all’espropriazione di «valori», di identità personale e di spessore storico-culturale, operata sul soggetto-artista dalla logica del profitto capitalista con i suoi connotati — ben chiari a Gozzano a livello di giudizio morale — di violenza, di egoismo, di sensualità, di cinismo e di «matta bestialità». Intrecciata con l’evidenziarsi di
un tale fenomeno vi è in Gozzano inoltre la constatazione lucida e impotente insieme («o Musa — oimè! — che può giovare loro / il ritmo della mia piccola voce...») della degradazione ultima cui è pervenuta la realtà del presente storico-sociale, depauperata dei suoi tradizionali valori etici e spirituali, di tutte «le belle cose astratte» («lealtà», «bontà», «onore», «coscienza»), irreparabilmente private di si-
gnificato, una volta lacerato il fragile involucro ideologico («la barriera fragile, fatta di parole») con l’insorgere della «Forza» e dell’«istinto bestiale»??. Per la verità, quando Gozzano si trova a riformulare i valori appartenenti alla civiltà, gli resta ben poco da salvare. Nella Belva bionda che si ha ragione di credere non del tutto estemporanea, ancorché occasionale, egli schernisce, non senza una qualche sfumatura di pietà, l’enfasi spiritualistica di Lady Sutton: «con tutta la veemenza della sua spiritualità militante [...] con la sua spiritualità nu-
trita di retorica umanitaria», la «povera», «spirituale» lady non s’accorge dell’entità dello scacco. Troppo imbevuta della disgustosa melassa dell’idealismo di moda non s’avvede del sinistro scricchiolio della cattedrale di Reims bombardata, né può accorgersi della «lebbra sanguigna» che contagia i continenti; non è in grado di sentire insomma il rombo dell’«ora tragica» che incombe nel «buio» e nella «notte», fuori di quell’angolo sereno della mondanità internazionale (l’albergo dove si trova Gozzano), in cui «la civiltà moderna, la sua
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luce elettrica, gli uomini in abito da sera, le spalle ignude delle signore, i fiori, i gioielli, le apparenze dell’umanità più raffinata» sembrano celebrare il loro estremo trionfo??. Di quel rito mondano resta in piedi ai suoi occhi soltanto il residuo, frivolo scherzo di una si/houette alla moda, disegnato quasi per scaramanzia dalla pittrice svedese, a trattenere al di qua della soglia della guerra, l’ultima traccia della civiltà-1914: una «buffa leggiadra cosa» che ha preso in prestito la «grazia» di Fragonard e la «linea panciuta» di Holbein per farne un «assurdo» oggetto di consumo, immagine vaga di quella «civiltà [che] svapora come patina lieve». L’ambivalenza gozzaniana, spostando piani e prospettive della propria visione, ricolloca di continuo con variata connotazione emblemi e personaggi del suo tempo e del suo mondo. Dall’altezza di quell’«ora tragica» essi gli appaiono ora come segnati dalla schizofrenica frattura della loro dissociazione, tormentati dalla smorfia di
un’ossessione nevrotica che contrae le loro fisionomie, anticipatrici di certi ritratti pirandelliani, e in certo modo simili agli schizzi espressionistici dell’arte nascente di Grosz. Ecco il profilo di un «gentiluomo»: Ho di fronte, e osservo bene uno dei quattro giocatori: il più esaltato di tutti nel gioco che dura da un’ora. È dieci volte milionario, ma stringe tra il pollice e l’indice gottoso il disco d’una miserabile sterlina e la mano gli trema nell’attesa del responso, e la mascella si abbassa, non più sostenuta dalla volontà assente, e appare la dentiera sordida sotto i baffi stinti, più neri del volto gialliccio, dove le vene in rilievo si disegnano dalle tempie a tutta la calvizie lucente... che laida maschera d’ingordigia! Guai se quegli occhi potessero rubare!”
E quello della sua consorte: La moglie lo fissa da qualche istante, chiamandolo inutilmente a nome, due, tre volte, per una sigaretta. Com'è feroce l’impazienza di lei per quell’inezia! C'è tutto l'odio mortale della schiava asservita da anni all’uomo che le ripugna, c’è la ribellione sanguinaria in quelle iridi chiare... Guai se quegli occhi potessero uccidere! Ma è bellissima la signora, in quel gesto d'attesa; le spalle ignude e il capo arrovesciato sulla spalliera, il braccio candidissimo proteso, la fresca bocca socchiusa in uno spasimo d’ira. È bellissima”).
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
Un mondo intero va in frantumi:
La civiltà svapora come una patina lieve. E noi la credevamo una cosa eterna, certa come la terra, come l’aria... [...] sospesi tra il fuoco ed il buio
noi osiamo parlare di passato, di futuro [...] èperduta in pochi mesi l’evoluzione di millenni?”
e il suo assillante interrogare non ha altra risposta, caduta la maschera che l’occultava, che la nudità del vero volto umano, quello della
«belva bionda». Tale duplice constatazione, della rovina operata nella attuale fase storica sulla trama dei rapporti interpersonali, e della rapina dei valori di cui risulta espropriata la coscienza dell’intellettuale-artista (tradizionalmente garante degli «universali» trasmessi alla collettività), produce un doppio processo di estraneazione della coscienza dell’artista: estraneità dal mondo, per i connotati negativi in cui esso si rappresenta e il conseguente bisogno di esilio, di rifugio, di volontaria estinzione del «desiderio», cui la circostanza della malattia fisi-
ca di Guido conferisce un carattere di incentivo o addirittura di provvidenziale accadimento””; e alienazione da sé, coscienza cioè di
una scissione dell’io che stenta a riconoscersi come modello plausibile e coerente, dotato di funzioni e di messaggio e perciò non più in grado di riflettere la propria immagine in alcuna delle «ipotesi» o degli «esperimenti» di realtà, che pure il poeta par hasard si figura; né di riconoscersi in alcun gruppo sociale determinato: È la città che mi rende cost: le visite forzate e icommiati sorridenti a gente detestabile e dozzinale, il peregrinare tra le «cose»: gli automobili, i socialisti, le biciclette, i preti, i tranwaj, il dottore, il dentista, il sarto, il parrucchiere, i parenti, l’Università, gli uomini che fanno schifo (tutti), e le
donne che fanno pena (tutte)??.
Ma al poeta è anche vietata l’autentica fruizione del sentimento: intanto di provare amore per una donna senza avvertire un soprassalto improvviso di intima ripugnanza: Per me [...] tutto è secondario e trascurabile: gioie e dolori: tutto, perfino la tua bellezza sulla quale mi sono chinato un istante come su un fiore al
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margine del sentiero ma dalla quale mi separo tosto, perché arresterebbe di troppo il mio passo tranquillo...”? ; peope L’amore, nel suo caso, può essere solo sogno o rimpianto: Un giorno, un bel giorno, io sarei a casa vostra, nel vostro salotto, con
voi. Sarebbe un crepuscolo, un crepuscolo della prima primavera, in febbraio, mettiamo. Da molte ore io sarei con Voi; avremmo parlato molto
[...]. Da qualche istante si tacerebbe. L'ombra si farebbe più densa. Voi vi alzereste per accendere il lume. Io vi pregherei di no, vi tratterrei seduta col gesto. Si farebbe notte. Più notte, nel quadrato della finestra, rabescato dalle cortine, il vostro profilo apparirebbe appena...” I nostri convegni! — Oimè! Io li penso come sogni già molto lontani e sento che non sono le ore della follia estrema quelle che lasciano sull’anima la traccia più duratura [...]. Ma tutto si fa buono e dolce nel passato, anche gli istanti che ci parvero brutali ed aspri”!.
Esso si presta al massimo a divagazioni sentimentali, illusorie e dispersive: Ma non parleremo della nostra passione e del nostro passato. La passione è un ingombro al cammino, e ciò che è stato è come se non fosse stato...
che in lui svolgono un compito di diversione dell’istinto sessuale, e favoriscono il distanziamento e la fuga dall’«assoggettamento»: [...] il desiderio della vostra persona cominciava ad accendermi il sangue con una crudeltà spaventosa; ora l’idea di accoppiare una voluttà acre e disperata alla bellezza spirituale di una intelligenza superiore come la vostra mi riusciva umiliante, mostruosa, intollerabile... [...]. E ieri, l’altro,
quando scendeste disfatta nel vestito nei capelli, e mi lasciaste solo in quella volgare vettura di piazza io mi abbandonai estenuatissimo contro la spalliera [...] ... e nel ritorno (orribile!) verso la mia casa, sentivo il sangue irrompermi nelle vene e percuotermi alla nuca come un maglio e, col ritmo fragoroso dei vetri, risentivo sulla mia bocca la crudeltà dei vostri canini. Sono rientrato in casa con un desiderio solo: partire, lasciare Torino subito.
Mi piace Ivrea. È una piccola cittaduzza, da stampa in rame, con le sue torri, le sue piazzette deserte, le sue botteghe di chincaglierie antiquate
[...] È una meta favorevole alle fughe di un giorno, alle assenze di una notte. Per questo, dinanzi alle vetrine ingenue o sotto i vecchi porticati
erbosi vi ho pensato molto. E vi ho pensata male, desiderandovi acutissi-
mamente. Sono andato cosi alla deriva: [...] Rientrando qui ieri sera, mi
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
sono vergognato del come vi avevo pensato qualche ora prima nella cittaduzza deserta. Qui in questa casa poverissima e chiara, io ho un’anima casta di fanciullo che mi viene incontro, dopo ogni assenza, appena varcata la soglia: e scaccia dal mio spirito ogni cosa non buona. Ed è con quest’anima che oggi vi scrivo?
Solo il vagheggiamento distanziato è indolore: A S. Giuliano, in raccoglimento, la vostra immagine risorgerà precisa e limpida nella mia memoria, come la fronda nell’acqua che s’acqueta, ... Ma in questo lento dileguare la vostra immagine spirituale [...] si definisce meglio, balza al mio spirito con linee precise: ...**
Solo l’assenza o la solitudine, favoriscono l’immaginazione: E sto meglio, amica mia sto molto meglio... Sto meglio anche perché sono innamorato! Di una donna che non esiste, naturalmente!
Vi sto dimenticando [...] fisicamente. È uno strazio curioso che dà il senso
giusto della nostra grande miseria cerebrale: non riesco più, per quanto io tenti, a ricordare certi piccoli particolari del vostro volto, delle vostre mani... L’ovale del volto svanisce a poco a poco, la tinta giusta dei capelli si altera, si deforma l’arco dei sopraccigli: ricordo poco il vostro mento e quasi più affatto il vostro orecchio [...] gli occhi e la bocca restano vivi e superstiti, troppo impressi nella mia retina e sulle mie labbra per poterli dimenticare...
E tale divieto ad una fruizione intera dell’immediatezza vitale dipende dal fatto che gli fa ostacolo per l’appunto la consapevolezza della propria umanità parcellizzata, dispersa e costituzionalmente perplessa; in definitiva, la sua inettitudine a vivere, la sua «aridità»: .. non ho amato purtroppo finora e forse non amerò più; non amerò mai se non ho amato voi!
oimè! Parlo, parlo e soprattutto, ragiono: quanto devo farti soffrire! E anche sognare: perdonami! Perdonami. Ragiono, perché non amo: questa è la grande verità. Io non t'ho amata mai. [...] Già altre volte t'ho confessata la mia grande miseria: nessuna donna mai mi fece soffrire; non ho amato mai; con tutte non ho
avuto che l’avidità del desiderio prima, e una mortale malinconia dopo...’
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«Il tormento critico»
Tale motivo, tra i più costanti della sua biografia interiore, si irraggia poi assai di frequente nella sua produzione in versi, come metafora preminente del suo mondo poetico fino ad occupare uno spazio che non si limita al sentimento amoroso. Voglio dire che tale tema dell’aridità e della incapacità d’amare è da intendersi come epifenomeno di un rapporto fobico con la stessa fisicità del reale, come effetto ultimo di un profondo e totale morire al mondo, e perciò non può che essere l’esatto rovescio del vitalismo e dell’attivismo primonovecentesco degli «interventisti della cultura», dichiarandosi quale ideologia negativa dell’estinzione vitale. Il poeta ha coscienza tuttavia di non dover per questo rinunziare all’unica funzione attiva residua (l’arte del sorriso), e presentarsi cosi con la sua ambizione conoscitiva, ancorché limitata al proprio circoscritto essere reale, senza
«orizzonti troppo vasti», e ridotta quindi ad una ricognizione minore che ha come oggetto il territorio privato dell’io, scoperto nella sua inabilità a vivere e nella sua aridità sentimentale. Le prove di tale tema, gozzaniano per eccellenza, abbondano soprattutto nei Colloqui, ma esso è certo motivo costante di tutta la sua produzione, e appare modulato con una insistita volontà di reiterazione su un registro sensibilissimo che tocca toni ora ironici ora sospirosi, ora quasi patetici, ora quasi parodistici, ricalcando comunque il medesimo centrale motivo dell’estinzione vitale”. Si tratta evidentemente di una più assillante inchiesta sul proprio io, del quale, come vedremo, con inutili e reiterati tentativi cerca di
fissare un ritratto. Se pensiamo per un momento agli autoritratti «tragici» ed «eroici» di Alfieri o di Foscolo ci accorgiamo che un’intera parabola si è compiuta, ovviamente; e che con la caduta del «sublime» è stato compromesso non solo un mondo di valori che si ritenevano eterni ed universali: con esso si è rotto quel preciso rapporto d’urto antagonistico, è caduto quello iato drammatico tra una realtà di fatti e di eventi determinanti e l’individuo-eroe, il poeta-vate; ma, dico, si è compromessa altresi una qualsiasi possibilità di rapporto con le cose almeno per ora. Il povero frammento dell’io perde di peso, smarrisce la direzione (il palazzeschiano «omino di
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
fumo» è alle soglie), e la realtà stessa subisce una frantumazione: cadono le statue marmoree raffiguranti Dio, Patria, Umanità (ridotte a «parole nauseose»), si esorcizzano i miti (negativi) del «piacere», dell’«oro», e dell’«alloro», pur testè celebrati dal D’ Annunzio, i/ presente e la storia si fanno inautentici, si rendono estranei all’io, si ri-
ducono presto a stampa, a oggetto, a museo, a solaio, etc., come è stato troppe volte detto; in ogni caso a simulacro e ad artificio, a segno insignificante. Qui ci interessa precisare come la frattura di quello speciale, privilegiato rapporto agonistico del poeta con il reale finisce col mettere in scacco non solo una autorevolissima immagine di poeta, ma anche l’oggetto del suo poetare, l’idea stessa del divenire nel tempo e nello spazio. Con quegli effetti di perdita esistenziale di presenza che è facile immaginare. Ora, l’amara avventura di constatare la fine di una immagine e di un mandato, insieme con la perdita del divenire storico, Gozzano la vive in una misura per dire cosi dimezzata, in
sordina; ama se mai cantare «in falsetto», ha il buon gusto di non calzare coturni e mettere maschere amplificatrici, ha troppo orrore del «sublime» che schernisce, dei retori e dei «letterati» che «dete-
sta», per lasciarsi trasportare; e tuttavia prende atto che non è facile accettare tale situazione di fatto; certo, non s’illude sulla proponibilità di immagini sostitutive, né le cerca, almeno fino ad un certo
punto, anche se non è disposto a rinunziare al piacere dolce-amaro di esercitare l’intelligenza, e in definitiva a far uso della risorsa su-
prema dell’ironia, come strumento atto a conoscere, a rappresentare, ciò che ha bisogno del sorriso per poter essere conosciuto, che senza il sorriso non potrebbe apparire quale effettivamente è. Mi si consenta un riferimento tutto di impressione ricavato da // nome della rosa: Qui Aristotele vede la disposizione al riso come una forza buona che può avere anche un valore conoscitivo, quando attraverso enigmi arguti e metafore inattese, pur dicendoci le cose diverse da ciò che sono, come se
mentisse, di fatto ci obbliga a guardarle meglio e ci fa dire: ecco le cose stavano proprio cosi, ed io non lo sapevo”.
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Ora io credo che «l’artificio» tante volte rimproverato al Gozzano, la sua ambiguità («come se mentisse») è il modo più idoneo «a guardare meglio» una realtà che non ha più segni e valori convenuti avendoli perduti tutti, e che nel suo disvalore, nel suo essere priva di significato, («un gioco affatto degno di vituperio») può meglio essere svelata dalla luce del sorriso. La ricerca cosi insistita sopra di sé, con il suo peso ancora impuro di pateticità, con il suo morboso girare attorno alla propria personacon , quel contegno ambivalente e sospeso tra gioco ironico e virile autoesame, è per l’appunto «la forza buona» della sua poesia. La sua «virtù delle parole» serve a redimere cost dal caos del presente, dall’infranta gerarchia dei valori, dalle immagini illusorie e un tantino grottesche di un passato tanto vicino da prolungarsi nel presente, da quelle ancora aureolate di leggenda epico-sentimentale di un passato più lontano (all’alba prima dei sentimenti «naturali» della borghesia in Paolo e Virginia); una serie di segni, di fossili, di em-
blemi che non gli riesce di riconnettere tra loro in una progressione plausibile, all’interno di un sistema che tenga, perché al momento /a cultura della transizione non gli consente storicamente di mettere quei segni in relazione tra loro, a restituirgli una immagine riconoscibile e razionale del mondo storico, né a suggerirgli prospettive e modelli alternativi. In altri termini, il particolare ritmo gozzaniano, la sua oscillazione studiata con tanta intelligenza e tanto amore dai critici, non è una semplice alternanza del cuore, un contrappunto psicologico, un fatto caratteriale etc...; prima di tutto questo, essa, le sue contraddizioni, le sue inadempienze, erano nelle cose, erano nella crisi di una cultura, erano nei connotati di una realtà storica e sociale che man-
cava ancora di sviluppo, di maturità, di compiutezza: mancava di una «cultura Fiat», come è stato detto?”, e non aveva ancora una cul-
tura autonoma della classe operaia. E sembra che di queste contraddizioni e carenze il Gozzano sia lucidamente consapevole ancorché la sua analisi si fermi, per una sorta di «restringimento volontario dell'angolo visuale», come vuole Scalia‘°, tutta quanta nell’esame dell'io, ma in nessun modo può essere considerata regressiva, come di recente si è di nuovo ribadito‘.
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
Tutto ciò spiega, io credo, come non sia azzardato far partire da Gozzano, come più volte si è detto, quel gusto del ritratto autoironico
del «poeta»: quell’immagine, voglio dire, sottilmente insidiata dall’ipoteca critico-corrosiva, sottoposta all’inevitabile conclusione scettica e antieroica: di negazione in negazione, a partire da lui si arriverà, come
vuole l’Antonielli, al disadorno credo di Montale («Questo solo oggi posso dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»). La lunga, laboriosa parabola della dissociazione della cultura dalla politica incomincia in Italia dalla «rinunzia volontaria» di Gozzano; data da lui la presa d’atto consapevole di una non corrispondenza obiettiva tra l’io dell’artista e la società organizzata nella forma attuale del dominio borghese. Né perciò credo si possa sostenere con il Luperini, utilizzando suggerimenti critici di Paolo Chiarini e di altri, e puntando su una forzata accentuazione «espressionistica» di taluni poeti vociani*, che il Gozzano sarebbe rispetto a questa tendenza assai marginale, poiché il «culto, seppure ironico per la letteratura, differenzia Gozzano dagli altri scrittori degli anni Ottanta, tenendolo ancora in qualche modo avvinto alla tradizione ottocentesca»*. E credo che il vizio ideologico che appanna il giudizio di Luperini consista nell’attaccamento, questo si nostalgico, a quel tipo di intellettuale sessantottesco, inarcato nell’«urlo», nella volontà di «rottura drastica» della «negazione che distrugge e apre varchi» etc..., che egli attribuisce, con forte proiezione emotiva, perfino a «certo» Corazzini e addirittura ad un Moretti, e nega ad un Gozzano la cui ironia, in definitiva povera per non dire priva di «qualità critiche e conoscitive», resterebbe subalterna alla letteratura e finirebbe col riprodurla, restandone prigioniera**. Crediamo viceversa che il Gozzano utilizzi fino in fondo l’acquisita abilità formale, cosi sottilmente esercitata sui poeti a lui noti, non per un pigro e vizioso compiacimento estetizzante, ma per un bisogno di più lucida appropriazione critica della qualità inautentica del vivere presente e del suo proprio vivere nella condizione di «cosa vivente» che impara «la rinunzia volontaria». Orbene, l'acquisizione di tale duplice estraneità al mondo e a se stesso, è il punto più alto di approdo, o se vogliamo, l’unico punto fermo (pur nei limiti imposti da precisi condizionamenti storico-
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ideologici) del suo tortuoso vagabondaggio: le cui tappe scandiscono i momenti di quella che vorremmo chiamare, con espressione un po’ impettita, una strategia conoscitiva. Strategia che Guido affida, nonostante la martellante irrisione diretta al suo stesso mandato («si, mi vergogno d’essere un poeta!... Ed io non voglio più essere io»), all'unico strumento in suo possesso, allo strumento-letteratura. Se egli alla «sua Musa» continua a credere non è, ci pare, per una assai improbabile operazione di restauro del ruolo‘; non per uno sterile e vizioso culto delle lettere indotto dalla «convinzione piena che si tratti effettivamente della cosa più importante di questo mondo»*’, non dunque per frivolo gioco o trastullo («pochi giochi di sillaba e di rima»), ma per l’esigenza di una ricerca assiduamente ritentata e non indolore, quanto più cauto e tormentato è il suo procedere artistico* La sua chiaroveggenza «psicologica» e «sociologica»‘”, viene esaltata, anziché illanguidita, dalla perizia letteraria, che lungi dal rappresentare una remora «regressiva» dell’estetismo e la mortificazione di una più autentica volontà di «liberazione»?, è strumento privilegiato per una risposta, la più aderente nelle condizioni date, a quel bisogno, a quell’assillo di conoscenza di sé e del proprio stato, che costituisce la trama reale della sua ricerca artistica e conferisce ai suoi Colloqui un carattere a suo modo organico.
La poetica dell’intelligenza e la forma dell’ironia Non a caso nei suoi frequenti riferimenti ai Colloqui, come opera in gestazione, Gozzano nbn mancherà di sottolineare con insistenza il carattere «ciclico» e «organico» del suo «poemetto»?! pur nella varietà e autonomia delle ns liriche; e nella nota lettera-intervista al direttore del «Momento»"”, farà seguire a tale giudizio uno schema di partizione che riflette il suo itinerario esistenziale, dal suo
«vagabondaggio sentimentale» fino all’approdo ultimo di chi, Dops rato ogni guaio fisico e morale, si rassegna alla vita sorridendo»” Ora, ciò che ci pare utile mettere in rilievo, non è il fatto palesemen-
te ambiguo che il Gozzano ricusi di avere «chiaroveggenza» della
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propria arte”, quanto la coscienza di una distinzione tra il momento del vissuto («le poesie che sto adunando non sono opera mia, ma della mia vita, della mia adolescenza e della mia giovinezza»), e quel-
lo della riflessione e del distacco” («io ho fatto — come ho sapu-
to — i versi: ora che li sto adunando posso forse notare nel loro insieme una tendenza, [...] l’ascensione dalla tristezza sensuale e malsana
all’idealismo più sereno»); dove è da notare non tanto l’inflessione vagamente spiritualistica (confermata dal senso complessivo dell’intervista) corrispondente alla fase nuova che si apre nel momento in cui scrive, a Colloqui conclusi, quanto la descrizione di una parabola di progressivo schiarimento del suo «vedere» fino all’acquisizione di uno scetticismo sorridente e rinunciatario, in cui l’intelli-
genza e l’ironia giocano un ruolo fondamentale e determinante, per un verso nell’esorcizzazione dell’istinto vitale, onde riappropriarsi di una immagine di sé e del mondo del tutto placata e demistificata”, per l’altro nell’operazione selettiva di momenti esemplari della propria biografia ideale (e dunque ne/ modo del suo guardare). Si tratta di un acquisto che egli realizza, come vedremo dopo, attraverso una assidua ricognizione di frammenti sconnessi della propria realtà psichica, di spaccati lirico-narrativi dell’esperienza storico-culturale, di situazioni emblematiche, di confronti scioccanti tra
passato e presente; vale a dire di una analitica, paziente ricerca fondata essenzialmente sulla fiducia residua nell’intelligenza e sul punto di forza rappresentato dall’«analisi». La nozione di sdoppiamento tra intelligenza e istinto è ben presente alla riflessione di Guido”, e possiamo perciò isolarla come una probante dichiarazione di poetica, proprio in ragione del rilievo che assume come tratto distintivo del suo modo di fare poesia, assimila-
to a quell’attitudine all’«analisi» e al «sofisma» dell’uomo contemporaneo. Se ne ricava, crediamo, una conferma illuminante in Ananke: Io penso con infinita curiosità al contegno dell’istinto in un uomo che precipita da mille e duecento metri [...] Un dramma interiore, magnifico, deve svolgersi tra l’istinto e l’intelligenza appena il cervello ha intuito la catastrofe certa. Lo sdoppiamento è immediato.
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L'intelligenza, come una sorella vile ed egoista, abbandona l’istinto. E l’i-
stinto, solo cerca una via di scampo nel suo precipitare; chiude le valvole,
tenta le corde, rovescia la zavorra. L'intelligenza, la parte cerebrale,
«istrionica», si apparta indifferente, quasi curiosa; osserva l'involucro afflosciato, aspira l’odore del gas che si disperde, segue il turbine della zavorra che più non giova, ode l’urlo della belva allibita, contempla il volto del vicino, la Se
spasmodica del terrore. E tutto osserva, ode, im-
prime nel cervello, con gelida chiaroveggenza [...] Chi ha gustato quest’attimo intenso non ritorna quasi mai alla vita; prosegue nell’eternità portando seco oltre la soglia inaccessibile ai vivi l’ebrezza senza nome. [...]. E
penso che val meglio compendiare nei trenta secondi tutta l’ebrezza che la vita può dare della scialba, pacifica esistenza di trent'anni. Trent'anni fatti di giorni intessuti di benessere borghese, distinti dall’annodarsi la cravatta alla mattina e dallo snodarla la sera...
Per quanto largamente asportato da L’Accident di Maeterlinck, il passo gozzaniano fa trasparire una intenzionalità comunicativa che travalica il senso della pagina del fiammingo. Ne è prova, a mio parere, l'amplificazione non esornativa del tema (anzi l’accentuazione particolare ad esso conferita). A ciò Gozzano provvede per il bisogno evidente di insistere più liberamente, come risulta dal passo di sopra riportato, sul motivo dell’indifferenza, più proprio e familiare alla sua riflessione artistica che su quello dell’impotenza della ragione, anzi dell’intelligenza. Il punto di svolta di Gozzano è dato, credia-
mo, dalla rappresentazione metaforica della caduta come inevitabile destino umano rispetto al quale le facoltà dell’istinto e dell’intelligenza, divaricandosi nelle proprie rispettive funzioni fungono come
modelli di comportamento alternativi: l’uno diretto alla conservazione e alla sopravvivenza, l’altra a registrare la circostanza drammatica di quel precipitare, a definirla, a conoscerla, a dominarla, accettandola. E risulta chiaro che quella facoltà seconda, eminentemente inetta a impedire l’evento fatale, è tuttavia in grado di dominio conoscitivo, di appropriazione astratta (contemplativa) di realtà (si noti l’insistenza dei verba audiendi, sentiendi, videndi, da me sottoli-
neati), insomma di controllo analitico di tutti i dati e le associazioni possibili: [...] tra la caduta e il colpo, trova il tempo di distrarsi, di pensare a quest’altra cosa, di evocare ricordi, di fare confronti, di osservare minuzie.
L’albero che si vede attraverso la morte è un platano... ha tre buche nella
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scorza... è meno bello di quello del giardino... La roccia sulla quale sprizzerà il cervello ha delle vene di mica e di marmo bianchissime...9
La pagina giornalistica di Gozzano al di là della sua occasionalità svela allora una consistenza maggiore ed una sua precisa ragione d’essere nel fatto stesso di presentarsi al poeta come circostanza favorevole, per un recupero, sia pure privo di svolgimento, di motivi e temi personali. Ne vengono ribadite, crediamo, alcune conclusio-
ni: 1) la scarsa concessione da parte del poeta ad atteggiamenti di compromissione sentimentale rispetto alla parabola drammatica dell’esistere; anzi la dichiarata volontà di non coinvolgimento affet-
tivo, sembrano confermare il ruolo, assegnato appunto all’intelligenza, di registrazione di una somma di dati affastellati consapevolmente a significarne la sconnessione; l’impiego dunque delle nostre risorse intellettive in direzione di un habitus analitico che vieta l’abbandono (o l’inibisce) e consente se mai forme di gioco, scettico ed «istrionico» e per analogia, favorisce l’assunzione di un procedere artistico riflesso e critico, di «gelida chiaroveggenza» di fronte alla «maschera spasmodica del terrore», orientato da una volontà, tutta
presente e in atto, di riconnessione distaccata e «curiosa» di una somma di reperti esistenziali; 2) il carattere passivo, inerente alla funzione dell’intelligenza, viene confermato dalla sua assoluta impotenza a impedire, o solo a ritardare l’evento sinistro (il precipitare verso la morte) e dunque a «desiderare» («verrà da sé la cosa / vera chiamata Morte: / che giova ansimar forte / per l’erta faticosa?»); l’esito dunque fallimentare, quanto ai suoi effetti pratici, dell’atto dell’intelligenza (il conoscere), ma il suo valore attivo e critico, il suo lucido vedere («la spaventosa chiaroveggenza»), quanto all’effetto di conoscenza-appropriazione distaccata dell’accadere, del vissuto («E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà»); 3) il piacere estetico («l’ebrezza senza nome») che ne deriva, e dunque non solo la positività conoscitiva del suo lucido vedere, ma l’acquisto spirituale del «guardarsi vivere» in quanto estrema (residua) facoltà di controllo delle cose-eventi e, intrecciato con esse, dell’universo istintuale della cosa-uomo; il piacere
estetico, dico, viene contrapposto alla passività abitudinaria del
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lasciarsi vivere sotto il segno di una esistenza inconsapevole e pacificata: «[...] giorni intessuti di benessere borghese».
Campo conoscitivo e nuclei tematici della «Via del rifugio» e dei «Colloqui» Orbene, questo schema-ipotesi di poetica sembra confermato, come vedremo meglio tra poco, sia dal campo conoscitivo della esperienza letteraria di Gozzano, tutto interno alla propria soggettività in crisi, sia dai nuclei tematici privilegiati che in esso s’incardinano. La delimitazione del terreno di analisi della poesia di Guido risulta fissata infatti dalla sua consapevole riduzione dello spazio d’intervento del soggetto artista alla sola comprensione «di ciò che succede in sé stesso», ed è in quello spazio che si innestano le sue situazioni «narrative». Questo spazio dell’io («soggetto-oggetto della conoscenza») è il referente primario dell’operazione letteraria di Gozzano ed esso viene perlustrato e misurato nel corso di una ricerca via via riproposta, inquieta e sempre fallimentare di strade di salvezza (le «vie del rifugio»), di fronte alla constatazione della perdita della propria identità. Lungo questo iter il poeta sperimenta tutte quante le sue risorse di autoanalisi e compie l’intera sua parabola di esistenziale fragilità, scoprendo altresi l'impossibilità di una reductio ad unum dei suoi «ritratti». La radicale instabilità psicologica dell’io e la sua impotenza ad uscire da uno stato di coazione morale e pratica, generano l’avvicendamento continuo e perplesso (interrogativo) delle immagini di sé che egli, complice la sua malizia ma non senza pena, suggerisce al lettore. L’azione distillatrice dell’ironia passandole ad un filtro sottilissimo le rende incorporee e lievi come pure sembianze di so-
gno o ghirigori della fantasia: memoria di sé tutta vaga e interiore, senza quasi relazione con il mondo concreto, esterno all’io; la tecni-
ca della dissolvenza dell'immagine perpetuamente sparente produce cosi quella labilità di connotati psichici di cui egli stesso era consa-
pevole®?.
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
Non è un caso che da La via del rifugio a I colloqui, ma soprattutto in questi ultimi, si alternino senza ordine apparente, tante e cosi diverse «apparenze» dell’io del poeta: il «bimbo illuso», il «fanciullo trasognato», il «fanciullo tenero e antico», il «cittadino della terra»®, il «pensoso adolescente», il «reduce dall’Amore e dalla Morte», il «compagno inerte», l’«amico neghittoso»®, il ventenne «un po’ malato», «frivolo», «mondano»”, l’«anima sazia»! e l’«ani-
ma leggiera»”?, il «coso con due gambe»”?, «tempra sdegnosa», il «vero figlio del nostro tempo», il «pallido bambino», l’«adolescente cieco di desiderio»”?, l’«arido cuore», il «saggio antico»”, e l’«esteta gelido»”*, l’«anima
ribelle»??, la «giovinezza
squallida e sola»,
l’«anima borghese chiara e buia»*, il «borghese onesto»*, la «maschera del volto sbigottito»®, l’«adolescente forte» e l’«anima che sogna», il «Gozzano un po’ scimunito ma greggio»®°, ed il «poeta tacito e assente».
Immagini tutte cosi eterogenee tra loro che messe a confronto si annullerebbero a vicenda; e del resto a nessuna di esse è consentito uno
spazio preponderante, giacché la personalità di Gozzano sta proprio nel loro sconnesso e multanime stare insieme, nell’assiduo confronto
delle dramatis personae in quella maniera affatto singolare che è tutta sua; che è «stridula» e armoniosa allo stesso tempo, e va soggetta a quel ritmo alterno, a quel respiro pieno di sospensioni e di pause che attuano l'andamento musicale «contrappuntistico», come è stato felicemente detto, del «poemetto» gozzaniano. Attraverso l’intreccio di situazioni siffatte e il raffigurarsi dialettico di tali immagini si precisa il procedere tortuoso della sua riflessione artistica, ritardato da continui e sterili ri-
torni indietro e privo di mete («soffro la pena di colui che sa / la sua tristezza vana e senza mete») svelando la verticale caduta dei «fini» e la crisi definitiva di ogni ipotesi di antropocentrismo, sia quella del grande idealismo romantico, sia quella del positivismo in crisi®*. L’iter poetico di Gozzano sembra coincidere dunque con questa visitazione di situazioni di passato, di presente, di futuro messe tra
loro infruttuosamente a confronto, come impossibili proiezioni di se stesso, cosicché, l’inchiesta ribadita sull’io, fermo ad un crocevia
di strade buie e senza sbocchi, finisce col ritornare sui suoi passi. Ne consegue una condizione di assenza («di rinunzia» e di «esilio volon-
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tario»), e di paura della vita che egli distrae ed allontana con la pratica letteraria. «Ciò che è pietrificato non gli fa più paura»; «tutto il vissuto», ridotto a «smalto» e a «stampa», viene riscattato dal suo
«peso di desiderio» e la realtà, la sua «presenza», con il suo carico di congestione vitale, il suo «movimento» e «divenire» viene esorcizzato nella «fissità della morte»?. La letteratura allora svolge questa funzione eminente di occultamento al reale e di diversione da esso. Letteratura dunque non come «restauro del ruolo», non come memoria d’infanzia, secondo uno
schema romantico-tipo (Leopardi) ma come distanziamento critico e ironico, e come consapevole (artificiosa) pratica di distrazione dalla vita-dolore, vita-istinto, vita-lotta (intesa «all’odio e alle percosse»). Risulta evidente, allora, che l'espropriazione del patrimonio dei suoi ricordi-valori, data la loro illusorietà in precedenza constatata”!, è fatto al quale egli guarda ormai con elegante gioco ironico e con intenzionale rimpicciolimento patetico-grottesco, data la consumazione ultima cui è pervenuto il tòpos romantico del passato: la sua immagine protettiva e rassicurante è soltanto rimozione del presente; è reliquia, come è stato ripetutamente detto, non mito: è un
povero passato ridotto a cosa, a pezzo d’antiquariato, a oggetto d’arte per le anacronistiche manie del collezionista (Sanguineti), non certo il grande passato eroico-sublime del Foscolo, né la mitica infanzia leopardiana”, né, meno ancora, quello manieristico e stanco del Carducci, o quello aristocratico-decadente di D'Annunzio.
Il presente del resto è coscienza acuta della propria estraneità, impotenza ad agire e ricerca vana di uscite di sicurezza: da cui nasce la tensione fobico-centrifuga da un universo ordinato a merce e trascinato dal «turbine dell’oro», né perciò in questo quadro precario e respingente risulta in qualche modo credibile e probante, altro che per gioco, l’ipotizzato inserimento del poeta nel ritmo solidale di una «vita ruvida e concreta», da «buon mercante inteso alla moneta», data tra l’altro l’anacronistica infondatezza del modello medio-
cre del borghese onesto da lui proposto, in una fase storica caratterizzata, come il Gozzano ben sa, dal decollo della grande borghesia e dalla acutizzazione della lotta di classe’.
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
Privazione infine di futuro, destituita com'è di qualsiasi valore di «ipotesi», quella immagine di esso proposta appunto in L'ipotesi, anch’essa immune dal divenire della vita e collocata in una pace borghese-«campagnola» assai più simile ad una vecchia stampa del passato che ad un tempo «di là da venire». Nella poesia L’ipotesi la sua nostalgia-ossessione di interno borghese, di spazio raccolto e modesto e di antieroico rifugio, antitetico all’ulissismo letterario di una
grande tradizione umanistica e decadente, e tetragono altresi alle lontane sirene dell’«oro» e dell’«alloro», trova infatti una sua clamo-
rosa conferma: qui, dico anche nel futuro millenovecentoquaranta, nel dolente bisogno gozzaniano di un tempo fermo, il modello vetero-borghese diventa un miraggio; e cosi i.conti tornano, e tutto resta come conservato, anzi sepolto nella mummificata e un po’ demente immobilità abitudinaria di una vita senza «risse» né «percosse», come «in un armadio canforato». Dentro lo spazio coatto, segnato dalla impraticabilità di vie del rifugio e dall’illusorietà (irrazionalità) di salti nel buio verso il rischio e l'avventura suggeriti dalle pulsioni vitalistico-istintuali della cultura dell’epoca, si gioca, crediamo, l’esperienza più significativa dell’iter artistico di Guido Gozzano. Le stazioni di questa sua laica e improbabile «via di Damasco», senza scorta di fedi («la Patria? Dio? l’Umanità? Parole che i retori t'han fatto nauseose...») e di risposte al destino («Un giorno è nato. Un giorno morirà»), sono emblematicamente fermate nelle situazioni chiave selezionate dal soggetto artista. Si tratta dei temi ricorrenti nel cui intreccio, anche all’interno di
ogni singolo componimento, si determina il particolare ritmo della poesia di Gozzano: cioè la sua emblematica condizione di irresolutezza e di perplessità crepuscolare; il suo coniugarsi, come dice Slataper, «al condizionale», il suo scandirsi sul ritmo del «forse», nel-
l’assiduo avvicendamento dei motivi ricorrenti, veri e propri luoghi del suo mondo interiore: 1) il tema della casa-rifugio, nel quale è inglobato quel particolare sentimento di auto-esclusione al mondo e al presente su cui ci siamo soffermati più volte”; 2) il tema del frutto-
preda-desiderio vitale, con gli inclusi motivi sinonimici della giovinezza, del rischio, dell’istinto, della forza”, che sono altrettante co-
stanti dell’esperienza lirica di Gozzano focalizzate nel polo positivo
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della aspirazione alla vitalità, come idea comprensiva di una somma di immagini e di idee accessorie. Tale aspirazione ora è vissuta e fruita a livelli minimi di «sana voluttà» dei sensi, di «maschio sollazzar-
si» in un abbandono «senza tormento» (Elogio degli amori ancillari, Totò Merimeni, vv. 40-44), ora è avvertita come forza estemporanea,
incoercibile (Una risorta), o subito inibita (L’onesto rifiuto), ora come giuoco sensuale e galante (Le non godute, Le golose), ora e più spesso è trasferita sul suo doppio, più di lui dotato di potenzialità vitali; 3) il tema della rinunzia e dell’aridità, che ne è il rovesciamento
speculare, esprimendo la contrapposta tendenza all’immobilità della morte e alla «pace dell’increato» fuori della vita e del suo «eterno ritorno»; 4) il tema del passato sul quale si proietta l’inappagato bisogno di evasione nel sogno e contestualmente si rivela tramite l’immagine del salotto borghese, l’ironica demistificazione di esso”; 5) i/ tema della fuga dal presente, con la connessa ripugnanza ad accettare i miti e le pratiche di una vita affannosa («la torbida cura», «la gara che divampa», «i commerci turbinosi», «le lotte brutali di appetiti avversi», etc...), o stancamente mondana e malata («la scaltrezza del martirio lento»), «le donne belle solo di cinabro», «il tedioso senti-
mento che fa le notti lunghe e i sonni scarsi», «la trista che già pesa nostra catena antica», etc...), e infine assillata e inaridita dall’«indagine», «l’analisi e il sofisma»?; 6) il tema infine del guardarsi vivere e del «ritratto adolescente»? come assiduo interrogarsi su se stesso, su cui il cerchio dell’indagine nuovamente si chiude. Si capisce come tali situazioni non intendono soddisfare un bisogno di mimesi realistica, nonostante la cosiddetta loro «prosaicità» e la loro evidenza novellistica, ma rispondono ad un'ottica per cosi dire inventariatrice di modi d’essere dell’io, delle sue fobie e del-
le sue fughe, dei suoi rimpianti e delle sue inquietudini. Risultano perciò del tutto scarnificate di residui veristici tardo-ottocenteschi e soggette invece, insieme con il linguaggio che le esprime, al processo di «esaurimento che affligge cose e persone della sua [di Gozzano]
epoca», come è stato acutamente detto!°. Private della vaporosità melodico-romantica (che pure si è voluta vedere nelle sue «novelle sentimentali»), tali situazioni gozzaniane emergono illimpidite di ogni impurità sentimentale, grazie al filtro interposto, tra il soggetto
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che guarda e i campioni di realtà esaminati, dall’analisi-intelligenza quale strumento privilegiato della sua operazione letteraria («Alterna l’indagine e la rima, chiuso in sé stesso»): alla quale l’ironia porge la sua forma di espressione e la sua precisa e delimitata portata di conoscenza. La ricomposizione di questo itinerario che culmina, nella sua forma più compiuta e conclusiva nei Colloqui, si presenta perciò, crediamo, come un figurale microcosmo dell’epopea negativa dell’uomo contemporaneo e vuol essere interpretata come la limitata parabola dell’uomo senza qualità, «che teme gli orizzonti troppo vasti [...}>, in definitiva, dell’intellettuale borghese declassato, ma poco disposto all’autoinganno di una rivincita.e ben difeso dalle illusioni drogate. Questo permanente stato di oscillazione e di malessere («il barcollio malcerto» della vita) e l’insaziato desiderio di fuga ad esso connesso, determinano l’andamento, il ritmo e la forma della poesia
di Guido. La coscienza irresoluta della crisi è l’oggetto stesso della sua ricerca artistica e sta alla base del suo stesso contegno espressivo: essa ne condiziona lo stile («la virtù delle parole», il labor limae di cui si compiaceva) e fissa con infallibile precisione la forma di tale ambiguità nell’articolata ricchezza delle sue tensioni!°!. Sicché pare a noi che l’assenza di messaggio, peculiare alla poesia di Gozzano, proprio in forza del disincantato bilancio storico-culturale che egli fa, pur senza averne l’aria!, e per i costi esistenziali che essa include, sgombri il terreno del Novecento dagli ultimi rami secchi della retorica delle «varie scuole», esautorando, senza possibilità
di appello, non solo le pose supreme del Vate («che tra clangor di buccine s’esalta»), bensi ogni sorta di sacra investitura, sia pure annunziata dal flebile bisbiglio del «fanciullino» e perfino i gemiti e gli strazi dei «finti morituri» (lo Stecchetti, per esplicito riferimento del Gozzano) e le sublimità del «Maestro» Fogazzaro. Poeta piccolo e senza mandati, egli ha aiutato, con la sola forza della sua onestà in-
tellettuale, chi gli veniva dietro, ad aprirsi un varco difficile ma non precario nella waste land del presente!. E questo è, crediamo, al di là delle consonanze formali, tra Gozzano e i poeti del Novecento il
debito vero contratto da essi nei suoi riguardi. Se infatti non è im-
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possibile, come è stato fatto dal Getto!%, dal Sanguineti!®, dal Mondo!%, dal Tedesco!”, dal Guglielminetti!®*, dal Barberi Squarotti!”
e da altri, trovare puntuali riferimenti formali tra Gozzano e la poesia novecentesca, è però ancora possibile ricavarne all’indietro verso l’Ottocento, come ha fatto il Mariani !, cosicché tali corrisponden-
ze testuali per altro spesso assai aderenti nel particolare, elidendosi a vicenda, non decidono in assoluto. Si resta perciò di fronte a tali discorsi attenti al fatto tecnico, un poco insoddisfatti per quel tanto di ingegnosità e di «escogitazione» argomentativa!!! che vi si attacca. La volontà liquidatoria di Gozzano è allora la sua vera lezione: essa rappresenta la forza autentica della sua poesia, la sua pulizia morale e la sua non compromissione, tanto più lucida e schiva, e perfino severa, nonostante la lievità del suo tono, quanto più l’epoca che si apriva vedeva inaugurarsi ambigue avventure intellettuali e proposte di «interventismo» della cultura, scopertamente subalterne agli interessi della «riscossa borghese» e della «sua violenza di classe» e ben altrimenti soggette ai miti del passato e alla difesa del ruolo intellettuale, malgrado le apparenti e chiassose dissacrazioni della Rermesse futurista e il «pragmatismo organizzativo»!!? della «Voce»!!. Quanto a Gozzano perifericamente appartato, come altri «provinciali» del tempo!!, poco disposto a condividere i messaggi oltranzisti dei leonardiani o dei vociani, sprezzante verso i futuristi di
cui intuisce la disonestà letteraria!!°, l’assenza di qualsiasi apologetico messaggio, e il rifiuto di ogni forma di mandato salvifico (almeno fino ai Colloqui), uniti ad un bisogno di conoscenza, priva di fedi e di plausibili addentellati ideologico-regressivi, come di velleitarie ri valse di «integrazione borghese», valgono a collocarlo in una posizione di superstite chiaroveggenza e di «tormento critico» analogo (compresi certi aspetti sia pure poco sviluppati della sua produzione)!!6 alla ricerca di Svevo e di Pirandello, quanto meno per la scelta antinaturalistica e per il tempestivo rifiuto dei miti attivistici e nazionalistici della sua generazione e del suo stesso ceto sociale! im-
plicitamente presente nell’antitetica polarizzazione dell’alternativa forza-inettitudine, istinto-estinzione del desiderio, retorica del sublime-ricerca di autenticità, ed esplicitamente dichiarato nella denunzia della violenza, del danaro, della mercificazione di ogni valore,
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che «la varia fede delle varie scuole» non riesce ad occultare ai suoi occhi.
Dopo «I Colloqui» (1911-1916)
Orbene, l’equilibrio difficile raggiunto dai Colloqui, viene compromesso da quell’agente primario di instabilità rappresentato dal bisogno, più volte confessato, di verità «non convenute», che Guido avverte come radice prima del suo processo di liberazione (evasione) dell’«ingenuo materialismo» verso una gnoseologia spiritualisticoprovvidenziale, e come fondato presupposto di «speranze buone», perché con altra voce potesse tornare poeta. La necessità di uscire dall’impasse in cui l’aveva costretto l’«indagine» e l’ansia di una rinnovata interrogazione, di un’inchiesta totalizzante sul mondo e sull’uomo 118 trovano conferma in alcune sintomatiche confessioni rintracciabili tra le righe del suo epistolario di quegli anni, e si dichiarano in maniera organica nella citata intervista al direttore del «Momento» (1911); ma le troviamo esplicitamente ribadite in un componimento senza data (A4/ Difettivi sillogismi), probabilmente riferibile al periodo compreso fra il 1912 e il 1914 (per il richiamo ad un episodio, /l fiume dei roghi delle Lettere dall’India), ma largamente ricavato, come annota il Sanguineti nella sua edizione delle Poesse, da L’Immortalité di Maeterlinck (in L’intelligence des Fleurs, 1907), che Gozzano tenne presente anche nell’elaborazione delle Farfalle!!. In quel componimento Gozzano risulta ancora una volta e largamente debitore al Maeterlinck e beneficia al contempo dell’influenza del buddismo, cosicché la struttura ideologico-formale del discorso poetico è direttamente o indirettamente derivata, e si presenta con tutta evidenza come esempio di tirocinio stilistico, atto a rivelare una nuova e più ardua sperimentazione tematico-espressiva, nel passaggio ad una poesia filosoficamente più impegnata qual era nei suoi propositi. Tra universo organato in sistemi di cellule e soggettiva aspirazione all’immortalità, l’io tenta un’ultima via di salvezza: il responso dell’«antica maga», la Natura, e la ricerca di un suo «fine benigno».
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A monte di tale percorso c’è lo scetticismo di partenza, la non legittimazione dell’universo («ma che bisogno c’è che il mondo esista»?)!?° ed il precario destino dell’io, con il suo «morbo insanabile terrestre» che «implora di rivivere»!!. Ma il terminus ad quem di un tale percorso, il suo possibile approdo pare ora consistere nel lontano, astrale richiamo «d’una luce remota, della vita che ci attende di
là, nel puro spirito / nel non essere noi, nell’ineffabile»!°. Questo a/ di là della materia non è il troppo improbabile oltretomba cristiano, bensi uno spiritualismo laico che trascende tanto l’esclusiva ed irrelata datità dell’io («e tanto strano fra tante cose strambe / un coso con due gambe / detto guidogozzano»)!?, quanto l’esistenziale angoscia del «buffo senza scopo malnato protoplasma»!”, e che sembra accordare nuova credibilità alla Natura, quale possibile regno dei fini. A tale crisi gnoseologica corrisponde perciò una crisi di poetica (come egli stesso lucidamente intuisce: «con altra voce ritornerò poeta»)!°. L’impotenza della ragione sembra invalidare le operazioni conoscitive di essa circa l’essenza della realtà oggettiva: Questa cosa di noi che vuol persistere indefinita, è dunque indefinibile come il raggio che emana dalla lampada, come il suono che emana dal liuto;
lampada e liuto sono tra gli arredi più familiari e semplici che posso scomporre e ricomporre con le mani; il mistero m’appare se mi chiedo che sia, di dove venga, dove vada,
il prodigio del suono e della luce...!°
Ma anche la realtà del soggetto è messa in dubbio per il suo relati-
; : NE: vismo e conseguente inconoscibilità:
Oimè! L’essenza che rivibra in noi non può per intelletto essere compresa da poi che l’io solo con se stesso, soggetto, oggetto della conoscenza, come uno specchio vano si moltiplica
inutilmente ed infinitamente e nel riflesso è prigioniero il raggio
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano di verità che l’occhio non discerne!”.
Viene esautorata cosi la poetica dell’intelligenza e dell’analisi dell’io incapace di certezza d’approdi: «Ah! La Natura non è sorda e muta;
se interrogo il lichène ed il macigno essa parla del suo fine benigno... Nata di sé medesima, assoluta, unica verità non convenuta,
dinnanzi a lei s’arresta il mio sogghigno. Essa conforta di speranze buone la giovinezza mia squallida e sola; e l’achenio del cardo che s’invola, la selce, l’orbettino, il macaone,
sono tutti per me come personae, hanno tutti per me qualche parola...
Il cuore che ascoltò, più non s’acqueta in visioni pallide fugaci, per altre fonti va, per altra meta... O mia Musa dolcissima che taci allo stridio dei facili seguaci, con altra voce tornerò poeta!!?
AI termine di tale ricerca non può che esservi una soluzione misticheggiante, a placare in «pensier contemplativi», l’inestinguibile residua vitalità istintuale: Negli attimi di grazia, quando l’io dilegua nei pensier contemplativi quando l’istinto tace e si compiace nella gioia dell’utile non nostro [....]}!?.
Orbene, per uscire dall’«io solo con se stesso, soggetto, oggetto della conoscenza», il Gozzano aveva davanti almeno due strade: per un verso quella per l’appunto della sublimazione spiritualistica dell’istinto vitale dell’uomo, simile agli sforzi della «vita animale e vegetale verso la luce dello spirito», che egli riconosceva quale principio attivo del mondo della natura «meraviglioso incitante esempio di ribellione offerto all’uomo»!’, ma che gli precludeva però la via
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ad una ulteriore e più rigorosa operazione di scavo nel mondo stori-
co-sociale (come vedremo meglio tra poco); per l’altro quella, come intuisce acutamente il Guglielminetti, «di un maggiore approfondi-
mento della forza distruttiva dell’ironia»!?.
Tutta la produzione in prosa e in versi!*? successiva ai Colloqui si propone al lettore con i caratteri eterogenei di una fase interlocutoria e non conclusa, aperta ad una prassi letteraria, se vogliamo più ricca di sollecitazioni esterne, ma impoverita di elementi inventivi: la sua scrittura appare ora strettamente d’occasione, ora chiusa dentro misure umanistiche ben precise, sbilanciata com'è su generi letterari differenti: dal pezzo giornalistico alla novella in prosa, dal resoconto di viaggio al poemetto didascalico sul modello settecentesco, alla poesia lirico-ironica. Con tale genere di produzione il Gozzano si misura con i problemi del mercato librario e del pubblico!, e dunque cede anche alle esigenze del gusto e della moda, si lascia andare ad una certa frettolosità d’esecuzione (inconsueta alla sua prassi letteraria) che egli stesso si rimproverava!”; siamo insomma ormai fuori dalla classica compiutezza dei Colloqui e non riconosciamo più la misura impeccabile del suo stile. Questa produzione sa talora di esperimento e di tentativo non definito, altra volta si riduce ad una semplice operazione di calco (per non dire di plagio)”, non esclude anche la possibilità di cauti ritorni indietro su strade già battute (quella ad es. della «stampa» ottocentesca), nel quadro di una ridefinizione complessiva del proprio disegno letterario. In definitiva la sua produzione conosce negli ultimi anni un andamento non poco travagliato e distratto, e un certo
ibridismo impuro di risultati. Occorre dire che sotto un profilo per dir cosi esteriormente formale (e a parte le Lettere dall’India, di cui per comodità di esposizione si dirà fra poco) la raccolta che appare collaudata con maggiore
sicurezza di scelta è di certo L’altare del passato’: ma vi ritroviamo
un Gozzano ormai noto, che la scaltrita signorilità delle variazioni sul tema!” ha comunque reso piacevole prosatore ed elegante giornalista, ma nulla di più. Una certa pigrizia inventiva infiacchisce inevitabilmente lo stile e ci riconduce su strade già percorse, mostrando in maniera più visto-
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sa una certa tendenza all’automatismo di certa tecnica gozzaniana
della confezione della «stampa»!, la frizione tra l’«illustre» della storia e «il familiare» della canzonetta popolare!, il gusto del collezionista di oggetti!*° etc. Cosicché siffatto manierismo di squisita fattura appena lascia trasparire una residua animazione ironico-no-
stalgica!*!, o si esalta talvolta in un parnassiano godimento del parti-
colare, dell’oggetto artificiale, posseduto fin nei minimi dettagli! Ma se l’Altare del passato, si diceva, suggerisce troppo di frequente un déjà vu, al contrario altre pagine gozzaniane in prosa si rendono disponibili ad un tipo di lettura diverso, grazie all'abbandono, consapevolmente o no, da parte di Gozzano di schemi e topòi del suo mondo artistico, e grazie ad una certa apertura verso una realtà di persone e di cose presenti, della cronaca e del mondo dell’oggi, già tenute distanti, come si è visto, dai confini della sua poesia ed ora immesse nella narrazione con il loro valore rappresentativo e documentario del costume contemporaneo. Credo anzi che la nuova disponibilità ad un approccio più franco e incuriosito nei confronti di figure e situazioni del presente possa pretendere di essere definito il punto di forza di queste prose (e rappresenta l’inizio di una incrinatura della conchiusa circolarità del suo mondo, di quanto vi era cioè di chiuso compiacimento nei suoi modi precedenti di poeta dell’io). Credo perciò che occorra riproporzionare il rilievo esclusivo e privilegiato dato finora alle Lettere dall’India e alle Farfalle nel quadro di una definizione critica attendibile dell’ultimo Gozzano, per concedere l’udienza che merita a questa sua produzione novellistica che, pur frammentaria e distratta da altri assaggi artistici!*, e pertanto poco consapevole di sé, ci pare che apra spazi ad una riconsiderazione più problematica ed aperta dell’ultimo Gozzano, non foss'altro perché individuerebbe il filo rosso di un possibile apparentamento della sua esperienza minore di narratore antinaturalista con quel processo di analisi della coscienza dell’artista borghese in crisi, ovviamente assai più fecondo e consapevole del suo, perseguito da Svevo e Pirandello. In una tale direzione andrebbe dedicata maggiore attenzione non solo alle poesie cui fa riferimento il Guglielminetti, ma anche alla raccolta di novelle dell’Ultima traccia! (passata piuttosto sotto si-
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lenzio da parte della critica) che presenta, a mio avviso, nel contesto
tematico e stilistico assai eterogeneo delle prose, i sintomi interessanti di un potenziale salto qualitativo verso una prospettiva più ravvicinata tra situazioni «gozzaniane» e realtà storico-sociale. Uno studio analitico sull’Ultima traccia e su talune delle Prose varie!* porterebbe forse alla non erronea valorizzazione di questo Gozzano, e alla individuazione di taluni nuclei narrativi, gravitanti sulla
demistificazione dei «valori» operata dai miti della forza, del danaro e dell’istinto!*. La definizione ulteriore che questi nuclei tematici ricevono dalla struttura della novella è un fatto di un certo interesse, per essere il segno dello sforzo di appropriazione conoscitiva da parte di Gozzano dei connotati di classe della borghesia «giolittiana»; tali connotati, sempre implicitamente supposti nel richiamo polemico dei Colloqui, al «mondo turbinoso» e alla coppia dell’«oro» e dell’«alloro», non erano mai stati rappresentati nelle loro determinazioni, in una più oggettivata applicazione narrativa. L'adozione di questa ottica narrativa riserva al lettore alcune sia pure piccole sorprese. Una di esse è la scoperta di una abilità ritrattistico-caricaturale del Gozzano applicata a deformare molti atteggiamenti di tipi e personaggi del presente!; l’altra è l’evidenziarsi di potenzialità di analisi su temi fondamentali della ricerca letteraria contemporanea: il tema ad esempio della alienazione della persona — che occupa tanta parte della riflessione pirandelliana — trova un riscontro costante in Gozzano novelliere, nel motivo dello sdoppiamento del soggetto nella schizoide alternativa tra le figure antitetiche del «sano» e del «malato» (Melisenda), del «forte» e del «debole» (Lo stesso gorgo); ovvero nel motivo dell’impossibile scelta tra efficienza borghese e inettitudine intellettuale (L’onestà superstite, La scelta migliore, Un addio), alienata emarginazione della coscienza artistica e «bestialità» degli uomini organizzati in rapporti e funzioni sociali fondate sul profitto e sulla competitività (La vera maschera); 0 quello della sveviana inautenticità borghese che trova — ad esempio — nella rapida analisi dei componenti della famiglia Audisio la sua felice rappresentazione in negativo in Un addio, e nei ritratti-caricature di graffiante incisività della stessa novella le prove più compiute di Gozzano ritrattista!*; il tema, ancora una
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volta pirandelliano, della casualità irrazionale, sconnessa e imprevedibile, dell’esistenza è riconoscibile nell’esito paradossale e singolarmente «fortunato» della doppia sciagura dei due fidanzati in Gli occhi dell’anima; e ancora il tema delle situazioni stridenti in cui l’apparenza tesse la trama degli equivoci e svela insieme la precarietà esistenziale della persona, della madre orbata del figlio, e del dongiovanni fatuo e alienato (I/ del segugio); la critica della mercificazione come regola universale del sistema, nella beffarda ed esemplare punizione inflitta dalla spregiudicata moglie americana del protagonista nella novella // giusto guiderdone, al grande clinico per la truffa della presunta malattia dei suoi ricchi pazienti; etc... Siffatti nuclei tematici, mentre confermano il carattere di una ri-
cerca critica e negativa già sperimentata nei Colloqui, attraverso lo scavo tutto appartato dell’intérieur, mostrano dunque, a mio vedere il tentativo di Gozzano (purtroppo non sviluppato) di cimentarsi in un confronto da vicino con le contraddizioni, i miti e le mistifica-
zioni indotte dalla struttura borghese; di fissare cioè l’obiettivo sugli altri, sul mondo di fuori e dell’oggi, nello sforzo di una rappresentazione artistica desiderosa di uscire dal cerchio dell’«assenza volontaria» verso un sondaggio più rischioso nel «sociale». Questa volontà di rappresentazione ravvicinata provoca inevitabili, e direi positive modificazioni dell’impasto stilistico della pagina in prosa gozzaniana. Non per un caso in questo gruppo di novelle dell'Ultima traccia (incluse talune delle Prose varie) viene meno in gran parte l’assiduo lavorio di ricalco su se stesso, la paccottiglia ingombrante delle autocitazioni e degli inserti altrui, che rendono talora pesante e gessosa la raccolta dell’Altare del passato e le forse troppo apprezzate Lettere dall’India. Al dolciastro di questo suo gusto kitsch-decorativo (La patrona dei bombardieri, Superga etc.) a certi suoi vezzi tutti artificiali e letterari, spesso largamente dipendenti da altri scrittori (Torino suburbana, Ecatombi floreali, L’arte del pugno etc.), al gusto un po’ sterile della divagazione erudita (Caccie d’altri tempi, La marchesa di Cavour, Torino d’altri tempi, La casa dei secoli) al favolistico-romantico (Novella romantica, Un sogno), insomma a tutta questa tematica un po’ trita si contrappone tendenzialmente una materia che ha qualcosa di nuovo: di pit fresco e di
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più diretto, vogliamo dire di meno letterario e quasi di più banale. Certo, vi è alcunché di acerbo, di ancora provvisorio e poco consapevole di sé negli esiti formali e nella tematizzazione narrativa; un procedere forse un po’ schematico e dimostrativo, nel troppo esplicito accostamento di situazioni rovesciate di Un addio e dell’Erede prescelto o di situazioni analoghe come La scelta migliore e L’onestà superstite; una certa giustapposizione non eliminata di residui di autoconfessione personale! sui più liberi intrecci inventivi. E tuttavia questi primi nuclei narrativi rimandano ad una osservazione oggettiva della realtà, in cui l’io dell’autore viene coinvolto come agente di un impegno critico capace di svelare fino ad un certo grado la natura mistificata dei rapporti sociali, e di mettere a frutto lo strumento dell’ironia per disegnare non più soltanto il mobilissimo profilo della sua persona, ma figure e soggetti sociali diversi. Si tratta certo di menomi segni di novità; di una novità che si fa
strada tra numerose incertezze, priva cioè di quei tratti di sicurezza e di forza espressiva che contraddistinguono certe scelte artistiche preparate da lontano e profondamente motivate da un grosso spessore di esperienza culturale. Si avverte invece l’effetto di spunti e suggestioni un po’ estemporanee, di un contenuto di cose e di fatti contemporanei e occasionali (attinto dalla cronaca e destinato ad un rapido consumo) anche se la circostanza della guerra, ben presente all’ultimo Gozzano nella sua tragica ed estrema eccezionalità, fa precipitare tale materia fino a raggiungere esiti drammatico-paradossali. E dunque questo secondo versante di ricerca, pur interessante com'è, risulta perciò impedito e deviato da tutto il resto. È infatti sul primo versante, quello di una ricerca «verso una vita
più ardente, più complessa, più nervosa, più spirituale», che il Gozzano, in affinità di tendenze con certo bisogno incipiente di verità assolute fuori del mondo storico che l’attività letteraria di quegli anni andava ad esperire, gioca le sue ulteriori possibilità di messaggio, tentando ambiziosamente «una meta di felicità, di perfezione, di vit-
toria, su ciò che si chiama il male, la morte, le tenebre, il nulla»!,
in definitiva, verso una filosofia più consolante e compensatrice, e sperimentando altresi l’ipotesi di un risarcimento etico-gnoseologico alla crisi dell’evoluzionismo positivista, non priva di incoerenze
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teoriche e di ambiguità ideologiche. Una tale adesione, che resta a nostro parere abbastanza esterna e tutta intessuta di materiali di riporto, ci interessa soltanto (ha ragione il Mondo) «per capire la sua ultima poesia e per vedere a quale spinta, sia pure magmatica e informe obbedisce, che cosa di nuovo essa rappresenti e come si leghi all'esperienza precedente»!?!. Ora io credo — ma qui avanzo una ipotesi che sarebbe da sviluppare — che tutta la produzione gozzaniana, soggetta ad una scelta ideologica siffatta, approdi a risultati assai incerti, e per scarsa organicità interna, e per discontinuità formale. E perciò ci pare ancora da verificare se il nuovo credo spiritualista (ma preferiamo chiamarlo evoluzionismo spiritualista) funzioni come reagente positivo, sull’arte dell’ultimo Gozzano, al punto da evocare tendenziali spinte verso un allargamento del campo conoscitivo sulla condizione presente dell’uomo, e non agisca piuttosto come elemento di parziale mistificazione, quando si presume di assumerlo, da parte sua, come
schema-struttura di un nuovo assetto poematico dell’ordine provvidenziale del mondo. In verità tale assetto non regge, e il suo ritorno alle Madri, come è stato definito Verso la cuna del mondo, è tutt’al-
tro che un poema delle «verità prime», e perciò restano pesanti le riserve circa la pars costruens del Gozzano «spiritualista», per delle considerazioni che qui avanziamo conclusivamente in forma di proposta critica i72 fieri: 1) in Verso la cuna del Mondo il tratto più vistoso è la caduta vertie forma della rappresentazione artistica. L’esaurirsi di una tale facoltà centrale dell’ordito del mondo poetico gozzaniano non è senza conseguenze perché sposta radicalmente l’obiettivo del poeta dal mondo umano ad un mondo fossile, senza uomini, ridotto a memoria remota, e per di più vanificata dal conclusivo bilancio fallimentare circa la validità della storia e la perennità dei valori!; tale ottica comporta il passaggio da una prospettiva critica e attiva ad una mistico-contemplativa nella quale la realtà-Natura è assunta emblematicamente come «vivaio» perenne cale dell’ironia! ? come strumento
delle forme viventi, e dunque come Assoluto, in un sistema dinami-
co tra i due poli antitetici di materia e spirito, in cui la trascurabilità
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del ruolo assegnato all’uomo indica il punto più alto della tendenza all’evasione e al rifugio sempre sottesa all’esperienza poetica di Gozzano; 2) solo in questa ottica di progressiva liberazione e di sublimazione del male e del dolore, il destino dell’uomo, inserito nella «ruota
dell’esistenza» della religione di Brahama, è riscattabile dalla pena del vivere verso «la pace dell’increato»; in questa direzione il tema della rinuncia e del distacco, ben altrimenti sperimentato dal Gozzano dei Colloqui, perdendo tutti i suoi connotati di critica del presente e di dissacrazione ironica del passato, allontana sempre di più la possibilità di una presa diretta delle reali contraddizioni della società e si iscrive sotto il segno di un misticismo creaturale!*, esorcizzando tutti gli elementi di conflittualità sociale, di miseria reale, di
dolore storico e «materiale», a vantaggio di una filosofia della pena come essenziale all’ordine provvidenzialistico della natura. Tutto ciò paga un suo prezzo pesante in termini di mistificazione ideologica, come appare evidente in certe pagine delle Lettere dall’India!”; 3) gli esiti edificanti e consolatori sono tuttavia l’aspetto più vi-
stoso ed esterno dell’opera che paga in tal senso un grosso tributo, in termini di subalternità ideologica, tematica e stilistica all’/nde
(Sans les Anglais) di Pierre Loti, non solo cioè per lo schema del viaggio da essa mutuato, che si configura come itinerario di salvezza dall’Occidente all’Oriente, dal Sud idolatrico, primitivo e selvaggio delle forme «prime», vegetali, animali e umane, al nord della città sacra di Benares, culla dell’ascetismo brahaminico!, ma per la sostan-
ziale suggestione letteraria ravvisabile a livello di immagini, di situazioni, di scelte lessicali e stilistiche!”. Viceversa lo scarto inventivo
operato da Gozzano su Loti, consiste nella specificità tematica offerta dal mondo animale e vegetale!’ la cui presenza a livello simbolico in Gozzano sta ad indicare la sua attenzione inquieta verso i segniemblemi di una metafisica del dolore e del male, consustanziale al-
l’esistere, come verrà meglio a chiarezza nei frammenti opportunamente isolati dalla critica dal cascame strutturale delle Farfalle. Con le quali il Gozzano, attraversato definitivamente il D’Annun-
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zio apre la strada al montaliano «male di vivere», o (forse) alla «serena disperazione» di Umberto Saba, contraddicendo-tuttavia l’intenzione stessa di approdare «ad una meta più vasta e più remota» e negan-
do infine quella «fede alta» nell’«Ideale» grazie al quale prometteva di tornare poeta. A ben guardare infatti anche Le farfalle, Epistole entomologiche 159 soffrono della medesima discrasia tra progetto e realizzazione. Di tale mancata organicità e compiutezza doveva aver coscienza lo stesso Gozzano, e avvertirne il disagio: a noi i segni di quel disagio sembrano riscontrabili fin nel proemio-dedica ad Amalia Guglielminetti (la immaginaria Alba Nigra) in cui, con una voce in falsetto un po’ forzata, si finge una dimensione didascalica che il poeta stesso si incarica subito di invalidare, insinuando il tema ironico del «rituale
arcadico»: .. con certo rituale arcadico (per gioco!) e bello stile (per gioco!) altosonante come s’offre nova un'essenza in un cristallo arcaico queste pagine v’offro ove s’aduna non la galanteria settecentesca ma il superstite amore adolescente per l’animato fiore senza stelo!9°
Senonché la tenuta ironica del poemetto si manifesta immediatamente nella sua vistosa irrilevanza e nella sua pretestuosità, come risulta dall’impaccio del motivo parodistico rispetto alla dichiarata
gravità morale dell’argomento!’! e alla ambizione filosofica e scientifica di cui il poeta esplicitamente lo carica: un enimma più forte ci tormenta: penetrare lo spirito immanente, l’anima sparsa, il genio della terra, la virtù somma (pocoiimporta il nome!), leggere la sua meta e il suo primo perché nel suo visibile parlare!9?,
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Ma l'evidente sforzo di contenere in verso una materia scientifica riluttante alla misura ironico-sentimentale già felicemente sperimentata dal poeta nel Colloqui, porta ad evidenza la crisi cui va incontro tutto il suo breve universo poetico, una volta sovraccaricato di in-
tenzioni estranee ad esso. Infatti con l’abbandono di quella materia psicologica e sentimentale che, per quanto povera di stimoli morali e di impegno ideologico (o forse proprio in forza di ciò), aveva pure
una sua bellezza ambigua e ammiccante, ci troviamo di fronte ad un mondo in frantumi di quello che era un organismo poetico perfettamente compiuto. Questa mutata prospettiva provoca contestualmente una autentica disgregazione dell’organismo formale e mette in discussione l’equilibrio sottile su cui si reggeva, in complessa simbiosi con la tradizione aulica. Ora infatti i numerosi calchi danteschi, l’imitazione e il riecheggiamento di Mascheroni, del Parini, di altri didascalici del
Settecento, la suggestione di certo Pascoli, nonché i larghi prelievi dal Maeterlinck!? appaiono come eterogenee ed esterne concrezioni formali che appesantiscono un organismo poematico scompensato e povero di intrinseca vitalità narrativa, e perciò restano nelle pieghe del tessuto stilistico come reperti piuttosto grezzi di un esercizio letterario poco persuaso di sé. È vero allora che il presunto impegno ideologico con il quale Gozzano intende trasferire l’attenzione poetica dall’io, diviso e disperso tra «sempre false immagini di bene», all’epifania del «puro spirito» resta, anche a nostro vedere, tutto velleitario e sproporzionato agli interessi e alle risorse intellettuali e culturali del poeta, e
tutto sommato estraneo alla sua inclinazione poetica più vera. È evidente infatti come l’assenza di un reale punto di vista da cui guardare la materia poematica giuochi un effetto di disorientamento della sua ricerca artistica, e non solo a causa dell’equivoca e maldestra intonazione parodistica dell’esordio che cozza con un argomen-
to di cui Gozzano non vuole pregiudicare affatto la serietà, ma anche, e maggiormente, perché la stessa materia scientifica è fatta oggetto di un duplice e contraddittorio approccio ideale per la divergente tensione ideologica che scompensa, o impedisce del tutto, l’unità compositiva del poemetto.
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
E infatti per un verso riscontriamo un procedere sentenzioso di tipo dimostrativo ed apologetico, finalizzato a testimoniare con
procedure apodittiche la fede nello spiritualismo evoluzionistico!*, cosicché l'andamento narrativo è frequentemente interrotto da segmenti riflessivi e da excursus retorico-apologetici'’, alquanto inessenziali all'economia della esposizione didascalica; per l’altro verso Gozzano adotta un modulo di tipo lirico-dimostrativo inteso ad esprimere in modi nuovi, né ironici né sentimentali, l’antico suo
sgomento dell’esistere, il «vano spasimo oscuro d’esser vivi». Così, l'itinerario a ritroso verso «le forme prime», nel cerchio dell’«assenza volontaria», lungi dall’essere un ritorno rigenerante al regno delle Madri, secondo lo schema-tipo di taluni riciclaggi vitalistici dell’età sua, persuade semmai ad una estrema (definitiva), rinunzia alla vita,
che è rinunzia alla storia e al futuro. La direzione. che vi si imbocca anziché coincidere con quella «grande volontà dell'Universo», tesa al riscatto della mateira verso il «puro spirito», conduce — malgrado l'aspirazione enfaticamente dichiarata al «regno del mondo» e visto lo scarso peso effettivo riservato alla specie umana sulla terra e nell'Universo — all’azzeramento di ogni principio di progresso. Cosicché la enfatica esaltazione del fine buono dell’universo e delle «fraterne volontà velate» risulta contraddetta dalla riserva profonda che il poeta stesso vi fa trasparire circa la presunta «intima cura» di una natura «dotta nei suoi lavori». Bastano a vanificarne la credibilità talune immagini significative delle Farfalle che non a caso la critica ha indicato alla attenzione del lettore come primissimi annunzi di una poesia esistenziale della «pena»!°° e albare presentimento lirico della precarietà dell’esistere in un universo sconnesso e non più organizzabile dall’uomo (come mi pare dica Barberi Squarotti), nel quale il volo della fragile farfalla appare metafora dell’universale irrilevanza di ogni forma vivente: Giunge dall’alto scende con un volo solenne e stanco, noto all’entomologo s’arresta sulle cuspidi dei cardi, s’adonta di un’ereda, d’un virgaurea, suoi commensali sullo stesso fiore; >
pd
>
>
bs
s’avvia, s'innalza, saggia il vento, scende
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vibra si libra s’equilibra, esplora l’abisso, cade lungo le pareti vertiginose ad ali tese: morta. Vola sopra il deserto delle tegole ne più discende nelle vie profonde, va tra la selva di colmigni spessi, da tetto a tetto va senza riposo. [=] ...Grande parte è prigioniera del chiuso laberinto cittadino;
e nel triste detrito che raccoglie la scopa mattinale delle vie biancheggiano falangi d’ali morte...!”
Talora essa appare come emblema circonfuso da un alone di enigmaticità: ... L’ali sono immense, di velluto nero, accese
da larghe zone d’una brace verde, l’addome è giallo, un giallo polinese intollerando sotto i nostri climi.
La farfalla è brevissima, tutt’ala,
stupendamente barbara, inquietante come un gioiello d’oro e di smeraldo poggiato per la fronte tatiiata d’un principe...!98 come muto, misterioso segno evocante la peste e il malefizio
(E)
vulcani ardenti, moli di basalto,
foreste dal profilo miocenico...!9?
oppure come immagine di una funebre, sbigottita inquietudine notturna, piena di silenzioso spasimo e di angoscia inesprimibile di
fronte alla parabola senza perché della vita-della morte: Natura volle l’Acherontia Atropos simbolo della Notte e della Morte,
messaggera del Buio e del Mistero e la segnò con la divisa fosca e d’un sinistro canto.
[al
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
...L’acherontia lamentosa si libra solitaria nelle tenebre tra i camerops, le tuje, sulle aiole dove dianzi scherzavano i fanciulli,
le Vanesse, le Arginnidi, i Papilli. L’Acherontia, s’aggira. Alto è il silenzio commentato, non rotto, dalle strigi,
dallo strido monotono dei grilli. La villa è immersa nella notte. Solo spiccano le finestre della sala
sipranzo dove la famiglia cena. L’Acherontias’appressa esita spia numera i commensali ad uno ad uno, sibila un nome, cozza contro i vetri tre quattro volte come nocca ossuta.
La giovinetta più pallida s'alza con un sussulto, come ad un richiamo!”
che ricorda la sospensione esistenziale del tempo nel solaio della villa Amarena, scandito dal «ronzo lamentoso» di «un atropo soletto», ed anche lo spasimo concentrato, la «mole immensa di dolore» nella agonia della Vanessa uccisa della Via del rifugio, e non è estranea ad una vaga suggestione pascoliana. In questi presentimenti lirici ancora isolati e irrimediabilmente frammentari, e quasi inquinati dalla sovrabbondanza di un materiale di paccottiglia, la critica più recente ha voluto ravvisare dunque i segni di una poesia nuova che per la prima volta scopre una nozione di esistenza come heideggeriana Geworfenheit, «deizione dell’esserci», vale a dire come «solitudine ontologica dell’uomo» (Luk4cs), sperso tra i suoi oggetti «inariditi e morti» che alludono ad «un ordine spezzato», a «un’organizzazione delle cose ormai infranta», come vuole Barberi Squarotti. E con ciò, la zona d’ombra che il sorriso gozzaniano ha tenuto ai confini della sua poesia, ma di cui ben si avvertiva l’inquieto incombere, s’addensa ora più prossima sul destino dell’uomo con i suoi cu-
muli pesanti di buio e la sua minaccia di morte, dando evidenza all’accentuazione «funebre»! dell’ultimo Gozzano e impugnando con la sua stessa presenza la credibilità di ogni fede positiva. Il pre-
sentimento della «potenza maldestra» della natura e dei suoi «infiniti errori», sembra alludere al montaliano «anello che non tiene»; ma
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con ciò siamo ormai fuori del suo mondo poetico: siamo al limitare di un nuovo modo di porsi della coscienza critica contemporanea di fronte alla perdita della razionalità umanistica nell’epoca attuale; una coscienza che si alimenta del pensiero negativo cui Gozzano restò sostanzialmente estraneo, pur avvertendone il richiamo.
II
Gozzano scrittore in prosa”
Se volessimo assumere come strumento di analisi della prosa di Gozzano un criterio di lettura di stretta osservanza semiologica, ci troveremmo intrigati dalla debole valenza semantica dei significati, dalla banalità della forma, dall’irrilevanza degli intrecci; dall’incon-
sistenza complessiva insomma sia della tenuta narrativa, sia dello spessore inventivo. Siamo quasi di fronte ad una forma assente; o meglio, in presenza di un coagulo provvisorio (incompiuto) di molti registri, taluni ancora grezzi, altri ormai consunti. E se — come ricorda Jean Rousset — «non esiste forma se non là dove si delinea un accordo o un rapporto, dove si disegna una figura ricorrente, una linea di forza, una trama di presenze e di echi, una
rete di convergenze»!, bene, allora occorre dichiarare subito tutto il
nostro imbarazzo a dover ammettere che nessuno, di tali requisiti è
riscontrabile nelle prose di Gozzano, e che dinanzi ad esse ci si trova di fronte a un organismo ancora informe, di fronte a cosa cioè su cui
tacere sarebbe bello. Questa apparente temerarietà di giudizio, dal tono un po’ terroristico, vuole essere invece soltanto un correttivo, funzionare come
*
Relazione tenuta al Convegno nazionale di studi «G. G. I giorni, le opere» nel centenario della nascita di G. Gozzano — Torino, 26-28 dicembre 1983 — Firenze, Olschki, 1985.
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freno all’accelerazione in senso apologetico cui siamo indotti nell’anno del centenario, ed è perciò del tutto calcolata. Credo cioè che occorra prendere le distanze da certa tentazione agiografica che, ad esempio, tende ora a far passare per buona l’immagine di un Gozzano «novelliere» o narratore di racconti storici; senza per questo voler fare prevalere quell’altra immagine, incresciosa (e non ancora «rimossa») di un Gozzano «plagiario», «parassita» e «gazzettiere». Non è questione, io credo, di guadagnare un pezzetto di corda in più a favore dell’una o dell’altra immagine, né credo che sia utile attardarsi a ritagliare dal corpus delle prose immaginette edificanti, ad uso di devozione, ma di riconsiderare interamen-
te e organicamente tutti i suoi scritti in prosa, riorganizzabili anche editorialmente, come proponeva Guglielminetti”, e di metter mano
perciò ad una analisi più globale, che credo non altererebbe in alcun modo il quadro di certezze ormai acquisito sul Gozzano poeta; semmai si tratterebbe di confermare l’ineccepibilità della definizione montaliana di un Gozzano «eccezionale narratore o prosatore in versi». Il mio stesso punto di approdo è da considerarsi provvisorio, sia
perché mancano ad esso alcuni tasselli per farlo diventare un discorso compiuto (non mi occuperò infatti né delle prose dall’India, né delle fiabe, né dell’epistolario), sia perché è il risultato di un lavoro
critico non privo — come io temo — di dubbi e di manchevolezze. Il mio vuol essere un tentativo di legittimazione, per dir cosi, delle
prose, solo a patto che le si legga come un work în progress, in direzione di una via d’uscita dal silenzio e dalla «impotenza verbale» che Gozzano sentiva incombere sulla sua Musa}. Si tratta di accertarsi, cioè, se è possibile isolare, in via di ipotesi, un percorso alternativo, per dir cosi, rispetto a una ricerca poetica in fase di esaurimento, imbozzolata ormai dentro la sottile trama
delle invenzioni parodiche, fino alla sterilità del «sogghigno», all’esito conclusivo e inquietante di una scrittura — dice bene Barberi Squarotti — «bislacca» e «bisbetica», «antifrastica» per eccellenza, che, di irrisione in irrisione, si era incaricata di condurre il poeta fino alle soglie del silenzio: «sull’orlo estremo del silenzio della scrittura» (come dice appunto il critico)*, all’astensione dal giudizio, alla
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«penuria linguistica», alla «minaccia di inaridimento delle risorse verbali», come sostiene anche Fausto Curi?.
Sembra infatti rintracciabile nel corpus delle prose una linea di tendenza che si muove in senso difforme, se non contrario, rispetto alla condizione di impasse dell’«io solo con se stesso / soggetto, oggetto della conoscenza, ... specchio vano che si moltiplica / inutilmente e infinitamente»®, ma certamente, se questa linea c’è, come io
credo, non è pervenuta ad un livello apprezzabile di consapevolezza critica da parte del poeta; e in ogni caso non è univoca, ma confusa e dispersa, e alla fine assai incerta, tra tanti e penosi e divergenti tentativi di «ricambio» letterario. E ciò — io credo — non solo per una personale impotenza ad uscire da quella «penuria linguistica» in cui «l’analisi» lo aveva costretto, ma perché Gozzano non ha nulla în positivo da proporre, come in sostanza viene confessato in Pioggia
d’agosto («Soffro la pena di colui che sa / la sua tristezza vana e senza mete», P, vv. 7-8); semmai, come vedremo meglio poi, ha di fronte
a sé una somma di negazioni e di rifiuti, o quantomeno di incertezze tanto nella scelta di una nuova poetica, quanto in fatto di modelli a cui riferirsi. E perciò mi sembra troppo riduttivo, e punitivo, e in fin dei con-
ti troppo esterno al giudizio critico, il discorso di chi insiste, non senza ragione d’altronde, sull’avvilimento routirier della sua collaborazione a quotidiani e riviste di prestigio e di larga tiratura. Una prassi letteraria — come si sa — compromessa e «chiacchierata», uno
stile di lavoro privo di scrupoli e di cautela, incalzato da una «euforia operativa» da «mercante» e da «gazzettiere», tormentata e avvelenata tra l’altro dalla «preoccupazione aristocratica — come dice De Rienzo — di una vendita di sé troppo a buon mercato», dalla «“vergogna”... di un commercio non redditizio della propria penna», una condotta inoltre troppo proclive e arrendevole alle leggi del mercato e ai gusti del pubblico. Egli soggiacque indubbiamente ad una sollecitazione esterna di questo tipo, ad una pressione reale sui suoi interessi mentali e sulle sue disposizioni ideologiche e letterarie, e accondiscese non solo ai lettori del cattolico «Il Momento», ma anche, come vuole Gugliel-
minetti nel saggio citato, al pubblico medio della «Stampa»; egli si
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
acconciò a condividere il moralismo edificante e predicatorio della letteratura infantile del tempo, ad accettare di farlo coesistere, con
non so quale coerenza, con il ghigno stridulo del suo scetticismo. Non solo, ma adattandosi ad una siffatta committenza, cerca anche
pezze giustificative di questo suo atteggiamento (che per la verità non lo lascia del tutto tranquillo)?, annettendo alle dichiarazioni di certi suoi cinici personaggi circa l’inevitabile mercificazione dell’arte, un colore di amara fatalità e di rassegnata (ma anche qualunquistica) resa alle idee dominanti: Caro mio, — si dice in Un giorno livido — ai giorni nostri l’ideale è questo: farci sgabello o della Scienza, o della Letteratura o della Politica o di qualsiasi altra corbelleria per arrivare al più presto al benessere personale e ghermire nel mondo la nostra parte di preda (P.P., p. 1040).
AI di là di queste inoppugnabili ragioni a carico del Gozzano «gazzettiere», occorre mettere nel conto del suo disorientamento,
intanto l’oggettiva discrepanza tra le misure della sua vena lirico-parodica, legata all’io, ai suoi miti e alle sue immagini fondamentali, ormai in via di esaurimento, e la domanda di un pubblico di massa,
quale cominciava ad essere quello dei grandi quotidiani’, di estrazione piccolo-borghese, investito in pieno da una crisi di identità sociale e colpito dalla coscienza inquieta della propria emarginazione rispetto alle correnti del denaro, dello sviluppo e del progresso. A questo pubblico il bozzetto naturalista, tipico di certo socialismo rosa e umanitario, diffuso nell’area centro-settentrionale, non soddisfa più; il
suo garantismo risulta inadeguato rispetto a certi processi non indolori di riclassificazione sociale provocati dall’industrialismo. Occor-
reva rispondere alle sue ansie con una prosa narrativa che assecondasse certe tendenze irrazionalistiche ed evasive del gusto, ma senza manipolazioni troppo sofisticate, senza arditezze sperimentali, se mai banalizzandola al massimo nelle trame e nelle caratterizzazioni. Occorreva rispondere inoltre con «pezzi» di bella letteratura, commisurati al bisogno di distinzione e promozione sociale frustrato e sublimato in estetismo, ora per sollecitare spinte narcisistiche di rivalsa ideale, ora per risvegliare certi nostalgici restauri passatisti e provinciali, da «piccolo mondo», quando «l’Italia non era», per i
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quali poteva andar bene certa memoria crepuscolare intinta di masochistica ironia sentimentale e di autopunitivo rifugio nel sogno. Dunque, l’incontro con un pubblico di massa ha una sua direzione e un suo senso, ma anche un suo prezzo, che Gozzano paga, banalizzando fino all’usura i motivi più fruttuosi del suo discorso poetico, accentuando certa sua tendenza all’estetismo, avventurandosi
anche su un terreno narrativo in senso proprio, con gli esiti che vedremo. Perciò, sguarnita di reale progettualità e di motivata tensione di ricerca, la sua scrittura in prosa muta di continuo i suoi temi e i suoi registri, va avanti secondo un procedere non poco incoerente: e ciò risulta tanto più visibile se ordiniamo i pezzi secondo un onesto criterio cronologico, per cercarvi eventualmente una linea di tendenza, una idea che prevalga sulle altre. Devo dire che si assiste ad un andamento rivolto in più direzioni: ora verso cauti ritorni sulla strada già battuta, e pur sempre redditizia, della stampa ottocentesca e della prosa di memoria; ora verso una incontrollata indulgenza ad un gusto tardo romantico, appena tinteggiato di colori un po’ foschi, alla maniera di un Poe e di un Tarchetti, ma più spesso morbidomorbosi, sulla scia piuttosto dell’aborrito Fogazzaro. Talvolta Gozzano sembra muoversi su un terreno più interessante, ma a lui meno familiare, del racconto di costume in cui un umorismo paradossale e inquieto, alla Pirandello, di cui dovevano essergli note alcune novel-
le significative!, e il gusto delle situazioni bizzarre e amare, con finali per lo più sorprendenti, alla Palazzeschi e alla Moretti!!, incominciano a sconvolgere le misure scontate del quieto naturalismo provinciale. Infine, dico nei momenti di maggiore pigrizia, tenta la corda di un distaccato e ozioso virtuosismo letterario, ad uso del let-
tore piccolo-borghese amante della bella lingua, o si esercita sui testi altrui con operazione tutto sommato subalterna. Su tutto questo elegante e spesso effimero mélange si distende poi la patina leggera e brillante di uno stile giornalistico non privo di disinvoltura, e perciò stesso lontano dalla misura sorvegliatissima e dall’aristocratico riserbo del Gozzano che conosciamo e che amiamo. Non è da stupire se i risultati saranno appunto cosi ibridi e provvisori.
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Giunto al punto-limite della sua vicenda dopo i Colloqui, Gozzano non controlla più la dissociazione tra vita e letteratura, tra mondo di cose e mondo di parole. Cade, con la rinunzia al suo «sogghigno», il punto di forza dell’ironia, fondamentale cemento del difficile e sofisticato equilibrio dei Colloqui, cadono gli argini protettivi dell’avventura instabile e precaria dell’io poetico. Resta, tra l’altro, il peso non trascurabile della malattia, che non do-
veva mancare di demotivarlo rispetto a qualsiasi progetto di lunga durata; resta la nuda realtà di una esperienza umana e intellettuale priva di sostegni ma tuttavia bisognosa di uscire dallo spazio asfittico dell’io. Il particolare scacco di Gozzano si colloca, se vogliamo storicizzarlo, in uno di quei punti morti della tensione espressiva di un’epoca, della sua «topica collettiva», come la chiama Génette, alludendo a
«quel tesoro di soggetti e di forme che costituiscono il bene comune della tradizione e della cultura» di un’epoca!?. Nello specifico della cultura torinese la situazione di impasse si risente, certo in maniera meno febbrile e concitata rispetto alla cultura vociana e futurista. Ma non vi è dubbio che anche qui alla caduta della continuità dei modelli faccia riscontro una tormentosa ricerca di nuovi indirizzi, e
la presenza di Gozzano non è senza peso in questo processo. E tuttavia permane, nell’intreccio con questa ricerca, una zona di resistenza che si esprime nella «tenuta» forte di certi modelli letterari, garanti della continuità dei valori e clamorosamente invadenti,
che trovano in un pubblico medio, bisognoso di sicurezza quanto più insidiato dalla radicalità dei mutamenti sociali e della ridefinizione dei rapporti di classe, trovano dico in un tal pubblico un ascolto e una fruizione sicura. Si era in un’epoca in cui «si largiva — come commenta risentito il Contini — pronta gloria al peggior De Amicis, al peggior Fogazzaro, al peggior D'Annunzio»,
e si
ignorava Faldella!. Perciò nella cultura torinese in particolare questa rottura della continuità ottocentesca ha, come è noto, un andamento suo pro-
prio, molto più indeciso e inespresso, non esente da «esitazioni» e da «pasticci», come dice Cesare Pavese con ardito e lampeggiante répéchage dell’atmosfera culturale della sua adolescenza'*.
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Non starò qui a ripetere cose arcinote, se non per necessità di raccordo con il mio tema. È appena il caso di richiamarsi, e solo per un momento, a quella immagine del miliey torinese a cavallo dei due secoli che insigni studiosi e testimoni dell’epoca ci hanno disegnata: una immagine che reca i tratti della fisionomia non univoca di una città, insieme con la sua cultura, i suoi ceti sociali, i suoi comporta-
menti diffusi; una città «sospesa tra vecchio e nuovo»!® certamente mossa e drammatizzata dalla «spinta dell’industrialismo» e dal dinamismo sociale da esso indotto, ma ancora attaccata a «principi tradizionali»!’, ispirata «a decorosa dignità», affezionata alla «sua aria di
provincia», e quasi «soffocata sotto la cappa d’una educazione troppo compassata»!, dal suo «ambiente d’apatia e di mediocrità», a cui
«la corrente apportatrice di fresche energie e di forze giovanili»!8 è ancora troppo timidamente alimentata da un manipolo di militanti socialisti e dal «gruppo ristretto» di quegli «studenti approdati a Marx attraverso Hegel e la filosofia tedesca... ma ancora incerti nella loro vocazione volontaristica tra idealismo, socialismo e rivoluzio-
narismo politico»!?. Si tratta di una cultura in cui ancora «i richiami della retorica umanistica e patriottarda, coltivata nelle scuole e nei circoli di cultura» (ivî) continuano ad agire, e che apprezza Gozzano per «l’intimismo psicologico» e per «l'evasione esotica» (102) del suo crepuscolarismo, più che per la sua ironia; allo stesso modo per cui si inebria dell’aura di eccezionalità che recinge il Vate, o si autocompiace della propria borghese superiorità, consumando con compunzione ritualistica la propria razione di lacrime alle storie edificanti dell’umanitarismo deamicisiano o al perbenismo umbertino del dramma borghese, sentimentale e romantico di un Giacosa. «Un ambiente ovattato» in cui — dice il Contini — «le proporzioni si placano, le inchieste rivoluzionarie si smorzano»?0.
Le operazioni e le opzioni di questa cultura hanno perciò qualcosa di timido e di attendista, senza ambizioni «interventiste», senza
risse ideologiche, senza neanche il moralismo segretamente coscienziale di altri milieux periferici del paese. Di questa cultura Gozzano si può considerare rappresentante non secondario perché egli capta con tempestività le punte di una inquietudine culturale e ideologica che affiorano dal compatto edifi-
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cio della cultura positivista torinese, partecipa dell’ansia e del bisogno di nuove letture e nuovi agganci con la cultura europea, ma resta altresi in qualche modo irretito da una certa timidezza provinciale di atteggiamenti. O meglio, questa sua cultura, gli echi dei simbolisti francesi, dei poeti del passato, le idee estetizzanti sull’arte, posi-
tivismo e spiritualismo combinati in un intreccio di continuità-rottura, il niccismo che permane come polo resistente della sua oscillazione dinamica tra istinto e spirito, tra vitalità e malattia, tutto questo ed altri aspetti si organizzano in un disegno a suo modo coerente, solo per quel tanto di funzione chiarificatrice cui assolvono nell'economia del proprio io poetico. Questi stessi materiali ideologici e letterari restano invece incoerenti e inerti, non più organizzabili,
perché nella fase che grosso modo si apre a partire dall’11, da cui possiamo datare l’inizio effettivo della sua produzione in prosa”, l’esperienza artistica di Gozzano non riesce più a crescere e ad evolvere.
Orbene, per procedere ad un’analisi di questo corpus, che sarà ora di guardare più da vicino, occorre preliminarmente denunziare un fatto abbastanza singolare, se pensiamo solo per un momento al peso che ha la tradizione poetica tardo-ottocentesca (non occorre ricordare il sapiente saggio del compianto Mariani) nella lirica di Guido; e cioè, il quadro delle assenze e dei rifiuti ravvisabile nelle sue prose.
Assenze e rifiuti di una ricca tradizione narrativa, quantomai feconda in Piemonte dal secondo fino all’ultimo Ottocento, che van-
tava, dal Bersezio al Sacchetti, dal De Amicis al Faldella, dal Cagna al Calandra, dal Tarchetti allo Zena, al Camerana, una cospicua rap-
presentanza di livello nazionale, nell’ambito di un’area realisticoborghese, provinciale e campagnola. Pressoché nessuno dei percorsi di questa narrativa è ravvisabile nelle sue prose. Se mai, ma con decisivi interventi di un gusto più moderno, Gozzano utilizzerà il racconto storico del Calandra, ope-
rando tuttavia certi scarti sulla narrazione diluita e decorativa del Piemonte seicentesco di lui, cosi di frequente smarrito dietro alla sua opera di restauro”, cosi «perduto — lo dice il Contini — dietro il minimum concreto». Guido sceglierà ancora qualche spunto, forse, dal Tarchetti «funebre», ma senza le punte della sua ossessività, e
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con qualche concessione se mai al morboso spiritualismo fogazzariano. Insomma la sua materia narrativa non reca più alcuna traccia di un pedigree ottocentesco, apparendo vistosamente impoverita dei materiali tradizionali del racconto naturalistico. Venute meno le ragioni comunicative del messaggio pedagogico con il suo alto compito di vigilanza sociale, è caduto anche il grosso patrimonio dei buoni sentimenti e delle buone azioni, oggetto privilegiato del bozzetto patetico ed intimista, del populismo campagnolo e del timido verismo piemontese. Viene perciò a mancare ad una intera sezione delle prose gozzaniane il terreno della realtà con le sue superfici riconoscibili e con l'evidenza convenzionale del «fatto». Cioè, quella materia del «vero» (il «crudo realismo», come Gozzano la definisce), avvertita con insofferenza; che occorreva «velare» e «blandire», esorcizzandone le «ambascie», magari con il ricorso forzato ad «un son-
no artificiale», ad un «languore morboso» (P.P., pp. 989 e 911). Si tratta di una direzione evasiva, di fuga verso l’irrealtà affascinante della «visione», al riparo del tempo del presente: ricordo, sensazione di altro luogo, immagine fantastica, memoria estetizzante,
delicato giuoco parnassiano attentissimo al «particolare», all’oggetto artificiale posseduto nei minimi dettagli. Questi i caratteri di una ipotizzabile prima sezione delle prose, iscrivibili sotto l'etichettatura largamente intesa di «prose di memoria»: sei pezzi della raccolta L’autore del passato, uno da Altre novelle, cinque da Prose varie”, e precisamente: Novella romantica (1905), L’altare del passato, Un sogno, Un vergiliato sotto la neve, Superga, Il padiglione della città di Torino, Caccie d’altri tempi, La patrona dei bombardieri, La città moritura, del 1911; La marchesa di Cavour, La casa dei secoli, del 1914; I sandali della Diva, La Garibaldina, Torino d’altri tempi, del 1915.
Una costante di questo tipo di prosa è data dall’immissione casuale nella banalità del quotidiano (un incontro al bar, anzi nella « confetteria», un interno casalingo, presenza di figure familiari, visite al-
l’Esposizione, l’invito o l’attesa di una donna all’angolo di un palazzo cittadino, l’eco di una conversazione, il motivo di un’antica can-
zonetta per le strade di un quartiere, e cosi via), dicevo l'immissione casuale in questa quotidianità, di un elemento che si introduce di
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sorpresa e che le è estraneo: oggetto o persone, luogo, atmosfera o circostanza, talora soltanto la semplice evocazione di un nome, ap-
partenenti a un passato sopravvissuto, ad un altrove della memoria che entra variamente nel raggio di percezione dell’io narrante, ma senza più la funzione di choc che abbiamo conosciuta: valgono alcuni esempi di incipit della rievocazione: ..una mia cara amica settantacinquenne; una di quelle signore che prediligo, perché hanno alle spalle una infinita lontananza di figure, di tempi, di paesi, e il loro discorso ha per me il fascino misterioso di una fiaba
(P.P., p. 530);
Questa notte mi è apparsa ancora una volta Balbina Peyrot... (P.P., p. 847); E fu passando dinanzi... che la bella figura della santa mi apparve... (P.P.,
. 1096);
ne
Maria di Trecesson, marchesa di Cavour... nome che faceva
sussultare... (P.P., p. 639); La casa dei secoli è il Palazzo Madama. Nessun edificio racchiude tanta somma di tempo, di storia, di poesia... (P.P., p. 651); E Zacchi. Basta il nome per resuscitare la donna... la gran balleri.. La Diva della quale abbiamo perduto la specie. Strano esemplare di una LA che non è più (P.P., p. 546); Solo, abbandonato nel vasto parco dei miei amici dispersi ascoltavoi colpi echeggianti dei fucili che potevano ben essere learchibugiate di una partita di caccia in sul finire del ’600... (P.P., p. 536).
Tali elementi, una volta inseriti nella situazione del presente diventano agenti di smemoramento e si precisano come «visione»: danno luogo cioè all’apertura di un varco nell’irrealtà del sogno o della memoria; di bellezza o di decadenza, di luminosa e indistrutti-
bile grazia o di contenuto di mistero o di tenebra; in ogni caso, una irrealtà che l’io narrante mostra di prediligere e di rimpiangere senza più ombra di ironia. Anche qui varranno alcuni esempi, avvertendo che i lemmi e i sintagmi in corsivo intendono rilevare un’altra costante: Rivedo il palazzo del mio amico. Un edificio di puro seicento piemontese; una serie di finestroni immensi... Triste casa, dove fin dalla soglias’intuiva l'abbandono... Se chiudo gli occhi rivedo la vasta sala da pranzo, rivedo in una mezz’ombra alla Rembrandt le varie figure... E rivedo la mano alzata, mano pallida e perfetta di patrizio... la bella testa candida sfavillante (P.P., pp. 522-523);
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Bimbo, ricordo, salivo sulle sedie per giungere viso 4 viso con /‘effigie della donna e /a contemplavo a lungo senza parola, senza sorriso, senza batter ciglio... Non è dicibile il fascino misterioso che emanava per me quell’ovale... E la sognavo fin da allora come la sogno oggi, come la sognerò sempre: vistone tenera e pura, dolce e terribile, che mi fa soffrire in sogno di quell'amore che in vita non ho provato mai, che mi fa piangere in sogno quelle lacrime che in vita non piango più. La visione si ripete invariabile, esatta. Si direbbe impressa nel mio cervello come una stampa... Uno spirito invisibile presiede alla visione... (P.P., pp. 847-848); Il centro di Torino, cioè tutta la parte seicentesca della città, specialmente in un giorno senza date come questo, offre al sognatore una corrente di ricordi, di immagini care e gloriose. E si può vedere ciò che si vuole (P.P., p. 1001);
...la bella figura della Santa mi apparve... Io fissavo la figura snella della Santa... alle sue spalle, appena visibile, nell’offuscamento portato dai secoli, st scorgeva un paesaggio dirupato e due soldati intenti... (P.P., pp.
1096-1097);
Vedo l’abito di fustagno robusto, i gambali di cuoio... i pantani delle paludi, vedo la cartucciera guarnita, ...vedo l’armi infallibili: ma ron vedo il cacciatore e 720n vedo, ecc... Oimè! I bei tipi di beccaccie e di beccaccini,
di fagiani dorati e argentati, di quaglie, di pernici grigie e azzurre, figurano soltanto più nei bassorilievi di terracotta dipinta o sulle tele offuscate dal tempo... (P.P., p. 1101)?9; Ed i0 vedo presso una grande finestra prospiciente via Dora Grossa, in sull’imbrunire d’un giorno del 1668... (P.P., p. 639); Nessuna stampa dell’epoca /a ritrae come doveva essere: è forse bene che il nostro segno faccia di tutte le sue effigi una sola, per vederla com'era..., pensarla intensamente ad occhi socchiusi perché la sua figura si profili...
(P.P., p. 658);
Oh! Malinconica Torino del Seicento... cosi triste che io non so immaginarla alia luce del sole, ma la vedo in una perpetua mezz’ombra crepuscolare (P.P., p. 642); ...@ il nostro sogno prende non so che tinta crepuscolare livida e paurosa non priva di un fascino indefinibile: i/fascino delle cose non certe (P.P., p.
652);
1
La ricordo nel nostro giardino nelle sere d’estate e ricordo nitidamente qualche intera sua frase, e quella sua voce buona e dolente... (P.P., pp.
547-548);
Ma quando la porta s’4perse, mi salutò una luce vivissima che veniva da un bel giardino verde e m’accolse un profumo di glicine e di rose cosi acuto che vinceva l’odore di muffa delle stanze secolari (P.P., p.547); Ed ecco la Torino d’oggi scompare... Dove sono? Non riconosco più ilsobborgo oltre Po, ... lo sento, ma senz’argini, primitivo, d’altri tempi esso pure... Mi prende il brivido pauroso dei sogni quando si vedono le cose familiari stranamente deformate dall’incubo... Ma ecco persone, ecco uomini... Ecco una porta dalla favolosa architettura... Ecco via Po finalmente... E allora mi accorgo di una cosa inaudita e terribile: sono ombre... di-
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vise da me dal mistero del non essere più, del non essere ancora. Vedo e non sono veduto... (P.P., pp. 623-624)”. Ora, questa metafora ricorrente della visione, del sogno, dell’i2-
magine, dice anche i limiti di quel vedere: di una percezione del passato cioè, che non va oltre una dilettosissima superficie estetizzante; non riesce mai a diventare tensione di ricerca, assillo del filo perduto nel labirinto della complessità umana e sociale nel tempo da ritrovare; non memoria che cerca, sulla traccia del vissuto, lo spessore
profondo dei contenuti psichici della coscienza. Il passato è If, nel suo valore di bellezza defunta, e per questo solo apprezzabile perché immobile, fermo, opposto alla instabilità, all’insicurezza della vita, del presente. Altra costante infatti è la corrispondenza antitetica delle immagini polarizzate di presente e passato: connotato il primo nei suoi attributi negativi di bruttezza, banalità, tumulto, rapida consumabilità (cfr. P.P., pp. 531, 1001, 1025, 1101-1103, 1117, 652, ecc.), il secon-
do nei suoi aspetti rassicuranti di pace, di quiete, di silenzio (P.P.,
pp. 1203, 1205, ecc.), o più inquietanti di decadenza (P.P., pp. 522, 533) e di permanente presenza della morte (P.P., pp. 855, 556, 558, 628), di funebre e misteriosa irrealtà senza luce vera, senz’aria, secondo i tratti ben noti della «stampa» (P.P., 851, 557, 627), con le sue
vivide, lampeggianti immagini di bellezza, di coraggio, di nobiltà, di eleganza aristocratica, di pacatezza antica. Gli unici ritratti gozzaniani che non siano mai caricaturali appartengono al mondo dei trapassati, la cui distanza dal mondo dei vivi, dagli istinti vitali, li rende di una bellezza disincarnata e trasparente (cfr. P.P., pp. 523, 848, 1097, 658-659, 619, 629, 631, 538).
Ancora una volta Gozzano tenta la misura della «stampa», isolando l’oggetto della visione dal presente; a tale scopo egli interpone secondo una tecnica che già conosciamo, un elemento paesistico o architettonico che funziona come schermo, riparo, linea di demarca-
zione, o zona neutra di silenzio e di spazio illimitato, cosicché l’immagine risulti insieme inquadrata e velata; evidente, eppure separata dal presente. Vale citare:
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... € fu passando dinanzi ad un muro diroccato, ... che la bella figura della Santa mi apparve... (P.P., p. 1096); Ed io vedo presso una grande finestra... (P.P., p. 639); In un e semibuio... come in un’oasi risparmiata dal tempo... (P.P.
p. 652):
è)
Il Castello... traspariva tra il verde; e come lo stile del Juvara si armonizzava con la ramaglia degli alberi... (P.P., p. 536); Le amarezze dei giorni comuni restavano fuori del recinto quando con uno sforzo leggiero si era varcato il contatore di ingresso, si aveva veramente il senso di entrare in un mondo diverso, in un’aria più lieve (P.P.,
pp. 117-118);
Seduti in disparte presso una gran vetrata che dava sulla via turbinosa... e guardavo fuori, al di là delle case nuove, un grande spiazzo di quartieri demoliti; e nella desolata tristezza dei ruderi... riconobbi a un tratto la ca-
sa del mio amico d’infanzia... (P.P., p. 531); Per giungere alla casa del mio amico si passava attraverso... un labirinto di viuzze... (P.P., p. 521); Suonai alla porticina di legno scolpito e tarlato. Quale prigione doveva essere quella casa e quale tanfo di chiuso là dentro...! (P.P., p. 537); Scendo verso Torino che traspare in un velario a tre tinte: rosa, viola,
verde tagliato dall’argento sinuoso del fiume, dall’argento delicato delle Alpi (P.P., p. 622); ...la sua figura si profila contro la parete sanguigna, sotto le volte a crociera... (P.P..p-658).
Dentro queste costanti fondamentali si organizza una materia, svariante dall’idillio tenero e mesto (Torino d’altri tempi — La bella Madamin), al bozzetto (La marchesa di Cavour, La Garibaldina), dalla novella patetica e misteriosa tardo romantica (Novella romantica), alla stampa di argomento storico e/o leggendario (Superga, La patrona dei bombardieri, La casa dei secoli, Caccie d’altri tempi, Nel padi-
glione della città di Torino), dall’elegia (L’altare del passato, I sandali della Diva) alla novella gotica alla Poe (Un sogno). Siffatta materia trova nella disposizione nostalgico-restaurativa dell’io narrante il suo punto di riferimento e di unificazione, ma mostra tuttavia anche i segni di una vena ormai esaurita, depauperata dei suoi umori più corrosivi e più critici, irrigidita in un certo automatismo di invenzioni, di figure e di schemi.
Vorrei collocare in una seconda sezione un insieme di pezzi che percorrono grosso modo il medesimo periodo, dall’11 al °16, fatta eccezione di una sola prosa del 1905, I/ misticismo moderno e la rie-
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vocazione del Serafico. Adunerei in questa sezione: 1) alcuni interventi estemporanei e non sistematici sull’arte, saldabili alla coeva produzione letteraria; 2) i pezzi giornalistici che potremmo definire di divagazione virtuosistica e disimpegnata, senza quasi appigli, se si esclude Jim Crow, alla cronaca e al costume; 3) le prose ricalcate sui testi di Zola e soprattutto di Maeterlinck. Vengo subito al perché. È legittimo, io credo, far stare insieme
questi articoli in un’unica sezione perché tra di essi è possibile ravvisare rapporti di analogia e di interscambio: di scelte ideologiche, di poetica, di stile. Si tratta di prose che denunziano, meglio di altre, l’indecisione di una fase interlocutoria e di sperimentazione letteraria. E lo spazio giornalistico si offre molto opportunamente a Gozzano, sia come palestra di esercitazione e di ricerca letteraria, sia come comodo contenitore di pezzi e di ritagli del suo laboratorio di scrittore che perviene, quando perviene, ad uno stile, sulla scorta dei testi altrui. Accantonata, come si è visto la prosa di assetto naturalistico, la sua pratica letteraria si esercita, oltre che sul terreno già analizzato, e più suo, della prosa di memoria, su un modello di prosa di tipo elzeviristico, filtrata alla sottilissima trama di un gusto consumato — ed educato sui testi giusti — priva quasi di oggetto e carica invece di suggestioni e di sollecitazioni formali che egli utilizzerà in una direzione precisa. Non è allora per un caso che proprio nell’11 si infittiscano i suoi articoli di riflessione sull’arte che qui indichiamo nell’ordine cronologico. I titoli sono i seguenti: Eterni poemi (5 aprile), Il candore dei primutivi (5 aprile), Intossicazione (17 maggio), All’esposizione del lavoro — Il dono della meraviglia (29 giugno) del 1911, // fotografo dei tre Magi (17 gennaio 1914), Il nastro di celluloide e i serpenti di Laocoonte (5 maggio 1916), L'arte nata da un raggio e da un veleno (senza data) *. Queste prose di riflessione sull’arte e sulla letteratura sono qui considerate, nel contesto della seconda sezione, per il riscontro possibile tra l’idea che ne emerge, e la parallela tendenza di Gozzano a confezionare, nel corso di questa sua iniziazione alla prosa, buoni
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«manufatti» letterari, in una forma «eletta» e artificiale, e in ogni ca-
so povera di valenza contenutistica. In definitiva, l’accentuazione che Gozzano dà al valore formale dell’arte e al suo carattere di artificio, emerge intanto dal rilievo speciale che egli conferisce appunto alle parole della nuova arte rispetto al materialismo. Essa per il poeta è «tediata» dagli «stili sciatti e volgari», repugnante dal «crudo verismo», espresso con «povere, nude parole», ma anche «dalla ridevole ingenuità dello stile romantico», ed
è volta invece alla ricerca di «armonie artificiosamente efficaci di sillabe rare» (Il misticismo moderno ecc., P.P., pp. 989 e 991; la sottolineatura è mia). La parola ricercata è d’altronde metafora di un modo di essere «eletto»; il misticismo francescano, lo spiritualismo buddista possono restituire nobiltà alla vita, rimuovendo la materia e l'istinto. Ma
come egli ribadisce in queste pagine, sulla scorta di Oscar Wilde, è la letteratura a creare le immagini del mondo, e la vita può solo imitarla; e perciò tanto più eletta la forma dell’arte, tanto più nobilitata la vita che la imita. Archetipi dell’arte sono per Gozzano le leggende e le fiabe per quella loro «forza» o «virtù speciale» che le fa vincitrici del tempo, eterne, «belle cose inverosimili» — come egli dice — a cui l’umanità «invecchiata» si compiace di ripensare perché rievocano «i mille sogni che in ogni tempo agitarono la nostra anima inquieta» (Eterni poemi, P.P., p. 1060 e 1064). Tale concezione dell’arte tende a collocare in un tempo sempre più remoto dal tempo e dalla storia gli esemplari della bellezza: cosi in due prose rispettivamente dell’11 e
del ’14, Il candore dei primitivi (P.P., pp. 1072-1077) e Il fotografo dei tre Magi (Il sofista..., cit., pp. 126-131) Gozzano trascrive mimeticamente, in una raffinatissima sequenza di immagini sul tema dell’adorazione dei Magi, il naif dell’arte primitiva, non senza un gioco
molto scaltro di sovrimpressioni e di variazioni tematiche suggerite dalla pittura fiamminga e fiorentina della Rinascenza, fino all’estrema propaggine decadente di un sonetto di Heredia. La predisposizione ideologica che ne emerge è indubbiamente regressiva e il gusto estetizzante. Ma il Gozzano antinaturalista fa qui
una delle sue prove di più squisita abilità, e riesce meglio che con
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proposizioni astratte a trasmetterci il particolare suo sentimento dell’arte. In Intossicazione (1911) il gioco autoironico che si condensa nella immagine del poeta come «amabile giocoliere» svela il limite di ozio e di «mimetismo» incluso nella sua idea (e pratica) della letteratura, e vi si ribadisce la qualità di vita. seconda'e artificiale di essa,
adatta solo a «cittadini evoluti e raffinati», che possono farne — grazie al loro scetticismo — un uso discreto e non nocivo. Di questo gioco protagonista è l’intelligenza, per le sue qualità di «chiaroveggenza» con cui osserva e controlla i moti dell’istinto, analizza le circostanze più drammatiche della vita, tenendosi immune da ogni compromissione sentimentale, fino a ricavare dalla contemplazione distaccata un piacere estetico, «una ebrezza senza nome», che è l’op-
posto della «scialba», «pacifica esistenza» del borghese, e che porta alla separatezza dal mondo dei vivi: come si ricava da Ananke, in cui
Guido sembra piuttosto riferirsi alla esperienza poetica dei Colloqui, più che alle dispersive e disincantate prove di abilità degli ultimi anni”. Se, concludendo su questo punto, consideriamo i due articoli che dedica all’arte fotografica e cinematografica (e vi includerei anche // fotografo dei tre Magi), ci rendiamo conto che le preoccupazioni derivanti dal progresso dei nuovi mezzi di riproduzione artistica, che renderebbero irrilevante il ruolo dell’artifex, hanno non piccola parte nella sua enfatizzazione dell’arte «al passato». La «materialità meccanica» rischia, secondo Gozzano, di schiacciare e di appiattire l’arte, di annientarla del tutto. Del resto egli si rende conto assai bene dell’impossibilità di arrestare la modernità dei nuovi mezzi di comunicazione, e perciò si sforza (o mostra) di accettarla; di fatto la subordina abbassandola a funzione riproduttiva (L’arte nata da un raggio e da un veleno) oppure ne prende decisamente le distanze, come nel caso del cinematografo, il cui progresso in Italia considera «una vergogna artistica»: «Pellicola e arte — egli dice — restano quelle che sono; divise, inconciliabili fino all’ultima molecola, come cer-
te sostanze non amalgamabili assolutamente» (// nastro di celluloide e i serpenti di Laocoonte, P.P., p. 1168). Al cinematografo tuttavia Gozzano vede delegabile la gestione di un’arte di massa, come sareb-
be il film poliziesco, il racconto di appendice, o il documentario di
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informazione; ma il timore che «il nastro senza fine ci avvolga di
giorno in giorno come i serpi favolosi di Laocoonte» (ivi, p. 1171) si traduce in presentimento di irrimediabile decadenza dell’arte vera. Ora, a queste sue considerazioni sull’arte corrispondono alcune prose particolarmente cesellate, comprese tra Ì’11 e il ’16, alcune originali, altre ricalcate, e perciò le distinguiamo in due gruppi. Nel primo possiamo far rientrare Eco e i suoi devoti (1911), La quinta stagione (1911), Ozi contemplativi (1911), Jim Crow (1912). I temi sono occasionali e del tutto pretestuosi; si aggrava la propensione ad un esercizio letterario ozioso e peregrino, fine a se stesso;
nient'altro che un vezzo di «agiatezza neghittosa», per dirla con parole sue (P.P., p. 1122); una ricercatezza formale pigramente compiaciuta di sé e divagante nella eterogeneità dei motivi, su cui non mette conto riferire. Per questi pezzi è del tutto sottoscrivibile il sospetto di un gioco fatto più che mai — come sostiene il De Rienzo — di «variazione di parole», di «solfeggio di sillabe», di «virtuosismo di consonanti e di vocaboli»?°: sola eccezione è Jim Crow che ha il merito di essere una delle pochissime prose «impegnate», sia pure di segno conservatore, se non proprio razzistico. Il secondo gruppo è costituito dalle pagine prelevate di peso da Zola e soprattutto da Maeterlinck. Esse sono: Torino suburbana — La gran cuoca (1911), Ecatombi floreali (1911), Ananke (1911), Boxing club torinese — L’arte del pugno (1911), I crisantemi alla mostra dei fiori (1911), All’esposizione del lavoro — L’Aquarium (1911), L’unica fede (1914) tutte in P.P., eccetto l’ultima, pubblicata in // softsta... citato. Non credo valga la pena di tentare, come ha fatto con una punta di generosità il Contorbia, una lettura di queste prose con l’ottica del salvataggio di infinitesimi frammenti di autonomia di invenzione, o di scarto ideologico e stilistico rispetto ai testi utilizzati°!, poiché i prelievi sono secchi e senza possibilità di attenuanti. Se mai va raccolta l’indicazione che emerge dai saggi di Porcelli e di Padoan circa la linea antinaturalista imboccata da Gozzano: una linea che agisce all’interno stesso dell’operazione di plagio, come rifiuto di quelle parti «dichiaratamente scientifiche» del discorso del fiammin-
go, 0 di rappresentazione della dura realtà sociale di Zola, e, viceversa, di selezione di quelle pagine in cui insiste «sul senso del mistero,
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dell’enigma insito nel mondo naturale, e sulla tendenza propria di tutti gli esseri, ... a trascendere il limite della materia bruta verso una
forma di spiritualismo misticheggiante»?”: a ben guardare dunque tali ricalchi, simili per certi versi alla tecnica di trascrizione dei testi dei poeti a lui più cari, adottata da Guido nell’A/bo dell’officina, sono da considerarsi occasioni e momenti di una più illimpidita riflessione sui temi di una ricerca in corso. La riserva, se mai, va inoltrata ben al là del plagio in sé, alla scarsa
persuasività complessiva della produzione gozzaniana degli ultimi anni, tesa in direzione di una «meta — come egli la definisce — di felicità, di perfezione, di vittoria su ciò che chiamiamo il male, la morte, le tenebre, il nulla»?’, in definitiva, verso una filosofia più conso-
lante e compensatrice, non priva di incertezze ideologiche”, e povera tutto sommato di profonde radici culturali. È piuttosto un’altra la direzione che Gozzano prosatore sembra imboccare più fruttuosamente, e cioè quella che lo mette sulla strada di una narratività più moderna e nervosa, e che gli consente di sperimentare un tipo di prosa che, svestitasi degli orpelli e dei vezzi già noti, si acuisce al senso delle situazioni stridenti. È questo il Gozzano prosatore che indubbiamente preferiamo; che ci interessa, più che per i risultati, per la tendenza che vi viene accennata. Queste novelle, che collocherei in una terza sezione e che costitui scono la parte più consistente del corpus considerato, vanno dalle prime incerte prove di evidente provenienza dannunziana, per certo insistito gusto della situazione decadente (il parco, l’antico amore, i giochi sado-masochisti della perversione erotica dannunziana), come nella Passeggiata (1903), o per l’evocazione di un milieu popolare e fiabesco di un arcaismo superstizioso e ancestrale, in cui la forza elementare dei sentimenti allude al ruolo preminente del pittoresco dai colori crudi e dai particolari repugnanti di certo Abruzzo dannunziano delle Novelle della Pescara e del Trionfo della morte, come
nella Novella bianca (1906), alle successive altre che indichiamo nell’ordine cronologico e presenti attualmente nell’Ultima traccia e in Prose varie soprattutto. Esse sono: I benefizi di Zaratustra (1905), Il giorno livido, La giostra dell’oro, La sfida, Il ladro di noi stessi, del
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1911; Le giuste nozze di Serafino, L’anima dello stromento, del 1912; Il
martire vendicato (1913), Un voto della dea Thazata-Ku-Wha, Sull’oceano di brace, La vera maschera, Le cicale sotto lo scroscio, Guerra di
spettri, La belva bionda, del 1914; Pamela-film, Il bel segugio, Il giusto guiderdone, Le gemelle, L’ultima traccia, Melisenda, La scelta migliore, L’incatenata, Gli occhi dell’anima, Alcina, del 1915; Il cuore d ‘argilla, L’erede prescelto, L’ombra della felicità, Un addio, del 1916; L’onestà
superstite, Madre d’Oltralpe, Lo stesso gorgo, di incerta datazione, ma verosimilmente del ’15 o del ’16°. Come si vede oltre trenta, tra no-
velle e qualche prosa di riflessione, tutte polarizzate, come diremo subito, su temi contemporanei, e perciò unificabili per questa coniugazione al presente di intrecci cose e figure della narrazione. Anche per queste novelle è possibile rintracciare ascendenze di gusto, di opzioni narrative, di giudizio. Un quadro di riferimento plausibile e prioritario è l’insieme delle recensioni scritte da Gozzano tra il 1905 e il 1908, pubblicate dal Guglielminetti e dal Contorbia, su testi narrativi contemporanei di autori noti (Capuana, Moretti, D’Ambra), e meno noti (Valcarenghi, Prosperi, Anastasi, Grandi, Boutet, Rivalta, Vugliano, Antoniolli), dai quali Gozzano
attinge non più che certi spunti tematici trasferiti nel contesto diacronico di un proprio discorso come ha dimostrato il Contorbia”. Ma essi si offrono anche come prima occasione di un pronunciamento di Guido sul genere narrativo, e perciò per noi di primario interesse. Si tratta di giudizi come al solito scritti in punta di penna, ma sufficientemente probanti 4 posteriori non soltanto di una poetica in tt1nere, ma della torsione narrativa particolare di queste novelle. Si individuano cosi, in rapporto alla contemporanea narrativa, due coordinate critiche fondamentali: La prima consiste in una attenzione dichiarata e costante tra il 1905 e il 1907 e oltre, al «rinnovamento dell’arte drammatica»”, co-
me osservatorio privilegiato di una rappresentazione «scettica» e «amara» della realtà, che si caratterizza per la sua «indipendenza assoluta dai modi e dai luoghi comuni» (R.N., p. 29); ma l’interesse di Gozzano va altresi all’«innegabile... rifiorire di molte forme letterarie e anche della novella» (R.N., p. 33) e alla attualità dei suoi modi.
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Sembra che Guido insista soprattutto sull’«elemento della casualità» che — secondo lui — introduce «un senso di pessimismo e di ironia fatalista che piace e che fa pensare» (ivi). Non manca di prestare orecchio anche al problema della modernità del linguaggio, quando ad esempio, intervistato su Poesia e cinematografo nel ’10, mostrerà di apprezzare di quest’ultimo un requisito particolarmente aggiustato ai bisogni della sua arte: esso sarebbe «giunto a buon punto — egli dice — per semplificare e realizzare il suo sogno», vale a dire, quello di abolire ogni «prolissità di dialogo e di scene» e di affermarsi come «proiezione muta ed eloquente ad un tempo» (P.C., p. 80). Con gli stessi intenti di modernità egli imposta — lo ha dimostrato Guglielminetti — tutto il suo discorso di recensore in funzione di un’apertura di consenso extra moenia alla «torinese scuola dell’ironia»; ri-
marcherà il suo apprezzamento per «la sottile vena di ironia sentimentale» delle Piccole scene della gran commedia di Lucio D’Ambra (D.R., p. 38). Ancora, in una lettera del luglio 1907 al Moretti, al quale prometteva una recensione ampia, non più scritta, al Paese degli equivoci mostrerà di stimare nel volume dell’amico proprio «il genere suo prediletto» che egli vorrebbe tentare «se se ne sentisse la tempra», un genere cioè che a suo parere è sintesi della tradizione
più nobile della novella italiana e dell’arguzia modernissima francese» (L.M., p. 154). Dei suoi racconti al Gozzano piace (sempre che sia sua la scheda su «La Rassegna latina»), l’«umorismo sottile di buona lega che non tace neppure di fronte alla maestà tragica della morte, ma sa da questa far sorgere il senso filosofico della vanità delle cose umane», come egli dice con transfert evidente, o quanto meno con una certa consonanza di sentire con l’amico (R., p. 421). Perfino la sua eccessiva simpatia per l’innocente e alquanto mediocre romanzo comico del Vugliano, Gli allegri compari di Borgodrolo si inserisce in siffatto quadro di scelte. Non a caso del Vugliano Guido mostra di valorizzare certi requisiti, e cioè, «la ribellione
alla retorica della psicologia inorpellata, la poca reverenza ai modelli e l’animosità lodevole di tentare nuovi sentieri»; e ancora «l’ironia
agrodolce che serpeggia di continuo» e il «risolino di chi sopporta la vita, come una persona di spirito sopporta uno scherzo di cattivo
genere» (R., p. 420): espressioni e giudizi — come si vede — ritagliati
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su misura sul suo proprio modo di concepire la realtà, sempre sotteso e implicito tra le pieghe della sua poesia, pronto a provocare certi effetti di dissonanza «stridula» e a incrinare la conchiusa circolarità
di un mondo poetico ripiegato sull’io. Sicché suona proprio come clausola finale di forte rilievo il suo messaggio al Vallini dell’agosto del 1914, quando lo scoppio della guerra sembra aver imposto ancora più perentoriamente il dovere di una nuova secchezza di linguaggio: La tua favola — egli dice — fu letta e ammirata. In altri tempi avrei rimpianto che la finissima trama (corsivo dell'A.) non avesse servito ad un sogno dialogato e rimato. Oggi penso che è meglio ridurre ogni cosa alla più concreta e visibile didascalia. Vedi che anche il Kaiser è del mio pare: re, con la differenza che ha a disposizione uomini invece di parole...
Come si vede, si tratta di sparsi elementi di giudizio, ma ricomponibili dentro una ricerca tendenziale di nuova poetica che trova una conferma nelle novelle di questa terza sezione. Una seconda tendenza consisterebbe nella posizione di rifiuto delle forme della retorica sentimentale alla Fogazzaro. Rifiuto per la verità non eccessivamente netto, se egli recensendo Antoniolli, che si può considerare un fogazzariano, finisce, entro certi limiti di «sobrietà» e di «buon senso», con accettarne la «trama delicata» delle
novelle. In effetti tal genere narrativo, all'insegna della «fiamma che avvampa», dell’«esaltazione del sacrifizio e della rinunzia», che Goz-
zano dichiara «stucchevole» se «trasportato a esagerazioni inverosimili» (D.R., p. 35), non è del tutto estraneo al quadro di riferimento
delle sue prove narrative, e se ne trova un esempio anche in queste novelle: mi riferisco ad Alcina che rappresenta un «terminale» significativo di un filone che percorre l’intero iter narrativo e poetico: da Novella romantica a Un sogno, dai due sonetti dal titolo L’esilto, a
Un sogno cattivo e ancora prima La preraffaellita, La parabola dei frutti, ecc.; e che incrocia perfino un episodio della biografia del
poeta”. Il suo antifogazzarismo, come l’antidannunzianesimo, è fenome-
no sempre in limine, sul punto di reversibilità di una direzione verso il sentimentale e il patetico che il controllo ironico del Gozzano
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
non manca di sorvegliare a distanza. Cosi, a proposito di Carola Prosperi che «è giovanissima e non è fogazzariana, ha sentimento e non è sentimentale, ha gusto squisito e non è d’annunziana...» (R., p. 428), il gioco delle antitesi non nasconde, anzi esplicita la coscienza gozzaniana della precarietà di un confine che un difetto di misura potrebbe far superare; di una linea di demarcazione tra «cloròsi fogazzariana» e «sentimento vero» che solo un «fine accorgimento» (ivi) può rispettare. Ora di queste novelle è possibile fare una rapida analisi, a partire appunto dai giudizi di Gozzano or ora riferiti, poiché essi mi sembrano suggerire una nuova intenzionalità, diciamo cosi, realistica, dell’autore, da contrapporre alla tematica un po’ trita delle prose di memoria, di divagazione erudita o di pura abilità. Una materia che ha in effetti qualcosa di nuovo: di più fresco e di più diretto, voglio dire di meno letterario e quasi di banale. L’analisi qui si esercita nell’attrito con una realtà di cose e di persone del presente storico-sociale, sui suoi dati di ambiente e di costume; cerca la dimensione della quotidianità, direi della banalità bor-
ghese. E non è detto che a volte non vi ci resti invischiato: voglio dire, dentro un modesto registro «comico», come in Cuore d’argilla,
L’ombra della felicità, L’ultima traccia, Il riflesso delle cesoie, Madre d’Oltralpe, Pamela-film, L’onestà superstite, tutte presenti in P.P. Ma nella maggioranza dei casi assistiamo ad un fatto nuovo, che sembra potersi isolare come una costante di queste novelle: vale a dire la perpetua ricerca da parte di Gozzano di un punto di incontro tra luoghi simbolici dell’io poetico e momenti dell’oggettività narrativa. In altri termini, Gozzano misura e verifica la «tenuta» di certi suoi temi,
mettendoli a confronto con una certa gamma di situazioni, figure e intrecci. E pur nell’ambito limitato di determinati nuclei narrativi, rappresentati dal tema del doppio, dell’aridità, del denaro-mercificazione-del valore, dell’antitesi forza-inettitudine, ideologia della violenza e ideologia-dei-valori, l’intervento del soggetto riesce a provocare situazioni che travolgono l’assetto normale del racconto, esautorando la convenzionalità della fabula borghese, e introducendo elemen-
ti di sorpresa e di casualità. Ciò mette in mora la rassicurante fiducia
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nella stabilità delle istituzioni (matrimonio, famiglia, statss, professione) e insinua il dubbio circa una serie di venerandi principi e sentimenti (l’amore, la bellezza, la fedeltà, la poesia, la scienza, lo spiri-
to) e circa i miti collettivi più gelosamente difesi dalla morale perbenista (la patria, la guerra, la stirpe, l’eroismo, e simili). I connotati di un mondo e di una classe, la borghesia giolittiana, sempre implicitamente supposti nel richiamo polemico e ironico dei Colloqui al «mondo turbinoso», alla coppia dell’«oro» e dell’«alloro», non avevano ricevuto mai da Gozzano una determinazione
più oggettiva, per la semplice ragione che li, nei Colloqui, oggetto dell’affabulazione è l’io quale protagonista nelle sue mobilissime proiezioni. Qui, certamente, personaggi e situazioni di questo mondo restano per molti versi subordinati alla tematica più personale dello scrittore, non riuscendo perciò a liberare in piena autonomia tutta la complessa realtà del loro essere sociale e delle loro oggettive contraddizioni. Ciononostante l’assunzione di questa ottica tendenzialmente nuova da parte di Gozzano riserva al lettore alcune sia pure piccole sorprese. E direi che una fra tutte mi sembra importante: cioè l’evidenziarsi di una prima capacità reattiva e ricognitiva rispetto alla crisi in atto, e una riflessione critica su alcuni temi analoghi a quelli della ricerca letteraria contemporanea: penso non solo a narratori «crepuscolari» quali Palazzeschi o soprattutto Moretti; ma anche a Pirandello, e fors’anche a Svevo, quantunque Guido resti ben lontano dal grado di consapevolezza e di maturità di ricerca, dalla modernità di linguaggio e, insomma, dall’arditezza artistica che appartiene a loro. Penso intanto, a quanto di nuovo interviene nel racconto gozzaniano con l’introduzione della categoria della casualità, come elemento deragliante di rottura o di soluzione a sorpresa, in ogni caso indipendente dalla volontà dei protagonisti; e ciò dice abbastanza su quell’«ironia fatalista che piace e che fa pensare», sull’imprevedibilità più assoluta di SILE «scherzo di cattivo genere» cheè la vita. È questo tema, non c’è dubbio, una costante narrativa presente in numerose novelle. Si vedano cosi le due novelle parallele, La sfida e Le giuste nozze di Serafino dove il «lieto fine» non vuole già indicare, come ho letto
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.
Lospazio poetico di Guido Gozzano
dalla Nuvoli*, il ristabilirsi di un equilibrio infranto, onde il rinvio
ad «un sistema rassicurante e rasserenante», in ‘contrapposizione a quello «faticosissimo»del superuomo, bensi la gratuità dell’accadere, e l’impoverimento delle «ragioni» dell’agire responsabile. Ed a mio avviso è tanto più attendibile questa lettura che essa si vede riconfermata esemplarmente in // voto alla dea Thazata-Ku-Wha, in cui l’imperscrutabilità della decisione della dea è pari alla sua assoluta arbitrarietà. Il fatto che i beneficiari ne siano stupefatti e contenti, non toglie nulla al senso di paura («lo vidi impallidire improvvisamente con una lettera che gli tremava, gli garriva tra le dita convulse», P.P.,
p. 575), provocato in loro dall’imprevedibilità delle regole dell’esistenza. I margini di libertà vengono sottratti ai protagonisti e al loro destino, e il caso gioca con i suoi esiti paradossali, ora singolarmente «fortunati» (come nella doppia sciagura dei due fidanzati negli Occhi dell’anima, colpiti l’una dal vaiolo, l’altro dalla cecità in guerra, e perciò stesso a loro modo felici), ora ineluttabilmente perversi, come nella novella Incatenata, in cui il sopraggiungere della morte della madre e della malattia del padre muta radicalmente il destino dei due promessi sposi dalle belle speranze. A volte la casualità è insita nella situazione del racconto, come in
Un bel segugio dove l’apparenza tesse la trama degli equivoci e svela insieme la precarietà esistenziale della persona: della madre orbata del figlio, del dandy alienato in una sua stanca pratica erotica. Perfino nel Martire vendicato l'apparente fiducia nel ristabilimento della giustizia, grazie alla vendetta che la vita ha inflitto alla terribile compagna di giochi dell’io narrante, viene sottilmente invalidata dal dubbio che permane fino alla fine: Qualche volta si sarebbe quasi indotti a credere che un equilibrio, una morale presieda e vendichi i nostri piccoli casi, si sarebbe quasi indotti a credere che il Bene e il Male siano due valori autentici, che esistano vera-
mente... (P.P., p. 618).
La sconnessione della vita e la competitività indotta dai miti capitalistici del denaro, della forza, del successo, hanno non piccolo peso nel determinarsi della scissione della persona. Essa si configura
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come sdoppiamento dell’io protagonista, in un alter ego che lo nega e lo supera. È superfluo ricordare che la coscienza della scissione dell’io e della perdita di identità è alle origini della poesia di Guido. Tale tema del doppio lo si ritrova qui, in un altro gruppo di novelle: in / beneftzi di Zaratustra, dove il superuomo millantatore e la figura biondiccia e scialba dell’amico si confrontano in un rapporto ambiguo di disparità e di somiglianza; nel Giorno livido in cui l'opposizione è giocata attraverso il confronto antitetico, e se vogliamo un po’ schematico, tra il sofista scettico e persone portatrici di valori quali la scienza, la poesia, la politica, l’amore, la bellezza, rovesciati parodicamente nel loro opposto, in un inventario tipicamente gozzaniano; nella Giostra dell’oro la figura dell’«altro» è quella del milionario yankee con le sue caratteristiche di volgarità e di tracotanza, ma anche di «freschezza fisica e intellettuale»; egli è «campione di una razza diversa e lontanissima», del tutto opposta, e vincente, rispetto a quella dell’europeo assillato dall’analisi e dal tormento critico. La competitività si manifesta anche, e direi soprattutto, nella contrapposizione agonistica in amore, fondata sul conflitto tra il dand), scettico e frivolo edonista, che rappresenta l’evasione e il gioco compiaciuto ed estetizzante, e il marito, tutto buon senso, idee
quadrate, affari e carriera, e la soddisfazione coniugale del possesso. L’amore per la verità non ha luogo, ma è solo un pretesto per la riproduzione da parte di Guido di una dicotomia che ci è ben nota tra le figure del «sano» dotato di forza, intraprendenza, gagliardia, e quella del «malato» con la sua debolezza, aridità, inettitudine alla vita. Tale dicotomia fondamentale è trattata con la consueta ambivalenza di modi, che gli permette di giocare su un registro doppio di identificazione-distacco, ironia-sentimento, integrazione-irrisione. Cost le novelle Melisenda, La scelta migliore, L’onestà superstite, Sul-
l’oceano di brace, presentano grosso modo con talune varianti la medesima situazione ritagliata sul tema del doppio. Lo stesso tema talora non è di più che uno spunto di ariosa divagazione aneddotica come in Ladro di noi stessi giocato con molto garbo sull’ambiguità del sosia, metafora del binomio identità-distin-
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
zione, insito nello sdoppiamento e sovrapposizione dei soggetti: «L’amo perché lui è me, ed io sono lui»! Le gemelle è un piacevole divertissement sulla fluttuazione dell’identità e sul connesso motivo dell’impossibilità di amare, qui, paradossalmente, non per aridità da parte del pittore protagonista, ma
per eccesso, volendo sposare entrambe le sorelle. Che è nient'altro che un pretesto per rinunziare e all’una e all’altra («m'ha salvato il loro essere due» — come confessa alla fine), e non va esclusa l’ipotesi che «la risolutezza del caso» abbia deciso per il meglio dirottando verso altra sede di lavoro l’innamorato, liberandolo, tra l’altro, dalla
morsa di una maulier fortis al quadrato, se solo si pensi alla ripresa, in un registro decisamente comico, del tema di Invernale (P.P., p. 802). Una dissociazione più profonda e più radicale è quella che separa pirandellianamente il volto dalla maschera (La vera maschera) e permette, a chi attinge nell’esercizio dell’arte, fino al limite di rottura di una lucida demenza, la coscienza di una alienazione dell’io da se
stesso nella degradazione grottesca del volto umano a maschera animale, una conoscenza più critica della vita e dell’uomo. L’alienazione, come la malattia, sembra scelta di estraneità al mondo, e perciò
punto privilegiato di osservazione; ma è anche gioco sado-masochista che è pagato con la follia e con l’emarginazione. La sicurezza di status non sopporta dubbi e chiamate di correo; per la sua tranquillità il borghese ha bisogno di sentirsi buono, l’occultamento è l’obbligo: ecco dunque la nauseante commedia della retorica e dell’ipocrisia (Un addio), l’involucro delle ideologie e la civiltà delle buone maniere (La belva bionda), dietro cui si nasconde una sostanziale rapacità priva di freni morali, che assume le forme della truffa (I giusto guiderdone), dell’imbroglio a danno dei più deboli (Un addio) o della prepotenza ammantata di falsa cordialità (Il martire vendicato), del vizio ostinato e paranoide del gioco d’azzardo (La belva bionda) o della ferocia tracotante del denaro (La giostra dell’oro). Questi temi esaltano tutta la loro drammatica paradossalità e la loro carica corrosiva nell’incontro con il nodo epocale della guerra. Verso la quale non mi pare che Gozzano sia disposto a concessioni eccessive verso la libido patriottarda dei nazionalisti, se soltanto a
partire dal luglio 1915 egli si piega a un qualche riconoscimento
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d’obbligo al «radiosomaggismo»: la cosiddetta «esemplarità»*? delle storie di guerra di Un addio, La scelta migliore, L’erede prescelto, Gli occhi dell’anima, Lo stesso gorgo, risulta a mio parere sottilmente insidiata da una allusività ironica, non priva di sarcasmo, ai miti del militarismo, della guerra e della patria dei retori**; le stesse ragioni che spingono Tito Vinadio in Un addio e nell’Erede prescelto a farsi volontario sono tutt’altro che apparentabili con l'entusiasmo dell’«Italia in armi». Anche in una prosa-limite come Le cicale sotto lo scroscio (1914) che, per essere, secondo il Contorbia, la più vicina ad «un approdo “patriottico”’» invaliderebbe il carattere di irreversibilità del messaggio antiretorico dei vv. 23-24 di Pioggia d’agosto («La Patria? Dio? Umanità? parole / che i retori t'han fatto nauseose!...»), bene, anche qui Gozzano si limita in definitiva ad una illustrazione d’ufficio della letteratura di guerra, contraddetta implicitamente, nelle sue
proposizioni più retoriche ed esclamative, da una confessione di sostanziale estraneità al richiamo dell’«ora piena». A quel richiamo, a
quell’ora, «l’ora di dover cantare» si risvegliano i poeti che declama-
no ore rotundo per le celebrazioni di rito (e non è un caso che D’Annunzio, ed il peggiore, trovi qui uno spazio cosi privilegiato), quei poeti cioè dai quali Guido, auspice il suo male, prende in sordina le distanze, appartandosi piuttosto tra quegli altri poeti della «vita interiore» che la guerra non riuscirà serrianamente a mutare (P.P., pp. 141-143). Del resto già con Guerra di spetri e con La belva bionda del dicembre del 1914, il luogo comune della guerra come calamità naturale trova, nell’eco di sgomento e di angoscia dell’io narrante, un
sovrappiù di coinvolgimento ideologico ed emotivo nella previsione di una malattia di ben più lunga durata che non sia un fisiologico e salutare ricambio di energie. Vi si legge bensi — oppure mi sbaglio — una allusione alla «fine della civiltà»: ...s'ode — egli dice — il rombo del mare corrucciato contro gli scogli; e si pensa all’ora tragica, si è ssomenti guardando il buio e ascoltando la notte... ma dentro è l’ora presente, la civiltà moderna: la luce elettrica, gli uomini in abito da sera, le spalle ignude delle signore, i fiori, i gioielli,
tutte le apparenze dell’umanità raffinata (P.P., p. 1153);
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
e noi sentiamo, e lo scrittore sente, che questa civiltà manda bagliori di uno scintillio innaturale, che stride con il'buio livido della guerra. In quelle «sale luminose» in cui la società opulenta consuma stancamente i suoi riti, anche lf si risveglia, non solo nell’«urlo» di guerra,
la tribale ferocia della belva primitiva: Ferire, uccidere, rubare l’avere, o la donna d’altri: non lo si fa ogni giorno, dieci volte al giorno?... Si uccide, si ruba anche qui, in queste sale luminose, tra questi signori e questi gentiluomini (P.P., p. 1157). Violenza della guerra e violenza del denaro sono tutt'uno, omo-
logate nel medesimo giudizio di negatività. Basterebbe infine la piccola galleria di ritratti grotteschi e deformati della famiglia Audisio, colta dall’obbiettivo dell’autore in alcuni primi piani sconcertanti e impietosi, per dire quanto poco conce-
da Guido alla «retorica celebrativa» — sono parole sue — e all’«elogio di maniera, ... del quale si fa oggi tanto abuso profanatore per ogni caduto». Sta di fatto che l’ostentazione della sicurezza, la falsa gravità del perbenismo borghese, in tutti i luoghi e le circostanze in cui si manifestano, risvegliano l’ironia di Gozzano sempre latente al fondo della sua riflessione. In queste prose essa si realizza soprattutto in una sua particolare abilità ritrattistica che invalida, con la sua vis corrosiva di grande energia caricaturale, la credibilità dei volti più severi e venerandi. Anzi si può tranquillamente dire che proprio al ritratto, di forte icasticità espressionistica, Gozzano affida la fondamentale funzione demistificatrice della fabula, di per sé povera di elementi inventivi, impigliata in procedure forse un po’ schematiche e dimostrative, nel troppo esplicito accostamento di situazioni rovesciate (Un addio e L’erede prescelto), o di situazioni analoghe (La scelta migliore e L’onestà superstite); o intrigata da interferenze autobiografiche e dalla giustapposizione non eliminata dell’io narrante sugli intrecci che si vorrebbero più liberi. Ma è altresi indubbia la tendenza ad un impegno critico disposto a svelare, fino a un certo grado, la natura mistificata dei rapporti so-
Gozzano scrittore in prosa
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ciali, e l'intenzione di mettere a frutto lo strumento dell’ironia per
disegnare non più soltanto il profilo dell’io, ma figure e situazioni emblematiche della complessità sociale fin. de siècle. Beninteso, e concludo, lo spazio narrativo più autentico di Guido resta circoscritto — come egli confessa ad Amalia Guglielminetti — a «ciò che succede in se stesso»; e perciò il protagonismo dell’io trova il suo compimento artistico più congruo nelle sue novelle più vere, vale a dire nei Colloqui, che restano il luogo privilegiato della sua tensione e della sua esperienza poetica. La qual cosa, io credo, non toglie nulla al valore di cimento e di sperimentazione che queste novelle in prosa rivelano, rispetto ad un nuovo spazio di conoscenza, aperto su un futuro che non poté essere suo.
II
La dinamica dell’utopia nella tradizione letteraria di «Paolo e Virginia»*
Questo saggio è nato inizialmente come una lezione seminariale di un corso di aggiornamento, dal titolo Miti e modelli letterari! diretto a docenti medio superiori, e inteso a verificare, nello spirito dei promotori e dei partecipanti, la redditività critico-teorica di un uso incrociato e convergente di criteri metodologici diversi, focalizzati su determinati percorsi tematici, su generi, miti e modelli della letteratura italiana e straniera, e sostanzialmente mirati a sperimen-
tare la tenuta complessiva, pur nella compatibilità con gli specifici statuti teorici, di «letture» differenziate (semiologiche, strutturaliste,
storico-filologiche, ecc.) di medesimi oggetti e fatti letterari. In particolare si era trattato di individuare e di isolare, distinguendoli, gli agenti della permanenza e della modificazione insiti in essi: di dar conto cioè, a dispetto della stabilità e della maggiore o minore fissità di certi schemi, della flessibilità e storicità inerente a
qualsiasi modello letterario. Il quale diventa un punto di incrocio significativo di tensioni di opposto segno, relative al rapporto tra tradizione e innovazione, norma e scarto espressivo, resistenza del codice o del genere, e creatività dinamica dei nuovi contenuti e delle .
nuove
*
.(-
.
(I
strutture significative .
Questa relazione è uscita sul Quaderno n. 4 de «La ricerca», 1990, Dipartimento
di Linguistica, letteratura e filologia moderna dell’Università di Bari.
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
L’occasione didattica si è trasformata, strada facendo, in un per-
corso critico di nuova esplorazione, lungo una linea temporale che congiungeva alcune opere letterarie, unite, quanto al tema (l’età dell’oro e lo stato di natura) e la materia narrativa (la «favola» di Paolo e Virginia) da alcuni tratti largamente comuni, quanto meno rispetto all’arco storico globalmente unitario tra ‘700 e ’900 e allo schema diegetico grossolanamente identico; ma fornite altresi, alla prova di un confronto testuale dei loro fondamentali elementi compositivi, di precisi e distinti connotati ideo-formali, che finivano con l’essere rivelatori di radicali diversità di ottiche, e per l'opposto, di profonda e interna omologia di ciascuna delle opere prese a campione, con le strutture mentali dei gruppi sociali’ con cui esse erano entrate in rapporto funzionale. In poche parole si era trattato, e si tratta, di cogliere l’indice di variabilità degli specifici esemplari di un modello narrativo di forte tenuta, e di distinguere la «fabula», o oggetto della narrazione, dall’«intreccio», o modo della narrazione*. Si tratta perciò di una rilevazione diacronica del tema in questione, di cui si va a verificare la storicità globale, alla luce di una comparazione testuale di opere scritte in tempi e da autori diversi, che si collocano però perfettamente, nonostante la loro irripetibilità specifica, nel medesimo schema unitario e nell’unico collettore tematico. Un tale impianto critico, che ha alle spalle l’asse dello strutturalismo sociologico di Goldmann, si incontra nella sua linea di svolgimento con il concetto lotmaniano del rapporto tra testo, contesto ed extratesto?, che considera le strutture del racconto nelle loro ra-
dicali e decisive quello del «gioco stoevskij ed altri) caratteri, figure e
trasformazioni nell’incontro con un tema (vedi d’azzardo» nella letteratura russa da Puskin a Dodi forte continuità e tenuta, per la fissità di taluni topoi, tipici di quella letteratura; vale a dire: forte
assenza di «società», o meglio di solidità sociale, sradicamento indi-
vidualistico del protagonista, gioco d’azzardo come figura del con‘ flitto tra individuo e mondo — come luogo del caso e dell’avventura-—,
esito per lo più tragico della vicenda che completa i tratti di
«destino» che incombono sul personaggio.
La dinamica dell’utopia
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Nel caso nostro, assistiamo ad una serie di passaggi di fase del mito dello stato di natura, dal suo nascere? a partire dal Settecento illuministico fino al suo storico consumarsi — come mito attivo — nella cultura novecentesca della crisi, vale a dire, nell’arco di una evolu-
zione storica che va dalle origini dell’età borghese nel suo costituirsi come coscienza antagonistica «ragionevole» e «naturale» al regime aristocratico, fino al suo esaurirsi di contenuti storico-propulsivi. Il salto che si opera è in definitiva tra la prospettiva ottimistica e utopica di un «guadagno» (o recupero) di «naturalità» e la coscienza della perdita di una tale prospettiva, anzi il rovesciamento di essa nel sentimento di una irreparabile décadence. Parallelamente è dato di osservare una trasmigrazione del tema in questione dal genere del romanzo (quello di Bernardin de Saint-Pierre, del 1788), connotato da una prevalente narratività a carattere didascalico e di ispirazione utopistica, che lo mette in relazione (come vedremo) con una ideologia e una letteratura omogenee (tra Rousseau e gli utopisti e narratori settecenteschi), per similarità, di temi (rapporto uomo-natura, apologetica dello stato di natura, critica della società) e di proposte riformatrici; al poemetto lirico, quello di Paolo e Virginia di Guido Gozzano, del 1910, tutto giocato su un registro ironico-sentimentale, ben diverso da quello idillico-narrativo del primo testo considerato”, al dramma: parlo del testo poco noto
di ]J. Cocteau e di R. Radiguet, Paul et Virginie, che è dramma moderno di idee, scritto sintomaticamente dopo il 1918, come libretto di un’opera lirica, progettata e non più composta da Erik Satie. Lo stato di natura non è più metafora letteraria di un «manifesto» illuminista secondo il modello di Saint-Pierre; non è più gioco lirico-parodico, secondo il modello gozzaniano, ma dramma esistenziale moderno, secondo uno schema in tre atti cosi distinti: 1° atto, Le pa-
radis perdu, che è rappresentazione della leggenda precapitalistica (tempo della favola), ma già offuscata dalla distruzione incombente; 2° atto, Chez les sauvages, che rappresenta la realtà dei rapporti di
classe, con i loro risvolti di violenza, egoismo e volgarità (tempo del presente); 3° atto, Le vrai paradis che coincide con l’etica esistenziali.
stica dell’essere per i/ nulla: il vero paradiso è dunque il nulla: la morte naturale della piccola famiglia di Virginia (i cui membri ad uno ad
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
uno la seguono nella tomba) si assolutizza ad emblema, e la morte nella sua ipostatizzazione è la morte-fine-della-storia: conclusione della parabola borghese ed esemplarità negativa del dramma decadente (tempo della morte). Negata la ciclicità del tempo, tipica della visione degli antichi, riconfermata l’idea moderna della linearità del tempo, questa risulta del tutto priva però dei requisiti positivi di una progressività illimitata della storia, per il prevalere di una idea del tempo come percorso abissale. Il referente tematico generale, lo stato di natura, nella configurazione particolare della fabula di Paolo e Virginia, subisce perciò, nel corso del periodo storico considerato, delle modificazioni sostanziali, diventando oggetto di differenti prospettive ideali, e «figura» di abiti psicologici e di comportamenti mentali di segno addirittura opposto; cosicché la fabula si presta come cartina di tornasole della rapida deperibilità di una idea che pure sembra appartenere all’ordine di certi modelli archetipici intramontabili?. Tale è l’arco di tensione, tra ascesa, culmine e caduta, della parabola di un tale mito,
nella dinamica impressa dalla modernità borghese, tra un punto iniziale di ricerca di nuova razionalità e un punto terminale di rifiuto della falsa razionalità di un progresso di cui si è sperimentato l’effetto micidiale e catastrofico. Veniamo al fatto. Il romanzo!° è noto, ma per comodità di argomentazione e per gli opportuni riferimenti al testo, voglio qui ricordare lo schema logico-temporale della fabula: Madame De La Tour e Marguerite, due donne con due storie d’amore infelice: l’una nobile viene diseredata perché si sposa con un uomo di condizione inferiore che muore di febbri pestilenziali a Madagascar; l’altra, di umile origine, viene abbandonata dal genti-
luomo che l’ha sedotta. In entrambi i casi la causa dell’infelicità sta nell’impedimento e nel danno provocati dai pregiudizi sociali sulla purezza e spontaneità del sentimento d’amore. Di qui la fuga dalla civiltà e il rifugio all’Ile de France, dove le due donne si conosceran-
no e dove nasceranno Paolo (da Marguerite) e Virginia (da M. De La Tour). Nasce l’idillio campestre, l’amore fraterno, la felicità pura della vita semplice, la frugalità dei cibi, ecc, ecc... Tali consuetudini
La dinamica dell’utopia
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pacifiche vengono interrotte dalla partenza di Virginia, chiamata a Parigi da una zia di Francia, ricca marchesa che la lascerebbe erede
dei suoi beni, a patto che sposi persona ricca e altolocata. Perplessità e definitivo rifiuto di Virginia, che dopo la parentesi parigina, fa ritorno all’Ile de France, ma in vista della costa annega, a causa del
naufragio della nave che la riportava alla sua terra e ai suoi cari. Alla morte di Virginia seguirà la morte di Paolo; delle due madri; dei due servi. Ora, il testo di Bernardin de Saint-Pierre è segnalato dalla critica che se ne occupa!', soprattutto in ragione della sua rilevanza letteraria e per il miracolo della sua compiutezza formale, pur presentandosi come prototipo! di quella narrativa di impegno ideologico, che fa la natura e i buoni sentimenti protagonisti esemplari del racconto. Certo, il modello ideale egemone è quello di Rousseau, ma la diffusione e lo sviluppo di un tal genere di romanzo che trova cultori un po’ dovunque, sono merito del Saint-Pierre; il culto del sentimento — ad esempio — in antitesi con il conformismo sociale, lo si ritrova in Chateaubriand, in Lamartine, in Byron, in Goethe, in Fo-
scolo ecc. L’esotismo attraversa l’intero secolo e arriva fino a Loti e a Gozzano per non citar altri; gli spunti e i temi narrativi, con l’alo-
ne e la suggestione del pittoresco, saranno largamente sfruttati, con tutte le variazioni e gli adattamenti che vedremo. Le indubbie qualità letterarie di un testo cosi nuovo, soprattutto per la felice sperimentazione di una pittura in prosa, le cui parole non ancora inventate vanno a coincidere con i colori, i suoni, gli odori di un’arte eminentemente visiva!’ contribuiscono efficacemente alla sua fortuna e al suo valore di modello. Ma io credo che la larga diffusione di un tal modello, sia da attribuire anche allo spessore ideologico che lo struttura e ai miti che vi sono inclusi. Il testo infatti si offre come esemplare particolarmente «facile» e amabile di divulgazione-mediazione idealizzante, non drammatica, di determi-
nati contenuti ideologici, che appartengono ad un intero gruppo intellettuale, egemonizzato dal modello alto di Rousseau; come riduzione cioè in chiave moderata, ottimistica e conservatrice di talune
tendenze riformatrici che potevano in tal modo toccare fasce di con-
senso più larghe; si offre, in definitiva, come importante punto di
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
incrocio di numerose tendenze ideo-culturali dell’epoca trascritte in figure-idee, in situazioni, in invenzioni, del tutto nuove rispetto ai moduli dell’idillio naturalistico e classicistico, risalente a Teocrito o
a Virgilio, grazie ad un acquisto di realtà, che si traduce in contenuto diegetico, in prosa di romanzo, in narrazione, del «vero». A questo si aggiunge un altro elemento di novità, rappresentato dall’urgere di contenuti extraletterari, tipici del romanzo utopistico e didascalico dell’epoca (da Rousseau a Sénancour, da Prévost a Goethe, a Thomson, a Deschamps), di cui ritroveremo numerosi motivi e spunti negli elementi compositivi del romanzo di Saint-Pierre. E tuttavia il romanzo del Saint-Pierre unisce al rigoroso adeguamento «alle strutture categoriali che regolano la coscienza collettiva», per dirla con Goldmann, una spiccata libertà inventiva: se c’è
un testo il cui «universo immaginario, del tutto estraneo, apparentemente all’esperienza empirica (quello ad esempio di un racconto di fate), può essere rigorosamente omologo — nella sua struttura — all’esperienza d’un particolare gruppo sociale o, almeno, può essere legato ad essa in modo significativo» (è ancora Goldmann), questo è Paolo e Virginia di Saint-Pierre, in cui convivono le spinte e le domande di una determinata realtà storico-sociale e la logica del tutto autonoma dell’«immaginazione creativa». È possibile rintracciare, ad una analitica selezione di passi e motivi del romanzo, puntuali riferimenti ai caratteri dei romanzi utopici del XVIII secolo in Francia. Mi riferisco non solo ai particolari connotati utopici del modello assunto da Saint-Pierre, ma anche a quella minuta descrizione degli elementi della quotidianità utopica presenti nel libro, e che Bazko!* ha individuato, attraverso uno spoglio
molto vasto dei romanzi dell’epoca. A prescindere dalla variazione di questi elementi in base allo specifico modello utopico, ciò che a noi interessa è dunque non solo il puntuale riscontro con i topoi fondamentali della narrativa utopica: 1) la linea del Viaggio-approdo-rifugio-Isola; 2) la fondazione di un ordine nuovo coincidente con un codice di natura e perciò legato al mito dell’età dell’oro; 3) elementi di messianismo e di religiosità di cui si fanno portatori i personaggi portavoce dell’autore (in Bernardin, il vecchio Saggio), ecc.; quanto anche i singoli segmenti di un progetto utopico, ricono-
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sciuti dal Bazko, nei motivi ricorrenti della narrazione del quotidiano nella tradizione del romanzo riformatore del Settecento francese,
e coincidenti con quel gusto minuto dell’immaginario collettivo, prefigurantesi un mitico disegno di vita antiurbana e un modello arcadico-pastorale. Le diverse componenti di questo modello, passate in rassegna dallo studioso, trovano puntuale riscontro nel romanzo di Paolo e Virginia: cosi il tema dei nuovi legami familiari, fondati non più su un codice di regole false e sui comportamenti corrotti della città, ma su una pratica vissuta, ispirata ad autentica amicizia, su principi di solidarismo e di fraternità, su di un eros assolutamente verginale, ignaro di lussuria e perversione!. Un altro tema cardine, quello di un nuovo tipo di educazione, trova nel romanzo una serie di riferimenti, in conformità ai nuovi
principi rousseauviani!*; e più in generale vengono puntualmente richiamati quei comportamenti nuovi indotti da un costume virtuoso, improntato a temperanza, a modestia, ad abitudini di vita solitaria,
che inducono gli uomini ad essere più umani, meno selvaggi, paradossalmente grazie alla lontananza dalla vita comunitaria!”; le forme del lavoro riconducono, in armonia con un codice di vita ispirato, come vedremo, al modello economico del primitivismo agrario, ad un ritorno alla natura, all’esercizio della pastorizia, di un’agricoltu-
ra primitiva, di un artigianato rudimentale!; ne consegue una alimentazione legata alle pratiche più primitive!?, rapporti di gruppo ispirati all’idillio sociale?°, un eros come espressione di una innocenza primitiva e quasi asessuato, liberato tanto dai divieti e dagli obblighi quanto dalla dissipatezza e dalla perversione ‘', innocente nella nudità dei corpi androgini, vago nella suggestione di idillio boschereccio, di delicata e inconsapevole sensualità nel suo panismo tripu-
diante”. Quanto al modello utopico”? c’è da specificare che quello di Bernardin de Saint-Pierre sembra ricalcare assai da vicino, per le evidenti analogie riscontrabili con il Deschamps, le idee di un riformismo sociale a base agraria, incardinato su un sistema di piccola proprietà, su una economia a scambio elementare, priva di commercio”* e di industria e contrario a grandi trasformazioni; non a caso si punta ad
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una educazione antiintellettualistica, sulla frugalità dei consumi, sull'alimentazione vegetariana, sul solidarismo sociale, si ha fede in un
provvidenzialismo che riflette un ideale di vita come ordine, stabilità, permanenza, una idea della felicità come quiete e saggezza, sacrificio e rinuncia”, si fa una scelta consapevole di moderazione: si preferisce — l’abbiamo visto — un eros dolce, fatto di naturale gaiezza, di amabile semplicità; si amano
sentimenti non artefatti, non
doppi, non sfrenati (tipo avidità, dominio, voluttà ecc.), bensi quieti, sereni, equilibrati, socialmente interclassisti: filantropismo, bene-
ficenza, assistenza, tali da premiare le ideologie fondate sull’accordo tra uomo e natura, ragione e fede ecc.? È estraneo al romanzo di cui ci occupiamo il modello alternativo a quello sopra descritto: quello cioè fondato su una economia di mercato, sul denaro, sul lusso, sui consumi, che incentivano la pro-
duzione e il benessere generale e inducono ad una concezione della felicità come dinamismo dei desideri, edonismo, movimento e azione inarrestabile, come è inarrestabile la perfettibilità dell’uomo, lun-
go il corso del suo divenire. Anch'esso fa appello allo stato di natura”, in quanto rivendica la naturalità dell’uomo: di un uomo però che ha in sé l’idea di evoluzione e la proposta di un ordine più giusto, più razionale, e perciò non artificiale e corrotto. Il tempo — secondo questo modello — diventa lineare, si ripudia la vecchia concezione degli antichi, il vecchio mito presettecentesco dell’età dell’oro, inteso come eterno ritorno governato da un ordine astrale; si afferma l’illimitata linearità della storia, che nella «querel-
le des anciens et des modernes» aveva ricevuto la sua prima anticipazione. Fontanelle già dichiarava: «Gli uomini non degenerano mai e le sane opinioni di tutti gli spiriti retti si succederanno e si aggiunge-
ranno sempre le une sulle altre»??. Ciò vuol dire che Bernardin seleziona e privilegia, sceglie e interviene con una particolare intelligenza del proprio tempo; ha fatto determinate opzioni ideologiche, in conformità con certe tendenze riformatrici e ad esse fa corrispondere omogenee strutture mentali e parallele figure dell’immaginazione personale: entrambe iscritte dentro una curvatura ottimistica, e non estranee a certe tentazioni
evasive, e comunque ostili ad ogni idea di progresso che sbilanci
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troppo il rapporto natura-ragione, e che si proietti perciò nel futuro senza calcolare abbastanza il rischio delle contraddizioni paurose che esso avrebbe poi di fatto aperto nel cuore della storia dell’Ottocento.
Di qui il lungo seguito di idee e di fantasie letterarie e la permanente suggestione che accompagna la lettura di Paolo e Virginia da parte di scrittori e poeti romantici. Presso i quali l’ideologismo utopico settecentesco funziona non più come progetto politico-riformatore, dotato di forti valenze pratico-civili, ma come occasione di fuga romantica in un «altrove» mitico, che si pone come alternativa e rivalsa, o come nostalgia di un mondo perduto, di «un lontano»
del tempo e dello spazio, in cui l’anima ritrova la sua patria, al posto e in contrasto con il volto duro e inamabile della realtà del capitalismo al potere. Lo stato di natura, in certo senso, si dilata e perde i suoi contorni di progetto, di «manifesto» (ricordiamoci della bella, ardita immagine, dell’abate di Saint-Pierre: «Abbiamo dinanzi a noi l’età dell’o-
ro!», cosi piena di candida e fiduciosa attesa del «prodigio»). Ora, lo stato di natura diventa luogo dell’anima, e dell’anima soltanto, terra
di elezione di spiriti liberi e solitari, di individui sradicati e sofferenti, di anime disperate, d’eccezione. Ad esse non basta più la sensibilità cioè la réverie al cospetto della ragione, ma hanno bisogno di sentirsi in preda ad un sentimento che spazia in luoghi selvaggi, senza freni, trascinate come sono da una tensione anarchica e individuali-
stica che non soffre confronti ed è incapace di accettare un qualsiasi ordine costituito. Lo stato di natura diventa proiezione di un anarchismo infelice e perseguitato, che inventa i suoi nuovi eroi in fuga dalla civiltà e dal mondo dei viventi, errabondi per boschi e contrade solitarie e lontane dove il sentimento si espande in tutte le sue recondite e paurose profondità. Nascono René e Atala di Chateaubriand, Aroldo di Byron, Jocelyn di Lamartine, e Werther e Jacopo, e i Bruto e le Saffo leopardiani, a cui il mondo è in odio, e che il mondo rifiuta, per la vergogna-privilegio della loro diversità, per la loro refrattarietà al
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fatto compiuto, ad un universo senza orizzonte, senza più lo spazio
del sogno. Il mito dell’età dell’oro, perdute perciò le sue valenze attive, si consuma ben presto nel corso dell’Ottocento e perde i suoi contenuti di pensiero, il suo legame profondo con la realtà storica e con le istanze della società, diventa funzione dell'immaginario, ma di una
immaginazione che potremmo chiamare di secondo grado, in quanto si esercita su se stessa ed ha per suo oggetto il sogno, senza alcun altro referente che non sia artifizio mentale, illusione letteraria.
Lamartine nel 1840 potrà dire: «Jo mi ricordavo sempre delle prime stampe dei poemi che rapivano i miei sguardi di bambino. Erano Paolo e Virginia, René, Atala. La stampa non era allora pervenuta a
quel grado di perfezione che la fa ammirare oggi indipendentemente dal soggetto. Queste immagini, ricavate da questi affascinanti poemi, erano grossolane e colorite con tutta la rozzezza dei colori più duri, più cozzanti. Era una poesia tinteggiata, colorita, ma era poesia. Io non mi stancavo mai di contemplarla sulle pareti della casa del vecchio curato del villaggio e nelle salette degli alberghi di campagna [già dunque degradati e transcodificati!] dove i venditori ambulanti avevano popolarizzato e fatto conoscere Bernardin e Chateaubriand. Io credo che quel po’ di poesia che è entrata nell’anima mia in quegli anni, è entrata di là. Io sognavo spesso e a lungo davanti a queste scene d’amore, di solitudine e di santità!»??. In Bel ami Maupassant nel 1885 colloca in una stanza del «Café du pere Duroy» due immagini colorate che rappresentavano Paolo e Virginia sotto una bella palma bleu e Napoleone I su un cavallo giallo. L’onda lunga di questa contraffazione oleografica di un mito dei più luminosi dell’età moderna varca i confini della cultura francese; anche in Italia, per esempio, Camillo Boito in una delle sue Storielle vane, Vade retro Satana, potrà contemplare «due litografie colorate,
chiuse tra filetti d’oro, l’una delle quali figurava Paolo e Virginia, l’altra la morte della fanciulla e l'amante che se ne dispera»”°. Come espressione di una cultura degradata, il mito si spoglierà del suo coté civile e riformatore, riducendosi a idillio erotico languido e malinconico, e alla fin finé un po’ risibile. Segno che il mito si è del tutto consumato, l’utopia è diventata realmente la terra assente,
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il «nessun luogo», l’improbabile Eldorado dell’immaginazione letteraria. Questo versante del mito, nella traduzione iconica che lo trasmette e lo volgarizza non doveva essere ignoto a Gozzano, e qualche critico”! suppone che gli sia pervenuta per il tramite di certe rivistine francesi presenti nella biblioteca civica di Torino. Ma il mito di Paolo e Virginia”, e del resto anche gli altri miti e immagini del passato, sono la misura interna della poesia di Gozzano, quella che ne determina il tono e il ritmo, anzi sono la condizione primaria del suo nascere. E perciò il modello di Paolo e Virginia, pervenutogli da una lunga tradizione letteraria e figurativa, si inserisce perfettamente nel cerchio del suo universo e ne assume le ambiguità e le reticenze, i giochi e le contraddizioni, mutando
stile e strutture, diventando
pretesto e occasione di quel gioco combinatorio, peraltro serissimo, che governa la sua studiatissima poesia; manipolazione di poetico repéchage della memoria e distacco ironico e antifrastico, di partecipazione sentimentale e di riduzione parodica, non esente dal gusto di una trasgressiva e scettica dissoluzione dei valori. La poesia di Gozzano presenta — com’è noto — numerosi ricalchi di testi poetici altrui ed è tutta allusiva di una dimensione lirica «altra» su cui si esercita la sua sottile azione corrosiva. Per citare due soli esempi, ricorderò L'ipotesi, che è parodia del mito dell’Ulisse dantesco, e Invernale che, ancora una volta, si serve
di velature ironiche per ridersi di una materia eroico-sublime ed operarne il rovesciamento: a farne le spese è qui l’ulissismo e il superomismo nicciano e dannunziano”. In Paolo e Virginia il modello è esplicitamente dichiarato tanto nel titolo che nel ricalco del racconto, ma i risultati sono meno cla-
morosamente parodici, grazie alla maniera molto più sfumata con cui il poeta fa convivere il doppio registro di cui si diceva. Infatti in Paolo e Virginia, che— non dimentichiamolo — è la poesia in cui egli dichiara di averci messo tutto se stesso, egli riduce al minimo l’elemento artificiale e parodico, ed infatti l'ironia vi appare in forma assai occultata, perché il patetico del sentimento prenda sfuma-
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ture più seducenti e credibili. Qui il doppio movimento di identificazione mimetica (nel passato) e di rovesciamento parodico (dello stesso), vive in un equilibrio difficilissimo? su cui si gioca tutta l’abilissima costruzione lirico-narrativa del poemetto. Le tecniche di racconto che Gozzano mette in atto si fondano sul continuo interscambio tonale, su una scala che raggiunge tanto le note più acute e più stridule che quelle più gravi e dolci, e sul rinvio dell’onda melodica al «falsetto» dell’opera comica e viceversa, cosicché se ne riceve una impressione di perplessità e di ambiguità, di falso movimento e di instabile equilibrio tra coppie di opposti. Si tratta dello iato insanabile tra presente e passato, tra aridità presente e passato dei buoni sentimenti, tra «la vita semplice degli avi» e «la gara che divampa nel triste mondo» («quella cosa tutta piena/ di lotte e di commerci turbinosi» come dice nella Signorina Felicita) tra il «tempo dei saggi ammonimenti» e dei «forbiti esempi» e dei «semplici ideali» e il «sogghigno» dell’«anima corrosa», del «cuore che non fiorisce più», che «porta il lutto a tutto ciò che fu». Di qui l'ambiguità del «doppio» Guido-Paolo, figure dell’io scisso del poeta dalla perduta identità («Io fui Paolo già», «Il mio cuore è laggiù,/ morto con te»; «rivivo tempi già vissuti e posso/ piangere (ancora!) come uno scolaro...». «Ah! Se potessi amare! Ah! Se potessi / amare, canterei si novamente!», sbilanciato tra enfatico traspor-
to nel sogno e il gelido sogghigno dell’aridità presente, tra nevrosi dell’immaginazione e svuotamento del presente, anzi di morte al presente («Amore che ritorni e sei la Morte! Amore...Morte...»). Cosi, io dell’autore, io narrante, io protagonista coincidono per
esprimere al meglio la loro scissione e per assumere su di sé l’intero carico lirico della favola, che nel racconto di Bernardin era affidata,
invece e non casualmente, alla voce narrante del Saggio, portavoce, come si è visto, di una filosofia stoica e serena che include la storia
dei due amanti in un ritmo pacato di saggezza cristiana, in un disegno provvidenziale ispirato al quieto ottimismo di una cultura riformatrice. Allo sdoppiamento dell’io qui corrisponde la doppia dimensione del tempo: quella del passato e del sogno, vaga e lieve nella labile fuga degli imperfetti, nell’incanto assorto delle pause, nella sospirosità
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degli esclamativi, nelle reticenze dei punti di sospensione; quella del presente, che è tempo dell’aridità, del vuoto del sentimento, della morte al sogno, all’amore; tempo di assenza del racconto, di assenza
di protagonisti, tempo vuoto dell’io poetico che scandisce nei brevi segmenti sintattici («Morii d'amore. Oggi rinaqui e vivo, ma più non amo. Il mio sogno è distrutto / per sempre e il cuore non fiorisce più»), e nella paratattica disposizione dei verbi, la secchezza e la povertà del presente, la sua assenza di storia, l’irrealtà, l’insensatezza
della «favola mentita». L’io ripiegato, chino sul suo sogno, «ebbro e commosso» di letteratura, riconosce la sua inautenticità, la sua irrilevanza; sperimenta l’irrealtà, la fine del sentimento.
E perciò, tutto il vivo contenuto di ragioni morali, religiose, filosofiche, sociali di cui era nutrita la favola settecentesca di Bernardin,
per l’ottica particolare in cui si pone l’io del poeta, finisce per restare sullo sfondo, ridotto a povera materia di cartapesta, a fondale di teatro, a consunto paesaggio di maniera, a stampa incorniciata in nero. La visione risulta enfatizzata in tutta la sua idealizzata irrealtà, nella coscienza di una distanza irrimediabile dal vero. L’evocazione, retorica e toccante, della «patria perduta», è consapevole fiction, in-
ganno della mente. Topografie, eventi, costumi, persone, passioni — amore, dolore — nient'altro che nomi, affabulazione letteraria,
gioco dell’immaginario, fatto di parole, di nomi, di simboli e metafore, di segni impressi sulla pagina: «Troppo mi scuote / il nome di Virginia. Ebbro e commosso / leggo il volume senza fine amaro; / chino su quelle pagine remote... / rivedo gli orizzonti immaginari / e favolosi come gli scenari... / risorge chiara dal passato fosco / la patria perduta / che non conobbi mai, che riconosco...». L’abbandono lirico è tenuto sotto controllo dagli scarti minimi di un’ironia che interviene a «falsificare» il racconto con l’enfasi melodrammatica delle reiterazioni anaforiche, con aggettivi, epiteti, figure, recitati appena un tono più su del naturale. «Virginia, ti rammenti
di quella senpiterna primavera? Rammenti i campi d’indaco e di the,
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e le Missioni e il padre e il Viceré, quel Tropico rammenti, di maniera,
un poco falso, come piace a me? Ti rammenti il colore del Settecentesco esotico, l’odore
di pace, filtro di non so che frutto / e di non so che fiore / ilfiltro che dismemora di tutto?...»
L’increspatura dell’ironia illeggiadrisce di un sorriso infinitamente malinconico anche i momenti alti della tragedia e sostiene, come una pinza, l’onda del canto, ne impedisce le cadute sentimentali,
magari con il ricorso ad un eccesso semantico, ad un sovrappiù di commozione, che omeopaticamente guarisce le ferite: Or ecco sollevarsi la Tempesta, una tempesta bella e artificiosa come il Diluvio delle vecchie tele. Appaiono le vele del San Germano al balenar frequente, stridono procellarie gemebonde, albàtri cupi. Il mare si confonde col cielo apocalittico. La gente guata la nave tra ilfuror dell’onde. Tutto l'Oceano Indiano ribolle spaventoso, ulula, scroscia,
ma sul fragore s’alza un grido umano terribile d’angoscia: Virginia è là! Salvate il San Germano!...
Ma, ad impedire che il poeta caschi nella goffaggine di una clamorosa parodizzazione, c'è un luogo forte di resistenza: l’immagine di un universo puro, innocente, iniziale, tutto nature, la nostalgia di
un amore naif di due «adolescenze ignare e belle», l’attaccamento ai buoni sentimenti, che il «giovine romantico» vagheggia nel suo «sogno chiaro». Di qui lo spicco e la ridondanza che prende nel poemetto la materia sentimentale, sia pure sottoposta a straniamento melodrammatico, anzi l’esaltazione ambigua dell’elemento sentimentale dell’a-
more, che occupa pressoché l’intera estensione delle dieci strofe e trova il suo momento culminante nelle ultime due, in cui si com-
pendia tutta la verità-autenticità lirica del componimento, tra l’inci-
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pit della IX strofe, di vaga suggestione tassesca* unita ad una mollezza lirica marcescente, di stile liberty e modernamente parnassiano: «Era l’alba e il tuo bel corpo travolto stava tra l’alghe e le meduse attorte, placido come in placido sopore. Muto mi reclinai sopra quel volto dove già le viole della morte mescevansi alle rose del pudore... e la disincantata confessione della X strofe:
Morii d’amore. Oggi rinacqui e vivo, ma più non amo. Il mio sogno è distrutto per sempre e il cuore non fiorisce più
[...]
Il mio cuore è laggiù, morto con te, nell’isola fiorente,
dove i palmizi gemono sommessi lungo la Baia della Fede Ardente...
[...]
Amanti! Miserere, miserere di questa mia giocosa aridità larvata di chimere!
In sintesi allora possiamo concludere che Gozzano, all’unisono con la nuova sensibilità moderna, ha concepito la storia già nota in ben altro modo. La narrazione si è contratta, le strutture diegetiche del racconto si sono essenzializzate, riassunte ellitticamente nella di-
mensione della memoria lirico-ironica. Il tempo non è più quello unitario del racconto di Saint-Pierre, ma quello doppio della memoria gozzaniana che gioca sull’attrito delle due dimensioni, sull’antitesi passato-presente. Muta anche e si rovescia la prospettiva del punto di vista dello scrittore: l’età dell’oro non è più dinanzi ai protagonisti della favola, ma s'è arretrata verso il più remoto passato, nella profondità della leggenda («la patria perduta / che non conobbi mai, che riconosco...»). Il narratore della storia non è più il Saggio che trasmette un positivo contenuto di pensiero e propugna una sua filosofia perfettamente solidale con il racconto, ma lo stesso io del protagonista che
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si è dissolto nell’io del poeta moderno, straniato nella sua condizione di scissione e di inautenticità. A voler riprendere a questo punto, in esame il terzo testo in questione, Paul et Virginie, di Jean Cocteau e di Raymond Radiguet, si può rilevare come in esso — superate le inflessioni parodiche e sentimentali del poemetto gozzaniano — si proceda più avanti nella catena delle negazioni, con lineare coerenza di deduzioni. Ci troviamo
in presenza di un dramma di grande esemplarità negativa. In esso vengono infatti riprese le intenzioni didascaliche e dimostrative del romanzo di Bernardin, ma l’insegnamento contenuto nel dramma moderno è del tutto opposto. i Qui — lo si è detto in principio — si riconferma — senza possibilità di fughe liriche — la scomparsa del mito; esso è Paradiso perduto fin dall’inizio, fin dal momento in cui l’arrivo dei mercanti, vale a
dire del denaro e del profitto, ha separato gli uomini in sfruttati e sfruttatori: lo stato che garantisce questo patto, è uno stato selvaggio e le sue leggi sono ormai irreversibili. Non vale vagheggiare ciò che non è più. Meglio vale il morire, perché il paradiso da ritrovare è il Regno del nulla, e in esso non ha luogo la paura e la morte, come recita il coro nel Chant de Virginie: TOUS
Les morts seuls sont en vie Car ils ne meurent pas Nous n’avons plus envie De retourner là-bas
Les morts seuls sont en vie Car ils ne meurent pas VIRGINIE Rejoignez Virginie Dans le charmant trépas Tous les humains à petits pas Marchent vers le secret auquel je vous convie Les morts seuls sont en vie
Car ils ne meurent pas
La dinamica dell’utopia
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TOUS
Dans le charmant trépas Vivre avec Virginie VIRGINIE
Vous boirez, vous coudrez, vous prendrez vos repas Tout se passe comme la vie Mais les vivants ne vivent pas
Il dettato del testo qui si fa nudo ed essenziale, raggiungendo una paradossale trasparenza di messaggio: solo i morti sono al sicuro, perché ad essi non tocca più di dover morire, «Car ils ne meurent pas»; e perciò essi non han più voglia di tornare laggiù, nel regno dei vivi; i morti solo restano in vita, ad essi nessuno potrà più togliere la vita; affascinante è perciò il trapasso verso quel regno dove tutto accade come in vita, ma con il vantaggio di non essere più in vita, di non dover più subire una tale maledizione: «Tout se passe comme la vie / Mais les vivants ne vivent pas». Vitalità e morte di un mito, sua permanenza e sua trasformazione sono effetto perciò di una tensione ideale che si misura sempre con il tempo della sua caduta, cioè con le regole di una realtà con cui confligge, conservando — nonostante l’inevitabile collisione con la storia — la sua intatta capacità di rimodellizzare il progetto e di riproporre,
nella sua costante proiezione in avanti, risposte nuo-
ve — né migliori né peggiori — alle condizioni poste dal presente degli uomini, in una partita che lascia aperte al futuro le sue potenziali, e sempre provvisorie soluzioni.
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Epifania, morte e rovesciamento parodico dell’Ulisside*
Per una lettura tematica del mito di Ulisse nel Novecento letterario italiano occorrerebbe iniziare da un censimento delle fonti e dei motivi mitici utilizzati dai moderni. Ciò ci servirebbe non solo per misurare il tipo di fruizione del modello (metafore, temi, motivi,
episodi prelevati con maggiore frequenza dalla leggenda in questione), da parte degli autori di cui ci occupiamo, ma per comprenderne le ragioni della flessibilità, e dunque della vitalità, lungo il corso storico. Ci limitiamo invece a farvi sommari riferimenti, quando occorre; a valutare meglio angolazioni e prospettive, le opzioni ideali, insomma, che guidano le strategie di re-invenzione della materia mitica,
nella ripresa forte del mito nella cultura del Novecento. Venendo ora, da tali brevi premesse, al nostro argomento, riconosciamo subito, ad occhio nudo, al di là della dipendenza e della
parentela ideale, tra modello consegnato dal romanticismo e utilizzazione novecentesca, una vigorosa immissione di significati nuovi all’interno dello schema mitico tradizionale. Vale a dire che siamo in presenza di una situazione culturale rilevante, in concomitanza con la crisi di fine secolo, che attua uno slittamento ulteriore! della
*
Scritto in tempi diversi questo saggio unisce l’analisi di Invernale (L’ulisside rovesciato in «Invernale» di Gozzano, in «Fragile», n. 1, 1983) e parte di una relazione (1991) per il Cidi di Bari sul mito di Ulisse nella letteratura contemporanea.
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
fabula, ridisegnandone il senso e dando luogo ad una nuova trasmutazione mitico-simbolica. Ma ancora più interessante è il fatto che, nell’estrema contraddittorietà delle scelte ideologiche della cultura della crisi, assistiamo a letture assai diverse del mito stesso, corri-
spondenti alle varie opzioni ideali della ricerca e dell’esperienza artistica. Vogliamo dire in D'Annunzio, in Pascoli, in Arturo Graf, in
Gozzano, per parlare soltanto di alcune voci più significative di casa nostra. Vediamo intanto D’Annunzio. In lui questa vistosa progressione mitica trova una spinta tanto più determinante, quanto più povera di reale capacità mitopoietica, perché quella che è stata chiamata la sua «forsennata propulsione mitologica» 2. viene immediatamente funzionalizzata a soluzioni di tipo praticistico, nemmeno tanto occultato dall’involucro retorico. Il mito e tutto il suo apparato di tòpoi e metafore diventa funzione, ossia mezzo di trasmissione ideologica, e insieme suo effetto, nel senso che se ne informa e se ne mo-
della, piegandosi nel suo significato ad un attivistico programma di rivincita sociale, consapevolmente esibita, come mostrano numero-
si luoghi dell’opera dannunziana che ovviamente non cito. Una rivincita che si affida, come sappiamo, alla «potenza e allo splendore dei suoni», a quella parola poetica che è «mitica forza» della stirpe (di cui D'Annunzio si elegge campione), «fertile in opre e acerrima in armi», e che è invocata a recare il «rapido oblio della pena assidua e del duro bisogno» (dunque pena e bisogno ben materiali) e «il nepente del sogno» e «il lume d’un astro novello» ed altre squisitezze di questo genere. Aura
poetica,
vaticinio,
esibizione
aristocratica
della
Paro-
la— tutto questo diventa allora, nelle sue intenzioni, attuazione di un culto, quello della bellezza?, e vero e proprio progetto di quella rivincita spiritualistica della cultura che contrassegna gli orientamenti dello spirito pubblico, attorno alla fine del secolo e agli inizi di quello nuovo. In sintesi — come dice Leone de Castris — una tale rivincita partecipava a suo modo di un’operazione più articolata e complessiva, che mediava ideologicamente il rifiuto-terrore delle nostre classi domi-
Epifania, morte e rovesciamento parodico dell’Ulisside
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nanti per l'avanzata delle masse nei conflitti sociali e per la nascente organizzazione politica del movimento operaio; e insieme mediava l’angoscia subalterna dei ceti medi, intellettuali compresi, vittime degli squilibri in-
dotti dal profondo mutamento dei processi produttivi nei decenni successivi all'Unità, e sollecitati — dalla stessa crisi di identità di ruolo socia-
le — a una sfiducia paurosa del nuovo e al bisogno confuso di stabilità e di risarcimento ideale. Garantita dalla «letterarietà», l'operazione dannunziana fu il livello più basso, l’impiego più plateale e compromesso — ma proprio per questo talora anche il più utile e dinamico, com’è accaduto in altri settori della egemonia capitalistica — di un grande fronte culturale, di una strategia oggettiva, che, di fronte alla cultura della crisi, impe-
gnata nella denuncia e nella rappresentazione critica di un disagio reale e nella interrogazione dialettico-analitica della crisi medesima della coscienza borghese (Svevo e Pirandello almeno: onde la loro sostanziale sfortuna), andava restaurando e offrendo una immagine formalmente pacifica e razionale del mondo...
L’universo mitico allora diventa un inventario di immagini e di luoghi retorici, «il guardaroba dell’eloquenza», come è stato chiamato, per mettere in atto il piano epifanico del Vate, che esibisce tutto ciò che è eccezionale, trasfigurato, iperletterario, astratto, tutto ciò
che allontana dai luoghi veri (ecco il «nepente del sogno»), dai rapporti umani effettivi, dalle più autentiche esplorazioni della crisi della coscienza moderna e delle sue ragioni, per rivelare il «prodigio del mondo». Si spiega allora la coincidenza di arte e vita, di azione e
scrittura. Essa permette un fatto inusitato, quanto grottesco: l’epifania dell’io poetico sotto le mentite spoglie dell’eroe mitico. Il poeta stesso, in prima persona, in una multanime reincarnazione dello spirito degli eroi e degli dei dell’antichità, invocando le forze del cielo della terra del mare, dà inizio alla nuova navigazione, in una sete affermativa di universo‘, in un inno-tripudiante alla Vita, apostrofato con forte impulso anaforico ed esclamativo, nel lungo incipit della Laus Vitae. L’azione del poema ha struttura debole e disarticolata, tutta in-
gessata in blocchi ideo-tematici tipicamente dannunziani. Per comodità del lettore ne tentiamo un sommario. Mitica elezione alla vita sublime — schema di una prosopopea panica dell’io poetico — iniziazione al viaggio eroico nei territori del mito — aura numinosa estatica e tripudiante — pellegrinaggio devoto verso la Grecia e apparizione dell’eroe navigatore Ulisse — con-
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Lo spazio poetico di Guido Gozzano
cessione della sua investitura alla: novella impresa dell’Ulisside — compito di recupero da parte del poeta del passato mitico della Grecia — visita ai suoi luoghi sacri e remoti, lontani dal presente e non contaminati dal lezzo e dall’orrore delle città terribili — i luoghi della corruzione e della degradazione bestiale — confronto tra civiltà antica e nuova civiltà della macchina — la positività del presente — lode della bellezza della macchina e della perfezione tecnica— suo dominio sulla natura — superamento delle leggi fisiche — sacralizzazione del presente ed esaltazione del capitalismo e della borghesia — celebrazione dell’oro, del potere, della violenza e del dominio — disprezzo della turpe animalità del gregge degli schiavi — bestiale tripudio dionisiaco ed eccitamento allo scontro irto di baionette («la muraglia irta di lame e di lance») — sublimazione del potere nella sovranità della parola poetica interprete della stirpe — il mito come vincolo sacrale tra passato e presente — la mediazione superiore della Parola poetica — autocelebrazione del poeta-vate. Il mito di Ulisse — ricorrente numerose volte nella Laus Vitae — ha il compito di sostenere e sacralizzare l’avventura eroica del viaggio di iniziazione del poeta verso l’antica Grecia, onde ripristinare il dominio della Bellezza e della Parola poetica sul mondo moderno insidiato dalla nuova moderna barbarie proletaria, rappresentata con i toni più truculenti e sguaiati. Egli, il protagonista dell’azione eroica, dalla multiforme e prometeica esperienza, si presenta, moderno Ulisse, come colui che non conosce né limiti né divieti; al quale nessuna cosa è aliena, che ha anima «tesa come arco», «vigile ad ogni soffio», «intenta ad ogni baleno», «sempre in attesa», «pronta a ghermire» ecc.: riassuntiva-
mente il poeta può dire che «in ogni luogo, in ogni evento la sua anima visse come diecimila» e ancora: Tutto fu ambito e tutto fu tentato. Ah perché non è infinito come il desiderio, il potere umano?
[al Tutto fu ambito, e tutto fu tentato.
Epifania, morte e rovesciamento parodico dell’Ulisside
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Quel che non fu fatto
io lo sognai; e tanto era l’ardore che il sogno eguagliò l’atto [...]
onde il poeta può a buon diritto incoronarsi «imperialmente / sopra le sue sorti / e ascendere il trono / della sua speranza», e pervenuto al culmine della sua esaltazione egoarchica e del suo delirio smodato di potenza può esclamare: O mondo, sei mio!
Ti coglierò come un pomo, ti spremerò alla mia sete, alla mia sete perenne. E d’essere un uomo più non mi sovvenne, poi che il mio cuor palpitava su la terra e nel cielo con un palpito si grande.
LA
Una bellezza indicibile io sentia spandersi per le mie membra, come chi trasfigura.
[oa
Non è un caso che a significarne il valore, il D’Annunzio faccia ricorso ancora una volta all’Ulisse di Dante, e cioè al mitico eroe della conoscenza, e ne esalti lo «spirito insonne» che «mette sé nel
turbo delle sorti» e che sembra qui niccianamente aggiungere forza a forza, e moltiplicare le potenze dell’anima, signora di se stessa, in un superumano slancio di sé su se stesso, spinto oltre ogni limite: Ei naviga alle terre sconosciute, spirito insonne. Morde, ancora sola, i gorghi del suo cor la sua virtute. [5] O tu che col tuo cor la tua carena contro i perigli spingere fosti uso dietro l’anima tua fatta sirena,
in fin che il mar fu sopra te richiuso!
[...]
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Lospazio poetico di Guido Gozzano
E nella stessa solitudine eroica, lo incontrerà sul mare di Grecia,
accingendosi l’eroe moderno al viaggio: Sol con quell’arco e con la nera sua nave lungi dalla casa d’alto colmigno sonora d’industri telai,
proseguiva il suo necessario travaglio contro l’implacabile mare,
(E)
ed in lui, in Ulisse, il poeta si riconosce e si identifica, in un supre-
mo atto di superbia, in una egolatrica esaltazione titanica del suo patologico narcisismo: [...] E io tacqui
in disparte, e fui solo; per sempre fui solo sul Mare. E in me solo credetti. Uomo, io non credetti ad altra
virtù se non quella inesorabile di un cuore
possente. E a me solo fedele io fui, al mio solo disegno,
[...]
e si riconosce «Titano solitario, infallibile, che a sé prega» — faustianamente — «la morte nell’atto»: Contra i nembi, contra i fati,
contra gli iddii sempiterni, contra tutte le forze che hanno e non hanno pupilla, che hanno e non hanno parola combattere giovani sempre con la fronte e col pugno con l’asta e col remo col governale e col dardo per crescere e spandere immensa l’anima mia d’uom perituro su gli uomini che ne siano arsi d’ardore nell’opre dei tempi. Sol una è la palma ch’io voglio
Epifania, morte e rovesciamento parodico dell’Ulisside
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da te, o vergine Nike: l'Universo! Non altra. Sol quella ricever potrebbe da te Odisseo che a sé prega la morte nell’atto. ES]
Egli porta cosi a compimento la sua epifania mitica. Spero che risulti chiaro come tra l’oltre uomo (secondo la traduzione di superuomo del Montinari) di Nietzsche e il superuomo di D'Annunzio corra una distanza pari alla profonda estraneità della tormentata veramente solitaria esperienza di pensiero di Nietzsche dalla narcisistica ed ipertrofica celebrazione dell’io di D’Annunzio,
i cui mari e deserti sono soltanto dilatazione enfatica alla voracità sensuale della sua insaziata avventura, e vuoto e velleitario spazio di un sogno di illimitato dominio. Viceversa questo suo sogno suppone il plauso ammirato di turbe di popolo, prone e rapite ai suoi piedi di condottiero e di vate. Folle di cui ha bisogno per esaltare e ricaricare la sua velleitaria aspirazione alla grandezza. Il superuomo di Nietzsche è figura filosofica sentita e sofferta, poco incline ad accettare il proprio tempo, aliena dal successo e dal piacere sensuale, solitaria e inattuale. La sua «inattualità» era infatti il senso angoscioso di uno smarrimento del tempo presente, odio e disprezzo del passato reso inaccettabile per la distorta interpretazione monumentale o antiquaria che se n’era data; esattamente il contrario della visione «mitica» ed iperletteraria di D'Annunzio, adoperata tra l’altro come culto autoritario della tradizione. In D’Annunzio perciò il superuomo è amore dell’apparenza, della posa, del bel gesto, dell’idolatria della forma e della parola, lo abbiamo visto. Il suo superuomo è rimozione della realtà. E le sue immagini sono smaglianti e fittizie, il suo olimpo di dei e di eroi è inesorabilmente di cartapesta, nonostante i bagliori rutilanti, non già perché tentano l’inesplorato, in un novello viaggio verso l’ignoto, bensi perché azzardano un surrettizio recupero dell’irrecuperabile, in un elusivo e sproporzionato tentativo di far corrispondere il gesto, sempre ridondante e magniloquente, ad una situazione reale ben prosaica e angusta quale quella dell’Italia umbertina. Di sproporzione parla anche il Salinari?:
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Lospazio poetico di Guido Gozzano
[...] la sproporzione, nel superuomo, fra gli obiettivi e le forze per raggiungerli, fra il desiderio e la realtà, fra la tensione spasmodica della volontà e la sua capacità di concretarsi e autolimitarsi. Iltratto distintivo del superuomo (e dell’opera dannunziana) apparirà, cosi, il velleitarismo. Un velleitarismo alimentato nelle cose dal contrasto fra un’illusione storica propria di vasti gruppi d’intellettuali e la realtà italiana. Un velleitarismo a in D’Annunzio si nutre anche del contrasto fra l’infinito proiettarsi della sensualità e il suo pratico soddisfacimento, fra la tensione dello stile e il raggiungimento dell’espressione, fra l'aspirazione a una posizione europea e le radici culturali abbastanza modeste e superficiali. Voglio dire che quella sproporzione è, innanzi tutto, un fatto storico, reale, che s’incarna nel nazionalismo passionale e retorico cui abbiamo accennato e di cui la megalomania di Crispi fu la prima espressione politica. Ed è, inoltre, una caratteristica della sensualità dannunziana imprigionata in una spirale senza fine in cui il vagheggiamento di sempre nuove sensazioni supera continuamente il desiderio e mai lo appaga; è nella struttura intellettuale di D’Annunzio cosi povera — anche rispetto a Nietzsche — di ragioni ideali, di pathos morale, di polemica culturale;è infine nel suo stile, almeno nei moduli più diffusi e vulgati, in quel lussureggiare d'immagini e di suoni, in quella sovrabbondanza di parole, che crescono e quasi s’inseguono senza mai raggiungere una vera pacificazione nella pienezza espressiva, un vero ritmo, una vera musica. D’Annunzio, insomma, alla stessa guisa di Crispi, maneggia «una colubrina come fosse un moderno pezzo d’artiglieria».
Detto questo, ci sembra ormai chiaro che, una volta raggiunte queste rarefatte regioni superumane, il mito di Ulisse ha toccato una soglia di non ritorno. Scenderà si, ma ben umiliato da quelle plaghe astrali, ma solo per toccare una terra più desolata, dove ormai non hanno più luogo sogni di potenza, e i confini del mondo si saranno ristretti ad un presente che può far paura. Siamo cioè di fronte ad uno spazio che si restringe, ad un orizzonte che sbiadisce e sconfina nel nulla, che costringe l’azione a ripiegarsi su se stessa, nella ango-
sciata esplorazione di un mistero che abita dentro e fuori dell’io. L’unica chance concessa all’io è quella di esorcizzare l’inquietudine con la maschera riparatrice dell’ironia. E siamo con ciò al Pascoli e al Gozzano. Intanto il Pascoli. Nei suoi due Poemi conviviali dedicati al mito di Ulisse (// sonno di Odisseo e L’ultimo viaggio) il poeta misura fino in fondo la parabola di un definitivo e totale fallimento dell’eroe. Il mito in Pascoli funziona come rilevamento «nobile», «prezioso» di
un disagio dell’anima di fronte al momento della minaccia e della
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rovina del valore supremo della civiltà, rappresentato dall’Arte e dalla Bellezza. Ma la sua regressione al passato, la sua nostalgica fuga verso il mito e il mondo classico, rivissuti nella cifra colta di un preziosismo che è stato definito «liberty», dicono sgomento e segno della fine; ma, nella compiaciuta ed estetizzante, e direi snervata stanchezza dei modi decadenti dei Conviviali, è implicita una ideologica riaffermazione della superiorità artistica ed una sottile insinuazione di elitarismo, come valore che si vuole opporre all’avvento del brutto,
del prosaico e del volgare, rappresentato dalla nuova barbarie della massa proletaria: che era poi il programma del «Convito» di cui Pascoli e D'Annunzio erano i più prestigiosi collaboratori. In Pascoli agisce un sentimento dominante, che è quello della delusione e della rinunzia. Il suo eroe è uno sconfitto, ha coscienza di
essere giunto ad un punto terminale del viaggio, oltre il quale c’è il deserto, il vuoto, il nulla. «Il suo Odisseo non ha nulla che ricordi, nemmeno
di lonta-
no, — sostiene il Braccesi — quanto all’ispirazione, quanto al sentimento della vita che vi si manifesta, né l’Ulisse di Dante né quello faustiano del Tennyson, né quello addirittura nietzschiano del D'Annunzio. Anzi l’Odisseo del Pascoli ne sembra un’immagine capovolta». Non ha nulla, possiamo aggiungere, neanche degli eroi del mondo greco, e tuttavia il suo travaglio suppone il faustismo del
mondo moderno”. Le prospettive dell’azione però si sono rovesciate: l’iter della conoscenza si è concluso, il lungo anelante cammino, quel «soffio possente di un fatale andare» approda in Alexandros ad una «errante e solitaria terra, inaccessa» (la luna), ad un’ultima sponda, a quell’«ultimo fiume Oceano, senz’onda», oltre il quale c’è il Nulla. Non c’è
dunque altro spazio all’azione, ma «l’infinita ombra del vero» (dove il «vero» è da intendersi positivisticamente per il «fenomeno» e «l’infinita ombra» per l’inaccessibile e misterioso noumeno). E da questo punto terminale della Storia, si odono ormai soltanto paurosi echi di Apocalisse: Egli [Alexandros] ode belve premere lontano
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Lospazio poetico di Guido Gozzano
egli ode forze incognite, incessanti passargli a fronte nell’immenso piano, come trotto di mandre di elefanti
li
Questo orizzonte indefinito allude al vacillamento dell’antico ordine, e l’eroe non può che tentare direzioni a ritroso, come vedremo
subito. AI fondo della sua inquietudine c’è la coscienza smarrita di una condizione permanente di esilio, di estraneità al mondo. C'è la constatazione desolata che tutto ciò per cui ha acquistato gloria, fama, amore, conoscenza, cioè l’universo eroico, la tensione inesausta, il
gesto generoso e gratuito teso verso l’affascinante regno dell’ignoto,
tutto ciò è illusorio, perché incompatibile con il mondo reale e presente, cioè con le regole e le pratiche di vita di una società mercantile e affarista, ordinata al raggiungimento dell’oro e fondata su principi di utilità borghese. Il mondo cosi com'è, insomma, ripugna al sublime pascoliano, che sentendosene contaminato, si trasforma in estetismo «come contrassegno di elezione». Lo spazio dentro cui si anima il dramma dell’Ulisse pascoliano
consiste appunto nella coscienza di questa sfasatura insanabile tra realtà positiva (con tutto ciò che in essa si include di disvalore e barbarie nella crisi della società borghese) ed esemplarità eroica, che investe invece sul rischio e sull’avventura, senz'altro guadagno che la Gloria e la Poesia, che sublima nel suo canto le gesta eroiche. Messe a confronto le due sfere, quella del reale e quella dell’eroico, denunziano uno iato, una spaccatura profonda, a tutto danno
però del modello eroico di vita, che alla fine risulta illusorio. Ciò provoca senso di smarrimento, dubbio sulla effettiva consistenza del passato eroico, perdita del fine, sentimento di sconfitta e di esilio, e
dunque, dura presa d’atto d’esser vissuto invano, anzi d’esser stato privato non già soltanto di quei valori, in cui ha creduto, ma anche
della sua stessa identità, del suo Io eroico, al punto che vorrebbe
non essere mai nato, come la maga Calipso dirà pietosamente sul suo corpo esanime. Va da sé allora che la riproposta del mito di Ulisse, da parte del Pascoli, scarta senz'altro la via di una dizione energica, affermativa,
Epifania, morte e rovesciamento parodico dell’Ulisside
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tutta erezione vitalistica e concitazione panica, e si declina invece in accentuazioni negative: La negazione costituisce — dice Barberi Squarotti* — la sigla dell’azione, della ricerca, più assoluta ancora della morte; lo scacco della tensione umana verso una meta, un esito, un compito, ricade nella dichiarazione
insistentemente negativa, stabilisce un linguaggio del «non».
Un linguaggio del «non» che contrappunta le tappe di una azione che non conclude, in una sospensione angosciosa, in un senso di svuotamento cosmico, nella inanità e nell’indeterminatezza di visio-
ni e di mete. Non a caso questa poesia vive nella malinconia di ciò che muore: «Cantava al vento / il dolce amore addormentato in cuore / che appena desto solo allor ti muore» (XVIII); «Passò la nave, ed esile sul
mare / il loro morto mormorio vani» (XXII); «al vento che portava il singulto ermo del mare» (XVII); e vive altresi della nostalgia dell’altrove: «Ed ecco a tutti colorirsi il cuore / dell’azzurro color di lontananza» (XIII); «Ed il gran mare ancor / si ricordava, e con le lunghe ondate / bianche di schiuma singhiozzava al lido» (XV); «E pur non vuole il rosicchio del tarlo, / ma l’ondata, / ma il vento e l’uragano. / Anch'io la nube voglio, e non il fumo; / il vento, e non il sibilo del fuso, / non l’odioso fuoco che sornacchia, ma il cielo e il mare che risplende e canta» (XII); «alla dormente nave, / che sempre
sogna nel giacere in secco...» (XII); «a numerar le ondate, / ad ascoltarsi il vento nelle barbe, / ad ascoltare striduli gabbiani, / cantare
in mare marinai lontani» (XI); «E vidi pesci nella grigia sabbia / avvoltolarsi, per desio dell’acqua, / versati fuori della rete a molte / maglie; e morire luccicando al sole» (IX) (L'ultimo viaggio). I due Poemi conviviali, dedicati ad Ulisse, si ispirano appunto ad una siffatta malinconia e nostalgia e contemplano due situazioni d’anima che sembrano contrassegnate da due opposte tensioni. Ne // sonno di Odisseo, traendo solo lo spunto dall’impedito approdo ad Itaca di Ulisse e dei suoi compagni, a causa dell’improvvisa tempesta scatenata dalla fuoruscita dei venti dall’otre di Eolo, credo che si
animi e prenda figura mitica uno dei temi più autentici della poesia pascoliana: quello del nido, che qui appare e dispare come miraggio
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Lospazio poetico di Guido Gozzano
ora lontano ora vicino, circonfuso in'una magica e incerta luce di irrealtà: In un barbaglio d’oro, ora gli appare non sapea che nero: Nuvola o terra? e ne’ suoi poggi apparvero i filari lunghi di viti, ed a’ suoi piedi i campi i] e tutta apparve un'isola rupestre, dura, non buona a pascere polledri, b..] e qua e là sopra gli aerei picchi morian nel chiaro dell’aurora i fuochi de’ mandriani; e qua e là sbalzava il mattutino vortice del fumo,
d’Itaca alfine: (9) e si e no tra lo sciacquio dell’onde giungeva al mare il roco ansar dei colpi
(E
Tutto è immesso in una vibrazione sonora di toccante attesa:
Ed ecco a prua dell’incavata nave volar parole, simili ad uccelli,
con fuggevoli sibili [...].
oppure: E già da prua, sopra la nave, a poppa, simili a freccie, andavano parole con fuggevoli fremiti.
Ed emergono visioni e angoli amati di quell’isola, di quel nido, che quasi si toccano, e si distinguono nei suoi commoventi particolari, «la sassosa strada», «la fontana bianca e l’ara bianca», e «l’eccelsa casa»; se ne percepiscono i rumori familiari, il ronzio delle api, e la
spola che stride, e le immagini care che istantaneamente si allontanano, e in questo loro allontanarsi e sparire, acquistano la vita attimale
della visione, l'evidenza di un bene che si scopre, nell’atto che si perde:
Epifania, morte e rovesciamento parodico dell’Ulisside
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[...]a un giovinetto stava già nel porto, poggiato all’asta dalla bronzea punta : e il giovinetto sotto il glauco olivo stava pensoso; ed un veloce cane correva intorno a lui scodinzolando: e il cane dalle volte irrequiete sostò, con gli occhi all’infinito mare; e com’ebbe le salse onde fiutate,
ululò dietro la fuggente nave
ra
tredici peri e dieci meli in fila stavano, bianche della lor fiorita: all’ombra d’uno, all’ombra del più bianco, era un vecchio, volto all’infinito mare
dove mugghiava il subito tumulto,
LO
limando ai faticati occhi la luce,
riguardò dietro la fuggente nave: era suo padre: [...].
Ma la tempesta, i marosi della vita trascinano tutto oltre, lontano, e quel nido, quella siepe, quel luogo vero, primordiale, quella conchiusa certezza del limite, quel serrato spazio privato, quella circolare perfezione dell’uovo, il cui abbandono è dolore, la cui separazione è all’«origine di ogni affanno e di ogni fatica del cuore»”, la cui dimenticanza è male e colpa, diventa sogno e visione, inappagato desiderio del cuore dell’eroe immerso nel sonno. Un tal sonno, ribadito nella clausola finale di ogni strofa, ad ogni immagine della patria-visione, guardata con l’occhio dell’anima, è metafora dell’annebbiamento di chi cerca lontano quel bene posseduto da sempre, ed ora ridotto a miraggio vago della mente, sogno,
vaneggiamento, illusione: Edi venti portarono la nave nera più lungi. E subito apri gli occhi l'eroe, rapidi apri gli occhi a vedere sbalzar dalla sognata Itaca il fumo; e scoprir forse il fido Eumeo nel chiuso ben cinto, e forse il padre suo nel campo ben culto: il padre che sopra la marra appoggiato guardasse la sua nave; e forse il figlio che poggiato all’asta la sua nave guardasse: e lo seguiva,
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Lospazio poetico di Guido Gozzano certo, e intorno correa scodinzolando Argo, il suo cane; e forse la sua casa,
la dolce casa ove la fida moglie già percorreva il garrulo telaio: guardò: ma vide non sapea che nero fuggir per il violaceo mare, nuvola o terra? e dileguar lontano, emerso il cuore d’Odisseo dal sonno.
Dunque, inanità e indeterminatezza di visioni e di mete. Questa che abbiamo descritta è la direzione verso l’ancestrale, verso la vi-
scerale e indifferenziata unità dell'uovo primordiale, meta invocata e irraggiungibile per chi ormai si è fatto trascinare dagli allettamenti del mondo. Di contro c’è la direzione opposta, quella che possiamo definire di fuga, di evasione da un presente, tutto conchiuso nel ciclo esiodeo di opere e stagioni, fondato sul valore della produzione e dell’utilità, che include implicitamente l’idea negativa dell’avidità e della congiunta conflittualità sociale: già Tennyson, lo abbiamo visto, rifiuta questa condizione di gente selvaggia, che «ammucchia, che dorme, che mangia» che vive sottomessa «all’utile e al bene». Ma la differenza tra il poeta inglese e quello italiano, è di accenti, di accenti che misurano una distanza di epoche: l’Ulisse di Tennyson è tutto
proiettato verso quell’orizzonte aperto della conoscenza, «come arcata che s’apre sul nuovo», a quella «stella che cade oltre il confine
del cielo»; l'Ulisse pascoliano dell’Ultimo viaggio, ha già compiuto ed esaurito il suo iter eroico, l’ultima sua impresa servirà solo a dargli conclusivamente — come sostiene acutamente Barberi Squarotti della cui analisi mi sono avvalsa— la certezza della illusorietà del mondo eroico e a renderlo angosciosamente conscio dell’assenza di
ragioni del suo «vissuto». E perciò, L’ultimo viaggio di Odisseo ha questo di particolare, che lo distingue da tutte le varie letture del mito di Ulisse: quello di non essere un viaggio verso l’ignoto, di non prevedere nuove direzioni, ma di essere un viaggio a ritroso, vale a dire di essere una ricognizione sulle tracce del già vissuto, del già noto (l’intero percorso omerico viene cosi ripercorso all’incontrario), per rassicurarsi d’avere effettivamente vissuto l’esperienza eroica, e perciò per tentare
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un recupero di valore, una riacquisizione di sé, una ri-appropriazione del gesto eroico e della sua esemplarità e verità mitica: Odisseo vecchio de L’ultimo viaggio — dice Barberi Squarotti — è l’eroe che parte per compiere l’ultima indagine che gli è concessa nel nuovo tempo in cui è giunto a vivere, nella trasformazione delle vicende, del co-
stume, della società: la verifica della realtà di ciò che ha visto e compiuto nel tempo della giovinezza e della gloria!°.
Senonché, in questa direzione che vede la partenza di Ulisse, al decimo anno dal suo ritorno ad Itaca, le tappe del viaggio (Circe, Polifemo, le Sirene, ecc...) scandiscono i momenti di una progressi-
va presa d’atto, da parte dell’eroe, che quel mondo delle antiche sue imprese, non è soltanto anacronistico, ma forse non è mai stato,
non ha riscontro con la realtà, è solo vago sogno, leggenda, favola: i luoghi fisici delle antiche gesta sono sempre li, riconoscibili dai mille particolari che l’eroe vede e tocca, ma essi non sono più abitati, se mai lo furono, dalle antiche, magiche presenze di dee e ninfe, e maghe e mostri, che dettero a lui l’occasione di conoscere l’amore, la gloria, il mistero delle cose. Ora il mondo eroico è finito. Il suo
viaggio a ritroso nel tempo, per esperire la certezza e la durata dei valori, conosciuti e vissuti un tempo, lo conduce dal sogno all’allu-
cinazione, al vaneggiamento, nella vaga dissolvenza delle presenze mitiche. I leoni di Circe, le sembianze seducenti della maga, l’eco
stessa della cetra che sembrava «cantar l’amore che dormia nel cuore», e l’isola dei Ciclopi, l’antro di Polifemo, e «i lunghi pini» e «le
quercie altochiomanti» e «il picco nero», e tutti i più minuti dettagli di quel luogo che sembrano evocare la presenza del mostro e renderla di nuovo possibile, tutto è illusorio; persino le Sirene, di cui l’eroe
crede di ravvisare le sembianze e da cui attende il responso ultimo circa la sua identità e il suo destino di uomo, cosi si rivelano infine all’eroe nella suprema inchiesta nell’imminenza della morte, simili
all’immagine impassibile della Natura leopardiana di fronte all’I slandese: Son io! Son io, che torno per sapere! Ché molto io vidi, come voi vedete
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me. Sf; ma tutto ch’io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono? E la corrente rapida e soave più sempre avanti sospingea la nave. E il vecchio vide un gran mucchio d’ossa d’uomini, e pelli raggrinzate intorno, presso le due Sirene, immobilmente stese sul lido, simili a due scogli. Vedo. Sia pure. Questo duro ossame cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate! Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch’io muoia, a ciò ch'io sia vissuto! E la corrente rapida e soave più sempre avanti sospingea la nave. E s’ergean su la nave alte le fronti, con gli occhi fissi, delle due Sirene. Solo mi resta un attimo. Vi prego! Ditemi almeno chi sono io! chi ero! E tra gli scogli si spezzò la nave.
Siamo perciò al punto terminale dell’epopea dell’eroe moderno. Il suo viaggio non riceve altra risposta se non la dura smentita delle cose e la desolata pietà della dea Calipso che, nell’atto di avvolgere l’uomo nella nube dei suoi capelli, manda un ululo cupo che si perde nei flutti: «Non essere mai! non essere mai! più nulla, / ma meno morte, che non esser più» (Il non essere mai nati è minor danno che non essere più). AI confronto con l’Ulisse pascoliano, cosi sgomento e nostalgico, perplesso e ansioso fino al vaneggiamento, l’Ulisse del Graf è davvero una figura poetica arretrata, che non ha più nulla da dire. Infatti il suo Ultimo viaggio di Ulisse (poemetto appartenente alle Danaidi 1897, che Pascoli non nomina nemmeno nella Nota al testo della I ed. dei Conviviali, 1904, e pour cause), non è nient'altro che una
esercitazione professorale dalla gagliarda pronunzia retorica, e non metterebbe conto neanche di accennarne se non fosse che essa permette un piccolo approfondimento del nostro tema, niente più di una postilla in ordine al fatto che nel poemetto il mito di Ulisse ha un’altra utilizzazione ancora, e cioè funziona come aulica cassa di ri-
sonanza dell’ideologia delle magnifiche sorti e progressive. Il Graf in-
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fatti ricalca qui, in sonanti e regolari endecasillabi a rima baciata,
senza alcuna ombra di dubbio, il soddisfatto ottimismo progressista della borghesia secondo Ottocento. L’accento dominante è impresso da un trionfalismo, gonfio di clamorosi annunzi di gloria, di sonori applausi della Fama, tutto risonante di ritmi di fanfara e di leggenda popolare: «[...] e il temerario stuolo / Pronto spiegò verso occidente il volo. / Or sen vanno i compagni alla ventura, / Nel chiaro giorno, nella notte oscura, / Combattendo coi venti e coi marosi», e via di questo passo. Un trionfalismo che volentieri si abbandona a smaccate millanterie di questo genere: «Io solo / novo cammino tenterò di gloria: / mia l’audacia sarà, / mia la vittoria». O ancora, come fa dire ad Ulisse ri-
volto alla moglie: «Me chiama il fato a nuove audacie. Ancora / piena del nome mio tu la sonora / tromba udrai della Fama: ancor superba / sarai d’esser mia»; detto con una soddisfazione cosi innocente per il duplice possesso, della fama e dell’amore, che sfiora veramente il ridicolo. Eppure corrono davvero pochi anni tra il 1897 (I edizione delle Danaidi) e il 1904 (I ed. dei Conviviali). Ancora meno tra il 1904 e il 1907, data della prima stesura di Ipotesi di Guido Gozzano!", con la quale entriamo ormai in quel terzo stadio di cui parla il Ferrucci, che «implica una certa nozione del mito (e della letteratura) come menzogna e della realtà come sostanzialmente mediocre, malgrado i nostri sforzi di nobilitarla. È questa anche l’origine dell’atteggiamento comico, il quale è istintivamente antimitologico e ha quindi un insuperabile potere di smascheramento dei miti di recupero (e di ogni ipocrisia in generale). Si potrebbe dire che la grande funzione
della letteratura comica e parodica è di respingere un mito insufficiente [io direi, divenuto storicamente insufficiente] e intimamente
fragile. Il comico è il conflitto divenuto risibile e perciò stesso tran-
quillizzante»!?. Un giudizio questo che descrive perfettamente l’operazione mes-
sa in atto da Guido Gozzano. Alla base del suo contegno morale, fatto — per usare le stesse parole del poeta — di «spaventosa chiaroveggenza» e di «perplessità crepuscolare», c’è un sentimento serio di smagata e dolente rinuncia. Si tratta di una censura ben motivata dei
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registri «alti» e «tragici» della poesia, di una volontà di linguaggio poetico «basso», comico, parodico, impegnata a-smontare l’amplificazione vitalistica e a irridere l’antagonismo «eroico» dei nuovi ca-
valieri dell’Ideale, di quei Poeti-Vati che proprio sui territori del mito avevano ricavato per la loro musa una particolare redditività di risultati. Gozzano percorre un cammino inverso: lontano dal nobilitare, dall’innalzare la vita a mito, tende piuttosto a ridurla a stampa, cioè a immagine ingiallita e defunta di un mondo finalmente archiviato, con tutto il suo peso di passato; ma anche a renderla inoffensiva, e perciò svuotata di tutti i suoi succhi insieme vitali e mortali cioè ancora capaci di nuocere; insomma un mondo esorcizzato e allontanato, grazie alla sua declinazione antifrastica e comica. La conseguenza più vistosa e più salutare di un simile atteggiamento, è appunto la messa in ridicolo dei Valori e il discredito che si getta sull’autorevolissima immagine del Poeta-Vate, sublime sacerdote dell’Ideale. Assistiamo cosi alla degradazione ironica di tutte le idee-forza, dei tòpoi più clamorosamente positivi della tradizione retorica, epica e lirica della cultura occidentale: Dio, Patria, Umanità (le «parole
che i retori t'han fatto nauseose»), le «belle cose astratte» che dalla tradizione cavalleresca in poi ebbero stato e considerazione: «bontà», «onore», «coscienza», e soprattutto «l’alloro» ridotto in frantumi; e infine l’ulissismo, mito fondamentale e comprensivo di tutta
una parabola di storia e di cultura, come abbiamo già visto, da Omero a Dante, da Foscolo a Goethe, a Byron, fino a Pascoli e D’An-
nunzio, a Nietzsche e a Joyce, tutto questo accumulo storico stratificatissimo, e variegato al suo interno da tensioni differenziate, ma
tutte, comunque, di segno «eroico» (cioè agonistico e tragico), dico tutto questo, viene destituito di serietà e di grandezza, in quanto
non più credibile. Nascono cosi, nello specchio incrinato della coscienza, le immagini ambigue e doppie, epico-grottesche, ironico-patetiche, o idillico-parodiche, generate da una spinta divaricata tra nostalgia e dissacrazione, desiderio e rifiuto. Dentro questa ambigua commistione
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di registri ora alti ora bassi, si organizza tutto il mondo di Gozzano,
con le sue immagini fondamentali e i suoi contro-miti. Si sa che Gozzano non piace ai critici moralisti, afflitti dall’ideologia o dalla fede, e perciò lo si è accusato volentieri di pigrizia morale e di disimpegno civile, a me pare invece — dati anche i tempi in cui visse — che in lui è da apprezzare questa qualità «negativa», perché, se essa gli impedisce di formulare programmi e messaggi positivi, gli permette però di smascherare la menzogna dei rapporti umani e la qualità inautentica della vita. Infatti è proprio quel suo vivere «ai margini di un fosso», quel suo astenersi dal «cogliere il quadrifoglio», quel suo accettarsi come «cosa vivente», che gli consente di rintuzzare le tentazioni di una idea della vita come contrassegno di elezione o peggio, e di rifiutare un mito divenuto storicamente insufficiente, incapace cioè di spiegare, di dar conto del senso dell’esistenza. La più esplicita conferma di questa operazione poetica, volta alla consapevole banalizzazione dell’«eroicismo», ci viene data, tra l’al-
tro, da una poesia, di cui qui torna opportuno parlare, dal titolo L’potesi, in cui il mito di Ulisse viene clamorosamente parodiato, e immesso in una situazione di medietà (o mediocrità) borghese, e narrato non per caso dal marito letterato «ad uso della consorte ignorante». Gozzano mette in essere un gioco di interpolazioni delle più maliziose e peregrine, in grazia del quale si mettono insieme, in stridula dissonanza, un tema eroico frequentatissimo come il nostro, dai registri alti, attinti ai modelli più accreditati, da Omero a Dante, ma
anche a D'Annunzio, e un tòpos crepuscolare per eccellenza, «un vasto edifizio modesto [...] fra il rustico e il gentilizio», vale a dire la
metafora di una vita appartata, vissuta in tono minore, nella pedestre quotidianità del suo registro «comico», «basso», crepuscolare appunto. Si ottiene cosi uno scambio dei più imprevedibili, secondo cui la
favola bella del Re-di-Tempeste-Odisseo (secondo la designazione aulica del D’ Annunzio) si abbassa a livello di storia un po’ scandalo-
sa e pettegola di donne e di corna: Il Re di Tempeste era un tale
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che diede col vivere scempio un bel deplorevole esempio d’infedeltà maritale,
che visse a bordo di uno yacht toccando tra liete brigate le spiagge più frequentate dalle famose cocottes...
Alla parodia esplicita, ottenuta con il rovesciamento comico del tema eroico, aggiungerei una allusione, che ritengo non casuale, anzi assai divertita e un tantino irriverente alla crociera che il Vate D'Annunzio aveva qualche anno prima compiuto effettivamente, a bordo di uno yacht, insieme a Edoardo Scarfoglio e ad altri amici, nelle acque di Grecia, che poi il poeta aveva trasfigurato, nella Laus Vitae, nel già noto viaggio di iniziazione. Ma a questo primo motivo parodico, se ne aggiunge un altro, e
direi più insidioso, perché è l’intero universo eroico che è messo in gioco, un motivo parodico che smaschera le ragioni vere dei viaggi di esplorazione attorno al mondo, mostrando il volto non certo edificante e benigno, di certe imprese dei tempi nostri: [...]e volse coi tardi compagni cercando fortuna in America...
— Non si può vivere senza danari, molti danari... Considerate, miei cari compagni, la vostra semenza! —
dove, «con pace di Omero e di Dante», si vanno a toccare certe corde sensibili dell’ideologia dell’affarismo e del successo, cara alla cultura occidentale, e si consuma cosi, fino in fondo, il sublime e il gra-
tuito del gesto eroico. Si aggiunga inoltre la diminuzione del lessico colto di Dante e di D'Annunzio, umiliato negli schemi ritmici e morfo-sintattici della
favoletta popolare, grazie all’abile intarsio di voci auliche e di modi narrativi addirittura pedestri: Già vecchio, rivolte le vele al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
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dalla consorte fedele... Poteva trascorrere i suoi ultimi giorni sereni, contento degli ultimi beni come si vive tra noi...
Oppure: Viaggia viaggia viaggia
viaggia nel folle volo, vedevano già scintillare la stella dell’altro polo. Viaggia viaggia viaggia
viaggia per l’alto mare: si videro innanzi levare un’alta montagna selvaggia... Non era quel porto illusorio la California o il Peri,
ma il monte del Purgatorio che trasse la nave all’ingiù
[...]
E Ulisse piombò nell’Inferno dove ci resta tuttora...
D'altro canto — ecco lo scambio delle parti — il curioso è che, se il mondo mitico viene cosi parodiato, sarà invece l’anonima situazione borghese ad essere nobilitata ed elevata a mito; o quanto meno vagheggiata come una «ipotesi», — o sogno? — di una vita possibile, finalmente pacificata e tranquilla. E citerò qua e là alcuni passaggi di questa vagheggiata esistenza: Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di Nulla non fosse per via... Quest’oggi il mio sogno mi canta figure, parvenze tranquille d’un giorno d’estate, nel mille e... novecento... quaranta.
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Sfioriti sarebbero tutti i sogni del tempo già lieto
Sopita quest’ansia dei venti anni, sopito l'orgoglio [...] Lontanii figli che crebbero, compiuti i nostri destini
De
vivremmo pacifici in molto agiata semplicità;
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Lospazio poetico di Guido Gozzano riceveremmo talvolta notizie dalla città...
Ebbene, in questo modesto stato di grazia, lasciandosi il poeta deliziosamente trasportare dall’intimo, domestico idillio; dal pigro im-
maginare per sé un edonismo agiato e tranquillo, fatto di nulla: «[...]a sera, [...] si cenerebbe all’aperto, tra i fiori, dinnanzi alla villa. [...] Si cenerebbe tranquilli dinnanzi alla casa modesta nell’ora che trillano i grilli, che l’ago solare s’arresta [...]
E noi ci diremmo le cose più semplici poi che la vita è fatta di semplici cose e non di eleganza forbita [...]
E sotto la volta trapunta di stelle timide e rare oh! dolce resuscitare la giovinezza defunta! [...] Parlare dei nostri destini, parlare diamici scomparsi [...]
Parlare d’amore, di belle d’un tempo... ... (la mensa ancora imbandita biancheggerebbe alle stelle). Parlare di letteratura, di versi del secolo prima: [...].
«Mah! Come un libro di rima dilegua, passa, non dura» Mah! Come son muti gli eroi più cari e i suoni diversi! [...] «Mah! Come sembra lontano quel tempo e il coro febeo con tutto l’arredo pagano, col Re-di-Tempeste Odisseo»,
ebbene, in quest’aura di trepido e intenerito disincanto, in quest'ora di perplessità crepuscolare, al pacato luccichio delle stelle, la poesia non è più che un palpito di astri defunti, e tutte le cose belle, piccole e grandi del passato, niente più che un soffio, un sospiro: «Mah!», di rassegnata accettazione. Siamo ad un punto limite, oltre il quale si cadrebbe di colpo nel patetico, si scivolerebbe nel rugiadoso. Ed è appunto qui, che scatta l’impennata ironica, con buona pace di Omero e di Dante. «Il comico è il conflitto diventato risibile e perciò stesso tranquillizzante». L’esorcizzazione della pena si è compiuta. Si potrebbe, a questo punto, verificare la validità di questo sche-
ma critico, facendolo agire su un testo meno «esemplare», più prezioso, in cui il mito è introiettato, è semplicemente supposto, e le allusioni sono assai più sottili, la trama dei riferimenti colti di fattura
assai più sofisticata e adulta: siamo ad Invernale, poesia del 1910. Questa breve parabola eroicomica in versi ha una sua precisa dinamica narrativa che riconduce all’antitetica contrapposizione, frequentissima in Gozzano, di valori del tipo: forza-inettitudine, e le re-
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lative serie sinonimiche e tra loro antitetiche: di avventura-rischiogiovinezza-vitalità, ovvero: viltà-decadenza-debolezza-malattia, ecc.
Questa struttura binaria esprime contraddittoriamente per un verso il bisogno di vitalità e di forza, di «affermatività», in definitiva,
cui Guido segretamente aspirerebbe, per l’altro la rinunzia ad esse, come vergognose creature dell’istinto, e l’aspirazione alla quiete e al silenzio dell’«increato», cioè di ciò che la materia non ha ancora or-
ganizzato in cose viventi. Si attua cosi, non senza ironico ed autoironico di di transfert tra l’io e il suo tiva dell’io), in cui non
frizioni, anche in questa poesia, un gioco immagini incrociate, nate dalla situazione doppio (che rappresenta l’immagine posisai se il poeta privilegi i segni «positi-
vi» — della forza, della salute, della vitalità, dell’avventura — attri-
buiti al suo partner di turno, in questo caso la sua amica pattinatrice che volteggia sulla superficie di ghiaccio, incurante dei suoi paurosi scricchiolii, invano tentante di tenere avvinto a sé il poeta in questo volo vertiginoso verso l’abisso; ovvero a quelli «negativi» del suo contrario, che gli sono più propri e familiari, e che sembra felice di possedere, cosicché alla fine vincono, dando la forza al poeta di liberarsi da quei vivi legami delle mani dell’amica, e facendogli raggiungere la riva, insieme alla schiera degli altri pattinatori. In questa poesia il processo di diseroicizzazione è portato all’estremo e lo scambio dei ruoli risponde ad una tale sorta di gioco. Vediamone il testo: Invernale
ECHI l’incrinatura il ghiaccio rabescò, stridula e viva. «A riva!» Ognuno guadagnò la riva disertando la crosta malsicura. «A riva! A rival...» un soffio di paura disperse la brigata fuggitiva. «Resta!» Ella chiuse il mio braccio conserto, le sue dita intrecciò, vivi legami, alle mie dita. «Resta, se tu m’ami!»
E sullo specchio subdolo e deserto
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soli restammo, in largo volo aperto, ebbri d’immensità, sordi ai richiami.
Fatto lieve cosi come uno spetro senza passato più, senza ricordo, m’abbandonai con lei, nel folle accordo,
di larghe rote disegnando il vetro. Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più tetro... dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più sordo... Rabbrividii cosi, come chi ascolti
lo stridulo sogghigno della Morte, e mi chinai, con le pupille assorte, e trasparire vidi i nostri volti già risupini lividi sepolti... Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più forte... Oh! Come, come, a quelle dita avvinto,
rimpiansi il mondo e la mia dolce vita! O voce imperiosa dell’istinto! O voluttà di vivere infinita! Le dita liberai da quelle dita, e guadagnai la ripa, ansante, vinto... Ella sola restò, sorda al suo nome,
rotando a lungo nel suo regno solo. Le piacque, alfine, ritoccare il suolo; e ridendo approdò, sfatta le chiome, e bella ardita palpitante come la procellaria che raccoglie il volo. Non curante l’affanno e le riprese dello stuolo gaietto femminile, mi cercò, mi raggiunse tra le file degli amici con ridere cortese: «Signor mio caro, grazie!» E mi protese la mano breve, sibilando: — Vile! —
L’azione è di grande linearità drammatica, scandita in tre tempi
con l’esordio, lo svolgimento e l’epilogo della vicenda, che vede prima il volo, la fuga e la dispersione della brigata «paurosa», poi l’inebriato volteggiare del poeta e della donna sul ghiaccio, il rapido mutare dei sentimenti di lui, l’ansante suo ritrarsi a riva con gli altri,
e infine il ritorno palpitante d’ebbrezza della sua compagna e l’improvviso, sibilante rimprovero con il quale alla fine essa lo trafigge!.
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Ciò che colpisce subito il lettore è che, paradossalmente, il ruolo
di «attante» viene assegnato da Gozzano alla donna, che fin dall’esordio si accampa quale unica vera protagonista!*, dotata di maschia intraprendenza nel gesto imperioso e sicuro con cui attrae il suo compagno nel «folle accordo», sovranamente solitaria poi, sulla livida superficie incrinata del lago ghiacciato; tutta un tripudio infine nella lunga sequenza finale del terzo tempo, che la vede inarcata su di una vertiginosa parabola di impervia ebbrezza: Ella sola restò, sorda al suo nome,
rotando a lungo nel suo regno solo,
dalla quale discende alfine, come da un altro mondo, leggera e subli-
me come l’uccello che sa le tempeste e le inaccessibili altezze (di dannunziana e pascoliana memoria, come nota Sanguineti), con un
enigmatico sorriso, nicciano a fior di labbra: Le piacque, alfine, ritoccare il suolo; e ridendo approdò, sfatta le chiome, e bella ardita palpitante come la procellaria che raccoglie il volo,
che si definisce poi nell’epilogo nella sua qualità beffarda e sdegnosa («non curante» e «ridere cortese») e nell’implacabilità («mi cercò, mi raggiunse...») della condanna inflitta alla di lui viltà, bisbigliata all’orecchio con il sibilo di una staffilata. Il ruolo perdente, passivo, di segno negativo ovviamente, è infatti
attribuito dal poeta a se stesso: egli assolve, nella pur breve dinamica del componimento, alla funzione diseroicizzante del deuteragonista, diviso e incerto, nella rapida inarcatura dell’azione, tra un primo
tempo, dominato dalla presenza imperativa e trascinatrice della sua compagna, in cui egli è tutto proiettato in avanti nella eccitante sug-
gestione di infinito e di solitudine «E sullo specchio subdolo e deserto / soli restammo, in largo volo aperto», nel totale abbandono al-
l’ebbrezza vitale dello spazio illimitato e separante: «Ebbri di immensità, sordi ai richiami», niccianamente
pericolante sull’abisso
profondo che per un momento, prima di suonare al suo orecchio
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con lo «stridulo sogghigno della Morte», ha un potere smemorante e dà l’inebriamento della trasgressione («Fatto lieve cosi come uno spetro, / senza passato più, senza ricordo, / m’abbandonai con lei nel folle accordo»), carico in sé di significati simbolici assai pertinenti, anche se impliciti (potendosi includere nell'immagine la dicotomia tra valori di segno «femminile» quali passato-abitudine-affetticontinuità della vita e valori «al maschile» quali futuro-avventura-rischio-«folle volo», gli elementi fondamentali insomma del mito di Ulisse, qui singolarmente scambiati); ed un secondo tempo, dicevamo, che lo vede gradualmente retrocedere da questo appena raggiunto traguardo di separatezza eroica, e perdere colpo su colpo, come è sottolineato dall’incalzante, (si noti il climax «tetro... solido... forte») e serio-grottesca reiterazione del rintocco di morte («Dall’orlo il ghiaccio fece cricch» in posizione anaforica e ribadito per ben tre volte!), via via verso progressive rinunzie («Rabbrividii... e mi chinai... rimpiansi...», che richiamano la progressione semantica precedente) all’epos e all’eros, in nome di un vivere normalizzato («rimpiansi il mondo e la mia dolce vita»), obbediente all’istinto, soggetto alla «voluttà di vivere infinita»: un trionfo delle ragioni della vita in verità più apparente che reale, ed uno scatto vivace di indipendenza («le dita liberai da quelle dita, / e guadagnai la ripa...») che tuttavia suona come una disfatta o una fuga («ansante, vinto...»), secondo lo schema classico di tutte le favole liriche di Gozzano, approdanti alla inevitabile confessione di impotenza, o allusive di una implicita scelta di passività (si pensi solo per un momento alle Due strade o alla Signorina Felicita). La volontà è impegnata, si, ma solo per negare l’azione, sul terreno perdente della ricerca di un riparo da qualcosa; in questo caso, dall’inquietante aura di avventura di cui è metafora l’immagine ricorrente del volo («largo volo aperto», «folle accordo», «di larghe rote disegnando il vetro», «Ella sola restò, sorda al suo nome, / ro-
tando a lungo nel suo regno solo»), più precisamente, dall’arditezza della donna (e dal tipo di vita che ella rappresenta) enfatizzata con attenzione studiata («bella ardita palpitante...»), a mettere in evidenza, per contrasto, l’inettitudine e la viltà del suo partner.
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La piccola folla dei pattinatori, che compare nell’esordio e nell’epilogo, sembra rispondere invece ad un duplice scopo, per un verso, quello del coro, che funziona insieme da eco, al sentimento «medio»
e «pedestre» del poeta recalcitrante al volo come la «brigata fuggitiva» dell’esordio e lo «stuolo gaietto femminile» dell’epilogo; e da contrasto all’intrepidezza della pattinatrice, non a caso «non curante», alle sue «riprese»; per l’altro, quello di contenere la novelletta dentro le maglie di un registro «comico» secondo la consueta tecnica della riduzione ironica del dettato aulico-eroico, cara al Gozzano.
Non a caso infatti, come nota Barberi Squarotti!, la poesia si iscrive dentro una dimensione di banalità borghese ed è appunto l'assunzione di questa alternativa mortificante, fatta di paura, ma anche di buon senso, a mettere in crisi il modello «alto» riproposto dai nuovi «cavalieri dell’Ideale». E a guardar bene è per l'appunto questa pronuncia ironica che ci convince della inopportunità del confronto posto a suo tempo da Sanguineti tra Invernale e Falsetto degli Ossi di seppia di Montale!°. E non tanto (ma anche) per la diversità di «struttura» e di «tono», come vuole il Pirotti (l’una è una narrazione «ben costrutta» in cui «non c’è nulla o quasi nulla di statico», l’altra «non racconta nulla,
ma disegna un nitido ritratto, procedendo con fare discorsivo e quasi meditativo»)!; o per «la nettezza figurativa» del Gozzano di contro alla «solennità recitante» di Montale, come sostiene Marco For-
ti, che mettono tuttavia entrambi in rilievo una assai dubbia qualità naturalistica della poesia, quanto per delle ragioni più interne allo
spirito del componimento. Invernale offre, a mio parere, una piccola ma clamorosa conferma del processo di degradazione ironica della tematica «eroica» legata al «folle volo». In una situazione topica come questa, in cui l’intreccio vita-morte, forza-inettitudine, coraggio-viltà, morale eroica-
morale del gregge ha modo di accamparsi con tanta essenziale emblematicità, Gozzano dà, di contro agli eccitanti miti del tempo, un’en-
nesima risposta di segno scettico ai suoi dubbi circa la serietà e la legittimità di ogni sforzo di coinvolgimento attivo nella vita reale. Il confronto allora con Montale disturba, anche perché impedisce che
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si ravvisi tutto il complesso quadro di riferimento letterario, ideologico e culturale a cui rimanda il testo gozzaniano. » Penso non solo all’evidente e scoperto richiamo a Dante, con il parodico rovesciamento del «volo» di Ulisse, giocato sul registro basso della degradazione borghese, e del conflitto tra «dolcezza», «pietà» e «amore» da una parte e «ardore», «virtute e conoscenza» dall’altra, che ha il suo precedente più diretto e più esplicito nell’altra poesia di Gozzano, L'ipotesi del 1907, ma anche e in maniera privilegiata, al vero bersaglio polemico dell’epilogo gozzaniano: voglio dire a D'Annunzio e alla sua enfatizzazione superomistica del mito di Ulisse nella Laus Vitae: Un Ulisside egli era. Perpetuo desio della terra incognita l’avido cuore gli affaticava, desio d’errare in sempre più grande spazio, di compiere nuova esperienza di genti e di perigli... (Maia)
che a sua volta rimanda alla sua dipendenza da Nietzsche, esaltato in questi versi all’annunzio della sua morte: ... lo so come si danzi sopra gli abissi e come si rida quando il periglio è innanzi e come si compia sotto il rombo della tempesta l’opera austera e come si combatta... (In morte di un distruttore)
dove all’enfasi e alla ridondanza del tema frequentatissimo, che Gozzano riduce fino alla sua banalizzazione estrema, si aggiungono alcuni riferimenti testuali che autorizzerebbero, a mio vedere, la
chiave di lettura da me proposta, riprecisando il rapporto problematico e contraddittorio che Gozzano ebbe con la cultura e la lettera-
tura del suo tempo.
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La conferma inoltre che tali analogie esistano e che siano tutt’altro che superficiali, è ricavabile dal fatto che tutto il sistema poetico di Guido, ivi incluso Zrnvernale per gli speciali aspetti che vi abbiamo scorti, vive e si alimenta di un entroterra di cultura non amplissimo ma riconoscibile, con fonti precise, letture ed influenze ben definite,
con assidui riferimenti al quadro antipositivistico dei suoi orientamenti ideologici. Tra i punti di maggior sostegno di questa cultura vi è la storia non trascurabile dell’influenza larga esercitata anche in Italia, con le deformazioni che sappiamo, del pensiero di Nietzsche, da Gozzano letto e «rovesciato» nella sua forma ironico-dolente. Se si vogliono giudicare non irrilevanti certi sintomatici rimandi a situazioni emblematiche, a immagini-chiave, a un «lessico» proprio al pensatore tedesco, le allusioni simboliche leggibili in Invernale, dimostrerebbero che Gozzano, consapevolmente o no, abbia avvertito la suggestione di un epos nicciano. In breve mi sembra possibile isolare in questo caso un nucleo tematico fondamentale del pensiero di Nietzsche, vale a dire la conflittualità tra «decadenza interiore» e «incertezza» del proprio tempo e necessità di un gesto «affermativo» («dire si alla vita») e di un perentorio abbandono del passato, di tutto il passato, che egli metaforizza nel motivo del volo, del viaggio senza ritorno, come irrepa-
rabile salto verso l’ignoto: e dunque come scelta definitiva di un destino di avventura, di un atto di coraggio: Noi ignoriamo ancora il «dove?» verso cui siamo spinti, dopo esserci staccati in questo modo dal nostro vecchio suolo. Ma appunto questo suolo ci ha
dato la forza che ora ci spinge lontano, nell’avventura; per mezzo di essa saremo spinti là dove non c’è riva, verso lo sconosciuto, l’inesplorato — non abbiamo più la scelta, dobbiamo essere dei conquistatori, poiché non abbiamo più nessun paese in cui ci sentiamo a casa, dove vorremmo «mantenerci». Ci spinge a ciò un «sf» celato che è più forte di tutti i nostri «no». — La nostra stessa forza non ci permette più di rimanere nel vecchio suolo paludoso; noi osiamo avventurarci nella lontananza: il mondo è ancora ricco e inesplorato e anche partire val meglio che esser una cosa a mezzo ed esser pieni di veleno. La nostra stessa forza ci spinge verso il mare, là dove sinora tutti i soli sono tramontati: noi siamo consa-
pevoli di un nuovo mondo (La volontà di potenza, II, 172).
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E già prima, nella Gaia scienza, tale metafora pregnante verso l’inesplorato presenta gli stessi caratteri d’inesorabilità: Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo taglia to i ponti alle nostre spalle — e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l'oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua discesa è come seta e oro trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c'è niente di più spaventevole dell’infinito. Ob, quel misero uccello che si è sentito libero e urta nelle pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra , come se là ci fosse stata piu libertà e non esiste più «terra» alcuna!
In questa luminosa, euforica ebrezza dell’infinito e dell’ignoto si insinua, come sua inevitabile zona d’ombra, il tema dell’incertezza e
del pericolo: Lo sgretolamento e l’incertezza sono propri di questo tempo: niente si appoggia su solide basi e su una robusta fede in sé. Si vive per il domani, perché il posdomani è dubbio. Tuttoè liscio e pericoloso sulla nostra via, e inoltre il ghiaccio che ci sostiene è divenuto cosi sottile: sentiamo lo spiacevole e caldo soffio del vento che sta per scioglierlo; là dove andiamo nessun altro, fra poco, potrà più andare (La volontà di potenza, I, 12). E la riflessione sul senso della vita e sull’accettazione di una morale eroica: Una specie di uomini non vuol rischiare e l’altra vuole. — Noi altri disprezziamo forse la vita? Al contrario, noi cerchiamo istintivamente una vita potenzializzata, la vita nel pericolo... (ivi, IV, 576).
Parallelo e antitetico a questa visione della vita come volontà di potenza, vi è il disprezzo della morale del gregge: Dalla lunga esperienza che mi ha dato una simile peregrinazione attraverso il ghiaccio e il deserto io ho imparato a considerar diversamente tutti quelli che hanno finora filosofato; la storia nascosta della filosofia, la psicologia del suo grande nome è venuta per me alla luce. «Quanta verità
sopporta, quanta verità osa, uno spirito?» questo divenne per me la vera musica del valore. L’errore è una viltà, ogni conquista della conoscenza deriva dal coraggio, dalla durezza verso di sé (01, IV, 660).
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Non sfugga infine un punto di giuntura più probante sul medesimo tema di riflessione. Si tratta di una citazione di Nietzsche contenuta nell’ A/bo dell’officina di Gozzano, che cosi suona: Il saggio deve essere crudele con se stesso come con gli altri. Saper soffrire è poca cosa; deboli donne e schiavi sono maestri in quest'arte; ma non soccombere agli assalti della debolezza intima e del dubbio tremante,
quando si infligge un gran dolore e che si intende il grido di questo dolore: ecco ciò che è grande e sublime. // saggio deve mostrare in tutte le avversità della vita, la serenità del buon giocatore, l’innocenza gaia del fanciullo che si diverte, la grazia sorridente del danzatore. Rinunziare al pessimismo e alla malinconia; danzare al di là di noi stessi; ridere al di là di noi
stessi.
L’interesse particolare è dato dal fatto che questa «citazione» nicciana non è riscontrabile in questa forma in alcuna opera del filosofo tedesco”°, ma sarebbe allusiva mescolanza di motivi diversi presenti in Aurora, Così parlò Zaratustra, Al di là del Bene e del Male,
Genealogia della morale. Non posso fare a meno di pensare che il modesto ma compiuto sistema segnico di Invernale, con i suoi termini-chiave, con la pola-
rizzazione di ruoli ed elementi compositivi, con la grande emblematicità dell’insieme, trae da questa campionatura di passi nicciani un sovrappiù di significazione simbolica e uno spessore ideologico-culturale di qualità complessa: una prova di più del carattere non naturalistico (veristico) delle «novelle» di Gozzano, e della sua appartenenza al primo Novecento. Senza alcuna pretesa di inventare un ponte Nietzsche-Gozzano?!,
ci si voleva soltanto limitare al riconoscimento di una certa parentela tematica (ma uno spoglio ben più copioso sarebbe possibile in cerca di rapporti tra i due, a patto di restituire poi intera la distanza tra essi), e a indicare nelle suggestive convergenze rilevate, un clima e un’aura comune all’Italia e all'Europa ai primi del Novecento, alle soglie di una crisi che doveva esplodere di lf a poco con fragore ben più spaventoso e assordante del pur sinistro scricchiolio provocato
dall’incrinatura dello «specchio subdolo e deserto». Siamo cosi pervenuti ad un’altra e più definitiva soglia epocale dove ci fermeremo: agli anni della prima guerra mondiale; gli stessi
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anni in cui James Joyce concepisce il suo Ulysses (1919-20), e con lui veramente il destino di un mito è segnato. Esso trova la sua consumazione ultima. Il viaggio attorno al mondo si è ridotto a un punto: si esaurisce nel vagabondaggio di Leopold Bloom (Ulisse) e di Stefan Dedalus (Telemaco), nel labirinto di una città moderna, Dublino, come sintesi e metafora di qualsiasi città moderna. L'esperienza si compie tutta nell’arco di una sola giornata, dall’alba al tramonto. L’avventura sta nell’attraversamento del proprio inconscio, nello scorrere sotterraneo di sensazioni, di pulsioni, di impulsi trascritti
in monologo interiore, nel flusso ininterrotto di un linguaggio frantumato e patologicamente sconnesso, asistematico e moltiplicato, tanto da includere in sé tutte le storie e tutti gli individui, da sovrapporre in un unico magma linguaggi e dialetti e gerghi di epoche e luoghi diversi nella dissoluzione della coscienza individuale. Il viaggio allora diventa il viaggio attraverso il caos del proprio io, nei suoi territori più oscuri, nel labirinto del proprio inconscio, nella Waste land del presente, che non organizza più alcuna sintesi possibile del mondo.
Note
I. Poetica dell’intelligenza e poesia della crisi in Guido Gozzano 1
Sul tema dei prestiti e calchi gozzaniani esiste una larghissima letteratura critica
assai diversamente atteggiata. Si cfr. orientativamente: C. CALCATERRA, Con Guido Gozzano ed altri poeti, Bologna, Zanichelli, 1944; s. ANTONIELLI, Guido Gozzano e
la poesia italiana del Novecento in Aspetti e figure del Novecento, Parma, Guanda, 1957; E. SANGUINETI, Da Gozzano a Montale, in Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1961, pp. 17-39; A. LEONE DE CASTRIS, Guido Gozzano, in Decadentismo e realismo, Bari, Adriatica, 1959; G. MARIANI, L'eredità ottocentesca di Gozzano
e il suo nuovo linguaggio, in Poesia e tecnica nella lirica del Novecento, Padova, Liviana, 1959, pp. 3-69; E. SANGUINETI, Da D'Annunzio a Gozzano, in Tra liberty...,
cit., pp. 40-105; B. PORCELLI, Gozzano. Originalità e plagi, Bologna, Patron, 1974; U. PIROTTI, Guido Gozzano e la poesia novecentesca, in «Studi e problemi di critica testuale», aprile 1974, pp. 195-216; L. MONDO, Gozzano alle origini di Pavese, in Natura e storia in Guido Gozzano, Roma, Silva Editore, 1969, pp. 85-150; M. GU-
GLIELMINETTI, Da D’Annunzio a Gozzano: Carlo Vallini, in «Bimestre», gennaioaprile 1972, pp. 16-28: C. CALCATERRA, Modi petrarcheschi nell’arte di Gozzano, in «Studi petrarcheschi», 1948, I, pp. 213-23; P. BONFIGLIOLI, Pascoli, Gozzano, Mon-
tale e la poesia dell’oggetto, in «Il Verri», dicembre 1958, pp. 34-54; A. VALLONE, Dantismo di Gozzano, in Aspetti della poesia italiana contemporanea, Pisa, Nistri Lischi, 1960, pp. 144-57 e 172-77; IDEM, Gozzano e la tecnica delle ripetizioni: tradizione e libertà; M. GRILLANDI, Montale e Gozzano, in Aa.Vv., Omaggio a Montale
(a cura di S. Ramàt), Milano, Mondadori, 1966, pp. 96-104; G. PADOAN, Guido Gozzano «cliente» di Emile Zola, in «Letture italiane», aprile-giugno 1966; F. MATARRESE, Dante in Guido Gozzano, Bari, Editrice del Centro librario, 1967; A. GRI-
SAY, L'India di Guido Gozzano e quella di Pierre Loti, «La Rassegna della letteratura italiana», settembre-dicembre 1967, pp. 427-37; F. CONTORBIA, Maeterlinck, I
«crisantemi». Guido Gozzano. All’esposizione del lavoro. Crisantemi, in Aa.Vv.,
130
Lo spazio poetico di Guido Gozzano Studi di filologia e letteratura, I-NI dedicati a Vincenzo Perniconi, 1975; P.V. MEN-
GALDO, Da D'Annunzio a Montale: Ricerche sulla formazione e la storia del linguaggio montaliano, in Aa.Vv., Ricerche sulla lingua poetica contemporanea, Padova, Liviana, 1966, pp. 161-259, ora in La tradizione del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 13-106; N. TEDESCO, La condizione crepuscolare: la poesia esistenzia-
le del primo Novecento, in La condizione crepuscolare. Saggi sulla poesia italiana del 7900, Firenze, La Nuova Italia, 1970, pp. 3-148; G. BELLISARIO, Graf e i crepuscolari,
in «Trimestre», n. 2, pp. 291-312. Si cfr. i numerosi riferimenti contenuti in G. GOZZANO, Epistolario, in Poesie e Prose (a cura di A. De Marchi), Milano, Garzanti, 1966, da cui si ricavano le altre citazioni delle prose gozzaniane; e G. GOZZANO, Lettere a Carlo Vallini con altri inediti (a cura di G. De Rienzo), Torino, Centro Studi Piemontesi, 1971.
È noto che molte delle poesie di Gozzano videro la luce prima della definitiva pubblicazione in volume su giornali e riviste quali la «Gazzetta del Popolo della Domenica», il «Piemonte», la «Lettura», la «Nuova Antologia», la «Riviera Ligure» etc.; si ricordi ‘tra l’altro la sua collaborazione giornalistica al «Momento», a
«L’Illustrazione Italiana», a «La donna», alla «Stampa» etc., dove apparvero le sue prose e molte sue corrispondenze. Ci riferiamo alle riviste fiorentine e al movimento futurista, a cui Gozzano restò
estraneo non riuscendo a condividere delle prime, soprattutto della «Voce» prezzoliniana, l’idealismo «pratico» e «militante», e del secondo disprezzando l’avven-
turismo e la ciarlataneria (Epist., cit., p. 1343). E. MONTALE, Gozzano dopo trent’anni, in «Lo smeraldo», 30 settembre 1951, pp.
3-8, poi in «Il Verri», II, 1957, pp. 3-12, infine Saggio introduttivo a GUIDO GOZZANO, Le poesie, Milano, Garzanti, 1960, pp. 7-15. Cfr. L MONDO, op. cit., p. 116, ma anche le pagine che precedono.
Mi riferisco agli spunti contenuti in due scritti di M. GUGLIELMINETTI, Guido Gozzano, in Aa.Vv., Dizionario critico della letteratura italiana (diretto da V. Branca), vol. I, Torino, Utet, 1973, pp. 251-59, in particolare p. 256, è Introduzione a G. GOZZANO, Tutte le poesie (a cura di A. Rocca), Milano, Mondadori, 1980, pp. XX-
XXI e XLII-XLIV.
Cfr. B. PORCELLI, Guido Gozzano. Originalità..., cit. Si cfr. E. MONTALE, Saggio introduttivo, cit., ; E. SANGUINETI, Guido Gozzano, indagini e letture, Torino, Einaudi, 1966, e Tra liberty..., cit.; S. ANTONIELLI, Guido Gozzano e la poesia italiana, cit.; M. GUGLIELMINETTI, La corrosione del parlato nella lirica di Gozzano, in Struttura e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento, Milano, Silva, 1964, pp. 89-108.
E. SANGUINETI, Guido Gozzano..., cit., pp. 24-25. Ma già G. PETRONIO, Poeti del nostro secolo. I Crepuscolari, Firenze, Sansoni, 1937, riconosce proprio in tale stridore tra «artificioso» e «semplice» la qualità peculiare di un poeta «che non sa abban-
donarsi tutto né all’uno né all’altro, ma oscilla sempre tra l’uno e l’altro rassegnato e dolente, conscio già dell’inutilità della lotta» (p. 39). 11
E. SANGUINETI, op. cit., p. 184.
12
G. SCALIA, ICrepuscolari, in «Officina», 1957, 8, pp. 301-11.
Notel
capitolo
131
A. LEONE DE CASTRIS, Guido Gozzano..., cit., dello stesso si veda ora Il decadenti smo italiano Svevo, Pirandello, D'Annunzio, Bari, De Donato, 1974, pp. 7-81. 14
U. BOSCO, Gozzano, in «La Cultura», 15 febbraio 1926, p. 158, ora in Realismo romantico, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1959.
G. POZZI, La poesia italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1965, Pass: A. PIROMALLI, Ideologia e arte, in Guido Gozzano, Firenze, La Nuova Italia, 1972, pi113.
G. GETTO, Guido Gozzano (1946), poi in Poeti, critici e cose varie del Novecento, Firenze, Sansoni, 1953, pp. 51-52.
S. IACOMUZZI, Crepuscolari, simbolisti e futuristi, in Letteratura italiana contemporanea (diretta da G. Mariani e M. Petrucciani), Roma, Lucarini, 1979, p. 452. S. ZATTI, Desiderio e rifiuto borghese: due letture gozzaniane, in «Lavoro critico»,
10, aprile-giugno 1977, pp. 103-39. 20
Crisi di identità di cui ha pure lucida consapevolezza, come dimostrerebbe la sua attività di recensore, attentissimo alle modificazioni del mercato capitalistico e al-
le conseguenze che producono circa la collocazione dell’intellettuale e le condizioni della produzione artistica (per cui si vedano G. DE RIENZO, Introduzione a G. GOZZANO, Lettere a Carlo Vallini..., cit., e M. GUGLIELMINETTI, Gozzano recensore, in «Lettere italiane», XXIII, 1971, e F. PAPPALARDO, Le parole e il tempo: sulla poe-
sia di Gozzano, in «Lavoro critico», 6, aprile-giugno 1976). 21
Cfr. F. PAPPALARDO, op. cit., p. 62.
22
G. GOZZANO, La belva bionda, da Prose varie, in Poesie e Prose, cit., p. 1158.
23
Ivi, p. 1153; se si pensa al più noto riferimento antieroico alla guerra in L’analfabeta: «i casi della guerra non mai sazia / e l’orrore dei popoli che strazia / la gran necessità di farsi male» (vv. 70-72) e «l’orrore della guerra / scende in me: cittadino della terra, / in me: concittadino di ogni uomo» (vv. 82-84), e ad altri spunti polemici di tal genere presenti nella produzione di Gozzano si comprende come tale motivo antibellicista sia uno dei più familiari alla sua riflessione.
24
Ivi, p. 1157.
25
Ibidem.
26
Ivi, pp. 1156-58.
27
Cfr. G. GOZZANO, Epistolario, cit.: «Jo penso con terrore a quel che succederebbe
di me se io non fossi ammalato e dovessi riprendere un'esistenza cittadina» (p. 1273); «La vita è ancora bella, ma per chi ha la scaltrezza di non prendervi parte, di salvarsi a tempo. Per questo io benedico il mio male che mi impone questo esiglio della persona e dell’anima» (p. 1277). Ma numerosi i riferimenti al proprio sentimento di soddisfazione nella solitudine e nella lontananza della città, emblema di una somma di pseudovalori: «La mia vi ta continua qui monotona e salutare, quale piace a me», ivi, p. 1308; ma si vedano anche le Lettere a Carlo Vallini..., cit.: «Sarà un paesetto più deserto di questo, fra gli abeti e i frassini: e mi troverò bene, forse» (IV, p. 29); «Io sono qui ormai sistemato e orientato nel mio tenor di vita e ti dico sinceramente che sono felice» (XXVIII, pp. 46-47); «Ti penso, fraternamente, ma non sono sperso né di te, né di
132
Lo spazio poetico di Guido Gozzano altri. Sono felice, da solo» (XXVI, p. 46); «... e sono rientrato nella mia cameretta
tranquilla: ho acceso la lampada; fuori imperversa una pioggia torrenziale e il mare ulula furibondo. Io sono solo e sono felice» (XXXI, p. 50); «E sono felice! Poi c’è questo mare dinanzi e per quanto vituperato da tempo immemorabile da tutti i poeti è pur sempre l’unica cosa che non faccia ridere a questo mondo. La mia sola amarezza in fondo all’anima è che fra due o tre mesi questa vita dovrà finire, [...)} (XXVII, p. 47); «Ti ricordo tutti i giorni, amico mio! Sei una delle poche co-
de superstiti nei lobi del mio cervello: il resto è tutto svanito: e sto cosi bene! Sai che questo oggi compie il mese che sono qui? [...] aimè! Tre di questi ancora, e poi bisognerà ritornare tra gli uomini e le case!» (XXXIII, p. 54); «Novità nessuna: una grande pace, un tempo meraviglioso e tiepido, e quasi quasi la felicità: proprio» (XXXVI, p. 58); «Qui la vita è scialba e pacifica quale piace a me» (XLVII, p. 65); «eccomi qui: felice. Ho l’animo deliziosamente cretino» (XXVI, p. 45). Per questo aspetto dell’atteggiamento di Gozzano di fronte alla malattia si cfr. parti colarmente G. DE RIENZO, op. cit., pp. 15-17, e soprattutto G. BARBERI SQUAROTTI,
Poesia e ideologia borghese, Napoli, Liguori, 1976. 28
Epistolario, cit., p. 1272; si cfr. anche // giorno livido, in Prose varie, cit., pp. 1039-
48, e Epistolario, cit., p. 1377. 29
Epistolario, cit., p. 1296 che riecheggia da vicino il leit motiv: «Un desiderio? Sto — supino nel trifoglio e vedo un quadrifoglio — che non raccoglierò». La via del rifugio (vv. 169-72) nell'omonima raccolta La via del rifugio, in G. GOZZANO, Poesie (a cura di E. Sanguineti), Torino, Einaudi, 1973, da cui citeremo anche in
seguito. 30
Epistolario, cit., p. 1270, che aggiunge alla distanza dell’immaginazione la distanza particolare della figura inquadrata e allontanata da una cornice che la rende atemporale, secondo uno schema tipico dei ritratti di Gozzano.
3i
Ivi, p. 1298.
32
Ivi, p. 1294.
33
Ivi, pp. 1275, 1312.
34
Ivi, pp. 1273, 1284.
35
Ivi, p. 1284.
36
Ivi, pp. 1275, 1296, 1297.
37
Occorre citare: «Ah! Se potessi amare! — Vi giuro, non ho amato / ancora; il mio
passato è di menzogne amare. /— Mi piacquero leggiadre bocche, ma non ho pianto / Mai, mai per un altro pianto che il pianto di mia Madre» // responso, vv. 31-34 e sgg. (La via del rifugio); «Amore no! Amore no! / Non seppi / il vero Amore per cui si ride e piange. / Amore non mi tanse e non mi tange; / invan mi offersi alle catene e ai ceppi [...}} Convito, vv. 13-16 e sgg. (7 Colloqui); «Non fu l’amore, no. Furono i sensi [...] E fu vano accostare i nostri cuori [...] Amor non
lega troppo eguali tempre» vv. 1, 9, 11, // buon compagno (ivi) «Morii d’amore. Oggi rinacqui e vivo / Ma più non amo [...}» Paolo e Virginia, X, vv. 153-54 e sgg. (ivi); «Mai non comparve sul mio cielo grigio / quell’aurora che dicono: l’Amore», La signorina Felicita, V, vv. 263-64 (ivi); «Ma te non rivedo nel fiore, amica di Nonna! Ove sei / o sola che, forse, potrei amare, amare d’amore?» L’amica di
Note I capitolo
133
nonna Speranza, V, vv. 109-10 (ivi); «Da quel mattino della infanzia pura — forse ho amato te sola o creatura» Cocotte, IV, vv. 56-57 (ivi); «E in quella famigliare / mitezza di sorella / forse intravidi quella / che avrei potuto amare» Una risorta, I,
vv. 21-24 (ivi); «Totò non può sentire. Un lento male indomo / inaridi le fonti prime del sentimento; l’analisi e il sofisma fecero di quest'uomo / ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento» Totò Merimeni, IV, vv. 45-48 (ivî); «Sotto il verso che sai, tenero e gaio, / arido è il cuore, stridulo di scherno / come siliqua stridula d’inverno, / vota di semi, pendula al rovaio [...}» L’onesto rifiuto, vv. 15-18
(ivi); e ancora, «Non posso amare, Illusa! non ho amato / mai! Questa è la sciagura che nascondo» vv. 25-26; «... Ah, non volgere i tuoi piccoli piedi / Verso l’anima buia di chi tace!» vv. 31-32; «Triste cercai l’amore per il mondo, / Triste pellegrinai pel mio passato» L’onesto rifiuto, vv. 27-28. 38
u.ECO, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1980, p. 375.
39
«Diciamo allora che la presa culturale di Giolitti sul mondo contemporaneo fu cosi scarsa, perché ancora scarsa era la presa culturale di quegli ambienti industriali avanzati, che egli direttamente o indirettamente rappresentava. L’industrialismo era ancora, nonostante lo sviluppo che lo stesso Giolitti gli impresse, un fattore abbastanza isolato della dinamica sociale del periodo prebellico. Non nacque allora una “cultura Giolitti” perché non esisteva una “cultura Fiat” (che se mai doveva manifestarsi nel dopoguerra nelle posizioni dei rivoluzionari marxisti dell’“Ordine Nuovo”); e non esisteva una “cultura Fiat”, non solo perché una dimensione antropologica coerente con certe caratteristiche strutturali della società e dell'economia non si crea in un giorno né tanto meno artificialmente, ma anche perché è lecito dubitare che qualcuno se ne fosse posto il problema. Non c’era in Giolitti l’esigenza di realizzare un consenso specifico da parte degli intellettuali ed un’opera di direzione nei confronti della cultura (in ciò egli resta un vecchio liberale, che non vede come il gioco politico debba intrecciarsi sempre ad una manovra accurata di controllo ideologico delle masse); e non c’era, per quel che se ne sa, in un personaggio come Giovanni Agnelli “il vecchio”, il quale soltanto più tardi, probabilmente, attraverso la esperienza del fordismo, si formerà un’incerta nozione delle implicazioni culturali, profonde contenute nelle diverse possibilità aperte dall’intrapresa industriale». A. ASOR ROSA, La cultura, in Storia d’Italia, vol. IV, t. II, Torino, Einaudi, 1975, p. 1110.
40
Cfr. G.SCALIA, op. cit., p. 305.
41
«L'ironia di Gozzano non ha le qualità critiche e conoscitive di quella di Pirandello o di Svevo; rivela piuttosto una sostanza psicologica di tipo difensivo o addirittura regressivo» R. LUPERINI, Il Novecento, Torino, Loescher, 1981, vol. I, p. 144.
42
Ivi, p. 139.
43
Ivi, p. 147.
44 45
Ivi, pp. 142-43.
Per tali aspetti si vedano esemplarmente, nella troppo vasta bibliografia sull’argo-
mento, A. LEONE DE CASTRIS, Il decadentismo italiano..., cit. e A. ASOR ROSA, La cul-
tura, cit., pp. 1000-1311. 46
Cfr. E. PAPPALARDO, op. cit., pp. 60-61, 62, 66.
134
Lo spazio poetico di Guido Gozzano
47
Cfr. A. ASOR ROSA, op. cit., p. 1261.
48
«Ogni volta che mi accingo a questo lavoro mi prende un’abulia, un tremito,
un’impotenza verbale e metrica indefinibili, un male che conoscerete certo anche voi, il male che ci prende nell’atto di tradurre in apparenze tangibili un sogno troppo a lungo sognato. Ne farò una poesia, ma temo forte mediocre [...] ma faccio assai poco, sapete! Ed ammucchio frammenti ed appunti non dando termine a nulla di organico, temo anche di perdere il senso dell’autocritica [...] e di scrivere cose brutte. Vedremo». G. GOZZANO, Epistolario, cit., p. 1269; si cfr. ancora ivi. pp. 1280-96, 1305-308, 1315-16, 1321, 1342 etc. 49
50
Cfr. G.SCALIA, op. cît., pp. 305-7. R. LUPERINI, // Novecento, cit., p. 144: «Gozzano è sempre poeta di un’inibizione,
porta in sé il peso di una repressione volutamente accettata e scontata. Per questa assenza di ogni spinta liberatoria, in Gozzano non c’è davvero niente del sovversivismo piccolo-borghese cosi diffuso agli inizi del secolo. C’è, semmai, un sospiro autentico di nostalgia per una integrazione possibile e fallita, per una liberazione che non c’è stata...». 51
Cfr. Epistolario, cit., pp. 1305, 1308, 1316, 1317; sull’argomento si cfr. s. JACOMUZZI, Crepuscolari..., cit., p. 521 e M. GUGLIELMINETTI, in Dizionario..., cit.
SZ
Epistolario, cit., pp. 1349-51.
53
Ivi, p. 1349.
54
«Quali intenti artistici e letterari ho perseguito? Non so. Non credo che l’artista e il poeta in ispecie, possa e debba avere coscienza del suo sentimento, chiaroveggenza della sua arte e della sua meta». Ivi.
55
Che egli vede come uno sdoppiamento dell’io e delle sue facoltà, come meglio si vedrà tra poco. Tale sdoppiamento trova nelle poesie un frequente richiamo nel motivo del «guardarsi vivere», che si presenta spesso come proiezione di sé negli altri. Di questo tipo di sdoppiamento, abbastanza frequente, forniamo qui una campionatura significativa: «[...] Come più m’avanzo / all’altra meta, gioventù, m’avvedo che fosti bella come un bel romanzo! / Un bel romanzo che non fu vissuto / Da me, ch’io vidi vivere da quello / che mi segui, dal mio fratello muto [...] sorrido e guardo vivere me stesso». I Colloqui, I, dalla raccolta omonima (vv. 20-
25 e v. 41); «Né voglio più, né posso. / Più scaltro degli scaltri / dal margine di un fosso / guardo passare gli altri» Nemesi, vv. 85-88, in La via del rifugio; Melisenda,
in Ultima traccia (Prose..., cit., pp. 663-71); Sull’oceano di brace in Altare del passato (ivi), p. 581: «Siamo coetanei ed amicissimi, ma non abbiamo in comune che il nome; quel fanciullo bellissimo e sanguigno è un istintivo, che ron osserva la vita, la vive: io non vivo la vita, l’osservo: forse per questo io e Guido ci vogliamo un gran bene»; La scelta migliore in L’ultima traccia (ivi, p. 122): «Lidia, nella sua impulsività di donna, non si studiava, non si capiva, non cercava di capirsi. La crisi
era superata. Il suo istinto di femmina la sottraeva naturalmente all’agguato, a quella miserabile larva maschile che era il cugino; la spingeva, quasi nolente, verso l’uomo più forte, più coraggioso, più bello». Si cfr. ancora Lo stesso gorgo, ivi, pp. 759-65 e Madre d’Oltralpe, ivi, p. 711: «Il destino offre anche in provincia figure e situazioni singolari, tragiche, stridule, interessanti per chi assiste alla vita con gli occhi saggi e contemplativi, come ad una cosa inventata». Ma la più esplicita
NoteI
capitolo
135
ed esemplare prova di tale consapevolezza della scissura radicale tra l’io e l’altro è contenuta in // più atto (Colloqui). Un tale sdoppiamento si realizza anche all’interno dell’io, tramite il «ritratto» nel
quale si proietta una immagine altra dell’io reale, e la cui collisione con la coscienza che osserva, ingenera uno stato di ambigua perplessità tra malinconico distacco o intenerito rimpianto: si cfr. Ir casa del sopravvissuto, II, vv. 37-44 «... Toglie di sul piano-/forte un ritratto: «quest’effigie !... Mia?...» / E’ fissa a lungo la fotografia, di quel sé stesso già cosi lontano: «Si, mi ricordo... Frivolo... Monda-
no... / vent'anni appena... Che malinconia... / Mah! Come l’io trascorso è buffo e pazzo / Mah [...}»; I Colloqui, II, vv. 27 e sgg; «L'immagine di me voglio che sia / sempre ventenne, come in un ritratto; / amici miei, non mi vedrete in via, / curvo dagli anni, tremulo e disfatto! / [...] il fanciullo sarò tenero e antico / che sospirava al raggio delle stelle [...])»; L'amica di nonna Speranza, V, in I Colloqui:
«Quel giorno — malinconia — vestivi un abito rosa, / per farti — novissima cosa! — ritrarre in fotografia», vv. 107-8 (i corsivi nel testo sono miei). 56
Cfr. Epistolario, cit.: «Oggi credo nello spirito, sento, intendo in me la vita dello spirito. Da quella troppo bene accolta Via del rifugio. peccante qua e là di ingenuo materialismo, la mia fede si è elevata in questi Colloqui a speculazioni più pure e più consolanti. Non so se sia questa la mia via di Damasco, né se mi porti in avvenire ad una fede dogmatica, ma sento che è questa la via della salute» (pp. 1350-51).
57
L’aspirazione alla «pace dell’increato» gli suggerisce più d’una volta atteggiamenti di distacco spirituale: «Sento scendere in me una calma inquietante, sento distendersi i muscoli facciali nella serena compostezza di una maschera placida» (Epistolario, cit., p. 1293); «Sereno come uno sposo e placido come un novizio» Alle soglie, v. 36 (I Colloqui); «[...] e sul volto del giovane era fissato ancora, come una maschera, un sorriso di compiacenza serena, di riposata saggezza», Melisenda...,
cit., p. 671. 58
«Non credo alla psiche e ho un profondo disprezzo per la mia e per la vostra anima, alle quali non attribuisco maggior valore dell’energia che muove un lombrico
e della clorofilla che colorisce uno stelo d’erba: e lo stesso vostro canto cosi sdegnoso pur nella passione, cost alto e puro e casto non è che il grido del vostro pudore convulso, contratto sotto la sferza dell’istinto, che provvede all’eternità del-
la specie» Epistolario, cit., pp. 1250-51; «Ma in questo lento dileguare la vostra immagine spirituale si definisce meglio, balza al mio spirito con linee precise [...] gl’istanti d’aberrazione che ci avvinsero l’un l’altro sono già dimenticati [...] ed io mi sento già estraneo, immune dal vostro fascino fisico, franco da ogni schiavitù volottuosa» (ivi, p. 1284): ma si vedano ancora le pp. 1273, 1275, 1276, 1294, 1312 etc. 59
Cfr. Ananke in Ultima traccia, cit., pp. 1053-54. A proposito di Ananke occorre molto marginalmente tentare di correggere o quanto meno alleggerire la severità della condanna di plagio (in questo caso da Maeterlinck) pronunciata da B. PORCELLI, op. cit., a carico del Gozzano articolista (ma un discorso andrebbe fatto in modo più accurato su tutta la spinosa questione che il Porcelli ha il merito di aver sollevato), poiché se è vero che i prestiti sono secchi e senza possibilità di attenuanti, è vero altresi che essi non possono essere estrapolati chirurgicamente dalla pagina gozzaniana e dal contesto pit complessivo della sua opera nella relazione con le sue fonti, senza che si corra un qualche rischio di meccanicità «giudizia-
136
Lo spazio poetico di Guido Gozzano ria». Tali prestiti talora si offrono a Gozzano come utili occasioni di recupero approfondito e di illimpidita riflessione su temi squisitamente suoi. Tali intarsi infatti incrociano talora nuclei abbastanza consistenti della riflessione personale del poeta, o quanto meno risultano largamente consonanti. Spesso fonti di autori diversi si stratificano nella stessa pagina (come nelle Lettere dall’India) e coniugandosi danno luogo ad un impasto originale, anche se ottenuto con una tecnica assai sofisticata di manipolazione di testi altrui e di numerose mediazioni letterarie. È per esempio il caso di Ananke in cui il motivo del contrasto tra intelligenza e istinto è mutuato anche dall’antitesi tra volontà e conoscenza di Schopenhauer. In particolare è da vedere l’analisi schopenhaueriana dell’essenza della poesia lirica, e della canzone in particolare, in cui il filosofo vede commisti i due opposti elementi del volere come «affetto, passione, animo agitato» e della consapevolezza di sé «quale soggetto del puro conoscere, scevro di volontà» e ad esemplificazione ci-
ta come «parodia comica» di siffatto carattere lirico una canzone in cui il poeta tedesco Voss «descrive ciò che prova un copritetti ubriaco nell’atto di cadere da una torre; il quale, pur cadendo, fa l’osservazione, molto fuori luogo nel suo stato presente, e quindi spettante alla conoscenza scevra di volontà, che l’orologio della
torre segna per l’appunto le undici e mezza» (A. SCHOPENHAUER, // mondo come volontà e rappresentazione, a cura e introd. di C. Vasoli (vol. II), Bari, Laterza,
1968, pp. 337-38; la sottolineatura è mia:e vuole dare evidenza alle consonanze con il testo gozzaniano e maeterlinckiano.). La compresenza in tale pagina gozzaniana di Maeterlinck e di Schopenhauer è evidentemente utilizzata dal poeta a servire da sostegno al motivo-cardine del rapporto antitetico tra istinto e ragione che, come s'è visto, mette in azione la dinamica del mondo spirituale di Guido ed
è fondamentale nucleo generativo della sua arte. Se questo è vero, risulta avvalorata l’ipotesi che avanziamo del significato multiplo di questa pagina, e l’indicazione di poetica in essa contenuta. 60
Ivi, p. 1051.
61
«Jo non sono innamorato che di me stesso; voglio dire: di ciò che succede in me stesso» corsivo dell’A., Epistolario, cit., p. 1248; cfr. G. GETTO, op. cit., p. 51: «...
uno sguardo troppo insistito sullo specchio riflettente la sua privata persona». 62
AI di là dell’inevitabile mutarsi rapido e sparire al mondo, di cui Gozzano ha l’acuto sentimento (cfr. ! Colloqui, II, L'ultima infedeltà etc.), è l'estrema mutevolez-
za dell’io, del suo io che lo stupisce, quantunque egli smorzi, come è suo stile, lo sgomento in un sorriso; cosi in L’ipotesi proiettandosi con gli amici in un futuro «molto al di là da venire», «perita gran parte di loro», smarrito ormai il suo se stesso d’un tempo, sottilmente postilla: «ma chissà quanti me stesso sarebbero morti in me stesso!» (v. 48), e riflettendo in sé, con il consueto gioco di specchi, la propria immagine di un tempo, esclama: «mah! come l’io trascorso è buffo e pazzo!»
In casa del sopravissuto, II, v. 43 (I Colloqui). 63
L’analfabeta, vv. 83-84 (La via del rifugio). Le citazioni che seguono sono a volte leggermente modificate, per congruità logico-sintattica.
64
Torino, III, v. 50 (7 Colloqui).
65
I Colloqui, II, v. 33 (10%).
66
L’analfabeta, vv. 83-84 (La via del rifugio).
NoteI
capitolo
137
67
In morte di Giulio Verne, v. 14 (La via del rifugio).
68
In casa del sopravissuto, I, v. 13 (I Colloqui). Su questo motivo si definiscono alcuni tra i più lucidi autoritratti: Totò Merdmeni, Un'altra risorta, vv. 20-30 (ivi). Un'altra risorta, vv. 14 e 48 (ivi).
69
70
In casa del sopravissuto, v. 59 (ivi).
71
Cocotte, IV, v. 75 (ivi).
72
Salvezza, v. 6 (101).
73
Nemesi, vv. 65-67 (La via del rifugio).
74
Toiò Merimeni, vv. 17 e 20 (I Colloqui): ma sul tema assai frequentato dell’aridità di cuore si veda ancora ivî, vv. 59-60, L’onesto rifiuto, vv. 15-18, ivi, I, vv. 40-41,
Convito, III, vv. 25-28 (102). 75
L'ultima infedeltà, vv. 2 e 6 (ivi).
76
L’onesto rifiuto, v. 16 (ivi).
DE
Una risorta, v. 36 (ivi).
78
La signorina Felicita, VI, v. 321 (ivi), A Massimo Bontempelli, II, in Poesie sparse.
79
In casa del sopravissuto, I, v. 18 (I Colloqui).
80
Pioggia d’agosto, v. 38 (ivi).
81
Torino, IV, v. 70 (101).
82
In casa del sopravissuto, II, v. 54 (ivi), ma sul tema del borghese onesto si veda so-
prattutto la sequenza in La signorina Felicita, VI, vv. 296-326 (ivi). 83
Ora di grazia, v. 12 (La via del rifugio), ma sul tema del mistero universale si veda anche /[gnorabimus, e L’analfabeta, vv. 117-160 (La via del rifugio), Le farfalle.
84
Il più atto, v. 1 (I Colloqui); ma si veda anche per il tema dell’alter ego, un indiretto riferimento nel sonetto La forza (La via del rifugio).
85
Da I sonetti del ritorno, VI, v. 7 (ivi); ma sul motivo del poeta sognatore del passato i riferimenti d’obbligo vanno alla Signorina Felicita, Paolo e Virginia, L’amica
di nonna Speranza, Torino, Cocotte, L’analfabeta etc. 86
L'altro, vv. 9-10 (Poesie sparse).
87
Torino, I, v. 22 (1 Colloqui). La crisi dell’evoluzionismo positivista trova risalto particolare nell’esperienza lirica di Gozzano soprattutto nella connotazione di segno negativo, o quanto meno nel tono di constatazione amara, che ha il motivo della «forza» nel paragone
88
costante, e antitetico, con quello della inettitudine dei «buoni» niccianamente intesi (cfr. Il più atto, Melisenda, Il giorno livido, Il benefizi di Zaratustra, La scelta migliore, Lo stesso gorgo, La belva bionda etc.), perciò non condividiamo le con-
clusioni che ne ricava lo Zatti secondo il quale «i termini del linguaggio darviniano vengono presi a prestito per designare la selezione borghese ad opera della concorrenza, per la quale i “malati” soccombono alla lotta in favore dei “sani”. La teoria di Darwin, fondata sul principio di una selezione che è il risultato della lotta per lo spazio vitale da parte dell’animale, in effetti si prestava efficacemente come immagine speculare dei meccanismi della società capitalistica. Gozzano di
138
Lo spazio poetico di Guido Gozzano
fronte al fratello sano, cui vanno le rose, i beni, le donne e i piaceri (// pid atto) riconosce, sia pure a denti stretti ‘madre natura è giusta” in omaggio a una teoria nel cui successo venivano implicitamente sanzionate sul piano naturale le depredazioni della borghesia di fine secolo e l’euforia economica che ne derivava; soprattutto giustificava sulla base del principio del /aissez faire, il prepotere dei più forti e sani nella competizione per la conquista della preda naturale» (op. cit., p. 137, n. 36). Per l’ideologia di Gozzano si veda esemplarmente A. PIROMALLI, op.
cit., pp. 1-44 e 153-191.
89
Cfr. u. BOSCO, in Realismo romantico, cit., pp. 278-88.
90
G. MARIANI, L’eredità ottocentesca di Gozzano..., cit., pp. 3-68.
91
Dai poeti «borghesi» del secondo Ottocento (Betteloni, Bettini, Visconti Venosta, Gnoli etc.) ben noti a Gozzano, cfr. G. MARIANI, op. cit.
92
«In Gozzano non c’è nulla della fatale, romantica resurrezione del passato, come
93
Per la quale non ha certo simpatia: un riferimento, ci pare, abbastanza esplicito alla lotta politica e ai conflitti economici è contenuto nella Signorina Felicita, vv. 187-94, per il richiamo ai simboli del partito socialista e di quello popolare (il «Sole» la «Croce»), ai colori (le «formiche rosse» le «formiche nere»), all’immagine negativa della «Eguagliatrice», di contro all’ideale dell’eguaglianza socialista: altri richiami, sempre in negativo alla lotta di classe in A un demagogo e in Il modello.
94
Cfr. L’analfabeta, Il sonetto del ritorno, La signorina Felicita, Totò Merimeni, In casa del sopravissuto, L’ipotesi, Un'altra risorta.
95
Cfr. Parabola, L’analfabeta (v. 92), Le due strade (vv. 21-34, 104), La forza, Elogio degli amori ancillari, Invernale, Il più atto, Totò Merimeni (vv. 37-44), Una risorta
poesia della “vita interiore’? delle “favole antiche’? (G. SCALIA, op. cit., p. 309).
(vv. 105-20), Un'altra risorta (vv. 17-19), L’onesto rifiuto (vv. 4-6), Il frutteto (vv. 65-68), Le non godute, Le golose, Ketty. 96
Cfr. La via del rifugio, Nemesi, Alle soglie (vv. 29-36), Il più atto (vv. 10-16), Una risorta, Un'altra risorta (vv. 25-30), L’onesto rifiuto, A Massimo Bontempelli, III, vv. 27-30, IV.
97
Questo motivo che occupa un posto preponderante nell’opera di Guido per le ragioni note, trova particolare evidenza nell’Ana/fabeta (vv. 33-44, 69-80, 25-30), Paolo e Virginia (vv. 41-51, 65-68), La signorina Felicita (vv. 37-48, 132-68, 361-62,
98
Cfr. L’analfabeta (vv. 33-40, 69-72), Paolo e Virginia (vv. 41-46, 69-70), La signorina Felicita (vv. 181-210), Pioggia d’agosto (vv. 13-30).
375-76, 423-34), L’amica di nonna Speranza, Cocotte, Torino, L'esperimento.
99
Cfr. L’amica di nonna Speranza, La signorina Felicita, Paolo e Virginia, Torino
(vv. 23-30, 55-60), /r2 casa del sopravissuto (vv. 37-44, 55-60), I Colloqui (I, vv. 27-39). 100
M. GUGLIELMINETTI, La corrosione del parlato, cit., p. 205; ma si veda in tal senso,
cioè sulla via di una definizione critica appropriata dell’antinaturalismo gozzaniano, soprattutto G. BARBERI SQUAROTTI e L. MONDO, e per gli aspetti ideologici B. PORCELLI. 101
Mi pare che meglio di chiunque altro il GETTO lo abbia scoperto: «la raffinatezza stilistica è qualcosa più di un dato fra gli altri dati di questa poesia, ma è la legge
NoteI
capitolo
139
stessa, è la misura di essa. Nello stile si compone l’ondeggiare di immagini-emozioni di Gozzano. La sua estrema accortezza espressiva rende possibile il contrappunto in cui si sviluppa questa poesia, la quale consiste in una realtà musicale e precisamente nel contrappunto dei temi..., proprio per rendere più persuasiva l’instabilità di ogni unità lirica e il totale valore di somma di questi motivi... In questa mobilissima concentrazione di contrasti, in questo palpito musicale dal rifugio all’evasione, è l’autentica voce della sua poesia» (op. cit., pp. 45-46); una poesia che già E. CECCHI (citiamo dal GETTO) riconosceva animarsi per una assidua virtù di contrasto (Studi critici, Ancona, Puccini, 1912, pp. 117 e 122). Illuminan-
te mi pare inoltre a comprendere la valenza complessa del petrarchismo del Gozzano il saggio di G. CALCATERRA, Modi petrarcheschi nell’arte di Gozzano, cit. (ma dello stesso fondamentale resta la monografia Con Guido Gozzano ed altri poeti, cit.); un Petrarca che per la duttilità stilistica, richiesta dal suo habitss analitico, si
offriva come modello non casuale ad un poeta della crisi quale Gozzano. A proposito del suo stile, del suo calcolatissimo equilibrio tra tradizione e innovazione, tra modi ironico-giocosi e serio-sentimentali, va dato atto al Calcaterra che la duttile mobilità di esso è effetto di quella duplice compresenza di «antitesi ideale» e di «rispondenza formale» con cui Guido rendeva più perspicui «i momenti d’anima che voleva raffigurare» sulla scorta del Petrarca (ma siffatto tipo di relazione è estensibile agli altri «modelli» gozzaniani). Occorre aggiungere che tali precisazioni del Calcaterra non destabilizzano ir toto gli argomenti di Sanguineti circa l’effetto di dissonanza e di stridore ironico raggiunto combinando l’aulico e il prosaico borghese bensi ne attenuano l’assolutezza e la rigidità poco opportune nei confronti di un poeta che non tollera, in grazia della sua virtù dissimulatrice, forzature e riduzioni ad un solo registro. Sullo stile sono da vedere anche le osservazioni del PIROTTI, op. cit., che con argomenti puntuali, ma non del tutto persuasivi, sottolinea i debiti contratti da Gozzano riguardo alla tradizione umanistica,
rendendo però poco dimostrata la natura della sua originalità che il critico del resto non mette in dubbio. 102
Andrebbe meglio dimostrata l’influenza esercitata sulla sua opera da Schopenhauer e da Nietzsche; quantomeno su certo suo orientamento pessimistico di fondo, anche in considerazione della centralità di Torino, come milieu della crisi positivistica in Italia; non è inoltre da trascurare il fatto che la Torino giolittiana
prospetta già i segni contraddittori e vistosi della crisi imperialistica e risente di inquieti fermenti, di disorientamento ideale: cfr. sulla cultura torinese: V. CASTRONOVO, Il Piemonte, Torino, Einaudi, 1977; P. SPRIANO, Torino operaia nella grande 103
guerra (1914-18), Torino, Einaudi, 1960. Il felice accostamento al titolo della nota raccolta poetica di Eliot è del Mondo.
104
G. GETTO, Guido Gozzano e la letteratura del Novecento in «Lettere italiane», 1966,
105
E. SANGUINETI, Da D'Annunzio a Gozzano e da Gozzano a Montale in Tra liberty e crepuscolarismo, ma si vedano anche i frequenti riferimenti al tema in Guido Goz-
pp. 403-426.
zano..., Cit. 106
L. MONDO, op. cit. e soprattutto pp. 123-53.
107
N. TEDESCO, La condizione crepuscolare, Firenze, La Nuova Italia, 1970, soprattut-
to pp. 20 e sgg.
140
Lo spazio poetico di Guido Gozzano
108
M. GUGLIELMINETTI, La corrosione del parlato..., cit.
109
G. BARBERI SQUAROTTI, Realtà tecnica e poetica di Gozzano, cit., pp. 86-94.
110
G. MARIANI, 07. cit.
1n1
U. PIROTTI, 07. cit., p. 196.
112
Cfr. A. LEONE DE CASTRIS, la cui analisi complessiva del decadentismo italiano si offre oggi come un contributo essenziale alla comprensione del fenomeno soprattutto nell’esame delle «forme di coscienza» dei letterati primo-novecenteschi, e in ordine alla contraddizione centrale tra «il loro essere sociale» e «la coscienza del loro essere sociale». All’interno di un articolato quadro di analisi che condividiamo nella sostanza, ci sembra non accettabile la riduzione di Gozzano a fenomeno di «resistenza passiva»; i numerosi riferimenti a Gozzano sono contenuti in // de-
cadentismo italiano..., cit., pp. 7-81. 113
A tale proposito è opportuno ricordare che SCALIA, op. cit., p. 308, definisce quella dei crepuscolari, e di Gozzano che ne è la coscienza critica, una «protesta quietistica e antioratoria» e attribuisce a merito non piccolo del Gozzano l’aver liquidato «un grosso equivoco della cultura poetica [a lui] contemporanea, cioè il deca-
dentismo classicistico o il classicismo decadentistico dannunziano: e anticipativamente, l’equivoco delle forme di vitalismo, superumanismo, oratoria sociale e
ideologica di cui la cultura italiana, e non la sola poesia ha dovuto sopportare il peso» e cita perciò, oltre il D'Annunzio, «certo futurismo e vocianesimo e lacerbismo dilettantesco-estetistico». 114
Si cfr. il bel saggio di A. ACCIANI, Renato Serra. Contributo alla storia dell’intellettuale senza qualità, Bari, De Donato, 1976.
115
Cfr. Epistolario, cit., p. 1943.
116
Si vedano le prose gozzaniane dell'Ultima traccia, e talune delle Prose varie di cui si discorre più oltre.
117
Si cfr. oltre G. SCALIA citato sopra anche E. SANGUINETI, Introduzione a Guido Gozzano. Poesie..., cit., pp. IX-X.
118
«Or quali cose / darai per meta all’anima che duole? / ... chiedi il responso dell’antica maga / la sola verità buona a sapersi; / ... la Natura... nata di sé medesima,
assoluta, / unica verità non convenuta / dinanzi a lei s’arresta il mio sogghigno» (Pioggia d’agosto). 119
B. PORCELLI, Gozzano e Maeterlinck, ovvero un caso di parassitismo letterario, in
120
Nemesi, vv. 115-16
121
Difettivi sillogismi, vv. 50-51.
122
Ivi, vv. 59-61.
«Belfagor», XXIV, 1969, ora in Gozzano. Originalità e plagi, cit.
123
Nemesi, vv. 65-68.
124
Ivi, vv. 95-96.
125
Pioggia d'agosto, v. 48.
126
Difettivi sillogismi, vv. 31-40.
Notel 127
capitolo
141
Ivi, vv. 41-48.
128
Pioggia d’agosto, vv. 31-48
129
Difettivi sillogismi, vv. 52-55.
130
Dagli inediti a cura di Calcaterra e De Marchi (citiamo dal Mondo, op. cit., pp. 104-5).
131
M. GUGLIELMINETTI, Guido Gozzano in Dizionario della letteratura italiana, cit., p. 256: «davvero esemplare in questa direzione finora non sufficientemente individuata dalla critica devono considerarsi le seconde stesure di liriche quali Alle soglie (col titolo I Colloqui) La signorina Felicita ovvero La Felicità (col titolo L’Ipotesi) e L’amica di nonna Speranza (col titolo L'esperimento)... Purtroppo solo pochissimi componimenti posteriori ai Colloqui (si ricordi almeno Ketty) danno la sensazione che il Gozzano intendesse proseguire lungo questa linea solitaria, ma eccezionale, di poesia».
132
Si tratta di alcune raccolte di pagine giornalistiche di cui si indicherà in seguito la datazione, e del poemetto didascalico Le farfalle, consegnato manoscritto all’editore Treves nel 1913, ma apparso in parte successivamente nel seguente ordine: Dei bruchi, in «Grande illustrazione» di Pescara, e Delle crisalidi, ivi, febbraio
1914; Del Parnasso in «La Stampa» di Torino, 4 marzo 1914; Dell’aurora (già La messaggera marzolina) sulla «Illustrazione italiana», Torino, 23 marzo
1916, e
pubblicato successivamente in Opere (a cura di C. Calcaterra e A. De Marchi), Milano, Garzanti, 1948 e le Poesie sparse in parte composte dopo il 1911 e raccolte
successivamente dal Calcaterra e De Marchi (ed. cit.) e arricchito via via in edizioni filologicamente più curate (si cfr. G. GOZZANO, Poesie, a cura di E. Sanguineti, cit., ed ora G. GOZZANO, Tutte le poesie, a cura di A. Rocca e con introd. di M. Gu-
glielminetti, cit.). 133
Sull'argomento si confrontino i frequenti richiami contenuti in G. GOZZANO, Lettere a Carlo Vallini e la pref. cit. di G. DE RIENZO; S. ZATTI, Op. cit., F. PAPPALARDO, op. cit.
134
«Ma già non scriverò su giornali mai quale aberrazione mi sia deciso l’anno vergogna che pesa sulla mia coscienza GOZZANO, Epistolario, in Poesie e prose,
più (dovessi morire di fame) e non so per scorso a collaborare al “Momento”. È una letteraria e che non mi perdonerò mai». G. cit., p. 1362.
135
Rinvio soprattutto ai saggi citt. di B. PORCELLI, G. PADOAN, € A. GRISAY.
136
La raccolta pubblicata postuma nel 1918, due anni dopo la morte del poeta, per interessamento del fratello Renato, presso la casa editrice Treves di Milano comprendeva novelle apparse su quotidiani e periodici di cultura tra il gennaio 1911 e il febbraio 1916.
137
Vi si ravvisano i motivi più noti della sua poesia, in una serie di situazioni, oggetti e figure che spesso riproducono appena variati, forme e modi stilistici già sperimentati.
138
Si veda soprattutto La marchesa di Cavour, Torino d’altri tempi, La casa dei secoli.
139
Cfr. La marchesa di Cavour, Caccie d’altri tempi, Torino d’altri tempi, La casa dei
secoli. 140
Si cfr. esemplarmente l’ultima novella L'altare del passato e I sandali della diva,
142
Lo spazio poetico di Guido Gozzano dove torna frequente il motivo del solaio; del sacrario dei ricordi, della collezione
di oggetti-fossili. 141
In queste ed altre pagine delle Prose varie, di frequente Gozzano corre il rischio di una compiaciuta stilizzazione appena riscattata dalla increspatura ironica che impreziosisce queste pagine di memoria: si cfr. in particolare le pp. 524, 526, 533-4, 544 etc.
142
Cfr. La patrona dei bombardieri, Caccie d’altri tempi, Torino d’altri tempi etc.
143
Nel corso di quegli anni posteriori alla pubblicazione dei Colloqui Gozzano attende alla stesura delle Farfalle, alle Lettere dall’India, alla sua produzione favolistica, alle sue prose di memoria, alla sceneggiatura del progettato film su san Francesco oltre che ad arricchire con alcuni componimenti il corpus delle sue poesie.
144
L’ultima traccia vede la luce, per interessamento di Renato Gozzano, nel 1919
(per i tipi di Treves) e raccoglie scritti usciti sulla «Stampa» dal 3 giugno 1913 al 23 giugno 1916. È 145
Mi riferisco ai «pezzi» datati fra il gennaio 1913 e il maggio 1916 poi confluiti in parte nel vol. I (La via del rifugio, con l’aggiunta di prose varie) in G. GOZZANO, Opere (edizione definitiva), voll. 6, Milano, Treves, 1936; poi raccolti sotto il tito-
lo Prose varie, in G.GOZZANO, Opere (a cura di C. Calcaterra e A. De Marchi), Milano, Garzanti, 1948. 146
Cfr. l’analisi di La belva bionda alle pp. 10-12.
147
Si incontrano disseminate in questa raccolta alcune assai veloci notazioni ritrattistiche che concorrono con la rapida icasticità del segno a definire la situazione narrativa: cfr. Melisenda, p. 663; La scelta migliore, pp. 723 e 726; Pamela-film, p. 736; IL bel segugio, pp. 744 e 745; La vera maschera, pp. 771, 772 e 774; L’onestà superstite, p. 781.
148
Nei ritratti di Un addio risulta ancora più evidente la funzione ironico-narrativa a cui Gozzano piega il ritratto: si tratta di un salto di qualità — non dirò già artistico — rispetto al carattere ironico-contemplativo della «stampa» in cui si tende ad immobilizzare la fissità defunta dell’immagine; qui viceversa il ritratto reca il suo contributo al racconto antinaturalistico del Gozzano, in chiave di corrosività
espressionistica: «L’Ulisse”, “la Dolores”: come se fossero unici nel loro genere. Erano invece i più innocenti esemplari del figliolo buono, ottuso, ingiallito nel lavoro, e della figliuola venticinquenne, scialba da non poter essere descritta, fatta più scialba dai languori delle nozze imminenti con un industriale attempato» (p. 702); La madre: «Doveva essere stata bella a vent'anni, ma il carattere atroce e la
febbre pecuniaria l'avevano corrosa, ingiallita come un veleno. Alta, spettrale, restava fedele al busto ad imbuto di trent'anni prima, alla vita di vespa che era stata il suo vanto. Dai pizzi delle maniche e delle spalle i tendini delle mani e del collo emergevano come fili d’uno stesso congegno a muovere le dita ossute, il mento scarno sotto il profilo volpino. Aveva la bocca senza labbra, le iridi grandi azzurre sul giallo atrabiliare dell’occhio; e le chiome superstiti sorrette a raggiera su un cuscinetto di stoffa erano tinte economicamente con la fuliggine. Due brillanti enormi di puro fulgore facevano quel volto più giallo e spettrale. Tito pensava, guardandola, alla mummia parlante di qualche regina messicana [...] la zia prese l'atteggiamento suo solito dei lunghi silenzi; gli occhi dilatati fissi nel vuoto, la
Note
capitolo
143
bocca contratta, poi un corrugare sempre più forte della fronte, come chi cela uno spasimo crescente e un mugolio nasale, un gemito sibilante a labbra chiuse che finiva in un sospiro di lassitudine. [...}». 149
Non è difficile rintracciare sotto le spoglie di taluni protagonisti delle novelle talora in prima, talora in terza la persona dello scrittore, ora nei panni dell’intellettuale illuso, ora in quelli del giovane decadente e scettico, o del malato, dell’impedito alla vita, secondo un cliché ormai noto.
150
Citiamo dai passi inediti reperiti dal Calcaterra e dal De Marchi (cfr. L MONDO, op. cit., pp. 106-107).
151
Ibidem.
152
Le lettere dall’India, pubblicate quasi tutte da Gozzano su quotidiani e riviste fra il ’14 e il ’16, videro la luce in volume con il titolo Verso la cuna del mondo — Lettere dall’India, 1912-13, con prefazione di G.A. Borgese, Milano, Treves, 1917, su
schema già predisposto dall’autore. Poco convincente ci sembra il tentativo con cui il Sanguineti (Guido Gozzano, cit., pp. 135-73), tende a proporci la linea della continuità tra Collogui e Verso la cuna del mondo, tutta giocata sullo schema dello choc e della dissonanza; elementi che a noi qui sembrano piuttosto occasionali e ricalcati, abbastanza previsti ed esteriori; il vero Gozzano delle Lettere dall’India
ci pare sia altrove. 153
Dal momento in cui al poeta di fronte alla «realtà delle pietre morte», tocca di «constatare che le cose magnificate dalla storia, dall’arte, dai poeti non sono più,
non saranno mai più, sono come se non fossero state mai!» (Verso la cuna del mondo, p. 430); o di convincersi che «le primavere [...] le estati, gli autunni, gli in-
verni immortalati nei capolavori della poesia, della pittura, della musica europea non sono che il prodotto di una latitudine — tristezza e relatività di tutte le cose, anche di quelle che veneriamo come divine e immortali — [...] » (202, p. 413). 154
Il quale porta a far riemergere il francescanesimo giovanile del Gozzano (cfr. Epistolario, lettera a Don Fausto Graziani, in Poesie e prose, cit., pp. 1233-38; Il misti-
cismo moderno e la rievocazione del Serafico, ivi, pp. 900-909), riconfermato nella sceneggiatura cinematografica coeva su san Francesco. 155
Ci riferiamo a Giaipur: città della favola (pp. 482-91) in cui lo scarto calcolato rispetto al testo di Loti (L’Yrde (Sans les Anglais), Paris, Calman-Levy, s.d., pp. 30028) è dato soprattutto dalla intenzione del Gozzano di espungere dalla descrizione della «città della favola» tutti quegli elementi assai ricorrenti in Loti di stridente contrasto tra la bellezza armoniosa della architettura, delle decorazioni e degli ornamenti floreali e la abbrutita degradazione dei mendicanti affamati e moribondi lungo le strade pavesate di corone di fiori a vantaggio di una edulcorata ed estetizzante trascrizione nella quale anche gli aspetti della miseria finiscono per diventare pittoreschi ingredienti del paesaggio e pretesto alla esaltazione francescana e misticheggiante del suo equivoco creaturismo. Assai eloquente in tal senso anche L’olocausto di Caw Nepore, pp. 492-500 (assente in Loti) in cui Gozzano interpreta un episodio di rivolta degli indigeni contro i colonialisti inglesi come un esempio di ferocia barbarica e anticristiana con evidente forzatura e ambigua complicità con i dominatori europei, in cui è forse da ravvisare una certa dose di
144
Lo spazio poetico di Guido Gozzano consenso ideologico agli entusiasmi nazionalistici dell'impresa africana del 1912; in questa direzione si cfr. anche Jim Crow, in Prose varie, pp. 1127-32.
156
Si vedano soprattutto in Loti le pagine iniziali e finali (pp. 3-7 e 392-456) e in GOZZANO, Le grotte della Trimurti (pp. 375-85) e Ilfiume dei roghi (pp. 501-09).
157
I confronti testuali avviati dai lavori di A. GRISAY, L'India di Guido Gozzano, cit.,
e di PORCELLI, Le «lettere dall’India»..., cit., costituiscono il primo approccio ad una questione che andrebbe sviluppata. 158
Tutta l’opera è percorsa da una sorta di ebbrezza vegetale e da una attenzione stupefatta, ora cupamente attonita, ora gentilmente curiosa verso il mondo degli ani-
159
G. GOZZANO, Come dal germe (vv. 38-55) in Le farfalle — Epistole entomologiche, in Poesie, cit. La laboriosa vicenda della ideazione, composizione incompiuta, e progettata e non avvenuta pubblicazione delle Epistole, è stata recentemente ricostruita con scrupolo filologico da A. ROCCA, curatore del testo critico di G. GOZZANO, Tutte le poesie, con introduzione di M. GUGLIELMINETTI, cit., pp. 411-33; ma si cfr. anche H. MARTIN, Guido Gozzano, Milano, Mursia, 1971, pp. 201-29.
160
Ivi, vv. 38-45.
mali; ma si veda esemplarmente // vivaio del buon Dio, pp. 511-17.
161
Non sembra da sottovalutare il confronto che Guido istituisce, nell’esordio, tra
due atteggiamenti esistenziali contrapposti e conviventi nella sua poesia: quello di chi come la sua amica Guglielminetti, ma in fin dei conti lui stesso, è trascinato dalla «sete di esistere» ed è sospinto verso «sempre false immagini di bene» (Come dal germe, vv. 49-50), e quello dell’asceta solitario, del «fratello selvatico in odore
di santità» che ama «rifugiarsi in poche forme prime, interrogando / meditando, adorando», dentro il cerchio concluso di una «assenza volontaria» che fuori di sé
«respinge tutte / le iusinghe e le insensate cure» (1vî, vv. 52-60). 162
G. GOZZANO, Della passera dei santi, vv. 127-32 in Poesie, cit.
163
A parte i già citati saggi relativi al problema dei prestiti formali di Gozzano (cfr. nota 1 e nota 59 di questo saggio) si tenga presente l’informato e preciso saggio introduttivo alle Epistole entomologiche di A. ROCCA, op. cit., in particolare il cap. intitolato Le fonti, pp. 390-411.
164
Che viene ribadita in più di un passo. Qui esemplarmente scegliamo il seguente da La passera dei santi (vv. 143-49): «Come noi lotta [il genio della terra] con la massa oscura / pesante, enorme della sua materia; / non sa meglio di noi dov’esso vada, agogna verso un ideale solo: / elaborare tutto ciò che vive / in sostanza più duttile e sottile, / trarre dalla materia il puro spirito». È da notare qui incidentalmente come in questi passi dove il tessuto raziocinativo è più evidente, ma complessivamente in tutto l’impasto stilistico delle Farfalle, prevalgono procedure formali improntate a modi argomentativi e didascalici: 1) andamento paratattico delle proposizioni e sequenze descrittive scandite da forti segni di interpunzione: ad es. Dei bruchi, vv. 46-86; 2) frequenza di avverbi e aggettivi dimostrativi (nel solo passo Dei bruchi, «ecco» ricorre quattro volte ai vv. 31, 64, 103, 114, e gli aggettivi o pronomi «questo» e «quello», sei volte ai vv. 50, 53, 55, 73, 123); 3) di particelle e costrutti con funzione argomentativa (cfr. Delle crisalidi, vv. 1, 23, 47, 51, 60, 87, 89 etc.); 4) uso frequente dell’indicativo e del tempo presente con funzione dichiarativa e descrittiva; etc.
Note II capitolo 165
145
Dei bruchi, vv. 32-35; Della cavolaia, vv. 45-56; La passera dei santi, vv. 123-76 e 191-202; etc.
166
Sulla modernità in senso novecentesco delle Farfalle si sono pronunziati soprattutto L. MONDO e G. BARBERI SQUAROTTI, 0pp. citt.
167
Cfr. Del Parnasso, vv. 77-85, 93-105 e Della cavolaia, vv. 107-10, 130-34.
168
Dell’ornitottera, vv. 55-66.
169
Ivi, vv. 76-80.
170
cfr. Della testa di morto, vv. 16-20; 87-105.
171
Come è noto, di poesia della morte in Gozzano già parlarono U. BOSCO e G. TROMBATORE, e pagine magistrali ci hanno lasciato G. GETTO e G. MARIANI in opp. citt.
II. Gozzano scrittore in prosa 1
J. ROUSSET, Forme et signification, a cura di M. Corti, Paris, 1967, p. XII, cit. in G. GÉNETTE, Figure — Retorica e strutturalismo, Torino, Einaudi, 1969, p. 144. M. GUGLIELMINETTI, Guido Gozzano, in Novecento — I contemporanei — Gli scritto-
ri e la cultura letteraria nella società italiana, a cura di G. Grana, Milano, Marzo-
rati, 1979, I, p. 883; ma si veda per le Prose l’intero paragrafo VII (pp. 883-889). Del suo tormentato procedere artistico il Gozzano è il primo ad avere coscienza: si cfr. Epistolario in G. GOZZANO, Poesie e prose, a cura di A. De Marchi, cit., p. 1279, e pp. 1280, 1305, 1315-1316, 1321, 1342-1343. Da questa edizione citeremo
per gran parte delle prose di Gozzano con la sigla P.P. e l’indicazione della pagina; si citerà anche da G. GOZZANO, / sandali della diva, introduzione di M. Guglieiminetti, edizione e commento di G. Nuvoli, Milano, Serra e Riva, 1983 con
l’abbreviazione di S.D. G. BARBERI SQUAROTTI, / Crepuscolari e dintorni, in Piemonte e letteratura nel “900, Atti del convegno, S. Salvatore Monferrato, Cassa di Risparmio di Alessandria,
1980, p. 217. Si avverte che dal volume si citerà con la sigla P.L. e l’indicazione della pagina.
F. CURI, Gozzano ou les prosperités du vice, in P.L., p. 297. G. GOZZANO, Ab! Difettivi sillogismi! (vv. 43-46), in Poesie, a cura di E. Sanguineti, cit. da cui si citerà con la sigla P. e l'indicazione eventuale dei versi. G. DE RIENZO, Guido Gozzano — Vita breve di un rispettabile bugiardo, Milano, Rizzoli, 1983, p. 137.
Si cfr. la nota lettera dall’India alla sorella Erina, in P.P., p. 1362.
Cfr. v. CASTRONOVO, L. GIACHERI FOSSATI, N. TRANFAGLIA, La stampa italiana nell’età liberale, Bari, Laterza, 1979, in particolare il par. 6, pp. 225-233.
Si cfr. le due novelle di L. PIRANDELLO, / tre persteri della sbiobbina e Amicissimi apparse su «Il Campo», tra il 1904 e il 1905 (ben noto al Gozzano che vi aveva pubblicato due serie di recensioni: cfr. F. CONTORBIA, // sofista subalpino, Cuneo, L’Arciere, 1980, pp. 9-28), come risulta da G. FARINELLI, Tra giornali e riviste: «Il
146
Lo spazio poetico di Guido Gozzano Campo», in Studi in onore di Alberto Chiari,Brescia, Paideia, 1973, I, p. 509; su «Il
Campo» si cfr. G. ZACCARIA, Riviste e gruppi intellettuali nel Piemonte dell’età giolittiana — Approccio metodologico per una ricerca, in Istituzioni e metodi politici dell’età giolittiana, Atti del Convegno Nazionale, Cuneo, a cura di A.A. Mola,
Torino, Centro Studi Piemontesi, 1979, pp. 290-292 e 299-300. La successiva lettura del saggio in corso di stampa dello stesso Zaccaria su Gozzano e Pirandello, gentilmente messomi a disposizione dall’A., conferma con argomenti persuasivi le mie veloci osservazioni per le quali mi sia permesso citare il mio Lo spazio poetico di Guido Gozzano, Bari, Adriatica, 1982, pp. 65-67 e sgg. (ora in questo volume, le pp. 34-36), ma già alcuni anticipi in Poetica dell’intelligenza e poesie della crisi in Guido Gozzano, in Letteratura e società -Scritti di italianistica e di critica
letteraria per il XXV anniversario dell’insegnamento universitario di G. Petronio, Palermo, Palumbo, 1980, pp. 507-508. In particolare in / tre pensieri della
sbiobbina, il paradossale convergere di due menomazioni in un incontro patetico e bizzarro può aver ispirato il gozzaniano Gli occhi dell’anima (P.P., pp. 672-681), anche se l’intreccio è ricavato, come ha notato il CONTORBIA, // sofista cit., p. 191, n. 35, dalla Signora di Riondino del Calandra (in A guerra aperta, Bologna, Cappelli, 1964), per cui si veda la nota 22 di questo saggio. Del Palazzeschi che il Gozzano conosceva come risulta dal taccuino dei suoi indirizzi conservato in «Centro Studi Guido Gozzano», Guido dovette apprezzare,
io credo, tanto il gusto della ritrattistica grottesca e patetica, quanto il fondo amaro di certe piccole storie vissute nell'ombra, con il ricorrente motivo del disadat-
tamento e della solitudine. Del Moretti Gozzano conosceva, per averne scritto, // paese degli equivoci (Milano-Palermo-Napoli, Sandron, 1906) in cui, a parte certo pessimismo ironico che Gozzano non mancherà di sottoscrivere con accentuata ammirazione, è possibile ritrovare, ad esempio, nel racconto // nido dello scorpio-
ne, il tema gozzaniano della «decrepitudine buia che grava sulla giovinezza senza speranza» (Ircatenata, P.P., p. 793), dell’assurdo spreco di vite giovani (Guerra di spetri: «Quando penso che noi si fa tanto per tenere in vita questi fantasmi inutili, forse dannosi, mentre diecine di migliaia di giovinezze fiorenti sono mietute sul campo...», in «Il lettore di provincia», I, 3 dicembre 1970, p. 24, dove è apparso con una nota redazionale di F. CONTORBIA dal titolo Un inedito di Gozzano, già in «Aprutium», dicembre 1914). Si tratta del lento consumarsi di una vita giovane, quella della «servente» nella lunga assistenza al vecchio paralitico: ad una vita malata e convulsa corrisponde la vita strozzata della giovinetta che fugge «dinanzi al terrore della morte e al ridicolo della vita...»; ma altre allusive suggestioni potrebbero ricavarsi da una lettura analitica del testo morettiano. G. GENETTE, Figure, cit., pp. 148-149.
G. CONTINI, Introduzione ai narratori della Scapigliatura piemontese, «Letteratura», IX, luglio-ottobre 1947, 4-5, p. 7. Orientamenti analoghi si ricavano da G. PETROCCHI, Scrittori piemontesi del secondo ottocento, Torino, De Silva, 1948.
Citato dal CONTORBIA in P.L., p. 219. Z. ZINI, Appunti di vita torinese, «Belfagor», XXVIII, 1973, 3, p. 326: «Era allora
Torino sospesa tra il vecchio e il nuovo, il vecchio di città un po’ tarda, un po’ comoda, paradiso terrestre di impiegati e pensionati frequentatori di portici in inverno e di viali in estate; il nuovo di città operosa, moderna, progressiva».
Note II capitolo
147
Come si legge in v. CASTRONOVO, // Piemonte, Torino, Einaudi, 1977, p.215. 17
Z.ZINI, Appunti, cit., p. 326.
18
Trovo la bella citazione in F. CONTORBIA (P.L., p. 223) che a sua volta rimanda all’Almanacco torinese 1975, Torino, Viglongo, 1974, dove appare un curioso libretto di un osservatore tedesco della vita torinese, tale Curt Seidel, Torino mia — Impressioni di uno straniero (1912). V. CASTRONOVO, Il Piemonte, cit., p. 215. G. CONTINI, Introduzione, cit., p. 5I
Come è noto la sua attività più cospicua di prosatore ha inizio con la sua collaborazione a «Il Momento» nel 1911. 22
Gozzano, ad esempio, negli Occhi dell’anima prende non più che la struttura della vicenda dal lungo racconto La signora di Riondino del Calandra; tipica novella romantica di amore e morte, di cui il Calandra utilizza tutti gli elementi e i tòpoi
più diffusi e più triti, ma diluendoli e ritardandone il ritmo narrativo e drammatico con la tecnica delle reiterate diversioni paesistiche e descrizioni ambientali fine a se stesse, illanguidendo fino alla posa melodrammatica il pathos romantico della Ermengarda manzoniana. Il peso della ricostruzione decorativa del passato è prevalente rispetto alla narrazione, ed è del tutto assente invece nella dimensione ironica cara a Gozzano. Il quale negli Occhi dell’anima riduce consapevolmente l’intreccio romantico a schema ironico della materia passionale, con visibili spunti mimetico-parodistici (P.P., pp. 672-673), con la progressione dei verbi e delle azioni di p. 673 che definisce i tratti tradizionali e «ridevoli» della «sposa, madre,
sorella esemplare» della letteratura risorgimentale; con reiterazioni irridenti al «destino romantico», giocate sul «sentimento del contrario»: «Più nulla al mondo — giuravano i due — li avrebbe potuti dividere. / E la guerra li aveva divisi» (P.P., p. 672). «Clara avrebbe risposto con due soluzioni soltanto: la morte o la demenza. / Non era morta, invece, e non era impazzita» (iv1). «Il delirio e il letargo pietosi s’alternavano al suo capezzale in attesa della morte certa. / Ma la morte non venne» (:vî, p. 575). «Signorina, non provochi il Cielo! / Ma il Cielo era provocato» (ivi, p. 680). La parte più originale e nuova della novella gozzaniana è nell’infittirsi delle sequenze drammatiche che riguardano la malattia della donna, l’allucinata constatazione dell’irreparabilità dei guasti operati dal vaiolo sul suo viso; il delirio che ne consegue, il senso di svuotamento, di assenza, di distacco
straniato: «ma la sua voce era un’altra, sembrava non appartenerle, incolore, morta, come quella dei condannati, come quella di coloro che hanno già detto addio» (ivi, p. 679); e il finale effetto di choc che sancisce con la sua paradossalità il senso dell’irrazionale del destino. Non posso perciò condividere il giudizio del Contorbia (// sofista, cit., p. 191, nota 35) che privilegia il racconto del Calandra su quello del Gozzano. 23
G. CONTINI, Introduzione, cit., p. 23.
24
Presenti in P.P.; per le vicende editoriali delle varie raccolte gozzaniane delle pro-
25
Può essere utile tuttavia, a rilevare meglio il valore di costante di questo tipo di in-
se rimando a G. NUVOLI, Nota al testo, in S.D., pp. 331-334. cipit, rimandare ancora alle pp. 619, 1001, 1117, 1020 etc.
148
Lo spazio poetico di Guido Gozzano
26
Si noti la reiterazione del verbo vedere, orta senza ora con la negazione: «vedo... vedo... non vedo... etc.», con il suo evidente rimando parodico a G. LEOPARDI, Ita-
27
Si vedano ancora le pp. 537, 547-548, 639, 1023, 1026.
28
Si avverte il lettore che, eccettuate All’esposizione del lavoro — Il dono della meraviglia (pubblicata in Cara Torino, Torino, Viglongo, 1975, pp. 195-197) e Il fotografo dei tre Magi (in F. CONTORBIA, // soffsta..., cit., pp. 126-131), le prose qui sopra elencate sono presenti in P.P., alle pp. 1059, 1072, 1160, 1167. Ma altri riferimenti possibili al suo pensiero sull’arte, in La vera maschera (P.P., pp. 768-769) e in Verso la cuna del mondo (ivi, p. 501).
29
Per l’esame di questa prosa assai discussa rinvio al capitolo I, pp. 21-23 e nota 59.
30
G. DE RIENZO, Guido Gozzano, cit., p. 137.
lia mia, vv. 1-5.
31
Si veda Gozzano, Maeterlinck, i «Crisantemi», in Il sofista..., cit., pp. 60-68, in par-
ticolare le pp. 62 e 66. 32
È
B. PORCELLI, Gozzano e Maeterlinck, ovvero un caso di parassitismo letterario, «Belfagor», XXIV, 6, 30 novembre 1969, pp. 653-677 (la citazione è a p. 676), ora in B.
PORCELLI, Gozzano — originalità e plagi, Bologna, Pàtron, 1971, pp. 27-64. Si cfr. anche G. PADOAN, Guido Gozzano «cliente» di Émile Zola, «Lettere italiane», apri-
le-giugno 1966, pp. 226-255, in particolare pp. 233-235. 33
Citiamo da alcuni inediti gozzaniani reperiti dal Calcaterra e dal De Marchi (cfr.
34
Per questi aspetti dell’ideologia gozzaniana rinvio ai saggi di A. PIROMALLI, Ideolo-
L.MONDO, Natura e storia in Guido Gozzano, cit., pp. 106-107). gia e arte in Guido Gozzano, cit., a B. PORCELLI, Antinaturalismo e antidannunzianesimo in Gozzano, già in «Lettere italiane», ora in Gozzano — originalità..., cit.,
ma si vedano anche L. MONDO, op. cit., F. PAPPALARDO, Le parole e il tempo: sulla poesia di Gozzano, «Lavoro critico», 6, cit., pp. 47-104, s. ZATTI, Desiderio e rifiuto
borghese: due letture gozzaniane, cit., pp. 103-139; vedi anche capitolo I, pp: 37-38 e sgg. 35
36
Queste novelle sono presenti in P.P., fatta eccezione di Passeggiata, La sfida e Le giuste nozze di Serafino, pubblicate in S.D., e Guerra di spetri, in «Il lettore di provincia», cit. Si cfr. F. CONTORBIA, Gozzano e «Il Campo» e Gozzano e «Il Tirso», in Il sofista...,
cit., pp. 9-59. 37
G. GOZZANO, Tra romanzi e novelle, in F. CONTORBIA, Il sofista..., cit., p. 29. Indicheremo le citazioni seguenti dal medesimo testo con l’abbreviazione R.N., e Due
recensioni (ivi) con l'abbreviazione D.R.; per le Lettere a Moretti (ivi) con l’abbreviazione L.M.; ancora Poesia e cinematografo (ivi) verrà siglato con P.C.; le Recensioni di G.GOZZANO in appendice a M. GUGLIELMINETTI, Gozzano recensore, «Lettere italiane», XXIII, 3, luglio-settembre 1971, pp. 401-418, verranno abbreviate
con la sigla R., cui seguirà per tutte il numero della pagina. 38
Cfr. M. GUGLIELMINETTI, Gozzano recensore, cit., pp. 406-407.
39
G. GOZZANO, Lettere a Carlo Vallini, a cura di G. De Rienzo, Torino, Centro Stu-
di Piemontesi, 1971, p. 67.
Note II capitolo 40
149
I rimandi interni che il CONTORBIA (// sofista..., cit., pp. 26-27) ha scoperto tra queste composizioni di Gozzano e Passioni nel silenzio dell’ Antoniolli vanno però ricondotti, a mio vedere, alla comune aura fogazzariana da Gozzano rifiutata a parole, ma utilizzata di fatto. Le analogie più evidenti, in tal senso, sono riscon-
trabili tra La Falena di AM. ANTONIOLLI e Alcina di G. GOZZANO, proprio per la dominanza di quella sensibilità tormentata e morbosa, «diversa», per quel «martirio erotico-sentimentale», per la «grazia nordica», per i «pleniluni d’argento», «le
notti violacee» (D.R., p. 37) comune tanto alla Falena «nottivaga» che ad Alcina, derivate entrambe, a quanto-mi sembra, dal modello forte della Malombra fogazzariana. L’eccezionalità dell’esperienza erotica descritta da Gozzano è ben resa
dal complicato gioco dei contrasti: tra bellezza e arte da un lato (dell’arredamento, P.P., p. 589; del paesaggio, pp. 593, 597-598, 600; dell’arte, pp. 594 e 600; del volto della donna, p. 588, e del suo fantasma, p. 601) e la deformazione fisica di lei
(p. 588). La labilità del confine fra realtà e sogno, allucinazione e malattia, desiderio e sublimazione estetica, che mette in essere la dinamica del «mistero» dell’incontro notturno, carica di ipertensione spiritualistica e di un sottile gusto di perversione erotica le sequenze del racconto. Non diversamente, La Falerna di Anto-
niolli è composta degli stessi ingredienti (notte, mistero, sfinimento erotico, estetismo narcisistico, misticismo). Entrambi i racconti poi si concludono con la interruzione scioccante del delirio onirico-sensuale: con l’improvvisa e gelida follia
suicida della Fa/ena che si sottrae al contatto dell’uomo («si liberò dalla mia stretta») con un grido terrorizzato che si spegne nel silenzio della morte; con lo svenimento dell’io narrante che segue all’allucinazione del presunto contatto con la bella «forma divina» del fantasma di Alcina. In entrambi i casi i desideri e il sogno si trasformano nel loro contrario: nel divieto di amare e nell’urto improvviso con la realtà. I rimandi molteplici a Poe (Nuvoli) a Prevost, ma soprattutto all'ambito
dell’«officina» di Gozzano (Contorbia), all’Upanisad indù (ancora Nuvoli) non escludono, anzi confermano e avvalorano, certi indubbi elementi in A/cina di misticismo fogazzariano, di cui in certa misura l’Antoniolli è tramite. Poco conta, a parere mio, il finale «comico» dell’attacco di febbre meningea che colpisce il pro-
tagonista e che avrebbe provocato l’allucinazione, perché la parodia dello spiritualismo appare posticcia e prevaricante sul registro «serio» del racconto e del modello utilizzato. 4
G. NUVOLI, S.D., p. 351.
42
Si cfr. le posizioni assai critiche sul rapporto tra Gozzano e la guerra, contenute in M. GUGLIELMINETTI, Guido Gozzano, cit., pp. 884-885 e F. CONTORBIA, Gozzano,
la guerra, la morte, in Il sofista..., cit., pp. 169-197. 43
Mi limito a citare velocemente le pagine in cui sono presenti riferimenti alla guerra, diciamo cosi, di segno negativo: voglio dire che le connotazioni fondamentali
sono di distaccata e impartecipe allusione, appena increspata da un sorriso malizioso (La vera maschera, P.P., pp. 767 e 760), di freddo riferimento anagrafico senza ombra di enfasi (I/ bel segugio, ivi, p. 748), di ironica minimizzazione della guerra, ridotta a gioco sportivo e fanciullesco (La scelta migliore, ivi, pp. 722, 725,
726, 727, e Lo stesso gorgo, ivi, p. 760) di contrappunto parodico al pathos romantico-risorgimentale (Gli occhi dell’anima, ivi, pp. 672-673) di critica distanza dall’estetismo vitalistico («egli ne aveva sorriso prima, poi se n’era interessato come a un bel libro, a un bello spettacolo, poi come a un esercizio gagliardo, magnifico
150
Lo spazio poetico di Guido Gozzano
che il destino rare volte concede...» Un addio) ivi, p. 699 e poi 702, e L’erede pre-
scelto, ivi, p. 788) di frivolezza retorica e mondana (Un addio, ivi, pp. 705 e 706); di sano scetticismo («Volontario! Ma sei matto? Cost, per il piacere di farsi ammaz... Scusa, sai... [...] Sono una piccola paurosa che sente la Patria ma detesta la guerra!», L’erede prescelto, ivi, p. 787), di semplice, umana e femminile difesa delle
ragioni della vita, e della vita del figlio (Lo stesso gorgo, ivi, p. 759) non senza una punta di controllo ironico del sentimento (1v2, p. 764). 44
G. GOZZANO, Lettera ad «un amico soldato», vigilia di Natale 1915, in // sofista..., cit., p. 196, n. 41.
III La dinamica dell’utopia nella tradizione letteraria di
«Paolo e Virginia»
Patrocinato dall’Irrsae di Puglia e progettato e diretto dall’Istituto di Letteratura e filologia moderna della Facoltà di Magistero dell’Università di Bari, tra l’ottobre e il dicembre del 1985, il corso vide la partecipazione dei docenti Bruno Pompili, Fernando Pappalardo, Augusto Ponzio, Donato Valli, Pasquale Guaragnella, Bruno Brunetti, Arcangelo Leone de Castris, Ruggiero Stefanelli, Paolo Fedeli, Vito Carofiglio, Silvana Ghiazza, Gigliola De Donato, Vanna Zaccaro, Leonardo
Sebastio, Francesco Tateo, Antonio Jurilli, Michele Dell’ Aquila. D
Cfr. M. CORTI, Principi della comunicazione letteraria, Milano, Bompiani, 1976. L. GOLDMANN, Statuti della sociologia della letteratura, Roma, Newton Compton,
1973, pp. 9-16.
Sull’argoménto si vedano almeno B. TOMASEVSKI]J, Teoria della letteratura, Milano, Bompiani, 1978, e C. SEGRE, Le strutture e il tempo, Torino, Einaudi, 1974 e dello stesso, Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1976.
JM. LOTMAN, Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura (a cura di S. Salvestroni), Roma-Bari, Laterza, 1980.
Per la verità è con la scoperta dell'America che si avvia la nascita del mito moderno dello stato di natura. Il vago edonismo anarchico e naturalistico del mito del «buon selvaggio», indotto dal motivo antiencomiastico e anticortigiano, si sostanzierà nel Settecento di spiriti riformatori e rivoluzionari; si cfr. l'ottimo saggio storico di G. COSTA, La leggenda dei secoli d’oro nella letteratura italiana, Bari, Laterza,n19721
Gozzano utilizza, come si vedrà meglio in seguito, particolari meccanismi e accorgimenti tecnico-formali e strutturali: riduzione sullo sfondo del contenuto ideologico-didascalico del testo di Bernardin de Saint-Pierre, e dunque impoverimento dei contenuti extraletterali; mutamento dell’io narrante dalla figura del
Saggio alla persona dell’autore (protagonista e narratore); illanguidimento del contenuto narrativo riassunto ellitticamente nella memoria lirica; rilevanza del-
l’intervento parodico; straniamento melodrammatico; esaltazione ambigua dell’elemento sentimentale, giocato tra sogno e aridità. J. COCTEAU e R.RADIGUET, Paul et Virginie, Paris, Lattès, 1973.
Note III capitolo
151
Si confronti l’analisi di M. ELIADE, Le mythe de l’éternel retour — Archetypes et reception, Paris, 1969.
B. DE SAINT-PIERRE, Paul et Virginie, Paris, 1987, da cui citeremo. Si vedano in particolare P. VAN TIEGHEM, Le sentiment de la nature dans le Preromantisme Européen, Paris, Nizet, 1960; R. MAUZI, L’idée du bonheur dans la littérature et la pensée francaise au XVIII siècle, Paris, Colin, 1965; E. HENRIOT, Courrier litteraire, Paris, Albin Michel, 1962; D. MORNET, Le sentiment de la nature en France de ].]. Rousseau à Bernardin de Saint-Pierre, Paris, Thèse, 1907. Cfr. P. VAN TIEGHEM, op. cit.
Cfr. esemplarmente B. DE SAINT-PIERRE, op. cit., pp. 102-3.
B. BACZKO, L’utopia — Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell’età dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1979. 15
B. DE SAINT-PIERRE, op. cit., pp. 15-18, 98-99. Interessante, in particolare, il riferi-
mento (pp. 116-18) al celibato forzato dei giovani in Francia per la non raggiunta indipendenza economica e la denuncia delle frequenti nozze contratte per ragioni di interesse tra coppie avanzate negli anni. 16
Esso trova spazio nel racconto del Saint-Pierre che ne enuclea i fondamentali principi morali nell’umanitarismo (cfr. le pp. 31, 41-2, 52, 54-58, 58-59), e i cardi-
ni in una innocenza e sapienza primitiva, ignara di «inutili discipline» (p. 25), sprovvista anche di qualsiasi rudimento di cronologia, di storia o di filosofia, ma attenta agli insegnamenti diretti (non libreschi) della natura, unica maestra e regolatrice di vita (p. 59). Quando Paolo s’indurrà a leggere, a scrivere, a studiare la geografia e la filosofia, lo farà solo per essere meno lontano da Virginia partita per la Francia, ma non troverà alcun diletto in questi studi, orientati a descrivere le divisioni politiche dei popoli, anziché l’aspetto della natura (pp. 90-1). 17
Il Saggio, nel romanzo in questione, dirà: «la condizione meno infelice della vita è senza dubbio quella di vivere solo» (p.100). E perciò fa l'elogio del celibato come forma di un nuovo misticismo, di una sorta di eremitismo laico. Solitudine e ri-
nuncia procurano pace (pp. 98-101), ma inducono ad un vero amore per gli altri uomini (p. 18). Bernardin si compiace di esaltare la familiarità con gli animali, le consuetudini
quiete, le scansioni lentissime della quotidianità lavorativa (pp. 50-1); di descrivere minutamente la varietà degli attrezzi e delle provviste della casa.
I cibi della piccola comunità sono semplici, tali da non procurare né avidità, né intemperanza, e perciò del tutto vegetariana è l’alimentazione: «pasti campestri che non erano costati la vita di nessun animale» (p. 51). 20
Numerosi i riferimenti all’idillio sociale tra padroni e servi, a rapporti fondati sulla fedeltà e il solidarismo: si vedano esemplarmente le pp. 21, 31, 52, 58...
21
«Si consolavano pensando che i loro figli, più fortunati, avrebbero goduto, lontano dai grevi pregiudizi dell'Europa, dei piaceri dell'amore e della felicità dell’eguaglianza» (p. 23). L’amore può esprimersi nella più innocente nudità dei corpi, nella vaga suggestione dell’idillio boschereccio di un panismo delicato ed in un sensualismo inconsa-
22
Lo spazio poetico di Guido Gozzano
152
pevole (pp. 23, 24, 27, 60-1, 94-6). Del resto,‘anche le feste — altro aspetto della
quotidianità utopica — sono parte ed espressione di questa viva sensibilità-sensualità naturalistica: si vedano le descrizioni dell’innocente ebrezza dei canti e delle
danze, la vivida bellezza dei riti inneggianti alla natura dai colori smaglianti e paradisiaci, la religiosità edenica delle cerimonie lungo la riva del mare o le sponde
dei fiumi (pp. 55, 57, 102, 103, ecc.). 23
Baczko distingue modelli utopici ispirati all’egualitarismo comunistico, all’anarchismo, allo statalismo, al prospettivismo scientifico, al primitivismo agrario, ecc...
24
Ricorrenti gli spunti antimercantili, contrapposti alla tranquillità della vita campestre (cfr. le pp. 42-3, 47, 55, 69-70, ecc...).
25
Le frequenti enunciazioni di una filosofia stoica, ispirata al rifiuto della ricchezza e del successo personale, sono intrecciate con la condanna consueta del lusso e del mercato (cfr. le pp. 101, 106-7, 120-21, 146-48).
26
Si vedano le pagine esemplari che propugnano i principi dell’interclassismo (pp. DANA 2A3N52539580e0010)1
27
«L’età dell’oro non è dietro ma davanti a noi», l’idea e la formula appartenevano
all’abate di Saint-Pierre prima di essere riprese da Saint-Simon. «Stiamo entrando, per cosi dire, nell’età dell’oro» (cfr. B.BACZKO, op. cit., p. 192). 28
Vo DISTA
29,
Traggo la citazione dal Commento di E. SANGUINETI a G. GOZZANO, Poesie, Torino, Einaudi, 1980, p. 122.
30
Ivi.
31
Ho ricavato queste informazioni dalla conversazione con Giorgio Barberi Squa-
rotti e con Marziano Guglielminetti, nel corso del Convegno di studi nel centenario della nascita di Guido Gozzano, tenutosi a Torino nel 1983. 32
Come è noto Gozzano pubblicò Paolo e Virginia su «La lettura», nel settembre del 1910, poi, con l’aggiunta del sottotitolo / figli dell’infortunio, entrò a far parte de I Colloqui (ed. cit., p. 117-28).
33
L’ipotesi fa parte delle Poesie sparse (ed. cit., pp. 330-40), Invernale de I Colloqui (ed. cit., pp. 100-2). Per le influenze di D'Annunzio su Gozzano esiste una ricca letteratura critica, per la quale rimando al capitolo I; per il suo problematico niccismo si veda il mio commento a Invernale (capitolo IV).
34
È appena il caso di ricordare che a monte c’è la perdita della propria identità e la scoperta della estraneità alle logiche di potere, unite al rifiuto della immagine del progresso, nella morfologia da esso assunto nella forma di produzione del capitalismo. Derivano da ciò tutti gli atteggiamenti di disadattamento e di inappartenenza dell’intellettualità del primo Novecento, nell’impatto con la banalità dei modelli borghesi di vita e con la perdita di valore della letteratura. Nel caso specifico il risultato è quello di un astensionismo morale unito a una compiaciuta ambiguità psicologica, tra nostalgia e ironia.
35
Si tratta di una vaga analogia con la morte di Clorinda (Gerusalemme liberata, c. XII, st. 69) per la mollezza dell’endecasillabo e l’attenuata tonalità della luce del volto: «D’un bel pallore ha il bianco volto asperso, / come ai gigli sarien miste
Note IV capitolo
153
viole»; e per taluni riscontri semantici (volto, viole, misto, mescevansi), per certe assonanze (pallore, placido, pudore).
IV. Epifania, morte e rovesciamento parodico dell’Ulisside Rispetto al primo e più vistoso mutamento morfologico della leggenda dal testo omerico a quello di Dante, per il tramite della mediazione latina che mette in risalto, piuttosto che l’avventura epica, commista di umano e di divino del mito omerico, la qualità morale del viaggio di conoscenza di Ulisse (cfr. OVIDIO, Metamorfosi, XIV, 154 sgg.; CICERONE, De finibus bonorum et malorum, V, XVIII, 4849; SENECA, De Constantia sapientiae, II, 1; ORAZIO, Epistole, I, II, 17-26).
F. FERRUCCI, I/ mito, in Letteratura italiana — Le questioni (a cura di A. Asor Rosa), Torino, Einaudi, 1986, p. 545.
G. D'ANNUNZIO, Le Vergini delle rocce, in Prose di romanzi, Milano, Mondadori,
1940-41, pp. 321-22, 405, 419-20; Il Fuoco, p. 573 e p. 612 (iva).
«E come l’esule torna / alla cuna dei padri / su la nave leggera: / il suo cor ferve innovato / nell’onda prodiera, / la sua tristezza dilegua / nella scia lunga virente:
/ io cosi sciolsi la vela, / coi compagni molto a me fidi, / in un’alba d’estate / ventosa, dall’apula riva / ove ancor vidi ai cieli / erta una romana colonna; / io cosi
navigai / alfin verso l’Ellade sculta / dal dio nella luce / sublime e nel mare profondo / qual simulacro / che fa visibili all'Uomo / le leggi della Forza / perfetta. E incontrammo un Eroe» (Masa, IV, Verso l’Ellade santa). ®
€. SALINARI, Miti e coscienza del decadentismo italiano, Milano, Feltrinelli, 1960, pp. 94-95.
°
R. BRACCESI, La leggenda di Ulisse nella coscienza dei moderni e la poesia di G. Pascoli, in Studi per il Centenario della nascita pubblicati nel Cinquantenario della morte, Bologna, 1962, pp. 191-200.
7
Com'è noto nel racconto omerico il tema del viaggio ha comunque una conclusione rassicurante. Voglio dire che la peripezia epica, con il suo percorso circolare, rispecchia la circolarità cosmica, tipica della concezione degli antichi, secondo
i quali le vicende dell’uomo seguono come il ciclo delle stagioni, una perenne ripetizione del percorso. Si torna sempre al punto da cui si parte. Altra ragione dell’esemplarità del racconto mitico. Si tratta di una circolarità — è vero — nel viaggio di Ulisse, che include numerose diversioni, ma l’esito del viaggio è positivo: non solo per la ri-acquisizione del già dato: regno, averi, moglie, figlio, schiavi, ecc., ma anche per l’acquisto di conoscenza che esso ha permesso. Certo è però che l’atto di conoscenza non è pre-disposto, non è scopo, bensi effetto del viaggio, sua conseguenza necessaria. Il viaggio in Omero non è autonomo, libero, creativo, figlio di se stesso, ma è invece per eccellenza eteronomo, necessitato, commisto di umano e divino, secondo la mitologia antico-arcaica. Il tema della cono-
scenza resta implicito. Dante — come si è già accennato — si ispira ad alcuni spunti contenuti nella tradizione mitologica laterale a quella omerica. Ma ciò che in quella è soltanto considerazione marginale, o particolare narrativo assai generico, assume nel XXVI del-
154
Lo spazio poetico di Guido Gozzano
l'Inferno un carattere di tale centralità, da modificare sostanzialmente la tradizione mitica e l’asse del racconto. L'immagine stessa dell’eroe — come eroe della conoscenza — dai connotati inquietanti e moderni, solo con lui acquista carattere pregnante di persona tragica. Il mito classico di Ulisse trova in Dante cosi una esplicitazione di senso ed una sintesi più ricca e drammatica, che dà luogo ad un vero e proprio coagulo mitico nuovo. L’Ulisse dantesco infatti con i suoi indubbi connotati di modernità preumanistica disloca l'Ulisse omerico su un orizzonte problematico, radicalmente mutato, in una epoché tragica che ne muta la masche-
rae ne prefigura il destino futuro. Quanto al Tennyson, il suo Ulisse (Poems, 1859) rappresenta una puntuale esemplificazione dell’interpretazione romantica corrente del mito stesso. Il Pascoli, nella nota al testo dei Poemi conviviali, dichiara di averlo tenuto presente, oltre
Dante e Omero, nel suo Ultimo viaggio, benché — occorre aggiungere, e come si vedrà meglio — ne abbia totalmente rovesciato il senso, con una studiata e consapevole corrispondenza di parallelismi e di antitesi. La poesia tennysoniana si rifà anch'essa alla tradizione mitica secondaria: la stessa utilizzata da Dante e poi riproposta dal Pascoli, dal Graf e dal Gozzano. Nel testo ricorrono tutti gli ingredienti ed i tòpoi dell’ulissismo romantico: insofferenza del limite, che viene connotato dalla pochezza e dall’angustia di una uggiosa ma soddisfatta vita borghese, chiusa nel cerchio coatto dell’accumulazionè‘e consumo dei beni materiali, senza vie d’uscita; i/ motivo della noia, e dell’inaridimento, conseguente a quel modello
di vita rifiutato: spegnimento della forza vitale (neghittoso, opaco) che si rispecchia e si moltiplica nelle immagini omologhe di arida terra e sterili rocce (contrapposte alla mobilità dei marosi); la forza dell’istinto vitale, considerata inestinguibile e affermata con un impeto quasi enfatico, di una vera e propria febbre di vita (come nelle espressioni 4vido cuore, bevvi la gioia, l’anima esperta ch’arde e desia, splendere nell’attrito, st gonfia la vela, ecc...), e poi l’ebbrezza dionisiaca, nella confusione
di mille vite in una, nella «tracotanza del conoscere» (come nelle espressioni seppi la mente loro, e, la mia non il meno; ond’ero nel cuore di tutti; e ciò che incontrai nella mia strada, ora ne sono una parte); l’avida sete di azione, drammaticamente
affidata a quel poetico attimo che pur resta, a quell’alito, a quell’attimo tolto all’eterno silenzio, a quell’opra che può compiersi prima della morte, imperioso comando proveniente da quell’abisso che geme e sussurra all’intorno le mille sue voci; e infine, la resistenza attiva al destino: «Tutto chiude la morte; ma può qualche opera compiersi prima / d’uomini degna che già combatterono a prova coi Numi»; «Tardi non è per coloro che cercano un mondo novello»; «Ho fermo nel cuore passare il tramonto, / ed il lavacro degli astri di là: fin ch’abbia la morte»;
«Forse è destino che i gorghi del mare ci affondino; forse / nostro destino è toccare quelle isole»; «Molto perdemmo, ma molto ci resta»; «Affraliti dal tempo, ma duri / sempre in lottare e cercare e trovare, né cedere mai». Dunque un io eroico che crea i suoi spazi, negli interstizi avari del tempo. Nell’età romantica il mito viene assunto a modello di un antagonismo radicale tra io e mondo, tra individuo come illimitata potenza e categorie spazio-temporali, come illimitato spazio dell’agire, in una prospettiva di continuo mutamento, nell’«ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali». Nell’«incertezza e nel movimento eterni», imposti dal «continuo rivoluzionamento della produzione», secondo il giudizio di Marx e di Engels.
Note IV capitolo
155
Una volta scoperta la linearità illimitata della storia, lo spazio diventa entità non più circoscrivibile: le sue coordinate si spostano continuamente. Il Faust goethiano occupa appunto il grado iniziale di questo percorso, in cui «l’agitato cuore dell’eroe in nessuna cosa vicina / in nessuna cosa lontana può trovare pace», nell’irresistibile slancio della sua anima «verso la vita vasta senza fine». Egli ha un posto di grande spicco nel primo tempo dell’epoca borghese. Cfr. G. BARBERI SQUAROTTI, Simboli e strutture nella poesia del Pascoli, Messina-Firenze, D’Anna, 1966, p. 64. Ivi, p. 68
i
Cfr. G. BARBERI SQUAROTTI, «L'ultimo viaggio» e «La verifica dei valori», in Gli inferi e il labirinto. Da Pascoli a Montale, Bologna, Cappelli, 1974, p. 39, ma si ve-
da anche Alexandros uno e due, cit., pp. 13-32. G. GOZZANO, Poesie (a cura di E. Sanguineti), cit. F. FERRUCCI, 0p. cit.p.518.
Desumo questa efficace sintesi da U. PIROTTI, Guido Gozzano e la poesia novecentesca, in «Studi e problemi di critica testuale», aprile 1974. Come viene connotato dai verba agendi: chiuse... intrecciò, dal forte epiteto: vivi legami, riferito alle dita energiche e nervose della sua mano, e dal richiamo che in seguito per ben due volte si fa a quelle dita (vv. 25 e 29); dalla reiterazione dell’apostrofe imperativa: Resta/... Resta,... (vv. 7 e 9). Del resto le ultime due strofe completano a perfezione questa immagine di energia e di sicurezza sovrana: «Sola restò, sorda al suo nome, / rotando a lungo nel suo regno solo [...] Non curante l’affanno», ecc.
G. BARBERI SQUAROTTI, La tragedia come parodia mondana, in Poesia e ideologia borghese, Napoli, Liguori, 1976, pp. 67-83.
E. SANGUINETI, Da Gozzano a Montale in Tra Liberty e crepuscolarismo (1961), cit., pp. 17-39, ma il saggio è del ’54. U. PIROTTI, 0p. cit. M. FORTI, Gozzano poeta nel cinquantenario, in «Paragone», 1967.
Cfr. c. CALCATERRA in Guido Gozzano, Opere, cit., p. 1246; il passo che ci interessa si può leggere ora in F. CONTORBIA, // sofista subalpino, Cuneo, L’Arciere,
1980, p. 17.
20 21
Ivi, p. 18, nota 19.
Poco si è detto del rapporto tra Gozzano e Nietzsche, si confronti comunque G. MARZOT, op. cit., pp. 4 e 5, 13-15.
Indice dei nomi*
Alfieri V., 15. Anastasi G., 65. Antonelli S., 5, 18, 65, 67. Antoniolli A.M., 65, 67. Aristotele, 16.
Barberi Squarotti G., 29, 42, 44, 48, 517108, 1091210
Bazko B., 82, 83. Bernardin de Saint-Pierre J.H., 79, 81-84, 86, 88, 89, 91, 92.
Beserzio V.G., 54. Betteloni V., 4. Bettini P., 4. Boito C., 86. Boutet E., 65. Braccesi R., 103. Byron G., 81, 85, 112.
Carducci G., 25. Chateubriand F.R. de, 81, 85, 86. Chiarini P., 18. Cocteau Ji, 7992! Contini G., 52-54. Contorbia F., 63, 65, 73. Corazzini S., 18.
Crispi F., 102. CuriF., 49.
D’AmbraL., 65, 66. D'Annunzio G., 3, 6-8, 16, 25, 39, 52, 73, 96, 99, 101-103, 112-114, 1223 Dante Alighieri, 3 SEL 06, 2,
114, 116, 122.
De Amicis E., 52, 54. De Rienzo G., 49, 63. Deschamps E., 82, 83.
Cagna A.G., 54. Calandra E., 54.
Dostoevskij F., 78.
Camarana G., 54.
Faldella G., 52, 54. Ferrucci F., 111.
Capuana L., 65. *
Nell’indice non sono compresi i nomi citati nelle note
158
Indice dei nomi
Fogazzaro A., 28, 51, 52, 55, 67. Fontenelle B. de, 84. Forti M., 121.
Montinari M., 101. Moretti M., .18, 51, 65, 66, 69.
Foscolo U., 15, 25, 81, 112.
Napoleone I, 86.
Fragonard J.H., 11.
Nietzsche F., X, XI, 101, 102, 112,
Génette G., 52. Getto G., 6,29.
Nuvoli G., 70.
Giacosa G., 53.
Omero, 112, 114, 116.
122-125.
Goethe J.W., 81, 82, 112.
Goldmann L., 78, 82. Gozzano G., passim.
Graf A., 3,96, 110.
di O 65
Grandi O., 65. Guglielminetti A., 40, 75.
i Guglielminetti M., 5, 29, 33, 34,48, 49, 65.
Hegel G.W.F., 53.
Heidegger M., 44. Heredia J.M., 61. Holbein H., 11. JammesF., 3. lloyeei) 1123126: Juvara T.A., 59.
Palazzeschi A., 15,51, 69. Pad 63
A
vr 9
e
Parini G., 41.
Pascoli G., 3, 41, 96, 102, 103, 110, 007 2°
Pavese C., 4, 52. PetrarcaF., 3.
Peyrot B., 56.
Pirandello L., XI, 11, 29, 34, 51, 69, 97. Piromalli A., XI. PirotiUSsi2iE Poe E.A., 51,59. Porcelli B., 63. Prévost A.F., 82.
Puskin A.S., 78. Laforgue A. de, 81, 85, 86. Leone de Castris A., 96. Leopardi G., X, XI, 3, 25, 85, 109. IRR, SESLLRIL Lukdcs G., 44. Luperini R., 18.
Radiguet R., 79, 92. Rembrandt, 57. Rivalta E., 65. Rodenbach G.R.C., 3. Rousseau J.J., 79, 81-83.
Maeterlinck M., 3, 21, 30, 41, 42, 60, 63. Mariani G., 29, 54. Marx K., 53. Mascheroni L., 41. Maupassant G. de, 86. Mondo L., 29, 38. Montale E., 4, 5, 18, 29, 121.
SabaU,, 40. Sacchetti F., 54. Saint-Pierre C.I. Castel, abate di, 102. Salinari C., 102. Sanguineti E., XI, XII, 4-6, 25, 29, CIO VAR Satie E., 79. Scalia G., 17.
Indice dei nomi
Scarfoglio E., 114.
Tennyson A., 103, 108.
Schopenhauer A., X, XI, 3. Sénancourt E.P. de, 82.
Valcarenghi U., 65.
Slapater S., 26. Stecchetti L. (Olindo Guerrini), 4, 28. Svevo I., 29, 34, 69, 97.
Vallini C., 67.
Virgilio, 82. Vugliano M., 65, 66. Wilde O., 3, 61.
Tarchetti LU., 51, 54. Tedesco N., 29. Teocrito, 82.
ThompsonF., 82. Trecesson M.G., 56.
Zacchi P., 56. Za vtiSSN/A ZenaR., 54. Zola E., 3, 60, 63.
159
Finito di stampare nel mese di ottobre 1991 per conto degli Editori Riuniti dalla tipografia L. Chiovini, Roma
CL 63-
ISBN 88-359-3493-1
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