Leggere lo spazio, comprendere l'architettura 8883532724, 9788883532726

Lo spazio della nostra vita quotidiana, quel "vuoto" in cui ci spostiamo per incontrare l'altro, per camb

132 81 3MB

Italian Pages 336 [330] Year 2003

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copertina
collana e copyright
frontespizio
Indice
Prefazione
Introduzione
Parte prima
Capitolo primo
Capitolo secondo
Capitolo terzo
Capitolo quarto
Parte seconda
Capitolo quinto
Capitolo sesto
Capitolo settimo
Parte terza
Capitolo ottavo
Conclusioni
Bibliografia
quarta di copertina
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Leggere lo spazio, comprendere l'architettura
 8883532724, 9788883532726

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Segnature Collana diretta da Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone 19

Copyright © 2003 Meltemi editore srl, Roma Traduzione di Giacomo Festi È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata. Meltemi editore via dell’Olmata, 30 – 00184 Roma tel. 06 4741063 – fax 06 4741407 [email protected] www.meltemieditore.it

Manar Hammad

Leggere lo spazio, comprendere l’architettura

MELTEMI

Indice

p.

9 11

Prefazione Introduzione Lo spazio come semiotica sincretica Parte prima Altrove

19

Capitolo primo La semiosi essenzialista in architettura. L’Italia e il Giappone nel XVI secolo

19 20 42

1.1. Introduzione 1.2. Due periodi fondatori 1.3. Conclusioni

47

Capitolo secondo L’architettura del tè

47 49 50 52 56 57 70 82 91 95

2.1. Cornice concettuale 2.2. Il Giappone, il tè, l’architettura 2.3. Il corpus 2.4. Un chaji estivo 2.5. Il superamento condizionale e la suddivisione dello spazio 2.6. Carico semantico degli spazi 2.7. L’investimento polare degli spazi 2.8. Dinamica globale 2.9. Incursione estetica: il tèismo 2.10. Conclusioni provvisorie



INDICE

101

Capitolo terzo L’espressione spaziale dell’enunciazione

101 102 105 134 146 157

3.0. Osservazioni preliminari 3.1. Descrizione della sequenza 3.2. La formazione dell’enunciato sincretico 3.3. Operazioni enunciazionali immanenti 3.4. L’enunciazione “trascendente” 3.5. Conclusioni

159

Capitolo quarto Giardino-Cielo, Giardino-Terra, Giardino-Altrove

159 160 163 166

4.1. Osservazioni preliminari 4.2. Il giardino arabo-islamico: Giardino = Jannat = Paradiso 4.3. Il giardino sino-giapponese 4.4. Conclusioni

Parte seconda Qui 171

Capitolo quinto Lo spazio del seminario

171 172 188 200 207

5.1. Introduzione 5.2. Studio dell’espressione 5.3. Studio del contenuto 5.4. Tentativo di correlazione dell’espressione e del contenuto 5.5. Conclusione

209

Capitolo sesto La promessa del vetro

217

Capitolo settimo La privatizzazione dello spazio

217 219 220 229 236 240 254 266 275 289 300

7.1. Osservazioni preliminari 7.2. Il contesto sperimentale di una ricerca-azione 7.3. Negoziazioni territoriali 7.4. Prima analisi sintattica 7.5. Il rituale come modello sociale 7.6. I presupposti sintattici del lessema privato 7.7. Il controllo dell’accesso o la privatizzazione dei luoghi 7.8. Le conseguenze dell’accesso e il dono simbolico 7.9. L’organizzazione paradigmatica dello spazio privatizzato 7.10. Per un modello più generale di privatizzazione 7.11. A mo’ di conclusione



INDICE

Parte terza Dappertutto 311

Capitolo ottavo L’enunciazione, processo e sistema

311 311 313 316 317 324

8.1. Programma 8.2. Cornice preliminare 8.3. Ipotesi 8.4. Campi coinvolti da queste ipotesi 8.5. Conseguenze derivanti da queste ipotesi 8.6. Valutazione delle ipotesi e delle loro conseguenze

327

Conclusioni Semiotica, spazio e architettura

332

Bibliografia

Prefazione

I testi riuniti in questa raccolta appaiono per la prima volta insieme. Ambiscono a costruire, al di là dei risultati raggiunti per ogni singolo caso esaminato, una visione unificata dello spazio, dell’architettura e del senso. Pur nella loro relativa autonomia, possono suggerire al lettore effetti di senso nuovi che oltrepassano le previsioni dell’autore. Se ciò avverrà, sarà il segno della loro riuscita euristica. A ogni modo, queste poche righe introduttive si propongono di abbozzare il punto di vista a partire dal quale le loro problematiche interrogano l’architettura. Al centro delle questioni poste è lo spazio umano. Formulata a intervalli irregolari, la sua concezione ha cambiato forma nel corso della storia. D’Alembert ci dà, verso la fine del diciottesimo secolo, la prima definizione matematica che sbarazza lo spazio da ogni materialità: esso non sarà più che un insieme di relazioni posizionali. Fréchet generalizza questa definizione all’inizio del ventesimo secolo. Nel mondo sensibile si ha a che fare con uno spazio a tre dimensioni, quadro dell’azione umana per la quale si disegna un ambiente da edificare. I muri, i pilastri, le coperture e le aperture non hanno interesse se non per dare forma allo spazio immateriale che le attraversa e le accoglie al contempo. Proprio di questo spazio invisibile l’uomo ha bisogno per sviluppare la sua azione, ed è questo oggetto immateriale che bisogna qualificare quando si fanno opere architettoniche. Gli ingegneri si occupano di materia, gli architetti, di fatto, dello spazio che si modella dando forma e posizione alle materie.

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Le questioni affrontate in questa raccolta sono quelle del nostro rapporto con lo spazio, rapporto concepito come dominato dalla dimensione del senso. Non tanto un senso individuale e idiosincratico, ma un senso culturalmente determinato, inscritto in un quadro storico e geografico. In altri termini, questa ricerca intende raggiungere, attraverso la percezione, il livello del senso fornito allo spazio e alle cose da comunità organizzate che inscrivono, tanto nella materia quanto nello spazio immateriale, le loro strutture sociali da un lato e i valori astratti, gerarchizzati, opposti e articolati, che danno forma al loro universo mentale, dall’altro. C’è una forte dimensione antropologica all’interno di una simile impresa. Partendo dal senso inscritto nell’architettura e nello spazio, essa cerca di raggiungere certi recessi delle strutture profonde della società (dimensione collettiva) e dell’intelligenza umana (dimensione individuale), nei loro stati di equilibrio culturalmente determinati. Al di sotto della variazione culturale, ci sono meccanismi universali che possono essere reperiti. Nel momento in cui diventano identificabili, essi riguardano della dimensione del senso. Non si può prevedere la fine di una simile ricerca. Essa non può che proseguire nello studio delle varianti e delle trasformazioni. L’esplorazione della relazione dell’uomo con lo spazio invisibile conduce immancabilmente verso l’esame della sua relazione con un invisibile più radicale, quello del sacro e delle divinità che presuppone. Luogo da cui procede l’estensione recente dei miei lavori nel dominio dell’architettura religiosa, con la stessa domanda lancinante: rendere conto e cercare di comprendere. Bologna, 3 febbraio 2003

Introduzione Lo spazio come semiotica sincretica1

Lo spazio di cui parleremo non è quello delle stelle e dei razzi, ma più modestamente quello della nostra vita quotidiana: quel vuoto in cui ci spostiamo per incontrare l’altro, per cambiar di posto, per raggiungere un oggetto che desideriamo. Questo spazio può essere analizzato come una semiotica? Il primo criterio, invocato in ogni risposta, è tratto dalla teoria generale del linguaggio: affinché un sistema qualunque possa essere considerato come una semiotica, bisogna che come minimo parli d’altra cosa che di se stesso. In altri termini, che rinvii ad altro rispetto a se stesso. Partendo dalla definizione dello spazio appena data, è difficile mostrare direttamente che il criterio citato è soddisfatto. In effetti, la proprietà di questo spazio è di essere immateriale: è il vuoto in cui si muove il pieno. Come è possibile parlare di questo vuoto senza parlare del pieno che vi si trova o che lo delimita? Eccoci davanti a una difficoltà di ordine metodologico, legata alla definizione stessa dell’espressione della possibile semiotica di cui noi stiamo interrogando lo statuto. Ricentriamo la domanda. Ammettiamo il nostro interesse per l’architettura. Supponiamo accettabile la definizione comune dell’architettura come l’insieme di ciò che è costruito (benché anche un’automobile sia costruita, come del resto un’arma da fuoco). Questa architettura parla d’altra cosa che di se stessa? I tentativi di risposta sono numerosi e la letteratura abbondante. Tutte queste imprese teoriche si basano, in un modo o in un altro, sull’ipote-

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si che una semiotica possiede un’espressione e un contenuto, e che a certe unità dell’espressione-architettura debbano corrispondere certe unità del contenuto. È d’obbligo constatare che tutte queste costruzioni fondate sulla scelta a priori del piano dell’espressione, identificata come l’architettura secondo la definizione del senso comune e/o degli architetti, inciampano su una difficoltà essenziale: l’architettura non si lascia cogliere come un piano completo dell’espressione. In altri termini, ci sono elementi mancanti. Ancora meglio, l’analisi rivela la necessità di includere elementi dell’espressione che non siano riconducibili alla materia-architettura. In particolare lo spazio appare come una componente essenziale dell’analisi: l’architettura si inserisce nello spazio, lo divide e lo caratterizza. Questa osservazione non è recente, e certi tentativi si basano sulla scelta di un piano dell’espressione definito come il complesso “architettura più spazio”, dove si ritrova la coppia pieno-vuoto (diversamente, Renato de Fusco ha tentato di porre lo spazio come contenuto corrispondente all’espressione architettura). Emergono a quel punto altre mancanze: in particolare il soggetto umano è necessario per la costruzione del senso o del contenuto, non solo come destinatario interprete di quel che è detto dall’espressione, ma anche e soprattutto come parte del sistema dell’espressione. I problemi di scala sono particolarmente rivelatori in questo caso, specialmente i luoghi costruiti per l’utilizzo dei bambini. La procedura di catalisi ci induce a estendere il sistema2 del piano dell’espressione: vi ritroveremo lo spazio quotidiano, l’architettura, i soggetti umani implicati in differenti procedure dinamiche descrivibili in termini di azioni, operazioni e relazioni. Certe varietà di queste procedure dinamiche ricoprono ciò che gli architetti riconoscono come funzioni affisse ai luoghi o agli elementi dell’architettura. L’introduzione di questi dinamismi nel piano dell’espressione esige di inserirvene degli altri: si tratta degli oggetti che circolano tra i soggetti in maniera

LO SPAZIO COME SEMIOTICA SINCRETICA



comparabile alla circolazione dei soggetti tra i luoghi. Il meccanismo della catalisi si rivela costringente, e il piano dell’espressione che stiamo cercando di costruire non cessa di gonfiarsi. Non c’è verso di limitarsi arbitrariamente fino a che manteniamo l’obiettivo di partenza: costruire una semiotica a partire dallo spazio quotidiano. Questo obiettivo dipende, infatti, da un punto di vista che condiziona tutto il resto: si tratta di comprendere cosa succede nello spazio quotidiano. E questo punto di vista è investito da un osservatore portatore di un programma cognitivo. Abbreviamo: la catalisi impone anche l’introduzione della lingua naturale nelle sue versioni scritta e orale, come l’aggiunta di una codificazione dei colori e delle forme quando si tratta di spazi industriali o anche solo di spazio urbano, e la lista delle aggiunte non è esaustiva. Davanti a una tale estensione del piano dell’espressione possiamo adottare due atteggiamenti: giudicare che è aberrante e che bisogna abbandonare un tale approccio, cosa che ci sembra prematura; oppure condurre la procedura più lontano per vedere cosa dà come risultato. Optiamo per la seconda possibilità. Tuttavia intendiamo porre di nuovo il problema-criterio di partenza: lo spazio così completato parla di qualche cos’altro che di se stesso? La domanda è tanto più pertinente quanto l’estensione dell’espressione rischia di rendere difficoltoso il reperimento del contenuto. Per rispondere, esaminiamo i lavori condotti a partire dal punto di vista ricapitolato qui sopra, e che all’occorrenza è anche il nostro. Vediamo apparire una costante: tutto ciò che è osservato, è analizzato nei termini dell’analisi semiotica greimasiana, con categorie che riguardano la descrizione del contenuto. Questo fatto può essere interpretato come una relativa indeterminazione: partiti dalla costruzione del piano dell’espressione, vediamo, all’arrivo, una descrizione del piano del contenuto. Da cui la domanda: si tratta in fin dei conti di espressione o di contenuto?

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Non abbiamo il tempo, in questa sede, per citare dettagliatamente i lavori sul campo e riprenderli. Tuttavia non c’è dubbio che le categorie che vi sono utilizzate (programma narrativo, attante, attore, modalità, valore descrittivo, ecc.) sono categorie del contenuto. In questi lavori, l’analisi semiotica sviluppa la struttura del piano del contenuto in un modo completamente indifferente3 alle categorie dell’espressione di cui abbiamo fatto il punto e che si sono trovate riunite dalla catalisi. Di conseguenza, il programma cognitivo di comprensione che abbiamo identificato si sviluppa di preferenza sul piano del contenuto – che si rivela essere omogeneo – e coinvolge la costruzione di un piano dell’espressione che appare, in relazione alle discipline tradizionali, come eterogeneo. Questa è la definizione stessa di una semiotica sincretica. Se un piano sincretico dell’espressione è costituito in tal modo, la sua organizzazione interna è appena intravisibile. La questione fondamentale del taglio semiotico di questo piano rimane aperta, e il programma non è stato portato a termine. In particolare, c’è una tendenza a identificare unità espressive che corrispondono termine a termine a unità del contenuto. Questa stretta corrispondenza produce l’illusione dell’indeterminazione segnalata sopra e così espressa: “si tratta di elementi dell’espressione o del contenuto?”. Come abbiamo appena mostrato, non c’è indeterminazione ma artefatto d’analisi. C’è di più: il fatto che il piano del contenuto si analizzi in differenti livelli (profondità, superficie, manifestazione) induce un’analisi del piano dell’espressione su differenti livelli d’astrazione. A titolo d’esempio, per illustrare queste procedure, possiamo citare il nostro lavoro che ha tentato di porre le basi di una semiotica dei piani in architettura4. Vi mostriamo che il sistema dei piani mette in opera due sotto-sistemi che si completano mutuamente (i.e. sincretismo), dotati di catene predicative circolari stabilite sui due sotto-sistemi, e di cui il piano dell’espressione conosce differenti livelli d’astrazione organizzabili secondo un percorso generativo.

LO SPAZIO COME SEMIOTICA SINCRETICA

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Non è tutto: l’analisi semiotica delle sequenze inscritte nel mondo naturale (cfr. Hammad 1978a, 1978b, 1979 e infra, capitolo quinto) mostra che è possibile mettere in relazione strutture del piano dell’espressione (ad esempio le configurazioni topiche) con strutture del piano del contenuto (per esempio relazioni modali tra attanti e/o relazioni polemiche o contrattuali). Questo risultato ci avvicina a Hjelmslev: la corrispondenza tra i piani dell’espressione e del contenuto non si fa termine a termine ma piuttosto tra un complesso strutturale e un altro complesso strutturale. Questo risultato è notevole in quanto le unità implicate sono semioticamente determinate e non sono date a priori; o meglio, per fare un confronto5, le unità implicate sono narrative e non linguistiche. Questo risultato permette di concludere, a posteriori, che lo spazio può fondare una semiotica particolare. E questa conclusione è tanto più interessante in quanto è stata ottenuta con l’aiuto di un’analisi semio-narrativa che non ha fatto ricorso all’imitazione servile del modello delle lingue naturali.

1

Apparso in «Actes Sémiotiques», VI, 27, 1983. Nel senso della teoria generale dei sistemi. 3 Indifferente non vuol dire indipendente: c’è dipendenza dal momento in cui l’analisi del contenuto si appoggia su differenze al livello dell’espressione; c’è indifferenza nella misura in cui le distinzioni aprioristiche dell’espressione non si ritrovino sul piano del contenuto. 4 A questo proposito cfr. Hammad (1973, 1976) e Groupe 107 (1974, 1976). 5 Questa comparazione è scorretta, come ogni comparazione, ma ha il merito di rendere il risultato intuitivamente comprensibile. 2

Parte prima Altrove

Capitolo primo La semiosi essenzialista in architettura. L’Italia e il Giappone nel XVI secolo1

1.1. Introduzione La costruzione di una semiotica dell’architettura non è stata intrapresa in modo scientifico se non quando i ricercatori hanno rinunciato a considerare il significante “architettura” in maniera isolata e l’hanno reinserito in un insieme significante più vasto che include lo spazio, gli oggetti e gli uomini. Così facendo, è stata edificata una semiotica sincretica, più sovente designata dal termine “semiotica dello spazio”, in cui l’architettura appare come un sottoinsieme dotato di proprietà particolari. Dal punto di vista delle discipline tradizionali, l’insieme significante così costruito appare eminentemente eterogeneo, e non trova la sua unità, e perfino la sua identità, se non nei caratteri strutturali del livello di significato: la semiotica dello spazio si costituisce a partire dal significato, e il significante si caratterizza solo a posteriori. Di conseguenza, sembrerà paradossale parlare di una tale semiotica in un congresso consacrato al significante. Ma il paradosso si risolve senza difficoltà: se la semiotica architettonica attuale si costruisce così è perché ci sono state, in passato, semiotiche implicite dai differenti meccanismi di base. In particolare, la tradizione della storia dell’architettura privilegia certe epoche storiche dove il significante appare preponderante. Si potrebbe allora chiedersi se si tratti di un fenomeno strutturale o di un artefatto. Il semiologo che esamina la storia dell’architettura vi riconosce segmenti che assomigliano molto a ciò che l’antropologia chiama “miti fondatori”2: si parla di epoche che

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hanno rifatto o rivoluzionato l’architettura. In generale, queste epoche sono all’origine di uno “stile”. Il Rinascimento italiano è così considerato come periodo fondatore per la successiva architettura europea. In Giappone, l’architettura del tè è posta come fondatrice dello stile sukiya. I due periodi in causa sono quasi contemporanei: a cavallo tra il XV e il XVI secolo. La coincidenza storica e la similitudine dei ruoli attribuiti a questi due periodi ci invitano a porci alcune domande: i) è possibile riconoscere un meccanismo strutturale (semiotico) comune a questi due periodi fondatori? E quale sarà? ii) È possibile generalizzare gli elementi comuni in modo da caratterizzare qualsivoglia periodo “fondatore”? iii) Il meccanismo scoperto, infine, è necessario, sufficiente, o necessario e sufficiente? 1.2. Due periodi fondatori Considereremo nelle pagine successive il caso dell’architettura del tè e del Rinascimento, esamineremo i rispettivi meccanismi semiotici, e li compareremo al fine di trarne conclusioni di carattere generale. 1.2.1. L’architettura del tè Ci sono due accezioni dell’espressione “architettura del tè”: un’accezione stretta, secondo cui questo termine si applica solo ai padiglioni e ai giardini destinati a compiere la cerimonia del tè, e un’accezione estesa, derivata dalla prima, che designa qualsiasi edificio che abbia adottato lo stile e i principi elaborati per i padiglioni del tè, pur restando un edificio destinato ad accogliere una vita normale e ordinaria. Queste due accezioni sono legate e per analizzare la seconda bisogna passare attraverso la prima. Ci interesseremo allora allo stile sukiya quale continua a essere praticato oggi (cfr. Itoh 1972). Deriva da in-

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segnamenti e pratiche di alcuni uomini vissuti a cavallo tra il XV e il XVI secolo, tra i quali citeremo Takeno Jo-o, Sen no Rikyu, Kobori Enshu. L’impresa fu collettiva e i risultati appaiono, col passare del tempo, relativamente omogenei. 1.2.1.1. Qualità estetiche L’architettura del tè è riconosciuta come “bella” sia in Occidente sia nel suo paese d’origine. Senza voler entrare nell’analisi di ciò che costituisce questa bellezza, né in una discussione relativa all’identità o alla differenza degli elementi di bellezza riconosciuti qui e là, ci soffermeremo sulla constatazione estetica che è formulata sempre a proposito del significante architettonico. Infatti il riconoscimento di questa bellezza non dipende dall’uso degli edifici considerati: che siano dimore, templi o padiglioni secondari non ha alcuna importanza. Per lo meno, è ciò che spicca all’esame del discorso tradizionale che li concerne. Il secondo carattere pregnante di quest’architettura è la sua povertà, anche se solo apparente. I muri sono nudi, e se il battuto di cui sono fatti non appare sempre, il solo elemento presente aggiunto è un gesso bianco liscio. I legni sono lasciati nudi, mai verniciati né dipinti, in modo da poter esibire i segni dell’età e delle intemperie. A parte il battuto e il gesso (e qualche volta le tegole), tutti i materiali utilizzati sono di origine vegetale. L’effetto generale che ne risulta è un’architettura povera ma molto curata: l’accento è messo maggiormente sul lavoro che sui materiali. Lasceremo da parte per il momento la questione della rarità di certi materiali – e del loro costo effettivo – utilizzati per edifici particolari, dato che non si tratta di una condizione necessaria ed è presente solo in alcuni casi. Infine, quest’architettura è ordinariamente visitata e fotografata vuota. Non che essa resti perennemente tale, ma generalmente vi si porta solo ciò che serve all’attività in corso, per togliere tutti gli oggetti non appena si è terminato di servirsene. Si presuppone una costante attività

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di trasporto e di disposizione degli oggetti, con spazi di disposizione adeguati. Quando è aperta alle visite, quest’architettura non ospita altre attività, ovvero rimane vuota. Questa vacuità, sorprendente per degli europei abituati all’ammassarsi degli oggetti negli interni che gli sono familiari, non è estranea all’effetto estetico e all’impressione di povertà. La vacuità è responsabile di un altro fenomeno, di maggiore importanza per il semiologo: l’assenza di tracce di utilizzazione rende l’architettura praticamente illeggibile. 1.2.1.2. L’attività, l’ordine, il senso La significazione di una tale architettura sfugge completamente all’osservatore straniero. Messo da parte il riconoscimento degli elementi costruttivi come muri, pali, coperture, porte e finestre (e ancora: queste due ultime categorie pongono certamente problemi alla comprensione dell’europeo non prevenuto), l’architettura giapponese oppone un’illeggibilità quasi totale. Gli architetti occidentali che vi si sono interessati nel XIX come nel XX secolo si sono scontrati con un universo sfuggente che rimaneva inaccessibile. Abituati a riconoscere un uso (una funzione, nel linguaggio corrente) per ogni luogo, erano persi di fronte a spazi che non erano connessi a funzioni stabili: a seconda dell’ora o della circostanza, negli stessi luoghi si mangia, si dorme, si ricevono visite. Da qui lo stereotipo che compara l’architettura giapponese a una scena di teatro: un palco su cui poter fare di tutto. Detto questo, è detto nulla, e soprattutto non si rende questa architettura più comprensibile. La chiave dell’interpretazione risiede in un’osservazione di tipo antropologico che permette di notare chi fa cosa, quando, dove, con che cosa, in presenza di chi, ecc., per poi organizzare questi materiali in catene significanti dotate di programmi di fare e di trasformazioni di stato: insomma, è necessario fare una semiotica dello spazio. Nel caso particolare della cerimonia del tè e della sua architettura specifica, la situazione è esemplare, nella misura in cui lo spazio non prende senso che a partire dagli atti

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realizzati dal padrone di casa e dai suoi invitati. Senza entrare nel dettaglio di un’analisi di cui abbiamo pubblicato altrove gli elementi (infra, capitoli secondo e terzo; cfr. inoltre Hammad 1987), ci accontenteremo di dire che l’architettura del tè impone un ordine aspettuale all’insieme significante. Quest’ordine si manifesta nello spazio tramite l’obbligo di rispettare posizioni relative destra-sinistra e/o davantidietro, capaci di organizzare lo spazio degli uomini e delle cose, determinando così delle gerarchie. Simultaneamente, questo posizionamento impone l’ordine dell’accesso all’azione, cioè l’ordine temporale d’intervento degli uomini e delle cose, ordine che si manifesta attraverso relazioni di successione, sospensione (interruzione, inserimento), simmetrizzazione (a un certo atto iniziale corrisponde un preciso atto terminale). Di conseguenza, appare chiaro che il senso è legato a una sintagmatica (temporale e spaziale) del significante, sintagmatica posta direttamente in relazione con una sintassi del significato. A partire da questa chiave sovra-determinante, è possibile avvicinare il senso degli elementi sottodeterminati: qualche sorpresa ci attenderà. 1.2.1.3. La forma, la materia, il senso Per preparare il tè, ci vuole un pentolino sul fuoco che contenga l’acqua. La forma di questo pentolino è rotonda, poiché la forma dell’acqua è rotonda. Funziona allo stesso modo per tutti i recipienti destinati a contenere acqua. Non è tutto: nella “sala dell’acqua”, non è rotonda solamente la giara contenente l’acqua fresca, ma anche il braciere incastrato nel suolo destinato alla cottura alimentare, per la ragione essenziale che siamo nella sala dell’acqua. Viceversa, il braciere incastrato al suolo nella sala del tè ha una forma quadrata, poiché la forma della terra è quadrata. Se il braciere non è incastrato, ma appoggiato al suolo, ha tre piedi, visto che il triangolo è la forma del fuoco, e i tre piedi riposeranno su di un’asse quadrata, forma della terra.

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Ogni padiglione del tè, costruito in terra e appoggiato sulla terra, ha una forma quadrata o rettangolare: non esiste un’architettura circolare nel Giappone antico3. Si potrebbe proseguire lungamente nell’inventario delle forme di oggetti e utensili: si conformano tutti alla natura di ciò che li sovradetermina, sia esso il loro contenuto o il loro contenente. Diciamo di più: certi oggetti assicurano, per la loro forma, la transizione tra due “nature”: il braciere non incastrato possiede tre piedi per il fuoco ma è rotondo nella sua parte alta poiché riceve il pentolino dell’acqua, rotondo; il braciere incastrato è quadrato in quanto inscritto al suolo, anche se il supporto metallico che attraversa le braci possiede tre elementi verticali – triangolo del fuoco – su cui si trova il pentolino. In ogni caso, non si tratta di “simbolizzare” un elemento attraverso una forma. Sarebbe un errore fondamentale quello di interpretare così le cose. Nella visione del mondo messa in gioco, gli elementi possiedono una forma e sono tanto più se stessi quanto più rispettano questa forma. Non rispettarla – sempre possibile umanamente parlando – condurrebbe a snaturare l’elemento in questione, e a indebolirne le virtù. 1.2.1.4. Kororo A lato della terra, dell’acqua e del fuoco, l’architettura del tè mette in opera due altri elementi, il metallo e il legno, dato che il pensiero orientale riconosce cinque “elementi” e non quattro come vuole la tradizione greca. Tutti gli utensili e le loro parti costruttive vengono rapportati a questa griglia di lettura e ai rapporti di “generazione” e/o di “distruzione” che gli elementi intrattengono tra loro. A partire da questo, tenendo conto delle procedure di trasformazione e di attivazione in cui transitano, gli oggetti sono “valutati” e poi sistemati gerarchicamente gli uni in funzione degli altri. A titolo d’esempio, nessun sottopentola (Futaoki) in legno o in bambù potrà essere piazzato su un piano laccato: per andare sopra la lacca, ci vuole come minimo una lacca, una ceramica o un bronzo.

LA SEMIOSI ESSENZIALISTA IN ARCHITETTURA

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Dal modo in cui gli oggetti sono manipolati, l’osservatore può intendere il loro statuto e il loro rango. A partire dal loro posizionamento nello spazio e dalla sequenza d’azione, possiamo leggere le stesse cose. La persona che compie la cerimonia non manipola un oggetto se non in funzione della sua “natura”. Di conseguenza, eviterà di servirsi di oggetti che non conosce, per il timore di far male e di controbilanciare le forze interne delle cose, rovinando così tutto l’edificio cerimoniale che mira all’armonia e alla tranquillità, ricreando nello spazio ristretto e organizzato del padiglione del tè un universo in cui tutte le componenti sono in perfetto accordo tra di loro e con il cosmo. Questa natura delle cose, la loro essenza come si direbbe in termini occidentali, è denominata Kororo in Giappone. La traduzione letterale sarebbe cuore, anima. Considerata da un punto di vista semiotico, questa natura delle cose equivale a ciò che noi chiameremmo il senso. È proprio questo, infatti, che interagisce nelle relazioni e nelle trasformazioni con le persone all’interno delle catene significative analizzate a livello di significato. In altre parole: questo senso risiede nelle cose e ne costituisce l’essenza. Saremmo tentati di annotare il tutto in modo lapidario: senso = essenza. Il senso costituisce l’essenza, la parte essenziale delle cose, ovvero del significante. Abbiamo a che fare con una semiosi4 di tipo particolare, che saremmo tentati di chiamare essenzialista5. Secondo questo punto di vista, il senso risiede naturalmente nelle cose, ne è il cuore, la parte essenziale. Non è arbitrario, come ci insegna Saussure, ed è possibile riconoscerlo e ricostruirlo fondandosi sui cinque elementi e sulle loro trasformazioni, le quali ci riconducono all’universo energetico e cosmogonico dello Yin e dello Yang (conosciuto in Giappone con i vocaboli semplificati di In e Yo). Le trasformazioni cui sono sottoposti gli oggetti, sia gli utensili manipolabili che le loro parti costruttive e gli spazi architettonici, dotano questi ultimi di investimenti che, nell’analisi semiotica greimasiana, sono identificabili come valori descrittivi e/o modali, a seconda dei casi. Questa è

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una conferma, se ce n’era bisogno, dell’identificazione essenzialista: quello che riguarda l’essenza della cosa per la visione tradizionale giapponese è riconoscibile nell’ottica semiotica come il contenuto. In termini semiotici, la visione giapponese piazza il contenuto nell’espressione, il significato nel significante, richiudendo i due piani l’uno sull’altro e facendone uno solo. A partire da questo, basterà considerare un solo piano: quello del significante. Detto meglio: la visione tradizionale giapponese non ha bisogno di parlare del significato, essendogli sufficiente di mettere il neofita davanti al significante e di intimargli l’ordine di comprendere. Deve capire, e può (in questa visione), nella misura in cui si tratta di cogliere la natura delle cose e non un qualche supplemento appiccicatosi sopra, che risulterebbe estraneo in quanto arbitrario. 1.2.1.5. Le passioni del tè e il chado L’architettura del tè è stata concepita per regolare la pratica cerimoniale che vi si svolge e per amplificarne gli effetti. Essa seleziona uno spazio nell’universo, lo purifica, articolando la purezza per gradi, piazzando il chaseki (andito della cerimonia) in cima a questa scala. All’interno del chaseki ogni oggetto trova il suo posto, obbligatorio e unico, che concorre a produrre l’effetto di base della cerimonia, e che è la tranquillità. La realizzazione della tranquillità passa per la realizzazione dell’armonia, del rispetto, e della purezza. La tradizione nomina questi come i “quattro principi”, designati dei termini wa, kei, sei, jaku. Va da sé che i termini di tranquillità, armonia, rispetto e purezza non sono che approssimazioni lessicali dei termini giapponesi, e la definizione che se ne dà in lingua italiana non ricopre l’uso che ne fa la lingua giapponese. L’analisi delle definizioni fornite dalla tradizione del tè permette di identificare questi quattro concetti come passioni nel senso semiotico del termine: sono stati modalizzati di un soggetto che “patisce”, ovvero che subisce l’azione di un altro soggetto.

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Di conseguenza, l’architettura del tè coopera con gli oggetti e le persone considerate come soggetti del fare per produrre, nelle stesse persone considerate come soggetti di stato, stati passionali predefiniti. Se tali stati passionali sono valorizzati in sé, apparendo a questo titolo come stati terminativi, ognuna delle loro realizzazioni è considerata come uno stato incoativo a partire dal quale altri stati e altre azioni diventano possibili. Il concatenarsi di stati e azioni costituisce un percorso di vita del soggetto, percorso che gli permetterà, alla fine, di trasformare la propria vita e di farne un oggetto estetico nel senso pieno del termine. All’interno di una prospettiva simile, l’architettura non è più un agente tra gli altri che concorre alla trasformazione del soggetto. Essa gioca un ruolo particolare, regolatore, reperibile e specificabile in un processo che mira alla progressione del soggetto verso un certo perfezionamento se non addirittura verso “la Perfezione”. La “via del tè” (chado) è il cammino intrapreso dal soggetto che comincia l’apprendimento e la pratica del tè. Una analisi serrata rivela che il soggetto in cammino non è un soggetto individuale: la tranquillità non è raggiungibile se non c’è condivisione, cioè se non ci sono invitati che cooperano con l’officiante e compiono con lui la trasformazione che concerne tutti quanti. Riassumendo, l’architettura del tè appare come un elemento agente, avviato dall’azione di un soggetto collettivo che aspira alla propria trasformazione. In questo vediamo apparire due condizioni necessarie: i) affinché anche l’architettura diventi parte attiva del processo bisogna che il soggetto sia attivo su se stesso; ii) le trasformazioni dello spazio e la loro regolazione sono necessarie alla trasformazione dei soggetti. Nella misura in cui riconosciamo come architettura i mezzi stabili di regolazione dei processi spaziali, l’architettura è necessaria alla trasformazione dei soggetti. L’architettura del tè è quindi un mezzo attivo necessario a coloro che prendono in mano la propria trasformazione.

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1.2.2. Il Rinascimento e Palladio Se guardiamo da vicino l’architettura occidentale, essa conosce pochi miti fondatori. In altri termini, la storia dell’architettura riconosce a pochi periodi storici il privilegio insigne di essere detti “fondatori”. Il Rinascimento gode di questo privilegio, come ne gode, più vicino ai nostri tempi, la scuola del Bauhaus. La rivoluzione russa ha prodotto una scuola rivoluzionaria che avrebbe potuto godere degli stessi privilegi se non fosse stata bloccata dagli eventi storici che conosciamo: è una fondazione abortita. Tra gli architetti del Rinascimento pochi ideatori hanno avuto l’influenza di cui si può accreditare Palladio. Il Palladismo e il Neo-Palladismo hanno popolato l’Europa e l’America di edifici che si richiamano direttamente a questa “fondazione”. Prenderemo Palladio come rappresentante del Rinascimento nella sua totalità, pur sapendo che non fu il solo a realizzare questo lavoro immenso, e sapendo che le idee che ha propagato e/o messo in opera non sono state unicamente le sue. Proprio come in Giappone per l’architettura del tè, il Rinascimento architettonico si è distribuito su diverse decine d’anni e fu l’opera di un soggetto collettivo in seno al quale possiamo citare Alberti, Bramante, Serlio, Sansovino… 1.2.2.1. L’investimento semantico degli esterni Esaminiamo alcune realizzazioni palladiane, e interroghiamoci sul senso che vi è investito, sempre che ce ne sia uno. 1.2.2.1.1. La Villa Barbaro a Maser. Devo a Pierre Boudon (1987) l’analisi che riassumerò così: dietro a Villa Barbaro, c’è una fonte a fianco della collina. L’acqua alimenta le ninfee (nascoste tra la collina e la villa) prima di rientrare nelle cucine. Da lì, essa riesce verso il giardino che irriga e in cui viene modulata in due piccoli stagni-abbeveratoi prima di continuare verso i campi coltivati che bagna. Questo percorso, menzionato da Palladio (1570, p. 51), forma un ciclo che conduce l’acqua dal suo letto sotterraneo (ctonio,

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naturale) a un uso aereo prima di rinviarla nel suolo (terrestre, culturale). Il ciclo è iscritto sull’asse Nord-Sud. Questo ciclo ctonio-terrestre si coniuga con un altro ciclo, celeste-terrestre, iscritto sull’asse Est-Ovest della villa, grazie a una serie di meridiane installate sui colombieri alle estremità delle ali (o barchesse). Posta tra la natura e la cultura, all’incrocio dello ctonio, del terrestre e del celeste, la villa riproduce, nella sua organizzazione spaziale, il macrocosmo e si afferma come un microcosmo completo, immagine cosmogonica (e mitica?) dell’autonomia della fondazione agricola auto-sufficiente. 1.2.2.1.2. La Villa Almerico a Vicenza (detta la Rotonda). L’architetto Robert Streitz (1973) ha consacrato alla Villa Almerico una piccola opera che ha il doppio merito di essere ben documentata e certamente prudente: si rifiuta di azzardare ipotesi che non può provare. Riprendendo le osservazioni pubblicate da Bertotti Scamozzi (1778), osserva che “il Sud è indicato a due gradi dall’asse diagonale” (p. 53). Ne cerca la ragione fino a interrogare un astronomo dell’osservatorio di Nizza, che gli scrive: gli architetti dell’epoca, avendo a propria disposizione solo una direzione approssimativa del meridiano magnetico, si rifacevano direttamente alla stella polare (…) le vostre constatazioni personali sono una prova supplementare sulla scelta dell’asse del mondo come referenza piuttosto che del meridiano.

Tutto ciò richiama due osservazioni. i) Contrariamente alla Villa Barbaro, la Villa Almerico non allinea le sue facciate (e le loro aperture) sulle direzioni cardinali. Qui sono gli angoli (ciechi) che adottano la direzione degli orientamenti privilegiati dalla cultura, e questo fatto non può essere dimenticato, visto soprattutto che il sito (una collina alle porte della villa) è libero da ogni vincolo di allineamento. Il paesaggio non fornisce alcuna chiave a questa scelta di orientamento.

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ii) Più notevole ancora è il fatto che la diagonale della villa adotta la direzione dell’asse del mondo, trascurando il meridiano magnetico. Una tale precisione non può risultare dal caso. La naturale conclusione è che Palladio ha inscritto il suo edificio in referenza cosmica (l’asse del mondo) e non terrestre (il meridiano magnetico). Secondariamente, evitando di piazzare una delle facciate a Nord, orientamento che l’avrebbe privata del sole a queste latitudini, ha inscritto l’edificio in modo da far ricevere il sole da tutti e quattro i lati. Ci basterà qui d’aver mostrato che la villa Almerico è doppiamente messa in relazione con il dominio celeste o cosmico. Il senso che è connesso a questa inscrizione non è esplicitato da nessuna parte, almeno a nostra conoscenza. Questo non impedisce di concludere che c’è un senso pronto a imporre la necessità di essere decifrato e analizzato in una seconda fase. Altre caratteristiche di questa villa orientano l’attenzione verso l’importanza accordata da Palladio alla geometria: se la villa possiede quattro facciate simili, queste ultime sono uguali a due a due, le facciate identiche disposte sui due lati opposti del quadrato. L’entrata attuale si fa dalla facciata Nord-Ovest. I disegni pubblicati da Palladio (1570, p. 19) e da Bertotti Scamozzi (1778, p. 26) danno come entrata la facciata Nord-Est. Davanti a quest’ultima è possibile osservare oggi che una porzione del muro di cinta, situato tra due colonne allineate sugli speroni della scala, è fatta da un’apparecchiatura meno curata del resto del muro. Inoltre, una alzata del terreno, in piano inclinato, s’inscrive nell’asse di questa facciata, cominciando dalla porzione di muro menzionata e proseguendo fino alla strada d’Este. Si può dunque supporre che il pezzo di muro mal preparato sia di recente costruzione, che la facciata Nord-Est, oggi diventata secondaria, fosse principale in passato e che si venisse direttamente dalla strada d’Este, da dove si gode di una vista magnifica sulla villa. L’argomento decisivo in favore di questa tesi, comunque, viene dalla geometria: sulla facciata Nord-Est,

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gli assi delle aperture (porte e finestre) coincidono con gli assi d’intercolumnio della loggia; mentre sulla facciata Nord-Ovest gli assi non coincidono. Di conseguenza, la facciata “perfetta” in termini geometrici è la facciata Nord-Est ed essa deve servire a questo titolo da facciata principale. L’entrata attuale non è che una soluzione di ripiego in senso architettonico che, per di più, impone di attraversare le parti comuni per accedere alla villa. Questo ci conduce a porci una domanda che viene da sé: perché la facciata Nord-Ovest non è stata costruita come “perfetta”? Si potrebbe tentare di rispondere che questa scelta permette di gerarchizzare le facciate e di distinguerle. Se questa risposta è ammissibile per altri casi, non è accettabile per un edificio così elaborato e di taglia ridotta, dove il gioco delle simmetrie è onnipresente. La risposta corretta è altrove. Non è all’esterno, ma è all’interno. Infatti, se non ci sono che due finestre (al posto di quattro) sotto la loggia Nord-Ovest, è perché le sale situate ai quattro angoli della villa (gli stessi angoli privilegiati che occupano i punti cardinali principali) siano perfette: perfette in termini di misurazione e di simmetria. La misurazione: nel suo primo libro, Palladio parla dell’importanza delle dimensioni delle sale e delle proporzioni relative di larghezza, lunghezza e altezza. Nella Villa Almerico, le proporzioni interne gli sono apparse di un’importanza sufficiente per giustificare lo spostamento dei muri che separano le sale angolari (occupanti gli angoli) dal passaggio centrale: lo sfasamento è quasi di sessanta centimetri. Questo divario non può essere attribuito a un errore: si ripete quattro volte. Ne deriva che i passaggi d’accesso Nord-Ovest e Sud-Est tra le logge e la rotonda centrale sono più larghi dei passaggi omologhi Nord-Est e SudOvest. Le qualità di questi spazi sono sacrificate a vantaggio delle sale che occupano gli angoli. La simmetria: le sale angolari sono rettangolari. Sulle parti piccole possiedono una porta e una finestra che stan-

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no una di fronte all’altra, aperte entrambe nell’asse di simmetria. Sulla grande parte esterna, ci sono due finestre poste simmetricamente in relazione all’asse di questo lato. Una di queste finestre è allineata su una fila di porte e di finestre che attraversano la villa da parte a parte mentre l’altra finestra trova il suo posto obbligato secondo una logica interna che non deve nulla alla logica esterna che organizza la loggia dentro la quale si trova aperta. Da qui lo sfasamento di assi che può essere osservato sia sul posto sia sui disegni pubblicati dal Palladio. Riassumendo: la logica interna della perfezione dimensionale e simmetrica delle sale occupanti gli angoli privilegiati dall’orientamento conforme a quello dell’asse del mondo finisce col perturbare la logica geometrica esterna. Ne deriva l’apparizione di due facciate perfette e di due facciate imperfette. Tali fatti, tangibili, misurabili e visibili, non possono essere gratuiti. Bisogna ammettere che sono dotati di senso, anche se non l’abbiamo ancora articolato interamente. Nel caso specifico, siamo nella situazione dell’archeologo che cerca di decifrare un linguaggio dimenticato: sa che c’è del senso, anche se non sa leggerlo. In ogni caso, abbiamo riunito, in queste brevi descrizioni, alcuni elementi di lettura: referenze all’asse del mondo e della terra, referenze alla perfezione della simmetria, all’uomo che abita i luoghi e per il quale le misurazioni e le proporzioni sono fondamentali. 1.2.2.2. L’investimento semantico degli interni La Villa Almerico ci ha mostrato come i vincoli connessi all’interno delle sale potessero determinare l’esterno dell’edificio. La Villa Poiana ci permetterà di vedere la finezza con cui gli interni sono articolati e differenziati. 1.2.2.2.1. La Villa Poiana a Poiana Maggiore. A parte il granaio, tutte le sale di questa villa sono a volta: la volta della loggia d’ingresso è a botte, marcata nel mezzo da un incrocio di costoloni, il quale manifesta all’esterno la pre-

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senza della volta a botte della grande sala centrale. Si ritroveranno queste volte a botte marcate da un incrocio di costoloni sopra i piccoli vani che fiancheggiano posteriormente la grande sala. Nelle stanze d’angolo posteriori, le volte sono di tipo “a faccia”6, cioè delle volte uniformi su pennacchi a tromba con un semi-incrocio di costoloni negli angoli. Le stanze ad angolo anteriori sono coperte con volte piatte “a conca”. Nell’ammezzato, le piccole stanze posteriori sono coperte di volte a botte ribassate. Le stesse volte a botte si ritrovano nelle cantine e nelle cucine, con delle volte tagliate (remenato) dalle finestre, che creano delle interpenetrazioni dall’effetto molto bello. La varietà dei tipi di volta messi in opera da Palladio a Villa Poiana non può essere dovuta né al caso né alla fantasia. In questa villa non c’è nessun soffitto a travetti; una sintassi forte lega tra loro queste volte che si giustappongono. Inoltre, molti fattori convergono per farci concludere che questa villa, costruita presso l’antica dimora dei Poiana senza tener conto di quest’ultima, è stata voluta come una Villa ideale (cfr. Constant 1987). Nella carriera di Palladio, s’inscrive tra Villa Caldogno di cui parleremo più avanti, e Villa Barbaro già evocata. Lo studio di questi progetti successivi permette di concludere che Palladio manipolava un sistema coerente, ogni realizzazione essendo una variazione inscritta all’interno di questo sistema. 1.2.2.2.2. La Villa Caldogno a Caldogno. Anteriore a Villa Poiana, cui assomiglia a livello di pianta (cfr. Puppi 1973, pp. 259-261), questa villa offre la particolarità di possedere delle volte solo per coprire la loggia e le cantine. In tutte le sale, i soffitti sono costruiti su belle travi. Ne risulta, nell’insieme della villa, un ambiente molto particolare, luminoso e disteso. In questo, essa si oppone nettamente a Villa Poiana, dove la successione degli spazi è marcata dalla presenza di una tensione costante, anche se quest’ultima è piacevole. Tali opposizioni tra gli elementi architettonici e gli effetti che provocano sul visitatore ci invitano a interrogarci

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sulle ragioni che fanno optare per tale o tal’altra soluzione. A partire dalle posizioni semiotiche attuali, risponderemo senza esitare che i fini perseguiti riguardano gli effetti di senso e gli effetti passionali prevedibili nel soggetto. In altri termini, l’ipotesi che queste variazioni siano dotate di senso appare plausibile a priori. Sarebbe anche sviluppabile, a partire dalle ricerche semiotiche recenti, secondo la logica delle passioni: gli effetti di senso possono provocare, nei soggetti, degli stati passionali descrivibili in termini di modalità di stato. Non è certo che una tale ipotesi abbia potuto essere formulata in epoca rinascimentale, almeno non in questi termini. Tuttavia, l’interesse dell’epoca considerata per l’allegoria, per la pittura i cui temi antichi avevano equivalenti contemporanei, per i discorsi sulla cultura antica comparata alla cultura europea del momento, tutto questo ci farebbe dire che la problematica del senso era onnipresente, sebbene in termini che non sono ancora i nostri. In più, all’interno della grande questione delle “virtù” dell’uomo, si riconosce la problematica delle “passioni”. Si può allora proporsi di ricostruire le posizioni degli architetti che ci interessano. 1.2.2.3. Il silenzio dei testi Il Rinascimento è marcato dalla moltiplicazione dei trattati di architettura, sia in latino (ad es. Alberti), sia in italiano (quello di Palladio in particolare). Più o meno influenzati da Vitruvio, queste opere abbordano gli “ordini” classici, le proporzioni, la composizione degli elementi, le tecniche di costruzione ecc., così come trattano questioni di principio, di funzionamento, di igiene. Certi arrivano fino a parlare di urbanistica. Tuttavia si cercheranno invano le ragioni della scelta di tale forma di copertura piuttosto che di un’altra. A margine della descrizione dei tipi di volte, delle loro proporzioni, del modo di costruirle, non si trovano delle ragioni d’utilizzo legate all’habitat. Si trovano al massimo osservazioni sul carattere appropriato di tale forma nella circostanza particolare in cui

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è stata utilizzata. Appropriato, conveniente, comodo, sono i termini che si ritrovano in questi trattati (cfr. Palladio 1980, p. 31), senza che si sappia come queste caratteristiche possano essere determinate. La stessa assenza di analisi segnala i passaggi relativi alle aperture, ai piani, e agli altri elementi architettonici. Ora, nonostante il silenzio dei testi, l’architettura continua a interpellarci a partire dal suo discorso spaziale, poiché essa tiene un discorso che nulla può rimpiazzare od occultare. La qualità dell’architettura, dei suoi elementi e della loro articolazione ci fa postulare l’esistenza di un senso altrettanto articolato. Dato il silenzio dei trattati a questo riguardo, non ci resta che tentare una decifrazione sistematica, comparabile a quella intrapresa dagli archeologi e dagli studiosi di epigrafia a proposito delle lingue morte. A questo titolo, l’architettura del Rinascimento è quasi altrettanto opaca di una lingua sconosciuta. Di conseguenza, e al fine di decifrare i contenuti di cui postuliamo l’esistenza, bisogna per forza ricorrere ad altri sistemi di senso, ad altri linguaggi7. Date le nostre conoscenze dell’architettura giapponese, e la lunga decifrazione cui ci siamo dedicati per renderne conto, ci proponiamo di utilizzare quest’ultima a titolo di termine oppositivo nella decifrazione dell’architettura rinascimentale. Il tutto senza idee preconcette sulle grandezze e sulle relazioni identiche o differenti nei due universi comparati. 1.2.2.4. La comparazione e la decifrazione Abbiamo affrontato, nell’introduzione, certi fattori “esterni” che invitano a comparare queste due architetture. Adesso esamineremo delle grandezze interne comuni a entrambe. 1.2.2.4.1. L’insediamento, la sobrietà, le aperture. I casi di Villa Barbaro e di Villa Almerico ci hanno mostrato l’edificio messo in relazione con le direzioni cardinali, da cui abbiamo concluso la possibilità di stabilire una relazione

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tra l’architettura e il cosmo. Avevamo notato un legame simile tra gli oggetti del tè e la cosmogonia rappresentata dagli “elementi” della natura. Un legame comparabile si ritrova a livello dell’architettura del tè: la tradizione geomantica8 pone regole concernenti l’insediamento delle costruzioni. I muri devono opporsi all’oriente, essendo l’entrata a sud. L’angolo Nord-Est deve essere pieno, mentre l’angolo Sud-Ovest deve essere forato da un’apertura (cfr. cap. 4). Se queste obbligazioni sono violate dall’ambiente vicino, dai rilievi o dal sito, bisogna disporre di elementi di compensazione che restaurino il flusso di energia e il suo ritmo. Senza concludere frettolosamente che l’architettura “umanista” del Rinascimento s’inscrive in un quadro geomantico, notiamo che il legame tra l’edificio e il referenziale cosmico è presente nei due casi. Se il dettaglio degli investimenti posti in ogni elemento varia, è possibile tuttavia affermare, senza troppi rischi, che questo tipo di insediamento, qualunque sia il quadro culturale, pone implicitamente una relazione di dipendenza tra l’architettura e gli assi cardinali. Inoltre si tratta di una relazione dissimmetrica poiché ciò che stato edificato è un’opera umana contingente e non gli assi cardinali che riguardano istanze superiori. Anche oggettivata, la “natura” non è posta sullo stesso piano dell’edificio, e si ammetterà che essa influenzi l’edificio ben al di là dell’influenza che quest’ultimo può esercitare sulla prima. Ciò che varia secondo le interpretazioni è la natura e l’estensione della suddetta influenza. Ritornando alla cosa stessa costruita, si può notare che le ville palladiane presentano, nella maggior parte dei loro esterni, superfici lisce che determinano volumi semplici, dove l’ornamento è distribuito con parsimonia. I marmi colorati sono esclusi, e il semplice calcare accompagna abitualmente lo stucco bianco. Questa sobrietà ci richiama la vacuità dell’architettura giapponese, la sua apparente povertà e le superfici bianche dove il decoro è bandito. Nei due casi, si tratta di una specie di ascesi: infatti la rinuncia è indubbiamente volontaria. I committenti, nelle

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due culture, avevano i mezzi per pagare la decorazione. L’ascesi testimonia, in entrambe le culture, una ricerca dell’essenziale. Lo studio degli infissi palladiani mostra che porte e finestre sono differenziate dalle loro dimensioni, che possono essere messe in relazione con due variabili: l’uso dei luoghi su cui danno queste aperture e la qualità delle persone chiamate a servirsene. Così, le finestre dell’angolo nobile (piano nobile) sono più grandi di quelle dell’ammezzato o delle cantine. Le porte principali, dando sulla grande sala, sono più grandi delle porte secondarie… Si trovano fatti simili nell’architettura giapponese, dove le opposizioni sono più esplicitamente investite: allo Zuiho in (sotto-tempio di Daitokuji, Kyoto), la porta sadoguchi costruita per il cerimoniere del tè ha un’architrave leggermente più bassa dell’architrave della porta normale vicina. Questo ha come conseguenza l’obbligo del celebrante di abbassare la testa ogni volta che deve varcare la porta. Per umiltà. Nella concezione giapponese, infatti, il fatto di abbassare la testa rende umili. Quindi la porta dall’architrave basso rende umili: l’architettura agisce sulla persona. Il meccanismo è ancora più esplicito nel caso del nijiriguchi (o porta degli invitati): questi ultimi entrano ed escono in posizione raccolta, scivolando letteralmente sui tatami e appoggiandosi sulle mani. Là, ancora, è la porta a rendere umili. Ritornando all’architettura rinascimentale, si potrebbe concludere senza sbagliarsi che le porte monumentali rendono fieri, e che le piccole finestre dell’ammezzato rendono meno fieri, se non proprio umili… 1.2.2.4.2. L’architettura agisce sull’uomo. Se l’ascesi della sobrietà mira all’essenziale, e se l’architettura agisce sull’uomo, non si può evitare di accostare queste proposte implicite, facendo apparire una tesi che identificherà l’essenziale dell’architettura nelle due epoche abbordate: le entità cosmiche agiscono sull’architettura e l’architettura agisce sugli uomini. In questo meccanismo, c’è un’inversione della relazione soggetto-oggetto e un’inversione delle idee largamente

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ammesse oggi. Se è vero, infatti, che l’uomo costruisce l’architettura, e agisce su di essa, formandola e trasformandola, quest’ultima agisce anche su di lui secondo le procedure che abbiamo appena visto. Di conseguenza, abbiamo a che fare con una doppia interazione nel corso della quale i ruoli soggetto-oggetto non sono determinati una volta per tutte: commutano tra l’uomo e l’architettura e la dipendenza è reciproca. Ciò costituisce una delle chiavi di decifrazione, poiché questo meccanismo coinvolge la stessa dinamica del senso e delle cose, la loro interazione reciproca e il loro legame. Insomma, scopriamo che la semiosi, così come può essere ricostruita in questo corpus, non si riduce a una semplice corrispondenza statica tra un significante e un significato. 1.2.2.4.3. Senso dell’adozione di forme antiche. Dal punto di vista della storia dell’architettura, l’ipotesi elaborata qui sopra è forse ancora più ricca se enunciata nel seguente modo: l’architettura del Rinascimento mira alla trasformazione dell’uomo. Con una formula lapidaria, si potrebbe dire che il programma dell’epoca si riassumeva nel cambiare l’uomo cambiando l’architettura. A livello delle case, significava cambiare l’individuo e la famiglia. A livello delle città, il cambiamento riguardava la società. Per farne che cosa? Il contesto filosofico e letterario dell’epoca ce ne fornisce la risposta: è per modellare i contemporanei sull’immagine degli “antichi”. Indipendentemente dagli uomini e quasi loro malgrado, si trattava di ricondurli alla “virtù” degli antichi. In altri termini, l’architettura e l’urbanistica del Rinascimento non erano altro, tra le mani degli architetti “umanisti”, che mezzi di cambiamento sociale. Per ridefinire l’uomo, bisognava ridefinire l’architettura. L’architettura è infatti un mezzo obbligato d’azione. La visione rinascimentale che estraiamo è pertanto parallela a quella degli uomini del tè, con piccole differenze:

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il chado non aveva alcun modello antico da restaurare, ed era in causa solo la trasformazione di una piccola élite, senza la pretesa si raggiungere la società nel suo insieme se non attraverso la catena degli individui. Da questo momento diventa più agevole comprendere la facilità con cui gli architetti del Rinascimento hanno distrutto gli edifici romani e gotici: erano altrettanti ostacoli innalzati sul cammino della ri-nascita che stavano cercando di forgiare. Ed è con una simile visione che gli architetti rivoluzionari russi hanno voluto ridare forma alle loro città e alla loro società (cfr. Kopp 1967). 1.2.2.4.4. Verifica sull’architettura palladiana. Le conclusioni che abbiamo estrapolato sono solo ipotesi aventi struttura di conclusioni provvisorie. Prima di utilizzarle e di generalizzarle, conviene verificarle. È ciò che faremo esaminando le piante del Palladio e le coperture che mette in opera. Le piante delle ville9 sono semplici. Il visitatore non prevenuto sarebbe tentato di dire perfino “elementari”. In più si rassomigliano. Wittkower (1962) ha mostrato le parentele tra queste piante e le loro variazioni attorno a un numero limitato di configurazioni. L’analisi diretta mostra che i luoghi non sono funzionali: le sale non sono dotate di elementi che ne definiscono l’uso esclusivo, tanto che si potrebbe compiervi praticamente ogni atto che abbia a che fare con l’abitare. A questo proposito, Villa Pisani a Bagnolo è eloquente: la cucina è installata in un posto identico alla sala del soggiorno e i camini sono a malapena differenziati. Se analizziamo ciò che Palladio dice nei Quattro libri (libro II, pp. 3-4), otteniamo la rivelazione del suo punto di vista: egli considera che si può spostare il soggiorno ordinario da una stanza all’altra a seconda delle stagioni, per approfittare del calore del sole o per ripararsene; allo stesso modo, le persone importanti devono disporre di spazi adeguati per ricevere i visitatori secondo la loro qualità e il tipo di visita…

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In breve, sembra che l’organizzazione della villa, come la si legge sulla pianta, miri a offrire al padrone di casa un certo numero di possibilità d’azione o di capacità. In termini semiotici, si tratta della competenza secondo il potere, aspettualizzata e distribuita sullo spazio della pianta. Di conseguenza, questi semplici progetti manifestano il ruolo dell’architettura al servizio dell’uomo. Come insieme di elementi investiti dalla modalità del potere, l’architettura potrà ricevere le qualificazioni di “comoda, conveniente, appropriata”. In questo contesto, queste parole prendono un senso verosimile, ristabilendo l’architettura in un rapporto soggetto-oggetto più familiare. Che ne è allora delle volte? Palladio dice (libro II, p. 4) che le stanze del pianterreno saranno coperte da volte. Ma quando descrive la loro varietà (libro II, p. 54), non dice nulla a proposito dell’uso cui si dovrebbe destinarle. Si potrebbe affermare senza pericolo d’errore che le volte delle stanze d’abitazione non servono ad alcun fine materiale. Ne deriva che, se Palladio si è curato così tanto della forma e delle dimensioni da dare alle sue volte, ci sono fini non-materiali. Nessuno studio è stato condotto, a nostra conoscenza, lasciandoci liberi di formulare le nostre ipotesi. Due problematiche ci sembrano pertinenti, e l’analisi mostra che sono legate. La prima è di carattere estetico. In questo contesto, le volte saranno destinate a produrre sul fruitore-spettatore delle emozioni. In termini semiotici, si tratterà di “passioni”, che definiscono il soggetto come soggetti di stato modalizzati. La seconda è quella dell’influenza diretta delle forme sugli uomini: gli spazi ridotti favoriscono l’intimità, i grandi spazi invitano alla festa e all’espansione… Nei due casi, si tratta dell’azione dell’architettura sugli uomini, meccanismo identificato in precedenza nel caso dell’architettura del tè. Non è tutto: se queste forme sono attive, e se sono state cercate nell’antichità, è per ottenere un certo tipo di risultato. Quale? Abbiamo già segnalato che la letteratura del Rinascimento è piena di evocazioni delle “virtù” anti-

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che. Ora, l’analisi di queste ultime mostra che esse riguardano ciò che noi chiamiamo oggi passioni. Si possono unire questi enunciati e concluderne che tale architettura mirava a installare, presso gli uomini che l’avrebbero occupata, le virtù antiche. Non unicamente a titolo di stati terminativi, come possono esserlo le emozioni, ma a titolo di stati incoativi che incitano all’azione. In questo quadro, l’architettura appare come un Destinante dotato di una certa stabilità e autonomia. Riassumendo, lo studio dei progetti conduce a concludere che l’architettura è un oggetto intermedio che permette al suo occupante di agire, mentre lo studio delle coperture induce a concludere che l’architettura agisce sul suo occupante. Ritroviamo così la permutazione della relazione soggetto-oggetto tra l’uomo e l’architettura, a seconda dei casi di interazione. 1.2.2.5. Esplicitazione dell’implicito La decifrazione che abbiamo affrontato esplicita una parte di ciò che era implicito. Vorremmo tuttavia liberare dall’ambiguità un altro implicito: quello riguardante i presupposti dei meccanismi che abbiamo appena identificato. Abbiamo visto, nelle stanze, come gli universi del significante e del significato siano confusi: il senso è supposto essere dentro le cose. È ciò che abbiamo chiamato essenzialismo, identificato inizialmente nel Giappone, e ritrovato in seguito nell’Italia del Rinascimento. L’universo è sincretico, vi si ritrovano simultaneamente le cose e il loro senso, e il senso è posto come essenza delle cose. Abbiamo anche visto che l’architettura palladiana mira, con la sua sobrietà, a una certa essenza. Ne risulta una fisicizzazione del senso, nella misura in cui il senso non è già dato ed è il significante fisico che è messo avanti. Si potrebbe supporre che quest’effetto semantico risulti dalla perdita di senso dovuta alla dimenticanza e alla lontananza storica. Ma tutto ciò non renderebbe conto del silenzio dei trattati. Da cui la seguente domanda: è possibile spiegare questa fisicizzazione del senso, che lo rende implicito (e con

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una scadenza), in correlazione con l’avanzamento del significante? Sono possibili almeno due risposte: può darsi che andasse da sé e che nessuno avesse bisogno di parlarne; oppure che ci fosse un interesse a non parlarne. La prima soluzione è corrente nelle culture orali, dove un certo sapere (e un saper fare) è trasmesso per contatto diretto. Questo è possibile benché il Rinascimento sia caratterizzato da un’esplosione della scrittura. La seconda soluzione è da mettere in relazione con il programma (rivoluzionario?) di cambiamento sociale dell’architettura. C’è il pericolo, per ogni riformatore, di gridare troppo l’avere l’intenzione di riformare lo stato delle cose: coloro che sono ben piazzati rischiano di rimanere in ombra. Anche se non si tratta di religione, si tratta dell’uomo, e il soggetto è sensibile. Infatti è meglio non dimenticare che il Rinascimento, in architettura, è contemporaneo all’avventura della Riforma della religione. L’analisi dei meccanismi interni dei due movimenti induce a concludere che si rifacevano alla stessa episteme, anche se non hanno adottato gli stessi valori di base. 1.3. Conclusioni Il nostro studio è partito dai periodi riconosciuti come “fondatori” in storia dell’architettura ed è arrivato, tramite l’analisi, a domande relative alla semiosi, alla relazione soggetto-oggetto e al ruolo sociale dell’architettura. Prima di ritornare alle nostre questioni iniziali, conviene considerare i risultati ottenuti per valutarli da un punto di vista semiotico ed epistemologico. 1.3.1. I meccanismi semiotici I casi che abbiamo analizzato segnalano due culture differenti, e il loro confronto era una verosimile scommessa antropologica. Tuttavia, abbiamo potuto riconoscervi meccanismi semiotici identici, malgrado le differenze di contesto, di materiali e di significazione. In termini semiotici, si

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potrebbe dire che, seppure gli enunciati spaziali reperibili nelle due culture siano dotati di contenuti differenti, possiedono elementi comuni a due livelli formali distinti: il livello enunciazionale-contrattuale, da una parte, quello della semiosi dall’altra. La trasformazione degli uomini è una varietà della manipolazione, intrapresa dagli architetti del Rinascimento e dai loro committenti. Essa era indirizzata in certi casi verso gli stessi committenti, rendendo così la manipolazione riflessiva, come nel caso dell’architettura del tè. In altri casi, essa aveva come obiettivo il resto della società, sia urbana che rurale, diventando così transitiva. Se quest’ultimo caso sembra assente dalle preoccupazioni giapponesi esaminate, rimane vero che, nelle due situazioni, la manipolazione è delegata all’architettura. C’è un contratto implicito tra i sostenitori di questa manipolazione e l’architettura a cui chiedono aiuto. Questa architettura, infatti, è considerata in possesso, in sé, delle qualità intrinseche che saranno attive dal momento in cui gli uomini le avranno dato esistenza. In Giappone, queste qualità sono attribuite alle energie In e Yo; in Italia, sono attribuite agli antichi. Nei due casi, abbiamo a che fare con una figura di Destinante trascendente sollecitato dai costruttori. Una procedura simile presuppone una semiosi essenzialista, senza la quale non può funzionare. In effetti, per rendere l’architettura efficace direttamente (nessun rituale d’invocazione è attestato in nessuno dei casi esaminati), bisogna che essa possieda, in se stessa, questa cosa direttamente accessibile agli uomini e agente su di loro: il senso. 1.3.2. Usi e conseguenze delle semiosi essenzialiste Le epoche esaminate costituiscono casi particolari di semiosi essenzialista, investita nell’architettura. Ma illustrano molto bene il fenomeno: accade come se il significante primeggi, e non ci sia che un solo piano (quello dell’espressione) in questo sistema di significazione. A partire da ciò possiamo permetterci di comportarci come se il

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senso non esistesse. È la posizione di Palladio, che non ne parla mai. Oppure si afferma, come gli adepti dello Zen, che bisogna guardare le cose fino a comprenderle. L’impresa è difficile, poiché il senso si annida nella cosa. L’accesso al senso è detto “illuminazione”. Pochi comprendono le cose, e tutti ne subiscono l’azione. Tuttavia, la comprensione assicura una certa liberazione. Nei due casi, il lavoro sul significante va di pari passo con un lavoro sul significato, poiché l’uno è incassato nell’altro. Da cui la cura estrema portata dai sostenitori di queste vie al trattamento del significante. Di colpo, risultano effetti di senso poetici ed estetici riconoscibili oggi, anche dai neofiti. Parallelamente, la semiosi essenzialista naturalizza il senso, poiché pretende che esso sia nelle cose e non vi sia condotto dall’esterno. Di conseguenza, naturalizza la cultura. Solo a questo titolo essa può delegare alle cose il ruolo di manipolare gli uomini in modo autonomo. Ancora, se le cose sono naturalmente così, devono esserlo, e devono perseverare nel loro essere. Non si potrà cambiarle che in modo conforme alla loro natura, e bisognerà inscriversi nel corso della natura per potere modificarla. Schiacciando il significato sul significante, la semiosi essenzialista riconduce tutta l’efficacia verso l’universo tangibile. Essa è, pertanto, materialista e realista. Pretendendo di agire sugli uomini attraverso le cose, proprio qui e indipendentemente da un altrove (un eventuale al di là o un universo del significato), l’architettura rinascimentale è in accordo con certi presupposti della Riforma che riguardano, in questo mondo, la manifestazione della benedizione o della collera divina. In questo si allontana dalla chiesa cattolica e spiegherebbe forse il silenzio mantenuto su queste opzioni. Accontentandosi di porre le cose in natura, gli architetti del Rinascimento adottavano una strategia persuasiva all’apparenza inoffensiva per preparare l’azione manipolatrice. Ad ogni modo, basta giustapporre, come abbiamo appena fatto, due universi essenzialisti e naturalizzanti per

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far apparire il loro carattere culturale, l’arbitrarietà del senso e l’inanità semiotica della tesi che propongono. Queste posizioni non sono dunque sostenibili che all’interno di un universo chiuso e ristretto posto come l’universo nella sua totalità. 1.3.3. Essenzialismo e carattere fondatore I periodi che abbiamo esaminato sono complessi, ricchi di produzione, e sarebbe un azzardo quello di riassumerli mediante pochi tratti descrittivi. Tuttavia, l’analisi che abbiamo appena condotto ci invita ad avanzare un’ipotesi: l’essenzialismo e il carattere fondatore sono connessi tra loro. Le imprese che si professano fondatrici sono tentate dalla tesi naturalizzante-essenzialista, per il vantaggio persuasivo che offre. Le cose naturali non hanno bisogno di giustificarsi: sono conformi a un ordine che trascende ogni altro ordine non trascendente. A una tale impresa non basta, comunque, presentarsi come naturale perché sia accettata come tale. È necessario che possa richiamarsi a un sistema di valori già esistenti. Troppa differenza provoca il rigetto della novità, e la cosa antica manterrebbe il suo stato dominante. C’è sempre del paradosso, infatti, quando una cosa nuova si presenta come più naturale di una cosa antica. Nel caso del Rinascimento c’è stato bisogno di tutto il peso dell’antichità per lottare contro l’universo “gotico” esistente. È in nome di un’antichità più autentica che le tesi rinascimentali hanno potuto essere presentate, accompagnate da un dispositivo logico, persuasivo, propagandistico, seduttore ecc. sviluppato nel corso di anni dai suoi sostenitori. Di conseguenza la posizione naturalista-essenzialista non è sufficiente per rendere fondatrice una data impresa. Che possieda almeno il carattere di condizione necessaria? Nulla permette di affermarlo con certezza, anche se disponiamo di un certo numero d’indizi convergenti in questa direzione: il Bauhaus e il periodo rivoluzionario russo hanno tenuto dei discorsi naturalizzanti ed essenzialisti.

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Gli scritti di Kandinskij sui colori e sulla musica sono esemplari a questo riguardo. Paul Klee ha lasciato, da parte sua, delle note che andavano nello stesso senso. Tutti questi uomini sembrano perseguire la stessa impresa: ritrovare la natura delle cose. Quando si guarda più da vicino questa natura, essa assomiglia incredibilmente al senso. Per concludere, tutti i movimenti fondatori conosciamo sono costruttori di semiosi essenzialiste, anche se non è vero l’inverso.

1 Questo articolo riprende, ritoccandolo, il testo della conferenza pronunciata il 24 ottobre 1987 nel Congresso annuale dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, accolto a Vicenza dall’Associazione Culturale Dora Markus. È apparso, in versione francese, in «Carte Semiotiche, Rivista dell’Associazione Italiana di studi Semiotici», 7, 1990. 2 In quel bel libro che è La regola e il modello (1980), Françoise Choay analizza testi che chiama “instauratori”, testi cui riconosce un ruolo “fondatore” e “inaugurale”. Tuttavia non ci rifaremo a questo testo: organizzato per epoche storiche, non vi si trova una storia dell’architettura. Benché esistano legami tra questa varietà di testi e le epoche che ci interessano, ci rivolgeremo, in primo luogo, agli edifici che ci rimangono di questi periodi. Procedendo verso una semiotica dello spazio e non verso una semiotica testuale, partiremo dall’architettura, e faremo appello ai testi per interpretarla. 3 Gli scavi hanno rivelato un habitat preistorico circolare e semi-interrato ma ben lontano dal XVI secolo che ci serve come punto di partenza. 4 Con semiosi intendiamo designare la relazione tra il significante e il significato. Così intesa, equivale alla semiosi di Hjelmslev nel suo aspetto statico. 5 Questo termine è conforme all’uso filosofico che viene fatto in francese, secondo il Dizionario critico di filosofia di Lalande (1972). 6 Cfr. la classificazione in Palladio (1570, p. 54). 7 Nell’accezione generale data da Hjelmslev a questo termine. 8 Conosciuta con la denominazione di Feng Shui (la terra e il vento) in Cina e Corea. 9 Vogliamo parlare in questo caso del progetto del piano nobile [in italiano nel testo, N.d.T.].

Capitolo secondo L’architettura del tè1

2.1. Cornice concettuale La storia delle scienze ci ha mostrato a più riprese come le “nuove discipline” si costituiscano in seguito a una mutazione del modo di vedere: le matematiche, la fisica, la chimica ecc. si sono staccate dalla filosofia e si sono differenziate le une dalle altre in correlazione con un cambiamento delle rispettive problematiche. Se è vero che il mutamento degli interessi dei ricercatori ha condotto al mutamento delle scienze, è anche vero che l’evoluzione delle discipline ha avuto in seguito profonde ripercussioni sull’ambiente degli uomini di scienza e sulla riarticolazione delle loro prospettive. Un processo simile è in corso nella micro-società dei ricercatori in architettura, capace di coinvolgere tanto la disciplina quanto l’ambiente sociale che vi fa riferimento. L’interrogazione sulla relazione “uomo-architettura” ha provocato un gran numero di tentativi di esplorazione: sono state sollecitate la storia, l’economia, la sociologia, la psicologia, l’antropologia, la geografia, l’ecologia, la biologia, la teoria dei sistemi… Oscillando tra le discipline ancillari così chiamate alla riscossa, la semiotica architettonica comincia a tenere un discorso autonomo, organizzato, in grado di emanciparsi progressivamente dal modello linguistico iniziale. Se il trasferimento puro e semplice di concetti elaborati altrove in funzione di un oggetto differente si è rivelato poco interessante e soprattutto poco produttivo in architettura, l’interrogazione fondamentale sulla significa-

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zione è sopravvissuta a questo scacco relativo. A partire dal momento in cui il desiderio di comprendere era stato chiaramente formulato, non poteva più scomparire facilmente. Al contrario, ha finito per riarticolare il campo che ne era l’oggetto. Nella misura in cui si constatava che l’architettura non è un “oggetto” interpretabile isolatamente e in sé, bisognava rinunciare a farne un oggetto di sapere, e definire un altro oggetto per soddisfare il programma fondamentale di comprensione. Questo nuovo oggetto, costruito a partire dalla logica interna del senso, accosta ciò che è comunemente chiamata architettura (cioè il costruito) alle persone umane, agli oggetti e allo spazio come estensione organizzata staticamente e dinamicamente degli elementi precedenti2. È ciò che, nella terminologia di Hjelmslev e di Greimas, viene designato come “semiotica sincretica”. Nel quadro di un simile oggetto complesso, l’architettura in senso stretto appare come un insieme di elementi dotati di uno statuto strutturale (sintattico) particolare: essa gioca un ruolo enunciazionale eminente, regolando le relazioni tra le persone che vi si trovano in interazione. L’analisi che proponiamo illustrerà quest’approccio e questo punto di vista. Un’attenzione particolare verrà accordata alla descrizione delle configurazioni spaziali che regolano le interazioni tra i soggetti: queste ultime non dipendono tanto da ciò che è detto quanto da ciò che è fatto e dalla posizione in cui accade. Il metodo adottato è quello sviluppato da Greimas e dalla sua scuola. In riferimento a questo insieme teorico, affermeremo che la nostra analisi parte dalla manifestazione sincretica e mira a ricostruire il livello fondamentale soggiacente, passando per una lettura semio-narrativa centrata sulla dinamica del senso e delle sue trasformazioni. Data la complessità del nostro oggetto, l’analisi non potrà essere esaustiva. I principali risultati stabiliti sono situati al livello fondamentale. Rimarrà da sviluppare l’analisi agli altri livelli del percorso generativo. Malgrado questo aspetto parziale, o forse proprio grazie a esso, abbiamo sviluppato concetti metodologici generalizzabili che possono essere applicati ad

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altri oggetti. Il lettore interessato alla semiotica dell’architettura potrà esercitare su questo la propria attenzione, di là dall’esotismo dell’argomento che affrontiamo qui. 2.2. Il Giappone, il tè, l’architettura La scelta del Giappone segnala una strategia di messa a distanza: quando l’oggetto è strano, estraneo, appare con un rilievo maggiore. Ne tireremo profitto per la chiarezza della nostra dimostrazione. Da una decina di secoli, l’abitudine di consumare il tè è passata dalla Cina al Giappone, dove ha conosciuto diversi esiti. Dalla fine del XVI secolo, questa pratica ha visto nascere un rituale codificato, per il quale fu concepita un’architettura particolare: piccoli padiglioni edificati con grandi spese in giardini molto curati. In questi luoghi, le cerimonie si svolgono sempre secondo lo stesso schema normalizzato, e vi si manipola un certo numero di oggetti più o meno preziosi. Avendo regolato l’azione attraverso secoli di pratica, essa può essere osservata un gran numero di volte, elemento che facilita l’analisi e garantisce la validità dei risultati (la riproducibilità del fenomeno è una delle condizioni di base dell’approccio scientifico). Simultaneamente, essa si offre alla nostra attenzione come un fenomeno “opaco”: lo scarto culturale rende il rituale di primo acchito incomprensibile. Questa difficoltà può essere trasformata in un vantaggio: nella misura in cui ciò che accade è parzialmente incomprensibile, l’analisi della sua “espressione”3 può servire da base per una decifrazione, per un’interpretazione del “fare” non fondato sul “dire”. Successivamente, confronteremo questa interpretazione con l’interpretazione tradizionale, cioè a ciò che ne dicono i giapponesi stessi. La conformità delle due interpretazioni gioca, in questo caso, il ruolo di convalida positiva. Di fatto, abbiamo proceduto, nel corso della ricerca, a un triplo confronto, e questo a partire da una tripla analisi; abbiamo accostato simultaneamente tre “oggetti”:

i) il corso dell’azione, tale quale è osservabile nella realtà e quale descritta dai manuali di insegnamento; ii) le regole date dalla tradizione; iii) i principi citati dalla tradizione come fondamenti delle regole e della pratica. La concordanza delle tre analisi ci fornisce un buon test di coerenza interna che ritorna contemporaneamente sul corpus (la tradizione studiata è coerente) e sul metodo (si applica sia al dire sia al fare). Un altro test di coerenza, esterno, è fornito dalla conformità con i “commentari” giapponesi. A questo proposito conviene segnalare che la tradizione dell’insegnamento del chado è prescrittiva e non esplicativa: le sole spiegazioni disponibili vanno ricercate nelle raccolte di racconti relativi ai grandi maestri del passato, a ciò che hanno fatto e detto. Nel contesto di questo articolo, ci limiteremo ad analizzare una parte del fare e abborderemo l’analisi delle regole. Lasceremo al lettore la cura di procedere a un altro tipo di convalida: giudicherà i risultati che otterremo e l’interesse dei risultati potrà servire a valutare l’interesse del metodo. 2.3. Il corpus Considereremo una cerimonia del tè, per come può svolgersi di questi tempi. In giapponese, essa viene chiamata chaji. Sebbene un chaji sia un avvenimento in sé, completo e autonomo, per gli adepti si inscrive in un percorso estetico ed etico che implica l’essere del soggetto e la sua trasformazione. Il percorso stesso è chiamato chado. Non l’analizzeremo qui e non ne parleremo se non nella misura in cui permette di chiarire alcuni aspetti del chaji. Dato che esistono numerose tradizioni del tè, sceglieremo di analizzare quella che è insegnata dalla scuola Urasenke, che si rifà al grande riformatore Sen No Rikyu (1522-1591) passando per suo nipote Sen No Sotan (1578-1658).

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In ognuna delle tradizioni, il chaji può svolgersi secondo due norme: formale (shin) e informale (so). Noi sceglieremo di analizzare la norma informale: è più semplice dell’altra, visto, tra l’altro, che è insegnata per prima. Il fatto che costituisca l’oggetto di una documentazione più sviluppata ci permette di segnalare che il chado è un percorso iniziatico, e che l’adepto non apprende le norme shin se non quando ha interamente padroneggiato la norma meno formale. Nella regola so, i luoghi e gli utensili sono disposti in funzione della stagione. Convenzionalmente, l’anno del tè si divide in due stagioni: l’estate e l’inverno. Si considera che la versione invernale sia derivata da quella estiva. Per questa ragione studieremo quest’ultima. Infine, lo svolgimento del chaji estivo dipende dall’ora. Prenderemo la versione del mezzogiorno, visto che è la più corrente attualmente e perciò è anche quella che è accompagnata dalla documentazione più ricca. La serie delle restrizioni che abbiamo indicato non deve illudere: ci proponiamo di raggiungere, attraverso un caso particolare, il modello generale. Gli scarti progressivi precedenti non sono che procedure euristiche provvisorie: non ci si potrebbe dedicare direttamente a un insieme di una tale complessità. Un chaji informale dura circa quattro ore. Tutto il suo svolgimento è programmato con una minuzia straordinaria. Tutti i gesti compiuti, tutte le parole proferite, sono necessarie: questo può essere dimostrato strettamente riprendendo il tutto a partire dalla fine, termine che dà senso alle operazioni preparatorie anteriori. Con il modello estratto a partire dal tipo di chaji selezionato, ritorneremo sugli altri tipi per modificare il modello e renderlo più generale. Questo implica, fin dalla prima analisi, uno sguardo generalizzante che ritenga le costanti e scarti le variabili. In particolare, se un chaji dipende contemporaneamente dal tema attorno al quale è convocato, dalle persone invitate, e dal luogo dove si svolge, implicando così altrettante variabili, ci sforzeremo di eliminare ciò che dipende dalle variabili per con-

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centrarci sulle costanti. In termini semiotici, questo significa non solamente passare dal livello degli attori a quello degli attanti4 ma anche evacuare in parte l’enunciato enunciato (che dipende dal tema variabile) per concentrare l’attenzione sull’enunciazione enunciata (cfr. cap. 10), che è stabile: sarà questa l’oggetto d’analisi. Vedremo che le grandezze ritenute sono essenzialmente non verbali. Infine, quel poco di informazioni di cui disponiamo sulle norme gyo e shin ci conduce a postulare che ogni chaji realizzato secondo queste ultime, condivida con il chaji so le stesse strutture fondamentali e semio-narrative. I cambiamenti riguarderanno solo due elementi del livello della manifestazione: da una parte l’investimento attoriale (i valori profondi sono manifestati da oggetti, soggetti o azioni che accusano un certo sfasamento) e dall’altra la stilistica (che aggiunge all’esecuzione dei gesti un effetto di senso globale modalizzante). Si potrebbe dire che questa ipotesi sia inesatta, ma non possiamo né convalidarla né invalidarla allo stadio attuale del nostro lavoro, e la domanda resta aperta. 2.4. Un chaji estivo Il padrone di casa invita qualche amico (due o tre) a venire a prendere il tè. Il costume vuole che gli invitati confermino rapidamente la loro intenzione di venire con una visita ordinaria al domicilio del padrone di casa5. Nel giorno del chaji, ognuno (padrone di casa e invitati) avrà fatto il bagno prima della riunione; il padiglione del tè e il suo giardino saranno stati meticolosamente ripuliti6. Gli invitati arrivano circa un quarto d’ora prima dell’ora fissata per il tè. La porta del giardino è stata socchiusa e il selciato è stato bagnato: questo significa che sono invitati a entrare. Se queste due condizioni non sono realizzate, non entreranno ma faranno una piccola passeggiata per poi ritornare. Gli invitati si ritrovano in un piccolo padiglione

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d’accoglienza (machiai) dove si tolgono tutti gli elementi inutili della loro tenuta di città. Un aiutante offre loro un po’ d’acqua calda. Se l’invitato principale della riunione non è stato designato dal padrone di casa, gli invitati si mettono d’accordo sull’ordine di precedenza. Uscendo dal machiai, gli invitati vanno in giardino e si siedono su una panca coperta, posta all’aperto. Attendono in silenzio e contemplano il giardino. Il padrone di casa esce dal padiglione del tè (chashitsu), compie delle abluzioni purificatrici in un catino, viene ad aprire la porta che separa il giardino interno dal giardino esterno dove sono seduti gli invitati. Rimanendo nel giardino interno, s’inchina silenziosamente davanti ai suoi visitatori che si sono alzati: questo significa che essi sono invitati a passare nella sala del tè. Il padrone di casa si rivolge verso il chashitsu e vi penetra dalla porta degli invitati7. La richiude, pur lasciandola socchiusa. Dopo un breve momento, che rimane a discrezione degli invitati, questi ultimi passano uno dopo l’altro nel giardino interno, compiono le loro abluzioni al catino ed entrano nello chashitsu. I loro spostamenti sono sfasati rispetto al tempo necessario per compiere questi gesti. Ogni invitato che penetra nello chashitsu si prostra profondamente davanti alla calligrafia agganciata nella nicchia d’onore tokonoma. Dopo aver contemplato la calligrafia, si alza, attraversa in diagonale, poi si dirige verso il braciere dove tre carboni bruciano sotto il bollitore. Si inchina, contempla il tutto, si sposta per lasciare il posto al successivo. L’ultimo invitato che entra richiude la porta facendola sbattere leggermente, rumore destinato al padrone di casa che, nella sala annessa, detta sala dell’acqua8 o mizuya, sta preparando il pasto per i suoi invitati. Ordinariamente la porta d’entrata si trova nell’angolo destro del chashitsu. Andando verso il tokonoma, l’invitato si avvia con il piede destro e attraversa la frontiera tra i vari tatami con il piede destro. Nel tragitto diagonale, parte con il piede sinistro e attraversa le frontiere con lo stesso piede. “Risalendo” verso il fuoco, si avvia con il piede destro.

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Esistono chashitsu detti “inversi”, in cui gli elementi di architettura di destra e di sinistra sono permutati. In questi luoghi, il piede “montante” sarà il sinistro. Nei due casi, il piede di partenza corrisponde al lato della sala dove saranno gli invitati. Il padrone di casa apre la porta che separa il mizuya dal chashitsu. Saluta i suoi invitati, che gli rendono il saluto. L’invitato principale si indirizza allora al padrone di casa pregandolo di entrare9. Dopo i saluti, il padrone di casa serve un pasto leggero, in cui le vivande si ordinano nel modo seguente: una zuppa di soia, riso bianco, mukozuke (quello che si mangia bevendo sakè), alcune piccole cose in brodo, qualche cosa alla griglia (carne, pesce) e legumi, un brodo leggero, cibi di oceano e di montagna, legumi in salamoia, riso grigliato infuso nell’acqua calda. Il sakè accompagna tutto il pasto. Il padrone di casa serve e mangia da solo nella sala dell’acqua. Senza entrare nel dettaglio del pasto, bisogna notare due fatti. Da una parte i cibi di oceano e di montagna segnalano una riarticolazione degli avvenimenti: l’invitato principale ne offre al padrone di casa, che accetta; inoltre, i cibi sono previsti in quantità tale che, dopo la distribuzione a tutti i partecipanti, ne resta un po’ nel piatto: in quel momento, il padrone di casa farà un solo mucchio dei due d’origine; questa congiunzione del basso e dell’alto simbolizza il primo avvicinamento del padrone di casa e degli invitati. D’altra parte, l’invitato principale offre del sakè al padrone di casa, e gli “presta” la propria coppa a questo scopo; la coppa circola tra tutti gli invitati e il padrone di casa, mentre ciascuno offre a quest’ultimo del sakè, e viceversa: la condivisione del sakè nella stessa tazza segnala la seconda fase dell’avvicinamento padrone di casa-invitati. L’invitato principale segnala la fine del pasto richiedendo l’infuso di riso tostato. Gli invitati puliscono con cura tutti i loro piatti prima di riporli. Il rumore dei bastoncini che ricadono insieme nei piatti segnala al padrone di casa – in attesa nel mizuya – che può venire a raccogliere i piatti. L’atto di sparecchiare segnala la fine del pasto.

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La seconda sequenza all’interno del chashitsu, quella del tè denso, inizia con la risistemazione del carbone. I carboni che si sono consumati durante il pasto devono essere rinnovati10. Il padrone di casa brucia dell’incenso prima di rimettere il bollitore al suo posto. L’invitato principale chiede allora di poter guardare il barattolo dell’incenso: si tratta di un “oggetto estetico”. Dopo l’esame visivo, effettuato a turno dai visitatori, l’invitato principale porrà al padrone di casa domande relative a questo oggetto (stile, età, artigiano, storia…). Dopo aver servito un dolce non secco, il padrone di casa invita i suoi visitatori a osservare una pausa detta nakadachi. Gli invitati salutano a turno la calligrafia e il fuoco, ed escono nel giardino dove vanno a sedersi, sulla panca coperta. Durante la pausa, il padrone di casa stacca la calligrafia dal tokonoma e la rimpiazza con un arrangiamento floreale. Per la confezione del tè, porta nella stanza una giara d’acqua, e la piccola giara del tè e le posiziona entrambe vicino al braciere (la disposizione degli oggetti è geometricamente determinata). Terminata la preparazione, il padrone di casa suona il gong nella sala dell’acqua. Al suono del gong, gli invitati si alzano, si inginocchiano e fanno ritorno alla sala del tè, dopo delle abluzioni purificatrici nel catino. Dopo essere entrati, ogni invitato va a inchinarsi davanti all’arrangiamento floreale e al fuoco, mentre fuori il padrone di casa toglie l’attingitoio dal bacino (non servirà più) e stacca le tendine esterne che mantenevano fino ad allora la stanza in una certa penombra. Il padrone di casa rientra nella sala del tè dalla porta della sala dell’acqua. Conduce gli ultimi utensili necessari e chiude la porta. Purifica gli utensili e prepara del tè spesso in un totale silenzio. Ciascuno degli invitati beve “tre sorsi e mezzo” di questo tè, nella stessa scodella che viene fatta circolare. L’ultimo invitato beve tutto ciò che resta. La condivisione del tè spesso è il momento più solenne e più teso della cerimonia. È anche il solo in cui il padrone di casa e i suoi invitati sono riuniti a porte chiuse11.

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Dopo aver consumato il tè, gli invitati esaminano la scodella. Poi chiedono di vedere la giara del tè e il cucchiaino: sono oggetti preziosi che si osservano da un punto di vista estetico. Il padrone di casa toglie gli utensili del tè, spesso per sistemarli nel mizuya. Inizia la terza sequenza, quella del tè leggero, con il riaggiustamento del carbone. Questa sequenza è segnalata da una certa distensione. L’invitato principale chiede di guardare i carboni prima che il bollitore sia rimesso al suo posto. Gli invitati prendono posto, gli uni dopo gli altri, davanti al braciere per contemplare le ceneri e i carboni. Il padrone di casa porta dei dolci secchi, quindi gli utensili del tè leggero. Prepara una tazza di tè per ognuno degli invitati. Al loro turno, gli invitati mangiano i dolci, bevono il tè, ammirano la tazza. Il tè leggero è servito a sazietà: tanto quanto ne richiedono gli invitati. L’invitato principale chiede di vedere la confezione del tè e il cucchiaio. Il padrone di casa li presenta e comincia a mettere in ordine. Dopo l’esame degli utensili, il padrone di casa li riprende e chiude la porta uscendo. Riapre senza rientrare nella sala, e ringrazia i suoi ospiti di essere venuti. Gli invitati rendono il saluto, quindi l’ospite principale annuncia che non è necessario riaccompagnarli fuori. Il padrone di casa si ritira e chiude la porta. Gli invitati s’inchinano davanti ai fiori e al braciere prima di andarsene attraverso la piccola porta degli ospiti che fanno sbattere chiudendo. Il padrone di casa ripassa attraverso la propria porta, arriva fino alla porta degli invitati e la apre. Udendolo, gli invitati si voltano e si inchinano. Il padrone di casa rende loro il saluto, e rimarrà là finché gli invitati saranno visibili. 2.5. Il superamento condizionale e la suddivisione dello spazio Consideriamo l’ospite che arriva nel luogo d’invito. Si trova sulla strada, e, essendo la regola in Giappone, non

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vede nulla del padiglione dove si svolgerà la cerimonia. Ciò che è proposto al suo sguardo è un muro unito o una semplice palizzata, sopra la quale spuntano gli alberi del giardino. Interrompendo il muro, una porta segnala il luogo d’ingresso. Il dispositivo banale del muro e della porta è carico di un certo numero di significazioni. - Sulla dimensione cognitiva, il muro impedisce la vista. La congiunzione del soggetto (invitato) e dell’oggetto (muro) trasferisce al soggetto il carico modale negativo investito nel muro dal padrone di casa, che gioca in questo caso il ruolo di Destinante (Greimas, Courtés 1979, pp. 101-102): è la modalità del “non-potere”: non poter fare, o non poter vedere. Simultaneamente, gli alberi che oltrepassano la sommità del muro indicano che c’è un giardino al di là, mantenuto segreto in relazione alla strada grazie al muro. - Sulla dimensione somatica, il muro serve a impedire il passaggio, sia per la difficoltà pragmatica che impone all’eventuale candidato al passaggio (caso in cui il muro comunica la modalità del “non poter fare”), sia per l’ingiunzione negativa che enuncia: “invita” a non passare di là (trasmissione di un voler non fare) e a prendere la porta che interrompe il muro suddetto (far voler fare). In qualche modo, il muro guida il visitatore verso il punto di passaggio designato: la porta. Il dispositivo muro-porta, sul piano semiotico, appare dunque carico di tre investimenti modali: i) far volere negativo/positivo (virtualizzazione del soggetto); ii) far potere/non potere (attualizzazione pragmatica); iii) far sapere/non sapere (attualizzazione cognitiva). Tradizionalmente, le porte giapponesi non hanno serrature. Un lucchetto o una sbarra permettono di assicurare una chiusura solida, ma presuppongono entrambi che ci sia qualcuno all’interno per bloccare/sbloccare il sistema di chiusura. Di fatto, c’è sempre qualcuno nei luoghi d’abitazione tradizionali in Giappone12.

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Davanti alla porta chiusa di una casa, l’uso vuole che si chiamino coloro che vi abitano per annunciarsi. Senza dettagliare la procedura, è importante dire che non si entra liberamente in un giardino del tè. Se l’invitato trova la porta chiusa, questo significa che è troppo in anticipo e che il padrone di casa non è ancora pronto. All’invitato non rimane che fare un piccolo giro nel vicinato per ritornarvi poco dopo. L’etichetta gli impedisce di aspettare davanti alla porta: solo i domestici e i mendicanti lo fanno. La porta chiusa è quindi investita della modalità del dovere che sovradetermina una catena: non entrare, fare un giro, ritornare. Se, invece di essere chiusa, la porta è aperta, essa non impone un’interdizione al passaggio. L’invitato potrà quindi passare (modalità del potere). Tuttavia, fino a quando il suolo non sarà bagnato, il visitatore non deve entrare: l’assenza di acqua in terra primeggia rispetto alla porta semiaperta. Semioticamente parlando, l’acqua sul suolo appare investita di modalità virtualizzanti (assenza = far dover non fare; presenza = far voler fare) mentre la porta è investita solamente di una modalità attualizzante (chiusa = far non potere; socchiusa = far potere). Per designare il visitatore, abbiamo utilizzato qualche volta il termine di invitato, poiché la persona in questione ha già ricevuto un invito scritto; abbiamo già detto che l’etichetta gli impone di rendere una visita di ringraziamento al domicilio dell’invitante. Tuttavia, un tale invito globale dovrà essere riattualizzato un gran numero di volte nel corso del chaji. Più specificamente, ci interesseremo al passaggio di quattro porte: sviluppano localmente le tappe dell’acquisizione della competenza e del compimento di quella performanza che è rappresentata dal superamento di un limite. Ritorniamo alla porta del giardino. Il padrone di casa si esprime all’indirizzo dei suoi ospiti manipolando oggetti del mondo naturale: bagnando il suolo, li invita a entrare (far volere); lasciando socchiusa la porta, dà loro la possibilità di entrare (far potere). Tutto ciò viene fatto normal-

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mente prima del loro arrivo, e il caso dell’invitato in anticipo è stato prodotto qui per rivelare i meccanismi semiotici dell’interazione. Lo sfasamento temporale permette che gli invitati non vedano il padrone di casa realizzare questi gesti alla loro intenzione: ne leggono le tracce. Il padrone di casa si ritira in cucina per preparare il pasto, mentre gli invitati arrivano uno a uno. Ognuno entra e rimette la porta nello stato in cui l’aveva trovata. L’ultimo arrivato richiude la porta, che si ritrova a quel punto investita da modalità negative: dover non (passare) e non poter (passare). In questo modo gli invitati significano a terzi (fuori dal giardino) che non desiderano essere disturbati. Dopo l’episodio del machiai, gli ospiti vanno a mettersi sulla panca coperta in giardino, e aspettano. Quest’attesa è differente da quella che sarebbe stata un’attesa in strada davanti alla porta: qui sono all’interno e si mette a loro disposizione tabacco per fumare, inchiostro e carta nell’eventualità che vogliano scrivere delle poesie. Terminati i suoi preparativi, il padrone di casa esce dalla cucina, viene in giardino dove asperge d’acqua le pietre davanti al catino delle abluzioni (tsukubai) e si risciacqua ritualmente le mani e la bocca. Si dirige in seguito verso la porta nel mezzo (nakakuguri) che divide il giardino in due parti. Apre questa porta e, senza attraversarla, si inchina silenziosamente all’indirizzo dei suoi invitati. Questi ultimi si alzano e gli rendono il saluto. Il padrone di casa si gira ed entra nel padiglione del tè dalla porta degli invitati (nijiriguchi). Ricordiamo che era uscito dalla porta della cucina. Tira la porta nijiriguchi dietro di sé, lasciandola socchiusa. A partire da questo momento, gli invitati possono passare la porta che dà sull’interno. Hanno il piacere di farlo nel momento che pare loro opportuno. Dopo il passaggio, l’ultimo invitato chiude questa porta. Il secondo superamento è comparabile al primo: i) il padrone di casa e gli invitati si trovano da una parte e dall’altra della porta; ii) la porta è aperta, per la modalità del potere;

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iii) il saluto gioca qui il ruolo di invito a entrare: gli invitati vedono il padrone di casa, e la modalità della virtualizzazione trasmessa direttamente, visualmente e non dall’acqua presente sulla soglia13; iv) gli invitati varcano la porta nijiriguchi in assenza del padrone di casa. Il terzo passaggio, quello della porta nijiriguchi, assomiglia punto per punto ai due precedenti: i) il padrone di casa e gli invitati si trovano da una parte e dall’altra della porta; ii) la porta è aperta, per la modalità del potere; iii) la soglia è bagnata, trasmettendo la modalità virtualizzante attraverso una traccia, essendo invisibile il padrone di casa; iv) gli invitati varcano la porta in sua assenza. Disponiamo quindi di un paradigma dei tre passaggi dei limiti. Sono cambiati i luoghi situati da una parte e dall’altra del limite, sono mutati i loro investimenti descrittivi (interno/esterno) o modali (privato/pubblico), è cambiato il dispositivo che traccia il limite (palizzata, siepe continua o parziale, muro), è cambiata la configurazione della porta… solo il modo di operare rimane stabile. Le tappe della virtualizzazione e dell’attualizzazione degli invitati sono state già sufficientemente descritte. Esaminiamo la fase della realizzazione e prendiamo come caso particolare il passaggio della porta in mezzo al giardino. Questa porta è a giorno, quale che sia la sua altezza: gli invitati che si trovano nel “giardino esterno” (sotoroji) vedono, attraverso la porta, il “giardino interno” (nakaroji). La porta segnala, sul cammino di passaggio, il limite tra i due giardini. Conviene specificare che in questi giardini si cammina unicamente lungo i percorsi prescritti (dover fare) e non si passeggia al di fuori del sentiero (dover non fare). O meglio, il sentiero è fatto da pietre non unite disposte a distanze determinate con cura. Il visitatore deve posare i piedi su queste pietre e su di esse solamente. In questo modo il ritmo del passo è determinato allo stesso modo dei punti di vista che gli sono proposti. Se il sentiero possiede numerose

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L’ARCHITETTURA DEL TÈ

ramificazioni, le sezioni interdette (dover non passare) sono indicate sia da un ciottolo munito di un nodo di corda grossa, sia per un treppiede di bambù spaccato. In queste condizioni, per dividere un giardino in due, non è necessario costruire un muro continuo attraverso il giardino, pur restando una possibilità. Con un minimo sforzo, basta segnalare i limiti sul sentiero. Il ciottolo annodato e il treppiede segnalano un’interdizione totale (anche se solo temporanea). Una porta segnala un interdetto convenzionale: è qui che il padrone di casa verrà a togliere l’interdetto e a rimpiazzare il dover non fare con un voler fare e un poter fare. Sia il seguente schema semplificato:

SOTORIJI

NAKAROJI

NAKAKUGURI

Invitati (I)

Padrone di casa (pdc)

Nella misura in cui ci interessiamo al passaggio tra due porzioni di spazio (topoi), possiamo porre che ci sono quattro attanti le cui giunzioni definiscono due stati: stato Invitati congiunti con sotoroji

stato 2 vs.

padrone di casa congiunto con nakaroji

Il padrone di casa non esce dal nakaroji durante tutto il chaji. È il suo territorio, in cui il chashitsu è impiantato. Se consideriamo che la giunzione (soggetto, topos) definisce lo stato del soggetto, solo il soggetto “invitati” è modificato dal superamento della soglia:

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I congiunto sotoroji

I disgiunto sotoroji I congiunto nakaroji

Prima del passaggio, il soggetto ha ricevuto, sulla porta, le modalità virtualizzanti e attualizzanti che lo rendono competente. Da quel momento, l’assenza del padrone di casa, il quale gioca il ruolo di Destinante fonte della competenza, produce un effetto di senso particolare al momento del passaggio: così, il soggetto “invitati” diventa il soggetto realizzante il fare “superamento (o passaggio) della porta”. D’altro canto, deve aprirla completamente dopo che il padrone di casa l’ha socchiusa. Se il padrone di casa fosse rimasto là (come è di solito il caso al momento del passaggio di porte all’interno delle case giapponesi), sarebbe apparso come il soggetto del fare, confinante I nel ruolo di soggetto di stato. Di conseguenza, l’assenza del padrone permette a I di accumulare i ruoli di soggetto del fare e di soggetto di stato, ovvero di essere soggetto semiotico nel senso pieno del termine, autore della performanza (Greimas, Courtés 1979, pp. 248-250). Troviamo qui una seconda ragione strutturale per differenziare la cerimonia del tè dalla visita ordinaria a domicilio (cfr. infra, § 2.4.). Paradossalmente, l’assenza del padrone di casa al momento del varco manifesta maggiore attenzione nei riguardi dell’invitato, il cui statuto è elevato per avvicinarsi a quello del padrone di casa. Vedremo che riceverà uno statuto superiore o uguale all’interno del chashitsu. Abbiamo appena spiegato l’effetto di senso risultante dall’assenza del padrone di casa al momento del passaggio delle porte. Rimane da rendere conto del fatto che quest’ultimo resta sempre nello spazio più interno, senza oltrepassare il limite verso il giardino esterno. Questo è connesso alla nozione di privato e a quella di purezza, che espliciteremo nel paragrafo seguente. Ammettiamo per ora che la catena degli spazi separati da limiti si ordini dal meno puro al più puro, andando dall’esterno verso l’interno. Il padrone di casa, che viene a purificarsi ritualmente nel tsukubai,

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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non esce più dal nakaroji. In modo simmetrico, resi competenti per il varco della soglia, gli invitati vanno a loro volta a purificarsi allo tsukubai (sono stati virtualizzati e attualizzati per questa purificazione: aspersione delle pietre davanti al tsukubai e rinnovo della sua riserva d’acqua). Il varco, quale l’abbiamo descritto, non ha luogo secondo queste regole se non quando gli spazi separati sono investiti di una differenza modale e descrittiva (in particolare, dotati dei caratteri di puro e di privato). Ci sono altre porte che non sono investite allo stesso modo (per es. l’entrata del machiai o padiglione d’accoglienza). Questo significa che gli spazi interessati non hanno un investimento differenziato rispetto a quello che li circonda. Di conseguenza si possono reperire gli investimenti differenziati dai rituali di passaggio condizionato: c’è un rivelatore sintattico che, con gli altri atti realizzati, serve a spiegare la carica semantica dei luoghi e degli oggetti. Rimane un quarto superamento condizionale: dopo la pausa (nakadachi) in giardino, gli invitati rientrano nel chashitsu dalla porta nijiriguchi. Il rituale è simile in ogni punto, salvo uno, che si lascia dedurre a partire dagli altri tre: i) il padrone di casa e gli invitati sono dalle due parti della porta: ciò impone al padrone di casa di non uscire dal chashitsu fino al giardino, dato che finirebbe, con gli invitati, dallo stesso lato della porta; ii) la porta è socchiusa (attualizzazione); iii) essendo il padrone di casa invisibile e non potendo passare dallo stesso lato per inumidire il suolo, la virtualizzazione non può compiersi visivamente, né direttamente (saluti), né indirettamente (aspersione); viene allora investito il canale sonoro: una serie di colpi di gong trasmettono la modalità virtualizzante (volere o dovere); visto che le virtualizzazioni precedenti sono realizzate con l’acqua, il gong è posto sotto il segno dell’acqua: è appeso nella mizuya, o sala dell’acqua14; iv) gli invitati entrano in assenza del padrone di casa. A posteriori, possiamo riesaminare adesso la sequenza del varco della porta nakakuguri e rendere conto del silenzio del

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padrone di casa quando viene a pregare i suoi visitatori di varcarla. Tutto ciò passa attraverso l’opposizione con il colpo di gong che gioca lo stesso ruolo della virtualizzazione: virtualizzazione

{ Inchino reverenziale in piedi Invitati e padrone di casa Uso del canale visivo, Invitati e padrone di casa Non utilizzo del canale visivo,

colpo di gong. si vedono reciprocamente. non utilizzo del canale sonoro. non si vedono reciprocamente. uso del canale sonoro.

L’opposizione fa apparire una regola implicita: al momento della virtualizzazione, il messaggio non è ridondante. Se viene utilizzato un canale sensoriale, l’altro non può esserlo contemporaneamente. Questa regola è valida anche per i due altri passaggi esaminati, dove l’acqua sparsa sul suolo non è raddoppiata da un’altra espressione significante. Un esame più estensivo permette di verificare la validità di questa regola a proposito di tutti gli scambi del tè: i protagonisti dicono solo ciò che deve essere detto, né più né meno. La comunicazione è ridotta al necessario e sufficiente, e nulla è semplice ridondanza. Da quel momento, ogni duplicazione porta con sé un effetto di senso che bisognerà interrogare. Questa regola metodologica estratta dall’analisi degli atti realizzati concorda con l’analisi del sistema delle regole del chado trasmesse dalla tradizione, dove si vede apparire un’estetica del necessario o dell’indispensabile. La sequenza di superamento dei limiti ci informa sulla configurazione dello spazio globale e sulla sua partizione in luoghi distinti dalle procedure sintattiche15. Non ci informa, invece, sulla carica semantica di questi luoghi. Un limite superabile a volontà e in tutti i punti non è, propriamente parlando, un limite: nulla, in termini di azione e di fare, permette di distinguerlo da un’assenza di limi-

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L’ARCHITETTURA DEL TÈ

te. Esso non sarà riconosciuto come tale nell’analisi di cui ci stiamo occupando (rimane potenzialmente attualizzabile in altre sequenze). Abbiamo già segnalato la porta del machiai come rilevante di questa categoria. Un limite non superabile somaticamente e cognitivamente equivale alla non esistenza dei luoghi che sono oltre: questi luoghi sono inconoscibili. Non possono essere investiti semanticamente, e non saranno presi in considerazione. Ci interessano solamente, quindi, i limiti di cui il superamento è condizionale: in certi punti, da certe persone, secondo certe procedure. Con questo criterio, a partire da una descrizione tipo dei luoghi del tè e dei quattro superamenti studiati, si ottiene lo schema seguente:

III CHASHITSU

iii NIJIRIGUCHI II NAKAROJI ii NAKAKUGURI I SOTOROJI i ROJIGUCHI

Partizione del chaniwa, spazio accessibile ai visitatori, accesso condizionale: i) porta del giardino; ii) porta dell’ambiente interno; iii) porta attraverso la quale “ci si intrufola”; I) giardino esterno; II) giardino interno; III) questo termine designa indifferentemente il padiglione del tè nella sua totalità e la cerimonia all’interno del padiglione.

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Bisogna aggiungere la sala dell’acqua o mizuya, accessibile al solo padrone di casa, con due porte interdette agli invitati:

IV MIZUYA iv

III

v SADOGUCHI iii

ii

i iv) porta posteriore del mizuya; v) sadoguchi: porta del padrone di casa; IV) mizuya: sala dell’acqua.

La porta rojiguchi (i) regola il passaggio tra il mondo esterno e l’insieme dello spazio del tè o chaniwa. A lato di questa porta, che non si apre se non agli invitati, la separazione /mondo/ vs /chaniwa/ è doppia. Pragmatica: un muro impedisce il passaggio (costruito in terra o fatto di bambù, questo muro è oggetto di attenzioni particolari in seguito alle raccomandazioni di Rikyu). Cognitiva: il muro ostruisce la vista, gli alberi contribuiscono a nascondere le case vicine, e contemporaneamente smorzano i rumori esterni. La cinta è quindi investita di una doppia modalità negativa: non potere (passare) e non sapere (ciò che avviene). Questa attualizzazione negativa presuppone una virtualizzazione negativa: il padrone di casa non vuole connettere al mondo questo spazio. Si tratta quindi di uno spazio debrayato, costituito come un qui che rinvia all’altrove del mondo in un non-luogo di cui non vuole sapere nulla.

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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2.6. Carico semantico degli spazi La proprietà e le cure meticolose di cui il chaniwa è fatto oggetto lo qualificano come un sito puro, opposto all’impurità e all’abbandono esteriori. Se il giardino è globalmente puro per opposizione al resto del mondo, è tuttavia diviso in due parti distinte e separate da una frontiera (materiale o virtuale), essendo il passaggio tra le due parti regolato dalla porta di mezzo (ii). Si pone allora la questione di cosa costituisca la differenza tra i due spazi. La risposta è che c’è una modulazione della purezza: il giardino interno è più puro di quello esterno, come il chashitsu sarà più puro di quello interno. Per stabilire questo risultato, esaminiamo ancora una volta cosa succede in questi luoghi. In un giardino completo, ovvero in un giardino che contiene tutti gli elementi prescritti dalla tradizione, si trova, sia in quello interno che in quello esterno, un piccolo orinatoio chiamato setchin, e che di fatto è una latrina. Questi luoghi sono mantenuti in uno stato di pulizia meticolosa dallo stesso padrone di casa, conformemente alla tradizione dei monasteri zen. Questa proprietà testimonia della purezza che gli è associata tradizionalmente. Tuttavia, si pone la domanda di sapere perché c’è una latrina in un luogo così raffinato, destinato a un’attività così formale. Meglio: perché devono esserci due latrine? La risposta risiede nei meccanismi fondamentali della comunicazione non verbale. In effetti, nella misura in cui il mondo naturale offre alla nostra percezione delle cose, non offrirà alcuna possibilità di inscrivere delle nozioni negative. Come significare, con l’aiuto di oggetti, la negazione seguente: “non c’è dell’impuro qui”? Il solo mezzo è quello di poter mostrare delle impurità, ma non qui. Per esempio: esibirle, poi eliminarle; o mostrarle da lontano: altrove. Nel mondo naturale l’unico modo di costruire la negazione passa per una prima asserzione (cioè per la presenza di ciò che sarà negato) che, da quel momento, potrà essere seguita da atti negatori (come la spa-

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rizione dell’oggetto, o l’eliminazione di una qualità che gli è essenziale, come la vita presso gli esseri viventi: la morte è una forma di negazione; la perdita della faccia ne è una versione attenuata). Nell’universo chiuso del giardino del tè, isolato dal resto del mondo per la sua chiusura, la purezza è affermata con l’aiuto di mezzi non verbali, in due fasi successive. Fase 1: il nakaroji è più puro del sotoroji La latrina è un luogo dove ci si sbarazza delle materie corporali identificate come impure in un gran numero di culture, specialmente nella cultura buddista. La presenza di latrine apporta quindi un elemento di impurità a tutto il giardino. A ogni modo la regola della cerimonia del tè, conosciuta da ogni adepto, vuole che solo la latrina del sotoroji (giardino esterno) sia utilizzabile. L’altra, quella del nakaroji (giardino interno) non è mai utilizzata. L’uso della prima permette di imporre il non uso della seconda: l’asserzione dell’impurità del giardino esterno autorizza la negazione di questa stessa impurità nel giardino interno. La doppia negazione (non impurità) equivale a una affermazione rinforzata. Da questa doppia operazione, il nakaroji ne esce con una specie di purezza marcata. Non è tutto, dato che la possibilità d’utilizzo del solo setchin del sotoroji non basta a negare l’uso del setchin del nakaroji: la conoscenza della regola si basa in effetti sulla virtualizzazione secondo il dovere (dover non utilizzare il nakaroji setchin). In una logica del mondo naturale, la virtualizzazione non basta a veicolare la significazione: bisognerà che gli atti assertivi e di negazione siano attualizzati e realizzati. L’attualizzazione è assicurata dalla presenza di tutti gli elementi necessari ai due setchin: orinatoio murato su tre lati, semi-porta aperta sul davanti, due pietre per sopraelevare i piedi, letto di sabbia fina tra le due pietre, riserva di sabbia per ricoprire gli scarichi, bacino per le abluzioni davanti alla porta, asciugamano per asciugarsi… Infine, la realizzazione della negazione si costruisce così: se l’uso del primo setchin è libero, quello del secon-

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L’ARCHITETTURA DEL TÈ

do è interdetto. Traduciamo con le seguenti modalità virtualizzanti: /non dover non fare/ sotosetchin

vs.

/dover non fare/ nakasetchin

L’ultima modalità deve realizzarsi con un non utilizzo. Ora, come significare un non-uso del secondo se la libertà relativa al primo (non si può certo obbligare qualcuno ad arrangiarsi) ha fatto sì che gli invitati non se ne siano serviti? La soluzione è la seguente: è fatto obbligo agli invitati, al momento del loro passaggio dal sotoroji al nakaroji di andare a ispezionare il setchin di quest’ultimo. In questo modo vanno a vedere la seconda latrina e ripartono senza servirsene. Negando l’uso, negano l’impurità affissa a un tale luogo e affermano allo stesso tempo la sua purezza. Fase 2: il chashitsu è più puro del nakaroji Il giardino interno, di cui la purezza è stata costruita al prezzo di un’elaborata procedura, deve ora essere qualificato come meno puro dello spazio seguente, quello dove si svolge la cerimonia del tè. La procedura è la stessa e si costruisce sulla configurazione del rifiuto eliminato. Vicino al chashitsu, si sistema una piccola fossa murata al suolo: il chiriana. Si tratta di un cestino della spazzatura del giardino, in cui si è supposti raggruppare le foglie morte e gli altri rifiuti che possono cadere dalle piante dopo la pulizia assicurata dal padrone di casa. Per significare chiaramente che è un cestino, il padrone di casa si prende la cura di mettervi foglie morte. Vi pone anche un paio di bastoncini di bambù di cui gli ospiti potranno servirsi per ramazzare qualche rifiuto e gettarlo nel chiriana. I commenti tradizionali dicono che così facendo gli invitati si sbarazzano delle loro ultime preoccupazioni del mondo prima di entrare nel chashitsu. In opposizione a questo, e per costruire la negazione, non c’è nessun cestino per i rifiuti nel chashitsu. Meglio: non c’è alcuno scarto. I piatti del cibo sono puliti dagli

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stessi convitati: le tazze di riso sono risciacquate dall’acqua calda servita e asciugate con un foglio di carta16 conservato nella manica sinistra del kimono. Nulla è gettato nel chashitsu e questo luogo guadagna uno statuto di purezza supplementare. In tre tappe successive (mondo vs. giardino; giardino esterno vs. giardino interno; giardino interno vs. padiglione del tè), vediamo costruirsi un percorso di purezza dei luoghi. La procedura ricorre alle operazioni seguenti: (i) determinazione delle unità di spazio (topoi) mediante l’installazione dei limiti realizzati (barriere, muri) dal superamento condizionale; (ii) investimento delle unità di spazio tramite valori descrittivi costruiti con l’aiuto di oggetti (setchin, chiriana) sovradeterminati dalle azioni di asserzione e di negazione. Nei due casi sia le unità di spazio sia i valori sono determinati qui e ora da atti scomponibili in operazioni (asserzioni e negazioni). Durante il chaji, il padrone di casa e i suoi ospiti sono portati a compiere un gran numero di azioni simili che assicurano la riattivazione delle cose e del loro carico semantico a profitto del rituale celebrato. La ricorrenza di questo approccio produce il seguente effetto di senso: gli attori che partecipano al rituale sono situati in un universo immanente, dove i valori non esistono a priori. Affinché i valori esistano, è indispensabile produrli, costruirli, rifarli ogni volta. Altro fatto rivelatore: i valori sono costruiti da atti e non da parole. In questo contesto, l’azione è creatrice di senso. Contraffacendo il titolo di un’opera ben conosciuta in semiotica, diremo che in questo caso fare è dire. Potendo essere elevato al rango di aforisma, questo enunciato è verificabile in tutte le semiotiche sincretiche. Parallelamente alla costruzione della scala della purezza appena osservata, le operazioni realizzate mettono in scena una doppia scala di privatizzazione, secondo il sapere e secondo il potere, presupponendo una modalità del volere. Non entreremo nel dettaglio di questa costruzione,

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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così come non toccheremo la questione dell’aspettualizzazione di queste due scale: su di un sostrato di variazione spaziale continua (definibile come un gradiente, e ricostruibile a partire da diversi casi), il taglio dello spazio in unità discrete produce dei “salti” discreti legati alle unità. Lo studio di questi fenomeni ci porterebbe lontano dal livello delle “strutture profonde” dove abbiamo scelto di sviluppare questa analisi. 2.7. L’investimento polare degli spazi All’interno del chashitsu, gli invitati si muovono pochissimo: la maggior parte della cerimonia è statica, i partecipanti restano seduti, l’azione coinvolge soltanto busto, braccia e testa. Ne risultano due effetti di senso: (a) alcuni topoi statici – o unità di spazio capaci di giocare ruoli attanziali17 – sono determinati dalla sfera d’azione dei protagonisti della cerimonia; (b) i movimenti grazie ai quali l’insieme del corpo si muove prendono un rilievo particolare. Quando gli invitati entrano nel chashitsu, vanno in ordine a inchinarsi profondamente davanti alla calligrafia (kakemono) sospesa nel tokonoma, poi vanno a inchinarsi allo stesso modo davanti al braciere, in cui i carboni si consumano sotto al bollitore. I saluti vengono rinnovati al momento dell’uscita per il nakadachi. Quando questo momento è terminato, i visitatori rientranti salutano l’insieme floreale del tokonoma, poi il fuoco e i suoi accessori, e ripetono questi gesti all’uscita finale. I saluti inquadrano ciascuna delle due parti della cerimonia (1. Shoza; 2. Goza); essi giocano quindi un ruolo sintattico particolarmente importante, corrispondente ai gesti sociali di “presentare il proprio rispetto” all’entrata, e di “prendere congedo” all’uscita. Il fatto che le entità salutate siano oggetti non cambia nulla: i gesti di saluto sono quelli che si usano riguardo a persone viventi. Ciò che i fatti menzionati dimostrano è che la cerimonia del

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tè pone gli uomini e le cose su un piano di uguaglianza, in una classe unica dove tutte le entità giocano ruoli comparabili. In qualche modo, c’è una antropomorfizzazione delle cose. I “rispetti” espressi all’entrata e all’uscita testimoniano del fatto che le entità salutate sono gerarchicamente superiori agli invitati. Questa interpretazione è confermata dalla disposizione spaziale degli invitati: l’invitato principale, che è il più onorevole, è posto vicino alla calligrafia dello shoza (o vicino all’arrangiamento floreale del goza); gli altri invitati gli succedono per ordine d’importanza decrescente lungo il muro18. Su questa scala decrescente, la calligrafia occupa il polo superiore: terzo invitato

secondo invitato

primo invitato

calligrafia o arrangiamento floreale

Per ogni persona P di questa serie, il vicino di destra occupa una posizione superiore a quella di P, il vicino di sinistra una posizione inferiore a quella di P. La calligrafia non ha alcun superiore su questa linea19. Da questa organizzazione risulta che gli invitati si siedono in un topos collocato sotto il segno della calligrafia nello shoza e sotto quello dell’arrangiamento floreale nel goza. La nicchia dove sono attaccati questi oggetti, chiamata tokonoma, deriva dall’altare buddista, come attesta la storia dell’architettura. Pur non essendo un altare, questo ricettacolo conserva un carattere prossimo al sacro: tutto ciò che vi è posato possiede una “potenza” capace di influenzare il corso degli eventi. Se non possiede direttamente questo carattere, essa rinvia a un’entità che lo possiede. In questo, esso mantiene qualità che lo avvicinano a un Destinante trascendente in senso semiotico. Nella misura in cui ciascun invitato riceve un posto prescritto – in cui realizzerà tutta la sua attività –, e i posti

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L’ARCHITETTURA DEL TÈ

formano una catena, la cui origine risiede nel tokonoma, si può parlare di un topos degli invitati dipendente dal polo tokonoma.

POLO 1 11

12

13 15

14

11… 15 = ordine lineare degli invitati piazzati in relazione all’oggetto (polo 1). – – – = limite del topos degli invitati

POLO 2

padrone di casa

pdc = posto del padrone di casa in relazione al polo 2: il fuoco. – – – = limite del topos del padrone di casa.

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Quanto all’altro elemento salutato, il fuoco, esso costituisce alla fine dello shoza e durante la totalità del goza il polo fisso dell’attività del padrone di casa e del suo topos. In questo caso è possibile riconoscere una coppia Destinante – Soggetto parallela a quella tokonoma – Invitati. Il chashitsu contiene almeno due topoi, legati ciascuno a un polo particolare, e attribuiti a ognuno dei protagonisti della cerimonia: il padrone di casa da una parte, l’insieme degli invitati dall’altra. L’esame del piano del chashitsu a partire da questa prima determinazione permette di riconoscere una configurazione topica (b) che abbiamo già incontrato in semiotica dello spazio (cfr. Hammad 1979 e infra, cap. 6):

p1

p2

P

ø

a

ø

T1

T2

T2

T1

b

c

L’insieme dei due topoi forma un anello al centro del quale è mantenuto uno spazio vuoto. Si tratta della configurazione anulare standard (a) riconosciuta nello spazio del seminario, nella sala di ricevimento zashiki della casa giapponese (cfr. Hammad 1980a) e in un gran numero di altri casi. In modo costante, e in tutte le culture dove la si riscontra, questa configurazione corrisponde a interazioni dette contrattuali20.

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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L’anello è diviso in due topoi dotati di due poli in più rispetto agli attanti che vi si congiungono. La configurazione risultante (b) è a metà strada tra la configurazione contrattuale (a) e la configurazione polemica (c) quale viene riconosciuta in altre circostanze. Più precisamente essa inscrive la configurazione polemica all’interno della configurazione contrattuale. Di conseguenza, possiamo dedicarci, a partire dal riconoscimento di questa configurazione topica, a vedere l’interazione dei protagonisti nello sviluppo di almeno una sequenza polemica sovradeterminata dall’interazione contrattuale21. È effettivamente ciò che si constata. Tuttavia, durante la maggior parte dello shoza, il padrone di casa non occupa il topos che gli abbiamo appena riconosciuto: bisogna che egli sia servito del pasto kaiseki. La sua attività può essere divisa in due categorie: da una parte la preparazione degli elementi del pasto nella sala dell’acqua: confeziona gli alimenti, prepara piatti, vassoi, bevande… e mangia tutto solo in questo luogo; dall’altra parte gli andirivieni tra il mizuya e il chashitsu, per i bisogni del servizio (servire, sparecchiare). Ne segue che il mizuya gioca un ruolo fondamentale per il padrone di casa durante lo shoza. Non è tutto: gli spostamenti del padrone di casa attraverso la porta sadoguchi che mettono in comunicazione il mizuya con il chashitsu, hanno per corollario il non passaggio degli invitati attraverso questa stessa porta. Di conseguenza, se il chashitsu può essere detto uno spazio comune al padrone di casa e ai suoi invitati, il mizuya è uno spazio privato riservato al solo padrone di casa. C’è di più: la posizione aperta o chiusa della porta sadoguchi è carica di significazione. Nel caso di cui ci occupiamo, il padrone di casa è il solo ad aprire, a passare e a chiudere. È dunque contemporaneamente soggetto di stato e soggetto del fare nell’atto di varcare il limite. Ora, se il suo statuto di soggetto di stato si definisce in relazione ai due poli tra i quali si sposta (il mizuya e il chashitsu), il padrone di casa sovradetermina questi stati grazie alla posizione della porta. Spieghiamoci meglio.

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1. Nel momento più intenso della cerimonia, quello del tè, spesso il padrone di casa e i suoi invitati sono insieme nel chashitsu. È anche il solo momento in cui la porta sadoguchi è chiusa verso di loro, separandoli simultaneamente dal mizuya. 2. Al momento della consumazione del pasto, il primo invitato dice al padrone di casa: “Vogliate mangiare con noi”. Quest’ultimo risponde: “Mangerò nel mizuya”. Ci va per consumare il suo pasto, e chiude la porta dietro di sé. È il solo momento in cui i due protagonisti compiono lo stesso atto simultaneamente pur restando separati dalla porta chiusa. 3. Durante il servizio, quando il padrone di casa porta qualcosa ai suoi invitati, lascia la porta sadoguchi aperta. In questo modo, mentre è con i suoi invitati per servirli, non ha veramente abbandonato il mizuya, cui resta legato attraverso la porta aperta. Simmetricamente, quando ritorna al mizuya a cercare un altro piatto, non ha abbandonato i suoi ospiti ai quali resta legato dalla porta aperta. Abbiamo quindi quattro casi possibili, dove la giunzione invitati-padrone di casa (in breve: “I” e “pdc”) è sovradeterminata dalla porta aperta o chiusa:

porta chiusa

porta aperta

pdc con i suoi invitati

congiunzione (pdc, I)

non congiunzione (pdc, I) poiché pdc resta legato al mizuya

pdc senza gli invitati

disgiunzione (pdc, I)

non disgiunzione (pdc, I) poiché pdc resta legato agli invitati



L’ARCHITETTURA DEL TÈ

La porta condizionale funziona quindi come un operatore di negazione applicato alle giunzioni che definiscono il soggetto di stato. Essa determina i quattro stati di due attanti. Simultaneamente, abbiamo appena messo in evidenza il ruolo del mizuya come polo significante. Ricapitoliamo la problematica dei poli. Ne abbiamo quattro: mizuya o sala dell’acqua braciere o luogo del fuoco arrangiamento floreale calligrafia

}

per il padrone di casa

}

per gli invitati

Se questi poli sono attribuibili due a due a ciascuno dei protagonisti, possono essere accoppiati in altro modo, secondo il criterio della co-presenza: - mizuya + calligrafia : nel shoza (o prima assise) - braciere + arrangiamento floreale : nel goza (o seconda assise)

È percepibile una certa eterogeneità nel modo di designare questi poli che abbiamo reperito sintatticamente. Una tale eterogeneità può disturbare, soprattutto sapendo che certi poli sono sovradeterminati dai topoi (per gli invitati o per il padrone di casa). Ci interessa allora analizzare semanticamente questi termini e reperire ciò che li rende isotopi. Una prima risposta si trova nella spiegazione dei termini mizuya e braciere, rispettivamente sala dell’acqua22 e luogo del fuoco. Con l’acqua e il fuoco, abbiamo a che fare con due “elementi” che ci rinviano agli elementi dell’universo (se ce ne sono quattro nella mitologia indo-europea – acqua, fuoco, terra, aria –, i cinesi e i giapponesi ne contano cinque – acqua, fuoco, metallo, terra, aria). Questi termini sono particolarmente utili nel ruolo di “valori” necessari all’analisi semantica fondamentale. La questione che si pone a questo punto è quella di sapere

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se la calligrafia e l’arrangiamento floreale sono portatori degli stessi valori, o di valori che si riferiscano allo stesso paradigma. La calligrafia delle cerimonie del tè è obbligatoriamente fatta con l’inchiostro nera della Cina. Nessun colore e nessun disegno possono accompagnarla. Ora, l’inchiostro della Cina è fatto di fuliggine (olio bruciato: risulta da un fuoco spento, aspetto terminativo), mischiata a colla e infine allungata con acqua. La calligrafia potrebbe quindi rinviare a un fuoco morto e trasformato, cioè a un fuoco negato o a un “non-fuoco”, che si oppone al fuoco attivo del focolare, il quale assicura la cottura e il riscaldamento. Se una tale interpretazione è buona, si dovrebbe trovare, per ragioni di simmetria, che l’arrangiamento floreale rinvia a una “non-acqua”. La verifica di questo punto apporterebbe una prova di coerenza interna. Vediamo: l’arrangiamento floreale si riduce a un fiore, con qualche filo d’erba, e qualche volta delle gemme. Tutti questi elementi devono essere freschi, disposti con semplicità, “come nei campi” raccomanda il maestro Rikyu. Queste piante affondano i loro steli in un piccolo recipiente contenente acqua, e sono aspersi di un’acqua finemente polverizzata che imita la rugiada. Ritroviamo quindi l’elemento acqua sotto una forma attiva, vivente, che assicura la vita delle piante. Essa si oppone all’acqua del mizuya, che è un’acqua passiva, destinata a essere trasformata dalla cottura. Gli elementi semantici che escono da questa rapida analisi non rinviano all’insieme dei cinque elementi. Rinviano piuttosto a un dominio di opposizioni binarie dove si rincontrano i valori acqua/fuoco; vita/morte; attivo/passivo; trasformante/trasformato. Una tale problematica riguarda, nel dominio asiatico, il paradigma dello Yin e dello Yang, conosciuti in Giappone con i vocaboli I N e Y O , con cui si designano i principi maschile/femminile, attivo/passivo… che regolano il cammino del mondo. Dentro una tale problematica, ogni

L’ARCHITETTURA DEL TÈ



universo, quale sia la sua estensione, contiene i due principi simultaneamente, in un equilibrio relativo dove l’uno domina sovente l’altro. Se questa direzione d’interpretazione è valida, dovrebbe ricevere conferma dalla co-presenza dei poli nello shoza e nel goza: nello shoza, il polo dominante l’attività del padrone di casa è il mizuya, quello dell’acqua passiva e trasformabile: la sovradeterminazione è IN. Dal lato degli invitati, la calligrafia occupa il tokonoma. A titolo di fuoco spento, essa sarà il principio maschile trasformato e diventato passivo: la sovradeterminazione è NON-YO. Nel goza, il polo dominante l’attività del padrone di casa è il braciere, investito dal fuoco attivo: la sovradeterminazione è YO. Dal lato degli invitati, l’arrangiamento floreale rinvierà all’acqua vivificante e rinfrescante, un’acqua attiva (non passiva), principio femminile negato: la sovradeterminazione è NON-IN. Nelle due “assise”, la coerenza degli elementi co-presenti è verificata: IN accoppiato con NON-YO nello shoza; YO accoppiato con NON-IN nel goza. Per ragioni di logica interna, questa interpretazione può dunque essere considerata come valida. Vengono a confortarla numerose conferme, e si tratta di una convalida esterna. Ne citeremo solo due, visto che le altre appaiono nel corso dell’analisi sintattica della cerimonia. 1. Alla fine della pausa detta nakadachi, il padrone di casa stacca le tende esterne (sudare) che, attaccate alle finestre, hanno mantenuto tutta la prima assise nella penombra. Di conseguenza, il goza si svolgerà nel chiarore. Questo cambiamento di luce accade dopo l’entrata degli invitati nel chashitsu. Assistono quindi al passaggio dalla penombra al chiaro. Questo mutamento, che dà il via al goza, resiste a tutte le analisi che si appoggiano sulla sola sintassi. Ora, da un punto di vista semantico, la penombra rinvia al principio passivo e la chiarezza al principio attivo. Nella penombra, lo shoza riunisce i poli dell’acqua passiva e del fuoco passivo; nel chiaro, il goza riunisce i poli

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MANAR HAMMAD

dell’acqua attiva e del fuoco attivo. La coerenza semantica è manifesta. Da quanto detto, i termini IN, NON-IN, YO, NON-YO possono esser messi ai quattro angoli di un quadrato semiotico di cui i lati verticali rappresentano le deissi positive e negative, e i lati orizzontali manifestano l’opposizione dei termini contrari.

figure sincretiche

elementi semantici

braciere

fuoco spento NON-YO

acqua vivificante NON-IN

calligrafia

disposizione floreale

Deissi negativa: passività, terminalità.

Deissi positiva: attività, incoatività.

Penombra, tende (tendine) abbassate: SHOZA.

{

MIZUYA

{ {

fuoco attivo YO

{

acqua passiva IN

Chiarezza, tende (tendine) alzate : GOZA.

2. La seconda conferma esterna di questa interpretazione è di ordine sintattico-semantico. Il racconto del chaji (§ 2.4.) ci ha mostrato che ci sono tre sequenze all’interno del chashitsu: il pasto, il tè denso, il tè leggero. Ognuna delle sequenze del tè denso e del tè leggero inizia con una sistemazione dei carboni per il fuoco. Si pone allora il problema della prima sequenza: c’è un arrangiamento del carbone con cui essa prende inizio? La risposta è in due tempi: sì, la prima sequenza comincia con un aggiustamento dei carboni, come si può vedere in certe cerimonie eseguite in altri momenti del giorno o dell’anno. Ma, nel chaji estivo studiato, questo aggiustamento ha luogo prima che gli invitati entrino nel chashitsu.

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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Così, questa operazione è eliminata dallo svolgimento sintagmatico della cerimonia. Una tale eliminazione equivale a una negazione: è una negazione del fuoco. Lo shoza, che la nostra precedente analisi ha mostrato essere sotto il segno dell’IN passivo (acqua + non-fuoco) inizia con la negazione del fuoco, così come l’abbiamo appena mostrata. Abbiamo detto (§ 2.3.) che il chaji può essere condotto differentemente a seconda della stagione e dell’ora. Alcuni chaji iniziano con un primo aggiustamento del carbone. Questo significa forse che la nostra analisi è falsa è che bisogna ricominciare? Assolutamente no. I chaji che incominciano con una prima sistemazione del carbone ricorrono ad altre espressioni della negazione non-verbale: delle ceneri bagnate vengono poste nel focolare, di modo che gli invitati possano vederle; si bagnano le ceneri d’acqua, disegnando dei motivi, appena prima dell’entrata degli invitati, poiché possano vedere i motivi d’acqua. Questa insistenza sull’acqua gettata sul fuoco, reso visibile agli invitati, significa che lo shoza si svolge sotto il segno dell’acqua e non sotto il segno del fuoco. Nel chaji più formale, di stile shin, la cerimonia comincia con un gesto marcante: tra gli utensili posti a lato del braciere, un vaso allungato verticale contiene l’attingitoio (hishaku) destinato al travaso dell’acqua e un paio di bastoncini metallici (hibashi) destinati alla manipolazione dei carboni. Il padrone di casa comincia col prendere i bastoncini, e li mette di lato. Significa in questo modo che non se ne servirà, che il fuoco non è l’elemento primo in questa sequenza: lo shoza è posto sotto il segno dell’acqua e del non-fuoco. Queste differenti manifestazioni di una stessa operazione (negazione) situata a livello profondo illustrano la nostra ipotesi dove diciamo (§ 2.3., in conclusione) che i differenti chaji condividono la stessa struttura fondamentale e semio-narrativa, e che le differenze concernono il livello della manifestazione.

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MANAR HAMMAD

2.8. Dinamica globale L’analisi localizzata di alcune sequenze d’azione e delle disposizioni spaziali ci ha permesso di estrarre successivamente una divisione dello spazio in parti discrete, un investimento semantico aspettualizzato (dal meno puro al più puro), e infine una polarizzazione dei luoghi sussunta da valori descrittivi semplici (acqua, fuoco) sovradeterminati da valori (attivo, passivo) che saremo tentati di interpretare come modali. Gli ultimi elementi di questa analisi possono essere raggruppati sul quadrato semiotico della pagina seguente. Questo quadrato rappresenta, in maniera condensata, i differenti termini in interazione e le loro relazioni logiche. Tuttavia, se le analisi precedenti hanno identificato gli elementi (termini e relazioni) del modello, non hanno affrontato la questione della dinamica che li lega. È noto che il quadrato semiotico è soggetto a una doppia lettura: una lettura statica, detta tassonomica, e una lettura dinamica, detta sintattica. L’interesse di una tale lettura raddoppiata è il seguente: se l’analisi dell’oggetto semiotico complesso riconosce termini che intrattengono relazioni di contraddizione e di contrarietà, è necessario rendere conto della coerenza d’insieme. La logica insegna che non si può affermare simultaneamente una cosa e il suo contrario, o una cosa e il suo contraddittorio. Ora, se abbiamo riconosciuto nel nostro oggetto valori che intrattengono relazioni di contrarietà e di contraddizione, gli stessi valori non sono manifestati contemporaneamente nello stesso oggetto. Ed è questa non-simultaneità che impone di riconoscere un prima e un dopo, tra i quali si inseriscono operazioni trasformatrici. Una tale argomentazione è valida indipendentemente dall’espressione semiotica dell’oggetto analizzato, dato che i punti di vista statico e dinamico si riferiscono al contenuto.



L’ARCHITETTURA DEL TÈ

acqua passiva

asse semantico dei contrari

fuoco attivo

mizuya

poli occupati dal padrone di casa

braciere

IN

YO

acqua vivificante

calligrafia NON-YO

poli occupati dagli invitati

disposizione floreale NON-IN

{

asse semantico dei subcontrari

{

fuoco spento

penombra tendine del SHOZA abbassate

chiarezza tendine del GOZA sollevate

Deissi negativa: passività, terminalità.

Deissi positiva: attività, incoatività.

Ritorniamo al quadrato del nostro chaji. Una prima osservazione: lo shoza e il goza, che sono le due “assise” che si svolgono all’interno del chashitsu, occupano le colonne verticali del quadrato, dette deissi. Shoza: la calligrafia è nel tokonoma mentre il padrone di casa fa il servizio a partire dal mizuya; goza: l’arrangiamento floreale occupa il tokonoma mentre il padrone di casa serve il tè davanti al fuoco. Sulle deissi, gli studi semiotici situano un’operazione particolare, detta asserzione, che si oppone all’operazione di negazione situata sullo schema (diagonale del quadrato). L’asserzione assicura il passaggio tra due valori che riguardano la stessa deissi; in questo senso è un’operazione che conferma e precisa, grazie al valore finale, il valore iniziale da cui parte. Letta al contrario, la negazione assicura il passaggio

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tra due valori che riguardano due deissi differenti. In questo la trasformazione è brutale, senza transizione. Riveste ordinariamente la forma polemica, figurativizzata spesso da una lotta, seguita da una vittoria di uno dei protagonisti e dalla sconfitta dell’altro. L’aspetto notevole del chaji è che invece non viene messa in scena alcuna lotta. Tutta la cerimonia si svolge secondo un canovaccio preciso, in cui ciascun partecipante gioca il suo ruolo, e da dove si distacca un effetto di senso globale, che è quello della collaborazione a un fine comune. Da cui la seguente domanda: che cosa ne è dell’operazione di negazione, e come si manifesta? Abbiamo visto (cfr. §§ 2.5., 2.6.) che è presente una serie di negazioni non verbali, e permette di estrapolare la nozione di purezza, opposta all’impurità. Allo stesso modo, è possibile interpretare la serie delle frontiere come una serie di operatori destinati ad assicurare la tranquillità, opposti all’agitazione del mondo escluso, al di fuori – e quindi negato. In più, la padronanza gestuale e il ritmo d’esecuzione degli atti cerimoniali sono stabiliti a discapito del disordine e del caos (il sé controllato è una forma interna del caos esterno). C’è quindi un insieme di operazioni di negazione, disperse lungo tutto il chaji, che permettono di costruire l’immagine di un anti-soggetto che si opporrà alla progressione degli attori della cerimonia sulla via del chado (cha = tè; do = percorso, via). Tuttavia, gli attori implicati in questa operazione a livello discorsivo, così come i valori profondi estrapolati, non corrispondono direttamente al quadrato sviluppato in termini di acqua e di fuoco, di attività e di passività: non si tratta della stessa isotopia. Anche se il risultato che abbiamo evidenziato è difficilmente ricusabile, siamo costretti a lasciarlo provvisoriamente da parte – pronti a reintegrarlo in seguito – e a cercare una soluzione situata sull’isotopia fondatrice del quadrato. Per facilitare l’esposizione poniamo la nostra esplorazione a livello figurativo. Abbiamo visto che la carica semantica IN dell’intero shoza è veicolata dalla penombra, ot-

L’ARCHITETTURA DEL TÈ



tenuta tramite tende di bambù (sudare) sospesi all’esterno delle finestre, mentre il goza è investito dalla carica YO tramite il chiarore risultante dallo sganciamento di queste stesse sudare. Abbiamo in questo caso un’operazione di negazione che fa passare gli investimenti polari dalla deissi negativa a quella positiva del quadrato. Notiamo (a) che questa operazione è realizzata dal padrone di casa dopo il nakadachi; (b) che gli invitati non lo vedono realizzarla; (c) che gli invitati vedono il cambiamento di luce operarsi mentre si sistemano per il goza. Un’altra operazione di negazione simile in ogni punto è realizzata dal padrone di casa, all’insaputa degli ospiti, durante il nakadachi: mentre gli invitati sono in giardino, il padrone di casa stacca la calligrafia (NON-YO) e la rimpiazza con l’arrangiamento floreale (NON-IN). Gli invitati constateranno il cambiamento dopo la pausa. Infine, l’abbandono del mizuya per il polo del fuoco viene fatto ugualmente in un modo reso anodino. Abbiamo tre esempi di negazione che fanno passare dalla deissi negativa alla deissi positiva, e tutti e tre sono praticamente nascosti. Si potrebbe essere tentati di dire che un tale trattamento dovrebbe invitarci a trascurare queste operazioni. Nondimeno, nel quadro della cerimonia del tè, dove il minimo atto è valorizzato, per non dire “celebrato”, bisogna forzatamente concludere che la cancellazione è carica di senso. Risulta importante quindi esplicitarla. Riassumiamo: gli atti figurativi portatori del carico semantico “negazione”, e dei quali la presenza è prevista dalla teoria semiotica, sono ben realizzati. Tuttavia, sono eseguiti in modo da minimizzarne l’importanza: sono sottratti all’attenzione del soggetto cognitivo “invitati”. All’opposto, gli atti assertivi (passaggio dal NON-YO allo IN durante il shoza, e dal NON-IN allo YO durante il goza) vengono manifestati. In questa procedura è facile riconoscere lo schema – divenuto familiare in § 2.6. – della negazione non-verbale, posta a un livello gerarchicamente superiore: se si pone che

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le operazioni di negazione (IN – NON-IN ; e YO – NON-YO) come le operazioni di asserzione (NON-YO – IN; e NON-IN – YO) sono situate al livello enunciativo del chaji, la manifestazione sincretica e modulata di queste operazioni, cioè l’espansione-celebrazione delle une, e la condensazionedissimulazione delle altre, funziona come un livello operatore meta-enunciativo, che asserisce il celebrato e nega il dissimulato. Visto che si tratta della manipolazione dell’enunciato, questo livello meta-enunciativo è di fatto quello dell’enunciazione. Di conseguenza, abbiamo appena messo in evidenza una procedura enunciazionale di negazione, dopo aver mostrato diverse negazioni enunciative. Espresse nel mondo naturale, questi due tipi di negazione si costruiscono in maniera identica: la loro esplicitazione sintattica (sul piano del contenuto) passa per uno svolgimento sintagmatico (sul piano dell’espressione) dove la negazione avviene dopo una fase assertiva. Se la negazione enunciazionale procede in questo modo, essa presuppone tuttavia, nel soggetto cognitivo che la decifra, un sapere metalinguistico sulla forma canonica delle trasformazioni, tale quale si esprime nella dinamica del quadrato semiotico. Ricordiamo che i quattro termini posti agli angoli del quadrato sono connessi dalle negazioni sugli schemi diagonali e dalle asserzioni sulle deissi verticali; i passaggi orizzontali tra i contrari non sono praticabili, e la trasformazione canonica che conduce da un termine al suo contrario comprende due operazioni successive, una per ogni specie:

4

1

3

2

2

1

asserzione

asserzione

n e 1 egaz on 3 ion azi g e e n

2 quadrato dei termini e delle operazioni

trasformazione

3 trasformazione

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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Possiamo considerare acquisito un tale sapere per ogni interprete competente. In ogni caso, la reiterazione di questa forma è assicurata in tutti i “testi” (verbali, gestuali, sincretici) di una qualche estensione, e il livello metalinguistico può operare su condensazioni/espansioni in riferimento a sequenze neutralizzate rispetto a queste operazioni enunciazionali. L’effetto di senso che emerge dalla sovrapposizione di due livelli gerarchici dove si manifestano le due operazioni di negazione e di asserzione non è unico, e bisogna considerare una combinatoria a quattro posizioni. 1. Una trasformazione enunciativa di cui l’operazione negatrice è asserita enunciazionalmente, e di cui l’operazione assertiva è negata enunciazionalmente, si trova sovradeterminata come una trasformazione enunciativa polemica: è un termine complesso in cui domina la negazione enunciativa. Nel contesto particolare analizzato qui, le operazioni di installazione delle frontiere e di chiusura delle porte di questo tipo: negano il diritto di passaggio e asseriscono questa negazione. La prima trasformazione del dominio privato è una trasformazione polemica. 2. Una trasformazione enunciativa di cui l’operazione negatrice è negata enunciazionalmente, e di cui l’operazione assertiva è asserita enunciazionalmente, si trova sovradeterminata come una trasformazione enunciativa contrattuale: è un termine complesso in cui domina l’asserzione enunciativa. Nel contesto del chaji, è l’economia generale della cerimonia a essere trattata in questo modo: la cerimonia si offre alla lettura come un contratto. 3. Una trasformazione enunciativa di cui l’operazione negatrice è asserita enunciazionalmente e di cui l’operazione assertiva è asserita enunciazionalmente, si trova sovradeterminata come una trasformazione convalidata. Meglio: è una trasformazione celebrata in quanto tale. Nel contesto del chaji, il prototipo di queste trasformazioni è la fabbricazione e la consumazione del tè. 4. Una trasformazione enunciativa di cui l’operazione negatrice è negata enunciazionalmente e di cui l’operazione assertiva è negata enunciazionalmente, si trova sovradeter-

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minata come una trasformazione invalidata, deprezzata. In altri termini, ciò che è definito a livello enunciativo come una trasformazione non è riconosciuto come tale a livello enunciazionale. Quest’ultimo procedimento, come il precedente, rivela che la messa in opera enunciazionale della negazione e dell’asserzione permette di costruire meccanismi veridittivi (in 3 la trasformazione enunciativa è vera, in 4 è falsa) di cui i termini-oggetto sono operazioni e trasformazioni. Tuttavia, il meccanismo così presentato è più complesso di una semplice veridizione, poiché permette di estrapolare gli effetti di senso “contrattuali” e “polemici”, i quali non appartengono al paradigma del Vero e del Falso. Tutti questi effetti di senso risultano da trasformazioni operate dal livello enunciazionale, in modo conforme ai propri programmi narrativi, inscritti nella manifestazione del livello enunciativo e sovradeterminanti i contenuti degli enunciati. Abbiamo allora una descrizione dinamica di uno dei meccanismi con cui l’enunciazione modifica il senso dell’enunciato. Questo meccanismo è di una generalità tale che non è possibile assegnargli una finalità unica. Tutti i casi di applicazione condividono tuttavia una proprietà comune: il contenuto enunciativo è debrayato in relazione all’istanza enunciatrice, la quale dà un giudizio prima di re-embraiarlo e di proiettare sull’enunciato un nuovo effetto di senso. La tabella seguente permette di rappresentare i differenti meccanismi evocati: Trasformazione enunciativa (retta) operazione operazione di negazione d’asserzione enunciativa enunciativa

Trasformazione enunciazionale (reggente)

operazione di negazione enunciazionale operazione d’asserzione enunciazionale

● Trasformazione invalidata ● ●T rasfo a● mic rma pole zion e cont ione rattu rmaz ale ● rasfo T ● ● Trasformazione celebrata ●

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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Dopo questa lunga deviazione teorica, ritorniamo al nostro chagi. Abbiamo visto che sono le sequenze dello shoza e del goza, riconoscibili come assertive, a essere le più sviluppate, mentre la sola sequenza chiaramente negatrice sulla stessa isotopia è il nagadachi, pausa molto breve, e di cui le operazioni negatrici sono sottratte alla vista degli invitati. Ne risulta un chiaro effetto di senso: il chaji è sovradeterminato come una trasformazione contrattuale. In questo senso, soddisfa la definizione di rito, seguendo la proposta di Claude Lévi-Strauss (1962a) e Konrad Lorenz (1969), come negazione della polemica e riaffermazione del contratto. Questo effetto di senso globale sovradetermina tutte le sequenze d’azione inglobate, che appaiono allora come programmi d’uso concorrenti alla realizzazione del programma di base contrattuale. L’analisi dettagliata di queste sequenze permette di verificarlo. (Non svilupperemo l’analisi in questo contesto, vista l’ampiezza che questo lavoro richiederebbe). Ma non è tutto: la dissimulazione delle operazioni di negazione si accompagna alla cancellazione del soggetto operatore. Così facendo, gli atti negatori enunciativi sono “oggettivati”: accadono di per sé, naturalmente. All’opposto, la celebrazione delle operazioni di asserzione mette in risalto i soggetti operatori (di volta in volta gli invitati e il padrone di casa). Gli atti assertivi sono così “soggettivati”: sono atti da fabbricare, riguardano la “cultura”. In altri termini, lo svolgimento del chaji ci presenta la natura come un universo trascendente, dove le cose accadono di per sé e dove i cambiamenti sono brutali, quando invece la cultura appare come un universo immanente, in cui bisogna aiutare le cose ad accadere, e dove i soggetti s’aggiustano (s’adattano) rispetto ai cambiamenti che li trascendono. L’analisi dettagliata dell’enunciato dimostra che l’insieme delle azioni assertive sviluppate nel corso del chaji concorre a costituire un attante collettivo che riunisce gli attori umani (gli invitati e il padrone di casa), gli oggetti, i luoghi, e la natura. Le fasi critiche di questa costituzione sono la

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condivisione del sakè e la condivisione del tè denso. Svilupperemo altrove la nostra analisi di queste sequenze. Non si può tuttavia passare a un altro punto senza segnalare che se i gesti e la parola possono essere posti come il livello enunciativo della semiotica sincretica studiata, le configurazioni topiche giocano un ruolo enunciazionale, e l’insieme di questi livelli (enunciativo ed enunciazionale) costituisce a sua volta il livello enunciativo sovra-determinato in precedenza come contrattuale. L’analisi completa mette in opera, dunque, tre livelli gerarchizzati, con lo spazio che gioca un ruolo privilegiato nella zona intermedia. Questo fatto concorda con alcune constatazioni da noi presentate in un’altra occasione (cfr. capitoli ottavo e nono), ciò che ci permette di confortare la nostra ipotesi metodologica, che è la seguente: l’analisi semiotica dei fenomeni del mondo naturale non può soddisfarsi dei due livelli posti come enunciativo ed enunciazionale; l’opposizione che separa questi livelli deve essere resa ricorsiva, e un terzo livello, meta-enunciazionale, deve essere proposto per rendere conto di fatti osservabili. Un mutamento di punto di vista può condurre a spostare la localizzazione di questi livelli: sono definiti non dalla sostanza su cui si appoggiano ma dalle loro mutue relazioni. Nel corso di questo lavoro, abbiamo praticamente scartato il livello enunciativo di base, concentrando la nostra attenzione sui due livelli enunciazionali superiori. Affermiamo una scelta metodologica, che adottiamo con un fine euristico: non abbiamo minimamente l’intenzione di rinunciare all’analisi dell’enunciato. La nostra scelta proviene da una semplice constatazione: ci sono forme di interazione indifferenti al contenuto scambiato. In particolare, la regolazione del comportamento spaziale si inserisce in questa categoria. Questo si verifica durante il chaji, il cui svolgimento non è per nulla coinvolto dal “tema” scelto, come si verifica al momento di una visita presso qualcuno, per una cena… Queste forme normativizzate riguardano non tanto ciò che è scambiato quanto le relazioni tra coloro che scambiano. In particolare, è qui che si definisce

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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il carattere contrattuale o polemico dell’incontro, sovradeterminante ciò che verrà detto. 2.9. Incursione estetica: il tèismo La pratica del tè, nominata tèismo da quando il termine è stato forgiato da Okakyra Kazuko (1956), è una pratica estetica riconosciuta come tale dalla cultura giapponese in cui si è sviluppata. La bellezza dell’architettura destinata a riceverla, quella degli oggetti manipolati e quella dei gesti della celebrazione sono certamente stati all’origine della fascinazione per questo oggetto complesso, motivando la considerevole spesa di energie che richiede l’analisi di un tale corpus. Abbordare il lato estetico delle cose, significa in qualche modo giustificare il nostro approccio. Un chaji, o riunione del tè, non è un fine in sé. Si inscrive in una serie di riunioni simili che punteggiano lo svolgimento di una vita e la sovrastrutturano in quanto percorso. L’adepto del tè si impegna a percorrere la propria vita per farne un’opera d’arte. La vita personale è fatta di caso e di gusto. L’oggetto estetico primo è quindi la macro-sequenza chiamata vita, dinamicamente caratterizzata in quanto percorso, visto che l’essenziale non è tanto arrivare da qualche parte quanto percorrerla. Nel corso di una tale vita, i chaji costituiscono punti forti, oggetti estetici in se stessi. Sono anche passaggi obbligati, in quanto atti necessari per l’acquisizione di valori profondi. Non si può raggiungere la tranquillità (valore ultimo del percorso tradizionale del tè) se non grazie all’integrazione del soggetto in seno a un attante collettivo estetico, e questa integrazione non si realizza pienamente se non nel corso di riunioni del tè. Arriviamo alla “terza generazione” di oggetti estetici, quelli con cui il soggetto si congiunge nel corso della riunione contemplativa. La trasformazione che ha luogo nel corso della riunione modifica non solamente il soggetto –

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che copre una tappa del suo percorso – ma anche gli oggetti, che conserveranno memoria delle riunioni e degli esteti che li hanno manipolati e contemplati. Gli attori delle successive riunioni del tè ne riparleranno, e così il valore estetico degli oggetti cresce o decresce in funzione dei giudizi che saranno stati pronunciati al loro riguardo. L’analisi di queste tre categorie di oggetti estetici si appoggia su due discorsi connessi da una relazione di presupposizione semplice: una semiotica sincretica costituita dalla pratica reale del rituale del tè da una parte, e, dall’altra, certi scritti relativi all’estetica del tè e a quella delle sue regole. Ogni chaji si articola enunciazionalmente attorno alla costituzione dell’attante collettivo. Nella misura in cui il chaji è un oggetto estetico, nel quale la costituzione dell’attante collettivo è una condizione necessaria, possiamo trarne la conseguenza seguente: il solo soggetto estetico del chaji è un attante collettivo. Il soggetto individuale non è un soggetto estetico a questo riguardo. Nel corso della preparazione del tè, alcuni oggetti vengono manipolati. Certuni tra questi sono esaminati dai visitatori, che li contemplano prima di interrogare il padrone di casa sulla loro origine, la loro età, l’artista che ne è l’autore, i proprietari anteriori, le cerimonie particolari cui hanno potuto prender parte. Insomma, viene declinato il pedigree dell’oggetto, costitutivo della competenza di quest’ultimo in quanto oggetto estetico. Due constatazioni a partire dalla ripetizione di questi atti: una simile valutazione estetica non verte che su di un oggetto alla volta; la valutazione non ha luogo che dopo il “servizio” del suddetto oggetto. La riserva dei partecipanti riguardo agli oggetti che non hanno compiuto il loro ufficio si legge come espressione di rispetto riguardo all’oggetto: l’oggetto non è disturbato finché non ha giocato il suo ruolo. Fino a quando il compito non è stato realizzato, è dotato di una intenzionalità implicita. Una volta compiuta la missione si allenta e diventa un oggetto estetico accessibile alla valutazione.

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Che siano secondari (chaji) o terziari (utensili), gli oggetti estetici del tèismo non si manifestano quindi come tali, nel corso di una presa cognitiva somaticamente e verbalmente espressa, se non dopo una sequenza pragmatica in cui partecipano a un’azione il cui quadro li oltrepassa. In questo modo, la presa estetica presuppone una presa somatica. La condizione necessaria dell’estetica del tè è dunque una sintassi che si riferisca alla “vita”, al mondo. In ultima analisi, lo stato dell’oggetto estetico “tèico” rileverà di un sotto-dominio del cognitivo: nella misura in cui gli oggetti considerati sono trasformati dall’azione dinamica prima di acquisire uno statuto estetico, sono di fatto oggetti timici (o patemici). La descrizione analitica (modale) di questi stati rimane ancora da fare. Passiamo all’estetica delle regole del tè. L’insieme delle regole, esplicite o implicite, è considerata soddisfatta rispetto a quattro principi: Purezza, Rispetto, Armonia, Tranquillità (seguendo Sen No Rikyu). L’analisi della traduzione italiana delle denominazioni nipponiche potrebbe indurre in errore. Il discorso estetico giapponese ci fornisce descrizioni analitiche passibili di analisi sintattica. Una procedura simile fa apparire relazioni di presupposizione unilaterale: Tranquillità presuppone Armonia, che presuppone Rispetto, che presuppone Purezza. In più, i concetti di Purezza e di Rispetto rimandano chiaramente all’etica. Solamente il concetto di Tranquillità può essere detto unicamente estetico, dal momento che quello di armonia manifesta una bipolarità complessa. Indipendentemente dal contenuto particolare di questi concetti, la struttura globale che si estrae in questa maniera pone l’etica come una condizione necessaria dell’estetica del tè: senza etica, niente estetica. Ma non è tutto. L’analisi di ognuno dei quattro concetti citati mostra questo: il soggetto che passa dall’uno all’altro di questi valori realizza un percorso isomorfo a quello della costituzione dell’attante collettivo: la purezza è lo stato del soggetto sbarazzato dalle impurità del cuore e

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dello spirito (è un’unità integrale); il rispetto è ciò che gli permette di ritrovarsi in relazione ad altrui, alle cose e alla natura (diviene un’unità partitiva); l’armonia è ciò che lo mette in conformità con gli uomini, le cose e la natura che lo circonda (costituzione di una totalità partitiva); insieme, realizzeranno la tranquillità (costituzione di una totalità integrale)23. Il parallelismo con l’analisi dello svolgimento dell’azione è stupefacente: l’estetica non vi appare che in seguito alla costituzione dell’attante collettivo. In più, nella stessa posizione di anteriorità in relazione all’estetica, rileviamo altre due entità: l’etica nel dominio metalinguistico, l’attività somatica nel dominio semiotico sincretico. Grande è la tentazione di vedervi due proiezioni semantiche differenti dello stesso fenomeno sintattico che è la costituzione dell’attante collettivo. Rimane da studiare il discorso estetico sul rituale del tè e non sulle sole regole. Vengono citati tre concetti: evanescenza, furyu, wabi. La complessità degli ultimi due ha fatto retrocedere i traduttori, non essendo proponibile alcun equivalente in una lingua occidentale. Ridotta all’essenziale, l’analisi di questi concetti arriva a caratterizzarli come “aspetti”: l’evanescenza è una puntualità instabile, il furyu è una transitività che impregna tutti gli elementi di un insieme per attraversarli con una dinamica incessante, il wabi è una terminatività che è simultaneamente un’incoatività. Questi concetti rinviano alla dinamica delle trasformazioni e del percorso di vita. Non sembrano connessi alla problematica della costituzione dell’attante collettivo sollevata in precedenza, ma piuttosto alle trasformazioni messe in opera al momento della suddetta costituzione. Queste aspettualizzazioni concernono le disgiunzioni deontiche fondamentali imposte dalle definizioni di Purezza, Rispetto, Armonia e Tranquillità: la Purezza pone un “dover disgiungersi” dalle impurità, il Rispetto pone un “non dover disgiungersi” dalle entità pure, l’Armonia pone un “dover non disgiungersi” dalle entità conformi, la Tranquillità un “non dover non disgiungersi” da queste entità.

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Così espressa in termini modali, una tale estetica disgiuntiva è identificabile, in Europa, nella mistica cistercense, la pittura astratta di Mondrian, o l’architettura di Mies van der Rohe. Se si rimpiazza la disgiunzione con la congiunzione nel quadrato deontico, si può allora descrivere l’estetica della Controriforma cattolica (ad es. l’architettura barocca). La modalità del volere, combinata alla congiunzione, definirà un’estetica romantica; combinata alla disgiunzione, definirà il classicismo. Il gioco di queste identificazioni proposte chiede di essere confermato da altre analisi. Ritorniamo al nostro tè. Gli “aspetti” evocati sovradeterminano la giunzione: essa è evanescente, terminativa, e indefinitamente da ricominciare. Da qui la necessità di fare della propria vita un oggetto estetico di cui la realizzazione non abbia un attimo di tregua. I differenti livelli di questa estetica si intrecciano gli uni agli altri in una struttura che ci limitiamo a suggerire più che a descrivere. Per questo necessiteremo di maggiore spazio e sforzi, affinché la nostra stessa descrizione finisca per essere un oggetto estetico. 2.10. Conclusioni provvisorie Benché molto lunga, la nostra analisi non ha potuto sviluppare tutte le sfumature dell’oggetto che ci siamo assegnati. I risultati che otteniamo dipendono dalla nostra competenza in quanto interpreti, che è funzione, innanzitutto, del nostro accesso (limitato dalla distanza e dalla lingua) all’informazione, che a sua volta costituisce la sostanza su cui lavoriamo. Un buon numero di nostre domande restano senza risposta. In più, la struttura iniziatica dell’insegnamento non facilita la ricerca del ricercatore esterno. La nostra competenza è funzione del nostro metodo, il quale è messo alla prova in questo lavoro di messa in ordine e di ricerca di coerenza. Anche in questo caso, le possibili ricchezze sono limitate: la semiotica dello spazio è una disciplina che si sta progressivamente costituendo.

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A coloro tra i nostri lettori che sono appassionati del Giappone, speriamo di aver apportato qualche esplicitazione, se non addirittura nuove interpretazioni. Per i semiologi, abbiamo sviluppato alcune nozioni formali generali, che non debbono nulla al Giappone né all’architettura, e che sono trasferibili per l’analisi di oggetti molto differenti. Non abbiamo dimenticato gli architetti, ai quali si indirizza in primo luogo il nostro tentativo di restituire l’architettura in un contesto più globale. Speriamo di aver illustrato i ruoli sintattici giocati dai dispositivi spaziali, allo stesso modo in cui abbiamo mostrato come l’investimento semantico dei luoghi può essere depistato, riconosciuto, concordato, organizzato da procedure controllate. Tutto questo può essere trasposto su altri luoghi. Col fine di evitare ogni malinteso, questa conclusione non può far economia di tre osservazioni metodologiche. i) Partendo dall’espressione sincretica, la nostra analisi ha puntato verso il livello profondo – o fondamentale – del contenuto, quello della determinazione dei valori e delle trasformazioni. Tenuta entro questi limiti, essa non ha fatto il percorso inverso che riconduce dai valori profondi verso la manifestazione discorsiva. Così facendo, essa richiede un seguito, che sarà oggetto di un’altra pubblicazione. Diciamo tuttavia che i risultati che abbiamo stabilito costituiscono un nocciolo duro attorno al quale gli altri effetti di senso verranno a raggrupparsi. ii) Nella determinazione delle unità di spazio, o topoi, abbiamo fatto ricorso a due procedure complementari: (a) la prima (§§ 2.5., 2.6.) riconosce i limiti di cui il superamento è condizionale: essa definisce il topos a partire dai suoi bordi; (b) la seconda (§ 2.7.) riconosce un luogo in cui un attore compie un’azione: il topos è definito da ciò che vi succede, e i bordi non intervengono che in un secondo tempo. Le due procedure sono fondate sulla sintassi, e le unità ottenute dipendono dall’azione (i funtivi dipendono dal funtore). I topoi così determinati soddisfano la stessa definizione, e non c’è quindi ragione di privilegiare una delle

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procedure rispetto all’altra. In fin dei conti, è l’oggetto studiato che impone la scelta dell’una o dell’altra maniera. iii) Sono state utilizzate due procedure per reperire il carico semantico di ciò che è osservabile: (a) il semantismo è apparso come determinato dalla sintassi (§§ 2.5., 2.6.), riattivato hic et nunc dall’azione; (b) nel paragrafo 2.7., il semantismo è stato ricercato nelle determinazioni culturali preesistenti. Con la distanza che autorizza lo stabilirsi dei risultati, si può dire che la prima procedura è servita per esplorare la dimensione immanente dell’universo del chaji (posto come immanente in questo discorso), mentre la seconda ha contribuito all’articolazione dell’universo trascendente. In altri termini, se l’analisi sintattica rivela il semantismo costruito nel discorso, l’analisi semantica ricostituisce ciò che è considerato come recepito, dato a priori. Nella nostra strategia d’approccio abbiamo privilegiato l’analisi sintattica dell’universo immanente, non facendo appello all’analisi semantica se non quando gli strumenti sintattici si rivelavano inoperanti. Detto questo, rimane molto da fare prima di “rendere conto” completamente del chaji e della sua architettura: non abbiamo fatto altro che mostrare la direzione in cui avanziamo.

1 Apparso in «Actes sémiotiques» IX, 84-85, CNRS-EHESS, 1987. La materia di quest’articolo deve molto alle mie discussioni con Madame Tsutsumi, rappresentante della scuola Urasenke a Parigi, e al mio maestro sulla via del tè. Se il metodo semiotico non deve nulla a questo insegnamento, ho sempre potuto confrontare le mie interpretazioni al suo sapere e alle sue referenze giapponesi, che rimangono poco accessibili al profano. 2 Per una definizione dettagliata di questa opzione, cfr. Hammad (1983, 1985). 3 Espressione e contenuto sono i due piani che definiscono il linguaggio secondo Louis Hjelmslev. 4 Per la definizione dei termini del metalinguaggio semiotico come attante, attore, ecc. si fa riferimento al dizionario di Greimas, Courtés (1979). 5 Questo raddoppiamento delle riunioni sociali invita a considerare indipendentemente le riunioni del tè e le visite ordinarie. Queste due attività sociali hanno regole di funzionamento differenti, e i fini che si sono prefissate sono distinti.

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La pulizia esteriore è l’espressione della purezza interiore. Questa porta, quadrata, misura circa sessanta centimetri per lato; vi si passa accovacciati. 8 Sala dell’acqua, e non “sala d’acqua” (cioè sala da bagno), poiché si tratta piuttosto di una stanza. 9 Questo testimonia del fatto che il chashitsu è posto sotto il segno degli invitati, e che il padrone di casa non è più il padrone, per la durata del chaji, o almeno per la prima parte dello shoza. Dopo la pausa, il padrone di casa verrà a preparare il tè sul posto e prenderà possesso della parte destinata a diventare la più importante: quella del fuoco. Non ci siamo ancora arrivati: durante tutta la prima parte, il padrone di casa prepara il cibo e mangia da solo, nel mizuya. 10 Ci sarà un secondo riarrangiamento del carbone per marcare l’inizio della sequenza del tè leggero. Queste due marche fanno sentire a posteriori l’assenza di sistemazione del carbone all’inizio della sequenza del pasto. Di fatto, il carbone è arrangiato prima dell’arrivo degli invitati, e la sua eliminazione è carica di senso: durante la sequenza del pasto, il padrone di casa è connesso al polo dell’acqua, mentre durante le sequenze del tè si riferirà al polo del fuoco. 11 Durante la preparazione del tè, il padrone di casa manipola un attingitoio che trasferisce dell’acqua calda o fredda. Questo strumento è investito da due ruoli tematici: (a) il padrone di casa inizia a tenerlo come uno specchio dove guarda se stesso: l’attingitoio “diventa” il padrone di casa, un’esteriorizzazione della sua persona; (b) dopo ogni pescaggio, il padrone di casa ripone l’attingitoio in modo normato; sono prescritti tre gesti, in funzione dell’operazione: sono comparati ai tre gesti principali del tiro con l’arco: tendere l’arco, scoccare la freccia, allentare lo sforzo. Questa metafora fa della tazza di tè una freccia tirata su tutti gli invitati riuniti. 12 Solo i templi, i santuari, i palazzi o altri edifici pubblici erano muniti di lucchetti sbloccabili dall’esterno con l’aiuto di ganci complicati, voluminosi e decorati. L’habitat domestico non ne era mai provvisto. Gli orinatoi, costruiti a prova di fuoco (kura) e con la funzione di contro-sforzi, erano dotati di catene. 13 L’acqua appena sparsa asperge le pietre davanti allo tsukubai: è un invito a utilizzare quest’ultimo (virtualizzazione) che riempie (attualizzazione) con un secchio d’acqua fresca. 14 Tuttavia, il gong può essere appeso nella sala del tè se questa è abbastanza grande (Totsutotsusai a Urasenke, Kyoto). 15 In termini semiotici, ci si serve della sintassi per reperire la morfologia, e non l’inverso come sovente praticato. Con questo metodo ci si assicura della pertinenza delle unità ottenute. La regola metodologica ritenuta presuppone che nell’universo studiato i funtori determinino i funtivi e non l’inverso. 16 Ogni invitato viene con una riserva di questi fazzoletti “usa e getta” che la tradizione giapponese conosce da molti secoli. 17 Per la definizione di topos, cfr. Groupe 107 (1973) e, seconda tappa, Hammad (1980a). 18 In una stanza da 4/5 tatami si possono far sedere tre invitati lungo il muro che va dal tokonoma al nijiriguchi. Se ci sono quattro o cinque invitati, seguiranno il muro della porta. Per più di cinque invitati, ci si mette in sale più grandi. 7

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19 Se la destra è superiore alla sinistra, è per l’influenza buddista trasmessa dalla Cina e dalla Corea. Nel Giappone scintoista e imperiale, come nei costumi militari e civili, la sinistra è superiore alla destra. I chashitsu detti “inversi” rinunciano alla maniera buddista e adottano il modo locale, che è anche quello dei mongoli. 20 Contrattuale si oppone a polemico nella definizione semiotica delle relazioni intersoggettive; vedi le rispettive voci dizionariali in Greimas, Courtés (1979). 21 Rinviamo in particolare alla manipolazione dell’attingitoio assimilato a un arco, che serve a scoccare una freccia-tazza di tè (cfr. nota 11). 22 La sala dell’acqua contiene sempre una grande giara di acqua destinata a preparare il tè, la zuppa, i brodi, ecc. Essa può contenere anche, per i bisogni della cucina, un focolare sovradeterminato dalla forma rotonda: il cerchio è la forma dell’acqua. Gli altri focolari sono sia su treppiedi (il triangolo è la forma del fuoco), sia quadrati (forma della terra) se sono incastrati nel suolo. 23 Sui concetti semiotici di unità e di totalità, e sulle loro articolazioni, cfr. Greimas 1976a, pp. 125 sgg.

Capitolo terzo L’espressione spaziale dell’enunciazione1

3.0. Osservazioni preliminari Ci proponiamo di prolungare in questo capitolo, attraverso un esempio concreto, le idee teoriche che abbiamo sostenuto nel capitolo ottavo. Il presente lavoro si riferisce a un materiale sincretico non verbale, scelta paradossale dal momento in cui non si parla normalmente di enunciazione se non in termini verbali. C’è una dose di scommessa nel provare a dimostrare che se ne parla a ragion veduta in un contesto di questo tipo. Speriamo che la pertinenza degli elementi di enunciazione messi in luce apporterà la prova a posteriori della correttezza delle tesi teoriche che abbiamo formulato. Ciò che è in gioco è un problema di semiotica generale: si tratta della possibilità di costruire il concetto di enunciazione su criteri che riguardano il solo contenuto, con il conseguente accesso all’analisi dell’enunciazione in tutti i corpus significanti, generalizzazione non trascurabile degli strumenti attuali. Inoltre, da quel momento si potranno descrivere gli atti enunciazionali in termini di programmi semio-narrativi, e coglierne infine i meccanismi d’interazione tra programmi enunciativi ed enunciazionali. Con un fine dimostrativo e didattico, abbiamo scelto di sviluppare l’analisi di un caso preciso, affinché il lettore possa giudicare “sul campo” la validità dell’argomentazione. Data la lunghezza del lavoro di decifrazione e di esplicitazione del senso, ci arresteremo prima dello

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stadio di formalizzazione dei risultati. Speriamo che l’essenziale della dimostrazione, nel frattempo, sarà stato acquisito. L’esempio è selezionato tra i nostri recenti lavori sulla pratica dello spazio in Giappone, centrato in particolare su di una sequenza relativamente ristretta della cerimonia del tè. Cominceremo da una semplice descrizione, seguita da una analisi preparatoria, prima di mettere allo scoperto l’analisi sintattica propriamente detta. Supporremo il lettore familiarizzato con l’economia generale della cerimonia del tè (cfr. capitolo secondo) e abborderemo direttamente la sequenza che ci interessa in questa sede, designata dal nome del piatto che ne è lo strumento principale: lo hassun. Questa sequenza è necessaria al compimento del chaji, di qualsiasi tipo esso sia2. Da un punto di vista semiotico, vi si trova la realizzazione della prima fase della costituzione dell’attante collettivo. Vedremo diversi elementi che contribuiscono allo stabilirsi di questo risultato, ma non ne svilupperemo la dimostrazione, optando per un accentramento dell’analisi su questioni di enunciato e di enunciazione. 3.1. Descrizione della sequenza La sequenza dello hassun3 arriva dopo il servizio del brodo che segnala la fine della sequenza del pasto kaiseki servito dal padrone di casa (teishu). Prima di sparecchiare i piatti, il teishu ritorna dalla sala di preparazione (mizuya) portando nella mano destra un recipiente contenente del sakè4, e nella mano sinistra la pietanza hassun. Sul piatto, ci sono due tazze di cibo: un gruppo di vivande di montagna, un gruppo di cibi dell’oceano. Il teishu va a sedersi di fronte al primo invitato e depone il proprio carico tra il suo corpo e il piatto del primo invitato. Gli versa una coppa di sakè. Mentre l’ospite beve il suo sakè, il teishu gli serve un pezzo di cibo dell’oceano.

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Mentre l’invitato mangia, il teishu ripete il servizio del sakè e del cibo dell’oceano per ognuno degli altri invitati, a turno. Servito l’ultimo invitato, il teishu riprende il vassoio e la sakeiera e ritorna a sedersi di fronte al primo invitato. Quest’ultimo dice allora: “Posso versarvi del sakè?”. Il teishu risponde: “Io non ho una mia tazza, posso utilizzare la vostra?”. Il primo invitato prende allora un foglio dal proprio pacco di carta, asciuga la propria tazza, la piazza sul piccolo supporto laccato utilizzato in origine dal teishu per preparare le tazze. Durante questo periodo, il teishu gira il vassoio e lo posiziona alla destra del vassoio del primo invitato, quindi sposta la sakeiera verso il secondo invitato, girandola affinché il becco di quest’ultima si allontani dall’invitato. A quel punto il teishu prende la coppa che il primo invitato ha appena asciugato, e il secondo invitato gli versa un po’ di sakè. Mentre il teishu beve, il primo invitato gli serve una porzione di ognuno dei cibi dell’oceano e della montagna, ponendoli vicini su di un foglio di carta estratto dal proprio pacco. Il teishu accetta questi cibi, ma non li mangia. Nel frattempo, il secondo invitato ripone la sakeiera vicino al teishu, girandola in modo che il becco si allontani da costui. Quando il teishu ha finito di bere il suo sakè, il secondo invitato gli chiede se può prestargli la propria tazza per berci. Il teishu dice allora al primo invitato: “Lasciatemi utilizzare la vostra tazza un momento, ve ne prego”. Il teishu si sposta allora verso il secondo invitato e gli versa un po’ di sakè. Quindi pone la sakeiera vicino al terzo invitato (supponiamo in questo caso che sia l’ultimo), girandola per allontanare il becco dall’ultimo invitato. Riprende il vassoio, il quale è stato messo (per rotazione) nella sua situazione iniziale dal primo invitato immediatamente dopo il servizio dei due cibi offerti al teishu, e serve una porzione di cibi di montagna al primo e al secondo invitato. Quando il teishu riceve la tazza che gli rende il secondo invitato, il terzo invitato gli versa un po’ di sakè prima di ri-

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porre la sakeiera vicino al teishu sempre girandola in modo da allontanare il becco da quest’ultimo. Quindi il teishu prepara una tazza per il terzo invitato e gli versa del sakè a sua volta, prima di riporre la sakeiera vicino all’ultimo invitato, girandola affinché il becco gli si allontani. L’ultimo invitato rende la tazza vuota al teishu, gli versa ancora un po’ di sakè, ripone la sakeiera girandola affinché il becco si allontani dal teishu, poi mangia il cibo della montagna.

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sadoguchi nijiriguchi Fig. 2. Sakè e piatti di mare serviti al primo invitato.

Fig. 1. Chashitsu

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Fig. 3. Sakè e piatti di mare serviti al secondo invitato

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Fig. 4. Sakè e piatti di mare serviti al terzo invitato

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Il teishu pulisce la tazza, la ripone sul supporto laccato, e pone il supporto sul vassoio. Prendendo il vassoio e la sakeiera, il teishu ritorna al primo invitato. Si siede e dice: “Vi ringrazio per avermi lasciato usare la vostra tazza”. Poi versa ancora del sakè all’invitato, riponendo la sakeiera vicino al primo invitato e girandola per allontanare il becco dall’ospite. Quindi il primo invitato versa del sakè al teishu. Dal momento in cui il teishu ha bevuto il suo sakè, il primo invitato dice: “Ho già bevuto abbastanza sakè, vorrei un po’ di acqua calda”. Il teishu raggruppa ciò che rimane dei cibi del mare e della montagna al centro del vassoio; pone il supporto della tazza, con la tazza, a sinistra del vassoio; poi posiziona il foglio di carta con la propria porzione non consumata a destra. Prendendo il vassoio e la sakeiera, il teishu li riporta verso la sala di preparazione. Questo marca la fine della sequenza dello hassun. 3.2. La formazione dell’enunciato sincretico 3.2.1. Prima analisi degli alimenti I cibi di montagna sono sempre di origine vegetale, quelli di mare di origine animale, salvo eccezioni (quando la cerimonia è servita a vegetariani stretti, come lo sono certi monaci buddisti).

Fig. 5. Vassoio hassun decorato dei piatti di mare e di montagna

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A questi due vincoli fondamentali relativi all’origine si aggiunge un certo numero di altre condizioni cui deve attenersi il teishu al momento della preparazione del vassoio. Allo stesso titolo di tutti gli altri oggetti manipolati o consumati durante la cerimonia, le vivande dello hassun devono essere belle (sono degli oggetti estetici elaborati, destinati a sollecitare il desiderio di colui che li guarda), in armonia con la stagione, con il gusto degli invitati e con il tema del chaji. Queste condizioni debbono essere soddisfatte, ma nella misura in cui sono comuni all’insieme degli elementi che intervengono nella cerimonia, non ne svilupperemo qui l’analisi, per concentrarci sui vincoli specifici dello hassun. Oltre all’opposizione caratterizzante i piatti per la loro origine, si possono trovare altre quattro coppie di opposizioni messe in opera. 3.2.1.1. Metodi di preparazione: se uno dei cibi è crudo, l’altro è cotto; se i due sono cotti, e l’uno è bollito, l’altro sarà fritto; se l’uno è cotto al vapore, l’altro sarà fatto alla griglia. Riconosciamo in questo caso l’opposizione dei metodi culinari umido vs. secco riconosciuto pertinente nell’analisi della preparazione dei piatti del kaiseki stesso (cfr. la nostra analisi del pasto). 3.2.1.2. Colori: se uno dei piatti è scuro, l’altro è chiaro; se l’uno è rosso, l’altro sarà verde… 3.2.1.3. Testure: se uno è croccante, l’altro sarà soffice… 3.2.1.4. Forme e ordini: se uno ha forme naturali irregolari, l’altro sarà tagliato per dargli delle forme geometriche regolari. I pezzi irregolari saranno disposti in mucchi informi, i pezzi regolari saranno disposti gli uni accanto agli altri in funzione della loro geometria. Queste opposizioni non sono dipendenti: sono liberamente combinabili, fornendo un largo ventaglio di possibilità. Rimane vero, come vedremo in seguito, che la sequenza congiungerà ogni coppia di termini opposti in

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queste categorie riunendo i piatti del mare e della montagna: lo hassun è l’occasione di realizzare in præsentia la congiunzione dei contrari, in particolare quella del padrone di casa e dei suoi invitati. Infine, altre tre costrizioni qualificano congiuntamente l’insieme dei cibi dello hassun: 3.2.1.5. Taglia: le porzioni di cibo sono piccole. Questi alimenti non fanno parte del pasto, ma accompagnano il sakè. Infatti sono definiti in questo modo, e la sequenza che designiamo come quella dello hassun è chiamata qualche volta quella della condivisione del sakè. Il lettore non avrà mancato di notare il modo elaborato di circolazione della sakeiera e dell’unica tazza di sakè, e il fatto che ogni invitato versa del sakè al teishu, così come quest’ultimo ne versa a tutti. 3.2.1.6. Aspetto: malgrado i vincoli di origine, di forma, di colore, di preparazione e di testura, gli alimenti devono conservare un’aria naturale. Devono essere riconoscibili e continuare ad assomigliare a ciò che sono. Interessa soprattutto che non abbiano un’aria troppo lavorata. 3.2.1.7. Manipolabilità: i cibi devono poter essere presi con le dita. Quando si compara questa condizione al carattere raffinato del comportamento sviluppato lungo tutto il pasto e la cerimonia, non si può evitare di notare il suo carattere insolito. All’aspetto naturale imposto al preparatore dalla precedente costrizione (valore descrittivo da inscrivere) si aggiunge qui l’obbligo di inscrivere nelle vivande un invito alla presa manuale (valore modale): si tratta di indurre il consumatore ad adottare un comportamento “naturale”, opposto al modo culturale della presa tramite i bastoncini. Queste due ultime costrizioni iscritte nei cibi concordano con l’analisi che si può fare dei materiali del vassoio, e che si troverà più avanti. Tutto converge per produrre l’effetto di senso così formulato dalla tradizione: “la natura stessa ha fornito questi cibi” (cfr. «Urasente Newsletter» 44, p. 9).

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La combinazione di questo effetto di senso con la congiunzione dei contrari segnalata precedentemente potrebbe produrre l’enunciato così verbalizzabile: la natura stessa produce la congiunzione dei contrari. Ci ritorneremo (§ 3.2.5). 3.2.2. Prima analisi del vassoio

Fig. 6. Vassoio hassun visto dall’alto

Il termine hassun designa più precisamente il vassoio stesso. Una spiegazione etimologica è offerta dalla tradizione: i lati del quadrato che forma misurano otto pollici (= hachi sun, contratti per legamento ordinario in giapponese, per diventare hassun), ossia 24,3 cm circa. Realizzato in legno di cedro “naturale”, non è né dipinto né verniciato. In questo si oppone all’insieme degli altri piatti e recipienti utilizzati nel corso della cerimonia: quando sono in legno, esso risulta sempre laccato; quando la loro materia non è il legno, sono realizzati in ceramica. Il fondo del vassoio è fatto di una placca di legno ottenuta da taglio per lungo: la superficie è irregolare, mostrando le sue fibre in modo caratteristico. Precisiamo che i giapponesi segavano il legno solo seguendo di traverso le fibre. Per tagliarlo nel senso delle fibre, fino al XVII secolo, il legno veniva spaccato con cunei e strumenti di taglio. La sega detta da carpentiere è stata introdotta in seguito, ma un gran numero di utensili e di ossature continua a essere

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confezionato secondo la tecniche tradizionali. In particolare, è il caso degli oggetti di culto scintoista5, quasi sempre realizzati in legno di cedro. Ora, un vassoio simile è utilizzato attualmente nei santuari shinto per presentare le offerte alle divinità. Per questo uso, può essere dotato di un piedistallo o esserne sprovvisto. Nei due casi possibili, l’attuale vassoio shintoista è leggermente più grande dello hassun, pur essendo costruito allo stesso modo. Alcuni pretendono che nel XVI secolo il vassoio shinto fosse piccolo e misurasse giustamente 8 sun. Altri contestano, dicendo che il vassoio shinto è rimasto tale e quale, e che Sen no Rikyu decise di ridurne le dimensioni al momento di adottarlo all’uso del tè. Qualunque sia l’esito di questa discussione storica, ci basterà in questo contesto reperire il legame forte con le pratiche shintoiste e il loro sistema di valori, dato che avrà somma importanza nel prosieguo dell’analisi. Tanto più che l’opposizione mare/montagna è onnipresente nei miti dell’universo shinto. Nella parte superiore del fondo del vassoio è fissato un bordo in legno di cedro piegato: un solo pezzo di legno compie il giro del vassoio. Le sue due estremità sono intagliate a incastro per non rendere la loro sovrapposizione più spessa del pezzo stesso. Una legatura in scorza consolida la giuntura in quel punto. Al fine di evitare che il legno si spacchi verso l’esterno nelle curve situate agli angoli, la lama viene intagliata, sul lato interno, con 8 tratti di sega che ne facilitano il piegamento.

Fig. 7. Legatura sui bordi intagliati a incastro

Fig. 8. Tratti di sega per evitare la screpolatura

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Il quadrato così costruito, alto appena 2 cm, è incollato sul fondo: nessun chiodo è utilizzato, né il sistema dei tenoni e dei mortasa. Esso è stato portato a un grado di rara perfezione dai carpentieri giapponesi. Da questa breve descrizione risulta che il modo di fabbricazione del vassoio rivela la preoccupazione di manifestare gli effetti di senso seguenti: shintoismo, nipponicità, primitivismo, naturalità. In questo contesto, il rifiuto della lacca e della ceramica appare come uno scarto delle tecniche della cultura importate dalla Cina, cui appartiene il buddismo. Quest’ultima religione è presente in modo ricorrente lungo tutta la cerimonia, marcandola profondamente: il chado (= la via del tè) è intimamente legato alle pratiche Zen. In più, l’uso degli oggetti cinesi è positivamente marcato nella pratica gestuale, che necessita di preparazioni e di precauzioni particolari. Di conseguenza, l’apparizione di riferimenti shintoisti-giapponesi altrettanto forti, imponenti la messa al bando delle referenze buddiste-cinesi, non manca di intrigarci, e richiede una spiegazione. Ci ritorneremo nella descrizione sintattica. 3.2.3. Iscrizione dei carichi semantici negli oggetti Le due analisi precedenti fanno appello agli stessi meccanismi di base che fondano l’investimento semantico degli oggetti: in primo luogo, la questione dell’origine (mare, montagna, cedro). In secondo luogo, le procedure di fabbricazione. Senza entrare nel dettaglio delle trasformazioni messe in opera, che rischiano di allontanarci troppo dallo scopo di questo saggio, possiamo osservare che gli oggetti considerati sono luoghi di inscrizione per valori che si sedimentano (= essi rimangono stabili; ad es.: l’alimento proveniente dall’oceano non perderà mai questa qualità) o vi si trovano modificati (= il carico inscritto è trasformato; ad es.: se è troppo grande, l’alimento sarà ritagliato per soddisfare alle condizioni di taglia e di manipolabilità). Considerato nel suo aspetto finale, l’oggetto non è che il supporto di memoria dei valori investiti. Da un punto di vista semiotico, se ne possono trarre due conseguenze

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3.2.3.1. L’analisi del carico semantico degli elementi si riconduce a un’espansione sintattica che mette in opera programmi di fabbricazione: si tratta della costituzione semiotica dell’oggetto (cfr. Greimas 1979a, 1981). 3.2.3.2. I programmi di fabbricazione degli oggetti appaiono da quel momento come programmi d’uso dipendenti dai programmi osservabili in præsentia, i quali sono gerarchicamente superiori ai primi, nella misura in cui ne manipolano i contenuti investiti e li sovradeterminano. La procedura d’inscrizione serve altrettanto bene a definire i valori descrittivi (es.: naturalezza) modali (es.: far voler mangiare, far voler prendere con le dita). Gli elementi spaziali che affronteremo nel paragrafo seguente si riferiscono ugualmente a questa problematica: le relazioni di posizione, così come le operazioni di traslazione e di rotazione, servono per instaurare oggetti situati a un livello di complessità superiore: essi permettono di ricostruire la sintassi degli effetti di senso veicolati non solo dagli alimenti e dal vassoio, ma anche, a livelli di composizione superiore, tra questo termine complesso e gli attori umani partecipanti alla cerimonia, come tra l’insieme di questi elementi e le entità trascendenti rappresentate sul posto. 3.2.4. La costruzione spaziale dell’enunciato Sullo hassun ci sono sempre un paio di tazze di cibo e un paio di bastoncini in bambù verde. I centri delle tazze sono posti su una delle diagonali del quadrato formato dal vassoio; i bastoncini sono posti sul bordo, formando un angolo acuto con uno dei lati del vassoio.

Fig. 9. Posizionamento dei piatti e dei bastoncini

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L’illustrazione a lato rappresenta schematicamente la situazione, vista dalla persona che prepara lo hassun. Si possono fare due tipi di osservazioni. In primo luogo, le due tazze hanno la stessa importanza visiva e sono poste praticamente nello stesso modo sulla diagonale del quadrato. Questa disposizione conferisce loro uno statuto comparabile: di fatto, sono destinate a essere riunite. In secondo luogo, la tazza dei cibi di mare è la più vicina alle punte dei bastoncini; infatti sarà servita per prima. Detto questo, bisogna necessariamente constatare che la considerazione diretta e non mediata degli elementi portati sul vassoio non permette di estrarre una struttura interna pregnante. Le loro mutue relazioni appariranno chiaramente solo quando le posizioni saranno state rapportate allo spazio referenziale del vassoio e agli investimenti semantici delle posizioni. 3.2.4.1. Il referenziale che orienta lo hassun. È importante non confondere il metatermine referenziale con i termini di referente e di funzione referenziale utilizzati in linguistica e semiotica. Nell’uso che ne faremo, il metatermine referenziale corrisponde alla tradizione dei matematici e dei fisici, per i quali esso designa ogni sistema di assi cui si riferiscono le posizioni dei punti di uno spazio considerato. Nella misura in cui si riferiscono le posizioni a questo sistema di riferimento, la derivazione del termine è giustificata. Nel caso di cui ci occupiamo, è lo stesso vassoio che forma il referenziale: lo hassun possiede un davanti (= faccia) e un dietro (= schiena). Questa distinzione è manifestata sulla dimensione pragmatica nel corso della cerimonia: il lato “faccia” è sempre posto di fronte alla persona chiamata a servirsi dal vassoio. Si manifesta allo stesso modo metalinguisticamente sulla dimensione cognitiva nell’insegnamento verbale e nelle opere didattiche che si occupano dell’apprendimento della cerimonia. Davanti e dietro sono i due poli di un asse caratteristico dell’oggetto. In generale, un tale asse non è dipendente da un piano di referenza (orizzontale, verticale,…)

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predeterminato, né da una qualunque direzione predefinita. Basta, per convincersene, considerare il caso della freccia, in possesso di un davanti e un dietro, qualunque sia la sua posizione nello spazio. Si tratta quindi di una proprietà intrinseca dell’oggetto, un valore descrittivo immanente, indipendente da qualunque referenziale esterno. Se questa proprietà dipende da qualche cosa, è, in ultima analisi, dalle trasformazioni in cui l’oggetto è implicato e che vi imprimono i valori descrittivi considerati. Nel caso della freccia, è lo spostamento per traslazione che funge da trasformazione determinante. Per lo hassun (e la sakeiera), sono movimenti composti di traslazioni e di rotazioni (notate in carattere grassetto nella descrizione del paragrafo § 1) che inscrivono le polarità e permettono di leggerle. Tuttavia, la denominazione stessa della proprietà è antropomorfa: la distinzione davanti/dietro è legata a un soggetto debraiato in relazione all’osservatore, installato nell’oggetto, reso solidale a quest’ultimo in modo da assicurarne l’orientabilità. Non è che un caso particolare di una regola molto generale: ogni referenziale orientato riportato a un oggetto (per orientare quest’ultimo) risulta da un’operazione di débrayage effettuata da un soggetto orientatore (cfr. Hammad 1985). Nel caso dello hassun, l’orientamento bipolare non esige l’intervento totale del soggettodebraiato: solo la direzione della prospettività (davanti/dietro) è stata marcata dagli spostamenti del vassoio, mentre il soggetto orientatore dispone di altre due direzioni: la verticalità e la lateralità, finora non sollecitate. Resta comunque vero che questo referenziale è presente nella sua totalità, manifestato da altre marche, da pratiche o da denominazioni: il vassoio è sempre utilizzato in orizzontale. Inoltre, è sempre la stessa faccia che è posta sui tatami, mentre l’altra riceve gli alimenti di mare e di montagna. Non è mai girato sotto-sopra, nell’altro senso. Il gruppo di movimenti che lo fa muovere mantiene dunque, a titolo di invariante, la distinzione tra un sopra e un sotto, marcati da due elementi fissi.

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i) Il bordo di legno piegato, incollato nella parte superiore. Notiamo qui che la legatura in scorza che ferma il bordo marca il dietro del vassoio. Questa marca è valida per tutti i recipienti quadrati utilizzabili nel corso della cerimonia (es.: i contenitori per il servizio dei dolci). Se i recipienti sono circolari, la legatura marca il davanti (es.: vassoio rotondo del ryakubon). ii) La faccia superiore è rigata, nel senso delle fibre. Oggi il fondo non è più ottenuto da taglio poiché è un procedimento difficile e costoso. Per evocare il taglio, si riga la faccia superiore della tavola piallata. Queste righe, come le fibre, marcano sempre una direzione trasversale, perpendicolare all’asse davanti/dietro. Di conseguenza, si ritrovano, oltre alla prima direzione identificata come davanti/dietro, le altre due direzioni ortogonali: quella dei poli sopra/sotto legati alla direzione verticale del soggetto debrayato, e quella della trasversalità legata alla lateralità dello stesso soggetto6. L’insieme di queste tre direzioni ortogonali definisce un referenziale costitutivo di un punto di vista debrayato attaccato all’oggetto e reso solidale a quest’ultimo. Se, come stabiliremo in seguito, consideriamo il vassoio come un enunciato, abbiamo a che fare con un referenziale enunciativo. sopra dietro

trasversalità

davanti

sotto

Fig. 10. Referenziale immanente dallo hassun

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Le due operazioni di rotazione cui è sottoposto lo hassun, segnalate nella descrizione di § 3.1., mostrano che la posizione del vassoio in relazione a un attore destinato ad agire sul primo è determinata dalle relazioni tra i due referenziali coinvolti (quello del vassoio e quello dell’attore umano): dovranno contrapporsi. Ci ritorneremo (§ 3.3.3.). Da un punto di vista spaziale, e nel quadro di un’analisi in termini di geometria proiettiva in cui gli orientamenti sono importanti, il vassoio è assimilabile a un soggetto umano dal momento in cui è messo in rapporto con esso. In termini semiotici, questo significa che il vassoio, dal momento in cui acquisisce lo statuto di oggetto semiotico. è assimilabile a un attore umano. Questa osservazione concorda con altri risultati dell’analisi, dove si vedono gli attori-oggetto subire un trattamento equivalente a una serie di trasformazioni sintattiche destinate a farne oggetti-valore competenti; poi, dal momento in cui sono stati resi competenti, intervengono e agiscono su altri oggetti: diventano dei soggetti delegati. È chiaramente il caso del fukusa o fazzoletto di seta, il cui modo di ripiegamento è costitutivo della competenza purificatrice; è anche il caso del chashaku o spatola, che può servire solo una volta purificata… 3.2.4.2. Il referenziale orientatore della sakeiera. Comparata al vassoio, la sakeiera è un oggetto relativamente semplice. Essa resta ferma nel corso della cerimonia e il suo contenuto è elementare: si tratta di sakè tiepido, conformemente alle abitudine ordinarie. Tuttavia, la descrizione del paragrafo 1 mostra che questo oggetto circola tra tutte le persone presenti (mentre lo hassun è manipolato solo dal teishu e dal primo invitato): Questo modo di circolazione relativamente complicato è correlato a quello dell’unica coppa in cui si beve il sakè.

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Fig. 11. La sakeiera

Ad ogni spostamento, la sakeiera è avvicinata alla persona che dovrà servirsene, viene girata in modo da allontanare il becco da questa persona. Si può concludere, a partire da questo modo di fare, che la persona che sposta la sakeiera vigila affinché il destinatario possa servirsene agevolmente. In termini semiotici, si tratta di rendere il destinatario competente per l’atto che seguirà, e che è quello di versare il sakè. Completeremo questa analisi nel paragrafo 3.3.2. Ci accontenteremo per il momento di interessarci al referenziale relativo alla sakeiera e manifestato dalle sue manipolazioni. I movimenti di traslazione e di rotazione conservano alla sakeiera una posizione in piedi. Questo movimento lascia come invariante l’asse verticale polarizzato sopra/sotto. Notiamo che questo fatto è conforme alla morfologia del contenente vuoto dato alla sakeiera, resa così competente per ricevere un liquido e conservarlo in questa posizione. Al contrario, l’operazione di versare fa appello al becco ed esige una rotazione attorno a un asse orizzontale trasversale. Il becco appare allora come portatore della modalità di poter fare, essendo l’operazione di rotazione attorno a un asse orizzontale una delle componenti del far “versare” (una traslazione laterale e verticale che conduce il becco sopra la coppa, come necessita l’azione).

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Le operazioni di rotazione attorno a un asse verticale, allontanando il becco dalla persona chiamata a versare il sakè, manifestano il fatto che la sakeiera possiede un orientamento sul piano orizzontale: essa possiede un davanti (il becco) e un dietro che gli è diametralmente opposto. Di conseguenza, la sakeiera è dotata anch’essa di un referenziale orientatore tri-rettangolare legato a un soggetto osservatore débrayato. Ad ogni modo, è già possibile osservare che i referenziali immanenti dei due oggetti manipolati non sono messi in gioco allo stesso modo. Gli effetti di senso che ne derivano appariranno nel paragrafo 3. sopra

davanti

davanti asse trasversale dietro sotto

dietro Fig. 12. Referenziale immanente alla sakeiera

3.2.4.3. Topogerarchia dello hassun osservatore lateralizzato g

d

lateralità

sguardo verticale

dietro

trasversalità

davanti

osservatore orientato trasversalizzato

Fig. 13. Modo di proiezione del referenziale del preparatore

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Nell’insegnamento relativo alla preparazione del vassoio per la cerimonia, si impara a guardare il vassoio da un punto situato direttamente sopra di lui (in “veduta dall’alto” secondo la terminologia del disegno in proiezione, ovvero la direzione dello sguardo è supposta essere verticale, cadendo dall’alto verso il basso). Si suppone allora che il suolo sia un foglio di carta su cui si disegna il vassoio e il suo contenuto, e che poi si raddrizzi questo foglio per metterlo in verticale, di fronte all’osservatore la cui direzione dello sguardo è orizzontale. In seguito a queste due operazioni cognitive (descrivibili in termini di cambiamenti del punto di vista, cioè con l’aiuto di debrayage spaziali), la rappresentazione del vassoio è la seguente:

alto

dietro

trasversalità

davanti

sinistra

lateralità

destra

basso

Fig. 14. Referenziale immanente al- Fig. 15. Referenziale proiettato dal prelo hassun (in pianta) paratore sul piano dello hassun

L’alto e il basso, la sinistra e la destra, sono quelli dell’osservatore preparatore: si tratta del referenziale del soggetto cognitivo proiettato sul vassoio, e non del referenziale intrinseco al vassoio studiato in precedenza. Nel piano di rappresentazione, rimane un referenziale immanente agli elementi seguenti (inscritti in corsivo):

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dietro alto

sinistra

lateralità osservatore

destra

trasversalità immanente

basso davanti Fig. 16. Sovrapposizione dei due referenziali sul piano dello hassun

Il nuovo referenziale proiettato sullo hassun, quello dell’osservatore-preparatore, non è inscritto nella materia del vassoio né nel suo modo di fabbricazione. Viene stabilizzato su quest’ultimo solo dalla procedura di proiezione che assicura la messa in correlazione con il referenziale immanente. La direzione prospettica dell’osservatore è resa parallela alla direzione verticale immanente dello hassun, con l’effetto di produrre un parallelismo tra il piano dello hassun e il piano laterale-verticale dell’osservatore. Inoltre la direzione testa-piedi dell’osservatore è resa parallela alla direzione davanti-dietro del vassoio. Di conseguenza le direzioni laterali dell’osservatore e del vassoio diventano parallele. Così, le direzioni dei due referenziali sono parallele due a due, stabilizzando le corrispondenze seguenti: dietro davanti

= lato legato = lato opposto non legato

= alto = basso

La destra e la sinistra sono distinte sotto la direzione della lateralità grazie alla precisione che impone di situare il punto di vista al di sopra del vassoio (un punto di vista situato al di

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sotto invertirebbe la lateralizzazione). Per ogni osservatore inscritto nel quadro del chado (= via del tè), i sensi distinguibili sulle direzioni dello spazio sono investiti positivamente o negativamente conformemente al modello buddista (§ 3.3.3.): i) l’alto è superiore al basso, ii) la destra è superiore alla sinistra, iii) il davanti è superiore al dietro.

Questa norma è fortemente raccomandata per regolare la costruzione dei padiglioni del tè, visto che determinerà gli atti e i gesti che saranno realizzati nello spazio così gerarchizzato. Se si possono osservare padiglioni che si discostano apparentemente da questa regola, è perché hanno messo in scena un dispositivo che permette di ritrovarla negli spazi localizzati dell’azione. Ci ritorneremo nel paragrafo 3.4.3. Sul piano dello hassun, la relazione d’ineguaglianza (iii) inscritta sul referenziale dell’osservatore è sospesa poiché la profondità non è una dimensione pertinente sulla superficie di un vassoio: sussistono solo le prime due. In questo caso, vengono valorizzati i singoli quarti dello hassun attraverso l’incrocio di due categorie pertinenti (i e ii), che producono due posizioni doppiamente marcate (fig. 16): sup. sup. (+ +) in alto a destra, inf. inf. (- -) in basso a sinistra (e altre due posizioni complesse + - e - + che saranno evocate in 3.2.5.). In questi quarti opposti diagonalmente saranno situati, rispettivamente, gli alimenti di montagna e di mare: la localizzazione delle tazze nel referenziale segnala la doppia superiorità della montagna sul mare. Questa gerarchizzazione è conforme all’assiologia dei miti shinto, dove il mare e la montagna appaiono sovente come termini contrari di una opposizione da superare. La montagna, in questo corpus, rinvia al dominio celeste e alla vita, mentre il mare è legato alle profondità e alla morte. Ponendo il cibo della montagna come vegetale, e quello del mare come animale, la tradizione del tè inscrive lo hassun nell’universo dei valori buddisti, dove il cibo animale è considerato come inferiore al cibo vegetale.

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Le due tazze di cibo poste sullo hassun si inscrivono quindi simultaneamente nei due universi di valore concorrenti (shintoista, buddista), su due isotopie differenti (cosmica, alimentare), sempre mantenendo la stessa relazione gerarchica tra i due. La stabilità della relazione tra i termini è una marca che permette di emettere l’ipotesi di essere in presenza di un connettore di isotopie. Se si considera inoltre che i due tipi di cibo saranno congiunti, ci si può fare un’idea del ruolo che andranno a giocare sulle due isotopie, dove la congiunzione dei contrari è posta come programma di base per un gran numero di racconti. Riassumiamo quest’ultima fase dell’analisi: le due tazze di cibo ricevono, hic et nunc, due statuti gerarchici opposti conformi alle assiologie shintoista e buddista, a partire dall’organizzazione spaziale imposta dal referente proiettato dall’osservatore-preparatore. Si potrebbe dire che l’operazione di preparazione installa ogni cosa al suo posto: ciò che è superiore nel posto superiore, ciò che è inferiore nel posto inferiore. Ma c’è di più: se la montagna è superiore al mare, o se il vegetale è superiore all’animale, è in virtù dei valori trascendenti esterni alla cerimonia e applicabili a un gran numero di altre situazioni. Ciò che è in causa nella preparazione, è la realizzazione nel tempo e nel luogo della cerimonia, nella materia stessa dei suoi ingredienti, del sistema dei valori. La confezione degli alimenti, come la loro disposizione sui vassoi, è di conseguenza un atto di comunicazione caratterizzato dalle tre dimensioni della temporalizzazione, della spazializzazione e dell’attorializzazione, realizzato da un soggetto che mette in relazione un sistema trascendente con una realizzazione immanente, in grado di presentare il tutto agli invitati per compiere in seguito altri atti. Nella misura in cui questo atto è di natura cognitiva, e le operazioni materiali sugli oggetti non hanno altro scopo che caricarli di senso, si tratta propriamente di un atto enunciazionale che manipola enunciati sincretici non verbali.

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Nei fatti, attraverso la persona nei panni del preparatore, ci sono delle istanze enunciatrici trascendenti che impongono l’origine degli elementi, le loro trasformazioni, e la loro installazione nello spazio del vassoio. Da quel momento, il vassoio pronto con le tazze di alimenti appare come un enunciato composto, in cui le sequenze di preparazione degli oggetti, tali quali risultano dalla nostra analisi, si iscrivono come enunciati componenti, dotati di tanti attori giocanti il ruolo di soggetti di enunciazione quanti sono i “preparatori”, l’insieme formando un attante collettivo unico manifestante un soggetto d’enunciazione trascendente. La geometria del vassoio, degli alimenti, delle tazze, come le loro materie, le procedure di cottura e di fabbricazione, i modi della manipolazione, sono altrettante marche, inscritte nell’enunciato, di operazioni enunciazionali che mirano a trasformare il mondo e a produrre la sua conformità con un modello stabile predeterminato. Una concezione simile è confermata dalle trasformazioni che subiscono questi stessi enunciati nel corso della cerimonia, e che vedremo in § 3.2.5. Ritorniamo all’organizzazione gerarchica dello spazio del vassoio, struttura che chiamiamo “topogerarchica” per riportarla a un insieme di fenomeni riguardanti una stessa logica, in cui i posizionamenti delle cose servono a marcare le loro mutue relazioni gerarchiche. Tali situazioni abbondano nei rituali sacri e profani, in particolare nelle cerimonie e nelle attività protocollari. Abbiamo mostrato che gli alimenti del mare e della montagna si inscrivono perfettamente nel referenziale proiettato dal preparatore-osservatore, cosa che ci ha condotto verso i fenomeni di enunciazione. Come si iscrivono allora nel referenziale immanente al vassoio? Gli alimenti della montagna si ritrovano a sinistra dell’asse davanti/dietro e vicini al dietro, quelli del mare sono invece a destra e in avanti. Abbiamo visto che il vassoio hassun è simile, se non identico, a un vassoio di offerte shinto. Cercheremo allora di interpretare il referenziale immanente in funzione del sistema

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di valori di questo universo. Nel sistema shinto, la sinistra è superiore alla destra. Questa valorizzazione è manifestata nel nihongi, raccolta dei miti più antichi del Giappone (Aston 1896). Se ne trova attestazione nella corte imperiale, in tutti i santuari shinto, nella gerarchia militare tradizionale, e anche nella maggior parte dei banchetti contemporanei. La si trova anche presso i mongoli e i turchi dell’Asia centrale (Grousset 1936), dove se ne dà una giustificazione: la direzione principale dello sguardo è quella del Sud, là dove si trova il sole benefattore del mezzogiorno. In relazione a questo referenziale di base, il sole che si leva a Est si trova a sinistra: è la direzione del sole nascente, glorioso e pieno di vitalità. Per opposizione, il sole che tramonta all’Ovest, si trova a destra: è la direzione del sole morente ed esausto. L’Est è superiore all’Ovest, conformemente alla “natura delle cose” legate al sole, alla vita e alla morte. Di conseguenza, la sinistra è superiore alla destra. dietro

montagna destra

lateralità shinto

sinistra

mare

davanti Fig. 17. I piatti e il referenziale immanente

Si vede che questa valorizzazione di una direzione laterale in relazione all’altra passa attraverso un’operazione di debraiaggio-embraiaggio: si tratta di proiettare il referenziale del corpo sul cerchio dell’orizzonte per definirvi quattro direzioni cardinali alla maniera del corpo che possiede

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quattro direzioni orizzontali, quindi di re-embraiare sul corpo a partire dalla serie delle corrispondenze: Sud Est Ovest

= davanti = sinistra = destra

= duratività della vita = incoatività della vita = terminatività della vita

in cui l’aspettualizzazione della vita gioca un ruolo preponderante nella determinazione dei valori relativi. Conformemente a questo sistema di valori, ritroviamo, nel referenziale immanente al vassoio, la montagna nella posizione superiore a sinistra e il mare nella posizione inferiore a destra. Rimane tuttavia da rendere conto del fatto che la montagna sia dietro e il mare davanti. Il ricercatore interessato dallo shintoismo non può mancare di studiare i santuari costruiti per le divinità venerate da questa religione. Se ci si interessa all’imbasti-mento dei santuari nei rispettivi siti, si scopre una regolarità che non può risultare dal caso: i santuari si aprono davanti al sud, l’edificio principale si addossa a una montagna o a una collina, davanti alla cinta del santuario passa un corso d’acqua. Ritorniamo al vassoio hassun, e poniamoci al centro conformemente al referenziale immanente (cfr. fig. 18). La direzione dello sguardo “davanti” si trova essere il sud, la sinistra corrisponde all’Est e la destra all’Ovest. Dietro questo punto centrale, si trova la montagna (rappresentata dai suoi cibi). Davanti allo stesso punto centrale, si trova il mare (rappresentato dai suoi cibi). Se si sa che il dio del mare è anche quello delle foci dei fiumi e dei fiumi, riconosciamo sul vassoio hassun una configurazione spaziale figurativa identica a quella dei santuari, con la montagna dietro e l’acqua davanti. Meglio: nello spazio del vassoio, reso geografico, la montagna si trova a Nord-Est del centro. È esattamente la posizione prescritta dalla geomanzia delle tradizioni shintoiste: se volete preservare la vostra costruzione dagli effetti del male, che viene da Nord-Est, scegliete il vostro sito in modo che ci sia in questa direzione una montagna che vi protegga.

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Cielo sopra

Nord dietro Est sinistra

Ovest dietro

davanti Sud

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sotto Terra

Fig. 18. Il referenziale immanente e il referenziale shintoista-geomantico

Nello stesso spazio del vassoio, il mare si trova a SudOvest, ed è la direzione prescritta dalla geomanzia: se, malgrado la montagna guardiana, il male venuto da Nord-Est penetra nella vostra costruzione, arrangiate un’apertura in direzione di Sud-Ovest, affinché esso riesca velocemente sulla sua spinta e senza doversi fermare. Fu così che fu scelto il sito della villa di Kyoto, capitale imperiale, tra il monte Hiei che la salvaguarda a Nord-Est e la baia di Osaka che evacua il male a Sud-Ovest. In virtù delle qualità di questo sito si è rinunciato a spostare la capitale a ogni morte dell’imperatore; Kyoto rimase città imperiale quasi mille anni. L’operazione cha abbiamo descritto, si basa su un debraiaggio: abbiamo delegato un osservatore al centro del vassoio, e vi si è orientato come se si trattasse di uno spazio inglobante, senza tener conto del mutamento di scala. Questa procedura non ha nulla di straordinario per chiunque ha l’abitudine di leggere delle piante di architettura o di urbanistica: è talmente banale che passa inavvertita. La segnaliamo in questo contesto per metterla in parallelo con le altre operazioni di orientamento dello spazio che siamo condotti ad analizzare. Rimane tuttavia che il luogo scelto per situare l’osservatore debraiato non è un luogo qualunque: si tratta del cen-

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tro del vassoio, e questo centro è vuoto. Correzione: non è vuoto che all’inizio della sequenza dello hassun. Alla fine della sequenza, il teishu vi raggruppa ciò che rimane dei cibi della montagna e del mare (cfr. § 3.1.). Abbiamo dimostrato (cfr. capitolo secondo) che la figura, del resto, gioca un ruolo fondamentale nella cerimonia del tè (in particolare nella costruzione del valore “purezza” e della sua aspettualizzazione attraverso gli spazi del giardino e del padiglione). Nella preparazione della sequenza dello hassun, il preparatore del vassoio si prende cura di mettervi una parte di ciascun cibo per ogni invitato, più una porzione per il teishu e una porzione in soprannumero perché rimanga nel vassoio dopo il servizio. Quando alla fine della sequenza si riuniscono queste parti restanti, la riunione dei cibi opposti secondo cinque categorie distintive non può essere denudata di senso, soprattutto dal momento in cui ha luogo nel centro vuoto del vassoio, centro in relazione al quale le direzioni prendono il proprio senso. Non è tutto: dopo quest’operazione, il teishu occupa i due quarti del vassoio rimasti vuoti fino a quel momento: posiziona la coppa comune del sakè, con il suo supporto laccato, nel quarto Nord-Ovest, e i cibi che gli sono stati offerti su di un foglio piegato, e che non ha consumato, nel quartiere Sud-Est. Il teishu riparte quindi, alla fine della sequenza, con un vassoio profondamente modificato: i quarti che furono occupati ora sono vuoti, e viceversa, come per il centro. 3.2.5. Le trasformazioni dell’enunciato sincretico Il sapiente edificio del piatto farcito, che rappresenta all’inizio della cerimonia l’equilibrio dei valori del mondo secondo i due punti di vista shintoista e buddista, si trova interamente rovesciato negli ultimi istanti della sequenza. Al centro, si trovano riuniti gli estremi che furono separati: la montagna e il mare, il vegetale e l’animale, l’alto e il basso, il cotto e il crudo, il soffice e il croccante, il secco e l’umido, il geometrico e il non-geometrico, il brillante e l’opaco, il chiaro e lo scuro. Nel frattempo, ogni invitato ha

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consumato le due specie. Durante il corso della cerimonia del tè è anche accaduto qualcosa di straordinario: l’inversione dei ruoli del padrone di casa e dei suoi visitatori. Generalmente, il teishu riceve i suoi invitati e fa lui stesso il servizio. Ora, la sequenza dello hassun è l’unica in cui tutti gli invitati servono. Meglio: normalmente il primo invitato parla e agisce a nome di tutti. Questa regola si verifica anche qui quando è lui a invitare il teishu a bere, ed è lui a servirgli i cibi del mare e della montagna. Ma in questa sequenza, ognuno degli invitati, al proprio turno, serve il sakè al teishu. Il servizio non è a senso unico: tra il teishu e ciascun invitato, c’è uno scambio di sakè, in unica coppa per tutti, e a partire da un’unica azione (visto che lo scambio implica la consumazione) compiuta da più attori che acquistano per ciò stesso lo statuto di attante collettivo. Se i visitatori riguardano tutti un’unica classe, già costituita in attante collettivo in una fase anteriore della cerimonia, il gruppo dei visitatori si oppone al teishu come il polo contrario nella categoria invitante/invitato. La loro riunione in attante collettivo è quindi, anch’essa, una congiunzione dei contrari. Notiamo che la congiunzione degli attori umani in attante collettivo è inquadrata dalla congiunzione del mare e della montagna. Lo scambio del sakè è preceduto dalla riunione, su di un foglio di carta che fa ufficio di piatto, dei cibi del mare e della montagna destinati al teishu. Questa congiunzione è realizzata dal primo invitato. Lo scambio è seguito dalla riunione, al centro del vassoio, dei cibi del mare e della montagna. Questa seconda congiunzione è realizzata dal teishu. Di conseguenza, la riunione del mare e della montagna è realizzata contemporaneamente dagli invitati e dal teishu: gli attori umani formano un attante collettivo non solamente grazie alla consumazione del sakè (congiunzione degli attori umani con il liquido), ma anche tramite la riunione dei contrari (operano insieme, e nello spazio visibile, la

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congiunzione dei due solidi che hanno consumato nella successione). In termini cattolici, si potrebbe dire che fanno comunione sotto le due specie. Questo riferimento alla religione cristiana non è balzano: diversi indici (modo di manipolazione del fazzoletto purificatore, genuflessione in risposta al colpo di gong…) concorrono a mostrare che Sen no Rilyu ha integrato sapientemente degli elementi cristiani nella sua sintesi delle tradizioni anteriori alla cerimonia del tè. Il fine perseguito con una simile operazione, per come è stato estratto dall’analisi, sarà la congiunzione delle visioni religiose che conosceva, in un termine sincretico che rappresenterebbe l’armonia dell’universo, delle idee, degli uomini e delle cose. Ritorniamo alle marche di congiunzione dei contrari: il foglio con il contorno di mare e di montagna (destinato al teishu), i resti riuniti al centro, come l’unica coppa utilizzata per lo scambio di sakè, si ritrovano sul vassoio alla fine della sequenza, disposti nel modo seguente: - davanti e a sinistra, i cibi del teishu sul loro foglio; - dietro e a destra, la coppa sul suo supporto; - al centro e senza supporto, i resti riuniti. Questi tre termini formano una linea diagonale, quella delle influenze benefiche definite dalla geomanzia nel referenziale cosmologico e proiettate sul vassoio. I quarti che erano pieni, e che si ritrovano svuotati, testimoniano della sparizione dei contrari. Il centro che si trovava, quando era vuoto, protetto dal male, riceve il termine complesso che rappresenta la sintesi dei termini opposti, la totalità completa, una figura dell’universo globale. Lo stesso centro si trova inquadrato dagli strumenti della costituzione dell’attante collettivo umano, gli oggetti-supporto dell’azione creatrice dell’unità e raffigurante la linea delle influenze benefiche. Nel suo stato finale, il vassoio hassun porta le marche delle trasformazioni che hanno luogo durante la sequenza. A posteriori, è possibile vedere che il primo stato del vassoio asseriva lo stato diviso e separato delle cose, per

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far sì che l’azione dei partecipanti alla cerimonia possa esercitarsi e instaurare l’azione unificatrice sul mondo degli uomini e delle cose. Ancora di più: all’inizio, il sakè e il vassoio erano separati tra la mano destra e la sinistra del teishu; alla fine, la coppa del sakè si unisce al vassoio, testimoniando dell’indissociabilità degli alimenti liquidi e degli alimenti solidi, come si manifesta lungo l’intera cerimonia, sia a livello di pasti che a livello di consumazione dei tè densi e leggeri. In termini semiotici, questa indissociabilità equivale a una mutua presupposizione manifestata attraverso tutto il corpus: generalmente, l’insieme degli oggetti alimentari consumati dagli invitati nel corso della cerimonia si raggruppa nella coppia solido-liquido, senza alcuna eccezione. Ancora meglio: l’analisi delle sequenze permette di estrarre una regolarità supplementare che si sovrappone al vincolo della co-presenza solido-liquido: in tutta la prima parte (= shoza), i liquidi precedono i solidi; in tutta la seconda parte (= goza), i solidi precedono i liquidi. Non sarà inutile ricordare che tutta la cerimonia è organizzata “per bere una tazza di tè”, e che il pasto che precede, lo hassun, i dolci e tutto il resto non sono che elementi destinati a preparare i partecipanti a questa consumazione maggiore, per poi prepararli a ritrovare il mondo ordinario dopo aver bevuto il tè. A partire da questa regola di mutua presupposizione, si può render conto dell’intrico del servizio del sakè e degli alimenti del mare e della montagna: riprendendo la descrizione del paragrafo 1 fase per fase, si possono ritrovare i sintagmi stabili “liquido precedente il solido” ripetuti per ciascun invitato, con un’unica eccezione: il teishu serve i piatti della montagna al primo invitato prima di servirgli il sakè. Una tale eccezione non può essere dovuta al caso, e richiede un’interpretazione. Un primo elemento è fornito dal modo di circolazione della sakeiera: quest’ultima è posta vicino al secondo invitato all’inizio della sequenza dello scambio di sakè; di conseguenza, il teishu non può prenderla per offrire il sakè al primo invitato, dato che deve

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versare il sakè al secondo invitato immediatamente dopo aver ricevuto il sakè da quest’ultimo. Questo obbligo, confermato dal modo di operare utilizzato riguardo a ogni invitato, permette di estrarre una prima regola: lo scambio del sakè non tollera nessuna interruzione dell’azione tra le persone che la compiono. Nessuna parola viene scambiata, e l’inversione dei ruoli avviene in continuità. Questo modo di fare è osservabile negli altri riti giapponesi di scambio del sakè, che servono in generale a sancire un’alleanza (politica, commerciale, o personale come il matrimonio). Bisogna ancora render conto del fatto che la sakeiera è posta vicina al secondo invitato e non al primo, che è la persona che ha formulato l’invito nei riguardi del teishu. Questa procedura deriva da due cause: i) delegando il servizio del sakè al secondo invitato, il primo ospite manifesta hic et nunc che l’insieme degli invitati forma già un attante collettivo, che si manifesta qui in forma sintagmatica: uno degli invitati formula l’invito al teishu, tutti gli altri la realizzano. ii) Con questa delega, il primo invitato è liberato per realizzare la congiunzione degli alimenti solidi del mare e della montagna destinati al teishu, permettendoci così di inquadrare la sequenza di congiunzione degli attori umani tramite le operazioni di congiunzione degli attori alimentari (cfr. supra). Osserviamo qui che il teishu non mangia gli alimenti che gli vengono serviti. Questo non costituisce una vera rottura della regola che afferma la mutua presupposizione degli alimenti solidi e liquidi: infatti, questa regola non riguarda che gli invitati. Come ogni legge, essa è definita dal suo universo di validità e dalle persone cui si applica. Non prevale contro un’altra regola della cerimonia: il teishu non mangia in presenza dei suoi invitati. Nel corso del Kaiseki, mangia nella sua cucina (= mizuya). Di conseguenza, il fatto di accettare (con un saluto, e dal fatto che prende il foglio preparato per lui) i cibi che gli sono proposti senza consumarli, serve a manifestare, hic et nunc, questa regola negativa che gli impone di non mangiare. In questo, la procedura obbedisce alle regole generali della negazione non-verbale (cfr. capitolo terzo).

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In secondo luogo, il fatto di conservare questo foglio guarnito permette di manifestare, sul vassoio, le azioni congiuntive dei contrari realizzate dal primo invitato e dal teishu (cfr. supra). Un ultimo elemento permette di rendere conto della “tessitura” dei servizi del sakè e dei cibi: l’analisi dell’insieme del Kaiseki permette di estrarre una regola d’ordine sugli alimenti solidi che sono serviti. Nel corso dello shoza (o prima assise), gli alimenti sono serviti in ordine crescente di carica energetica (in termini di IN e di YO, cioè di Yin e di Yang secondo la terminologia cinese). Di conseguenza, gli alimenti del mare devono essere serviti prima degli alimenti della montagna, come è il caso: si vede effettivamente il teishu cominciare a servire i piatti di mare (preceduti dalla loro coppa di sakè) poi quelli di montagna (preceduti dalla loro coppa di sakè). Ed è proprio la coppa che precede i piatti di montagna a dare l’occasione per lo scambio del sakè. Con questi ultimi elementi, possiamo esplicitare completamente l’enunciato sincretico costituito dalla circolazione degli oggetti-attori manipolati nel corso della sequenza. Rimane vero che questa spiegazione è stata fatta in termini figurativi, per facilitare la comprensione del lettore poco familiarizzato con la cerimonia del tè, e forse poco familiarizzato con la semiotica. Non si può concludere questo paragrafo senza giustificare lo statuto semiotico di enunciato che abbiamo attribuito alla sequenza nella sua totalità, così come a certe sue componenti, sia preparatorie che realizzate in presenza. Da un punto di vista semiotico, ogni oggetto significante che manifesta delle regolarità può essere considerato come un testo, ovvero come un processo riguardante un sistema semiotico particolare. Questa posizione è ampiamente esplicitata da L. Hjelmslev, e non è compito nostro ritornarci. Se, all’interno dell’approccio semiotico, si opta per l’analisi del discorso, una qualunque sequenza significante appare da quel momento come un enunciato, nella misura in cui è “ogni grandezza provvista di senso, che rilevi (…) del testo (…) precedentemente a ogni analisi”

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(Greimas, Courtés 1979, p. 123). Al posto dei puntini messi in questa citazione, gli autori hanno inscritto dei termini che rinviano al linguaggio verbale e/o scritto, luogo privilegiato dell’elaborazione dei concetti semiotici. Seguendo Hjelmslev, ci proponiamo di generalizzare la semiotica a tutte le sostanze dell’espressione, e manteniamo la definizione dell’enunciato nella sua accezione più generale. A partire da questa definizione, la sequenza che ci ha impegnato, può legittimamente essere considerata come un enunciato. Meglio: abbiamo mostrato che essa manifesta, tramite le operazioni di preparazione degli oggetti alimentari e dell’oggetto vassoio hassun, le procedure di “messa in discorso” caratteristiche delle operazioni di enunciazione, intese come il passaggio dal sistema al processo. Infine, da un punto di vista sintattico, è facile vedere che le trasformazioni da noi esplicitate, sia quelle della preparazione presupposte dalla sequenza che quelle realizzate in præsentia, possono essere sottoposte a un’analisi attanziale che caratterizzi delle relazioni di giunzione tra attanti, come delle trasformazioni delle dette giunzioni. Non riprenderemo in questi termini la totalità dell’analisi, dato che ci intratterrebbe in prolungamenti considerabili. Ci accontenteremo di citare un certo numero di casi caratteristici e convincenti prima di passare al seguito del nostro proposito, che è quello di esplorare la dimensione enunciazionale sincretica manifestata nel nostro corpus. Esempio 1: se i piatti dello hassun ricevono, nel corso della cerimonia, la qualifica di “non pasti” seguita dalla qualifica “accompagnamento del sakè”, è per le seguenti procedure sintagmatiche: i) Il pasto kaiseki è annunciato dal teishu prima di essere servito, allo stesso modo che la sua fine; il teishu, dopo essersi eclissato per mangiare, ritorna dicendo di aver terminato il suo pasto. Il suo ritorno è preceduto da un segnale emesso da tutti gli invitati allo stesso tempo: fanno cadere i bastoncini simultaneamente nel vassoio, producendo un rumore caratteristico che preavvisa il teishu che ora può

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aprire la porta e ritornare nel chashitsu (= sala della cerimonia). Tutto ciò che verrà portato dopo questa marca di delimitazione apparterrà al “non-pasto” della cerimonia. ii) Il sakè è servito prima di ogni piatto dello hassun. Quindi il teishu serve i piatti mentre l’invitato beve la sua tazza di sakè: l’ordine del servizio e la concomitanza /servizio del solido/-/consumazione del liquido/ caratterizzano i piatti in quanto accompagnamento della bevanda. A queste due procedure in præsentia si aggiunge una qualità proveniente dalle procedure di preparazione in absentia: i piatti sono tagliati con dimensioni inferiori a quelle delle porzioni di pasto appena avvenuto: non sono delle porzioni da pasto ma porzioni di accompagnamento della bevanda. Nei tre casi, è il teishu che gioca il ruolo di attante soggetto realizzante le trasformazioni che congiungono gli oggetti con i valori descrittivi in questione. Esempio 2: se il vassoio dello hassun appare “nudo”, è perché è stato preceduto da una serie di vassoi laccati. Non sarà seguito da nessun altro vassoio in legno grezzo. Tutti gli altri precedenti piatti venivano posti su dei recipienti, i quali erano posti sul loro vassoio rispettivo. I piatti di montagna e di mare sono posti direttamente sul legno. Si può riprendere la serie delle opposizioni distintive inventariate in precedenza per vedere che l’incatenamento sintagmatico consiste col cominciare a porre, nel pasto kaiseki, i termini della cucina coltivata, prima di introdurre i termini di negazione che asseriranno la natura degli oggetti e degli alimenti. Abbiamo là una procedura narrativa classica la cui dinamica è perfettamente descrivibile sul quadrato semiotico. Esempio 3: lo hassun è condotto con i valori contrari disgiunti dal loro investimento figurativo negli alimenti spazialmente separati. Uscirà con questi stessi valori congiunti dalla riunione figurativa delle specie alimentari.

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Il soggetto operatore della congiunzione è un attante collettivo che riunisce il teishu e i suoi invitati. Questo enunciato non si accontenta di manifestare le trasformazioni dell’oggetto-valore: manifesta anche le trasformazioni degli attori-soggetti. Esempio 4: l’insieme della sequenza analizzata qui (come per altro la cerimonia del tè nel suo insieme) appare come un rituale profano dalle numerose connotazioni religiose, che soddisfa la struttura generale dei rituali (cfr. Hammad 1984, p. 230) in cui la situazione polemica iniziale è negata per asserire in seguito il contratto tra gli attanti. Nella sequenza dello hassun, abbiamo visto a più riprese la negazione dell’opposizione dei contrari a livello di attorioggetti e a quello degli attori-umani, l’insieme delle operazioni essendo in grado di produrre la congiunzione a livello di attori-oggetti (e quindi a quello dei valori descrittivi profondi), a livello degli attori-umani-soggetti (e quindi a quello dei valori modali), sia infine a quello degli attori-oggetti-e-umani poiché c’è congiunzione per consumazione, raffigurante l’unione dei partecipanti della cerimonia con la totalità della natura rappresentata sul vassoio. Il programma narrativo di base di questa sequenza sarà quindi la congiunzione universale in un’armonia contrattuale. 3.3. Operazioni enunciazionali immanenti 3.3.1. Marche dell’enunciazione enunciata Dato che abbiamo a che fare con un corpus sincretico in cui il linguaggio verbale non fa che partecipare a un atto di comunicazione complesso, non è proprio il caso di restringerci a ricercare pronomi personali e deittici che marchino l’intervento del soggetto enunciatore nel suo enunciato. Senza riprendere la totalità dell’argomentazione esposta nel nostro articolo L’enunciazione: processo e sistema (ivi, capitolo ottavo), approfittiamo dell’occasione

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per ricordare che oggi non disponiamo di criteri esatti, situati sul piano dell’espressione linguistica che permettano un riconoscimento formale e automatico degli elementi enunciazionali del discorso verbale. Ci siamo serviti di questa constatazione, come di altri argomenti sviluppati nel detto articolo, per giungere alla seguente conclusione: se gli analisti sono capaci di non servirsi di questi criteri ma di arrivare comunque a fare delle analisi dell’enunciazione, è perché lo stesso concetto di enunciazione, opposto a quello di enunciato, non riguarda il piano dell’espressione. Sembra conveniente allora di situarlo sul solo piano del contenuto. Ammetteremo allora questa tesi come punto di partenza, e svilupperemo la nostra analisi a partire dai soli elementi del contenuto e dalle loro trasformazioni. Non c’è bisogno di dire che ci appoggeremo su degli elementi dell’espressione sincretica per riconoscere le articolazioni del contenuto, ma prenderemo i criteri enunciativi ed enunciazionali solo sul piano del contenuto. I risultati della nostra analisi serviranno a convalidare l’approccio: se appariranno come soddisfacenti, varranno come convalida positiva e a posteriori della tesi. Se non sono convincenti, significherà che l’argomentazione della prova non è stata persuasiva, cosa che non necessariamente implica la falsità della tesi. Sul piano del contenuto, le operazioni di enunciazione presuppongono tutte degli embraiaggi-debraiaggi che coinvolgono una qualunque delle grandezze ego, hic, nunc o una loro combinazione. Partiremo da questo criterio per esplorare certe procedure enunciazionali messe in opera nella sequenza che ci riguarda. 3.3.2. Gli spostamenti Consideriamo in primo luogo gli spostamenti della sakeiera nel suo periplo propri allo scambio del sakè. La sequenza ristretta di questo scambio comincia con il gesto seguente: il teishu pone la sakeiera vicino al secondo invitato, girandola in modo da allontanarne il becco da quest’ultimo.

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Così facendo, si indirizza non-verbalmente al secondo invitato, significandogli di star attendendo da lui che serva il sakè. Gli spostamenti della sakeiera e la determinazione della sua nuova posizione sono quindi portatori di una modalità virtualizzante trasmessa al secondo invitato. Nella misura in cui tutta la cerimonia è regolata come un rituale (ciò che si trova a essere seguendo la nostra dimostrazione), questa modalità virtualizzante è riconoscibile come quella del dovere. La rotazione impressa alla sakeiera la presenta comodamente al secondo invitato: combinata con la posizione terminale della traslazione, rende il secondo invitato capace di prenderla e di versare il sakè al teishu (attualizzazione). Di conseguenza, lo spostamento della sakeiera, analizzato come combinazione di una traslazione e di una rotazione, è costitutivo della competenza del secondo invitato (virtualizzazione secondo il dovere e attualizzazione secondo il potere) nel programma di versare il sakè. Questo risultato è già interessante in sé. Ma non è tutto: l’operazione implica un triplo debraiaggio: 3.3.2.1. Il teishu cede il suo ruolo di soggetto operatore, e prepara il suo passaggio allo statuto di soggetto di stato che si congiungerà al sakè. Si tratta di un debraiaggio attanziale caratterizzato. 3.3.2.2. Il topos (cfr. Hammad 1980a) del soggetto d’azione cambia bruscamente: il soggetto operatore non è più nella posizione dell’attore-teishu ma in quello dell’attoresecondo invitato. Questo cambiamento di luogo avviene estemporaneamente, con la semplice commutazione dei ruoli attanziali e lo spostamento del carico modale. Non c’è alcuno spostamento pragmatico dell’attante-soggetto. Si tratta di un debraiaggio spaziale caratterizzato. 3.3.2.3. Il secondo invitato riceve, con lo spostamento descritto della sakeiera, un atto di comunicazione che lo prega di versare il sakè dal momento in cui il teishu sarà in

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possesso della coppa. La sua azione succederà quindi all’azione del teishu che avvicina la sakeiera e a quella concomitante del primo invitato che fornisce la tazza. C’è quindi un debraiaggio temporale che riguarda l’attante-soggetto. Nella misura in cui c’è continuità dell’azione senza rottura di ritmo e senza tempi morti, si potrebbe argomentare che il “tempo dell’azione” è preservato, e che non c’è un debraiaggio temporale in questo caso. L’esito della questione si basa sul termine di referenza scelto per definire il debraiaggio: se si tratta dell’azione, si può effettivamente concludere che ci sia continuità e quindi assenza di debraiaggio; di converso, se si tratta del “tempo dell’attore soggetto”, allora c’è un debraiaggio. Lasciamo questa questione a un ulteriore dibattito, visto che l’esito non tocca le conseguenze che andremo a trarre. Il debraiaggio che abbiamo appena reperito è certo su almeno due dimensioni discorsive: quella dell’attorializzazione e quella della spazializzazione. In più è fatto da un soggetto manipolatore la cui azione costituisce l’enunciato: è quindi il fatto di un soggetto enunciatore che instaura un altro attore come soggetto di un altro enunciato. Come per i matematici, saremo tentati di aggiungere: c.v.d. Infatti ciò che abbiamo dimostrato formalmente, a partire dalla definizione di enunciazione (cfr. Greimas, Courtés 1979, pp. 126-128), è che ci sono buone ragioni per parlare di enunciazione a proposito di un corpus non verbale. Non analizzeremo l’insieme delle operazioni enunciazionali reperibili nella sequenza di cui ci occupiamo. Il metodo che abbiamo or ora illustrato può facilmente essere applicato a un gran numero di casi simili tra quelli che abbiamo esplicitato precedentemente in termini non-formali. Prima di passare a casi di complessità superiore, daremo, dopo l’esempio precedente dove l’atto enunciazionale riguardava la dimensione pragmatica, un esempio di atto enunciazionale destinato all’enunciatario che interpreta il senso dell’enunciato sincretico prodotto, e che conviene situare sulla dimensione cognitiva.

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Quando il teishu entra nel chashitsu (= sala della cerimonia) portando la sakeiera e il vassoio hassun, porta la prima nella mano destra e la seconda nella sua mano sinistra. Se si adotta un unico punto di vista, per esempio quello della lateralizzazione buddista, si concluderà che il sakè è superiore ai cibi di mare e di montagna. Invece abbiamo visto con quale cura siano preparati questi ultimi, i valori descrittivi e modali di cui sono investiti. Abbiamo visto anche che la costituzione dell’attante collettivo, fine ultimo della sequenza, passa attraverso le due specie (liquido e solido) allo stesso titolo. Infine, appena prima dell’uscita con il vassoio trasformato, il teishu si prende cura di posizionare l’unica tazza sul vassoio in posizione simmetrica con i cibi ora congiunti di mare e montagna. Tutte queste operazioni si confermano e danno la prova, per ragioni di omogeneità interna, che il sakè e i cibi solidi sono posti su un uguale piedistallo. Di conseguenza, il fatto di portarli in due mani differenti, e in quel modo, non può ricondursi a una relazione di ineguaglianza che contraddirebbe tutto il resto. La situazione sarebbe parimenti non sostenibile se si adottasse il punto di vista shintoista, secondo il quale la sinistra sarebbe superiore alla destra. Ne risulta che l’ipotesi di un punto di vista unico che sia uno dei due già visti è inaccettabile: non c’è un punto di vista unico che gerarchizzi i due enunciati materiali che sono la sakeiera e il vassoio hassun. Bisogna elaborare un’altra ipotesi che possa rendere conto dell’osservabile. Data la dinamica generale della cerimonia nella sua totalità, e della sequenza dello hassun in particolare, che mira a instaurare la congiunzione dei contrari, possiamo emettere l’ipotesi seguente: il referenziale buddista, in cui la destra primeggia sulla sinistra, e il referenziale shintoista, dove vale l’inverso, sono due sistemi contrari, e il teishu si propone di congiungerli. Per questa ragione porta il vassoio hassun, il quale è fortemente marcato come riferentesi allo shintoismo (tramite le procedure di fabbricazione e l’uso nei santuari), nella mano sinistra, che è la superiore in questo sistema. Simmetricamente, tiene la sakeiera, il cui contenuto è uno degli ingredienti or-

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dinari delle offerte buddiste, nella mano destra, che è la mano superiore in questo sistema. Così facendo, proclama di possedere i due sistemi allo stesso tempo, a partire da un punto di vista comune che possa metterli d’accordo. L’azione che svilupperà – come mostreremo – realizzerà questo programma. Prima di passare all’analisi, marchiamo un piccola sosta per segnalare che questo “proclama d’intenzioni” è un atto di linguaggio cognitivo, perfettamente assimilabile a un atto enunciazionale, e diretto verso l’enunciatario-interprete, sia che quest’ultimo ruolo sia manifestato da uno qualunque degli invitati sia da un analista come noi. 3.3.3. La correlazione dei referenziali del manipolatore e degli oggetti Gli spostamenti della sakeiera e del vassoio tra i protagonisti chiamati a servirsene sono costruiti allo stesso modo: ogni volta siamo in presenza di una traslazione seguita da una rotazione. Su questo fondo comune che rende i due enunciati materiali comparabili, si possono tuttavia far apparire delle differenze: lo hassun è sempre posizionato in modo che la sua “faccia” sia di fronte (nel senso etimologico: vis-à-vis, faccia a faccia) alla persona che è chiamata a servirsene. Se noi rappresentiamo ciascuna di queste istanze con una freccia orientata che vada da dietro verso davanti, allora abbiamo le due situazioni ricorrenti seguenti:

manipolatore & hassun

manipolatore & sakeiera

Fig. 19. Orientamento degli sguardi del manipolatore, dello hassun e della sakeiera

Il semplice esame di questi schemi potrebbe condurci a concludere che c’è conformità degli orientamenti nel caso della sakeiera e non conformità nell’altro caso. Non si trat-

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terà comunque che di conformità grafica, non direttamente interpretabile in termine di relazione soggetto-oggetto. Bisogna allora concludere che questa rappresentazione, per quanto sia suggestiva, non ci dà la chiave del problema. Bisogna allora introdurre altri dati. Abbiamo mostrato, nell’analisi dell’enunciato, che la direzione dietro-davanti riguarda la problematica più generale dei referenziali orientatori, e ci siamo dati la pena di costruire dei referenziali “immanenti” per lo hassun e per la sakeiera, a partire dagli spostamenti di questi oggetti. Cosa diventano i referenziali nella problematica di cui ci stiamo occupando, che è quella della relazione di orientamento in rapporto al soggetto manipolatore? Un primo elemento di risposta risiede nell’osservazione seguente: nella misura in cui i referenziali immanenti sono solidali al loro oggetto, si spostano con lui. In secondo luogo, abbiamo mostrato che questi referenziali risultano, come tutti i referenziali orientatori, da una operazione di debraiaggio che delega un attante osservatore per posizionarlo all’interno dell’oggetto (per una dimostrazione più sviluppata, vedi cap. 11). Basta infine osservare che il soggetto manipolatore dispone anche lui di un referenziale orientatore e che la posizione dell’oggetto in relazione al manipolatore si riconduce a una messa in relazione di due referenziali orientatori. Da cui la rappresentazione seguente:

sakeiera

hassun

manipolatore

manipolatore

Fig. 20. Rappresentazione “in situazione” dei triedri referenziali completi del manipolatore, dello hassun e della sakeiera

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Se l’interpretazione di questi schemi presenta qualche difficoltà per il lettore non familiarizzato alle rappresentazioni grafiche dei triedri trirettangoli, si può semplificare il problema facendo economia della direzione verticale, che è invariante in tutti i casi di cui ci occuperemo qui. Questa stabilità risulta dalla costrizione della pesantezza, accettata, non rimessa in causa, e messa a profitto nelle azioni della sequenza sincretica analizzata. Otteniamo allora una rappresentazione piana dove sussistono le direzioni prospettive e trasversali di ognuno dei termini in presenza. hassun

manipolatore

sakeiera

persona x

manipolatore

persona y

Fig. 21. Proiezione in piano della figura 20

Fig. 22. Situazione supplementare: faccia a faccia di due persone

Quali sono gli effetti di senso investiti in queste situazioni e che la rappresentazione grafica permette di cogliere meglio? Abbiamo giustapposto gli schemi correspondenti a tre casi di co-presenza di referenziali: hassun/manipolatore; sakeiera/manipolatore; persona X/persona Y. Questo mette in rilievo una somiglianza tra i primi due casi, opponendoli al terzo e ultimo: la messa in relazione del referenziale del manipolatore con uno qualunque dei due oggetti manipolati fa apparire una conformità di lateralizzazione. In altri termini: le direzioni laterali valorizzate come superiori presso il manipolatore e il manipolato sono parallele e

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orientate nello stesso senso. Tutto ciò malgrado la situazione di frontalità dell’uno (lo hassun) e di schiena dell’altra (la sakeiera). Nel terzo caso, quello del faccia a faccia di due persone, le lateralizzazioni dell’uno e dell’altro sono non conformi. Interpretiamo quindi questa constatazione. La conformità che abbiamo reperito si riproduce a ogni situazione di manipolazione, qualunque sia la posizione spaziale dell’insieme, e qualunque sia l’attore che gioca il ruolo di manipolatore. Ne derivano due conseguenze: i) c’è una relazione di presupposizione: il manipolatore può manipolare l’oggetto solo se le lateralizzazioni sono conformi. La conformità delle lateralizzazioni appare allora come costitutiva delle competenze sia del soggetto che dell’oggetto. Si tratta di una competenza attualizzante, secondo il potere; ii) gli spostamenti composti di una traslazione e di una rotazione mirano ogni volta a ricreare la conformità delle lateralizzazioni. Questa situazione appare da questo momento come un oggetto di valore nei ricorrenti programmi d’uso. Abbiamo appena mostrato, nel paragrafo precedente, che questi programmi erano enunciazionali. Abbiamo allora a che fare con uno dei casi di “composizione” dei programmi enunciativi ed enunciazionali. Prima di proseguire il ragionamento, è necessario assicurarsi dello statuto dei referenziali messi in relazione: abbiamo mostrato che i referenziali dello hassun e della sakeiera erano “immanenti”, sarebbe a dire che potevamo costruirli a partire dalle trasformazioni che avvenivano nel corso della sequenza. Quanto al referenziale del manipolatore, ci siamo accontentati di dire che è “buddista”, con una destra dominante. Così facendo, l’abbiamo rinviato all’esterno del corpus, a un sistema trascendente di valori. Nella misura in cui ci interessa la distinzione immanente/trascendente, utilizzata qui in senso semio-narrativo, ci conviene discernere meglio lo statuto del referenziale del manipolatore. Nelle sale da tè “normali”, ovvero costruite conformemente alle raccomandazioni della tradizione, e simili a

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quelle delle figure 1-4, la superiorità della mano destra è inscritta nell’architettura, e queste sale sono chiamate “mano destra”. Non entreremo nel dettaglio delle regole imposte all’architettura del tè. Ci accontenteremo di dire che in tali luoghi, il teishu e gli invitati sono tenuti a privilegiare la parte destra del loro corpo in ogni loro atto: prendere gli oggetti con la destra, alzarsi sulla gamba destra e cominciare a camminare con il piede destro quando vanno in una “direzione ascendente”, attraversare le frontiere dei tatami col piede destro se vanno in una direzione ascendente, ivi comprese le attraversate delle porte. Parimenti, ci si alzerà sulla gamba sinistra, si partirà con la sinistra, e si attraverserà con il piede sinistro quando ci si deve spostare in una “direzione discendente”. Poco importa l’intricarsi di questi atti. Li evochiamo solamente per dire che nei luoghi conformi alla tradizione, il teishu e i suoi invitati manifestano nella loro gestualità e nei loro spostamenti, hic et nunc, il primato della destra sulla sinistra. A questo titolo, il loro referenziale a destra dominante è un referenziale “immanente”. Ne risulta che le interrelazioni dei referenziali del manipolatore e del manipolato mostrano bene la dimensione dell’immanenza che stiamo cercando di analizzare in questo paragrafo. Riprendiamo la questione della conformità delle lateralizzazioni. L’apparizione di una direzione superiore comune al manipolatore e al manipolato equivale ad asserire l’esistenza di un’istanza Destinante comune ai due e in grado di valorizzare la detta direzione indipendentemente dall’una e dall’altra. In relazione al manipolatore e al manipolato, che sono delle istanze immanenti, l’istanza Destinante è trascendente. Essa non si manifesta dentro la sequenza se non tramite procedure indirette come quelle che stiamo studiando (conformità delle lateralizzazioni). Se il manipolatore e il manipolato rinviano a un’istanza Destinante comune, sono in situazione contrattuale, poiché la loro situazione presuppone dei valori modali virtualizzanti comuni. Di conseguenza, ciò che è rilevato dagli schemi di co-presenza dei referenziali, è la situazione contrattuale

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del manipolatore e del manipolato. Abbiamo visto che lo hassun e la sakeiera non possiedono dei referenziali immanenti identici, poiché differiscono per la loro lateralizzazione. Se la situazione è contrattuale nei due casi, è perché non sono manipolati nello stesso modo: uno è manipolato in posizione di faccia a faccia, l’altro è manipolato dando le spalle. Ne concluderemo che, da un punto di vista enunciazionale, che sarà poi quello della concezione delle operazioni della cerimonia (cioè quello di una enunciazione globale che si prende carico dell’insieme delle azioni e degli elementi della cerimonia in quanto enunciato sincretico), la differenza di questi modi della manipolazione è giustamente messa a punto per preservare la situazione contrattuale nei due casi. Da questo momento la differenza tra le manipolazioni dello hassun e della sakeiera riguarda una finalità enunciazionale identificabile. E nella misura in cui il programma contrattuale del rituale è ammesso come un dato primitivo, questa finalità acquisisce, al di là del suo statuto descrittivo, un carattere esplicativo. Se noi possiamo interpretare in questo modo la conformità delle lateralizzazioni, rimane da spiegare l’insieme dei fenomeni di faccia a faccia e di faccia vs. di spalle, passati in secondo piano. Si impone una precauzione: l’importanza presa dalla questione della lateralizzazione è forse locale, e il primato loro accordato in relazione alle questioni del faccia a faccia potrebbe essere dipendente dal corpus scelto. Sono necessarie altre analisi prima di azzardare una generalizzazione. Il problema sarà in questo caso di restringere il corpus visto che la problematica è presente in quasi tutte le culture, andando dalla scena del giudizio dei morti nell’antico Egitto fino ai rituali politici contemporanei, e passando per le scritture delle religioni monoteiste e gli auguri indo-europei. Bisognerà consacrare uno studio speciale a questo soggetto. Ritorniamo alle figure 19-22. L’interpretazione della lateralizzazione può offrirci un modello: nel caso della mani-

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polazione della sakeiera, c’è conformità negli orientamenti dello “sguardo”. Si può dunque evincere la presenza di un destinante comune alla sakeiera e al manipolatore. Questa conclusione concorda con un altro risultato di cui già disponiamo: la sakeiera, come il manipolatore, obbedisce al modello buddista del referenziale. Questo risultato locale concorda con gli altri due precedenti (appartenenza del referenziale della sakeiera al sistema buddista; l’omogeneità degli orientamenti rinvia a un comune destinante) e la loro omogeneità rinforza il valore dell’insieme: è una prova di coerenza interna. Quanto alla manipolazione dello hassun, registriamo due direzioni convergenti di “sguardo”. In opposizione alle situazioni precedenti dove la conformità degli orientamenti ha evidenziato l’effetto di senso “contrattuale”, si potrebbe concludere in questo caso per una situazione “polemica”. Se si considera che la lateralizzazione ci ha già mostrato che la situazione generale è contrattuale e che la lateralizzazione primeggia sullo sguardo in questo contesto, otteniamo un risultato composito: avremmo a che fare con una situazione polemica inscritta in un quadro contrattuale. Non c’è alcuna contraddizione in questo, come ha ben mostrato Marcel Mauss nel suo saggio sul dono. Una simile situazione polemica, manifestata dai mezzi delle direzioni spaziali, annuncia già le trasformazioni che realizzerà il manipolatore sullo hassun per trasformarlo fino a inscrivere la coppa del sakè nel suo enunciato (stato finale del vassoio). Anche là, otteniamo un risultato coerente con ciò che precede. Dal punto di vista della semiotica dello spazio, i risultati che abbiamo ottenuto sono notevoli a più di un titolo: in primo luogo, abbiamo mostrato la pertinenza dell’uso dei referenziali nella descrizione delle relazioni interattanziali, visto che permettono di reperire il loro statuto polemico o contrattuale ancora prima di analizzare lo sviluppo sintagmatico dell’azione. A questo titolo, le correlazioni tra i referenziali finiscono per essere un rivelatore dei rapporti modali. Comparate alle analisi dell’enunciato (§§ 3.2.1.,

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3.2.2., 3.2.3.) dove gli oggetti apparivano come la condensazione finale di una serie sintattica, le correlazioni tra i referenziali giocano un ruolo simmetrico: sono delle condensazioni iniziali che si svilupperanno sintatticamente. Da un punto di vista di semiotica generale, si può anche tirare una conseguenza non trascurabile: partendo da ragionamenti formali e teorici, abbiamo formulato l’ipotesi (cfr. capitolo quarto) che l’opposizione /enunciazione enunciata/ vs. /enunciato enunciato/ è parallela all’opposizione /contratto/ vs. /performanza/. Troviamo in questo corpus una conferma a posteriori: da una parte, le relazioni tra referenziali sono apparse come enunciazionale nel paragrafo precedente; d’altra parte esse sono apparse come caratteristiche del contratto (polemico o contrattuale) in questo paragrafo. Si tratta di una buona verifica dove gli stessi elementi semiotici possono essere caratterizzati in due maniere simultaneamente: basta cambiare il punto di vista per qualificarli in un modo o in un altro. Ritorniamo alla questione dello spazio. Da qualche anno (cfr. Hammad 1978a, 1979 e ivi capitolo quinto) noi preconizziamo l’utilizzo di un certo tipo di analisi topologica per caratterizzare i rapporti modali tra i luoghi e gli attori cui si riferiscono. Abbiamo anche esposto l’ipotesi che una analisi in geometria proiettiva perverrebbe a risultati interessanti. La descrizione da noi fatta dei “referenziali” immanenti e delle loro relazioni s’inscrive nel quadro dei metodi proiettivi. I risultati semiotici ottenuti parlano da sé. 3.4. L’enunciazione “trascendente” 3.4.1. Le istanze trascendenti implicate nel corpus Abbiamo avuto diverse volte l’occasione di parlare dei “sistemi di valore” shintoista e buddista. Benché questi sistemi siano non-figurativi, li abbiamo identificati come istanze trascendenti, dato che formano delle fonti di identificazione del valore dei valori.

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L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

A queste due istanze, è necessario aggiungerne una terza che non si è ancora esplicitamente manifestata nella sequenza hassun, e di cui renderemo conto. L’analisi dell’insieme della cerimonia del tè (capitolo secondo) rivela l’importanza dei due elementi maggiori nell’organizzazione dello spazio del chashitsu: l’acqua e il fuoco. Nel corso della prima assise, l’acqua investe il polo della sala di preparazione (mizu ya = spazio dell’acqua); il fuoco (in forma passiva) investe il polo del tokonoma. Nel corso della seconda assise, l’acqua investe il polo del tokonoma mentre il fuoco investe il braciere su cui bolle l’acqua da tè. L’analisi citata in riferimento mostra che l’insieme concerne la problematica dello yin e dello yang (detti IN e YO in Giappone). Il polo figurativo del tokonoma è dotato di un referenziale orientato che determina il corso dell’azione e delle posizioni statiche nel corso della prima assise. Durante la seconda, si vedono apparire gli effetti di un secondo referenziale: quello del polo figurativo braciere. In una sala “normale” come quella della figura 23, i due referenziali del tokonoma e del braciere sono conformi (assi paralleli, direzioni positivamente marcate nello stesso senso). Accade talvolta, nelle sale atipiche, che questi referenziali siano non-conformi. Vedremo nel paragrafo 3.4.3. come la questione sia trattata a livello architettonico. TOKONOMA

fuoco

TOKO = SUP

V1 > V2

acqua

V2 > V3

MIZUYA sadoguchi

V3 =INF nijiriguchi

Fig. 23. Referenziale unificato del chashitsu “normale”

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Se si considera la vicinanza immediata di uno di questi poli, e l’arrangiamento spaziale degli oggetti che sono manipolati in questa vicinanza, ci si convince che il polo occupa una posizione di supremum tra gli oggetti. Questo fatto, così come i saluti offerti ai due poli in questione dagli invitati al momento dell’entrata e dell’uscita, contribuisce ad attribuire loro il ruolo di rappresentanti figurativi del Destinante. Nella misura in cui l’acqua e il fuoco, così come le qualità di attività e di passività che sono loro date di volta in volta, si rifanno al sistema IN/YO, quest’ultimo sistema appare come il rappresentante, a livello profondo, del suddetto Destinante (vedi capitolo secondo). A questo titolo, è un sistema “trascendente” nel senso semio-narrativo del termine. In fin dei conti, abbiamo quindi tre sistemi trascendenti implicati, di cui andiamo a toccare le interazioni e i rispettivi ruoli enunciazionali. 3.4.2. Il coordinamento dei sistemi trascendenti Ritorniamo alla topogerachia dello hassun, e consultiamo gli schemi sintetici delle figure 14-16 e 18. Il sistema immanente rivelato dagli spostamenti della totalità del vassoio non è lateralizzato: possiede un asse trasversale perpendicolare all’asse davanti/dietro. Non gioca alcun ruolo nella topogerarchia dello spazio interno del vassoio. Il sistema dell’osservatore-preparatore utilizza, sul piano del vassoio, due assi: basso/alto e sinistra/destra. È lateralizzato conformemente al sistema buddista, con una destra dominante. Ordina i piatti di mare nel quarto basso-a sinistra e quelli della montagna nel quarto alto-destra. Il sistema geomantico-shintoista utilizza, sul piano del vassoio, due assi: Nord-dietro/Sud-davanti e Ovest-destra/Est-sinistra. È lateralizzato conformemente al sistema shintoista, con la sinistra dominante. Ordina i piatti di mare nel quarto Sud-Ovest e quelli della montagna nel quarto Nord-Est.

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

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Solo il sistema immanente si manifesta attraverso una dinamica in præsentia, mentre gli altri due sono leggibili in una organizzazione statica che presuppone una dinamica ordinatrice anteriore: quella delle procedure di preparazione, che assicurano gli investimenti semantici. Se il sistema immanente è osservabile, non si riconduce ad alcun sistema generale conosciuto. Al contrario, gli altri due sistemi sono riconducibili a dei corpi di pensieri organizzati, dotati di una dimensione metafisica. A questo titolo propongono dei “valori” assicurati e delle procedure per asserire il valore dei valori. Sono dunque “trascendenti” in senso semiotico. La questione di cui ci occuperemo qui di seguito è: la procedura di preparazione del vassoio, che inscrive i valori del sistema trascendente nella sostanza dell’enunciato sincretico, è apparsa come una operazione enunciazionale di passaggio dal sistema al processo. Nella misura in cui il sistema regolatore è qualificato come trascendente, diremo che abbiamo a che fare con una enunciazione trascendente. Ora, questi due sistemi dotati di lateralità contrarie producono la stessa organizzazione degli oggetti sul vassoio. Questo fenomeno rimane da spiegare, come rimane da capire il fatto che la tradizione dell’insegnamenti del chado utilizza l’uno e l’altro dei sistemi di riferimento (è anche vero che il sistema che noi chiamiamo “buddista” è il più sovente utilizzato, ma anche l’altro è attestato. Cfr. «Urasenke Newseller» 44). Daremo la risposta in due tempi: se i due sistemi trascendenti appaiono concordi, non è in virtù di una qualunque omologazione dei termini usati per designare le direzioni e i due sensi su ciascuna di queste ultime. Questo problema non interessa a nessuno. Nessun tentativo è stato fatto sui manuali secondo questa strategia. Tutta l’attenzione è centrata al contrario sul fatto che i due sistemi topogerarchici posizionano i piatti nello stesso luogo. Se ne può tirare la conseguenza seguente: se i due sistemi producono lo stesso risultato concreto, è perché sono fondamentalmente equivalenti. Anche se le ragioni profonde di questa

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equivalenza ci sfuggono. O meglio: il fatto che sfuggano alla comprensione non fa che rendere l’equivalenza più “profonda” e affascinante. Su cosa si fonda la “prova concreta”? Sull’assioma che i cibi di mare sono inferiori ai cibi di montagna, in termini “energetici”. Se si analizza il corpus intero dei cibi serviti durante la cerimonia del tè, ci si accorge che è ordinato in termini “energetici”: si comincia con il crudo e si va verso il cibo alla griglia, passando per il bollito. Questo è vero per i legumi, ma anche per le carni e il riso. Se si aggiunge il tè a questo corpus, inglobante gli alimenti liquidi e gli alimenti solidi, si può dimostrare che gli alimenti seguono una linea ascendente (aumento progressivo della carica energetica) fino al tè denso, a partire dal quale la linea è discendente (diminuzione relativamente brutale). I termini energetici sono fondati sui principi dello yin e dello yang (IN e YO) e tengono conto dell’origine degli alimenti e delle loro procedure di preparazione. Di conseguenza, e in ultima analisi, la prova dell’equivalenza dei sistemi trascendenti shintoista e buddista si basa sul sistema dello IN e dello YO che fonda, nei valori investiti sui cibi, il loro mutuo statuto gerarchico. Questo significa che l’accordo dei due sistemi si basa su di un terzo che li sussume entrambi. Con la stessa occasione, questo terzo sistema è presentato come “naturale”, intrinseco alle cose, rinviato a ciò che sono e a ciò cui sono sottoposte prima di essere servite. Dal momento in cui questa conclusione viene formulata, permette di riesaminare l’insieme degli elementi della cerimonia, con la scoperta che il sistema IN/YO passa attraverso tutte le componenti e tutti gli atti senza eccezioni, che si riferiscano a una problematica buddista o a una shintoista. Esso permette, tra le altre cose, di render conto della coppia alimentare stabile manifestata in tutti i “servizi”: essi sono sempre costituiti di un solido e di un liquido. Inoltre l’ordine “liquido, solido” del shoza inscrive, a livello di questa micro-sequenza, la linea energetica ascendente, mentre l’ordine “solido, liquido” del goza opera in modo simmetrico e discendente.

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

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In termini relazionali, i sistemi shintoista e buddista hanno potuto apparire, in certi momenti, come dei sistemi contrari. “Rivelando” il loro profondo accordo, il sistema IN/YO nega implicitamente la relazione polemica che ha potuto opporli, e asserisce esplicitamente il contratto. Di conseguenza, il sistema IN / YO appare come un’entità metalinguistica in relazione alle altre due, e gioca il ruolo di un operatore che riguarda un livello gerarchico superiore. Il teishu può rifarsi a questo sistema quando rientra nel chashitsu portando lo hassun nella sinistra e la sakeiera nella destra: possiede un sistema capace di sussumere gli altri due, manifestati dalla coppia solido-liquido, coppia che forma giustamente un’unità riconoscibile nel meta-sistema. Tutto ciò funziona bene. Tuttavia non fa che occultare un’operazione spaziale soggiacente, fondatrice, nascosta dall’accento posto sull’identità del risultato concreto assicurato dalla messa in opera dei due sistemi shintoista e buddista. I due sistemi, infatti, non possono dare lo stesso risultato se non si sono adeguatamente definite le condizioni di proiezione descritte nel paragrafo 3.2.4.3 (fig. 13): se la posizione dell’osservatore foriero del sistema buddista proiettato è modificata in relazione al vassoio osservato, si possono ottenere un gran numero di topogerarchie differenti sullo hassun. I due sistemi presentano, ciascuno sul proprio piano, due assi ortogonali orientati. La differenza di lateralizzazione produce due spazi simmetrici, orientati nei due sensi rotatori differenti. Ciò che l’operazione di proiezione riesce a realizzare, al prezzo dell’inversione del senso dell’asse davanti/dietro, divenuto basso/alto (fatto che è rivelato dalla figura 16), è di rendere le due lateralizzazioni conformi e di permettere un seguito. Il silenzio prudentemente mantenuto a proposito dell’inversione di cui sopra equivale a una dimenticanza. Questa operazione di proiezione è la condizione di possibilità proiettiva dell’operazione di sottomissione che andrà a operare il sistema IN/YO. Essa appartiene quindi allo

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stesso titolo (= programma d’uso) alla trasformazione globale (= programma di base) che è la costruzione dell’accordo tra i sistemi trascendenti shintoista e buddista. La detta trasformazione si compone quindi di due operazioni: una proiezione che rimane nascosta dal momento che può rivelare la contrarietà, e una identificazione dei risultati concreti, che è valorizzata in quanto asserisce l’accordo. Abbiamo un chiaro esempio della composizione delle trasformazioni enunciative ed enunciazionali, quali vengono descritte nel nostro saggio L’architettura del tè (ivi capitolo secondo). In questo esempio manifestato da una semiotica sincretica, la negazione enunciativa (proiezione non conforme) è negata enunciazionalmente (= obliterazione ricostruita precedentemente), e l’asserzione enunciativa (= la prova concreta) è asserita enunciazionalmente (= messa in primo piano). L’insieme di queste operazioni produce un effetto di trasformazione contrattuale che soddisfa la definizione delle operazioni rituali, ovvero la negazione del polemico e l’asserzione del contratto. 3.4.3. Il nakabashira o la restaurazione architettonica del contratto spaziale minacciato Tra i più bei padiglioni del tè, esistono degli edifici la cui pianta è atipica. In particolare, accade che il tokonoma sia posto alla sinistra dell’invitato che entra attraverso il nijiriguchi. Il costruttore può, in tal caso, sistemare la totalità del chashitsu come una sala “a mano sinistra”, con l’implicazione di realizzare la cerimonia con una lateralizzazione mancina dominante. Questo non è comodo se non per un mancino. Gli invitati saranno tenuti, in un quadro simile, ad adottare anche loro un comportamento a sinistra dominante. Essendo limitato il numero dei mancini, ne risulta abitualmente una serie di errori di lateralizzazione del comportamento. Per evitare tali sbagli, il costruttore può adottare in questo caso la disposizione detta gezadoro (= tokonoma situato nel lato inferiore). Un esempio celebre è lo yodomi no seki (Kyoto), classificato monumento storico.

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TOKONOMA

muro parziale

destra

sadoguchi

destra

Yodomi no Seki (Kyoto)

nakabashira fuoco

1 metro

nijiriguchi Fig. 24. Referenziali polari non conformi in un chashitsu di stile gezadoko

I referenziali disegnati su questo piano sono relativi a ogni polo che organizza il proprio topos. È chiaro che questi referenziali sono non conformi. Si pone allora la questione della giustapposizione dei due topoi orientati in modo contrario. Lo studio di un corpus di 100 famosi padiglioni da tè (cfr. Nakamura 1982) rivela un fatto che fino ai nostri giorni non ha ancora ricevuto una spiegazione dalla storia dell’architettura: tutti i chashitsu di stile gezadoko sono dotati di piani irregolari; numerosi possiedono un palo piantato all’interno e “tendente”un muro che funge da divisione parziale. Le irregolarità del piano, come i pali detti nakabashira (= palo interno) sono sovente tenuti per elementi non necessari, attribuibili alla fantasia estetica di costruttori eccezionali. Noi sosterremo qui un’altra tesi: le irregolarità della pianta, come il nakabashira, sono le espressioni di una necessità proiettiva: mirano a poter rendere possibile la coesistenza, all’interno di uno stesso spazio ristretto, di due referenziali non conformi. Abbiamo detto che ogni polo organizza il suo proprio topos con l’aiuto del referenziale che gli è connesso. Il cha-

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shitsu si divide, a questo livello di analisi, in due topoi. Quando il chashitsu è “normale”, i due topoi sono dotati di referenziali conformi, la loro vicinanza non pone alcun problema, e ci si può permettere di tracciare un solo referenziale per l’insieme dello spazio del chashitsu. In questo modo, almeno, lo si trova sui manuali d’insegnamento (Sen Soshitsu XV 1980, vol. II, p. 91). Ma quando abbiamo a che fare con un chashitsu di stile gezadoko, i referenziali dei due topoi componenti non sono più conformi. Si pone allora la questione del “contatto” di due spazi: il passaggio dall’uno all’altro impone il passaggio da un referenziale organizzatore a un altro. Il cambiamento è brutale. Parlando per figure, si può dire che c’è una lacerazione nello spazio proiettivo, uno iato, una discontinuità, una variazione discreta e non continua. Un simile fatto è tanto più intollerabile in quanto tutti i gesti devono conformarsi alla lateralizzazione dominante del topos in cui gli attori si trovano, mentre si può passare in modo continuo dall’uno all’altro di questi topoi. I due topoi del gezadoko sono quindi in situazione di contrarietà. In termini antropomorfi, diremo che intrattengono relazioni polemiche. Dato il carattere rituale della cerimonia, è necessario trasformare questo in una situazione contrattuale. La soluzione manifestata dai campioni analizzati è semplice in principio: basta individualizzare ciascun topos e marcare la frontiera che li separa. Dal momento in cui questa operazione è realizzata, non c’è più uno iato all’interno di uno spazio continuo e non c’è più un’invisibile lacerazione. Al suo posto ci sono due spazi individualizzati e giustapposti. Nella misura in cui sono indipendenti, possono coesistere felicemente, essendo sufficiente la frontiera che li separa per rendere conto della discontinuità dell’orientamento. Il nakabashira, e il pezzo di muro che viene teso attraverso il chashitsu, costituiscono una delle soluzioni possibili. Sono installate giustamente sulla linea di separazione tra i due topoi. Il pezzo di muro messo in opera non è mai un muro completo che realizzi una cesura materiale.

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

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Al contrario, è un pezzo di muro che marca la frontiera su una parte della sua lunghezza (non attraversa il chashitsu da parte a parte) e una parte della sua altezza (non va mai dal suolo al soffitto, essendo il più delle volte interrotto nella sua parte bassa. Nel Yodominoseki è interrotto nella parte alta). Il resto della frontiera può rimanere non materializzato. In termini semiotici, si potrebbe dire che essa non è realizzata in tutta la sua estensione, essendo solamente attualizzata nel vuoto dalla presenza del pezzo di muro e dal palo. Un’altra soluzione consiste nell’attualizzare la frontiera con un muro divisorio, il quale può essere prolungato da un nakabashira e da un pezzo di muro teso, o essere sprovvisto di un simile prolungamento. L’essenziale, in questo caso, è di marcare la partenza di un muro il cui prolungamento costituirà la frontiera separatrice tra i due spazi dagli orientamenti contrari. Nella tradizione degli architetti dei padiglioni da tè, è risaputo da molto tempo che la concezione e il disegno dei dettagli di questo lembo di muro è la questione più difficile da risolvere quando si prepara un chashitsu in stile gezadoko.

muro divisorio

nakabashira

Fig. 25. Muro divisorio che organizza lo spazio di un chashitsu di stile gezadoko

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Sbagliare un muro simile (in termini di proporzioni, fessure, disposizioni…) metterà in pericolo l’unità intera dell’edificio. Ma la tradizione non dice perché questo muro è la cosa più importante nei chashitsu di questo tipo. Nelle due varietà di soluzione, la libertà del passaggio è preservata tra i due topoi giustapposti. Conformemente a una tradizione giapponese ben consolidata, e diffusa nell’uso di tutti gli spazi privati, pubblici e sacri, l’attua-lizzazione della frontiera tramite elementi parziali è sufficiente per stabilire la separazione. È interessante osservare che le soluzioni del gezadoko fanno appello a un prolungamento di muro costruito. Quest’operazione, che mette in opera un allineamento, concerne tipicamente la geometria proiettiva. Di conseguenza, le suddette soluzioni apportano una soluzione proiettiva a un problema proiettivo (quello dei referenziali contrari, essendo definiti a livello proiettivo dell’analisi dello spazio). Abbiamo un altro argomento di coerenza interna che convalida i risultati della nostra analisi. Di passaggio, vorremo esprimere la nostra ammirazione per gli architetti che hanno saputo esprimere, nel legno e nel battuto e non con la lingua, il rigore della soluzione cui sono arrivati senza utilizzare un metalinguaggio così elaborato come quello da noi messo in opera. Il loro riferimento non è un corpus di dottrine scritte, ma una tradizione orale che privilegia la conoscenza diretta dei luoghi, mirando a costituire nell’architetto un “sentimento architettonico” equivalente al “sentimento linguistico” identificato dai linguisti nel “soggetto parlante”. Per riassumere, diremo che il chashitsu di stile gezadoko mette in co-presenza due topoi dai referenziali contrari, creando una soluzione proiettiva polemica che mette in pericolo il contratto spaziale. Il lembo di muro e il nakabashira appaiono allora come un’espressione materiale dei mezzi necessari alla negazione della situazione polemica e alla restaurazione del contratto. Installati dall’architetto, questi elementi procedono da un’operazione enunciazionale che modifica l’enunciato e che avviene nello stadio della con-

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cezione-costruzione dei luoghi. Nella misura in cui le entità manipolate sono “trascendenti” (i referenziali in questione sono connessi alle figure del Destinante), quest’operazione enunciazionale è trascendente. Essa è chiaramente reperibile dalle sue marche enunciate nell’architettura. 3.5. Conclusioni Queste esplorazioni nella semiotica sincretica, dove la componente spaziale gioca il ruolo maggiore, possono dimostrare come minimo che non è assurdo porsi la questione dell’enunciazione in un tale contesto. I risultati ottenuti chiariscono l’oggetto analizzato e lo mettono sotto nuova luce. Meglio ancora: gli strumenti messi a punto permettono di dimostrare la logica profonda dei fenomeni che sono sfuggiti finora all’analisi (varietà della lateralizzazione, irregolarità delle piante dei gazadoko). Questi risultati sono da accreditare al metodo. In corso di strada, abbiamo dovuto passare per due punti obbligati: i) quello dell’analisi dell’enunciato, di cui non si può fare economia, anche se ci interessa maggiormente l’enunciazione; ii) quello dell’analisi in geometria proiettiva, solo strumento adatto all’isotopia imposta dal corpus attraverso i modi di spostamento e le procedure di preparazione messe in opera.

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Apparso in «Cruzero Semiotico», 5, 1986. Chaji = cerimonia del tè. Ci sono sette tipi di chaji, e ciascuno conosce numerose varianti. Si definiscono i tipi esteriormente a seconda della stagione, dell’ora, dell’occasione. Una definizione immanente è fatta anche dalla successione particolare di sequenze che li compongono. Lo hassun è una sequenza presente in tutti i tipi, da cui il suo carattere “necessario”. 3 Per l’essenziale, questa descrizione riprende quella che è stata fatta nell’opera Chado (1979). Corrisponde alla tradizione preservata nel ramo Urasenke della famiglia Sen, discendente di Sen no Rikyo, il grande riformatore 2

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del XVI secolo che ha dato alla cerimonia del tè l’essenziale di quello che la caratterizza ancora ai nostri giorni. 4 Per maggior comodità, diremo nel prosieguo sakeiera, formando questa parola sul modello di teiera, zuppiera… In assenza di illustrazioni fotografiche, diciamo che la sakeiera assomiglia a una teiera di piccola taglia. Di solito è fabbricata in ghisa, ma se ne trovano in argento. Benché il metallo sia la materia abituale della sakeiera, non è un obbligo. 5 Lo shintoismo è l’insieme delle credenze e delle pratiche autoctone del Giappone, che risalgono al periodo anteriore all’introduzione del buddismo, del confucianesimo e del cristianesimo. Quest’insieme, cui certi riconoscono lo statuto di religione mentre altri lo rinviano ai “costumi”, è stato fortemente influenzato, nel corso della sua storia, dalle religioni e dalle morali costituite in corpi di dottrina. È stato “restaurato” nel XIX secolo per ritrovare uno statuto di supposta purezza originaria. 6 Diremo lateralità quando c’è una distinzione tra i due sensi della sinistra e della destra sulla stessa direzione trasversale. La trasversalità designerà quindi una direzione che sospende la distinzione destra/sinistra.

Capitolo quarto Giardino-Cielo, Giardino-Terra, Giardino-Altrove1

4.1. Osservazioni preliminari Per un caso curioso, accade che il cielo e la terra siano stati abbondantemente rappresentati nei giardini. Quest’osservazione non riguarda unicamente i giardini della cultura occidentale, dove il termine di “paradiso” deriva da una radice indo-europea che significa contemporaneamente “giardino” e “soggiorno dei fortunati nell’aldilà”, cui si aggiunge il fatto che l’equivalenza paradiso = cielo è sufficientemente pregnante nel discorso giudeo-cristiano per giustificare la rappresentazione del cielo degli eletti tramite un giardino. L’osservazione è giustificata anche nel caso della cultura arabo-islamica e in quella sino-coreano-giapponese. Per approfittare dell’effetto di straniamento, faremo vertere la nostra attenzione su queste culture più o meno lontane, lasciando da parte i giardini occidentali che sono stati abbondantemente studiati, commentati e illustrati. Volgendo altrove lo sguardo c’è più da scoprire. Inoltre, la messa in opposizione di queste culture distanti può rivelarci meccanismi strutturali comuni, che potremmo ritrovare nei giardini occidentali di nostra memoria, senza peraltro ridurre le differenze che distinguono queste “nature” organizzate per la messa in discorso di idee astratte. Così facendo, ci porremo la domanda principale, che è quella di sapere perché il giardino ha conosciuto questo destino straordinario che ne ha fatto un supporto di prima scelta per l’investimento semantico. Non sapremo rispon-

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dervi se non dopo aver guardato più da vicino. Anticipiamo tuttavia alcuni elementi delle risposte che si profileranno dopo l’analisi: la de-funzionalizzazione del giardino lo mette al riparo dalle interpretazioni funzionali sempliciste; la sua de-localizzazione lo estrae dallo spazio del qui per proiettarlo in uno spazio dell’altrove; i riferimenti testuali lo trasformano in un testo stratificato, al contempo enunciato ed enunciazione, passibile di ricevere le comparazioni, le allegorie e le metafore dei discorsi letterari, poetici e religiosi. Cominciamo allora a guardare ciò che è inscritto nei giardini d’altrove. 4.2. Il giardino arabo-islamico: Giardino = Jannat = Paradiso Una breve incursione nei dizionari e nella terminologia araba ci pone subito al centro della questione: il giardino e il paradiso sono designati dallo stesso termine jannat. Se il senso di “paradiso” è molto attuale, quello di giardino si affievolisce per il lettore contemporaneo, a meno che non sia familiarizzato con il Corano. Infatti, in questo testo sacro il termine jannat possiede l’uno o l’altro senso, secondo il contesto. Sarebbe vano parlare di polisemia: un’etichetta simile non ci insegnerebbe nulla, mascherando sotto una denominazione l’ignoranza della semantica fondamentale. Per chiunque sia familiare con le lingue semitiche, la chiave può trovarsi solo nell’analisi del paradigma dei termini che condividono la stessa radice, con la declinazione a servire da guida per seguire la catena delle trasformazioni produttrici di senso. Ibn Manzour, linguista arabo del XIV secolo, ci ha lasciato un dizionario molto istruttivo. Vi si apprende che la radice janna si ritrova nel termine nominale e nel verbo che designa l’oscura notte che tutto nasconde. La si ritrova nella designazione del folle che ha perso la ragione. Inoltre è presente nell’antica designazione del giardi-

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no, significando più specificamente un luogo coltivato nascosto sotto le fronde. La giustapposizione di questi sensi fa scaturire un nocciolo semico unico, quello dell’assenza di visibilità immediata, che presuppone simultaneamente l’esistenza della cosa non visibile. Notiamo di passaggio che non è necessario parlare di un altro mondo, né al di qua, né al di là del nostro. Questi effetti di senso possono essere sommati, ma non sono implicati né dalla radice né dal senso dei termini. Questo fatto ci chiarisce a posteriori la ricerca del paradiso avviata da certi viaggiatori-teologi dell’Islam: erano persuasi che questo luogo si trovasse su questa terra, e che sarebbe bastato percorrerla in tutti i suoi angoli per trovarlo. L’uso del termine jannat nel Corano ci rivela altre dimensioni semiche: primo fatto che colpisce, jannat può accettare il plurale nel discorso sacro, significando che ci sono diversi giardini-paradiso. Il percorso delle occorrenze permette di concludere che questo plurale comporta una gradazione: certi luoghi sono più paradisiaci di altri, idea ben lontana dall’uniformità di un benessere ideale unico. In secondo luogo, la jannat è situata sopra l’acqua, poiché il Corano dice espressamente che ci sono fiumi che vi scorrono al di sotto. Visto che si trova sotto le fronde, si tratta in fin dei conti di un luogo situato tra due spazi, un topos mesologico. Per terminare, si tratta di un luogo abitato da esseri belli e giovani, comparabili a un tesoro preservato. Sono immortali, gioiscono della dolcezza e della felicità della jannat. Il termine jounaynat che designa oggi il giardino in arabo corrente, deriva da jannat. Per la sua forma derivata, sarà traducibile come “piccola jannat”. Il diminutivo sembra essere prodotto per pudore e prudenza, o per distanziazione; quale credente, infatti, oserà pretendere di eguagliare Allah creando una jannat che fosse in grado di misurarsi con il paradiso. All’operazione linguistica di diminuzione corrispondono sia l’operazione fisica di riduzione, sia la trasformazione semiotica della rappresentazione. Se la jounaynat non è una jannat, essa nondimeno la rappresen-

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ta, con le sue fronde e i suoi rivoletti, la sua freschezza e la sua fauna. L’uomo vi entra per ritrovarsi circondato da tutte le parti: l’avviluppo fa parte della felicità. L’altro termine che designa il giardino in arabo è quello di hadiqat, che deriva dalla radice hadaka che significa chiusura, cinta, recinzione. Questo secondo termine ci chiarisce a proposito di un’altra dimensione del giardino arabo-musulmano: è finito, selezionato, separato dal resto dell’universo ed estratto da quest’ultimo per farne un luogo di elezione paradisiaca. Questa caratteristica rinforza l’aspetto mesologico segnalato in precedenza: il giardino è circondato da ogni parte, in pianta e nella terza dimensione. La metafora occidentale che viene in mente per parlare di un ambiente simile è quella del bozzolo che si richiude sul suo interno, ma sarebbe ben lontana dal sentimento creato da un giardino arabo… Ci sono giardini arabo-musulmani resi celebri per la loro bellezza, la freschezza, la serenità o il lusso. Non li abborderemo nelle ridotte dimensioni di questo saggio. Opteremo per guardare un tipo di giardino dotato di una favolosa caratteristica: quella della mobilità. Il tappeto (ordinario, non quello volante) presenta molto spesso una decorazione vegetale che è la rappresentazione visiva di un giardino. Per i suoi limiti e le dimensioni ridotte, soddisfa una delle condizioni fondamentali della definizione di giardino. Per il suo posto tra il suolo e l’uomo, realizza la propria relazione mesologica. Per l’effetto d’isolamento che assicura (separa dal freddo del suolo in inverno e dalla sua durezza in ogni stagione), partecipa all’effetto d’isolamento e di chiusura richiesto dal giardino. Ma ciò che lo rende realmente straordinario è la sua mobilità. Basta arrotolare questo giardino e metterlo sulle spalle di un animale per ricostituire l’universo protettore e familiare. Infatti, ciò che realizza al sommo grado è la negazione non-verbale del cambiamento di luogo. Il nomade ritrova il proprio spazio ovunque trasporti il suo tappeto. Ricostituisce il proprio essere presso di sé, ricostituendo la sua chiusura e il suo suolo. Non gli manca che qualche altro tappeto per farne

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delle pareti che sbarrino la vista del paesaggio, e forse un tappeto per farne la propria copertura. Questa stabilizzazione dell’ambiente trasportato afferma con forza la costanza della relazione tra l’uomo e il suo ambiente privatizzato nella prossimità immediata. Illustra con vigore un’idea presupposta che è rimasta implicita fino a oggi: il referenziale del giardino è l’uomo. È per lui che si concepisce e che si erige il giardino. Ed è per lui che i nomadi spostano i tappeti, al fine di offrirgli il suo tappeto nell’immensità della steppa vuota, sulle pianure battute dal vento, in ogni loro accampamento. 4.3. Il giardino sino-giapponese Partiremo dal Giappone. Non perché sia all’origine di questa tradizione, visto che ne sarà piuttosto il termine ultimo. Ma perché ci offre la rara qualità di un pensiero sincretico elaborato. La tradizione giapponese dei giardini ci rinvia a una pratica autoctona inestricabilmente mescolata alle influenze della Corea e della Cina, così come il pensiero spirituale del Giappone mescola le referenze shintoiste, buddiste, taoiste, confuciane… Il gioco dei rimandi regna, e la tradizione dei letterati è quella di approfittare di tutti i rimandi possibili, di sovrapporli, e di circolare tra le isotopie. Dal momento in cui si esamina il giardino giapponese, viene immediatamente posta la questione della rappresentazione: gli elementi concentrati in questi giardini rappresentano paesaggi naturali, luoghi di riposo del Budda, l’universo degli eremiti semidei taoisti… Vi si ritrovano, con una ricorrenza pregnante, sotto una moltitudine di manifestazioni differenti, le isole degli immortali dette h¯oraito, h¯oraishima o h¯oraiyama secondo gli autori, le regioni, i periodi. Situati dalla tradizione nell’oceano che fa da margine alla terra dell’est, si suppone che queste isole godano di una primavera eterna e assicurino la felicità dei loro abitanti. Contengono montagne e fiumi, che sono rappresentati2

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nei giardini. Fin dal XIV secolo, si legge in un trattato esoterico sui giardini che il monte sacro H¯orai, dove è prodotto l’elisir della vita, ha la forma di una tartaruga. Si vedranno nei giardini isole a forma di tartaruga, con un pino piantato sopra, dato che questo albero è associato alla longevità millenaria (in mancanza d’immortalità). Un’altra isola prenderà la forma di gru, visto che questo trampoliere, conosciuto anch’egli per la sua longevità, assicura il trasporto degli immortali. È anche simbolo di pace, di felicità e di eterna giustizia. La tradizione parla di cinque monti sacri e di tre isole degli immortali. Nei giardini, queste tre isole formano spesso una linea tra la tartaruga e la gru. È interessante notare come nulla, in queste tradizioni, trasporti le isole in un universo che non sia il nostro. Per questa ragione le cronache cinesi ci riferiscono che alcuni prìncipi cinesi, come altri giapponesi, abbiano ordinato spedizioni marittime incaricate di ritrovare queste isole percorrendo l’oceano. Non ci si può impedire di pensare ai viaggiatori musulmani partiti alla ricerca del paradiso. Nei due casi, si trattava di realizzare pienamente ciò che la rappresentazione dei giardini realizzava imperfettamente per il piacere di alcuni. Queste isole presupponevano l’acqua3 che le circondava. Sono montagne emergenti. L’insieme di queste montagne e dell’acqua forma una coppia equilibrata che riunisce lo Yin e lo Yang (In/Yo) costituente un universo completo. In quanto montagne, sono connesse al monte Meru, asse del mondo e fonte dell’energia terrestre q¯i in circolazione. Da cui la rappresentazione ricorrente del monte Meru nei giardini. Si comincia a intravedere una sintassi implicita che lega tra loro gli elementi del giardino. Ma c’è di più. Il feng shui (o geomanzia) ci insegna che il ruolo principale del giardino è quello di armonizzare i rapporti tra la casa e l’universo, assicurandone la buona circolazione dell’energia tra gli elementi. Questa azione passa per gli elementi geografici osservabili e per gli elementi simbolici disposti nel giardino. Così, la rappresentazione del monte Meru agisce come verosimile

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monte Meru. Presentifica l’influenza e la canalizza. Funzionerà allo stesso modo per le cascate d’acqua, per le isole, per la tartaruga e per la gru, altrettante preghiere viventi che assicurano la protezione della famiglia e della casa. Questo sistema attivo si fonda su una teoria essenzialista della rappresentazione (cfr. capitolo primo): la cosa rappresentata è l’elemento che la rappresenta. C’è un rapporto intrinseco radicalmente estraneo al pensiero occidentale ordinario (il quale lo ritrova solo a proposito del sacro, oggetto di un altro studio). Nella presentificazione del rappresentato, nella ricomposizione dell’ordine dell’universo, nella captazione delle pulsazioni del dragone e della circolazione dell’energia, c’è una azione concertata sull’universo e non solo un’opera estetica. Se l’acqua è abbondante in un buon numero di questi giardini, la tradizione ci parla spesso di giardini secchi. Conosciuti sotto il nome di karesansui in Giappone (= senz’acqua), venivano detti kazan (= montagne in miniatura) in Cina. In questi casi, la rappresentazione si stacca dalla materialità della cosa per attaccarsi alla sua forma: l’acqua sarà significata dalle ondulazioni disegnate nella ghiaia o dalle curve delimitanti la zona dei muschi e dei licheni. Ci interessa notare che in questi casi la simbologia delle montagne, il loro numero (3, 5 o 7), la loro gerarchia e disposizione, riprendono le caratteristiche dei giardini dotati d’acqua. Si ritrovano disposizioni simili nei giardini buddisti, dove i gruppi di rocce sono detti rappresentare il Budda e gli arhat; o il monte Shumisen, luogo sacro del Budda, assimilato al sole e circondato da pianeti; o le nove montagne e gli otto mari (kuzan hakkai). C’è una stabilità delle forme indifferente all’investimento semantico scelto: gli elementi materiali supportano diverse interpretazioni, e si può passare dall’una all’altra con un gioco di equivalenze e di correlazioni. Per l’amante di giardini giapponesi, questa stabilità è essenziale. Essa costituisce il giardino, quale ne sia l’interpretazione possibile. D’altronde, per i partigiani di una semiosi essenzialista, il

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senso si trova nelle cose, e basta concentrarsi sulla loro presenza per trovarlo. Ogni proiezione esterna non è che apparenza, al meglio un mezzo per ottenere la verità, al peggio un’illusione. 4.4. Conclusioni Siamo adesso in grado di indicare le invarianti di questi giardini-testi. In primo luogo, ritroviamo la costante della chiusura: il giardino è un luogo delimitato, selezionato, rinchiuso, marcato da cure regolari che ne mantengono l’identità malgrado il variare delle stagioni e il passaggio del tempo. L’effetto di senso di queste operazioni spaziali e temporali è un’operazione di estrazione aspettuale4 che sottrae il giardino al suo ambiente. In particolare, ci permette di comprendere meglio l’opposizione tra l’abitazione e il giardino5, visto che non c’è giardino senza abitazione (e senza abitante). Ciò si verifica altrettanto bene in città, come in campagna o nella steppa: il giardino ha bisogno di un habitat per definirsi in opposizione ed estrazione. Guardandovi più da vicino, si constata che le regole del gioco sociale dipendono da ciascuna di queste categorie spaziali: non ci si comporta nello stesso modo in giardino e in casa. Potremo concluderne che le procedure della privatizzazione di questi spazi non sono identiche, ma si tratta di un altro soggetto. In secondo luogo, i giardini manifestano, qualunque sia la loro appartenenza culturale, l’intenzione implicita di modificare la natura inscrivendogli le due dimensioni dei valori collettivi e dei valori individuali. In quanto micro-universi personalizzati, inscrivono valori legati all’individuo. In quanto rappresentazioni del cielo, del paradiso, della terra e dell’altrove, installano questi valori individuali in un quadro collettivo accettato. In termini semiotici, se l’operazione di estrazione si imparenta con un atto enunciazionale superiore che asserisce l’importanza del soggetto, il discorso enunciato reinserisce il soggetto

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in seno alla società collettiva. Ed è quest’equilibrio che rende il discorso del giardino accettabile a tutti. Il cielo e la terra del giardino, infatti, sono luoghi di mediazione: definiscono l’avvenire personale in quanto riconoscibile dalla cultura collettiva. Come può accadere che l’habitat non accolga con la stessa facilità la stessa carica semantica? I nostri lavori sulla privatizzazione dello spazio abitato tendono a farci dire che l’abitazione è destinata in primo luogo alla regolazione dell’interazione sociale. Per opposizione, il giardino appare orientato verso una interazione diversa: quella dell’uomo e dell’universo. Il soggetto vi percepisce delle cose, riceve dei messaggi, prova delle emozioni. Quando l’esperienza del giardino è collettiva la dimensione passionale dei giardini si estende alla comunione dei cuori . Se possiamo permetterci una rapida conclusione, suggeriamo quanto segue: tramite le procedure di estrazione aspettuale e di iscrizione semantica enunciazionale, i giardini permettono ai soggetti di ri-posizionarsi in relazione all’universo e alla società. Così facendo, autorizzano una restaurazione dell’equilibrio tra l’uomo, la società e il mondo. Per questo vi ritroviamo l’inscrizione dei valori fondamentali che permettono di rinegoziare periodicamente questi equilibri.

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Apparso in Hemel & Aarde John Benjamins, Amsterdam, 1991. Allo stesso tempo, il giardino acquisisce qualcosa della sacralità che in Giappone viene riportata a ogni montagna e a ogni cascata. 3 Nei giardini, l’acqua sarà rappresentata con acqua, ghiaia o con piante… 4 Intendiamo l’aspetto come la categoria che sussume i due termini dello spazio e del tempo. 5 Evochiamo di passaggio i giardini inglesi: la libertà delle loro forme si opponeva radicalmente al classicismo degli edifici che vi si costruivano. 2

Parte seconda Qui

Capitolo quinto Lo spazio del seminario1

5.1. Introduzione Questo studio è il risultato di un lavoro collettivo effettuato nel quadro dell’atelier “Semiotica dello spazio”, in seno al Centro di ricerche semio-linguistiche diretto da Algirdas J. Greimas. Abbiamo scelto di analizzare lo spazio del seminario settimanale dello stesso Greimas all’École des Hautes Études en Sciences Sociales per la nostra buona conoscenza dovuta alla pratica regolare del suddetto seminario, per la possibilità di continuare a osservarlo, e infine perché potevamo proporre la nostra analisi al seminario stesso affinché riflettesse sul nostro lavoro e sulla sua stessa pratica. Siamo stati quindi al contempo osservatori e osservati, e il nostro testo ne subisce l’influenza. Il punto di partenza teorico è la ricerca pubblicata dal Gruppo 107 (1973) che propone un modello d’analisi dello spazio in quanto sistema significante. Da un punto di vista semiotico, il modello si inscrive al seguito dei lavori di Hjelmslev e di Greimas, dai quali riceve prestiti concettuali e terminologici. D’altra parte, il Gruppo 107 considera che lo spazio prende il proprio senso solo in funzione dell’uso che ne viene fatto ovvero del fare che vi si svolge. Questo fare, posto al livello del contenuto, esige la presenza al livello dell’espressione di persone che si spostino in un ambiente materiale. Di conseguenza, se il livello del contenuto non ha che una categoria unificatrice (il fare), quello dell’espressione presenta tre componenti: le persone, lo spazio del loro movimento, lo spazio

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che è per loro impenetrabile (quello degli oggetti). Da cui tre osservazioni: i) le persone giocano un ruolo molto importante in questa semiotica, ii) il movimento è una delle caratteristiche principali delle persone, iii) le tre componenti di cui sopra non sono in se stesse categorie di unità dell’espressione; concorrono semmai alla formazione di quest’ultima. L’espressione di un segno corrispondente a un fare è chiamato topos (pl. topoi) dal Gruppo 107. Un topos è uno spazio, un volume contenente persone e oggetti. Si tratta di un’unità a tre dimensioni (geometricamente parlando) le cui frontiere possono essere determinate considerando simultaneamente i due livelli dell’espressione e del contenuto. Il seminario verrà quindi analizzato in topoi al livello dell’espressione (§ 5.2.), in fare al livello del contenuto (§ 5.3.). Infine cercheremo di mettere in relazione i due punti di vista (§ 5.4.). 5.2. Studio dell’espressione 5.2.1. Sistema vs. sistemi L’analisi semiotica del seminario presuppone che quest’ultimo sia un “testo”, o, in altri termini, un processo che si rifà a un sistema di una semiotica spaziale. Una descrizione esaustiva si scontra ben presto con una difficoltà metodologica: come separare ciò che è pertinente da ciò che non lo è? La commutazione ci assicura di poter trovare una soluzione conforme alle ipotesi della semiotica spaziale scelta: dato che il contenuto si articola in fare, le unità pertinenti dell’espressione sono quelle la cui modificazione coinvolge una concomitante modificazione del fare. Un’analisi di questo tipo permette la presenza simultanea di tre sistemi sovrapposti nel testo oggetto di studio. Ognuno di questi sistemi può esser letto con l’aiuto di trac-

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ce, altrettanti supporti di enunciati imbricati che esprimono classi di fare specifici, presupponenti enunciatori distinti. Il sistema che si offre immediatamente alla nostra osservazione è quello del seminario di Greimas. È il primo oggetto di analisi. Presuppone comunque un altro sistema: quello dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales, che produce la classe dei seminari, tra cui quello di Greimas. Questo secondo sistema ne presuppone un terzo: quello del costruttore che ha eretto la costruzione, e la sala stessa in particolare, in cui si svolgono le attività della Scuola. La relazione di presupposizione ordina i tre sistemi in una catena logica lineare. Accade che questo ordine coincide con un ordine temporale: la costruzione dei luoghi precede il loro arredamento da parte dell’EHESS in previsione di installarvi dei seminari, e l’EHESS a sua volta precede la creazione del seminario di Greimas. La congruenza dell’ordine logico e temporale non è necessaria, e a noi interessa solo l’ordine logico per l’analisi del sistema. Prima di analizzare in dettaglio ognuno di questi sistemi, li presenteremo brevemente: nel seminario stesso (primo sistema), il fare significato è quello della comunicazione di un sapere. La presa di parola è al suo interno l’espressione del possesso di un sapere: la persona che fa un intervento, comunica il suo sapere, quella che critica fa riferimento a un altro sapere che gli permette di valutare ciò che gli viene offerto, e colui che pone una domanda esprime un non-sapere relativo. Di fatto, se tutti i partecipanti negano in una certa misura il loro sapere anteriore, accettano un contratto implicito che ha per obiettivo la produzione di un nuovo sapere. Analizzeremo tutto questo più in dettaglio nel paragrafo 5.3. Il secondo sistema è quello dell’EHESS, di cui il fare significato è la produzione di un sapere che sia comunicato all’esterno del quadro del primo sistema: c’è un obbligo di apertura del seminario che si esprime attraverso il suo carattere pubblico, il rinnovamento regolare dei suoi membri, e la produzione di testi diffusi all’“esterno”. Il terzo sistema, presupposto dagli altri due, è quello del costruttore.

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La disposizione generale della sala, i dettagli del suo arredo, la sua situazione nell’insieme delle costruzioni significano che questo luogo era destinato non tanto a un seminario, quanto all’esposizione di una collezione di quadri (cfr. § 5.2.2.). Per raggiungere questa sala provenendo dalla strada, bisogna attraversare successivamente una corte, una hall, un giardino, un vestibolo, salire delle scale. Questo cammino varca cinque porte e quattro luoghi prima di condurre a destinazione, che si rivela essere un vicolo cieco. Dato che la strada è uno spazio pubblico, e che la penetrazione in un luogo è una transizione dal pubblico verso il privato, la sala analizzata si posiziona nel polo più privato della serie sintagmatica dei luoghi. Un simile investimento è omogeneo con la disposizione degli oggetti riuniti in una collezione di opere d’arte; sembrava curioso svolgervi un seminario pubblico.

Rue de Tournon

aula del seminario

5.2.2. Il terzo sistema o l’involucro Cominciamo con l’analisi del terzo sistema. Ci sono due ragioni per questa mossa: i) è presupposto dagli altri due, e in questo senso è il primo; ii) è più semplice sul piano dell’espressione, dato che sussiste solo l’involucro. In effetti, se la sala d’esposizione ha conosciuto dei mobili, questi ultimi sono scomparsi, come i dipinti. Ciò che resta, è una “scatola” di cui le pareti conservano un trattamento che andremo a studiare.

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Da un punto di vista topologico, è una superficie convessa forata in tre punti: una vetrata per rischiarare e due porte per la circolazione. Una sola delle porte è aperta, e il fatto che la seconda sia chiusa (anche se c’è un’uscita di sicurezza) trasforma la sala in un vicolo cieco di cui la pianta al suolo è la seguente:

Le due porte si contrappongono e sono inserite nei muri di piccole dimensioni. L’esame della parete di fondo (quella della porta murata) mostra che c’è una separazione leggera non solidale dei muri cui essa si appoggia con due cassonetti in legno. Dall’altra parte della parete, c’è una sala simile a quella del seminario. Se ne deduce che la parete non fa parte del sistema di costruzione, e che è stata aggiunta dall’EHESS a uso di questi seminari. D’altro canto, è questa parete che porta la lavagna. La sala originaria si rivela essere due volte più grande. Topologicamente, essa è identica a quella del seminario: possiede una vetrata unica per la luce, e due porte di cui una è la principale (valorizzata da una scala in pietra e da un grande pianerottolo illuminato dalla vetrata del soffitto) e l’altra secondaria (scala in legno, stretta e non illuminata).

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Il rapporto della parete lunga con quella corta è di sei a uno, ed è visivamente marcato su ogni muro da sette pilastri piatti debolmente salienti in relazione al muro. Il muro di fondo è sensibilmente quadrato, e l’intera sala si presenta come una successione di sei cubi giustapposti. A perpendicolo rispetto a ogni coppia di pilastri, una trave attraversa il soffitto e la vetrata allo zenit. Dalla porta d’entrata, il visitatore ha una visione prospettiva molto allungata, le cui linee orizzontali sono ad altezza suolo, alla giunzione dei muri e del soffitto, ai bordi della vetrata. Queste linee di fuga sono ritmate dai pilastri e dalle travi che sovradeterminano la profondità, marcando uguali divisioni.

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Si tratta di un volume concepito e trattato in funzione prospettica, con quest’ultima a presupporre un osservatore privilegiato che possa vedere la sala libera da ogni oggetto ingombrante. Il grande asse della sala richiama lo spostamento, la camminata lungo questo asse, ed è segmentato in sezioni determinate dai pilastri. In ogni sezione, c’è un asse ortogonale al primo, organizzante la visione in relazione alle parti di muro così delimitate. La congiunzione di questi due assi (vista generale vs. visioni parziali) è tipica dei luoghi di esposizione tali quali venivano concepiti dal “sistema delle Belle Arti”.

Il trattamento dei dettagli rivela un’intenzione estetica manifesta: i pilastri sono dipinti in finto marmo rosso, sono sormontati da capitelli ionici dorati. I pannelli di muro tra i pilastri sono tesi da tendaggi in una cornice modellata. La giunzione dei muri e del soffitto riceve un cornicione che continua sulle travi le quali attraversano la sala da pilastro a pilastro. La scala di accesso è dotata di una ringhiera in ferro battuto, è illuminata da un pannello zenitale circolare sezionato in quarti e ornato di vetri granulosi. Tutto ciò concorre a dotare la sala di uno statuto privilegiato che conferma la sua posizione “privata” dopo la corte, l’edificio principale e il giardino. In più, c’è una volontà di esprimere la cultura (pilastri, capitelli, modanature) e un certo statuto sociale. D’altronde, l’insieme degli edifici forma un edificio particolare “alla francese”. La sala così descritta, e inscritta nel suo contesto, suppone un gran numero di possibili azioni. Potrebbe essere una sala di ricevimento, per mangiare o per danzare. Vi si potrebbe arredare una biblioteca. Si potrebbero esporre

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dei quadri. In questa classe di azioni, operiamo una scelta in funzione degli arredi particolari della sala. Possiamo rigettare l’azione “abitare” visto che questa non corrisponde ad alcun uso culturale: la sala è troppo grande (112,5 m2), troppo allungata, e soprattutto non possiede nessuna finestra quando il suo muro ovest darebbe su di un gradevole giardino. Quest’assenza di finestre ci fa anche escludere l’utilizzo come sala da pranzo o come sala di ricevimento. A ogni modo, l’illuminazione zenitale è quella generalmente adottata per sale di esposizione di pittura a olio visto che elimina i riflessi che appaiono con ogni altro tipo di illuminazione. Non solo la luce viene così controllata, ma anche i muri sono interamente spogli e possono ricevere le opere d’arte da esporre. Attualmente la vetrata presenta due chine e si trova sopraelevata rispetto al livello del soffitto. Una simile disposizione non si giustifica, soprattutto nel mostrare il “telaio” metallico che tiene i vetri, cosa che era culturalmente rifiutato per una sala di prestigio. Nei fatti, il bordo del foro della vetrata, al livello del soffitto, ha guarnizioni in ferro regolarmente spaziate che dovevano servire da supporto a un soffitto in vetro piatto, probabilmente tramezzato come quello del vestibolo sul pianerottolo. Un simile doppio soffitto non ha solo una funzione estetica: gioca anche un ruolo di regolatore termico, creando un materasso d’aria tra la sala e l’esterno, e assicurando un miglior isolamento.

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Quest’attenzione all’isolamento (controllo della temperatura e dell’umidità) si ritrova nei doppi muri della sala (che si può vedere nelle due bocche d’aerazione) e nella sopraelevazione della sala su un pianoterra. Una cura particolare è stata posta nella costruzione di questa sala, per un’azione precisa: conservare e proporre agli sguardi una collezione di pittura. 5.2.3. Il secondo sistema o l’involucro ammobiliato Si tratterà qui del discorso dell’EHESS che ha arredato la sala per metterla a disposizione dei seminari di Greimas, Barthes, Marthelot, Véron… Il posizionamento del tavolo nero, l’impossibilità di circolare imposta dalla strettezza del luogo concorrono a esprimere un fare preciso: quello del seminario di ricerca e d’insegnamento. Notiamo tuttavia che queste sale servono di tanto in tanto per assemblee generali di studenti che discutono dei loro problemi e del comportamento da adottare per far fronte al potere e ai suoi rappresentanti. Si tratta di un fare altro, ma forse non così imprevisto negli edifici universitari…

La disposizione delle sedie (una fila lungo la tavola, una fila lungo il muro) impedisce la circolazione quando queste sono occupate. Vedremo (§§ 5.2.4., 5.3.2.) che si produce uno spazio statico dove nessuno si sposta e spiega la reazione del suo eventuale abbandono. Ciò che abbiamo appena detto concerne la sala, ma presuppone gli utenti. L’azione che poniamo come conte-

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nuto presuppone delle persone al livello dell’espressione, in accordo a quanto dicevamo nell’introduzione. Consideriamo l’intera sala come un topos, e cerchiamo di vedere quali sono le divisioni che vi si possono reperire. In primo luogo, possiamo raggruppare tutte le sedie che permettono ai loro utenti di vedere la lavagna, e opporle alla sola sedia che dà le spalle alla lavagna. Al primo gruppo corrisponde un topos che ingloba la maggior parte della sala. Al secondo gruppo corrisponde lo spazio tra la sedia e la lavagna. Questa divisione ci dà due topoi. Mentre è scomodo separare il piccolo topos che ha solamente una sedia, è facile distinguere nel grande topos due suddivisioni: il topos formato dal tavolo e dalle sedie che sono in contatto con questo, e il resto delle sedie. Se si attribuisce il piccolo topos al professore responsabile del seminario, si può dare una doppia classificazione gerarchica dei topoi che abbiamo appena trovato: al livello 1, il topos professorale è valorizzato in relazione a quello degli astanti. Al livello 2, il topos attorno alla tavola, per la contiguità diretta che ha con il topos professorale, è valorizzato rispetto al topos che resta. 0 . . . . . . . . . . . . . . . . . .Sala

1 . . . .Topos professorale

Topos degli astanti

2 . . . . . . . . . . . . . . . . .Topos attorno . . . . . . . . . . . . . . . . . .alla tavola

Topos rimanente

La tavola stessa ha un’altezza che corrisponde a un piano per scrivere o per mangiare. Se l’altezza esclude così l’azione di “disegnare”, è il contesto che esclude l’azione di

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“mangiare”: luogo pubblico, istituzione universitaria, lavagna nera, assenza di cucine… C’è concordanza tra il fare “scrivere” e quello della destinazione globale della sala nel sistema dell’EHESS.

Come ogni tavolo, questo è centripeto (cfr. Bonta 1972) e impone alle sedie una posizione precisa: l’utente di queste ultime guarda verso l’interno del tavolo. D’altra parte, le sue dimensioni gli impongono una posizione nella sala: non si può metterlo di traverso senza perturbare considerevolmente lo svolgimento del seminario. Si può solo spostarlo lungo il grande asse della sala. La posizione occupata, tra tutte quelle possibili, è legata alla lavagna nera (arredare un topos professorale) e definisce simultaneamente un “resto”. Infine, la forma rettangolare del tavolo gli fornisce due assi che, nella cultura occidentale, valorizzano le posizioni sedute là dove gli assi tagliano il perimetro.

Così, i due estremi del tavolo e le metà dei lati lunghi sono valorizzati. Si constata che i professori occupano sempre una di queste quattro posizioni, con una preferenza per l’estremità vicina alla lavagna nera.

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I topoi sono divisibili: sono formati da unità più piccole che soddisfano alla definizione di topos e che sono formate ciascuna da una sedia e dall’utente che presuppone. A queste unità corrispondono unità di contenuto corrispondenti all’azione dell’utente durante il seminario. Ci ritorneremo. Notiamo per ora che questi topoi sono orientati dallo sguardo del fruitore presupposto: la sedia ha un davanti e un dietro, lo spazio che è davanti è valorizzato, quello che è dietro è svalutato, negato. Le sedie che sono messe il fila lungo il muro negano quest’ultimo e affermano l’importanza dello spazio interno al topos del seminario. Le sedie che circondano il tavolo affermano l’importanza di quest’ultimo. D’altra parte, se le sedie non convergono (direzionalmente) verso la lavagna, esse permettono ai loro utenti di vedere quest’ultima, fatta salva la possibilità di una sedia che obbedisca alla regola del tavolo e non obbedisca alla regola della lavagna: esse affermano il primato di ciò che succede attorno al tavolo rispetto a ciò che succede attorno alla lavagna. In questo modo, è questa a definire il detentore di sapere: non c’è bisogno di vedere la lavagna, egli sa che cosa vi è sopra poiché è lui a utilizzarla e a inscrivere ciò che gli altri cercano di vedere. Nel caso in cui il detentore del sapere non utilizzi la lavagna, può non mettersi in prossimità di quest’ultima e, posizionandosi sul piccolo asse del tavolo, depolarizza il grande asse. La sedia attribuita al detentore del sapere è sempre attinente al tavolo (cfr. § 5.4.). Il fatto di essere attorno a questo è quindi valorizzato. Inoltre, in questo stesso perimetro, sono valorizzati i topoi più vicini a quelli del professore. Abbiamo quindi due relazioni che introducono una gerarchia tra i topoi minimali: i) attorno al tavolo vs. altrove; ii) vicino al professore vs. lontano dal professore. In tutto ciò, non vediamo riapparire il sistema del costruttore, dimenticato, desemantizzato. Non rimangono che alcuni vincoli: vicolo cieco, difficoltà di circolazione, allungamento della sala che esagera l’effetto di allontana-

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mento di certi partecipanti. Il controllo della luce è inutile: alcune finestre potranno farlo altrettanto bene, e durante la notte c’è l’illuminazione artificiale; il controllo climatico è inadeguato: mirava a una costanza della temperatura e dell’umidità, mentre l’uso di un seminario esige un’aerazione efficace, da cui lo smontaggio del soffitto in vetro per aumentare il volume d’aria, e l’installazione di aeratori che rimuovono il fumo delle sigarette. Là dove è stata installata la parete divisoria, i pilastri in finto marmo e i capitelli sono stati nascosti da un’armatura in legno. Nessuna attenzione è stata data all’antico arredamento della sala, implicitamente negato a profitto di un mobilio che significhi un’azione nuova: quella di un seminario.

5.2.4. Il primo sistema o l’involucro ammobiliato e contenente degli utenti Il seminario di Greimas aveva luogo tutti i mercoledì nella sala appena descritta. Nel corso di due ore, i partecipanti utilizzavano lo spazio e il loro fare sovradeterminava il senso, eliminando un gran numero di fare possibili espressi nell’anno universitario 1975-76; l’analisi che segue dipende in una certa misura dalle realizzazioni contingenti in questione. Generalmente, il seminario era diretto da Greimas, che invitava spesso qualcuno a fare una lunga esposizione. La partecipazione degli astanti era variabile, e le discussioni potevano altrettanto bene svolgersi durante l’esposizione che alla fine di quest’ultima.

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Benché non sia quello di un corso magistrale, il fare del seminario può essere descritto, in prima approssimazione, come quello di una trasmissione di sapere. Il destinante è Greimas, o la persona che delega in questo ruolo, e il destinatario è l’insieme dei partecipanti, che giocano collettivamente un unico ruolo. La discussione cambia questo schema di base e fa sì che al posto di una trasmissione si possa parlare di produzione di sapere. Ritorneremo su questo punto nell’analisi del contenuto. Riprendiamo l’analisi dell’espressione, posizionando nella sala del paragrafo 5.2.3. i partecipanti al seminario. La prima osservazione concerne il topos globale: la sala è interamente riempita. Tutte le sedie disposte attorno al tavolo e allineate lungo i muri sono occupate, e si dispone nello spazio vuoto tra il tavolo e la porta un numero variabile di altre sedie condotte dall’esterno. Molto spesso manca il posto, e gli ultimi arrivati salgono con sedie pieghevoli (distribuite da un preposto) che sono installate sul pianerottolo all’esterno della sala ma in una posizione che permette di vedere Greimas o l’invitato della seduta.

Una prima segmentazione di questo topos dà tre topoi: 1. attorno al tavolo, ivi comprese le sedie contro il muro: è il nocciolo duro del seminario, il luogo dove i partecipanti si sentono “nel” seminario, e dove si concentra la maggior parte degli interventi nelle discussioni. Le azioni che qualificheremo come “interne al seminario” si svolgono proprio qui. 2. Tra il tavolo e il muro d’entrata. In questo topos, i partecipanti non si sentono più completamente dentro il seminario. Sono piuttosto “uditori”, accontentandosi di

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ascoltare e non prendono se non accidentalmente la parola per intervenire nelle discussioni. Congiuntamente, in questo topos hanno luogo i fare “esterni al seminario” che trasgrediscono agli interdetti (cfr. § 5.3.2.).

3. Nell’entrata e sul pianerottolo. L’uditore è passivo a livello di seminario: si accontenta di ascoltare, guardare, scrivere, senza intervenire in modo attivo. Gli interdetti sono trasgrediti molto facilmente, soprattutto quello del movimento: ci si sposta sul pianerottolo. Il secondo livello di ritaglio offre le unità seguenti:

1a. Lo spazio tra il tavolo e la lavagna, dove si trova Greimas, con l’invitato quando ce n’è uno. È un luogo privilegiato della parola. 1b. Il tavolo e l’insieme delle sedie che lo circondano, con l’eccezione di quelle di Greimas e dell’invitato. Si tratta dello spazio ristretto del seminario, quello che si avvicina alla tavola rotonda in cui tutti i membri sono uguali. 1c. Le due file di sedie allineate contro il muro e la cui vicinanza al topos le posiziona nel seminario pur respingendole dallo schema favorito nel topos 1b.

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Il topos n. 2 non si suddivide in unità comparabili alla divisione 1a, 1b, 1c. Il topos n. 3, al contrario, si sottopone a una bipartizione: 3a. Sulla soglia della sala tra il battente della porta e il riscaldamento (armatura in legno), si trova un luogo ambiguo: né dentro, né fuori. 3b. Sul pianerottolo, essendo il topos fuori della sala definita al paragrafo 1.2, ma la cui esistenza è connessa a quanto si svolge all’interno. Costituisce una escrescenza temporanea. Il terzo livello di selezione dà luogo a unità minime contenenti un solo individuo, seduto su una sedia, talvolta con un oggetto annesso (ad es. il posacenere). Notiamo che il topos possiede questa composizione, ma è il solo a intrattenere con l’insieme di queste unità una relazione di mutua presupposizione: in effetti, se Greimas (o il suo sostituto) non è presente, non ci può essere il seminario. Per opposizione, nessun partecipante particolare è presupposto: è la classe dei partecipanti che è necessaria allo svolgimento del seminario. Questa relazione di doppia presupposizione non deve essere situata a livello degli individui ma a livello dei topoi, visto che il seminario non potrebbe svolgersi senza articolare lo spazio: nel caso in cui il seminario fosse trasposto in uno spazio libero, ritaglierebbe in quest’ultimo un topos globale all’interno del quale si definirebbero almeno due topoi, quello della parola e quello dell’ascolto (cfr. § 5.4.). Nella misura in cui tutti i partecipanti sono riuniti in una stessa classe, giocano ruoli equivalenti e commutabili; in questo senso, definiscono topoi anonimi. Questa sinonimia ha un’influenza sulla disposizione spaziale dei topoi: abbiamo visto che gli assi del tavolo definiscono quattro posizioni privilegiate. I posti nel mezzo dei lati lunghi vengono desemantizzati al momento in cui Greimas si installa a una estremità del tavolo. Tuttavia l’altro estremo rimane marcato e definisce un topos distinto dagli altri che attribuirà al suo occupante uno statuto differente di quello de-

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gli altri partecipanti, ed è per questa ragione che la posizione assiale viene evacuata, e l’estremità del tavolo riceve due topoi disposti da una parte e dall’altra del topos privilegiato che resta vuoto: nessuno sarà così distinguibile.

C’è un meccanismo analogo sull’altra estremità: quando Greimas invita qualcuno a prendere la parola, sposta la propria sedia in modo che ci siano due topoi nel topos professorale (vicino alla lavagna), uguali, poiché la posizione assiale privilegiata è evacuata. Si può tuttavia notare che Greimas si posiziona quasi sempre a destra del suo invitato, non perché ci sia una particolare valorizzazione dell’opposizione sinistra vs. destra, ma perché questo lo mette sull’asse della porta d’entrata e autorizza il legame virtuale con il topos 3b sul pianerottolo, cosa che gli permette anche di esercitare un controllo visivo sulla totalità del topos globale (cfr. §§ 5.3.2., 5.4.3.). Accade che certi invitati, non conoscendo gli usi, occupino questo topos, senza peraltro disturbare lo svolgimento del seminario: questa regola del controllo visivo non è quindi necessaria. Per la stessa ragione (equivalenza dei ruoli) i topoi minimi del topos n. 2 (tra il tavolo e l’entrata) si dispongono in archi di cerchi più o meno irregolari che permettono ai partecipanti di vedere Greimas.

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Le sedie infilate lungo il muro si trovano così spostate, affinché la loro direzione (cfr. § 5.2.3.) converga realmente verso il luogo della parola. Al contrario, i topoi minimi del topos 1c, messi in fila lungo il muro, non trasgrediscono la regola che vuole che si addossino al muro. Meglio ancora, rispettano la presenza dei pilastri che restano sgombri mentre ricevono le sedie solo le sezioni tra i pilastri. Il tipo di sedia importa poco, e ce ne sono tre nella sala: la sedia tipo “educazione nazionale” in tubo metallico e controplaccata, un modello pieghevole in legno, un modello in plastica e metallo. La sola caratteristica che gioca un ruolo è quella dell’ingombro: le sedie sono molto strette, permettendo di metterne molte lungo il muro o attorno al tavolo. Ancora, una sedia in se stessa non è significativa a livello di seminario. Se essa presuppone un utente, il ruolo che gioca questo fruitore non proviene dalla sedia stessa ma dalla posizione che occupa, in relazione al tavolo e alla lavagna nella sala. A livello di seminario risulta allora significativa la posizione relativa dei topoi minimali. Questa osservazione è vera anche per i topoi non minimali (cfr. § 5.4.1.). Osservavamo in precedenza che il seminario può aver luogo all’aperto, caso in cui non ci sono né sedie, né tavolo, né lavagna; lo spazio del seminario significa allora rispetto alla disposizione rispettiva dei due topoi principali, quello del soggetto e quello dell’anti-soggetto (astanti): gli astanti circondano il detentore di sapere, lasciando quest’ultimo in una posizione decentrata e sul bordo di un buco che tende a essere circolare (§ 5.4.). 5.3. Studio del contenuto 5.3.1. Programma e contratto Il fine del seminario è la produzione di un sapere, produzione analizzabile in una trasmissione e in una trasformazione del sapere. C’è trasmissione del sapere tra un soggetto destinante detentore di sapere e un anti-soggetto destinatario non detentore di sapere.

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S

O

S

L’anti-soggetto viene al seminario affermando un nonsapere, ovvero una situazione di mancanza, e la sua partecipazione al seminario è una ricerca. C’è dunque un volersapere manifestato dallo spostamento del destinatario e dalla sua venuta al seminario per riparare, con l’acquisizione di un oggetto-sapere, alla situazione di mancanza che lo caratterizza. Questa affermazione di mancanza è retorica: il partecipante sa ciò che cerca e che può trovare a priori nel seminario. D’altra parte, non può assimilare questo sapere (e quindi riceverlo come oggetto-valore) se non possiede un sapere anteriore che gli permette di valutare ciò che deve soddisfare alla sua ricerca. In modo simmetrico, il destinante afferma un non-sapere, poiché accetta di dire che il seminario opera una trasformazione del sapere che propone, realizzando così la produzione di sapere voluta dall’EHESS. Allo stesso modo, il destinante propone il suo discorso alla valutazione del destinatario, affermando così il sapere di quest’ultimo e un certo non-sapere da parte sua. Si assiste a un rovesciamento dei ruoli: il destinante diviene destinatario del sapere, e viceversa. Di conseguenza, il programma del seminario non si riconduce a un contratto semplice tra un soggetto e un antisoggetto, e dovremo piuttosto parlare di una convenzione, nel senso che il programma è complesso, modalizzato, e molto flessibile, al punto da permettere l’inversione dei ruoli. Continueremo tuttavia a parlare di soggetto e di antisoggetto nel senso dello schema di base, per ragioni di semplicità di esposizione. Ciò che abbiamo appena detto potrebbe applicarsi a ogni seminario dell’EHESS. Il seminario di Greimas manifesta un’altra variante di complessità: la moltiplicazione del destinante. In effetti, Greimas invita altri ricercatori a fare

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degli interventi, e cede loro temporaneamente il suo ruolo; in più, certi membri del seminario sono più anziani di altri e possiedono per questo un sapere intermedio tra quello del destinante e quello della maggior parte dei destinatari. Sono questi “anziani” che intervengono più spesso nelle discussioni e che servono da mediatori tra il soggetto e l’anti-soggetto. Infine, l’invitato da Greimas fa spesso parte di questi anziani. “Invitato” e “anziano” sono quindi termini complessi che riguardano contemporaneamente il soggetto e l’anti-soggetto. Da cui lo schema: S

Anziano

Invitato

Greimas studente

S

Per il soggetto come per l’anti-soggetto, l’azione del seminario si riconduce quindi a un programma narrativo: acquisizione, trasformazione, produzione di un sapere. La realizzazione di questo programma attraversa un certo numero di altre azioni: parlare, ascoltare, scrivere, guardare, camminare… sono altrettante azioni che sembrano riferirsi a un livello di superficie, quando invece la produzione di sapere appare come propria al livello profondo. Prenderemo ciascuno di questi livelli isolatamente (cfr. §§ 5.3.2., 5.3.3.). Gli enunciati di fare che riguardano un livello di superficie possono essere divisi in due categorie in relazione al criterio di spostamento: spostamento di tutto il corpo vs. non spostamento di tutto il corpo. La prima categoria è quella del movimento, in relazione alla quale si definisce il luogo del topos (cfr. introduzione). La seconda categoria comprende gli enunciati di fare se-

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guenti: parlare, ascoltare, guardare, scrivere, fumare. Questi differenti “fare”, riguardano tutti un livello di superficie e sono pertinenti per la significazione del seminario: il loro modo di realizzazione permette di classificarli come interni o esterni al seminario. La categorizzazione in interno/esterno al seminario dipende da convenzioni culturali che definiscono la congruenza tra il livello profondo e il livello di superficie: è interno al seminario ogni “fare” di superficie che concorre alla buona realizzazione del “fare” profondo, e quindi alla riparazione della mancanza (assenza di sapere); è esterno al seminario ogni “fare” di superficie che ostacoli o perturbi la riparazione della mancanza e tenda a rompere il contratto. Così, ogni conversazione privata tra i partecipanti al seminario è esterna al seminario, mentre una discussione a proposito del soggetto della seduta è interna al seminario. Funziona allo stesso modo per scrivere, guardare… Da cui due osservazioni: un “fare” esterno al seminario gioca un doppio ruolo di embraiante e di debraiante in relazione al “fare” del seminario. È debraiante nel senso che estrae il partecipante e lo proietta fuori dal seminario. È embraiante poiché questa estrazione non è definitiva ma temporanea: c’è un ritorno al “fare” del seminario, e questo tramite una modificazione del “fare” esterno al seminario. L’esteriorità di questi “fare” è quindi relativa. Essa è doppiamente relativa, ed è l’oggetto della seconda osservazione: è possibile definire due “esterni” dal seminario. Quello di cui si tratta in questo contesto concerne un “fare” che si svolge nel tempo e nello spazio del seminario: è anche possibile definire un altro esterno, più radicale: quello che è fuori dal tempo e dallo spazio del seminario. Si tratta dell’esterno dei non-partecipanti, e che lo riguarda qui solo nella misura in cui permette di definire il topos e il tempo del seminario. 5.3.2. Livello di superficie Lo spostamento: coinvolge tutto il corpo e si definisce per ogni membro del seminario. Prima e dopo il seminario,

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la sala conosce una forte dinamica dei partecipanti. Si tratta della transizione tra l’esterno e l’interno, tra il pubblico e il privato, passando per i differenti spazi dell’edificio (cfr. § 5.2.2.). Il tempo del seminario si caratterizza per l’interdizione del dinamico, o piuttosto per la raccomandazione dell’immobilità (essere seduti), raccomandazione accentuata dall’arredamento dei luoghi dove ogni movimento è reso difficoltoso (cfr. § 5.2.3.). L’immobilità dei partecipanti non è assoluta: essa riguarda solo lo spostamento del corpo intero, mentre le parti del corpo (mani, testa…) conservano una certa libertà di movimento. In questo modo, nello spazio del seminario il percorso è impossibile, ma la posizione seduta conosce un certo grado di mobilità. Notiamo che questa mobilità non è effettiva se non a partire dal momento in cui Greimas attraversa la porta. Prima, la dinamica esterna del seminario viene continuata all’interno della sala. Per gli studenti arrivati prima di Greimas, non c’è alcun passaggio tra l’esterno e l’interno (il non-seminario e il seminario) e di conseguenza non fanno un’“entrata”, così come non fanno un’“uscita” alla fine. Il seminario è instaurato nel preciso momento in cui Greimas fa la sua entrata, come quando in teatro si leva il sipario. In quel momento l’assemblea diventa “il seminario”. Greimas è accompagnato dai propri invitati e dai suoi assistenti, e questa entrata2 è valorizzata in relazione al “pubblico” che funge da anti-soggetto. Inoltre questo percorso apre un passaggio in un luogo dove ogni spostamento è difficile. Durante il seminario, solo il soggetto avrà diritto allo spostamento, all’interno del proprio topos (cfr. § 5.2.3.). Gli altri partecipanti non possiedono questo diritto. Ogni intrusione nel topos del soggetto è una trasgressione resa possibile da un’autorizzazione verbale o gestuale del soggetto. Questa predominanza dello statico avrà come conseguenza una valorizzazione di altri “fare”: per esempio lo sguardo, che percorre lo spazio anche se in un modo differente. Il fare visivo: per l’anti-soggetto, possiamo distinguere numerose sequenze caratteristiche:

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i) l’esplorazione cerca di situare il polo centrale (Greimas) nel campo di visione. Questa esplorazione incorpora nella sua attività frammenti di spazio. La sua importanza proviene dal fatto che permette di mantenere a fatica il contatto con il seminario. ii) La visione ripiegata, diretta verso il fare cognitivo e individuale. Il partecipante scrive, prende appunti, ecc., o ascolta (l’ascolto è un fare particolare che si articola con il “parlare” e il “non parlare”). Nella misura in cui il fare cognitivo è così valorizzato, lo spazio fisico (o naturale) viene svalutato, rigettato a profitto di uno spazio di significato che riguarda il livello profondo del contenuto (cfr. § 5.4.). Questo sguardo volontario può anche essere deconcentrato, assente. Si stacca dal fare cognitivo; è la sonnolenza, il sogno a occhi aperti… Può essere anche meditazione parallela al fare cognitivo di base. iii) Il percorso selvaggio: lo sguardo non è più né concentrato su Greimas, né sul fare cognitivo, ma saltella dai partecipanti ai differenti oggetti, dagli oggetti agli elementi dell’architettura… in mancanza di finestre che, in genere, attirano questa visione “selvaggia”. Bisogna notare che spesso questo tipo di sguardo permette di scoprire lo spazio “naturale”. L’attenzione si sposta dal seminario verso lo spazio in cui ha luogo il seminario. Questo sguardo, concentrato sul livello di superficie dell’espressione, proietta il suo soggetto fuori dal seminario poiché lo estrae dalla catena di produzione del sapere, oggetto del seminario. Osservazione: il fare visivo, anche se minimo, è indispensabile alla presenza effettiva al seminario. L’ascolto della parola registrata, o l’ascolto senza visibilità a partire dal pianerottolo, non è sufficiente a mantenere l’attenzione e a comprendere gli scambi, dei quali una buona parte è gestuale o comunque riportata al fare del soggetto (cfr. § 5.4.). Il guardare del soggetto sembra un controllo, sia che rivesta la forma dell’esplorazione, sia che abbia quella della fissazione. i) L’esplorazione. Il soggetto guarda il suo pubblico per dire: “guardatemi, ascoltatemi”. Per fare ciò, fa giocare la

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sua funzione di embraiante, e manifesta un “voler-fare”. Controlla il passaggio di comunicazione e verifica se c’è una valutazione del suo discorso. Infine, riconosce il suo pubblico-interlocutore e modula il suo intervento in funzione delle reazioni. ii) La fissazione. Greimas sceglie sempre qualche rappresentante del seminario, che guarda tra due esplorazioni in modo sostenuto. I partecipanti così guardati rispondono allo sguardo e lo sostengono. La comunicazione tra il soggetto e l’anti-soggetto si trova allora individualizzata e ha luogo a un livello più personale. Simultaneamente Greimas si assicura che il suo messaggio sia compreso. I rappresentanti non occupano posizioni qualunque: lo scambio visivo necessita di una certa prossimità, se non proprio di una situazione di faccia a faccia. Ritroveremo allora i posti dei rappresentanti nelle vicinanze immediate del soggetto, o nei posti che sono di fronte all’altro estremo del tavolo. Questi posti sono spesso occupati dagli “anziani” del seminario: ricercano la comunicazione con Greimas, e si posizionano quindi di conseguenza; d’altra parte, come Greimas sa bene, gli è più facile rivolgersi a loro. Infine, il soggetto esercita un controllo visivo sull’attività dell’insieme del luogo, in particolare sulla porta, da cui entrano quelli che sono in ritardo, o escono (più rari) quelli che hanno altre preoccupazioni esterne al seminario. Lo sguardo, che sia quello del soggetto o quello dell’anti-soggetto, è direzionale: parte da colui che guarda verso colui che è guardato. Se si prende il punto di vista dell’anti-soggetto, si può dire che gli sguardi convergono su Greimas. Uno sguardo diretto su un’altra persona è uno sguardo esterno al seminario. In maniera simmetrica, Greimas distribuisce il suo sguardo sui membri del seminario. Se si poteva parlare di convergenza degli sguardi partendo dall’anti-soggetto, c’è divergenza di sguardi del soggetto, e nei due casi, c’è un polo unico: Greimas, punto di arrivo delle direzioni dello sguardo.

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Questo è il funzionamento normale degli sguardi del seminario. Notiamo tuttavia che Greimas può depolarizzarsi e far convergere gli sguardi sull’invitato, su un partecipante, o anche su un oggetto (pacchetto di sigarette). Per farlo, gli basta dire qualche parola, e il suo fare prende allora uno statuto metasemiotico in relazione al fare del seminario: arriva a regolare quest’ultimo. Siamo giunti al terzo fare di superficie: la parola.

La parola: è il fare di superficie principale: in effetti, la produzione di sapere si costituisce attraverso la parola. Se la scrittura gioca un ruolo non trascurabile, allo stesso modo della gestualità e delle relazioni spaziali, la parola gioca un ruolo privilegiato che possiamo ricondurre a due fattori: i) un fatto culturale, che privilegia la parola, la discussione, e gli attribuisce particolare valore nel dominio considerato. Al contrario, possiamo notare che l’insegnamento e la produzione di parola nell’architettura o nella pittura non valorizzano la parola allo stesso modo; ii) un fatto strutturale: la lingua naturale, veicolata dalla parola, permette di tradurre altri linguaggi. Soggetto e anti-soggetto fanno ricorso alla parola nella realizzazione del programma narrativo del seminario. Tuttavia, solo il soggetto possiede una metaparola: quella che gli permette di regolare lo svolgimento della produzione di sapere. Lui solo possiede la parola piena, la cede, la distribuisce al momento delle discussioni. Questo potere gli viene devoluto istituzionalmente in funzione di quel suo sapere che gli permette di valutare il sapere degli al-

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tri. Questo meccanismo di attribuzione del “poter parlare” al detentore di un sapere è generale nello svolgimento del seminario: per intervenire nelle discussioni, bisogna sapere di che cosa si parla, e in più, bisogna possedere un vocabolario adeguato. La non padronanza di fondo o del vocabolario esclude il partecipante dalle discussioni. A ogni modo, esiste un solo sapere regolatore, posto al di sopra di tutti gli altri: quello di Greimas. La parola dell’anti-soggetto può essere caratterizzata, come gli altri fare di superficie, in interna o esterna al seminario. Il parlare del seminario riguarda due categorie: la domanda e la valutazione. Nei due casi, il partecipante che parla ricorre al suo sapere anteriore. Ponendo una domanda, dice che a suo avviso il discorso del soggetto è stato incompleto e che bisogna completarlo. Si tratta di una valutazione implicita, comparabile alla valutazione esplicita che può enunciare e che ha senso solo se sa già qualcosa a proposito dell’oggetto discusso in seno al seminario. Il parlare esterno al seminario non si indirizza all’insieme dei partecipanti (come invece era il caso del parlare interno al seminario) ma unicamente a un vicino o a un piccolo numero di vicini. Questi discorsi a parte possono essere strettamente privati, caso in cui sono esterni al seminario, oppure avere un rapporto con ciò che sta dicendo il soggetto, e in questo caso hanno uno statuto ambiguo, al contempo interno ed esterno. Vediamo in questo caso un esempio preciso di quello che abbiamo chiamato “fare embraiante/debraiante” quando abbiamo parlato del fare di superficie in generale (cfr. § 5.3.1.). Esiste anche un parlare ancora più esterno al seminario: quello che ha luogo fuori dal tempo del seminario sebbene nell’edificio contenente il luogo di quest’ultimo. Possiamo osservare che la parola è allora libera, così come gli spostamenti: c’è un simultaneo levarsi delle interdizioni di parlare e di non muoversi. Durante il seminario, la parola è vietata, salvo autorizzazione del detentore del potere e del sapere, mentre il parlare lascia il posto

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all’ascoltare, al guardare, al meditare, allo scarabocchiare… altrettanti “fare” che presuppongono la parola di un altro. La parola del seminario è esclusiva: che sia il soggetto o un partecipante, colui che parla è solo a parlare, e gli altri osservano l’interdizione. Abbiamo visto che la relazione dello sguardo del soggetto e dell’anti-soggetto non è esclusiva: c’è uno scambio di sguardi e c’è comunicazione visiva. La parola sembra quindi qualcosa di maggiormente gerarchizzante. Questo fatto è rilevante anche a livello delle relazioni tra i partecipanti: due astanti possono guardarsi senza che questo concerna il soggetto che parla. Al contrario, ogni scambio di parole (interne al seminario) si indirizza indirettamente al soggetto: è in relazione a ciò che ha appena detto che si può ingaggiare una discussione tra due partecipanti. Lo schema polare del seminario in relazione al fare “parlare” è quindi il seguente:

Il soggetto parla ai partecipanti, cede loro la parola, caso in cui la parola gli è direttamente o indirettamente indirizzata. Benché sia interessante studiare le azioni di “scrivere”, “ascoltare”, “fumare” (che sono interni al seminario) e “fantasticare”, “dormire”, “scarabocchiare” (che sono esterni al seminario) che sono stati osservati, e opporle a “parlare” e a “guardare”, dobbiamo rinunciarvi per due

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ragioni: la mancanza di spazio, e il fatto che è più difficile metterli in connessione con il livello profondo. Passeremo allora direttamente allo studio di questo livello. 5.3.3. Livello profondo Si caratterizza per un programma narrativo che pone un solo oggetto-valore: il sapere. Il soggetto e l’anti-soggetto si definiscono rispettivamente mediante la congiunzione e la disgiunzione con il sapere, e abbiamo visto come queste relazioni (congiunzione e disgiunzione) risultino da una convenzione: l’anti-soggetto nega il suo sapere anteriore per giocare il ruolo di destinatario, mentre manifesta il proprio sapere quando intraprende il ruolo di valutatore dell’oggetto-valore proposto dal destinante. Allo stesso modo, il soggetto nega il suo sapere per ricevere la valutazione dell’antisoggetto e trasformare così il proprio sapere in modo che ci sia produzione e non solo trasmissione di un oggetto-valore. Mostrando di non sapere, il soggetto e l’anti-soggetto concorrono a produrre un sapere; giocano un ruolo simile ed è il seminario intero che finisce per essere il soggetto dell’enunciato “produzione di sapere”, mentre l’EHESS appare nel ruolo di soggetto dell’enunciazione. Nella misura in cui l’EHESS delega il suo potere a Greimas, gioca il ruolo di soggetto dell’enunciazione e accetta implicitamente di attribuire al seminario il ruolo di soggetto dell’enunciato. Una simile distribuzione di ruoli rende conto di un contratto implicito tra l’EHESS, Greimas, gli studenti e i ricercatori che partecipano al seminario. Nel quadro di questo contratto, il potere è attribuito al detentore del sapere, Greimas. Sulla base del suo sapere, ha il potere di controllare lo svolgimento del seminario e di esercitare (a livello di superficie) un fare metasemiotico sul fare del seminario (§ 5.3.2.). Come contropartita, è sottomesso a un dover dire: deve parlare, comunicare un sapere, provocare la comunicazione e la produzione di un sapere. Quando delega il suo ruolo di soggetto a un invitato, gli delega una parte del suo potere (quello di parlare) ma conserva quello di regolatore metasemiotico in relazione al fare del seminario.

LO SPAZIO DEL SEMINARIO

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Il partecipante è sottoposto a un dover ascoltare, e a un dover non muoversi, non parlare, non disturbare. Il potere di parlare non gli è concesso se non quando, prendendo la parola, può dimostrare di possedere un sapere. I dover-fare del soggetto e dell’anti-soggetto si esprimono facilmente a livello di superficie, mentre sono più difficili da mostrare a livello profondo. Tuttavia, non c’è dubbio che, se il seminario non producesse più sapere, la sua esistenza ne sarebbe minacciata, sia dal punto di vista della frequentazione sia dal punto di vista istituzionale: l’EHESS non manterrebbe a lungo un seminario dove non viene prodotto nulla, e l’“Annuario della Scuola” è stato pensato per testimoniare tutti gli anni, forse solo amministrativamente, la produzione del sapere. Nel contratto implicito che lega Greimas ai suoi studenti da una parte, e l’insieme del seminario all’EHESS dall’altra, il sapere oggetto del contratto non è posto come un valore assoluto: è sottoposto a valutazione, tanto all’interno del seminario quanto tra il seminario e l’EHESS. In particolare, il sapere può non essere riconosciuto. Questa situazione di produzione di un sapere nuovo può utilmente essere opposta alla trasmissione di un sapere acquisito assunto dall’insegnamento ex-cathedra: il sapere da trasmettere è definito dall’istituzione, e gli apprendisti lo ricevono come vero, questa verità essendo un valore costante non soggetto a valutazione. Di conseguenza, se il funzionamento dell’insegnamento ex cathedra è ben quello dell’esecuzione di un contratto, quello del seminario sembra per opposizione retto da condizioni più flessibili che giustificherebbero, se ce ne fosse ancora bisogno, il termine di convenzione che abbiamo già introdotto a questo proposito. Ancora, una convenzione può andare d’accordo con un certo numero di modalità, mentre il contratto definisce la sola modalità che lo realizzi. In questo modo il contratto ex cathedra impone all’anti-soggetto un unico dover-sapere, mentre la convenzione del seminario riconosce all’anti-soggetto un volere (non c’è alcun obbligo di venire) che può applicarsi a due “fare” differenti: acquisire un sapere, produrre un sapere. Sono i diversi aspetti della convenzio-

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ne del livello profondo che condizionano il dettaglio dei fare di superficie da noi visti precedentemente (§ 5.3.2.). 5.4. Tentativo di correlazione dell’espressione e del contenuto 5.4.1. Semiosi e commutazione Sono i membri del seminario (al contempo il soggetto e l’anti-soggetto) che concorrono, con il loro fare, a dare un senso e a strutturare il contenuto che abbiamo tentato di analizzare. Il senso è prodotto dai membri, ed è destinato (anche se solo in parte) ai membri stessi. Benché si appoggi sullo spazio e sulle configurazioni degli oggetti, il fare dei membri tende a dimenticare gli oggetti a profitto della produzione di sapere. Ciò che viene affermato, è un fare cognitivo, ed è convenzionalmente raccomandato di non tener conto delle condizioni fisiche: così, non si viene scomodati dal calore eccessivo, dal fumo delle sigarette, dalla strettezza del luogo, dalle correnti d’aria… tutte variabili di quello che abbiamo chiamato il livello dell’espressione, che sono relegate in secondo piano, implicitamente negate. Tutto sommato, lo spazio fisico non è valorizzato, e sembra che la produzione di sapere sia la sola a essere riconosciuta come valore. Uno schema simile non dovrebbe stupirci, poiché è proprio quello di ogni simbolizzazione: il significante permette di cogliere il significato; quel che è importante in una comunicazione non è il significante in se stesso, ma ciò a cui rinvia. Tuttavia, il significato non può essere colto senza il suo significante, e bisogna guardarsi dall’attribuire un senso troppo forte alla negazione di cui parlavamo qui sopra a proposito dello spazio fisico del seminario. L’analisi dei paragrafi 5.3.1. e 5.3.2. ci ha permesso di vedere che cogliere il livello del contenuto viene valorizzato come interno al seminario. In più, i “fare” di superficie che permettono di effettuare l’una o l’altra presa sono gli stessi, cosa che ci ha indotto a nominarli embraianti/de-

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braianti. Sembra che un interesse eccessivo per l’espressione impedisca la percezione del contenuto e viceversa. C’è quindi un equilibrio tra lo spazio fisico e lo spazio immaginario del fare cognitivo della produzione di sapere: quando uno è troppo presente, l’altro tende a sparire. Questo equilibrio è instabile, e la convenzione (§ 5.3.3.) è presente per assicurarne il mantenimento. A titolo di esempio, quando abbiamo analizzato lo spazio del seminario, ci siamo trovati al di fuori di ciò che si faceva in seno al seminario: non potevamo simultaneamente osservare lo svolgimento del fare e prendere parte a questo fare. Nel quadro di questa convenzione, il contenuto non nega lo spazio fisico ma lo presuppone, poiché non può esistere senza quest’ultimo. Resta la questione di sapere quali ne siano gli elementi strettamente presupposti, e quali sono quelli contingenti. Vedremo, attraverso la commutazione, che la presupposizione lega essenzialmente i livelli profondi dell’espressione e del contenuto. Il seminario di Greimas ha avuto luogo in diversi posti (rue de Bernardinis, rue de Varenne, rue de Tournon). Possiamo commutare i luoghi a condizione di rispettare certe costrizioni: - chiusura spaziale: c’è bisogno di uno spazio che possa essere riconosciuto come quello del seminario, in opposizione allo spazio esterno al seminario. - chiusura temporale: c’è un tempo del seminario, caratterizzato da una durata limitata (due ore) che definisce ciò che non è il tempo del seminario nel periodo (sette giorni) che separa una seduta da un’altra. - importanza numerica degli astanti: se ci sono meno di dieci persone, non c’è seminario, se ce ne sono più di cento, è un corso. - presenza di Greimas o di un suo sostituto. Se queste condizioni sono soddisfatte, il seminario può aver luogo. Possiamo osservare che ci sono poche condizioni relative allo spazio fisico, mentre ci sono due condizioni essenziali relative ai membri: bisogna che ci sia un soggetto e un anti-soggetto affinché ci sia un fare; esiste

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una soglia inferiore e una soglia superiore per il numero dei partecipanti anti-soggetti. C’è quindi una preminenza delle persone sugli oggetti. Basta un sistema fisico minimale se le condizioni sulle persone sono soddisfatte. Abbiamo già osservato (§ 5.2.4.) che il seminario può aver luogo all’aperto. In quel caso lo spazio occupato dai membri si definisce come quello del seminario, opposto al resto non occupato. Una simile riunione può essere considerata come seduta ordinaria del seminario se raccoglie i membri abituali nel periodo abituale. Lo spazio del seminario tenderà a essere circolare (senza alcun obbligo di regolarità), e conterrà un buco al bordo del quale verrà situato il detentore del sapere (Greimas o il suo sostituto). Così, ciò che è spazialmente pertinente, è la seguente configurazione topologica: uno spazio con un buco e un polo. Lo spazio (con i suoi membri) è l’espressione del segno che significa l’anti-soggetto, il polo (con il suo occupante detentore del sapere) è l’espressione del segno significante il soggetto, e il buco sembra una necessità topologica per autorizzare le varie azioni di superficie: parlare, guardare, ascoltare… Il buco è necessario all’attività del seminario e al suo sviluppo sintagmatico. Nella sala della rue de Tournon, il buco è occupato dal tavolo, che sembra quindi riguardare il livello di superficie. Il fatto di essere attorno al buco, pone i membri in un certo rapporto di uguaglianza, necessario per convenzione.

Questo vuoto può essere riempito da un tavolo, pieno o svuotato, rettangolare o quadrato… Questo non modificherà in profondità il rapporto iniziale tra i membri (seb-

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bene le differenti realizzazioni di superficie possano introdurre dei contenuti non trascurabili, cfr. Bonta (1972) e anche le nostre osservazioni del paragrafo 5.2.4. sulle relazioni “attorno al tavolo” e “essere vicini a Greimas”). Possiamo opporre tutto ciò allo spazio dell’insegnamento ex cathedra, dove lo spazio degli uditori si oppone a quello del detentore del sapere. Questi due spazi sono distinti, e la loro differenza è significata da una barriera in legno, o da un pulpito… La barriera separa il sapere dal non-sapere, mentre il vuoto del seminario rende possibile la produzione di sapere.

Un’osservazione: il livello profondo del contenuto (soggetto, anti-soggetto, oggetto valore) non presuppone che il livello profondo dell’espressione (uno spazio fisico, un polo, un foro o una barriera). A ogni catena sintagmatica di fare corrisponde una configurazione topologica propria: S

O

S

S

O

S

Affinché il programma narrativo di produzione del sapere possa svolgersi, ovvero affinché ci sia seminario, basta una configurazione minima delle espressioni dei segni cor-

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rispondenti agli attanti. Sono i fare di superficie che impongono delle condizioni a livello di superficie dell’espressione (sedie per sedersi, tavolo e lavagna per scrivere, illuminazione, muri, isolamento…), e mentre la corrispondenza sembra particolarmente stretta tra i due livelli di profondità, essa è meno precisa tra i due livelli di superficie. 5.4.2. I poli espressioni di segni del livello profondo Proseguiremo l’analisi articolandola sull’opposizione degli spazi seminario vs. ex cathedra, a partire dai precedenti schemi topologici stabiliti. Lo spazio ex cathedra è composto di due soli poli, nettamente separati, fissi. Corrispondono al soggetto e all’anti-soggetto, che formano due poli distinti. Abbiamo quindi uno spazio semplice bipolare. Non è la stessa cosa per il seminario. Abbiamo visto (§ 5.3.1.) che il soggetto può raddoppiarsi e cedere il suo ruolo a un invitato o a un anziano, che giocano allora il ruolo di detentore del sapere. A livello di strutture profonde, lo schema topologico non cambia: c’è sempre un soggetto il cui spazio fisico è incluso topologicamente nello spazio fisico dell’antisoggetto. Bisogna tuttavia tener conto di due fattori: i) Greimas è sempre presente, e mantiene il ruolo di regolatore dello svolgimento sintagmatico. Ci sono quindi tre poli: un anti-soggetto, un detentore del sapere, e un detentore del potere. ii) La persona invitata a parlare appartiene spesso al seminario. Essa fa parte dell’anti-soggetto abituale ed esce provvisoriamente dal suo gruppo per giocare il ruolo di soggetto. Durante lo svolgimento delle ulteriori sedute, essa mantiene qualcosa di questo poter parlare che le è stato concesso, ed essa interviene più spesso degli altri partecipanti. Se non ha tutte le qualità di un polo, ne possiede tuttavia alcune. Il seminario possiede quindi più di tre poli: è multipolare, e questa multipolarità è variabile. La multipolarità dei soggetti dello spazio del seminario si manifesta non solamente dal trasferimento del potere tra Greimas e il(i) suo(suoi) invitato(i), essa si manifesta nell’ampiezza dello spostamento fisico riconosciuto al sog-

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getto: convenzionalmente, quest’ultimo può abbandonare la sala, andare alla lavagna, parlare mentre cammina… Greimas non occupa sempre lo stesso posto, ed è lo stesso per i suoi invitati (nell’asse del tavolo, a destra, a sinistra, cfr. §§ 5.2.3., 5.2.4.). Questa mobilità dei poli a livello di superficie tocca anche l’anti-soggetto: se l’anti-soggetto è sempre uno spazio fisico unico dal punto di vista topologico, bisogna distinguervi dei poli dal momento in cui c’è una presa di parola. Ogni partecipante può prendere la parola, essendo questa una condizione fondamentale per lo svolgimento del seminario. In questo modo, lo spazio dell’anti-soggetto potrebbe diluirsi in una moltitudine di poli individuali. Nei fatti, le cose non funzionano in questo modo poiché la presa di parola è condizionata dal possesso di un sapere, di un lessico e di una tecnica di intervento. Ci sono anche partecipanti che non prendono mai la parola mentre altri lo fanno regolarmente (§§ 5.2.4., 5.3.2.). Inoltre, nelle condizioni di realizzazione del seminario in rue de Tournon, ci sono posti della sala dove la parola non viene mai presa (il pianerottolo, la porta). Sono sub-topoi del polo anti-soggetto dove la parola è resa impossibile dalla configurazione dei luoghi. Possiamo allora vedere esprimersi tramite la multipolarità sul piano dell’espressione, le condizioni complesse della convenzione che regge il seminario, quando invece il contratto dell’insegnamento ex cathedra si esprime attraverso uno schema bipolare semplice. Al di fuori delle relazioni topologiche che i topoi intrattengono tra loro, possiamo mettere in evidenza direzioni determinate dai poli presi a due a due. Lo stesso termine di polo (che abbiamo utilizzato in queste pagine per distinguere soggetto e anti-soggetto sull’asse della trasmissione del sapere dello spazio ex cathedra) richiama la nozione di direzione, e anche quella di convergenza e di divergenza delle direzioni. La nozione di polo e quella di direzione sono legate tra loro e si definiscono reciprocamente. Le direzioni che ci concernono negli spazi pedagogici sono quelle della comunicazione tramite la parola, il gesto,

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la scrittura (alla lavagna). La parola può essere accoppiata a una direzione che parte dal soggetto e va verso l’anti-soggetto che guarda il soggetto. Questa distinzione proviene dall’uso che facciamo della lingua naturale dove è la parola che possiede una direzione e non l’ascolto, e dove è lo sguardo a essere marcato e non il gesto o il segno guardato. Abbiamo visto che allo sguardo corrisponde un antisguardo che vi risponde (§ 5.3.2.) e che alla parola corrisponde uno sguardo e un ascolto che si inscrivono nella stessa direzione ma in senso opposto. Lo spazio ex cathedra non conosce che due poli, quindi una sola direzione. Nel senso che va dal soggetto verso l’anti-soggetto, la direzione è quella della parola: il senso, che è quello della trasmissione dell’oggetto sapere, è fissato. Gli uditori non hanno il diritto di parlare, ascoltano. Tuttavia, l’ascolto in sé è insufficiente alla comprensione di un certo numero di messaggi, da cui la necessità per l’antisoggetto di guardare. Il soggetto stesso non ha sovente bisogno di guardare i suoi destinatari. D’altronde, non potrebbe nemmeno guardarli tutti: sono troppo numerosi. Solo la direzione dello sguardo dell’anti-soggetto è marcata, e se si vuole tenere conto della molteplicità degli uditori, bisognerà parlare della convergenza degli sguardi sul soggetto. In quel caso è polo in senso stretto.

Per opposizione, la multipolarità dello spazio del seminario ci presenta schemi direzionali più complessi. La parola del soggetto si indirizza all’anti-soggetto nel suo insieme, ma abbiamo visto che Greimas sceglie persone a cui indiriz-

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za più precisamente il suo discorso. La direzione della sua parola raddoppia quella del suo sguardo, ed è questa congiunzione che personalizza la comunicazione. Funziona allo stesso modo per un buon numero di ospiti che Greimas invita a parlare, anche se essi hanno la tendenza a indirizzarsi a Greimas stesso come anti-soggetto, e non agli astanti. Questa comunicazione privilegiata si esprime mediante la congiunzione delle direzioni della parola e dello sguardo. Abbiamo anche visto che i membri del seminario possono indirizzarsi gli uni agli altri, e che questa comunicazione (parola e sguardo) si indirizza anche a Greimas per interposta persona; tutto ciò ci fornisce uno schema direzionale riflesso, nuovo in relazione agli schemi precedenti, poiché il destinatario reale non è il destinatario apparente.

Tra queste direzioni, la sola marcata a livello di superficie è quella che va dal soggetto verso l’anti-soggetto. Le altre, accessibili alla nostra osservazione e destinate ad altri poli, non sono inscritte nel sistema degli oggetti che serve da cornice al seminario. 5.5. Conclusione Questo è uno studio limitato. Infatti ha preso come oggetto un fare istituzionale che possiede un luogo e un tempo precisi. Si tratta dunque di un oggetto particolarmente semplice, i cui livelli dell’espressione e del contenuto sono facilmente separabili, così come ciascuno di essi si presta molto bene all’analisi. Ciò che manca, a ogni modo, è una sintassi che si manifesta al contempo sul piano dell’espressione e del

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contenuto. Essa è appena abbozzata. Una tale sintassi si riferirà a una semiotica generale dello spazio, che attualmente è lontana dall’essere elaborata. Bisogna anche tener conto del fatto che il nostro oggetto è troppo ridotto, troppo semplice per permettere di sviluppare una sintassi generale. Non è tutto: questa analisi mette in evidenza un fatto che, a nostra conoscenza, è interamente nuovo: è la stretta dipendenza tra i livelli profondi dell’espressione e del contenuto. Mentre il modello elaborato dal Gruppo 107 non metteva in opera che l’opposizione sistema vs. processo, noi abbiamo sentito il bisogno di distinguere, per articolare questa analisi, i livelli di profondità e di superficie all’interno stesso del sistema. Fatta questa distinzione, potevamo vedere ciò che era soggiacente al modello della “semiotica dello spazio” del Gruppo 107 e che è rimasto implicito: i topoi sono unità che permettono di raggiungere la struttura profonda dell’espressione e di metterla in diretto rapporto con la struttura profonda del contenuto. Quest’ultima assume allora le apparenze di un programma narrativo. Questo punto di vista è nuovo nella teoria dell’architettura. Se la nozione di “fare” appariva già come una generalizzazione della nozione di “funzione”, l’articolazione del fare in programma narrativo apre orizzonti insperati. Prendendo in considerazione lo spazio che articola le mancanze e i programmi che le riparano, la semiotica potrà servire all’elaborazione dell’architettura. Infine, bisognerà spingere le nostre ricerche al di là di questo studio e tentare di vedere ciò che, in una semiotica spaziale, corrisponde agli enunciati di stato trasformati dagli enunciati di fare che ora siamo in grado di percepire. Tutto ciò resta da fare.

1 Apparso in «Communication», 27, 1977, pubblicato in collaborazione con Sylvie Arango, Eric Kuyper, Émile Poppe. 2 Nello spazio ex cathedra, l’entrata del “soggetto” è ancora più marcata: il professore entra ed esce da una porta speciale posta vicino alla lavagna. L’anfiteatro è quindi un doppio vicolo cieco, sia per il soggetto sia per l’anti-soggetto.

Capitolo sesto La promessa del vetro1

Saneya non perdeva nessuna occasione per venire a vedere, attraverso gli interstizi della moucharabieh, ciò che accadeva nel caffè. Dopo la partenza di Mohsen per Damanhour, lei vi passava anche la maggior parte della sua giornata. Ora, lei non era mai riuscita a ottenere lo sguardo di Mostafa. (…) dopo corse alla finestra per respirare un po’ e rinfrescare il suo viso scarlatto (…). Ma non appena il suo viso si fu posato sul caffè, vide Mostafa che sembrava aspettare l’apparizione di qualcuno alla finestra (…) sorpreso inizialmente, poi interessato, il giovane uomo aveva alzato gli occhi e, improvvisamente, i loro sguardi si erano incontrati…2

Mettendo da parte l’aspetto orientale del racconto, esaminiamo gli eventi che riporta. In una prima sequenza, la ragazza guarda, sperando di essere guardata. Nell’ultimo passaggio, la sua apparizione sembra attesa, gli sguardi si incrociano, e qualche cosa accade. Questi frammenti di racconto che abbiamo giustapposto mettono in scena dei possibili casi di figura di quel che potremmo chiamare genericamente congiunzione visiva. Vi si nota che la congiunzione tra un soggetto osservatore e un oggetto guardato è valorizzata solo nel momento in cui una relazione di desiderio – non è necessario che sia simmetrica o positiva – esiste tra i due. Nell’indifferenza, il guardante non percepisce nemmeno di vedere tale o tal’altra cosa in particolare, e la sua attività visiva si fonde in un continuum relativamente desemantizzato. Quanto al guardato, non è cosciente del suo stato, e non vi dà alcuna importanza, se non quando attribuisce un valore positivo o negativo alla persona che lo guarda.

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Il riconoscimento del desiderio come condizione necessaria alla valorizzazione della congiunzione visiva ci permette di riconoscere altre possibili situazioni: la vista causa un dispiacere, si gioisce a vedere senza essere visti, si è scontenti di essere visti… Inscritta in queste differenti possibilità, una parete di vetro che separa il guardante dal guardato modifica la situazione e introduce particolari effetti di senso. Per una situazione simile a quella del racconto citato, non è necessario che la finestra sia fornita di vetro, si potrebbe benissimo riposizionare questa scena in una loggia fiorentina o in una villa del nord dalle finestre ornate da tendaggi. Comparabile sotto certi aspetti al velo o alla moucharabieh, il vetro installa una dissimmetria in una situazione che sarebbe altrimenti simmetrica. Infatti, in assenza di schermo più o meno trasparente tra il guardante e il guardato, la relazione sarebbe fisicamente reversibile. Consideriamola nella sua reversibilità prima di esaminare gli effetti introdotti dalla dissimmetria. Ciò che è presupposto dalla situazione di Saneya e Mostafa è che sono situati in due differenti luoghi tra i quali passa una frontiera. Una simile frontiera può non essere materialmente marcata e pertanto risultare dalla distanza che impedisce una congiunzione più diretta, come può essere manifestata da deviazioni, corridoi o scale che avrebbero eliminato la visione sull’oggetto desiderato. La frontiera può anche derivare dalla presenza di un gruppo sociale che disapprova la congiunzione fisica, ammettendo che la congiunzione visiva sia tollerata o passi come non percepita. La situazione iniziale, in cui avevamo solo tre termini – Saneya, Mostafa e la finestra – si rivela quindi più complessa: da una parte, c’è un raddoppiamento delle istanze umane per l’apparizione dei luoghi di inserzione, che implica almeno due spazi separati da una frontiera; d’altra parte si vede apparire un’istanza antropomorfa terza, che apporta un giudizio sulla congiunzione possibile tra i due protagonisti iniziali. Si possono sistemare questi termini in due triadi messe in corrispondenza:

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i) una triade antropomorfa, rappresentata in questo caso da Saneya, Mostafa e il gruppo sociale circondante; ii) una triade spaziale, composta da un interno, un esterno e una parete divisoria con un’apertura che può ricevere diversi trattamenti. Disegnato il quadro minimo della nostra investigazione, la parete in vetro prenderà posto in questo contesto. Le placche di vetro interposte l’una accanto all’altra dal fabbricante sono interessanti nella misura in cui qualcuno potrà metterle in opera in uno spazio socializzato. Le situazioni in cui il posto di una delle due persone è occupato da un oggetto (come un’incisione o una scultura…) o da un fenomeno naturale (il vento, la pioggia, il sole…) non sono che una semplificazione del caso generale, e non sussiste che un solo punto di vista, nel senso proprio e figurato di questa espressione. Riprendiamo il caso della finestra e consideriamo il muro in cui essa è aperta. In uno spazio sociale, il muro riempie due funzioni essenziali: impedisce a qualcun altro di entrare e impedisce di guardare. In altri termini, veicola l’interdizione di due varietà di congiunzione: una congiunzione visiva di natura cognitiva, e una congiunzione somatica, situata sulla dimensione pragmatica. Inscritte in una logica simile, le porte sono aperture otturabili scavate nel muro al fine di lasciar entrare e uscire le persone e le cose; le finestre sono aperture otturabili destinate a lasciar passare certe categorie di cose (l’aria, la luce) e che interdicono normalmente l’ingresso alle persone. Un muro non bucato da aperture equivarrà a un solido pieno impenetrabile: diventerà impossibile sapere direttamente ciò che c’è dietro, a meno di non praticare un’apertura e di far penetrare una sonda che riporti un’informazione mediatizzata. In quest’ultimo caso, si sarà condotto un passaggio adattato a un soggetto informatore delegato, secondo la procedura generale della strumentazione scientifica. Al contrario, l’assenza totale di muro porrà i protagonisti in una situazione indeterminata, dove ogni congiunzione diverrà possibile, a meno che altri attori sociali non vi mettano qualche forma di muro. Tra questi

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due poli estremi del muro impenetrabile e dell’assenza di muro, i muri ammobiliati e dotati di aperture offrono un’infinita varietà, quella di cui la manipolazione ha motivato l’ingegnosità dei costruttori e di cui l’analisi offre qualche interesse. Insomma, solo il superamento condizionale delle frontiere è interessante. Supponiamo di essere in un caso in cui non ci siano muri. Si può porre questa ipotesi localmente, visto che anche il deserto offre i suoi accidenti di terreno a chi vuole vedere, farsi vedere, nascondersi… Per fissare le idee, prendiamo uno spazio relativamente vasto e contenente molta gente, il foyer di una sala di spettacoli al momento dell’intervallo. Gruppi di conoscenti si costituiscono, e si formano circoli per chiacchierare. Le buone maniere impediscono, alle persone isolate che circolano, di attraversare tali circoli. I corpi in fila formano un muro, con la convergenza degli sguardi a marcare un interno di un territorio privatizzato e la fila delle schiene a marcarne l’esterno. Solo le persone conosciute da uno o più membri di un circolo sono ammesse in seno a esso, il quale si ingrandisce per far posto ai nuovi arrivati. Ritroviamo così, senza nessun’altra iscrizione materiale di quella dei corpi delle persone presenti, i costituenti della situazione che abbiamo esaminato in precedenza: uno spazio interno, uno spazio esterno, persone dentro e altre fuori, una frontiera il cui varco è sottoposto ad alcune condizioni. Ciò che è rivelatore in quest’ultimo esempio è che il controllo è esercitato da un gruppo che traccia frontiere, per quanto effimere. Le frontiere durature sono costruite da gruppi che delegano a un dispositivo stabile una parte dei compiti di controllo, ottenendo il permesso di dedicare il proprio tempo ad altre attività. È sufficiente allora limitare lo spazio del passaggio affinché le operazioni di controllo siano limitate. Di conseguenza, le frontiere materiali non sono altro che dispositivi investiti di funzioni che sono loro delegate da soggetti attivi: agiscono a loro volta come soggetti delegati. A questo titolo, il muro pieno impedisce il passaggio: lo fa a nome di qualcuno, al suo

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posto. Il muro non è un ostacolo naturale, ma un oggetto sociale inscritto in uno spazio sociale, e più particolarmente tra un attore che ne è il padrone e altri attori che possono presentarvisi davanti. Potremmo argomentare che il muro protegge dal vento e dal freddo. Ciò è esatto, ma il vento e il freddo non sono altro che attori indesiderabili in grado di aggredire il padrone di casa. La loro designazione attraverso termini della lingua non fa che tradurre l’identificazione sociale che li isola dall’ambiente indifferenziato, così come essa reperisce le loro sfere d’azione desiderabili o indesiderabili. Il loro accesso è controllato dal dispositivo del muro ammobiliato, allo stesso titolo di quello degli attori umani. Il controllo delegato agli oggetti dipende dalle qualità relative dell’attore di cui l’accesso è controllato e di quelle del materiale delegato al controllo. A titolo di esempio, una griglia destinata a impedire il passaggio dei bambini deve avere barre più strette di una griglia che interdica il passaggio di adulti. Un vestito invernale deve essere tessuto in modo fitto per interdire il passaggio del vento freddo. Uno specchio deve avere maglie di dimensioni inferiori al quarto della lunghezza d’onda delle radiazioni riflesse, con la possibilità di fare maglie di parecchi decimetri di lato per gli specchi riflettenti onde radio. Tali esempi illustrano casi di interdizione selettiva. Si possono fornire altri esempi per l’autorizzazione selettiva: una porta deve essere abbastanza larga per far passare un uomo con un carico, un vestito deve essere abbastanza leggero per lasciar passare l’aria attraverso le sue maglie pur proteggendo il corpo dal sole o dagli sguardi, e un vetro a specchio deve lasciar vedere da una parte continuando a riflettere la luce dall’altra. Ci importa, dal punto di vista del passaggio condizionale, di esplicitare questa nozione di base: un oggetto non possiede delle qualità in sé, ma di fronte a un altro oggetto. Per questa ragione si sceglieranno elementi che materializzeranno una frontiera in funzione delle entità che possono passarvi attraverso.

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Cosa fa una parete di vetro? In primo luogo, e allo stesso titolo di altri materiali, essa permette a colui che la pone di realizzare un certo numero di atti di controllo. Di fronte agli agenti atmosferici, essa è impermeabile, quasi inalterabile; interdice l’accesso del vento e delle polveri, lascia entrare i raggi solari. A questo proposito, essa è selettiva poiché se è vero che lascia entrare la maggior parte dell’irrag-giamento, impedisce l’uscita dell’irraggiamento infrarosso, da cui l’apparizione dell’effetto serra. A partire da questo inventario parziale, possiamo dedurre che il controllo si esercita sui due registri del permesso e dell’interdetto. A faccia a faccia con l’uomo, la parete di vetro impone dei comportamenti: a meno di non romperla, essa impone a colui che desidera raggiungere l’altro lato di fare un giro intorno e di passare attraverso un’altra apertura e un altro controllo. Come nel caso del foyer del teatro, dove le buone maniere impongono di non attraversare un circolo in conversazione, è la preservazione del contratto sociale e l’evitamento dell’aggressione che impongono di non rompere il vetro. Questo ritorna a dirci che non è il vetro a imporre alcunché, ma è la convenzione sociale. Rimane tuttavia che l’interdetto sociale è stato inscritto nel vetro, e che il vetro in genere ne mantiene memoria in qualche modo. A questo titolo, il vetro enuncia al posto di entità sociali che sono installate in quel luogo: realizza, tramite delega, atti di comunicazione comparabili in ogni punto ad atti di linguaggio. Se, da un punto di vista antropomorfo, la parete in vetro enuncia di fronte a colui che vi si avvicina l’interdizione alla congiunzione somatica e l’autorizzazione alla congiunzione visiva, essa è, per colui che l’ha installata, in una situazione differente: gli deve un servizio, quello di compiere il suo ruolo. In virtù di quest’obbligo dovuto dalle cose il padrone di casa può assentarsi, delegando alle cose la preoccupazione di annunciare l’interdetto e di farlo rispettare. Allo stesso titolo di altri materiali installati al controllo delle frontiere regolate, la parete di vetro deve

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un servizio. La costanza delle cose, e la loro assenza di volontà propria, fa sì che si possa contare su di esse: continueranno a fare ciò a cui le si destina, a meno che non ci sia un errore di concezione o di programmazione. In altri termini, potremmo dire che colui che installa un dispositivo di controllo di una frontiera promette a se stesso che questo dispositivo funzionerà, e questa promessa si trova inscritta nel duro: in ciò che è stato pianificato. Tuttavia c’è dell’altro. In alcune circostanze, infatti, la parete di vetro veicola altre promesse, transitive e non riflessive. In un aeroporto, si può vedere spesso il seguente dispositivo: le persone venute a ricevere i viaggiatori all’arrivo, possono percepirli nell’atto di compiere un certo numero di formalità (controllo dei passaporti, recupero dei bagagli) prima della loro uscita dalla zona “sotto dogana”. In questi istanti, la parete di vetro realizza più di una separazione somatica delle persone pur permettendo la loro congiunzione visiva: la parete annuncia la loro prossima congiunzione somatica, e questa è quasi una promessa. Una situazione simile è riservata al viaggiatore prima della partenza: dalla sala d’imbarco, può spesso vedere l’aereo che prenderà di lì a qualche minuto, e in questo contatto visivo c’è la promessa della congiunzione somatica differita. In fin dei conti, la vetrina di un negozio non funziona diversamente: se in un primo tempo essa autorizza solo la congiunzione visiva e interdice quella somatica, essa promette quest’ultima se l’atto di scambio commerciale è realizzato conformemente all’uso. La promessa è quindi condizionale, come il passaggio attraverso l’apertura che permette di aggirare la vetrina. Simmetricamente alle vere e proprie promesse, esistono promesse negative inscritte in una parete di vetro. Il caso della vetrina è eloquente: l’atto di rompere il vetro espone il suo autore a punizioni variabili. In un museo, il valore degli oggetti induce a completare il vetro con un sistema di allarme, e il non rispetto del divieto posto dal vetro implica delle conseguenze. Così, il vetro veicola una minaccia che è stata inscritta, e la minaccia non si distingue dalla promessa

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se non dalla valorizzazione dell’oggetto di cui è gratificato il destinatario: positiva nel caso della promessa, negativa per la minaccia. La rottura del vetro permette forse l’accesso immediato all’oggetto positivo che è stato posto sotto protezione, ma implica a breve termine la congiunzione con oggetti indesiderabili, o addirittura la privazione dell’oggetto più desiderabile che ci sia, la libertà. Potremmo moltiplicare gli esempi, e inventariare diversi casi possibili. La ricchezza dell’osservabile è considerevole, e ci condurrebbe a considerare casi ben più complessi di quelli finora brevemente evocati. Dobbiamo però abbreviare l’esposizione, anche se saremmo tentati di ritornare alle strategie di una coppia come quella di Saneya e Mostafa installati da parte a parte di un vetro. Infatti, la luce non passa mai interamente attraverso un vetro, e i fenomeni di riflessione e di passaggio dipendono dal grado di illuminazione relativo ai luoghi separati dalla parete in vetro. La notte e il giorno spingono a far adottare differenti strategie di visibilità, allo stesso modo in cui l’illuminazione permette di sovradeterminare l’aspetto degli oggetti esposti in una vetrina e la loro relazione al soggetto osservatore. Ci accontenteremo di aver mostrato che la dissimmetria creata dalla parete in vetro si inscrive sulla dimensione del senso altrettanto bene che sulla dimensione fisica. Agli atti di comunicazione di interdizione e di autorizzazione, essa aggiunge quelli della promessa e della minaccia. Resta inteso che essa non pronuncia da sé questi atti e che essa non fa che veicolarli in un universo dotato di senso, dove la comunicazione tra gli uomini passa attraverso le cose oltre che attraverso la parole, se non di più.

1

Apparso in «Traverses», n. 46, 1988. Estratto da ’Awdat ar-ruh (L’anima ritrovata), di Tewfik el Hakim, 1927. Citato in À travers le mur, Depaule 1985. 2

Capitolo settimo La privatizzazione dello spazio1

7.1. Osservazioni preliminari Per un certo numero di scienziati praticanti discipline lontane come la fisica e la linguistica, lo spazio non è che una delle condizioni necessarie all’esistenza delle cose e alla realizzazione dell’azione: è un “circostante” allo stesso titolo del tempo. Per i geografi, gli urbanisti, gli architetti e gli scultori, lo spazio è una materia prima che viene lavorata in vista della sua trasformazione: esiste in sé, nella misura in cui si può descriverla, modellarla, appropriarsene. Per altri specialisti come i militari, i registi e gli antropologi, lo spazio gioca almeno due ruoli: da una parte, è un oggetto-fine di cui la padronanza è una fondamentale posta in gioco; d’altra parte è un oggetto-mezzo il cui possesso assicura la capacità di portare a termine ulteriori programmi d’azione. Se ci si interessa alle manifestazioni di senso nel mondo quotidiano, bisogna prendere in considerazione lo spazio come mezzo di comunicazione e veicolo della significazione: tutt’altro che semplice circostante, è un’espressione che può essere messa in scena per parlare d’altre cose che di se stessa. È a partire da un tale punto di vista che esamineremo i fenomeni analizzati in questo studio. Partiremo da una delle dimensioni delle questioni evocate: quella dell’appropriazione dello spazio, fondatrice dell’assiologia del pubblico e del privato. Al fine di metterla in evidenza, abbiamo optato per l’osservazione minuziosa, a un livello qualificabile come micro-sociale, delle strategie sviluppate da una o più persone desiderose di

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accedere in un luogo controllato da una o più persone diverse. La posta in gioco è dunque l’accesso condizionato a un luogo2. Questo testo si inscrive in una serie di riflessioni fondate sull’osservazione delle interazioni che accadono nel mondo quotidiano. Il lavoro di tipo antropologico, sul terreno banale e familiare di ciò che ci circonda, ci ha fornito la prova che la ricchezza dell’osservazione oltrepassa, in complessità e intrico, l’immaginario teorico di un buon numero di teorici da camera che intendono pensare l’architettura. Infatti, è proprio l’architettura che ci preoccupa e che si disegna in filigrana dietro queste analisi. Nel corso dei nostri lavori precedenti, siamo arrivati a concludere che l’architettura incomincia con la risoluzione dinamica della contraddizione seguente: dividere l’estensione senza annullarne la continuità. Programma paradossale in quanto dividere implica rompere la continuità, quando invece si tratterebbe di non intaccarla. Esamineremo alcuni casi dove questo programma paradossale è realizzato grazie a un’interazione sociale in cui gioca un ruolo decisivo la manipolazione della consecuzione e della durata, elementi costitutivi del tempo. Le divisioni dell’estensione non sono sempre materializzate: gli uomini investono di valore luoghi fisicamente non separati dal resto. A questi è sufficiente dire-significareesprimere ciò che noi potremmo tradurre verbalmente con “qui, è mio” (o con “là, è tuo”, “suo”…). Il riconoscimento di tali processi richiama le osservazioni di Hall (1959; 1966) e i lavori della prossemica. Riconosciamo in questa scuola americana dei preziosi precursori. Il programma che ci prefiggiamo è quello di proseguire il loro approccio e di riprenderne i concetti aventi un valore sufficientemente generalizzabile per essere applicabili ad altri materiali. È così che il metodo semiotico, e specialmente la sua versione dinamica3 tale quale è stata sviluppata da Greimas, risulta determinante: essa rende possibile la generalizzazione della somma delle osservazioni prossemiche e l’estrazione di regolarità formali applicabili a una moltitudine di casi. In

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particolare, il modello formale che elaboreremo in questa sede a partire dai comportamenti pragmatici nello spazio risulta adeguato per descrivere l’articolazione dell’assiologia del pubblico e del privato sulla dimensione cognitiva. 7.2. Il contesto sperimentale di una ricerca-azione I dati sfruttati nella prima parte di questa analisi sono stati raccolti nel quadro di un contesto di tipo universitario: il secondo congresso di semiotica architettonica, riunitosi nel convento di La Tourette a l’Arbresle (21-25 giugno 1982)4. In seno a questo edificio contemporaneo, dovuto all’architetto Le Corbusier, si trova solo una piccola comunità religiosa che ha aperto le proprie porte a incontri intellettuali. Il congresso metteva in presenza due entità poco adatte l’una all’altra: da una parte, una architettura concepita per una comunità sottomessa a regole, che impone condizioni “inscritte nel duro” (cemento, acciaio, vetro, legno); d’altra parte, un gruppo internazionale composto per la maggior parte d’architetti e da studenti di architettura, poco preparati a una tale regola, ma ricettivi alle qualità plastiche dell’architettura. Nel quadro del congresso, noi avevamo la responsabilità di un atelier di formazione. Invece di dispensare un insegnamento ex cathedra, abbiamo proposto al piccolo gruppo dell’atelier di condurre una ricerca-azione nei limiti spazio-temporali dell’incontro. Il fine della ricerca era quello di esplorare la dimensione rituale delle interazioni quotidiane nei luoghi disponibili. La proposta fu negoziata, accettata, poi modellata in corso di ricerca nel quadro di una dinamica di gruppo che meriterebbe in se stessa un’analisi. Sono stati resi operativi cinque tipi d’esperimento relativi alla padronanza dello spazio. Quattro di questi riguardano direttamente la relazione tra un soggetto e un luogo, il quinto mette in gioco configurazioni di luoghi5. Prima di proporne l’analisi, li descriveremo in modo succinto.

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Il seguito del capitolo generalizzerà i risultati ottenuti a La Tourette, facendo appello ad altri esempi secondo le necessità dell’esposizione. 7.3. Negoziazioni territoriali 7.3.1. Farsi ammettere nella “cella” di qualcuno Numerose esperienze di questo tipo sono state fatte sulle celle del convento, con qualche variazione attorno al seguente schema di base: il visitatore non invitato (lo annoteremo con A1) segnala la sua presenza, esprime il suo desiderio di entrare, entra. Nota l’attitudine del padrone del luogo (A2) e il suo comportamento spaziale. I racconti delle visite, relazionati nel quadro del seminario, sono stati notati in seguito a ricostituzione e discussione. In molti casi abbiamo registrato il sunto sintetico dei racconti di diversi attori. In almeno un caso abbiamo avuto la versione di A1 e quella di A2. 7.3.1.1. A1 passa davanti a una cella (che noteremo come A 3) con la porta aperta. Inizia una conversazione: “Come vivi nella tua cella?”. A2 lo fa entrare, ma lo conduce direttamente sul balcone (B) con il pretesto di mostrargli uno scomparto quadrato presente nel muro. La conversazione continua sul balcone, le due persone guardano il paesaggio. Parlano poco della cella. A2 sostiene di trovarsi piuttosto male in questo spazio stretto, troppo stretto perfino per un breve soggiorno. Le due persone escono: era l’ora di andare a sentire una conferenza del congresso. Sul tragitto dell’uscita, scambiano commenti a proposito dei muri all’interno delle celle: sono grezzi e non ci si può appoggiare. 7.3.1.2. Due persone (nel ruolo di A1) che non alloggiano al convento chiedono a qualcuno in possesso di una cella di fargliela visitare. A2 fa loro attraversare la cella fino al balcone. Chiacchierata sul paesaggio e osservazioni a pro-

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posito della porta che conduce dalla cella A3 al balcone B e sulla maniglia che ne permette la chiusura. Uscita rapida, in fila indiana. 7.3.1.3. Tre persone (nel ruolo di A1) bussano a una porta e chiedono di far visita. A2 ha l’aria imbarazzata, i tre visitatori anche. Uno dei visitatori (A1-1) dice che la loro visita è una provocazione ed entra. Queste parole appaiono come un motivo accettabile6 e tutti seguono. A1-1 si siede sull’unica sedia e invita tutti ad accomodarsi, pur non trovandosi nella sua stanza. Gli altri visitatori si siedono. A2 resta un momento in piedi prima di imitare gli altri. Chiacchiericcio. Uscita del gruppo A1. A2 resta sul posto, lasciando la porta aperta. Abbandonerà la sua cella tre o quattro minuti dopo. 7.3.1.4. Racconto riportato da A2: scendendo dal tetto, alla fine della visita del convento, La signorina N.G. dice “Mi piacerebbe vedere una cella”. Non la prendo per una richiesta e torno in camera mia. Bruscamente, una flotta di persone entra da me. Fanno un giro. N. fa capire agli altri di avere qualcosa da dirmi. Gli altri escono. Un problema sorge: dove sedersi? N. ha trovato una tavola-biblioteca e vi si appoggia sopra. Io, ospite maschile, le propongo di sedersi sul letto. N. resta a lato della tavola-biblioteca. Non volevo prenderle la sedia situata dietro la scrivania. N. si siede ai piedi del letto. Tra il letto e la tavola c’è molta poca distanza. Quando ho creduto terminata la visita, mi sono alzato, sono andato verso la porta e ho aperto. 7.3.1.5. Racconto di A2: alla fine della visita al convento, ho visto una ragazza. Inizia una breve conversazione. Mi chiede se abito qui e se può vedere la mia cella. Apro la mia porta. Sono grosso, e le celle sono piccole: vado a sbattere ovunque. Lei rientra. Rimaniamo in silenzio per due o tre minuti. Che ne pensi di questa vista? È bella… Avrei voluto restasse, ma non sapevo da dove cominciare. Offrirle di sedersi sul letto o su una sedia?

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Lei si è appoggiata al muro, io a quello opposto. Avendo io grandi piedi eravamo vicini. Credi che io sia fatto per queste celle? Non credo, ma è divertente. Il cemento è bello… Era ora. Non sapevo come dirle di andare via. Si era integrata nel mio ambiente. Ho aperto la porta. Mi sono fatto dei problemi. Ho detto: bisogna andare, tutte le cose buone hanno un termine. Osservazioni: - per quanto possibile, l’analisi ha cercato di non attardarsi sulla “forma del racconto” degli eventi ma di riferirsi direttamente a questi ultimi. Cosa, questa, che non finisce di porre dei problemi. - Tutte queste visite hanno avuto per scopo dichiarato di visitare una cella. Non si trattava di una visita di cortesia da persona a persona, come avrebbe potuto essere il caso se le persone si fossero conosciute e se abitassero questi luoghi per una durata più lunga. - Le visite 7.3.1.3.-1.5. si sono svolte nello spazio della cella. In tutte si riscontra un certo imbarazzo e un problema legato al sedersi anche se in qualcuna c’era modo di farlo. - Le visite 7.3.1.1.-1.2. hanno avuto la forma di un transito verso il balcone. In questo caso, A2 offre al suo visitatore uno spazio di riporto B al posto dello spazio A3 visitato. È significativo che questa procedura non sia legata all’imbarazzo. Nei due casi, la conversazione è stata condotta sul paesaggio e su un elemento architettonico del balcone B. 7.3.2. Estrarre qualcuno dalla propria cella Le intrusioni operate per gli esperimenti di 7.3.1. possono essere interpretate come una de-possessione temporanea del padrone dei luoghi: forzare l’entrata nel suo spazio equivale a negare la padronanza di A2 sui suoi luoghi e a prenderene possesso per il tempo della visita. Il tutto non dura che qualche breve minuto. Tutt’altro funzionamento al momento di un’estrazione: due persone (che giocano il ruolo di A1) mettono gli occhi su di una

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terza (A2) che conoscono bene, per tentare di rubarle la cella. Redigono un messaggio cortese, firmato a nome dell’amministrazione (di cui il rappresentante è stato preavvertito), domandando ad A2 di fare i bagagli e di installarsi nel dormitorio di un altro edificio (il Centro San Domenico), con il pretesto di far alloggiare nella sua cella un conferenziere appena arrivato al congresso. Il messaggio è piegato e infilato nel buco della serratura. Dopo il pasto, uno dei complici (A1-1) passa davanti alla camera di A2. La porta è aperta, A2 è sull’ingresso e sta leggendo il messaggio. Esce, saluta, rientra nella sua stanza, consulta il suo dizionario senza prendersi la briga di sedersi7, esce, chiede “Dov’è il Centro San Domenico?”. Contemporaneamente, presenta il messaggio a A1-1 per farglielo leggere. A1-1 legge il messaggio, e suggerisce ad A2 di andare al Centro San Domenico, proponendosi ai aiutarlo nel trasloco. A2 rifiuta l’offerta: può arrangiarsi a traslocare. Giunge il secondo complice (A1-2). A2 gli tende il pezzo di carta da leggere (A2 rifarà questo gesto tre volte, con altre persone). A1-2 dice: “Stanno esagerando”. A2 : “Eh sì, perché proprio io?”. A1-2 : “Vai a beccare R.M. (= rappresentante dell’amministrazione del congresso)”. Uscendo dalla camera, i complici si danno da fare per far passare A2 davanti a un’altra cella, trovata in precedenza, vuota e lasciata volutamente aperta. Tutti vi entrano. Esame delle soluzioni di riserva. All’uscita, A2 chiude questa seconda cella a chiave e la conserva. Mostrava segni di imbarazzo, ma non di emozione. Arrivato da R.M., A2 gli consegna il foglio, sempre senza commentare. R.M. dice che c’è forse la possibilità di sistemare le cose con il conferenziere P.F. cui la cella è stata destinata. Sempre accompagnato da A1, A2 va fino alla sala della conferenza. A1 indica P.F. ad A2, dicendogli di andargli incontro. A2 resta immobile, quasi paralizzato: si sentiva abbandonato. A1: “Vuoi che venga con te?”. A2: “Sì”. A2 passa il primo fino a raggiungere A2, cui tende il fo-

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glietto. Essendo P.F. seduto, A2 si sistema accanto a lui. P.F. legge il biglietto, non comprende poiché non conosce né il contesto, né la macchinazione. Chiede spiegazioni. A2 s’imbroglia, aggiungendo la storia della cella vuota di cui ha preso la chiave. Ora, P.F. è già sistemato. Quando comprende il sedicente problema, dichiara di avere già una stanza che lo soddisfa, quindi A2 può mantenere la sua cella. A2 se ne esce rassicurato. A quel punto i complici gli svelano tutto. Risate. La sera vanno in giro per Lione con il loro amico-vittima. Osservazioni: - il tentativo di togliergli la cella è compiuto a nome dell’autorità amministrativa (detentrice del potere) per dare la cella a un conferenziere (scala del sapere). - A2 ha già una camera; la conosceva da sole 48 ore e non doveva restarvi che altri tre giorni. - A2 non parla di ciò che gli succede: tende il foglio che ha ricevuto. Il gesto è ripetuto quattro volte. La procedura potrebbe avere due tipi di spiegazione (non esclusivi): permettergli di non perdere la faccia raccontando la sua disavventura; informare gli altri allo stesso modo in cui lui è stato informato. - A2 compie le sue ricerche cortesemente e senza eccessi. In più, al momento di rivolgersi a P.F., seduto, si inginocchia accanto a lui per non dare l’impressione di dominarlo. 7.3.3. Spostare un gruppo dalla tavola al refettorio Già dal secondo giorno, i nostri osservatori che erano a contatto coi fenomeni spaziali avevano notato che in refettorio c’era una certa stabilità dei posti scelti da alcuni. In particolare, l’organizzatore del congresso sedeva sempre allo stesso tavolo, in compagnia del priore, di altre persone dell’amministrazione e del gruppo dei conferenzieri invitati. Questa tavolata era stata ben presto battezzata “tavola del potere”. Il suo impianto topografico era stato analizzato (angolo, vicino alle cucine), così come i suoi possibili vantaggi (prossimità del telefono, del microfono, possibilità di vedere tutta la sala con un solo colpo d’occhio).

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Fu deciso di procedere ad alcune manipolazioni per verificare la stabilità di questo stato di cose: la tavolata detta “del potere” fu occupata dai membri del seminario; le due tavole adiacenti che possono, grazie al loro impianto topografico, offrire gli stessi vantaggi, furono ugualmente occupate. Poiché il seminario contava solo una ventina di partecipanti, furono chiamati degli amici per occupare queste tavole. L’ipotesi di base per quest’esperimento è doppia: i) in una grande sala dove si trovano una dozzina di tavoli su due file, la disposizione di essi in funzione della forma della sala e dei suoi accessi è investita semanticamente; ii) l’investimento semantico degli spazi topografici è stabile dentro una cultura data. Ciò era stato verificato durante ben quattro pasti prima dell’intervento: certe categorie di persone avevano l’abitudine di occupare certi luoghi. La manipolazione verteva su due punti: i) l’occupazione della tavola sposta i suoi occupanti “abituali”. Il loro “diritto” consuetudinario è quindi rimesso in causa; ii) se gli occupanti abituali non reclamano il loro “diritto”, quale(i) nuovo(i) accomodamento(i) sceglieranno e con quale investimento semantico? Dall’apertura del refettorio, le tre tavole prese di mira furono occupate. Tra gli “abituali”, le persone arrivate per prime fecero un semi-giro vedendo la tavola occupata e andarono lentamente verso il mobile dove si trovavano i tovaglioli. Mimarono la ricerca di qualcosa per nascondere il proprio imbarazzo. Quando arrivò l’organizzatore, percepì il tavolo occupato da lontano e scelse rapidamente una tavola vuota di cui la sistemazione non aveva nulla di speciale. Fu raggiunto dagli “abitudinari” che aspettavano presso il mobile. Il priore arrivò poco dopo. Vedendo le tavole occupate, si mise a errare per la sala. Il ritmo del suo incedere era modificato: più lento del solito. Dopo qualche minuto, ritornò alla sua tavola abituale: rimaneva una sedia non occupata. Tuttavia un

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pullover era stato appoggiato sulla sedia per segnalare che era stata “occupata”. Malgrado questo pullover, nonostante le sedia volgesse le spalle alla sala, il priore chiese se poteva mettersi lì. Malgrado l’imbarazzo, gli occupanti, decisi a portare fino in fondo il loro esperimento, dissero che la sedia era già occupata. Il priore s’allontanò, accese una sigaretta, vagò ancora. Era visibilmente turbato. Quando passò vicino alla tavola su cui s’era installato l’organizzatore, subito raggiunto da alcuni “abitudinari”, il priore si vide offrire una sedia. La rifiutò. Finì per installarsi a un’altra tavola, particolare nel senso che era contigua alla porta d’entrata. Scelse una sedia che gli permise di vedere la sala. Il turbamento introdotto ebbe un seguito inatteso: il giorno seguente la “tavola del potere” fu occupata da un altro gruppo non al corrente della manipolazione della vigilia. Questo fenomeno non si era prodotto i giorni precedenti, in cui questa tavola rimaneva vuota fino all’arrivo degli occupanti abituali. Questo cambiamento testimonia che la perturbazione sperimentale era stata percepita da persone non complici, e che ha avuto per risultato di rompere il legame di quasi proprietà tra gli “abitudinari” e il loro tavolo. Nel corso dei pasti successivi, gli “abitudinari” si ritrovarono assieme (qualche volta senza il priore) in diverse tavole: la loro relazione di gruppo si è ricostruita attraverso gli spostamenti. 7.3.4. Spostare brevemente un gran numero di persone nel refettorio Il giorno successivo all’esperimento descritta in § 7.3.3., dopo aver analizzato i risultati in seminario e dopo una pausa dalle manipolazioni per il pasto della sera, il seminario ha organizzato a pranzo un’occupazione fittizia della maggior parte delle sedie del refettorio: distribuendosi a due o tre per tavolo, i membri del seminario hanno segnato le sedie o i piatti vuoti con effetti personali o documenti, per segnalare che questi posti erano

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presi. Dato che il numero dei partecipanti al congresso era quasi uguale a quello delle sedie, l’occupazione fittizia delle sedie aveva come risultato l’esclusione di una trentina di persone. Arrivando al refettorio, queste si mettevano a girare alla ricerca di un posto. Dato che i segni d’occupazione erano numerosi (certi bicchieri addirittura riempiti di vino), le persone in cerca di un posto non si fermavano nemmeno per accertarsi dei posti liberi. Molto rapidamente, fu evidente che il refettorio era sovrappopolato, non tanto dalle persone sedute quanto da quelle in circolazione, lente e disordinate. C’era parecchia confusione. Il priore, ancora una volta tolto al suo tavolo d’abitudine e seduto a un tavolo vicino, si inquietò parecchio. Abbandonò il suo posto per vedere dove stava il problema. Contemporaneamente, la pressione sugli sperimentatori aumentava, mettendoli in imbarazzo. Sovente, quando un conoscente passava di là, con l’aria inquieta e alla ricerca di un posto, una sedia falsamente occupata gli veniva ceduta. Uno stagista che aveva intuito la manipolazione della vigilia comprese il gioco in corso. Si arrabbiò. Lanciò un rabbioso “non sono una cavia” e prese una sedia a un tavolo per andare a sedersi a un altro tavolo con amici. Quando la situazione si placò di lì a cinque minuti, e che ogni ombra di problema fu scacciata, uno degli sperimentatori, seduto vicino al priore, volle metterlo al corrente. Questo non comprese l’inizio delle spiegazioni. Quando cominciò a capire, si arrabbiò, si fermò, lanciò un “a ogni modo, quello che sta dicendo non mi interessa”. Durante il resto del pasto, chiacchierò con una terza persona. Le manipolazioni del refettorio forniscono qualche risultato: i) la territorialità si esprime in un luogo occupato anche per un breve periodo, come il refettorio; ii) l’iterazione del comportamento (riprendere lo stesso tavolo) gioca un ruolo forte in questo tipo di territorialità;

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iii) Il gruppo di frequentazione (fondato sull’amicizia, la funzione, lo statuto…) funziona come un territorio mobile sul quale ci sono dei diritti; iv) l’errare (prendere del tempo, occupare uno spazio senza finalità precisa) è la prima manifestazione d’imbarazzo in un tale luogo; v) ci sono possibili attività d’attesa: accendere una sigaretta, cercare un tovagliolo, chiacchierare… vi) le marche d’occupazione di un territorio non sono tutte equivalenti. Esse si articolano in tre assi graduati (dal meno al più forte): - occupare una sedia / occupare un piatto; - libri e fogli / vestiti / bicchieri di vino / cibo; - pochi segni d’occupazione / molti segni d’occupazione; vii) togliere qualcuno da un posto che crede di possedere di diritto è interpretabile come un’aggressione. Non caratterizzata, quest’aggressione suscita l’imbarazzo. L’aggredito esita sul comportamento da adottare: negare che ci sia stata aggressione e, dopo un gesto di distensione, fare come se nulla fosse accaduto; o passare direttamente a una contro-aggressione; viii) la contro-aggressione (impossessarsi di una sedia, rifiutare la conversazione a tavola) si accompagna a un commento esplicativo che la legittima (quando invece la prima aggressione non lo è stata). 7.3.5. Modifiche della sala delle conferenze La sala di conferenza del Centro San Domenico ha la forma di una losanga con i vertici tronchi. La tribuna è situata a una delle due estremità del grande asse. Durante il congresso, tutte le conferenze sono state fatte da questa tribuna, sotto la forma ex cathedra (cfr. Hammad 1978a; cfr. anche cap. 4). L’ultimo giorno del congresso, era stata prevista una speciale seduta per la comunicazione all’insieme dei partecipanti dei lavori realizzati nel quadro dei differenti seminari. Il nostro seminario, che aveva affrontato nelle sue analisi la forma spaziale della comunicazione in gruppo, si è proposto di modificare la disposizione

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delle sedie nella sala della conferenza, con un doppio fine: i) instaurare una comunicazione più egualitaria tra i partecipanti, in luogo del dialogo tribuna-sala; ii) offrire all’insieme dei partecipanti un esempio degli esperimenti ai quali ci siamo affidati con la loro collaborazione involontaria. Le sedie furono dunque disposte seguendo il contorno della sala, lasciando un buco nel centro. Il priore e l’organizzatore del congresso erano stati preavvertiti che era in corso un esperimento. I partecipanti al congresso, non preavvisati, si distribuirono nella sala. Senza che alcuna consegna sia stata effettuata, le persone che presero la parola lo fecero a partire dal loro posto a sedere senza andare verso la tribuna. Gli scambi furono più numerosi del solito. Il cambiamento della disposizione del luogo, secondo un’opinione generale, aveva permesso un mutamento dei rapporti interpersonali. 7.4. Prima analisi sintattica 7.4.1. Punto di vista dell’analisi Gli esperimenti riportate sono molto ricche di elementi di comunicazione, d’interazione e di riferimenti culturali. Non è pensabile in questa sede una loro analisi esaustiva. Ci accontenteremo di dimostrarne i meccanismi al fine di esplicitare certi elementi analitici che le rendono comparabili. Nello stesso tempo, mostreremo che c’è una progressione nella complessità dei fenomeni interattivi e nell’ampiezza delle trasformazioni tentate. Dal punto di vista della separazione tradizionale delle discipline, si potrebbe dire che questi esperimenti si rifanno contemporaneamente all’architettura, all’antropologia, alla micro-sociologia e alla psicologia. Cercheremo di mettere tra parentesi queste distinzioni disciplinari per adottare un punto di vista unico: quello della significazione. Sono parecchi gli effetti di senso che proveremo a reperire e ad articolare.

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In un primo tempo faremo a meno del livello figurativo, per descrivere gli avvenimenti a un livello più astratto, quello della sintassi antropomorfa, conosciuto in semiotica sotto la sigla di “livello superficiale”. Le differenti situazioni sono in questo livello descrivibili in termini di giunzioni (congiunzione vs. disgiunzione) tra istanze attanziali, e le modificazioni delle situazioni sono riconducibili a trasformazioni della giunzione (es.: far passare due attanti da uno stato di congiunzione a uno di disgiunzione). In un secondo tempo (§ 7.6.), abborderemo in dettaglio il fare trasformazionale delle giunzioni. 7.4.2. Farsi ammettere nella cella di qualcuno Si tratta di imporre a qualcuno di condividere, sia pure temporaneamente, il suo spazio “privato”. Egli resta congiunto con il suo spazio, ma deve consentire la co-presenza di una o più persone, cosa che può essere interpretata come una perdita: perdita del potere, perdita del controllo sullo stato di giunzione. Sono quattro gli attanti in gioco: A1 Il / gli attori8 visitatori-manipolatori A2 Il padrone dei luoghi A2 A3 Topos “privato” di A2, preso di mira da A1 (la cella) A4 Topos a partire dal quale si accede al topos A3 (il corridoio) L’entrata di A1 in A3 è la congiunzione auspicata. Si compie sempre dopo un certo rituale: colpi sulla porta, conversazione attraverso una porta aperta, conversazione precedente che annuncia il desiderio di una visita. Come prova contraria, si può supporre che se A1 entra in A3 senza rituale, tutto questo sarebbe percepito come una intrusione ingiustificabile, cioè come una aggressione caratterizzata. Un tale esperimento non è stata tentata: le manipolazioni sono rimaste entro certi limiti imposti dalle buone maniere. Ogni volta le azioni commesse sono rimaste nella zona flou del non prescritto e del non interdetto, permettendo così a A2 di non arrabbiarsi e di trovare una onorevole via di scampo.

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In alcune delle sequenze riportate, vediamo apparire una quinta istanza attanziale A5: per mettere alla porta il suo/i suoi visitatore/i (produrre la disgiunzione A3/A1), A2 invoca gli orari del congresso, cosa che gli permette di evitare di sembrare aggressivo nei riguardi dell’intruso. Gli orari rinviano a un’istanza superiore astratta che potremmo nominare il congresso, capace di imporre dei doveri a A1 e A2 simultaneamente. In termini semiotici, occuperebbe la posizione di attante destinante comune. Per l’entrata come per l’uscita, atti e parole intuitivamente identificati come rituali sono quelli che servono a neutralizzare il carattere potenzialmente aggressivo della trasformazione auspicata. Il comportamento di A2 in A3 manifesta il fatto che la cella è divisibile in numerosi topoi9: A2 offre a A1 una porzione di A3. La porzione che permette una visita senza imbarazzo, è il balcone B. In effetti è un luogo quasi esterno alla cella, che ha un carattere pubblico. Questa formula offre il vantaggio di far attraversare al visitatore tutto lo spazio della cella, come ci ricorda lo schema di base della visita nelle case giapponesi. Al momento in cui A2 offre a A1 dei topoi interni, si crea dell’imbarazzo: il letto è un luogo quasi “sconveniente”, non c’è che una sedia, i muri sono rugosi, le distanze sono minime… Tutte queste ragioni si rapportano di fatto al carattere privativo marcato dei luoghi in questione (potremmo dire: il loro carico semantico). Le regole sociali vogliono che non si riceva una semplice “conoscenza” nei propri luoghi privati, riservati alle relazioni più intime. 7.4.3. Separare qualcuno dalla propria cella In aggiunta alle quattro posizioni attanziali ordinarie della situazione precedente, vediamo riapparire una quinta istanza invocata dal visitatore-manipolatore A1 per legittimare la sua azione: si tratta dell’istanza amministrativa supposta regolare lo svolgimento degli eventi del congresso. È possibile riconoscere una manifestazione figurativa dell’istanza destinatrice superiore congresso.

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A1 Il visitatore-manipolatore, rappresentato qui da tre attori: - I complici A1-1 e A1-2 aspiranti alla disgiunzione A2/A3. - P.F., complice involontario, supposto congiungersi con A3. A2 Il padrone dei luoghi (per cinque giorni). A3 La cella contesa. Due altri luoghi sono convocati per giocare lo stesso ruolo attanziale: la cella vuota vicina, il dormitorio indicato. A4 Questo ruolo attanziale è giocato da differenti luoghi come il corridoio, la segreteria, la sala delle conferenze… A5 Il congresso, rappresentato dalla segreteria amministrativa, autorità che attribuisce i luoghi di residenza, nella persona di R.M. Il biglietto foriero del messaggio serve da mezzo che consente di celare l’imbarazzo, sia quello dei manipolatori A1 che sarebbero stati in spinose difficoltà a dover spiegare verbalmente la loro macchinazione, sia quello di A2, che opta per questo mezzo al fine di mettere al corrente della propria situazione senza parlarne. Infine, il fatto che P.F. sia già alloggiato permette a tutto l’esperimento un esito onorabile ri-semantizzato come farsa. Questa ri-semantizzazione necessita tuttavia di un discorso esplicativo che neutralizzi una possibile contro-aggressione. Lo svolgimento di quest’esperimento manifesta una similitudine sorprendente con la precedente: intimato di separarsi dal suo spazio privato e di congiungersi con un altro, A2 non tarda a proporre una congiunzione tra quest’altra persona e una camera vicina, su cui si arroga un diritto chiudendola a chiave e prendendola con sé. Così facendo, estende il suo dominio di cui potrà offrire la parte più pubblica, conservando quella più privata. Il trasferimento nel dormitorio gli sembrava da escludere: offrendo una parte del suo territorio, rimane congiunto con l’altra che non abbandona tutto. Malgrado le loro possibili somiglianze, questi due esperimenti differiscono per il fatto che nella prima A2 non è

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disgiunto da A3 pur congiungendo A1 e A3. È la cella vuota che permette di ricondurre la seconda situazione al caso precedente. 7.4.4. Separare un gruppo dal proprio tavolo al refettorio Questa resta una situazione a quattro attanti, essendo tutte le posizioni occupate da numerosi attori simultaneamente (fenomeno designato con il termine “attante collettivo” (Greimas, Courtés 1979, p. 59) nel metalinguaggio semiotico). Un quinto attante (destinante) è implicato dal comportamento del priore: A1 Gruppo degli sperimentatori-manipolatori, A2 Gruppo degli “abitudinari”, A3 Il tavolo privilegiato e i due tavoli adiacenti, A4 Il resto del refettorio, A5 Il convento come persona morale. È stato fatto un passo ulteriore sulla scala dell’aggressività: il topos A3 è occupato senza rituale di preavviso. È perfino negato al priore (membro eminente del gruppo A2) che chiede di potersi sedere. Tuttavia, non essendo uno spazio chiuso, per nulla marcato da iscrizioni di un qualche tipo (numero, etichetta, o qualunque oggetto) che rinviino a una persona o a un gruppo dato10, il tavolo non può essere reclamato apertamente in funzione di eventuali segni visibili che avessero annunciato prima un legame d’appartenenza. In questo labile contesto, l’iterazione dei gesti anteriori è il solo fatto fondatore del diritto. Ora, solo A2 conosce quest’iterazione (il priore che vive là), mentre A1, visitatore momentaneo, non è supposto conoscerla (il priore non l’ha presentata come tale all’insieme dei partecipanti). L’azione di A1 si estende, al di là del tavolo privilegiato, ai tavoli contigui, privando A2 della possibilità di ripiegare e di far mostra di offrire a A1 una parte del suo dominio, come succede nel caso delle celle. In questo caso, A2 è tolto dal suo spazio “privato”, il quale appare come costituito da certi tavoli la cui sistemazione è privilegiata. Tutto ciò rinvia alla problematica delle configurazioni topiche (cfr. Hammad

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1978a; ivi, capitolo terzo) e in particolare a quelle che caratterizzano una condivisione ineguale del potere. Nello svolgimento di quest’esperimento, i segni d’imbarazzo manifestati dal priore servono a non perdere la faccia prendendosi il tempo di verificare se si tratta d’aggressione deliberata. Allo stesso tempo offre agli “occupanti” la possibilità di fare marcia indietro e di annunciare loro stessi l’inganno. Nel momento in cui l’organizzatore offre un posto al priore, tenta di ricostituire il “gruppo degli abituali” A2 indipendentemente dal posto occupato. La reazione del priore rivela che, per lui, l’attante A2 non è pienamente se stesso se non in congiunzione con il suo luogo marcato. Installandosi altrove, nello spazio A4 degli altri, conserva il suo ruolo di attore responsabile dei luoghi esterno all’attante collettivo temporaneo A2. Manifesta così di riferirsi a un’altra istanza superiore A5, destinatrice per lui e differente dal congresso, rappresentata specificamente dal convento e dalla sua comunità religiosa. Il priore si comporterà allo stesso modo al momento della manipolazione dell’indomani, piazzandosi fuori dal gruppo degli “abituali”. Solamente dopo aver appreso che si trattava di una manipolazione, il priore reintegrerà il gruppo e la sua tavolata, data la controaggressione misurata che gli ha permesso di considerare le cose come rientrate nell’ordine. Aggiungerò che, avendo appreso della sua arrabbiatura, mi sono preoccupato di recare le scuse a nome del seminario di cui ero responsabile. Questo rituale di riscatto ha un qualche peso nel ristabilirsi dell’ordine delle cose. 7.4.5. Spostare brevemente un gran numero di persone al refettorio Si tratta ancora di una situazione a cinque attanti, caratterizzata dall’indeterminazione degli attanti manipolati: A1 Manipolatori del seminario, amici, commensali fittizi, A2 Resto dei partecipanti al congresso, A3 Maggioranza dei posti del refettorio, scelti a caso,

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A4 Corridoio centrale del refettorio, atrio davanti al refettorio, A5 Il priore, rappresentante del convento. L’attante collettivo A2 non è identificabile da un’azione o da abitudini particolari nel refettorio. Non è definibile se non per opposizione: è il complemento dell’attante A1 nell’insieme dei partecipanti al congresso che mangiavano nel refettorio. È significativo che l’attante A4 non sia manifestato da posti o da tavole: le persone scomodate non hanno neppure uno spazio di riserva che sia comparabile a quello che cercano. Tuttavia, questa manipolazione non è stata percepita come aggressione se non da una sola persona. Gli altri hanno pazientemente cercato una soluzione a una situazione non caratterizzata e non identificata in tutta la sua ampiezza. Il fatto che si finisse per liberare loro un posto a sedere poteva bastare. I manipolatori che toglievano i segni di occupazione si sono sentiti in obbligo di dire qualche cosa come “era riservato a qualcuno ma è in ritardo”. Un rituale in buona e dovuta forma fu reso il giorno seguente come compensazione, in seduta plenaria, quando tutto il congresso è stato informato della manipolazione e dei suoi risultati. 7.4.6. Modifiche della sala della conferenza Ritroviamo una situazione a cinque attanti, con alcuni mutamenti strategici: se il gruppo manipolatore non cerca più di congiungersi con lo spazio A3 (tribuna) cui A2 può essere intento, mira comunque a produrre la disgiunzione A2/A3. A1 Seminario manipolatore, A2 Insieme dei conferenzieri, abituali della tribuna, A3 La tribuna, A4 La sala delle conferenze, A5 Gli organizzatori del congresso e il priore. Questa manipolazione è più radicale delle altre per almeno tre ragioni:

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i) A2 è spostato dal suo spazio A3 verso la sala A4; ii) la tribuna A3 non è più in congiunzione né con A2 né con A1. Non è più un oggetto di valore marcato positivamente, è ri-semantizzato e marcato negativamente (è rifiutato lo statuto superiore che conferisce all’oratore); iii) la configurazione topica dell’insieme è modificata: si passa da una configurazione polemica (opposizione tribuna/sala con un rapporto di dominio) a una configurazione contrattuale (gruppo seduto in cerchio attorno a un buco centrale, con un rapporto d’uguaglianza). L’atto di prevenire i responsabili assomiglia al rituale che annuncia la visita della cella: ha per funzione di rendere possibile un atto che, compiuto senza spiegazioni, avrebbe potuto sembrare aggressivo. Ancora una volta in questa serie di manipolazioni la figura del destinante (Greimas, Courtés 1979, p. 101) si fa manipolare dal visitatore A1. Il segreto delle manipolazioni con cui si cimentava il nostro seminario cominciava a trapelare. I conferenzieri hanno rapidamente identificato la nostra ultima procedura in modo tale da smussarne ogni aggressività. Malgrado ciò, la nuova disposizione della sala ha avuto l’effetto ricercato: coloro che dovevano prendere la parola hanno accettato la proposta sull’uguaglianza dei ruoli e hanno parlato a partire dal loro posto a sedere. Infine, il racconto delle attività del nostro seminario ha informato l’insieme dei partecipanti, e, scatenando il riso, ha avuto l’effetto di un’auspicata pacificazione globale. 7.5. Il rituale come modello sociale Le precedenti analisi sintattiche risultavano brevi al fine di mettere in evidenza una dinamica globale in grado di reggere le trasformazioni tentate. Le congiunzioni e le disgiunzioni mirate possono modificare lo stato di cose e i rapporti tra le persone. Per il(i) perdente(i) della trasformazione, un tale cambiamento è inaccettabile. A quel

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punto intervengono gli atti rituali che ristabiliscono l’equilibrio offrendo una compensazione simbolica. Questa compensazione è della stessa natura, poiché la perdita subita è stata anch’essa simbolica. Rimangono da osservare più da vicino le condizioni in cui accadono e i meccanismi del rituale. 7.5.1. L’aggressione limitata Nelle situazioni riportate sopra, non è mai questione di aggressione fisica. Tuttavia, l’intrusione nello spazio di qualcuno, o il suo spostamento da quello che crede essere il suo spazio, sono degli atti di inimicizia. Ledono la persona bersagliata nella misura in cui essa è spossessata di qualcosa che valorizza. È per questa ragione che è possibile assimilare questi atti ad aggressioni limitate, deviate, nel senso che non mirano direttamente al corpo dell’altro, riportate su oggetti di valore minore e per questo rimpiazzabili. L’estensione del termine “aggressione” così definito copre ogni atto che comporta la diminuzione dei beni o quella dei valori simbolici. 7.5.2. Il codice deontico di riferimento Una tale accettazione presuppone un codice di comportamento che riconosca da una parte le relazioni privilegiate tra certe persone e certe cose, e che imponga d’altra parte delle condizioni d’equilibrio nella circolazione delle cose tra le persone. Basta sospendere la relazione privilegiata tra la persona e la cosa per far sparire la nozione di proprietà. Senza voler riprendere la spinosa questione della proprietà nella sua generalità, si può osservare che nel contesto degli esperimenti descritti non è mai questione di diritto di proprietà in buona e dovuta forma. Se le celle sono attribuite in modo nominativo, è per un lasso di tempo piuttosto breve e al prezzo di una modica somma che non è, propriamente parlando, un affitto. I posti del refettorio non sono oggetto di una attribuzione. Di conseguenza, i beni che sono stati sottomessi ad atti d’appropriazione o di riappropriazione non sono

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protetti da una convenzione esplicita. Sono piuttosto coperti da regole implicite che riguardano etichetta e buone maniere. Ogni rimessa in causa di queste regole si situa nel campo flessibile del non prescritto e/o del non interdetto. Questa indeterminazione fa sì che l’azione manipolatrice non sia immediatamente identificabile come aggressione. 7.5.3. La restituzione del contratto Il ruolo dei riti iniziali e terminali è quello di giocare sull’indeterminazione delle regole non dette e di invocare regole relative a campi semantici differenti da quelli della proprietà per ottenere la sospensione di quest’ultima. In tal modo le visite delle celle si rifanno al desiderio di sapere, visto che i visitatori-manipolatori risiedevano altrove rispetto al convento concepito da Le Corbusier. In un congresso relativo all’architettura, è praticamente in nome della scienza che si chiede di essere ammessi. Pur giocando questo ruolo, gli sperimentatori-manipolatori percepivano il carattere aggressivo della procedura e notavano la reazione dell’altro senza eliminare l’ambiguità dell’azione. È interessante rilevare che le persone così aggredite non abbiano voluto riconoscerlo. Regolarmente posti in una situazione di “non poter non fare”, essi hanno reagito in due tempi: in primis, rifiutando di entrare in una procedura polemica; in un secondo tempo, salvando il salvabile per salvaguardare le relazioni contrattuali. Caratteristici del primo metodo sono le erranze osservate nel refettorio e l’accoglienza imbarazzata fatta dalle persone alloggiate nelle celle. La messa in opera del secondo metodo passa attraverso la distinzione tra porzioni più o meno private in seno allo stesso luogo privato: gli elementi disponibili sono sfruttati per mantenere una parte di ciò che l’altro pretende di togliere. Così facendo, i padroni dei luoghi “offrivano” simbolicamente una loro parte per una giunzione temporanea con l’altro.

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7.5.4. Il rituale come combinazione di trasformazioni enunciative ed enunciazionali Le manipolazioni riportate hanno un carattere anormale, nel senso che non vertono su ciò che si fa abitualmente. Essendo aberranti, sprovviste di una ragione che sia facilmente riconoscibile, offrono alle persone che le subiscono una chiara difficoltà d’interpretazione. Assomigliando ad aggressioni, non erano chiaramente dichiarate come tali. La persona coinvolta poteva sempre chiedersi “perché io?” di fronte al ragazzo che la stava privando della propria cella. Non vedendo ragioni evidenti per una tale aggressione, la persona in causa agiva come se non ci fosse stata aggressione, negando il carattere polemico dell’atto comunicazionale intrapreso. Da un punto di vista semiotico, l’inizio della sequenza comunicazionale è assimilabile a un enunciato sincretico formulato all’interno di un sistema che mescola espressione verbale e mezzi spaziali. Mirando a rimpiazzare la congiunzione A2-A3 con la disgiunzione degli stessi attanti, quest’enunciato equivale a una serie pragmatica che faccia passare da un’asserzione enunciativa a una negazione enunciativa, cosa che l’attante A2 può legittimamente identificare come atto polemico11. Un tale atto d’interpretazione fa passare l’attante A2 a un livello metalinguistico12 dove l’opposizione polemico vs. contrattuale caratterizza i rapporti inscritti nell’enunciato. Sospendendo il carattere polemico dell’interazione, A2 rimane a un livello metalinguistico enunciazionale, quello della gestione delle relazioni inter-attanziali. È lo stesso di quando A2 agisce per restaurare relazioni amicali o quando accetta l’approccio del manipolatore per ritornare a rapporti contrattuali: nega la negazione enunciativa di A1 e riafferma l’asserzione iniziale che lo vede congiunto con il suo luogo A3. Così facendo, restaura il contratto minacciato da A1. Sarà solo alla fine, quando rientrerà in un’interazione ordinaria, che si situerà nuovamente al livello enunciativo della comunicazione (almeno fino alla prossima operazione enunciazionale…).

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Si può osservare che l’insieme delle azioni rituali si situa a livello enunciazionale, e si riconduce a una trasformazione composta di due operazioni metalinguistiche successive: una negazione (negare la negazione enunciativa instauratrice del rapporto polemico) seguita da un’asserzione (restaurare il rapporto contrattuale iniziale). Se si riesaminano da un punto di vista comunicazionale i lavori di Claude Lévi-Strauss (1962a) e di Konrad Lorenz (1969), vi si ritrovano descritti identici meccanismi (con una terminologia differente) per rituali religiosi e per quelli animali. Ne dedurremo che la serie sintattica formale, appena estrapolata per i rituali, è una struttura comunicazionale molto generale che oltrepassa la cornice degli spazi pubblici e privati e regge di fatto una parte considerevole di interazioni tra istanze che comunicano. 7.6. I presupposti sintattici del lessema privato Lo sviluppo dell’analisi dei rituali ci condurrà al livello “profondo” dell’analisi semiotica, in cui è necessario reperire i valori fondamentali che regolano l’interazione umana in generale. Sceglieremo di perseguire in questa sede l’analisi dei meccanismi sintattici di superficie legati all’interazione spaziale e che si rifanno alla problematica del pubblico e del privato. 7.6.1. A partire da una definizione di privato Seguendo un’abitudine divenuta tradizione presso i semiologi, è possibile consultare il dizionario. Il Petit Robert comincia13 l’articolo privato così: “agg. Là dove il pubblico non ha accesso, non è ammesso”. Ritroviamo due istanze esplicitamente menzionate (un luogo, un pubblico) e una terza istanza (la o le persone ammesse), che resta implicita nella definizione, ma che si trova esplicitata in uno degli esempi forniti come illustrazione: “comunicazione privata, cui non assistono che gli intimi”. Notiamo che la terza istanza è manifestata da un plurale: “gli intimi”.

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Queste tre istanze sono legate da atti (accettare, ammettere) che possiedono un nocciolo comune: la congiunzione (autorizzata o interdetta) degli attori umani con l’attore spaziale. In più, l’ammissione presuppone una quarta istanza che giochi il ruolo di soggetto operatore in grado di autorizzare o meno la congiunzione. In termini semiotici, si possono riconoscere in questa definizione quattro ruoli attanziali legati da una funzione (la giunzione) e modalizzati secondo il potere, poiché l’ammissione si analizza come poter-fare e la non-ammissione come non-poter-fare (cfr. Greimas 1970): A114 Il pubblico, di cui l’accesso è generalmente non autorizzato, non può congiungersi con il luogo A3. A2 La persona particolare, di cui il libero accesso sembra per contrapposizione una competenza modale positiva, può congiungersi con il luogo A3. A3 Il luogo privato considerato, autorizzato agli uni e interdetto agli altri. A6 Una istanza operatrice superiore che autorizza l’accesso ordinario di A2 e quello di A1 in certe condizioni. In termini semiotici, si riconosce in questa figura il ruolo dell’attante destinante che attualizza l’attante soggetto (Greimas, Courtés 1979, pp. 45-46). I casi in cui si vede la persona particolare che gioca il ruolo A2 e autorizza o interdice l’accesso sono casi di sincretismo di due ruoli attanziali (A2 e A6) investiti nello stesso attore. Non è un caso generale e non è quindi il caso di farne una regola. Notiamo che rimpiazzando i termini “accesso, ammissione” con il concetto più generale di “stabilire una congiunzione modalizzata dal potere”, la definizione è passibile di estensione a oggetti che non siano necessariamente luoghi. Si potrà parlare allora di un pallone privato posto sulla spiaggia, o del carattere privato del montante delle rendite incamerate e delle tasse pagate; essi non sono pub-

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blici nella misura in cui il loro accesso è controllato dal loro “proprietario legittimo”. 7.6.2. I presupposti polemici del privato Così definito, l’oggetto privato è caratterizzato dalla modalità del poter fare, cui è sottomesso negativamente o positivamente a seconda dei casi. I soggetti implicati sono quindi da reperire nella tappa dell’attualizzazione del percorso narrativo. L’attualizzazione presuppone una tappa anteriore, quella della virtualizzazione, e ci si potrebbe chiedere come siano caratterizzate le diverse istanze del privato a quello stadio. In altri termini, il privato è riconoscibile prima della sua attualizzazione? Se la risposta è positiva, la modalità del potere apparirà come necessaria e non sufficiente per la descrizione, con la conseguenza di farci riconoscere come parziale la definizione del Robert. 7.6.2.1. Consideriamo il caso della persona che, trovandosi sola nella cella (al convento La Tourette), sente bussare alla porta: un terzo si presenta e vorrebbe entrare. La persona alla porta ha il ruolo dell’attante A1. Bussando alla porta, essa manifesta di voler come minimo comunicare con A2 che sta all’interno: in effetti, essa potrebbe benissimo andarsene dopo aver ottenuto delle informazioni. Esprimendo il desiderio di visitare la cella, essa manifesta chiaramente un voler accedere. Manifesta quindi il ruolo attanziale del soggetto virtualizzato in un programma che riguarda il dominio privato. L’attore che riempie il ruolo attanziale A2 si trova allora proiettato nel ruolo attanziale A6, davanti alla scelta seguente: far entrare A2 o mandarlo via. Ovvero accordargli la competenza secondo il potere o rifiutargliela. Da cui due osservazioni: i) A1 può sollecitare non esplicitamente questo potere. Esprimendo il suo desiderio, fa capire che la realizzazione dipende dall’attualizzazione che l’altro può accordargli; ii) se A1 esprime questo desiderio, è perché lo crede realizzabile. Crede che A6 gli accorderà sia l’attualizzazione sia la realizzazione (che accade una volta compiuta l’attualizzazione).

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Importa poco precisare su cosa si fondi questa credenza. Le possibilità sono multiple, la più banale essendo la reciproca conoscenza15 delle due persone implicate. Al contrario, il fatto di esprimere la richiesta presuppone la sua fondatezza. In tal modo, dietro A1 si profila un’entità che giustifica la sua richiesta. Riconosciamo qui la figura attanziale del Destinante mandante denotato come A5 nelle precedenti analisi. Ricevendo la richiesta, l’attante che gioca il ruolo di A2 si trova proiettato nel ruolo di A6 (Destinante attualizzatore), confrontato non solamente ad A1 (visitatore) ma anche ad A5 (Destinante mandante)16. Se A1 si presenta in nome dell’amicizia, A6 non può mandarlo via senza negare ipso facto questa amicizia. Un tale affronto è produttore d’inimicizia. L’attore che gioca il ruolo A6 può agire in questo modo se gli attori che giocano i ruoli A1 e A5 gli sono indifferenti. Correlativamente, ammettendo A1 nel luogo A3, A6 accetta di fatto la validità dei legami A1-A5 e A6-A5. Questa sequnza comporta propriamente parlando una proposta di contratto fatta da A1-A5, seguita dall’accettazione o dal rifiuto di A6. Il poter fare caratteristico del privato presuppone quindi lo stabilirsi di un contratto di cui non abbiamo esplorato che la fase terminale. Sembra conveniente allora esplorare più in dettaglio questo presupposto sintattico a partire dagli esempi disponibili, e poi, in termini semiotici, sviluppare la tappa della virtualizzazione, anteriore a quella dell’attualizzazione data nella definizione del dizionario. 7.6.2.2. Riprendiamo il caso della cella A3. Prima che A1 bussi alla porta, questa era sia aperta (esperimento 7.3.1.1.), sia chiusa (esperimento 7.3.1.3.). Riconsideriamo quindi queste situazioni e gli effetti di senso che producono i due stadi della porta. Sarebbe ingenuo credere che una porta chiusa enunci l’equivalente di un “voi non potete entrare”. Infatti, se è semplicemente chiusa, ma non a chiave, si può fisicamente entrare. Ancora: certe chiavi sono solo simboliche, al pun-

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to che la serratura si lascia aprire da un chiodo. Il caso più eloquente di queste serrature simboliche si incontra presso i tuareg, nomadi del Sahara, dove le catene lavorate in ferro forgiato servono a chiudere dei sacchi di pelle: al primo colpo di coltello il contenuto rinchiuso sarebbe già liberato. Se ciò non viene fatto, non è quindi perché non si può ma perché c’è dell’altro in gioco. Se non significa “non potete entrare”, che cosa significa allora la porta chiusa? Si può proporre un gran numero di enunciati verbali per esplicitarlo: 1-Qui è privato 2-Qui è di qualcuno 3-Qui non è vostro 4-Qui non è di tutti

5-Entrata vietata 6-Non entrate 7-Desidero che non entriate 8-Voi non dovete entrare

I primi quattro enunciati, centrati sull’oggetto e sulla relazione di proprietà, sono riconducibili, attraverso l’analisi preventiva del termine privato e quella del verbo avere, all’enunciato “voi non potete entrare” che abbiamo appena ricusato. Possono quindi essere scartate anche queste. L’enunciato n. 5, “Entrata vietata”, oggettiva l’interdizione, che è esplicita nei tre enunciati seguenti, dove ritroviamo i ruoli attanziali del visitatore A1, del destinante mandante A5 e del luogo A3. Questi quattro enunciati hanno in comune il fatto di situare l’interazione A5-A1 a uno stadio di virtualizzazione del soggetto. In altri termini, ciò che la porta chiusa enuncia all’intenzione di A1, è che c’è un soggetto A5 che cerca di virtualizzarlo: al voler entrare di A 1 si oppone un meta-volere contrario17. La porta chiusa formula quindi una proposta di contratto, anteriore a quella di A1 ritrovata precedentemente, e diretta a lui. È sottesa dal desiderio di ottenere la tranquillità di A2: A5 cerca di produrre in A2 (è spesso lo stesso attore che gioca i due ruoli attanziali) uno stato modale di benessere. Notiamo anche l’originalità della cosa malgrado la banalità dell’esempio: A5 propone un contratto per A1 al fine di garantire una modalità di stato in A2.

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Se A5 non è gerarchicamente superiore ad A1, la proposta di contratto si articola con la modalità del volere “Desidero che voi non entriate” (enunciato verbale equivalente al n. 7). Se A5 è gerarchicamente superiore ad A1, la proposta di contratto prenderà la forma deontica “Voi non dovete entrare” (enunciato verbale equivalente al n. 8). Così, l’enunciato della porta chiusa è semanticamente18 legato al rapporto di competenza19 tra l’attante che controlla lo spazio e l’attante visitatore. 7.6.2.3. Con queste acquisizioni analitiche, il nostro esempio si rivela essere quello del confronto tra due proposte simmetriche di contratto, ognuna proponendosi di agire sull’altra e di modificarla. Al programma di virtualizzazione manifestato da A2 in modo statico grazie alla porta chiusa, A1 oppone un contro-programma di virtualizzazione espresso dallo spostamento (è giunto fino a qui, testimoniando del suo volere dinamico), dal gesto (bussa alla porta, formulando l’equivalente di un appello), dalla parola (fa sapere chi è). L’intensità di quest’espressione sincretica è messa in opera contro la stabilità della porta che toglie agli sguardi ciò che c’è dietro. Abbiamo a che fare con una situazione complessa all’interno di un contesto polemico che incassa due proposte contrattuali simmetriche. Il seguito mostrerà che sono possibili altri incassamenti e la complessità delle situazioni ricorda quelle del potlach analizzato da Marcel Mauss nel Saggio sul dono (1923-24). 7.6.2.4. Se la porta è aperta, la situazione è radicalmente trasformata: l’interdizione di entrare non è espressa, e l’apertura dà ad A1 la possibilità di una congiunzione visiva diretta che precede un’eventuale congiunzione fisica. Alla non-interdizione della congiunzione pragmatica enunciata per il passaggio lasciato libero si aggiunge l’autorizzazione della congiunzione cognitiva. Benché situate su due dimensioni differenti della significazione, queste due operazioni possono essere accomunate per essere interpretate, in certe circostanze, come una autorizzazione20 alla congiunzione

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pragmatica, se non proprio come un invito21. In questo passaggio c’è uno iato (non una transizione per conseguenza logica) oltrepassato da A1, tanto più facilmente in quanto il suo programma di virtualizzazione è presente (attualizzato dal suo spostamento) e quello di A 5 è assente (espressione resa indeterminata dall’apertura). Vista l’indeterminazione, A1 può sempre argomentare di aver letto un esplicito invito. 7.6.2.5. Le cose si complicano se la porta è aperta e il padrone dei luoghi è assente. Se non vi è alcun segno di occupazione in una cella vuota, questa può essere visitata e perfino investita (esperimento 7.3.2.). Se ci sono segni d’occupazione, funzionano come messaggi facenti sapere l’esistenza di un residente, anche se assente. Invitano quindi a non occupare il luogo, ad attendere A2 e a sollecitare la sua autorizzazione per lo stabilirsi di una congiunzione. Il non rispetto di questo invito equivale a una aggressione, e A2 sarà in diritto di arrabbiarsi. Ad ogni modo, l’esame di questo caso fa apparire chiaramente l’importanza della presenza di un soggetto operatore A6 che controlli l’accesso: la situazione è controllabile se è presente, incontrollabile se non lo è. 7.6.2.6. Combinando le possibilità di porta aperta/porta chiusa e di cella vuota/cella occupata, otteniamo quattro possibilità, che ci proponiamo di mettere in corrispondenza con l’esplicitazione del loro enunciato implicito (esplicitazione fatta dal punto di vista di A1): A - Cella occupata, porta chiusa B - Cella occupata, porta aperta C - Cella non occupata, porta aperta D - Cella non occupata, porta chiusa

>> >> >> >>

invito negativo, accesso controllabile invito positivo, accesso controllabile invito positivo, accesso incontrollabile invito negativo, accesso incontrollabile

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L’invito negativo è quello di non entrare, l’invito positivo è quello di entrare. Generalmente parlando, l’attore manifestante il ruolo attanziale A6 può o non può, a seconda i differenti casi di presenza, d’assenza o a seconda dei mezzi di chiusura disponibili, gestire l’accesso dell’attore A1 nel luogo A3. Tutto dipende dai mezzi che si dà per condurre a termine il proprio programma: l’eventuale blindatura delle porte è supposta resistere a una aggressione determinata, una catena permette di mantenere la porta basculante nella fase di negoziazione dell’accesso. La forza fisica degli attori che giocano i ruoli A6 e A1 interviene anche in questa situazione in cui il controllo è in gioco. Questa constatazione è indipendente dalla virtualizzazione fatta da A5 quando formula l’invito negativo o positivo. Da qui ha origine il riconoscimento di una nuova dimensione potenziale dell’interazione tra A6 e A1: una situazione polemica è riconoscibile nella tappa attualizzante caratterizzata dalla modalità del potere, distinta dalla situazione polemica riconosciuta nella tappa virtualizzante. È facile riconoscere nel momento che si trovano riuniti alla porta della cella, tutti gli ingredienti di una prova polemica per gli attori A6-A2 (da una parte) e A1 (dall’altra), preparata dalle rispettive tappe di attualizzazione e di virtualizzazione. 7.6.2.7. Questa lunga deviazione analitica con la quale abbiamo esplorato i presupposti della situazione iniziale della visita alla cella (§§ 7.3.1., 7.3.2.) ci ha permesso di dimostrare, nel senso pieno del termine, il suo carattere polemico latente. Ora, se la richiesta di accesso non degenera ogni volta in rissa e se i comportamenti adottano nella maggior parte dei casi il modo rituale, è perché la situazione comporta altri presupposti di ordine contrattuale, i quali si rivelano sovradeterminati ogni volta che “le cose non vanno bene”. 7.6.3. I presupposti contrattuali del privato Le manipolazioni del refettorio (§§ 7.3.3., 7.3.4.) sono maggiormente rivelatrici a questo riguardo, anche se abbia-

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mo cominciato a ricostruire la catena delle presupposizioni partendo dall’esempio delle celle. 7.6.3.1. Questi esperimenti (spostare un gruppo A2 dal suo/suoi tavolo/i A3) sono state condotte da un gruppo che giocava il ruolo dell’attante A1. Prendendo in contropiede i membri del gruppo A2 e occupandone le sedie attorno al tavolo, il gruppo A1 compiva qualcosa di più che non la semplice realizzazione di un programma pragmatico; enunciava un programma complesso che si può analizzare ricostruendo la catena delle presupposizioni. In primo luogo, la congiunzione realizzata dall’attante A1 con lo spazio privatizzato A3 presuppone che A1 possa farlo. Si tratta ben inteso di un potere pragmatico realizzato. In secondo luogo, la realizzazione e l’attualizzazione che abbiamo appena segnalato presuppongono che l’attante A1 fosse già virtualizzato: se è già là, è perché lo vuole. L’osservatore non preavvisato non è nella condizione di decidere se si tratta di un’intenzione maligna o di un’azione innocente, ma in ogni caso abbiamo a che fare con un soggetto virtualizzato che agisce in virtù di un contratto implicito. In terzo luogo, il gruppo formante l’attante A1 enuncia, per il semplice fatto di essere installato là, un messaggio che equivale a: “poiché io sono qui, voi siete pregati di sedervi altrove”. Si tratta dunque di una proposta di contratto emessa nei riguardi delle persone spostate che formano l’attante A2. Quest’ultima proposta di contratto, enunciata dall’attante installato nei luoghi e mirante a virtualizzare l’attante che si dirige verso questi stessi luoghi, è comparabile alla proposta riconosciuta alla porta chiusa della cella. Due fatti differenziano le situazioni: i) qui non ci sono né muri né porte, ma questo non impedisce l’apparizione di messaggi equivalenti a quelli della situazione con la porta, ii) abbiamo identificato, in questa descrizione-analisi, gli attori pronti a installarsi nei luoghi per giocare il ruolo

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dell’attante A1, dato che vestono i panni di coloro che cercano di congiungersi con un luogo precedentemente riconosciuto come congiunto a un altro, nel caso specifico A2. Tuttavia, una volta installato, questo gruppo tiene il discorso (implicito) di A2. Questo prova che A1 ha scambiato il proprio ruolo con quello dell’altro gruppo, stando almeno a quello che accade nella conversazione. 7.6.3.2. Queste manipolazioni del refettorio sono state eseguite solamente in seguito a quelle delle celle e della loro analisi in sede seminariale. Discusse e pianificate in seno al seminario prima della loro esecuzione, gli stagisti hanno chiaramente sollecitato la mia autorizzazione. Io l’ho concessa in quanto responsabile del seminario: se l’esperimento si fosse svolto male, e se un qualche conflitto fosse emerso, bisognava che io intervenissi per ristabilire la serenità dell’incontro. Il ruolo del responsabile del seminario faceva di me, in questo frangente, il rappresentante del Destinante mandante A 5, a nome del quale A1 agiva. Se la situazione polemica fosse degenerata in conflitto, sarei intervenuto richiamandomi alla “scienza” e alla produzione di sapere: quanto meno per giustificare la scortesia che veniva perpetrata. Di fatto, il conflitto pubblico è stato evitato, e quando pure è accaduto, ho dovuto intervenire in difesa dei miei destinatari ultimi. Tutto ciò mostra bene l’incassamento dei programmi gli uni negli altri: le proposte di contratto implicitamente formulate dai manipolatori al momento di due esperimenti nel refettorio tentavano di modificare (e quindi di reggere) i contratti impliciti identificati nel comportamento degli attori “abitudinari” giocanti il ruolo di A2. Il richiamo fatto al sottoscritto mostra che, in questi esperimenti, le proposte di contratto fatte dall’attante A1 sono state fondate su altri contratti, gerarchicamente superiori e più chiaramente definiti, stabiliti tra il gruppo manipolatore e l’insieme del congresso passando per la mia posizione di responsabile ufficiale. Il legame stabilito tra il

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contratto proposto in situ e un contratto anteriore, di carattere fondatore, costituiva la condizione necessaria alla salvaguardia del contratto sociale presupposto nel quadro di un incontro a carattere universitario e scientifico. Si può mostrare l’esistenza di condizioni fondatrici omologhe negli altri casi. Ci arriveremo. 7.6.3.3. Riprendiamo l’esperimento 7.3.3. Il territorio che vi era manipolato non è chiuso. Non c’è quindi la porta che enuncia la proposta di contratto e attualizza la realizzazione. Il luogo si riduce a un tavolo quadrato circondato da sette sedie22. Quali sono le manifestazioni del contratto di privatizzazione proposte dall’attante A2 prima dell’intervento dell’attante A1? In termini semiotici, quali sono state le procedure di virtualizzazione? Ciò che ha permesso agli osservatori del seminario di identificare una territorialità legata a un tavolo posto in un angolo del refettorio è l’iterazione della congiunzione di questo tavolo con le stesse persone, reperite grazie al fatto che assumevano sia la gestione dei luoghi, sia quella del congresso. La “tavola del potere” è stata quindi identificata dalla ripetizione di una stessa relazione tra gli stessi termini. Nei fatti, l’iterazione non è il solo aspetto23 possibile che sovradetermini la giunzione: la continuità nel tempo, la periodicità delle occorrenze e in generale la stabilità dei fenomeni possono produrre lo stesso effetto di senso: dietro la regolarità, c’è una regola. Visto che la regola equivale a un dover-essere delle cose, e che questo si traduce in un dover-fare degli attanti, si osserva una realizzazione particolare di un fenomeno più generale che è quello della trasformazione di una aspettualizzazione di occorrenze precedenti in una modalizzazione deontica delle occorrenze future. In altri termini, il ritorno regolare degli stessi attori alla stessa tavola esprime, interpretando quello che certuni sarebbero tentati di chiamare abitudine24, un enunciato equivalente a “è stato così e così, quindi tutto ciò

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dovrà continuare allo stesso modo”. Che si legge come una proposta di contratto spostata sulla dimensione deontica del dover-fare. Di conseguenza, la regolarità fa di più che invitare A1 a non disturbare A2: cerca di trasmettergli l’obbligazione di non farlo, costituendo l’originalità di questa proposta di contratto orientata da A2 verso A1. 7.6.3.4. Al termine dell’analisi, sembra che nel contesto considerato ciò che fonda il diritto di A2 su A3 sia uno stato di fatto che permette di costruire una prospettività. In altri termini, è un passato aspettualizzato dalla regolarità che fonda la predizione di un futuro dotato della stessa regolarità. La modalità del poter-fare è tratta dal passato e proiettata sull’avvenire, in virtù della regolarità osservata, con l’avvenire che acquisisce nello stesso movimento la modalità del dovere. Il percorso passa dalla constatazione alla probabilità e dalla predicibilità all’obbligazione. In fin dei conti, il poter accedere limitato, fondatore del privato manifestato, si richiama a un contratto anteriore de facto che non è altro che la ripetizione pragmatica, o l’esercizio non contestato della stessa modalità. Questo contratto fondatore è l’omologo, mutatis mutandis, del contratto fondatore tra gli stagisti-occupanti e il responsabile di seminario: servono entrambi a fondare le proposte rispettive di contratto enunciate in modo non verbale nel refettorio. 7.6.3.5. L’analisi che precede ci permette di reperire la fragilità del diritto presupposto dal contratto fondato sulla regolarità. Basta che sia contestato perché questo contratto perda il suo carattere d’evidenza. Se il tavolo occupato non ha potuto essere reclamato e recuperato dagli occupanti abitudinari, è perché essi non potevano opporre agli “occupanti” un contratto chiaro e facilmente accettabile. Si sarebbe dovuto argomentare, per farli spostare, che questo tavolo era prenotato. Cosa che sarebbe stata difficile da stabilire dal momento che non c’era alcun

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segno di prenotazione che indicasse un contratto equivalente a “non sedersi a questo tavolo”. L’esperimento del giorno seguente (§ 7.3.4.) gioca interamente sui diversi modi di proporre un tale contratto e di farlo rispettare. Con questa differenza: che la proposta è stata simmetricamente formulata dagli attori che giocano il ruolo dell’attante visitatore A 1. Essi compivano un’operazione che estendeva il territorio sul quale avevano un diritto legittimo in refettorio a titolo di ruolo attanziale A2. Ciò che tocchiamo con questi esempi è la validità limitata di una giustificazione de facto. All’interazione fondatrice del privato de facto, gli occupanti oppongono un principio che, nel contesto del refettorio, appare inattaccabile anche se non è scritto da nessuna parte: è il diritto del primo arrivato. La loro presenza, il loro rifiuto di cedere una sedia, il loro poter-restare-congiunti con il luogo, sono fondati de jure. È la ragione per cui hanno la meglio in questa battaglia. Insomma, abbiamo assistito a un conflitto tra A 1 e A2. Al posto di arrivare alle mani, ognuno degli attanti interroga il contratto fondatore del proprio comportamento pratico. A2 si giustifica per un diritto de facto25 fondato sull’iterazione. A 1 si richiama a un diritto de jure, quello del primo arrivato. Risalendo così ai contratti impliciti fondatori dell’interazione, si può dire: non è A2 che ha perso il confronto con A1, ma ha perso la proposta fondata su un contratto de facto davanti alla proposta fondata su un contratto de jure. Si tratta quindi di un conflitto tra due tipi di contratti, e il risultato non può essere che la vittoria di una posizione contrattuale. Possiamo capire, a posteriori, perché le situazioni polemiche osservate sono state sempre liquidate con un risultato contrattuale. 7.6.3.6. Nel momento in cui l’abitudinario del tavolo privilegiato dalla sua posizione nel refettorio lascia degli “occupanti” installati nel “suo” tavolo, convalida implicitamente la loro azione. Ciò permette al pasto successivo

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che lo stesso tavolo sia occupato da stagisti che non appartenevano al gruppo dei manipolatori (§ 7.3.3.). In questo labile dominio, il lasciar fare equivale a un riconoscimento de facto. Si può opporgli un riconoscimento de jure, ma questo non può accadere senza che si pongano certi problemi. A titolo d’esempio, la legge olandese attualmente riconosce agli squatter un diritto e il legittimo proprietario non può espellerli se non offre una contropartita a questo diritto. In questo modo l’occupazione dei luoghi, riconosciuta di fatto dall’assenza prolungata di reazioni, fonda un nuovo diritto. Una situazione simile prevale presso i gruppi nomadi dove le regole non sono scritte: sono i costumi, la ripetizione dei circuiti di spostamento e qualche battaglia per i punti d’acqua che fondano il diritto territoriale. È possibile estrarre qualche regola generale da questi esempi che hanno in comune l’assenza di muri e porte: i) Le proposte di contratto devono essere fondate su contratti anteriori meglio stabiliti, in nome dei quali esse sono presentate come valide. ii) Il confronto delle proposte di contratto si riconduce al confronto dei contratti fondatori. iii) Il fondamento dell’azione riveste la forma della prova polemica tra due contratti fondatori possibili. iv) Il contratto fondatore stesso deve essere periodicamente rinnovato, restaurato o re-instaurato attraverso pratiche che rivestano la forma polemica della prova. Non c’è nessuna ragione per cui la catena di questi incassamenti successivi si blocchi da sola, almeno fino a quando qualche convenzione contrattuale non è instaurata come primitiva, originale e fondatrice di tutte le altre (è il ruolo del contratto sociale immaginato da Rousseau). La situazione richiama il teorema di Gödel: per rendere decidibili tutte le proposte emesse a un livello n, è necessario costruire un livello n+1, il quale genera a sua volta proposte indecidibili, e così via. La concatenazione si arresta solo tramite l’adozione di assiomi posti come veri a priori.

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Nel dominio della vita quotidiana, ci sono pochi assiomi veri a priori. Solamente i costumi rispettati pongono assiomi di questo tipo. Dal momento in cui si esce dall’universo dei costumi (il quale al giorno d’oggi sta sparendo a poco a poco), si constata che le proposte di contratto devono essere costantemente negoziate, e questo è chiaramente verificabile negli spazi non dotati di frontiere materiali stabili. Vedremo di seguito che l’installazione di tali frontiere permette di inscrivere nella materia fisica i contratti fondatori e di fare economia da perpetue rinegoziazioni26. 7.7. Il controllo dell’accesso o la privatizzazione dei luoghi Il problema, posto in tal modo, adotta implicitamente il punto di vista dell’attore che desidera assicurarsi il controllo di un dato luogo e dunque l’accesso a esso. Riprendiamo la questione del controllo a partire dagli esempi col fine di estrapolare le regolarità strutturali. 7.7.1. Il controllo umano 7.7.1.1. L’analisi iniziale dell’esperimento 7.3.2.-7.4.3. (togliere qualcuno dalla sua cella) ha manifestato la co-presenza dei cinque ruoli attanziali seguenti: A1 Il visitatore-manipolatore. A2 Il controllore dei luoghi. A3 La cella pattuita. A4 L’esterno della cella. A5 Il congresso, autorità che attribuisce i luoghi di residenza, rappresentata da R.M. della segreteria amministrativa. La ripresa dell’analisi ha mostrato l’importanza del ruolo della porta che enuncia messaggi di virtualizzazione e di attualizzazione, così come realizza missioni pragmatiche (apertura, chiusura) che le sono affidate. La designeremo con A8.

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Disponiamo ora di una configurazione a sei posizioni attanziali, di cui è facile correlare gli attori nel modo seguente: A2, A5 Attori umani: A1, Attori spaziali: A4, A3, A8 In questo schema, abbiamo messo i luoghi sotto gli attori che vi risultano legati nell’interazione studiata: A1 viene dall’esterno della cella, cioè da A4; A2 è nella cella A3; A5 controlla l’accesso alle celle tramite le porte A8 e le loro chiavi. A5 può delegare il controllo della porta ad A2 lasciandogli la chiave, anche se conserva il controllo finale, poiché può sempre togliere la cella a qualcuno e attribuirla a qualcun altro. In questa delega del potere, vediamo un caso particolare della comunicazione partecipativa (Greimas, Courtés 1979, p. 70), dove il destinante dà un valore pur conservandolo. 7.7.1.2. Supponiamo che non ci siano muri. In un contesto localizzato, si può ragionevolmente porre questa ipotesi, poiché anche il deserto offre i suoi accidenti del terreno per chi vuole vedere, farsi vedere, nascondersi… Al fine di fissare le idee, consideriamo il foyer di un teatro al momento dell’intervallo. Gruppi di conoscenti si costituiscono, e si formano circoli per chiacchierare. Le buone maniere interdicono, alle persone isolate che circolano, di attraversare questi circoli. Di conseguenza si cammina tra un circolo e l’altro. I corpi in fila formano un muro, la convergenza degli sguardi marca l’interno di un territorio privatizzato, la schiera delle schiene marca l’esterno di questo stesso territorio.

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Solamente le persone conosciute da uno o da diversi membri di questo circolo sono ammesse in seno a esso, che si ingrandisce per far posto ai nuovi arrivati. Ritroviamo così, senza nessun’altra inscrizione materiale che quella dei corpi delle persone presenti, i componenti della situazione precedentemente analizzata: un luogo interno privatizzato, un luogo esterno non privato, persone all’interno e persone all’esterno, una frontiera il cui attraversamento è sottoposto a condizioni decise da un gruppo. La logica dell’interazione è identica. Ne deriva che la materialità dei muri e di una porta non è necessaria e che l’esigenza minima sintattica è quella di una frontiera 27 che un attante faccia rispettare. Di conseguenza, l’attore che occupa il ruolo attanziale A8 non è necessariamente una porta: è una frontiera controllabile che può essere materializzata in diversi modi. 7.7.1.3. Il territorio così privatizzato assomiglia a una bolla di sapone, le cui dimensioni variano in funzione della pressione esercitata dall’interno dal numero degli occupanti. Il foyer del teatro sarà, in questa metafora, l’equivalente di una bottiglia contenente numerose bolle: queste ultime non possono estendersi a piacimento, limitate come sono dalla pressione delle bolle adiacenti. Questo esempio traduce il fatto che il luogo A4 non è un luogo passivo determinato negativamente (rimanendo esterno) dal tracciato della frontiera che delimita A3. Al contrario, il tracciato della frontiera A8 risulta dall’equilibrio tra i luoghi A3 e A4, i quali appaiono dotati, ciascuno, di una tendenza a espandersi a spese del vicino limitrofo. Questa antropomorfizzazione dei luoghi non è, in questo esempio, che il riflesso dei voleri contrari di A1 e di A2 desiderosi di estendere i loro rispettivi territori. La metafora delle bolle è suggestiva. Essa è già stata utilizzata da E.T. Hall in La dimensione nascosta. Se permette di far comprendere tali questioni, si rivela tuttavia impropria per fondare una concettualizzazione generalizzabile. Facendo passare le persone in secondo piano, es-

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sa tende a oggettivizzare i fenomeni e a fondare in natura ciò che è un fatto di cultura. Ci proponiamo, sulla scia di un’analisi semiotica, di riprendere le acquisizioni della prossemica per estrarne le regolarità sintattiche generali. 7.7.1.4. L’inserzione all’interno di un circolo in un foyer, come l’entrata in una cella, passa per una prova situata sul piano cognitivo: la persona ammessa ad attraversare la frontiera A8 è conosciuta dall’attante A5 che esercita il controllo; essa tuttavia negozia il suo ingresso fornendo delle ragioni sufficienti. A questo proposito, si possono citare alcuni studi antropo-sociologici giapponesi (Kurita 1977) che stabiliscono che più dell’85% delle persone che suonano alla porta di un domicilio non vi sono ammessi: vanno via senza aver oltrepassato la soglia. Coloro che riescono, risultano competenti per farlo. Se l’interazione si svolgesse in una cornice non contrattuale, il superamento potrebbe essere compiuto secondo la modalità del potere: per effrazione o per forza viva. Nel quadro contrattuale delle nostre osservazioni, questa competenza è sempre stata espressa sul piano cognitivo28: sia A2 conosce A1, sia A1 e A2 hanno delle conoscenze comuni, sia, come nel caso delle entrate quasi forzate nelle celle di La Tourette, è in nome del desiderio di sapere “come sono fatte le celle”. 7.7.1.5. Cambiando la scala delle nostre osservazioni, si può constatare che il controllo è spesso delegato a un attante collettivo che lo assicura. È ad esempio il ruolo delle “forze dell’ordine” nelle società con un corpo di polizia. Alle frontiere nazionali, il controllo dei documenti d’identità assicura, secondo forme contrattuali, la trasmissione di un sapere (inscritto nel documento) relativo alla persona che desidera passare da un paese all’altro. Su piccola scala, numerosi ruoli attanziali sono spesso realizzati dallo stesso attore. Essendoci tre attori di tipo umano, ci sono tre sincretismi teoricamente possibili.

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Tuttavia il sincretismo A1-A2 non ha senso se non per le psicosi dette schizofreniche, in cui lo stesso attore agisce come se avesse due personalità opposte, l’una nascondendo all’altra certe cose. I sincretismi che qui ci interessano sono invece quelli che si riferiscono al controllo, cioè le configurazioni A2-A5 e A1-A5. Il primo caratterizza tutte le situazioni in cui il padrone dei luoghi ha i mezzi per preservare il suo spazio privato. Il secondo caratterizza tutti i casi di dipendenza e/o d’incarcerazione: i genitori controllano la mobilità spaziale dei propri figli, i secondini controllano quella dei prigionieri rinchiusi nelle celle o ammessi in luoghi collettivi all’interno della cinta carceraria. 7.7.1.6. La sospensione del controllo ha per effetto di cancellare le frontiere: esse non sono più percepibili e non hanno più esistenza concreta. L’estensione è riunificata e non ci sarà più ragione per distinguervi differenti luoghi. Le frontiere di cui il controllo è sospeso possono tuttavia conservare uno statuto virtuale e ogni riattivazione del controllo è in grado di riattualizzarle. In modo simmetrico, il divieto totale di passare rende inconoscibile lo spazio sottratto all’accesso. Da quel momento non può essere conosciuto che a partire dalle frontiere invalicabili: il suo interno acquista uno statuto virtuale. È il modo di esistenza usuale degli oggetti pieni. Lo spazio della loro superficie esterna è accessibile cognitivamente o esige l’utilizzo di strumenti, verosimili soggetti delegati dotati della capacità di penetrare l’oggetto malgrado la resistenza che esso presenta. Affronteremo questa questione più in dettaglio nel paragrafo seguente. Di conseguenza, non c’è che l’attraversamento condizionato che può organizzare l’estensione in spazio (vedi capitolo secondo). Infatti è il solo caso interessante, quello che ha suscitato l’inventiva dei pianificatori e degli architetti. La moltitudine dei modi di controllarlo rende il nostro ambiente vario e ricco di forme.

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7.7.2. Il controllo delegato alle cose 7.7.2.1. Abbiamo visto al paragrafo 7.6.3. che i contratti fondatori delle giunzioni in uno spazio non munito di muri sono sottomessi a una perpetua negoziazione/rinegoziazione. Abbiamo anche visto che la presenza di muri non fa scomparire la necessità di rinegoziare le proposte di contratto: al limite non fa che restringere l’estensione dei luoghi dove la negoziazione avviene, limitandoli alla porta. In altri termini, i muri si rivelano essere frontiere in cui il passaggio non è praticato, almeno fino a quando i muri sono in piedi29. Cosa succede esattamente e qual è il discorso tenuto da un muro? Il muro oppone allo spostamento umano ordinario un ostacolo maggiore. Ci sono muri che si possono saltare, ma un tale gesto equivale a una aggressione: la legge lo riconosce come violazione di domicilio, elemento che ci dà la chiave per l’interpretazione semantica. Il muro non si accontenta di esserci, enuncia anche un discorso complesso situato su diversi registri. Consideriamo un muro che si presenta come non valicabile, per esempio un muro che circonda una proprietà di campagna. Di fatto non è invalicabile che per un uomo sprovvisto di mezzi, poiché basta disporre di una scala per poter scavalcare, o di un attrezzo per scavare un’apertura sufficiente al passaggio di un uomo. Il carattere non oltrepassabile è quindi relativo: mette l’uomo30 in una situazione di non-poter-fare. Certi strumenti, come la scala o l’attrezzo, forniscono un poter-fare superiore che garantisce il passaggio. Tuttavia, il ricorso a tali mezzi implica che la persona che li usa non si ponga più nel quadro di una comunicazione contrattuale, e opti per un quadro polemico. Visto che nessun muro civile31 può resistere a tutte le aggressioni immaginabili, come fa il muro a svolgere la sua funzione? Il primo registro, quello dell’attualizzazione secondo il non-poter-fare, può essere graduato: l’aumento dell’altezza del muro esige scale sempre più ingombranti, l’aumen-

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to dello spessore o della solidità dei materiali esige degli strumenti più potenti per essere forato. L’elevazione del grado di difficoltà esige sia una maggiore spesa di lavoro per il valico, sia un tempo maggiore, in modo da assicurare al controllore umano la possibilità di intervenire. Il muro non è quindi altro che un dispositivo dissuasivo, orientato verso una varietà di attori che è possibile ricostruire a partire dalla sua forma e materialità stessa: porta con sé l’inscrizione di coloro che è destinato a lasciare fuori. In termini semiotici, la dissuasione non è che un invito a non fare. Siamo allo stadio della virtualizzazione e della proposta del contratto: il muro invita contrattualmente a non essere oltrepassato. In questo non è per nulla differente dalla porta (§§ 7.6.2., 7.6.3.). L’elemento che differenzia il muro dalla porta è la stabilità: il muro è difficile da muovere, mentre la porta è mobile. Combinando l’analisi di questi due elementi, si può dire che la cinta muraria completa costituita da un muro dotato di porte, tiene, in primo luogo e al livello di virtualizzazione, un discorso unico, che invita a non essere valicata (questo è vero sia per l’attore situato all’interno della cinta sia per quello esterno). In secondo luogo, con l’esperimento che fornisce la regola secondo la quale ogni muro è forato da una porta, ogni porzione di muro invita a ricercare una porta: è una virtualizzazione che succede logicamente alla prima. In terzo luogo, una porta chiusa invita a non varcarla e a negoziare il passaggio con la persona incaricata del suo controllo. La negoziazione passa attraverso la modalità del sapere. Di conseguenza, una cinta dotata di porte è un dispositivo statico che, per una serie di inviti inscritti nella materia formata, restringono le negoziazioni di contratto del passaggio ai soli punti dove ci siano porte, ovvero ai punti di passaggio condizionato. 7.7.2.2. La sovradeterminazione contrattuale è chiara. L’inscrizione delle modalità del potere (o non-potere) e del volere sono altrettanto chiare. Se il tutto è fondato su un contratto sociale adeguato, la modalità del dovere è an-

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ch’essa inscritta in questo dispositivo: è così che la legge trasforma in obblighi gli inviti virtualizzanti della cinta. 7.7.2.3. Ma c’è di più: dietro il contratto che abbiamo appena evocato, c’è un altro contratto fondatore stipulato con la natura. Infatti, l’inscrizione dei valori modali nella materia è interessante per il solo fatto che la materia è stabile. In altri termini, è solamente a motivo del fatto che la materia è spogliata di un proprio volere, cioè che essa tende a non cambiare da sola e a perseverare nel suo essere, che l’attante preposto al controllo della frontiera può inscrivervi il suo proprio volere da trasmettere. Nel nostro esempio questo è altrettanto vero per il muro e per la porta. È anche vero in generale: il costruttore non utilizza i materiali che in modo conforme alla loro stabilità naturale. A titolo d’esempio, l’acqua non serve a fare i muri, ma a riempire i fossati di cinta. Di conseguenza, il pianificatore ha una certa confidenza intorno alla sua natura e alla sua stabilità. Esplicitiamo così uno dei principali contratti impliciti che tende a divenire invisibile per eccesso di universalità. 7.7.2.4. I terremoti e le catastrofi naturali hanno il carattere scioccante delle rotture di contratto. Tuttavia, dopo il primo choc, l’urbanista troppo fiducioso si vede messo in causa: avrebbe dovuto prevedere e premunirsi. C’è quindi un carattere nascosto del contratto, che si rivela dotato di un innegabile carattere riflessivo: il contratto avviene tra l’uomo e se stesso oltre che tra l’uomo e la natura. Chiariamo. Avendo notato che la natura esprime comportamenti molto regolari, l’osservatore ne deduce che essa è sprovvista di una volontà propria e prevede che non si muoverà in modo imprevedibile. La previsione è fondata sulla regolarità anteriormente osservata, che la modalizza secondo il dovere (§ 7.6.3.). In altri termini, la natura (inerte) che non possiede volontà propria è modalizzata nei suoi comportamenti secondo il dovere: essa deve conti-

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nuare a comportarsi come ha sempre fatto. La natura viene quindi antropomorfizzata, poiché l’obbligazione è una modalità definibile tra due attanti antropomorfi (un soggetto e un destinante mandante). Se c’è obbligo, ed è transitivo, conviene porsi la seguente domanda: “Verso chi è orientato questo obbligo?” Una sola risposta s’impone: “Verso l’uomo che ha osservato le regolarità”. Se la natura è antropomorfizzata dall’obbligo, e l’obbligo transitivo è orientato verso l’uomo, l’insieme della catena equivale a una promessa fatta dalla natura all’uomo32. In tal modo, chiunque utilizzi dei materiali fa affidamento su questa promessa implicita. La scienza dei materiali non è che la disciplina attraverso cui è possibile precisare le condizioni seguendo le quali la natura rispetterà i suoi obblighi verso i suoi utenti. Una precisazione è necessaria; quando la natura si comporta in modo imprevedibile, è il sapere dell’uomo che è in causa, non la natura. Di conseguenza, ciò che è modalizzato secondo il dovere non è l’insieme dei comportamenti della natura ma solo il comportamento conosciuto. Questo equivale a dire che il dover fare della natura è strettamente inscritto nel sapere del soggetto cognitivo osservatore. Da cui il carattere riflessivo del contratto e della promessa evocati. 7.7.2.5. Ci sono tuttavia casi in cui la messa in opera dei materiali permette di costruire delle promesse chiaramente transitive. A titolo d’esempio, si vede spesso negli aeroporti il dispositivo seguente: le persone venute per ricevere i passeggeri all’arrivo possono vederli compiere un certo numero di formalità (controllo dei passaporti, recupero dei bagagli) prima della loro uscita dalla zona “sotto dogana”. Tra i due gruppi, una parete di vetro assicura la separazione somatica pur permettendo la congiunzione visiva. Così facendo, si annuncia la loro prossima congiunzione effettiva, e questo è molto vicino a una promessa. Una situazione analoga è riservata al viaggiatore pronto ad andare via: dalla sala dell’imbarco può vedere l’aereo su

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cui salirà di lì a poco, e in questo contatto visivo c’è la promessa di un contatto somatico differito. Una vetrina di negozio non funziona diversamente: se in un primo tempo non autorizza che la congiunzione visiva e vieta la congiunzione somatica, essa promette quest’ultima se l’atto di scambio è realizzato in modo conforme all’uso. La promessa è quindi condizionale, come il passaggio attraverso l’apertura che permette di aggirare la parete di vetro. Simmetricamente alle promesse positive, esistono delle promesse negative inscritte in una parete di vetro. Il caso della vetrina è eloquente: l’atto di rompere il vetro espone il suo autore a vere e proprie punizioni. In un museo, il valore dei pezzi induce a completare il vetro con un sistema d’allarme, e il non rispetto del divieto posto dal vetro scatena delle ritorsioni. Pertanto il vetro veicola una minaccia che è stata inscritta e la minaccia si distingue dalla promessa solo per la valorizzazione dell’oggetto di cui il destinatario è gratificato: positiva nel caso della promessa, negativa per la minaccia. 7.7.3. Il controllo di attori non umani 7.7.3.1. In tutti gli esempi esaminati abbiamo supposto che gli attori manifestanti i ruoli attanziali A1, A2 e A5 fossero attori umani. L’interpretazione semiotica di questi casi diventava più semplice. Tuttavia, abbiamo visto che gli elementi di natura, se non proprio la natura stessa, possono essere presi in considerazione per la realizzazione del ruolo attanziale A8, e che possano trovarsi inscritti in essa modalità come il potere, il volere, il dovere e il sapere. Se si vuole che il modello abbia una maggiore generalità, conviene esaminare i casi in cui gli altri ruoli attanziali sono manifestati da attori non umani. 7.7.3.2. Consideriamo un caso concreto, quello dei pannelli di facciata che bordano le celle del convento di La Tourette. Dovuti all’architetto Le Corbusier, sono divisi in quattro sotto-pannelli.

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A destra, c’è una porta in legno33 che va dal suolo al soffitto e che permette alle persone di passare tra la cella e il balcone (§§ 7.3.1., 7.4.2.). A sinistra, c’è una porta stretta (15 cm circa di larghezza), in legno, che va ugualmente dal pavimento al soffitto. Una volta aperta, lascia vedere una griglia metallica fine che forma una zanzariera. La fessura verticale così aperta è destinata all’areazione della cella. Gli corrisponde una identica fessura dalla parte del corridoio. L’apertura delle due finestrelle permette di creare una corrente d’aria fresca senza lasciar entrare le zanzare. Precisiamo che la porta che dà sul balcone non è dotata di una zanzariera. Al centro, tra le due porte menzionate, il pannello di facciata è tagliato in due: in basso, un parapetto è scavato in una nicchia per accogliere il termosifone. Tra il termosifone e il cemento, uno strato d’alluminio incollato alla facciata riflette il calore verso l’interno della cella. Questo parapetto è sormontato da un vetro montato direttamente nel cemento che fa da cornice: il vetro non è apribile. L’analisi contrastiva degli elementi di questo pannello è molto istruttiva: - tutti i componenti del pannello possono isolare dal vento e dagli agenti atmosferici aggressivi in generale;

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- il vetro fa passare la luce ma impedisce il passaggio all’aria e ad altri oggetti; - la fessura di sinistra lascia passare, in posizione aperta, l’aria (e il freddo) ma non fa passare né le persone né le zanzare; - la porta di destra lascia passare, in posizione aperta, le persone, la luce, l’aria, le zanzare e gli agenti atmosferici; - il parapetto in cemento non fa passare né il calore, né la luce, né l’aria, né le persone… Quest’inventario mette in evidenza che tutte queste barriere sono selettive: esse fanno passare certe categorie d’attori ma non altre. Non fanno che esemplificare una regola generale: il controllo delegato agli oggetti dipende in parte dalle qualità relative dell’attore di cui l’accesso è controllato e in parte dalle qualità dei materiali delegati al controllo. A titolo d’esempio, un vestito invernale deve essere intessuto finemente per impedire il passaggio del vento freddo attraverso il tessuto. Uno specchio deve avere maglie di dimensione inferiore al quarto della lunghezza delle onde di radiazione riflesse, cosa che permette di fare maglie di parecchi decimetri di lato per specchi che riflettano onde radio. Tali esempi illustrano casi di interdizione selettiva. Se ne possono dare altri: una porta deve essere sufficientemente larga per far passare un uomo carico, un vestito deve essere sufficientemente leggero per far passare l’aria attraverso le sue maglie pur proteggendo il corpo dal sole o dagli sguardi, un vetro a specchio deve lasciar vedere da un lato pur riflettendo la luce dall’altro. 7.7.3.3. Dal punto di vista del passaggio condizionato, ci interessa esplicitare la seguente nozione di base: un oggetto non possiede qualità in sé, ma qualità in relazione a un altro oggetto all’interno di un programma dato. Il programma del passaggio è fondato sulla premessa del libero spostamento. Da questo punto di vista, lo spazio vuoto è portatore della modalità del poter-fare. La materia solida non è percepita, a un primo approccio, che a titolo di

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spazio del non-poter-fare34. Il passaggio attraverso la materia necessita dell’uso di apparecchiature adeguate come un coltello, forbici, punte… altrettanti soggetti delegati dall’uomo per passare là dove egli non può passare da solo. Gli esempi si affastellano nelle applicazioni tecniche, dove si mettono a punto sia gli attori delegati al passaggio sia gli attori destinati a fermarli o a controllarne gli spostamenti. In quest’attività, le qualità descrittive della materia sono sfruttate a titolo di qualità modali; la durezza di un metallo è ciò che garantisce il suo potere di penetrazione, la velocità di un proiettile è ciò che definisce la sua energia cinetica e di conseguenza la sua capacità di penetrazione o di distruzione. Come per gli altri casi di relazione uomo-natura (§ 7.6.3.), la regolarità dei comportamenti della materia trasforma la lettura di queste modalità attualizzanti in quella di modalità virtualizzate dal dovere. Infine, il voler-fare umano, estraneo alla materia, può esservi iscritto tramite la manipolazione dello spazio e delle situazioni di comunicazione. La scelta degli elementi che materializzeranno una frontiera è solo un caso particolare di questa procedura generale. Viene svolto in funzione delle entità che possono passare attraverso di essa, il caso degli attori umani essendo solo uno tra gli altri. Vediamo che la questione della privatizzazione rinvia alla problematica molto generale del controllo dei processi e del dominio dello spazio. Un tale grado di generalità non è interessante se non nella misura in cui permette di esplicitare le premesse di base, la cui ignoranza rischia di far cadere in errore. Rimane da precisare nuovamente le specificità della privatizzazione dello spazio umano. 7.8. Le conseguenze dell’accesso e il dono simbolico Abbiamo appena visto che il luogo privato è nei fatti un topos privatizzato. Ciò equivale a dire che non è dato come privato, ma che bisogna definirlo o costruirlo come privato mediante una serie di azioni, preparate da propo-

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ste di azione indirizzate verso terzi. In più, questo carattere privato è labile e la sua conservazione esige la messa in opera di strategie adeguate. Una di queste strategie (ma non la sola) consiste nel posizionare, attorno a luoghi privatizzati dispositivi stabili che ne controllino l’accesso. Stabilito questo, esaminiamo le conseguenze dell’accesso e quelle della moltiplicazione dei luoghi privatizzati. 7.8.1. Il dominio dello spazio I differenti esempi che abbiamo descritto e analizzato in questo studio convergono a dare una certa immagine del “padrone dei luoghi”. In effetti, egli non è che il padrone di certi poteri: poter entrare e uscire, poter abitare, ricevere, dormire, sedersi, mangiare… L’inventario delle grandezze sintattiche necessarie alla descrizione di queste azioni si riduce a quattro: due attori, che sono il topos-oggetto da una parte e il padrone-soggetto d’altra parte, legati da una classe indeterminata di funtori che riguardano la categoria del fare, essendo questi funtori sovradeterminati da un metafuntore che non è altro che la modalità del potere. Modalità Potere

Modalità

Fare Soggetto

Giunzione Topos

Soggetto

Topos

È l’insieme gerarchizzato fare + potere35 che definisce il controllo dei luoghi36. Il presupposto comune a questi poteri particolari, e quindi del dominio in generale, è il potere d’accesso (§ 7.6.2) che rende possibile la congiunzione tra soggetto umano e oggetto topos. A questo titolo, la modalizzazione del fare giuntivo costituisce il nocciolo duro della competenza attualizzata del padrone dei luoghi.

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L’acquisizione, la modificazione e la stabilizzazione del potere giuntivo sono operazioni la cui descrizione sintattica37 permette di caratterizzare le diverse varietà della privatizzazione installando un certo dominio dello spazio. Cominceremo con il descrivere questo dominio comune a tutte le varietà di privatizzazione, cioè il minimo necessario al riconoscimento del “privato”. Nell’esempio di La Tourette, abbiamo riconosciuto la fonte di questi poteri come una istanza destinatrice, denotata A5, A6 o A7 secondo le modalità particolari che essa investiva nel soggetto A2. Attraverso le varianti culturali osservabili, è possibile costatare che questi poteri sono riconosciuti dalle società come illimitati nel tempo, trasmissibili e cedibili nei casi della proprietà, limitati nel tempo e nella trasmissione per ciò che concerne la locazione, ancora più limitati per gli eventi transitori. Due distinte osservazioni ne derivano: i) La “società” può essere comodamente posizionata nel ruolo di destinante mediato se l’interazione osservabile non permette di identificare gli attori immediati con maggior precisione. Sappiamo che tutte le procedure contrattuali si richiamano, in ultima istanza e dopo un numero variabile di tappe intermedie, alla convenzione sociale38. ii) La mobilità di questi poteri, o la loro cedibilità manifestata attraverso i dati osservabili (§ 7.8.2.1.), implica un meccanismo di delega nel caso generale, visto che succede spesso che l’istanza preposta a fornire il potere non lo concede se non conservando la possibilità di riprenderselo: è il caso dei feudi, dei prestiti, e, in misura più limitata, degli appartamenti in affitto. Questo stesso meccanismo di delega è all’origine dei sincretismi attanziali A2-A5; A2-A6; o A2A7 evocati in precedenza. L’autorizzazione d’accesso mette in gioco questo meccanismo e ne esamineremo le conseguenze a partire da qualche esempio. 7.8.2. Il dono simbolico Gli esperimenti fatti a La Tourette si inscrivono nella serie di osservazioni che abbiamo condotto in Giappone39,

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in Francia (Groupe 107, 1973) e in Siria40. Esse erano destinate a convalidare in situ, nell’intenzione degli stagisti e con il loro aiuto, una parte dei risultati raggiunti nelle nostre analisi anteriori. Da un punto di vista epistemologico, questa procedura si inserisce nell’approccio sperimentale nel senso metodologico del termine. I risultati possono essere considerati definitivi a proposito della privatizzazione, dell’accesso condizionale, della negoziazione e del quadro contrattuale generale. Tuttavia non sono stati altrettanto didatticamente evidenti per un altro risultato importante estratto dalle nostre analisi anteriori, ovvero l’interpretazione in termini di dono simbolico dell’attribuzione, da parte del padrone dei luoghi, di un topos al suo visitatore. Per questo motivo riprenderemo l’esempio delle case tradizionali giapponesi, dove tali pratiche sono altamente leggibili. Citeremo dove d’uopo alcuni esempi di La Tourette. 7.8.2.1. Quando un giapponese che gioca il ruolo attanziale di A2 riceve in casa un visitatore che manifesta il ruolo attanziale A1, e che vuole onorare, lo conduce fino al posto d’onore chiamato *Za-shiki, facendogli attraversare un certo numero di posti abitualmente messi in fila. Più A2 è ricco, maggiore sarà il numero dei posti in successione. Non per grado di ricchezza, poiché questi posti rimangono praticamente vuoti, ma perché dovrà distinguere i suoi visitatori secondo il rango: più sono onorabili, più numerosi saranno i posti da attraversare prima di essere invitato a sedersi. Ne deriva che il loro statuto sarà anch’esso significato all’interno del posto tramite la presenza del cuscino che sarà loro riservato. Autorizzando A1 a varcare la cinta A8 che circonda il suo territorio, A2 fa dono al suo visitatore di un valore modale: quello di potere41 oltrepassare il confine. Questa soglia non è la sola che sia investita in questo modo: nella casa, tutti i confini comuni a due vani contigui sono semanticamente caricati, come manifestato dal rituale di passaggio a ogni soglia: il visitatore si ferma e il padrone dei luoghi lo prega di andare oltre. Il superamento di que-

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sti confini non è offerto a tutti: solo i visitatori di rango hanno questo diritto, mentre la vicina venuta per chiacchierare deve restare all’entrata. 7.8.2.2. Ogni confine presuppone uno spazio confinante, poiché la relazione confinante-confinato è di mutua presupposizione (Poincaré 1913, pp. 133-157). Ne risulta che potremmo rendere conto di queste osservazioni sia in termini di oltrepassamento dei confini sia in termini di congiunzione con dei topoi. La considerazione dei confini mette l’accento su azioni modalizzate (poter varcare). La considerazione dei topoi mette l’accento su stati modalizzati (congiunzioni-disgiunzioni possibili tra soggetti umani e oggetti topoi). Da un punto di vista puramente sintattico, è lo stesso affermare che la modalità del potere è acquisita da A1 (offerta in dono da A2-A6) al momento del superamento del confine A8 o dire che essa è stata acquisita (data) dalla congiunzione con il topos A3. Le differenze tra queste due maniere di esprimere le cose appaiono solo dal punto di vista sintagmatico: prima di passare il confine A8, l’attore A1 deve confrontarsi con la materialità di questo confine quando quest’ultimo è espresso da un dispositivo stabile che veicola enunciati virtualizzanti e attualizzanti. 7.8.2.3. A1, visitatore di alto rango condotto fino alla *Za-shiki, si vedrà offrire il posto onorabile. Gli altri attori visitatori, se ve ne sono, si vedranno offrire un posto in funzione del loro rango. A2, padrone di casa, si metterà di fronte ad A1, nel posto gerarchicamente più basso: avendo ceduto i topoi uno a uno, ha ceduto i suoi poteri e si ritrova a un livello gerarchicamente inferiore, come è espresso dalla configurazione statica dei posti a sedere. In questo modo viene marcata simbolicamente la performanza che congiunge A1 con gli oggetti-valore spaziali che erano in precedenza congiunti con A2. A1 è staticamente asserito come superiore ad A2 per tutta la durata della visita. Andandosene, A1 cede i topoi ad A2 che vi rimane congiunto.

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La cerimonia del tè, celebrata in un’architettura particolare che obbedisce a regole più formali, ci offre una situazione radicale. Durante l’intera cerimonia, è il primo invitato che controlla lo spazio: invita a entrare colui che abitualmente è il padrone di casa, al momento in cui quest’ultimo si inginocchia fuori della soglia per salutare. Il primo invitato controlla anche il tempo e lo svolgimento degli avvenimenti: decide chi ha mangiato abbastanza, domanda un decotto di riso, offre da bere e da mangiare all’usuale padrone di casa. Insomma, l’inversione delle competenze è quasi totale. 7.8.2.4. È interessante osservare che nel convento di La Tourette gli abitanti delle celle hanno adottato lo stesso modo di fare, facendo attraversare i topoi al fine di attribuire al visitatore il topos ultimo della serie, quello del balcone. Questa procedura esisteva in Francia, in periodi antichi, stando almeno alla letteratura: così, in tutti gli appartamenti del XVII secolo, dove le stanze erano disposte in successione42, si ricevevano i visitatori onorevoli nella camera di fondo. Far fare anticamera era considerato negativamente. La similitudine della pratica delle celle di La Tourette con quella delle case giapponesi si spinge ancora più lontano, poiché la *Za-shiki è necessariamente visibile dal giardino, condizione realizzata dal balcone in questione. Malgrado certi elementi suggestivi per l’analisi di questo accostamento, non sembra possibile fondarlo su regole dimostrabili che abbiano una validità certa in Francia e in Giappone. Il piccolo numero di occorrenze disponibili e il carattere parziale delle osservazioni fatte costituiscono un ostacolo maggiore. 7.8.2.5. In Occidente, il dono simbolico dei topoi diventa più evidente quando si presta una camera al visitatore che resterà un certo periodo in casa: a partire da questo momento, la camera attribuita non è più accessibile al resto degli abitanti del luogo. O meglio, non è più

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accessibile senza un rituale equivalente a quello del visitatore che chiede l’accesso in casa di altre persone. Ora, l’attribuzione di una poltrona, di un divano, di una sedia, non è per nulla differente dal punto di vista dei meccanismi in gioco. Variano solo le dimensioni del topos accordato, necessariamente in connessione con l’estensione dei luoghi disponibili al momento dell’interazione presa in considerazione. Al convento di La Tourette, gli esperimenti del refettorio hanno manifestato procedure di dono simbolico ogni volta che un gruppo o un membro del gruppo offriva, a una persona che passava nelle vicinanze, un posto a tavola. Il dono è stato nettamente espresso al momento delle manipolazioni del paragrafo 7.3.4. (analisi in 7.4.5.), nel corso delle quali marche di proprietà erano state messe sulle sedie (o con il vino versato nei bicchieri) al fine di segnalarne l’appartenenza. In effetti, c’era stato bisogno di togliere le marche di proprietà prima di offrire il posto a colui che stava sopraggiungendo, per negare l’attribuzione anteriore prima di dichiarare un nuovo dono. 7.8.3. La segmentazione dello spazio privato 7.8.3.1. Conviene notare che, in ognuno degli esempi esaminati, il dono simbolico verteva solo su una porzione del topos A3 disponibile. In alcun caso abbiamo potuto osservare l’offerta della totalità del topos. Pertanto si impone una domanda: questa assenza è necessaria o contingente? La risposta risiede in un’analisi più approfondita della visita. Fino a questo momento abbiamo esaminato differenti forme di visita senza porci la domanda della loro finalità (salvo nel caso delle manipolazioni destinate a rivelare meccanismi di funzionamento). Per quale ragione A1 si reca da A2 per esprimere il suo desiderio di entrare? È possibile rilevare centinaia se non migliaia di motivi concreti, che vanno dalla visita di augurio del nuovo anno a quella della richiesta di matrimonio, passando per la visita

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ai convalescenti. La risposta non si trova quindi a questo livello di funzionalità. Basta osservare che lo svolgimento spaziale della visita è stabile, indifferente a questa commutazione potenzialmente infinita, per dedurre che c’è qualche cosa che non riguarda il programma enunciato. L’ipotesi di una finalità strettamente spaziale è difficile da sostenere: non si può pretendere che tutti i visitatori siano innamorati dello spazio, desiderosi di congiungersi con gli angoli più nascosti. Il programma di base della visita è situato a un livello gerarchicamente superiore, quello della negoziazione-rinegoziazione delle relazioni interpersonali. Colui che viene a farsi ricevere si fa riconoscere come degno di entrare. Simultaneamente, colui che riceve si mostra degno dello sforzo e dello spostamento dell’altro. La visita permette quindi un mutuo riconoscimento dei protagonisti. Il compimento delle visite rinserra il legame che li unisce e la ripetizione delle visite può trasformare la relazione: dalla conoscenza si può passare all’amicizia. Inversamente, la dilatazione temporale delle visite può produrre la distensione dei legami. Abbiamo visto che il riconoscimento di A1 compiuto da A2 è stato espresso dal dono simbolico dei topoi: A2 offre ad A1 la congiunzione con alcuni topoi, così come le modalità di potere afferenti. Se cedesse tutti i poteri, l’espressione di riconoscimento non varrebbe nulla: non si può riconoscere un altro se non si è già qualcuno. In altri termini, è necessario essere competenti per farlo43. Sull’isotopia spaziale che stiamo analizzando, ciò che fonda la competenza è la congiunzione con i topoi. Di conseguenza è necessario che A2 conservi la congiunzione con certe porzioni del suo proprio spazio A3. Se cede ad A1 una parte inferiore a quella che mantiene per sé, conferisce ad A1 uno statuto inferiore a quello che si dà. Se cede ad A1 una porzione superiore di quella che conserva, gli conferisce uno statuto superiore al proprio. Questo meccanismo è chiaramente espresso nelle società fortemente gerarchizzate, in particolare in Giappone. Lo studio della letteratura occidentale

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mostra che funzionava allo stesso modo nelle società aristocratiche, dove la gerarchia era fortemente marcata. È facile verificare la correlazione tra gradi di espressione di questa regola e gradi di penetrazione di una ideologia gerarchica nella società; allo stesso modo è facile verificare che le visite contrattuali si fanno solo a un livello sociale sensibilmente parificato, anche nelle società dette democratiche. 7.8.3.2. Il meccanismo ricorrente e stabile sembra riducibile a una suddivisione temporanea dello spazio, distinguendo due topoi in seno a ciascun topos che giochi il ruolo attanziale A3: i) il topos A3,1 attribuito ad A1 in seno al Topos globale A3, di cui il padrone riconosciuto è A244; ii) il topos A3,2 che A2 si riserva in seno ad A3. Se si tenta di qualificare verbalmente, in termini di privato e di pubblico, gli spazi così divisi, si potrà dire quanto segue: il topos A3,1 è un topos prelevato sui topoi privati di A2 e reso relativamente pubblico. Il topos A3,2 è un topos salvaguardato tra i topos di A2 e reso ancora più privato. In termini di privatizzazione, questo crea una gradazione nei modi della privatizzazione. Nelle pratiche militari, si chiamerebbe edificazione di una seconda linea difensiva quando la prima ha ceduto. La definizione del topos A3,2 procede per sottrazione: è ciò che resta del Topos A3 quando il topos A3,1 è stato ceduto. Per esprimere questo tipo di relazione, si possono notare i topoi parziali in modo più esplicito: A3 Topos riconosciuto “presso A2” A3=Topos[A2]=T[A2] A3,1 Topos attribuito ad A1 presso A2, cioè t(A1)ŒT[A2] A3,2 Topos preservato da A2, cioè t(A2)ŒT[A2]

Notiamo con t(Ai) il topos inglobato, e con T[Aj] il topos inglobante, con Ai,j il topos attribuito ad Aj in seno a un topos Ak riconosciuto ad Ai. I due sistemi di notazione sono equivalenti dal punto di vista logico. Nelle prossime

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LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

dell’articolo daremo preferenza alla notazione che evidenzia la relazione d’inclusione visto che permette di verbalizzare più facilmente e consente una notazione più esplicita delle operazioni e delle relazioni45. 7.9. L’organizzazione paradigmatica dello spazio privatizzato La strategia analitica che abbiamo adottato, basata sull’osservazione di situazioni concrete interrogate a partire dal loro svolgimento dinamico, ha dato alla maggior parte delle nostre descrizioni un carattere marcatamente sintattico. Avremmo così privilegiato l’analisi sintattica a discapito di una descrizione paradigmatica che avrebbe sviluppato la dimensione tassonomica dei fenomeni studiati. Tenteremo di ristabilire un equilibrio nella parte che segue. 7.9.1. Lo spazio della visita 7.9.1.1. Riprendiamo il caso di una semplice visita. Abbiamo visto che, dal punto di vista spaziale, la sua descrizione necessita del riconoscimento di due topoi, A3 e A4 che realizzano una partizione completa dell’estensione disponibile: tutto ciò che non è all’interno del topos A3 è rigettato per definizione nello spazio esterno A4.

A0

A4

A3

Ciascun topos è rappresentato da una regione chiusa del piano. La forma di questa regione è puramente indicativa e non è legata da alcuna costrizione a quella del luogo che può manifestarla. Dato che il confine che le se-

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para non è sempre materializzato, si può, in un primo tempo, farne astrazione per concentrare la nostra attenzione unicamente sui luoghi. In ogni caso, questo confine non è un luogo. Considerati in rapporto all’estensione costitutiva del microuniverso della situazione analizzata, i topoi A3 e A4 sono complementari. È facile mostrare che la relazione di complementarità tra due sotto-insiemi di un insieme è omologa alla relazione di contraddizione logica poiché ne verifica la definizione punto per punto46. Di conseguenza, l’estensione A0 può essere considerata come una categoria logico-semantica articolata in due termini contraddittori. Fino a che non ci sono altri termini nella categoria, questi due possono anche essere pensati come contrari, essendo confuse le due opposizioni dal piccolo numero di termini disponibili. Da cui lo schema seguente: Estensione A0 A3 Interno

A4 Esterno

7.9.1.2. Riprendiamo la questione del confine che separa A3 da A4. Da un punto di vista strettamente matematico, il confine e il confinato intrattengono una relazione di mutua presupposizione (Poincaré 1913, pp. 133-157) che rende impossibile definire l’uno in assenza dell’altro. Da questo stesso punto di vista, il confine è di dimensione n-1 mentre il confinato è di dimensione n. Ne segue che il confine A8 è una linea e non è un luogo47, essendo A3 e A4 assimilabili, dal punto di vista degli spostamenti e delle superfici. Non riguarda né il topos interno né quello esterno. Si tratta quindi di un termine sospensivo o termine neutro che può essere integrato nella struttura tassonomica della categoria nel modo seguente:

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LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

Estensione A0 A3

A4

Interno

Esterno A8 Confine

Riconosciamo in questo schema, in termini logici, due termini contrari con un termine complesso e uno neutro. Per i matematici, si può parlare di una topologia elementare costruita su due termini, con il loro supremum e il loro infimum (o un simplex di ordine 2). 7.9.2. Lo scambio delle visite e l’obbligo di simmetria spaziale 7.9.2.1. Data la finalità ultima della visita, che è il mutuo riconoscimento, e considerando la durata delle relazioni interpersonali, la visita è raramente un’occorrenza unica: l’osservazione ce la mostra inserita in una serie alternativa dove le visite sono ricambiate. È soprattutto il caso quando A1 e A2 sono attori in posizione di simmetria sociale, e lo scambio garantisce la simmetria delle relazioni e la loro continuazione. Si tratta, ben inteso, di una simmetria contrattuale. Riveste un carattere obbligatorio a partire dal momento in cui almeno una visita è compiuta e quando i due protagonisti desiderano mantenere la loro relazione. Di conseguenza, A1 si ritrova con l’obbligo di ricevere A2, per dargli accesso in un topos A9 che controlla. Sarà anche indotto a condurre, in seno al proprio spazio A9, una partizione simile. Ricordiamoci che da un punto di vista formale la situazione polemica incassata, tale e quale l’abbiamo reperita e analizzata nei paragrafi 7.3.-7.5., riguarda una simmetria completa tra i protagonisti dell’interazione. Abbiamo quindi a che fare con una simmetria ai due livelli incassante

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(contrattuale) e incassato (polemico). Analizziamone le conseguenze a livello spaziale, pronti a modificare ulteriormente il modello per le situazioni non simmetriche. 7.9.2.2. Abbiamo visto (§§ 7.9.1.1., 7.9.2.2.) che la visita articola la categoria dell’estensione in tre istanze spaziali A3, A4 e A8. Ora, la conservazione contrattuale delle relazioni (in ultima analisi quella del carattere privato del topos A3) impone la simmetrizzazione del dispositivo, da cui deriviamo l’istanza A9 definita come “presso A1”, il confine A10 di questa e il suo esterno A11 definito come tutto ciò che non è A9. A0

A11

A9

Rigorosamente parlando, questa simmetrizzazione ha un’incidenza sui ruoli attanziali associati ai topoi: i) l’istanza A10, definita come confine, presuppone un’istanza attanziale A12 che ne controlla il varco. Fino a che questa istanza non avrà incidenza sulla nostra analisi, la lasceremo da parte. Ammetteremo piuttosto che, in certi casi, possa essere manifestata in sincretismo con il ruolo attanziale A1 da un attore unico. ii) Il ruolo attanziale A1, che era associato al topos A4, si trova ora associato al topos A9. Questo non significa che l’associazione con il topos A4 sia effimera: il legame tra A1 e A9 è un legame di padronanza diretto; il legame tra A1 e A4 non è un legame di padronanza diretta. Il microuniverso considerato per una visita o per una serie di visite è lo stesso. Ne risulta che non può raddoppiarsi nella simmetrizzazione considerata: l’estensione A0 divisa in topoi è un’invariante che gioca il ruolo di supremum comune a tutte le possibili partizioni. Si può dunque costruire, per la categoria dell’estensione organizzata dalla

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LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

privatizzazione di un topos fatta da A1, uno schema parallelo al precedente: Estensione A0

A9 Interno

A11 Esterno

7.9.2.3. Rimane da descrivere l’articolazione tassonomica dell’estensione in copresenza dei topoi A3, A4, A9 e A11 riconosciuti dalle procedure sintattiche. Abbiamo visto al paragrafo 7.9.1.1. che, in relazione all’estensione A0, i topoi A3 e A4 sono riconoscibili come contraddittori, e il loro statuto di contrari non è che un effetto del numero limitato a due delle parti dell’estensione. Per ragioni di simmetria, si può dire che i topoi A9 e A11 sono contraddittori. Disponiamo quindi di due coppie di contraddittori, definite come simmetriche per costruzione.

A0

A4

A3

A0

A11

A9

Esaminiamo la natura logica della relazione tra i termini A3 e A9. In generale, sono regioni disgiunte definite in seno all’estensione A0. A0

A0

A4

A3

A3

A4 A11

A9

A0

A11

A9

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Se si verificano le condizioni di appartenenza di un punto all’una o all’altra regione, si può constatare che riproducono la definizione logica della relazione di contrarietà48. In modo più intuitivo, si può anche constatare che non è possibile alcun passaggio diretto tra questi termini, come nessun passaggio diretto tra i termini contrari del quadrato semiotico. Infine, la verifica delle condizioni d’appartenenza di un punto ai topoi A4 e A11 mostra che sono in relazione di subcontrarietà49. Riassumiamo facilmente sul seguente quadrato semiotico: A3

A9

A11

A4 A10 Confine

È facile verificare che A11 contiene A3; che A4 contiene A9; che ogni percorso da A3 ad A9 passa per A4; che ogni percorso da A9 ad A3 passa per A11. Questi ultimi due enunciati costituiscono una convalida sintattica del quadrato tassonomico che abbiamo appena costruito. Vedremo in seguito che è passibile di sviluppo per tenere conto della ricchezza delle analisi sintattiche effettuate in precedenza. La categoria dell’estensione A0 che ingloba questi quattro termini, analizzata come termine complesso di ogni coppia di contrari, non può più essere rappresentata nel piano di questo quadrato, e bisognerà ricorrere a un modello tridimensionale. Allo stesso modo, la frontiera che era apparsa come un termine neutro per ciascuna coppia, non troverà il suo posto che in un modello tridimensionale. Rimane da sapere quali sono i termini neutro e complesso di questo quadrato.

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LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

7.9.2.4. I topoi A3 e A9 sono i luoghi privatizzati in seno all’estensione di partenza. Il termine complesso che li sussume entrambi è quindi la categoria dei topoi privatizzati, realizzata in due regioni disgiunte. Noteremo A13 questa nuova entità costruita come riunione dei topoi privatizzati, che si scrive così: A13 ∫ A3 ” A9 Il termine neutro si costruisce come l’intersezione dei topoi non privatizzati, ossia quella dei topoi A4 e A11. Lo noteremo con A14 e scriveremo il tutto come: A14 ∫ A4 “ A11 Si può descriverla come “l’estensione da cui sono state estratte le regioni privatizzate A3 e A9”, ovvero, in termini meno formali ma più evocativi: né A3 né A9. Tutto ciò ci permette di proporre un quadrato semiotico completo dotato dei suoi termini neutro e complesso, ossia: A13 ≡ A3 ∪ A9

A3

A9

A11

A4

A14 ≡ A4 ∩ A11

Se si desidera rappresentare la categoria dell’estensione così sviluppata, bisogna richiamarsi a una topologia più elaborata, detta topologia semplice di ordine 3, raffigurabile in piano attraverso la prospettiva di un parallelepipedo, cui

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si dà per comodità la forma regolare di un cubo. L’infimum di questa struttura è occupato dalla riunione dei confini A8 e A10, termine che noi chiameremo A15. A0 A13

A11

A13 A4

A3

A3

A9 A0

A9 A15

A14

A11

A15

A4

A14

Il lettore interessato potrà verificare che un tale cubo, edificato su di un punto (quello dell’infimum), in modo che la diagonale passante per l’infimum e il supremum sia verticale, si proietta sul piano orizzontale come un esagono regolare, quello, giustamente, del quadrato completato dai termini neutro e complesso. Con una tale proiezione, l’infimum e il supremum si ritrovano congiunti al centro dell’esagono. La rappresentazione esagonale abituale in semiotica omette questa notazione. 7.9.2.5. Prima di continuare, due osservazioni metodologiche. i) Quella che abbiamo appena costruito è la struttura logico-semiotica che sottende le configurazioni spaziali minimali relative a una visita, da una parte, e allo scambio di visite tra due attori umani simmetrici, d’altra parte. La rappresentazione della struttura riveste la forma di un grafico dove i nodi valgono per i topoi, e i segmenti di congiunzione per le relazioni tra topoi. Parallelamente, la rappresentazione delle configurazioni topiche riveste la forma di diagrammi topologici simili a quelli di Venn, familiari ai logici, con cui le regole di appartenenza di un punto a una regione traducono relazioni logiche. È facile passare dai diagrammi ai grafi e viceversa: descrivono lo stesso micro-uni-

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verso, con proprietà che mettono in evidenza le proprietà specifiche all’uno o all’altro. I diagrammi privilegiano le relazioni topologiche d’appartenenza, i simplex privilegiano le relazioni giuntive, i quadrati e gli esagoni privilegiano le relazioni oppositive costruite sulle precedenti. ii) Ognuno dei topoi, può rivestire differenti forme geometriche senza che ciò modifichi l’analisi in modo sostanziale: nel modello che abbiamo costruito, i topoi sono trattati come ruoli attanziali (antropomorfi) concernenti l’“attante oggetto” che possono essere manifestati da diversi attori selezionati nell’estensione. In particolare, ogni topos può essere manifestato da numerosi luoghi contemporaneamente, riuniti in un solo ruolo sintattico. Esplorememo oltre (§ 7.9.4.) le diverse implicazioni di una tale moltiplicazione. In seguito (§ 7.10.1.), esamineremo l’articolazione della categoria attanziale correlata, quella del soggetto (manifestato da attori umani) che si congiunge o si disgiunge da questi topoi50. 7.9.3. L’incassamento delle strutture privatizzanti Abbiamo visto al paragrafo 7.8.3. che una delle conseguenze della visita è la creazione, in seno allo spazio privatizzato, di zone ancora più private differenziate dalle zone più pubbliche dove il visitatore è ammesso. Ora ne reperiremo la strutturazione. 7.9.3.1. Se il topos A3 non è un termine semplice perché è chiamato a essere diviso in due al momento della visita, alla stesso modo di A9 per ragioni di simmetria, l’articolazione di base del paradigma dei luoghi privatizzati non si riduce al riconoscimento di una categoria A13 organizzata in due termini contrari (A3 e A9) con i loro contraddittori: si costruisce su due categorie correlate che si articolano in quattro topoi ciascuna. Riprendiamo il discorso in dettaglio. - Il Topos A3 è diviso in due topoi: A 3,1 Topos attribuito ad A 1 presso A 2 , notato come t(A1)∈T[A2]

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A3,2 Topos preservato da A2 presso A2, notato t(A2)∈T[A2]

Tra i due passa una frontiera che chiameremo A3,0. - Il Topos A9 è diviso in due topoi: A9,2 Topos attribuito ad A2 presso A1, notato t(A2)∈T[A1] A9,1 Topos preservato da A1 presso A1, notato t(A1)∈T[A1]

Tra i due passa una frontiera che chiameremo A9,0. Riprendendo queste strutture sull’esagono delle visite simmetriche, ne deriva:

La categoria dell’estensione, la cui strutturazione attraverso le visite simmetriche prende la forma di un parallelepipedo che si proietta in esagono sul piano, appare allora come più complessa. Dall’incassamento di un simplex di ordine 2 in ciascuno dei nodi A3 e A9, si può dedurre che i nodi A4 e A11 sono sviluppabili allo stesso modo per ragioni di simmetria, così come il raddoppiamento dei nodi A13 e A14. La struttura risultante è un simplex di ordine 4, dotato di 16 nodi, rappresentabile in piano da un grafo a frecce. Se la lettura delle relazioni logiche di contrarietà e di subcontrarietà non è immediata su di un tale grafo, queste ultime sono nondimeno formalmente identificabili. In più, la rete così definita permette di riconoscere altre relazioni, che riguardano uno stesso paradigma e che sono definibili in ter-

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mini simili, non avendo ricevuto una denominazione nella tradizione logica o semantica. Eccone un esempio. 7.9.3.2. Tra i topoi A3,1 e A3,2, la relazione di contraddizione è riconoscibile nella loro complementarietà di topoi inglobati t(A1)∈T[A2] e t(A2)∈T[A2] in seno al Topos[A2] inglobante. Una relazione identica è riconoscibile tra A9,2 e A9,1. Considerando queste relazioni di contraddizione e le categorie dei “topoi resi pubblici in seno a un topos privato” e dei “topoi resi privati in seno a un topos privato”, si possono disporre questi quattro termini nel modo seguente: topoi resi pubblici in seno a un topos privato

t(A1)∈T[A2] A3,1

t(A2)∈T[A1] A9,2

topoi resi privati in seno a un topos privato

A9,1 t(A1)∈T[A1]

A3,2 t(A2)∈T[A2]

Topoi di A1 nello spazio sociale

Topoi di A2 nello spazio sociale

Tanto per il semiologo quanto per il logico, questo quadrato è tassonomicamente ben costruito. Sulle diagonali le relazioni sono contraddizioni. Tuttavia non si può dimostrare che i topoi A3,1 e A9,2 intrattengano una relazione di contrarietà, o che A9,1 e A3,2 una di sub-contrarietà. Infine, si vede difficilmente qual è il programma narrativo capace di generare in modo non mediato un percorso sintattico tra i termini del quadrato. Rimane tuttavia il fatto che il quadrato, estratto da un simplex di ordine 4 di cui abbiamo evocato la costruzione, sembra dotato di una logica interna coerente. Non si tratta di un “quadrato semiotico” standard, ma è qualcosa che ci assomiglia molto. Corrisponde a una situazione più complessa dei casi correnti in semiotica narrativa. La sua pertinenza per la questione della privatiz-

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zazione invita a esaminarlo più da vicino e a denominare le relazioni così scoperte. 7.9.3.3. Il sistema di notazione che distingue due livelli (quello del topos localizzato e quello del Topos globale, legati da una relazione di inclusione) permette di trarre, a partire da questo quadrato, proposte che non mancano d’interesse, sebbene la loro interpretazione possa apparire difficoltosa al lettore non abituato alla formalizzazione, o non familiare con i meccanismi della privatizzazione. Il termine complesso costruito su A3,1 e A9,2 può essere scritto in questo modo: t(A1 e A2)∈T[Ai] Sarà verbalizzato in questi termini: “topos di A1 e A2 nell’insieme dei topoi concernenti A1, A2,… An”. Questo traduce il fatto che in un micro-universo finito, gli spazi attribuiti a un soggetto collettivo delegato sono colti in un insieme di spazi controllati da soggetti particolari. Si tratta della procedura attraverso cui è instaurato ogni nuovo spazio collettivo privatizzato in un micro-universo finito in cui tutte le parti fossero già privatizzate. Una tale operazione è osservabile nelle procedure di riarticolazione urbana, dove i proprietari particolari sono costretti a cedere alla comunità una parte delle loro terre, per liberare le superfici necessarie allo stabilimento della sede stradale e degli edifici collettivi (cfr. Bourdier 1989). Il termine neutro costruito su A9,1 e A3,2 può essere scritto nel modo seguente: t(nonA1 o nonA2)∈T[nonAi o non Aj] Formula che può essere verbalizzata così: “topos non dipendente né da A1 né da A2 in un luogo non dipendente da nessun attore particolare”. Si tratta di uno spazio sospensivo, su cui i controlli individuali e collettivi sono sospesi: uno spazio di “no man’s land”. Riesamineremo tali casi nel paragrafo 7.10.

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7.9.4. La moltiplicazione degli spazi privatizzati 7.9.4.1. Abbiamo definito i termini A1, A2, A3, A9 ecc. come ruoli attanziali, sintatticamente dipendenti da una interazione sociale e spaziale. A livello di manifestazione, possono essere realizzati da una simultanea molteplicità di attori differenti: ci sarebbero tante situazioni potenziali quanti legami binari sono possibili. La realtà osservabile corrisponde a questo caso, con un gran numero di soggetti che privatizzano simultaneamente un gran numero di luoghi. Consideriamo le conseguenze della moltiplicazione degli attori della privatizzazione cominciando da quella della moltiplicazione dei topoi privatizzati come A3 e A9. Da un punto di vista spaziale, la questione si riconduce a quella della disposizione di tali luoghi in seno all’estensione. Abbiamo visto che A3 e A9 sono, in generale, non giuntivi (= non contigui) e separati da una porzione dell’estensione rimanente. Questa disposizione è necessaria? Da punto di vista di una interazione che accade al confine di un territorio privatizzato, questa disposizione non è necessaria. Infatti, la definizione dell’interno e dell’esterno è relativa a questo confine che divide l’estensione in due regioni differentemente investite dagli attori umani. Tuttavia, abbiamo visto che l’esigenza del mantenimento della privatizzazione invita a porre un vincolo di simmetria tra due ruoli attanziali. La moltiplicazione delle interazioni al livello attoriale non cambia nulla al livello attanziale più astratto. Al massimo, obbliga a definire una simmetria multipla tra gli attori, o, in altre parole, una forma che garantisca la similitudine degli attori e delle loro mutue relazioni. Ora, se i topoi A3, A9 e Ai sono tutti giuntivi (o contigui), non potrebbero essere integrati in una simmetria multipla, poiché è impossibile posizionare più di quattro regioni simultaneamente contigue nello stesso piano51. È un semplice problema di topologia, connesso al numero di dimensioni dello spazio di riferimento. Di conseguenza, se si vuole soddisfare la condizione di simmetria, i territori privatizzati devono non essere contigui52 dal momento che superano il numero di quattro.

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In altri terminin gli spazi privatizzati dovranno essere separati da spazi pubblici. Tradotto a livello degli stati di cose, questo obbligo equivale a una necessità: gli spazi pubblici sono necessari, e non è possibile dividere la totalità del’estensione disponibile in topoi privatizzati. L’osservazione delle configurazioni urbane e architettoniche manifesta la molteplicità delle possibili soluzioni, così come manifesta la forza dell’“esigenza di simmetria” nei regolamenti che accordano delle schiavitù d’accesso alle parcelle intercluse. 7.9.4.2. In questi dispositivi, l’elemento di pubblica circolazione corrisponde al “resto dell’estensione” in rapporto al quale si definisce ogni topos privatizzato, con la clausola che il “resto individuale” è diventato un “resto collettivo”. Notiamo subito che il carattere necessario di questo resto permette di riconoscerlo come presupposto dai topoi privatizzati53. Dato che i topoi privatizzati sono necessari alla definizione del “resto” d’ora in poi pubblico, si può dire che la relazione di presupposizione è simmetrica (o mutua) tra topoi pubblici e topoi privati. Se riferiamo questa constatazione al grafo esagonale che articola la categoria dell’estensione, si vede che il termine neutro A14 gioca il ruolo privilegiato dello spazio pubblico, presupposto da tutti gli spazi privatizzati. Quest’osservazione è conforme alle relazioni riconoscibili tra questi termini da un punto di vista logico-matematico: A14 è simmetrico ad A3 e A9 , in una simmetria ternaria che articola i tre contrari dell’esagono (cfr. Blanché 1966). In breve, sono tutti e tre in relazione di mutua presupposizione. A3

A9

A14

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LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

Tutto ciò ci fornisce un risultato notevole a livello di ruoli attanziali e non solo a livello attoriale: la struttura della privatizzazione stabile esige una simmetria ternaria che definisca tre contrari. 7.10. Per un modello più generale di privatizzazione 7.10.1. L’organizzazione dello spazio sociale 7.10.1.1. Riprendiamo il caso della visita semplice, con un micro-universo comprendente una estensione A0 divisa in due topoi complementari A3 e A4. A livello attoriale della manifestazione, A3 è logicamente determinato come ciò che è interno al confine A8, mentre A4 non è determinato se non come esterno a questo confine, o come il resto di A0 al momento dell’estrazione di A3. Dato che A0 non è un’estensione finita, la regione A4 è indeterminata. L’attante A1 è definito come il proprietario del topos A3, e determinato a questo titolo. L’attante A2 è definito come visitatore qualunque muoventesi in A4 ma non come padrone di A4, essendo quest’ultima condizione inutile alla definizione della visita. I due attanti agiscono in funzione di un codice di comportamento socialmente definito, che presuppone un attante Destinante A2054 che è identificabile, in ultima analisi, soltanto con l’attore “società” associato al micro-universo considerato (§ 7.8.1), entità che assicura il controllo dell’estensione A0. L’estensione dell’attore che manifesta A20 varia a seconda dei micro-universi anche se include, in ogni caso possibile, gli attori manifestanti A1 e A2. Questo non impedisce che a livello attanziale il ruolo A20 sia distinto dal ruolo “A1 e A2”. È facile rilevare una omologia55 tra l’articolazione dell’estensione e quella della società, così definite in maniera elementare in relazione alla visita semplice in un micro-universo dato: Istanze spaziali: A0 (estensione) A3 (interno) Istanze umane: A20 (società) A1 (pdl)56

A4 (esterno) A1 (visitatore)

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Una identica omologia è reperibile per la visita semplice simmetrica: Istanze spaziali: A0 (estensione) A9 (interno) Istanze umane: A20 (società) A1 (pdl)

A11 (esterno) A2 (visitatore)

7.10.1.2. Ne deriva che la società può essere descritta, per ciò che concerne le interazioni considerate, attraverso gli stessi mezzi usati per descrivere l’estensione, e possiamo predire che essa ammette le stesse strutture elementari: uno spazio sociale diviso in parti connesse da una rete di relazioni logico-semiotiche. Dato che la deduzione è fatta a un livello elementare, conviene verificare se i risultati siano corretti a livelli più complessi. L’operazione si riconduce allora all’utilizzo dell’analisi effettuata per la categoria dell’estensione come modello predittivo per la categoria della società, e alla verifica della validità delle predizioni. 7.10.1.3. Le cose sono più facili per la divisione dello spazio sociale a livello attoriale, sia per la visita semplice sia per lo scambio di visite:

La simmetria è più visibile sia in questi diagrammi dello spazio sociale sia in quelli dello spazio fisico (§ 7.9.2.3.) poiché gli attori A1 e A2 si scambiano semplicemente di posto mentre variano le denominazioni attoriali dei topoi. Rimane da verificare se gli omologhi umani delle entità spaziali intrattengano relazioni identiche a quelle reperite sui grafi che descrivevano la struttura logico-semiotica dell’estensione.

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LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

7.10.1.4. Il grafo della visita semplice ci fornisce due entità A1 e A2 in relazione di contraddizione (come lo sono A3 e A4), in modo conforme alla situazione polemica rivelata dall’analisi del paragrafo 7.6.2. L’entità A20 come termine complesso congiunge le entità A1 e A2, ancora conformemente alla nostra precedente analisi. A1 Padrone dei luoghi

Società A20

A2 Visitatore

A6 Destinante Attualizzante

L’entità A6 controlla il confine A8 e appare nella posizione omologa prevista. Ciò che è nuovo è l’apparizione del carattere neutro o sospensivo della posizione A6, dedotto dalla posizione di A8, elemento non esplicitato nell’analisi diretta. Di fatto, è inscritto in forma implicita nelle possibilità del sincretismo esaminato: combinato con A2, A6 definisce la posizione del carceriere che controlla un prigioniero. La possibilità stessa di combinazioni sincretiche57 presuppone la compatibilità dei ruoli attanziali combinati, e quindi la neutralità del ruolo in grado di allearsi ai due contraddittori. 7.10.1.5. Il grafo delle visite simmetriche fa apparire nuove entità, finora non esplicitate dall’analisi, di cui bisogna quindi interpretare il carico semantico:

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Cominciamo dalle entità A1 e A2. Esse non sono più in situazione di contraddizione come nel grafo della visita semplice, ma in situazione di contrarietà. Questo traduce il fatto che gli attanti non sono più in relazione puramente polemica: abbiamo visto nel corso dell’analisi (§ 7.9.2.) che quest’ultima è localizzata nel tempo e nello spazio, sovradeterminata dal carattere contrattuale della simmetrizzazione delle visite. Il grafo qui sopra mostra qualcosa di più: i ruoli attanziali A1 e A2 si congiungono per formare l’entità che noi abbiamo chiamato A16, occupante la posizione omologa del topos complesso A13 o riunione dei topoi privatizzati. Si può leggere il tutto nel modo seguente: i ruoli attanziali A1 e A2 sono uniti per far rispettare il carattere privato dell’insieme dei topoi A3 e A9. Ritroviamo quindi, a livello attanziale, l’espressione del contratto che è all’origine della simmetrizzazione delle visite e degli spazi. Si esprime così formalmente la solidarietà dei proprietari degli spazi privati, in difesa dell’insieme del dominio privatizzato contro il resto. Ora, qual è questo resto e come appare sul grafo? Il contraddittorio di A1 è A18, ovvero tutto ciò che non è A1 in seno al gruppo A20. La situazione è simmetrica per A2, che definisce un contraddittorio A19. L’intersezione di A18 e A19 determina A17, entità che può essere riconosciuta come l’insieme del gruppo A20 meno gli attanti A1 e A2, ossia, in modo lapidario, né A1 né A2. Dal punto di vista attoriale, questo resto è indeterminato dal momento che l’entità sociale A20 copre un’estensione e spiega il carattere indeterminato del controllo degli spazi che non sono né A3 né A9 riconosciuti nel corso dell’esplorazione della dimensione spaziale. Questa figura di due sospensioni correlate (sociale e spaziale) caratterizza i luoghi detti pubblici. Non risultano privatizzati e le forme osservabili del loro controllo si riconducono a meccanismi che impediscono la loro privatizzazione: sono infatti interdetti alle forme durature della privatizzazione. Procedendo in questo modo, abbiamo definito ciò che è pubblico partendo da ciò che è privato, invertendo l’ap-

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LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

proccio seguito dalla definizione del dizionario (cfr. § 7.6.1.). Se il percorso è possibile nei due sensi, è perché la relazione di presupposizione tra il pubblico e il privato è simmetrica, come è chiaramente visibile sull’ultimo grafo esagonale: la triade superiore è quella del privato, la triade inferiore è quella del pubblico, e i termini si corrispondono due a due in una relazione di contraddizione. 7.10.2. L’omologia dell’isotopia umana e spaziale 7.10.2.1. È importante la constatazione che le isotopie umana e spaziale del micro-universo considerato si lasciano descrivere allo stesso modo, ammettendo divisioni omologhe e un’architettura logica identica. Una tale osservazione non può essere il risultato del caso, e conviene allora cercarne l’origine, se non la spiegazione. Abbiamo visto al paragrafo 7.8.1. che il soggetto e il topos sono funtivi dipendenti da due funtori gerarchizzati (fare + potere) che definiscono la padronanza dei luoghi. Modalità (Potere) Fare Soggetto

Topos

In questo schema, il soggetto e il topos occupano posizioni simmetriche. Avvicinata da questo fatto, l’omologia verificata in precedenza può essere interpretata come la risultante della messa in forma, attraverso funtori, dei sottodomini considerati. In questo modo, la struttura spaziale e la struttura sociale non sono che le proiezioni correlate di una struttura unica gerarchicamente superiore. In vista della molteplicità delle possibili azioni, una tale struttura sarà riconoscibile solo a livello modale.

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Dal punto di vista della privatizzazione, la modalità che si impone in primis all’analista è quella del potere, poiché si tratta del potere d’accesso. La sua articolazione più elementare è quella che distingue potere da non-potere. Proiettata sul fare giuntivo relativo allo spazio, essa distingue: - nell’estensione, due regioni per un soggetto dato, l’una accessibile e l’altra inaccessibile; - sull’isotopia umana, due soggetti per una regione data, l’uno avente accesso alla regione considerata e l’altro essendone escluso; - nella combinazione delle due isotopie, due regioni per ogni soggetto e due soggetti per ogni regione. La visita semplice, che non è dopo tutto che un comodo rivelatore dei valori latenti, mostra questa organizzazione minimale riconoscibile in ogni appropriazione territoriale. 7.10.2.2. Tutti i casi di manipolazione territoriale cui ci siamo dedicati (descrizione § 7.3., analisi §§ 7.4., 7.5.) hanno manifestato, oltre alla modalità del potere, le modalità presupposte (virtualizzanti) del volere e/o del dovere sotto diverse forme e combinazioni. Hanno anche provocato l’apparizione di rituali che negano la potenzialità polemica della situazione e sono in grado di ristabilire situazioni contrattuali. Di conseguenza, ogni analisi analoga delle strutture implicite della privatizzazione dovrà aggiungere questa dimensione polemico-contrattuale (§ 7.5.4. e nota 11) all’analisi della modalità del potere da noi sviluppata a proposito della questione del controllo. In altri termini, l’analisi semiotica che abbiamo condotto al paragrafo 7.9.2. è interamente retta da una condizione esterna che non è riducibile alla situazione minima di appropriazione quale la stiamo ricostruendo; le situazioni considerate presuppongono qualche cosa di più complesso: un comune desiderio di far durare l’appropriazione, da cui traggono la conseguenza di un obbligo di simmetria nei dispositivi sociali e spaziali. Così, una serie incatenata di modalità virtualizzanti (desiderio = volere + obbligo = dovere) causa il raddoppiamento della modalità del potere, e finisce

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LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

col raddoppio simmetrico degli attanti soggetto e oggetto. In questo quadro rituale che mira a trasformare una situazione polemica in una situazione contrattuale, bisogna quindi porre due poteri contrari58, che potremo notare con P1 e P2. La modalità iniziale del potere (che si può notare con P), anteriore al raddoppio e attualizzante tutti i percorsi di privatizzazione, resta inscritta nel termine complesso dell’esagono: è lei che unisce i ruoli attanziali A1 e A2 nella difesa di tutti i luoghi privati riuniti. La negazione di ognuno di questi tre termini (P, P1, P2) definisce le altre estremità dell’esagono, e costruisce la struttura modale che sussume quelle dello spazio fisico e dello spazio sociale. Volere Dovere Potere Fare Soggetto

Topos

7.10.2.3. Si può immaginare lo sviluppo della modalità del volere sia in due voleri antagonisti sia in quattro posizioni (cfr. Greimas 1976b), come si può immaginare quello del dovere, così come le loro combinazione per due soggetti in co-presenza (cfr. Landowski 1981). Le situazioni risultanti saranno ancora più complesse. Malgrado l’interesse di un tale approccio che tenta di esaurire attraverso una combinazione teorica l’insieme dei casi possibili, riserviamo questa impresa a un altro studio. Optiamo in questa sede per il mantenimento dell’analisi in prossimità dei dati sperimentali di partenza, e ci accontenteremo di reperire le condizioni minime dei tentativi di privatizzazione e quelle del loro equilibrio contrattuale. Tenteremo una generalizzazione che sviluppi i risultati qui ottenuti, senza la combinatoria delle modalità virtualizzanti.

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7.10.2.4. Prima di passare al seguito, tre osservazioni. i) Dato che la struttura modale regge le due isotopie spaziale e umana, l’omologia da noi rilevata appare sotto nuova luce; la corrispondenza non si fa termine a termine ma tra due categorie strutturate: quella dell’estensione e quella della società. Dal punto di vista della privatizzazione, queste due categorie sono omologhe. Se ne utilizziamo una per esplorare l’altra, cosa che abbiamo fatto a un certo momento, si può dire che esse giocano, l’una per l’altra, il ruolo di espressione e contenuto59. In questo caso abbiamo a che fare con un sistema semi-simbolico di tipo particolare, che meriterebbe maggior attenzione a questo riguardo. La metafora secondo cui il territorio è un’iscrizione spaziale di una società sarà quindi dotata di un valore maggiore di quello che si ha tendenza ad accordarle. ii) Queste strutture esagonali (come i simplex di cui sono l’esito) non sono solo strutture tassonomiche: possono servire alla descrizione dei percorsi del soggetto nello spazio fisico, o alla descrizione dei luoghi fisici nello spazio sociale. Il lettore potrà facilmente verificare le virtù euristiche di un tale uso di strutture derivate. iii) L’esagono delle modalità può servire alla descrizione dei dispositivi modali caratteristici per ogni attore del processo di privatizzazione. Dato che la trasformazione della competenza di ognuno dei protagonisti è correlata alla trasformazione della competenza dell’altro, è possibile tracciare due percorsi correlati sullo stesso esagono. 7.10.3. La privatizzazione temporanea e la privatizzazione del tempo Ritorniamo nella cornice di La Tourette. Immaginiamo che qualcuno (A1) venga a sedersi sulla soglia di una cella, al suo esterno. L’attore (A2) che abita quest’ultima sarà in diritto di chiederne la ragione. L’altro potrebbe ribattere che il corridoio appartiene a tutti. Una tale risposta sarebbe poco convincente: la soglia non appartiene a tutti, almeno non più di quanto appartenga direttamente

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

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alla cella. È qui infatti che A1 va a bussare alla porta se desidera entrare, e se va via da qui significa che non è entrato. Ma il suo stazionamento prolungato non fa parte delle cose ammesse. In altri termini, l’accesso temporaneo è permesso, ma la congiunzione duratura rimane interdetta. Si tocca nuovamente (cfr. § 7.8.1.) la questione della temporaneità dell’uso. Consideriamo un altro esempio: nel refettorio vuoto le sedie e i tavoli non sono attribuiti a nessuno in particolare. Questa sospensione dell’attribuzione permanente ne permette il funzionamento quotidiano. A ogni pasto, la regola del primo arrivato decide dell’attribuzione temporanea: i posti sono occupati per la durata di un pasto. Abbiamo visto (§ 7.6.3.) che la reiterazione delle appropriazioni può però fondare delle abitudini senza rimettere in causa la sospensione di base. Nello stesso refettorio, la questione dell’attribuzione dei posti non si pone al di fuori dei momenti del pasto. Bisogna dunque distinguere due classi di momenti: quelli nel corso dei quali le regole sono applicabili, e quegli altri per i quali l’applicazione delle regole è sospesa. Si riconosce in questo una segmentazione del tempo che permette l’installarsi di una privatizzazione. Di conseguenza, la segmentazione dello spazio fisico e quella dello spazio sociale non sono le sole procedure di segmentazione messe in opera nei meccanismi di privatizzazione, e bisognerà affrontare quella del tempo. Fino a ora abbiamo esaminato un controllo che concerneva due tipi di grandezze: i soggetti-umani e gli oggettitopoi. Questo punto di vista è a-temporale. Ora, gli esempi che precedono mostrano che il controllo si esercita, o non si esercita, tenendo conto della segmentazione che opera sulle due componenti del tempo: la durata (delle giunzioni) e la struttura d’ordine (prima-dopo). Il tempo è ripartito in segmenti sovradeterminati dalla modalità del potere giuntivo (si possono distinguere i momenti del potere d’accesso e i momenti del non-potere), tra i quali è possibile riconoscere alcune relazioni logico-semiotiche.

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Si possono citare altri esempi senza troppe difficoltà, anche se l’idea di una “privatizzazione del tempo” è inabituale. Il tempo di lavoro è dovuto da un impiegato a un datore di lavoro, il quale ha un “accesso” a questa durata, mentre non ha alcun accesso al “tempo libero”. Questa situazione assomiglia a una “allocazione del tempo” della persona occupata, come per l’allocazione di un appartamento. Il tempo delle vacanze, come il tempo dei piaceri, sono interdetti al padrone “allocatario” del tempo di lavoro. Generalizzando, l’allocazione di ogni oggetto possiede caratteri temporali comparabili: i diritti d’accesso sono limitati nella durata, e il superamento dei limiti è sovente regolato da rituali che garantiscono la salvaguardia delle relazioni contrattuali. Ricapitolando, i funtori della padronanza dell’accesso ammettono tre diverse grandezze: la società, l’estensione e il tempo. In termini semiotici più classici, si tratta di attori, di spazio e di tempo, ovvero delle tre “componenti” della discorsività. Le manifestazioni della privatizzazione variano a seconda della componente; sono evidenti soprattutto per la caratterizzazione dello spazio, ma ammettono tutte la stessa struttura astratta descritta al paragrafo 7.10.2. Attori Volere

Dovere

Potere

Giunzione

Spazio Tempo

7.10.4. La privatizzazione come aspettualizzazione? I meccanismi semiotici della privatizzazione appaiono dunque, a conti fatti, come una struttura modale che concerne lo spazio, gli attori e il tempo. Più precisamente, essa afferisce alle giunzioni delle parti discrete di queste componenti. Come si riconduce ogni programma semio-narrativo a trasformazioni tra stati giuntivi implicanti tali parti, così la privatizzazione può modificarlo. In particolare, tutti gli oggetti in circolazione possono riferirsi a questa problema-

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tica, ivi compresi oggetti cognitivi e oggetti modali considerati all’interno di una applicazione metalinguistica della privatizzazione. I diritti della proprietà letteraria e artistica si inscrivono chiaramente in questa problematica. È possibile identificare allo stesso modo una privatizzazione secondo il volere60, secondo il dovere (la decenza) o secondo il sapere. Quest’ultima questione è interessante a più di un titolo: in architettura, le aperture autorizzano la visione, e le pareti piene l’impediscono, definendo un’accessibilità cognitiva del soggetto osservatore. Il privato visivo può così essere modulato con grande finezza, con situazioni simmetriche (il guardante può essere guardato) o dissimmetriche (il guardante resta invisibile) (vedi capitolo sesto). Il privato uditivo e olfattivo può anch’esso essere riconosciuto nel mondo quotidiano: le barriere sonore sono destinate a preservare l’intimità; gli odori della cucina o dei luoghi di comodità possono essere percepiti come aggressioni contro la privatizzazione. Tuttavia, il privato secondo il sapere non si riduce a questi casi relativamente semplici ai quali la logica del terzo escluso resta applicabile. L’accesso all’informazione apre la porta a un’altra categoria di problemi, poiché con questa questione entriamo nel dominio della logica del terzo non escluso: quando un soggetto dato entra in congiunzione con l’informazione, il soggetto che crede di esserne il legittimo proprietario non ne viene spossessato. Le strutture logico-semiotiche costruite sulle relazioni di contrarietà, contraddizione… presuppongono una logica del terzo escluso. Di qui l’apparizione di problematiche prevedibili nel trattamento di tali situazioni, come non manca di verificarsi nel caso della proprietà artistica e letteraria. L’esame delle pratiche giuridiche dovrà essere utile a questo riguardo, dato che esse possono chiarificare la trasmissione di grandezze modali tra i vari “diritti”, come i diritti d’uso, i diritti di proprietà, i diritti d’autore… Se c’è qualche interesse a generalizzare la questione della privatizzazione, al fine di apprezzarne il ruolo e l’impor-

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tanza, questo interesse è limitato, poiché una troppo grande estensione le farebbe perdere ogni specificità. Se tutte le giunzioni sono in grado di essere sovradeterminate in termini di privatizzazione, sembra che questo meccanismo si riconduca all’instaurazione di giunzioni privilegiate in relazione ad altre; su di un fondo di giunzioni “neutre” ed “equivalenti”, la privatizzazione stabilisce differenze e distinzioni. In questo modo certe congiunzioni sono prescritte, altre sono interdette, certe vengono dichiarate permanenti, altre sono fondate sull’iterazione… Questa differenziazione, questa introduzione del “rilievo” nella piattezza delle relazioni logiche identiche, si apparenta ai meccanismi di aspettualizzazione. Se quest’ultimo problema fosse trattato in modo più chiaro, si potrebbe rispondere forse già da oggi. Allo stato dell’arte, rimane una questione euristica da esplorare. 7.11. A mo’ di conclusione Partiti da esperi,enti concreti effettuati in quel luogo particolare che è il convento di La Tourette concepito da Le Corbusier, eccoci giunti alle questioni formali che interessano il semiologo più che l’architetto. Cammin facendo, abbiamo riconosciuto che i termini pubblico e privato non sono termini primitivi, che il loro contenuto è costruito e che risultano entrambi da una operazione complessa che noi proponiamo di chiamare privatizzazione, anche se essa produce il pubblico allo stesso tempo che il privato. Il nostro tentativo di ridurre l’opposizione al suo “nocciolo duro” ci ha condotti a riconoscerne il carattere relativo e traslativo: essa è applicabile a una miriade di oggetti. Un esempio, e non dei minori, è quello del corpo umano, doppiamente privatizzato allo sguardo altrui, sul piano pragmatico del toccare e sul piano cognitivo della visione. Lo sfruttamento dei dati storici potrebbe mostrare che il corpo della donna è stato più coperto di quello dell’uomo in un gran numero di culture, cosa che che conduce a con-

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cludere che il corpo della donna è stato uno spazio privatizzato di cui l’accesso visivo è stato controllato da un padrone maschile, senza parlare dell’accesso pragmatico. Indipendentemente da questo, i vestiti mostrano che il corpo è privatizzato rispetto ad attori non umani come il freddo, il vento o il calore, a cui vengono interdette certe parti e autorizzate altre. Se ce ne fosse ancora bisogno, questo esempio mostra attori-soggetti antropomorfi e attori non umani. La nostra inchiesta è partita dallo spazio per ragioni soggettive e oggettive al contempo. Da un punto di vista molto soggettivo, lo spazio ci interessa come tale. In corso di analisi, ci siamo impegnati a dimostrare che esso non si riduce al ruolo di circostante, ovvero a quello di condizione necessaria alla realizzazione dell’azione. Abbiamo stabilito che è manipolato come oggetto, allo stesso titolo di altri oggetti, e che permette di parlare di altra cosa che di se stesso. In particolare, è apparso, attraverso i rituali spaziali della visita, come il mezzo privilegiato del mutuo riconoscimento tra gli uomini. Si tratta dunque di un sistema semiotico a tutti gli effetti, anche se entra in sincretismo con altri mezzi espressivi. Ma in fin dei conti non esistono sistemi semiotici autonomi. Da un punto di vista più oggettivo, lo spazio ci è sembrato offrisse buone condizioni euristiche: i meccanismi della privatizzazione vi risultano più leggibili che sulla dimensione umana o temporale. In più, esso offre il vantaggio di permettere la sperimentazione parallelamente all’osservazione. Se abbiamo scelto lo scambio di visite come programma esploratore della privatizzazione, è perché ci è sembrato rivelatore. La presa in carico di un programma d’azione differente può produrre un’altra articolazione della categoria dell’estensione. Queste strutture, dipendendo dall’interazione studiata, sono difficilmente prevedibili prima dell’analisi. Tuttavia, il fatto che le strutture estrapolate corrispondano a rapporti di modalità, permette di elaborare l’ipotesi che possiedano un grado di generalità che oltrepassa il quadro ristretto dello scambio delle visite e che vada bene per altre interazioni contrattuali, incassanti intera-

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zioni polemiche, poiché tale è la caratteristica fondamentale delle interazioni esaminate. La modificazione di questo quadro interazionale di referenza è capace di produrre altre strutture. In particolare, se si rinuncia a ogni cornice a priori e se ci si propone di costruire deduttivamente, a partire dalle nostre acquisizioni attuali, la combinatoria modale delle giunzioni condizionali costitutive della privatizzazione in generale, bisognerà costruire, per tappe successive, un sistema esteso gerarchicamente organizzato. In primo luogo, la giunzione è essa stessa sviluppabile in una categoria a sei termini (congiunzione, non-congiunzione, disgiunzione, non-disgiunzione, la giunzione come termine complesso e un termine neutro non nominato in lingua francese). In secondo luogo, la modalità del potere è sviluppabile in sei termini, sia in composizione con la congiunzione sia in composizione con la disgiunzione, con il risultato di imporre la comparazione di queste due strutture sviluppate al fine di reperirne le conformità, le opposizioni… In terzo luogo, le modalità del volere e del dovere, sono sviluppabili direttamente sulle giunzioni61, così come sono sviluppabili sulla modalità del potere giuntivo… In più bisognerà raddoppiare il tutto, poiché, per la privatizzazione, è sempre questione di due soggetti. Con l’introduzione del tempo si moltiplicano le possibilità. Una tale impresa è enorme, se non proprio aberrante: si ritornerebbe a ricostituire la combinatoria delle strutture narrative nel loro insieme. Abbiamo rinunciato a questo tentativo, scegliendo di ancorare l’analisi nell’osservabile; come abbiamo optato per qualche restrizione, tra cui il già citato quadro contrattuale. Abbiamo anche privilegiato, nel corso della nostra esplorazione, l’approccio degli sviluppi sintattici, capaci di ricostituire la dinamica dei processi osservabili. L’articolazione delle strutture tassonomiche, introdotta alla fine del percorso, facilita la produzione di una visione sintetica stabile. È proprio tenendo conto di quest’ultimo vincolo che abbiamo ristretto lo sviluppo della categoria del potere a due termini (più il complesso), rinunciando allo sviluppo a

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quattro termini (o sei, se si contano il complesso e il neutro) che avrebbe introdotto troppe complicazioni. Abbiamo anche rinunciato all’esaustività dell’analisi degli esempi dati all’inizio. D’altro canto, una tale impresa avrebbe comportato soste che avrebbero impedito lo sviluppo delle comparazioni con cui siamo giunti alla generalizzazione dei risultati. Ne consegue che i materiali veicolati da questo lavoro possono apportare nuovi sviluppi analitici. Li condurremmo a termine in una cornice differente. Lo studio della privatizzazione dello spazio sbocca sulla privatizzazione tout court, ovvero sulla creazione di un legame privilegiato tra entità distinte, poiché si tratta di appartenere senza essere inglobato. Abbiamo ricondotto questo legame a funtori formali che lo sovradeterminano. Attraverso il gioco delle negazioni gerarchicamente distribuite, si possono situare in uno stesso quadro le relazioni sopravvalutate (quelle dell’appartenenza) e quelle sottovalutate (quelle della non appartenenza). Nella nostra analisi, abbiamo adottato il punto di vista della sopra-valutazione, esplorando le strutture del privato più che quelle del pubblico. Un lavoro equivalente va fatto per esplicitare il punto di vista simmetrico, quello delle articolazioni del pubblico. Una delle direzioni di ricerca che vorremmo sviluppare è l’avvicinamento tra le configurazioni topiche della privatizzazione e le configurazioni topiche di altri tipi di interazione, come l’insegnamento (spazio ex cathedra, spazio del seminario), le preghiere collettive (nelle chiese, nelle moschee, nei santuari shintoisti), i musei, le collezioni… Questo tipo di configurazioni, infatti, è ricco di insegnamenti e di potenzialità: permette di cogliere l’essenziale delle interazioni spaziali, e offre un punto di partenza per la comprensione dell’architettura, fondata sul senso delle interazioni tra gli uomini e lo spazio. Vorremo anche meglio esplorare la relazione tra i gruppi umani e lo spazio. Gli antropologi qualificano spesso le società dalle combinazioni del lignaggio parentale (matrilineare, patrilineare) con la localizzazione domiciliare (patri-

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locale, matrilocale). Le strutture elementari della parentela, che sono, dal punto di vista che abbiamo sviluppato fin qui, una forma dell’appartenenza privativa a una frazione della società, o una manifestazione della privatizzazione dell’entità sociale, sono state studiate e caratterizzate senza che comprendessimo meglio la relazione dell’uomo con il suo spazio. Questo resta un capitolo da fare. Appendice Lista dei ruoli attanziali riconosciuti: A0 A1 A2 A3 A4 A5 A6 A7 A8 A9 A10 A11 A12 A13 A14 A15 A16 A17 A18 A19 A20

1

l’estensione visitatore padrone dei luoghi (pdl) topos controllato da A2 estensione esterna ad A3 destinante virtualizzatore de facto destinante attualizzante destinante virtualizzatore de jure bordo del topos A3 topos controllato da A1 bordo del topos A9 estensione esterna ad A9 destinante/A10 riunione dei topoi privatizzati A3e A9 intersezione degli esterni A4e A11 riunione dei bordi A8e A10 riunione dei soggetti A1e A2, che controllano il topos A13 soggetto controllante A14: né A1 né A2 non A1 non A2 società del micro-universo considerato, includente A1e A2

Apparso in «Nouveaux Actes Sémiotiques», 4-5, 1989. Il termine luogo ci servirà per designare, per il momento, una porzione d’estensione distinta dal resto. Il luogo sarà quindi un’entità che appare al momento della segmentazione dell’estensione, operazione concomitante con 2

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la sua strutturazione, che ne fa uno spazio. Noi riserveremo il termine luogo alla descrizione figurativa, adottando un metalinguaggio appropriato al momento della descrizione sintattica. 3 Facciamo riferimento con questo termine all’uso originale ed esteso della sintassi a livello di contenuto, ciò che costituisce a nostro avviso la novità più radicale dell’approccio greimasiano. Abbiamo sviluppato questo punto di vista in Hammad 1985. 4 Abbiamo pubblicato una prima versione dei paragrafi 7.2.-7.5. di questa analisi con il titolo “Rituels sacrés, rituels profanes” negli atti del congresso, riunito dall’organizzatore A. Renier sotto il titolo Espace: construction et signification (1984). Il paragrafo 7.6. risulta dal rifacimento radicale dell’articolo intitolato “Modes de la privatisation” destinato a un secondo volume presso lo stesso editore, in attesa di apparizione. 5 Nel metalinguaggio che costruiamo per parlare delle manifestazioni del senso nello spazio, designamo come topos ogni porzione di spazio capace di giocare un ruolo sintattico (cfr. Hammad 1980a). In termini semiotici, il topos è dunque un attore. Le configurazioni topiche rinviano a configurazioni modali determinanti rapporti di competenza tra gli attanti antropomorfi presenti (cfr. Hammad 1979). 6 Legittimazione tramite la metacomunicazione? 7 Si tratta di un estraneo, come i complici, visto che provengono da un altro paese. 8 Per la distinzione Attante (= ruolo sintattico) vs. Attore (= istanza figurativa in grado di giocare quel ruolo attanziale), vedi Greimas, Courtés 1979, pp. 40-41, 43-44. 9 Plurale di topos. Vedi la nota 5. 10 In seguito a questi esperimenti, e nel quadro dei congressi che continuano a essere accolti dai religiosi di La Tourette, un certo numero di tavoli è riservato ai cavalieri portatori dell’iscrizione “comunità”, che designa un gruppo allargato comprendente i laici che risiedono più o meno a lungo nel convento e che svolgono un certo numero di compiti legati al suo buon funzionamento. 11 Abbiamo sviluppato a lungo le premesse di questa sintassi generale dell’enunciato e dell’enunciazione nel capitolo 10. Ne abbiamo sviluppato le conseguenze nel capitolo secondo. 12 Detto anche metacomunicazionale nella terminologia di Gregory Bateson. 13 Il dizionario prosegue questa “entrata” con altre definizioni che non apportano elementi pertinenti al nostro proposito. Lo si vede particolarmente bene con la definizione n. 2 che inizia come segue: “Individuale, particolare (opposto a collettivo, comune, pubblico)”. Se quest’uso è attestato nella lingua, non ci riguarda in questo contesto, in cui abbiamo stabilito la nostra riflessione a un livello sintattico dove gli attanti possono essere manifestati in modo collettivo. A ogni modo, un soggetto collettivo può definire la propria sfera privata, come lo fanno le persone morali (associazioni, società, organismi amministrativi) definiti dal legislatore. 14 Il cambiamento degli attori implicati in questi esempi non impedisce di conservare, per la designazione degli attanti, una notazione omogenea con quella dei paragrafi precedenti.

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15 Questo mette in gioco la modalità del sapere acquisita al momento di un programma anteriore a quello che ci interessa qui. 16 Poniamo, di qui in avanti, la distinzione tra un Destinante Mandante A5 che virtualizza il soggetto tramite le modalità del volere e/o del dovere, e d’altra parte il Destinante Attualizzatore A6 che attualizza il soggetto tramite le modalità del potere e/o del sapere. Una distinzione simile non era necessaria fino a questo stadio dell’analisi. Nei casi concreti, può accadere spesso che i due ruoli attanziali siano manifestati sincreticamente dallo stesso attore, ma non è necessariamente il caso per ogni circostanza. 17 Un esempio particolarmente complesso ed espressivo è dato nella nostra analisi dell’architettura costruita in Giappone per la cerimonia del tè, dove noi esplicitiamo il modo in cui i perimetri sono usati ritualmente. Cfr. capitolo secondo. 18 Si tratta del valore semantico delle modalità, le quali giocano un ruolo sintattico. Ricordiamo che, per l’analisi strutturale del contenuto, i valori sintattici sono una classe particolare dei valori semantici, la distinzione principale essendo che i valori sintattici reggono i valori semantici. 19 Citiamo l’esempio degli uffici amministrativi, dove i superiori entrano sempre facilmente nei locali dei loro subordinati, mentre l’inverso esige talvolta tesori di ingegnosità. 20 Equivale a una trasmissione di un poter-fare. 21 Equivale a una trasmissione di un voler-fare. 22 Per facilitare il servizio, c’è solamente una sedia sul lato che è dalla parte del corridoio centrale del refettorio. 23 Nel senso grammaticale del termine, essendo l’aspetto una categoria che sussume le dimensioni del tempo e dello spazio, sovradeterminando i processi e le entità implicate. Citeremo, a titolo d’esempio, gli aspetti seguenti: iterativo, durativo, incoativo, terminativo… 24 Ridurre questi fatti ad abitudini insignificanti comporta sbarazzarli del loro carico semantico. Quest’ultimo riappare comunque in forza dal momento in cui si perturba la regolarità delle cose. 25 Sono bastati tre pasti per reperire la regolarità del fenomeno. La brevità delle durate implicate esplica forse la facilità relativa con cui queste manipolazioni hanno potuto essere condotte senza provocare un conflitto più ampio. È possibile che una occupazione preventiva più lunga avrebbe reso i “diritti” usciti dall’interazione più intangibili. 26 I quali rischieranno di consumare la maggior parte del tempo e dell’energia disponibili. 27 Tra due luoghi attribuiti a due ruoli attanziali. 28 Si tratta quindi di una competenza secondo il sapere. 29 La distruzione dei muri equivale a una negazione totale del loro ruolo comunicazionale. Questa negazione presuppone un programma particolare che non svilupperemo in questo contesto. 30 Un uccello vi passa facilmente: ogni barriera è selettiva. 31 Le fortificazioni militari, e in particolare i rifugi anti-atomici e altri bunker, sono concepiti e costruiti per resistere ad aggressioni determinate. Costituiscono casi limite messi a punto per situazioni polemiche. Non ci riguardano direttamente, anche se la loro analisi può essere fatta con i concetti messi qui in opera.

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32 Françoise Bastide ha già introdotto un’idea molto vicina a proposito della relazione fiduciaria tra l’uomo di scienza e la natura (Bastide 1981, p. 136). 33 Prevista in origine con un pannello di vetro nella parte superiore. Alcune tra le porte attuali sono piene e non lasciano passare la luce. 34 La storia delle scienze mostra una doppia difficoltà provata dai primi fisici: concepire lo spazio indipendentemente dalla materia che lo riempie, concepire l’aria come materia che riempie lo spazio dello spostamento. 35 Ciò che la semiotica nota abitualmente come poter-fare. 36 In termini semiotici, la proprietà dei luoghi è un’espressione figurativa della competenza applicata allo spazio. 37 Ne abbiamo visto alcune applicazioni modali nei paragrafi 7.6. e 7.7. 38 Assimilabile a una varietà del “contratto sociale” di Rousseau. 39 Ricerche al Kansai su invito del governo giapponese, pubblicate presso i tipi di Kenchiku Kensetsu Kenkyu (Building Research Institute), Tokyo, 1977. Elementi di analisi sono pubblicati in Hammad (1980a; ivi, capitolo secondo). 40 Cfr. capp. 1 e 2. 41 Da quel momento, l’attore che gioca il ruolo attanziale A2 manifesta il suo statuto sincretico, poiché gioca anche il ruolo attanziale del destinante secondo il potere o A6. Così facendo, l’attore sincretico manifesta la qualità essenziale del padrone di casa: quella di possedere dei poteri trasmissibili per delega. 42 Il corridoio domestico è un’invenzione che data alla fine del XVIII secolo in Francia. 43 Il riconoscimento dallo schiavo non è un riconoscimento verosimile. Solo quello dei pari grado è valido. Le cerimonie del sacro nel Medioevo lo dimostrano in abbondanza. 44 Per evitare ogni confusione, noteremo topos, con una t minuscola, le porzioni determinate in seno a un Topos globale notato con una T maiuscola. 45 A titolo d’esempio, si può riscrivere t(A2)∈T[A2] con la forma t(nonA1)ŒT[A2] tenendo conto della complementarità dei due topoi in seno al Topos globale A3, relazione espressa dalle notazioni: A3,1 = A3,2 ≅ A3 o { t(A1)∈T[A2]} = {t(A2)∈T[A2]}X ≅ T[A2] o { t(A1)∈T[A2]} = {t(nonA1)∈T[A2]} ≅ T[A2] Questo tipo di calcolo non è immediatamente comprensibile a tutti i lettori. Lo utilizzeremo, nel prosieguo, solo per stabilire formalmente alcuni risultati che trascriveremo anche in un linguaggio più ordinario. 46 Cfr. Blanché (1966, pp. 22 sgg.) in cui contraddizione ≅ complementarietà: un punto dell’estensione non può appartenere ai due topoi A3 e A4 simultaneamente; non può nemmeno non appartenere a nessuno dei due. Appartenere vale per vero; non appartenere vale per falso. 47 Se si considerano i luoghi come dei volumi a tre dimensioni, i confini sono superfici a due dimensioni. 48 Un punto dell’estensione non può appartenere ai due topoi A3 e A9 simultaneamente, e può non appartenere simultaneamente a nessuno dei due. Appartenere vale per vero; non appartenere vale per falso (cfr. Blanché 1966, pp. 22 sgg.). 49 Un punto dell’estensione può appartenere ai due topoi A4 e A11 simultaneamente, e non può non appartenervi simultaneamente (appartiene necessaria-

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mente sia all’uno, sia all’altro, sia a entrambi: A4 e A11 riempiono l’estensione e si ricoprono mutualmente). 50 Tutti gli esempi trattati in questa sede riguardano la circolazione degli uomini nei luoghi. Non affronteremo tali casi teoricamente possibili, effettivamente osservati e analizzati dalle nostre preoccupazioni, dove un topos attraversa un gruppo sociale. La presa in considerazione di tali casi permette di verificare su dati concreti la simmetria formale tra il soggetto umano e l’oggetto spaziale. 51 Il piano è la cornice spaziale della nostra riflessione sulla territorialità. I nostri risultati sono generalizzabili a ogni superficie connessa in modo semplice e che soddisfa la stessa equazione di Eulero per il piano. La generalizzazione a superfici topologicamente più complesse esigerà la modifica delle conseguenze che trarremmo da questo paragrafo. 52 Si tratta di negare la contiguità simultanea e completa, ed è sufficiente che non ci sia contiguità lungo una parte del confine di ciascuna delle regioni. Questo lascia un gran numero di possibilità. 53 L’analisi della pianta di La Grande Borne, operazione di 1700 appartamenti disegnati da Émile Aillaud, ha fornito un risultato identico a partire da criteri puramente formali (cfr. Groupe 107 1973). La condizione dei risultati ottenuti con mezzi indipendenti rinforza la loro validità scientifica. 54 Destinante trascendente, nel senso semiotico del termine: l’universo trascendente è riconosciuto come fonte dei valori iscritti nell’universo immanente dove sono reperibili i protagonisti in interazione (cfr. Greimas, Courtés 1979, pp. 101, 355). 55 Nel senso formale di corrispondenza termine a termine e relazione a relazione. In questo modo, almeno, viene utilizzato da Claude Lévi-Strauss (1962b). 56 Pdl = padrone dei luoghi. 57 Notiamo di passaggio che questi sincretismi corrispondono ai termini opposizionali differentemente ponderati riconosciuti da Brøndal. 58 Al contempo non contraddittori. 59 Siamo ben lontani dall’ipotesi secondo cui lo spazio non è che un circostante… 60 Si tratta del dominio trattato da Landowski in Giochi ottici (1981): esamina la comunicazione visiva sotto l’angolo del voler-vedere, voler esser visto, voler non esser visto… 61 Si tratta di una buona parte del lavoro di Landowski (1989).

Parte terza Dappertutto

Capitolo ottavo L’enunciazione, processo e sistema1

8.1. Programma Questo capitolo propone due ipotesi e un presupposto che ci sembra ricco di promesse. Cominceremo con il porle prima di trarne le conseguenze. Abbiamo testato queste ipotesi e abbiamo potuto verificare che sono applicabili a discorsi manifestati in espressioni che si rifanno sia alla lingua naturale sia all’immagine e sia, infine, alla televisione. Benché queste applicazioni locali non possano rimpiazzare una dimostrazione in buona e dovuta forma, vengono a confortare la nostra proposta. Precisiamo che è nostra intenzione non restringerci al caso delle lingue naturali e di considerare l’enunciazione nel quadro di una semiotica generale, dove la coppia enunciato/enunciazione può essere posta a partire da criteri di contenuto. Le marche dell’enunciazione sul piano dell’espressione possono essere precisate caso per caso, dato che questo lavoro è stato effettuato a partire dal riconoscimento del soggetto dell’enunciazione nelle categorie io-qui-ora o più generalmente in quelle di attorializzazione-spazializzazione-temporalizzazione, che riguardano del contenuto. 8.2. Cornice preliminare Così intesa in un senso generale, la nozione di enunciazione dovrà essere specificata a partire da un altro punto di

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vista: questo termine designa attualmente almeno tre fenomeni, i quali, per quanto strettamente connessi, possono essere distinti. i) In primo luogo, si chiamano istanze dell’enunciazione il soggetto enunciatore (definito dall’articolazione dell’ioqui-ora di cui sopra) e il soggetto enunciatario (posto da quest’ultimo o presupposto dall’operazione di interpretazione del testo). Non abbiamo intenzione di trattare direttamente il caso di queste istanze, benché la nostra ipotesi ne coinvolgerà la definizione in un certo modo (cfr. § 8.5.). Ne riparleremo in questa misura solamente. ii) In secondo luogo, è possibile parlare dell’operazione d’enunciazione, la quale assicura la conversione della lingua in discorso secondo Benveniste. La descrizione, seguendo il percorso generativo della messa in azione di categorie discorsive, ha qualche possibilità di descrivere questa operazione. Una conoscenza migliore dei percorsi di testualizzazione, poco esplorati finora, assicurerebbe un aiuto apprezzabile a questa procedura. Vedremo come la nostra ipotesi non chiarifica completamente questa operazione. Tuttavia, essa definisce le premesse di un nuovo approccio che pone diversamente il problema, permettendo forse di apportarvi una risposta soddisfacente. iii) In terzo luogo, si parla di enunciazione enunciata, o, in altri termini, di marche dell’enunciazione nell’enunciato. È precisamente ciò che ci serve da punto di partenza e da luogo di applicazione delle nostre ipotesi. A ogni modo, se le nostre proposte sono giudicate inadeguate per l’insieme dei fenomeni raggruppati sotto il vocabolo enunciazione, resteranno valide per quel sotto-dominio particolare costituito dall’enunciazione enunciata. Riassumendo il punto di cui sopra, diremo che l’enunciazione enunciata ci serve da punto di partenza per abbordare l’insieme dei fenomeni riuniti sotto il vocabolo enunciazione, dopo i tentativi fatti a partire dalle istanze enunciatrice ed enunciatario, o a partire dalla concezione di Benveniste dell’enunciazione come operazione di passaggio tra la lingua e il discorso.

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Essendo una concezione difficile da tradurre in termini operazionali, noi ci proporremo di affrontare la questione a partire da una breccia differente: quella dell’enunciazione enunciata. Armati degli strumenti di analisi dell’enunciato, ci sembra che la nostra impresa abbia qualche possibilità di arrivare a delineare una struttura immanente dell’enunciazione per come è iscritta nell’enunciato. Il lettore giudicherà se questa strategia porta a degli utili. 8.3. Ipotesi In diversi luoghi, Benveniste lascia intendere che in seno alle frasi gli elementi portatori dell’enunciazione hanno uno statuto logico differente da quello degli elementi dell’enunciato2. Altrove (Benveniste 1966, pp. 142-156; 1974, pp. 59-82, 245-272), definisce un livello “semantico” (che studia le frasi costitutive del discorso) opponibile a un livello “semiotico” (che si occupa dei segni). Nonostante la nostra accezione del termine “semiotico” sia quella di Hjelmslev, che darebbe altri nomi ai concetti ora evocati, potremmo comunque riconoscere il buon fondamento dell’opposizione proposta da Benveniste. Ci accontenteremo di utilizzare questi due gruppi di analisi per riconoscere la possibilità di esaminare l’insieme degli elementi dell’enunciazione come una totalità, che possiederà uno statuto logico differente da quello del resto dell’enunciato. Ora, Benveniste non intraprende la strutturazione globale delle sopraddette totalità: la sua analisi rimane frastica. Questo compito è stato assunto da altre teorie semiotiche, quella di Greimas in particolare: un testo, preso nel suo insieme, è strutturato al di là della concatenazione delle sue frasi costituenti. Sembra infatti organizzato su differenti livelli sistemati a seconda del loro grado di astrazione e designati da termini che li ordinano lungo un percorso generativo (cfr. Greimas, Courtés 1979). In maniera più precisa, ciò che è così organizzato è il testo enunciato: il quadrato semiotico che sussume la totalità

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del discorso analizzato, allo stesso modo che il programma narrativo di base, si riferiscono a un testo sbarazzatosi delle proprie marche d’enunciazione3. Su questo scheletro organizzatore della descrizione vengono a innestarsi analisi locali dell’enunciazione. Nessuna presa in conto globale (globalità definita nell’universo di discorso analizzato) di questa enunciazione è stata finora tentata. Bisogna osservare allora che: i) quest’analisi discorsiva dell’enunciazione è regolarmente riferita a un modello attanziale soggiacente che serve ad articolarla localmente: il passaggio enunciazionale è trattato come un enunciato breve soggetto a una descrizione di superficie; ii) la presa in carico globale, di cui abbiamo constatato l’assenza4, comincerà da una riunione dei diversi passaggi enunciazionali sottoposti all’analisi, per trarne – se possibile – una struttura immanente globale degli elementi enunciazionali e delle operazioni enunciazionali disperse lungo tutto il testo. La procedura semiotica attuale, si riconduce a un approccio che rimpiazza il testo manifestato con: i) un discorso enunciato sottomesso ad analisi secondo il percorso generativo, che rivela il carattere strutturato e sistemico di questo enunciato; ii) una moltitudine di enunciati che sono altrettante marche d’enunciazione, interrogate per rivelare la relazione tra l’enunciato e le istanze enunciatrici (enunciatore ed enunciatario). Proponiamo di sostituirle con un’altra procedura che riarticoli gli stessi elementi nel modo seguente: i’) un discorso enunciato isolato nel testo oggetto come sopra, sottoposto alla stessa analisi descrittiva che, in termini hjelmsleviani, lo pone come un processo rilevante del sistema; ii’) un insieme enunciazionale che riunisca l’insieme delle marche d’enunciazione presenti nel testo oggetto. Considerato come una totalità strutturabile, questo processo enunciazionale può essere posto come un micro-univer-

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so semantico completo dotato di senso e capace da quel momento di essere sottoposto all’analisi semiotica in tutta la sua generalità, ovvero quest’ultima potrà svilupparsi sui tre livelli del percorso generativo (cfr. Greimas, Courtés 1979): la profondità (dove si situano i valori organizzati da relazioni e operazioni logico-matematiche), la superficie (dove si situano le istanze attanziali e le loro modalità costitutive), il discorsivo (dove si situano l’attorializzazione, la temporalizzazione, la spazializzazione, la tematizzazione e la figurativizzazione). Quella formulata finora è la nostra prima ipotesi. Se tiriamo le conseguenze dell’analisi di Benveniste, ammettendo che gli elementi dell’enunciazione enunciata siano metalinguistici in relazione agli enunciati co-presenti nelle frasi considerate, possiamo porre l’ipotesi che il processo dell’enunciazione enunciata, per come l’abbiamo definito in precedenza, è metalinguistico in relazione al processo dell’enunciato enunciato5. Conviene precisare che questa relazione gerarchica tra due processi (o due testi riguardanti i due sistemi) determina l’enunciazione enunciata come un metalinguaggio operatore, che opera sull’enunciato enunciato. Questo metalinguaggio può, in circostanze particolari, ridursi a un metalinguaggio descrittivo che dà conto dell’enunciato enunciato. Questa è la nostra seconda ipotesi. La relazione gerarchica tra le due totalità che poniamo in questo contesto resta da dimostrare. Siamo persuasi che sia possibile farlo, e ci proponiamo di mettere a punto una dimostrazione soddisfacente in futuro. A ogni modo, se questa relazione gerarchica resta da dimostrare, l’ipotesi che l’ha preceduta non ne viene sfiorata; c’è spazio per riconoscere due totalità strutturabili opponibili: quella dell’enunciazione enunciata e quella dell’enunciato enunciato. Una volta separate, queste due totalità possono essere descritte secondo tutte le tappe del percorso generativo. Così facendo, sarà possibile porre la questione dei rapporti relativi dei diversi livelli di questi sistemi per meglio discernere i rapporti tra l’enunciazione e l’enunciato, come

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le strategie sviluppate dall’una per ottenere un effetto di senso nell’altra. 8.4. Campi coinvolti da queste ipotesi Il riconoscimento di questa relazione metalinguistica tra i due sistemi permette di avvicinare il sistema dell’enunciazione enunciata a quello che Bateson ha denominato la metacomunicazione6: si tratta di quella parte della comunicazione metalinguistica posta in relazione ai messaggi informativi che serve a definire e a trasformare le relazioni tra i partner dell’atto di comunicazione. È facile vedere che l’enunciazione enunciata marca le relazione tra le istanze Enunciatore ed Enunciatario. L’analisi che fa Benveniste dei pronomi e delle forme verbali è eloquente a questo proposito. Un simile riavvicinamento permette di operare omologazioni tra l’analisi semiotica e i lavori di Bateson e della scuola di Palo Alto relativi alla metacomunicazione, con le loro applicazioni nei campi dell’antropologia e della psicoterapia. Tali aperture risultano straordinariamente interessanti e vanno nello stesso senso delle recenti ricerche semiotiche che esplorano i domini della sociosemiotica e della psicosemiotica. Questa stessa ipotesi di due sistemi gerarchicamente ordinati ci permette di riesaminare le acquisizioni della filosofia analitica nello studio degli atti di linguaggio e di generalizzare le loro analisi nel caso degli atti sviluppati nel quadro di discorsi dalle dimensioni importanti, che oltrepassino il livello frastico cui queste ricerche si limitano. Fabbri e Sbisà (1980) hanno già fatto precise e concrete proposte per utilizzare il modello attanziale nell’analisi degli atti di linguaggio. Le loro proposte, molto interessanti, andrebbero generalizzate nel modo che qui proponiamo: estendere l’analisi degli atti di linguaggio a corpora discorsivi, aggiungere alla descrizione attanziale una descrizione in profondità e la dimensione

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del percorso generativo per descrivere ciò che, in fin dei conti, concerne l’enunciazione. L’articolazione dei due sistemi dell’enunciazione enunciata e dell’enunciato enunciato permette di rimettere in prospettiva la comunicazione umana in generale: da un punto di vista indipendente dai diversi mezzi di espressione, la comunicazione sembra giocare almeno tre ruoli: i) trasmissione di un messaggio oggettivato (si tratta dell’enunciato enunciato). Questa operazione è stata a lungo privilegiata negli approcci teorici della comunicazione. La presa in conto di un sistema dell’enunciazione fa apparire altre dimensioni che non è più possibile trascurare: la loro dimenticanza ritorna a falsare l’analisi; ii) reperimento immanente dell’enunciato enunciato in relazione all’istanza enunciatrice e in relazione all’istanza enunciataria (cfr. § 8.5.); iii) definizione dei rapporti giuridici7 tra queste istanze, enunciatrice ed enunciataria. In particolare, sarà possibile descrivere le strategie di negoziazione di questi rapporti, così come lo stabilirsi di un contratto fiduciario (cfr. § 8.5. e nota 4). 8.5. Conseguenze derivanti da queste ipotesi L’adozione delle due ipotesi poste al paragrafo 8.3. offrirà un fondamento teorico alle descrizioni attanziali dell’enunciazione discorsiva, le quali mettono in opera una procedura che non hanno cercato di giustificare: gli elementi dell’enunciazione, riconosciuti fino ad allora come propri al livello discorsivo, vengono analizzati in termini attanziali. Ora, perché l’analisi non è condotta sul solo piano discorsivo, visto che si tratta di oggetti discorsivi? Perché introdurre i concetti e le operazioni del livello di superficie? E soprattutto, in modo localizzato e frazionato? Tutte queste anomalie scompaiono dal momento in cui all’insieme delle marche dell’enunciazione enunciata viene attribuito uno statuto di totalità strutturabile. Inoltre que-

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sto è un invito a continuare l’analisi sui differenti strati: completare il livello di superficie con il riconoscimento dei programmi narrativi dell’enunciazione, analizzare il corrispondente livello profondo, e anche ritornare sullo stesso livello discorsivo8. Insomma, si tratta di una semplice operazione di riequilibrio: sottoporre l’enunciazione enunciata alle stesse procedure dell’enunciato enunciato. Partendo dalla stessa manifestazione, effettuando un taglio, operiamo allo stesso modo sulle due parti fuoriuscite da questa separazione. Così facendo, normalizzeremo la nostra procedura e assumeremo il carattere cumulativo del percorso generativo, il quale pone che le strutture fondamentali (livello profondo) si ritrovano nelle strutture di superficie, le quali, a loro volta, si ritrovano nelle strutture discorsive. Secondo questo schema, ogni elemento discorsivo dovrà essere sussunto da un elemento di superficie, che deve essere sussunto da un elemento delle strutture profonde. Ora, allo stato attuale dell’analisi, gli elementi dell’enunciazione sfuggono a questa catena logica (che si fonda sulla relazione di presupposizione) e non c’è mezzo per ricondurli alle strutture profonde dell’enunciato. La nostra ipotesi permette di restaurare il legame presupposizionale necessario del percorso generativo. Ma c’è di più: la nostra ipotesi rende possibile l’analisi discorsiva dell’enunciazione, nel senso in cui l’enunciazione forma discorso e sistema, non limitandosi più a operazioni disperse e non legate fra loro. In questo modo, è anche possibile andare al di là dell’analisi frastica dell’enunciazione. Tutto ciò ci permette un salto qualitativo comparabile – mantenute le dovute proporzioni – a quello operato dall’analisi semiotica quando ha riconosciuto l’importanza delle strutture globali su scala di racconto e discorso, strutture irriducibili a quelle delle frasi che si susseguono nel corso del testo. Il riconoscimento dei programmi narrativi dell’enunciazione permette di definire strategie enunciazionali e autorizza il riconoscimento correlativo di performanze enunciazionali trasformatrici dei rapporti giuridici tra l’enunciato-

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re e l’enunciatario. Viene così articolata una descrizione immanente, in termini semio-narrativi, delle istanze dell’enunciazione menzionate in “primo luogo” nel paragrafo 8.2. A posteriori si giustifica il nostro approccio euristico esplicitato in questo stesso paragrafo: l’enunciazione enunciata ci serve da punto di partenza per abbordare l’insieme dei tre problemi riuniti sotto il termine enunciazione. Non è tutto: posto tra l’enunciatore e l’enunciatario, l’enunciato enunciato si definisce come un oggetto di valore in circolazione. Allora, i programmi narrativi di cui è portatore, si trovano sovradeterminati e ridefiniti in quanto programmi d’uso inseriti nel programma di base dell’enunciazione. Una simile lettura è interessante soprattutto per l’analisi dei messaggio di propaganda. Al di là dei messaggi persuasivi e/o manipolatori, questa messa in prospettiva fonda una teoria della comunicazione costruita a partire dall’analisi semiotica del discorso, definente una struttura immanente della comunicazione e in grado di porre le basi di una sua analisi strutturale. L’analisi parallela (stesse procedure analitiche) e gerarchizzata (relazione meta- tra l’enunciazione enunciata e l’enunciato enunciato, come la sovradeterminazione dei programmi del secondo attraverso il programma della prima) di questi due insiemi, fornisce una procedura descrittiva omogenea, prendendo in carica la totalità degli elementi dell’enunciato messo in circolazione dall’atto di comunicazione. Essa fonda lo statuto di “simulacro” degli eventi di un livello in relazione a un altro, quello che abbiamo chiamato “l’effetto specchio” del discorso (cfr. Hammad 1980b, 1981). Si conosce l’importanza accordata ai concetti di rappresentazione e di comunicazione nell’elaborazione delle teorie linguistiche. Le ritroviamo qui combinate in un modo piuttosto inusuale: ciò che è rappresentato nel discorso, non è più il mondo nella sua definizione come universo di oggetti messi in relazione, ma è la struttura dinamica dei soggetti in comunicazione che sovradeterminano il rapporto agli oggetti e le relazioni tra gli oggetti.

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Questo risultato viene raggiunto facendo economia del referente, rimpiazzando la problematica della referenza con l’articolazione di due sistemi semiotici. In effetti, la nozione di enunciatore è spesso considerata come una referenza esterna che permette di ancorare il discorso nel “reale”: il discorso enunciato è debraiato a partire da quest’istanza trascendentale, descritta in termini sociologici, politici… Questa problematica trascendente non è conforme all’approccio immanente caratteristico della semiotica, e la nostra proposta permette di riarticolare la descrizione in modo soddisfacente. Essa fa anche di più: le istanze dell’enunciatore e dell’enunciatario, che servono attualmente da punti di riferimento che permettono di ancorare il discorso enunciato, sono così rimpiazzati, nella nostra proposta, da un sistema di enunciazione che serve come riferimento. Passiamo quindi da una situazione in cui il sistema enunciato è reperito in funzione di uno o due punti conosciuti (enunciatore e/o enunciatario) a una situazione in cui il sistema enunciato è reperito in funzione di un sistema dell’enunciazione. In altri termini, una relazione tra due sistemi rimpiazza una relazione tra un sistema e uno o due punti. Il sistema reperente (enunciazione enunciata), analizzato secondo i differenti livelli del percorso generativo, permette di situare il sistema reperito (enunciato enunciato) in relazione a un insieme di elementi più complesso (e più completo) della coppia enunciatore-enunciatario. In effetti, lo sviluppo del programma narrativo dell’enunciazione permette di mettere in evidenza ruoli del soggetto dell’enunciazione dotato di valori descrittivi e modali da un destinante dell’enunciazione per realizzare un programma d’enunciazione che possa opporlo a un anti-soggetto dell’enunciazione, o condurlo ad acquisire, trasferire, trasformare, un oggetto-valore dell’enunciazione… Questo abbozzo non è esaustivo e le prospettive così aperte sono tanto più ricche quanto più terremo conto degli elementi del livello profondo e discorsivo. Queste osservazioni fanno passare la problematica /reperente/ vs. /reperito/ dal livello discorsivo a quello superficiale. Ci sembra utile aggiungere che:

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i) questa problematica del reperimento fonda i concetti di embrayage e di debrayage del livello discorsivo; ii) questa problematica può anche essere ritrovata a un livello profondo, articolando gli investimenti semantici del livello fondamentale dell’enunciazione con gli investimenti omologhi dell’enunciato enunciato. A nostra conoscenza, nessuna analisi semiotica ha messo in evidenza chiaramente questo punto. Tuttavia, è possibile trovarne degli elementi impliciti nel Maupassant di Greimas (1976c, pp. 224239), quando si tratta di caratterizzare Maupassant come scrittore; iii) la problematica /reperente/ vs. /reperito/ oltrepassa largamente la questione studiata qui del rapporto tra l’enunciazione enunciata e l’enunciato enunciato. Essa fonda la definizione delle relazioni e delle operazioni del livello logico-matematico9. Da un altro lato, l’opposizione /enunciazione enunciata/ vs. /enunciato enunciato/ può essere messa in parallelo con l’opposizione /stabilimento e convalida del contratto/ vs. /performanza/. Il criterio che fonda questa comparazione è da una parte il carattere giuridico (definizione, negoziazione e trasformazione dei rapporti tra gli attanti messi in relazione) del termine posto a sinistra: questo rimane vero per l’enunciazione enunciata come per le sequenze contrattuali dell’enunciato enunciato. D’altra parte, ognuno dei termini giuridici di queste due opposizioni sovradetermina ciò che accade nel termine posto alla sua destra. Questa omologazione, fondata su caratteri interni al termine di sinistra e sulla relazione che lega i termini di sinistra a quelli di destra, permette da quel momento di leggere l’enunciato enunciato come una performanza, andando a modificare il suo statuto di semplice oggetto di valore circolante tra l’enunciatore e l’enunciatario. Questa prospettiva è molto importante per una teoria della comunicazione, e c’è posto per consacrarle uno sviluppo speciale. Ci accontenteremo qui di esaminarne le conseguenze nello studio dell’operazione di enunciazione (o messa in discorso): se l’enunciazione enunciata gioca, di fronte all’e-

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nunciato enunciato, il ruolo che giocano le sequenze contrattuali in relazione alla performanza, questo significa che l’enunciazione enunciata partecipa alla messa in scena dell’enunciato enunciato che si svilupperà in modo dipendente dal modo in cui è stabilito il contratto enunciazionale e in cui è reso valido. Da quel momento, diventa possibile interpretare il percorso generativo dell’enunciazione enunciata come partecipante alla messa in discorso dell’enunciato enunciato. Questo non è soltanto possibile ma anche necessario poiché lo si deduce come conseguenza logica da quanto precede. Tuttavia, non sappiamo ancora se questa condizione necessaria è in se stessa sufficiente per rendere conto completamente della messa in discorso. Analisi concrete potranno apportare una convalida parziale che dovrà essere completata da una dimostrazione teorica. Se questo problema riceve una soluzione che rimane sottoposta alla valutazione e alla convalida del lettore, e se questa soluzione è da accreditare al nostro approccio euristico che prende come punto di partenza l’enunciazione enunciata, vediamo apparire un altro problema: quello della messa in discorso dell’enunciato enunciato. Ci sembra utile richiamare il teorema di Gödel: per risolvere un problema posto dall’enunciato enunciato, abbiamo elaborato una totalità di rango gerarchico superiore che è la nostra enunciazione enunciata. L’applicazione di procedure conosciute a queste totalità di rango superiore ci permette di determinare la soluzione del problema di rango inferiore. In modo concomitante, il sistema di rango superiore pone dei problemi che, dice Gödel, possono essere determinati soltanto nel quadro di un sistema ancora superiore… In questa catena senza fine, ci resta una possibilità, che è una congettura formulata da Hjelmslev quando afferma che i livelli metalinguistici superiori “non darebbero altri risultati rispetto a quelli già ottenuti nella semiologia di primo grado, o prima di essa” (1943, p. 134). Insomma, potremmo arrestare l’analisi semiotica “nello spirito del principio di semplicità” (ib.). Non ci è possibile separare al momento

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attuale le conseguenze del teorema di Gödel e quelle della congettura di Hjelmslev. Nel caso in cui una semiotica del mondo naturale può accompagnare la semiotica del discorso studiata, possiamo mettere in relazione le due totalità estratte (enunciazione enunciata e enunciato enunciato) con la semiotica del mondo naturale considerata per esaminare i legami e le relazioni che si stabiliscono tra questi diversi componenti semiotici. Così, nell’analisi di una comunicazione sincretica (con numerose sostanze dell’espressione), abbiamo estratto un ruolo enunciazionale giocato dalle configurazioni topiche (cfr. Hammad 1982) organizzatrici dello spazio dell’incontro, ruolo enunciazionale che si definisce in relazione agli enunciati gestuali e verbali che hanno luogo durante la stessa sequenza analizzata. Questo non significa che non ci siano elementi enunciativi gestuali e verbali: ce ne sono eccome, e l’enunciazione enunciata si sviluppa in modo simmetrico con l’aiuto di queste differenti espressioni. Tuttavia, il ruolo giocato dalle configurazioni topiche sembra determinante nella definizione dei rapporti contrattuali o polemici degli attanti coinvolti nell’interazione, sovradeterminando i loro ulteriori scambi. Da un punto di vista formale, l’intervento di una semiotica del mondo naturale è da mettere nel dossier della gerarchia dei sistemi evocata in precedenza; cosa che ci permetta di dire che, in questo caso, stiamo trattando con tre livelli gerarchici. L’ultimo esempio evocato ci riconduce alla questione della teoria della comunicazione di cui abbiamo parlato: la comunicazione sembra peter essere sottoposta a una descrizione semiotica che riconosca la dipendenza di differenti semiotiche gerarchicamente connesse. Questa prospettiva può anche servire da quadro per il riesame degli atti di linguaggio e permette di estrarre, in Austin, una preoccupazione non confessata, centrata sulla comunicazione generalizzata: in effetti, le condizioni di felicità degli atti di linguaggio sono da interpretare come una presa in conto di una semiotica del mondo naturale che inquadra e sovrade-

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termina la semiotica degli scambi verbali. Con la componente informativa degli atti di linguaggio, la loro componente giuridica che ne fa atti illocutori o perlocutori, così come con la componente delle condizioni di felicità, ritroviamo le gerarchia dei tre livelli che stiamo esaminando. 8.6. Valutazione delle ipotesi e delle loro conseguenze In relazione alla pratica attuale dell’analisi semiotica, le nostre proposte sono al contempo nuove e prevedibili. Quanto alle conseguenze che possiamo trarne, è facile vedere che un certo numero tra loro è già stato messo in opera, anche se in modo disperso. Il Maupassant di Greimas e il Dizionario di Greimas e Courtés forniscono i principali esempi a questo proposito. Tutto sommato, bisogna riconoscere che le nostre proposte non fanno che sistematizzare un insieme disseminato di pratiche, dando loro una forma sintetica e una cornice di esercizio, rilevando allo stesso tempo i loro presupposti necessari che scegliamo di presentare come ipotesi da confermare. Le ipotesi formali che abbiamo posto sono in numero limitato: i) l’enunciazione enunciata è una totalità strutturabile; ii) questa totalità è metalinguistica in relazione a quella dell’enunciato enunciato. L’approccio che abbiamo posto per poter enunciare queste due ipotesi su di un presupposto che abbiamo abbordato senza poterlo interrogare: iii) la distinzione /enunciazione/ vs. /enunciato/ riguarda il piano del contenuto, ed è indifferente alla sua espressione10. Come già detto, è possibile porre queste ipotesi come problemi da dimostrare. C’è tuttavia un’altra possibilità: quella di porli, alla stregua del presupposto operatorio che permette l’approccio, come assiomi veri a priori. La loro validità deriverà allora dalle conseguenze logiche della loro

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messa in opera: non contraddizione con il resto della teoria, adeguamento delle descrizioni ottenute. Allo stato attuale della semiotica, siamo lontani da una costruzione assiomatica, come è difficile immaginare procedure formali di convalida o di falsificazione. Ci siamo limitati a una convalida informale operata dalla ricerca semiotica tale quale viene praticata: i ricercatori diranno se le nostre proposte sono credibili, se esse non contraddicono cose considerate vere, e se permettono di produrre descrizioni adeguate. È possibile che queste tre ipotesi non esauriscano l’insieme dei fenomeni posti oggi sotto il termine “enunciazione”. Tuttavia, se i fenomeni che il nostro approccio permette di descrivere in modo interessante sono giudicati pertinenti, converrà designarli con un termine specifico che li caratterizzi come sotto-domini dell’enunciazione. L’applicazione della procedura proposta apparirà co,e una realizzazione parziale del programma di base che è la descrizione della dimensione enunciazionale del discorso, rimanendo da formulare nuovi strumenti concettuali per la realizzazione completa del programma.

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Apparso in «Langages», 70, 1983. In Problèmes de linguistique générale I e II (1966, 1974), Benveniste parla di “rapporto logico” e di “enunciato operante su un altro” (t. I, pp. 317318) o anche di “modalità” opposte a un “dictum” (t. I, p. 324; t. II, pp. 101102), di “facoltà metalinguistica” (t. II, p. 81), e di “sui-referenzialità” – che si analizza come un rapporto metalinguistico – (t. I, pp. 306, 314, 327). 3 Le procedure poste in essere in Sémantique Structurale (Greimas 1966, pp. 153-154) per la riduzione del testo oggetto sono esemplari a questo riguardo. 4 Landowski pone “due livelli di funzionamento del credere” (cioè il livello dell’enunciato e il livello dell’enunciazione) nel suo saggio Sincerità, fiducia e intersoggettività (1983). Se il suo testo non sviluppa ciò che ci preoccupa in questo contesto, testimonia che c’è convergenza tra i nostri approcci. 5 Questa terminologia, un po’ pesante, dovrà essere rimpiazzata da termini metalinguistici condensati. Continueremo tuttavia a usarli qui a titolo provvisorio per distinguere ciò che, nell’enunciato sottoposto ad analisi, appare come marca dell’enunciazione inscritta nell’enunciato, da ciò che appare correlativamente come ciò che è dell’ordine dell’enunciato oggettivato inscritto nell’enunciato. 2

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6 Cfr. Bateson 1958; 1972. Lo stesso termine di metacomunicazione è corrente in altri lavori circolanti nell’ambito della pragmatica. 7 Nel suo Essai sur le Don, Marcel Mauss (1923-24) qualifica come giuridiche le relazioni nate da prestazioni e controprestazioni materiali e/o verbali realizzate dai partner di scambi complessi. 8 Calame, nel suo recente articolo Énonciation: véracité et convention littéraire (1982), effettua un passo in questa direzione. 9 Abbiamo abbordato questa questione nel nostro articolo Problèmes de Parcours e in La conversion Relation-Opération (1982). 10 L’impossibilità di definire criteri esatti situati sul piano dell’espressione per permettere un riconoscimento formale e automatico degli elementi enunciazionali dimostra che la definizione prima dell’opposizione enunciazione/enunciato è riconosciuta sul piano del contenuto. Questa argomentazione teorica può essere resa valida dal fatto che è possibile riconoscere i termini dell’opposizione enunciazione/enunciato nelle espressioni che non riguardano la lingua naturale: vedi i nostri lavori citati in nota 10 e 11 e i lavori di Floch (1985) sulle fotografie, i disegni e le pitture.

Conclusioni Semiotica, spazio e architettura

In chiusura di libro sarebbe fuori luogo formulare una nostra valutazione complessiva, visto che è il lettore l’istanza ultima di giudizio. Rimane tuttavia un interesse nell’indicare alcuni punti di riferimento destinati a riposizionare a posteriori i lavori qui riuniti. La semiotica dello spazio di sviluppa su tre piani correlati: quello della descrizione di oggetti d’analisi, definiti euristicamente in quanto luoghi che riuniscono uomini e cose, come un santuario o una sala di seminario; quello del metodo, che nell’approccio greimasiano è adattato alla varietà particolare di oggetti sincretici evocati; quello del controllo epistemologico che giudica l’adeguamento dei risultati e della loro pertinenza, in comparazione con i risultati forniti da altri approcci. Evocheremo le acquisizioni in riferimento a questi livelli astratti. Cominciamo dai risultati, dato che è da qui che si dimostra l’efficacia relativa di un metodo. Una prima constatazione che s’impone, globale, è quella dell’apertura considerevole del campo dei possibili, che si distende dall’architettura contemporanea (settimo capitolo), all’Italia rinascimentale (primo capitolo), al Giappone degli shogun (secondo capitolo). Anche se non è possibile parlare di universalità dimostrata a partire da un corpus che resta quantitativamente ridotto, è possibile affermare l’universalità di una direzione mirata. La strumentazione è costituita per essere generale e potrà essere migliorata al momento di confronti con nuovi possibili casi.

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La seconda constatazione di efficacia può enunciarsi in termini di qualità relativa: il metodo semiotico ha permesso di stabilire risultati che erano sfuggiti fino ad allora agli approcci tradizionali (come il render conto del Nakabashira nell’architettura del tè). Per il lettore interessato all’architettura, la semiotica si offre come strumento di lettura, di interpretazione o di comprensione. In altri termini, si presenta come uno strumento di sapere e non come uno strumento che rinvia a un saper fare relativo alla concezione architettonica. Servendo per comprendere l’architettura, la semiotica non viene adoperata direttamente per l’elaborazione della stessa. Ciò non significa però affermare che non possa giocare un ruolo indiretto nel processo concettuale: potendo aiutare a comprendere l’architettura, la semiotica può contribuire a valutarla nel quadro del processo ciclico di concezione-valutazione-modificazione messo in opera nell’attività creatrice degli architetti. La semiotica rimpiazza l’architettura con una dinamica che implica uomini e cose. Così facendo, le assegna un ruolo strutturale (sintattico), permettendo di caratterizzarla nell’insieme più vasto in cui è situata. Se i risultati così ottenuti sono apprezzabili, essi lasciano da parte, tuttavia, uno dei problemi più trattati da una certa tradizione storicizzante dell’architettura, vale a dire quello degli stili. La semiotica sviluppata in questa sede non si pronuncia sugli stili. Non che sia metodologicamente incapace di farlo. Semplicemente, la questione non è stata posta in partenza. A essere in causa è il punto di vista che ha generato le questioni, e non lo strumentario adottato. Nei primi tre capitoli affrontiamo anche questioni di estetica. A partire da un approccio simile, è possibile tentare una caratterizzazione degli stili. Non lo abbiamo fatto perché è stata data priorità al perseguimento di un altro obiettivo, ritenuto più importante nella fase iniziale della ricerca, quello delle strutture fondamentali di una semiotica dello spazio capace di prendere in conto l’architettura.

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Se certi testi riuniti in questa raccolta contengono passaggi che sviluppano considerazioni metodologiche miranti a regolare il lavoro descrittivo e interpretativo condotto su un oggetto concreto finale, altri testi (vedi il settimo capitolo) sono stati scritti con la preoccupazione confessata di sviluppare l’analisi in un ordine dettato dalla dimostrazione metodologica. Due testi (i capitoli ottavo e nono) sono esplicitamente metodologici e non si riferiscono a un dominio concreto del mondo naturale. Ne consegue che s’indirizzano a un lettore sufficientemente familiarizzato con l’applicazione del metodo per interessarsi a quest’ultimo in quanto strumento perfettibile. Da qui la difficoltà relativa di lettura quando ci si accosta a questi due testi che occupano una posizione singolare nello sviluppo della ricerca semiotica applicata allo spazio. In particolare, l’analisi del terzo capitolo, per come è condotta su una parte della cerimonia del tè, non sarebbe stata possibile senza i fondamenti posti dagli articoli metodologici citati. Per il loro carattere generale, le idee ivi sviluppate sono applicabili nel dominio delle scienze esatte, in particolare per l’interpretazione di strumenti di misura, i quali sono, dopo tutto, solo soggetti delegati dall’osservatore nell’universo del suo oggetto di studio, sia esso infinitamente piccolo o infinitamente grande. La strumentazione semiotica facilita la comparazione di culture e delle categorie fondamentali che le articolano. In altri termini, la semiotica si rivela essere uno strumento antropologico che conviene identificare come tale. Il lettore avrà notato di sfuggita che questa semiotica, chiaramente inscritta nella tradizione della scuola di Parigi, non affronta il proprio oggetto nel modo in cui i linguisti identificano le unità minimali come le parole e i fonemi, interrogati in termini di significante/significato o di espressione/contenuto. Lo strumentario semiotico all’opera in questi lavori è di tipo narrativo, ovvero affronta unità più estese e più complesse, prese in carico da una sintassi riconosciuta a livello del contenuto. Infatti ciò che fonda l’unità di quella semio-

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tica sincretica (cfr. l’introduzione) che è la semiotica del mondo naturale non è l’eterogeneità della sua espressione ma l’unità del suo contenuto. Essa dimostra a posteriori e attraverso esemplificazioni la validità dell’opzione greimasiana che abbiamo altrove chiamato il primato euristico del contenuto (Hammad 1985). Pur autorizzando dei confronti, la semiotica mette in evidenza differenze contrastive: il senso non era nelle cose ma nel loro cambiamento e nella messa in parallelo di coppie oppositive. Posta nel centro nevralgico dell’approccio sintattico, la trasformazione (o l’azione) è ciò che articola il senso, lo sovradetermina, lo rivela. Che sia osservata in riti iterativi o presupposta a partire dalle sue tracce, l’azione serve a dire il senso. In altri termini vediamo realizzarsi, nella semiotica dello spazio, la contrapposizione della formula quando dire è fare con cui la filosofia analitica caratterizza i performativi della lingua in quanto azione: è nel mondo naturale, infatti, che si avvera che fare è dire. Se si prende un minimo di distanza, sia in relazione alle preoccupazioni dell’architetto, sia in relazione a quelle del semiotico, è possibile affermare, osservando le analisi di questa raccolta, che la semiotica dello spazio partecipa all’avanzamento di un approccio sintetico dei fatti umani manifestati del mondo naturale. Indifferente alle barriere tra le discipline, essa contribuisce a costruire una visione non irretita nelle cinte erette da approcci desiderosi di costituirsi propri territori. Coerentemente con una visione epistemologica allargata, vorremmo attirare l’attenzione sulla presenza ricorrente, in numerose analisi qui presentate, di strutture astratte che acquisiscono una certa importanza a partire dalla semplice ricorrenza citata. Ad esempio: nei capitoli quinto, ottavo e nono si mette in opera l’impilamento (o l’incassamento) di tre livelli logici gerarchizzati, differentemente nominati a seconda del contesto particolare affrontato. Sono identifi-

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cati in termini di sistemi spaziali, linguaggio, metalinguaggio o referenziali a seconda dei casi. Le relazioni che intrattengono sono identificate in termini di inclusione, di regolazione, di modellizzazione o di interpretazione. Confrontate tra loro, queste relazioni rivelano un nocciolo semantico comune, quello della relazione descritta da Gödel tra un livello logico di grado n e il livello di grado n+1, costruito al fine di rendere decidibili gli enunciati indecidibili in grado di essere prodotti al livello n. Senza lanciarci in sviluppi astratti, dai casi particolari abbordati sembra che abbiamo bisogno come minimo di tre livelli gerarchizzati per costituire un quadro interpretativo di un dato fenomeno complesso. Tre livelli costituiscono un quadro relativamente soddisfacente, anche se teoricamente insufficiente in seguito al teorema di Gödel. Indipendentemente dall’insegnamento metodologico fornito dall’esempio, notiamo che questa comparazione trasforma radicalmente la visione che il lettore poteva avere delle tre questioni concrete affrontate negli articoli evocati. Il senso è modificato. Redatti nel corso di un ventennio, i testi qui riuniti sono coerenti tra loro: soddisfano pertanto una delle esigenze minime di un approccio scientifico. Rimane da convalidare la loro coerenza con il mondo che descrivono. Per questa prova decisiva di scientificità, non ci sono che i lettori a poter giudicare. La robustezza dei risultati va commisurata rispetto alla durata della resistenza alla prova di falsificazione. Il conto alla rovescia è stato lanciato al momento della prima pubblicazione. Speriamo, al termine di questa raccolta, che i nostri lettori spingano la ricerca in direzioni che abbiamo intrapreso senza aver avuto il tempo di condurle a termine, o in direzioni che non abbiamo nemmeno intravisto a causa dell’impossibilità di prendere una distanza sufficiente.

Bibliografia

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento. AA.VV.,

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Stampato per conto della casa editrice Meltemi nel mese di ottobre 2003 presso Arti Grafiche La Moderna, Roma Impaginazione: Studio Agostini