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Italian Pages 166 Year 2020
Studia Humaniora collana di studi e ricerche
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Vo l u m e X L I I
C o m i tato s c i e n t i f i c o Roberto Esposito Paolo Pagani B e r n a r d S t i e g l e r (†) Carmelo Vigna
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L’insondabile decisione dell’essere
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Filosofia e psicoanalisi dinnanzi alla causalità della follia a cura di Viviana Faschi
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Nella collana Studia Humaniora Orthotes Editrice pubblica esclusivamente testi scientifici valutati e approvati dal Comitato scientifico-editoriale. I volumi sono sottoposti a peer review.
Tutti i diritti riservati Copyright © 2020 Orthotes Editrice Napoli-Salerno www.orthotes.com isbn 978-88-9314-270-0
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Prefazione
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U
n’interrogazione sulla follia, sulla sua causalità, nonostante siano da poco passati i quarant’anni della legge 180, suona sempre un po’ fuori luogo, un po’ rischioso (forse). Perché la filosofia e la psicoanalisi non sono la scienza, non si occupano del tessuto molecolare della materia cerebrale e oggi più che mai pare che la risposta, ogni risposta, vada cercata lì e in nessun altro luogo, le risposte a ogni domanda devono essere evidence based, ci vogliono le “prove”. Filosofia e psicoanalisi pare possano solo speculare, ma forse non si tratta di un limite: esse fungono da speculum appunto, riflettono tutto l’accadere e i nodi, i garbugli che la follia porta con sé, delucidandoli si potrebbe dire. A volte ciò che vediamo dentro uno speculum, attraverso giochi di specula, precisa la visione normale, oculare, retinica; a volte mediante un sottile mettersi l’uno di fronte all’altro di due specchi, possiamo riuscire a concepire l’infinito. La filosofia, la psicoanalisi, più che basarsi su prove certe, mostrano quell’infinito gioco di specchi che sempre delinea adombrando, ma il reale non si può cogliere nella sua interezza, proprio a causa del nostro essere umani e intra-vedere, mostrandone i frutti, è tutto ciò che possiamo, a essere onesti. La follia è una di quelle matasse che non si sbroglieranno mai del tutto, forse, o proprio perché, noi cerchiamo di farlo linguisticamente ed essa, come diceva Carlo Viganò argomentando Lacan, è “una malattia del linguaggio”; non possiamo con le sue stesse peculiarità intricate cercare di districarla. Per questo essa avrà dalla sua, sempre, un coté di mistero, ovvero di perennemente e strutturalmente indicibile.
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Prefazione
Il mondo medico, dalla sua, potrà dirci, dati alla mano, che esso non perde tempo con trame e orditi linguistici ma entra nel “tegumento del corpo”, solo che quell’alterazione neurobiologica non è una causalità, è al massimo un accidente causato a sua volta da qualcosa. Se allora da una parte non bisognerà cercare la causa prima della follia (mitica se non del tutto immaginaria), e nessuno infatti degli autori che hanno contribuito a questo volume lo fa, d’altra parte occorre mettere sì in moto la machina della causalità mostrando che qualcosa è accaduto, che qualcosa si muove, per dare esito a questa particolare struttura, che Lacan chiama “soluzione elegante”. Al di là delle questioni personali, che sempre sotterraneamente spingono una ricerca, parlare oggi di causalità della follia mi sembra necessario in quanto tema messo in modalità muta troppo spesso; in quanto la follia serpeggia non solo nei casi di psicosi classica, ma anche nei nuovi sintomi e nei casi non scatenati di cosiddetta (da Jacques-Alain Miller) psicosi ordinaria. Ma soprattutto perché ci fidiamo (noi che camminiamo su quei territori che intrecciano la filosofia alla psicoanalisi) che ci sia ancora qualcosa da dire, e forse di fondamentale e nuovo, sul tema della follia e della sua causalità in senso filosofico. Gli autori che hanno preso parte a questo progetto, da me cercati e coinvolti non senza dubbi e timori circa un loro possibile rifiuto, sono psicoanalisti, sono filosofi, o sono entrambe le cose e le loro prospettive, sebbene tutte differenti, hanno un quid che le unisce e che lascio al lettore scoprire. Ho voluto poi che uno storico della medicina ed ex psichiatra potesse dare il suo contributo in una postfazione, così da mostrare come la medicina a volte riesce ad essere differente da come ce la potremmo aspettare. Ringrazio dunque, in ordine rigorosamente alfabetico, Giuseppe Armocida, Paolo Bellini, Sergio Benvenuto, Matteo Bonazzi, Domenico Cosenza, Cristiana Fanelli e Silvia Vizzardelli per avermi fatto il dono di portare i loro pregnanti punti di vista all’interno di questo volume, nato come un’idea folgoran-
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L’insondabile decisione dell’essere
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te quanto inaspettata durante il mio primo anno di dottorato, quando ancora non sapevo che si sarebbe potuto effettivamente realizzare. Ringrazio infine Diego Arturo Giordano, direttore di Orthotes, per aver permesso che il frutto di questo mio desiderio potesse trovare posto nella sua casa editrice, da me sempre guardata con ammirazione.
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Viviana Faschi
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Paolo Bellini L’immaginario cavalleresco, il matto e la libertà1
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Introduzione
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olto si può dire e molto è stato detto sulla cavalleria, vasta ed eterogenea è la produzione scientifica sull’argomento, sembra quindi, a prima vista, pleonastico continuare ad occuparsi del mondo cavalleresco ripensandone i miti, i riti e lo stile. Niente, infatti, pare oggi più distante, niente sembra più lontano dalla società post-moderna di quel mondo, dei suoi simboli e della temperie culturale che ne animava le gesta. In effetti, la cavalleria e la civiltà di cui essa è l’immagine e il fondamento sono ormai scomparse: rappresentano un lontano ricordo, un terminus a quo irrimediabilmente distante dalla cultura e dallo stile di vita odierno. Tuttavia, vi è una curiosa sopravvivenza simbolica dello stile e del mondo cavalleresco. In particolare, i più diffusi mezzi di comunicazione di massa (televisione, cinema, web, ecc.) non esitano a riproporre, facendolo rivivere ad uso e consumo dei propri fruitori, l’ideale cavalleresco dove si ripropone in chiave moderna lo schema dell’eterna lotta tra le potenze della luce e del bene contro quelle delle tenebre e del male. A questo proposito è interessante chiedersi il senso e la portata del continuo riproporsi di un ideale che, nonostante l’ipertrofia tecnologica in cui è immersa la cultura contemporanea, continua ad affa1 Questo saggio è la rivisitazione integrale di un articolo apparso per Mimesis in italiano (cfr. P. Bellini, L’immaginale cavalleresco e la civiltà tecnologica, in Il sacro e la cavalleria, a cura di C. Bonvecchio, Mimesis, Milano 2005) e per Metabasis.it in inglese (cfr. P. Bellini, The imaginal in Chivalry and the Civilization of Technology, Metabasis.it, anno II, numero 4, 2007).
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Paolo Bellini
scinare con la sua grande e imperitura popolarità la civiltà occidentale. Al fine di comprendere e di analizzare tale fenomeno, è possibile tracciare, senza alcuna pretesa di essere esaustivi, una disamina dell’immaginario cavalleresco in grado di rendere conto non solo del significato della cavalleria per il mondo attuale, ma anche del suo stesso profilo culturale.
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noltrarsi nel mondo simbolico della cavalleria e dei suoi valori è un’esperienza assai difficoltosa, tanto per la vastità dell’argomento, quanto per l’eterogeneità dei metodi di approccio che possono essere i più disparati (storico, economico, religioso, antropologico, etc.) e che contribuiscono, ciascuno nel proprio ambito, a delineare un’immagine complessiva dell’oggetto indagato. Come è stato detto, si vuole qui esplorarne l’immaginario, che trova la propria ragion d’essere nel linguaggio dei simboli. A questo scopo, e al fine di introdurre l’argomento attraverso un paradigma simbolico-analogico, è opportuno considerare dapprima, tra le tante opzioni possibili, una figura assai popolare nel gioco dei tarocchi:2 il Matto.3 Questa carta, che è annoverata tra gli arcani maggiori, rappresenta l’alfa e l’omega dell’immaginario oracolare sviluppatosi successivamente all’invenzione del gioco stesso. Essa può essere l’arcano dell’inizio o della fine, non vi è assegnato un numero corrispondente, o, nei casi in cui viene numerata, gli si attribuisce lo zero. In questo senso, proprio perché appartiene a una cifra che non rappresenta una quantità in senso stretto, ma il suo contrario, cioè il niente, essa si associa alla dimensione assoluta dell’esistere che coincide con la complexio oppositorum (la coincidenza degli opposti). Nel Matto il finito e l’infinito, il bene e il male, la sapienza e la follia sono una cosa sola. Per questo, la sua simbologia si situa aldilà La scelta di un’immagine derivata dagli Arcani Maggiori dei tarocchi non è arbitraria, come potrebbe a prima vista sembrare ma obbedisce a una logica intrinseca che lega, in qualche modo, i tarocchi alla visione cavalleresca del mondo. 3 Vedi illustrazione. 2
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L’immaginario cavalleresco, il matto e la libertà
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del quotidiano, oltre lo spazio del semplicemente noto, oltre l’educazione comune e i valori sociali condivisi. In questo senso tale figura simboleggia l’Assoluto come possibilità di assumere ogni forma determinata, come la capacità di spostarsi a proprio piacimento in tutti i mondi possibili. Di solito l’immagine del Matto è rappresentata da un uomo con in spalla una bisaccia e con in mano un bastone. Ciò, evidentemente, esprime l’ideale di una ricerca perenne che coincide con una certa visione della sapienza. Nel Matto la saggezza coincide con la follia, poiché tra di esse non vi è che una differenza di punti di vista. Colui che cerca, infatti, opera una rottura di livelli rispetto al comune modo di sentire e di vivere, come il Matto si muove verso l’abisso della propria interiorità che prelude a un’esperienza oltre la quotidianità spazio-temporale. Il Matto appare come autenticamente sapiente a se stesso, e completamente folle agli occhi di quanti vivono intrappolati nel cosmo unidimensionale del comune buon senso.
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Paolo Bellini
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Come sostiene Wirth: «Il Matto rappresenta, infatti, tutto ciò che sta al di là dell’intelligibile, quindi l’infinito esterno al finito, l’assoluto che avvolge il relativo».4 Sotto questo aspetto il Matto, in quanto simbolo dell’Assoluto, gioca un ruolo decisamente positivo poiché oltre a tracciare il limite entro cui è rinchiuso il piano dell’esistenza quotidiana, mostra al sapiente il cammino verso una saggezza che nella sua profondità dichiara la nullità e il vuoto da cui si originano l’io personale e il cosmo. Il saggio non si lascia ingannare dalle parole; invece di oggettivare esteriormente la negazione verbale dell’Essere, cerca il Matto in se stesso, prendendo coscienza del vuoto della ristretta personalità umana, che ha un posto tanto grande nelle nostre misere preoccupazioni. Impariamo dunque che noi non siamo nulla, ed i Tarocchi ci avranno confidato il loro ultimo segreto.5
Nel suo rappresentare l’infinito come un abisso senza fondo, un puro nulla che avvolge ogni cosa e che si ritrova nell’interiorità umana dietro la maschera dell’io personale, questa figura traccia un ponte simbolico tra l’ordine cosmico e il soggetto autocosciente, introducendo il tema della creatio in nihilo. Quest’ultimo termine esprime l’idea che il Soggetto e l’Oggetto della creazione coincidano nel puro nulla, nel vuoto indifferenziato da cui ogni cosa si origina, sui cui si fonda la diade iomondo e che si ritrova nei sistemi gnostici a sfondo ermetico.6 In altre parole, i Tarocchi, nella figura del Matto, l’arcano numero zero, ripropongono l’idea cosmogonica della coincidenza tra l’Essere e il nulla, tra Dio e la sua creazione, tra l’Atto d’essere, l’Essere, e l’essente (ciò che è in quanto finito), nella dimensione dell’infinito indeterminato Vuoto. In questo senso, da un punto 4 O. Wirth, I tarocchi, tr. it. di R. Rambelli, Edizioni Mediterranee, Roma 1986, p. 267. 5 Ivi, p. 268. 6 Cfr. Ermete Trismegisto, Corpus ermetico, tr. it. di V. Schiavone, Rizzoli, Milano 2001; Testi gnostici a cura di L. Moraldi, UTET, Torino, 1992.
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L’immaginario cavalleresco, il matto e la libertà
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di vista teologico, è come se Dio traesse se stesso dalla non esistenza all’esistenza attraverso la creazione di qualcosa che promana da lui stesso e che lo nega in quanto esistente nella dimensione del finito7 e della pienezza che si oppone al vuoto, infinito nulla. Tutto questo, evidentemente, si contrappone alla creatio ex nihilo, dove il Dio-persona, in quanto Essere, crea dal nulla e precede il nulla stesso senza coincidervi. Ciò traccia, inoltre, un’interessante analogia tra la cosmogonia gnostica (è necessario ricordare che il Matto rappresenta anche lo Straniero gnostico)8 e l’origine dell’universo descritto dalla fisica quantistica, dove il vuoto scarica se stesso nella luce prima e nella coppia materia/ antimateria poi.9 Se quanto ho affermato pertiene all’aspetto positivo, luminoso e creativo della simbologia di questo arcano, vi è tuttavia un lato inquietante e oscuro che è necessario considerare. Il Matto «è il vagabondo, colui che se ne va con gli occhi rivolti a qualcosa di lontano»10 e pertanto seguendo l’interpretazione del Wirth può diventare anche colui che si abbandona agli «istinti ciechi, agli appetiti e alle passioni»11 e che rappresenta la triade negativa «irresponsabilità, alienazione, follia»,12 diventando l’archetipo dell’«inettitudine a dirigere se stessi, dell’incapacità di resistere 7 Cfr. F.W.J. Schelling, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti ad essa connessi, tr. it. di G. Strummiello, Rusconi, Milano 1996. 8 L’analogia con la figura dello Straniero gnostico è evidente (cfr. Inno della perla, in Testi Gnostici, a cura di L. Moraldi, UTET, Torino 1992). 9 Cfr. M. Cassé, Du vide et de la création, Editions Odile Jacob, Paris 1993. Anche se M. Cassé si riferisce costantemente, per sua stessa ammissione, a grandezze fisiche misurabili, tra cui rientra il vuoto di cui si parla nella trattazione, ciò non impedisce, tuttavia, di poter tracciare attraverso il linguaggio dei simboli un’analogia tra questo vuoto fisico e quello metafisico della tradizione gnostica. Semplicemente è necessario considerare che nel caso del vuoto come assoluto nulla si fa riferimento all’aspetto qualitativo dell’oggetto in questione, che trascende il semplice fenomeno materiale collocandosi nella dimensione metafisica dell’ineffabile. 10 J. Chevalier – A. Gheerbrant, Matto, in Dizionario dei simboli, a cura di I. Sordi, Rizzoli, Milano 1989, p.79. 11 O. Wirth, I tarocchi, cit., p. 269. 12 Ibidem.
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Paolo Bellini
alle influenze subite».13 Sotto questo profilo la carta ammonisce colui che cerca la sapienza, gli suggerisce che la saggezza somiglia a un funambolo la cui corda è sospesa sull’abisso dentro il quale si rischia di precipitare all’infinito. Il Matto rappresenta, quindi, anche l’incapacità dell’uomo di contemplare il proprio nulla interiore e il vuoto da cui si origina il cosmo, la difficoltà di comprendere il numinoso ineffabile volto di Dio, a cui solo pochi eletti possono giungere senza perdere il senno. Come afferma Dante: «Qual è ‘l geometra che tutto s’affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’elli indige, tal era io a quella vista nova: veder volea come si convenne l’imago al cerchio e come vi si indova; ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne».14 Ora, considerando quanto brevemente è stato detto sulla simbologia del Matto, si può facilmente notare come essa abbia molta attinenza con la ricerca e conquista del Graal,15 che corona e racchiude in sé il significato più profondo dell’immaginario cavalleresco. Il Graal, infatti, rappresenta simbolicamente quella forma di sapienza che, travalicando i limiti della vita e della morte, raggiunge il segreto dell’eternità, rende invincibili e dona la saggezza illuminando la mente umana.16 In questo senso Ibidem Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXIII, versi 132-141, a cura di N. Sapegno, La nuova Italia, Firenze 1963, pp. 416-417. 15 «Il Santo Graal della letteratura medievale europea è l’erede, se non il continuatore di due talismani propri della religione celtica precristiana: il crogiolo del Dagda e la coppa della sovranità» (J. Chevalier – A. Gheerbrant, Graal, in Dizionario dei simboli, cit., p. 526). «Il simbolismo più generale della coppa si applica al Graal medievale, che raccoglie il sangue di cristo e che contiene – ma le due cose, in fondo, si identificano – sia la tradizione momentaneamente perduta sia la bevanda dell’immortalità» (J. Chevalier – A. Gheerbrant, Coppa, in Dizionario dei simboli, cit., p. 314). 16 «Le virtù principali del Graal si possono riassumere come segue: Virtù di luce, cioè virtù illuminante. […] Oltre ad esser luce e forza sovrannaturale illuminante esso dà nutrimento, dà vita. […] Il dono di vita del Graal si manifesta però anche nella virtù di guarire ferite mortali, di rinnovare e prolungare sovrannaturalmente la vita. […] Il Graal induce una forza di dominazione.» (J. Evola, Il mistero del Graal, Edizioni Mediterranee, Roma 1994, p. 92, p. 93, p. 94 e p. 95) 13 14
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L’immaginario cavalleresco, il matto e la libertà
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non si tratta di un oggetto materiale, che si possiede al pari di un qualsiasi bene di consumo, bensì di un oggetto immaginario che coincide con il senso della ricerca stessa. Come afferma Markale: «Sembra che il Graal in quanto oggetto non sia niente. Tutti coloro che si sforzano di trovarlo non riescono mai a porre un termine alle prove. […] Significa che il Graal importa poco e che l’essenziale poggia sulla cerca stessa. Importa quindi domandarsi quale possa essere il senso di questa cerca».17 A questo punto sembra abbastanza chiaro come, nel quadro concettuale fin qui tracciato, il Matto rappresenti colui che cerca, e il Graal il suo oggetto inteso in senso simbolico. Infatti, ciò che dà la vita e la morte, ciò che è eterno, ciò da cui tutto scaturisce, in quanto segreto dell’immortalità e della potenza assoluta non è altro che il Vuoto infinito nulla, il quale probabilmente coincide con il Graal e con la saggezza di cui il Matto è la cifra simbolica. Inoltre, la simbologia di questo arcano è perfettamente coerente con lo stile e le azioni di uno degli eroi della Quête: Perceval. Quest’ultimo, come il Matto, «è uno sciocco che sta per smaliziarsi man mano che gli capitano avventure. Ma di per sé non possiede alcun senso della cerca che egli conduce. La sua erranza è anarchica. Non sa mai dove vada».18 Ad un certo punto, tuttavia, questo insensato errante, padre di ogni inettitudine, segno di irresponsabilità, viene illuminato dalla luce della sapienza assoluta che, come il vuoto infinito, mostra al MattoPerceval, non solo che enantiodromicamente19 ogni cosa tende al suo contrario, ma che nell’immaginario nulla del Graal, vive la complexio oppositorum tra l’assoluto e il relativo, l’eterno e il transeunte, il finito e l’infinito. Ora è chiaro che se, per un verso affermare la realtà della creatio in nihilo, sostenere che tutto si fonda sul vuoto nulla da cui il mondo e l’uomo traggono origine J. Markale, Il Graal, tr. it. di G. Pallavicini, Mondadori, Milano 1999, p. 323. 18 Ivi, p. 327. 19 Con il termine enantiodromico dal greco enantios (opposto) e drómos (corsa), si intende in generale tutto ciò che esiste nel divenire e che tende verso il suo contrario, «ciò che si oppone converge, e dai discordanti bellissima armonia» (Eraclito, Dell’origine, a cura di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 1993, p. 54, fr. 11.). 17
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Paolo Bellini
è un’idea filosoficamente affascinante, per l’altro vivere in termini simbolici tale verità significa attraversare un vero e proprio stato di estatica follia per giungere alla saggezza di tale visione. D’altronde, un conto è pensare qualcosa come una fredda idea distante dal soggetto conoscente e alla quale si dà credito, ma che rimane ben circoscritta nel domino sicuro della razionalità, un altro è invece vivere la medesima idea partecipandovi nella sintesi di conoscenza ed azione. In quest’ultimo caso, che è quello della Quête du Graal e che il Matto indica attraverso la sua simbologia, si tratta di una vera e propria frammentazione dell’Io cosciente, dominato dalle apparenze, che si perde nel vuoto infinito per ricomporsi di nuovo nella realtà apparente del quotidiano, carico di una nuova e profonda saggezza. Trovare il Graal, seguire la via dell’Arcano zero significa avere il coraggio di tuffarsi nell’inconscio, attraversarlo, scoprire che anche le sue scomposte immagini sono solo il trarsi dell’infinito Vuoto all’esistenza e, infine, rinascere in un altrove da cui si osserva la propria vita quotidiana e il proprio Io sotto una nuova luce.
2.
F
in qui si è cercato, brevemente, di mostrare come alcuni ideali della cavalleria si inscrivano nella figura del Matto e nella ricerca del Graal. Si può tranquillamente sostenere, in proposito, che tali elementi simbolici tracciano il confine sapienziale entro cui si costituisce la struttura dell’immaginario cavalleresco. Ciò significa che la sua origine e il suo compimento sono determinati dall’iniziazione al segreto del Vuoto da cui si generano il cosmo e la psiche. Tale affermazione è giustificata dal fatto che i temi principali dell’epopea simbolica cavalleresca ruotano intorno alla cerca del Graal e che il cavaliere, eroe di tale impresa, può essere assimilato all’ideal-tipo del Matto dei Tarocchi (colui che si perde e trova, poi, la sapienza).20 Come, infatti, Seguendo Markale, solo Perceval può a buon diritto essere considerato come l’eroe tipico della cerca del Graal e non Galaad poiché pare che tale seconda figura sia un’artificiosa creazione di monaci intenti ad affermare degli ideali non troppo congruenti con il senso autentico della ricerca stessa. 20
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L’immaginario cavalleresco, il matto e la libertà
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attestano i romanzi del Ciclo della Tavola Rotonda il cavaliere destinato a compiere l’impresa (la conquista del Sacro Graal) deve, al pari del Matto, affrontare moltissime prove, girovagare per il mondo e ritrovare a più riprese il proprio senno. Tipico, a tal proposito, è il caso di Perceval che, come narra Wolfram von Eschenbach,21 dimentico di se stesso per amore22 arriva addirittura ad affrontare alcuni Cavalieri della Tavola Rotonda senza rendersene conto. È, a questo punto, abbastanza chiaro che nell’orizzonte simbolico cavalleresco pensiero ed azione non sono mai separati, ma semplicemente si configurano come due momenti della dimensione immaginaria entro cui si sviluppa il tema del Graal. Il percorso che porta l’eletto, il cavaliere degno di contemplare il mistero del Sacro Calice, alla conquista della saggezza perenne, è allo stesso tempo interiore ed esteriore. In esso, gli eventi esterni corrispondono perfettamente al grado di purezza interiore conquistato dal cavaliere e viceversa, egli si rispecchia ed è condizionato dalle azioni esterne che vengono compiute. Tutto questo, a sua volta, riflette il principio enantiodromico che regola ogni evento del macrocosmo esteriore e del microcosmo interiore, per cui ogni cosa tendendo verso il suo contrario appare infine per ciò che più autenticamente è, mostrandosi a colui che cerca la via che conduce all’essenza di «Nel creare Galaad, si creava il modello del sacerdote, anche se troppo bello per essere vero. E così facendo si indeboliva seriamente la portata della cerca: invece di una lenta iniziazione, invece di una lunga e faticosa avanzata dell’anima attraverso i pericoli, gli smarrimenti e le trappole della vita, la cerca stava per trasformarsi in una semplice passeggiata compiuta da un superuomo […] Mentre nell’antica cerca, l’aspetto guerriero era indissociabile dall’aspetto sessuale; adesso quest’ultimo cade. Insomma, Galaad, nel liberare le pulzelle, chiude i bordelli e si istituisce al loro posto monasteri di suore. […] La grande innovazione consiste nel fatto che il meccanismo innescato da Galaad significa il recupero delle energie sessuali e guerriere ai fini della cristianizzazione per pentimento e sublimazione dei desideri» (J. Markale, Il Graal, cit., p. 176 e pp. 183-184). 21 Cfr. W. Von Eschembach, Parzival, tr. it. di G. Bianchessi, TEA, Torino, 1989, pp. 191-209. 22 «E gli occhi dell’eroe andavano commisurando come s’erano disposte le gocce, due alle guance la terza al mento. Il vero amore che non vacilla serbava egli per lei. Così cominciò a smarrirsi in pensieri, finché si restò tutto stordito: la forza di amore lo soggiogò» (ibidem).
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Paolo Bellini
se stesso e del cosmo. Come afferma Mordred, rivolgendosi ad Artù, nella magistrale interpretazione di Michel Rio: «L’idea per l’essere e l’idea in sé […] La Tavola e l’impero non sono un’idea astratta, sono l’uomo di Logres, l’uomo spinto a cambiare secondo il sogno di Merlino, seppur l’uomo e nient’altro».23
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uanto è stato affermato sembra apparentemente non riguardare le dinamiche specifiche che regolano l’esistenza della società contemporanea. In realtà il richiamo mitologico alla cavalleresca cerca del Graal che si associa, a sua volta, simbolicamente all’arcano del Matto dove si esprime l’orizzonte di un’autentica ricerca del senso della propria esistenza e di quella del mondo,24 non può mai prescindere da una riflessione sulla libertà e sul significato che essa assume. Tale problema, intrinsecamente legato ai temi tipicamente cavallereschi, rappresenta anche una delle questioni più importanti per la società contemporanea. Uno degli argomenti più interessanti, infatti, che vengono messi in scena dalle saghe mitico-simboliche riguardanti la cavalleria, è il tema della libertà dal controllo, dalla sorveglianza e dai condizionamenti sociali. In generale ogni cavaliere sfida il buon senso comune, la morale condivisa, le regole del normale vivere sociale comportandosi, a tratti, come un folle in preda a un delirio di onnipotenza. In questo senso tali racconti mostrano una sconcertante e immediata attualità, sembrano parlare alla società post-moderna fondata sul controllo tecnologico e disciplinare, rammentandole il significato più profondo della libertà umana. Come scrive Jünger: M. Rio, Artù, tr. it. di A. Ferrero, Instarlibri, Torino 2002, p. 27. È necessario ricordare che la vita umana non prescinde mai dalla domanda: Cur aliquid potius quam nihil (perché esiste qualcosa piuttosto che nulla)? 23 24
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L’immaginario cavalleresco, il matto e la libertà
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L’ordine planetario è già compiuto, tanto nel modello quanto nella realizzazione. Manca solo il suo riconoscimento, la sua dichiarazione. Si potrebbe immaginare che abbia luogo come un atto spontaneo, di cui non mancano esempi nella storia, oppure vi si può pervenire spinti dalla forza di una serie di eventi. […] L’ulteriore estensione dei grandi spazi nell’ordine globale, l’estendersi delle potenze mondiali in direzione dello Stato mondiale, o meglio, dell’impero mondiale si connette al timore che la perfezione conquisti una forma definitiva al prezzo della libertà del volere.25
La perfezione di cui si parla è, evidentemente, connessa con la tendenza a normare ogni cosa: sia nell’ambito delle relazioni dell’uomo con i suoi simili, sia per quanto riguarda le leggi che studiano i fenomeni naturali (anch’essi in fondo sottoposti ad una disciplina della razionalizzazione e del controllo), sia nel campo dello sfruttamento delle risorse naturali. Quest’ultimo aspetto, poi, qualifica attualmente la civiltà tecnologica globalizzata dove il pianeta si configura come un semplice serbatoio dal quale si attinge energia destinata alla produzione incessante di beni di consumo di massa.26 Inoltre, un’ulteriore forma di controllo, cui la società post-moderna dedica i propri sforzi, non riguarda solo il dominio sui corpi che è stato ampiamente raggiunto, ma anche la colonizzazione del pensiero, al fine di piegare ogni cosa alle esigenze del proprio buon funzionamento. Nessuno attualmente può pensare di sparire, come si diceva una volta, cambiare vita, ricostruirsi una nuova identità, oppure semplicemente fare qualcosa senza lasciare traccia. Per esempio, ognuno sa che quando usa il bancomat per prelevare del danaro o paga con la carta di credito, lascia sempre un’impronta informatica da cui si può facilmente risalire alle azioni del proprietario. Questo banale caso pratico permette di comprendere 25 E. Jünger, Lo stato mondiale, tr. it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma 1998, p. 78. 26 Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1990.
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Paolo Bellini
come, in fondo, la linea di tendenza per il futuro sia legata ad una progressiva diminuzione della libertà dal controllo, delineando una società in cui ogni corpo-persona, trasformandosi in una sorta di terminale cibernetico, lascia sempre un segno delle proprie azioni in una banca dati. A questa forma di controllo manca, tuttavia, un importante tassello legato al pensiero che, sfuggendo ancora a un completo controllo tecnologico, vanifica in parte gli sforzi atti a realizzare il dominio sul corpo-persona. Ora, l’immaginario della cerca del Graal e delle gesta cavalleresche, partorito dai canti dei trovatori medievali, riguarda proprio l’ideale di una totale assenza di controllo dove il pensiero immaginante regala potenzialmente a ciascuno la possibilità di un viaggio interiore. Tale itinerario della mente si delinea, a sua volta, tanto come conoscenza della necessità del proprio destino spesso immutabile, quanto come desiderio di una libertà creativa oltre le convenzioni sociali. In questo senso, tale modo di pensare e di relazionarsi al mondo rappresenta una vera e propria sfida per la moderna logica del controllo. In qualche modo, come un fantasma del passato che tormenta i sogni del presente, la cultura cavalleresca possiede qualcosa di perturbante per la civiltà moderna, poiché continua incessantemente a parlare alle coscienze dei corpi-macchina, mostrando una realtà alternativa, a tratti paradossale, ma radicalmente altra rispetto alla normale quotidianità del vivere. È necessario, tuttavia, specificare meglio la dialettica propria alla contrapposizione tra il mondo delle immagini cavalleresche e la società post-moderna. Per quanto, infatti, possa essere perfettibile la società dei consumi, in particolare nella sua versione occidentale, ha innalzato notevolmente il tenore di vita della popolazione, emancipando la popolazione da condizioni di vita miserevoli dominate dal servaggio e da un assoggettamento individuale privo di diritti. Il controllo è probabilmente il prezzo da pagare per la liberazione da ogni oppressione dogmatica e per il riconoscimento della dignità della persona. L’immaginario cavalleresco (da non confondere con le reali condizioni di vita dell’epoca medievale), tuttavia, ricorda alla coscienza in-
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L’immaginario cavalleresco, il matto e la libertà
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dividuale quanto siano illusorie le immagini acquisite passivamente attraverso i nuovi media e adottate senza alcuno sforzo intenzionale. L’immaginario della società tecnologica, infatti, si qualifica come un luogo di adesione spontanea dove si sopisce l’interesse per un’esplorazione interiore capace di arricchire consapevolmente il soggetto che la sperimenta. In questo senso, a livello generale, si può osservare un effetto regressivo, che tende a intrappolare ogni individuo in una dimensione inconscia caratterizzata da una sorta di passività fetale. In altre parole, la ricerca del Graal lascia il posto alla vorticosa realtà esterna, costituita sulla soddisfazione di bisogni (materiali e spirituali) il cui vero protagonista è la diade uomo-macchina, da cui consegue la necessità di un controllo sempre crescente al fine di ottimizzare e integrare la relazione tra il soggetto umano e le sue estensioni tecnologiche. L’immaginario cavalleresco del Graal e la civiltà tecnologica che qui sono stati accostati rivelano, pertanto, in un gioco di contrapposizioni e analogie due modi di relazionarsi al reale in sostanziale opposizione. L’osservazione attenta di questo antagonismo, che ha un carattere sostanzialmente descrittivo, induce a una riflessione sulle condizioni esistenziali tipiche della post-modernità. Si pone così la questione se possa configurarsi una nuova modalità soggettiva di esistere che sappia, pur non rinunciando agli enormi vantaggi del sapere tecnologico, costituire forme di aggregazione collettiva capaci di eludere il controllo, o quantomeno, di superarne la ferrea logica pervasiva. Tale questione sembra avere una natura antropologica. Al di là di ogni possibile congettura si deve, però, tenere conto del fatto che la tecnologia è un elemento essenziale per la stessa sopravvivenza della specie, per cui vagheggiare il mondo perduto del Graal o forme di esistenza refrattarie al potenziamento dell’integrazione uomo-macchina sarebbe del tutto antistorico. Tale soluzione appare, infatti, del tutto impraticabile e controproducente. È piuttosto necessaria, al fine di salvaguardare la libertà interiore che caratterizza gli esseri umani, qualificandoli come tali, una sorta di rigenerazione e di ripensamento com-
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plessivo del rapporto uomo-macchina. Appare, così, sempre più urgente avviare un processo di metabolizzazione culturale che sappia considerare la dimensione della libertà in relazione al processo di integrazione tra mente e macchina. In questo senso è anche necessario avere coscienza di quanto accade, preservando con astuzia e realismo, il diritto alla privacy e all’oblio in quanto espressione della libertà dal controllo.
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Sergio Benvenuto “Diventa lo psicotico che tu sei”
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erso il 1975, essendo parte di un gruppo di giovani in formazione in psicoanalisi, incontrai Jacques Lacan a Milano. In quell’occasione parlò anche di Nietzsche, e disse più o meno (scrivo quel che ricordo): «Si dice che non diventa folle chi vuol esserlo. Eppure Nietzsche in un certo senso ha scelto di essere folle. Chapeau!». Da notare che in Propos sur la causalité psychique (1946) Lacan aveva evocato una scritta che da giovane aveva messo sul muro della sala di guardia in ospedale: «Non diventa matto chi vuole».1 Una lettura possibile delle parole di Lacan gli attribuirebbe una teoria precisa: che la psicosi non viene mai scelta, tranne in alcuni rarissimi casi, tra cui quello di Nietzsche. Ma si tratterebbe di una ingenua presa alla lettera di quel che Lacan voleva dire, o meglio, di quel che stava dietro al suo dire. Evidentemente Lacan aveva un approccio molto più complesso alla relazione che può esserci tra un sistema filosofico visionario, come quello di Nietzsche, e l’insorgere di una psicosi in senso clinico. Questo significa che anche una frase come “l’insondabile decisione dell’essere” non va banalizzata, non va presa insomma come l’affermazione ideologica di una assunzione della libertà dell’essere umano, fino al punto che questi possa scegliere di diventare psicotico, cioè, in sostanza, che possa liberamen J. Lacan, Ecrits, I, Seuil, Paris 1999, p. 175.
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te rinunciare alla propria libertà. Del resto, parla di “decisione dell’essere”, non di “decisione del soggetto”, ed è una sfida porre l’essere all’origine di una decisione. Devo dire di non apprezzare un certo appiattimento della psicoanalisi, in particolare lacaniana, su temi e preoccupazioni della fenomenologia filosofica e dell’esistenzialismo che gli ha fatto scia, da Binswanger a Sartre.2 Appiattimento che spesso assume la forma di un puro e semplice ritorno alla metafisica antropologica – soprattutto cattolica – della magnifica libertà dell’essere umano, da opporre in modo filosoficamente manicheo ai truci determinismi delle scienze biologiche (e, per i cattolici, alla predestinazione protestante). Lacan in realtà, nel 1946, non dimenticava di essere freudiano, e Freud non ha mai creduto a quello che in teologia si è chiamato libero arbitrio. Freud diceva di essere determinista; anzi, pensava che i processi psichici fossero sur-determinati, ovvero avessero varie determinazioni, non fossero quindi lineari. Oggi diremmo che la causalità psichica è reticolare. Tornerò alla fine sul testo di Lacan da cui è estratta la frase che dà nome a questa raccolta. Ho bisogno di ricordare il disprezzo che Lacan ha sempre nutrito nei confronti delle filosofie della libertà e nei confronti della nozione stessa di libertà? Egli ha sempre in vario modo deriso questo cavallo di battaglia umanistico, insistendo invece sulle determinazioni strutturali del significante sul soggetto.
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a secoli si discute fino a che punto l’essere umano sia libero, e se lo sia davvero. In particolare, ci si infervorò sull’argomento dopo la Riforma protestante, quando al De libero arbitrio (1524) di Erasmo da Rotterdam3 Lutero replicò col 2 Sviluppo la critica all’approccio fenomenologico in psichiatria in Il progetto della psichiatria fenomenologica, «Dialeghestai», 20 febbraio 2004. http://www.mondodomani.org/dialegesthai/sb03.htm; http://www.sergiobenvenuto.it./ilsoggetto/articolo.php?ID=38. 3 De libero arbitrio diatribe sive collatio.
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“Diventa lo psicotico che tu sei”
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suo De servo arbitrio (1525). Oggi, dopo Pierre Simon Laplace, questa alternativa viene riportata alla questione del determinismo. Dove per determinismo si intende non tanto il fatto che si possano determinare precisamente le cause e i loro effetti, ma il fatto che nella natura si presuppongono sempre meccanismi (il determinismo di oggi è ontologico, non gnoseologico). Nessun computer, per quanto potente, potrà dirci il risultato di un lancio di una monetina, testa o croce; ma la scienza e il buon senso danno per scontato che il risultato, per quanto imprevedibile per l’essere umano, è determinato da una catena densissima, praticamente incalcolabile, di cause-effetti. La questione che si pone nel caso dell’essere umano – e quindi nel caso della psicosi – è quindi fino a che punto questo essere sia macchina determinista, oppure se ci sia in lui un’angolatura di libertà, la possibilità di una scelta non determinata, arbitraria. Ed è, secondo me, questa l’alternativa di cui dobbiamo assolutamente liberarci: cessare di essere incastrati tra un meccanicismo determinista da una parte e uno spiritualismo che ruota sempre attorno al perno della libertà dall’altra. Parlo di uno spiritualismo “cattolico”, perché è il cattolicesimo soprattutto a credere nel libero arbitrio. E credo che la psicoanalisi, se correttamente intesa, dovrebbe aiutarci a uscire da questo cappio intellettuale. Per ricominciare, finalmente, a pensare.
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ggi esistono fondamentalmente tre approcci alla psicosi: il cognitivo scientifico, il fenomenologico-esistenziale, e lo psicoanalitico. Altri approcci possono essere visti come varianti o combinazioni di questi tre. Per approccio cognitivo scientifico intendo non solo le neuroscienze, ma le ricerche e teorie cognitive in generale che trattano del mentale usando le metodologie riconosciute nella scienza; e anche la psicologia evoluzionista, secondo la quale tutto
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ciò che è umano – anche la follia? – è frutto di un adattamento biologico di Homo sapiens. Tutto ciò che esiste come vita avrebbe una razionalità adattativa. Nell’approccio cognitivo scientifico includo anche la teoria dell’attaccamento, benché essa derivi, attraverso John Bowlby, dalla psicoanalisi. Questa teoria scommette sul fatto che siamo essenzialmente il prodotto della relazione tra noi e la nostra nutrice. Da una parte la determinazione da parte dei geni (psicologia evoluzionista), dall’altra la determinazione da parte della mamma – cosa che apre la questione spinosa di come queste due determinazioni si combinino, se non si escludono a vicenda. Trovo oscurantista attaccare a priori i programmi di ricerca cognitivi, solo perché applicano ai fatti umani i protocolli scientifici. Siamo ancora eredi delle guerre di religione, che sono state essenzialmente guerre tra monoteismi. Guerre che si basano sul presupposto che se il cristianesimo è vero l’Islam è falso, e viceversa. E tertium non datur. Questa mentalità teo-politica è passata al dibattito intellettuale moderno, per cui ci si schiera a priori per un approccio contro l’altro. Se sono uno psichiatra fenomenologico, allora il mio nemico sarà il neuroscienziato o il cognitivista; e viceversa. Non è penetrato nel pensiero occidentale moderno quel che Mao Tze-Dong chiamava “lasciar fiorire i cento fiori”. Non reggono confutazioni a priori degli approcci diversi o rivali, perché sarà solo il tempo a dirci quale approccio si rivelerà il più proficuo. È la storia, più che le nostre argomentazioni, quel che deciderà del successo di una linea intellettuale (anche se la storia include tutte le argomentazioni e contro-argomentazioni che si fanno). Così, attaccare le neuroscienze in generale perché non partono da una concettualizzazione freudiana è un fondamentalismo. Peraltro, molti neuroscienziati famosi si dicono freudiani, come ad esempio i premi Nobel Edelmann e Kandel, ma anche l’équipe di Parma di Rizzolatti famosa per la scoperta dei neuroni specchio. È stato proprio Freud, nel Progetto per una psicologia scientifica del 1895, a descrivere per la prima volta una
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rete neurale. E oggi le neuroscienze si basano completamente sul concetto di rete neurale. Nulla vieta alla ricerca neuroscientifica di trovare conclusioni convergenti con la psicoanalisi, e spesso ciò accade.4 La condanna pregiudiziale dell’approccio cognitivo (neuroscienze incluse) è una difesa di posizioni metafisiche umaniste.
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approccio fenomenologico ed esistenziale sostanzialmente tende a trovare senso alle cose umane (delle cose naturali non si interessa, se non per il senso che esse hanno per noi) riportandole alla Lebenswelt, al mondo della vita. Il fenomenologo esistenziale è particolarmente affascinato dalla follia, perché è per lui l’occasione per lanciare la sfida di rendere intelligibile ciò che per definizione sfugge all’intelligibilità umana comune, la psicosi. Il suo approccio non è paragonabile con quello scientifico, perché il fenomenologo, psichiatra o no che sia, non intende spiegare le vicende umane, e quindi nemmeno la psicosi, intende comprenderle, ovvero rivelarne il senso. Invece dell’Erklärung (spiegazione) scientifica, il verstehen (comprendere) interpretante. Wittgenstein direbbe che si tratta di due “giochi” diversi, quindi tra loro incommensurabili. Ma è interessante che invece vengano considerati approcci esclusivi, tra loro competitivi, come sarebbero due teorie scientifiche alternative. La comprensione deve lottare contro la spiegazione, e viceversa… Anzi, la ‘spiegazione’ viene biasimata anche moralmente dal fenomenologo in quanto farebbe dell’umano un oggetto, e quindi sarebbe già di per sé, ancor prima di elaborare delle tecnologie di management dell’umano, un atto di cosificazione dell’umanità, dove riprovazione filosofica e condanna morale e politica si intrecciano. 4 Ad esempio, si è insistito sul fatto che il concetto di reenter, sviluppato nel darwinismo neurale di Edelmann, è un modo di dare sostanza neurologica al concetto freudiano di Nachträglichkeit, après-coup.
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Perciò l’approccio fenomenologico si risolve in ciò che chiamerei la Grande Riforma della salute mentale. L’italiana legge 180, che intendeva distruggere ogni istituzione curante, è stata opera appunto di uno psichiatra fenomenologico, Franco Basaglia. La sottrazione del malato mentale alle istituzioni psichiatriche ha il senso quasi allegorico di una liberazione dell’umano-mondo-della-vita dall’oggettivazione scientifica: i manicomi sono visti come la faccia amministrativo-sanitaria dello sguardo di lince scientifico sull’essere umano, sguardo considerato di per sé alienante. Incastrata tra la spiegazione cognitiva (accusata di portare a una manipolazione tecnologica degli umani) e la comprensione fenomenologica (accusata di essere sostanzialmente oscurantista, anti-illuminista), dove e come si situa la psicoanalisi? È ben noto che Freud la voleva tutta inscritta nel campo della scienza – da qui la sua insistenza sul determinismo dei fatti psichici – ma sappiamo anche che in qualche modo Freud si auto-fraintendeva.5 Non a caso oggi la psicoanalisi è stata quasi definitivamente espulsa dal campo delle “scienze della mente”, perché non confutabile, quindi non scientifica.6 La psicoanalisi illustra un approccio che molti vorrebbero riportare alle scienze cognitive (come cercò di fare l’Ego psychology, e come cerca oggi di fare Peter Fonagy) mentre molti altri vorrebbero integrarla completamente nella comprensione fenomenologica del senso, ma credo che la psicoanalisi dovrebbe evitare questa alternativa come Scilla e Cariddi. Sperando che ce la faccia a filtrare, come Ulisse.
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a psicoanalisi non si distingue come una teoria che preferisce le cause psichiche alle cause organiche (ovvero ai processi cerebrali), perché anche il cognitivismo mentalista punta sulle cause psichiche. La specificità della psicoanalisi, rispet L’idea di un “auto-fraintedimento scientistico di Freud” viene da J. Habermas, Conoscenza e interesse, Laterza, Roma-Bari 1983. 6 È quel che pensava anche Lacan, citando Popper: Seminario del 15XI-1977. 5
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to alla psicologia cognitivista, consiste piuttosto nel mettere in questione il concetto stesso di “causa psichica”. Ovvero, propone una relazione complessa, ambigua, tra causa e senso. Georg Simmel aveva deriso le “causalità psicologiche”: se uno ha avuto un’infanzia dura piena di traversie, questo può causare l’indurimento del suo cuore, facendone un uomo egoista e cinico; oppure può causare una reazione opposta, facendone un filantropo che aiuta chi, come lui ha avuto, ha una vita dura piena di traversie. Ovvero, le cause psichiche non sono mai lineari, ma i processi, come direbbero i neuroscienziati, sono “distribuiti in rete”. Non c’è mai una causa di un assetto psichico – cosa che Freud significò col concetto di sovra-determinazione (Überdeterminierung). La relazione complessa tra causa e senso è espressa nel modo più eloquente dal concetto di Nachträglichkeit, di après-coup, nozione freudiana che Lacan ha avuto il merito di dissotterrare, liberandola dalla negligenza di traduttori e commentatori. Ci sono varie interpretazioni di questa nozione – tra gli analisti IPA la più accreditata è quella di Jean Laplanche.7 Nozione che è impossibile suturare, perché essa esprime una basilare incertezza tra la causa e il senso. Essa dice una fondamentale esitazione della psicoanalisi, che ne è anche la forza. Sostanzialmente l’après-coup è il rapporto non diretto che esiste tra un evento (per lo più un trauma) e un sintomo: non possiamo dire che quell’evento causi quel sintomo. Ci vogliono almeno due eventi in successione: il secondo evento dà un senso al primo, permettendogli così di dare forma al sintomo, o viceversa. Come si vede, c’è una sorta di circolarità tra evento e senso, che indubbiamente disturba un certo razionalismo psicologico. 7 Che ho commentato e criticato in L’après-coup, après coup, European Journal of Psychoanalysis, 2020, http://www.journal-psychoanalysis.eu/ lapres-coup-apres-coup-a-proposito-di-jean-laplanche-problematiques-vilapres-coup-puf-paris-20061/. Per una discussione sull’après-coup, vedi European Journal of Psychoanalysis, http://www.journal-psychoanalysis.eu/ category/ejp/discussions/apres-coup-discussions/. Cfr. A. Campo, Tardività, Mimesis, Milano 2018.
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Tutti ammettiamo che un senso possa essere causa di azioni e comportamenti umani. Se vado in Siria a combattere per l’ISIS, questo è perché prima ci sono state esperienze di senso: la mia educazione mussulmana, la mia conversione al fondamentalismo islamico, ecc. Ma con l’après-coup la psicoanalisi ci dice che un senso non è mai causa diretta di atti o sintomi: occorre che il senso rilanci un evento perché esso possa causare qualcosa dell’ordine dell’atto o del sintomo. Questo anche nella psicosi. La psicoanalisi non la spiega né la comprende, ma fa giocare tra loro spiegazione causale e comprensione interpretante in un loop in cui non c’è prima la causa e poi il senso, o viceversa. Molti psicoanalisti recepiscono ciò che Freud o altri analisti dicono della psicosi come una teoria etiologica tra le altre. Invece, quel certo assetto di senso o di non-senso che lo psicotico trova deriva da eventi che a loro volta implicano un certo assetto di senso e di non-senso. Per questa ragione l’approccio psicoanalitico alla psicosi può essere compatibile con varie ipotesi eziopatogenetiche: può ammettere che “si nasce psicotici” per una certa configurazione congenita della propria mente, che “la mamma rende pazzi” col suo comportamento psicotizzante (come nella teoria di Gregory Bateson del double bind), che alcuni eventi traumatici deviano la linea di sviluppo psichico, ecc. Qualunque sia la teoria esplicativa che si preferisce, da psicoanalisti si tende sempre a ricostruire una successione tra eventi che spostano continuamente il rapporto tra causa e senso.
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opposizione tra determinismo e libertà è un’opposizione essenzialmente metafisica che andrebbe profondamente rivista. Ora, nel nostro uso linguistico, “libertà” è un concetto relativo, ovvero si è liberi da... qualche cosa. Solo i filosofi e i teologi possono parlare di una libertà da qualsiasi cosa, come la libertà assoluta, senza limiti, celebrata da Sartre. Se esco di galera, posso dire di essere libero nel senso che posso fare delle cose che prima, in galera, non potevo fare. Ma se dopo essere
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uscito di prigione vado a fare sesso con una donna, per esempio, posso vedere questo mio atto “libero” come determinato dalle mie pulsioni sessuali, le quali sono pur sempre radicate in condizioni fisiologiche, in particolare ormonali, precise. A qualsiasi atto “libero” posso trovare determinazioni. Se l’asino di Buridano sceglie il mucchio di fieno a sinistra piuttosto che quello a destra, mettiamo, posso sempre spiegare questa scelta facendo ricorso a cause di varia natura, dato che due cose non sono mai perfettamente uguali. Ad esempio, posso scoprire che il cervello di quell’asino gli detta una preferenza per oggetti situati alla sua sinistra. Oppure che la forma del mucchio di sinistra è connesso nella sua mente a forme più “buone” rispetto a quello di destra. Ecc. Se accetto la sfida determinista, anche se posso non trovare delle cause determinate, posso comunque sempre ipotizzarle. La spiegazione scientifica fa retrocedere continuamente la libertà, cancellandola nel mare delle determinazioni. Ma d’altro canto anche un determinismo assoluto non sutura, perché la catena (o meglio la rete) delle cause è una catena (o rete) che va verso l’infinito. Ad esempio, la cosmologia contemporanea ci assicura che il nostro universo è ciò che risulta da un’esplosione ancora in corso, e che questa esplosione ha avuto un’origine nel tempo, il Big Bang. Ma questa non può essere la spiegazione ultima, perché a sua volta occorrerebbe spiegare perché questo Big Bang è avvenuto, e l’universo condensato in un pisello che era prima di questo Big Bang è un oggetto singolare, nel quale non possono valere le leggi della fisica che oggi accettiamo. Insomma, la determinazione delle cause va verso un evento, che se fosse irriducibile avrebbe il senso di una creazione ex nihilo. Anche il determinismo non può essere assoluto, è sempre “regionale”. È credo quel che intendeva Wittgenstein quando diceva che tutte le proposizioni della fisica sono incomplete;8 il determinismo stesso è incompleto. Non tanto perché – come si 8 Wittgenstein and the Vienna Circle, Conversations recorded by F. Waismann, Basil Blackwell, Oxford 1979, p. 101.
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dice troppo spesso – la meccanica quantistica descrive fenomeni indeterminati (per esempio, che non si può determinare allo stesso tempo la posizione e la velocità di una particella). Per questa fisica alcuni eventi sono senza causa – per esempio, il tempo in cui una particella alfa abbandona un nucleo atomico (se vi si trovasse una causa, la teoria quantistica verrebbe confutata). Ma il carattere non-causale di certi fenomeni è forse solo la spia del fatto che il determinismo non può mai arrivare al fondo, e credo che oggi sia lungi dal raschiare il fondo del barile. Come la libertà, anche il determinismo è un concetto relativo: ogni cosa è causata da un’altra, certo, ma non possiamo dire che Tutto ha una Causa Prima, come il Motore immobile di Aristotele. Perché usciremmo dalla fisica ed entreremmo nella metafisica. La fisica va verso la metafisica senza raggiungerla mai, come Achille non raggiunge mai la tartaruga nel sofisma di Zenone.
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ensiamo all’imbarazzo degli psichiatri sensibili quando vengono chiamati a perizie psichiatriche. Il nostro sistema penale considera non punibile il malato mentale, per cui lo psichiatra deve pronunciarsi sull’esistenza o meno di malattia mentale in un dato caso, ma è proprio questa malattia ciò che la psichiatria oggi vede come più che mai problematico. In effetti oggi il concetto stesso di “patologia mentale” – mental disorders li chiama il DSM-5 – appare sempre più difficile da definire, ragion per cui stiamo assistendo a una crisi della psichiatria nel suo insieme, forse al suo sfaldamento. Non a caso si parla oggi di “igiene mentale”, come concetto alternativo a quello di psichiatria. Ciò che avevamo catalogato come patologico appare sempre più come variante di un ventaglio di possibilità umane di essere. È il concetto di malattia mentale – per molti il concetto di malattia in generale – a non essere più indiscutibile. Ad esempio, va sempre più in crisi il concetto di autismo come malattia mentale, dato che, secondo alcuni, l’autismo è una gra-
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dazione continua, ognuno di noi è più o meno autistico, così come ognuno di noi è più o meno alto. È l’essere nano o gigante una patologia? Il nostro sistema penale parte da un principio incompatibile con quello della psichiatria più sofisticata: che un atto è delittuoso se chi lo commette è sano di mente, ovvero è libero di scegliere. Ma questa libertà di scelta può essere messa sempre in discussione. Anche se non tecnicamente malato mentale, un soggetto che commette un reato può essere determinato dalla propria classe sociale, ad esempio (se viene da una famiglia di criminali, è probabile che anch’egli sarà criminale), dalla povertà, da supposti condizionamenti culturali, ecc. La libertà di un atto può essere sempre messa in questione, nella misura in cui siamo presi in una rete di determinazioni di ogni tipo. Ma anche l’inverso è vero: può essere un soggetto così “automa” da commettere atti di cui sarebbe del tutto irresponsabile? Non c’è tutta una metafisica antropologica depositata nell’idea che un malato mentale sarebbe come una macchina che obbedisce a comandi interni? La non punibilità del cosiddetto malato mentale non è un modo di privarlo della sua dignità umana, ovvero del riconoscimento di un margine di deliberazione?
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a verità è che la psicosi resta un mistero. E proprio per questa ragione è stupida arroganza rigettare un approccio qualsiasi a essa sulla base di una qualche visione antropologica predeterminata. Il fatto che la psicosi sia un mistero non toglie che la si possa conoscere meglio, e soprattutto che sia possibile convivere con essa. Oggi non si punta tanto a una cura (treatment) della psicosi, quanto a un prendersi cura (to take care) dello psicotico che renda possibile la convivenza tra lui e chi non lo è (o crede di non esserlo). Non c’è bisogno di conoscere le vere cause della follia per stabilire un rapporto più felice con gli psicotici.
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Sergio Benvenuto
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Quando negli anni 1970 andai a visitare il manicomio di S. Maria della Pietà a Roma, alcuni medici mi dissero che secondo loro il miglior psichiatra di tutto l’ospedale era la barista, Marisa. Costei stabiliva con ciascun psicotico il rapporto ottimale, giusto, articolava bene l’antifrasi a ogni frase psicotica. Lo psichiatra è chiamato a essere come Marisa: il suo sforzo non può che andare nel senso di rendere la follia socialmente ammissibile, e di aiutare il soggetto a convivere con la propria follia. Così bisogna assumere che la psicosi è anche un diritto, la sua accettabilità è un’arte.
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e scienze cognitive, la fenomenologia esistenziale e la psicoanalisi non sono tre “programmi di ricerca” tra loro in competizione. “Programmi di ricerca” è il nome che Imre Lakatos9 dette a ciò che più comunemente si chiama “paradigmi” scientifici: presupposti fondamentalmente diversi che competono per la supremazia nelle comunità scientifiche. I tre approcci alla psicosi non sono paradigmi scientifici, perché la fenomenologia si vuole sostanzialmente anti-scientifica, e la psicoanalisi evidentemente ha la forma della scienza, senza averne la sostanza. Si tratta di tre diversi modi di mettersi in relazione con la psicosi. Si prenda un mal di denti. Un approccio scientifico a esso consisterà nell’individuare la carie che causa il dolore. Un approccio fenomenologico consisterà nel descrivere, attraverso la riduzione trascendentale, il modo in cui il dolore cambia la relazione fondamentale del soggetto col proprio corpo, col mondo circostante che diventa così “dolorante”, ecc. L’approccio psicoanalitico si soffermerà invece su come questo mal di denti si inserirà nell’assetto significante dell’inconscio del soggetto: per cui costui lo vivrà inconsciamente come punizione per una col9 I. Lakatos, La metodologia dei programmi di ricerca scientifici, Il Saggiatore, Milano 2001.
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pa, ad esempio, o come rivalsa dell’Altro invidioso, ecc. Non si tratta quindi di teorie alternative in competizione, ma di tre modi di con-vivere con – o vivere-senza – il mal di denti. E così anche nel caso della psicosi. La quale mi pare che si caratterizzi per il suo carattere eminentemente socio-distonico (a differenza dell’ego-distonia nevrotica e dell’etero-distonia perversa). Ad esempio, quando Lacan connette la psicosi con una forclusion, pignoramento, del Nome-del-Padre, dobbiamo prendere questa sua idea come una teoria eziopatogenetica della psicosi, da contrapporre ad altre? Ad esempio, a una teoria dell’ereditarietà genetica della malattia mentale? Solo in apparenza quella di Lacan è una teoria eziologica, perché è in realtà un modo di descrivere la relazione del soggetto psicotico con l’ordine significante. La psicoanalisi non si chiede, nel caso del presidente Daniel Paul Schreber, quale sia stato il suo rapporto concreto con il suo famoso padre, il pedagogista Gottlob Moritz Schreber,10 non si chiede essenzialmente come quel padre abbia causato la psicosi del figlio (ammesso che l’abbia causata): si interroga sul fatto che una figura eminentemente simbolica come Dio irrompa drammaticamente nel reale del soggetto, stabilendo con lui una relazione carnale. Il pignoramento del Nome-del-Padre risulta essere insomma ciò che manca a Schreber per mantenere separati simbolico e reale, dato che il delirio è proprio questo abbattimento del confine tra simbolico e reale. La teoria di Lacan non è insomma un’ipotesi scientifica, che va verificata o falsificata, ma è un certo modo di descrivere lo scacco di una simbolizzazione ‘normale’, quella che ci consente di recepire il senso puramente metaforico delle simbolizzazioni. Le teorie psicoanalitiche hanno un alone esplicativo, ma sono ricostruzioni storiche della vita soggettiva.
10 Come fece invece M. Schatzman, La famiglia che uccide, Feltrinelli, Milano 1973: secondo lui, tutti i temi del delirio del presidente Schreber derivano dai sistemi di correzione educativi del famoso padre.
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Sergio Benvenuto
10.
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V
a detto che la stessa nozione di psicosi non va più da sé, dato che le nosografie del mainstream non la considerano più come tale. Questo è il segno della marginalizzazione della psicoanalisi oggi: all’epoca di Freud come in quella di Lacan, fino agli anni 1980, la nosografia della psicoanalisi coincideva sostanzialmente con quella della psichiatria allora dominante, oggi non è più il caso. Il DSM-5 considera lo “Spettro della schizofrenia e altri disordini psicotici”, mentre le classiche paranoie sono relegate in una sezione del tutto diversa, “Disordine generale della personalità”, e la malinconia – il termine non viene nemmeno più usato – è ridotta a “Disordine depressivo”. L’unità delle varie psicosi su cui si basava la teoria psicoanalitica delle psicosi (schizofrenie, paranoie, psicosi maniaco-depressiva) è ormai spezzata. Va detto che la psicoanalisi del secolo scorso fondava le proprie interpretazioni sulla nosografia psichiatrica dell’epoca, post-kraepeliniana, senza tentare una vera critica di questa nosografia. Diciamo che la adottava a scatola chiusa. Ma l’unità delle psicosi, di fatto, faceva problema anche prima che essa venisse spezzata, anche se l’analista si fidava del modo in cui gli psichiatri etichettavano. Là dove c’è delirio o confusione mentale è facile parlare di psicosi, ma possiamo mettere tra le psicosi le sindromi bipolari? Gli stati maniacali possono essere molto gravi, molto disturbanti, ma cosa ci autorizza a vedervi un’unità di fondo con le altre psicosi? Quanto all’autismo, assimilato esso stesso a una psicosi, è sempre più evidente oggi che si trattava di un errore – io sono tra coloro che sostengono una divaricazione fondamentale tra autismo e psicosi classiche.11 Insomma, è cessato il consensus tra psichiatri come tra psicoanalisti, da qui la problematicità di parlare oggi di psicosi in generale.
11 Cfr. S. Benvenuto, L’autismo, una battaglia persa della psicoanalisi, «Psychiatry On Line», 15 luglio 2018, http://www.psychiatryonline.it/ node/7494.
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“Diventa lo psicotico che tu sei”
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11.
I
nfine, va commentato il testo di Lacan da cui la frase “insondabile decisione dell’essere” è stata presa. Ne riporto il paragrafo:
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Infine, credo che nel rigettare la causalità della follia in quella insondabile decisione dell’essere in cui esso comprende o disconosce la sua liberazione, in questa trappola del destino che lo inganna su una libertà che non ha affatto conquistato, non formulo null’altro che la legge del nostro divenire, quale viene espressa dalla formula antica: γένοι’ οίος έσσί.12
La frase greca è presa da Pindaro, e significa Diventa ciò che tu sei (Pyth., II, 72). Nel 1946 Lacan si opponeva alla teoria detta organo-dinamista, ovvero organicista, della follia, in quanto questa vedeva la psicosi come effetto di una lesione funzionale che impediva al soggetto di esercitare la propria libertà. Qui Lacan sembra mettere in evidenza – sulla scia di Hegel e della fenomenologia filosofica – la dialettica tra libertà e servitù, che vede in atto in qualsiasi soggettività umana. Egli non aveva ancora elaborato l’idea di un meccanismo specifico della psicosi che chiamerà forclusion, e quindi l’idea di una separazione in qualche modo netta tra psicosi e non-psicosi. All’epoca la follia gli appariva invece come una possibilità intrinseca a ogni soggettività umana. Per cui scrive «Lungi dall’essere [la follia] per la libertà “un insulto”, essa è la sua più fedele compagna, essa segue il suo movimento come un’ombra»,13 per concludere: «E l’essere dell’uomo, non soltanto non può essere capito senza la follia, ma non sarebbe l’essere dell’uomo se esso non portasse in lui stesso la follia come limite della propria libertà».14 J. Lacan, Ecrits I, cit., p. 177. Ivi, p. 175. 14 Ibidem. 12 13
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Sergio Benvenuto
Ovvero, la stessa libertà umana va pensata sullo sfondo del limite della follia, come ciò che in qualche modo la costituisce. C’è una dialettica insomma in cui la libertà umana si implica con la servitù. Non a caso più in là Lacan evoca la dialettica hegeliana del padrone e del servo, e dice: «Questo vuol dire che in questo movimento che conduce l’uomo a una coscienza sempre più adeguata di se stesso, la sua libertà si confonde con lo sviluppo della sua servitù».15 È infatti il servo hegeliano a giungere a un livello superiore, rispetto al padrone, della coscienza di sé. Insomma, Lacan non vuol dire semplicemente che da qualche parte “si sceglie” la follia, ma che la follia è una possibilità profondamente inscritta nel rapporto dell’uomo con il proprio ideale e con il mondo, rapporto a cui ascriviamo una dimensione di libertà. Servitù e libertà, hegelianamente, si implicano. Da qui l’ambiguità del “diventa te stesso” ripreso dagli Antichi: non si può diventare altro da ciò che si è, ma per altri versi lo si può anche non diventare, da qui la necessità di una prescrizione etica, quella di divenire proprio ciò che si è. Così, in una fase del suo pensiero in cui Lacan si inscrive ancora nel progetto fenomenologico, egli sfuma certi presupposti della fenomenologia stessa, concependo la follia come disconoscimento e infatuazione del soggetto. Forse, possiamo anche leggere l’intero arco del pensiero lacaniano come un long goodbye dalla fenomenologia.
Ivi, p. 181.
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Matteo Bonazzi Decidersi
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Perché la follia? E perché essa, la follia, il pensiero dell’amicizia a venire, dovrebbe essere il destino del pensiero?1
Il problema della decisione appartiene al registro dell’esperienza cosciente. Classico problema interno al discorso cognitivo, affrontato attraverso le strategie di problem solving o di valutazione incrociata delle possibilità, la questione della decisione rimanda da sempre alla dimensione etica dell’esperienza soggettiva, in particolare all’interno del campo di riflessione esistenziale, da Pascal fino a Sartre, passando per Kierkegaard e senz’altro Heidegger. Dunque, è tema centrale sul piano tanto della coscienza cognitiva quanto della responsabilità etica. Ma come provare a intendere lo statuto della decisione, se invece si parte da tutt’altro campo, quello del soggetto inconscio e dell’esperienza psicoanalitica? Si tratta, evidentemente, di mettere tra parentesi tanto la coscienza quanto la responsabilità così come normalmente le intendiamo. Eppure, stando proprio a quanto l’esperienza dell’analisi ci insegna, forse si tratta di provare a interrogare a un altro livello tanto la decisione quanto la responsabilità e, perché no, il corrispettivo della coscienza che in analisi potrebbe essere pensato nei termini di quella consistenza, intensità o densità che in alcuni momenti, diciamo velocemente di prossimità all’oggetto, il soggetto avverte. Ad esempio, nella parola piena, come nell’affetto d’angoscia, che appunto per Lacan non mente, o anche nella commozione dovuta alla gioia come alla vergogna. Ma anche proprio quando il soggetto arriva 1 J. Derrida, Politiche dell’amicizia, tr. it. G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1995, p. 42.
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Matteo Bonazzi
infine a decidersi per una o l’altra delle alternative esistenziali che lo interrogano. In questi casi, si tocca qualcosa del reale e il soggetto avverte che sta stringendo l’oggetto da cui è costituito, si ha co-scienza, non senza l’altro, dell’esistenza, si ex-siste nel modo che è proprio all’esperienza dell’inconscio, diversamente da quanto l’analitica dell’esserci può insegnarci: si è qui e là, fort:da, non dispersi né ritrovati, ma decisi, e per questo responsabili, nel punto di parzialità assoluta che ci contraddistingue singolarmente.
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1. L’insondabile decisione dell’essere
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ella sua opposizione teorica all’organicismo in quel momento imperante in ambito psichiatrico, Lacan costruisce, sulla scorta del concetto sartriano di scelta originale ingiustificabile e contingente, come ha ben mostrato Clotilde Leguil nel suo Sartre con Lacan,2 la dimensione della decisione inconscia a fondamento della posizione soggettiva. Non volendo precipitare da un opposto all’altro, tra il determinismo organicista e il decisionismo fenomenologico-esistenziale, Lacan propone una terza via: la causalità psichica è irriducibile tanto alla logica scientifica della spiegazione quanto a quella umanistica della comprensione – si tratta di un «esercizio di comprensione al servizio della spiegazione».3 Ma lasciamo senz’altro a lui la parola: Credo infine che rigettando la causalità della follia in quell’insondabile decisione dell’essere in cui questo comprende o misconosce la propria liberazione, in quel tranello del destino che lo inganna su una libertà che non ha affatto conquistato, non faccio altro che formulare la legge del nostro divenire, com’è espressa dall’antica formula: Γένοι΄, οϊος έσσί.4 2 C. Leguil, Sartre con Lacan. Correlazione antinomica, relazione pericolosa, Quodlibet Studio, Macerata 2017, p. 34. 3 A questo proposito, mi permetto di rimandare al mio Paranoia. La personalità come idea paranoide, in Sogno Paranoia Godimento, a cura di F. Leoni – R. Panattoni, Orthotes, Napoli-Salerno 2017, p. 59. 4 J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Scritti, a cura di G.B. Contri, tr. it. di G.B. Contri, Einaudi, Torino 2002, p. 171.
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È in gioco una liberazione. Se si segue Lacan nel mantenere sempre la posizione di soggetto anche nella psicosi, se, cioè, si concorda nel sostenere che «la psicoanalisi, irrealizzando il crimine, non disumanizza il criminale»,5 allora la psicosi, presa come decisione, è una questione eminentemente politica.6 Perché mai si tratterebbe di liberarsi? Da che e in che modo? Il soggetto è sempre un soggetto a: prima ancora di nascere ed emettere il primo vagito, siamo inscritti all’interno del discorso dell’Altro. Prima viene il discorso dell’Altro, cioè quelle che in seguito chiameremo il nostro inconscio, poi si viene al mondo. Parlati, prima ancora che parlanti, e per questo marchiati, sul corpo, dalle parole che hanno accompagnato i pensieri, i desideri, le frustrazioni di chi, appunto, ci ha atteso. Questo è l’inconscio, strutturato come un linguaggio, scoperto da Freud e ritrovato da Lacan. Non una supposta profondità misteriosa che ci abiterebbe nell’interiorità più intima di noi stessi, ma proprio il campo di uno psichismo esteso in cui siamo situati dall’Altro. Questa condizione di soggetto a, come ora si comprenderà bene, chiama a una liberazione. Politicamente, il soggetto è strutturalmente assoggettato all’Altro, al suo discorso, al suo sapere, alla sua verità. Liberarsi significa, da questo punto di vista, arrivare a rovesciare il vettore e passare da soggetti a a soggetti di.7 Esser-soggetti del proprio assoggettamento, questo in fondo è il primo tempo di ogni analisi: scoprire che in noi parlano i ricordi, le voci, i pensieri di molti altri che hanno detto di noi prima di noi. Ora, nel solco di questa via di liberazione Lacan situa anche l’esperienza analitica: da Pindaro a Nietzsche, da Freud a Lacan, si tratta di diventare ciò che si è. Paradosso per cui quel che si è non è semplicemente ciò che è sempre stato, ma proprio ciò che ha da avvenire. Affinché avvenga il nostro essere, bisogna, da 5 J. Lacan, Introduzione teorica alle funzioni della psicoanalisi in criminologia, in Scritti, cit., p. 129. 6 Sul legame tra psicosi e politica, rimandiamo senz’altro a E. Laurent, La battaglia dell’autismo. Dalla clinica alla politica, Quodlibet Studio, Macerata 2013. 7 Prendo a prestito questa articolazione da C. Sini, Etica della scrittura, Mondadori, Milano 1992, pp. 215-216.
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un certo punto di vista, tradire il proprio essere: perché nell’essere che parla c’è da sempre una divisione dovuta al fatto che si parla e che parlando l’essere si perde e si guadagna su un altro registro, il discorso. Tale divisione fa sì che il nostro essere sia attraversato da una mancanza che non ci espone semplicemente al non-essere ma, propriamente, al non realizzato.8 Questa è propriamente la dimensione più interessante dell’inconscio di cui parla Lacan. Nel mio essere c’è sempre, per il semplice fatto che parlo, un che di non realizzato, che non si riduce semplicemente a quel che non sono, perché, in quanto non realizzato, spinge l’essere a divenire altro da sé, a divenire, a questo punto forse più chiaramente, ciò che si è. Dunque, l’inconscio non è semplicemente non-cosciente, quel che io non so di essere, ma, più precisamente, ciò che nel mio essere è un da-essere, un più-di-essere proprio perché mai stato, non realizzato. La liberazione passa allora su questa soglia: non si tratta di diventare qualcun altro o di essere ciò che non si è mai stati, ma propriamente di andare verso ciò che nel mio essere si custodisce come non-realizzato, come inconscio, appunto: quel che nel discorso dell’Altro da cui sono fatto si è scritto sul rovescio della sua linea dominante – il mio non-realizzato di quel che sono, o forse, ancora meglio, ciò che in quel che sono vi è come mancante La famosa mancanza-a-essere, che caratterizza per Lacan il soggetto in quanto parlante, non è così da intendere soltanto come effetto del significante che uccide la Cosa, l’essere, ma come una scrittura che traccia nell’essere ciò che vi è senza esserci, come dice bene Alenka Zupančič: «La mancanza del rapporto sessuale è reale nel senso che, in quanto mancanza e negativo, è dentro a tutto quello che c’è e ne determina la struttura e la 8 «Quello che anzitutto si è mostrato a Freud, agli scopritori, a coloro che hanno fatto i primi passi, quello che si mostra ancora a chiunque nell’analisi adatti per un momento il proprio sguardo a ciò che è proprio dell’ordine dell’inconscio, è che non è né essere né non-essere, ma è del nonrealizzato», J. Lacan, Il Seminario. Libro xi. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1963-64, nuova ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, tr. it. di A. Succetti, Einaudi, Torino 2003, p. 30.
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logica in modo fondamentale».9 In questo senso, la scrittura che intaglia la Cosa esponendola all’abisso del non rapporto diventa politica: è una ferita, una negatività, un meno che attraversa da cima a fondo il legame sociale e dunque l’essere parlante. Tutto è politico in quanto tutto è sessuale: il che significa che fondamentalmente è non tutto. Ciò che si oppone a una piena soddisfazione come a una emancipazione totale dell’uomo non è altro che l’uomo stesso, la struttura dell’umano. La mancanza, da questo punto di vista, non è un difetto o una privazione che sopraggiunge all’essere, ma il reale stesso di tutto ciò che è – ovvero, di essere con-senza ciò che potrebbe realizzarlo pienamente. La logica, apparentemente paradossale, di questo con-senza è il luogo atopico dell’insondabile decisione dell’essere. Non si tratta, allora, di un’alternativa semplice: tra l’essere, che terrebbe il parlante attaccato alla Cosa materna rifiutando la castrazione richiesta dalla civiltà, e l’avere/non avere che articola l’esistenza nel campo dell’Altro. La decisione a cui fa riferimento Lacan è, piuttosto, tra una certa concezione dell’essere come ente e l’essere come differenza, potremmo dire. In fondo, tra la psicosi e la nevrosi ne va di una diversa modalità di supporre l’ontologia. La psicosi non è più vicina all’essere ma a una certa interpretazione dell’essere. Si tratta di una scelta ontologica. La scoperta freudiana della pulsione, come nocciolo reale dell’inconscio, «non può affatto limitarsi a una nozione psicologica – è una nozione ontologica assolutamente fondamentale, che risponde a una crisi della coscienza che, dato che la viviamo, non siamo obbligati necessariamente a cogliere pienamente».10 Si tratta allora di pensare Freud-Lacan contro Aristotele: puntare al risveglio dal sogno aristotelico11 di un essere preso come to A. Zupančič, Che cosa è il sesso?, tr. it. di P. Bianchi, Ponte alle Grazie, Milano 2018, p. 32. 10 J. Lacan, Il Seminario. Libro vii . L’etica della psicoanalisi, 1959-60, a cura di G.B. Contri, tr. it. di M.D. Contri, revisione e note di R. Cavasola, sotto la direzione di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1994, p. 162. 11 «Allucino nel mio sogno il risveglio sonante, lo considero un buon segno, poiché, contrariamente a ciò che dice Freud, si dà il caso che, io, mi risvegli. Almeno mi sono, in questo caso, risvegliato». J. Lacan, Le rêve d’Aristote, in Aristote aujourd’hui, Erès-Unesco, Paris 1988, p. 24, trad. mia. 9
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talità compiuta in se stessa e iniettare nell’ontologia la dimensione della sessualità, la differenza che si apre a partire dalla faglia, dalla ferita dell’Uno che, venendo al posto dell’essere, non può più essere ma piuttosto deve ex-sistere sdoppiandosi sempre in figura di Due. La decisione a cui Lacan allude, in ultima istanza, è tra due tradizioni: quella ontologica e quella henologica.12 Il che significa, evidentemente, decidersi tra due differenti programmi di civilizzazione. Se nel primo Lacan vede addirittura una perfetta continuità che dall’Accademia, passando per il Liceo, la Stoa antica, arriva fino al Boudoir di Sade, sotto l’insegna dell’universale che deve affermarsi attraverso la ragione che si fa poi scienza, nel secondo, invece, è la via etica che si tratta di recuperare. L’etica che per Platone indicava l’istanza dell’Uno a condizione di desiderarlo. Ed è sulla scia di questa seconda ontologia che Lacan ci mette in cammino, fino a tradurla nei termini di quella “ontalogia” (Hontologie)13 che indica, in fondo, nell’affetto riflessivo della vergogna, «mi accade di farvi vergogna»,14 la topologia del godimento che scrive il farsi stesso del soggetto. L’Uno ex-siste a condizione di incontrarlo sulla scia di un desiderio che, attraversata la soglia dell’oggettualità, prosegua senza oggetto fino a dare consistenza a quell’oggetto a che scrive, sul rovescio dell’Un-significante, la densità affettiva tra-due. È lì che, al12 «Questa scissione dell’essere e dell’esistere si è manifestata per Lacan quando è stato indotto a sondare il significante Uno, Uno con la maiuscola, sulla scia di ciò che aveva formulato, e financo esclamato nel Seminario XIX: Yad’lun! C’èdell’uno! A partire dal Parmenide di Platone, Lacan si inscriveva in una tradizione del tutto diversa dall’ontologia, e cioè nell’henologia, che è la dottrina dell’Uno», J.-A. Miller – A. Di Ciaccia, L’Uno-Tutto-Solo. L’orientamento lacaniano, Astrolabio, Roma 2018, p. 94. 13 «Morire di vergogna è un effetto ottenuto raramente […] L’essere per la morte, ossia quel biglietto da visita attraverso cui un significante rappresenta un soggetto per un altro significante […] Questo biglietto da visita non arriva mai a destinazione, per la ragione che per portare l’indirizzo della morte bisogna che questo biglietto sia strappato. È una vergogna, una onta, come dice la gente, che dovrebbe produrre una ontalogia [Hontologie] finalmente ortograficamente corretta», J. Lacan, Il Seminario. Libro xvii. Il rovescio della psicoanalisi, 1969-70, a cura di A. Di Ciaccia, tr. it. di C. Viganò e R.E. Manzetti, Einaudi, Torino 2001, p. 228. 14 Ivi, p. 244.
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lora, si dà decisione: atto puro, potremmo dire, che divide, separa a partire da una contrazione affettiva che si può dare soltanto nel tra-due. Sicché, non si decide tra due, come vedremo meglio in seguito, ma nel tra-due. Sul punto del trattino che separa e anche unisce i due, facendoli così non soltanto essere l’uno per l’altro, nella relazione dialettica, ma anche ex-sistere l’uno non senza l’altro, nella tensione affettiva. Questa tensione si chiama transfert, sicché la questione diventa cosa sia una decisione sotto transfert.
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2. Responsabilità dell’inconscio
L
a nozione di responsabilità, come si sa, ha un’origine latina e significa rispondere a qualcuno di qualcosa che si è fatto. Responsabile è il soggetto che risponde dei propri atti davanti a qualcuno, che risponde di sé davanti a un altro. Jacques Derrida – che in questo condivideva un comune sentire con Lacan – ha molto lavorato su questa dimensione di risposta che opera all’interno della nozione di responsabilità, specificando che l’altro a cui si risponde va però inteso non come un altro empirico, un individuo, ma come l’Altro della Legge e del linguaggio. Perché ci sia responsabilità, ci dev’essere risposta, ma c’è risposta soltanto davanti a “qualcuno che ha già cominciato a parlare”. La responsabilità presuppone l’Altro della Legge e del linguaggio. Se leggiamo radicalmente la nozione di responsabilità, ci rendiamo allora conto che essa non riguarda il mio rispondere individuale a un altro individuo, ma la risposta che il soggetto incarna, in quanto parlante, di fronte all’Altro – risposta di cui è responsabile. C’è soggetto a partire dalla risposta che noi diamo all’Altro: questa risposta, questo nostro “dire di Sì” all’Altro, prima ancora di proferire qualsiasi parola, è la stessa condizione di possibilità del soggetto, al di là di ogni suo ideale di autonomia e padronanza. Potremmo allora dire: soggetto è colui che ha già sempre risposto di sì all’Altro. Da questo punto di vista, la responsabilità è strutturalmente inconscia e precede ogni possibile coscienza soggettiva. Il soggetto è responsabile non là dove sa quel che dice, dove è auto-
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cosciente, ma proprio là dove questa certezza di sé viene meno: solo allora l’atto soggettivo, non più garantito da un sapere dato di cui saremmo in possesso e che motiverebbe pienamente il nostro operato, raggiunge realmente la propria responsabilità. Nel testo freudiano, la questione è posta in particolare rispetto alla responsabilità morale per il contenuto dei sogni.15 Fino a che punto possiamo ritenerci moralmente responsabili per il contenuto dei nostri sogni? Freud, nel rivolgere a se stesso questa domanda, tende a proporre, ancor prima di una risposta, una questione di metodo: la responsabilità, se inconscia, non può che riguardare il contenuto latente dei sogni. Se c’è responsabilità dell’inconscio, questa concerne senz’altro il contenuto latente che l’interpretazione porta alla luce liberandolo dalla copertura di quello manifesto. La responsabilità dell’inconscio non è immediata: chiama in causa la mediazione del lavoro analitico dell’interpretazione. Potremmo allora dire, con Freud, che c’è una responsabilità inconscia dell’interpretazione (genitivo soggettivo). È l’interpretazione che può arrivare a isolare il contenuto inconscio di cui, nella drammatizzazione onirica, possiamo essere responsabili. È l’interpretazione, ancora una volta, ad avere una responsabilità nei confronti degli effetti inconsci che potrà o meno produrre. Effetti che potranno manifestarsi, nella loro portata inconscia, soltanto après coup. Tanto più ci avviciniamo alla dimensione propria della responsabilità inconscia quanto più incontriamo però notevoli difficoltà. Infatti, se la responsabilità dipende dall’interpretazione, lo statuto stesso di un’etica dell’inconscio sembra sgretolarsi nell’infinità delle interpretazioni possibili che l’ermeneutica ci ha insegnato a postulare di fronte a ogni fenomeno. Torniamo così dalla Responsabilità morale per il contenuto dei sogni alla prima “Aggiunta” di Freud: I limiti della possibilità d’interpretare. 15 Si tratta di una delle tre Aggiunte d’insieme alla ‘Interpretazione dei sogni’, insieme a I limiti della possibilità d’interpretare e Il significato occulto dei sogni, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. X, pp. 149-164.
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L’interpretazione ha un limite che mette fine al rilancio metonimico della semiosi infinita proprio perché non ha a che fare soltanto con segni, ma si orienta verso il reale. La psicoanalisi non è un’ermeneutica, come anche Lacan sosteneva contro Ricoeur16: ha un’etica proprio in quanto non è una prassi riducibile al mero gioco linguistico del senso e del significato. C’è un limite all’interpretazione, un limite interno, che è dato proprio da quei due casi limite dell’esperienza onirica che Freud individua nei sogni profetici e telepatici. Il limite reale che blocca la semiosi infinita e apre l’esercizio dell’interpretazione alla sua etica, chiama in causa la terza “Aggiunta”, Il significato occulto dei sogni. Leggiamo un breve estratto: Sembra che vi siano due categorie di sogni ascrivibili ai fenomeni occulti: i sogni profetici e quelli telepatici. In favore di entrambi si esprime una massa innumerevole di testimonianze; contro di essi si erge l’ostinata ripugnanza o, se volete, il pregiudizio negativo della scienza [...] Sarebbe bellissimo, se con l’aiuto della psicoanalisi, riuscissimo a ottenere informazioni più ampie e precise sulla telepatia.17
Se superiamo i «pregiudizi negativi della scienza» e dello scientismo, troviamo occasione di mettere un limite alla semiosi infinta delle interpretazioni a cui l’ermeneutica ci abbandona. Il caso limite di quei sogni «ascrivibili ai fenomeni occulti» fa segno verso ciò che, in ogni sogno, funge da limite reale all’esercizio dell’interpretazione, orientandola eticamente. Il limite è etico e interrompe il rilancio infinito della metonimia significante in virtù di un desiderio, quello dell’analista, che punta a «ottenere la differenza assoluta, quella che interviene quando, confrontato con il significante primordiale, il soggetto giunge per la prima volta in posizione di assoggettarvisi».18 È proprio perché l’analista, in posizione di sembiante d’oggetto, incarna la differenza as Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro xi, cit., p. 149. S. Freud, Il significato occulto dei sogni, cit., pp. 161 e 164, passim. 18 J. Lacan, Il Seminario. Libro xi, cit., p. 271. 16 17
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soluta prodottasi tramite la sua analisi che può limitare la semiosi infinita dell’interpretazione, avendo di mira non un desiderio “neutro” ma orientato, appunto, verso la differenza assoluta del soggetto. Di nuovo, è questione di decidersi tra un’ontologia e l’altra: l’essere o la differenza. E, scelta la differenza, inventare il modo etico di abitarne la contraddizione interna che porta l’Uno a darsi sempre in figura di Due. Come intendere, allora, questa dimensione “occulta” del limite, se non ritornando nuovamente alla nostra frase di partenza: l’insondabile decisione dell’essere. Nella decisione inconscia c’è qualcosa di “insondabile”. Non si tratta di un tratto irrazionale o folle, come in parte sottolinea Kierkegaard pensando ad Abramo e Isacco. Ma dell’attualismo insito in ogni decisione per cui l’atto di decidere eccede sempre le sue condizioni di possibilità e produce conseguenze che lo eccedono. Gli effetti sono sempre incalcolabili e vanno al di là di quanto nella decisione si sarebbe potuto anticipare. L’atto è l’Uno che ex-siste nella decisione alle sue conseguenze. Mantenere aperta l’eccedenza dell’atto rispetto alla serie delle cause e degli effetti è dunque un compito etico che necessita di un’altra ragione: per dirlo con Lacan, una ragione dopo Freud. Ma che cos’è l’occulto, per Freud? Lacan lo spiega prendendo la domanda a rovescio: «Che cos’è per Freud il Reale? Ebbene, oggi ve lo dirò: è proprio l’occulto. E lo è precisamente nel senso che egli considera come l’impossibile».19 L’impossibile è il limite, “occulto” per la scienza positiva come per l’ermeneutica del senso, che la psicoanalisi impone all’esercizio dell’interpretazione, orientandola eticamente verso il reale. C’è responsabilità dell’inconscio, allora, cioè responsabilità dell’interpretazione inconscia, perché la stessa interpretazione poggia su un punto cieco, non più ulteriormente interpretabile, che le scienze positive non possono spiegare e quelle ermeneutiche non possono comprendere: è il famoso “ombelico del sogno” di cui parla 19 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXI. Les non-dupes errent, 1973-74, inedito, lezione 11 dicembre 1973, trad. mia.
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Freud nell’Interpretazione dei sogni. Questo punto inafferrabile, questo “essere” privo di significato, questo buco nel sapere fuori senso, è il punto d’appoggio reale su cui e da cui si articola l’etica dell’interpretazione analitica. Leggiamo come Lacan ne valorizza la funzione parlando della tecnica della psicoanalisi: In un sogno, dice Freud, c’è sempre un punto assolutamente inafferrabile, che è del campo dell’ignoto – lo chiama l’ombelico del sogno. Non si sottolineano queste cose nel suo testo probabilmente perché ci si immagina che sia poesia. Ma no! Vuol dire che c’è un punto inafferrabile nel fenomeno, il punto di emergenza del rapporto del soggetto col simbolico. Io lo chiamo l’essere; ecco la parola che certamente non ci è accessibile nella posizione scientifica, ma la cui direzione ci è indicata nei fenomeni della nostra esperienza.20
Si vede bene da questo passaggio l’importanza che Lacan assegna all’ontologia, nonostante tutte le sue reticenze ad affermarlo esplicitamente. Certamente, bisogna che per “essere” qui s’intenda propriamente la differenza assoluta che, come appunto egli afferma appena prima, si segnala «nel punto di emergenza del rapporto del soggetto col simbolico». È propriamente un’anticipazione di quanto, come abbiamo visto, dirà più avanti rispetto al desiderio dell’analista. Detto altrimenti, ciò che più conta a livello dell’inconscio è proprio il suo ombelico, quel punto cieco in cui risuona la differenza assoluta del soggetto, la sua singolarità di cui soltanto, in ultima istanza, si tratta di essere responsabili. Possiamo così conquistare un secondo punto fermo: la responsabilità è la condizione stessa dell’esistenza dell’inconscio. Responsabilità del suo contenuto latente, responsabilità dunque 20 J. Lacan, Il seminario. Libro ii. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, 1954-55, a c. di G.B. Contri, tr. it. di A. Turolla, C. Pavoni, P. Feliciotti, S. Molinari, sotto la direzione di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1991, p. 137.
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dell’atto interpretativo che svela, rileva, dando senso e significato alle formazioni dell’inconscio, a partire però da un punto impossibile, fuori senso, un punto di reale che, in ultima istanza, ci ricorda che lo statuto dell’inconscio non è ontico, ma etico. Si tratta di ascoltare nel soggetto quel che è del soggetto e non è del soggetto: Ecco dov’è, nel sogno, l’inconscio – ciò che è al di fuori di tutti i soggetti. La struttura del sogno mostra a sufficienza che l’inconscio non è l’ego del sognatore [il quale] è letteralmente sgattaiolato via [...] svanito, riassorbito, abolito [...]. E infine un’altra voce prende la parola. [...] Potremmo chiamare Nemo questo soggetto fuori del soggetto che designa tutta la struttura del sogno. Sogno che ci insegna dunque che ciò che è in gioco nella funzione del sogno è al di là dell’ego; l’inconscio è ciò che nel soggetto è del soggetto e non è del soggetto.21
3. Decisione nell’esperienza analitica
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orniamo alla divisione da cui eravamo partiti. Se c’è un’ontologia dell’inconscio è quella che mette al posto dell’essere la Spaltung, la spaccatura come originaria. Ogni volta che il parlessere incontra tale spaccatura è sul punto della decisione. Si tratta, dunque, di tutt’altra esperienza rispetto a quanto possiamo dire della scelta a livello cosciente. Solitamente, ci troviamo a decidere tra una cosa o l’altra, tra una possibilità o l’altra. Si tratta di decisioni che ci pongono di fronte a possibilità che sono già presenti, per quanto non ancora realizzate. La decisione inconscia, invece, espone a qualcosa che ancora non c’è. E non solo perché afferisce a un altro ordine di possibilità rispetto a quanto il piano della realtà è in grado di offrirci. Prendiamo ad esempio la decisione a cui è sospeso un ragazzo o una ragazza in adolescenza, rispetto al suo futuro, alle scelte da prendere che orienteranno la sua vita ecc. Ci riflette, elabora strategie, soppesa le occasioni, ma soprattutto si confronta con una dimensione Ivi, p. 205, corsivi miei.
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della decisione che lo coinvolge integralmente. Non si tratta di scegliere tra una cosa e l’altra, tra quel che la realtà gli offre da una parte o dall’altra. Ma di decidere di sé. E la realtà non gli dice chi è, ma cosa può fare. Ma poi, a ben vedere, lo statuto della decisione inconscia è ancora più ampio. Non si tratta di decidersi per questa o quell’altra figura di sé, ma di esporsi a ciò che il soggetto stesso propriamente non può che incontrare come impossibile. Non una sua possibilità, una sua risorsa, una sua caratteristica, per quanto debole, ancora poco percorsa ecc. C’è decisione a livello dell’inconscio quando ci si rapporta a un non-realizzato, a ciò che per struttura è dunque fuori rapporto. La decisione inconscia espone all’impossibile ed è a partire dall’impossibile che prende consistenza. Ma che significa, allora, decidere a partire dall’impossibile? In questo può aiutarci ancora una volta Derrida: Un possibile che fosse solo possibile (non impossibile), un possibile sicuramente e certamente possibile, anticipatamente accessibile, sarebbe un cattivo possibile, un possibile senza avvenire, un possibile scartato, per dir così, sicuro della sua vita. Sarebbe un programma o una causalità, uno sviluppo, uno svolgimento senza evento. La possibilizzazione di questo possibile impossibile deve restare a un tempo tanto indecidibile, e quindi decisiva, quanto lo stesso avvenire.22
C’è decisione soltanto laddove ci si espone a ciò che per struttura chiameremmo più-che-possibile. Se si tratta di decidere tra una possibilità o l’altra, non è in gioco radicalmente la decisione, ma la scelta tra ciò che ancora non è ma appunto è possibile. La decisione è invece un atto che esponendo all’impossibile dischiude ciò che prima non poteva essere neppure immaginabile come possibile. Dunque, si decide non rispetto a ciò che non è possibile, ma a ciò che è più-che-possibile. Per questo, Derrida ricorda, riprendendo Kierkegaard, che la vera decisione avviene J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., pp. 42-43.
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sempre in un’istante folle. Qualcosa della follia accompagna per struttura la decisione autentica. Non perché sia irrazionale, ma perché espone a un’altra logica, una logica che prevede al proprio interno la (im)possibilità dell’atto. Ci sembra allora di poter finalmente arrivare a dire così: ogni qual volta si ripropone per il parlante che noi siamo l’insondabile decisione per l’essere o per il non-realizzato, ecco che accade qualcosa dell’ordine di una decisione inconscia. Il parlessere decide realmente quando è ricondotto lì, nel punto traumatico della sua Spaltung. Qui è in folle, appunto, non ha già davanti a sé le strade previste. Ed è da qui che l’esperienza dell’analisi lo fa ripartire. Si tratta di riprendere a partire dalla follia, dal punto dell’insondabile decisione. Ogni volta che il soggetto decide in analisi non lo fa senza l’Altro, eppure la decisione è tale proprio perché espone alla solitudine più radicale. Come sempre in analisi la questione è “chi parla?”23. E allora, potremmo domandarci: chi decide in analisi? Non decide il soggetto, non può farlo se si tratta, ogni volta, al fondo della sua decisione, laddove contatta ciò che è (in) folle, di decidere di lui, del suo statuto, della sua posizione. Non decide l’analista al posto suo, che da un certo punto di vista si limita a indicargli il luogo in cui si darebbe appunto decisione. Chi decide, dunque, se si tratta propriamente di decidere perché un chi possa esistere? La decisione ha statuto etico non perché la posta in gioco chiami in causa il bene o il male, ma perché propriamente dà luogo, fa ex-sistere il parlante. C’è parola, come domanda e come risposta, se ci siamo decisi a rompere il silenzio, potremmo dire. Se, di fronte all’Altro e alla sua chiamata abbiamo deciso di dire sì. Questo “dire sì” non è un enunciato che il soggetto può o meno proferire, ma è ciò che fa esistere l’enunciazione stessa. Il soggetto accade a partire dall’incontro con la castrazione nel luogo dell’Altro. Non c’è alcun soggetto se l’Altro è un tutto pieno. L’esperienza della madre saturante è da questo punto di J. Lacan, La cosa freudiana. Senso del ritorno a Freud in psicoanalisi, in Scritti, cit., p. 402. 23
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vista illuminante. Nella clinica come nella letteratura. Basti pensare al caso di Amleto, tutto preso, in una delle posizioni tra le altre che Lacan gli assegna, dal Desiderio della madre (genitivo soggettivo). Incastonato nel fantasma materno, si trova impossibilitato ad agire. Come fosse morto. Morto in quanto saputo nel desiderio dell’altro, saputo come oggetto di desiderio, appunto. Ebbene, castrazione significa qui decompletamento dell’Altro. Non tutto è nella madre e così, a catena, non tutto è nel sapere, nella catena significante, nel linguaggio, nell’universo… qualcosa cade fuori. Ma fuori dove, se il tutto in questione è appunto l’universo (del discorso)? Bisogna forzare la logica per cogliere che “il fuori è il dentro”, come scriveva Derrida barrando la copula o, per dire altrimenti, che l’universo si decompleta all’interno di se stesso diventando così una parte più grande del tutto. Ma su questo torneremo. Stiamo ancora sul chi di cui qui è ora questione. Dicevamo, bisogna che nell’Altro si faccia presente una mancanza, un buco, una crepa. A partire da ciò che lì viene ad attuarsi, qualcosa del soggetto può avvenire. Di fronte a questo abisso che chiama, il soggetto si trova solo a decidere: qui è l’insondabile decisione dell’essere che lo espone a un bivio radicale. Come sottolinea Derrida, perché il soggetto possa diventare il luogo etico della domanda, così come filosoficamente e in buona parte anche analiticamente siamo aiutati a pensarlo, bisogna che prima ancora egli abbia risposto all’Altro, precisamente dicendogli di sì. Questo sì è pre-originario, non bisogna dimenticarselo. Ed è a quel sì che si tratta per noi oggi di ritornare, se non si vuole perpetuare il lamento per il tramonto del soggetto e della sua capacità di domandare. Tornare a pensare e di conseguenza a creare le condizioni per poter offrire, come dice Lacan, ciò che può favorire l’emergenza di una domanda. Qui il filosofo e l’analista posso incontrarsi oggi, se colgono che la posta in gioco non è dialettica, ma pre-originaria come dice Derrida. Come favorire questo sì? Prima di tutto chiedendosi precisamente di che “sì” si tratta.
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Il sì pre-originario è il punto traumatico di insorgenza del soggetto individuato da Lacan a differenza di Freud, o forse, per meglio dire, portando la pratica che Freud ha inventano alle sue estreme conseguenze. A che cosa si tratta di dire sì. Non all’Altro, a quel che ci propone, alla sua offerta, ma alla sua mancanza. Dire sì, dunque, non all’essere ma al désêtre: a quel deserto che si «scorge quando si fissa negli occhi un uomo: [si tuffa allora il proprio sguardo] in una notte che diventa terribile, è la notte del mondo quel che [allora] a noi si presenta».24 È per proteggersi dall’abisso del disessere che si decide appunto per l’essere. Ma, come ora è chiaro, l’alternativa non è tra l’essere e l’Altro, tra la sostanza e la relazione, ma tra la difesa e il punto di reale che il soggetto avverte nell’Altro e al quale la sua esistenza è sospesa. È lì che tutto vacilla, che l’essere trema perché incontra la nudità assoluta che lo espone a ciò che vi è di traumatico nel trauma: “non la separazione dalla madre ma l’aspirazione in sé di un ambiente fondamentalmente Altro”25. Di fronte al buco, non c’è più rimedio per l’alterazione: il fuori è dentro. Ma è soltanto grazie a tale aspirazione che chi può iniziare a esistere, a lato dell’essere, par-être.26 Per dirlo con Lacan: «Che si dica resta dimenticato dietro ciò che si dice in ciò che si intende».27 La decisione è proprio a livello di questo “che si dica”, non di quello che dico ma del fatto che nel dire ex-sisto. La presa di parola è dunque la decisione etica a cui siamo sospesi. Tutto ciò avviene alle spalle del diritto di parola e semmai lo fonda. Si tratta di riportare qui il discorso G.W.F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, a cura di G. Cantillo, Laterza, Bari 1971, p. 107. 25 J. Lacan, Il Seminario. Libro x. L’angoscia. 1962-63, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2007, p. 358. 26 «Dobbiamo abituarci a sostituire a questo essere sfuggente il par-essere [par-être], ossia l’essere παρα, l’essere accanto», J. Lacan, Il Seminario. Libro xx. Ancora. 1972-73, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2011, p. 43. 27 J. Lacan, Lo stordito, in Altri scritti, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013, p. 446. 24
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sull’insondabile decisione dell’essere, per cogliere, alle spalle del diritto, l’etica della parola che può o meno farne una condanna o una liberazione.
4. Politiche dell’esistenza
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ome giustamente ha sottolineato Jean-Claude Milner: «A ben pensarci, l’uomo della Dichiarazione annuncia l’uomo/donna del freudismo: a differenza dell’uomo delle religioni e delle filosofie, egli non è né creato né dedotto, egli è nato; in questo consiste il suo reale». Prima ancora di essere soggetti di dritto, e dunque, di parola, siamo in quanto nati e nati nella differenza sessuale. Prima di ogni differenza di genere, culturale o anatomica che dir si voglia, all’origine è il differire della differenza. L’evento della nascita è la scrittura di questo differimento tra il grido e la Cosa. Qui in mezzo, si apre la scommessa che si tratterà di divenire. La nascita è l’evento che fa ac-cadere la scommessa esistenziale (esisto o non esisto?)28 su cui il soggetto ha il compito etico di non cedere. È a quel punto che l’immanenza di una vita è agganciata. Ed è a partire da quel punto che ci può essere implicazione per il soggetto. Ecco come infine possiamo intendere il motto etico che Lacan postpone alla questione dell’insondabile decisione dell’essere. Si tratta di divenire ciò che nella separazione si è scritto. È su questa scrittura che non bisogna cedere. Non tanto su quello che il soggetto ritiene essere il suo desiderio, specchietto per le allodole che l’immaginario fantasmatico tiene in vita. Se c’è un’etica orientata psicoanaliticamente, dice Lacan, è allora proprio quella che ci permette di avere il sentore per ciò che, nella vicenda immaginaria in cui inevitabilmente siamo presi, ci riguarda. Ri-guarda, cioè, il luccichio che segnala propriamente ciò che la scrittura nella separazione ha aspirato dentro di sé. Un 28 A questo proposito, rimando al mio “Il nostro amico Pascal”. Lacan e l’etica della scommessa, «Aut aut», 386 (settembre 2020), pp. 219-228.
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luccichio che si scrive, dunque, sul rovescio del rispecchiamento immaginario, rivelando, d’un tratto, il godimento sotterraneo che sostiene e surdetermina la fascinazione narcisistica. In questo detour infinito, c’è un’altra origine del mondo, un’altra Odissea che si tratta di compiere, un viaggio che non ha più la circolarità del mito ma che nel ripeterla produce uno scarto sul punto della sua chiusura. Là dove il Primo è l’Ultimo e l’Ultimo è il Primo, come segnalava giustamente Hegel nel pensare il compiersi dell’assoluto, avviene che l’Uno si divide in Due (Ein sich Entzweiendes). Questa Spaltung evenemenziale non è per forza l’inizio di uno scatenamento, ma l’accadere di uno spostamento che dischiude d’un tratto uno scenario inedito. Quello in cui la scrittura singolare del godimento viene al posto del significante padrone nel riorientare l’esperienza del parlessere. L’insondabile decisione dell’essere dischiude un campo etico inaudito. Se al fondo della struttura c’è la decisione, se la struttura, come Lacan arriverà a sostenere nel suo ultimo insegnamento, in fondo è un sembiante, con quale diritto orientare la cura, in nome di cosa promuovere quella perdita sulla cui libbra di carne si fonda il programma della civiltà? Evidentemente, la questione etica si gioca alle spalle dell’intellettualismo con cui alle volte viene così riproposta la problematica. Non si tratta, in psicoanalisi, di rieducare o di promuovere pedagogicamente una forma di vita al posto di un’altra. Ma, piuttosto, di ricondurre il parlessere, come dicevamo, alla responsabilità assoluta che lo ri-guarda rispetto alla sua decisione. Riportarlo nel punto della decisione significa esporlo nuovamente all’urgenza della scelta. E alla solitudine che questo comporta. Senza alibi, il parlessere è allora convocato alla sua responsabilità non rispetto genericamente a quanto l’Altro della civiltà gli richiede, ma rispetto all’Altro che lui è in ciò che ha di più intimo. L’invito etico della psicoanalisi punta a non cedere su ciò che, tra un corpo e l’Altro, si è scritto, a non cedere all’alternativa perché un’alternativa possa infine darsi per il soggetto.
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Si tratta di assumere, allora, ciò che soltanto la separazione può offrire. La questione, come dicevamo, non è tra l’essere e l’avere, tra una struttura e l’altra, ma propriamente tra una cattiva interpretazione dello stacco costitutivo dell’esistenza umana, che tende a risolverlo in una delle due figure in cui si manifesta, e una buona interpretazione che invece ne conserva la diplopia costitutiva. In fondo, potremmo dire che la scelta per la psicosi, come quella per la nevrosi, sono entrambe scelte ma non decisioni, perché si nascondono dietro all’alibi del sembiante, perdendo invece l’occasione di divenire quel godimento estimale e differenziale che si è. Per dirlo altrimenti, è soltanto perdendosi che si diventa ciò che si è. La liberazione di cui parla Lacan non è tra psicosi e nevrosi, come tra essere e avere, ma tra un’ontologia che cancella le proprie condizioni di (im)possibilità (cioè il godimento sessuato) e un’ontologia che invece si lascia perforare dalla sovversione sessuale: un’ontologia del non-tutto. Libertà è essere dentro come ciò che eccedendo il tutto anche lo fa consistere. Non c’è Altro senza quel godimento estimale e fuori luogo che includendosi fuori gli dà l’occasione di consistere. Alle spalle delle strutture ridotte a sembianti non c’è che il legame sociale, dice Lacan nel Seminario XX29. Dietro alla struttura non c’è, potremmo dire, che il differire della differenza. Ed è in quel tracciato che si scrive il godimento singolare a ciascuno su cui è possibile annodare, nella solitudine individuale, le singolarità tra di loro. Godimento differenziale che può infine favorire una nuova forma di riconoscimento30: non più immaginario ma propriamente reale. Riconoscersi nella differenza estimale del godimento singolare a ciascuno, in ultima istanza, permette quel non rapporto fondamentale su cui soltanto è possibile edificare un legame possibile. È chiaro che il punto cruciale diventa allora quale funzione assegnare alla metafora paterna. Perché il parlessere possa arrivare a ridursi alla scommessa esistenziale che è (diventare ciò che è) J. Lacan, Il Seminario. Libro xx, cit., p. 51. A questo riguardo, mi permetto di rimandare al mio Riconoscimento e legame sociale in psicoanalisi, «Quaderni di Scienza & Politica», 9 (2020), pp. 97-111. 29 30
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bisogna che durante la cura si tenga un certo uso del significante. Come sottolinea Eric Laurent: non bisogna credere al nome del Padre, altrimenti si resta nella nostalgia e nel temporeggiamento31. Bisogna servirsene, piuttosto, il tempo che serve a occasionarne la caduta. Al posto del temporeggiamento nevrotico, si tratta di introdurre una certa tempestività significante. I tagli, le interruzioni, mimano un uso inedito del significante, non più sottoposto alla logica del senso e all’ideale salvifico del padre. Un uso umoristico, potremmo dire, che tende a sciogliere la domanda di senso lasciandone affiorare il nucleo di godimento fuori senso. Quel che resta del Nome del Padre è la scrittura di questo contrappunto ritmico e melodico che favorisce la risonanza dei significanti non in vista del senso e dell’ideale di salvezza, ma, a rovescio, di ciò che per l’appunto è strutturalmente fuori senso e senza speranza. L’oggetto a a cui l’esistenza si riduce in ultima istanza è un niente che, fuori da ogni universo dotato di senso, può sorreggere il tutto a condizione che venga gettato sul tavolo da gioco del discorso dell’Altro, senza garanzia. Ecco che cos’è l’atto a cui l’esistenza è sospesa: ciò che accade nel controtempo rispetto al riconoscimento dell’Altro. Un po’ prima del suo assenso e un po’ dopo il suo eventuale rifiuto: lì in mezzo c’è decisione per il parlessere che così afferra d’un tratto ciò che propriamente gli sfugge sempre e che nell’atto prende corpo e consistenza, sul margine del tramonto dell’Altro e della sua supposta giustificazione. Se «non c’è Altro dell’Altro a operare il Giudizio universale»32, non ci resta che il saper-fare: l’arte dell’esistenza.
31 Cfr. E. Laurent, Il rovescio della biopolitica. Una scrittura per il godimento, tr. it. Alpes, Roma 2017, p. 144. 32 J. Lacan, Il Seminario. Libro xxiii, Il Sinthomo, 1975-76, a cura di A. Di Ciaccia, tr. it. di A. Di Ciaccia, Astrolabio-Ubaldini, Roma 2006, p. 57.
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I disturbi alimentari Una declinazione della follia nel XXI secolo1
Introduzione
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uongiorno. Sono felice e onorato di essere qui con voi a Lione, invitato da Jacques Borie per questa conferenza. È la prima volta che vengo a Lione, e ci tengo a ringraziare Jacques e i colleghi della sezione clinica di avermi invitato a partecipare alle loro attività. Il tema generale di lavoro, La follia nel XXI secolo, è di grande interesse. Il luogo dove ci troviamo, l’ospedale di Vinatier, ha un rapporto speciale con questo tema, e Jacques Lacan ha tenuto qui la sua conferenza Il mio insegnamento nel 1967. Cercherò nella mia conferenza di donare un contributo allo sviluppo del tema della follia nel XXI secolo, partendo dalla mia pratica analitica in studio, e dalla mia esperienza istituzionale in un campo particolare della psicopatologia contemporanea: quello dell’anoressia mentale, della bulimia, dell’obesità e di quella che la più recente edizione del DSM, la quinta, uscita in America nel 2013, chiama il disturbo da alimentazione incontrollata (Binge Eating Disorder). In breve, la linea d’orientamento della mia conferenza sarà l’interrogarsi sulla questione della follia nel XXI secolo a partire da questa declinazione par1 Testo della conferenza da me tenuta il 16 settembre 2016 alla Sezione Clinica di Lyon, invitato da Jacques Borie, e così editata in francese: Les troubles alimentaires. Une déclinaison de la folie au XXIème siècle, Les Cahiers de la Clinique Psychanalytique, Section Clinique de Lyon, 21, Décembre 2016, pp. 9-22. [Traduzione di Viviana Faschi]
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ticolare della psicopatologia contemporanea chiamata “disturbi alimentari”. Da qui proviene il titolo della mia conferenza: I disturbi alimentari. Una declinazione della follia nel XXI secolo.
Due appunti sulla psichiatria e l’ospedale
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iamo qui, in un luogo che fu un antico ospedale psichiatrico e che ha visto la sua identità modificarsi, per effetto di assimilazione nella struttura di un ospedale generico. Si tratta di un passaggio contemporaneo, e vorrei aggiungere qualche parola su questo passaggio a partire dall’esperienza italiana. Questo cambiamento si è prodotto inizialmente all’interno della società italiana, formalizzandosi con una legge sulla chiusura degli ospedali psichiatrici approvata dal Parlamento italiano nel 1978. Il primo signatario di questa legge, conosciuta anche come legge 180, è stato probabilmente il più famoso degli psichiatri italiani nella storia della psichiatria: Franco Basaglia, ex direttore dell’ospedale psichiatrico di Trieste. Il suo nome, con i nomi di Laing e Cooper in Inghilterra e di Guattari in Francia, sono stati i nomi più celebri del movimento di contestazione interna nella psichiatria degli anni Sessanta e Settanta conosciuto come “antipsichiatria”. È certo che questo movimento e il suo successo sono stati inseparabili dallo spirito particolare dell’epoca, caratterizzato da un animo rivoluzionario orientato verso il cambiamento radicale della società. Per darvi un’idea di questa atmosfera, è interessante leggere il titolo di una conferenza tenuta da Basaglia a Londra nel 1964 ad un congresso internazionale di psichiatria, dal titolo: La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione.2 In effetti, la chiusura degli ospedali psichiatrici è stato il primo passo di questo movimento di contestazione interno al campo stesso della psichiatria 2 F. Basaglia, La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione (1964), in Scritti, Vol. I. 1953-1968. Dalla psichiatria fenomenologica all’esperienza di Gorizia, Einaudi, Torino 1981, pp. 249-258.
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I disturbi alimentari. Una declinazione della follia nel XXI secolo
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Rievocare questo passaggio storico è importante per le conseguenze in atto nel XXI secolo. Questo momento ha riprodotto una contraddizione che era già presente con Pinel, come indica Michel Foucault nella sua Storia della Follia, all’origine della fondazione dell’ospedale psichiatrico e della disciplina stessa. Ritroviamo nel fondatore della psichiatria, come sottolinea Foucault, allo stesso tempo, colui che libera i matti dalle catene, differenziandoli dai criminali, e colui che introduce un regime di segregazione particolare per i malati di mente, ovvero l’ospedale psichiatrico. Nella lettura di Foucault, la psichiatria nella sua origine, si presenta come un’espressione specifica del nuovo regime disciplinare di quella che lui chiama l’Età Classica, ovvero l’epoca dei lumi. Quello che s’impone in questo regime è una struttura a doppia faccia: da una parte un umanesimo filantropico fondato sull’uguaglianza di diritto per tutti gli esseri umani dotati di ragione, dall’altra l’imposizione di un sistema di controllo scientifico e generalizzato. Pinel introduce quello che Esquirol svilupperà nella psichiatria, nella stessa epoca in cui Cesare Beccaria lo introdurrà a proposito del crimine nel suo trattato Dei delitti e delle pene. È l’epoca in cui si gettano le fondamenta del moderno diritto penale, come Foucault ha mostrato in Sorvegliare e punire. Questo momento è stato sottolineato anche da Lacan a proposito di Kant, che si presenta per lui da un lato come espressione del coraggio del sapere proprio dello spirito dell’Illuminismo nel quale ha riconosciuto la posizione della psicoanalisi, dall’altro come autore di riferimento per la costruzione della dimesione del SuperIo e dei suoi effetti di mortificazione sul soggetto, attraverso la sua dottrina morale e la sua teoria dell’imperativo categorico. Se questo passaggio storico si verifica tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo, periodo nel quale il capitalismo classico con struttura industriale si impone nel mondo, possiamo dire che la frattura introdotta dal movimento antipsichiatrico alla fine degli anni Sessanta, esprime in modo complesso gli effetti della transizione storica al regime del capitalismo postindustriale ed essenzialmente finanziario, che si impose a partire
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dalla metà del secolo scorso. La globalizzazione contemporanea, in un certo modo, si può considerare come un momento di sviluppo del capitalismo attuale che rende possibile un’amplificazione della sua stessa logica. L’eliminzione radicale delle barriere, dei limiti, degli ostacoli allo sviluppo, si impone, all’interno di tale logica, come un principio immanente al processo stesso di questo sviluppo; e la trasformazione della psichiatria contemporanea non sembra fare eccezione. In questo passaggio, ritroviamo una struttura ambivalente alla base degli argomenti dell’antipsichiatria: da un lato, il tema dell’umanizzazione delle cure nella critica antipsichiatrica all’ospedale psichiatrico: l’istituzionalizzazione come processo di annullamento della singolarità del soggetto, gli effetti iatrogeni di cronicizzazione della malattia mentale in ospedale, la segregazione fisica dei malati dal resto della società. La battaglia contro l’ospedale psichiatrico portata avanti dall’antipsichiatria si orienta verso il superamento di queste condizioni e la liberazione dei malati da questo regime di istituzionalizzazione forzata. Dall’altro lato, si produce un effetto ideologico con conseguenze mortali: dal primato della politica all’ideale del reinserimento sociale dei malati di mente, causando la progressiva emarginazione della clinica psichiatrica con la sua ricca tradizione, e la sostanziale riduzione del trattamento a un processo per andare oltre il regime di esclusione sociale dei malati e il reinserimento nella vita sociale. Nella prospettiva attuale, il superamento dell’ospedale psichiatrico ha mostrato in modo più chiaro, circa quaranta anni dopo la Legge Basaglia, la dimensione dell’inganno ideologico connesso all’idea di ridurre la follia come effetto dell’esclusione sociale. E l’esperienza clinica ci mostra che c’è, in modo evidente nei soggetti psicotici, come ha sottolineato Lacan, una dimensione strutturalmente fuori discorso di cui bisogna tenere conto per evitare passaggi all’atto pericolosi. La verità della clinica costituisce il miglior antidoto contro il furor sanandi, contro l’ideologia della riabilitazione forzata. Questo significa per noi che l’ascolto regolare della parola singolare del soggetto psicotico, della dimensione folle propria della sua parola, è la con-
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dizione preliminare per un eventuale processo orientato verso un inserimento sociale. La psicoanalisi in effetti ha un compito speciale nel trattamento degli effetti della chiusura degli ospedali psichiatrici sui soggetti. Essa può sensibilizzare i professionisti psichiatrici di questo singolare ascolto della parola del soggetto, evitando la riduzione del trattamento alla sola prescizione psicofarmacologica o ai progetti di reinserimento sociale.
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L’epoca dei nuovi sintomi
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on siamo sufficientemente attenti al fatto che, nello stesso periodo in cui si comincia a mettere in discussione l’ospedale psichiatrico come luogo specifico per il trattamento della psicosi, abbiamo, nei paesi capitalisti maggiormente sviluppati, una grande diffusione a livello epidemico, di quelle che d’abitudine nel Campo Freudiano chimiamo nuove forme del sintomo. Questo paradigma è stato introdotto alla fine degli anni Ottanta da Hugo Freda et Bernard Lecoeur3 due colleghi psicanalisti lacaniani, alla luce della loro esperienza istituzionale con alcuni tossicodipendenti, illuminata dalle indicazioni di Lacan riguardo alla tossicodipendenza. Gli Stati Uniti sono il primo luogo di propoagazione di queste nuove psicopatologie che non avevano mai incontrato una tale diffusione come nella nostra epoca. La tossicodipendenza a partire dagli anni Sessanta, l’anoressia e la bulimia a partire dagli anni Settanta, cominciano a imporsi in America, a partire dalle scuole e dalle università e diventando rapidamente un fenomeno sociale anche in Europa, in Giappone, in Australia e in tutti i paesi con una struttura socio-economica organizzata sottoforma di capitalismo avanzato. Come sapete, si tratta di sintomi che si intaurano soprattutto durante l’adolescenza, nella congiuntura aperta dalla pubertà, e che riescono a funzionare come una soluzione stabile nella vita 3 Vedi F.-H. Freda, La toxicomanie: un symptôme moderne, «Analytica», 57 (1989), pp. 115-120; Id., Les nouvelles formes du symptôme, «Revue de l’ECF», 21 (maggio 1992), p. 85; F.-H. Freda – B. Lecoeur, Les nouvelles formes du symptôme, «Mental», 4 (dicembre 1997), pp. 139-148.
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in modo durevole, per gran parte della popolazione, non solamente per i giovani. Negli ultimi decenni si sono moltiplicate le possibili forme di questi sintomi, aggiungendosi, ad esempio, le forme di dipendenza legate all’uso senza limiti delle nuove tecnologie (allo stesso tempo, si dicute se la diffusione contemporanea della sindrome Hikikomori, caratterizzata da una radicale forma di isolamento nei giovani giapponesi, possa rientrare in questo quadro). Possiamo dunque cominciare ad avvicinarci alle aree dell’anoressia, della bulimia, del Binge Eating Disorder – che costituiscono il quadro di quello che il DSM chiama, a livello di diagnostica descrittiva, “disturbi alimentari” –, partendo dal processo d’inclusione storica che li posiziona come manifestazioni delle nuove forme del sintomo e trattandoli in seguito in modo più specifico. Prima di tutto, è importate chiarire l’uso del termine “sintomo”. In che senso si parla di un “nuovo sintomo”, per esempio a proposito dell’anoressia, della bulimia e degli altri disturbi alimentari? Non occorre pensare che questi sintomi non esistessero prima. È piuttosto la loro larga diffusione contemporanea a fare la differenza in rapporto al passato. È dunque la dimensione del sintomo sociale ad essere nuova in questo caso. Ma c’è una differenza ancora più importante di cui dobbiamo rendere conto, che concerne la struttura stessa del sintomo come tale. Nella maggior parte dei casi, i nuovi sintomi non si presentano con le caratteristiche proprie del sintomo freudiano. In generale, sul piano della diagnostica strutturale, non è facile posizionarli nella bipartizione freudiana classica di psicosi e nevrosi. Il sintomo nevrotico, per esempio nell’isteria o nella nevrosi ossessiva, si impone al soggetto al di là della sua volontà, divide dunque il soggetto, lo fa soffrire per una causa che diventa per lui enigmatica. È per questo che un nevrotico può decidere di andare da un analista, a chiedergli di cominciare un’analisi, supponendo che lui conosca la verità inconscia alla base del suo sintomo. Abbiamo quindi degli elementi essenziali propri della posizione del nevrotico: la divisione soggettiva, l’enigma
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costituito dal sintomo, l’articolazione di una domanda, la strutturazione di un transfert. Nella psicosi, abbiamo al contrario una certa unità del soggetto (che è la controparte della sua frammentazione strutturale); piuttosto che l’enigma, abbiamo la certezza. Se c’è una domanda, questa non si produce a partire dalla supposizione di sapere a un altro, perchè il sapere è già dalla parte dello psicotico. Lo psicotico posiziona piuttosto l’analista come depositario della sua parola, ed è per questo che Lacan nel Seminario III Le psicosi ha elaborato la formula del “segretario dell’alienato” per parlare della funzione dell’analista nel lavoro con lo psicotico. Il fantasma nevrotico lascia uno spazio per l’enigma al di là di ciò che immagina come vero nella sua posizone in rapporto con l’Altro; il delirio dello psicotico rende al contrario la sua certezza come assiomatica, non può trasformarla in domanda. La clinica dei nuovi sintomi ci lascia in una difficoltà fondamentale di fronte alla bipartizione psicosi/nevrosi. Il soggetto non si presenta diviso in rapporto al suo sintomo, al contrario, in particolare nella tossicodipendenza e nell’anoressia, il sintomo rafforza l’identità narcisistica del soggetto stesso. Al medesimo tempo, il sintomo non è un enigma per il soggetto, al contrario esso conferma la certezza della sua identità. Nella maggior parte dei casi, in particolare nell’anoressia e nella tossicodipendenza, il sintomo ha un effetto egosintonico (al contrario del sintomo del nevrotico, che lo fa soffrire) e i pazienti amano i loro sintomi più di loro stessi, al punto di rischiare la morte a causa di essi. Questi pazienti non hanno una vera richiesta di cura, o nel migliore dei casi si tratta di una domanda molto debole. Essi non vivono il sintomo che hanno scelto come un problema, piuttosto come uno stile di vita, come una soluzione; per questo si oppongono ai riguardi che i genitori hanno per loro, prendendosene cura, ed è per questo che il trattamento si presenta così difficile. A partire da ciò, possiamo dedurre che si tratta di una clinica in cui la dimensione del transfert, quando si installa, prende piuttosto la forma di una inflazione immaginaria che la via di un transfert simbolico.
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Allo stesso tempo, è assai raro trovare nel caso dei nuovi sintomi la presenza di fenomeni elementari come nella psicosi classica. I deliri articolati sono piuttosto rari, e per esempio nell’anoressia prendono la forma di deliri di avvelenamento, di deliri mistico-religiosi, e più recentemente, come ha sottolineato Carole Dewambrechies-La Sagna, di deliri di contaminazione.4 Ma nella maggior parte dei casi non c’è nulla di ciò.
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Verso una logica d’inclusione segregativa della follia: Lacan e il discorso capitalista
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n effetti, la prospettiva di Freud non sembra lasciare altre possibilità di lettura al fenomeno dei nuovi sintomi. O si arriva a isolare al di là dell’involucro formale del sintomo una divisione soggettiva, una repressione strutturale del desiderio incoscio, e dunque una struttura metaforica del sintomo del soggetto, oppure riusciamo a isolare il punto di forclusione (Verwerfung) del Nome-del-Padre al cuore della psicosi. Tertium non datur, direbbe Aristotele. Non è completamente così per Freud, perchè sappiamo che anche tra le strutture freudiane vi è la perversione, e sarebbe interessante andare a vedere che ruolo gioca nel funzionamento della vita contemporanea. Ma è certo che c’è una predominanza del binario psicosi/nevrosi nella clinica differenziale freudiana. Lo vediamo bene se prendiamo la questione nella prospettiva del legame sociale che Freud sviluppa in particolare nel Disagio della civiltà e la sua diagnosi sulle malattie del soggetto nella società capitalista classica formulate nel testo del 1929. Questo ci permetterà d’apprezzare i progressi che farà Lacan nella sua analisi del capitalismo contemporaneo nei suoi scritti e nelle sue conferenze all’inizio degli anni Settanta. La logica di Freud è rigorosa. L’individuo non ha altra possibilità di entrare nel legame sociale, cioè di trovare un posto nella società, di umanizzarsi, che quello di pagare come prezzo una C. Dewambrechies La Sagna, L’anorexie vraie de la jeune fille, «La Cause freudienne», 63 (giugno 2006), pp. 57-70. 4
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perdita di godimento, una perdita di libertà. Questo processo comincia già a partire dalla prima infanzia, dove il bambino fa l’esperienza dell’incorporazione, attraverso la parola dell’Altro (i genitori, gli adulti), delle regole essenziali per vivere con gli altri, per avere un corpo che funziona e che gli permette la soddisfazione dei bisogni e il godimento pulsionale. Il soggetto nevrotico è qualcuno che ha accettato, malgrado tutto, la perdita di godimento che è il prezzo da pagare per trovare posto nel legame sociale. Egli soffre gli effetti mortiferi di questa perdita, che prolunga la propria realizzazione nella ripetizione sintomatica, la quale gli fa fare sempre l’esperienza di essere distante dalla realizzazione del suo desiderio. Il soggetto psicotico, al contrario, non ha accettato di perdere una parte della sua libertà di godere per entrare in modo strutturato nel legame sociale. Egli mantiene, attraverso il suo rifiuto di passare attraverso la legge della castrazione, la liberà di godimento intatta, ma al prezzo di una condizione tragica che lo espone a un godimento senza limiti. Freud ci mostra qui, in modo molto chiaro, il limite dell’ideale della posizione dell’antipsichiatria, che pone lo psicotico completamente escluso dal legame sociale a causa della stigmatizzazione operata dall’Altro. Freud ci ha dimostrato che la cosa è ben più complessa, e che c’è sempre anche una dimensione di decisione singolare in gioco – decisione imponderabile e inconscia – alla base della psicosi, che nessun processo di riabilitazione sociale, sicuramente utile, può eliminare. Dobbiamo prendere in questo senso la tesi di Lacan secondo cui lo psicotico è strutturalmente “fuori discorso”. Ma quello che Lacan aggiunge è veramente essenziale per poter collocare la sua lettura del capitalismo contemporaneo e il posto occupato dai nuovi sintomi. Nel suo scritto del 1970 Radiofonia, ci indica che il capitalismo contemporaneo ha introdotto un cambiamento essenziale. Si assiste all’ascesa dell’oggetto a allo «zenith sociale».5 Se in Freud, la struttura del legame sociale era articolata a partire 5 J. Lacan, Radiophonie (1970), in Autres écrits, Seuil, Paris 2001, p. 414.
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dal primato della legge edipica e della funzione del padre, e il divieto era la condizione chiave del suo funzionamento, per Lacan il capitalismo contemporaneo ha individuato il godimento come luogo principale del funzionamento sociale. Jacques-Alain Miller aveva sottolineato questo aspetto indicando nella lettura del passaggio di Lacan lo spostamento dell’oggetto a ad agente del discorso ipermoderno.6 Al posto dell’imperativo normativo della legge paterna (S1), che ha dominato la vita degli individui nella sociatà del capitalismo classico, è promosso l’imperativo al godimento illiminato proprio del capitalismo contemporaneo. Due anni dopo Radiofonia, in una conferenza tenuta a Milano nel 1972,7 Lacan complica la sua teoria del discorso – nozione che egli ci dice essere equivalente a quella freudiana di “legame sociale” –, introducendo una struttura nuova, estranea alla sua stessa idea di discorso, che traduceva in forma logica e sviluppava in quattro articolazioni essenziali, come già era implicato nella definizione freudiana di legame sociale. Per questo egli parla, a propostiro del discorso capitalista, di una mutazione. Mutazione radicale del discorso del Padrone, che traduce un tratto specifico dell’attuale società consumistica. In questa struttura di discorso la dimensione del limite è annullata, si assiste a una circolazione continua e diretta del godimento senza perdita, tra il soggetto diviso ($) e l’oggetto di godimento. In questo funzionamento, il principio strutturale introdotto da Freud nella sua teoria del legame sociale sembra annullato: il soggetto trova il suo posto nel discorso senza pagare un prezzo, senza perdita di godimento. Ciò che qui si perde, è la legge che ha introdotto la dimensione dell’impossibile e del limite. Il discorso capitalista ci introduce in un mondo senza legge, dove il godimento è al centro del sistema e tende a imporsi senza limite. I nuovi sintomi ci mostrano infatti in modo radicale la realizzazione in atto del funzionamento del discorso capitalista. Come Jacques-Alain Miller e Eric Laurent ci avevano indicato nel Seminario El Otro J.-A. Miller, Une fantaisie, «Mental», 15 (2005), pp. 9-27. J. Lacan, Du discours psychanalytique, in Lacan in Italia. 1953-1978, La Salamandra, Milano 1978, pp. 32-55. 6
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que no existe y sus comités de etica, l’essenziale dei nuovi sintomi potrebbe essere scritto nella formula jouissance sans Autre. Un “rifiuto dell’Altro simbolico”, come ci dice Jacques-Alain Miller, è al centro della posizione del tossicodipente e dell’anoressica,8 ed è la condizione per ottenere un godimento Uno, senza perdita, nell’esercizio del proprio sintomo. In questo senso, potremmo dire che i nuovi sintomi ci mostrano in maniera radicale una logica interna al capitalismo contemporaneo, una logica che, al contrario del passato, non prende la via dell’esclusione, ma quella dell’inclusione nel circuito sociale del consumismo generalizzato. Si potrebbe dire che si tratta di una “logica d’inclusione segregativa”, che spinge ciascuno a godere il più possibile del proprio oggetto, delle proprie merci e della propria identità di godimento. In questo senso ci sembra davvero limitante classificare questi sintomi come disturbi, come accade nel DSM, i quali, in realtà, si mostrano estremamente fedeli agli imperativi di godimento che dominano la nostra società.
Fallimento della risposta fantasmatica e della risposta delirante
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eniamo adesso alla questione che è al cuore del nostro discorso: la follia e i disturbi alimentari. L’ingente introduzione che abbiamo fatto sul disagio nella civiltà del capitalismo contemporaneo e i nuovi sintomi ci sembra essenziale per introdurre la questione. Lacan, come sapete, ha sempre lasciato la nozione di follia libera da una identificazione in un quadro diagnostico. Piuttosto ha fatto della follia una questione strutturale dell’essere umano in quanto essere parlante. Ogni essere parlante ha in sé una dimensione singolare di follia, un grano di follia. Que8 J.-A. Miller – E. Laurent, El Otro que no existe y sus comités de etica, 1996-1997, Paidos, Buenos Aires 2005, lezione del 21 maggio 1997, pp. 373-379.
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sta dimensione di follia si fonda, già in Freud, su un’assenza di corrispondenza dell’essere parlante con la realtà, su una perdita strutturale di realtà nei confronti della quale ciascuno risponde in maniera singolare, con una costruzione inconscia di linguaggio, una “elucubrazione di sapere sulla lalingua”, come dirà più tardi Lacan. Questa elucubrazione è ordinata nella nevrosi dal fantasma e nella psicosi dal delirio. Ma il fantasma del nevrotico, come il delirio dello psicotico, non sono senza follia, piuttosto si tratta della loro risposta alla follia. La follia è per l’essere parlante la perdita di realtà in se stessa, al di là della risposta che egli può offrirle. In questo senso, si potrà anche leggere l’enunciato dell’ultimo Lacan “tutti sono folli” nel campo dell’anoressia, della bulimia e delle psicopatologie dell’iperalimentazione (come il Binge Eating Disorder o l’obesita psicogena): ciò che troviamo in gioco nella maggior parte dei casi, fatta eccezione per le forme isterico-nevrotiche (ad esempio l’anoressia isterica) e per le psicosi deliranti con dei disturbi alimentari, è un’estrema povertà di elementi fantasmatici, e l’assenza di un vero delirio articolato. C’è da dire che la risposta fantasmatica e la risposta delirante non funzionano bene in quel campo particolare degli esseri parlanti ordinato dal DSM a partire dai loro disturbi maggiori, come coloro che soffrono di disturbi alimentari. Il fallimento della risposta fantasmatica e della risposta delirante costituiscono un punto essenziale per introdurci nella logica del campo dei nuovi sintomi, e in particolare, nel nostro caso, nel campo dei disturbi alimentari. Il fantasma sostiene il soggetto nevrotico nella sua inclusione nel legame sociale, gli dona un’identità immaginaria e un godimento che gli permette di sopportare l’alienazione dell’essere nel linguaggio. Il delirio sostiene lo psicotico nella sua ricostruzione del mondo dopo la catastrofe dello scatenamento, che l’ha rivelato strutturalmente fuori discorso, strutturalmente escluso, al di fuori del legame sociale. Qual è allora la soluzione che il soggetto inventa per supportare la propria follia, quando si sviluppa come risposta stabile un’anoressia, una bulimia, un’obesità psicogena?
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Il disturbo alimentare come un fatto di struttura
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ossiamo cominciare a rispondere a questa domanda partendo dalle prove che ci mostra l’osservazione diretta. Ciò che è innanzitutto evidente in questo campo, è la relazione in eccesso, bizzarra, che il soggetto con un disturbo alimentare detiene con un oggetto essenziale dell’esperienza quotidiana di ogni essere vivente: il cibo. Questa stranezza non appartiene all’animale, molto più abile di noi nel coordinare l’atto di mangiare secondo le esigenze necessarie al bisogno nutritivo dell’organismo. La relazione d’eccesso con il cibo è propria dell’essere umano. Ci sono delle ragioni strutturali per questo. Nella nostra esperienza, la relazione con il cibo è sovraccarica di fattori essenziali che vanno oltre la sfera strettamente nutrizionale. Sin dall’origine il rapporto dell’essere parlante con il cibo non si riduce alla dimensione fisiologica del bisogno di nutrirsi. Questo rapporto implica allo stesso tempo quello simbolico del soggetto con l’Altro. Esso agisce da primo dono che l’infante riceve dall’Altro primordiale. Come ha sottolineato Jacques-Alain Miller, per l’infante il cibo implica strutturalmente il dono dell’Altro, prima sotto forma del seno della madre (all’origine Lacan mostra come esso appartenga anche al corpo del neonato) e poi sotto forma della mano dell’Altro che gli dà il cibo. Nell’esperienza soggettiva, il rapporto con il cibo ha anche un valore d’identità immaginaria: noi proveniamo dal mondo delle nostre origini, dalla cucina familiare, dal discorso alimentare della nostra famiglia. L’esperienza analitica ci mostra l’importanza di questi dettagli, e il potere di orientamento che il nostro incontro con la cucina familiare e le sue scelte alimentari possono produrre sulla nostra relazione con il cibo nella vita adulta. Ciò è vero sia nel senso dell’accettazione, sia nel senso del rifiuto. Freud, circa tale questione, aggiunge un quarto elemento che è centrale, già nei Tre saggi sulla teoria sessuale del 1904: la dimensione di godimento veicolata strutturalmente nella nostra esperienza col cibo. L’infante, ci
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dice Freud, non si limita a succhiare il seno il tempo necessario a soddisfare la sua esigenza di nutrirsi; continua a goderne per un tempo supplementare: l’esperienza alimentare come veicolo del godimento specifico ad ognuno. In questo senso, la relazione con il cibo è il contrario di una cosa semplice e standardizzata. C’è piuttosto qualcosa di molto complesso e specifico per ogni essere umano. In questa prospettiva, non è necessario pensare ai disturbi alimentari per renderci conto che l’idea di un’alimentazione sana e normale è per lo più un ideale astratto, fondato nella maggior parte dei casi su una riduzione nutrizionale dell’esperienza alimentare, piuttosto che qualcosa di reale. Questo ideale, che sostiene la maggior parte dei progetti di educazione alimentare ad esempio nelle scuole, è sulla stessa linea dell’ideale della salute mentale (o della sessualità normale) dell’OMS. Ecco perché, in un certo senso, potremmo dire che il disturbo alimentare è proprio dell’essere parlante e, come Lacan diceva, che “tutti sono folli”; questo non significa, ovviamente, che siamo tutti anoressici o bulimici, ma ci indica piuttosto che il nostro rapporto reale con il cibo è caratterizzato da un rapporto singolare con l’Altro e con il godimento. Ciò che del particolare rapporto col cibo si può vedere, nella maggior parte di noi, solo al microscopio, in quelli che il DSM chiama “disturbi alimentari” si mostra in maniera evidente e spesso oscena. Possiamo inoltre aggiungere un elemento che proviene dal campo della storia dell’alimentazione, e che mostra ulteriormente perché questa esplosione dei disturbi alimentari sia propria del capitalismo contemporaneo. Come ha precisato lo storico Massimo Montanari nel suo testo La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa,9 è il capitalismo contemporaneo che, per la prima volta nella storia dell’umanità, nelle regioni più sviluppate del pianeta, ha superato il problema quotidiano della fame per la maggior parte della popolazione, creando un 9 M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, Roma-Bari 1993.
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I disturbi alimentari. Una declinazione della follia nel XXI secolo
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surplus di cibo da consumare. A partire da questo momento, le patologie legate al cibo cambiano. Esse non sono più legate, nel mondo economicamente sviluppato, alla denutrizione come motivo di un’assenza di cibo a disposizione, ma diventano a tutti gli effetti delle patologie dell’eccesso, nei confronti delle quali sono particolarmente implicate le dimensioni sociale e psicologica. In questo senso, la psicopatologia alimentare è un problema del mondo attuale.
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I disturbi alimentari tra visibile e invisibile
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ntriamo dunque direttamente nel terreno dei disturbi alimentari. Lo faremo partendo da una distinzione tra una dimensione visibile, che corrisponde al livello descrittivo del fenomeno come lo riporta il DSM, e una dimensione invisibile, che concerne la logica in gioco che ci permette di leggere anche quello che passa al livello del visibile. Al livello del visibile, la prima cosa evidente è l’esistenza di un rapporto d’investimento libidico straordinario con il cibo e l’atto di mangiare nell’anoressia, nella bulimia e nell’obesità. Il nostro discorso verterà in particolare sull’anoressia. In essa questo rapporto prende la forma della privazione, mostrando in modo osceno come, nel corpo dell’anoressica, si arrivi a toccare una condizione di magrezza estrema. Ma si rende evidente anche e soprattutto per i genitori, per il rifiuto sistematico del cibo e per la sua riduzione al minimo, per la tendenza a tagliare in piccoli pezzi quello che è nel piatto, quando l’anoressica è a tavola, e soprattutto per tutti i discorsi e i rituali stereotipati che sviluppa durante il giorno fino al momento di mangiare. Questi momenti testimoniano del fatto che il cibo che l’anoressica evita il più possibile è in realtà, di fatto, presenza costante nella sua testa. Come mi diceva una volta una paziente ospedalizzata in una comunità terapeutica per i disturbi alimentari: “Ho il cibo nel cervello”. Lacan, nel suo ultimo riferimento all’anoressia, all’interno della lezione del 9 Aprile 1974 del suo Seminario XXI, ancora inedito, Les non
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dupes errent,10 aveva notato con molta precisione questo punto, che oggi i clinici che lavorano nel campo dei disturbi alimentari chiamano ruminazione, ovvero il pensiero ossessivamente vuoto e ripetuto sul cibo e sull’atto del mangiare. Infatti, Lacan nota il dilemma quotidiano dell’anoressica davanti alla questione, per lei essenziale, di sapere se mangerà o non mangerà. Dilemma che infatti paralizza il soggetto in rapporto all’atto del mangiare, facendogli dimenticare che sta per morire. La maggior parte delle terapie praticate per trattare l’anoressia si concentrano precisamente su un lavoro di ortopedia della condotta alimentare disturbata e sulla correzione delle idee alterate a proposito dell’alimentazione, facendo del corpo il terreno della loro azione. Il centro di questa operazione, al cuore delle terapie cognitivocomportamentali, è di restaurare una condotta alimentare normale e di formattare le idee inadeguate dell’anoressica di modo che esse possano corrispondere alla realtà. Questa prospettiva non tiene conto del fatto che lo sviluppo del sintomo anoressico è per il soggetto una soluzione, ma potremmo dire lo stesso per gli altri disturbi alimentari. È una soluzione che, benché patologica e problematica nel suo destino, risponde al problema strutturale specifico a quell’essere parlante di un rapporto di non corrispondenza con la realtà. La soluzione anoressica può dunque essere trattata tenendo conto di ciò, cercando di far apparire nella cura la funzione che questa soluzione esercita per il soggetto singolare che ci parla della sua anoressia. Che si tratti di una soluzione piuttosto che di un problema, Lacan lo sottolinea indicando, ogni volta che parla di anoressia, la dimensione fondamentalmente affermativa al cuore di questo sintomo. Ma poter leggere questa dimensione significa aver già inteso la questione anoressica al di là del visibile, individuando la logica invisibile che regola la fenomenologia visibile della psicopatologia anoressica. Possiamo cominciare a farlo qui, attorno alla questione del rifiuto di mangiare. 10 J. Lacan, Le Séminaire XXI “Les non dupes errent” (1973-74), inedito, lezione del 9 aprile 1974. A questo proposito mi permetto di rinviare a D. Cosenza L’anorexie dans le dernier enseignement de Lacan, «La Cause du désir», 81 (giugno 2012).
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“Mangiare il niente”: rifiuto e oggetto niente nella lettura dell’anoressia secondo Lacan
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n effetti, al centro della lettura dell’anoressia mentale fatta da Lacan, troviamo una sorta di paradosso.11 Lacan costruisce la sua lettura su due pilastri essenziali. Il primo è il rifiuto. Il rifiuto è in effetti al cuore della lettura di Lacan fin da principio. Lo troviamo già nel suo scritto del 1938, I complessi familiari nella formazione dell’individuo, nella forma del “rifiuto dello svezzamento”.12 Nulla di particolarmente originale, postulare il rifiuto al cuore dell’anoressia. Al contrario, potrebbe sembrare quasi banale, unitamente all’osservazione della condotta dell’anoressica. In realtà, davvero originale è il modo di leggere quel rifiuto che sta al cuore dell’anoressia. Innanzitutto, possiamo dire che, per Lacan, il rifiuto anoressico non è una negazione. Non è semplicemente il fatto di dire “no” al cibo che l’Altro gli offre. Il rifiuto ha, nell’anoressia mentale, una valenza affermativa. Si tratta di un’azione. Lacan ci dice che l’anoressia è dell’ordine di un’azione. Ed è ancora più preciso in questo senso, dandoci la definizione dell’azione specifica operata dall’anoressica attraverso il suo rifiuto. Con una formula che resterà inalterata dal momento della sua introduzione nello scritto La direzione della cura del 1958, fino alle sue ultime parole sulla questione nel Seminario XXI, Lacan ci dice che “L’anoressica mangia il niente”. Questa frase ci conduce direttamente alla lettura della questione, dal piano del visibile a quello dell’invisibile. Cerchiamo di fare una parafrasi di questo enunciato lacaniano. Esso potrebbe prendere la seguente forma: “Non è vero che l’anoressica non mangia. Lei mangia. Ma quello che mangia non è cibo. (Potremmo dire che lei pensa molto al cibo, ma non è il cibo ciò di cui si nutre). Quello che lei mangia, l’oggetto al quale 11 Si veda il mio libro, Le refus dans l’anorexie, Presses Universitaires de Rennes, 2014. 12 J. Lacan, Les complexes familiaux dans la construction de l’individu (1938), Autres écrits, Seuil, Paris 2001, p. 32.
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non può rinunciare, l’oggetto che vale per lei più di se stessa, al punto di poter arrivare a morire per lui, è il niente”. Ora dobbiamo chiarire che cos’è questo oggetto enigmatico al cuore dell’anoressia che Lacan chiama l’oggetto niente. Lacan ci dà delle indicazioni per orientarci su questo punto. Nel primo periodo del suo insegnamento, fino alla fine degli anni Cinquanta, per tutto il tempo del primato del simbolico, il niente è per lo più un significante. Ma si tratta di un significante speciale, che indica l’oggetto strutturalmente mancante del desiderio umano. Per questo esso ha una funzione speciale in questo periodo classico dell’insegnamento lacaniano, come una chiave per leggere l’anoressia isterica. È in questo senso che, ne La direzione della cura, Lacan scriveva che l’anoressica «joue de son refus comme un désir».13 Il rifiuto funziona qui come una metafora del desiderio, ma come una metafora impossibile, perché nessun oggetto può prendere il posto dell’oggetto del desiderio come oggetto mancante. Eccetto il niente, che è un oggetto inoggettivabile, un oggetto paradossale. In questo senso, il niente funziona qui come l’oggetto impossibile che mantiene aperta la mancanza a essere del soggetto, sostenendo la metonimia del desiderio insoddisfatto. Ma in un secondo tempo, a partire dall’inizio degli anni Sessanta fino al suo ultimo insegnamento, Lacan cambia il suo modo di concettualizzare il niente al centro dell’anoressia mentale. In linea con la nuova concettualizzazione della struttura dell’inconscio inaugurata con il Seminario VII, che mette il reale al centro della struttura, l’oggetto niente diventa, a partire dal Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, un oggetto reale che orienta il funzionamento della pulsione. Lacan aveva già inserito, nel suo scritto del 1960 Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio, l’oggetto niente nella lista degli oggetti a,14 la quale include gli oggetti freudiani (orale, anale) e 13 J. Lacan, La direction de la cure et les principes de son pouvoir (1958), in Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 628. 14 J. Lacan, Subversion du sujet et dialectique du désir dans l’inconscient freudien (1960), in Écrits, cit., p. 817.
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quelli parziali introdotti da Lacan (voce, sguardo). L’oggetto a diventa qui un oggetto che marca un’irriducibilità della dimensione del godimento pulsionale alla dimensione del significante. Ma l’oggetto niente è un oggetto a un po’ speciale, in particolare nella clinica dell’anoressia mentale strettamente intesa, che la nostra collega Carole Dewambrechies-La Sagna chiama anche anoressia vera. Da un lato non è oltremodo semplice da situare, come gli altri oggetti a, in rapporto a una zona erogena specifica del corpo. Si può pensare alla bocca, ma Lacan distingue l’oggetto orale e l’oggetto niente: i due non sono la stessa cosa. D’altra parte, come è stato sottolineato da Jacques-Alain Miller, l’oggetto niente presenta una particolarità all’interno della serie degli oggetti a: è l’unico che non funziona come causa del desiderio, ma come causa del non-desiderio.15 Il desiderio implica sempre una relazione all’Altro simbolico, come luogo nel quale si può ritrovare l’oggetto perduto. Ma nell’anoressia mentale, e più in generale nei nuovi sintomi, troviamo piuttosto, come dice Jacques-Alain Miller, un “rifiuto dell’Altro”. Il nostro collega Augustin Ménard mostra che ciò è pertinente per l’anoressia, dicendo che al fondo di quello che l’anoressica veramente rifiuta c’è il cibarsi del significante.16 Al posto di mangiare il significante, e così di accettare la castrazione e la parte di godimento che essa comporta, ella mangia il niente come godimento assoluto, non toccato dall’azione del linguaggio sul corpo. Ella preferisce privarsi così del significante per continuare a gioire senza limiti del niente. In effetti, ciò che è in gioco è un “godimento senza l’Altro”. In queste condizioni, il rifiuto anoressico ci presenta un modo di godere particolare. Nell’anoressia isterica si mantiene un legame con l’Altro attraverso un funzionamento metaforico del rifiuto come desiderio, fondato sulla mancanza ad essere. Nell’anoressia mentale il rifiuto è una pratica di godimento senza limi15 J.-A. Miller, (cur.), Situations subjectives de déprise sociale, Navarin, Paris 2009, pp. 169-170. 16 A. Ménard, L’anorexie mentale, entre psychose et névrose? Les anorexiques supposées sans demande, «Pas Tant», 20 (luglio-ottobre 1988), p. 25.
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ti disancorata dall’Altro, che può condurre il soggetto a morire. È precisamente su questo punto che un certo rapporto con la tossicodipendenza si giustifica. Lo psicoanalista Bernard Brusset, referente importante per l’anoressia, sottolinea questo punto con la formula della «tossicodipendenza endogena»: 17 se la droga del soggetto è all’interno del corpo, lui non dorvà cercarla fuori. Ma il giovane Lacan del 1938 non era lontano da ciò quando metteva sullo stesso piano l’anoressia e la tossicodipendenza, utilizzando la già citata formula del “rifiuto dello svezzamento”. Questo rifiuto permette al soggetto di fare l’esperienza di un godimento Uno, pieno, incomparabilmente più potente per lui del godimento in perdita in gioco nella sessualità umana. Una manifestazione chiara di ciò nella clinica è il rifiuto intransigente dell’ospedalizzazione che riscontriamo spesso presso le pazienti anoressiche in fin di vita. La follia anoressica diventa evidente in questo momento drammatico della cura. Il godimento del niente annulla nel soggetto la percezione del rischio, egli non ha paura della morte, non vede i limiti del proprio corpo.
L’oggetto niente e la follia nei disturbi alimentari
L’
anoressia mentale, alla luce della lettura di Lacan, ci mostra una modalità per leggere la questione della follia del XXI secolo. L’uso che Lacan compie del concetto di niente è una maniera per nominare la dimensione della follia in gioco nell’esperienza dell’essere parlante. Potremmo in effetti prendere il niente come un nome dell’oggetto fondamentale della follia del parlessere, nello specifico di questo parlessere particolare che è l’anoressica. In effetti il niente è un nome della follia umana come inclassificabile, come irriducibile a un oggetto concreto del mondo. Lacan ci offre due versioni del niente: il niente come significante dell’insoddisfazione strutturale del desiderio nella nevrosi e il niente come oggetto di un godimento senza limite 17 B. Brusset, Psychopatologie de l’anorexie mentale, Dunod, Paris 1998, p. 160.
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nell’anoressia mentale. Nel primo caso esso funziona nel discorso in rapporto alla mancanza a essere del soggetto; nel secondo caso funziona come oggetto di un godimento in eccesso, fuori discorso, un troppo di godimento illimitato. Possiamo concludere ponendoci due domande clinicamente importanti e avanzando delle ipotesi di risposta da sviluppare in altre occasioni. La prima concerne le altre forme di disturbi alimentari – la bulimia, il Binge Eating Disorder, e l’obesità psigogena che non è ancora inclusa nel DSM come una patologia psichiatrica –, e il circuito del godimento in gioco. Lacan non ci dà, a differenza dell’anoressia, molte indicazioni. Fornisce una definizione di «impulsi bulimici» nel Seminario IV,18 che penso possa funzionare ugualmente sia per la bulimia sia per le forme psicopatologiche di iper-alimentazione. Se egli aveva posto la soluzione anoressica più che altro sul versante della privazione, pone invece la bulimia sul versante della frustrazione. Gli “impulsi bulimici” sono per lui in effetti una risposta immaginaria, attraverso il consumo di un oggetto reale, il cibo, alla frustrazione della domanda d’amore. Si tratta di una definizione che funziona molto bene per le forme nevrotiche di bulimia e di obesità psicogena. Ma la domanda per me resta aperta, circa il sapere se questa definizione sia adeguata alle forme che non sono nevrotiche, e che trovo molto presenti nella clinica dei disturbi alimentari e dei sintomi contemporanei. Penso che dovremmo andare al di là di questa formula per poter leggere quello che sta accadendo in questi casi. La seconda domanda che pongo è, come orientarsi in questa clinica dove il soggetto si presenta estraneo al campo classico della nevrosi, con un’estrema povertà di costruzione fantasmatica e, allo stesso tempo, un allontanamento dal funzionamento della psicosi classica, senza un delirio strutturato in allucinazioni verbali? Ho mostrato in precedenza come ciò sia in linea con una certa tendenza contemporanea, dove la follia tende a prendere 18 J. Lacan, Le Séminaire. Livre IV. La relation d’objet (1956-1957), Seuil, Paris 1994, p. 188.
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le fattezze di un godimento muto che invade il corpo disconnettendosi dall’Altro, ma insieme sensibile alle identificazioni immaginarie che circolano nel sociale, e che sono illimitate. Mi limito qui a due osservazioni, prima di concludere la mia conferenza. La prima è che si tratta di una clinica dove la struttura non si palesa in modo semplice, perché la soluzione sintomatica copre la struttura. Le soluzioni anoressiche, bulimiche, obese hanno anche la funzione di proteggere il soggetto dall’incontro con ciò che in lui è dell’ordine del reale della struttura. L’ultimo Lacan lo dice in modo esplicito nella sua ultima definizione di anoressia: essa ha la funzione di difendere il soggetto dall’incontro con l’orrore che è situato al cuore del sapere inconscio, la funzione di proteggerlo dall’emergenza del buco nel sapere, cioè dell’inconscio reale. In questo senso, questi sintomi ci mostrano un rifiuto radicale dell’inconscio. È per questo che il lavoro analitico è complesso con questi soggetti.19 Ma la struttura può restare opaca a lungo durante il lavoro di analisi. Lavoro in cui l’esperienza clinica ci mostra qualcosa che si presenta come “fuori discorso di fatto”, per utilizzare la formula di cui Lacan si serve a proposito di Joyce e che Carole Dewambrechies-La Sagna ha applicato all’anoressia mentale. In effetti, ci sono anche dei casi che si rivelano nevrotici dopo molto tempo e nei quali il godimento anestetizzante del disturbo alimentare produce l’effetto di disattivare per un lungo periodo della vita la funzione simbolica incorporata per il soggetto. La seconda osservazione che vorrei avanzare a questo proposito, in conclusione, è che questa clinica, se si escludono i casi di nevrosi e le forme classiche di psicosi, potrà aiutarci a pensare la psicosi oggi, soprattuttto quella che abbiamo preso l’abitudine di chiamare nel Campo Freudiano, a partire dal 2000, secondo la formula introdotta da Jacques-Alain Miller, psicosi ordinaria.20 Vedi il numero monografico L’anoressica e l’inconscio, «La Psicoanalisi», 50 (settembre-dicembre 2011), Astrolabio, Roma. 20 Ho già fatto riferimento a Le refus dans l’anorexie, cit., pp. 163-167; e più recentemente a Dublino, in una conferenza tenuta il 6 Febbraio 2016 presso l’ICLO- NLS, Body and Language in Eating Disorders, reperibile sul sito dell’ICLO. 19
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Disturbi alimentari, nuovi sintomi e psicosi ordinaria potranno essere una triade feconda da interrogare nella prospettiva del prossimo Congresso dell’AMP a Barcellona, ad Aprile 2018, dedicato precisamente al tema della psicosi ordinaria e le altre.21
21 Le psicosi ordinarie e le altre sotto transfert, XI Congresso dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi, Barcellona 2-6 Aprile 2018 [n.d.c.]
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Cristiana Fanelli Il folle è l’uomo libero?
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Ouverture Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta. Dante, Purgatorio, i, vv. 70-72
I
l Discorso sulla causalità psichica (1946) è un testo controverso. Lacan contrasta le posizioni organo-dinamiste dell’amico Henry Ey e questa intenzione resta la vera forza trainante dello scritto. La follia è presentata come una scelta etica del soggetto, una «insondabile decisione dell’essere».1 In controluce affiora la “decisione anticipatrice” di cui parla Heidegger, ma se la vorlaufende Entschlossenheit descrive l’assunzione di un limite da parte del soggetto (l’essere-per-la-morte), la decisione del folle consiste piuttosto nel rifiuto di ogni limite. È una radicale contrapposizione al Simbolico: andare contro il grande Altro, non piegarsi alla catena significante e così liberarsi dal fondamento del linguaggio. Cosa ne deriva? L’esperienza clinica della psicosi insegna che nella follia non c’è l’incontro con la libertà ma solo con le catene, con le catene dell’Altro che rinvigoriscono la loro presa proprio laddove il soggetto rifiuta di stipulare con l’Altro alcun patto simbolico.2
1 J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica (1946), in Id., Scritti, vol. 1, Einaudi, Torino 2002, p. 171. 2 M. Recalcati, Clinica del vuoto. Anoressie, dipendenze, psicosi, Franco Angeli, Milano 2002, p. 171.
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Tuttavia, già in Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi (1959), questa lettura viene rettificata. Non è l’Altro tout-court ad essere rigettato, ma un solo elemento del Simbolico: il significante Nome-del-Padre che diviene, così, un garante di normalità, di senso, il significante capace di assicurare l’esistenza del soggetto. Ad ogni modo, la scelta del folle è distante dalla libertà. Il che dimostra quanta differenza vi sia tra “scelta” e “libertà”, perché si può liberamente scegliere qualcosa di molto coercitivo. Con la sua scelta, ad esempio, il folle si espone ad una serie di pericoli, soggettivi e sociali. Anzitutto quello di ritrovarsi a rischio di morte soggettiva,3 catapultato nella posizione di oggetto. Da un punto di vista sociale, invece, Lacan parla di un punto di rottura nella rete delle aggregazioni sociali – spesso il folle si trova confinato ai margini della società, isolato e spesso incapace di trovare un posto (professionale o amoroso) nell’Altro. 3 Cos’è in gioco nella morte del soggetto? Questo fenomeno consiste in una «identificazione al cadavere, al niente, all’oggetto a». Descrive la disintegrazione del soggetto ridotto a essere oggetto per l’Altro. Una paziente di Marcel Czermak dice: «Sono una specie di oggetto, di oggetto inanimato, non ho più una vita mentale, mi sembra come di essere… in campagna, mi ricordo quando si uccide un’anatra, si taglia il collo dell’animale, l’animale non ha più testa, continua a muoversi senza testa e io ho l’impressione di essere un’anatra senza testa, non ho più reazione mentale, sono ridotta ad essere un vero mostro, abominevole». S’identifica dunque all’oggetto a – come conferma la formula «sono un mostro» che la donna pronuncia quando non riesce più a mangiare, camminare, parlare, vedere, urinare, defecare, pensare. Perfettamente illustrata dal Cotard, la morte del soggetto «comporta sempre le linee di forza di un delirio di negazione» e sta sulla soglia di ogni scatenamento psicotico. Non è sempre il soggetto a dichiarare la morte, ad esempio in Schreber – osserva Czermak – la negazione arriva dall’Altro: i giornali gli annunciano il suo decesso e anche «gli altri esseri viventi sono morti o divenuti mostruosi». Czermak distingue due tipi di morte del soggetto. La prima riguarda un soggetto che, pur essendo vivo, dice: «Non esisto, sono morto». In questo caso la morte riguarda il soggetto dell’enunciazione. Vi è poi un secondo caso in cui un soggetto, già morto all’enunciazione, invoca una morte reale e chiede: «Uccidetemi». Questo avviene di solito nel Cotard. Quindi: «Nel primo caso la morte del soggetto lo precipita nella seconda morte. Nel secondo caso, colui che è già nella seconda morte, ben più oltre quindi rispetto all’altro caso, chiede la sua morte fisica».
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Il folle è l’uomo libero?
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La distinzione tra libertà e scelta rimette il discorso nella giusta prospettiva. Infatti, non si tratta tanto di riconoscere nella follia una libertà che non c’è, ma di discutere lo statuto del soggetto nella psicosi. Un’insondabile decisione dell’essere è peraltro estensibile ad ogni destino psichico, sia esso psicotico, nevrotico o perverso, perché «della nostra posizione di soggetto siamo sempre responsabili».4 Supporre una “scelta” equivale allora a supporre un “soggetto”? D’altra parte: «Ogni causalità viene a testimoniare di una implicazione del soggetto».5 Freud – ci fa notare Lacan – definisce il termine Verwerfung come «giudizio che, nella scelta, rigetta»:6 neppure la forclusione è un meccanismo che s’impone, ma implica una scelta perché si accetta o si rigetta il significante, e in questo c’è decisione. Che affiori questo coinvolgimento è il prerequisito di un’analisi: è essenziale riconoscere l’implicazione soggettiva nelle proprie condizioni di vita (nel modo di godere, di desiderare, di porsi, nelle avventure o disavventure dell’esistenza). Nel corso degli anni Settanta, però, questo discorso prende una curvatura nuova. A cambiare è lo statuto del grande Altro, descritto ora come un «un luogo che non tiene»,7 perché c’è in esso un buco, una faglia, una perdita. Con l’inconsistenza dell’Altro le cose si fanno meno sicure e alcuni riferimenti decadono, in primis quello al Nome-del-Padre come garante del soggetto e dell’Altro, un significante dotato quasi di una funzione trascendentale. Lacan valorizza allora la dimensione dell’incontro: il soggetto non sceglie l’Altro, lo incontra, e ogni incontro è contingente. Si profila in questo quadro l’idea che il soggetto sia una risposta a quanto lo ha toccato nell’incontro con l’Altro, risposta in atto
J. Lacan, La scienza e la verità (1965), in Id., Scritti vol. 2, p. 863. J. Lacan, La Cosa Freudiana (1955), in Scritti vol. 1, p. 406. 6 J. Lacan, Il seminario. Libro xix, Le savoir du psychanalyste (19711972), inedito, lezione del 1° giugno 1972. 7 J. Lacan, Il seminario. Libro xx, Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino 2011, p. 27. 4
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dal Reale.8 Origina da qui uno spostamento, la responsabilità investe ora il proprio saperci-fare: «Si è responsabili solo nella misura del proprio saper-fare. Che cos’è il saper-fare? È l’arte, l’artificio, ciò che dà all’arte di cui si è capaci un valore rilevante, dato che non c’è Altro dell’Altro».9 Se non c’è Altro dell’Altro, allora la risposta del soggetto, il suo saperci-fare vengono al centro della scena.
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Il sorriso di Lacan L’essere dell’uomo non solo non può essere compreso senza la follia, ma non sarebbe l’essere dell’uomo se non portasse in sé la follia come limite della sua libertà. J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica
L
acan ha dunque spostato la prospettiva dalla libertà alla scelta, mettendo in luce quel tranello del destino che inganna il folle «su una libertà che non ha affatto conquistato».10 Ma non di rado la follia è accostata alla libertà. Persino una frase d’uso comune come «ho fatto una follia» ne reca traccia accostando un eccesso – una follia appunto – a una libertà finalmente accordata. Eppure, accostare la follia alla libertà è una svista dell’immaginario, un azzardo che solo la clinica può riposizionare nella prospettiva di un’illusione. Ogni discorso sulla libertà urta sulla nostra dipendenza, in quanto parlesseri (nevrotici, perversi o psicotici), dal linguaggio. Una dipendenza che può variare di grado a seconda delle strutture, ma che resta ineludibile. L’uomo dalle parole imposte, di cui Lacan parla nel suo seminario su Joyce,11 lo dice così:
8 D’altronde in …ou pire (lezione del 14 giugno 1972) Lacan dice che tutto quel che noi tocchiamo del Reale è la Spaltung, la scissione del soggetto. 9 J. Lacan, Il seminario. Libro xxiii, Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006, p. 57. 10 J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica (1946), cit., p. 171. 11 J. Lacan, Il seminario. Libro xxiii, Il sinthomo (1975-1976), cit., p. 91.
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Non è qualcosa di pensato, arriva con il contatto, arriva tutto d’un colpo, ci sono delle frasi parassite che vengono a innestarsi […] Bisogna che reagisca. Siamo prigionieri delle parole, è atroce… non so come fare con tutte queste frasi che mi assalgono.12
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Gli fa eco Lacan che, nel corso degli anni Settanta, si spinge a dire: Come mai non avvertiamo tutti che le parole dalle quali dipendiamo ci sono in qualche modo imposte? Ecco dove un cosiddetto malato va talvolta ben oltre un uomo definito in buona salute. Il problema è piuttosto quello di sapere perché mai un uomo normale, cosiddetto normale, non si accorga che la parola è un parassita, una placcatura, che la parola è la forma di cancro che affligge l’essere umano. Come mai alcuni arrivano ad avvertirlo?13
Dopo la conferenza di Lovanio del 1972, Lacan viene intervistato da Françoise Wolff. Interrogato sulla libertà, lo psicanalista esita a lungo, poi il suo sorriso diventa una risata e, tornato serio, spiega alla donna che lui non parla mai di libertà…14 Possiamo quindi dire che la psicanalisi lacaniana ci spinge a cercare il valore della follia altrove che nella libertà. Almeno tre i punti degni di nota, che svilupperò nel prosieguo:
M. Czermak, L’uomo dalle parole imposte, in Aa.Vv., Il sapere che viene dai folli, a cura di N. Dissez e C. Fanelli, Roma, DeriveApprodi 2017, p. 17, pp. 12-40. 13 J. Lacan, Il seminario. Libro xxiii, Il sinthomo (1975-1976), cit., p. 91. 14 L’intervista viene realizzata da Françoise Wolff dopo la conferenza che Lacan tenne all’Università di Lovanio nel settembre 1972. L’insieme di questi materiali fu poi raccolto dalla Wolff nel documentario Lacan parle (1972), una delle poche tracce filmate di Lacan e anche interessante documento di un’epoca – durante la conferenza Lacan fu contestato dagli studenti e rispose alla sua maniera. 12
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1) È stato l’incontro con soggetti psicotici a spostare Lacan verso la psicanalisi, come se i mezzi della psichiatria e della neurologia non fossero sufficienti ad accostare il fenomeno psicotico. Ha forse ravvisato nel folle un soggetto, sebbene con caratteristiche molto diverse da un nevrotico? 2) Lacan ha riservato alla psicosi un posto privilegiato nel suo insegnamento. Valgano da indici di questo privilegio la pratica della “presentazione dei malati” e la vivacissima elaborazione teorica che, dal determinismo del Nome-del-Padre, lo porterà alla clinica dei nodi e delle supplenze. 3) Lungi dal considerarla un deficit o un errore di natura, Lacan esalta il valore umano del fenomeno della follia che «attiene all’essere stesso dell’uomo»15 di cui illustra la struttura psichica. La psicosi allora ha il valore di un paradigma: meccanismi quali il misconoscimento dell’io o l’aggressività narcisistica vi sono perfettamente descritti e fanno testo anche per la cosiddetta “normalità”. Uno dei tratti essenziali della follia è di aderire, puramente e semplicemente, all’immaginario del proprio io,16 perciò il folle si crede altro da ciò che è. Eppure «se un uomo che si crede un re è pazzo, un re che si crede un re non lo è di meno».17 Con il concetto di misconoscimento Lacan entra profondamente nelle maglie della soggettività umana. Ci porta al cuore di una certa infatuazione narcisistica per il proprio io che la follia realizza pienamente perché essa «è esattamente questa presunzione di identità».18 Allo psicotico riesce quell’espulsione della divisione soggettiva che tanto tormenta il nevrotico e a cui questi cerca di porre rimedio puntando su un io privo di lesioni, come per tamponare le faglie sempre in perdita della propria soggettività.19 J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica (1946), cit., p. 148. J. Lacan, Il seminario. Libro ii, L’io nella teoria di Freud e nella tecnica psicoanalitica (1954-1955), Einaudi, Torino 2006, p. 280. 17 J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica (1946), cit., pp. 165-166. 18 M. Recalcati, Clinica del vuoto. Anoressie, dipendenze, psicosi, cit., p. 170. 19 In realtà, l’aspirazione ad una rotondità narcisistica è la base di tanti disagi. Charles Melman ama ripetere che la sola libertà di un parlessere sta nella sua divisione soggettiva. Scrive in proposito Massimo Recalcati: «La follia espone un tratto universale dell’essere umano che si esprime nella spin15 16
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Il folle è l’uomo libero?
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Questi tre punti descrivono un modo di pensare la follia. Dimostrano che riflettere su di essa non significa soltanto studiare il folle, ma anche chi ne ha cura e i luoghi deputati ad ospitarlo. Come se il suo fenomeno si componesse di tutte queste facce.
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Come la follia guida un giovane psichiatra verso la psicanalisi Qui si tratta, com’è chiaro, di un disordine provocato nella più intima giuntura del sentimento della vita del soggetto. J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento delle psicosi
I
l giovane Lacan fa il suo apprendistato in psichiatria negli anni Venti e Trenta. Sono anni di grandi scoperte nel campo della neurologia, anni in cui le patologie dell’immagine del corpo sono al centro dell’interesse della psichiatria. Vengono identificate nuove sindromi (dei sosia, di inter-metamorfosi, di Fregoli) che interessano Lacan e che ispirano le sue ricerche sull’immagine. A questi anni data anche l’indagine attorno al corpo dismorfofobico dello schizofrenico che indugia a lungo dinanzi allo specchio, come per fissare un’immagine che sta perdendo – fenomeno denominato “segno nello specchio” e considerato un indizio precoce di schizofrenia. ta, nella passione indomita dell’uomo per la propria immagine, per l’attaccamento […] alla consistenza ideale della propria identità. Si tratta di una spinta all’Uno, all’Identico che riguarda, dunque, l’essere dell’uomo come tale» (Clinica del vuoto. Anoressie, dipendenze, psicosi, cit., p. 169). La chiave di lettura che Lacan ci offre rovescia infatti i luoghi comuni: anziché coincidere con una mancanza di ragione, la follia è la credenza delirante dell’io di essere un Uno indiviso: «La follia è esattamente questo delirio d’identità […] È questa la finezza di Lacan nel Discorso sulla causalità psichica: far coincidere la follia con la presunzione auto-identitaria della ragione, definire come “formula generale della follia” la funzione di misconoscimento dell’io che si vede uguale a se stesso. L’esclusione dell’Altro che qui viene operata è di per sé l’esclusione, il “rigetto” dell’inconscio tout court, ossia l’esclusione del soggetto diviso. È questo, in effetti, il tratto peculiare, anche clinico, della psicosi». Ivi, p. 170. L’esclusione dell’Altro simbolico si fa in nome di un’adesione immaginaria al proprio io.
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È tra il 1927 e il 1931 che Lacan perfeziona il suo passaggio dalla neurologia alla psichiatria. Al Sainte-Anne studia la clinica delle malattie mentali dedicandosi soprattutto a casi di follia femminile: isterie spettacolari, follie a due, paranoie. Sono proprio i casi di paranoia a spostare la sua attenzione sul linguaggio (in particolare sui concetti di schizofasia e schizografia). A mutare la sua prospettiva concorrono non solo Kraepelin e Delacroix, ma una lettura attenta del testo freudiano nonché lo scritto di Salvador Dalì Asino marcio. In seguito, Lacan riconoscerà in Gaëtan Gatian de Clérambault il suo maestro in psichiatria: è il concetto di “automatismo mentale” il perno attraverso cui pensare il rapporto del folle (e non solo) con il linguaggio. Anni dopo, invece, ricorrerà al significante automaton20 per descrivere come il soggetto sia preso in una rete significante che lo comanda e che induce il meccanismo di ripetizione. Parla allora di “autonomia” del significante mentre, nel corso degli anni Settanta, giunge a definire “normale” il fenomeno dell’automatismo.21 La perlustrazione intorno alla follia femminile lo porta ad incontrare Marguerite Anzieu, la donna cui poi dedicherà la sua Tesi di dottorato Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità (1932). Quando arriva al Servizio in cui è di guardia, Marguerite ha appena compiuto un passaggio all’atto aggressivo verso l’attrice che considera sua persecutrice. A partire dal 18 giugno 1931 Lacan la prenderà in carico. Di questa donna, rimasta la segreta interlocutrice di una vita d’insegnamen20 J. Lacan, Il seminario. Libro xi, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1961), Einaudi, Torino 2003, pp. 52-53. 21 Per chiarire la normalità del fenomeno automatico, Marcel Czermak scrive: «Nella misura in cui parlo, dimentico che, in un certo senso, mi sento in eco, mentre sono in anticipo su quel che dirò e compio anche una retroazione rispetto a quel che ho appena formulato. In altre parole soffro di un automatismo mentale di cui non mi rendo conto» (M. Czermak, Introduction. Recherches actuelles sur les psychoses, in «JFP», 35 (2011), p. 9), un automatismo normale insito nella stessa vettorizzazione della catena significante. Potremmo definirlo il versante reale del Simbolico.
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to, avrebbe poi detto: «Al Sainte-Anne ho inteso cose che sono state per me del tutto decisive, ma questa è una mia faccenda personale […] Per dirla tutta, e per renderle omaggio, è, come ciascuno sa, da questa malata, che ho indicato con il nome di Aimée che, certo, non era il suo, che sono stato aspirato verso la psicanalisi».22 Lacan inscrive nell’amore di transfert verso una donna psicotica il suo ingresso nella psicanalisi. Ci restituisce in tal modo una verità d’esperienza: in una psicanalisi è in gioco la dimensione dell’incontro con l’Altro, con l’oggetto a, ma anche dell’incontro tra soggetti – se è vero che «ogni amore si sostiene con un certo rapporto tra due saperi inconsci».23 Un incontro destinato a segnare sia l’analizzante che l’analista. Ad ogni modo questo incipit lascerà un’impronta durevole sul suo insegnamento, assegnando alla follia un posto privilegiato.
22 J. Lacan, Il seminario. Libro xix, Le savoir du psychanalyste (19711972), inedito, lezione del 6 gennaio 1972. Come suggerisce anche l’appellativo “Aimée” (si chiamava così una delle eroine dei romanzi scritti dalla donna) questo caso pone al centro l’amore, o meglio, la difficoltà che l’esperienza amorosa conosce nella psicosi. Nella paranoia, ad esempio, il discorso d’amore è dominato dal tema della morte (che non di rado si risolve in un passaggio all’atto omicida o suicida). Lacan nota in Aimée un’aspirazione amorosa la cui «espressione verbale è tanto più tesa quanto più in disaccordo con la vita, e piuttosto votata al fallimento». Ha poi sviluppato questa tesi nel seminario consacrato alle psicosi: «Per lo psicotico è possibile una relazione amorosa che lo abolisce come soggetto […] Ma questo amore è anche un amore morto». Molti anni dopo, nel 1975, in una conferenza tenuta alla Yale University, Lacan torna a parlare di Aimée dicendo: «La psicosi è una sorta di fallimento nella realizzazione di ciò che è chiamato amore» – testimoniando così la tenacia del suo transfert verso la giovane donna. Lacan dirà anche: «Se si rilegge la mia Tesi, si vedrà questa specie di attenzione data a ciò che è stato il lavoro, il discorso della paziente; l’attenzione che io le ho riservato è qualcosa che non si distingue da ciò che ho potuto fare in seguito». Anni dopo, per una di quelle strane combinazioni del destino, Didier Anzieu – il figlio della donna – finirà sul lettino di Lacan ad interrogare la follia materna. Lui dichiarerà di non sapere che Lacan fosse lo psichiatra di sua madre e Lacan di non aver riconosciuto in lui il figlio della sua Aimée. 23 J. Lacan, Il seminario. Libro xx, Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino 2011, p. 138.
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La presentazione dei malati. Un’etica dell’ascolto Guardiamoci accuratamente dal trasformare in pietre le parole. J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica
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a presentazione dei malati è un esercizio di clinica psichiatrica tipico della tradizione francese, cui Lacan si dedicherà nel corso di tutta la sua esistenza. Con lui però le presentazioni cambiano di segno: la clinica dello sguardo (il cui vertice era stato raggiunto con Charcot) fa posto alla clinica dell’ascolto, che pone al centro la parola del paziente. È stato Marcel Czermak a raccoglierne il testimone dando vita alla Scuola del Sainte-Anne ove, proprio nel quadro delle presentazioni, è sorta una psichiatria psicanalitica. Come si strutturano le presentazioni? Il punto di origine sta in un difetto di sapere: uno psichiatra, in impasse rispetto alla direzione della cura, si rivolge ad un collega più esperto cui descrive le difficoltà del caso (Lacan era solito raccogliere questo racconto un quarto d’ora prima di cominciare). Dopo aver ascoltato il collega, interroga il paziente alla presenza dello psichiatra che lo ha interpellato e di un pubblico fatto di medici, tirocinanti, psichiatri o psicanalisti. È Jean-Jacques Tyszler a restituirci gli aspetti essenziali di questa prassi e il suo profilo etico: Il tempo della presentazione […] permette che il paziente non si sedimenti nella propria diagnosi, nella propria terapia e soprattutto modifica lo sguardo rivolto verso di lui, che si cronicizza molto in fretta […] il tempo della presentazione è spesso una fortuna per il paziente. La fortuna di ricevere uno sguardo un po’ nuovo, una domanda che non gli veniva più posta, una curiosità sulla sua infanzia alla quale nessuno si era interessato. E c’è la sorpresa di vedere apparire cose nuove o cose note che assumono nuovo interesse.24 J.-J. Tyszler, Quando l’ascolto è un evento. La presentazione dei malati, in Aa.Vv., Il sapere che viene dai folli, cit., pp. 103-104. 24
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Come testimoniano in molti – e come documentano tutte le trascrizioni che ho avuto modo di studiare – in queste occasioni Lacan ha intrattenuto con i pazienti psicotici colloqui di altissimo livello. Sebbene siano proprio gli psicotici a svelare le impasse della relazione con la parola, Lacan non ha mai smesso di rivolgersi loro con il massimo rispetto: «C’era una tecnica che, semplicemente, valorizzava il fatto di trattare al meglio l’essere parlante, non importava se psicotico o meno».25 La Scuola del Sainte-Anne ha conservato questo stile. Marcel Czermak ha ereditato da Lacan questo modo d’impegnarsi, di spingersi lontano nel discorso con i pazienti: sondava il grado di certezza insito nel loro dire e su quali elementi si fondasse; verificava le capacità dialettiche di quel parlessere, indagava il perché di un certo postulato anziché di un altro, non mancava di esprimere cosa lui stesso ne pensasse. Così Czermak riusciva sempre a far sorgere delle linee di forza, delle curiosità, dei modi d’approccio inediti, delle fratture del tutto ignote a coloro che, prima, avevano osservato quella psicosi e che soprattutto erano difficili da ricondurre alla psichiatria tradizionale. Entrava profondamente nel campo strutturale del paziente, seguiva il suo discorso, senza mai puntare almeno all’inizio a ricondurlo ad un campo noto. Non cedeva mai su questa dimensione dell’ignoto.26
Ricercava dunque un sapere singolare, non assimilabile al sapere costituito. In tal modo egli dava prova di riconoscere chi aveva di fronte nel suo particolare discorso e, così facendo, gli conferiva un posto: lo istituiva come qualcuno che parla trasformando quell’incontro in un evento. Se per un verso provava ad urtare quel paziente nei suoi modi di pensare e dire, per un altro cercava di «far sorgere paradossi sul nostro sapere».27 Infatti, quando aveva finito con il paziente, «interrogava noi, lì presenti, sul perché avessimo utilizzato quella parola e non un’altra». Poneva domande, metteva in crisi le Ivi, p. 100. Ivi, p. 98. 27 Ibidem. 25 26
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diagnosi obbligandoli a riflettere sulle parole con cui descrivevano un fenomeno: «Perché dite così? Cosa chiamate “discordanza”? Perché lui vi sembra “discordante”? Non siete voi più discordanti di lui alla fine? Ogni parola veniva ripresa al rovescio. Non cedeva mai su questa dimensione di “non saputo”».28 Era straordinario, ma anche devastante, perché obbligava i giovani a nominare il Reale senza mai piegarsi a categorie prestabilite. Così, queste presentazioni sono divenute un’occasione di messa in discussione della nomenclatura psichiatrica. A cosa risponde questa prassi? Alla necessità di pensare e nominare la teoria a partire dai fatti clinici. In altre parole, è la singolarità di un discorso che deve ravvivare, smuovere, eventualmente rinnovare la fissità del concetto. In queste occasioni, Lacan era solito dire che l’etica della psicanalisi è la pratica della sua teoria – e sappiamo quanto egli sia stato infatti versatile, duttile nel rinnovare le sue posizioni teoriche. Nominare un fatto clinico equivale ad abbordare un Reale bonificandolo attraverso il Simbolico. Una nominazione riuscita sa cogliere il tratto strutturale di un fenomeno e permette quindi di dedurre indicazioni sulla manovra clinica. Designa inoltre il modo di porsi nei riguardi di chi parla e del fatto psicopatologico. Una nominazione è portatrice di un modo di pensare sia il soggetto che la clinica. Pertanto le presentazioni sono anche un luogo di formazione e di trasmissione di un sapere. Questo modo di concepire l’etica esige una sensibilità all’ascolto affinata da un lungo e approfondito lavoro sulle parole, nonché un rapporto con chi parla basato sulla capacità di rintracciare la cifra singolare di un dire. Quindi è parte integrante della formazione prendere appunti, registrare tutto e trascriverlo «scrupolosamente, senza barare, senza riassumere».29 Un lavoro di letteralità sul discorso. A questo mirano i gruppi sul “tratto del caso” creati da Czermak con il compito di restituirgli il senso profondo di ciò che hanno ascoltato, trascritto e discusso, rintracciando il tratto di struttura essenziale per dar conto di quel caso. Ibidem. Ivi, p. 99.
28 29
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D’altronde in psicanalisi si tratta sempre di un ascolto caso per caso perché «c’è psicanalisi solo del particolare».30 Questo tipo di esercizio mette chi ascolta in movimento, gli evita di sedimentarsi – a dire di Tyszler è lo sguardo del clinico a cronicizzarsi, non il paziente. Le presentazioni sono “pratiche vive” anche nel senso in cui Lacan concepiva la vita della lingua: Si crea una lingua nella misura in cui in ogni istante le si dà un senso. Le si dà un ritocco senza il quale la lingua non sarebbe viva. È viva in quanto viene creata in ogni momento. Di conseguenza non c’è inconscio collettivo. Ci sono solo inconsci particolari, in quanto ognuno, in ogni momento, dà un piccolo ritocco alla lingua che parla.31
Work in progress Ora, senza il riconoscimento del valore umano della follia, è l’umano a sparire. Jean-Jacques Tyszler, Il sapere che viene dai folli
C
ome accennato, la follia è stata al centro di una costante, fertile evoluzione teorica con una parabola che, dal determinismo del Nome-del-Padre, è giunta alla clinica del nodo e delle supplenze. Con l’ultimo Lacan siamo entrati in una fase molto diversa da quella in cui la forclusione del Nome-del-Padre definiva la causalità della psicosi e tracciava uno spartiacque sicuro tra nevrosi e psicosi. L’attenzione si è spostata sugli annodamenti e i disannodamenti soggettivi, la clinica si è aperta su concetti nuovi quali supplenza, sinthomo, psicosi scompensata o compensata, psicosi scatenata o non scatenata, psicosi stabilizzata, riparazione, stati limite e limiti della psicosi, psicosi bianche. Cos’è una psicosi prima dello scatenamento? È una psicosi oppure no? Questi quadri clinici ci mettono sulle tracce della supplenza. Come scrive Danièle Brillaud: 30 J. Lacan, Introduzione all’edizione tedesca di un primo volume degli Scritti, in Id., Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 549. 31 J. Lacan, Il seminario. Libro xxiii, Il sinthomo (1975-1976), cit., p. 130.
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Le manifestazioni patologiche psicotiche non sono permanenti: c’è tutto un periodo, prima della scompensazione psicotica, in cui il soggetto psicotico ha una consistenza e un orientamento dall’aria fallica. Questo ci permette di supporre che vi siano delle supplenze, e persino, in alcuni casi, un vero sinthome, come in Joyce.32
Ci sono persino psicosi destinate a non scatenarsi mai nel corso di un’esistenza, forse perché non si darà l’incontro con quella contingenza vitale che avrebbe trovato il soggetto demunito dei mezzi simbolici necessari ad affrontarla. Che lo avrebbe inabissato nel suo particolare buco simbolico. L’evoluzione della clinica spinge ad esplorare i confini tra normalità e follia. Non di rado ci appoggiamo sul significante “folle”, in luogo del più tecnico “psicosi”, per definire stati privi di deliri, di allucinazioni o dei più classici fenomeni elementari ma che, nondimeno, mancano dei caratteri tipici della nevrosi. Moltiplicano perciò casi di psicosi che esigono di essere definiti attraverso l’aggettivo “ordinaria” e non “straordinaria”. “Folle” è la parola più appropriata per certi stili di vita. Si fanno ormai largo nuove forme di soggettività non più organizzate dal meccanismo della rimozione. Da qui nascono nuove nominazioni che rispondono proprio alla difficoltà di classificare casi che finiscono volentieri nella categoria di borderline33 o stati limite. Se Jacques-Alain Miller parla di forclusione generalizzata, nell’ALI-Paris si riflette sulla clinica della contingenza, uno sviluppo teorico estremo della clinica delle supplenze che iscrive la psicosi all’interno di un disannodamento contingente e – a certe condizioni – trattabile. Il Lacan dei nodi 32 D. Brillaud, Classification lacanienne des structures subjectives, edizioni ALI, Paris 2017, p. 25. 33 Sarebbe interessante pensare in che modo uno psicanalista che ha tanto lavorato su concetti quali “bordo”, “limite”, “faglia”, che ha realizzato grazie ai nodi un intreccio di buchi, che ha concepito quei buchi come bordi da percorrere senza precipitarvi dentro, che ha pensato le zone d’inserzione come fasce di godimento, ebbene: come avrebbe situato sul nodo questo tipo di clinica?
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ha mobilizzato la clinica al punto tale da definire il padre un sintomo tra altri, non più il garante della normalità. Ma attenzione: il principio della struttura non viene mai meno – il che distingue questa manualità, questa plasticità, questo saperci fare da un approccio che sgancia il fatto clinico dalla struttura e dal linguaggio. L’insieme di tali fenomeni inaugura nuove prospettive cliniche. L’arco tracciato da Lacan va in direzione di una clinica inventiva, che permetta allo psicotico di creare strumenti per tenere ed integrarsi, nonostante la forclusione. Da dove è nata questa esigenza? Dalle caratteristiche del soggetto psicotico che richiedono un lavoro diverso da quello con il nevrotico.34 Possiamo quindi parlare di soggetto nella psicosi? Quando ho interrogato Charles Melman su questi temi ha risposto in modo piuttosto radicale: Di certo lo psicotico compie una scelta rispetto al proprio destino ma, una volta compiuta questa scelta, non si può più parlare di soggetto. Perché questa scelta implica che egli rifiuti qualsiasi perdita, in particolare la perdita che avrebbe potuto fare di lui un soggetto. La scelta è insondabile perché senza fondo.35
Ma che cos’è un soggetto, o meglio, a partire da quando si può parlare di soggetto? Un soggetto nevrotico ed un soggetto psicotico si strutturano allo stesso modo?
Assoggettamenti Lacan sviluppa questo tema nell’arco di vari seminari, ma qui farò riferimento soltanto a Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959) e I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964). 34 Rinvio il lettore ad un lavoro di Angela Jesuino-Ferretto che descrive bene questa inventività all’interno di un percorso analitico: Produzioni attorno all’immagine e all’oggetto, in Aa.Vv., Il sapere che viene dai folli, cit., pp. 268-274. 35 Con Cristina Guarnieri stiamo realizzando un libro intervista a Charles Melman che sarà pubblicato nel 2020 per le edizioni Castelvecchi.
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Sono due le scansioni necessarie a produrre un soggetto: l’alienazione (nei significanti dell’Altro) e la separazione dall’Altro (attraverso un oggetto che organizzerà il desiderio di quel soggetto). Se, come accade nella psicosi, la separazione fa difetto, il rapporto con l’Altro è privo di cesure, di tagli e lascia il soggetto preda dell’Altro. Analizziamo intanto alcuni tratti essenziali del soggetto. Il primo punto che Lacan ci offre per pensare il soggetto è nel Simbolico: un soggetto è rappresentato da un significante (S1) presso un altro significate (S2). Il soggetto è in realtà un assoggettato, puro effetto di un’articolazione significante. L’alienazione avviene nel Simbolico ed è un passaggio indispensabile perché il vivente s’inscriva nel campo dell’Altro (nell’autismo ad esempio è proprio questa iscrizione significante nel campo dell’Altro a mancare). Il senso più profondo della castrazione simbolica è allora acconsentire a iscriversi nel significante e, in questo, c’è decisione. Qual è invece l’oggetto della castrazione simbolica? È il fallo, ovvero quel significante che saprebbe restituire un senso pieno all’identità del soggetto, garantirlo, donargli una pienezza d’essere. Ciò significa che si prende posto nel campo dell’Altro a prezzo di quella che Lacan chiama mancanza-a-essere. Il linguaggio allora non è il luogo dell’essere (la dimora dell’essere avrebbe detto Heidegger): con la psicanalisi lacaniana, la parola coincide con una perdita di sostanza, con una sfasatura, se è vero che diciamo sempre meno di quel che vorremmo e sempre più di quel che avremmo voluto, quindi è un luogo di fraintendimenti, equivoci, distorsioni. Questa mancanza riguarda l’Altro e di conseguenza intacca il soggetto la cui filigrana è fatta di quei significanti. L’alienazione causa un’irreversibile perdita di godimento. Il significante scava godimento in punti precisi del corpo, destinati poi a divenire le zone erogene. Infatti, l’erotizzazione del corpo non avviene in modo indifferenziato: il godimento si organizza negli orifizi, nei buchi prodotti dal significante (la perdi-
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ta di godimento si consuma al livello del seno, dell’escremento, dello sguardo, della voce – è il senso ultimo delle varie fasi dello svezzamento). Il corpo potrà erotizzarsi solo se prima c’è stata sottrazione di godimento: dove il Simbolico ha tolto, lì l’oggetto proverà a riportare godimento nel corpo. E in che modo? Attraverso un movimento destinato a non compiersi mai, a ripetersi sempre. Lo si vede bene nel nevrotico: il suo desiderio è causato da un oggetto la cui caratteristica essenziale è di spostarsi sempre, di mancare dove era stato avvistato, un oggetto mai afferrabile. Perciò Lacan connota la relazione d’oggetto nei termini di una relazione con la mancanza d’oggetto – mancanza che preserva la vitalità del soggetto. Altro punto di divaricazione con la psicosi: se il nevrotico andrà a cercare questo oggetto nel campo dell’Altro (cioè sa che non gli appartiene, è perduto), lo psicotico ha l’oggetto in tasca, non deve cercarlo nell’Altro perché non lo ha mai perduto (e che l’oggetto non sia un buco fa sì che esso si presenti nel Reale, attraverso i fenomeni elementari, percepiti dal soggetto come estranei ma di certo indirizzati a lui). Siamo partiti dalla formula «un soggetto è rappresentato da un significante presso un altro significante». Lacan lo ha scritto così: S1→S2. Possiamo intenderlo come segue: il soggetto s’inscrive, viene rappresentato e riconosciuto nel campo dell’Altro attraverso un significante (S1) che tuttavia non esaurisce il suo senso, perché si articola sempre ad almeno un altro significante. È come se nell’intimo del soggetto ci fosse uno iato, un continuo slittamento – quel che Lacan chiama divisione del soggetto (ben rappresentata dagli «squarci» di Lucio Fontana).36 Mentre il soggetto è rappresentato in S1, altrove (nel significante S2), scompare: S2 è allora il luogo della sua scomparsa o, per dirla con Lacan, è il luogo dell’afanisi del soggetto. Qui entra in gioco la seconda tappa: la separazione dall’Altro. Questo processo non avviene per via simbolica, cioè significante, ma attraverso un oggetto che Lacan denomina oggetto a. 36 J. Lacan, Il seminario. Libro xix, …ou pire (1971-1972), inedito, lezione del 21 giugno 1972.
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Se in un primo tempo lo ha situato nell’Immaginario, a partire dagli anni Sessanta lo collocherà nel Reale. In La logique du fantasme (1966-1967) scrive: «Il termine a ci apparirà molto meno apparentato con il dominio dell’Immaginario. L’Immaginario vi si abbarbica, vi si accumula, ma l’oggetto a ha un altro statuto»,37 dimora nel Reale. L’Immaginario quindi riveste l’oggetto, ne è la faccia visibile, ma dietro c’è solo un buco generatore di mancanza. Quindi possiamo considerare l’oggetto a come il prodotto della castrazione simbolica: solo se si acconsente a iscriversi nel significante e ci si sottopone alla perdita di godimento che l’alienazione comporta, solo allora questo oggetto (che in realtà è un buco) potrà organizzare le piste del desiderio di un soggetto. Lo spazio che si apre tra quei due significanti, spazio organizzato sulla mancanza d’oggetto, è anche lo spazio del desiderio del soggetto – ed ecco la funzione separativa dell’oggetto dall’Altro. Quindi: S1→S2 = $ [dove l’oggetto a è l’elemento che cade in questa articolazione] $ in qualche modo è l’effetto del trattamento significante e della perdita d’oggetto. Infatti, solo dopo averlo perso, il soggetto torna a coordinarsi con l’oggetto mancante, verso cui tende senza poter mai né reintegrarlo né coincidere con esso. Lacan inscrive la loro relazione nella formula del fantasma $˂˃a «che dà la sua forma a quello che io ho chiamato il fantasma fondamentale e che assicura al desiderio la sua struttura minimale».38 Si tratta di una relazione a doppio ingresso, perché può essere letta in un senso o nell’altro. Jean-Jacques Tyszler traccia così il discrimine tra nevrosi e psicosi: 37 J. Lacan, Il seminario. Libro xv, La logique du fantasme (1966-1967), inedito, lezione del 16 novembre 1966. 38 J. Lacan, Il seminario. Libro vi, Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959), Einaudi, Torino 2016, p. 405.
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Un soggetto non è mai uguale a quello che ha appena detto di sé, ma viene sempre rinviato a un altro significante, e in qualche modo proprio questo lo salva. Nel caso dello psicotico ci accorgiamo di quanto egli sia nel posto in cui parla, ad esempio in una scena dell’infanzia, egli si trova esattamente lì. Sarà per sempre in quel posto, commemorerà quel posto significante, per lui immutabile.39
Come si organizza la soggettività psicotica? Tra i due significanti (S1 e S2) non c’è spazio, non sono distinti tra loro, ma sono solidificati. Come ci spiega Lacan: «Quando non c’è intervallo tra S1 e S2, quando la prima coppia di significanti si solidifica, si olofrasizza, abbiamo il modello di tutta una serie di casi – benché, in ciascuno, il soggetto non occupi lo stesso posto».40 Allude alla psicosi, alla psicosomatica e alla debilità mentale. Dunque l’olofrase è la cifra simbolica del soggetto psicotico. Si è inchiodati ad un significante che non rinvia a un altro. Questo difetto nel processo di alienazione, difetto simbolico dunque, determina l’assenza di quel luogo di afanisi in cui, come abbiamo visto, il soggetto prima si perde e poi si ritrova, anzi riemerge facendo leva sull’oggetto che traccia le piste del suo desiderio (quella della psicosi infatti non è una clinica del desiderio). Nella psicosi l’oggetto a – che come abbiamo visto è l’effetto della castrazione, rovescio della mancanza-a-essere, e anzi: esso stesso mancanza, una mancanza che segna la direzione – non è perduto e, anziché svolgere una funzione separativa, s’incarcera nel corpo del soggetto. Se l’olofrase ci restituiva la cifra del rapporto dello psicotico con il significante, qui siamo confrontati al rapporto con l’oggetto a che determina il secondo elemento strutturale della psicosi: l’ipocondria. 39 J.-J. Tyszler, Quando l’ascolto è un evento. La presentazione dei malati, in Aa.Vv., Il sapere che viene dai folli, cit., p. 102. 40 J. Lacan, Il seminario. Libro xi, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), cit., p. 241.
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Anziché staccarsi dal corpo, l’oggetto vi resta imprigionato ponendo il soggetto sempre a rischio di scoprirsi oggetto del godimento dell’Altro (come avviene in modo evidente nella paranoia) oppure, come nel caso della schizofrenia, l’oggetto manda il corpo in frantumi. Riguardo l’ipocondria Daniéle Brillaud scrive: Quando una circostanza confronta il soggetto ad un appello al Nome-del-Padre, il buco nel simbolico a cui il soggetto è confrontato comporterà una cascata di rimaneggiamenti nell’immaginario. S1 e S2 si congelano, vale a dire che l’oggetto a, che aveva l’aria di essere ritagliato, si reincarcera bruscamente nella catena, nel corpo, scatenando il fenomeno ipocondriaco.41
Al fenomeno ipocondriaco è correlato un diverso funzionamento della pulsione. Se l’oggetto (perduto) assicurava un ritorno di godimento localizzato in precise zone erogene, un oggetto imprigionato nel corpo produce ben altri destini della pulsione. Innanzitutto vi sono eccessi pulsionali, c’è una violenza con effetti sulla fisiologia del corpo. Czermak parla di despecificazione pulsionale a proposito degli psicotici. Freud parlava di disimpasto pulsionale a proposito della melanconia psicotica: la pulsione di morte non è più ritmata dalla pulsione di vita ed agisce così in modo indiscriminato sul soggetto, distruggendolo. La clinica della psicosi è una clinica del godimento, o meglio, dei fenomeni reali del corpo. Nella psicosi la formula del fantasma si disfa perché il soggetto non è separato dall’oggetto a. Se la formula del fantasma poneva tra il soggetto e l’oggetto un punzone – per significare che il soggetto esiste separato dall’oggetto, ma in tensione verso di esso – nella psicosi il soggetto coincide con l’oggetto. Avere l’oggetto in tasca significa essere invasi dai fenomeni reali dell’oggetto (anzitutto i fenomeni allucinatori). E significa anche sentirsi esposti ad essere un oggetto in balia dell’Altro. 41 D. Brillaud, Classification lacanienne des structures subjectives, cit., p. 25.
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Che fine farà dunque la barra che attraversa il soggetto nevrotico e lo divide? Marcel Czermak fa un’ipotesi ispirata alla clinica: Basta ascoltare o constatare cosa succede ai nostri pazienti: il soggetto, quando si butta dalla finestra, fa una vera coupure, vale a dire che si elimina davvero; o anche nel caso dell’automutilazione in cui ciascuno di noi si è imbattuto, quella divisione del soggetto che non è avvenuta, che non si è prodotta, fa ritorno nel soggetto che si fa equivalere ad una pura coupure. Possiamo scriverlo così: S=a=/ Il soggetto equivale all’oggetto ed equivale alla coupure.42
La coupure, quel taglio, quella linea mediana che attraversa il soggetto e ne celebra la separazione dall’oggetto, nella psicosi torna come passaggio all’atto in cui il soggetto rischia di sparire realmente – non più simbolicamente. Peraltro tutti gli elementi coordinati nella formula del fantasma si trovano qui disarticolati. È vertiginoso constatare fino a che punto persino la fisiologia dello psicotico sarà sovvertita da ciò che non è avvenuto nell’ordine dell’alienazione nel linguaggio, ovvero la perdita, la mancanza. Questo tipo di lavoro esige perciò una grande attenzione, la capacità d’intercettare i fenomeni del Reale e di vigilare su episodi di morte soggettiva e passaggi all’atto.
Cosa la psicosi c’insegna su noi stessi
N
onostante la netta distinzione tra soggetto e io, vi è una relazione di cui proprio la psicosi testimonia. Come illustra lo schema L, lo spazio del soggetto si crea attraverso l’asse simbolico e l’asse immaginario.43 Se l’alienazione significante è M. Czermak, Introduction. Recherches actuelles sur les psychoses, cit.,
42
p. 6.
43 «Quando il soggetto si aliena nel significante, sola condizione della sua esistenza, allo stesso tempo si aliena nella sua immagine speculare. Doppia alienazione, sull’asse simbolico e sull’asse immaginario. Questi due assi creano lo spazio del soggetto», D. Brillaud, Classification lacanienne des structures subjectives, cit., p. 28.
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indispensabile all’esistenza del soggetto, la stessa cosa può dirsi dell’alienazione immaginaria – che permette al vivente d’identificarsi ad una unità e acquisire consistenza. Al “rifiuto” di sottostare al significante paterno fa da contrappunto la difficoltà a costruire l’immagine speculare. Si va dai casi in cui l’immagine del corpo giunge comunque a costituirsi (le paranoie o le psicosi interpretative ad esempio) a quelli in cui essa non riesce a prendere forma (abbiamo allora a che fare con le schizofrenie o con le psicosi dall’immaginario senza io). Tale differenza farà sentire il suo peso durante lo scatenamento psicotico. Infatti un soggetto provvisto di un io, di una consistenza immaginaria, vi farà fronte costruendo un delirio che gli permette di riacciuffare la significazione che fugge e di colmare il buco. Un soggetto che invece manca di questo ricorso all’Immaginario sarà preda dell’automatismo mentale e di fenomeni reali che invadono il suo corpo. Si può quindi dire che «l’immaginario permette di canalizzare i fenomeni e di preservare una zona di realtà».44 Da questa angolazione vorrei riprendere il grande insegnamento della follia sull’io attraverso la sindrome di Cotard e la psicosi con immaginario senza io.45 Esse ci offrono i due cristalli più perfetti, sebbene opposti tra loro, del destino dell’io, nonché le coordinate di uno spazio in cui lo squilibrio dell’io va di pari passo con quello del soggetto.
Sferici come le lune: la morte del soggetto nella sindrome di Cotard
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a sindrome di Cotard ci porta al cuore della relazione tra pulsione di morte e sfericità dell’io. Essa ci offre il paradigma di quel fenomeno, centrale in ogni psicosi, denominato morte del soggetto. Inoltre ha il merito d’illuminare certe zone Ivi, p. 29. Marcel Czermak le inscrive tra le psicosi colore donna assieme all’erotomania e a quella che lui stesso ha denominato “psicosi uniana”. Esse fanno emergere alcuni nodi della psiche femminile, restando comunque portatrici di un sapere sulla struttura in generale. 44 45
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d’ombra della psiche femminile.46 Lacan intreccia questo destino psichico a quello dei pianeti: «Perché non parlano?» si chiedeva. Ha posto la stessa domanda a un eminente filosofo che gli ha risposto: «Perché non hanno la bocca».47 Risposta illuminante perché la frase Non ho bocca si sente spesso all’interno dei servizi di psichiatria ed è pronunciata da vecchie signore. Quasi sem46 Nel suo Mélancolie et féminité (in Délire des négations, Edizioni ALI, Paris 2001, pp. 105-122), Jacqueline Lanouzière osserva una disposizione femminile alla melanconia, facendo risaltare l’affinità tra «la femminilità e la depressione», ovvero la tendenza a rispondere attraverso una dolorosa inibizione all’esperienza della mancanza. L’accento cade quindi sulla dipendenza dall’oggetto d’amore che, come Freud insegna, sembra molto più accentuata nella bambina… Ma da dove origina la maggiore sensibilità femminile a situazioni di perdita e di fragilità narcisistica? Quale fattore renderebbe le donne più esposte degli uomini a soffrire per una perdita d’amore? Si tratta, ci dice la Lanouzière, «di porre in rilievo nella donna, proprio nella costruzione della sua femminilità, le condizioni di una depressività» che l’autrice lega al discorso in cui il corpo è preso. In altre parole, si tratta di cogliere «quel che in tale destino dipende dalla relazione all’altro, dal riguardo portato da questo altro sulla donna. È anche nel discorso dell’altro (specie dell’altro sesso) che origina e cresce l’offesa narcisistica subita o al contrario la sua riparazione». La clinica permette di riconoscere la grande vulnerabilità femminile nei riguardi della perdita d’oggetto d’amore. Perché c’è sempre un’aria di perdita nelle storie femminili, una perdita che oscilla tra “perdita dell’amore dell’altro” o addirittura “perdita dell’altro” e quindi “sentirsi persa” o “perdere se stessa” (con declinazioni che vanno dalla perdita della stima di sé sino a forme di disorientamento spaziale). Insomma all’oggetto d’amore si lega qualcosa di essenziale del sentimento di sé, ed ecco perché la perdita scaraventa spesso una donna in uno stato di dolore ingovernabile, in qualche modo la confronta ad una doppia perdita. L’aspirazione ad essere amata (il verbo è al passivo) risponde al desiderio di essere situata, messa a fuoco in una propria unicità. Amare (qui invece il verbo è alla forma attiva) è un atto fondamentale, al punto che Freud ci ha detto: «Quando si smette di amare ci si ammala» (S. Freud, Introduzione al narcisismo, in Id., Opere (1912-1914). Totem e tabù e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 2005, vol. vii, p. 464). Per questo la fine di una relazione, o un serio momento di crisi, si accompagnano spesso a dei crolli, fisici e psichici. Diventa allora necessaria un’opera di “ricostruzione” del proprio io che, a mo’ di una tela sempre sul punto di disfarsi, necessita di un instancabile e incessante lavoro di tessitura. Da qui le grandi narrazioni, rimemorazioni, ricostruzioni, a volte i diari, le cronache. Questo modo di ricostruire l’io ricorda il lavoro del lutto. 47 J. Lacan, Il seminario. Libro ii, L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-1955), Einaudi, Torino 2006, p. 274.
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pre, la negazione si estende al «non avere stomaco, e per di più che non moriranno mai. In breve, esse hanno un grandissimo rapporto con il mondo delle lune».48 Balza subito all’occhio lo stretto nesso tra la struttura discorsiva di questa psicosi (ovvero il delirio di negazione) e un’immagine del corpo priva di orifizi, di tagli, di aperture, fondata sull’identificazione ad un’immagine lunare, piena, non bucata. Queste vecchie signore «si sono identificate a un’immagine cui manca ogni apertura, ogni aspirazione, ogni vuoto del desiderio, ossia ciò che propriamente costituisce l’apertura dell’orifizio boccale».49 Una finezza: anche «le stelle si trovano a non avere bocca e a essere immortali […] non c’è in loro assolutamente nulla che sia dell’ordine di un’alterità da se stesse, sono puramente e semplicemente ciò che sono. Che si trovino sempre allo stesso posto, è uno dei motivi per cui non parlano».50
Essere ciò che si è: nulla a che vedere con l’eccentricità del soggetto dall’io che caratterizza il parlessere, colui che parla. Il parlessere è l’opposto di “essere ciò che si è”. Tale immobilità definisce allora un tipo di godimento che entra in risonanza con una pietrificazione narcisistica. Poi, con una svolta repentina, Lacan prende di mira quella psicanalisi che punta sull’io, che aspira a creare delle lune ovvero degli io sferici. Leggiamo: Ci propongono come scopo dell’analisi, di arrotondarlo questo io, di dargli la forma sferica in cui integrerà definitivamente tutti gli stati sconnessi, frammentari, le membra sparse, gli stadi pregenitali, le pulsioni parziali, il pandemonio degli ego frammentati e innumerevoli. Corsa all’ego trionfante – tanti ego, tanti gli oggetti.51 Ibidem. Ibidem. 50 Ibidem. 51 Ivi, p. 278. 48 49
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Una psicanalisi che punti su questo livello può indurre una paranoia post-analitica, se è vero che un folle è precisamente colui che aderisce all’immaginario del proprio io. Al contrario, lo scopo di un’analisi è di far emergere il soggetto e permettergli un miglior rapporto con la proprio divisione soggettiva. Il nesso tra la sfericità dei pianeti e l’Ego psychology c’introduce alla sindrome di Cotard. Marcel Czermak ne raccoglie i tratti strutturali grazie al caso di una donna la cui follia si è scatenata dopo l’asportazione di un seno. Tutto ciò che la paziente descrive corrisponde a quella che Cotard chiamava “perdita della visione mentale”, vale a dire l’impossibilità di rappresentarsi i luoghi e gli oggetti più familiari, di vedere mentalmente gli oggetti assenti e presenti. La donna si confronta a una grande perturbazione percettiva che investe la forma del proprio corpo, del corpo degli altri e degli oggetti che popolano la realtà. Stato che descrive così: Non provare niente guardandoli, non sentire niente […] Che mi si metta dinanzi ad uno splendido paesaggio o dinanzi ad un muro pubblico, è esattamente la stessa cosa; mentre prima non era affatto lo stesso. Vedo i colori, le forme, ma questo non risveglia più niente, niente, niente. È una sensazione abominevole, priva di sofferenza psichica.52
A farsi spazio nel suo discorso è l’idea che il suo sguardo sia vuoto e poi morto: Lo sguardo è morto, vedo i colori, la forma, ma questo non mi fa pensare a niente […] niente significa più niente […] ho degli occhi, ma non vedo le cose.53 52 M. Czermak, Signification psychanalytique du syndrome de Cotard, in Id., Délire des négations, Edizioni ALI, Parigi 2001, p. 195 (traduzione mia). Marcel Czermak definisce folgorante tale formulazione, perché sposta l’accento sul fatto che non si è più “affetti” – il verbo affecter segnala la caduta di quel nesso che permette la relazione tra io e altro, e di conseguenza tra l’io e gli oggetti della realtà. 53 Ivi, p. 196.
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Conserva la visione, ma il soggetto dello sguardo è venuto meno ed è passato allo statuto di oggetto: siamo sulla soglia di un episodio di morte soggettiva. Dalla perdita di visione mentale derivano una serie di effetti, anzitutto nulla per lei ha più un significato. Ovunque si sente straniera, come se fosse su un altro pianeta:
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Sento strane conversazioni, trovo curiose le persone, non comprendo quel che dicono. Non posso leggere il giornale, è una lingua diversa. Ho l’impressione di essere tra gli extraterrestri.
Poiché si è esclusa come oggetto a, vede il mondo come pura esteriorità. Lo svuotamento della significazione dà alla lingua le fattezze di una lingua di un altro mondo. Emergono poi importanti disturbi della memoria. Il campo della memoria è fatto di quelle tracce mnestiche la cui iscrizione è strettamente legata al campo dello sguardo, alla possibilità di situarsi nella propria storia: Ho perso ogni intelligenza, non capisco più nulla, non ho più idee, sono mentalmente persa, credo di aver custodito una parte della mia memoria, solo una parte, perché ci sono molte cose di cui non mi ricordo più… basta guardarmi, ho un viso completamente idiota, non ho più sguardo.54
Persino la capacità di comprensione è compromessa: Guardo qualcosa che però non si àncora più al mio sguardo. Gli occhi restano morti. Ho l’impressione che esista un legame tra gli occhi e il cervello. Prima accadeva qualcosa che ora non accade più.55
La facoltà di apprendere è regolata dalla possibilità di articolare e concatenare significanti ovvero di organizzare un discorso. Tutti i suoi disturbi (quelli del sonno o della memoria, della Ivi, p. 197. Ibidem.
54 55
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comprensione o ancora i fenomeni del corpo) «manifestano l’inadeguatezza ad organizzare un discorso»,56 sono segni di una “a-discorsività”, termine con il quale possiamo tradurre la perdita della visione mentale di cui parlava Cotard. Il “fuori discorso” in cui la donna è precipitata ha un effetto sul corpo:
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Questa donna che non può più organizzarsi discorsivamente c’insegna che la fisiologia cosiddetta normale deve il proprio funzionamento al fatto che un soggetto è preso in un discorso. Quando il soggetto perde il suo discorso, compaiono disturbi fisiologici.57
Infatti la donna riconduce le manifestazioni del corpo alla morte del suo sguardo: Quando vado ad urinare, resto ferma alla toilette per un’eternità, perché sono bloccata. Vorrei urinare ma non ci riesco. L’ultima volta non riuscivo neppure più a camminare, a mettere un piede davanti all’altro. Mi ci vogliono venti minuti per sistemare due lenzuola e una coperta…58
La percezione del proprio corpo è alterata, ha l’impressione di essere enorme (ipocondria): è l’io-Universo a farsi spazio. A ben vedere, tutti questi fenomeni sono l’altra faccia di un’immagine sferica del corpo «a cui nulla si aggancia, una sfera levigata, lucida, piena»,59 priva di orifizi e buchi che permettano di perdere o introdurre qualcosa. Che soggetto è mai questo? Un soggetto che, al pari della sua sfericità immaginaria, non è più attraversato da nulla, che versa in uno stato d’anestesia e che, infatti, chiede «uccidetemi»60 in alternanza con l’idea di gettarsi dalla finestra (per scavare una mancanza reale nell’Altro o per fondersi con esso?). Il Cotard segna l’ingresso in una zona di assenza di vita, priva di ogni Ivi, p. 198. Ivi, p. 206. 58 Ivi, p. 198. 59 Ivi, p. 210. 60 Ivi, p. 200. 56 57
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ritmo legato alla pulsione (con inevitabili ricadute sulle funzioni fisiologiche), una zona dalla temporalità eterna, priva di direzione e discontinuità, che lo spinge ad invocare la morte reale come solo possibile bordo perché «non è la morte a fare orrore, ma l’idea che la vita possa continuare indefinitamente in questa dimensione».61 Si tratta di una spinta verso la morte in cui sfericità immaginaria e devitalizzazione del corpo sono due facce della stessa medaglia. D’altronde la clinica testimonia della relazione feconda tra sfericità dell’io e sintomi depressivi. Un’eccessiva fedeltà alla propria immagine narcisistica può inibire completamente il desiderio imprigionando un soggetto nell’ideale di sé. Al polo opposto troviamo la psicosi con immaginario senza io.
Dissolvenze dell’io, dissolvenze soggettive In nessun altro luogo il vuoto si esprime con così tanta forza come nel volto. Da nessun’altra parte il vuoto si trasforma così tanto in vacuità, in nulla. In nessun altro luogo si presenta sotto così tante sfaccettature. E niente ha tanto da perdere quanto il volto: singolarità, somiglianza, psicologia, espressività. I. Goldberg, L’eclissi del volto
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a bipartizione proposta da Lacan (che distingue tra paranoie e schizofrenie) resta un riferimento. Se nelle paranoie è preservata una consistenza immaginaria, nel polo delle schizofrenie l’automatismo mentale invade tutto il campo del pensiero mentre il corpo, in assenza del filtro immaginario, è consegnato al Reale, invaso da fenomeni elementari che lo disintegrano.62 A ben vedere, però, il corpo è solo l’altra faccia di un discorso privo di unità, ma in balia di moltissimi Ivi, p. 213. Si produce così una regressione topica allo stadio dello specchio, un ritorno a quel corpo in frammenti che precede l’unità immaginaria (volentieri il discorso approda ai concetti di energia, di materia, di molecole e particelle, senza poter definire una forma del corpo che ne assicuri i confini o la separazione dal mondo esterno, circostante). 61 62
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disturbi del linguaggio, un discorso incoerente ed ermetico perché il piano immaginario della significazione fugge via. Questa, va da sé, è la situazione in cui il soggetto si trova maggiormente disorganizzato ed esposto. Dobbiamo ascrivere al polo delle schizofrenie un’altra possibilità, dotata però di uno strumento in più. Si tratta di una psicosi a base di automatismo mentale, con un soggetto privo di io che, malgrado tale difetto, giunge a copiare dei comportamenti e ad incollarsi a ciò che attraversa il suo campo percettivo. Tale capacità mimetica non ha nulla a che vedere con un’identificazione, non implica alcuna iscrizione di tracce, pertanto questi copiaggi hanno una durata brevissima, poi si dissolvono – vanno quindi rinnovati di continuo: La persona senza personalità ci trasmette tutto ciò che ha potuto vedere o sentire nell’ultima mezz’ora prima, con una cancellazione molto caratteristica. Jean-Jacques Tyszler ha riportato il caso di una paziente che lo lasciava molto perplesso fin quando non si è reso conto che lei gli raccontava i giornali presenti nella sua sala d’attesa. Sono soggetti privi d’immaginazione, solo copia e incolla.63
Questo copia e incolla automatico permette un’integrazione sociale di gran lunga superiore a quella degli schizofrenici e tampona in qualche modo anche i fenomeni allucinatori che investono il corpo. Infatti è una psicosi che può perdurare in assenza di episodi deliranti e senza scatenamenti.64 Sarebbe interessante indagare perché questo tipo di arrangiamento immaginario funzioni soprattutto nelle donne. È Czermak ad offrirci gli strumenti teorici per pensare questo quadro clinico e a fissarne i tratti distintivi. 63 D. Brillaud, Classification lacanienne des structures subjectives, cit., p. 31. 64 Qui è opportuno un riferimento al come se di E. Deutch – che indica un modo di stare nel mondo retto da coordinate immaginarie, e privo di radici simboliche – e alla psicosi ordinaria di cui parla J.-A. Miller.
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Alla dimensione aleatoria dell’io corrisponde una forte atopia, anche corporea. Czermak racconta di una paziente che ha passato la vita a rimpiazzare la madre, senza mai definire una sua posizione. Non era titolare di alcun posto stabile, solo posti transitori. Se ne occupava uno, era sempre a breve termine. La donna lo spiega così: «Ero la persona temporanea che rimpiazza un’altra, a volte tre settimane, a volte un mese».65 Da cosa deriva l’impossibilità di guadagnare un posto simbolico? Dallo sfaldamento simbolico che invalida ogni tipo d’identificazione, in primis quella sessuale. Questa assenza d’identificazione è la radice del mancato posto simbolico. Il discorso non è quindi l’espressione di un io organizzato attorno a identificazioni contraddittorie che portano, come accade nell’isteria, a voler occupare posti diversi (per esempio, nel classico triangolo, un’isterica vorrà occupare ora il posto dell’uomo ora quello della donna). Mimetismo e identificazione sono due concetti diversissimi e ad agire qui sono solo giochi di riflessi e rivestimenti. Il raffronto non si ferma qui. Anche l’isterica può lamentare e persino soffrire di una posizione eccentrica ed extra-territoriale. Ma si tratta di una strategia soggettiva nei riguardi dell’Altro – perché si regola sul desiderio dell’Altro o cerca di suscitarlo. In questa psicosi, invece, il desiderio è escluso e il fuori posto è solo l’indice di un impossibile. Notiamo inoltre una forma di extra-territorialità anche in relazione alla parola. Siamo in presenza di qualcuno che non parla mai a partire dalla propria personale esperienza: si sa qualcosa solo in base al dire degli altri che viene assorbito senza alcuna riflessione critica. Sono aspirati da persone, discorsi e situazioni, vi cadono dentro o si rivestono con l’immagine dell’altro. Una donna lo dice così: «Vado con te o senza di te, ma con la tua immagine che mi aiuta così tanto a vivere».66 O ancora la paziente di Czermak: 65 M. Czermak, Psicosi senza io, in Aa.Vv., Il sapere che viene dai folli, cit., p. 308. 66 A. Jesuino-Ferretto, Produzioni attorno al nome, all’immagine e all’oggetto, in Aa.Vv., Il sapere che viene dai folli, cit., p. 274.
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Quello che cercavo, nella mia idea, era di assomigliare a qualcuno. È la condizione di vita. È il motivo per cui ricerco la loro vita, voglio prendere la loro vita, io non ho vita, prendo la vita dell’altro.67
Non c’è nulla a partire da cui costruirsi o darsi un centro, è priva di riferimenti. Per questo cerca di assomigliare a qualcuno, si lega a ciò che le si offre: «Essere solo un abito che può essere abitato da chiunque. La donna diceva: “Mi piacerebbe vivere appesa… un vestito appeso”».68 È puro sembiante e perciò, come diceva Lacan a proposito di questi soggetti, il suo corpo «se la dà a gambe di continuo».69 Una volta di più, possiamo cogliere la continuità tra corpo e discorso. Infatti, se il corpo svanisce di continuo, anche il discorso manca di un’implicazione soggettiva: non parlano mai per esperienza personale, ma solo per eco, per sentito dire, per doppio o sosiaggio. Attingono al grande bacino dei luoghi comuni, al “si dice”. Da qui l’uso di forme impersonali (on in francese) o di forme dubitative (credo che) che però non esprimono un vero dubbio, sono solo significanti di un’inconsistenza: niente del dire dell’altro come del proprio ha un peso, orienta, nulla cioè ha valore di menzogna o di verità. Detto altrimenti, il soggetto tocca in permanenza l’inconsistenza dell’Altro: perciò si dissolvono anche la temporalità, la genealogia, la generazione, la filiazione. Del figlio di un’amica, la paziente dice: «È un’adulta, ma ha dovuto essere una bambina».70 Se l’io è privo di peso, lo è inevitabilmente anche l’altro (lo stadio dello specchio c’insegna che la sorte dell’io e dell’altro sono intrecciate). C’è un’indifferenza di fondo perché né il soggetto né l’altro occupano un posto definito: l’altro è sempre 67 M. Czermak, Psicosi senza io, in Aa.Vv., Il sapere che viene dai folli, cit., p. 310. 68 Ivi, p. 311. 69 J. Lacan, Il seminario. Libro xxii, R.S.I. (1974-1975), inedito, lezione del 13 gennaio 1975. 70 M. Czermak, Psicosi senza io, in Aa.Vv., Il sapere che viene dai folli, cit., p. 307.
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sostituibile, uno vale l’altro.71 E poi nulla della loro esperienza s’inscrive e lascia traccia. Nessuna memoria a comporre quell’archivio che permette di solito a ciascuno di raccontare una storia. Questa assenza di traccia è così radicale che una donna può dire di suo figlio: «Come l’ho avuto? Come tutti, almeno… non si sa mai» e del padre: «Sì, c’è stato un padre; c’è per forza stato un padre… a meno che non sia una gravidanza nervosa».72 Esitazioni molto lontane dal dubbio: dimostrano piuttosto fino a che punto queste esistenze siano prive di fondamento, aleatorie. Non c’è garanzia, solo supposizione di esistenza. Leggiamo assieme alcune frasi che descrivono bene l’assenza di io su cui poggia questa diversa forma di vita: Sono uno sguardo che si china sulle cose. Sguardo che non appartiene a nessuno. Io, la mia personalità: sono solo parole […] Una scarpata piena di erbacce basta a riempirmi la giornata […] Il sentimento di esistere è un’evidenza, io sono. Non ci sono parole, piuttosto una sensazione, una visione, un’immagine.73
Il caso di questa donna illustra molto bene come alla vacuità dell’io risponda sempre quella del soggetto. In mancanza di io e di soggetto si produce una topologia in cui lo spazio è insieme vasto e puntuale, lontanissimo e vicinissimo, e il tempo perde la scansione, la dimensione della durata precipita in istante. Al cuore di questo edificio sta la mancata separazione tra soggetto e oggetto. La sua è una forma di presenza istantanea, emancipata dalla nominazione delle cose:
71 Ciò significa che gli esseri sono sempre simili allo stesso (siamo nel registro di quel che non cambia, dell’identico, dell’inerte, luogo in cui le differenze sono abolite). 72 M. Czermak, Psicosi senza io, in Aa.Vv., Il sapere che viene dai folli, cit., p. 308. 73 S. Hergott, Lo spazio è il luogo da cui si parla, in Aa.Vv., Il sapere che viene dai folli, cit., p. 132.
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Laggiù non esiste distanza, io non sono da qualche parte, sono da me, sono ombra, vento, tutto. Anche qui, sono laggiù. A e non A non sono opposti, e neppure A e B.74
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La donna va incontro al disfarsi della visione soggettiva, della tela della realtà. Quando, grazie al lavoro analitico, potrà ricomporre la trama della memoria e tornare a “vedersi”, dirà: La mia memoria ritorna […], la mia volontà riaffiora in superficie, si imprime nuovamente. È un lavoro di memoria. È dura funzionare senza un prima. Sono stata: è rassicurante e consolidante. Ho rivisto qualche scena, mi sono rivista. Sono stupita di essere esistita nel frattempo.75
La donna incontra nuovamente se stessa, si rivede e può ritrovare uno sguardo. Ma il tragitto c’è stato e lei ha maturato nuove prospettive: Abbiamo sempre l’impressione di essere qualcosa, ma non siamo un blocco unico. La mia esperienza apre delle prospettive. È l’esperienza di una rimessa in causa dell’io quale ho vissuta in forma così evidente: ho sperimentato la relatività dell’io. Che libertà e pace essere senza io, senza desiderio, senza proprietà! Si potrebbe davvero godere di uno stato sereno, è il sorriso di certi Budda.76
74 Ivi, p. 133. Questa donna ha trovato nel buddismo una sponda teorica alla sua esperienza di assenza di desiderio. Come scrive S. Hergott: «L’interesse, per noi, del pensiero buddista è di illuminare il punto di cecità interno alla chiarezza cartesiana o di distaccarsi un po’ dalla logica intuitiva che ci governa, quella dello spazio piano euclideo, della vettorializzazione del tempo e del dualismo soggetto/oggetto, per promuovere una lettura differente in cui prevale la radicale inconsistenza di questa separazione. […] In essa non solo è respinta l’esistenza di un’alterità in qualche modo esterna a favore di un sistema globale e unitario, ma soprattutto è affermata l’impossibilità dell’isolamento e della separazione di uno dei suoi elementi. Separare equivale a far sparire la realtà una e indivisibile dei termini». 75 Ivi, p. 135. 76 Ivi, p. 136.
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Perché abito una casa che già da sempre non mi appartiene? La psicosi nell’andirivieni di decisione e forclusione
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el suo insegnamento Lacan tratta la questione delle psicosi all’interno di in un percorso che, sebbene centrale per consistenza, appare discontinuo e con tappe irregolari laddove, si potrebbe dire, ognuna delle quali sembrerebbe smentire la fase precedente. Non crediamo che sia davvero così, bensì che non solo sia possibile un cammino a ritroso, dal sinthomo all’insondabile decisione dell’essere, per essere più precisi, ma perfino un andirivieni tra le diverse tappe, poiché anche quando negli anni ’70 Lacan stravolge del tutto le tesi degli anni ’50, che provenivano dalla sua formazione psichiatrica e in un certo senso jaspersiana, esse non smettono di avere valore e di produrre effetti anche alla luce dell’ultimo insegnamento borromeo. Questo saggio non affronterà la suddetta ultima fase borromea e non certo per minore importanza bensì perché essa fa parte di un altro discorso in fieri già intrapreso e insieme ancora da intraprendere in altre sedi, dove la questione del significante poetico avrà importanza centrale. Qui proseguiremo, in questo percorso a ritroso e insieme di andirivieni, la strada battuta in due articoli usciti nel 2017 e nel 2018 presso l’Eurupean Journal di Psychoanalysis. Lì si era partiti dagli schemi che Lacan propone nel suo scritto Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento delle psicosi (19571958) per azzardare una struttura psicotica come primigenia
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Viviana Faschi
del soggetto nel suo rapporto col mondo; successivamente si era tornati al 1946 e al Discorso sulla causalità psichica per mettere in evidenza le correlazioni di decisione e destino, decisione inconscia ma per l’economia soggettiva e concezione non lineare di causalità. Questo saggio rappresenta la terza tappa di quel percorso: qui, compiendo un andirivieni tra la posizione che Lacan assume all’inizio del suo insegnamento e quella degli anni ’50 caratterizzata dall’introduzione del lemma forclusione per tradurre il Verwerfung freudiano in modo più incisivo, si cercherà di dare nuova luce alla posizione psicotica, con tutti i suoi limiti, con tutte le sue chance; non mancherà un tentativo di far luce su una possibile posizione teoretica circa la causalità della follia, senza origini mitiche, senza regressi ad infinitum, senza punti di insorgenza fissati e puntualmente delineabili. Senza quindi sposare le nuove teorie neurobiologiche ma senza nemmeno dare alla filosofia una luce fantasmagorica, restando alla materialità dei fatti, pur psichici che essi siano.
Il momento della decisione Causalità psichica
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uando Lacan è studente di specialità in psichiatria, suo compagno di studi è Henry Ey, suo professore Gaëtan Gatian de Clérambault. Nei confronti di queste due figure Lacan nutre un rapporto ambivalente ma sicuramente entrambi hanno reso possibile l’esplicarsi della sua concezione di causalità psichica in anni (gli anni ’40) nei quali le questioni cruciali della psichiatria non sembrano troppo dissimili da quelle odierne. Da studente Lacan è già sofferente nei confronti delle posizioni strictu sensu organiciste, il suo maestro non lo appassiona poiché egli è vicino alle posizioni dell’analisi esistenzialista di Jaspers e in questa sua veduta lo accomuna Ey. In sintesi, abbracciare questa posizione significava credere alla comprensione del mondo del malato e della sua esperienza soggettiva. Tutti aspetti che in seguito Lacan rinnegherà a gran voce. Non invece
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Perché abito una casa che già da sempre non mi appartiene?
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Ey che per mettere in scacco (nelle sue intenzioni) l’organicismo si inventerà un modello chiamato organodinamismo che cercherà di tenere insieme una posizione psicogenetica con una apprezzabile, si potrebbe dire, dal mondo medico. Grazie a questo errore di vedute di Ey, Lacan pronuncerà nel 1946 il suo famoso discorso di Bonneval che poi all’interno degli Scritti prenderà il nome di Discorso sulla causalità psichica. Che cosa presenta l’organodinamismo di Ey di così profondamente inaccettabile per Lacan? Dopotutto l’intenzione di Ey era quella di superare i limiti del mondo medico-ospedaliero nei riguardi del folle mostrando come «la nozione di malattia mentale è un enigma di cui il corpo medico non sa che fare, salvo svalutarla in quanto malattia per ridurla a un affezione mentale radicalmente estranea al campo scientifico, o ripiegandola sulla malattia in generale, svuotandola di tutto il suo significato specifico».1 Eppure, nonostante le migliori intenzioni, vicine anche ai problemi odierni della pratica psichiatrica che non si riduca a psicofarmacologia, Ey con il suo organodinamismo è come se tenesse il piede in due scarpe e strizzasse in un certo senso l’occhio al mondo medico che sembrava, a parole, disprezzare. Gli strali che Lacan lancia all’ex amico sono disseminati in tutto lo scritto, principalmente poiché a parer suo l’organodinamismo è in realtà un organicismo mascherato: «Il punto cruciale, secondo il mio punto di vista, è che questo gioco, per quanto energetico e integrante lo si concepisca, poggia sempre in ultima analisi su un’interazione molecolare secondo il modo dell’estensione parte extra partes in cui si costituisce la fisica classica».2 Vediamo qui come per Lacan non ci sia un’effettiva differenza tra il costrutto di Ey e una qualsiasi impostazione organicista, ma le cose non finiscono qui; appurato che una teoria di questo tipo renderebbe impossibile distinguere un malato neurologico 1 Cit. in C. Leguil, Sartre con Lacan. Correlazione antinominica, relazione pericolosa, Quodlibet Studio, Macerata 2017, p. 53. 2 J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Scritti Volume I, Einaudi, Torino 1974, p. 146.
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da uno psichiatrico, ma la questione oggi è tutt’altro che risolta (in maniera molto diretta Lacan si domanda «Per parlare in termini concreti, c’è qualcosa che distingue l’alienato dagli altri malati, aldilà del fatto che quando li si ospedalizza li si chiude in un asilo?»),3 inoltre Ey si porrebbe in una posizione apertamente dualistica criticando però di base le concezioni dualiste, ovvero Cartesio (misinterpretandolo però). Ey in sostanza attribuirebbe con disprezzo a Cartesio un dualismo assoluto tra organico e psichico (invece che tra estensione e pensiero come ritiene Lacan), giungendo così ad affermare che «Le malattie mentali sono insulti e impedimenti alla libertà, esse non sono causate dall’attività libera, cioè puramente psicogenetiche»;4 con questa affermazione Lacan può scagliarsi in tutta durezza nei confronti di un collega che misconoscendo ogni forma mentis dualistica cade egli stesso in un dualismo senza risoluzione. Precisiamo che psicogenesi e causalità psichica non sono la medesima cosa, Lacan lo preciserà molto bene nel suo Seminario III dedicato alle psicosi laddove, ripudiando senza mezze misure il suo passato jaspersiano, dichiarerà che se la psicogenesi è la reintroduzione della famosa relazione di comprensione (del malato) tipica dell’analisi esistenziale, allora «Il grande segreto della psicoanalisi è che non c’è psicogenesi».5 Per Lacan, se si abbraccia la psicoanalisi e quel ritorno a Freud da lui compiuto, risulta impossibile, inconcepibile relazionarsi al paziente psicotico col presupposto di poterlo comprendere. Non c’è nulla da comprendere, infatti «L’insegnamento freudiano […] fa intervenire delle risorse che sono al di là dell’esperienza immediata e non possono affatto essere colte in modo sensibile. […] L’esperienza freudiana […] non è un’esperienza pura. È un’esperienza tutta strutturata da qualcosa di artificiale che è la relazione analitica».6 Ivi, p. 148. Cit. in J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, cit. p. 151. 5 J. Lacan, Il Seminario, Libro iii, Le psicosi, Einaudi, Torino 1985, p. 3 4
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Ivi, p. 11.
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E questa è la fine del rapporto tra gli ex amici e colleghi Jacques Lacan e Henry Ey, prima vicini come posizionamento, poi lontani in maniera antipodale. Anche con il maestro de Clérambault la situazione è stata ambivalente sebbene poi conclusasi in modo opposto a quella con Ey. Ma il maestro non seppe nulla della svolta lacaniana in suo favore, né che da lui negli anni ’60 veniva definito “unico maestro in psichiatria”; non lo seppe perché due anni dopo la discussione della tesi in psichiatria di Lacan (Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità, 1932) morì suicida. Durante il suo percorso di specialità Lacan non poteva apprezzare le idee innovative del suo maestro poiché come abbiamo già notato, la sua posizione era incline all’esistenzialismo di Jaspers. Quando però scoprirà Freud e a lui vorrà fare ritorno, rivaluterà le intuizioni del suo maestro, ritenuto tale purtroppo solo in un tempo postumo. Effettivamente non poteva far luccicare lo sguardo del suo allievo negli anni ’30 poiché de Clérambault era strettamente organicista, di quell’organicismo che potrebbe perfino essere considerato estremo; eppure le sue idee innovative non faticano a sposarsi con la psicoanalisi. Carlo Viganò scrive che «In particolare due furono le lezioni assimilate dal maestro: l’automatismo mentale, che è alla base della teoria della preclusione e l’erotomania, che ci dà la struttura del transfert nella psicosi»,7 oltre alla presentazione dei malati che Lacan erediterà e farà propria proseguendone l’uso per tutta la vita. Ma forse sono anche e soprattutto altre intuizioni, o meglio modi operandi di Clérambault che in un modo meno diretto ma sempre peculiare hanno influenzato Lacan, difatti, prosegue Viganò «Quello che appariva come organicismo strenuo nascondeva di fatto una passione teorica per la ricerca di modelli e di ragioni strutturali»:8 non occorre aggiungere altro per cogliere un nesso con lo strutturalismo lacaniano, ma non è finita «L’in C. Viganò, Psichiatria non psichiatria, Borla, Roma 2009, p. 71. Ivi, p. 74
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volucro formale del sintomo doveva rivelare le sue invariabili di struttura (il meccanismo, ma anche la topologia, cui era sensibile, visto il suo interesse per le pieghe dei drappeggi documentato dalla produzione fotografica».9 Dall’automatismo mentale, all’assenza di deficit bensì alla presenza di una struttura soggettiva, fino al dispiegamento reale del sintomo e degli stati morbosi nel continuum di figure quasi topologiche, sono davvero tanti i semi gettati nel giovane Lacan e che egli avrebbe fatto propri anche a decenni di distanza.10 Guardare allo stato morboso come a un dispiegamento piuttosto che ad un insieme di punti isolati rendeva Clérambault uno psichiatra del tutto insolito che avrebbe avuto non pochi punti in comune con la psicoanalisi lacaniana, ovviamente tutto ciò non senza l’apporto della teoria freudiana incontrata da Lacan quasi nel medesimo periodo. Quindi causalità psichica è tutta un’inerenza con la pratica analitica e da essa non potrebbe separarsi; non è psicogenesi, comprensione della soggettività psicotica e del suo mondo, non è malfunzionamento dei livelli energetici a causa di lesioni organiche. Ancora meglio sarà chiaro il concetto se lo si comincia a mettere in relazione con l’ordine linguistico, del senso e della parola, ovvero di quello che poi Lacan chiamerà il Simbolico. In particolare, la causalità psichica è un costrutto indissolubilmente legato al concetto psicoanalitico di imago, il motore delle identificazioni ideali dell’io soggettivo, l’essere captati dall’immagine dell’altro, e non una sola volta ma ripetutamente. Tutto ciò ha ovviamente origine con quel momento nel quale il nostro chinare il capo per vederci solo frammentariamente, grazie alla superficie speculare e a un piccolo aiuto da parte dell’altro diventa un’immagine finalmente quanto illusoriamente compiuta. Tutto ciò oltre al giubilo iniziale provoca a posteriori una strutturale alienazione del soggetto che sarà costretto alle identificazioni. Ibidem. Sulla passione di Clérambault per pieghe, stoffe e drappeggi, si veda A. Castoldi, Clérambault: stoffe e manichini, Moretti e Vitali, Bergamo 1994. 9
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Mentre infatti in un soggetto nevrotico «L’imago ha […] la funzione di instaurare nell’essere un rapporto fondamentale della sua realtà col suo organismo»11 e questo grazie a «una certa “dose di edipo”»12 che «può essere considerata avere l’efficacia umorale dell’assorbimento di un medicamento desensibilizzante»;13 nella psicosi il soggetto resta legato, infatuato, alle prime identificazioni narcisistiche (allo stadio dello specchio, dirà successivamente Lacan), di modo che «Le prime scelte identificatorie del bambino, scelte “innocenti”, non determinano altro […] che quella follia per cui l’uomo si crede un uomo».14 È tutta questione di un sotterraneo e impenetrabile viraggio (come vedremo dopo) dato «dalla mediazione piuttosto che dall’immediatezza dell’identificazione, e, diciamo la parola, dall’infatuazione del soggetto»15 per questa identificazione.
Senso e impaniamento sintattico
S
e vogliamo considerare la follia una malattia, allora si tratta di una malattia del linguaggio (come scrive Carlo Viganò),16 non di una malattia del cervello. Questo è l’asserto fondamentale della psicoanalisi lacaniana, che non muterà col passare dei decenni: il problema è un problema di natura significante. Più precisamente è un problema di senso per il soggetto. Qual è il misconoscimento principale in cui si imbatte lo psicotico? Il fatto che egli non riconosca i propri deliri, le proprie allucinazioni, come proprie, e però che sappia con certezza che «tutti questi fenomeni […], quale che sia l’estraneità e la stranezza con cui li vive, lo riguardano personalmente […]. E J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, cit., p. 176. Ibidem. 13 Ibidem. 14 Ivi, p. 181. «Se un uomo che si crede un re è pazzo, un re che si crede un re non lo è da meno», ivi, pp. 164-165; con evidente riferimento a Ludovico II di Baviera. 15 Ibidem. 16 C. Viganò, Psichiatria non psichiatria, cit., p. 47. 11 12
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quando ogni mezzo per esprimerli viene a mancargli, la sua perplessità ci manifesta ancora in lui una beanza interrogativa: cioè la follia è tutta vissuta nel registro del senso».17 Cos’è esattamente questo senso di cui si parla, se non un’estrema e variegata polifonia di possibili rimandi ai quali una parola è traghettata oppure, viceversa, un solo granitico rimando che la pietrifica. L’esempio che fa Lacan è quanto mai ricco come se il senso potesse risuonare alla maniera di un’onomatopea: «La parola non è segno ma nodo di significazione»,18 cominciamo da qui e già vediamo un crocevia, un intrecciarsi di differenze, una molteplicità di direzioni, ma Lacan continua Se per esempio dico la parola rideau, non è soltanto per designare convenzionalmente l’uso di un oggetto […]. Per metafora è un rideau di alberi; […] Per miracolo è lo spazio aperto sull’infinito, lo sconosciuto sulla soglia o la partenza al mattino del solitario. […] Per disprezzo è Polonio che colpisco: “Un topo! Un topo! Un grosso topo!” […] E infine è l’immagine del senso in quanto senso, che per scoprirsi deve essere svelato.
A causa di questo polimorfismo del senso che nello psicotico giace nel suo proprio misconoscimento, anche parole, sintassi ed enunciazione subiscono uno stravolgimento e una distorsione introvabili nella lingua comune. Lacan stesso ai tempi della sua tesi in psichiatria aveva redatto un articolo su questi stiramenti sintattici intitolato Scritti «ispirati»: schizografia,19 che trattava le lettere appunto “ispirate” di una maestra elementare, Marcelle C., dirette dal padre fino al presidente della repubblica o al prefetto. Cominciamo dalla parola: nel Seminario III Lacan afferma come il tratto principe della psicosi sia il neologismo: «A livello del significante, nel suo carattere materiale, il delirio si distingue precisamente per quella forma speciale di discordanza dal J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, cit., pp. 159-160. Ibidem. 19 J. Lacan, Scritti «ispirati»: schizografia, in Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità, Einaudi, Torino 1980. 17 18
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linguaggio comune che si chiama neologismo».20 Il neologismo, questa attitudine poetica, dantesca, lacaniana anche, come è noto, è anche il tratto peculiare della psicosi, come si può notare nella malata Marcelle C. ma anche a pieno rigore nel malato di nervi più famoso di tutti ovvero il Presidente Schreber, caso clinico in absentia sia per Freud che per Lacan, avendone entrambi solo letto le memorie.21 Non solo i neologismi però caratterizzano il dire dei folli, bensì tutto un variegato apparato del mondo significante, sintattico enunciativo: Impegniamoci su questa via per studiare le significazioni della follia, secondo l’invito che ci rivolgono i modi originali che il linguaggio mostra in essa: quelle allusioni verbali, quelle relazioni cabalistiche, quei giochi d’omonimia […], quella trasfigurazione del termine nell’ineffabile intenzione, quella fissazione dell’idea del semantema […], quegli ibridi del vocabolario, quel cancro verbale del neologismo, quell’impaniamento della sintassi […] ma anche quella coerenza che equivale a una logica […], tutto questo è ciò con cui l’alienato, con la parola o la penna, si comunica con noi.
Tutto ciò, questo lunghissimo catalogo del Simbolico folle (binomio già di per sé ossimorico) ha però diverse similitudini con altro, oltre alla follia: da una parte, come già detto, con la poesia che ogni strada tenta e ha tentato per svincolarsi dalle norme della sintassi e delle parole “date”, dall’altro con lo stesso insegnamento lacaniano, che constatando gli enormi limiti del mondo significante si è consegnato ad altro, dal neologismo è passato alla logica, dall’ideogramma alla topologia fino ai nodi. La follia, la psicosi presenta la sola differenza di non poter fare altrimenti, ma è «il registro della parola a creare tutta la ricchezza della fenomenologia della psicosi, è lì che ne vediamo tutti gli aspetti, le decomposizioni, le rifrazioni».22 J. Lacan, Il Seminario, Libro iii, Le psicosi, cit., p. 38. D.P. Schreber, Memorie di un malato di nervi, Adelphi, Milano 2007. 22 J. Lacan, Il Seminario, Libro iii, Le psicosi, cit., p. 42. 20 21
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E siamo solo negli anni ’50: due decenni dopo, come riporta Jacques-Alain Miller «Lacan arriva quasi a dire che tutto l’ordine simbolico è un delirio, compresa la sua costruzione dell’ordine simbolico. La vita non ha alcun senso. Dare senso è già di per sé delirare».23 Si tratta di una conclusione un po’ estrema ma atta a mostrare come, se non ci fosse un fantasma a racchiudere il delirio nevrotico entro una cornice di senso, egli non si differenzierebbe poi tanto dal folle.
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Insondabilità
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i evidente stampo sartriano, è noto come all’interno del Discorso sulla causalità psichica Lacan si “lasci sfuggire” il famoso enunciato nel quale “rigetta” la causalità della follia in quell’insondabile decisione dell’essere dove non è ben chiaro se il soggetto tragga un quantum di libertà o da essa ne venga beffato, ma che infine vede questa sua stessa libertà venire a coincidere con la massima greca “divieni ciò che sei”.24 Filosoficamente Lacan chiama questa massima la “legge del divenire”.25 È forse bizzarro ma neanche troppo come un enunciato così sibillino e ambiguo abbia avuto nel tempo una sì grande fortuna. Forse per il “romanticismo” della terminologia filosofica all’interno di un testo clinico e psichiatrico. No, il Discorso sulla causalità psichica è già di per sé un tripudio di letterarietà, poesia, drammaturgia e filosofia. Se la decisione dell’essere ha avuto tanta fortuna le motivazioni devono essere altre. Innanzitutto, non bisogna lasciarsi trarre in inganno, come recita la formula che teneva appena Lacan in sala d’attesa «Non diventa pazzo chi vuole»,26 o meglio «Non arriva chi 23 J.-A. Miller, Effetto di ritorno sulla psicosi ordinaria, «La Psicoanalisi», 45 (2009), p. 233. 24 Per un riferimento esteso sulla questione si veda V. Faschi, Una quasiinsondabile decisione dell’essere. Psicosi e scelta del soggetto, «European Journal of Psychoanalysis», 2018. 25 Cfr. J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, cit., p. 171. 26 Ivi, p. 170.
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vuole ai rischi che avviluppano la follia».27 Non si tratta di una decisione nel senso comune del termine, non è un soggetto a decidere, Lacan usa il termine “essere”, ma questo essere, come abbiamo spiegato nel già citato articolo Una quasi-insondabile decisione dell’essere non potrebbe che essere una dinamo che opera per il soggetto sebbene egli non ne sappia nulla, ovvero l’inconscio; qualcosa che “si interessa” dell’economia soggettiva ma non secondo schemi intenzionali o teleologici; una causa sui che vede ciecamente come tra le possibilità di libertà, angoscia e destino e gli intrecci che tra essi possono venire a compiersi, forse non avere accesso al Simbolico non è una via peggiore delle altre. Poteva non interessarci, in uno scritto così pregno, una frase che evidentemente vuole fare l’occhiolino all’esistenzialismo, forse per rendere palese quanto lui, Lacan, non fosse digiuno né estraneo alla filosofia e passata, e presente; ma non è solo questo, per noi la domanda sul perché della follia (invece che no) risuonava e sapendo che non sarebbe stato possibile arrivare ad un momento sorgivo in quanto, niccianamente esso non avrebbe fatto altro che mascherare qualcos’altro, abbiamo cercato di scandagliare quella medesima frase tanto citata. Questa decisione insondabile è in pratica una talpa, un proteo, è cieca, non sa il paesaggio che la circonda e la intrappola ma sa perché lo fa. Forse sarà il soggetto a non saperlo mai, ma diventerà ciò che è, ovvero, nel migliore dei casi realizzerà in modo singolare questo suo impedimento, questa sua incomunicabile (in modo classico, conforme, convenzionale) libertà dalla catena significante. Scriveva Carlo Viganò: «L’“insondabile decisione dell’essere” di correre il rischio della follia è da comprendere nel senso in cui Freud parlava di “scelta della nevrosi”: solo così si può pensare di trattare lo psicotico nella posizione di soggetto».28
Ibidem. C. Viganò, Psichiatria non psichiatria, cit., p. 114.
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Il momento della forclusione Che cos’è la Verwerfung
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955, terzo Seminario tenuto da Lacan all’Ospedale Sant’Anna a Parigi, tema Le psicosi. È centrale in questo seminario dare luogo e profondità a un termine peculiare in Freud sebbene non sufficientemente affrontato. La Verwerfung come differenza dalla Verdrängung. Nel corso del suo insegnamento a Freud pare sicuramente opportuno distinguere la modalità di rimozione che caratterizza la nevrosi (correlata da ripetizione, sintomo e ritorno del rimosso), la Verdrängung, da un altro tipo di rimozione, quella più intensa e più efficace, che «spazza via nello stesso tempo l’idea e l’affetto, in modo che l’Io agisce come se l’idea non lo avesse mai raggiunto».29 Solo che è come se non avesse ben chiaro che termine usare e inizialmente si serve di Verleugnung (diniego, rinnegamento), se non fosse che quel termine rendeva conto per lo più di un processo che poteva riguardare l’organizzazione genitale infantile e anche la turba feticista. Utilizzare uno stesso termine anche per la rimozione psicotica ha, di fatto, reso la questione sempre più nebulosa, fino a quando essa è stata ripresa in mano da Lacan. Scrive Sol Aparicio, che ha redatto un illuminante articolo sulla preistoria della preclusione (forclusione) in Lacan: «Freud aveva già proposto in “La perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi” un esempio della risposta psicotica a un conflitto libidico in contrasto con la soluzione isterica: invece della rimozione della spinta pulsionale, del misconoscimento di una parte della realtà psichica, si ha a che fare con il diniego che il fatto sia accaduto nella realtà esterna»,30 solo che utilizza per diniego Verleugnung poiché per lui non era importante differenziare i meccanismi bensì ciò che va a sostituirsi alla realtà negata. S. Aparicio, La preclusione. Preistoria di un concetto, «La psicoanalisi», 1 (1987), p. 39. 30 Ivi, p. 41. 29
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Perché abito una casa che già da sempre non mi appartiene?
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Nell’introdurre la concezione della scissione dell’io (Ichspaltung), Freud elabora l’idea che nella vita psichica ci siano due “correnti”: una che tiene conto di ciò che è avvenuto nella realtà, l’altra che non ne vuole sapere, «La gravità, se così si può dire, del meccanismo della Verleugnung sarebbe attinente allora al fatto che esso provocherebbe una rottura, una smagliatura, una scissione dell’io»,31 aggiungeremmo anche un’incrinatura (per usare un termine caro a Gilles Deleuze). Questa incrinatura viene paragonata nell’Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) a un cristallo: «la cui frattura non può aver luogo che secondo le linee di sfaldatura che, invisibili, preesistevano nella sua struttura»,32 immagine molto suggestiva, atta ad indicare, in una visione dell’apparato psichico come di una stratificazione geologica, come la suddetta incrinatura non potrebbe che continuare il suo corso entro una traiettoria stabilita. In questa variegata gamma di possibilità Freud ha l’intuizione di far valere la nozione di Ichsplatung anche per la struttura nevrotica. Si tratterebbe solo di differenziazioni progressive delle linee di sfaldatura. Ciò però non risolve il problema della Verneugnung: «Come capire che la Verneugnung può essere innocua per il bambino, fonte di creazione di un feticcio per il perverso, e che precede un’allucinazione per lo psicotico?».33 Che essa entri in gioco in un determinato momento o tardivamente, resta il problema terminologico: nulla a livello lessicale saprebbe differenziare le due rimozioni non Verdrängung, non nevrotiche. L’unico testo nel quale Freud utilizza l’oggetto della nostra analisi, ovvero la Verwerfung in relazione alla Verdrängung è il Caso clinico dell’Uomo dei lupi, caso che viene però classificato come nevrosi ossessiva, ma che presenta non pochi aspetti atipici e peculiari. Lì Freud azzarda che per questo soggetto vi è stata «una Verwerfung della castrazione […]. Egli indica che non vi è stato alcun “giudizio” riguardante la castrazione, che è semplicemente come se essa non ci fosse».34 Ivi, p. 42. Ibidem. 33 Ivi, pp. 42-43. 34 Ivi, p. 44. 31 32
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Viviana Faschi
Sono piccoli indizi, nemmeno Freud del resto era certo di quello che andava scoprendo, di sicuro grazie alla nozione di Ichspaltung si ha come il sentore che esiste «un “meccanismo” grazie al quale il soggetto rifiuta di conoscere un fatto reale»35 e «un “esterno” distinto dal luogo del ritorno del rimosso».36
Forclusione
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erché Lacan decide di tradurre questa Verwerfung, questa rimozione poderosa e peculiare della psicosi con il termine forclusione? Durante la sua analisi dell’Uomo dei lupi, Lacan si rende conto che c’è qualcosa di più di un ritorno del rimosso e che Freud stesso propende in questo caso per il termine Verwerfung piuttosto che per Verleugnung: cosa è accaduto? Si tratta di una tappa “ulteriore”: «Può succedere che un soggetto rifiuti l’accesso, al suo mondo simbolico, di qualcosa che pure ha sperimentato […]. Tutto il seguito dello sviluppo del soggetto mostra che non vuole saperne nulla, Freud dice testualmente: nel senso del rimosso».37 Questo è il passo fondamentale, l’unico passo che fa propendere Lacan definitivamente per la Verwerfung: Ciò che cade sotto la rimozione fa ritorno, giacché rimozione e ritorno del rimosso non sono che il diritto e il rovescio di una medesima cosa. Il rimosso è sempre lì, e si esprime in modo perfettamente articolato nei sintomi e in una moltitudine di altri fenomeni. Per contro, ciò che soggiace alla Verwerfung ha una sorte completamente differente […]. Quanto è rifiutato nell’ordine simbolico, nel senso della Verwerfung, riappare nel reale.38
Ivi, p. 45. Ibidem. 37 J. Lacan, Il Seminario, Libro iii, Le psicosi, cit., p. 15. 38 Ivi, p. 16. 35 36
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Ed ecco che la Verwerfung si ritrova ad essere l’unica tra le forme di rimozione a delineare il fatto dell’allucinazione, il non simbolizzato che ritorna dal di fuori. Vediamo di capire esattamente cosa significa questo tornare dal di fuori. Innanzitutto, il termine tedesco utilizzato da Freud, Verwerfung, letteralmente ha diversi significati: da quello preponderante di rigetto («È così possibile che qualcosa di primordiale quanto all’essere del soggetto non entri nella simbolizzazione e non sia già rimosso ma rigettato»39); a riprovazione, da ricusa (che compie già un passo verso il mondo giudiziario) a incurvamento, fino al significante geologico faglia (e qui siamo vicini all’Ichspaltung). In verità però c’è tutto un altro mondo legato ai significanti freudiani caratterizzati dal prefisso ver-; Lacan accenna la cosa ma non la approfondisce, ci sarà utile però quanto entrerà in gioco la sua peculiare traduzione di Verwerfung con forclusione: È curioso osservare come questo ver proliferi in Freud. Non vi ho mai tenuto delle lezioni puramente semantiche sul vocabolario di Freud, ma vi assicuro che ve ne potrei servire subito una buona dozzina. Comincerei col parlarvi delle connotazioni bancarie di tutti questi termini – conversione, bonifico ecc. – e questo ci porterebbe lontano, fino alle prime implicazioni di quell’approccio diretto che Freud ha avuto con i fenomeni della nevrosi.40
Connotazioni bancarie, del resto anche forclusione letteralmente vorrebbe dire pignoramento, anche se Lacan non attinge direttamente dal lessico bancario, o almeno non lo fa consciamente, per introdurre questo termine. È innegabile però che, voluto o non voluto, esso mantiene un’aura di esclusione fisica da un possedimento che doveva appartenere al soggetto. Sol Aparicio racconta anche la genesi dell’uso del termine forclusione e dove Lacan andò a scovarlo: c’erano due grammatici francesi, Damourette e Pichon (uno dei quali era psicoanalista, tra l’altro) Ivi, p. 94. Ivi, pp. 172-173.
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che all’interno della loro Grammatica, nel capitolo dedicato alla negazione «introducono la nozione di forclusif che essi oppongono al discordandiel nella loro analisi della negazione in francese».41 Che caratteristiche avrebbe questa negazione forclusif? «Poiché alla frase principale è stato apposto il né discordanziale, la subordinata contiene l’elemento preclusivo jamais, rien, jamais plus…».42 In pratica questo elemento preclusivo è inerente a qualcosa che nella principale il locutore non considera far parte della realtà, oppure, cosa ancora più sintomatica, che il locutore vorrebbe non avesse mai fatto parte della realtà. Tutto ciò è particolarmente evidente nel verbo pentirsi, proviamo a darne un esempio sulla scia di quelli forniti dai grammatici: “Questa relazione è per me ormai chiusa; mi pentirò fino ai miei ultimi giorni per averla mai iniziata”; è quel mai che ha la posizione forclusif, ovvero indica che il soggetto vorrebbe che quella situazione pur accaduta non fosse mai esistita. Se uniamo il prefisso ver- del rigetto freudiano al prefisso fordella preclusione lacaniana, entra in scena una dimensione che è rimasta sempre in attesa fuori dalla porta senza mai aver potuto accede (al Simbolico), per questo Lacan definisce la Verwerfung e quindi la Forclusione: «il rigetto di un significante primordiale nelle tenebre esterne […]. Si tratta di un processo primordiale di esclusione da un interno primitivo, che non è l’interno del corpo, ma quello di un primo corpo di significante».43 Questo procedimento apparentemente solo grammaticale scatena e giustifica il fenomeno allucinatorio dello psicotico: Di modo che il discorso è giunto a realizzare nell’allucinazione la sua intenzione di rigetto. Nel luogo in cui l’oggetto indicibile è rigettato nel reale si fa sentire una parola, perché, venendo al posto di ciò che non ha nome, non ha potuto seguire l’intenzione del soggetto senza staccarsene con la lineetta della replica.44 41 S. Aparicio, La preclusione. Preistoria di un concetto, «La psicoanalisi», 1 (1987), p. 55. 42 Ibidem. 43 J. Lacan, Il Seminario, Libro iii, Le psicosi, cit., p. 173. 44 J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, in Scritti Volume II, Einaudi, Torino 1974, pp. 531-532.
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La casa entra in scena
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L
a mia casa è stata pignorata, sarà venduta all’asta, non ne ho più nemmeno le chiavi, potrei tentare di entrare dalla finestra, forzandola… Aspetta ma io le chiavi non le ho mai avute, la casa è pignorata da che ho memoria, non è mai stata mia, perché? Questo monologhetto melodrammatico potrebbe essere utile per spiegare la condizione del folle, dello psicotico, nei confronti del Simbolico, del mondo linguistico, della parola, del significante. Perché forclusione non è solo la sua modalità incalzante di rimuovere, bensì anche il suo aver da sempre smarrito le chiavi di accesso a quel mondo, il Simbolico, con il quale egli non vuole avere a che fare. Carlo Viganò pone l’accento in modo preciso e incalzante a questa congiuntura di senso e lemmi: «Preclusione» traduce il termine usato da Lacan Forclusion, il cui uso prevalente è nel campo del diritto, dove sta a indicare lo stato di un soggetto che è escluso da, che non gode di taluni diritti. […] C’è da osservare che nell’impiego di Lacan, ponendo la significazione al posto del processo, l’impedimento non è dovuto a qualcosa di precedente nell’esperienza del soggetto, ma costituisce un cedimento strutturale, di fronte ad un impatto con il reale, non senza implicazioni etiche. C’è poi da notare che il prefisso del francese «for-» è di ordine spaziale (chiuso fuori) e ricorda la topologia freudiana della psicosi: ciò che è abolito all’interno ritorna dall’esterno. Il prefisso «pre-» è invece di ordine temporale o logico e sembrerebbe più lacaniano: ciò che è stato precluso nel simbolico ritorna nel reale.45
Forclusione/Preclusione si connotano di una specificazione, ovvero del Nome-del-Padre, della chiave di arresto della catena metonimica, ordito di fissaggio dei punti di capitone, ordigno capace di estrarre, come un mago dal cilindro, la realtà dal caos primigenio ovvero lì ogni istante.46 C. Viganò, Psichiatria non psichiatria, cit., p. 124. Per tutte queste questioni si rimanda all’articolo V. Faschi, “La psicosi è la struttura”. Antecedenza dello schema I allo schema R nella clinica lacaniana delle psicosi, «European Journal of Psychoanalysis», 2017. 45
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Viviana Faschi
Il soggetto non può entrare nella casa del Simbolico poiché gli è precluso il significante primo, il motore immobile dei significanti, salvo ricordare che nella clinica degli anni ’70 per Lacan i Nomi-del-Padre diventeranno plurali. Nonostante come si è visto Lacan attinga questo vocabolo, forclusion, da una grammatica francese, resta innegabile il suo riferimento col mondo giuridico-bancario: c’è uno sbarramento all’ingresso, salvo chiedersi se questo sbarramento non sia voluto, da sempre, da qualcuno che per il soggetto ha fatto le veci. La decisione di essere alieni al mondo delle significazioni, di essere liberi dal giogo della significazione, di mettere in scacco il parassita paroliere, come Lacan lo chiamerà nel Seminario XXIII, o la Madre-Tara, come abbiamo cercato di dire noi con un neologismo che unisce la lingua madre con la tara rappresentata dal linguaggio per il soggetto umano, non potrebbe andare e venire con quell’insondabilità di cui si parlava del primo capitolo? La forclusione del nome del padre non può essere avvenuta là dove ça parle, ciecamente ma per l’economia di questo soggetto singolare che è lo psicotico? E senza che ci sia un perché se non internamente alla medesima decisione?
Andirivieni “Il linguaggio è la casa dell’essere”
C
i sembra che questa enunciazione heideggeriana riesca, unica forse tra le enunciazioni filosofiche, ad unire il Lacan del Discorso sulla causalità psichica, quello della Questione preliminare e la questione introdotta nel precedente paragrafo della casa, che poi potrebbe anche essere una versione dell’enunciazione base della psicoanalisi quando si dice che con la scoperta freudiana dell’inconscio l’uomo non è più padrone nemmeno a casa sua. Se il linguaggio è la casa dell’essere, allora appare chiaro come per lo psicotico questa casa sia preclusa, perché in lui non “gira” il meccanismo metaforico primordiale. Ma questo essere padrone di casa non è per caso lo stesso essere cieco e muto che ha deciso per lui che questa operazione non avvenisse?
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Perché abito una casa che già da sempre non mi appartiene?
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Forse all’inizio, inizio non temporale ma al massimo logico, nevrotico e psicotico abitano la stessa casa, oppure entrambi sono dei trovatelli senza casa; nel già citato articolo La psicosi è la struttura ipotizzavamo un’umanità che ad ogni secondo da una struttura psicotica, dovesse “raddrizzarsi” nello schema R di quella nevrotica, che il mondo, come nella poesia di Montale,47 si accampasse i ogni singolo momento come per un inganno, l’inganno del fantasma, potremmo dire, che fa stare in piedi l’impalcatura nevrotica. Ebbene Jacques-Alain Miller ci viene incontro in un testo dove parla della Psicosi ordinaria, quella forma di psicosi probabilmente compensata che rende difficile la diagnosi differenziale ma che oggi è più che mai diffusa: Qual è l’inizio della vita psichica? […] Il debutto della vita psichica è ciò che chiamiamo l’immaginario. Si ritiene che tutti comincino con l’immaginario. […] Effettivamente, fin dall’inizio, il soggetto è immerso nel linguaggio. […] È dunque la nascita che si suppone comune, che sia un futuro nevrotico, un futuro normale, un futuro perverso, un futuro psicotico, a colui che abita, potremmo dire, lo stadio dello specchio. Lo stadio dello specchio è la prima struttura del mondo primario del soggetto, cosa significa? Che si tratta di un mondo estremamente instabile. Il mondo strutturato dallo stadio dello specchio è un mondo di transitivismo […], vuol dire che non sapete se siete voi o l’altro che l’ha fatto […]. È un mondo fatto di sabbie mobili. […] Bisogna cominciare facendo un’operazione di astrazione dal linguaggio che è presente fin dall’inizio. È a partire da qui che Lacan struttura la psicosi […]. Si suppone che sia un mondo la cui forza pulsionale è quella del Desiderio della Madre, il disordinato desiderio della madre verso il soggetto-bambino. In un certo senso, ciò equivale a dire che la follia è il mondo primario. È un mondo di follia.48
47 Ci riferiamo a Forse una mattina andando in un’aria di vetro, contenuta in Ossi di seppia. 48 J.-A. Miller, Effetto di ritorno sulla psicosi ordinaria, cit., pp. 230231.
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Viviana Faschi
Tale transitivismo proprio dello stadio dello specchio mostra chiaramente come la regressione topica a tale stadio (caratteristica che con la forclusione del nome-del-Padre stigmatizza la struttura psicotica nell’insegnamento lacaniano degli anni ’50) dia un grosso contributo alla comparsa dell’allucinazione, laddove credo sia l’altro a parlare (il “fuori”) mentre i significanti provengono da me. Quando il soggetto entra nella casa del linguaggio, ovvero vi nasce, non è padrone di nulla, egli, dice Lacan: «entra nel gioco come morto, ma è come vivente che lo giocherà»,49 infatti è proprio grazie «alla beanza aperta nell’immaginario da questa prematurazione50 in cui pullulano gli effetti dello stadio dello specchio, che l’animale umano è capace di immaginarsi mortale».51 Torniamo a “Villa Linguaggio”: la casa infestata da tutte le umane sciagure. Avevamo detto in precedenza come la psicosi fosse una malattia del linguaggio, sicuramente allora tutti gli psicotici da qui sono passati, sebbene il linguaggio non “iscritto” dello psicotico, il suo essere sempre ospite indesiderato della villa, non fa di lui un soggetto al di là del linguaggio: Riteniamo con lui [Freud n.d.r.] che convenga ascoltare colui che parla, quando si tratta di un messaggio che non proviene da un soggetto al di là del linguaggio ma di una parola al di là del soggetto. S’intenderà allora la parola che Schreber capta nell’Altro, quando […] essa porta il monito in cui si articola la stessa legge del significante: “Aller Unsinn hebt sich auf!” “Ogni Non-Senso si annulla!”.
Infine, in tutto ciò, non possiamo misconoscere, l’autentico ruolo di questo Nome-del-Padre che rende allo psicotico precluso l’accesso alla Villa sebbene egli mercanteggi a modo suo con la 49 J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, cit., p. 548. 50 La prematurazione è riferita alla coppia immaginaria dello stadio dello specchio tra il proprio corp morcelé e l’immagine unificante, che gioca una simbiosi come quella Madre-Bambino. 51 J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, cit., p. 548.
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Perché abito una casa che già da sempre non mi appartiene?
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pasta linguistica; Miller, quando parla di psicosi ordinaria, mostra come in essa si celi una chance per il soggetto iscritto all’ordine psicotico ma con psicosi non ancora scatenata; egli mostra come un certo elemento possa camuffarsi da Nome-del-Padre e permettere allo psicotico l’accesso alla Villa, questo elemento quindi farebbe da Nome-del-Padre senza esserlo; sarebbe un «sostituto sostituto»52 visto che il Nome-del-Padre già lo è per sua natura, e fungerebbe da «make-believe del Nome-del-Padre, un compensatory make-believe (un far-credere compensatorio)».53
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Abitare una superficie topologica
E
mbricarsi e inserirsi di nervature in una foglia; lotta di ricostruzione (di un mondo) intorno ad un buco; apposizione di un disco sul bordo del buco a mo’ di chiusura di una cicatrice. Queste tre proposizioni sono modi differenti, appartenenti a contesti o discipline differenti, per delineare come anche la struttura psicotica non solo esista ma stia in piedi: il mondo del Simbolico mi rifiuta? Sono io che rifiuto il mondo Simbolico? Ebbene ho altre possibilità per innervare della mia linfa le cose del mondo. L’esempio delle nervature delle foglie è un modo visivo (e non metaforico) ma molto eloquente di come Lacan ha intravisto la struttura delle psicosi: I fenomeni elementari […] sono elementari come lo è, in rapporto a una pianta, la foglia, sulla quale si vede un certo dettaglio del modo in cui si embricano e si inseriscono le nervature – c’è qualcosa in comune a tutta la pianta che si riproduce in alcune forme che compongono la sua totalità […]. È sempre la stessa forza strutturante, se ci si può esprimere così, che si trova all’opera nel delirio, che lo si consideri in una delle sue parti o nella sua totalità.54 J.-A. Miller, Effetto di ritorno sulla psicosi ordinaria, cit., p. 234. Ibidem. 54 J. Lacan, Il Seminario, Libro iii, Le psicosi, cit., p. 23. 52 53
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Viviana Faschi
Il buco è ciò che viene a formarsi per “carenza di padre” ovvero di metafora paterna. Si differenzia dalla mancanza nevrotica perché non dà la scaturigine di alcun desiderio, non è una mancanza produttiva; ma, nonostante l’apocalisse di questa premessa, «Proprio intorno a questo buco, dove al soggetto manca il supporto della catena significante, e che non ha bisogno, come si constata, di essere ineffabile per essere panico, s’è giocata tutta la lotta in cui il soggetto si è ricostruito».55 Ovvero il soggetto di questo buco costitutivo se n’è fatto qualcosa, non ci è caduto dentro, e questo qualcosa è stare in piedi in una superficie che da piana è diventata topologica, ha reso interno l’esterno e viceversa. Questa superficie topologica abitabile anche per la psicosi ci viene illustrata da Jacques-Alain Miller quando chiarisce le caratteristiche degli schemi R e I introdotti da Lacan nella sua Questione preliminare. Invece del “toro nevrotico” ciò che permette di visualizzare al meglio la struttura psicotica è il piano proiettivo, che poi non è una figura totalmente topologica, bensì un nastro di Möbius, tirato fino a formare un cerchio sul quale viene apposto un disco, in modo tale da chiudere la cicatrice almeno in una delle due parti: non è più così facile per l’interno scivolare nell’esterno. Miller tituba prima di confermare la sua ipotesi, ma poi cede: Mi è sembrato importante chiedermi perché Lacan fosse arrivato e frequentemente nelle sue presentazioni dei malati, a sostenere che la psicosi era la normalità. Mi è sembrato che in questa prospettiva, fossero piuttosto le altre strutture a dover essere ottenute per taglio o per supplemento a partire dall’asfera56 e non il contrario: e che, se Lacan poteva dire «la psicosi è la normalità», è perché egli intendeva che la psicosi (vorrei proporre questa formula) fosse la struttura.57 55 J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, cit., p. 560. 56 Asfera è come Lacan battezza il piano proiettivo reale. 57 J.-A. Miller, Supplemento topologico a “Una questione preliminare”, in I paradigmi del godimento, Astrolabio-Ubaldini, Roma 2001, p. 187.
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Perché abito una casa che già da sempre non mi appartiene?
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Quindi la psicosi è la struttura prima abitabile per il soggetto; qui potrebbe sorgere un gigantesco perché, sia sui presupposti che sugli esiti, perché psicosi e perché psicosi che resta tale o perché trasformazione in nevrosi. Ma tutto questo saggio non ha fatto altro, intersecandosi con un continuo e oscillante andirivieni a rispondere a questa domanda senza cadere nel mito e tanto meno nel pernicioso mito dell’origine. Ora non resta che guardare al futuro che altro non è che il presente di ogni istante.
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La chance del clochard
P
artendo dal presupposto che una vera e netta distinzione tra chi delira e chi non lo fa non esiste, dal momento che, ammonisce Miller i suoi colleghi: «Non potete funzionare come psicoanalisti se non siete coscienti di ciò che sapete, cioè che il vostro mondo è delirante – potremmo dire fantasmatico – ma, giustamente fantasmatico vuol dire delirante».58 Tutto ciò inoltre poiché, nonostante tutta la teoresi fatta in proposito, il Nome-del-Padre si scopre non essere poi quell’elemento trascendentale a causa del quale ci sarebbe l’arresto della catena metonimica, piuttosto «è sempre un elemento specifico in mezzo ad altri che, per un certo specifico soggetto, funziona come Nome-del-Padre».59 Premesso ciò vorremmo provare a guardare alla fortuna (chance) di chi per forza di cose una casa non l’avrà mai, il clochard. Se la casa è il linguaggio, il clochard ne sarà sempre privo; e, che questo rappresenti una scelta, una decisione, un destino, oppure il fatto che tutti e tre significano la stessa cosa, ha dalla sua dei vantaggi. Innanzitutto, può usare temporaneamente le case di tutti gli altri, può servirsi delle loro stoviglie, sdraiarsi nei loro letti, frugare nelle loro credenze, ma anche vedere se i loro specchi sono tutti uguali, riflettono in modo medesimo il suo fu corp morcelé. J.-A. Miller, Effetto di ritorno sulla psicosi ordinaria, cit., p. 241. Ibidem.
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E poi il clochard non avrà mai un coprifuoco, paura dei ladri, dei terremoti, dei pignoramenti, semplicemente perché sono tutti già avvenuti e lui è sempre rimasto in piedi, ha sempre sbattuto la testa contro il reale sicuro che «il reale […], non possa giocarci dei brutti tiri, non ci imbroglierà deliberatamente»,60 che esso in sostanza «Non bara».61 Conscio di ciò egli, il folle, lo psicotico, ha sempre ricostruito il suo mondo, raffazzonando qua e là cianfrusaglie varie e disomogenee, ma che, come uno sgabello62 senza una gamba, sapevano ancora stare in piedi. E non c’è problema, non c’è paura, se la figura composta sarà bizzarra e inaudita o inedita, del resto «il vero è sempre nuovo».63
J. Lacan, Il Seminario, Libro iii, Le psicosi, cit., p. 75. Ibidem. 62 Cfr. il concetto di sgabello scritto nella nuova grafia di SKbeau in J. Lacan, Il Seminario, Libro xxiii, Il Sinthomo, Astrolabio-Ubaldini, Roma 2006. 63 J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, cit., p. 187. 60 61
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La follia come escogitazione del corpo e come estensione della mente Parallelismi più o meno mancati
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orrei provare ad annodare due eventi del pensiero novecentesco, forzando un po’ la storia e la cronologia. Il primo è limitato a una sola giornata, il 28 settembre 1946 a Bonneval. Il secondo, trent’anni dopo, è invece più esteso, perché coinvolge un intero anno accademico, 1975-76, a Parigi, all’École normale supérieure de la rue d’Ulm. Nel primo caso, protagonista è Lacan, il quale, invitato a partecipare alle giornate psichiatriche organizzate dall’amico Henry Ey e dedicate alla questione della psicogenesi delle nevrosi e delle psicosi, apre la riunione in modo dirompente, pronunciando il suo Discorso sulla causalità psichica, rifluito nel primo volume degli Scritti.1 Difficile pensare, sulla base di quanto si dice in questo testo, che Lacan e Ey fossero stati amici, come in realtà furono, e avessero collaborato sintonicamente negli anni della formazione. “Sono chiamato a formulare una posizione radicale del problema: quella che si suppone essere mia e che di fatto lo è”. Così esordisce Lacan, senza esitazioni, preparandosi ad attaccare impietosamente la teoria organicista e riduzionista di Ey. Dunque, la guerra è aperta. In un discorso assai complesso, in cui i piani dell’argomentazione si sovrappongono e sono movimentati da una fretta e una concitazione significative, Lacan volge i suoi strali contro ogni tentativo di naturalizzazione del mentale, anche quando in questione sia il discorso sulla psicosi. J. Derrida, La vie la mort. Séminaire (1975-1976), Seuil, Paris 2019.
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Lo strumentario convocato da Lacan appare, in prima battuta, disomogeneo ed eccentrico. Egli chiama in causa il tema della verità, del dualismo cartesiano, della libertà, della credenza e dell’errore, della virtualità, della seduzione dell’essere, dell’azione morfogena, arrivando a pronunciare quella frase che è entrata a far parte della storia della psicoanalisi e che ha dato il titolo a questa raccolta di saggi: Credo infine che collocando la causalità della follia in quell’insondabile decisione dell’essere in cui questo comprende o misconosce la propria liberazione, in quel tranello del destino che lo inganna su una libertà che non ha affatto conquistato, non faccio altro che formulare la legge del nostro divenire, com’è espressa nell’antica formula: Γένοι᾿, οἷος ἐσσί.2
Sciogliere questa frase è un compito ingrato e una sfida cui cercheremo brevemente di rispondere tra poco. Per adesso, vale la pena sottolineare che in queste righe si respira un’aria decostruttiva, nel senso tecnico che Derrida ha dato a questa parola, peraltro senza mai definirla. Lacan mira a portare in luce i presupposti impliciti, le contraddizioni latenti nell’uso abituale dei concetti di causa, di decisione, di libertà. Si parla di causa, puntando piuttosto al concetto di fondamento, ovvero sostituendo al piano ricorsivo – che governa la ricerca della causa organica, mai capace di pervenire a un cominciamento assoluto e indivisibile, in quanto qualsiasi arretramento resta comunque parte della serie e dunque sempre oltrepassabile – il piano di una decisione seduttiva e olistica dell’essere. Si parla di decisione, non certo per evocare l’ambito dell’intenzionalità e della volontà soggettiva, ma puntando, ben diversamente, a una imperscrutabile piegatura dell’essere, a uno scatto cui si va dietro, piuttosto che provocarlo. Si parla di libertà non certo al fine di sostenere che per diventare folli basti volerlo, ma per ribadire che, liberi 2 J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Scritti, Volume I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 2002, p. 171.
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La follia come escogitazione del corpo e come estensione della mente
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da una diretta e unica causa organica, si è aspirati e sedotti da una morfogenetica decisione dell’essere. Un buon esempio di decostruzione, all’insaputa, forse, di Lacan stesso. Passiamo al secondo episodio evocato all’inizio. Tra l’autunno del 1975 e il giugno 1976, Derrida tiene all’École normale supérieure un seminario dal titolo La vie la mort. Si tratta di una serie di lezioni inserite in un ciclo formativo destinato alla preparazione per l’agrégation in filosofia. Derrida non era dunque completamente libero di scegliere il tema e il soggetto del suo insegnamento. Per il concorso del 1976, il tema prestabilito era La vie et la mort, ma Derrida annuncia subito che il suo intento sarebbe stato quello di offrire un controseminario, mettendo in discussione e decostruendo il titolo stesso. Come fece trenta anni prima Lacan, quando decise di portare una relazione antiorganicista in un seminario nato, invece, per difendere le ragioni del riduzionismo, Derrida dichiara guerra al contesto in cui si trova a parlare. Apparentemente, si tratta di una modifica da poco, di una leggera deviazione, perché egli propone di eludere l’et dal titolo, trasformandolo in La vie la mort. In realtà questa elisione inaugura un progetto decostruttivo avente di mira la logica opposizionale della filosofia classica. Occorre fare lo sforzo, ci suggerisce Derrida, di non considerare vita e morte come degli opposti, bensì come dei differenti. L’assenza di interpunzione tra le due parole e il solo inserimento di una spaziatura è un invito a sfuggire alla logica dell’identità e dell’opposizione, la logica dell’et e dell’est che aveva animato la filosofia hegeliana nel suo sforzo di trascorrere dall’opposizione al ritorno in sé identitario della sintesi. Come nel caso di Lacan, anche qui si tratterebbe di intravedere un nuovo paradigma, a questo aspira la decostruzione, capace di tenersi a debita distanza sia dal monismo sia dal dualismo (mente corpo, vita morte). Il discorso di Lacan non è sempre in grado di mantenere fede a questo progetto, perché la vis polemica e l’urgenza di contrastare le forme più o meno velate di meccanicismo e determinismo lo spingono ad abbandonare
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troppo presto le ragioni del “corpo” per arrivare a definire la psicosi una malattia del “senso”, sbilanciandosi cioè verso un monismo “metafisico”. Eppure, mettendosi in ascolto del non detto o del quasi-detto, si avverte in Lacan l’esigenza di sfuggire il monismo e il dualismo, a favore di una sensibilità per la “differenza” e per la complicità dei contraddittori. Non che Derrida, di contro, fili dritto sulla sua strada, e non abbia momenti di esitazione, ma certo non è animato da quel risentimento che metteva fretta al discorso di Lacan e che era forse giustificato dai tempi e dagli attacchi che il riduzionismo sferrava contro la psicoanalisi. Comunque la si metta, a me pare che la posta in gioco nei due discorsi sia la stessa. Quale dunque? Sono entrambi tentativi, più o meno riusciti, di sintonizzarsi col parallelismo spinoziano, sebbene accostando tematiche differenti. Nel caso di Lacan, il tema è quello della psicogenesi della follia, nel caso di Derrida, la questione in gioco è, più in generale, quella del rapporto tra le scienze e la filosofia. Avvicinare Lacan e Derrida è un azzardo. Si è trattato, come è noto di un incontro-scontro svoltosi soprattutto in due luoghi accidentati che riguardano entrambi il confronto con la letteratura: l’interpretazione della Lettera rubata di Poe e lo strano rapporto di ammirazione e risentimento che legava entrambi alla scrittura di Joyce. Non possiamo soffermarci qui su questo importante capitolo della cultura novecentesca, che ci domanderebbe di evidenziare, al di là di tali incroci, le idiosincrasie e intolleranze reciproche. Proverò piuttosto a cogliere un’atmosfera comune, non facile da caratterizzare, perché in larga parte inconscia in entrambi e che riassumerei così: si tratta di quella aspirazione al parallelismo pisco-fisico che da Spinoza in poi ha progressivamente decostruito il dualismo tra scienze della natura e scienze dello spirito, minando al contempo qualsiasi monismo riduzionistico, sia esso meccanicistico o metafisico. Dunque né monismo, né dualismo. Lacan non smette di riferirsi a Spinoza durante le varie fasi del suo insegnamento, ma nel Discorso sulla causalità psichica, il pedale dell’acceleratore, spinto con forza per
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La follia come escogitazione del corpo e come estensione della mente
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contrastare il riduzionismo organicistico della psichiatria contemporanea, fa compiere a Lacan un passo di troppo nella direzione, diremmo per semplificare, “metafisica” o “mentalistica”, tradendo un desiderio teorico sotterraneo che lo avrebbe invece proficuamente ricondotto a Spinoza. Torniamo ora al discorso di Lacan e proviamo a isolare i punti nodali della sua accorata argomentazione. Innanzitutto qualche considerazione sul metodo e sulla strategia dell’argomentazione. Lacan sceglie un illuminato rappresentante dell’organicismo e del meccanicismo riduzionista per mostrare come quest’ultimo sia infiltrato dalla filosofia e dalla metafisica. Si tratta, come si è detto, di Henry Ey, lo psichiatra francese, conosciuto in Italia per il suo Trattato di Psichiatria (Manuel de psychiatrie, 1963), scritto in collaborazione con Bernard e Brisset, primario dell’ospedale psichiatrico Bonneval di Parigi (1933-70) e noto per aver introdotto l’organodinamismo, ispirandosi alla teoria dei livelli funzionali, gerarchicamente subordinati gli uni agli altri, elaborata da John Hughlings Jackson. Quest’ultimo descrisse l’attività nervosa e psichica come la risultante dell’integrazione dinamica di due livelli: il livello inferiore, arcaico, più organizzato e automatico e il livello superiore, più recente e soggetto alla volontà. La malattia mentale si presenterebbe dunque, ai suoi occhi, come l’effetto di una disfunzione nei livelli superiori, causa di una regressione alle attività arcaiche. Il testo di Ey che Lacan prende di mira e discute è un saggio del 1936, scritto in collaborazione con Julien Rouart, dal titolo Essai d’application des principes de Jackson à une conception dynamique de la neuropsychiatrie, dove fin dal titolo si nota la continuità di ispirazione e di metodo che intercorre tra Ey e Jackson. Lacan riconosce a Ey il merito, peraltro trascurabile ai suoi occhi, di aver fornito una versione moderna dell’organicismo, avendolo arricchito di una concezione funzionale e dinamica (al fondo dello psichismo non si incontra solo la materia, ma anche l’interazione energetica), e tuttavia ritiene che questo aggiornamento del determinismo non abbia spostato di un millimetro la sostanza della questione:
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Il punto cruciale, secondo il mio punto di vista, è che questo gioco, per quanto energetico e integrante lo si concepisca, poggia sempre in ultima analisi su un’interazione molecolare secondo il modo dell’estensione partes extra partes in cui si costituisce la fisica classica, voglio dire secondo quel modo che permette di esprimere questa interazione sotto forma di un rapporto da funzione a variabile che ne costituisce il determinismo.3
Il bersaglio polemico è dunque il progetto cartesiano che fonda l’evidenza della realtà fisica sulla nozione di estensione, a cui Ey rimarrebbe fedele, pur parlando di “funzioni energetiche”. Si tratterebbe, insomma, di scomporre i fenomeni mentali nelle loro unità più semplici, fisiche, chimiche, anatomiche con l’intento mal riposto di impattare infine nella causa prima del disfunzionamento e della malattia mentale. Un processo che, come si è detto, non può non inciampare in un regresso ad infinitum frustrante e inconcludente. Se si provasse ad arrestare questo regresso, ci si troverebbe di fronte a una smentita del progetto organicista, per il fatto che qualsiasi arresto presupporrebbe la riapparizione furtiva di ciò che si credeva di aver definitivamente scongiurato, vale a dire il ricorso metafisico al senso, all’interpretazione, al significato. A rientrare dalla finestra sarebbe dunque – ci suggerisce Lacan ricorrendo ad un’unica parola, tanto ripudiata e considerata tabù nell’epistemologia scientifica – la verità. Dire cosa sia la verità per Lacan non è un’impresa facile, né posso pretendere di esaurirne le pertinenze in un saggio così breve. Sono costretta, dunque, a una semplificazione che mi perdonerete. La verità è l’emergenza di un senso, a carattere olistico e morfogenetico, per sua natura refrattario alla scomposizione, con un carattere discontinuo e irriducibile ai rapporti di causa ed effetto. Per comprendere di cosa si tratti, occorre non scappare dall’apparizione di questa verità, cercandone la fantomatica origine; bisogna piuttosto sostare nel momento della sua J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, cit., p. 146.
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La follia come escogitazione del corpo e come estensione della mente
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emergenza, perché comprenderla significa, in poche parole, vederla nascere nella sua separatezza assoluta. La verità è qualcosa di paragonabile alla grazia di un volto: provo a descriverla, a individuarne l’origine, il cominciamento, la causa, scomponendo il volto nelle sue parti (partes extra partes, appunto) e non trovo niente che possa giustificare l’emergenza di quel valore espressivo. Assai più utile sarebbe sostare al livello del suo stesso cominciamento. Levinas diceva che il volto dell’altro non comincia da nessuna parte se non in se stesso. È necessario, allora, predisporsi all’azzardo di considerare la follia alla stregua della grazia nel volto dell’altro. È proprio questo che ci invita a fare Lacan, e fino a qui mi sento di seguirlo senza esitazioni. La follia irrompe come una trafittura che lascia senza parole, di cui nulla sappiamo, pur facendosi essa riconoscere in modo infallibile. La follia ha un suo carattere, una sua identità, difficile ingannarsi di fronte alla sua manifestazione. Eppure, le sue singole componenti ci appaiono spesso prossime alle esperienze “normali”. Ad esempio, alcune formulazioni e costruzioni discorsive così cariche di originalità, i neologismi, le brillanti associazioni, se, isolate dal contesto sintomatico, appaiono indistinguibili dal linguaggio creativo della poesia. Cosa distingue l’efflorescenza ideativa e lessicale di una psicosi dagli zampilli verbali della poesia? Se cerco questa differenza, affidandomi alla scomposizione analitica e al disperato inseguimento delle cause, sorretta dalla fede nel continuum, dovrò presto arrendermi. La differenza, ci suggerisce Lacan, ha piuttosto a che fare con la verità, o, che è lo stesso, col discontinuo. E qui si sente l’anima di Spinoza che chiede di essere ascoltata. Lacan stesso non smette di evocarlo e citarlo. Non si può comprendere la follia adeguatamente, seguendo l’infinita catena causale in cui si inserirebbe. Se ne può avere, invece, cognizione, attraverso l’intuizione, mediante cioè quell’adeguatezza che, secondo Spinoza, si installa nella dimensione intemporale dell’eternità. Siamo dunque nel regno della metafisica, del fondamento, della verità. Ecco dove si colloca Lacan. Quali sono le scelte lessicali che ci suggeriscono sia proprio questa la strada imboccata da Lacan?
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La lettura dei Seminari e degli Scritti richiede un’attenzione sempre vigile alla scelta dei termini e delle locuzioni di volta in volta adoperati, perché lo spazio dell’argomentazione è di solito molto contratto. Sono le parole che ci restituiscono l’atmosfera del pensiero lacaniano. Nel Discorso sulla causalità psichica, il testo di cui ci stiamo occupando, troviamo delle ricorrenze concettuali assai significative: attrazione, seduzione, decisione, captazione, vertigine dell’essere. Ne troviamo una variante nella frase da cui siamo partiti, dove si parla della follia come «insondabile decisione dell’essere” in risonanza con la sartriana “scelta originale ingiustificabile e contingente».4 È bene isolare un primo elemento: la seduzione è tale quando non sappiamo da dove essa cominci a prodursi, quando non ne conosciamo la provenienza. Essere sedotti, risucchiati, captati dal volto di una persona significa non poter risalire a ciò che ha innescato questa vertigine, perché la seduzione nasce come un assoluto, come qualcosa di sciolto, come neutralizzazione di qualsiasi “prima”. L’etimo latino di “sedurre” ci dice molto: seducere, composto di se- (a parte, via) e ducere (condurre, trarre); nel latino classico significava “trarre in disparte”, “disunire”. Rilevante, per il discorso che sto facendo, è questo secondo significato che evoca una condizione di discontinuità e di separatezza. Sedurre significherebbe disunire, ovvero emancipare dalla rete delle cause, distogliere da ciò che si era, alienare. È proprio questo il significato che sembra risuonare nel discorso di Lacan. La vita psichica nasce all’insegna della seduzione ad opera dell’imago. Il soggetto è sedotto dall’immagine che proviene dall’Altro, ne è captato. Ciò che si osserva nel caso della follia, ovvero la caduta in un’immagine identificativa aspirante, non è diverso da quanto accade nella vita di chiunque. C’è una frase di Lacan, a questo proposito che merita di essere citata: «conviene anche osservare che se un uomo che si crede un re è pazzo, un re che si crede un re
J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2014.
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non lo è meno».5 L’elemento differenziante non riguarda certo questa captazione, che è appunto della stessa natura nella vita “normale” e nella vita “folle”, bensì il suo misconoscimento. Sul tema del misconoscimento, su cui Lacan fonda la sua teoria delle psicosi, ci sarebbe molto da dire, ma non è questo il luogo adatto. Vorrei sostare ancora un attimo su questa singolare infatuazione dell’essere che caratterizza la nostra struttura psichica, ciò che la psicologia chiama transitivismo per indicare quella suggestione mimetica che spinge, ad esempio, i bambini a sentirsi colpiti mentre inferiscono il colpo al compagno. Si tratta precisamente di una seduzione dell’essere, perché in essa l’Io si suicida mentre si identifica. È il vero significato del mito di Narciso. Che l’Io si suicidi, significa che mentre si identifica con l’imago fa iniziare tutto da qui, mentre avanza, cancella e rende vano qualsiasi tentativo di risalimento alle cause. Scrive Lacan a proposito dell’imago: essa «mi sembra correlativa a uno spazio inesteso, cioè indivisibile, di cui il progresso della nozione di Gestalt dovrà illuminare l’intuizione, – e di un tempo chiuso fra attesa e distensione (attente e détente), di un tempo di fase e di ripetizione».6 Inesteso, indivisibile dice Lacan; vale a dire non è la logica delle partes extra partes che può dar conto di questo evento. Si tratta di una strana causalità, la causalità psichica, che è un fenomeno irriducibile. Di tutto ciò è fatta la follia, e di qualcosa in più (misconoscimento) di cui non intendo parlare in questa sede. Cosa discende da queste premesse? Proviamo a compilare un veloce elenco delle conclusioni a cui perviene Lacan: 1. Le allucinazioni, i deliri, le costruzioni fantasmatiche e linguistiche non sono degli errori, perché non discendono da un deficit, da un mal funzionamento. Sono piuttosto credenze “insensate” che con l’errore non hanno niente a che vedere. Alla base non c’è una disfunzione, bensì il normale, o addirittura po J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, cit., pp. 164-165. Ivi, p. 182.
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tenziato, funzionamento delle captazioni immaginarie. «Lungi dunque dall’essere il fatto contingente delle fragilità del suo organismo, la follia è la virtualità permanente di una faglia aperta nella sua essenza».7 2. La follia non è dunque spiegabile deterministicamente, e lungi dall’essere un insulto per la libertà, come voleva Ey, “ne è la più fedele compagna, ne segue il movimento come un’ombra” (p. 170). Ma quale idea di libertà è qui in gioco? Non certo quella che presuppone la volontà e il libero arbitrio – “non diventa pazzo chi vuole” – , ma quella che è compatibile col risucchio, l’aspirazione, la seduzione dell’essere. Una libertà che si confonde con lo sviluppo della servitù. A questo punto, Lacan fa un passo di troppo che gli impedisce di inserirsi nel solco di una vera teoria parallelista, quale è, a nostro avviso, quella spinoziana. Lacan stesso non intende, forse, proseguire su questa via, la quale gli proibirebbe di pronunciare la frase che invece ripete più volte, “la follia è tutta vissuta nel registro del senso”, oppure “la follia è un fenomeno di significazione”. Per essere spinoziana, questa affermazione avrebbe bisogno di essere completata. Ogni fenomeno mentale, per Spinoza, è sì autonomo, indipendente, discontinuo rispetto a quel che accade nel corpo e tuttavia non può che essere trascinato dal ritmo del corpo, ovvero dalla combinazione più o meno riuscita dei livelli di equilibrio tra movimento e quiete, che ne costituisce la frazione identitaria. Insomma, tra corpo e mente è in atto un trascinamento reciproco che testimonia, al contempo, dell’unità della loro sostanza, e della differenza irriducibile dei loro modi. Se il discorso di Lacan fosse stato più conseguente, avrebbe forse dovuto arrestarsi un attimo prima nel cammino di valorizzazione dell’autonomia del mentale, per riconoscere che esiste una ratio corporis, un senso inscritto nel corpo, una escogitazione del corpo, così come esiste una corporeità della significazione, una matericità del pensiero. Perché mai, potrebbe obiettarsi, Lacan Ivi, p. 170.
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avrebbe dovuto fermarsi un attimo prima? Strana pretesa da parte mia, quella di esigere da Lacan qualcosa che egli stesso non ha voluto. Eppure una certa legittimità una simile operazione la ha, perché Lacan punta, seppure in modo malcerto e incostante, in questa direzione. Pensiamo al rimprovero che muove a Ey, non dissimile da quello che Derrida, come vedremo, muove a Jacob e Canguilhem. Lacan finge di meravigliarsi che, descrivendo la malattia mentale in chiave organicistica, Ey utilizzi significanti tutt’altro che ascrivibili al determinismo meccanicistico. Se Henry Ey mi trasporta con la sua arte, di “traiettoria psichica” in “campo psichico”, e m’invita ad arrestarmi un istante con lui per considerare “la traiettoria del campo”, io persisto nel mio benessere per la soddisfazione di riconoscere formule apparentate con quelle che sono state mie quando, in esordio alla mia tesi sulle psicosi paranoiche, tentavo di definire il fenomeno della personalità – , senza più accorgermi che non andiamo dalla stessa parte. Certo storco un po’ il naso quando leggo che “per il dualismo” (sempre cartesiano, suppongo) “lo spirito è uno spirito senza esistenza”, ricordandomi che il primo giudizio di certezza che Descartes fonda sulla coscienza che il pensiero ha di se stesso, è un puro giudizio di esistenza: cogito ergo sum, – e comincio ad agitarmi all’asserzione che “per il materialismo lo spirito è un epifenomeno”, riallacciandomi a quella forma di materialismo per la quale lo spirito immanente alla materia si realizza col suo movimento.8
Si tratta di un passo molto denso, in cui è tuttavia evidente la ricerca di una terza via tra monismo e dualismo: esiste una ratio corporis, messa in campo dalla terminologia adoperata da Ey per descrivere la fisiologia del disturbo mentale, così come esiste una materialità o estensione dello spirito che ci esime dal considerarlo meramente un epifenomeno. Come si noterà, siamo in un clima rigorosamente spinoziano, “parallelista”, lo abbiamo definito, sebbene questo non sia un termine adoperato da Spi Ivi, pp. 152-153.
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noza, mentre lo troviamo in Leibniz, e, circostanza per il nostro discorso assai più interessante, nel Progetto per una psicologia di Freud.9 Faccio un solo esempio, ma i prelievi potrebbero essere numerosissimi, tratto dalla terza parte dell’Etica di Spinoza, Proposizione II (Né il Corpo può determinare la Mente a pensare, né la Mente può determinare il Corpo al movimento o alla quiete, né a qualunque altra cosa, se ve ne è una): Tanto la decisione della Mente, quanto l’appetito e la determinazione del Corpo sono contemporanei per natura, o piuttosto sono una sola e stessa cosa che chiamiamo decisione quando è considerata sotto l’attributo del Pensiero e si esplica per mezzo di esso, e chiamiamo determinazione quando si considera sotto l’attributo dell’Estensione e si deduce dalle leggi del movimento e della quiete.10
Curioso e forse non casuale che, nella formula lacaniana “l’insondabile decisione dell’essere”, l’attenzione cada proprio sul tema della “decisione”, già presente nella proposizione di Spinoza. In fondo, la posta in gioco è quella di un lavoro sul linguaggio, di una ricerca di significanti che consentano lo slittamento impercettibile dal versante corporeo a quello mentale e viceversa, con l’unica finalità di mostrarne il decorso in parallelo (“contemporanei in natura”, dice Spinoza). Un analogo lavoro sul linguaggio caratterizza il discorso di Derrida, nel suo seminario del 1975-76. Rilevare analogie tra il pensiero di Derrida e quello di Spinoza non è forse così im9 Valga per tutti questo passo tratto dal Progetto di una psicologia: «Solo per mezzo di tali complesse e poco chiare ipotesi sono riuscito fino ad ora a inserire i fenomeni della coscienza nella struttura della psicologia quantitativa. Naturalmente è impossibile tentare di spiegare come mai i processi di eccitamento nei neuroni ω comportino la coscienza. Si tratta soltanto di far coincidere le proprietà della coscienza che ci sono note con processi nei neuroni ω varianti parallelamente. E non è difficile farlo con una certa precisione» (S. Freud, Progetto di una psicologia e altri scritti 1892-1899, Bollati Boringhieri, Torno 2010, p. 216) 10 B. Spinoza, Etica. Dimostrata con metodo geometrico, a cura di E. Giancotti, Editori Riuniti, Roma 2019, pp. 176-177.
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prudente. Basti pensare alla presenza capillare di Spinoza nella conferenza che Derrida dedica a Flaubert nel 1980 (Une idée de Flaubert), lasciandosi contagiare dalla sconfinata ammirazione dello scrittore per il filosofo olandese. Nelle prime sessioni del seminario La vie la mort, Derrida discute il metodo e le scelte terminologiche di François Jacob, biologo e vincitore, insieme ad André Lwoff e Jacques Monod, del premio Nobel per la medicina del 1965, per le scoperte sul controllo genetico della sintesi di virus ed enzimi, e di Georges Canguilhem, filosofo ed epistemologo. A entrambi riconosce il merito di aver introdotto termini prelevati dalla tradizione umanistica per spiegare meccanismi e processi biologici. Derrida si riferisce all’uso di termini come “informazione”, “testo”, “scrittura”, “riproduzione”, “eredità”, “messaggio” per parlare di questioni di stretta pertinenza genetica, ma rimprovera, in particolare a Jacob, di non aver tratto, fino in fondo, le conseguenze di questa scelta e di essere rimasto vincolato a un progetto riduzionistico. Acute sono le osservazioni che fa Derrida a proposito del testo di Jacob, Logique du vivant. Ne riprendo qui alcune, allo scopo di evidenziare le analogie con le obiezioni che Lacan muove a Ey. In questione è subito il titolo scelto da Jacob. Cosa significa “logica del vivente”? Perché Jacob non osa dire “logica della vita”? Per marcare, osserva Derrida, la sua distanza, in quanto biologo, dal concetto metafisico di vita, «dall’essenza della vita come entità nascosta dietro i fenomeni, come grande dama metafisica e misteriosa convocata facilmente dai filosofi. È con questo oscurantismo metafisico che lo scienziato intende rompere parlando di “vivente” e non della “vita”. Il vitalismo è il nome di questo oscurantismo metafisico»,11 Derrida condivide l’urgenza di tenersi lontano da un vitalismo metafisico caricaturale, astratto e occulto, ma non manca di osservare che la nozione stessa di “vivente” implica una idea di vita, una definizione essenziale 11 J. Derrida, La vie la mort, cit., p. 116. La traduzione dei passi tratti da questo testo è mia.
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di vita, una ratio corporis, avrebbe detto Spinoza. E infatti Jacob stesso individua, nella riproduzione, ciò che fa di un vivente quello che è. E in questo modo si appropria della definizione più metafisica tra i metafisici, che è quella fornita da Hegel nella Scienza della logica, quando afferma che l’individuo è vivente in quanto si riproduce. La capacità di riprodursi è, dunque, concepita come ousia (maniera d’essere), come aitia (causa motrice e finale), come energeia (energia libera e energia di legame). Conclude dunque Derrida: non solo Jacob non rompe, puramente e semplicemente, col discorso filosofico sull’essenza, ma egli trova, nell’essenza della vita come tendenza e attitudine alla riproduzione, direi, non soltanto l’essenza, ma l’essenzialità dell’essenza, l’origine e la fine dell’essenza come dinamica, e l’energia d’essere, […] e assicura dal di dentro – è questa l’essenza dell’essenza, vale a dire l’avere il suo principio d’essere in sé e non nell’accidente venuto da fuori – la propria produzione, cioè la sua riproduzione.12
Cosa è, insomma, questo “dal di dentro” se non un fondamento dell’essere che interrompe la logica delle partes extra partes e finisce per assomigliare al conatus spinoziano o all’appetito leibniziano? Chi ha sviluppato un po’ di orecchio per gli argomenti che stiamo qui sviluppando sentirà la somiglianza di famiglia tra il discorso lacaniano e quello di Derrida. Si tratta di scovare nel linguaggio dello scienziato, dichiaratamente riduzionista, l’inconsapevole uso di una terminologia metafisica, cioè filosofica, per mostrare come il senso, la ratio, il significante, l’escogitazione si annidino nel corpo, procedendo in parallelo ad esso. Se esiste una omologia, differenziata ma dello stesso tipo, tra i sistemi riproduttivi creati dall’uomo, testi, programmatori, calcolatori, e il funzionamento della riproduzione genetica, cade l’opposi Ivi, pp. 121-122.
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La follia come escogitazione del corpo e come estensione della mente
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zione tra scienze della natura e scienze dello spirito e «ci si domanda, scrive Derrida, se la biologia possa ancora pretendere di costruire la sua verità, una verità del suo campo scientifico».13 Il termine “riproduzione” gioca qui lo stesso ruolo dei termini “decisione”, “determinazione”, “libertà” in Spinoza e Lacan. Sono dei cursori che, spostandosi e mantenendosi sostanzialmente invariati, decostruiscono i confini tra corpo e mente, tra scienza e filosofia, tra biologia e psicoanalisi. È qui che avrebbe voluto portarci Lacan, come già aveva tentato di fare Freud, sfruttando le risorse mobili della follia, il più sensibile cursore della storia.
Ivi, p. 125.
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Postfazione
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L
a psichiatria appare spesso eccentrica accanto alle altre specialità della medicina. Sappiamo che i medici di ogni specializzazione si identificano in dottrine condivise e mutano in conseguenza dell’aggiornarsi del loro dottrinale, conformando il proprio pensiero e le prassi operative all’aggiornamento scientifico. Si intende, cioè, che il progredire della medicina cambia il medico ed il suo operare. Per la psichiatria, però, è forse vero il contrario. È lo psichiatra che, cambiando le proprie idee, cambia la prassi della psichiatria e realmente la psichiatria è cambiata spesso nel tempo, con il cambiare delle idee degli psichiatri. Di questo siamo stati e siamo ancora testimoni coscienti noi stessi. Il lavoro dello psichiatra è legato a principi complessi, a metodologie che si sfrangiano in molteplici paradigmi paralleli, derivanti da aree diverse e non facilmente sovrapponibili. Questa è la sua dimensione ed è il suo senso, plasmandosi via via nel contesto di società, di cultura, di storia e senza abbracciare una linea generalmente condivisa di dottrina. Ogni psichiatra intelligente, con le sue certezze o incertezze mutevoli, si può sentire come un uomo “copernicano” che crede nelle proprie scelte, ne comprende il senso e assume il peso della sua responsabilità, nell’agire, come nella libera ricerca intellettuale. Si confronta con gli altri esprimendosi con modelli diversi, accettando l’incontro sui processi di mutuo riconoscimento ed evitando di contendere sulla preminenza. Se appaiono spesso eccentrici accanto agli altri specialisti della medicina, gli psichiatri erano certamente apparsi tali in gran numero qualche decennio fa, nella particolare atmosfera politica e culturale del 1978, quando una nuova legge sopprimeva gli ospedali psichiatrici nel nostro paese. Allora avevano affermato il senso e la 157 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Postfazione
responsabilità dell’operare secondo una ragione critica, avversa decisamente alla ragione pigra che si adagiava ubbidendo alle abitudini, ai regolamenti d’istituto ed alla sicurezza dogmatica di certe visioni della malattia. In quel momento, chi aveva vissuto gli ultimi anni dei grandi ospedali psichiatrici era pronto per il cambiamento in un orizzonte animato da tante idee, per dimostrare che la linea guida era oramai cambiata e davvero ci si compiaceva in un fare speciale, del tutto diverso da quello dei colleghi di una psichiatria incardinata fino ad allora in uno stretto rapporto con le scienze neurologiche. Ma poi l’atmosfera è cambiata e se ci chiediamo quando, come e perché è cambiata, ci servono ripensamenti e suggerimenti per rabberciare qualche strappo della memoria. I manifesti della rivoluzione del 1978 non hanno più la voce squillante di allora. In gran parte gli psichiatri hanno cambiato strada, hanno ridisegnato gli itinerari, hanno ammainato certe bandiere sventolanti, hanno abbandonato le posizioni che portarono alla riforma. Se dopo quaranta e più anni cerchiamo di guardare e vedere cosa accade, ci accorgiamo che certe idee e certi oggetti hanno perso lucentezza e altre mode si impongono all’operatività psichiatrica. Nel 2001, nella pagina di presentazione di un congresso si leggeva: “Oggi la psichiatria è una disciplina d’avanguardia in continua espansione. I sistemi diagnostici dei disturbi mentali sono diventati elaborati e complessi. Come quelli in uso da tempo in medicina e sono oggetto di studi di validazione”. Sembrava il manifesto di una psichiatria che vuole affermarsi nel rincorrere o affiancare le sicurezze delle altre discipline mediche, tentando di nuovo anche la strada delle spiegazioni biologiche, eco aggiornato di quella dimostratasi sterile in passato. In realtà, sembra che qualche psichiatra tenti oggi di rifarsi “neurologo” dei sintomi psichici, scordando con quanta fatica ci si era tolti l’abito di “specialista di malattie nervose e mentali”. C’è un orecchiare neuro-psico-biologico nuovamente attrattivo, utile passaporto per le neuroscienze che spiegano tante cose diverse o forse nessuna. E si è imposta anche la sicurezza delle moltiplicazioni categoriali di un potente manuale diagnostico
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L’insondabile decisione dell’essere
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che si propone accreditatore di scientificità psichiatrica e che in un grande elenco – periodicamente mutevole – mette tutta la realtà umana, ma forse non abbastanza di quella psichiatrica. Insomma, un altro grande cambiamento è avvenuto nel volgere di pochi anni, all’interno di una molteplicità di pensieri che in psichiatria non si sono mai riappacificati del tutto tra loro. Oggi corrono le idee di una frangia di psichiatri ben diversi da quelli di qualche decennio fa. Ben diversi da quelli convinti che non solo la propria disciplina, ma tutta la medicina dovrebbe guardarsi dall’errore di aderire a modelli di malattia che non sono sempre adeguati alla complessità dei fenomeni. I concetti che i medici hanno della malattia – si diceva – li condizionano troppo e non è secondario chiedersi perché non diano spiegazioni completamente convincenti sulla aggressività di certe patologie che sono ancora misteriose nel loro momento eziologico. Forse quella psichiatria ebbe il merito, come aveva scritto Minkowski, di essere giunta nella sua evoluzione, molto prima del resto della medicina, ed anche della psicologia, a nozioni che superavano i limiti delle concezioni correnti e che potevano orientare meglio il pensiero clinico. E dunque, ancora oggi gli psichiatri riflessivi devono seguire il loro cammino come esploratori prudenti che girano intorno alla meta, le si avvicinano, sentono di passarle accanto, ma presi tra trasformazioni e contraddizioni, comprendono bene che le ampiezze del pensiero sono spesso in contrasto con le angustie della quotidianità clinica. Devono imparare che occorre comprendere il malato, nella sua storia e nella sua famiglia, in luogo e prima di spiegarne la malattia. Giuseppe Armocida
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Gli Autori
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Giuseppe Armocida è stato professore di Storia della Medicina nelle Università di Ancona, Pavia, Bari, Milano e Insubria. È presidente onorario della Società Italiana di Storia della Medicina. Paolo Bellini è professore associato di Filosofia politica presso l’Università degli Studi dell’Insubria, dove tiene i corsi di Filosofia politica, Società e media, e Linguaggi politici. Ha svolto ricerche sull’immaginario collettivo, i sistemi politici e il potere. È autore di numerose pubblicazioni tra cui: Cyberfilosofia del potere. Immaginari, ideologie e conflitti della civiltà tecnologica (2007), L’immaginario politico del Salvatore. Biopotere, sapere e ordine sociale (2012), Mitopie tecnopolitiche. Stato-nazione, impero e globalizzazione (2012), Introduzione alla filosofia e teoria politica (2017), Filosofia e linguaggi della politica (2018), La liberaldemocrazia e la civiltà tecnologica (2020). Sergio Benvenuto, psicoanalista saggista e filosofo, ha lavorato come ricercatore al CNR (ex Istituto di Psicologia di Roma). Ha fondato e diretto l’«European Journal of Psychoanalysis», è nella redazione di «American Imago», e columnist della rivista tedesca «Lettre International». È direttore dell’Istituto Elvio Fachinelli, e Professor emeritus in Psicoanalisi presso l’Istituto di Psicologia del profondo di Kiev. Tra le sue pubblicazioni: Accidia (2008), La gelosia (2011), Sono uno spettro, ma non lo so (2013), Lacan, oggi, What are Perversions? (2016). Per Orthotes sono apparsi La psicoanalisi e il reale. “La negazione” di Freud (2015) e Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi (2017).
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Gli Autori
Matteo Bonazzi, filosofo e psicoanalista (membro SLP e AMP), è professore a contratto presso l’Università di Verona, dove è coordinatore scientifico del Centro di ricerca “Tiresia” per la filosofia e la psicoanalisi. Insegna all’Istituto freudiano di Milano ed è presidente dell’Associazione “CLAC. Clinica dell’adolescenza contemporanea”. Tra i suoi libri: Scrivere la contingenza. Esperienza, linguaggio, scrittura in Jacques Lacan (2009), El lugar político del inconsciente contemporáneo (2012), Lacan e l’estetica. Lemmi (con D. Tonazzo, 2015). Domenico Cosenza è psicoanalista, membro della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi e dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi, e attuale presidente dell’Eurofederazione di Psicoanalisi. Insegna Psicopatologia dello sviluppo all’Università degli Studi di Pavia. È docente dell’Istituto Freudiano e dell’Istituto del Campo Freudiano in Italia e in Europa. Tra le pubblicazioni principali: Jacques Lacan e il problema della tecnica in psicoanalisi (Roma 2003; Madrid 2008), Il muro dell’anoressia (Roma 2008; Madrid 2013), Le refus dans l’anorexie (Rennes 2014; Belo Horizonte 2018), Il cibo e l’inconscio (Milano 2018; Barcelona 2019). Cristiana Fanelli, è psicoanalista dell’Association Lacanienne Internationale, e attualmente presidente dell’Ali Roma. Studiosa di letteratura, ha conseguito un dottorato in Filosofia del linguaggio presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Il suo lavoro di ricerca coniuga le competenze letterarie e linguistiche con quelle psicoanalitiche di orientamento lacaniano, concentrandosi in modo particolare sulla sessualità femminile. Docente presso la scuola di specializzazione “Laboratorio Freudiano per la formazione degli psicoterapeuti”, tiene seminari tra Roma e Parigi. Ha fondato assieme allo psichiatra e psicoanalista francese Charles Melman l’Associazione culturale “La Convivia” al fine di promuovere il dialogo fra psicoanalisi, arte e cultura. Ha ideato e diretto la collana di psicoanalisi lacaniana “Scilicet” per Editori Internazionali Riuniti presso cui ha anche curato Le mie sere con Lacan (2012). Fra i lavori a lei più cari la
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L’insondabile decisione dell’essere
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traduzione del testo di Marcel Proust Gelosia (2011). Ha curato la revisione del testo di Sigmund Freud, L’enigma della femminilità (2011; poi 2016). Ha curato e scritto per i volumi Il sapere che viene dai folli (2017), Per donna sola (2019). Viviana Faschi, laureata in Storia del teatro e in Filosofia, è dottoranda in Filosofia presso l’Università degli studi dell’Insubria con una tesi sulla causalità della follia tra filosofia e psicoanalisi lacaniana. Ha scritto diversi articoli usciti nelle riviste «European Journal of Psychoanalisis», «Medicina Historica», «Entymema», «Metabasis», «Studi di estetica». Suoi saggi sono usciti nei volumi collettanei La psichiatria italiana tra Ottocento e Novecento. Dal manicomio al territorio (2018) e Il mezzo secolo deleuziano. Leggere oggi Differenza e ripetizione (2019). Ha scritto il volume di prose poetiche Lo spleen di Milano (2014) che ha vinto i premi “Giusti opera prima” e “Camaiore proposta”. Silvia Vizzardelli insegna Estetica, Istituzioni di Estetica e Estetica e psicoanalisi per i corsi di Laurea in Comunicazione e Dams e in Filosofia e storia. È docente della Scuola di specializzazione post-laurea per medici e psicologi in Psicoterapia psicoanalitica (psicomed). Il suo ambito di ricerca comprende i rapporti tra estetica e teoria delle arti, e ha dato ampio sviluppo ai temi connessi alla filosofia della musica sui quali ha pubblicato numerosi saggi, e al rapporto tra estetica e psicoanalisi. Tra le sue pubblicazioni in volume: L’esitazione del senso. La musica nel pensiero di Hegel (2000), La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea (2002), Battere il tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch (2003), Filosofia della musica (2007), Verso una nuova estetica. Categorie in movimento (2010), Io mi lascio cadere (2014), La tentazione dello spazio. Estetica e psicoanalisi dell’inorganico (con V. De Filippis, 2016), Voce. Un incontro tra filosofia e psicoanalisi (2018).
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Indice
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5 Prefazione Viviana Faschi 9
L’immaginario cavalleresco, il matto e la libertà Paolo Bellini
23
“Diventa lo psicotico che tu sei” Sergio Benvenuto
39
Decidersi Matteo Bonazzi
59
I disturbi alimentari Una declinazione della follia nel XXI secolo Domenico Cosenza
83
Il folle è l’uomo libero? Cristiana Fanelli
117 Perché abito una casa che già da sempre non mi appartiene? La psicosi nell’andirivieni di decisione e forclusione Viviana Faschi
141 La follia come escogitazione del corpo e come estensione della mente Parallelismi più o meno mancati Silvia Vizzardelli 157 Postfazione 161 Gli Autori
165 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Studio grafico e impaginazione www.lalangue.it
Finito di stampare per conto di Orthotes da DBook nel mese di ottobre 2020
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