L'insediamento medievale nelle Colline Metallifere (Toscana, Italia): Il sito minerario di Rocchette Pannocchieschi dall'VIII al XIV secolo 9781407311500, 9781407341217

This volume presents eleven years of archaeological research carried out by the University of Siena at the castle of Roc

165 40 63MB

Italian Pages [229] Year 2013

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Table of contents :
01 working
02
03
04
05
06
Front Cover
Title Page
Copyright
List of authors
INDICE
Premessa
Introduzione
English summary
Résumé en français
I. La peculiarità di un territorio minerario nella Toscana del Medioevo
1. Le strategie della ricerca
2. Insediamenti e risorse minerarie nelle Colline Metallifere alla luce delle ricerche archeologiche. Il Medioevo (VIII-XIV secolo)
II. Le ricerche nel sito di Rocchette Pannocchieschi (Massa M.ma, Gr)
1. Lo scavo e l’analisi degli elevati
2. Le architetture in pietra del castello di Rocchette Pannocchieschi. Tecniche costruttive e tipologie edilizie tra X e XIV secolo
3. I materiali provenienti dallo scavo
III. Le risorse minerarie e le attività metallurgiche nelle Colline Metallifere nel Medioevo
1. La ricostruzione dei processi metallurgici attraverso l’analisi archeometrica degli indicatori materiali e l’analisi documentaria dello Statuto Minerario di Massa Marittima
2. I giacimenti minerari dell’area di Rocchette Pannocchieschi
3. Analisi degli indicatori produttivi ritrovati a Rocchette Pannocchieschi
CONCLUSIONI
Rocchette Pannocchieschi: lo sviluppo di un sito minerario nelle Colline Metallifere tra VIII e XIV secolo
BIBLIOGRAFIA
Recommend Papers

L'insediamento medievale nelle Colline Metallifere (Toscana, Italia): Il sito minerario di Rocchette Pannocchieschi dall'VIII al XIV secolo
 9781407311500, 9781407341217

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

BAR S2532 2013 GRASSI (a cura di) L’INSEDIAMENTO MEDIEVALE NELLE COLLINE METALLIFERE

B A R

L’insediamento medievale nelle Colline Metallifere (Toscana, Italia) Il sito minerario di Rocchette Pannocchieschi dall’VIII al XIV secolo a cura di

Francesca Grassi

BAR International Series 2532 2013

L’insediamento medievale nelle Colline Metallifere (Toscana, Italia) Il sito minerario di Rocchette Pannocchieschi dall’VIII al XIV secolo a cura di

Francesca Grassi con contributi di Giovanna Bianchi, Maddalena Belli, Jacopo Bruttini, Mauro Buonincontri, Cristina Cicali, Giuseppe Di Falco, Gaetano Di Pasquale, Giuseppe Fichera, Silvia Guideri, Marja Mendera, Alessandra Pecci, Frank Salvadori

BAR International Series 2532 2013

ISBN 9781407311500 paperback ISBN 9781407341217 e-format DOI https://doi.org/10.30861/9781407311500 A catalogue record for this book is available from the British Library

BAR

PUBLISHING

Elenco degli autori List of authors Liste des auteurs Testi - Texts - Textes Francesca Grassi, University of Siena, [email protected], [email protected] Giovanna Bianchi, University of Siena, [email protected] Giuseppe Fichera, University of Siena, [email protected] Marja Mendera, [email protected] Maddalena Belli, [email protected]; [email protected] Cristina Cicali, [email protected] Frank Salvadori, [email protected] Mauro Buonincontri, University of Naples “Federico II”, [email protected] Giuseppe di Falco Giuseppe di Pasquale, University of Naples “Federico II”, [email protected] Alessandra Pecci, DiBEST, University of Calabria; ERAAUB, Universitat de Barcelona, [email protected] Silvia Guideri, Parchi Val di Cornia s.p.a., [email protected] Jacopo Bruttini, University of Siena, [email protected]

Traduzioni - Translations - Traductions Arianna Briano, University of Florence, [email protected] Camille Brunin, Université Catholique de Louvain, [email protected]

INDICE

Premessa di G. Bianchi (University of Siena)

p. 05

Introduzione

p. 08

English summary (translated by Arianna Briano)

p. 09

Résumé en français (traduit par Camille Brunin)

p. 17

I. LA PECULIARITÀ DI UN TERRITORIO MINERARIO NELLA TOSCANA DEL MEDIOEVO 1. Le strategie di ricerca di F. Grassi

p. 26

2. Insediamenti e risorse minerarie nelle Colline Metallifere alla luce delle ricerche archeologiche. Il Medioevo (VIII-XIV secolo) di F. Grassi

p. 28

II. LE RICERCHE NEL SITO DI ROCCHETTE PANNOCCHIESCHI (MASSA M.MA, GR) 1. Lo scavo e l’analisi degli elevati di G. Fichera, F. Grassi 1. PERIODO I (VIII-inizio XI secolo) 2. PERIODO II (XI secolo) 3. PERIODO III (XII- XIII secolo) 4. PERIODO IV (XIV-primo quarto XV secolo)

p. 36 p. 40 p. 52 p. 62 p. 76

2. Le architetture in pietra del castello di Rocchette Pannocchieschi. Tecniche costruttive e tipologie edilizie tra X e XIV secolo di G. Fichera

p. 91

3. I materiali provenienti dallo scavo 1. La ceramica di F. Grassi 2. I manufatti vitrei di M. Mendera 3. I reperti in metallo di M. Belli 4. I reperti monetali: tipologie e analisi della circolazione monetaria di C. Cicali 5. I reperti osteologici animali di F. Salvadori 6. Boschi e coltivi: la gestione delle risorse agroforestali di M. Buonincontri, G. Di Falco, G. Di Pasquale 7. Le analisi funzionali degli spazi abitativi: il caso di una capanna altomedievale, di A. Pecci

p.103 p.117 p.124 p.134 p.140 p.161 p.165

III. LE RISORSE MINERARIE E LE ATTIVITÀ METALLURGICHE NELLE COLLINE METALLIFERE NEL MEDIOEVO 1. La ricostruzione dei processi metallurgici attraverso l’analisi archeometrica degli indicatori materiali e l’analisi documentaria dello Statuto Minerario Massetano di S. Guideri

3

p.167

1. Parametri di uno studio di archeometallurgia e problemi di interpretazione cronologica 2. Il quadro dell'organizzazione produttiva comunale attraverso una rilettura del Codice Minerario di Massa Marittima

p.167 p.168

2. I giacimenti minerari dell’area del sito di Rocchette, di J. Bruttini

p.173

3. Analisi degli indicatori produttivi ritrovati nel sito di Rocchette, di J. Bruttini 1. La sequenza delle strutture produttive 2. Lo studio degli scarti di produzione e dei volumi delle discariche 3. Il calcolo del volume delle scorie e una stima della produzione del sito 4. Conclusioni

p.178 p.178 p.185 p.189 p.191

CONCLUSIONI Rocchette Pannocchieschi: lo sviluppo di un sito minerario nelle Colline Metallifere tra VIII e XIV secolo di F. Grassi 1. Il villaggio di Trifonte tra VIII e IX secolo 2. Verso una specializzazione economica: il castello minerario tra X e XI secolo 3. La “Rocchetta” dei Pannocchieschi: il castello signorile e lo sfruttamento dei giacimenti minerari tra XII e XIII secolo 4. La signoria cittadina: il ruolo di Massa Marittima nella gestione di Rocchette nel XIV secolo

Bibliografia

p. 198 p. 198 p. 202 p. 205 p. 208

p. 212

4

Rocchette Pannocchieschi, del resto, è un sito privilegiato rispetto a tanti altri castelli scavati dall’area di Archeologia Medievale di Siena, perché è strettamente legato allo sfruttamento di una specifica risorsa, ovvero i giacimenti minerari argentiferi e monetabili. Questi, per loro natura e relativo ciclo di lavorazione, come bene ci spiega Jacopo Bruttini, devono essere inseriti in un contesto produttivo complesso, all’interno del quale entrano, necessariamente, in gioco attori di vario livello legati a dinamiche storiche caratterizzate dalla compresenza di poteri pubblici e/o privati. Proprio il rapporto tra questo tipo di poteri e lo sfruttamento di tali risorse fu il nodo centrale di un fondamentale articolo, più volte citato nel volume, scritto da Riccardo Francovich e Chris Wickham nel 1994 (FRANCOVICH, WICLHAM 1994), che ha costituito e continua a essere il testo di riferimento per l’interpretazione di tali fenomeni. Nell’articolo, per lo stadio della ricerca di quegli anni, alcuni aspetti furono obbligatoriamente lasciati in sospeso. Tra questi, le caratteristiche dei possibili insediamenti minerari nell’Altomedioevo e della coeva organizzazione del lavoro, in rapporto alle diverse committenze e ad una più precisa scansione cronologica delle trasformazioni insediative. Un primo elemento di valore di questo volume, quindi, è quello di contenere un tentativo di prima risposta a tali quesiti. Naturalmente è un primo passo ed alcuni aspetti dovranno essere approfonditi e meglio analizzati anche alla luce di altre fonti, proprio grazie al proseguimento delle indagini in altri siti di questo comprensorio territoriale. Ma le ipotesi di base ci sono già ed è su queste che oggi noi modelliamo la nostra strategia di ricerca. Nei contributi di Bruttini e nelle sintesi conclusive di Grassi alcuni nodi interpretativi sono affrontati in maniera chiara: il villaggio di Rocchette ma anche del vicino castello minerario di Cugnano nascono nell’VIII secolo e si formano in quei luoghi, scomodamente lontani da aree agricole, in virtù della loro vicinanza ai campi minerari. Chi abitava in questi villaggi sicuramente doveva occuparsi perlomeno dei processi di estrazione del minerale. All’interno però dell’area residenziale, almeno sino al X secolo avanzato, non vi sono tracce di strutture di riduzione del minerale. Segno evidente che tali processi dovevano avvenire in qualche altro luogo: in ‘bocca’ di miniera, in prossimità della stessa, lungo la principale viabilità, da dove poi il minerale, parzialmente lavorato, era inviato probabilmente verso altri punti di trasformazione, forse presenti nella stessa Lucca, sede della zecca altomedievale della Tuscia. Quanto minerale fosse estratto, dove venisse lavorato e se fosse totalmente destinato alla monetazione ancora non lo sappiamo e questi restano dei primari quesiti in agenda per il nostro gruppo di ricerca. Possiamo però ipotizzare, come scrive Bruttini, oltre ad una possibile organizzazione del lavoro anche gli eventuali attori coinvolti. Il tipo di materiale sfruttato ed i suoi usi al momento paiono, infatti, indicativi della presenza di un potere centralizzato, di tipo pubblico che forse agiva in questi luoghi tramite funzionari regi o importanti emissari coincidenti con i soggetti politici di rilievo presenti in quest’area a partire

Premessa G. Bianchi (University of Siena) Il personale e più vivo ricordo del castello di Rocchette Pannocchieschi è legato ad una limpida e fresca mattina di ottobre. Era il 1992, lo scavo iniziato da pochi giorni ed insieme a Daniele De Luca e Riccardo Francovich mi trovavo in quella poi individuata come l’area signorile e nella bellezza di questo contesto ascoltavo la discussione tra Francovich e De Luca sulla futura strategia di scavo. Di lì a pochi giorni la più piccola delle quattro cavità intorno al castello fu liberata dalla vegetazione e ripulita anche l’area vicina, dove sarebbe stato scavato il cosiddetto ‘quartiere industriale’. Una successiva, seppure meno accurata, pulitura delle altre tre doline bastò per mettere in luce l’eccezionalità di questo sito: un castello posto quasi al centro di quattro grandi cavità semicircolari, interpretabili come luoghi di escavazione mineraria a cielo aperto. Un contesto importantissimo, la cui indagine, a quel tempo, rappresentò la logica prosecuzione della ricerca di Francovich, dopo Rocca San Silvestro, il cui scavo, in quegli anni, stava avviandosi alla conclusione in previsione dell’apertura, nel 1996, del primo parco archeominerario d’Italia. Come ci ricorda Francesca Grassi, lo scavo a Rocchette fu il primo importante capitolo di una ricerca in questa area delle Colline Metallifere, ancora in corso, costituita oggi da ulteriori importanti tappe legate a scavi in estensione, a progetti di ricognizione di superficie od a studi relativi alle architetture medievali. Il complesso lavoro legato al progetto Colline Metallifere è oggi portato avanti da un gruppo unitario, coordinato da chi scrive e composto dalla stessa Francesca Grassi, da Jacopo Bruttini, da Luisa Dallai e Giuseppe Fichera che a loro volta coordinano più giovani studiosi e mantengono contatti con colleghi di altre Università che mettono a disposizione i loro diversi specialismi per arricchire le conoscenze sulla storia di questo territorio nel Medioevo. A quel tempo, però, sul modello di Rocca San Silvestro, lo scavo di Rocchette rappresentò una sorta di cantiere sperimentale dove molti collaboratori di Francovich e colleghi, anche di altre Università, furono invitati a partecipare alle indagini. Questa compresenza, spesso temporanea, di tanti ricercatori se da un lato ha arricchito la stessa indagine, dall’altro ha comportato il plausibile rischio di tempi dilungati di pubblicazione legati alla difficoltà di tirare le fila di un discorso interpretativo interrotto, nella sua continuità, anche dall’improvvisa scomparsa di Riccardo Francovich nel 2007. In questo senso, quindi, a Francesca Grassi va riconosciuto un doppio merito perché è grazie alla sua capacità e volontà se riusciamo a vedere ultimata questa pubblicazione. Allo stesso tempo il volume costituisce la prima sintesi interpretativa non solo sul singolo sito ma in rapporto all’intero contesto territoriale e tale risultato deve anche essere letto come il frutto di un lavoro di discussione collettiva tra tutti coloro che partecipano a questo progetto. La validità di un gruppo di ricerca, infatti, si misura dalla capacità di interazione e di apporto di tutti i suoi componenti, indipendentemente dal singolo che poi si fa carico dell’edizione di parte dei dati.

5

di formazione ed assestamento non lo sappiamo con certezza, dal momento che nei documenti in questa fase non vi è ancora traccia di simili concessioni da parte degli enti statali. In ogni caso non pare casuale che un simile cambiamento, che portò allo spostamento delle probabili fasi di test del minerale dentro l’abitato, coincida con le caratteristiche del ciclo produttivo tipico dei secoli centrali, quando questo era sicuramente gestito in base a specifici diritti signorili. Non pare nemmeno casuale che coeve a queste prime trasformazioni si registrino dei consistenti cambi dell’assetto insediativo coincidenti con la costruzione delle nuove cinte in pietra, come nel caso di Rocchetto e Cugnano. Del resto, dopo l’VIII secolo, un nuovo spartiacque cronologico, perlomeno in questo territorio, era già stato individuato a partire dalla fine del IX secolo, quando, in altri siti da noi indagati, si registrano importanti e consistenti fasi di riassetto edilizio dei primi villaggi in legno, imputabili all’operato delle signorie fondiarie più solide o almeno con una più forte fisionomia pubblica (BIANCHI 2010; BIANCHI 2012). Rispetto a questi siti, il ritardo che si registra, per l’attuazione di questi cambiamenti, nei villaggi minerari sia di Rocchette sia di Cugnano, potrebbe pertanto essere imputabile proprio al tipo di risorsa sfruttata, che avrebbe implicato un maggiore prolungamento della presenza del potere pubblico nella gestione di tali risorse. Sarà, quindi, essenziale nel prossimo futuro approfondire queste ipotesi preliminari perché, se valide, indicative di tempi e modalità di formazione delle locali signorie secondo passaggi di cui nei documenti scritti resta ben poca traccia. Processi che sicuramente comportarono la più o meno graduale scomparsa di quelle piccole élites locali che avevano caratterizzato i primi secoli altomedievali. Ma anche per il XII secolo dalla storia di Rocchette sono desumibili importanti informazioni. La ricostruzione degli eventi edilizi, ben narrata da Fichera, dimostra come ancora una volta e più del periodo precedente, sono proprio le architetture ad indicare la presenza di un ormai consolidato potere signorile che si accompagna alla presenza dei forni da riduzione per test immediatamente fuori dall’abitato. Nell’ottica della definizione dei nuovi confini dell’operato di questa signorie è di grande interesse in questo volume il tentativo di ricostruire gli obiettivi e l’areale di azione del ciclo produttivo dell’argento, ora forse più complesso dei secoli precedenti per la compresenza di più soggetti politici coinvolti. Il confronto con le contemporanee fasi di vita e produzione del vicino castello di Cugnano ci porta poi a individuare, come ulteriore quesito della nostra futura agenda di ricerca, quello di indagare i possibili motivi della chiara diversità di assetto di questi due castelli: con mura, forni e soprattutto case in pietra interne alla cinta nel caso di Rocchette, analogamente a Rocca San Silvestro; con una grande area produttiva interna ad una cinta che al momento non sembra racchiudere nessuno spazio chiaramente abitativo, nel caso di Cugnano. Riflettere, quindi, ancora una volta sulla microstoria sarà essenziale per capire dinamiche di gestione di diritti, di prerogative su uomini e risorse che al momento sfuggono e non sono rintracciabili nei rari documenti scritti.

dall’VIII secolo: il vescovo di Lucca, il monastero di Monteverdi Marittimo, per citare i più rilevanti. Questo è il primo punto. Ma il confronto tra questo sito e gli altri da noi indagati in questi ultimi anni consente di andare oltre la tematica strettamente legata all’archeologia mineraria. I dati di questo territorio dimostrano che il modello delineato da Francovich per il Sud della Toscana si presenta ancora solido. I villaggi accentrati di altura costituirono la principale spina dorsale del popolamento altomedievale, malgrado negli ultimi anni si attribuisca, nella narrazione storica, maggiore significato all’insediamento sparso, più documentato dalle fonti scritte e anche a quello accentrato ma di pianura (come dimostra il caso dell’importante sito di Vetricella presso Scarlino, MARASCO 2009). Oggi, però, perlomeno nei villaggi da noi indagati compresi tra l’area costiera e questo entroterra, riusciamo più di un tempo ad individuare nell’VIII il secolo di svolta delle dinamiche insediative, con appunto la formazione dei primi abitati di sommità. Tale affermazione acquisisce maggiore pregnanza se riferito proprio ai villaggi minerari dove, si ipotizza, essere in atto una strategia legata a possibili poteri pubblici. A tale riguardo, il quadro delineato grazie ad una recente revisione dei dati di ricognizione di superficie coordinata da Luisa Dallai nel territorio di Monterotondo M.mo (PONTA 2011-12), ci mostra chiaramente come alcuni siti di pianura sopravvissero sino al VII secolo inoltrato, con un abbandono avvenuto, appunto, alle soglie dell’VIII secolo. La lente di ingrandimento che stiamo usando per analizzare questo territorio evidenzia, quindi, che certi fenomeni visti da vicino possono essere svincolati dai più generali modelli di lettura che prevedevano per buona parte del Sud della Toscana un diffuso spopolamento nel corso del VI secolo ed appunto una prima risalita delle alture nel corso del secolo successivo. Simili considerazioni relative alla scala di analisi, riguardano anche le caratteristiche socio-economiche di questi primi villaggi. I dati di Rocchette confrontati, come leggiamo nelle conclusioni di Grassi, con quelli di altri siti indagati od in corso di scavo, ci indicano, sino al IX secolo avanzato, la presenza di comunità ancora non sottoposte a schiaccianti poteri esterni e quindi in grado di sviluppare al loro interno ipotizzabili processi di mobilità sociale che comportarono la presenza di élites locali attestate del resto anche dalle fonti documentarie (COLLAVINI 2007a; 2007b). Élites che, per la loro cultura materiale, perlomeno nel caso di Rocchette, beneficiarono dei loro contatti con un circuito politico-commerciale più ampio legato probabilmente alle dinamiche di sfruttamento dell’argento. Un simile quadro sembra subire un cambiamento evidente a Rocchette a partire dal X secolo quando compaiono i primi forni da riduzione interni allo stesso abitato. La presenza di tali strutture, probabilmente necessarie alle operazioni di test del minerale, è giustamente letta da Grassi e Bruttini, come il segno materiale di una forte trasformazione nell’organizzazione del ciclo produttivo. Se questa evidenza sia indicativa di una graduale privatizzazione di diritti, prima di prerogativa pubblica, da parte delle locali signorie in fase

6

La storia di Rocchette presenta degli elementi di grande interesse, anche per le sue ultime fasi di vita, corrispondenti alla parabola discendente dei poteri signorili a cui si alternarono quelli dell’ormai potente comune di Massa Marittima. Dal punto di vista materiale questo cambio è stupefacente perché è solo ora che nel sito, in prossimità del nuovo quartiere industriale in mezzo alle doline, compaiono tonnellate di scorie, rispetto alle quali Bruttini tenta un importante lavoro di quantificazione, in rapporto alla stessa produzione di argento che riesce a darci un’idea reale di questa industria e del suo portato produttivo. Siamo ormai al terzo possibile stadio di un’organizzazione dipanatasi dall’VIII al XIV secolo in maniera ininterrotta, con possibili test o luoghi di prima lavorazione esterni ai siti nei primi secoli dell’Altomedioevo, test interni ai castelli di X e XII secolo, prima lavorazione interna al sito nel corso del XIV secolo. Poteri diversi che si alternarono in rapporto a cicli differenziati di sfruttamento delle risorse da parte di commitenze specchio di una più ampia storia che l’archeologia comincia a delineare sempre di più. C’è sicuramente ancora molto da fare, ma ne varrà la pena anche per raccontare questa storia ai non addetti ai lavori. Con questa finalità, tra le altre, nel 2002 fu costituito il Parco Archeologico e Tecnologico delle Colline Metallifere a cui spetterebbe l’importante compito di coordinare e guidare tutti quegli enti locali coinvolti in progetti di ricerca, tutela e valorizzazione. In relazione a questo obiettivo fu redatto ed edito, con il progetto di Riccardo Francovich e Massimo Preite, il Masterplan del Parco (PREITE 2009). Per Rocchette, ora che l’edizione dello scavo è ultimata, la grande sfida consiste nel trasformare in esecutivo il progetto, per ora preliminare, elaborato in questi ultimi anni dallo studio di architettura RTP Borromini di Bologna, frutto del lavoro congiunto tra noi archeologi e progettisti. Il progetto, commissionato dalla ex Comunità Montana delle Colline Metallifere (ora Unione dei Comuni) prevede il restauro di parte delle strutture del castello e la realizzazione di percorsi di visita corredati da un apparato didattico-divulgativo necessario alla fruizione pubblica del castello. I tempi non sono sicuramente dei migliori con la forte crisi che domina il panorama economico e culturale del nostro Paese, ma è essenziale non venire meno al nostro dovere di archeologi e cittadini, senza perdere di vista gli obiettivi che ci siamo proposti.

7

Naturalmente gran parte del gruppo universitario senese che opera su questo territorio ha contribuito al volume, come si può vedere dall’indice stesso, ma in particolare un ringraziamento va a coloro che hanno discusso con me varie parti del libro, tra cui Giovanna Bianchi, Jacopo Bruttini, Giuseppe Fichera e non ultimo Juan Antonio Quiros Castillo (Universidad del Pais Vasco-VitoriaSpagna), sempre disponibile ad un sincero e costruttivo confronto scientifico. Enrica Boldrini, Daniele De Luca e Maddalena Belli sono stati, insieme a chi scrive, l’anima dello scavo di Rocchette e solo per una serie casuale di circostanze il progetto sul castello vede oggi la conclusione soltanto per mano mia e di alcuni nuovi colleghi che a loro si sono avvicendati. A chi ha portato avanti, per tanti anni, questo lavoro, va un sincero ringraziamento e la dedica di questo volume.

Introduzione Questo volume raccoglie il risultato di 11 anni di scavo stratigrafico all’interno del sito abbandonato di Rocchette Pannocchieschi, ubicato in Toscana, nelle Colline Metallifere (Comune di Massa Marittima, Gr). Tuttavia, il suo contenuto intende andare ben oltre la pura descrizione dei dati su questo singolo insediamento e ciò è stato possibile per due fattori, tra sè strettamente legati. Il primo fattore è senza dubbio il ritardo con il quale si va a pubblicare i risultati di uno scavo terminato nel 2003 e sul quale sono già state edite nel corso degli anni varie riflessioni, più o meno di sintesi (BIANCHI, BOLDRINI, DE LUCA 1994; ALBERTI, BOLDRINI, CICALI, DE LUCA, 1997; BELLI, DE LUCA, GRASSI 2003; GRASSI 2010a, pp. 136139). Senza questo ritardo però tali riflessioni maturate su Rocchette, e veniamo al secondo fattore, non si sarebbero intrecciate con i dati provenienti dagli anni di lavoro successivi al 2003 che hanno, di fatto, rappresentato un salto di quantità e di qualità nell’approccio alla ricerca in questi territori. Difatti, da un singolo sito si è passati ad indagini estensive in tutto il comprensorio circostante, l’ampio spazio insediativo delle Colline Metallifere, nel quale nuovi cantieri di scavo, analisi di superficie e dottorati di ricerca in corso, gestiti dall’Università di Siena, stanno oggi rendendo chiaro un paesaggio medievale peculiare, formatosi nel connubio tra insediamenti e sfruttamento delle risorse almeno dall’VIII secolo (BIANCHI 2010). A questa feconda stagione di ricerche, si deve dunque la possibilità di ragionare oggi sui dati di scavo del castello di Rocchette filtrandoli attraverso le conoscenze archeologiche maturate sull’intero territorio (si veda Capitolo I). Da ciò scaturisce il doppio registro su cui si articola questo lavoro, uno di presentazione dei dati dello scavo, ampi e arricchiti da analisi archeometriche che hanno contributo a descrivere gli spazi ed i modi del quotidiano (si veda contributo Pecci) e del lavoro metallurgico (si vedano contributi Guideri e Bruttini) ed uno di descrizione della rete di villaggi presente intorno a Rocchette e di quelle risorse così importanti su cui molti siti sviluppatisi nell’altomedioevo basarono la propria economia. Il volume è composto di tre capitoli e di una parte conclusiva di sintesi. Nel secondo capitolo si trova la parte centrale del libro, l’esposizione delle ricerche (storiche, archeologiche, archeometriche) sul sito di Rocchette; il primo ed il terzo costituiscono invece quelle parti di collegamento essenziali con le indagini archeologiche nelle Colline Metallifere, attraverso la descrizione del territorio e delle sue vicende insediative ed attraverso una lettura dello sfruttamento delle risorse minerarie nel corso dei secoli. Molti sono i ringraziamenti da fare, per gli aiuti ricevuti nel percorso di lavoro e soprattutto per essere giunti all’edizione di queste ricerche. L’impianto scientifico di tutta la ricerca è stato coordinato da Riccardo Francovich e l’intero progetto, denominato “Colline Metallifere”, che oggi prosegue sotto la guida di Giovanna Bianchi (Università degli Studi di Siena), deve ad entrambi molto lavoro e molti spunti interpretativi.

Vista aerea del sito di Rocchette Pannocchieschi (foto di proprietà di LAP&LAB-Università di Siena)

Panorama dall’area sommitale del castello di Rocchette, sullo sfondo sono visibili il golfo di Populonia e la città di Massa Marittima

8

have had various social structures, indeed the archaeological contexts have shown the coexistence of peasants and people of higher rank: small landowners who owned land and houses lived together with a class of metal craftsmen, whose faint traces remain in the excavations and in the early productive structures found both in Cugnano and Rocchette. Therefore a village community like Monterotondo, for example, was able to organize itself to manage certain resources, for instance cereals.

The medieval settlement in the Metal Hills (Tuscany, Italy): the mining site of Rocchette Pannocchieschi from the 8th to the 14th century English summary I. A Tuscan mining area in the Middle Ages (F. Grassi) The aim of this volume is the presentation of eleven years of archaeological research carried out by the University of Siena at the castle of Rocchette Pannocchieschi (Gr), located in southern Tuscany. The research, starting from the distribution of the Middle Ages settlement in the ‘Metal Hills’, focuses on the specific role of the mining site of Rocchette Pannocchieschi, deriving from the rich data provided by the excavations. In fact in this area of Tuscany, from the 8th century, several centralized settlements/villages developed around the mining areas containing deposits of mixed sulphides (copper, silver, lead). Rocchette Pannocchieschi was one of these centralized settlements, built near important lead and silver ores. These minerals, exploited from ancient times, resulted in the presence of four sinkholes, used in the medieval period for mineral extraction. Other mines, consisting of simple excavations into the terrain, surround the area of the castle, providing rich deposits supporting in the Middle Ages the nearby mining castle of Cugnano (Monterotondo M.mo-Gr).

From the 10th century, many of the existing settlements in the Metal Hills were provided with a fence to protect them and enclose a larger settlement area than before, although still not completely built up. These new developed settlements, defined as castles, are in complete continuity (from an economic and topographic point of view) with the above advances, the only difference being the presence of a masonry wall, which involved an investment in construction activities, i.e. the use of stone and mortar. The new fortifications still surrounded the village huts: in this kind of settlement it is difficult to find signs of social distinction through material evidence and buildings. In these centuries there are conspicuous traces of metallurgical processes, such as at Cugnano, Rocchette, and in the area of Montieri. In the next phase, between the 10th and 11th centuries, the material evidence shows a greater entrenchment of powerful noble families able to organize and manage the resources of the territory, in particular those concerned with mining. The strengthening of some settlements and the disappearance of many lowland sites not connected to the metal resources seem to indicate a new order, with settlements based on the exploitation of metal resources being more likely to survive.

Archaeological data collected at the mining site of Rocchette Pannocchieschi suggest many ways of managing the mineral resources and how these ways influenced the development of the site from the 8th century, under the rule of the Pannocchieschi family, to the changes in the 10th century, with the management of the districts of Massa Marittima and Siena. This research was inspired by the questions developed in 1994 by Riccardo Francovich and Chris Wickham, on the basis of the excavations at the mining castle of Rocca San Silvestro, attempting to find new solutions to expand understanding of production models related to mineral resources in the Middle Ages (FRANCOVICH, WICKHAM 1994). The case of the mining settlement of Rocchette Pannocchieschi is particularly important in the context of the Metal Hills, where many other sites have been studied (BIANCHI 2010).

From the 12th century, the evidence of rural aristocracies is widespread and is manifested mainly in the construction of masonry castles, which completely replaced the former villages made of perishable materials, and also in the appearance of ecclesiastical and aristocratic buildings inside the settlements. Socially and functionally distinct areas are constructed inside the castles, and at each site different planning and structural solutions were developed, always characterized by the division of functions (village, production area, aristocratic and military area). From the analysis of archaeological materials it appears that the means of procuring goods, such as pottery, completely changed, being no longer purchased locally by the castle’s artisans, but imported directly from the urban centres that produced them, such as Pisa and Volterra. The establishment of the aristocracy also resulted in a more intensive exploitation of local resources, by the construction of new craft areas created for this purpose.

The early phases of the hilltop villages are dated between the late 7th and early 8th century (Cugnano, Monterotondo, Montemassi, Montieri, Rocchette); the hilltop villages identified were only slightly extended for occupation in the 10th century, after their transformation into castles. The archaeological interventions have shown that from the late 7th century some villages focused their economy on the resources offered by monetary metals, while others became storage centres or villages linked with agricultural activities. From the end of the 9th century some of these settlements implemented administrative changes, some quite early on, such as Monterotondo and Cugnano. These early villages seem to

From the second half of the 13th century the many changes in the settlement networks of the Metal Hills were originated by the main cities and municipal authorities of Massa Marittima: Siena and Firenze.

9

In the places where there were very important resources, such as the mining resources of Rocchette and Cugnano, the municipal authorities put into effect a repopulation process and created new craft areas, or, in other cases, delegated the management to military garrisons, such as happened at Monterotondo and Montemassi. This process finished at the end of the 14th century with the loss of some of the settlements studied, in particular the mining ones.

The other important issue is the change in the functional area, which acquires an artisan connotation (metalworking). In particular a living area and an industrial area are distinguished by a ‘wooden fence’. A furnace for metal was set in the industrial area, over the stone wall, connected to a roof made of mixed materials (wood, beaten earth, stone), perhaps used as a warehouse for working activity. At the end of the 10th century this disposition of the area was abandoned, partly because of the collapse of the fenced wall.

II. Research at the site of Rocchette Pannocchieschi (Massa M.ma, Gr)

In the 11th century Rocchette assumed the shape and size of a fine castle. The built area expanded from 500m2 to 2,500m2, with the boundary of a palisade provided with an access door. Two distinct settlement areas were created and stone was used exclusively for all the built structures. The upper section of the area was taken over by the metallurgical processes. Later the castle was articulated in similar form and extended in the thirteenth century: the summit area was linked by the urbanization of the terraces below, giving rise to the village. We do not know from the written documents the names of those responsible for the fortifications at Rocchette, which were already in progress from the 10th century: perhaps the diocese of Volterra, or the Pannocchieschi family; from the 11th century both were involved in the development of other important mining sites, such as the castles of Montieri and Gerfalco.

1. The excavation and analysis of the masonry (G. Fichera, F. Grassi) The site Rocchette Pannocchieschi has been the subject of archaeological excavations from 1992 to 2003. The remains of the medieval settlement, abandoned today and situated on one side of Poggio Trifonte, in the district of Massa M.ma, consist of the castle surrounded by a palisade and two craft areas outside the walls, giving a total area of approximately 3,200m2. The excavations made possible the reconstruction of the sequence of activities at the site from the 8th to the 14th centuries, after which it was totally abandoned. At the top of the site, an area of about 500m2, some traces relating to the early settlement of Rocchette (8th century), have been identified. Although this evidence is very weak we can identify a village consisting of huts, designed as habitation and service structures. Going down the sides of the rock we can assume further areas occupied by wooden buildings.

During the 12th and 13th centuries the castle of Rocchette was associated with the Pannocchieschi family and with the Bishop of Volterra. The archaeological data show that the boundary walls did not undergo substantial changes after the 11th century, and that a monumental doorway was built. From the doorway the houses of the village were arranged along three main lines of natural terracing and a clear road system established. The summit plateau (now occupied by a manor house, a tower and a cistern) became the focal point for high-status buildings.

This village had no palisade or stone walling: it can be assumed that the village was naturally defended, first by the location and secondly by an artificial ditch, still visible today. For the early medieval period we have some documentary evidence, dated AD 826 and kept in the nearby monastery of San Regolo Gualdo. The dean of San Regolo, a member of the Aldobrandeschi family, granted ‘casa et res posita in loco Paganico ad un tal Simprando del fu Sasso de Trifonte’. This document, recalling the location of ‘Trifonte’, where the original ‘Sasso’ was located, seems to attest the presence before the year 826 of some social settlement on the same hill, identifiable with the only archaeological site found (Rocchette).

The craft activities were performed in three areas outside the main portal, near the sinkhole ‘A’, located on the south-west of the site. During the third decade of the 13th century the data reveal early signs of a crisis affecting Pannocchieschi power. Archaeological finds from the second half of the 13th century are connected to these events, when some houses placed against the walls were demolished, showing the abandonment of the village by some residents. In particular, just into the second half of the thirteenth century, the Pannocchieschi family gradually lost control of the castle. The documentation tells us that by 1298 some of the rights in the castle had been sold to the district of Massa Marittima. This in turn seems to have led to further building and probably also an increase in demographic, activity. At this time a small village close to the walls was built and new developments formed within palisade. Some walls were adapted for the new layout and in particular a new centre was created for production between sinkholes ‘B’ and ‘C’. At this time Rocchette was also primarily a metallurgical centre and the economy of the inhabitants of the castle was therefore, even at this stage, focused primarily on the

It is possible to recognize a change in the structure of the entire inhabited area at the top of the site, from the end of the 9th century, with the abandonment of two huts and the transformation of the area. In the 10th century the summit area was enclosed with the installation of a palisade, of which remains a short stretch (approximately 780m2). Therefore in the 10th century there seems to have been the remains of a very centralized series of structures, identified only at the upper part of the site, while the terraces below showed no forms of settlement.

10

extraction and processing of monetary metal until the permanent abandonment of the site at the beginning of the 15th century.

Perhpas it is possible to attribute to the district of Massa Marittima the construction programme that involved the new village outside the walls of the castle, centered around three main axes linked to a careful planning concept, that must have been the result of strong economic factors resulting in the gaining of control of the castle of Rocchette Pannocchieschi, between the last decades of the 13th century and the first quarter of the 14th century. From the second half of the 14th century there was a process of gradual abandonment of the summit area and only sporadic construction activities below, reusing recovered materials, marking the eventual decline of an ambitious district project.

2. The stone architecture of the castle of Rocchette Pannocchieschi. Construction techniques and building types between the 10th and 14th centuries (G. Fichera) The analysis of the stone architecture of the castle of Rocchette Pannocchieschi has contributed to a more detailed description of the construction periods. Comparison with the architectural developments of the neighbouring castle of Cugnano has also highlighted similarities and differences in the activities of the two main families – Pannocchieschi and Aldobrandeschi.

3. The materials from the excavation

The investigation has shown that the first walls of the castle, which appeared at the end of the 10th century, employed a compact kind of local sandstone (ashlar masonry). These building works, coinciding with a defensive wall at the top of the site, could be attributed to the commitment of good builders, experts in the manufacture of lime mortar and wall building. In the 11th century there was a clear change in the planning, due to greater investment, resulting in an expansion of the defensive circuit and the presence of entire dwellings, or sections of them, made of stone, both at the summit area and in the lower village. Two construction techniques can be identified, distinguished from each other by the degree of the processing of the stone elements and by the use of two different mortars.

1. The pottery (F. Grassi) During the 10 excavations carried out at the site of Rocchette 23,405 ceramic fragments were collected, covering a period from the 8th to the 14th centuries. The pottery analysis of Rocchette Pannocchieschi is very important for the study of the material culture of villages dedicated to mining activities. In the early middle ages we note the presence of hand-made pottery for cooking until the 10th century. 30% of the fired ceramics suggest coarse wares, with the remaining 70% indicating finer work, with the use of faster wheels, various decorative and technological elements (although often associated with rougher clays), even in non-table wares. The pottery of the first period of the village of Rocchette, at least until the 11th century, still shows an ambivalence among some typical features of a peasant society and others linked to more complex consumers. In fact, despite a constant presence, the supply of handmade pottery becomes the minority, in favour of the production from more structured workshops and the first non-local and regional pottery. Along with kitchen wares, produced in the area surrounding the site, there are storage vessels, some even glazed, from the Campiglia area. Some amphora-type containers seem to come from the area of Gavorrano and ceramics with splashes of red slip originate from the Valdarno region. The forms are limitated to ‘olle’ (ceramic jars), ‘testi’ (flat discs of thick and coarse clay), and rare lids for cooking vessels and jugs. There are no open forms or forms suitable for baking, such as covered basins or portable ovens.

During the 12th century, in line with what happened in most of the fortified settlements, there was a complete reconstruction of the settlement combined with a strong desire for control by the Pannocchieschi family. They built the tower, palace and cistern on the summit, and adopted high-quality construction techniques, such as the square shaping of the stone. It is also possible to date from this period the first occupation of the areas outside the castle that were intended for craft working. Analysis of the material evidence seems to indicate that the works began with the building of the palisade, followed by the construction of the palace on the summit area and the defensive tower. The buildings of the village, developing in two parallel rows, reflect a precise hierarchy in terms of location and dimension. There were essentially two sizes: one with an inner surface area of 100m2 and another of around 33m2.

From the 12th century the ceramics show a lively production from the area surrounding the castle: there was an extension of the workshops and the appearance of glazed kitchen ware and local production of storage and table wares. It can be assumed that manufacturing occured in intermediate centres between the city (Siena) and the coastal area. The output included ‘olle’ and ‘testi’ (the latter form was new and appears in the 12th century associated with the advancement of glaze techniques) and other items of storage and table wares. There is also evidence of conical glass ware.

From the point of view of construction techniques, the technical environment of the 12th century is characterized by a relatively limited range, reflecting the presence on site of groups of skilled workers with excellent organizational skills, exerting a strong influence on the local labour force. Construction activities in the 13th century, except perhaps for some restorations to the architecture of the summit area, were very limited, reflecting various local power struggles to do with the expansion of the nearby Massa Marittima and Siena.

11

With regard to the 14th century, the most significant data relate to the productions of majolica, and in particular to the presence of productions from Volterra and Massa found in the castle. The majolica from Volterra, in the 14th century, represents half of the tableware finds and indicates the production and commercial interaction between the aristocracy of Volterra and the castle. Contacts with the productive area of Pisa and with the products that were circulating among the castles connected to the coastal towns are completely absent at Rocchette: the inner location of Rocchette was undoubtedly a reason for the absence of Spanish majolica, usually associated in this century to imports from Liguria.

923 metal objects have been catalogued from the excavation. There are few definite examples from the 9th and 10th centuries, but the few we have contain interesting indicators for the functional character of the village. In addition to tools, such as chisels and punches, used for carpentry or metalwork, there is a horseshoe nail found outside a hut and supported by the bone remains of a horse. Two fragments of a knife used for daily activities and an arrow cusp indicate hunting, as confirmed by the animal bones found (mainly deer). The items found relate well to finds belonging to the Longobard centres of Tuscany, such as Lucca. With the construction of the stone castle, in the 11th century, carpentry nails and awls were found coming from the construction areas associated with the walls. Arrowheads, horsehoes and nails were found in several village buildings. The phase of reorganization of the castle under the ruling nobility, between the 12th and the first half of the 13th century, revealed a large amount of metal finds coming from the summit of the hill and the village. Among the finds from the summit there were nails, eleven arrow cusps and a single and much larger cusp, attesting the use of a large crossbow. Such weapons could refer to the military conflicts attested in the 13thcentury documents. The finds from the village included iron shoes for horses and mules, hooks, chain links, a lock, three knives and a fragment of a copper alloy cauldron. Only a few examples are associated with clothing: an iron buckle and a pin in gilded bronze.

2. The glass artifacts (M. Mendera) At the site of Rocchette 159 glass fragments, relating to 61 items, were found dating from the 8th to the 20th centuries. In the early Middle Ages, the glass finds provide clear signs of a varied society – not only a farming community – through their morphological types and their origin. These finds, although in small quantities, provide other insights into the inhabitants of Trifonte. There are two fragments of glass bodies decorated with applied festoon filaments attributable to chalices or drinking horns, definitely Tuscan imports, showing an aristocratic or high-status presence from the 8th century. A similar provenance can be suggested for the stem of a chalice dated to the end of the 9th century, and for a double-bodied glass vessel. The stem of the goblet might also suggest the presence of a religious structure nearby, compatible with the use of that object, but at the present time there is no architectural evidence supporting this hypothesis.

The approximately 700 metal artifacts dated to the 14thcentury context of the Rocchette castle help provide a more complete picture of the material culture of the site: some agricultural tools, a miner’s pick, a sickle, are among the instruments in use both in artisan-domestic and agricultural contexts. Weaponry included items for archery, crossbows (verrettoni), and side arms.

There are also fragments of glasses, dated by stratigraphic position and comparisons to the 10th century, witnessing the use of a quite common quality of glass, although at the moment it is difficult to say whether these objects were imported or local, because there is little information about glassworks active in the Metal Hills during these centuries.

4. Coin finds: types and analysis of monetary circulation (C. Cicali) The excavations in the castle of Rocchette returned 42 coin finds in poor condition with a few exceptions. The coins were found on the summit, the craft areas and in the village. The coins date mostly from the beginning of the 14th century to the year 1371. Almost all of the coins come from the Tuscany mint, except for a Genoese ‘quartaro’, a dinar coined in Manfredonia between 1255 and 1266, and two Perugia dinars from the 14th century.

For the period covering the 12th and 13th centuries the glass finds are limited to 7 glasses all from the village. For the last period of the site’s use (14th century) there is a prevalence of everyday objects, mainly composed of conical glasses with some residual specimens of glasses type 1 and 2. The absence of fine artifacts in this chronological period seems to highlight the disappearance of the nobility.

There were no coins from the early Middle Ages (8th to 10th centuries), or, surprisingly, from the 11th and early 12th centuries, when the Lucca dinars were dominant in the markets and rural centres. The only example found in the castle was a Luccan dinar bearing the name of Henry III-IV-V of Franconia, attributable to the second half of the 12th century, characterized by a peculiar coinage from the Volterra mint. According to archival records, we know that the Volterra Bishop, Ildebrandino Pannocchieschi, received the privilege of minting coins from Emperor Enrico VI in 1189, but this benefit was

3. The metal finds (M. Belli) The archaeological excavation in Rocchette Pannocchieschi returned a collection of iron objects, showing the chronological evolution of certain types of objects, such as weapons, and allows the functional analysis of handicrafts from the 9th to the 14th centuries.

12

almost certainly only a formality showing the previous minting in Montieri. This coin, along with others from different sites in the Metal Hills, are indicators perhaps of the activity of the Montieri mint.

particular the horses are characterized by medium-large specimens, typical of the stronger breeds used for military purposes. The presence of wild species indicates that farming was not the only source of meat. Roe deer, red deer, wild boar, rabbits and hares are all in evidence, with percentages relating to other taxa and progressively increasing throughout the development of the village (from 4% up to 11%). From the 10th century, the period of the first stone fortifications, the remains of wild ungulates are found, and more generally Rocchette fully conforms to the Tuscan patterns of the consumption of wild species being linked concurrently with the first fortified walled circuits.

The largest group of coins consists of ‘nominali’ from the 14th century, in particular from Firenze and Pisa – the popular coinages in the Volterra area at the beginning of the 14th century. Many of the materials from the second half of the 14th century come from the layer of abandonment of a small section of the village, probably a warehouse, which returned 18 coins: their poor condition, due to prolonged circulation, confirm the abandonment of the castle at the end of the 14th century. 5. The faunal remains (F. Salvadori)

The various finds can be observed in terms of dietary habits. The anatomical distribution of the most common groups (specifically pig) suggests accumulations generated by a wealthier social group that changes over the medieval periods and points to the relationship with other productive sectors of the rural economy, from an administrative role in the direct production processes (Early Medieval) to that of basic consumer (Later Medieval).

The archaeozoological analysis only related to the finds on the summit area of the site, where a settlement was discovered with a chronological horizon between the 8th and 14th centuries. In total we analyzed 2741 remains: the fauna is composed of 7 orders, 11 families, 15 genera and 16 species, expressed by 26 taxonomic categories. The overall majority (97%) is mammal material with 3% only relating to birds and reptiles. The animals found belong both to domestic and wild species, including cattle, sheep and goats, pigs, horses, donkeys, cats, dogs, deer, roe deer, wild boars, hares, badgers, and hedgehogs. Poultry and tortoises were also identified. The domestic mammals (89% of the remains determined) are the most conspicuous group. Pig is the most popular species constituting 51% of total, followed by sheep and goats (30%) and cattle (9%). Rarer finds were deer (5%), poultry (1%), wild boar (1%), tortoise (1%).

6. Forests and crops: the management of cultivated land and forestry (M. Buonincontri, G. Di Falco, G. Di Pasquale)

In addition to the ratios of taxonomic and quantitative aspects, the archaeozoological analysis concerned other factors, including the anatomical preservation of the most common zoological groupings, the age of death, osteometry and biometric analyses. In this way it was possible to observe some important fluctuations over the centuries, especially in the relationships between the number of pig, sheep and goat bones. In earlier periods we can see a predominance of pig consumption (8th -10th centuries), with over 60% of determined bones, followed by a sharp decrease in favour of sheep and goats in the 9th century. This characteristic finds correspond well to other Tuscan sites and give insights into changes in breeding anr rearing strategies.

Excavations have revealed so far 6 soil samples related to the 10th century, and also a hut on the summit had charred seed remains (carporesti) in good condition of preservation. Charcoal remains identified 5 taxa, including deciduous Quercus (60.78%) and Fraxinus ornus (19.61%). Crop species included Castanea sativa (1.96%) and Juglans regia (1.96%). The Mediterranean evergreen vegetation is poorly represented although genre Erica (5.88%) was identified. The large presence deciduous oak suggests the use of wood as a fuel source as well as for building materials.

From Antiquity, the Metal Hills were subject to constant human activitiy, especially in terms of intense mining exploitation that had a bearing on the use of forests for the timber necessary in the mining processes and in the management of areas for cultivation and animal husbandry.

Of the seeds, 235 remains were analyzed from 10 taxa, with a prevalence of cultivated species or arable crops (cereals and pulses) among weeds Poaceae and Fabaceae. The prevailing cultivated cereals (92.17%) included: Triticum aestivum/turgidum (bare grain, 90.43%), Hordeum vulgare (dressed, 1.30%) and Triticum dicoccum (0.43%). Among the pulses (5.22%), Pisum sativum (1.74%), Lens culinaris (1.30%), Vicia sativa (1.73%) and Vicia ervilia (0.43%) are present. From an economic point of view, the bare grains had a higher yield and were used exclusively for bread making; the presence of dressed barley (Hordeum vulgare), often referred to also as animal fodder, may be attributable in

A further similarity between the Rocchette finds and the broader Tuscan context is eveident from the age of death of domestic animals. With regard to the pig, the early medieval centuries suggest an animal breeding system that links this settlement with Campiglia M.ma and Donoratico, characterized by high incidences of young specimens who died before their first year. The osteometric values and the results of biometric calculations indicate that the sizes are typical for medieval animals (pigs, horses, sheep and goats). In

13

this context to a probable human consumption, as suggested by some finds with glumes removed. Barley, suitable as spelt for the preparation of soups or possibly as an ingredient for bread making. Among fabaceae, the species safe for human consumption are lentil and pea. These species are widespread in contemporary sites in northern Italy and Tuscany. Legumes, complementary to carbohydrate cereals, are a major source of vegetable protein: after harvest they could be eaten fresh or cooked or dried.

for the metallurgical activity were in general extremely precarious structures, made of stone and clay, constantly restored and rebuilt: the waste is often the only indicator of metallurgical processes having occurred. A reading of the productive organization of the economy, linked to the exploitation of metals, can be attempted by investigating the documentary sources. Through the so-called Mining Code of Massa Marittima (Codice Minerario Massetano), part of the Statute of the Municipality of Massa in 1325, it is possible to read the history of Rocchette in the 14th century. There are many similar documents, because this kind of production requires regulatory measures to govern the ownership and manage the resources, the organization of labour, the capital investment and the commercialization of products. The mining economy entails the use of the subsoil, but also the use of forests, water and transport routes. Mining laws therefore involve both public and private interests.

7. Functional analysis of living spaces: the Early Medieval hut (A. Pecci) From the chemical analysis of residues from a hut dug in Rocchette it has been possible to propose hypotheses about the types of activities undertaken. The ground of the hut, called structure 2, consisting of compacted soil and clay, was sampled to try to understand the intended use of the structure and the uses of the various areas inside. The samples were taken both inside and outside the hut. The results of the analyses were reported on a GIS platform and distribution data created for each of the studied compounds. In the conformity of the redness of the clay located in the north part of the hut there is a high pH level, which would correspond to ash scattering. In the same area there are concentrations of phosphates and protein residues, suggesting the presence of a hearth (fireside) used for the preparation of foods. This element, together with the features of the hut, indicates that it was a domestic structure. However, in the floor area of the southern part of the structure there are no residual concentrations. This finding suggests that this area had a different function, perhaps a warehouse or dormitory. Traces of chemical residues are present outside the hut, on the north-west side. This suggests that not only the interior of the structure was used, but also the outside: the area located at the back could have been used for the disposal of the remains of food or cooking.

Besides the legal aspects related to mining activities, this document also provides valuable insights into the reconstruction of the mining landscape, the topography and the types of settlement-related to the ‘industrial’ infrastructure, and although this is not a technical treatise it is also possible to obtain technological information about the operations that were carried out. The Code deals with all stages, from exploration and identification of the lode, to its cultivation and processing of the mineral into saleable metal or finished product, such as the minerals of copper and those of silver. It is therefore an essential source for expanding the understanding of the economic aspects of the site of Rocchette. 2. Mineral deposits at Rocchette (J. Bruttini) In the Middle Ages, the deposits exploited in the Metal Hills, where the site of Rocchette Pannocchieschi is located, were essentially those of mixed sulphides used for the extraction of the lode metals needed for coinage (alloys of copper and silver). Since the inception of research into the Metal Hills, the University of Siena undertook surveys on mining heritage over the entire district carried out through numerous regional reconnaissance missions, with the aim of mapping sites, various frequencies and countless traces related to the production activities of this area. From this can be detected certain ‘mining camps’, the extraction points gathered in the same geographical distribution areas, which can be defined by the presence of trenches, or on the many different slopes of the hills. The castle’s main mining camp is the one represented by the four sinkholes that surround the site, used as a quarry for material, and, in part, as an inert landfill. Furthermore it is assumed that the mining field of Poggio Mandriacce, 250-300m from the centre of Rocchette, was another mining area for the castle from the presence of two sinkholes and a pithead. In other mining camps mapped during the investigations only pitheads were recorded, about 26, not more than 2km from the castle. The study of the minerals present in these deposits, made by chemical and physical analyses,

III. Mineral resources and metallurgical activities in the Metal Hills in the Middle Ages 1. The reconstruction of metallurgical processes through the archaeometric analysis of material indicators and documentary analysis of the Mining Code of Massa Marittima (Codice Minerario Massetano) (S. Guideri) Important deposits of iron, copper, lead and silver, antimony, mercury, pyrites, lignite and sulphur, appear in most of the subsoil in Tuscany, creating the mining landscapes. A mining landscape can be defined as an area heavily characterized by the presence of deposits, whose exploitation has affected the dynamics of settlement. The examined area is that known as the ‘Metal Hills’, a context which, for its strong production characterization, is ideal to highlight the possible relationships between archaeological sites and mineral deposits. Identifying an archaeo-metallurgic site often means recognizing and understanding the slag areas. In fact, the furnaces used

14

showed that the deposits exploited by Rocchette seem to be among those having the greatest amount of silver present in the mineralization.

ecclesiastical and mining (Cugnano, Monterotondo, San Regolo) were created or strengthened on the surrounding hills. The presence of a site such as Rocchette the 8th century, already defined as a small village and located near mineral deposits of silver, implies a strong power base for the exploitation of this resource. To this end, what is important to note in these early centuries is that the only power capable of initiating this kind of process was one holding large territorial possessions and in a position to mint coins. The only mint active in Tuscany in the 7th century was at Lucca. The Bishop of Lucca and various members of the local nobility are documented within the records of the nearby monastery of St. Regulus at Gualdo, and these personalities had the resources and ambition to encourage the formation of a settlement in a highly strategic area to procure metals for coin production (copper, silver).

3. Analysis of the indicators found in the production area of Rocchette (J. Bruttini) The production facilities found at Rocchette were the subjects of specific analyses aimed at reconstructing the features of the production process over the centuries. In the first period site occupation (8th-9th centuries) there were no production facilities documented, but its same location, central to the mines and to fuel resources, forms a reliable indicator of mining activities. The stages of the process taking place at the site can be traced back exclusively to the extraction phase, which occurred in the mines surrounding the sinkholes and other pitheads surveyed. The production was geared to coinage, which took place in the rulers’ workshops of the towns, and in managing the process of metal refining, always in an urban area. It was a ‘state’ production model based on the system of mining sites located on fiscal land.

Between the 10th and 11th century many settlements in the Metal Hills, including the village of Trifonte, became castles. The process of fortification does not fundamentally change the territorial character of the settlement, but emphasizes the peculiarity of some ‘mining’ settlements (Trifonte, Cugnano). From the archaeo-metallurgical data collected of the 10th century, linked to the presence of a small workshop area on the summit area of the site, can be seen the emergence of a localized ‘commercial’ centre similar to that found at the site of Rocca San Silvestro, the first such example to be studied in Tuscany (Francovich 1991). The material data describing the complex appearance of the first castle also increases, including a stone wall enclosing the summit area, the presence of pottery consisting of regional imports, high-quality glass finds, and various metal tools for metallurgical processes. From this time onwards the phases of the coinage production cycle on the site include not only extraction, but also the reduction of the mineral. After this phase there was the natural collapse of the palisade that marks the final development of the castle, totally made of masonry, at the end of the 10th century. The structure of the castle completely changes, with a major investment in the mining activities controlled by the Pannocchieschi family, and extending into the surrounding areas, from at least the 11th century.

During the 10th century, within a production area on summit of the site and bounded by a palisade, a furnace was used for the reduction of the minerals associated with currency production and made up of mixed material. The structures helped provide an estimate for the amount of silver contained within a certain quantity of extracted ore. The production cycle indicates the presence of two different interests: the issuing authority (the ‘state’), which continued to be the only buyer of the metal produced, and some private individuals who ran the extraction of the mineral. The activities were consolidated over the course of the 12th century, when new areas were constructed responsible for processing the ore. In this period the site was in the property of the Bishop of Volterra and the holders of the majority shares were members of the Pannocchieschi family. In the 12th century, numerous concessions for coin production, mostly linked to the city and the bishops, brought about a further change in the production process. With the increased demands on the mint, the need for ores and refined metals increased and this is reflected in the excavation data. The final phase (14th century) reveals a context of liberalization of the coinage process: the extraction was run by private mining companies that probably had no constraints placed on them by their buyers of metals other than commercial ones. Archaeometric analyses show that some of the metal produced in Rocchette was sold to Massa Marittima, but it cannot be excluded that it was also intended for other town mints, such as Volterra and Siena.

Specifically at Rocchette, this investment involved the final transformation of the site into a castle, characterized by precise planning and the unique use of stone as building material. Excavations reveal that the expanded castle, including distinct functional areas (summit and village), was not yet accompanied by a fixed population. The material culture from some of the houses dug presents a general framework for the castle population of the 11th century: the inhabitants enjoyed a reasonably high standard of living and consumption, eating reared or hunted meat and cheese purchased locally (they produced no dairy items of their own). Glassware and bottles indicate that wine was consumed, and the kitchen and storage ceramic wares came from distant workshops. The inhabitants seem to have dedicated themselves exclusively to mining activities.

The Results (F. Grassi) The first documented settlement phase at Poggio Trifonte, where Rocchette is located, is acknowledged in the 8th century, when clusters of important settlements,

15

In the 12th century the whole area in which the castle of Rocchette is found becomes a focus for several families concentrating on mining activities in the Metal Hills. At this time the castle complex is very much a ‘factory village’, and excavations have revealed the gradual processes and phases of its development. The castle had a defensive structure delimiting an area of 2500m2, between three deep sinkholes. At the same time a large working area with at least 4 large ‘rooms’ was situated outside the main gateway. The summit area was planned according to a building model designed to show off the status of the Pannocchieschi family. The houses of the village developed on three terraces. The material finds and food remains indicate a bustling economy over the whole territory. This entire economy in and around Rocchette was based on the mining industry that was to become most significant in the 12th century, leading to the building of the foundries at Montieri, identified as the mint of the Bishop of Volterra. By the 14th century Rocchette presents itself as an economic centre, based on its mining, similar to others known in the regions Massa Marittima and Montieri. The archaeological evidence highlights the initial decline of the Pannocchieschi family, the gradual division of the castle’s assets among smaller interests. This was followed by a period of consolidation and construction of new residential and working areas outside the castle – consisting of 14 new homes and 5 craft areas, indicating, perhaps, a whole new organization that might be compared to other medieval mining centres. In the new craft areas, amounting to about 1300m2 of production space, extensive metallurgical evidence has been uncovered, including processing. It is possible that these processing remains are the remains of yield trail workings only, before undertaking the transportation of the ore to more efficient production and metallurgical centres. What is clear, however, is that life inside the castle in the 14th century was very rich, resembling the mining centres of the period along coastal areas and at some inland cities, such as Siena. At the end of the 14th century there was another change. The main mining centres, including Rocchette, suffered depopulation and the castles were abandoned. There were several reasons for this decline but the main ones were the gradual depletion of the valuable ores and the lack of hydraulic power necessary for efficient production. (Translated by Arianna Briano and Gerry Brisch)

16

siècles, sur les ressources offertes par les métaux monétaires, d’autres au contraire semblent être des centres d'activités agricoles. A partir de la fin du IXe siècle ap. J.-C., dans certaines de ces implantations, s’observe un changement de gestion, précocement visible pour certains d’entre eux, comme à Monterotondo ou à Cugnano. La population de ces premiers villages, semble composée de plusieurs groupes sociaux. Et l'étude globale des indicateurs archéologiques, atteste la présence de paysans, la présence de personnes d’un rang plus élevé, des petits propriétaires terriens qui possédaient des champs et des maisons, et, enfin la présence d’une classe d’artisans du métal, qui laisse peu de traces dans les carrières et dans les premières structures découvertes aussi bien à Cugnano qu’à Rocchette. Dans l'ensemble, nous avons donc une communauté villageoise, comme celle de Monterotondo, capable de s’organiser pour la gestion de ressources déterminées, comme par exemple les ressources céréalières. A partir du Xe siècle, beaucoup de ces sites des Collines Métallifères sont munis d’une enceinte en maçonnerie. Cet élément fortifié renferme une implantation plus ample de la précédente, même si celle-ci n’est pas complétement édifiée. Les sites qui se développent, identifié comme étant des châteaux, sont en complète continuité (au niveau économique, topographique et aussi au niveau de l'organisation) avec les phases précédentes. L'unique différence est la présence d’une enceinte qui a nécessité l'emploi de pierres et l’utilisation du mortier. Toutefois, les nouveaux ensembles fortifiés renferment encore des habitations de type cabane, dans lesquelles il reste difficile d’observer des signes de distinctions sociales, aussi bien à travers le mobilier qu’à travers l'étude de l’architecture. Pendant ces siècles, nous observons des traces de travail du métal bien visible: à Cugnano, à Rochette, dans la région de Montieri. Durant le passage du Xe au XIe siècle ap. J.-C., les indices matériels montrent un plus fort enracinement des puissantes maisons nobiliaires, capables d’organiser et de gérer les ressources du territoire en particulier les ressources minières. Le renforcement de certains sites et la disparition de nombreux sites localisés dans les plaines et n'étant pas liés aux ressources minières, semblent indiquer une nouvelle géographie du peuplement du territoire, en faveur des centres qui développent une économie basée sur le métal. A partir du XIIe siècle ap. J.-C., les seigneuries rurales continuent à s’affirmer et cela se manifeste principalement par la construction de châteaux totalement en maçonnerie qui substituent aux habitats en matériaux périssables et par la construction, dans ces sites fortifiés, d’édifices ecclésiastiques et d’édifices marquant la présence seigneuriale. Les châteaux se constituent d’aires distinctes d’un point vue fonctionnel et social. Dans chaque site analysé l’organisation est différente, toujours caractérisée par la division des fonctions (le bourg extra-muros, la zone de production et la zone seigneuriale-militaire). Les données archéologiques montrent une mutation complète des modalités d’approvisionnement en biens, comme dans le cas de la céramique, qui n’est plus acquise in loco, chez

L'établissement médiéval dans les Collines Métallifères (Toscane, Italie): le site minier de Rocchette Pannocchieschi du VIIIe au XIVe siècle ap. J. C. Résumé en français (traduit par Camille Brunin) I. La particularité d’un territoire minier en Toscane durant le Moyen-âge F. Grassi Ce volume rassemble le résultat de onze années de recherches archéologiques menées par l’Université de Siena, au château de Rocchette Pannocchieschi (Gr), situé en Toscane Méridionale. La recherche et le traitement des données, partant de la distribution de l'établissement de population durant le Moyen-âge dans les Collines Métallifères, objective le rôle d'un site minier, Rocchette Pannocchieschi. En effet, dans cette région de la Toscane, au VIIIe siècle ap. J., aux alentours des zones d’exploitation minière des gisements de sulfure mixte (cuivre, argent, plomb), nous observons de nouveaux aménagements de population qui peuvent être qualifiés de villages. Rocchette Pannocchieschi fut l'un de ceux-ci, établi près d’importants gisements de plomb argentifère. Les gisements de minerais, exploités depuis l’antiquité, caractérise le paysage avoisinant le site, avec la présence de quatre dolines, exploitées durant la période médiévale pour l’extraction. D'autres mines, simples ouvertures dans le sol, encerclent l'aire du château. Elles constituent un riche gisement exploité au Moyen-âge par un autre château minier limitrophe, celui de Cugnano (Monterotondo M. mo-Gr). A partir des données archéologiques récoltées sur le site minier de Rocchette Pannocchieschi, nous avons supposé les modalités de gestions des ressources minières ainsi que leurs influences sur l’évolution du site à partir du VIIIe siècle ap. J. C. et l’impact de celles-ci sur les transformations qui ont lieu au Xe siècle ap. J. C., sous la domination des comtes Pannocchieschi, et enfin, durant le passage de sa gestion aux communes de Massa Marittima et de Siena. Cette partie de la recherche s’inspire des questions posées par Riccardo Francovich et Chris Wickham en 1994, suite aux campagnes de fouilles du château minier de Rocca San Silvestro. Le but est de trouver de nouvelles réponses et de développer la description des modèles productifs lié aux ressources du sous-sol, au Moyen-âge (FRANCOVICH, WICKHAM 1994). L'étude du cas de l’aménagement minier de Rochette Pannocchieschi prend particulièrement de l'importance dans le contexte des Collines Métallifères, où de nombreux autres sites font l’objet d’études (BIANCHI 2010). Les premières phases d’installations des villages sur les hauteurs datent de la fin du VIIe et début du VIIIe siècle ap. J.-C. (Cugnano, Monteorotondo, Montemassi, Montieri, Rocchette); les villages découverts sont étendus seulement sur une petite portion de superficie qu’ils occuperont au Xe siècle ap. J.-C., après leur mutation en châteaux. Les campagnes de fouille ont montré que certains concentrent leur économie, déjà depuis des

17

document, rappelant la localité de Trifonte dont serait originaire “Sasso”, semble attester la présence d’une communauté sociale sur Poggio même, avant l’année 826. Un seul site archéologique correspond, celui de Rocchette. A partir de la fin du IXe siècle ap. J.-C., il a été possible de reconnaitre un changement de l'aménagement de la zone sommitale habitée, identifié par l’abandon de deux cabanes et la transformation de la zone. Au cours du Xe siècle ap. J.-C., cette zone fut dotée d’une enceinte en maçonnerie, dont il reste seulement un bref trait qui délimite une surface d’environ 780 m2. Durant le Xe siècle ap. J.-C., donc, l’aménagement semble encore concentré dans la zone élevée du site, tandis que les terrassements sous-jacents n’ont pas montré de formes d’occupation. L’étude du relief nous informe sur la transformation fonctionnelle de la zone qui acquiert une connotation artisanale, relative au travail du métal. Nous pouvons identifier une partie de l'espace dédiée à l’habitat et une partie consacrée à l’artisanat, celle-ci se distingue physiquement de la première par une sorte d’«enclos en bois». Dans la zone dite artisanale, nous observons l’installation d’un four à fusion pour le métal, contre l’enceinte de maçonnerie en pierre, relié à un abri doté uniquement d'un toit. Cet abri composé de divers matériaux (bois, terre compressée, pierre), était utilisé dans le cadre artisanal, peut-être pour le stockage. A la fin du Xe siècle ap. J. C., cet aménagement sera abandonné, à cause d’un éboulement de l’enceinte. Au court du XIe siècle ap. J.-C, Rocchette finit par atteindre les dimensions et la forme du château seigneurial, dont les principales caractéristiques furent : l’agrandissement de la surface bâtie qui passe de 500 m2 à 2500 m2, la délimitation de l’aménagement par une enceinte en maçonnerie dotée d’une porte d’accès, la création de deux nouvelles zones d’aménagement distinctes, l’utilisation exclusivement de la pierre pour l’ensemble des constructions réalisées, et enfin la disparition , dans la zone sommitale, de l'aire artisanale prédisposée au travail du métal. À partir du XIe siècle, le château s’articule donc sous une forme et une extension très ressemblantes à celles rencontrées durant XIIIe siècle: c’est-à-dire une zone sommitale flanquée d’un aménagement en terrasses sous-jacent, sur lesquelles se développera le bourg extra-muros. Nous ne pouvons pas déterminer à partir des documents écrits qui est à l’origine du processus de mutation de Rocchette en château, en partie déjà en cours au Xe siècle ap. J.-C. Ce serait peut-être l'?uvre du diocèse de Volterra, ou bien un acte de la famille des Pannocchieschi, très active durant le XIe siècle ap. J.-C. dans le développement des autres grands sites miniers, comme les châteaux de Montierie et de Gerfalco. Durant le XIIe et le XIIIe siècle ap. J.-C, le château de Rocchette fut lié à des membres de la famille des comtes Pannocchieschi et à l’évêque de Volterra: les données archéologiques ont montré que le parcours de l’enceinte n’a pas subi de modifications fondamentales, par rapport au XIe siècle ap. J.-C., elle fut dotée d’une porte d’entrée monumentale. A partir de là, les habitations du bourg s’articulaient le long des trois principales lignes marquées

les artisans des environs de Rocchette, mais qui est acheminée directement des centres urbains qui la produisent, comme Pise ou Volterra. L’affirmation des seigneuries apportent aussi un développement plus intensif de l'exploitation des ressources territoriales, notamment avec la construction de nouvelles aires artisanales prévues dans ce but. A partir de la seconde moitié du XIIIe siècle ap. J.-C., de nombreuses transformations ont eu lieu dans les Collines Métallifères, principalement à Massa Marittima, Siena e Firenze. Leur gestion est documentée par les autorités citadines et communales. Dans les milieux où les ressources importantes étaient présentes, comme par exemple les ressources minières de Rochette e Cugnano, les autorités communales étaient à l’origine d’un repeuplement et de la mise en place de nouvelles aires artisanales. Mais aussi, dans d’autres cas, la gestion était déléguée à des garnisons militaires comme cela fut le cas à Monterotondo et à Montemassi. Ce processus s'essouffle à la fin du XIVe siècle, se concluant par l’abandon de certains sites analysés, en particulier les sites miniers. II. Les recherches conduites sur le site de Rocchette Pannocchieschi (Massa M.ma, Gr) 1. Les fouilles et l’analyse des structures en élévation G. Fichera, F. Grassi Le site de Rocchette Pannocchieschi fut l’objet de fouilles archéologiques à partir de 1992 jusque en 2003. Les vestiges de l’implantation médiévale aujourd’hui abandonné, sont situés sur un versant de Poggio Trifonte, dans la commune de Massa M.ma. Ils se composaient d'un château et de son enceinte et de deux zones artisanales extra-muros. La superficie totale du site était d’environ 3200 m2. Les recherches ont permis de reconstituer l'évolution du site du VIIIe au XIVe siècle ap. J.-C. Durant ce dernier siècle, le site fut complètement abandonné. Sur le sommet du site, dont la superficie est d'environ 500 m2, ont été identifiées les traces relatives aux premières phases d'implantation sur le site de Rocchette, durant le VIIIe siècle ap. J.-C. Malgré le fait que nous traitons de traces très vagues, généralement présentes en négatif dans le sol naturel, nous pouvons parler de village, constitué de cabanes destinées à l’habitation et de quelques structures de service. Descendant le long des flancs de la montagne occupés par les cabanes du village, nous pouvons supposer une aire ultérieurement occupée par des édifices construits en bois, exploitant les parois de la montagne. Ce village n’avait aucune clôture en bois, ou en maçonnerie: nous pouvons émettre l'hypothèse que le village fut naturellement défendu, d’abord par sa localisation et ensuite par un fossé artificiel, encore visible aujourd’hui. Nous possédons sur cette zone, pour la période du Haut Moyen-âge, un document écrit afférent au monastère voisin de San Regolo, à Gualdo, daté de 826 ap. J-C. “casa et res posita in loco Paganico ad un tal Simprando del fu Sasso de Trifonte”. Ce

18

sommitale du site, pourraient être attribués à des maçons efficaces, des experts dans la fabrication d’un bon mortier à base de chaux et capable de réaliser une solide maçonnerie, nonobstant le fait que les éléments sont peu travaillés. Au cours du XIe siècle, un changement plutôt net est enregistré durant la phase de mise en ?uvre, probablement lié à un investissement majeur. Nous observons, en effet, une expansion du périmètre de défense et la présence d’habitations entièrement, ou partiellement construites en pierre aussi bien dans la zone sommitale que dans les bourgs inférieurs. Et la même organisation de travail se montre plus articulée, comme semble le confirmer l’existence de deux techniques de constructions, se distinguant l’une de l’autre par le niveau du travail des éléments lithiques et par l’emploi de deux liants différents. Durant le XIIe siècle ap.J.-C., comme dans la majeure partie des sites fortifiés, il advient une reconstruction intégrale de l’implantation et une forte volonté de contrôle et d’autoreprésentation des commanditaires, comme c'est le cas pour la famille Pannocchieschi. Celleci eut recours à des structures et des modèles de construction socialement représentatifs (la tour, la résidence seigneuriale et la citerne de la zone sommitale) et à des techniques de construction de qualité, comme par exemple, l’action d’équarrir dans le cycle du travail de la pierre. Il est en outre possible, qu'à cette période, remonte une première occupation ayant une destination artisanale, des zones extérieures au château. L’analyse des données matérielles a permis en outre de reconstituer le processus d'édification. Les travaux ont débuté par l’enceinte, suivie par la construction de la résidence seigneuriale de la zone sommitale et par la tour, ayant un but purement défensif. Les bâtiments du bourg respectent aussi une hiérarchisation des espaces bien précise, s’organisant sur deux lignes parallèles. Deux types principaux de volumes sont identifiés, la première typologie est dotée d’une superficie interne d’environ 100 m2 et la seconde est dotée d’une superficie d’environ 33 m2. Les techniques de construction du XIIe siècle ap. J.-C. se caractérisent par une faible innovation, reflétant la présence sur le chantier de groupes d’ouvriers spécialisés, dotés d’une parfaite capacité d’organisation et qui exercèrent une forte emprise sur la main d’?uvre locale. C'est pourquoi les connaissances techniques locales se manifestent avec quelques difficultés. De plus, la main d'?uvre locale adhère aux savoirs importés, ce qui reflète la puissance de la volonté et du pouvoir seigneuriale. Les activités de construction du XIIIe siècle ap. J.-C. sont rares, hormis peut-être quelques interventions de restaurations architecturales sur la zone sommitale. Et elles contribuent peu à la définition du pouvoir seigneurial, déjà diminué par l’expansion des villes voisines, comme Massa Marittima et Siena. En effet, suite à des investissements économiques conséquents, la commune de Massa Marittima réussit à acquérir le contrôle du château de Rocchette Pannocchieschi, vers la fin du XIIIe siècle ap. J.-C. et le premier quart du siècle suivant. Il est enfin possible d’attribuer à cette commune une intervention de

par les terrasses naturelles, selon un critère de disposition assez précis, capable de créer un réseau de rues articulé. Le plateau sommital, à partir de ce moment, siège d’une résidence seigneuriale, dotée d’une tour et d’une citerne, était enfin caractérisé par la présence de grandes structures architecturales de qualité. En ce qui concerne les activités artisanales, elles se développent dans les trois ensembles édifiés à l’extérieur de la porte d’entrée, à proximité de la doline A, située dans la partie sud-ouest du site. L’analyse des données recueillies a permis de percevoir les premiers symptômes des crises du pouvoir des Pannocchieschi, durant la troisième décennie du XIIIe siècle ap. J.-C. À ces événements, nous devons lier les données archéologiques de la seconde moitié du XIIIe siècle ap. J.-C., période durant laquelle furent démolies quelques maisons adossées à l’enceinte, montrant l'abandon du village de la part de certains habitants. De plus, durant la seconde moitié du XIIIe siècle ap. J.-C., les Pannocchieschi perdirent peu à peu le contrôle du château, défavorisé aussi par la conjoncture politique. La riche documentation écrite qui caractérise ces années, nous informe que, déjà en 1298, une partie du territoire du château avaient été vendu à la commune de Massa marittima. Suite à cela, le site semble avoir une reprise de la construction et probablement aussi de la démographie. Un petit bourg est construit contre l’enceinte durant cette phase, et de nouveaux ensembles seront aussi construits à l’intérieur et le parcours de l’enceinte sera réadapté. Notons surtout qu’un nouveau pôle artisanal et de production sera créé entre les dolines B et C: Rocchette fut aussi à ce moment-là principalement un centre métallurgique et l’économie des habitants du château semble donc, aussi durant cette phase, s’être concentré sur l’extraction et le travail du métal monétaire jusqu’à l’abandon définitif, advenu au début du XVe siècle ap. J.C. 2. Les structures architecturales en pierre du château de Rocchette Pannocchieschi. Techniques de construction et typologie du bâti entre le Xe et le XIVe siècle ap. J.-C. G. Fichera L’analyse des structures architecturales en pierre du château de Rocchette Pannocchieschi a contribué à définir de manière plus précise la description des périodes de construction: la comparaison avec les émergences architectoniques du château de Cugnano, voisin de Rocchette, a entre autre mis en évidence des analogies et des différences relatives aux modes d’agir et d’investir par les deux seigneuries, les Pannocchieschi et les Aldobrandeschi. La recherche effectuée a montré que les premiers murs en maçonnerie du château, apparaissent vers la fin du Xe siècle ap. J.-C., le matériau utilisé est un grès compact, approvisionnés localement par la récolte ou l'exploitation limitée des mines et la technique est exclusivement celle du clivage. Ces travaux de construction, coïncidant avec la mise en place de l'enceinte défensive de la partie

19

intermédiaires entre la ville de provenance (Siena) et la zone cotière. Le mobilier domestique dans le complexe est formé d’olle, de plats et de poêles (cette dernière typologie est nouvelle et apparait durant le XIIe siècle ap. J.-C., associée à la technique de la glaçure). Tous les fragments de céramique sont de production artisanale, ainsi que les fragments de cruches, de bassines et de bocaux pour la céramique da dispensa et la céramique de table (da mensa), et aussi de verres tronconiques en verre. En ce qui concerne le XIVe siècle ap. J.-C., les données majoritairement significatives sont relatives aux productions de faïence et en particulier à la présence dans le château de productions provenant de Volterra et de Massa Marittima. Les maïoliques de Volterra durant le XIVe siècle ap. J.-C, représentent la moitié des fragments de céramique de table (da mensa) et sont les témoins du flux productif et commercial de la ville et aussi du lien direct existant entre l’aristocratie de Volterra et le château. Les contacts avec les zones de production pisanes sont au contraire complètement absents, ainsi que les contacts avec les produits mis en circulation par les châteaux reliés à la ville maritime: la localisation de Rocchette dans l’arrière-pays a été sûrement un facteur décisif, mais aussi dans l’absence de maïoliques espagnoles, celles-ci étant seulement associées durant ce siècle aux arrivées de la Ligure.

construction d’un véritable nouveau bourg extra-muros, axé sur trois principaux pôles, reliés entre eux par une planification soigneuse de la construction. À partir de la seconde moitié du même siècle, l’état d’abandon dans lequel se trouvent la zone sommitale et les sporadiques activités de construction, basées sur la réutilisation des matériaux récupérés des effondrements, attestent la fin de cet ambitieux projet communal. 3. Le matériel provenant des fouilles 1. La céramique F. Grassi Les 10 campagnes de fouille effectuée à Rocchette ont permis de recueillir 23 405 fragments de céramiques qui couvrent un arc chronologique compris entre le VIIIe et le XIVe siècle. L’analyse de la céramique de Rocchette Pannocchieschi revêt donc une importance fondamentale pour l’étude de la culture matérielle d’un village voué aux activités minières. Durant le Haut Moyen-âge, nous notons la présence de céramique de cuisine, faite main, jusqu’au Xe siècle ap. J.-C., cependant le pourcentage sa présence correspond à 30% seulement de la restitution totale de la céramique da fuoco. Ensuite, les 70% restant montrent de nombreux indicateurs d’une particulière complexité artisanale, comme l’utilisation du tour rapide, divers éléments décoratifs et technologiques, même si elle est associée à des pâtes souvent grossières, ou aussi à l’emploi des formes de céramique da dispensa. La céramique relative aux premières phases du village de Rocchette, au moins jusqu’au XIe siècle, continue à montrer une ambivalence entre certaines caractéristiques typiques d’une société rurale et d’autres liées à des consommations plus complexes. En effet, même si à part sa présence constante, la céramique faite main est minoritaire dans les mobiliers, elle laisse la place aux productions d’ateliers organisés et aux premières céramiques qui ne sont pas locales, mais régionales. Associées aux productions artisanales pour la céramique de cuisine produit dans les environs du site, nous observons des céramiques da dispensa, mais aussi des céramiques avec un revêtement vitreux (glaçure) provenant de la zone de Campigliese; des contenant de type ‘‘ amphore’’ qui sembleraient provenir des environs de Gavorrano; et des céramiques à engobe rouge provenant de la région du val d’Arno. Les formes sont encore limitées aux olle (urne/ marmite/ casserole), aux plats en terre cuite et aux rares couvercles pour la céramique de cuisine et à des cruches pour les céramique da dispensa, les formes ouvertes ne sont pas attestées, comme par exemple les casseroles ou les poêles, ni les formes adaptées pour la boulangerie, comme les bassins dotés de couvercle ou les petits fours portables. A partir du XII siècle, la céramique provenant du territoire de Rocchette montre une production féconde: en effet, nous observons un agrandissement des ateliers, avec l’apparition de céramique de cuisine, de céramique da dispensa et de céramique de table d’origine semiurbaine, pour lesquelles nous pouvons émettre l’hypothèse d’une fabrication dans des centres

2. Le mobilier en verre M. Mendera À Rochette, 159 fragments de verre ont été découverts, pouvant être attribués à 61 objets qui couvrent un arc chronologique compris entre le VIIIe siècle et le XXe siècle ap. J.-C. Durant le Haut Moyen-âge le matériel en verre, indique, contrairement à l’alimentation, une composition plus complexe de la société. Elle ne correspond pas uniquement à une communauté rurale, comme nous le montre les différentes morphologies de verre présentes et l’étude de leur provenance. En effet, ces objets, même en petite quantité, nous offrent d’autres informations pour décrire les habitants de Trifonte. Avant tout, il y a deux fragments de parois décoré avec des filaments en feston, ces fragments sont attribués à des coupes ou des cornes à boire, sûrement d’importation en Toscane. Cela signale une fréquentation aristocratique ou élitaire à partir du VIIIe siècle ap. J.-C., nous pouvons emmètre la même hypothèse pour un pied de calice provenant d’un arasement réalisé à la fin du IXe siècle ap. J.-C. Et aussi dans le cas d'un verre à paroi double. Le pied du calice indiquerait la présence, dans les environs, d’une structure religieuse compatible avec l’utilisation de cet objet. Toutefois, pour le moment, ce fragment de calice est l’unique donnée qui l’atteste. Ensuite, notons la découverte de fragments en verre datables du X siècle ap. J.-C., selon leur position stratigraphique et leur comparaison à des exemples de l'époque. Il témoigne donc de l’utilisation de verre assez commun. Cependant, n'ayant pas identifié de verriers actifs dans les Collines Métallifères, la réalisation locale

20

des fers de mulet et des fers à cheval, des crochets, des anneaux de chaine, une serrure, trois couteaux, un fragment d’un petit chaudron en alliage de cuivre. Seulement peu d’exemplaires se réfèrent au domaine de l’habillement, en effet, ont été découvertes uniquement une boucle de ceinture en fer et une broche en bronze doré. Enfin, les 700 pièces découvertes dans le château de Rocchette datés du XIVe siècle ap. J.-C. composent un mobilier capable de fournir un cadre complet de la culture matérielle du site: quelques outils agricoles, une pioche de mineur, un faucillon. Ces objets entrent dans les instruments d’usage artisanal, domestique ou agricole. En outre, le mobilier des armes est composé d’armes de jet et d’armes blanches, parmi lesquels sont présentes de nombreuses pointes de flèche d’arbalète, appelées viretons.

n’a pu être déterminée, ces objets ont tout aussi bien pu être importés. Pour la période seigneuriale, les artefacts en verre se limitent à 7 verres, provenant tous du bourg. En ce qui concerne la dernière période de fréquentation du site (XIVe siècle ap. J.-C.), il apparait au contraire une prévalence d’objets d’usage commun, retrouvés dans le bourg et la nouvelle zone artisanale. Ces derniers sont surtout des verres tronconiques, avec quelques exemples résiduels de verres de type 1 et 2. Durant cette période, nous observons un total manque d’objets de manufacture précieuse, l’absence de cette catégorie d’objet semble indiquer la disparition évidente, depuis sûrement longtemps, des représentants du rang nobiliaire. 3. Le mobilier en métal M. Belli Les fouilles archéologiques de Rocchette Pannocchieschi ont restitué un répertoire d’objets en fer qui montre l’évolution chronologique de certaines typologies, comme les armes. Cela permet l’analyse fonctionnelle des objets de manufacture artisanale, couvrant un arc chronologique du IXe au XIVe siècle ap. J.-C. Durant ces campagnes de fouilles, 923 objets en métal ont été répertoriés. Les objets en métal, datable entre le IXe et le Xe siècle ap. J.-C., sont peu présents. Cependant, ceux-ci donnent d’intéressantes indications en ce qui concerne le fonctionnement du village. En outre des objets relatifs aux activités artisanales comme les butoirs, les ébauchoirs et les poinçons, utilisés pour les finitions durant le travail du bois et du métal, nous avons découvert un petit clou de fer à cheval, dans les niveaux d'occupation à l’extérieur d’une cabane et proche de restes osseux d’un cheval. Enfin, deux fragments de couteaux reliés à l’activité quotidienne et une pointe de flèche, témoignent de la pratique de la chasse, confirmée aussi par la présence d’os d’animaux sauvages (cerf et chevreau). Notons que certaines formes de ces objets en métal rappellent des exemples découverts dans des localités longobardes du territoire toscan, parmi lesquelles Lucca. Avec la construction du château en pierre, durant le XIe siècle ap. J.-C., la majorité des objets en métal proviennent du chantier de maçonnerie et sont souvent des clous ou des poinçons, objets liés à la charpenterie. Quelques pointes de flèches ont été découvertes dans l’un des édifices du bourg, ainsi qu'un fer à cheval et un clou de ferrage. La phase de redéfinition seigneuriale du château, entre le XIIe siècle ap. J.-C. et la première moitié du XIIIe siècle ap. J.-C., restitue un répertoire consistant d'objets, provenant du sommet et du bourg. Sur la zone sommitale, des clous, onze pointes de flèche et un exemple de plus grandes dimensions ont été recueillis. Ce dernier objet atteste de l’usage de grandes arbalètes statiques. De telles armes pourraient se référer aux conflits militaires, attestés par la documentation écrite du XIIIe siècle ap. J.-C. Le matériel découvert dans le bourg est différent, plutôt d’usage domestique. Parmi le matériel ont été recueilli

4. Le matériel monétaire: typologie et analyse de la circulation monétaire C. Cicali Les campagnes de fouille conduites au château de Rocchette ont restitués 42 éléments monétaires en mauvais état de conservation, mis à part quelques exceptions. Les monnaies ont été retrouvées dans la zone sommitale du site, mais aussi dans la zone artisanale et le bourg. La monnaie découverte sur le site fut émise entre le début du XIVe siècle ap. J.-C. et 1371. Quasiment toutes les monnaies découvertes à Rocchette proviennent d’ateliers de monnayages toscans, à l’exception d’un quartaro de Genova, d’un denier frappé a Manfredonia entre 1255 et 1266, et deux deniers de Pérouse, datant du milieu du XIVe siècle ap. J.-C. Durant le Haut Moyen-âge, nous observons une absence absolue de monnaies (VIIIe-Xe siècle ap. J.-C.), mais leur absence durant le XIe et le XIIe siècle ap. J.-C. surprend plus encore. A cette époque, le denier de Lucca domine les marchés et les centres ruraux. L’unique exemplaire découvert dans le château, résiduel, est daté de la seconde moitié du XIIe siècle ap. J.-C., ce denier de Lucca est au nom d’Enrico III-IX-V de Franconia, caractérisé d’un frappage particulier, n'étant certainement pas une erreur de frappe, mais le fruit d’une production de l’officine de Volterra. Grâce aux archives, nous savons que l’évêque de Volterra, Ildebrandino Pannocchieschi, reçoit le privilège de frapper la monnaie par l’empereur Enrico VI en 1189, mais ce bénéfice est sûrement seulement un acte formel pour une activité de monnayage précédente, se déroulant probablement à Montieri. Cette monnaie, comme d’autres provenant de différents sites des Collines Métallifères, pourrait être la trace matérielle de l’activité de l’atelier de monnayage de Montieri. Enfin, le groupe plus consistant de monnaies est daté du début du XIVe siècle ap. J.-C. et est d’origines florentines ou pisanes. Ces monnaies étaient les plus dominantes dans la région de Volterra. Un grand nombre du matériel de la seconde moitié du XIVe siècle ap. J.-C., provient de la phase d’abandon d’un petit édifice du bourg, probablement un lieu de stockage, qui a restitué 18 monnaies en mauvais état de

21

ces derniers, un exemplaire a été mis en évidence pour sa taille moyennement-grande, le rapportant à une race robuste, sûrement employée par l’aristocratie militaire. La présence des espèces sauvages, indique irrévocablement que l’élevage n’était pas l’unique source d’approvisionnement en viande. Auprès des restes d’animaux domestique, apparaissent constamment des espèces sauvages comme le chevreau, le cerf, le sanglier et le lièvre. Leur pourcentage, avec les autres taxa, augmente progressivement durant l'occupation du village (de 4% à 11%). Particulièrement, à partir du Xe siècle ap. J.-C., au même moment de l'édification de la première fortification en pierre, des restes d’ongulés sauvages ont été découvert. Dans ce cas aussi, Rocchette rejoint un type de phénomène toscan, où nous constatons l’apparition d’espèces sauvages en concomitance avec les premières enceintes fortifiées. En ce qui concerne les dépôts de boucherie et les déchets de repas, les divers échantillons ont été discutés uniquement d’un point de vue alimentaire. La distribution anatomique des groupements plus répandus en particulier le porc) indique, ou mieux suggère, qu’il s’agit d’une accumulation générée par un groupe social aisé, lequel se transforme au court du temps (à partir Haut Moyen-âge aux périodes plus tardives). Le rapport de ce groupe social avec les secteurs productifs de l’économie rurale passe du rôle d’administrateur direct des processus de productions (Haut Moyen-âge) à celui de simples consommateurs (période plus tardive).

conservation, dû à leur longue durée de circulation. Ces monnaies confirment l’abandon du château au XIVe siècle ap. J.-C. 5. Ostéologie animale F. Salvadori L’analyse archéo-zoologique s'est concentrée seulement aux restes osseux de la zone sommitale du site. Celle-ci a mis en lumière une occupation couvrant un horizon chronologique compris entre le VIIIe et le XIVe siècle ap. J.-C. Dans l’ensemble, 2741 restes osseux ont été analysés: le panorama de la faune se compose de 7 ordres, 11 familles, 15 genres et 16 espèces, résumés par les 26 catégories taxonomiques découvertes sur le site. Les 97% de ceux-ci appartiennent aux mammifères tandis que les 3% restant appartiennent aux oiseaux et aux reptiles. Les animaux identifiés appartiennent aussi bien à des espèces domestiques que sauvages. Des os de bovins, de moutons, de chèvres, de porcs, de chevaux, d' ânes, d'un chat, d'un chien, d'un cerf, d'un chevreau, d'un sanglier, d'un lièvre, d'un blaireau, d'un hérisson, d'un coq domestique et enfin d'une tortue, ont été recueillis. Les mammifères domestiques avec un pourcentage de 89% sont le regroupement plus important. Parmi ceux-ci, le porc semble être l’espèce la plus répandue, constituant 51% de l’ensemble, suivi par les moutons et les chèvres (30%), et par les bovins (9%). Suivent ensuite les cervidés (5%), la volaille (1%), le sanglier (1%), la tortue terrestre (1%), tandis que l’attestation des autres taxa sont rares. Mis à part les aspects typiquement taxonomiques et quantitatifs, qui impliquent le rapport en pourcentage entre les données déterminées, les analyses archéozoologiques ont donné accès à d’autres informations, entre autre, la conservation anatomique des regroupements zoologiques plus répandus, l’état au décès et, enfin, sur l'ostéometrie et aussi sur la biométrie. De cette façon, il a été possible d’observer quelques fluctuations importantes durant ces siècles, en particulier le rapport entre le nombre d’os porcins et de moutons ou de chèvres. La prédominance d’os de porcs dans les périodes plus antiques (VIIIe-Xe siècle ap. J.-C.), allant au-delà de 60% des os enregistrés, est suivit à partir du XIIe siècle ap. J.-C. par une brusque diminution en faveur des chèvres et moutons. Ce phénomène s'observe dans de nombreux autres sites toscans et nous permet d’observer la modification des stratégies d’élevage. Un autre élément d’affinité émerge entre le cas de Rocchette et le contexte toscan : le décès des animaux domestiques. En ce qui concerne le porc, durant le Haut Moyen-âge, les données suggèrent un cheptel proche de celui découvert à Campiglia M.ma et à Donoratico, se distinguant par un grand nombre de jeunes décédés avant la fin leur première année de vie. Les valeurs ostéométriques et ensuite les calculs biométriques consécutifs, nous indiquent des animaux qui rentrent de plein pied dans les tailles typiques des porcs médiévaux italiens. D'ailleurs, la même observation est faite pour les moutons, les chèvres et les chevaux. Pour

6. Les bois et les terrains cultivés: la gestion des ressources agro-forestières M. Buonincontri, G. Di Falco, G. Di Pasquale A partir de l’antiquité, la région des Collines Métallifères a subi un constant impact anthropique, surtout pour l’intense activité minière, visible d'une part en observant l'exploitation des forêts pour la récolte de bois nécessaire aux processus d’extraction minière et d'autre part en observant la gestion des espaces réservés à l'agriculture et à l’élevage. Les fouilles archéologiques ont permis de récupérer en tout 6 échantillons de terre relatifs au Xe siècle ap. J.C.; en outre, une cabane de la zone sommitale présentait des carporestes, carbonisés et en bon état de conservation. En ce qui concerne l'analyse des carbones, les résultats ont permis l’identification de 5 taxa parmi lesquelles le Quercus de type caducifolié (60,78%), le Fraxinus ornus (19,61%), et enfin les espèces cultivées la Catanea sativa (1,96%) et la Juglans regia (1,96%). La végétation sempervirente méditerranéenne est pauvrement représentée avec le genre Erica (5,88%). La forte présence de groupe de chêne à feuilles caduques, fait penser à une utilisation du bois comme source d’énergie pour les activités liées au feu, ou à la construction. Pour les semences, il a été analysé 235 carporestes, pour un total de 10 taxa, avec une nette prévalence des espèces cultivées ou cultivables (céréales et légumes) sur les adventices Poaceae et Fabaceae. Parmi les espèces cultivées/ cultivables les céréales dominent avec un pourcentage de 92,17%: Triticum aestivum/ turgidum

22

l’extérieur: la zone située sur le revers pouvait être utilisée pour jeter les résidus de repas ou de cuisine.

(grains nus, 90,43%), Hardeum vulgare (vêtus), 1,30%) et Triticum dicoccum (0,43%). Parmi les légumes (5,22%), sont au contraire présent le Pisum sativum (1,74%), le Lens culinaris (1,30%), la Vicia sativa (1,73%) et la Vicia ervilia (0,43%). Les grains nus, d’un point de vue économique avaient un plus grand rendement et étaient destinés exclusivement à la boulangerie; la présence de grains vêtus comme l'orge (hordeum vulgare), souvent utilisé comme fourrage animal, peut dans ce contexte attribué à une probable consommation humaine comme le suggèrent la présence de quelques exemples retrouvés dépourvus de glumes. L’orge, ou le farro, était utilisé dans la préparation de soupes, était peut-être aussi utilisé pour la boulangerie. Parmi les Fabaceae, les espèces qui entrent avec certitude dans la consommation alimentaire humaine sont les lentilles et les petits pois, comme c’est le cas dans les sites contemporains de l’Italie septentrionale et de la Toscane. Les légumes, complémentaires des carbohydrates des céréales, sont une des majeures sources de protéine végétales: après la récolte, ils pouvaient être consommés frais ou cuits ou séché pour une conservation plus longue. Les lentilles et les petits pois pouvaient être cuits dans l’eau pour préparer des bouilles et des minestrones, souvent mélangés avec les céréales ou avec des pièces de viande pour obtenir une nourriture plus composite.

III. Les ressources minières et les activités métallurgiques des Collines Métallifères durant le Moyen-âge. 1. La reconstruction des processus métallurgiques à travers l’analyse archéométrique des données matérielles et l’analyse documentaire du Statut Minier de Massa Marittima S. Guideri Les grands gisements de fer, de cuivre, de plomb et d’argent, d’antimoine, de mercure, de pyrite, de lignite et de souffre, se trouvent presque dans tout le sous-sol de la Toscane, et contribuent à créer ses paysages miniers. Par paysage minier, nous entendons en fait, un territoire fortement caractérisé par la présence de gisements dont l’exploitation a influencé la dynamique de la zone. Le territoire examiné est celui des Collines Métallifères, un contexte qui montre un fort caractère productif, apparait idéale pour identifier les possibles relations entre les sites archéologiques et les gisements miniers. Identifier un site archéo-métallurgique signifie, souvent reconnaitre et interpréter des zone de scories. Les fours qui ont été utilisés par l’activité métallurgique étaient en effet, généralement, des structures extrêmement précaires faites en pierre et argile, qui étaient constamment restaurées et reconstruites, les scories donc constituent très souvent les uniques indicateurs du processus métallurgique ayant eu lieu. Une lecture de l’organisation productive de l’économie liée à l’exploitation des métaux peut être aussi tentée à l’aide des sources écrites. A travers le ''Codice Minerario Massetano'', faisant partie de la Charte de la Commune de Massa à partir de 1325, il est possible en effet de lire l’histoire de Rochette durant le XIVe siècle ap. J.-C. Il y a de nombreux documents de ce genre dans les régions à vocation minière, car ce type de production nécessite l’intervention de réglementations qui régissent la propriété et la gestion des ressources, l’organisation du travail, l’investissement des capitaux et la commercialisation des produits; l’économie minière suppose en effet l’exploitation du sous-sol, mais aussi l'utilisation d'autres ressources: de bois, d'eau et des réseaux de transport. Le droit minier norme donc autant les aspects publics que privés. Avec les aspects juridiques liés aux activités minières, ce document offre aussi des précisions sur l’ancien paysage minier, sur les conditions topographiques et sur la topologie de l’implantation connexe aux infrastructures «industrielles», même si ce n’est pas un traité technique, nous pouvons y retrouver aussi de nombreuses informations de nature technologique à propos des opérations qui sont effectuées. Le Code s’occupe de toutes les phases qui vont de la prospection, de l’identification de la veine métallifère à son exploitation et de sa transformation du minerai en métal commercialisable ou en produit fini. Il traite des minerais de cuivre et de ceux d’argent. C’est donc une

7. Les analyses fonctionnelles des espaces d’habitations: le cas d’une cabane du Haut Moyenâge A. Pecci De l’analyse chimique des résidus absorbants d’une cabane fouillée à Rochette, il a été possible de proposer des hypothèses sur le type d’activités réalisées dans cette cabane. Le plan de piétinement de la cabane dénommée structure 2, constitué de terre compacte et argileuse, a été échantillonné pour chercher à comprendre l’usage de cette structure et l’utilisation des différentes parties à l’intérieur de cette dernière. Les échantillons sont pris soit à l’intérieur, soit à l’extérieur de la cabane. Les résultats de toutes les analyses ont été reportés sur GIS et pour chacun des éléments étudiés, il a été créé des plans de distribution. En correspondance, des traces de brûlure de l’argile ont été étudiés dans la partie nord de la cabane, et leur niveau de pH est élevé, cela devrait correspondre à un éparpillement de cendre. Dans la même zone, des concentrations de phosphates et des résidus protéiques ont été identifiés, ceux-ci suggèrent la présence d’un foyer utilisé pour la préparation des aliments. Cette donnée, avec les caractéristiques de la cabane, indique qu’il s’agissait d’une structure domestique. Le sol de la partie sud de la structure est privé au contraire de concentration en résidu. Ce résultat suggère que cette partie de la cabane avait une fonction différente, peut-être de stockage ou de dortoir. Les traces de résidus chimiques sont présentes à l’extérieur de la cabane, sur le côté nord-ouest. Cela nous permet d'affirmer que non seulement l’intérieur de la structure fut utilisé, mais aussi

23

basait sur l’implantation de sites d’extraction sur les terres fiscales. Dans l’aire de production organisée de la zone sommitale et délimitée d’une enceinte maçonnée, un four fut daté du Xe siècle ap. J.-C., il était utilisé pour la réduction du minerai, voisin d'un abri muni seulement d'une toiture, construit avec des matériaux mixtes. Les structures avaient pour fonction le sondage des minerais extraits et permettaient d’estimer la quantité d’argent contenue dans une quantité donnée. Dans le processus de production, nous pouvons donc remarquer la présence d’au moins deux types de protagonistes : l’autorité imminente (l’Etat) qui continuait à être l’unique acquéreur du métal produit et quelques administrateurs privés qui géraient les phases d’extraction du minerai. Les activités se consolidèrent au court du XIIe ap. J.-C., le siècle durant lequel furent attribuées de nouvelles aires pour le travail du minerai. Durant cette période, le site faisait partie du territoire de l’évêque de Volterra et les possesseurs de la majeure partie des parts étaient des représentants de la famille de Pannocchieschi. Durant le XIIe ap. J.-C., les nombreuses concessions du monnayage données aux divers protagonistes, principalement les villes et les évêques, subiront un dernier changement par rapport au processus. En premier lieu, avec l’augmentation des ateliers de monnayage, la demande de métal grandit et donc la quantité de minerai extrait aussi. Ce facteur quantitatif se retrouve dans les analyses des données des fouilles. Enfin, la phase du XIVe siècle ap. J.-C. se déroule dans un environnement de définitive liberté du processus de monnayage: l’extraction était gérée par des compagnies minières privées qui avaient probablement, seulement des contraintes commerciales avec l’acquéreur. Les analyses archéométriques ont montré en effet qu’une partie du métal produit à Rocchette était vendue à Massa Marittima, mais nous ne pouvons pas exclure qu'il fut destiné aussi à d’autres ateliers urbains de monnayage, comme Volterra ou Siena.

source essentielle pour améliorer la lecture des aspects économiques du site de Rocchette. 2. Les gisements miniers du territoire de Rocchette J. Bruttini Durant le Moyen-âge, les gisements exploités dans les Collines Métallifères, où se trouve Rocchette Pannocchieschi, furent essentiellement ceux de soufres mixtes ayant pour finalité d’extraire les métaux monétaires des veines du sous-sol, pour réaliser un alliage de cuivre et d’argent. Jusqu’au lancement de l'étude des Collines Métallifères, l’Université de Siena planifia des enquêtes cognitives sur le patrimoine minier du territoire entier. De nombreuses campagnes de prospection sur le territoire ont eu pour but de créer une carte des sites, des diverses fréquentations et des innombrables traces liées aux activités de ce territoire. Dans ce contexte, nous pouvons donc définir ‘‘zone minière’’ les points d’extractions réunis dans une même zone géographique qui peut être délimité par la présence de fosses ou de versant différents des reliefs de colline. La principale zone minière du château était sûrement celle des quatre dolines qui entouraient le site, utilisée comme carrière de matériel et, en partie, comme décharge. En outre, nous avons émis l’hypothèse que la zone minière de Poggio Mandriacce, situé à 250-300 mètres de distance du centre de Rocchette, fut une autre zone d’extraction appartenant au château, vu la présence de deux dolines et d’une entrée de mine. Dans d’autres zones minières localisées durant les prospections, ont été enregistrées seulement des entrées minières, environ 26, à environ 2 km du château. L’étude des minerais présents dans ces gisements a été effectuée, les analyses chimique-physique ont montré que les gisements exploités à Rocchette semblent être parmi ceux qui avaient le plus grand pourcentage d'argent. 3. Analyses des indicateurs de production sur le site de Rocchette J. Bruttini

Conclusions F. Grassi La première phase documentée sur Poggio Trifonte, où se trouve Rocchette, se date au cours du VIIIe siècle ap. J.C, quand sur les collines limitrophes se forment ou se renforcent aussi divers sites importants, aussi bien les sites ecclésiastiques que les sites miniers (Cugnano, Monterotondo, San regolo). La présence même d'un site comme Rocchette, durant le VIIIe siècle ap. J.-C. pouvant déjà être considéré comme un petit village, localisé à proximité des gisements minier d'argent, ce qui suppose la volonté d'un gestionnaire de commencer l' exploitation de cette ressource à partir du Haut Moyen-âge. A ce sujet, ce qui est important de souligner est que, durant les premiers siècles, le seul pouvoir capable de lancer un processus du genre était le pouvoir public, détenteur de grandes possessions territoriales et conjointement, de la possibilité d'arriver au produit final, c'est à dire de frapper la monnaie. En effet, l'unique atelier de monnayage actif en Toscane à partir du VIIe siècle ap. J.-C., était celui de

Les structures de production retrouvées à Rocchette ont fait l’objet d’une analyse spécifique dans le but de reconstruire la fonction du processus de production au cours des siècles. Dans un premier temps d’occupation du site (VIIIe-IXe siècle ap. J.-C.) les lieux de production documentés ne sont pas encore actifs, mais la localisation même du château, centrale par rapport aux mines et aux combustibles, constitue en soi un indicateur de la vocation minière du site. Les phases du processus en action sur le site peuvent conduire exclusivement aux phases d’extraction, qui adviennent dans les mines voisines, dans les dolines et dans les autres entrées de mines recensés. Les moyens de production s’explicitaient dans la création de monnaies, qui étaient réalisées dans des ateliers de monnayage urbains, et dans une gestion du processus de raffinements du métal, toujours dans une zone urbaine. Ce modèle de production ‘‘de l’Etat’’ se

24

Collines Métallifères, étant une importante ressource de main d’?uvre pour les activités minières. Le château est devenu une sorte de village industriel et les fouilles ont montré les épisodes de constructions et de vies de cette phase d'implantation complexe. Le château est doté d'une enceinte qui délimite à cette période une superficie de 2500 m2, insérée dans trois profondes dolines; simultanément la grande zone artisanale se développe, localisée en dehors de l'enceinte près de la porte principale, composée de quatre ensembles édifiés et quelques espaces ouverts. La zone sommitale est aménagées selon un projet de construction dont le but est de représenter la seigneurie Pannocchieschi (tour, résidence seigneuriale, citerne); les habitations du bourg se présentent sur les trois terrasses et comprennent environ 15 pièces. Les fragments d'objet domestique en céramique, en verre et en métal, montrent, analysés conjointement aux données récoltées sur l'alimentation, une production florissante du territoire. Toute l'économie de Rocchette tournait autour de l'industrie minière, dont les traces du XIIe siècle ap. J.-C. sont nombreuses, non seulement sur le site mais aussi dans toute la région. Durant ce siècle, apparaissent les premières activités de travail dans l'édifice des Fonderies à Montieri, identifié comme l'atelier de l'évêque de Volterra pour la frappe de la monnaie. Enfin durant le XIVe siècle ap. J.-C., le cas de Rocchette offre un modèle de gestion ressemblant à celui d'une compagnie minière active dans des centres liés au marché du métal, comme Massa Marittima, mais aussi celui de Siena. Suite à cela, nous observons un repeuplement et l'édification d'une nouvelle zone d'habitation ainsi qu'une zone consacrée à l'artisanat, extra-muros et se constituant de 14 nouvelles habitions et 5 espaces artisanaux. Ces transformations pourraient être le signe d'une nouvelle organisation. Cette hypothèse devrait être confrontée à d'autres sites miniers aujourd'hui connus. Dans les nouveaux espaces artisanaux, environ 1300 m2 riches en traces métallurgiques, sont effectuées les phases de cuisson et de réduction. Cependant, il pouvait s'agir de tests pour évaluer le rendement, pour ensuite transporter le minerai dans des centres de production et de transformation métallurgique plus efficaces et dotés d'énergie hydraulique. Durant le XIVe siècle ap. J.-C., la vie dans le château semble très riche, comme c'est le cas pour les autres centres miniers dans les régions côtières et dans d'autres villes, comme Siena. À la fin du XIVe siècle ap. J.-C, nous notons une mutation qui transformera les Collines Métallifères en zones nommées ''réserves'' de chasse, des territoires dépeuplés, dans lesquels sont identifiées seulement des fréquentations sporadiques. Les principaux centres miniers, parmi lesquels Rocchette, subirent un dépeuplement et les châteaux, dépourvu de gestion, furent abandonnés. Les causes de leur abandon furent variées, mais la principale fut le manque de revenu suffisant tiré de ces entreprises, étant donnée la stérilité des mines et l'impossibilité d'utiliser l'énergie hydraulique nécessaire pour le travail du métal.

la ville de Lucca: l'évêque de cette ville, mais aussi divers autres représentants, sont attestés dans le territoire par le document cartographique du monastère de San Regolo à Gualdo et ces personnalités possédaient les ressources et les motivations pour inciter la formation d'un site dans une aire d'importance stratégique pour se procurer le métal nécessaire à la fabrication de la monnaie (cuivre, argent). Entre le Xe et XIe siècle ap. J.-C., de nombreux sites des Colline Metallifere, parmi lesquels le village Trifonte, se transforment peu à peu en châteaux. Ce processus ne change pas fondamentalement la physionomie de l'implantation territoriale, mais accentue le caractère dominant de certains sites de type ''minier'' (Trifontem, Cugnano). En effet, les données récoltées pour les phases du Xe siècle ap. J-C, en lien avec une aire de travail dans la zone sommitale du site, nous permet de comprendre la naissance d'une gestion seigneuriale qui peut être caractérisée d'entrepreneuriale, comme celle rencontrée à Rocca San Silvestro, premier cas d'étude analysé en Toscane (Francovich 1991). Le matériel archéologique de ce château est particulièrement riche, il nous permet de décrire sa physionomie complexe. Parmi les données archéologiques, mettons en évidence l'enceinte en pierre qui renferme la partie sommitale, le mobilier composé de céramiques régionale, les fragments d'objets en verre de grande qualité et une infinité d'outils en métal, utilisés dans le travail de celui-ci. A partir de cette période, les phases du processus de fabrication de la monnaie qui se déroulent sur le site, comprennent non seulement l'extraction, mais aussi la réduction du minerai. À la fin du Xe siècle ap. J-C., une partie de l'enceinte s'écroule naturellement, cet évènement marque le passage à un château totalement en maçonnerie. À partir du XIe siècle ap. J.-C, l'aménagement de celui-ci se modifie aussi complètement, suite à un investissement de la famille Pannocchieschi, dans les châteaux miniers et dans la région. À Rocchette, l'investissement se concrétise dans la transformation définitive du site en château. Celle-ci se caractérise d'une part par une urbanisation précise, d'autre part par l'utilisation dans la construction d'un seul matériau de construction : la pierre. L'organisation du château sur un large périmètre, comprenant des zones distinctes par leur fonction (le sommet et le bourg extramuros), n'est pas forcement accompagné d'un peuplement à nouveau constant, comme l'ont montré les fouilles. Le mobilier provenant de certaines habitations nous permet d'interpréter le cadre sociale de la population du château durant le XIe siècle ap. J.-C.: une population habituée à un consommation moyennement riche, qui mangeait de la viande provenant d'élevage ou de chasse; cette population achetait les produits laitiers comme le fromage et ne les produisait pas; ce peuple utilisait des verres et des bouteilles en verre pour le repas, la céramique (da dispensa et pour la cuisine) provenait d'ateliers éparpillés largement dans le territoire, et enfin, cette population semblait se vouer exclusivement à l'activité minière. Durant le XIIe siècle ap. J.-C., le site de Rocchette est sujet à un intérêt croissant de la part de familles qui transforme au fur et à mesure le district minier des

(traduit par Camille Brunin)

25

scavo della Rocca di Campiglia Marittima (BIANCHI 2004a) ed ai progetti sulle ricognizioni di superficie nelle aree minerarie (PESTELLI 1992-1993; DALLAI 1992-1993; FINESCHI 2005-2006; RUBEGNI 1990-1991). Oggi lo scavo è inserito in un processo di restauro e valorizzazione finalizzato a rendere visitabile il sito, raro esempio di testimonianza storica della tradizione mineraria medievale; è infatti uno dei siti del Parco Archeologico e Tecnologico delle Colline Metallifere Grossetane, creato per la salvaguardia di queste realtà storiche (PREITE 2009). Il lavoro che continua sul territorio delle Colline Metallifere, ed all’interno del quale trova una sua giustificazione la rilettura complessiva che proponiamo del sito di Rocchette, ci spinge oggi a trovare nuove strategie di ricerca, mirate ad ampliare le risposte che cerchiamo dal territorio, ad esempio con un approccio sempre più “globale” ai resti del passato, dal paesaggio agricolo e forestale, ai resti di strutture produttive, della viabilità, degli insediamenti ed alla loro lettura in una chiave economica e sociale, in modo da mettere a fuoco il ruolo delle società del passato nel modificare e definire questa porzione di territorio3. Per spiegare lo svolgersi delle indagini sul sito si può parlare di strategie multiple, volte a focalizzarsi su singoli aspetti, nel corso degli anni. Infatti, l’importanza data all’analisi dei luoghi e dei processi di lavorazione metallurgici ha improntato tutta la strategia dei primi anni di scavo (1992-1995), durante i quali fu indagata completamente un’area esterna al circuito murario del castello, identificata dagli scarichi di scorie superficiali come zona adibita alle lavorazioni artigianali. La sua ubicazione, nei pressi di due delle quattro grandi aree di cava che complessivamente circondano il castello, definite doline, e la sua marginalità rispetto al borgo la rendevano infatti un luogo privilegiato per lo studio delle lavorazioni del metallo di cui vi erano estesi indicatori in superficie. I risultati (vedi infra Capitolo III) furono eccezionali e seguendo l’esperienza di Rocca San Silvestro, dove era stata indagata un’area artigianale deputata alla lavorazione del rame e del piombo, si campionarono ampi scarichi di scorie, piani di lavorazione, zone di lavoro artigianale e tutti i risultati confluirono da subito in un elaborato dottorale. In questo studio si analizzarono somiglianze e differenze proprio con i contesti di Rocca San Silvestro, evidenziando modi diversi di gestire la produzione, secondo logiche sociali e politiche che mutavano nel corso dei secoli (GUIDERI 1996). Il progredire delle indagini permise inoltre di rivolgere la strategia del cantiere anche all’analisi dello sviluppo dell’insediamento, attraverso lo scavo della zona sommitale del sito, che consentì di raccogliere nuovi dati sulla cronologia iniziale dell’abitato e di verificare l’esistenza di lavorazioni metallurgiche all’interno

I. La peculiarità di un territorio minerario nella Toscana del Medioevo 1. Le strategie della ricerca F. Grassi Lo scavo del castello di Rocchette Pannocchieschi, ubicato nella Toscana meridionale, nel comune di Massa Marittima (Gr), ha impegnato l’Università degli Studi di Siena dal 1992 al 20031 (Fig. 1).

Fig. 1: ubicazione del sito di Rocchette Pannocchieschi (Toscana, Grosseto) L’avvio dello scavo ha coinciso con una stagione di forte interesse verso le problematiche legate allo sviluppo dei castelli nel medioevo, in relazione allo sfruttamento delle risorse di metallo monetabile (rame, piombo, argento), di cui l’area delle Colline Metallifere è molto ricca (BAILLY-MAÎTRE 2011; FRANCOVICH, WICKHAM 1994)2. Infatti, lo scavo di Rocchette è succeduto, come impegno di ricerca, al progetto sul sito di Rocca San Silvestro ed alla creazione del Parco Archeominerario della Val di Cornia (FRANCOVICH 1991; FRANCOVICH 1994), allo 1 Lo scavo, effettuato con il coinvolgimento ed il supporto finanziario della Unione di Comuni Montana delle Colline Metallifere (http://www.unionecomunicollinemetallifere.it/) che gestisce tutt’oggi la porzione di Demanio della Regione Toscana nella quale si trova il sito archeologico, ha avuto la Direzione Scientifica del Prof. Riccardo Francovich‡ ed è stato coordinato sul cantiere da Daniele De Luca, Francesca Grassi e Maddalena Belli. 2 Dal punto di vista geologico, Rocchette si colloca in una zona di contatto fra le rocce calcareo-argillose eoceniche e il calcare retico; lungo questo contatto si trovano giacimenti oggetto fin dall'antichità, e sicuramente in età medievale, di escavazioni per ricavare rame e piombo argentifero. Tali giacimenti sono relativi a solfuri misti, principalmente rame, piombo e argento.

3 Su questi aspetti vertono proprio gli ultimi studi specialistici editi sulle Colline Metallifere, tra cui segnaliamo un lavoro complessivo sulla ceramica e l’artigianato ceramico (GRASSI 2010), sulle risorse agricole ed il modo di gestirle da parte delle comunità rurali (BIANCHI, GRASSI 2013) ed infine sui nuovi dati emersi dall’archeometallurgia (BIANCHI, BRUTTINI, DALLAI 2011).

26

dell’area fortificata. La ricchezza di evidenze materiali anteriori all’affermarsi del potere signorile sull’insediamento e alla definizione del castello, ha difatti confermato il forte impulso che la presenza di metalli monetabili ha avuto sulla nascita dell’insediamento, mostrando l’esistenza di una volontà organizzativa e gestionale delle risorse del sottosuolo già tra VIII e IX secolo. Inizialmente, dunque, rivolgendosi all’abitato, si era pensato di raccogliere soltanto nuovi dati sulle tipologie abitative, ma, in seguito, grande fu la sorpresa nel riconoscere le tracce delle lavorazioni metallurgiche anche in zone solitamente estranee alle attività artigianali, come nell’area della sommità del sito. Lo scavo di Rocchette, ed oggi anche il più recente scavo del sito di Cugnano (BRUTTINI, GRASSI 2011a) ci hanno portato dunque a ridefinire non solo la tipologia delle lavorazioni stesse, ma anche la casistica del cosiddetto “castello minerario” collegato allo sfruttamento dei metalli non ferrosi (rame, piombo, argento), tratteggiato sino ad oggi soltanto sulla base del modello di Rocca San Silvestro (FRANCOVICH 1991; CASINI 2007)4. La nozione di castello minerario era collegata inizialmente ad una precisa cronologia, non anteriore per la Toscana alla fine del X secolo, ma lo scavo di Rocchette ed i successivi interventi nelle aree minerarie hanno mostrato che tale forma insediativa è stata in molti casi solo l’ultima tra le mutazioni che hanno coinvolto questi poli abitativi dal momento della loro nascita (FRANCOVICH, HODGES 2004). Così, il modello del castello minerario di Rocca San Silvestro, sorto ex-novo alla fine del X secolo nei pressi di giacimenti di piombo argentifero per volontà di una consorteria signorile, è passato ad essere un caso particolare nel panorama delle aree minerarie toscane, unico sito minerario (ad oggi) di nuova fondazione per volontà di una signoria laica (i Gherardeschi). Ben diverso, come vedremo, il caso di Rocchette Pannocchieschi, per il quale la precoce nascita, a partire dall’VIII secolo, sembrerebbe coinvolgere i poteri pubblici in analogia a quello che sta emergendo dal vicino sito minerario di Cugnano. Oggi dunque, quello che possiamo leggere, attraverso i dati raccolti ormai un decennio fa nel sito di Rocchette Pannocchieschi, è quali furono le modalità di gestione delle risorse minerarie nei vari secoli e come abbiano influenzato lo sviluppo del sito a partire dall’VIII secolo e nelle successive trasformazioni nel corso del X secolo, nei secoli di dominio dei conti Pannocchieschi ed infine nel passaggio al Comune di Massa Marittima ed all’area di influenza della città di Siena. Si è trattato, in sostanza, di aggiornare un questionario già delineato nel 1994 in un contributo, scritto da Riccardo Francovich e Chris Wickham, nel quale gli autori utilizzavano lo scavo del castello minerario di Rocca San Silvestro per mostrare gli aspetti materiali di un tipo di gestione signorile dei processi di produzione del metallo monetabile, dai tratti marcatamente imprenditoriali (FRANCOVICH, WICKHAM 1994, pp. 20-21). Questo modello gestionale, basato sulla

presenza di un signore che traeva benefici non solo dalle varie fasi di gestione del lavoro, ma anche dalla commercializzazione stessa del prodotto finito, era contrapposto a quello conosciuto soltanto attraverso numerosi documenti scritti, relativi al XIII secolo5, per i castelli di Massa Marittima e Montieri, dove il gestore del lavoro imponeva un altissimo prelievo delle quote di minerale estratto, un canone sull’uso di pesi e probabilmente si riservava il diritto di comprare il minerale, pur lasciando i lavoratori autonomi nel consorziarsi in apposite Compagnie per svolgere il lavoro. I dati sul sito di Rocchette Pannocchieschi, inseriti nell’ambito delle più recenti ricerche sulle Colline Metallifere, ci permettono di ampliare sia il nostro arco cronologico di osservazione sia la mappatura delle modalità di gestione delle risorse minerarie. Molti dati di Rocchette offrono conferma alle ipotesi presentate nel 1994 per Rocca San Silvestro, ma è indubbio che la ricchezza di dettagli proposta attraverso le varie analisi specialistiche, mostra le ampie possibilità dell’archeologia sui siti minerari, finalizzata alla ricostruzione degli aspetti economici e sociali della Toscana nel medioevo (BAILLY-MAÎTRE 2011). Venti anni fa era possibile soltanto fare delle ipotesi sull’organizzazione dei primi insediamenti minerari che precedettero la forma del castello, ma oggi possiamo affrontarne una ricostruzione complessiva, a partire dal VII-VIII secolo. La presenza stessa di un sito come Rocchette, nell’VIII secolo già definibile come un piccolo villaggio, posto a ridosso di giacimenti minerari di argento, a cielo aperto (le doline circostanti) ed in miniere sotterranee, presuppone la volontà di un gestore di avviare, sin dall’altomedioevo, lo sfruttamento di questa risorsa, anche se le forme in cui si esplicò sono al momento le più difficili da ricostruire, essendo assai labili le tracce materiali delle lavorazioni. Quello che è importante sottolineare è che, in questi primi secoli, la possibilità di gestire tali processi e di arrivare alla coniazione della moneta era esclusiva del potere pubblico, detentore di ampi possessi territoriali anche nell’area delle Colline Metallifere. In seguito, i dati archeometallurgici raccolti per le fasi di vita di X secolo, legati, come vedremo alla presenza di una piccola area di lavorazione nella zona sommitale del sito, all’interno di una cinta muraria edificata in pietra, ci permette di leggere, con nuove informazioni, proprio la nascita di quella gestione signorile di tipo imprenditoriale che ha avuto nel sito di Rocca San Silvestro la prima esemplificazione materiale. Rispetto a Rocca San Silvestro, a Rocchette la gestione signorile può essere letta nella sua evoluzione, fino al XII e XIII secolo, notandone i cambiamenti, anche attraverso la cultura materiale, gli edifici e la topografia del castello, nonché chiaramente nei risvolti sociali ed economici che il dominio signorile comportò. E’ importante rimarcare che il X secolo fu il momento di passaggio nella gestione e nell’urbanistica, con cambiamenti di scala nelle attività produttive (vi è in questo secolo un forno da riduzione

4 Quello che si definiva “castello minerario” era un insediamento fortificato di tipo accentrato con una specializzazione artigianale collegata alla lavorazione dei metalli monetabili (rame, argento, piombo).

5 Si tratta del Codice Minerario Massetano, per Massa Marittima e del Breve di Montieri, per Montieri. Si veda infra, Capitolo III.

27

per il minerale posto sulla sommità) e con l’avvicendarsi dei poteri, in precedenza pubblici, nei confronti di soggetti privati, come le famiglie aristocratiche od i vertici ecclesiastici, presenti in questi anni anche nella documentazione scritta. Tra Duecento e Trecento, il caso di Rocchette offre un modello gestionale forse non dissimile da quello collegato alle compagnie minerarie attive a Massa Marittima e Montieri; i dati dello scavo ci permettono di evidenziare un declino della signoria Pannocchieschi, una divisione sempre maggiore del castello in quote di pertinenza di vari enti, tra i quali il maggiore possessore fu il Comune di Massa Marittima. Ma non dovette trattarsi di un semplice cambiamento di gestione che vide il Comune sostituirsi alla signoria: infatti, lo scavo ci mostra un ripopolamento e l’edificazione di una nuova area abitativa e lavorativa che potrebbe forse essere la spia di tutta una nuova organizzazione, non percepibile a San Silvestro, ma da valutare nel confronto proprio con altre realtà minerarie medievali ad oggi conosciute, come appunto quella di Montieri6. Dunque, le nuove informazioni provenienti dall’analisi dei dati dello scavo di Rocchette e del suo territorio, a proposito della complessa gestione delle attività minerarie, forniscono la possibilità di descrivere tre momenti storici distinti e tre modelli di sfruttamento delle risorse del sottosuolo: quello pubblico altomedievale, quello privato -signorile od ecclesiastico- nei secoli centrali del medioevo e nel bassomedioevo ed infine quello imprenditoriale, legato agli organismi comunali ed alle Compagnie minerarie, nel Trecento.

oggetto di intense attività di archeologia condotte dall’Università di Siena; le indagini di superficie hanno prodotto la raccolta di dati sia relativi al popolamento sia alle attività produttive. Sul censimento di 2500 siti sono stati riconosciuti 1428 insediamenti di varia tipologia (agglomerati demici, villaggi, castelli, case sparse) e 1112 evidenze legate ai lavori metallurgici (imbocchi di miniera, campi minerari, zone di cava, aree di lavoro)7. Inoltre, sono stati indagati in maniera estensiva quattro insediamenti (Rocchette Pannocchieschi, Cugnano, Monterotondo Marittimo, Montieri)8 posti nel cuore delle Colline Metallifere ed altri tre, ubicati nelle propaggini sud (Montemassi, Castel di Pietra, Sassoforte)9. In questa breve sintesi ci limiteremo ad usare soltanto i dati relativi alla parte centrale delle Colline Metallifere, facendo di volta in volta qualche accenno ai siti più marginali rispetto al complesso collinare10. Il campione a nostra disposizione, anche se in continuo incremento, permette dunque di effettuare alcune considerazioni di carattere generale per il medioevo, seguendo una scansione per blocchi cronologici e considerando in maniera sintetica alcuni aspetti tra sè complementari. Tra questi, le motivazioni della nascita dei siti, i poteri che intervennero nella loro creazione e/o nella gestione, il rapporto con le risorse locali ed in particolare con quelle minerarie, confrontandone il diverso sfruttamento nel corso dei secoli ed infine il ruolo delle stesse comunità rurali nell’ambito di queste imprese. 2.1 La nascita e lo sviluppo della rete insediativa medievale (fine VII/VIII-X secolo)

2. Insediamenti e risorse minerarie nelle Colline Metallifere alla luce delle ricerche archeologiche. Il Medioevo (VIII-XIV secolo)

La ricostruzione archeologica dello sviluppo del territorio delle Colline Metallifere nel medioevo ha mostrato che le prime fasi insediative dei villaggi d’altura si datano tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo; tra i siti in pianura invece, tutti noti solo da ricognizione di superficie, alcuni nell’area di Monterotondo (Ficarella, San Regolo, Patassano, Paterno) potrebbero essere esistenti già in precedenza (PONTA 2011-2012), ma è ancora da definire il loro ruolo, forse marginale rispetto ai nuovi nuclei di popolamento legati alla gestione delle risorse.

F. Grassi Il territorio di cui trattiamo, le Colline Metallifere Grossetane, è composto di un’ampia fascia collinare e montuosa, nell’entroterra della costa tirrenica meridionale della regione Toscana, che copre circa 500 Kmq. ed è caratterizzata da alcuni tratti che ne marcano profondamente il paesaggio. Innanzitutto la bassa densità d’insediamenti, oggi più percepibile che nei tempi passati ed in secondo luogo le tracce cospicue delle attività minerarie che si intravedono all’interno del manto boscoso, fulcro per secoli dell’economia locale (Fig. 2). A partire principalmente dalle zone di sfruttamento minerario dei giacimenti di solfuri misti (rame, argento, piombo), si sviluppò dall’VIII secolo un tipo di popolamento accentrato, nella forma del villaggio ed in seguito del castello, in cui la rilevanza di grandi centri urbani fu minima (BIANCHI 2010; BIANCHI, BRUTTINI, DALLAI 2011). Tutto il territorio di cui parleremo è stato

7 Questi dati, in difetto perchè mancanti degli aggiornamenti relativi agli ultimi anni di lavoro sul territorio delle Colline Metallifere (area di Monterotondo M.mo e di Montieri -Gr-), sono ripresi dall’edito. Si veda DALLAI 2005, p. 277 e BIANCHI, DALLAI, GUIDERI 2009, pp. 638-643. 8 Per il sito di Cugnano, Monterotondo M.mo e Montieri si rimanda alle schede edite in www.Fastionline.org ed alla relativa bibliografia, BRUTTINI, GRASSI 2010a, 2010b, 2011a, 2011b e BRUTTINI, FICHERA GRASSI 2010. 9 Per il sito di Montemassi si veda BRUTTINI 2009; per Castel di Pietra e Sassoforte in ultimo CITTER 2011 e relativa bibliografia. 10 A questi insediamenti, potremmo aggiungere Miranduolo, posto nel comune di Chiusdino (Siena), nell’areale di Montieri. Gli ultimi anni di ricerche nel sito e nel territorio circostante hanno però fatto emergere due fattori che lo distinguono dal resto delle Colline Metallifere e ne giustificano il mancato inserimento nella successiva trattazione: innanzitutto Miranduolo presenterebbe una fase collegata ad uno sfruttamento minerario solo nel VII secolo, ad opera di un esponente pubblico, ed in secondo luogo lo sfruttamento sarebbe circoscritto ai soli minerali ferrosi, a differenza dei siti che sono oggetto di questo lavoro (VALENTI 2011a; VALENTI 2011b).

6 Il confronto con Montieri oggi è certamente reso più produttivo dai dati materiali che si uniscono alla lettura dei documenti scritti già citati (il Breve di Montieri), tra cui lo scavo delle Fonderie (BRUTTINI, GRASSI 2010b) e la Canonica di San Niccolò (BIANCHI, BRUTTINI, DALLAI 2011).

28

Fig. 2: l’area delle Colline Metallifere, al centro della Toscana, ed i principali siti oggetto di scavo archeologico (elaborata da Jacopo Bruttini) riesca a mostrarci (BASILE, GRASSI, RICCARDI, BASSO 2011). I villaggi individuati erano estesi, nei casi misurabili, solo in uno spazio limitato rispetto alla superficie che avrebbero occupato nel X-XI secolo, dopo la loro trasformazione in castelli. Ad esempio, il primo tipo di villaggio ricostruibile nel sito di Cugnano, così come a Rocchette, occupa circa ¼ della superficie totale racchiusa dalle mura successive del castello; Montemassi invece occupa circa la metà del pianoro sommitale su cui si estenderà la roccaforte signorile ed infine Monterotondo M.mo sembra mantenere la stessa estensione per molti secoli, ma va considerato che, a fronte di un insediamento ipotizzabile come molto ampio, lo scavo ha indagato solo una piccola porzione (corrispondente a 1000 mq), la quale fu sempre occupata da edifici di vario tipo. L’economia di questi villaggi era assai diversificata. Gli interventi di scavo hanno mostrato che alcuni incentrarono la propria economia, già da questi secoli,

Alla nascita gli insediamenti sembrano divisibili in due categorie, villaggi con una spiccata vocazione mineraria (Cugnano, Rocchette, Montieri) e villaggi come centri di popolamento, nei quali le attività economiche prevalenti sono riconducibili ai lavori agricoli (Monterotondo) oppure silvopastorali (Montemassi, Pietra, Sassoforte). Non sono noti, in questi secoli, siti che hanno avuto esclusivo ruolo produttivo, dunque privi di abitato (botteghe, officine, ateliers di tipo rurale), ma in genere si può parlare di villaggi, composti di parti produttive e di case, pur con nette differenziazioni economiche. L’unica eccezione, al margine del nostro territorio, è un impianto produttivo di ceramica di tipo comune, senza rivestimenti, per la cucina e la dispensa, ubicato presso Roccastrada, attivo sia in epoca tardoantica sia tra VIII e X secolo. Le produzioni di questo atelier erano diffuse anche in alcuni siti delle Colline Metallifere, e si può ipotizzare che officine del genere dovessero essere presenti sul territorio più di quanto l’archeologia oggi

29

sulle risorse offerte dai metalli monetabili, altri si fecero centri di raccolta delle attività agricole. A Monterotondo M.mo, è stato indagato un esteso villaggio che possedeva un’ampia area artigianale, nella quale almeno otto silos scavati nella roccia e sei forni servivano per la lavorazione e lo stoccaggio di una parte del raccolto, composto di cereali e legumi. Le modalità di questo impianto hanno fatto ipotizzare la presenza di una comunità di liberi proprietari, descritta anche dalle fonti scritte, che in questa parte del sito avrebbe conservato, dopo le opportune lavorazioni, una riserva per gli anni di carestia (BIANCHI, GRASSI 2013). A Cugnano, le fasi del villaggio, datate all’VIII secolo, mostrano capanne abitative assieme ad evidenti tracce di escavazioni minerarie ed una vocazione a questa specifica economia analoga a quella del sito di Trifonte (BRUTTINI, FICHERA, GRASSI 2010). Nella stessa area vi sono altri siti attestati da questo secolo, anche se non direttamente collegati alle miniere, rinvenuti durante le indagini di superficie, tra cui Patassano, Paterno, Ficarella e San Regolo (PONTA 2011-2012). Il caso di San Regolo, chiesa inserita nell’orbita del vescovo di Lucca, è ad esempio interessante perchè vi si collegano una serie di carte che menzionano alcune donazioni, effettuate da piccoli proprietari terrieri, interpretate come un tentativo delle élites locali maremmane di ascendere socialmente ed entrare a fare parte dell’aristocrazia diocesana lucchese11. La diocesi di Lucca sembra avere, dai documenti altomedievali, molti possessi nella Maremma e sicuramente questo interesse territoriale si collega alla presenza dei metalli monetabili, dato che a Lucca era attiva una zecca cittadina dal tardo VII secolo che certo necessitava di argento per la monetazione (FRANCOVICH, FARINELLI 1994). Dalla fine del IX secolo, in alcuni di questi insediamenti si attuò un cambiamento della gestione, precocemente leggibile in alcuni di essi. A Monterotondo, ad esempio, la gestione dello stoccaggio delle granaglie si fece più esclusiva, con la scomparsa delle aree di stoccaggio collettivo e la costruzione di un granaio in materiali deperibili all’interno di una cinta fortificata, forse collegato ad un personaggio locale con forti poteri. Infatti, nel granaio si conservavano soltanto cereali (assenti i legumi) e solo per un breve periodo, prima di essere venduti presso i mercati rurali (BIANCHI, GRASSI 2013). A Montieri, lo scavo dell’insediamento della Canonica di San Niccolò, complesso religioso del vescovo di Volterra collegato allo sfruttamento delle miniere di argento, rimanda a fasi molto antiche di occupazione, risalenti almeno al X secolo (BIANCHI, BRUTTINI, DALLAI 2011). Il borgo stesso di Montieri, certo in forma diversa da quella attuale, assieme a quello di Gerfalco, è rammentato in vari documenti di IX e X secolo nei quali si indica il castello come già esistente e si insiste sullo sfruttamento

delle risorse minerarie da parte dei vertici ecclesiastici volterrani12. Il tessuto sociale che abitava questi primi villaggi sembra composto da persone di varia estrazione sociale e nei casi di studio complessivo degli indicatori archeologici, come vedremo per Rocchette, ne scaturisce una compresenza di contadini e di persone di rango più elevato, piccoli proprietari terrieri che possedevano campi e case, compresente con un ceto di artigiani del metallo, le cui labili tracce rimangono nelle escavazioni e nelle prime strutture produttive ritrovate sia a Cugnano sia a Rocchette. Una comunità di villaggio, come quella che scaturisce dalle evidenze di Monterotondo mostra che questi nuovi centri demici furono anche luoghi di popolamento nei quali gli abitanti erano in grado di organizzarsi per gestire determinate risorse, come quelle cerealicole13. La presenza di piccoli proprietari, anche all’interno di questi primi villaggi, nell’VIII secolo, non ci permette al momento di ipotizzare una gestione diretta e controllata dell’insediamento; lo stesso può dirsi sulle iniziative di nascita di questi villaggi, spontanee o dirette dall’alto, anche se nel caso degli insediamenti posti sulle risorse minerarie è forse facile intravedere una progettazione superiore a quella delle comunità stesse, da parte di autorità legate direttamente al potere pubblico, che potevano beneficiare di tutto il ciclo produttivo, dall’estrazione alla coniazione della moneta14. In particolare, quest’area ricca di risorse attirò un forte richiamo sugli esponenti dei poteri pubblici che avevano la concessione di battere moneta a Lucca, sede dell’unica zecca attiva in Toscana già nel VII secolo ed in seguito sul ceto ecclesiastico di Volterra e su potenti famiglie come gli Aldobrandeschi ed i Pannocchieschi che gestirono numerosi castelli, come Cugnano, Rocchette, Gerfalco e Montieri, accedendo all’estrazione del minerale attraverso concessioni statali (VOLPE 1961; VOLPE 1964). Questo territorio, dunque, ricco di risorse e di villaggi produttivi, era composto anche da insediamenti di altra natura tra cui la Canonica di San Niccolò, centro ecclesiastico e nel contempo con una forte valenza produttiva, posto sul Poggio di Montieri e legato al Vescovo di Volterra, le cui fasi insediative potrebbero sicuramente risalire sino al X secolo (BIANCHI, BRUTTINI, 12 Non è certa l’autenticità di un privilegio, oggi perduto, datato all’anno 896 d.C., con il quale Alberto il Riccio, marchese della Tuscia ed amministratore del patrimonio regio, donava ad Alboino, vescovo di Volterra, il territorio di Montieri insieme ai diritti sulle sue miniere argentifere, che quest’ultimo avrebbe a sua volta parzialmente affidato alla famiglia dei Pannocchieschi. In un diploma di poco successivo, nel 939 d.C. la diocesi volterrana si vedeva confermato il possesso di Montieri da parte di Ugo, re d’Italia, fatte salve le prerogative imperiali che consistevano nella proprietà delle miniere, ma non nel loro sfruttamento solitamente appaltato ad altri soggetti (FARINELLI, FRANCOVICH 1999). 13 Su questa tendenza delle piccole comunità contadine a regolare la produzione nei propri insediamenti, creando una gestione definita “proto-comunale” si veda FRANCOVICH, WICKHAM 1994, p. 25. Di contro, alcuni recenti studi interpretano le evidenze dell’insediamento altomedievale nella Toscana meridionale negando addirittura l’esistenza del villaggio, in ultimo CITTER 2011. 14 In questa direzione si muovevano anche le ipotesi espresse in FRANCOVICH, HODGES 2004, pagine conclusive capitolo 4.

11 Facciamo riferimento alle carte relative ad un ciclo di donazioni al monastero di San Regolo in Gualdo, soggetto al vescovo di Lucca, datate tra 740 ed 826 d.C. nelle quali si descrive un gruppo di piccoli proprietari terrieri residenti nell’areale di Monterotondo (COLLAVINI 2007a e 2007b).

30

DALLAI 2011). Le stesse fonti scritte ed anche le ricognizioni di superficie mostrano sempre nell’area di Montieri l’esistenza sia di chiese rurali, come la Pieve a Montieri sia di agglomerati di modeste dimensioni, come Mignone, Campiano, Mocini o Macrignano (RUBEGNI 1990-1991), spesso con la sola presenza di un edificio ecclesiastico ad indicare che la chiesa, soprattutto nella persona del Vescovo di Volterra, ebbe sicuramente un ruolo molto ampio nella formazione dei nuclei di popolamento, soprattutto laddove c’erano importanti risorse da sfruttare. La coesistenza tra villaggi d’altura ed insediamenti di diverso tipo, spesso considerati “abitato di tipo sparso”, sembra provata da vari tipi di fonti, anche se alcune di loro, in particolare quelle documentarie, fotografando un preciso momento, poco ci dicono della durata di questa coesistenza. Sembra di poter affermare, dunque, che i villaggi di altura che si formarono tra fine VII e VIII secolo non impedirono il persistere od il formarsi di altre modalità di abitato, anche se le informazioni di cui oggi disponiamo sull’insediamento di tipo non accentrato mancano certo di completezza e colmare questa lacuna sarà proprio uno degli obiettivi a cui dovranno tendere le nuove strategie di ricerca territoriali per l’altomedioevo.

Si può notare, tuttavia, che all’interno di questi insediamenti, ora fortificati, gli edifici residenziali, dove indagati archeologicamente, erano costruiti con materiali deperibili, come legno, paglia, terra e pietrame, pur se perfettamente integrati con le nuove fortificazioni. Soltanto la presenza di un edificio religioso, costituiva un’eccezione perchè anch’esso, come le cinte, costruito con la pietra: l’unico caso che possiamo al momento citare, ai margini del territorio indagato, è quello del villaggio di Montemassi, la cui chiesa, scavata di recente, è attestata anche dalla fonte scritta dall’anno 1075 e si associa ad una nuova configurazione dell’area sommitale come zona fortificata di pertinenza signorile, priva di case (BRUTTINI 2008, p. 247-251). L’assenza di altri edifici religiosi nei siti oggetto di scavi estensivi fa ipotizzare che abbiano una continuità in questi secoli anche le pievi rurali (con o senza nuclei di popolamento circostanti) attestate dalle fonti scritte e dalla ricognizione territoriale già nei secoli precedenti (RUBEGNI 1990-1991; GUIDERI 1996). Per quanto riguarda gli insediamenti di pianura, attestati soprattutto nell’area di Monterotondo e menzionati per l’altomedioevo, sembrano avere una cesura insediativa proprio con l’incastellamento dei villaggi d’altura, andando definitivamente a scomparire oppure mostrando soltanto labili tracce di frequentazioni sporadiche, ma in ogni modo perdendo quel ruolo economico, forse collegato all’essere posti sulle viabilità di pianura, che ne permise la sopravvivenza per molti secoli (PONTA 20112012). I nuovi abitati fortificati racchiudono dunque dei villaggi di capanne, in quasi tutti i casi, nei quali risulta difficile osservare segni di distinzione sociale, sia attraverso i corredi mobili sia attraverso l’edilizia, ancora legata per la sfera residenziale alle materie prime deperibili. Attraverso la ceramica ed i vetri, spesso utilizzati in base alle tipologie ed alle provenienze come indicatore di status sociale elevato, si nota invece che laddove vi siano oggetti collegati a commerci particolari, essi sono distribuiti in maniera uniforme tra le case ed evidenziano soltanto, a nostro parere, un generalizzato benessere di tutto l’insediamento. Ad esempio a Monterotondo, all’interno di una casa costruita con basamento in pietra ed elevato ligneo è stata trovato un frammento di ceramica di provenienza orientale (RUSSO 2008-2009); a Rocchette vi sono alcuni frammenti di vetro di produzione extraregionale, ma anch’essi provenienti da un’area non privilegiata, limitrofa a quella artigianale, impiantata a ridosso della cinta muraria (si veda Mendera in questo volume). I dati sulle rare importazioni d’ambito mediterraneo per il X e XI secolo possono essere usati come indicatori per l’intero insediamento, ma considerando anche la ceramica da mensa e dispensa, si possono estrapolare alcune informazioni generali sui commerci in Toscana. Infatti, in tutte le Colline Metallifere, dall’XI secolo si registra un’apertura ai prodotti provenienti dall’areale pisanovaldarnese (ceramiche con colature rosse, ad esempio, si veda CANTINI, GRASSI 2012) che sembrano sostituire i poli produttivi specializzati, come quello descritto per Roccastrada. Questo dato, ovvero un’apertura a mercati d’ambito regionale, deve essere sicuramente letto in

2.2 La prima fortificazione dei siti e la continuità della rete insediativa preesistente (f.X - f.XI secolo) A partire dal X secolo, molti degli insediamenti esistenti nelle Colline Metallifere vengono muniti di una cinta muraria, che li fortifica, racchiudendo un insediamento spesso molto più ampio di quello precedente, anche se ancora non completamente edificato. La fortificazione dei siti occupa un arco cronologico abbastanza ampio e la casistica presente è varia: è della fine del IX secolo la cinta costruita a Monterotondo che racchiudeva, nell’area indagata dallo scavo, un’area artigianale ed un granaio gestito da un proprietario. Il cantiere per la costruzione della cinta fu complesso e presumibilmente oneroso e nel sito è stato ritrovato durante lo scavo archeologico un miscelatore da malta preparato e usato proprio in occasione dell’edificazione delle murature (BIANCHI et alii 2012b; RUSSO 2012). A Cugnano e Montemassi dall’inizio dell’XI secolo si registra la completa costruzione di una cinta in muratura, mentre a Rocchette, come vedremo più avanti, questo fenomeno è anteriore di circa un cinquantennio e la nuova cinta racchiuderà le prime evidenze tangibili collegate alla produzione del metallo (BRUTTINI, FICHERA, GRASSI 2010; BRUTTINI 2009). Gli insediamenti che si sviluppano, definibili castelli15, sono in completa continuità (a livello economico, topografico e di organizzazione dell’insediamento) con le fasi precedenti; la sola distinzione è la presenza della cinta in muratura che comportò anche un investimento nelle attività di cantiere. 15 Di questo avviso anche l’interpretazione degli stessi siti in un recente contributo (BIANCHI 2010, p. 98) nel quale si riporta anche un noto documento del 973 d.C. relativo ai beni della famiglia Aldobrandeschi ed alle pertinenze di ventiquattro curtes di loro appartenenza: in ben undici casi si parla già di castelli, rocche e torri (per il documento COLLAVINI 1998, p. 85).

31

maniera congiunta con l’attività economica prevalente, quella mineraria, in deciso incremento tra X e XI secolo e che favorì senza dubbio i contatti tra i siti di questa area ed i nascenti commerci regionali. Cospicue sono in questi secoli le tracce di lavorazione metallurgica: a Cugnano, si hanno attività d’estrazione e riduzione, testimoniate da almeno un impianto produttivo (BIANCHI et alii 2012a), a Rocchette, come spiegheremo, nell’area sommitale occupata da capanne, all’interno della nuova cinta muraria fu installato un forno per la riduzione del rame o del piombo. Nell’area di Montieri sicuramente si hanno attività collegate alle miniere, come dimostrano le sequenze scavate alla Canonica di San Niccolò ed alle Fonderie, all’interno dell’abitato odierno di Montieri16. Quest’ultimo edificio, costruito nel XII secolo ma con tracce antecedenti riscontrate durante lo scavo, è stato interpretato come la sede della zecca del vescovo di Volterra, attiva per oltre due secoli all’interno dell’abitato di Montieri, edificio unico nel suo genere in Italia. A Monterotondo, invece, ad un’intensa fase di sfruttamento delle risorse agricole, descritta in precedenza, si sostituisce, all’interno di una nuova cinta muraria, un centro demico nel quale non si riscontrano particolari attività artigianali. Ciò che sembra dunque caratterizzare il passaggio dai villaggi privi di fortificazione a quelli che possiamo definire castelli è solo una maggiore visibilità di personaggi politici in grado di organizzare e gestire economicamente un cantiere che prevedeva l’uso della pietra e di razionalizzare alcune scelte economiche, già presenti, come quelle verso il lavoro minerario, mentre il tessuto sociale all’interno di questi villaggi sembra rimanere immutato, come mostra l’analisi dei corredi17. E’ nel passaggio tra X e XI secolo che le evidenze materiali mostrano un maggiore radicamento di poteri forti, in grado di organizzare e gestire le risorse del territorio, in particolare quelle minerarie: la stessa razionalizzazione degli insediamenti, che comportò la scomparsa dei molti siti di pianura non collegati alle risorse, sembra indicare una nuova geografia del popolamento nel territorio, a favore dei nuclei che insistevano sull’economia del metallo. Le varie signorie presenti in questi territori, saranno attestate nelle Colline Metallifere solo nel secolo successivo, perlomeno in base ai dati documentari (come gli Aldobrandeschi a Cugnano dal 1150 ed i Pannocchieschi a Rocchette dal 1232 ed infine gli Alberti a Monterotondo dal 1164), ma in queste riorganizzazioni basate sui singoli centri abitati e sulla nuova gestione dei principali poli produttivi dell’area, possiamo vedere proprio un inizio di radicalizzazione dei poteri delle signorie rurali, volte alla costituzione di aree d’interesse economico. La gestione stessa delle risorse minerarie da questo momento potrebbe essere passata in mano alle signorie laiche od alle cattedre vescovili che si sarebbero sostituiti al potere pubblico nel diretto controllo

dell’economia del territorio, forti della possibilità di poter gestire tutto il ciclo del metallo grazie alle concessioni statali. 2.3 I castelli e la gestione signorile delle attività produttive (XII-m.XIII secolo) Dal XII secolo si completa l’affermazione (e la visibilità) delle signorie rurali e ciò si manifesta prevalentemente nelle costruzioni dei castelli totalmente in muratura che sostituiscono gli abitati in materiale deperibile e nella comparsa all’interno dell’insediamento di edifici ecclesiastici e di edifici di rappresentanza signorile. Parlare di costruzione dei castelli significa descrivere dal XII secolo una vera e propria progettazione edilizia che avvenne in quasi tutti i siti con l’ampliamento di parti della cinta muraria, come a Rocchette, oppure con l’edificazione all’interno delle cinte già edificate nel secolo precedente di case e palazzi secondo un disegno urbanistico preciso. Infatti, si crearono, tenendole distinte, aree con edifici di tipo signorile (palazzo, chiesa, torre), aree residenziali con case ed annessi di servizio ed aree artigianali con botteghe e locali aperti per le lavorazioni che prevedevano costante uso del fuoco. Così, per questi secoli registriamo innanzitutto la formazione di aree distinte socialmente: a Cugnano una torre ed una successione di due palazzi inseriti in un’area adibita a cassero e fortificata singolarmente, a Rocchette una torre, un palazzo e forse, una chiesa nell’area più alta del sito, a Monterotondo e Montemassi una torre ed un palazzo signorile e lo spostamento dell’abitato nelle parti più basse delle alture, dove continuerà ad espandersi sino a formare i borghi moderni. Eppure, di fronte a questa evidente distinzione di tipo sociale operata attraverso la pianificazione edilizia, la cultura materiale composta dai reperti mobili non ci permette di capire se vi sia stata anche la permanenza fisica dei detentori di poteri all’interno dei siti: infatti, ancora una volta dobbiamo registrare l’assenza di marcate distinzioni perlomeno rese evidenti dall’analisi dei resti ceramici e vitrei. Bisogna inoltre considerare che queste distinzioni in aree a diversa funzione non avverrà in maniera uniforme e le soluzioni ad una stessa volontà gestionale furono molteplici: ad esempio il castello di Cugnano manca al momento, per questi secoli, di un’area propriamente abitativa, mentre l’area signorile è affiancata da un’ampia zona produttiva; a Rocchette si ritrovano tutte e tre le zone funzionali ricordate (area signorile, abitativa e produttiva), ma furono inserite all’interno di una cinta allargata notevolmente e dotata di nuove porte di accesso ed infine, a Monterotondo e Montemassi, come già detto, la parte sommitale prima occupata dalle case, divenne solo di pertinenza signorile e l’abitato si spostò a valle ed oggi non è facilmente indagabile perchè al di sotto delle case dei rispettivi borghi, ancora abitati18.

16 Si veda gli aggiornamenti sul sito www.Fastionline.org, scheda relativa alla Canonica di San Niccolò, Montieri, Toscana ed il testo BRUTTINI, GRASSI 2010b per le Fonderie. 17 Alcune importanti riflessioni sull’impatto della formazione dei castelli a livello socio-insediativo sono in FRANCOVICH, GINATEMPO 2000, p. 20.

18 L’indagine solo sulle sommità di questi due ultimi siti limita in parte la nostra conoscenza dello sviluppo dell’abitato; le analisi delle architetture dei centri storici minori, in corso da anni per la Toscana meridionale, non mostrerebbe al momento architetture in pietra

32

Per completare la descrizione delle parti sommitali dei siti, dobbiamo ricordare che tra gli edifici religiosi, l’unico indagato con metodi archeologici è, dalla fine dell’XI secolo, quello di Montemassi, dedicato ai “SS. Andrea, Maria e Genziano”, mentre le chiese castrensi rammentate dalle fonti scritte per gli altri siti rimangono al momento non identificate19. Le nuove aree abitative che furono costruite all’interno dei siti sostituirono le capanne abitate sino all’XI secolo e andarono a costituire delle zone di borgo, organizzate con una viabilità e varie zone aperte, tutto all’interno della cinta muraria. Le case erano interamente in pietra con tetti coperti spesso da lastre di scisto: in molte abitazioni, scavate, sono stati studiati i corredi materiali e raccolti dati di fondamentale importanza per descrivere la vita quotidiana nei castelli del XII secolo (GRASSI 2010a, pp. 24-38). Dai reperti emerge che erano mutate completamente le modalità d’approvvigionamento di beni, come la ceramica, non più acquistata in loco da artigiani limitrofi al castello, ma fatta arrivare direttamente dai centri urbani che la producevano, Pisa o Volterra. I segni di distinzione sociale, presenti nelle tipologie architettoniche in uso (torre, palazzo), sembrano assenti nei corredi: vetro, ceramica e metallo non mostrano distinzioni sociali e tantomeno distinzioni dai corredi urbani coevi, a dimostrare un generalizzato accesso a vari beni già discusso per il secolo precedente. Si incentivano anche i contatti con le aree produttive del mediterraneo, e sono presenti nei castelli ceramiche dell’Italia meridionale e dell’area islamica occidentale (CANTINI, GRASSI 2012). L’affermazione delle signorie porta anche un maggiore e intensivo sfruttamento delle risorse territoriali, con la costruzione di nuove aree artigianali preposte a tale scopo. In particolare, nei castelli minerari, si attuò in maniera più evidente questo investimento, allestendo all’interno del circuito murario (Cugnano) o nelle immediate vicinanze (Rocchette) aree artigianali ben distinte dal resto dell’insediamento, costituite da tettoie, impianti produttivi, aree di discarica dei resti di lavorazione. Al contrario, lo sfruttamento delle altre risorse territoriali, agricole ad esempio, segna un momento d’invisibilità, come nel caso di Monterotondo M.mo dove si ha la totale scomparsa d’immagazzinamento di cereali, in maniera collettiva o singola. Si può ipotizzare che adesso, in campagna, avvenga solo la coltivazione ed il raccolto sia convogliato in centri intermedi, come i luoghi di mercato o nei centri urbani stessi, per una vendita immediata. Spostando lo sguardo al paesaggio e potendo riflettere anche sull’ambiente naturale, per il quale purtroppo i dati archeobotanici raccolti sono ancora in difetto per una ricostruzione diacronica dei cambiamenti avvenuti,

possiamo però ipotizzare che notevoli devono essere stati i cambiamenti determinati da due secoli (XII e XIII) di sfruttamento intensivo dei luoghi di cava e delle foreste per raccogliere il combustibile necessario per le officine20. Dal XII secolo si riscontrano maggiori evidenze relative ai gestori dei siti, in particolare la casata nobiliare degli Aldobrandeschi e dei Pannocchieschi, ma bisogna registrare anche un livellamento degli abitanti dei castelli, pur nell’ambito di un generalizzato benessere che ci permette di assimilare alcuni dei loro consumi ai livelli riscontrati in città. Lo sviluppo della signoria territoriale sembrerebbe avere inserito la popolazione nell’ambito di un sistema protetto e controllato, nel quale in cambio di doveri da espletare e tassazioni da pagare (quello che viene definito “potere di coercizione”) si ricevevano protezione e garanzie di una determinata qualità di vita, a scapito della riconoscibilità delle singole comunità (FRANCOVICH, GINATEMPO 2000, p. 24). 2.4 Le trasformazioni degli insediamenti nel passaggio dalla gestione signorile a quella comunale (m. XIIIXIV secolo) Dalla seconda metà del Duecento, il dato fondamentale da cui partire per spiegare le numerose trasformazioni che si ebbero nel tessuto insediativo delle Colline Metallifere è di ordine politico e consiste nel documentato subentro delle autorità cittadine e comunali nella gestione dei siti, principalmente Massa Marittima e Siena, ma anche Firenze per il castello di Montieri. Vari atti scritti testimoniano l’acquisto da parte dei Comuni di quote dei castelli e, in contemporanea, il progressivo inurbamento di esponenti delle maggiori casate signorili, come avvenne per i Pannocchieschi a Massa Marittima (FARINELLI, FRANCOVICH 1999, pp. 480-481). I Comuni investirono nelle risorse prevalenti e subentrarono ai poteri signorili con l’imposizione di giuramenti di fedeltà da parte delle comunità stesse. Laddove erano presenti risorse molto importanti, come quelle minerarie per Rocchette e Cugnano, si attuò da parte delle autorità comunali un ripopolamento e la strutturazione di nuove aree artigianali oppure, in altri casi, si delegò la gestione a guarnigioni militari come avvenne a Monterotondo e Montemassi (FARINELLI 2007, pp. 168-173). Certamente, come sarà analizzato per Rocchette nel capitolo sui metalli (vedi contributo di Belli) si ebbe una crescente militarizzazione, caratterizzata dal forte incremento della presenza di armi personali e di armi da lungo getto nei ritrovamenti dei castelli (DE LUCA, FARINELLI 2002). Tutti questi fattori portarono ad una nuova conformazione urbanistica, caratterizzata da un lato dalla nascita di nuove aree di borgo, anche esterne alle mura del castello (ad esempio a Rocchette) e dall’altro dalla trasformazione delle aree di pertinenza signorile, per renderle funzionali all’alloggio delle guarnigioni militari,

riconducibili al XII secolo, bensì solo a quello successivo. Ciò ha condotto gli archeologi ad ipotizzare che forse, in un primo momento, queste abitazioni potessero essere ancora in materiale deperibile (BIANCHI 2010, p. 101). 19 A Rocchette era presente la chiesa di “S. Andrea” dal 1179 ed a Cugnano quella dedicata a “S. Michele Arcangelo”, attestata dal 1261, mentre a Monterotondo non è attestato un edificio ecclesiastico nè da fonte scritta nè da fonte archeologica (FARINELLI 2007).

20 E’ in corso il dottorato di ricerca di Mauro Buonincontri (Tutor Gaetano Di Pasquale - Università Federico II di Napoli) dedicato alla ricostruzione dei paesaggi della Toscana meridionale attraverso i dati carpologici ed antracologici provenienti dai siti menzionati nel testo.

33

creando ambienti ad uso di magazzino, stalle, forni da pane e cisterne per le nuove esigenze quotidiane. In ogni caso, il XIV secolo segnò la destrutturazione delle aree signorili in quanto tali, riportando alcune abitazioni nelle sommità dei siti, come avvenne a Rocchette e Montemassi. L’allargamento delle aree di borgo nei siti produttivi può essere letto come tentativo di rendere maggiormente vantaggioso lo sfruttamento delle risorse minerarie innalzando la produttività con un maggior numero di persone che concorrevano al processo produttivo, rispondendo così al maggior bisogno di materia prima da parte dei comuni cittadini (Fig. 3). Inoltre, i comuni cittadini, dei quali Massa Marittima è esemplificativa, crearono anche centri di produzione specializzati, sorti lungo corsi d’acqua e che ne sfruttavano l’energia in maniera più funzionale dei castelli stessi (GUIDERI 1996, pp. conclusive). Assieme all’allargamento del borgo, l’altra ristrutturazione che i comuni fecero fu quella che investì le aree artigianali dei castelli: a Rocchette e Cugnano si allestirono zone produttive e nuove viabilità di accesso, per ottimizzare il volume della produzione. Infatti, le analisi archeometriche e quantitative sui volumi delle scorie metalliche effettuate nel corso della ricerca di Guideri (1996) dimostrarono che tecnologicamente le scorie frutto di questa fase di lavoro erano identiche a quelle delle fasi di gestione signorile dei siti e dunque si ipotizzò che l’efficienza tecnologica dei processi fosse già stata raggiunta nel corso del XII secolo, all’interno dei castelli, seppur privi di energia idraulica. Quello che i comuni tentarono, inserendosi nei castelli minerari, fu dunque un tentativo di “ottimizzazione delle risorse ed incremento dei volumi di produzione” (GUIDERI 1996, p. 144). E’ dunque da capire se dietro a questi cambiamenti (incremento delle aree di borgo e costruzione di nuove aree produttive) non vi potesse essere anche una gestione effettuata sul modello delle compagnie private attive nell’area di Montieri, dove più soggetti potevano sfruttare le miniere dietro il pagamento di un canone al proprietario (nel caso di Montieri prevalentemente il vescovo di Volterra) per ottenere proventi diretti dalla moneta prodotta (si veda contributo di Bruttini). A livello urbanistico questa scelta imprenditoriale si concretizzò nei nuovi borghi costruiti a volte anche all’esterno della cinta muraria (come a Rocchette) per ripopolare i castelli ed aumentare la forza lavoro; nella destrutturazione delle aree signorili, spesso usate come luogo di abitazione; nella nascita di poli artigianali dentro le mura (a Cugnano, BRUTTINI, FICHERA, GRASSI 2010) o fuori del castello (Rocchette) ed infine nelle tracce sempre più consistenti di uso degli edifici produttivi, come per le Fonderie di Montieri (BRUTTINI, GRASSI 2010b). Tra XIII e XIV secolo abbiamo anche le maggiori testimonianze delle comunità, attraverso i documenti, con il Breve di Montieri (VOLPE 1961) e lo Statuto Minerario di Massa Marittima, analizzato nel terzo capitolo di questo volume (BALDINACCI, FABRETTI 1989). Queste comunità ed il loro lavoro minerario sono difatti regolamentati da una serie di norme sulle varie fasi del

lavoro minerario, convalidate anche dai poteri pubblici. A Massa Marittima, ad esempio, il Vescovo cedette nel 1225 al Comune cittadino tutti i diritti sul territorio e sullo sfruttamento delle locali miniere, producendo una riorganizzazione della produzione metallurgica, maggiormente concentrata in aree preposte, sempre vicine a corsi d’acqua (FRANCOVICH, FARINELLI 1995). Infine, nella topografia dei castelli, non sembra venire meno la presenza di un edificio ecclesiastico, purtroppo in alcuni casi (Rocchette e Cugnano, ad esempio) documentato solo dalla fonte scritta, ma non a Montemassi, nel quale si registra lo spostamento della chiesa dalla parte alta al borgo sottostante (l’attuale chiesa di S. Andrea) e Rocca degli Alberti, dove si ha da questo momento la presenza della chiesa, dedicata a San Lorenzo, anch’essa esterna alla zona fortificata di pertinenza signorile. Gli oggetti che si trovano nei siti non mostrano segni di distinzioni sociali e soltanto la permanenza di guarnigioni a presidio dei castelli si asscoia ad una maggiore presenza di ceramica per la tavola, rispetto alle altre classi funzionali. C’è, in ogni modo, da notare che tra XIII e XIV secolo la diffusione della ceramica si fece capillare, e non solo nei castelli, ma in ogni tipo di insediamento rurale ed anche le nuove ceramiche con rivestimenti prodotte nei centri urbani a partire dal 1210 (maiolica arcaica e ceramica invetriata) arrivarono in ogni edificio indagato in questi siti (GRASSI 2010b, p. 143). Inoltre, i commerci, descrivibili dalle stesse presenze ceramiche furono molteplici, come mostrano le ceramiche liguri, islamiche ed i crescenti arrivi anche da aree urbane dell’entroterra, come la stessa Siena (GRASSI 2010a, pp. 59-60). Alla fine del XIV secolo si chiuse il ciclo di vita di alcuni di questi insediamenti, principalmente quelli a diretta vocazione mineraria come Rocchette e Cugnano, la cui popolazione, composta in parte da artigiani specializzati, confluì in quei siti che rimasero invece vivi come centri di popolamento, tra cui la stessa Massa Marittima, ma anche Montieri e Monterotondo Marittimo. F. Grassi

34

Fig. 3: ricostruzione del castello di Rocchette nel XIV secolo (ideata e realizzata da Daniele De Luca)

35

rilievo presente al centro delle quattro doline ed era raggiungibile da due viabilità, una prima corrispondente alla strada attuale che taglia il versante del poggio Trifonti e dalla quale si poteva osservare, nel medioevo, un grande fossato artificiale, ed una seconda che permetteva di giungere a Rocchette dalla base della dolina A, dove a partire dall’XI secolo si trovava la porta di accesso al castello e un’area artigianale lungo la dolina stessa (Fig. 2).

II. Le ricerche nel sito di Rocchette Pannocchieschi (Massa M.ma, Gr) 1. Lo scavo e l’analisi degli elevati F. Grassi, G. Fichera Il castello di Rocchette Pannocchieschi (indicato sulla cartografia IGM come Podere Lecceta) si trova sul versante sud del Poggio Trifonti, rivolto verso Massa Marittima, il golfo di Follonica e Piombino, immerso in un bosco di recente impianto, costituito da lecci, querce e faggi (quota 450 metri s.l.m.) (Fig. 1).

Fig. 2: planimetria del sito di Rocchette Pannocchieschi (elaborata da Enrica Boldrini) Le doline, interpretate dunque come sprofondamenti carsici (non infrequenti nella zona) furono accentuate dall'escavazione, a cielo aperto, delle vene di metallo affiorante o di materiali da costruzione (PESTELLI 19921993; BIANCHI, BOLDRINI, DE LUCA 1994). Queste 4 cavità hanno diametri e profondità diverse, che si aggirano in ogni modo sui 100 m. di diametro e sui 20 m. di profondità. Dal fondo della dolina detta A si alza un terrapieno di circa 5 m. di larghezza ed un muro a retta che risale verso la sommità. Si tratta con ogni probabilità di un sistema di discesa e risalita collegato alle attività di escavazione, riutilizzato in epoca recente per terrazzamenti agricoli. Questa dolina presentava al suo interno un grande volume di scorie, prodotto delle lavorazioni che si svolgevano negli ambienti artigianali costruiti nel corso del XII secolo al di fuori della porta del castello. Anche la dolina detta B, la più grande, presentava sul fronte occidentale, a diretto contatto con un'area artigianale edificata nel medioevo (area 1000) un ingente scarico di scorie, il che ha permesso di ipotizzare, come detto, che gli edifici su di essa affacciati fossero pertinenti alle attività di lavorazione metallurgica. La terza dolina, detta C, era costeggiata da un muro di definizione/contenimento. Su un fianco di questa dolina è stata effettuata una ripulitura dal sottobosco che ha evidenziato un'area di pietrame minuto forse da correlare all'attività estrattiva ed un'area pianeggiante, destinata a carbonaia. Infine anche la dolina detta D presentava tracce di cava e di discarica.

Fig. 1: ubicazione del sito di Rocchette Pannocchieschi La sommità del Poggio (quota 599 m. s.l.m.) non fu mai insediata in età medievale ed è oggi occupata dal Podere Trifonte che risale all’inizio del XX secolo (PESTELLI 1992-1993). La morfologia dell’area varia dai 600 metri della sommità alla piana alluvionale del torrente Ritorto a quota 250 metri e si presenta di tipo collinare con pendenze non elevate. Dal punto di vista geologico la zona di Trifonti si colloca sul bordo occidentale di un vasto affioramento di calcare cavernoso, molto esteso e posto a contatto con una vasta coltre di copertura di età più recente, composta di terreni facenti parte delle unità Liguri rappresentate da argilloscisti con calcari silicei (argille a Palombini) (Toscana Meridionale, pp. 85-86). Sull’affioramento di calcari cavernosi sono localizzati numerosi fenomeni carsici, quali doline e grotte. Infatti, la scelta del luogo in cui fondare l’insediamento sembra strettamente collegata alla presenza di quattro grandi sprofondamenti, in parte naturali, accentuati dall’utilizzo che ne fu fatto nel corso dei secoli. Le quattro doline segnano profondamente il paesaggio intorno a Rocchette ed oggi, nonostante la presenza del bosco che le ricopre interamente, rimangono ancora ben visibili. L’insediamento fu dunque costruito nell’unico 36

Il castello di Rocchette dovette sfruttare nel medioevo non solo le risorse minerarie che provenivano dall’uso e dall’approfondimento delle doline, ma sicuramente anche i numerosi giacimenti minerari che si trovano sul Poggio Lecceta, in uso già dal periodo etrusco, e documentati con il nome di giacimento del “Piastraio”, nel quale trovava ubicazione anche il castello minerario di Cugnano (BALDINACCI, FABRETTI 1989, p. 152). In tutta l’area di Trifonti è infatti presente una mineralizzazione polimetallica diffusa inserita nel calcare cavernoso che forma, come detto, l’affioramento più importante, dal punto di vista geologico, di tutta la zona (DALLAI 2005). Il castello di Rocchette si sviluppa su un’area di circa 2500 mq., all’interno di un circuito murario di forma trapezoidale che racchiude due aree distinte per quota e per destinazione funzionale; una prima (area 300-500600-4000), posta sul rilievo sommitale che è interpretabile nel bassomedioevo come zona a pertinenza signorile, in base alla tipologia degli edifici, ed una seconda che comprende una serie di case e di ambienti di servizio disposti su tre fasce altimetriche e censibili per difetto in circa 15 unità (area 2000-3000). Le due parti del castello sono oggi racchiuse da un’unica cinta muraria e sono in collegamento tra loro per mezzo di una viabilità, posta lungo i fianchi dello sperone roccioso su cui sorge l’area di sommità. All’esterno della cinta muraria si sviluppano invece tre aree insediative, una relativa ad abitazioni disposte lungo la cinta ed a ridosso della dolina B (circa 14 unità); una relativa ad un’area artigianale (area 5000) tra le doline A e B, costituita da 3 ambienti rettangolari e da 2 aree in parte delimitate da murature ed infine un’ulteriore area artigianale (area 1000) posta tra le doline B e C che comprende 5 ambienti costruiti solo nel corso del XIV secolo. Con l’aggiunta delle aree esterne alle mura la superficie occupata dall’intero sito archeologico ed insediata nel medioevo era di circa 3200 mq.

AREA

LOCALIZZAZIONE

AMBIENTE

500

torre e cisterna

--------

300 600

area sommitale esterna agli edifici

--------

1000

area artigianale tra le doline B e C

29, 30, 31, 32, 33

2000

porta del borgo

--------

3000

angolo ovest del borgo

34, 35, 36, 37

4000

area sommitale

--------

5000

area artigianale tra le doline A e B

10, 11, 12, 13, 14

------

borgo interno alle mura borgo esterno alle mura borgo sul margine della dolina B

1-9

TIPO DI INTERVENTO scavo stratigrafico e lettura elevati scavo stratigrafico e lettura elevati scavo stratigrafico e lettura elevati scavo stratigrafico e lettura elevati scavo stratigrafico e lettura elevati scavo stratigrafico e lettura elevati scavo stratigrafico e lettura elevati lettura elevati

19, 20, 23, 24

lettura elevati

15-18, 21, 22, 25-28

lettura elevati

-----------

Fig. 3: elenco e definizione delle aree e degli ambienti oggetto di scavo e/o di lettura degli elevati

Nel complesso sono state oggetto di scavo 7 aree distinte del castello; a questo si è aggiunto un lavoro analitico sulle murature di tutto il castello che ha interessato dunque non solo le aree scavate, ma anche 23 ambienti individuati dopo una ripulitura di tutto l’insediamento, posti sia all’interno sia all’esterno della cinta muraria. Lo scavo ha riguardato, nel dettaglio, un’area interna alle mura, nel borgo (area 3000) e la porta di accesso (area 2000), nella parte opposta; l’area sommitale (area 300500-600-4000), ad eccezione dell’edificio signorile, scavato solo in parte ed infine l’area artigianale esterna alle mura tra le doline B e C (area 1000) ed una seconda area esterna alle mura, costituita da alcuni ambienti artigianali (area 5000) (Figg. 3-4). Lo studio della sequenza stratigrafica emersa dallo scavo si è svolto parallelamente alle campagne sul sito, con la pubblicazione preliminare di resoconti, volti ad affrontare singole problematiche emerse nel corso degli anni (BIANCHI, BOLDRINI, DE LUCA 1994; ALBERTI et alii 1997; BELLI, DE LUCA, GRASSI 2003; BELLI, GRASSI 2005).

Fig. 4: planimetria con evidenziate le aree oggetto di scavo ed il numero assegnato durante i lavori di ricerca agli ambienti interni ed esterni alla cinta muraria

37

In questa sede viene tentato un lavoro di sintesi di tutti i dati, con l’aggiunta di vario materiale inedito, organizzato all’interno di una sequenza cronologica divisa complessivamente in quattro Periodi ed undici Fasi comprese tra l’VIII ed il primo quarto del XV secolo, quando vi fu il definitivo abbandono del castello di Rocchette (Fig. 5). PERIODO Periodo I

FASE fase 1

CRONOLOGIA VIII-metà IX secolo

fase 2

fine IX secolo

fase 3

X secolo

fase 4

fine X-inizio XI secolo XI secolo

Periodo II

fase 1

Periodo III

fase 2 fase 1

fine XI secolo XII secolo-prima metà XIII secolo

fase 2

seconda metà XIII secolo prima metà XIV secolo

Periodo IV

fase 1 fase 2 fase 3

seconda metà XIV secolo primo quarto XV secolo

DEFINIZIONE impianto e vita del villaggio di capanne ridefinizione del villaggio impianto e vita della cinta muraria e di un’area artigianale abbandono del villaggio definizione del castello modifiche interne ridefinizione del castello Pannocchieschi trasformazioni di alcune aree nuove edificazioni da parte del comune di Massa Marittima vita delle nuove aree edificate fase di abbandono finale

Fig. 5: elenco dei periodi e delle fasi individuate nello scavo L’esposizione dei dati stratigrafici è stata organizzata in blocchi cronologici rappresentati dai Periodi e dalle Fasi individuati nel corso dello scavo; al loro interno si è privilegiata una descrizione delle strutture, per le fasi altomedievali, e degli ambienti per tutti i secoli bassomedievali. Sia le strutture sia gli ambienti vengono descritti attraverso le singole attività registrate nella rielaborazione della stratigrafia e richiamate in sintesi nel diagramma stratigrafico (Fig. 6) ed in forma di tabella nei singoli paragrafi dedicati alla sequenza insediativa del sito. Infine, tutta la sequenza stratigrafica, nell’ambito della scansione cronologica, è stata suddivisa tra le evidenze orizzontali (lo scavo) e quelle verticali (lettura degli elevati), esposte in maniera distinta per semplificare la lettura della sequenza stessa. Francesca Grassi

38

Fig. 6: diagramma stratigrafico delle Attività elaborate per lo scavo di Rocchette Pannocchieschi

39

1. PERIODO I (VIII-inizio XI secolo)

Campione Data RO900 1145 -36

Fase 1 VIII - metà IX secolo Nella parte sommitale del sito, costituita da un’area pari circa a 500 metri quadrati, sono state individuate le tracce relative alle prime fasi insediative di Rocchette. Pur trattandosi di evidenze molto labili, perlopiù rimaste in negativo sul suolo naturale, è stato possibile interpretarle come un villaggio costituito da capanne destinate ad abitazioni e strutture di servizio, collegate alle attività svolte dagli abitanti. Scendendo lungo i fianchi di questo agglomerato di roccia, interessato dalle capanne del villaggio, si può ipotizzare un’ulteriore area occupata da edifici in legno costruiti sfruttando le pareti della roccia, dei quali sono visibili le numerose tracce relative ad incastri e travi. Di questa conformazione rupestre del sito abbiamo un’immagine eloquente in una matrice per sigillo di bronzo relativa alla Comunità di Rocchette nel XIV secolo, ma che ci mostrerebbe una consuetudine legata allo sfruttamento della “rocchetta” quale area di abitato semirupestre1. La prima forma insediativa riconosciuta non sembra ancora provvista di alcuna recinzione né lignea né in muratura. Si può tuttavia ipotizzare che il villaggio fosse naturalmente difeso, innanzitutto dalla sua ubicazione e secondariamente dall’escavazione di un fossato artificiale nella zona che risultava più raggiungibile, dove si trova l’attuale strada di accesso che riprende la stessa viabilità antica (PESTELLI 1992-1993). Per il periodo altomedievale possediamo un solo atto documentario su questo areale, relativo ad un corpo di documenti sul vicino monastero di San Regolo in Gualdo (COLLAVINI 2007b), datati 826 d.C., nel quale Alperto, rettore di San Regolo ed esponente della famiglia Aldobrandeschi, concesse a livello “casa et res posita in loco Paganico ad un tal Simprando del fu Sasso de Trifonte” (ALBERTI et alii 1997, p. 80). Tale documento, richiamando la località Trifonte di cui sarebbe stato originario “Sasso”, sembra attestare la presenza di un nucleo socio-insediativo sul Poggio stesso, anteriore all’anno 826 ed identificabile con l’unico sito ritrovato archeologicamente, ovvero Rocchette. I dati materiali, acquisiti tramite le campagne di scavo, permettono di confermare questa datazione e di definire la forma ed il ruolo economico di questo primo insediamento, proprio nel momento della sua formazione. La cronologia assoluta di questa prima fase insediativa, dal punto di vista archeologico, è costituita infatti da alcuni campioni di carbone sottoposti ad analisi radiocarboniche (effettuate presso Università di Utrecht, Faculteit Natuur en Sterrenkunde, R.J. Van de Graaff Laboratorium) che hanno fornito una datazione compresa tra il 780 ed il 990 d.C. (Fig. 7).

1 sigma (68,2 %) 870-980 780-790 830-840

2 sigma (95,4 %) 780-990

Fig. 7: datazioni radiocarboniche del campione relativo al periodo I Di questa cronologia, ottenuta con l’analisi radiocarbonica di un carbone appartenente al riempimento di una delle buche di palo relative alla struttura seminterrata denominata 4 (Attività 132, us 900), è stata considerata la cesura più alta, compresa tra fine VIII e IX secolo, escludendo per certo il X secolo, pur se indicato tra le possibilità, in quanto i materiali ceramici collegati a questa fase, sigillati dalla struttura denominata 7 ed inserita (sempre in base al radiocarbonio, vedi infra) nel Periodo I, fase 3, hanno permesso di affinare la datazione in tal senso. Descrizione delle evidenze del Periodo I Tutta la porzione sommitale dell’insediamento di Rocchette (Figg. 8-9) è caratterizzata da una bipartizione tra una zona decisamente sopraelevata (mq. 40) rispetto al resto dell’area, occupata nelle prime fasi insediative del sito da una sola abitazione, costruita a livello del suolo ad armatura di pali (struttura 1), ed una zona sottostante molto ampia, in parte livellata artificialmente, che è interessata da una capanna abitativa costruita a livello del suolo con canaletta perimetrale (struttura 2) e da due capanne con funzione di servizio del tipo semiscavato (struttura 3 e struttura 4).

Fig. 8: pianta del periodo I, fase 1 (VIII-metà IX secolo) (elaborata da BELLI, DE LUCA, GRASSI 2003) Le strutture interpretate come non abitative sono del tipo semiscavato, provviste di armatura di pali e con un’intercapedine scavata tra il pavimento, forse ligneo, ed il fondo della struttura (Struttura 3 e 4).

1

Si tratta di una matrice per sigillo in bronzo, conservata presso il Museo Nazionale del Bargello (Firenze), edita in MUZZI, TOMASELLO, TORI 1990.

40

Fig. 9: tabella delle attività registrate nel Periodo I- fase 1 in prossimità del limite del pendio, presenta uno sperone rialzato. L’estensione di questa capanna, per quanto si è potuto ipotizzare, doveva essere di circa 11 mq., con una larghezza di circa 2,5 metri ed una lunghezza di 5 metri. Sempre in via ipotetica si può presumere che l’ingresso della capanna fosse posizionato sul lato dove è stata rinvenuta una buca di rinforzo relativa all’angolo della struttura e che la casa fosse provvista di un tetto di paglia a due spioventi (Fig. 11). Il piano di calpestio poteva essere costituito da un semplice battuto di terra oppure dalla roccia stessa, mentre sono assenti resti di focolari interni od esterni all’abitazione. Nella parte est della stessa area, in prossimità delle buche di palo, sono stati inoltre portati in luce due tagli di più grandi dimensioni, a profilo irregolare e di non eccessiva profondità, che sembrano da interpretarsi quali vasche per la raccolta delle acque piovane (attività 5-7-9); infatti,

Struttura 1 (attività 4, 5, 6, 7, 9): Sul piano di roccia più alto di tutto l’insediamento sono state individuate dieci buche di palo, scavate nella roccia, interpretate come i resti di una capanna costruita a livello del suolo con armatura di pali (attività 4-6; Fig. 10). Purtroppo, l’assoluta mancanza di livelli d’uso, nonché la morfologia stessa dell’area, sottoposta ad un naturale dilavamento, non hanno permesso di definire nel complesso la planimetria della struttura, per quanto il posizionamento delle buche orienti verso una pianta di forma rettangolare di cui rimane l’angolo ovest, evidenziabile tramite una buca di rinforzo, e parte dei perimetrali sui lati ovest e nord. Non è da escludere che la casa in questione appoggiasse direttamente sul banco roccioso; infatti, per quanto la conformazione superficiale della roccia sia quasi del tutto snaturata dagli interventi successivi di livellamento, tuttavia, in un angolo dell’area rimane leggibile l’andamento naturale del suolo, il quale, 41

Fig. 10: planimetria della struttura 1

Le tracce appena descritte non hanno restituito nessun elemento relativo alla cultura materiale di chi vi abitò, ed è dunque possibile ipotizzare che vi sia stato un livellamento operato nel corso dell’impianto delle successive strutture della torre relative al XII secolo. Conferma questa ipotesi anche la minima profondità di tutte le tracce ritrovate nella roccia, come gli alloggi per i pali perimetrali e le cisterne per l’acqua. Questa abitazione rimase in vita anche durante la successiva fase in cui vi fu, nel pianoro sottostante, l’impianto di una tettoia per un’area artigianale (si veda infra, fase 3). Struttura 2 (attività 101, 104, 105, 106, 108, 109, 160): la struttura 2, interpretata come un’abitazione, si trova nel dislivello sottostante, adiacente ai resti di altre due strutture in materiale deperibile; è costruita a livello del suolo, ma a differenza della struttura 1 è inseribile tra i tipi abitativi con canaletta perimetrale (Fig. 12). In particolare, le evidenze consistono in un taglio stretto ad andamento semiovale (largo in media 30 centimetri, profondo da 10-15 centimetri, sviluppato per una lunghezza di circa 4,60 metri), probabilmente funzionale quale alloggio di una serie di pali lignei o di un assito continuo (attività 101-106, Fig. 13).

Fig. 11: la struttura 1 alla fine dello scavo una delle due si collega ad una canaletta, anch’essa scavata nella roccia, funzionale al convogliamento dell’acqua. Tale abitazione non sembra presentare nessun elemento sociale di rilievo (quali partizioni interne o dimensione della superficie abitabile), ad eccezione della posizione soprelevata rispetto alle altre capanne del villaggio. 42

Le dimensioni della struttura sono di circa 4,60 metri in lunghezza e di 2,5 metri in larghezza, dunque del tutto simili alla capanna rettangolare soprastante. Non è facilmente ipotizzabile l’ubicazione dell’ingresso, sebbene alcune analisi funzionali effettuate sul battuto della casa (si veda infra, contributo di Pecci) permettano di considerare come tale la parte a valle. Sempre dalle analisi funzionali si evince l’uso di uno spazio immediatamente esterno alla capanna come area di discarica dei resti organici e delle ceneri relative ai due focolari interni (attività 160). All’esterno della capanna invece è stato individuato un piano di pietre disposte di piatto, di forma circolare, composto da arenaria e porfido (ben disposte sul terreno, ma legate esclusivamente da terra), del diametro di un metro e cinquanta. Questa evidenza, interpretata come focolare, presentava al di sopra uno strato relativo all’uso, composto da argilla cotta e carboni (attività 105-108) La forma, le dimensioni e la presenza di numerosi focolari non lasciano dunque dubbi sull’uso abitativo di questa capanna, mentre una parziale difficoltà di lettura ed interpretazione delle evidenze materiali è stata determinata, come per la struttura 1, dalla ripulitura e rasatura di tutta l’area nella fase immediatamente successiva, al fine di colmare il dislivello che caratterizza questa zona per impiantare l’area artigianale (vedi infra, fase 3). Infatti, mentre la struttura 1, continuò a vivere assieme alla nuova disposizione dell’area ed andò incontro ad una distruzione solo nell’XI secolo, l’edificio appena descritto ed il deposito relativo fu abbandonato e distrutto per effettuare un ampio livellamento finalizzato all’ampliamento dello spazio costruibile.

All’interno del taglio perimetrale si trova un piano di argilla che costituiva il battuto della casa, caratterizzato da due arrossamenti nella parte centrale. Tali lenti di argilla, interpretabili come focolari, sono circolari e con

Fig. 12: planimetria della struttura 2 diametro variabile tra 1,70 metri e 70 centimetri; al loro interno erano presenti deboli quantità di carboni (attività 104-109). Inoltre, la parte centrale della capanna era interessata da due piccole buche per pali interni, parallele al lato corto della struttura stessa.

Fig. 14: particolare dei focolari della struttura 2 Struttura 3 (attività 112, 114, 169): sullo stesso terrazzamento dove è edificata la casa 2, trovano spazio due strutture di tipo semiscavato, forse non abitative. La prima, denominata struttura 3, è semiscavata, provvista di armatura di pali e con un’intercapedine tra il pavimento, forse ligneo, ed il fondo della capanna. Le sue tracce sono costituite da una fossa circolare ricavata sulla roccia, molto irregolare, di oltre due metri di diametro e di debole profondità (Figg. 15-16). Nelle pareti del taglio circolare si individuano almeno tre

Fig. 13: la struttura 2 in corso di scavo

43

Fig. 15: planimetria della struttura 3 e 4 Tuttavia, si propone un’interpretazione quale struttura non abitativa, di forma circolare, collegata alla adiacente casa 2, e destinata alla raccolta di attrezzi o all’immagazzinamento delle derrate alimentari. A tale proposito, l’ipotesi di un piano pavimentale rialzato, forse realizzato in legno, suggerirebbe il bisogno di isolare dal terreno e dall’umidità ciò che si trovava all’interno; si è infatti constatato che nelle altre due abitazioni i pavimenti erano ricavati direttamente sul terreno argilloso, senza nessuna modalità di copertura. Nessuna delle evidenze materiali recuperate all’interno della fossa ci permette di affinare maggiormente l’interpretazione. L’abbandono di questa struttura fu coevo a quello della struttura 2.

incastri per un piano ligneo ed una porzione della fossa è parzialmente rialzata, forse per lo stesso scopo (attività 112-114). Collegati a questa struttura vi sono alloggi per pali lignei, interpretati come sostegni relativi ad una tettoia che si trovava addossata al lato dello sperone roccioso, sui cui era edificata la struttura denominata 1 e due vaschette per la raccolta delle acque (attività 169).

Struttura 4 (attività 123, 135, 170, 171, 172): la struttura denominata 4, sempre di tipo semiscavato con un’intercapedine tra il pavimento ed il fondo, si trova al centro di un enorme taglio di origine antropica volto a creare un terrazzo orizzontale al disotto della rupe sulla quale è collocata la struttura 1 (attività 170, vedi fig.15). Questa area pianeggiante, utilizzata in parte come zona aperta, presenta un calpestio costituito da alcuni strati sui quali erano poste poche lastre disposte di piatto, con probabilità la labile traccia di un lastricato (attività 135). Sul livellamento orizzontale della roccia, lo scavo ha messo in luce una fossa di forma irregolare, formata da una porzione contraddistinta da una lieve profondità e da un approfondimento a nord, che raggiunge l’altezza quasi di un metro. Tale fossa appare circondata da sette buche

Fig. 16: la struttura 3 in corso di scavo Tutte le evidenze descritte, tagli e buche per pali, sono caratterizzate da un minimo spessore, tale da fare pensare ad una vasta operazione di livellamento che avrebbe ridotto notevolmente l’originaria profondità degli incassi. 44

per pali di forma circolare (attività 123, diametri dai 30 ai 50 centimetri e profondità di circa 50 centimetri) (Fig. 17).

I depositi archeologici indagati hanno mostrato che la vita della struttura 2 e della struttura 3 non si protrasse oltre la fine del IX secolo; infatti, entrambe le capanne furono abbandonate e rasate ed i loro depositi furono utilizzati in parte per colmare un dislivello presente a valle della struttura 2, dove, nel corso del secolo successivo (si veda infra, fase 3, attività 113), verrà organizzata un’area artigianale (Figg. 18-19).

Fig. 17: la struttura 4 in corso di scavo, obliterata dal deposito relativo al suo abbandono Inoltre, a valle della capanna, è stata messa in evidenza una canaletta, anch’essa scavata nella roccia, funzionale allo smaltimento delle acque (attività 171). Tutte le evidenze descritte sono riferibili ad una capanna semiscavata, di forma rettangolare (la lunghezza massima è 4,20 m. e la larghezza è di circa 2 m.) e con il tetto a due spioventi. La presenza di semi nei depositi relativi all’abbandono delle buche di palo potrebbe rappresentare un indicatore della funzione della capanna, ma i quantitativi di granaglie raccolti, relativi a cereali nudi per la panificazione, lenticchie e piselli (vedi infra, contributo di Di Pasquale, Di Falco, Buonincontri) non farebbero propendere per un accatastamento relativo a tutto il villaggio, ma per una riserva ad uso personale. La parete di roccia retrostante questa capanna è inoltre caratterizzata da alcuni tagli: sulla superficie verticale si individua un incasso quadrangolare e sul suolo di calpestio, scavata direttamente sulla roccia, vi è una vaschetta di forma rettangolare e di lieve spessore (attività 172). Non sono stati ritrovati focolari pertinenti a questa capanna, né esterni né tantomeno interni ed anche il piano di calpestio interno è stato ipotizzato in legno, ma nel riempimento relativo all’abbandono di questa superficie non vi erano tracce di carboni o resti lignei di alcun tipo. Infatti, al momento dell’abbandono di questa struttura, nell’XI secolo, vi fu un riuso come area di discarica, al fine di colmare il dislivello che formava l’intercapedine tra il pavimento ed il suolo.

Fig. 18: uno degli strati relativi al livellamento operato con i depositi rimossi dalle strutture 2 e 3 Entrambi gli abbandoni non sembrano determinati da eventi traumatici, quali incendi, dato che i depositi non hanno restituito livelli di carboni, ma piuttosto da una nuova volontà organizzativa che si esplicherà nella realizzazione di un’area deputata alla lavorazione dei metalli, la più antica tra quelle riconosciute nel sito di Rocchette. Nessuna testimonianza scritta ci dice se tale cambiamento fu concomitante ad un passaggio di poteri oppure ad una nuova gestione dell’insediamento, ma il dato materiale permette di evidenziare una cesura netta rappresentata dalla destinazione funzionale e da una prima chiusura in muratura di tutta l’area. La capanna 2, interpretata come casa, viene abbandonata e tutta l’area sottoposta ad un livellamento che ha lasciato in situ soltanto minimi depositi (attività 111), utilizzati per datare questa operazione di ridefinizione degli spazi. Uguale sorte ebbe la capanna 3, il cui abbandono (attività 121) fu precedente ad una rasatura della roccia di tutta l’area interessata dalla struttura e dalla tettoia retrostante; tale zona in seguito fu adibita ad area di accesso all’impianto artigianale. Fase 3 X secolo Nel corso del X secolo l’area sommitale del poggio fu chiusa con l’impianto di una cinta muraria di cui rimane un breve tratto, sul versante nord dell’area, che delimita circa 780mq. di superficie. La cinta, posta al limite del degradare naturale del balzo roccioso, chiudeva un’area ristretta, mentre la chiusura sul versante sud era costituita dal balzo naturale della rupe, dovuto alla presenza di una delle doline. L’accesso all’insediamento avveniva, come per i periodi precedenti, in corrispondenza della zona

Fase 2 Fine IX secolo A partire dalla fine del IX secolo è stato possibile riconoscere un cambiamento di assetto di tutta l’area abitata che comportò l’abbandono di due capanne e la trasformazione dell’area precedentemente occupata da tali strutture. 45

Fig. 19: tabella delle attività registrate nel Periodo I- fase 2 e 3 ovest, unico versante dove l’andamento della roccia risultava meno impervio. Ancora nel X secolo, dunque, sembra permanere un assetto molto accentrato dell’area insediata, individuabile nella sola parte alta del sito, mentre i terrazzamenti sottostanti non hanno mostrato forme di occupazione così antiche, per quanto la percentuale ridotta di indagini sul borgo stesso possa falsare tale interpretazione. Dunque, accanto alle due case rimaste in vita nella parte sommitale (struttura 1 e struttura 4) è presumibile che, per quanto non abbiamo dati stratigrafici e cronologici certi, si mantengano in uso anche le capanne di tipo semirupestre ipotizzate nella prima fase insediativa al di sotto dello sperone roccioso sommitale (si veda supra). L’altro dato di rilievo, relativamente a questa fase, è costituito dal cambiamento funzionale di parte dell’area che acquisisce una connotazione artigianale, riferibile alla lavorazione dei metalli. In particolare si viene a distinguere nettamente una zona abitativa ed una zona artigianale, di nuova definizione, che occupa tutta la fascia nord dell’area, sul terrazzamento più basso, a diretto contatto con il muro di cinta. In questo settore dell’insediamento, l’impianto delle stutture artigianali comporta, come detto, la completa rasatura della capanna ovale di fase 1 (struttura 2) e della piccola struttura circolare (struttura 3) funzionale alla raccolta dei prodotti agricoli. Le due zone, abitativa e artigianale, interne alla cinta muraria, sono, in questa fase nettamente distinte da una sorta di “recinto” sorretto da tre pali lignei portanti di cui si riscontra l’evidenza in tre buche di palo, di grandi dimensioni, individuate al centro dell’area di scavo e disposte secondo un allineamento est-ovest (struttura 5). Nell’area artigianale, direttamente sul suolo argilloso naturale, viene realizzato un profondo taglio verticale, con andamento est-ovest, il quale individua due livelli di calpestio distinti, sfalsati di quota fra di loro di circa un metro. Su questa parete si imposta l’impianto di un forno fusorio da metalli (struttura 6). A monte della

struttura fusoria, nella stessa fase, si evidenzia l’impianto di una tettoia rettangolare, addossata sul lato nord al muro di cinta e funzionale quale struttura di servizio per le attività lavorative collegate alla fornace. Al suo interno, in cui spicca l’assenza di ceramica, sono stati trovati, nei livelli d’uso, alcuni oggetti in ferro funzionali alla lavorazione del metallo. Tale struttura (struttura 7), sembra caratterizzarsi per l’essenzialità della costruzione che conduce ad ipotizzare che si trattasse più che di una vera e propria capanna, di una tettoia. Inoltre, diversamente dalle capanne costituite completamente in materiale deperibile, riferibili alle epoche precedenti, la struttura databile al X secolo si caratterizza per la tipologia di costruzione a materiali misti, in quanto, sul lato est il perimetrale risulta costituito da un elevato in materiale deperibile poggiato su di un basamento in pietra. Dalle terre di livellamento funzionali all’impianto della tettoia (struttura 7) proviene il campione di carbone sottoposto ad analisi radiocarbonica, relativo alle fasi di cantiere per la definizione dell’area e la costruzione del muro di cinta (us 907, attività 102) (Fig. 20). Campione Data 1 sigma (68,2 %) 2 sigma (95,4 %) RO907 1028 -34 984-1024 950-1050

Fig. 20: datazioni radiocarboniche del campione relativo alla fase 3 Prima di descrivere nel dettaglio tutte le strutture relative alla fase, possiamo riassumere che l’insediamento di X secolo si contraddistingue per una definita strutturalizzazione del sito dal punto di vista urbanistico ed economico. Gli elementi che permettono 46

di affermare ciò sono la presenza di un’opera di fortificazione in muratura, la presenza di attività artigianali specializzate e soprattutto una visibile divisione funzionale degli spazi (Fig. 21).

Struttura 5 (attività 116, 173) Al centro dell’area, direttamente sulla roccia, viene impiantata una “palizzata” lignea funzionale alla divisione dello spazio adibito alle attività artigianali, dall’area abitativa (Fig. 23). Tale chiusura, di cui rimangono labili tracce, risulta costituita da una recinzione sorretta tramite tre pali portanti di grandi dimensioni (attività 116), associata ad una canaletta (attività 173) che ne riprende l’andamento. Due alloggi per i pali sono di forma circolare con il diametro di circa 40 centimetri ed uno è quadrangolare (40x30 centimetri). La canaletta associata a tali pali è lunga 3 metri e larga 30 centimetri nella parte est e presenta un restringimento nella parte ovest (10 centimetri). Sulla funzione di tale evidenza possiamo fare due distinte ipotesi: che si tratti della traccia del tavolato ligneo, che costituiva la recinzione medesima, poggiato a terra e tenuto dai tre grandi pali oppure che si trattasse di una canaletta per lo smaltimento delle acque.

Muro di cinta (attività 100) Il tratto di muratura riferibile al X secolo (attività 100, us 842), messo in evidenza sul limite nord del poggio, è visibile, nella sua conformazione originaria, soltanto nella parte interna, dato che il facciavista nord risulta completamente modificato da interventi costruttivi

Fig. 21: pianta del periodo I, fase 2 (da BELLI, DE LUCA, GRASSI 2003) posteriori (Fig. 22). Il facciavista interno è invece conservato per una lunghezza di 3,30 metri e per un’altezza media di 1,90 metri. I tre filari superiori, più regolari rispetto a quelli sottostanti, probabilmente costituiscono l’unica parte restante dell’elevato del muro. La muratura è realizzata in pezzame di arenaria di medio-piccole dimensioni, legato da malta e disposte su filari resi orizzontali dagli abbondanti letti di malta, nei quali si inseriscono piccole scaglie a rincalzo. La conformazione del terreno lascia ipotizzare che la prima muratura, databile al X secolo, presentasse un andamento in senso est-ovest simile a quello seguito dalla cinta più tarda, attualmente visibile.

Fig. 23: elementi della palizzata lignea, la canaletta ed un incasso per i pali Struttura 6 (attività 102, 103, 107) L’area sottostante la struttura 1 viene adattata per l’impianto di attività artigianali e nello specifico metallurgiche, tramite un taglio verticale (attività 102) con andamento E-W, che asporta parte dei depositi correlati con la vita e l’abbandono della capanna ovale (struttura 2), creando un dislivello di circa un metro. A ridosso della parte più verticale del taglio si ricava una struttura semiscavata (struttura 6), con una forma regolare ad otto (Fig. 24).

Fig. 22: tratto di muro di cinta costruito nel X secolo

47

struttura, non permette di avanzare alcuna ipotesi dettagliata sul carattere delle attività svolte e soprattutto sul tipo di metallo prodotto. Il forno, dal punto di vista morfologico dimensionale, trova anche confronti con strutture produttive per la riduzione del minerale di ferro (PLEINER 1993, p. 547; SERNEELS 1997, p. 308; PANICHI 2003, p. 76). Tuttavia, in assenza di sicuri indicatori di produzione, e in relazione con la storia mineraria e metallurgica dell’insediamento, posto in un’area di mineralizzazioni piombo argentifere (galena, tretraedrite, calcopirite e blenda), si può anche ipotizzare, in questa fase precoce, un probabile collegamento con processi metallurgici diversi, legati alla produzione di piombo argentifero e di rame accessorio.

La struttura, definita da qui in poi come forno (attività 103-107), è formata da due parti (Fig. 25): una parte pressoché circolare (del diametro di 30 centimetri), parzialmente scavata nel suolo naturale, con il fondo impostato ad una quota più bassa di un metro rispetto al calpestio del piano individuato a monte, costituiva probabilmente la camera di combustione della fornace. L’altra parte, di forma ovale (del diametro maggiore di 20 centimetri), individuata a valle del taglio, funzionava quale pozzetto per la colata delle scorie. Le pareti del taglio erano rivestite da uno strato di argilla concotta spesso circa 5 cm. E’ inoltre possibile ipotizzare che la parte principale del forno prevedessero pareti in elevato costituite da piccole bozze di porfido legate da abbondante argilla, il cui disfacimento è stato individuato all’interno del taglio (si veda infra, attività 110, fase 4).

Fig. 25: sezione della stratigrafia all’interno del forno (struttura 6) (elaborata da Maddalena Belli) In associazione, dunque, al trattamento del minerale polimetallico, la struttura individuata, del tipo a pareti alte, potrebbe essere stata funzionale ad un tentativo di attuazione del processo “multifase” o “procedimento unico” (si veda infra, contributi Guideri e Bruttini), piuttosto che ad un processo di fusione del piombo, il quale abbisognava di strutture equiparabili a semplici focolari al livello del terreno. Struttura 7 (attività 113, 115, 117, 158) Attuata la posa in opera del muro di cinta, lo sbalzo di quota presente viene colmato con un’operazione di livellamento che rialza il piano di calpestio di circa un metro. Si tratta di una serie di strati eterogenei, in alcuni casi composti da pietrame in arenaria e nella maggior parte da terre friabili miste a carboni e da una grande quantità di reperti ceramici ed ossei (si veda infra, contributi Grassi e Salvadori). Per compiere questa operazione furono usati i depositi asportati dalle aree occupate nella fase abitativa precedente (in particolare l’area nord, struttura abitativa 2, e la struttura 3). Su questo livellamento (attività 113), costituito da terre di riporto, si impianta una struttura che si addossa al muro di cinta, di cui rimane un basamento in pietra

Fig. 24: il forno (struttura 6), particolare delle due camere (sotto) e dell’alloggio all’interno di un taglio del suolo naturale (sopra) La conformazione di questo impianto trova confronti con forni di riduzione del minerale, tuttavia gli indicatori di produzione metallurgica in nostro possesso sono praticamente assenti. La scarsa presenza di scorie negli strati in fase e la completa assenza sia di frammenti di minerale, sia di processi di vetrificazione sulle pietre, che dovevano costituire le pareti della 48

(attività 115). Tale basamento è costituito da una muratura, con andamento nord-sud, larga circa 90 centimetri, costruita con piccole bozze di arenaria legate da terra, inserita in una fossa di fondazione che taglia i livellamenti stessi. Tale base in muratura doveva servire, data la larghezza, per sorreggere un elevato molto più stretto, in materiale deperibile, di cui, purtroppo non si sono conservate le tracce, ma che, presumibilmente era costituito da una struttura in legno (Fig. 26). Sul lato sud il perimetro era probabilmente aperto e delimitato esclusivamente dai due pali portanti

Fig. 27: la struttura 7 All’interno della capanna è stato messo in evidenza uno spesso strato di carboni di forma circolare, del diametro di circa un metro, posto in prossimità dell’angolo sud-ovest. Sul piano di calpestio della capanna (attività 158, 117), non sono stati trovati elementi che possano indicare una divisione interna degli spazi. Peraltro il piano di vita non ha restituito elementi datanti di alcun tipo e dunque la cronologia di questa abitazione si ricava dal suo abbandono, legato al crollo di una parte della cinta muraria. Infine, dal punto di vista funzionale, la tipologia dei reperti rinvenuti (oggetti in metallo per i lavori artigianali), caratterizzata dalla completa assenza di ceramica, oltre all’ubicazione stessa della struttura ed alla sua tecnica costruttiva, confermano l’ipotesi che si tratti di una struttura di servizio (magazzino-bottega), in collegamento con le attività svolte nell’area adiacente. Negli strati di crollo non si sono conservati indicatori che possano indicare le modalità della copertura e si può ipotizzare dunque l’uso di materie deperibili. Fase 4 Fine X-inizio XI secolo

Fig. 26: il basamento della struttura 7

In una cronologia compresa fra la fine del X secolo e gli inizi del secolo successivo il muro di cinta subisce il crollo della parte ovest (attività 118), ossia del punto in cui gli si addossa la struttura 7 (si veda supra). L’evento sembra provocato da fenomeni naturali. Con il crollo della cinta muraria la capanna stessa subisce forti danni e viene abbandonata; tutte le buche di palo relative a questa struttura e la canaletta vengono sigillate, la muratura perimetrale crolla e la sua rasatura orizzontale viene coperta da strati di terra mista a pietrisco (attività 122). La struttura fusoria adiacente cade in disuso e crolla (attività 110); con l’abbandono dell’area artigianale cessa il suo utilizzo anche la recinzione lignea (attività 139) e gli alloggi dei pali vengono sigillati dagli strati di accumulo. In concomitanza con l’abbandono dell’area artigianale, inoltre, si registra un generale abbandono delle capanne del villaggio (attività 132), alcune in vita già nella fase di VIII secolo, nonché delle canalette e degli impianti su roccia collegati alla raccolta delle acque.

buche di palo 38-40 centimetri), a sostegno del tetto, posizionati a ridosso di un taglio verticale che interessa la roccia. Uno dei due alloggi per palo presenta un incasso adiacente per la sistemazione di un palo di supporto obliquo. La capanna viene così a trovarsi leggermente ribassata rispetto al piano roccioso soprastante. La struttura copriva una superficie rettangolare di circa 23 mq. (4 metri x 5,80 metri). Sul lato ovest, un allineamento di cinque buche, di forma circolare e di più piccole dimensioni (diametro 2,5 centimetri) è stato interpretato funzionalmente all’alloggio dei pali per il tetto; infatti, nello strato di abbandono della struttura 7 sono stati trovati i resti di una trave carbonizzata disposta secondo l’allineamento di queste piccole buche (Fig. 27). La struttura era collegata all’area del forno tramite una apertura (larga 1,20 metri circa) individuata nella parte sud del basamento in pietra. 49

lunga, essendo interessata solo marginalmente dall’episodio distruttivo che colpì la cinta muraria e la tettoia. Un’ulteriore riflessione può essere fatta considerando la tipologia del legno analizzato. Nel caso dei due campioni della struttura 7, si trattava di grandi pali portanti che, in quanto tali, hanno fornito una datazione più antica, giustificata considerando il tempo di stagionatura prima della messa in opera e dopo un uso più prolungato rispetto alla legna di piccolo taglio, come quella relativa al campione dell’attività 110.

Infine, per quanto non si abbiano dati stratigrafici relativi ad un abbandono collocabile in queste cronologie, tuttavia, è ipotizzabile che anche la struttura 1, ossia la capanna abitativa situata sulla sommità del poggio, subisca la stessa sorte proprio fra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo (attività 3). La cronologia assoluta relativa a questa fase insediativa è costituita da alcuni campioni di carbone su cui sono state effettuate analisi radiocarboniche (Figg. 28-29). Tali campioni, sono stati raccolti dai riempimenti di due buche di palo relative al perimetrale sud della struttura 7 (US 723 e 767 - attività 122), da uno strato di obliterazione del forno (US 853 - attività 110) e dal riempimento di una buca di palo della palizzata (US 719 - attività 139).

Francesca Grassi

ANALISI DEGLI ELEVATI

Campione Data 1 sigma (68,2 %) 2 sigma (95,4 %) RO723 (attività 122) 1020 -60 960-1050 890-1170 RO767 (attività 122) 1115 -33 935-980 890-925

860-1020

RO853 (attività 110) 906 -32

1040-1100 1110-1190

1030-1220

RO719 (attività 139) 870 -35

1150-1120 1060-1090

1110-1260 1030-1100

Le prime tracce di strutture in pietra nel periodo I. La cinta sommitale

Fig. 28: datazioni radiocarboniche dei campioni relativi alla fase 4 I risultati, una volta calibrati, hanno mostrato una cronologia compresa tra la fine dell'IX secolo e la metà del XIII secolo. La tipologia dei campioni prelevati e l’inserimento delle datazioni nella sequenza stratigrafica, permettono di affinare tale arco cronologico, assai ampio. I primi due campioni (abbandono della struttura 7, attività 122), hanno fornito complessivamente una datazione compresa tra 860 e 1170, ma è possibile escludere entrambi i termini per due motivi. Innanzitutto, la tettoia viene impiantata su alcuni strati gettati per creare un livellamento e provenienti dalle case già abbandonate alla fine del IX secolo (si veda supra). In secondo luogo, l’abbandono della tettoia stessa è sigillato da stratigrafie relative al cantiere per la costruzione del nuovo muro di cinta che trovano nei reperti ceramici una cronologia certa alla prima metà dell’XI secolo. Per tale motivo la tettoia è stata considerata in uso dal primo quarto del X secolo fino agli inizi dell’XI secolo. Il terzo campione si riferisce ad uno strato che obliterava il crollo del forno (struttura 6, attività 110). L’analisi radiocarbonica ha fornito una datazione compresa tra 1030 e 1220. Escludendo per certo il termine più basso, possiamo utilizzare una datazione alla prima metà dell’XI secolo, cronologia in cui la struttura in questione è ormai crollata e ricoperta dai livelli di cantiere. Infine, il quarto campione, relativo all’abbandono della palizzata in legno (attività 139), fornisce una datazione tra 1030 e 1260. In questo caso, il termine basso è stato escluso per i motivi già spiegati ed è stata invece utilizzata la cronologia più alta, in analogia con l’abbandono delle strutture circostanti, pur considerando che tale recinzione potrebbe avere avuto una vita più 50

Le prime tracce di muri interamente edificati in pietra compaiono nella Fase 3 del Periodo I, che corrisponde nello specifico ad un orizzonte cronologico di X secolo, momento nel quale nel pianoro sommitale del castello per due delle strutture edificate in materiale deperibile tra la fine dell’VIII e la prima metà del IX secolo è stata archeologicamente riscontrata una situazione di abbandono. Nella spianata sommitale del castello, a ridosso del limite naturale del pendio, fu edificato un muro orientato in direzione est-ovest che, per posizione topografica e caratteristiche costruttive, può essere attribuito a ciò che si conserva di una prima cortina difensiva che cinse la sommità del poggio (Attività 100 - us 842, Fig. 30). Di tale cortina si conserva un unico lacerto, in prossimità del margine settentrionale del pianoro, di spessore pari a 1.35 m, edificato in pezzame di arenaria locale privo di evidenti tracce di lavorazione o sottoposto a sommaria spaccatura. Le forme dei singoli blocchi sono irregolari e le dimensioni non omogenee tra loro, e l’apparecchiatura prevede talvolta una posa in opera in obliquo o in verticale regolarizzata da scaglie di dimensione medio-piccole usate come zeppe e da abbondanti gettate di malta (BIANCHI 2008, p. 21). Si tratta di un legante a base di malta di calce di consistenza friabile, con inclusi di grandi dimensioni ed un inerte composto da sabbia fine color ocra, utilizzata in alta percentuale rispetto alla calce stessa, stesa in abbondanti quantità, tali da ottenere una notevole regolarità nell’apparecchiatura muraria. Nel lacerto conservato sembra poter distinguere una metà inferiore caratterizzata da dimensioni lievemente maggiori e più eterogenee degli elementi, ed una metà superiore caratterizzata invece da una lieve diminuzione delle dimensioni associata ad una maggiore omogeneità. Per la ricostruzione del perimetro di questa prima cinta muraria, l’analisi della naturale orografia del pianoro sommitale ha permesso agli scavatori di ipotizzare un’estensione dell’area difesa pari a circa 500 mq, in maniera certamente plausibile ma non dimostrabile sulla base delle evidenze materiali, con un probabile

ingresso posizionato in corrispondenza del versante occidentale, laddove il pendio si presenta ancor oggi meno accidentato. Oltre al lacerto murario descritto, labili tracce di questo primo circuito murario si conservano in corrispondenza del paramento esterno della cinta muraria, al di sotto del palazzo e dietro la cisterna, nel versante orientale del pianoro. I resti della cinta difensiva, conservati per un’altezza di poco meno di 2 metri, non permettono inoltre di stabilire se poteva trattarsi di un muro edificato interamente in pietra o di una base in muratura sulla quale si sviluppava un alzato in materiale deperibile, sul modello rinvenuto nel castello di Miranduolo (VALENTI 2008). Sempre secondo la ricostruzione dei dati di scavo, all’edificazione della cinta in pietra sarebbe da associare l’impianto di nuove strutture con destinazione artigianale connesse alla lavorazione dei metalli. Nello specifico sono stati rinvenuti i resti di una tettoia posta a protezione di una delle strutture produttive, costituiti da pali lignei impostati su uno zoccolo in muratura (vedi supra, Attività 115). Il cantiere di costruzione della cinta muraria e la probabile circolazione di nuove maestranze a questo connessa, sembra dunque avere in qualche modo influenzato anche le tecniche costruttive degli edifici interni, privati o legati all’area artigianale, come sembra testimoniare il passaggio da strutture edificate interamente in legno (strutture 1-4) a strutture per la cui edificazione si fece ricorso ad una tecnica mista Giuseppe Fichera

Fig. 29: tabella delle attività registrate nel Periodo I- fase 4

Fig. 30 : parte del muro di cinta sommitale con le evidenze di X secolo

51

ricavata sulla roccia, che unisce il borgo alla parte alta. La sommità quindi sembra caratterizzata in questo momento da almeno un grande edificio che in base alle dimensioni ed all’ubicazione topografica potrebbe essere un ambiente di rappresentanza. I due grandi edifici occupano in realtà solo una parte della rupe sommitale: sul terrazzamento dove vi era l’area artigianale, compaiono ampi spazi aperti non più occupati da abitazioni e livellati con strati formatisi durante il cantiere. Inoltre, pur non avendo dati relativi alla due case poste nell’area sommitale e rimaste in vita sino al X secolo (struttura 1 e struttura 4, vedi supra), si può ipotizzare che vengano distrutte con l’apertura dei cantieri relativi alla ricostruzione del muro di cinta ed ai due edifici. Infatti, per datare l’abbandono delle due case (struttura 1 e 4) non possiamo utilizzare indicatori materiali, dato che assieme al deposito relativo alla loro vita fu asportato anche quello relativo ai crolli finali, per fare posto ai nuovi edifici in pietra. Un ulteriore intervento costruttivo che si registra in questa porzione dell’area sommitale si riferisce infine all’impianto di una struttura quadrangolare, una piccola cisterna od un magazzino per derrate alimentari, inserita a ridosso della roccia e costituita da murature sempre in arenaria, ricoperte da uno spesso strato di malta. Nella parte più alta della sommità, dove verrà eretta la torre, non sembrano invece ancora presenti edifici. Le indagini nel borgo permettono di leggere una diversificazione funzionale rispetto alla parte alta, con la presenza di case addossate alla cinta muraria e sistemate in almeno due terrazzamenti distinti, collegate ad una viabilità ricavata sulla roccia lavorata. Lo scavo ha interessato un angolo dell'insediamento fortificato, delimitato dalla cinta muraria collegata ai nuclei rocciosi che già naturalmente definiscono i confini dello sperone. Alla cinta si addossano almeno due strutture edilizie quadrangolari: tra i due edifici si definisce una viabilità interna, direttamente collegata con uno scarico tagliato nel muro di cinta. La cinta muraria che unisce la parte alta del castello al borgo appare già edificata e forse interessata da un accesso, nel versante che unisce l’area dell’edificio detto A all’area del borgo detta 3000, come ha mostrato lo studio analitico della muratura supersite (si veda infra, contributo Fichera). Inoltre, tutta la cinta viene edificata in questa prima fase di incastellamento e viene probabilmente munita di una porta di ingresso principale, posta nello stesso luogo dove nel XII secolo si ricavò un ingresso monumentale (area 2000). Infine, si presuppone che la nuova articolazione urbanistica abbia toccato anche le aree a carattere rupestre, lungo tutto il fronte sud-est e nord-ovest dell'area sommitale; purtroppo, la mancanza di indagine archeologica nel settore in questione non ci permette di essere più precisi sull’aspetto dell’area in questa fase (Fig. 32).

2. PERIODO II (XI secolo) Fase 1 XI secolo Nel corso dell’XI secolo, la fonte archeologica ha mostrato che il sito di Rocchette assunse la forma e le dimensioni del castello signorile, le cui caratteristiche principali furono: l’ampliamento dell’area edificata (il castello passò da una superficie di circa 500 mq. a 2500 mq.) con la delimitazione per mezzo di una cinta muraria provvista di una porta di accesso, la creazione di due distinte aree insediative -una in sommità ed una nei terrazzi sottostanti-, l’utilizzo esclusivo della pietra per tutte le costruzioni realizzate; la scomparsa, nella zona alta, dell’area preposta alle lavorazioni metallurgiche. Dall’XI secolo il castello si articolò dunque in una forma ed un’estensione molto simile a quella riscontrabile nel Duecento, due secoli dopo: ad una zona sommitale si affiancava l’urbanizzazione dei terrazzamenti sottostanti, dove sorgerà il borgo (Fig. 31). Le due parti del castello erano cinte da una muratura difensiva, già estesa in tutta la superficie visibile oggi, munita di una o due porte di accesso. Il tratto saliente delle costruzioni che si inseriscono alla fine dell’XI secolo fu l’utilizzo quasi esclusivo della pietra, ed in particolare dell’arenaria, geologicamente presente in filoni superficiali nella parte alta del sito, al di là del fossato artificiale che divideva il castello dalla viabilità di mezzacosta. Tali cambiamenti, ben leggibili nel sito grazie al dato archeologico, non sono documentati dalle fonti scritte che offrono solo per il tardo XII secolo un’immagine compiuta del castello di Rocchette, possesso dei Pannocchieschi (ALBERTI et alii 1987, p. 81). Di conseguenza, non sappiamo quali furono gli autori del processo di incastellamento a Rocchette, in parte già in corso dal X secolo: ipotizziamo che la diocesi di Volterra, alla quale la chiesa castrense è legata nel bassomedioevo, potesse essere l’artefice della prima trasformazione del villaggio di Trifonte, ed in seguito, proprio la famiglia dei Pannocchieschi potrebbe avere raccolto e gestito la trasformazione del castello, essendo fortemente impegnata dall’XI secolo nello sviluppo di altri importanti siti minerari, come i castelli di Montieri e Gerfalco posti a ridosso delle importanti mineralizzazioni del Poggio di Montieri e di Poggio Mutti (BIANCHI, BRUTTINI, DALLAI 2011, pp. 262-274). LO SCAVO L’assetto dell’area sommitale si definisce con la ricostruzione della cinta muraria, edificata riprendendo l’andamento della porzione rimasta integra, dopo il crollo avvenuto alla fine del X secolo, ma con un arretramento interno per evitare nuovi crolli e frane. Il muro viene costruito utilizzando pietra arenaria e calcare cavernoso, messi in opera in modo irregolare. Sull’area sommitale, viene costruito inoltre un edificio rettangolare, trasformato in palazzo nel secolo successivo (edificio A) a cui si affianca un secondo spazio edificato, (edificio B); i due ambienti sono divisi da una viabilità

Area sommitale (attività 119, 124, 125, 128, 136, 137, 140, 174): con il crollo del muro di cinta e della tettoia ad uso artigianale, si rende necessaria la ricostruzione di

52

Fig. 31: le trasformazioni del castello nell’XI secolo (planimetrie riprese da BELLI, DE LUCA, GRASSI 2003elaborate da Enrica Boldrini e Daniele de Luca) una nuova muratura. Sul piano d’uso della struttura, sui crolli e sul basamento perimetrale della stessa, ormai rasato, viene scavata una stretta fossa di fondazione, funzionale alla costruzione del nuovo muro di cinta. Lo scavo ha messo in luce le strutture necessarie per l’allestimento del cantiere per il muro di cinta: viene edificata un’impalcatura lignea sorretta da due pali dei quali sono stati messi in evidenza gli alloggi di grandi dimensioni (diametro circa 50 centimetri) (attività 119124). Nell’area occupata dai resti del muro di cinta del X secolo, viene dunque costruito un nuovo muro di cinta, che riprende l’andamento di quest’ultimo con un leggero

arretramento verso l’interno dovuto al crollo del terreno su cui poggiava il precedente (Figg. 33-34). Il nuovo muro, visibile per una lunghezza di 5,60 metri, è costituito da bozze di arenaria e calcare cavernoso, legate con malta gialla, disposte su filari irregolari e paralleli. L’intervento costruttivo relativo a questa fase, tuttavia, non si limita al rifacimento di un breve tratto del muro di cinta, ma si caratterizza per una ridefinizione globale dell’area sommitale: infatti, la medesima fase storica comprende la costruzione di due nuovi edifici in muratura (edifici A e B). L’edificio denominato A, solo parzialmente scavato, presenta nella parte bassa delle pareti una fase costruttiva

53

Fig. 32: tabella delle attività registrate nel Periodo II- fase 1 e 2

Fig. 34: la cinta di XI secolo nell’area sommitale (us 695) in arenaria (us 883, 661, 921); gli elevati oggi maggiormente visibili sono, invece, quelli relativi all’allargamento definitivo del castello, posteriore di circa un secolo e realizzati in calcare cavernoso (Fig. 35). Le fasi costruttive di questo edificio sono state ricostruite sia in base alle tecniche murarie, sia in base allo scavo del deposito esterno all’ambiente. Infatti, sul piano di cantiere formatosi per la costruzione del nuovo tratto di cinta muraria, si imposta la costruzione della muratura perpendicolare (us 883) che delimiterà ad est l’edificio A

Fig. 33: la fossa di fondazione del muro di cinta di XI secolo (attività 119)

54

materiali di alcun tipo che permettano la comprensione della precisa destinazione funzionale e dell’arco cronologico di vita. La datazione dell’edificio deriva, dunque, solo dall’analisi della tecnica costruttiva, anche in questo caso legata all’uso della pietra arenaria, disposta su filari regolari (si veda infra, contributo Fichera). All’interno dell’edificio, lo scavo ha mostrato, al di sotto di uno strato di crollo costituito solamente dal pietrame degli elevati, un piano di calce steso sulla roccia ed interpretato come livello pavimentale, privo di elementi materiali relativi alla vita; un ulteriore piano di calpestio si è recuperato anche nella parte esterna all’ambiente (area 4000), da cui provengono due frammenti di una forma aperta, forse una lampada, in vetro (attività 174, si veda infra, contributo Mendera). Con i dati a disposizione dunque risulta complesso dare un’interpretazione definitiva di tutta questa evidenza: il pavimento in calce farebbe supporre la necessità di isolare il livello d’uso dalla roccia sottostante, ipotesi che potrebbe portare alla funzione di magazzino o rimessa, connesso alla vita dell’edificio A ad esso affiancato. D’altra parte, la mancanza di indicatori specifici relativi alla vita dell’ambiente, assieme ai reperti provenienti dal calpestio esterno, costituiti dai frammenti di una lampada in vetro, suggeriscono anche la possibilità di interpretarlo come edificio ecclesiastico, di fatto documentato dalle fonti scritte solo dal 1179 come “capella de Rocca” ed identificabile con la chiesa intitolata a S. Andrea, citata in seguito all’interno del castello di Rocchette (FARINELLI 2007, scheda 23.9). Infine, nell’area sommitale, si riferisce a questa fase cronologica l’impianto di una piccola struttura quadrangolare (m. 1,90 di larghezza) posata su un vespaio e costituita da murature in bozze di arenaria di piccole dimensioni (us 334-335-343-344) disposte su filari irregolari (larghezza media di 40 cm), con il fondo e le pareti ricoperte da uno strato di malta. Al di sopra del piano di malta che livella il fondo si imposta un basamento in muratura (us 346) che costituisce un gradino interno alla struttura (attività 136-137) (Fig. 37).

Fig. 35: la fase relativa all’XI secolo dell’edificio A (us 883) (attività 125-128). La muratura est dell’edificio A, è costituita da una parte superiore, probabilmente quello che resta dell’elevato, con bozze di arenaria, di piccole dimensioni, disposte a spina di pesce su filari regolari e legate con malta giallastra e da una parte di fondazione con bozze più grandi disposte su filari suborizzontali ed abbondante malta rifluente. Delle altre murature, non avendo proceduto allo scavo di tutto l’ambiente, sono oggi visibili solo le parti in elevato, corrispondenti al costruito del periodo successivo (si veda infra, periodo III, fase 1). Si può comunque ipotizzare che l’edificio avesse dimensioni simili a quelle misurabili per la fase successiva, posizionandosi in appoggio alla cinta muraria del castello. L’edificio denominato B, forse di forma quadrangolare, è costituito da murature in arenaria (US 871, 847, 875, 872) che sfruttano un terrazzamento roccioso pianeggiante e si posiziona sulla viabilità che collega l’area sommitale all’area del borgo, a ridosso di alcune grandi affioramenti di calcare cavernoso che lo delimitano ad ovest (attività 140) (Fig. 36).

Fig. 36: la fase relativa all’XI secolo dell’edificio B (us 847)

Fig. 37: la piccola cisterna dell’area sommitale (attività 136)

L’edificio, pur completamente indagato al suo interno a differenza dell’ambiente descritto sopra, non ha restituito 55

La funzione specifica di tale struttura, quasi completamente rasata e priva di livelli di vita, non può essere stabilita in maniera certa, per quanto le piccole dimensioni e la presenza della fodera in malta facciano pensare ad una struttura per la raccolta delle acque o per la conservazione delle derrate alimentari. È molto probabile, in base anche ai dati relativi all’abbandono di questa struttura, che il suo uso fosse collegato al cantiere per la costruzione dei due edifici (si veda infra, fase 2).

Non sembrano invece ancora edificate tutte le case del borgo in appoggio alla cinta muraria, sino alla zona della porta di accesso, dato che i depositi non hanno permesso di ottenere datazioni anteriori al XII secolo avanzato (si veda infra, periodo III), anche se sembrerebbe già presente in elevato, nel corso dell’XI secolo, tutta la cinta muraria ed uno dei due ingressi, posizionato nella porzione sud dell’insediamento (area 2000). I due edifici indagati nell’angolo di muro di cinta descritto (ambiente 36 e ambiente 35) sono quadrangolari, totalmente in muratura e costruiti con la medesima tecnica e i medesimi materiali. Per la costruzione di queste unità abitative si riutilizza un deposito di non molto antecedente (attività 37); la formazione di questi strati e l’impianto degli edifici si datano, in base ai reperti ceramici, alla prima metà dell’XI secolo (si veda infra, contributo Grassi). L’edificio 35, in appoggio su due lati alla cinta muraria, è delimitato a nord dal muro 3094 (>< 65 cm., lunghezza 5,20 m.) costruito in parte contro terra, a secco, con pietre di arenaria sommariamente sbozzate, che si lega al muro 3019 (>< 75 cm., lunghezza m. 4,70), visibile solamente nel primo filare, costruito in bozze di arenaria e di calcare cavernoso. Il tetto viene probabilmente costruito con paglia e legno, data l’assenza nei crolli di materiale costruttivo quale tegole o lastre di ardesia (attività 31) (Fig. 39).

Area del borgo (attività 31-32-33-35-36-37-40-161): nella zona ovest del borgo (area 3000), lo scavo di un lotto abitativo addossato alla cinta muraria ha permesso di individuare, anche in questo tratto, una porzione di muro di cinta (us 3180-3002-3040) che presenta la medesima tecnica costruttiva, con presenza di un parziale uso di bozze di calcare cavernoso associate all’arenaria, e si inquadra nella stessa fase cronologica (attività 32) (Figg. 38-39). Possiamo dunque ipotizzare che proprio in questo momento, databile all’XI secolo, si abbia l’impianto di un castello in pietra ben definito e probabilmente diviso in aree a funzione differenziata. Inoltre, dal momento che il tratto del muro di cinta di XI secolo, almeno nel punto indagato del borgo, si posiziona in corrispondenza della muratura successiva si può ulteriormente ipotizzare che il castello di XI secolo, corrisponda in questa parte, per espansione del costruito, alla visione attuale.

Fig. 39: muro di cinta us 3040 ed edificio 35 (attività 31, us 3019-3094) L’edificio 36 è formato dai muri us 3142 e us 3032 ed è addossato alla cinta muraria us 3002; invece, il limite ovest dell’edificio non è stato indagato. Il perimetro dell’edificio si presenta più allungato rispetto al precedente ed i resti del tetto permettono di ipotizzare una copertura in lastre di ardesia (attività 33). In entrambi gli edifici sono stati riconosciuti alcuni strati relativi alle prime frequentazioni (attività 35-36). Fra i due edifici si definisce inoltre una viabilità interna, direttamente collegata con uno scarico per i rifiuti tagliato nel muro di cinta, sulla quale sono stati scavati alcuni strati di uso (attività 40). Due buche per palo di fronte allo scarico per i rifiuti sono da mettere in relazione con una barriera in legno da cui gettare le immondizie all’esterno, in questa zona fortemente scoscesa.

Fig. 38: muro di cinta di XI secolo nell’area del borgo (us 3002). In alto la parte esterna, in basso quella interna.

56

La datazione incrociata proveniente dall’analisi dei reperti ceramici e dai test al radiocarbonio di alcuni frammenti di carbone, offre per questa nuova fase un orizzonte cronologico risalente alla prima metà dell’XI secolo. La portata dell’intervento fu però molto più ampia e non riguardò soltanto la ricostruzione della cinta sommitale, ma le analisi dei dati archeologici e delle evidenze murarie permettono di delineare il quadro di un generale riassetto edilizio che coinvolse il castello nella sua interezza. La costruzione di una nuova cinta difensiva fu l’occasione per racchiudere all’interno di una zona difesa anche i terrazzamenti sottostanti l’area sommitale, i quali divennero aree edificabili a tutti gli effetti (Fig. 41). L’esiguità di resti rinvenuti dallo scavo suggerisce tuttavia di lasciare aperta l’ipotesi che le strutture edificate nel borgo facessero ricorso ad una tecnica mista in pietra e materiali deperibili con, magari, un uso esclusivo della pietra riservato agli edifici dell’area sommitale.

Il lotto composto dalle due case è infine completato con la costruzione di un muro (us 3036) che delimita uno spazio esterno ad entrambi gli edifici, forse ad uso comune, e che termina direttamente a contatto con il tratto di cinta ad est (attività 161). Fase 2 Fine XI secolo Area sommitale (attività 134-138): alla fine dell’XI secolo si inserisce la chiusura del cantiere relativo alla costruzione dell’area sommitale (attività 134) (Fig. 40).

Fig. 40: la fine del cantiere relativo alla cinta muraria di XI secolo nell’area sommitale (attività 134) Infatti, mentre gli edifici descritti nel borgo hanno restituito già a partire dalla fase precedente i depositi relativi alla loro vita, i cantieri approntati nella parte sommitale per la costruzione della cinta e dei due edifici hanno la loro cesura finale proprio alla fine dell’XI secolo. Rientra con molta probabilità tra le operazioni di chiusura del cantiere anche l’abbandono della piccola cisterna, il cui interno presentava, al di sopra dello strato di malta, un sottile strato di carboni (attività 138); inoltre, le murature perimetrali risultavano rasate ad un medesimo livello, indizio dell’abbandono definitivo della struttura, forse in uso durante le fasi del cantiere.

Fig. 41: planimetria con l’indicazione delle evidenze murarie di XI secolo

Area del borgo: non si registrano in questa fase nuove attività di vita. I due edifici 35 e 36 costruiti nel corso della prima metà del secolo continuano a vivere e dai reperti ceramici e vitrei si configurano come semplici abitazioni.

La cinta muraria La nuova cortina muraria che racchiuse l’area sommitale del castello (Attività 124, US 695), si appoggiò direttamente alla porzione superstite della muratura più antica, mostrando in maniera inequivocabile un rapporto di posteriorità costruttiva, ma con una lieve modifica dell’allineamento, forse legata alle stesse cause che avevano portato al crollo della prima cinta (Fig. 42)2. Per quanto riguarda il pianoro sommitale, della nuova struttura si conserva soltanto un lacerto, appena più

Francesca Grassi ANALISI DEGLI ELEVATI Il nuovo assetto urbanistico del castello nell’XI secolo. A seguito di un evento traumatico, molto probabilmente di origine naturale, o a causa della natura instabile della roccia su cui era stata edificata, la prima cinta muraria subì un crollo e fu riedificata in posizione arretrata e con un allineamento leggermente diverso.

2 L’ipotesi di un crollo della cinta muraria più antica connesso ad un cedimento del terreno rimane plausibile, ma potrebbe a nostro avviso non essere sufficiente da sola a giustificare una ricostruzione arretrata di qualche decina di centimetri. Se la cinta fosse crollata a seguito del cedimento del bordo del pianoro, sarebbe stata ricostruita in posizione ancora più arretrata per maggior sicurezza.

57

Nella porzione situata ad ovest del palazzo, nel terrazzamento inferiore, si individua un lacerto appartenente al perimetro difensivo del castello caratterizzato da una cesura verticale ben evidente che rappresenta molto probabilmente lo stipite di una apertura. L’assenza della porzione di muro in cui doveva trovarsi il secondo stipite, dovuta principalmente a crolli e smottamenti, rende difficoltosa l’attribuzione di una porta di ingresso su questo lato del circuito murario. È altresì vero che i blocchi che costituiscono lo stipite rimasto sono ben squadrati, analogamente alle apparecchiature murarie relative alle fasi più tarde, e bisogna quindi valutare anche la possibilità che si tratti di una porta aggiunta in un momento successivo al XII secolo. In relazione alla cinta muraria che doveva racchiudere i terrazzamenti sottostanti l’area signorile, si sono conservati alcuni lacerti di dimensioni ridotte in corrispondenza del settore di scavo denominato area 3000 (Attività 32, US 3002, 3040), localizzato nell’angolo nord-occidentale del sito, ed un altro piccolo lacerto in corrispondenza della monumentale porta di accesso al castello (area 2000). Nel primo caso, il versante settentrionale dell’Area 3000 è delimitato dall’US 3040, un muro allineato in direzione nord-est/sud-ovest, caratterizzato da un’apparecchiatura muraria che impiega blocchi soltanto spaccati di dimensioni medio grandi posti in opera su filari irregolari, dietro ai quali è comunque evidente una certa idea di orizzontalità, mantenuta grazie ad abbondante ricorso a scaglie di arenaria di varie dimensioni. I litotipi utilizzati sono l’arenaria ed il calcare cavernoso con una percentuale maggiore della prima, uniti da un legante a base di terra color nocciola mista ad una esigua percentuale di calce.

ampio del precedente, limitato al versante settentrionale dell’area. La porzione orientale, alle spalle della torre e della cisterna, si configura come una ricostruzione risalente al XII secolo, impostata su pochi filari probabilmente risalenti alla originaria cortina difensiva; il versante meridionale, sul bordo della dolina, non si è conservato, mentre in corrispondenza del lato occidentale, nel quale doveva trovarsi anche il principale punto di accesso, considerata la naturale orografia del terreno, nessuna muratura può attualmente essere attribuita al circuito murario.

Fig. 42: cinta muraria dell’area sommitale, in evidenza la ricostruzione attribuita all’XI secolo Pur tenendo presente che numerose frane hanno notevolmente modificato nel corso degli anni la conformazione dell’area e causato la perdita di alcuni tratti di muratura, è difficile stabilire se esistesse o meno una chiusura ben definita su questo versante, che distinguesse sin dall’origine un’area sommitale da una porzione inferiore, o se questa distinzione nascesse soltanto a seguito della collocazione planimetrica degli edifici sul bordo del pianoro. L’apparecchiatura muraria della nuova struttura impiega blocchi spaccati di arenaria misti ad una percentuale quasi uguale di bozze di calcare cavernoso lavorate in maniera leggermente più accurata, di dimensioni medie ma comunque abbastanza eterogenee tra loro. L’irregolarità della posa in opera viene assorbita attraverso una cospicua presenza di scaglie di dimensioni medio piccole miste a zeppe lamellari e tramite giunti e letti di posa molto spessi, che obliterano quasi del tutto il sottostante livello di pietre (Fig. 43). Il legante utilizzato associa, ad una maggior percentuale di malta di calce, una ghiaia con elementi anche di dimensioni centimetriche utilizzata come inerte. Le principali caratteristiche tecniche registrate, lavorazione e posa in opera degli elementi e uso del legante, rimanderebbero in ogni caso ad un gruppo di maestranze dotate di un bagaglio di conoscenze tecnicamente abbastanza vicino, e forse anche non troppo distante da un punto di vista cronologico, a quello che distingueva il primo gruppo di costruttori.

Fig. 43: particolare dell’apparecchiatura muraria della cinta di XI secolo Le differenze principali rispetto alla tecnica costruttiva dell’area sommitale riguardano sia la lavorazione e la posa in opera degli elementi litici che risultano meno curate, sia il ricorso ad un legante a base di terra praticamente privo di calce. A queste differenze si accosta un’analogia di tipo progettuale, rappresentata da 58

una sequenza costruttiva che prevede la costruzione della cinta difensiva e in seguito, pur all’interno di un medesimo orizzonte cronologico, l’edificazione delle strutture abitative che a questa si appoggiano. In posizione perpendicolare rispetto all’US 3040 si trova l’US 3002, che cinge il versante occidentale del castello con un orientamento nord-ovest/sud-est. Il muro fu costruito parzialmente contro terra se il paramento interno si presenta oggi come il risultato di una consistente ricostruzione di epoca successiva, mentre sul lato esterno, ad una quota leggermente più bassa, è possibile registrare un’apparecchiatura muraria analoga a quella appena descritta. Il livello della ricostruzione corrisponde ad un’apertura di forma quadrangolare, interpretata come uno scarico per rifiuti connesso alla viabilità tra i due ambienti interni, ed evidentemente ricostruita nella stessa posizione in una fase più tarda3. Inoltre, l’analitica ricognizione delle evidenze architettoniche del castello ha permesso di individuare un setto murario nell’area della porta attribuibile, per rapporti stratigrafici e caratteristiche costruttive, ad un medesimo orizzonte cronologico delle murature appena descritte. Tale attribuzione fuga ogni dubbio circa l’ipotesi secondo la quale anche il versante sudoccidentale del sito fosse cinto da mura già nella fase risalente all’XI secolo, nonostante lo scavo dell’area posta in corrispondenza della monumentale porta di accesso al borgo non abbia restituito stratigrafie orizzontali anteriori al XII secolo. La porzione inferiore dello stipite sud della porta di accesso al castello, visibile in sezione a seguito della perdita del paramento e in prospetto nel versante sud, si caratterizza per un’apparecchiatura muraria leggermente aggettante rispetto alla soprastante e con un allineamento parzialmente divergente, composta da blocchi di arenaria soltanto spaccati posti in opera su filari abbastanza orizzontali misti a scaglie di pietra usate come zeppe (Fig. 44).

Gli elementi sono tenuti assieme da un legante a matrice terrosa estremamente friabile, misto ad inclusi di dimensioni notevoli, fino al centimetro. Il lacerto murario, orientato in senso est-ovest, è visibile per poco più di un metro di lunghezza, ma le caratteristiche di lavorazione delle pietre, il legante utilizzato e l’evidente rapporto di anteriorità relativa rispetto al soprastante muro permettono di attribuirne l’edificazione ad un orizzonte cronologico di XI secolo, dimostrando come il castello, o meglio il circuito murario, avesse già raggiunto in questo periodo dimensioni analoghe a quelle che manterrà anche nei secoli successivi. Le strutture dell’area sommitale (Edifici A e B) Lo scavo dell’area sommitale ha evidenziato come alla nuova cortina difensiva si appoggiasse un muro, posto in posizione perpendicolare ed allineato in senso nord-sud, edificato con una tecnica costruttiva simile a quella adoperata per la cinta muraria, salvo per la presenza di bozze di calcare cavernoso di dimensioni lievemente maggiori (Attività 128, US 883) (Fig. 45).

Fig. 45: lacerto murario relativo ad una struttura perpendicolare alla cinta muraria sommitale Nel paramento murario inoltre, la dimensione degli elementi ed il tipo di legante farebbero ipotizzare la presenza di due differenti fasi costruttive, non meglio identificabili per l’esiguità dei resti a nostra disposizione. I tre filari inferiori si caratterizzano infatti, per le dimensioni maggiori delle bozze e per un legante di consistenza friabile caratterizzato da una sabbia color beige utilizzata come inerte, mista ad inclusi di piccole dimensioni e piccoli grumi di calce. I tre filari superiori hanno invece bozze di dimensioni più ridotte, poste in opera in obliquo, quasi a spina di pesce, unite da un legante in cui si ritrova una sabbia color ocra utilizzata come inerte ed una consistenza più plastica della malta. Il muro descritto fu riutilizzato, circa un secolo più tardi, come fondazione del perimetrale orientale della residenza signorile. È dunque evidente che già nel corso dell’XI secolo l’area sommitale fosse interessata da strutture in muratura di notevole importanza, tuttavia, l’impossibilità di scavare in estensione la superficie interna del palazzo, ha di fatto limitato le evidenze materiali legate a questa prima fase costruttiva ad un unico muro. Sulla base del

Fig. 44: lacerto murario della cinta di XI secolo posto nell’angolo sud-occidentale del castello 3 L’idea di una ricostruzione nasce dal grado di lavorazione degli stipiti dell’apertura, assimilabile ad una buona sbozzatura, non presente in nessuno degli elementi lapidei attribuibili a questo periodo.

59

confronto con le dinamiche socio-politiche delle maggiori realtà insediative del territorio ed i riflessi in campo edilizio che queste ebbero, risulta molto difficile ipotizzare che questo muro più antico possa far riferimento ad una struttura abitativa di tipo palaziale, modello edilizio che si sviluppò su larga scala almeno a partire dal secolo successivo, in un clima di affermazione e ostentazione della signoria territoriale. Avrebbe più facilmente potuto trattarsi di una struttura con destinazione abitativa, ma di dimensioni verosimilmente più ridotte rispetto a quelle che l’edificio assumerà nel corso del XII secolo. Considerazioni analoghe possono essere avanzate per quei lacerti murari che si trovano a sud dell’edificio A, in uno spazio rettangolare di dimensioni pari a 13.5 metri di lunghezza per 8 metri di larghezza, denominato edificio B. Si tratta di un’area pianeggiante separata dall’edificio A da una stretta viabilità, nella quale l’asportazione degli strati di abbandono trecenteschi ha riportato alla luce un livello di malta, da riferire verosimilmente ad una pavimentazione, di fattura anche abbastanza curata. L’assenza tuttavia di stratigrafie che descrivessero meglio la “vita” dell’edificio, e la presenza di pochi e mal conservati lacerti murari da riferire ai lati perimetrali dell’edificio, individuati soltanto a est e a sud, farebbe ipotizzare una struttura con dimensioni più ridotte, oppure, considerata la presenza di un piano di malta che poteva fungere anche da isolante, un luogo di stoccaggio delle derrate alimentari. La tecnica costruttiva comunque, limitatamente ai pochi filari conservati, potrebbe far attribuire l’edificazione dei muri ad un medesimo orizzonte cronologico, in funzione di una lavorazione degli elementi limitata alla semplice spaccatura o in taluni casi ad una sommaria sbozzatura.

conservato, lascerebbe ipotizzare una tecnica costruttiva leggermente diversa, almeno per il grado di lavorazione del materiale e questo potrebbe far supporre una parziale ricostruzione del perimetrale descritto. Da notare infine, la mancanza di un evidente punto di ingresso, che forse poteva trovarsi ad una quota leggermente più elevata del muro sud, assieme ad una probabile copertura in materiali deperibili, ipotizzata dagli scavatori sulla scorta dell’assenza di materiali come tegole o lastre di ardesia negli strati relativi al crollo. Per il secondo dei due ambienti, denominato Ambiente 36, è possibile registrare soltanto una delle due dimensioni, a causa della prosecuzione al di sotto della sezione di scavo. Si tratta di una struttura di forma rettangolare lunga 7.58 m e larga almeno 2.87 per la porzione visibile, sviluppata in senso est-ovest. Per questo ambiente è possibile presumere una copertura in lastre di argilloscisti, rinvenute negli strati di crollo. Tra il muro nord dell’Ambiente 36, conservato per un filare appena, e il paramento meridionale dell’Ambiente 35 si individua una stretta viabilità, delimitata ad ovest dalla cinta muraria, nella quale si trova una piccola apertura di forma quadrata, interpretata dagli scavatori come uno scarico connesso alla vita delle due case. Ipotesi del tutto plausibile considerato che l’apertura si trova esattamente in corrispondenza della viabilità tra i due ambienti, ma bisogna tenere in considerazione una ricostruzione della medesima in una fase più tarda nella quale il muro di cinta fu ampiamente restaurato. A nord-est dei due ambienti, al di sotto di un muro riedificato nelle ultime fasi di occupazione del sito, è presente un lacerto murario che sembrerebbe appoggiarsi alla cinta muraria e che per analogia di tecnica costruttiva e per rapporti stratigrafici potrebbe essere messo in relazione con le fasi di XI secolo (Fig. 46).

Gli edifici del borgo (Ambienti 35-36) Dei due settori indagati nel borgo interno al circuito murario, il primo posto nell’angolo nord-occidentale delle mura ed il secondo in prossimità della porta di accesso al castello, soltanto il primo ha restituito consistenti tracce inerenti un’edilizia privata a destinazione verosimilmente abitativa, risalenti alla fase di XI secolo. È probabile comunque che, al pari di quanto ipotizzato per il circuito murario, esistessero ulteriori evidenze in altre porzioni del borgo, tuttavia l’assenza di ampie superfici scavate limita le nostre conoscenze soltanto a due case addossate alla cortina difensiva. La prima delle due, denominata Ambiente 35 (Attività 31, US 3019-3094), è costituita da un ambiente di forma pressoché quadrata (dimensioni pari a 4.94 x 4.83 m; superficie 22.8 mq), appoggiato a nord e ad ovest alla cinta muraria. Il muro sud si conserva soltanto per uno o due filari, mentre ad est un livello di conservazione leggermente migliore consente di registrare l’apparecchiatura muraria, caratterizzata da blocchi di arenaria spaccati nel senso della giacitura naturale del litotipo, maggiormente sviluppati in lunghezza più che in altezza, misti a pochi pezzi in calcare cavernoso. Nonostante l’impiego di pezzame dalle forme regolari, la posa in opera procede per filari irregolari e a volte del tutto assenti, tenuti assieme da un legante a matrice terrosa. Il muro perpendicolare a questo, per quanto mal

Fig. 46: lacerto murario posto nell’angolo nordoccidentale del borgo, attribuito ad una struttura abitativa L’apparecchiatura muraria si caratterizza per la presenza di blocchi di arenaria, misti ad una bassa percentuale di pezzi di calcare, sottoposti a semplice spaccatura o in taluni casi anche sbozzati con una certa cura. La posa in opera procede per filari pseudo orizzontali, che in più punti si perdono del tutto, e che fanno ampio uso di zeppe 60

lamellari in ardesia, sia nei giunti che nei letti di posa. Il legante è costituito da una malta color nocciola chiaro, con abbondante presenza di calce abbastanza pura dalla consistenza “pastosa”. Il lacerto potrebbe costituire il muro perimetrale di un’ulteriore abitazione che si sviluppava verso est, oppure una recinzione che delimitava uno spazio di pertinenza di uno o di entrambi gli ambienti scavati. Giuseppe Fichera

61

muro di cinta con il rifacimento, dove necessario, di alcuni tratti di muratura, sia nell’area sommitale (attività 1, 17) sia nell’area del borgo (attività 175, 176). In particolare in queste ultime aree già precedentemente edificate, la cinta muraria riprende, come andamento, la struttura più antica, sovrapponendosi ai vari tratti ancora in elevato (Fig. 49). Nella parte sommitale del castello il tratto più conservato di cinta del XII secolo è stato evidenziato sul limite nord della rupe dove la cinta precedente (si veda supra, attività 124, periodo II, fase 1) viene rialzata con la costruzione di un muro in calcare cavernoso (us 626) che riprende lo stesso andamento, allungandosi, poi, verso ovest, a definire il perimetrale del grande palazzo rettangolare (edificio A), su cui si risparmia una stretta feritoia ed uno scarico per i rifiuti (attività 162). La nuova muratura si caratterizza per una tecnica costruttiva - che nel XII secolo interessa nel complesso tutte le strutture – distinta da quella più antica sia per il materiale lapideo utilizzato, e per la lavorazione di questo, sia, come abbiamo già detto sopra, per l’orditura delle strutture murarie (si veda infra, contributo Fichera).

3. PERIODO III (XII- XIII secolo) Fase 1 XII secolo – prima metà XIII secolo Nei secoli XII e XIII il castello di Rocchette, legato ad elementi del gruppo familiare dei conti Pannocchieschi1 ed al vescovo di Volterra, appare anche dalla fonte scritta già definito urbanisticamente, con una rocca alla quale si affiancava una chiesa castrense citata nel 1179 ed inserita nella Diocesi di Volterra (FRANCOVICH, FARINELLI 1994; FARINELLI 2007, scheda 23.9). Tale chiesa, disposta nell’area sommitale o verosimilmente sui terrazzamenti del borgo, anche se lo scavo non è riuscito ad individuarla, era intitolata a Sant’Andrea e costituiva un fondamentale punto di riferimento religioso per gli abitanti del circondario. I dati archeologici hanno mostrato che il circuito murario non subì sostanziali modifiche rispetto all’XI secolo e fu dotato di una porta d’ingresso monumentale, ubicata esattamente dove sono state riscontrate le evidenze della porta nel secolo precedente. Da qui, le abitazioni del borgo si snodavano lungo le tre principali linee di terrazzamento naturali, secondo un criterio dispositivo abbastanza preciso, in grado di creare un’articolata viabilità che univa le varie parti dell’abitato all’ingresso e alla zona alta. Il pianoro sommitale, sede ora di una residenza signorile, di una torre e di una cisterna, era dunque contrassegnato dalla presenza di strutture ampie e architettonicamente più pregiate. Per quanto riguarda le aree artigianali, all’interno della cinta murata non si sono riconosciute aree specifiche a ciò adibite mentre le lavorazioni del minerale ed altre attività collegate si svolgevano nei tre lotti edificati all’esterno della porta d’ingresso, in prossimità della dolina A, situata nella parte sud-ovest dell’insediamento. Anche la documentazione scritta ci offre testimonianza delle lavorazioni metallurgiche, attraverso un impegno che la famiglia Pannocchieschi prese con il Comune di Massa nel 1232 per fornire annualmente una libbra di argento non monetato proveniente dai locali giacimenti (FARINELLI 2007, scheda 23.9) (Figg. 47-48).

L’area sommitale (attività 2, 15, 163, 164) La torre, la cisterna ed il palazzo All’area signorile si accedeva soltanto tramite la viabilità interna, essendo difesa naturalmente su due versanti dal salto di quota determinato dalla dolina A e sul terzo versante dal fossato artificiale che la separava dalla viabilità posta a mezzacosta del poggio Trifonti. Qui si posizionavano gli edifici privilegiati: una torre, una cisterna per la raccolta dell’acqua e l’edificio palaziale edificato sull’ambiente già costruito nell’XI secolo (edificio A). La torre (attività 2), ubicata sulla parte più alta della rocca sommitale, con il perimetrale sud posto sul limite della dolina A, presenta una forma rettangolare con una superficie interna pari a circa 40 metri quadrati. Le murature, di cui, a parte il perimetrale nord, si conservano pochi filari in elevato, sono costruite con grandi conci squadrati (lunghezza circa 40-50 cm e altezza circa 30 cm) di calcare cavernoso posti su corsi paralleli. Solo il muro perimetrale ovest (US 302) prevedeva una stretta fossa di fondazione (larghezza circa 10-15 centimetri) scavata direttamente sulla roccia. All’interno della torre sono state individuate stratigrafie relative al livellamento dell’area per l’impianto della struttura, tuttavia, nessuno strato è cronologicamente collegabile alla prima fase di uso della torre, ad eccezione di alcuni livelli costituiti da malta e pietrisco, probabilmente funzionali come preparazione del piano di calpestio (Fig. 50). Al lato nord della torre e al muro di cinta, nella stessa fase, si appoggia una cisterna (attività 15) edificata con la medesima tecnica muraria, con volta a botte (US 505) di cui rimangono in piedi quasi esclusivamente le imposte e le reni - provvista di apertura sommitale e di un rivestimento interno di malta idraulica di colore rosato. Le dimensioni interne della cisterna sono di circa 3,60 x 2,30 metri (Fig. 51).

LO SCAVO Il muro di cinta (attività 1, 17, 162, 175, 176) La ridefinizione urbanistica che interessa l’insediamento in questa fase cronologica, è, in prima istanza, visibile nel 1 I Pannocchieschi costituiscono il lignaggio comitale toscano che manifestò la maggiore propensione al controllo signorile dei distretti minerari; la famiglia aveva conosciuto la propria affermazione nei primi anni del XII secolo soprattutto nelle aree estrattive del volterrano, ma già all’inizio del Duecento riscontriamo un radicamento del lignaggio anche in castelli della maremma massetana, grossetana e sovanese, spesso in corrispondenza di aree contrassegnate da una presenza altrettanto rilevante di risorse estrattive. Alla fine del Duecento la famiglia era articolata in tre rami principali: i Pannocchieschi di Pietra, quelli di Perolla e Castiglion Bernardi e quelli di Travale; dalla prosecuzione dinastica di quest’ultimo lignaggio trassero origine i conti d’Elci che mantennero diritti signorili sino alla piena età moderna. Risale al 1232 un documento nel quale viene citato Ranuccio del fu Guglielmo Pannocchieschi come “comes de Rocchecta” (FARINELLI, FRANCOVICH 1994).

62

Fig. 47: pianta del periodo III, fase 1 (XII- prima metà XIII secolo) (elaborazioni grafiche di Maddalena Belli, Enrica Boldrini, Francesca Grassi)

63

Fig. 48: tabella della attività registrate nel Periodo III, fasi 1 e 2

Fig. 49: due tratti del muro di cinta dell’area sommitale, datati al XII secolo (att. 17, uss 503-511)

64

abbandono alla fine del Trecento possiamo presumere che fosse in funzione anche in questo momento, forse come annesso al grande palazzo adiacente. La matrice per sigillo in bronzo relativa al castello, già ricordata, fu stilizzata probabilmente in questa fase insediativa: nei due edifici che occupano la parte alta si riconoscono, infatti, il palazzo e la torre che sorgono su un masso roccioso, al di sotto vi sono cinque edifici in ordine decrescente che potrebbero rappresentare il borgo, contraddistinto anche da un aspetto semirupestre (Fig. 53). Fig. 50: panoramica del muro nord della torre sommitale

Fig. 52: finestra a feritoia nel muro del palazzo

Fig. 51: la cisterna dell’area sommitale (att. 17, us 509) Immediatamente a valle della torre e della cisterna era ancora in funzione lo spazio aperto venutosi a creare fin dall’XI secolo (si veda supra, attività 164). In questa zona, sugli strati del cantiere per il rifacimento del muro di cinta, fra il XII e i primi decenni del XIII secolo, si accumulano alcune stratigrafie di livellamento e di vita. Queste ultime sono costituite da strati compatti a cui si associa un focolare ben strutturato (attività 163), ubicato nell’angolo nord ovest, fra il muro di cinta e il palazzo e costituito da pietre in forma semicircolare con un piano in terra concotta coperto da una spesso strato di carboni. Ancora a sud, disposto sul terrazzo più basso della parte sommitale, sorgeva un grande edificio palaziale, edificato sul preesistente edificio A. Questo palazzo (18 x 5,30 metri; superficie interna di circa 100 metri quadrati), rispetto al precedente edificio, viene monumentalizzato (attività 164) con l’apertura di finestre a feritoia (Fig. 52). Le feritoie si aprivano nel perimetrale dell’edificio posto sulla viabilità interna, ricavata tra i due ambienti e direttamente nella cinta muraria che costituiva uno dei lati lunghi del palazzo, dal quale si accedeva all’interno, tramite un’apertura larga 1,5 metri. Una grande finestra (us 925) si apriva nel muro di cinta verso l’esterno. Sempre nel perimetrale nord fu creato uno scarico per rifiuti, corrispondente, all’interno, al primo piano del palazzo (us 924). L’edificio parallelo, invece, denominato B, anch’esso in uso dal secolo XI, non ha restituito fasi di vita relative al XII-XIII secolo, ma datandosi i depositi del suo

Fig. 53: matrice per sigillo in bronzo conservata presso il Museo Nazionale del Bargello (Firenze), da “Sigilli Civili del Museo del Bargello” La porta di accesso al castello (attività 165, 166) L’ingresso al borgo avveniva da sud (area 2000), attraverso una porta realizzata in conci squadrati di calcare cavernoso che conserva ancora in piedi entrambi gli stipiti e che era protetta da una tettoia in laterizio. Questo ingresso era raggiungibile tramite una viabilità che saliva dal livello stradale attuale sino al di sotto delle mura del borgo, costeggiando il fronte più alto della 65

permettevano un naturale accesso alla rocca, sede della torre e del palazzo.

grande dolina B, più tardi urbanizzato. Entrando, un piccolo ambiente (ambiente 1, superficie interna circa 10 mq.), ricavato a ridosso della porta, addossato alla cinta, e funzionale come posto di servizio e di guardia, si affacciava sulla strada (attività 166). Una scala in pietra (attività 165, US 2009), addossata sul perimetrale ovest al piccolo ambiente, permetteva di salire ad un ballatoio in legno sistemato sulla parte alta del muro, per arrivare fin sopra la porta. Da qui erano visibili tutte le aree di servizio esterne alla cinta muraria, la strada di accesso al castello e le attività che si svolgevano nelle doline. Oltre, si potevano scorgere la città di Massa Marittima ed il promontorio di Populonia (Figg. 54-55).

L’area artigianale esterna alle mura, tra le doline A e B (attività 143, 144, 178) Uscendo dalla cinta difensiva, si trovano alcuni ambienti sorti tra le doline A e B, ma i dati stratigrafici attribuiscono con certezza solo l’impianto di due di questi ambienti al XII secolo. Infatti, l’ambiente 10, di forma rettangolare, oggi obliterato al suo interno da un ingente crollo e non sottoposto a scavo, presenta lacerti di murature perimetrali attribuibili alla fase di strutturazione del XII secolo (attività 178). Questo ambiente al suo interno conserva i resti di almeno metà di una grande macina, di diametro di circa 1 m., sicuramente in uso per lavori artigianali (Fig. 56).

Fig. 54: la porta del borgo (area 2000) Fig. 56: l’ambiente con la macina (area 5000, att. 17) Inoltre, in un secondo ambiente, (ambiente 11) adiacente a questo e sottoposto a scavo, la presenza di stratigrafie riferibili al crollo di una struttura di copertura relativa ad un edificio precedente, sulle quali si imposta la successiva vita trecentesca, fa presumere che l’area fosse occupata già dal XII secolo, ma non sappiamo in quale forma, forse potrebbe trattarsi di una semplice tettoia per la copertura delle varie fasi lavorative che vi si svolgevano (attività 143, 144). Siamo probabilmente di fronte a impianti produttivi relativi alla fase signorile dell’insediamento, posti al di fuori dell’abitato, ma nell’area immediatamente esterna ad esso affinché chi dirigeva le attività metallurgiche potesse esercitare uno stretto controllo su ogni fase della produzione del metallo. Il saggio di scavo effettuato all’estremità sud degli ambienti ha, infatti, permesso di indagare un cumulo con grandi quantità di scorie di riduzione per la produzione di piombo argentifero da solfuri polimetallici, con probabile produzione di rame accessorio. Non sono state recuperate invece evidenze legate alla presenza di impianti produttivi per le lavorazioni metallurgiche.

Fig. 55: la scala us 2009 per salire sopra il camminamento della porta di accesso Il borgo Oltrepassata la soglia della porta del castello, era possibile salire nel borgo, costituito da tre terrazzamenti di case, composti da circa 4/5 abitazioni ognuno, per un totale di circa 15 nuclei abitativi (ma soltanto 11 di questi sono oggi rintracciabili in planimetria). Tra questi, nell’area ovest del borgo archeologicamente indagata (area 3000), continuano a vivere per tutto il XII secolo, pur con ampie ristrutturazioni, i due ambienti costruiti già nella fase precedente (edificio 35 e 36, si veda supra, periodo II). Il notevole dislivello con la parte signorile era superato per mezzo di gradini intagliati nella roccia che

Fase 2 Seconda metà XIII secolo Durante il terzo decennio del XIII secolo si colgono dai dati raccolti i primi sintomi di crisi del potere dei 66

crollate solo alla fine del XIV secolo, dopo la gestione finale del castello. Non si registrano dunque nell’area sommitale attività relative a questa fase.

Pannocchieschi. Nel 1232, infatti, Ranuccio del fu Guglielmo Pannocchieschi con il figlio Guglielmo decisero di acquisire la cittadinanza massetana nel tentativo di arginare l’ondata di spopolamento che stava insidiando il castello, come altri loro possedimenti del territorio, a favore della vicina Massa (FARINELLI, FRANCOVICH 2000, pp. 38-39). Sono da collegare a questi eventi le testimonianze archeologiche della seconda metà del Duecento, momento in cui furono demolite alcune case addossate alle mura, mostrando presumibilmente l’avvenuto abbandono del villaggio da parte di alcuni abitanti. In particolare, proprio nella seconda metà del Duecento, i Pannocchieschi persero poco per volta il controllo sul castello, sfavoriti anche dalle congiunture politiche. Dopo la vittoria che il comune di Siena riportò a Montaperti nell’anno 1260 nei confronti delle truppe guelfe del comune di Firenze, scontro che ebbe la sua motivazione principale negli interessi economici di entrambe le città, Siena riuscì ad entrare in possesso del limitrofo castello minerario di Cugnano e occupò militarmente quello di Rocchette, il quale ritornò in mano ai Pannocchieschi solo dopo una nuova affermazione dello schieramento guelfo. Da un lato, Rocchette divenne un avamposto per le scorrerie perpetrate dai Pannocchieschi verso la città di Massa, dall’altro il comune massetano aveva messo in atto una politica di acquisizioni per quote sia del castello che del suo territorio, compresi i diritti sulle locali miniere. La ricca documentazione scritta che caratterizza questi anni ci informa che, già nel 1298, Nello di Inghiramo Pannocchieschi di Pietra aveva venduto al comune cittadino le quote da lui possedute "totius castri sive arcis", nonché "palatii et cassari dicti castri" e la quota a lui spettante di case, terre e diritti, compresi quelli sulla "minera cuiscunque metalli". Una cessione successiva fu quella operata dal fratello di Nello, Mangiante del fu Inghiramo da Pietra che nel 1301 vendette alla città un dodicesimo del castello di Rocchette - compresa la "ratio sive ius quod habet in argenteria de Cugnano" (FARINELLI 2007, scheda 23.9). Tutti i depositi indagati hanno permesso di evidenziare, per il Duecento, un andamento insediativo eccentrico: il dato maggiore che si coglie è infatti, sia nelle parti del borgo sia nell’aria sommitale, l’assenza di depositi in orizzontale attribuibili alla seconda metà del XIII secolo e, di contro, una nuova esplosione edilizia a partire proprio dalla fine dello stesso secolo, in concomitanza, sembrerebbe, con le nuove acquisizioni massetane. Di fatto, emergerebbe a Rocchette un momento di stasi, anche nella produzione del metallo monetabile, collegata alle incertezze politiche ed alla frammentazione tra vari proprietari, almeno sino alla seconda metà del Duecento, per lasciare in seguito posto ad un rilancio del sito, principalmente attraverso un ripopolamento ed una nuova fase edilizia operata dai detentori del castello minerario.

Il borgo (attività 38, 39, 41) Solo nell'area del borgo, al momento, è stato possibile identificare una situazione riferibile al XIII secolo. In riferimento al saggio di scavo sulla parte ovest (area 3000), possiamo infatti datare attorno alla metà del XIII secolo l’abbandono delle abitazioni addossate alle mura (attività 38, abbandono dell’ambiente 36 e attività 39, abbandono dell’ambiente 35). Dopo lo smantellamento, forse deliberato, di queste strutture, l’area, spianata, viene utilizzata in parte a orto (attività 41), per tutto il XIII secolo. Dunque, mentre un secolo prima aveva una forte connotazione urbanistica, la zona appare ora dismessa e sottoutilizzata e ciò sembra trovare riscontro con la documentazione storica che parla di un castello in crisi e di un potere signorile minato dallo spopolamento, anche se l’estensione del dato ricavato da una sola delle aree di scavo potrebbe non corrispondere all’evoluzione che seguì tutto il castello. Francesca Grassi ANALISI DEGLI ELEVATI Il castello signorile tra XII e prima metà XIII secolo Dal punto di vista delle evidenze architettoniche, con la comparsa del castello di Rocchette ormai legato al lignaggio dei conti Pannocchieschi, si attesta un cambiamento dai caratteri marcati che comportò la ricostruzione di un nuovo insediamento, in linea con quanto registrato in numerose altre realtà fortificate della Toscana, delineatosi sulla base di un progetto da cui traspare la forte volontà di controllo e autorappresentazione dei signori locali. L’adozione di tecniche costruttive di pregio che hanno riacquisito il passaggio della squadratura nel ciclo di lavorazione della pietra, e il ricorso a modelli edilizi capaci di rappresentare e “pubblicizzare” il ruolo dei signori, sono fenomeni diffusi nella grande maggioranza degli insediamenti fortificati di ambito non esclusivamente regionale, elementi che contribuiscono a sancire il passaggio definitivo dalla signoria fondiaria a quella territoriale. L’assetto urbanistico definito a Rocchette Pannocchieschi ripropose un modello parzialmente ereditato dal secolo precedente, ma rivestito di una impronta signorile molto forte che lo fece apparire come il risultato di un progetto radicalmente nuovo, attraverso il quale i committenti affermarono la paternità dell’opera e la signoria su uomini e risorse. Una dichiarata vocazione mineraria, legata al controllo ed allo sfruttamento delle risorse della zona, determinò anche una scala di intervento che, almeno a livello puramente dimensionale, rimase abbastanza ridotta se confrontata con altri esiti di ambito regionale. L’insediamento raggiunse nel corso del XII secolo, ma è fortemente probabile che anche nel secolo precedente le

L’area sommitale Non si colgono nell’area signorile trasformazioni relative alla fine del Duecento. Il palazzo e la torre, non hanno infatti restituito fasi inseribili nel XIII secolo. L’abbandono non comportò comunque collassi delle strutture, che risultavano ormai in disuso e parzialmente 67

dimensioni non fossero troppo differenti, un perimetro murario di 217 metri che racchiuse una superficie pari a quasi 2500 mq, appena un quarto di ettaro tra l’altro non interamente utilizzabile per i forti dislivelli interni2. La planimetria del sito ricalcò una forma pseudo triangolare che occupò quasi per intero l’area delimitata ad ovest e a sud-est dalle due grandi doline B ed A, e a nord est dal fossato artificiale (Fig. 57). L’area sommitale fu occupata da un primo edificio turriforme localizzato nella porzione più elevata, la cui edificazione procedette di pari passo con quella dell’adiacente cisterna. Le dimensioni dello spazio interno, ma soprattutto la localizzazione nello sperone più alto di roccia ne sancirono una connotazione difensiva e militare, che delegò le funzioni residenziali ad un grande edificio, situato qualche metro più in basso e riedificato su una struttura preesistente (edificio A). Anche se le tecniche costruttive confermano una sostanziale contemporaneità costruttiva, il grande edificio si appoggiò alla cinta muraria, e la presenza su questa di finestre e scarichi legati all’articolazione formale del palazzo, contribuisce ulteriormente a testimoniare la dettagliata pianificazione del progetto. È probabile, come già ipotizzato per il secolo precedente, che l’area signorile non fosse dotata di una propria fortificazione munita di un accesso autonomo, ma questa poteva definirsi naturalmente a seguito della distribuzione topografica delle strutture e della conformazione del pianoro di roccia. I fianchi del pendio furono anch’essi racchiusi all’interno del nuovo perimetro difensivo, dotato di un unico accesso nell’angolo sud-occidentale3, dal quale si dipartiva una viabilità principale orientata in senso est-ovest, larga circa 2.70 metri, collegata ad una minore sviluppata principalmente in direzione perpendicolare alla prima, funzionale al raggiungimento dei differenti lotti abitativi, composta generalmente da vicoli di larghezza compresa tra 2 e 4 metri. In relazione a questo momento di ridefinizione edilizia sono stati individuati all’interno del circuito murario almeno otto ambienti4, attribuiti ad un orizzonte cronologico di XII secolo soprattutto sulla base del confronto delle tecniche costruttive, in assenza di più precisi dati provenienti dalla stratigrafia orizzontale, carenza quest’ultima che lascia un velo d’ombra anche sulla destinazione d’uso di tali edifici. Le case risultano distribuite su due terrazzamenti paralleli tra loro e, almeno quelle poste ad una quota più bassa, presentano un lato addossato alla cinta muraria. Le numerose evidenze negative individuate sulle pareti di roccia che costituiscono il fianco del pianoro sommitale lasciano

inoltre ipotizzare che le case dei terrazzamenti più alti vi si addossarono per occupare tutto lo spazio disponibile fino ai piedi della rupe. Le dimensioni delle strutture sembrano far riferimento a due tipologie principali, la prima delle quali dotata di un fronte di almeno 12 metri, una profondità di circa 8 metri ed una superficie interna oscillante tra 95 e 104 mq, risulta attestata in ben quattro casi. Alternate a questi grandi ambienti, almeno nel terrazzamento mediano, si individuano strutture di dimensioni minori con un fronte compreso tra 4 e 6 metri ed una superficie interna di circa 33 mq. La perdita di una maggior regolarità dimensionale negli altri ambienti individuati sembra legata al fatto che questi furono adattati alle irregolarità del circuito murario, per sfruttare al meglio le aree edificabili e destinati in alcuni casi ad attività particolari. È questo il caso di un ambiente di dimensioni molto ridotte, circa 10 mq, localizzato a ridosso della porta di ingresso e dotato sul lato esterno di un sistema di salita alla cinta muraria, apparentemente destinato a punto di guardia dell’accesso al castello (ambiente 1). La cinta muraria Il circuito murario fu ricostruito, limitatamente alle porzioni che necessitavano interventi di restauro, sfruttando per il resto le parti più antiche che ancora si conservavano in buono stato5. Nell’area sommitale, in corrispondenza dell’edificio A, è ancora ben visibile la sovrapposizione diretta tra l’apparecchiatura muraria attribuibile a questa fase e le murature più antiche che, sul versante esterno, furono quasi interamente “rifoderate” (Fig. 58). I rapporti stratigrafici tra la cinta muraria ed il palazzo evidenziano inoltre, in maniera estremamente precisa, la sequenza costruttiva adottata dalle maestranze edili. Queste ultime restaurarono innanzitutto il più antico perimetro difensivo, realizzando nello stesso tempo una prima apertura strombata6, una nicchia ed uno scarico passante nello spessore del muro, arredi funzionali alle necessità del palazzo che di lì a poco sarebbe stato realizzato all’interno del circuito (Attività 162). L’edificio A infatti, pur appoggiandosi alla cinta muraria dimostrando in tal modo una posteriorità costruttiva, sfrutta sia le aperture sia lo scarico localizzato nel muro, elementi che, uniti ad una analoga tecnica costruttiva, evidenziano l’appartenenza delle due strutture al medesimo orizzonte cronologico ed al medesimo progetto edilizio. Proseguendo l’analisi delle strutture difensive, si osserva un tratto abbastanza ben conservato in corrispondenza del versante orientale del pianoro sommitale, dietro la cisterna e la torre. Il profilo fortemente scosceso del lato

2 Per una corretta valutazione dell’aspetto dimensionale del sito, bisogna certamente aggiungere a questa superficie anche gli ambienti, con destinazione artigianale ed abitativa, che si svilupparono all’esterno del circuito murario nelle fasi bassomedievali. 3 Labili tracce di un probabile punto di accesso sono state individuate nel versante nord del circuito murario e il grado di lavorazione degli elementi che compongono l’unico stipite conservato farebbero ipotizzare un intervento edilizio attribuibile almeno al XII secolo o anche più tardo. 4 Il calcolo delle dimensioni ha permesso di ipotizzare che nel versante nord del borgo potevano trovare posto almeno altre tre abitazioni del tipo più grande e forse due o tre di dimensioni più ridotte.

5

Prassi costruttiva estremamente diffusa nell’ambito delle vaste operazioni edilizie attribuibili al XII secolo. Nel non lontano sito di Donoratico nel corso del XII secolo fu ricostruito appena il 40% del circuito difensivo, sfruttando per il resto le strutture preesistenti. Si veda FICHERA 2004, p. 43-46 e PARIS 2005 per uno sguardo più ampio al territorio comunale di Castagneto Carducci. 6 Le dimensioni interne dell’apertura sono pari a 0.62 m di larghezza x 1 metro di altezza conservata, alle quali si associa una larghezza esterna di 0.09 m, su uno spessore totale del muro pari a 1.35 metri.

68

Fig. 57: planimetria con indicate le evidenze murarie di XII secolo meridionale, edificato sul bordo della dolina A, non ha conservato che pochi lacerti del perimetro murario, che si ritrova più ad ovest, in prossimità della porta di ingresso al castello. La tecnica costruttiva della cinta difensiva, almeno per l’area sommitale del castello, impiega conci squadrati in maniera più o meno accurata, quasi sempre rifiniti da spianatura superficiale, particolarmente evidente in corrispondenza di elementi di rilievo, come gli stipiti delle aperture. Come litotipo il calcare cavernoso ha sostituito l’arenaria, prevalente nelle fasi costruttive più antiche, e la regolarità dei conci genera una posa in opera estremamente regolare, con filari paralleli e orizzontali che utilizzano pochissime zeppe, del tipo lamellare in ardesia. Il legante utilizzato è costituito da una malta di calce compatta e tenace di colore chiaro, mista ad inclusi di dimensioni anche centimetriche, composti da ghiaia non fluitata. Oltre alla lavorazione ed alla finitura superficiale dei conci, un accorgimento tecnico legato ad una particolare posa in opera contribuisce a distinguere l’operato delle maestranze che edificarono la cinta posta a difesa della

Fig. 58: prospetto esterno della cinta ricostruita nel XII secolo nell’area sommitale 69

spessore murario di 1.80 m circa caratterizzato da un riempimento caotico composto da pietre non lavorate di dimensioni variabili ben costipate con scaglie di dimensioni minori e legate da malta (Fig. 60)7.

porzione sommitale del castello. L’intero paramento murario del versante settentrionale del pianoro presenta infatti filari orizzontali e paralleli posti in opera in maniera progressivamente decrescente, probabilmente per conferire al muro una stabilità ed una robustezza maggiori. Tale espediente si registra fino a circa metà del soprastante palazzo, in corrispondenza di un angolo che l’allineamento del muro di cinta compie, oltre il quale il paramento murario riacquista una canonica superficie “a piombo”. Ulteriori lacerti murari si conservano nel versante meridionale del sito, edificati direttamente sul bordo della dolina A, mentre un’ampia porzione si individua in prossimità della porta di accesso edificata nell’angolo sud-occidentale delle difese. Nel prospetto posto a sud della porta di accesso, sopra i resti di un muro attribuito al periodo precedente (vedi infra), si conserva un elevato di circa 3 metri di altezza composto da un’apparecchiatura muraria che adopera bozze di calcare cavernoso miste ad altre di arenaria lavorate con una certa cura e a volte sottoposte a spianatura superficiale, effettuata con uno strumento a punta le cui tracce sono maggiormente evidenti nei conci di arenaria (Fig. 59).

Fig. 60: stipiti della porta di ingresso al castello La porta del castello doveva essere ulteriormente protetta da un camminamento posto sul colmo del muro, raggiungibile da una rampa di scale in pietra che si addossa al primo degli ambienti che si incontra una volta varcato l’accesso al castello, sul lato destro. Anche l’ambiente in questione (ambiente 1), considerate le dimensioni interne estremamente ridotte, pari a circa 10 mq, poteva essere adibito a punto di guardia dell’accesso. Un ultimo ampio tratto di mura relative a questa fase si conserva lungo tutto il versante occidentale, al quale nei periodi successivi furono addossate una serie di abitazioni costruite sul bordo della dolina. Una prima porzione, impostata su un basamento a sezione leggermente inclinata, probabilmente in funzione di un miglior adattamento alla irregolarità dei banchi di roccia affiorante, si caratterizza per un’apparecchiatura muraria che utilizza principalmente bozze di arenaria rifinite in maniera molto sommaria, poste in opera su filari orizzontali e paralleli con ampio ricorso a scaglie di pietra e zeppe lamellari per colmare le irregolarità degli elementi (Fig. 61). Dal crollo di una porzione di paramento si individua inoltre un riempimento interno del tipo “a bancate”, nel quale blocchi non lavorati e scaglie di pietra legati da malta seguono un ritmo di accrescimento legato a quello dei filari del muro stesso. Una seconda porzione si caratterizza invece per una tecnica costruttiva che si avvale di conci di calcare cavernoso misti ad altri in arenaria, squadrati e rifiniti in maniera più accurata, senza tuttavia raggiungere i livelli registrati nell’area sommitale o nella zona in prossimità della porta, legati da un minor quantitativo di malta.

Fig. 59: la cinta muraria di XII secolo localizzata in prossimità dell’angolo sud-occidentale del castello La posa in opera procede per filari orizzontali e paralleli ulteriormente regolarizzati tramite l’inserimento di scaglie litiche di dimensioni medio piccole sia nei letti di posa che nei giunti. Il legante utilizzato, a base di malta di calce compatta e tenace, risulta steso in abbondanti quantità e spianato a coprire i bordi dei conci. Poco più ad est è visibile una porzione del paramento murario, in appoggio a quella descritta, che utilizza blocchi di calcare cavernoso di dimensioni maggiori che comportano lo sdoppiamento di alcuni filari, testimoniando probabilmente l’operato di gruppi di costruttori differenti da quelli più specializzati che si occuparono dell’edificazione della porta e delle porzioni murarie ad essa limitrofe. La porta, di ampiezza pari a 2.20 metri, è dotata di stipiti in calcare cavernoso ben squadrati e spianati in superficie ed evidenzia, in corrispondenza dello stipite sud, uno

7

La valutazione delle dimensioni della porta e delle caratteristiche principali della viabilità interna al castello portano ad ipotizzare una circolazione limitata ad uomini a piedi o al limite con animali da trasporto o cavalcature singole, non certamente con carri di dimensioni elevate.

70

definitivo abbandono avvenuto nel corso del XIV secolo, e probabilmente una fase intermedia legata ad alcune modifiche strutturali, come si evince dalla presenza di un tramezzo, riportato in luce solo in cresta, che non sembrerebbe risalire alle fasi originarie. In assenza dunque di dati di scavo, il racconto della storia di questo edificio sarà principalmente basato sull’analisi delle evidenze murarie superstiti. Ciononostante, un dato estremamente importante proviene dallo scavo dell’area esterna posta ed est, che ha evidenziato come il palazzo sia stato costruito sfruttando come fondazione un muro più antico, a sua volta poggiato alla precedente cinta difensiva. Questa situazione di partenza portò forse i costruttori ad adottare una sequenza costruttiva analoga, sulla base della quale anche nella fase di XII secolo fu prima restaurato il circuito murario, ed in un momento di poco successivo fu portata a termine la costruzione del palazzo (Attività 164). Il palazzo ha una forma rettangolare, resa irregolare da un leggero cambio di direzione del muro di cinta, e dimensioni interne pari a 18 metri di lunghezza per 5 metri di larghezza ad est che diventano 7 nel margine ovest, per un totale di 104 metri quadrati di superficie interna. Le dimensioni relativamente ridotte del lato corto probabilmente non richiesero la presenza di sostegni intermedi, come ad esempio pilastri, per l’aggancio delle travi del solaio del piano superiore, per le quali poteva essere sufficiente un sistema di mensole o buche pontaie, delle quali purtroppo si sono perse le tracce. L’articolazione volumetrica interna poteva dunque contare almeno su due piani e, nel prospetto settentrionale del piano superiore, probabilmente deputato alla residenza dei signori9 si individuano una nicchia (0.90 m di larghezza) accanto alla quale è situato uno scarico realizzato nello spessore della muratura che fuoriesce alcuni metri più in basso direttamente all'esterno del muro di cinta, funzionale alla presenza di servizi igienici10. Si tratta dunque di strutture realizzate con notevole perizia funzionali alla vita del piano signorile del palazzo, forse collegato al sottostante da un sistema di scale lignee del quale si sono perse le tracce. L’ingresso principale è situato al centro del prospetto meridionale, dove si conservano i resti di una porta larga 1.60 metri che si affaccia su una viabilità interna11. Nel muro posto alla sinistra dell’ingresso si aprono due strette feritoie12, una delle quali solo parzialmente conservata, e due buche pontaie, entrambe del tipo passante lo spessore

Fig. 61: cinta muraria di XII secolo localizzata lungo il versante occidentale delle mura L’area sommitale - La residenza dei signori L’edificio A, comunemente definito palazzo, è localizzato nel margine nord-occidentale del pianoro sommitale, ad una quota più bassa rispetto alla torre e alla cisterna, e risulta addossato sul lato settentrionale alla cinta muraria e con il perimetrale occidentale posto sul bordo del terrazzamento naturale ed in parte crollato (Fig. 62)8.

Fig. 62: l’edificio A dell’area sommitale visto dalla torre

9

La presenza di feritoie nei muri perimetrali del pian terreno potrebbe far ipotizzare una funzione difensiva legata alla presenza di personale di guardia, o comunque non di piano residenziale. 10 Una struttura di scarico analoga è stata rinvenuta nell’edificio A della Rocca di Campiglia Marittima, risalente alla prima metà del XII secolo. Vedi BIANCHI 2004c, p. 727. 11 Non ci sono dati sufficienti per avanzare ipotesi circa la strutturazione in questo periodo dell’area posta di fronte al palazzo. Nei pochi filari superstiti delle murature non sono presenti interventi costruttivi che possano essere attribuiti alla fase di XII secolo, per cui rimangono valide le osservazioni avanzate per il periodo precedente, circa una possibile platea o un ambiente di servizio. 12 Le dimensioni esterne dell’apertura integra sono pari a 0.58 m di altezza x 0.12 di larghezza, alle quali si associa una larghezza interna di 0.52 m.

Per motivi legati alla logistica del cantiere, la strategia del progetto di scavo ha dovuto limitare l’indagine archeologica interna all’ambiente all’asportazione degli strati di crollo più superficiali, che hanno evidenziato un 8 Le menzioni documentarie di “palazzi” si intensificano, per il territorio studiato, tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo in riferimento ad edifici di natura privata e non pubblica come era stato sino al XIII secolo. (BIANCHI 2004c, p. 730, nota 19). In contesti come quello di Rocchette Pannocchieschi, o in casi analoghi di architetture castellane, si utilizza convenzionalmente il termine “palazzo” in riferimento ad una tipologia edilizia corrispondente nelle caratteristiche generali a quella descritta.

71

della muratura e di certo legate al sistema di ponteggi messi in opera per l’edificazione della struttura (Fig. 63).

rende difficoltosa la lavorazione più accurata, oltre a non permettere il riconoscimento degli strumenti di lavorazione sulla base dell’analisi delle tracce. Il legante è costituito da una malta di calce estremamente compatta e tenace di colore giallastro, adoperata in abbondanti quantità che prevedevano la stesura delle parti rifluenti fino a coprire i margini dei conci, ed in pochi casi ancora visibili anche una ulteriore stilatura effettuata con uno strumento a punta. Finitura che accomuna, assieme alla lavorazione dei conci, la tecnica costruttiva del palazzo a quella della vicina cisterna e del muro orientale dell’Ambiente 1. Questi i dati che è possibile ricomporre sulla base di un’accurata analisi delle architetture superstiti, che si rivelano comunque insufficienti a restituire la reale immagine del palazzo della rocca. Mancano ad esempio dati relativi al sistema di aperture necessarie ad illuminare piani così spaziosi, oltre alle strette feritoie del pian terreno. Una piccola spia in tal senso potrebbe essere costituita da una lunetta in pietra di fattura accurata, che si conserva ancora oggi poco sotto l’edificio, nel percorso che conduce ai terrazzamenti inferiori del borgo. Un elemento architettonico così rifinito poteva coronare un’apertura di un certo pregio, magari una finestra che si apriva nel prospetto occidentale del palazzo, dalla quale sarebbe stato possibile controllare visivamente tutto il sottostante borgo e le eventuali aree produttive esterne allo stesso. La torre Nella porzione più elevata dello sperone di roccia su cui sorge la rocca fu edificato, contemporaneamente all’adiacente cisterna e sopra i crolli delle più antiche strutture in materiale deperibile, un edificio turriforme di forma quadrangolare e dimensioni notevoli pari a 8.23 x 4.86 m, per una superficie totale di 40 mq (Attività 2). Attualmente dell’edificio si conservano in parte i lati nord, sud ed est, che non costituivano ancora l’elevato dei muri perimetrali ma foderavano lo sperone su cui la struttura fu edificata. Soltanto il lato occidentale si impostava sul medesimo piano di calpestio interno all’ambiente, ma di questo si conservano soltanto alcuni filari frutto di una recente ricostruzione. Il prospetto nord, con uno spessore di 1.30 metri, è visibile dall’interno della cisterna al quale si presenta stratigraficamente legato, anche se la cisterna fu dotata anch’essa di un proprio muro sullo stesso lato che andava a raddoppiare quello della torre. Il lato est, edificato sul bordo del fossato artificiale, si appoggiava alla cinta muraria che raggiungeva in questo punto lo spessore di 2.10 metri, ed il lato sud, edificato sul bordo della dolina A, integrava le difese del sito sostituendosi alla stessa cinta muraria. Poco altro è possibile aggiungere circa la descrizione formale dell’edificio, come altezza originaria o tipologia di aperture, a causa del pessimo stato di conservazione in cui versa. La tecnica costruttiva, elemento sul quale principalmente si basa l’attribuzione ad un orizzonte cronologico di XII secolo, si caratterizza, in analogia con quella del palazzo, della cisterna e della cinta muraria, per una regolare posa in opera di conci squadrati di calcare cavernoso di dimensioni medio-grandi, sottoposti a

Fig. 63: prospetto meridionale dell’edificio A In corrispondenza del paramento interno del muro occidentale, a circa 1.80 m dal piano di calpestio, si osservano sia una variazione dello spessore, che passa 1.07 a 0.70 m, ma anche un cambiamento nella tecnica costruttiva che si fa meno accurata nella lavorazione degli elementi lapidei13. Entrambi gli indizi portano ad ipotizzare un intervento di ricostruzione di una parte della facciata dell’edificio, esteso con buona probabilità anche alla porzione orientale del palazzo, sia nel prospetto principale che nel muro perimetrale. Se nella metà orientale del prospetto principale mancano infatti le feritoie che caratterizzano la metà occidentale dello stesso, anche la tecnica costruttiva presenta un riutilizzo di conci squadrati apparecchiati in una posa in opera più disordinata, tipica dei secoli successivi al XII. Nella sua fase originaria invece il palazzo sarebbe stato edificato con conci di calcare cavernoso, misti a pochi elementi di arenaria, squadrati con maggior cura in corrispondenza degli elementi architettonici più significativi, come gli stipiti delle aperture14. La finitura superficiale è presente, compatibilmente con la natura compatta ma ricca di cavità del calcare cavernoso che ne 13 Ad uno spessore murario così ridotto si associa un riempimento interno delle due incamiciature praticamente inesistente, composto da pietre spaccate miste a scaglie litiche e a frammenti di laterizi legati da una malta di calce molto friabile di color beige. 14 Se consideriamo valida l’ipotesi di una ricostruzione quasi integrale della porzione orientale dell’edificio, non si conservano angolate risalenti alla fase di XII secolo da poter registrare.

72

finitura superficiale e apparecchiati su filari orizzontali e paralleli (Fig. 64).

impostata ad 1.80 m da terra, nella quale si apriva una botola nell’angolo sud-est, funzionale probabilmente sia alla canalizzazione delle acque sia alla loro raccolta. Il paramento murario, spesso 0.80 m, si caratterizza sui due lati esterni per la posa in opera di conci di medie dimensioni di calcare cavernoso, sottoposti ad una squadratura abbastanza curata, posti in opera su filari orizzontali e paralleli, impostati su una risega di fondazione leggermente aggettante, con angolate di tipo gerarchizzato. Un accorgimento già descritto per le murature del palazzo prevedeva la spianatura della malta rifluente a coprire i margini dei conci, malta del tutto simile per caratteristiche macroscopiche a quella utilizzata nelle murature del palazzo. La muratura interna era integralmente ricoperta da uno spesso strato di malta idraulica che fungesse da isolante, un cocciopesto compatto di color rosato nelle cui lacune si registra il paramento murario interno composto da bozze di dimensioni più ridotte e sottoposte ad una lavorazione meno curata.

Fig. 64: area sommitale del castello. A dx sono localizzati i resti della torre, a sx quelli della cisterna

Gli edifici del borgo Varcato l’accesso al castello, percorrendo il tratto di viabilità liberato dai crolli, si trova sul lato sinistro la facciata di un primo ambiente (ambiente 5) non scavato al suo interno, e sul lato destro un ambiente di forma irregolare e dimensioni ridotte, oggetto di scavo, (Ambiente 1. 2.60 x 2.70 x 4.10, per un totale di circa 10 mq) che, considerate dimensioni e posizione poteva assolvere la funzione di punto di guardia dell’ingresso al castello (Fig. 66).

La cisterna In corrispondenza del lato settentrionale della torre fu costruita una cisterna per la raccolta delle acque piovane, necessarie alle attività quotidiane degli abitanti dell’area sommitale del castello (Fig. 65).

Fig. 65: prospetti interni della cisterna Fig. 66: l’ambiente 1, situato all’ingresso del castello

L’analisi dei rapporti stratigrafici evidenzia una sequenza costruttiva abbastanza articolata secondo la quale i costruttori edificarono innanzitutto il perimetro difensivo, come già evidenziato anche per il palazzo, per procedere in seguito alla costruzione contemporanea della torre e della cisterna (Attività 15). Il muro occidentale di quest’ultima risulta infatti stratigraficamente legato alla porzione mediana del muro settentrionale della torre. Il dato abbastanza singolare consiste nel fatto che, nonostante si trattasse di un’unica costruzione, il paramento meridionale della cisterna fu ugualmente costruito, in appoggio a quello della torre, invece di sfruttare un unico muro perimetrale. Le dimensioni interne della vasca sono di 3.60 x 2.30 m. La copertura dell’ambiente era costituita da una volta a tutto sesto,

All’esterno di tale ambiente, in corrispondenza del muro perimetrale ovest si appoggia inoltre una rampa di scale in pietra, impostata sopra un ampio basamento di fondazione, dalla quale era possibile raggiungere il camminamento posto a ulteriore difesa della porta. La scala era principalmente costituita da blocchi di calcare cavernoso di grandi dimensioni, squadrati e sottoposti ad ulteriore finitura superficiale, che racchiudevano al loro interno, come si vede dal prospetto occidentale, un’apparecchiatura muraria irregolare composta da bozze di dimensioni medio-piccole miste a scaglie sia di arenaria sia di calcare cavernoso, su filari sdoppiati. L’ambiente 1 presenta in corrispondenza del perimetrale orientale, in comune con l’ambiente situato nel 73

terrazzamento soprastante e costruito in appoggio al muro di cinta, un’apparecchiatura muraria estremamente regolare composta da conci ben squadrati di calcare cavernoso posti in opera su filari orizzontali e paralleli con scarso utilizzo di zeppe del tipo lamellare in ardesia. Le dimensioni dei conci e dunque dei filari decrescono progressivamente dal basso verso l’alto, ed il muro si imposta a diretto contatto del locale banco di roccia sottoscavato di qualche decina di centimetri. I conci sono legati da una malta di calce compatta e tenace di colore biancastro con pochi inclusi di dimensioni millimetriche e frammenti di laterizi. In corrispondenza dei giunti e dei letti di posa l’abbondante malta rifluente è spianata a coprire i bordi dei conci stessi e sottoposta a stilatura tramite uno strumento a punta arrotondata. Al prospetto appena descritto è stratigraficamente legato uno degli stipiti della porta di accesso all’Ambiente 1 e la prosecuzione verso est del muro stesso, edificato con una tecnica costruttiva analoga, che richiama da vicino le apparecchiature più regolari registrate in corrispondenza delle strutture dell’area sommitale e della porta di accesso al castello. I paramenti settentrionale e occidentale dell’ambiente, pur all’interno di un medesimo progetto costruttivo, furono invece edificati facendo ricorso ad una tecnica decisamente più irregolare che limitava alla parti staticamente più significative, come l’angolata o gli stipiti dell’apertura, conci squadrati in calcare cavernoso di grandi dimensioni. Lo spazio racchiuso tra il cantonale, del tipo gerarchizzato ed evidenziato, e lo stipite della porta è riempito da pietre di arenaria miste ad altre in calcare cavernoso, spaccate e sommariamente sbozzate di medie dimensioni, poste in opera su filari irregolari e sdoppiati rispetto al cantonale, con numerose scaglie usate come zeppe. Gli elementi litici sono tenuti insieme da una esigua quantità di legante, forse steso in giunti del tipo arretrato, costituito da una compatta malta di calce di colore biancastro mista ad inclusi molto fini. A monte dell’ambiente appena descritto si individua l’Ambiente 2, che condivide con il primo il muro perimetrale ovest e la facciata, parzialmente visibile in questo secondo caso in quanto ancora obliterata dagli ingenti strati di crollo che occupano l’area. Considerando inoltre la pendenza della viabilità principale è plausibile ipotizzare un’articolazione su almeno due livelli per l’Ambiente 2, e forse delle scale posizionate lungo la strada che avrebbero permesso di colmare il forte dislivello del suolo naturale. In corrispondenza del versante meridionale l’ambiente si poggiava direttamente al muro di cinta e ad est era chiuso da un ulteriore muro. Le dimensioni del vano sono abbastanza regolari (7.80 x 7.80 m), mentre un angolo creato dal muro di cinta genera una forma irregolare ed una superficie pari a 58 mq. La scarsa visibilità dei paramenti murari di questo secondo ambiente ha impedito una analitica descrizione delle apparecchiature murarie. L’Ambiente 3 della nostra analisi è costituito da uno spazio di forma allungata (dimensioni di circa 4.20 x 11.80 m, superficie 42 mq) che confina ad ovest con l’Ambiente 2, a sud con il muro di cinta, mentre ad est e a nord le pareti furono create realizzando una taglio regolare della parete rocciosa, attualmente visibile per

circa 1 metro di altezza, forse completato da un’apparecchiatura muraria in relazione alla quale si conserva soltanto il sacco interno. La forma e le dimensioni dell’ambiente lascerebbero ipotizzare una destinazione di servizio, più che abitativa, un recinto o una rimessa legata probabilmente al limitrofo Ambiente 2. Ad est dell’Ambiente 3 su una viabilità larga circa 4.80 metri orientata in senso nord-sud si affacciava l’Ambiente 4, in relazione al quale si conserva soltanto un lacerto del muro perimetrale ovest, lungo circa 6.50 m e spesso 0.90 m. A sud l’ambiente si poggiava ancora al muro di cinta mentre è probabile che in corrispondenza del versante orientale fosse direttamente poggiato alla parete rocciosa che costituisce il fianco del pianoro sommitale. Su questa parete infatti, distante dal muro ovest circa 11.2 metri, si individuano ancora evidenti tracce di un sistema di alloggi di forma quadrangolare15, posti su due file parallele, funzionali al sostegno di travi lignee legate al solaio del primo piano della casa e forse alle travi della copertura o del sottotetto (Fig. 67).

Fig. 67: tracce di incastri per travi di solai nella parete rocciosa dell’ambiente 4 La struttura ipotizzata, in relazione alla quale mancherebbe il muro di chiusura del lato nord, avrebbe dimensioni considerevoli pari a circa 100 mq, ed uno sviluppo volumetrico ripartito almeno su due piani, in base all’analisi delle tracce conservate sulla parete rocciosa. Tra l’Ambiente 4 e l’Ambiente 6 avrebbe potuto trovare spazio un’altra struttura di minori dimensioni, ovvero un’area aperta di pertinenza comune, tuttavia il distacco di grandi porzioni di parete crollate in questa zona rende difficoltosa una ricostruzione più dettagliata degli spazi edificati interni al circuito murario. A nord della viabilità principale orientata in senso estovest trovava spazio una seconda serie di strutture comprese tra il muro di cinta ad ovest, e il fianco roccioso del pianoro sommitale ad est. La prima di queste è l’Ambiente 5, posizionato immediatamente a sinistra dell’ingresso principale e caratterizzato da dimensioni notevoli pari a 8.30 x 12.60 15 Le cavità hanno dimensioni pari a 0.30 m di altezza x 0.25 m di larghezza, poste ad intervalli regolari di circa 0.40 metri.

74

struttura soprastante, con una superficie interna leggermente inferiore, pari a circa 95 mq. Considerando la forte analogia dimensionale è possibile che si tratti di un ulteriore lotto abitativo che sfrutta su tre lati i perimetrali degli ambienti contigui, e dotato di un muro di chiusura solo sul versante settentrionale. L’ultimo Ambiente che può con certezza essere attribuito alla fase costruttiva di XII secolo è localizzato a nord della struttura 7, separato da quest’ultima da una viabilità larga appena 1.70 metri. Si tratta dell’Ambiente 9, situato nel terrazzamento mediano, dotato di un fronte di ampiezza pari a 4.20 metri edificato con una tecnica costruttiva analoga a quella degli ambienti già descritti. L’entità degli strati di crollo non permette di identificare ulteriori lotti edificati durante la fase signorile dell’insediamento, tuttavia bisogna notare che lo spazio presente tra l’Ambiente 8 a sud ed il muro di cinta sul lato nord, misura all’incirca 34 metri, distanza che, sulla base delle ampiezze registrate nelle precedenti strutture avrebbe potuto ospitare almeno altri tre ambienti edificati in appoggio alla cinta muraria sul lato occidentale e forse altre strutture di minori dimensioni sul modello degli Ambienti 6 o 9, atte ad occupare per intero il terrazzamento mediano posto immediatamente sotto il rilevo dell’area sommitale, raggiungibile attraverso scalini scavati nella roccia.

m, per una superficie totale di circa 102 mq. Il solo muro visibile in elevato corrisponde alla facciata, di spessore pari a 0.65 m, orientata in senso est-ovest e caratterizzata da un’apparecchiatura muraria che prevede la posa in opera su filari abbastanza irregolari di bozze di arenaria e calcare cavernoso lavorate con maggior cura solo in pochi casi, concentrati nella porzione a monte del muro. Lo stipite visibile in relazione alla porta di accesso è composto da conci di calcare meglio lavorati. Il legante è a base di malta di calce color nocciola di consistenza friabile. A circa metà della superficie interna sullo strato di crollo si individua una specie di dosso che potrebbe far ipotizzare la presenza di un tramezzo divisorio, ma è difficile ipotizzare se relativo alla originaria fase di costruzione o legato a fasi edilizie più tarde. Ad est dell’Ambiente 5 e separato da una viabilità di larghezza ridotta pari a 2 metri circa si individua un lacerto murario, al quale corrisponde nel versante a monte ed in posizione parallela una regolarizzazione della parete di roccia naturale per un’altezza di circa 1 metro, del tutto analoga a quella riscontrata nell’Ambiente 3, dal quale è separato da un percorso largo 2.15 metri. Lo spazio racchiuso, denominato Ambiente 6, corrisponde ad una superficie quadrangolare di 6 x 5.60 m, pari a 33 mq, e potrebbe in questo caso aver avuto una destinazione verosimilmente abitativa, considerate forma e dimensioni abbastanza regolari. Il muro occidentale che definisce l’Ambiente utilizza conci di calcare sottoposti ad una squadratura piuttosto sommaria e per questo dotati di spigoli abbastanza arrotondati. La posa in opera prevede filari orizzontali e paralleli talvolta sdoppiati rispetto ai conci dell’angolata, talvolta con andamento più irregolare. A nord dell’Ambiente 6 si individua un’ulteriore struttura, denominata Ambiente 7, delimitata ad ovest da un muro visibile per 12.60 metri circa, pur con alcune interruzioni dovute all’azione della vegetazione arborea. Il versante orientale, a circa 8.60 metri di distanza dal muro di facciata, coincide con la parete verticale che costituisce il fianco del pianoro sommitale, sulla quale si individuano una serie di alloggi di forma quadrangolare e dimensioni eterogenee, connessi al sostegno di travi lignee ma anche a piccole nicchie con funzione di arredo domestico. La superficie occupata dalla struttura è pari a circa 104 mq, e la tecnica muraria registrabile nel muro di facciata prevede, analogamente al muro dell’Ambiente 6, la posa in opera di conci di calcare cavernoso sommariamente squadrati e con spigoli abbastanza arrotondati. La posa in opera procede per filari orizzontali e paralleli a volte sdoppiati rispetto ai conci dell’angolata, del tipo gerarchizzato, regolarizzati tramite l’inserimento di scaglie di pietra e zeppe di tipo lamellare in ardesia. La porzione in basso a sinistra del primo tratto di muratura presenta una posa in opera più irregolare unita all’impiego esclusivo di arenaria, risulta tuttavia difficile stabilire, considerata la limitata visibilità legata ad ingenti strati di crollo, se si tratti di una struttura preesistente o semplicemente dell’operato di una manodopera meno specializzata. L’area situata nel terrazzamento immediatamente inferiore, denominata Ambiente 8, è delimitata ad ovest dal muro di cinta e presenta dimensioni analoghe alla

L’area artigianale esterna alle mura, tra le doline A e B. L’analitica ricognizione delle strutture murarie edificate all’esterno del circuito difensivo ha condotto all’individuazione di un unico lacerto murario rapportabile, in base alla caratteristiche costruttive, ad un orizzonte cronologico di XII secolo. Si tratta dell’Ambiente 10, localizzato a sud del castello tra le doline A e B, a valle di una viabilità larga circa 2 metri. L’ambiente non è stato scavato al suo interno ma la presenza dei resti di una macina da frantoio, tuttora in posto, ha permesso di interpretare la struttura come possibile luogo deputato alla macinazione delle granaglie o del minerale stesso. La struttura ha dimensioni pari a 10.75 x 5.85 metri, con una superficie totale di circa 63 mq e sembra addossarsi sul versante a monte alla parete di roccia regolarizzata, alta quasi 2 metri. Gli unici due filari visibili relativi all’apparecchiatura muraria della facciata, nella quale si apre un ingresso largo circa 1.80 metri, sono composti da conci di calcare cavernoso sommariamente squadrati ma rifiniti in superficie. I conci, tutti di dimensioni medio-piccole e forme omogenee tendenti al quadrato, sono posti in opera su filari orizzontali e paralleli con giunti e letti di posa ampi e arretrati nei quali non sembra di vedere zeppe o scaglie litiche. Il legante è composto da una matrice argillosa mista a grumi di calce di color beige e lo spessore del muro è di 0.70 metri (Fig. 68).

75

castello, attività costruttive, consistenti in vari rifacimenti di tratti del muro di cinta (attività 11, 19) e nella costruzione di una parte sopraelevata nel muro perimetrale dell’edificio palaziale (us 4200, attività 154). Il fatto che l’area sommitale sia, in questo periodo, frequentata è confermato inoltre dal formarsi di un’ampia discarica (attività 156) che riutilizza il taglio della roccia, relativo alla capanna semiscavata altomedievale (si veda supra, struttura 4). Da questa discarica provengono ossa ed alcuni frammenti di maiolica arcaica che permettono di datarne l’utilizzo proprio all’inizio del Trecento. Fig. 68: particolare del muro di facciata dell’ambiente esterno alla cinta muraria con fasi attribuite al XII secolo

Il borgo all’interno delle mura (Ambiente 37, attività 42, 43, 44, 45) Nella parte di borgo indagata, nella prima metà del Trecento trovano sede edifici di nuova costruzione. In particolare sugli strati ortivi, relativi alla seconda metà del XIII secolo, viene costruita una struttura (attività 42, ambiente 37) di modeste dimensioni (4,20 x 3,20 metri), nell’angolo nord dell’area, a ridosso del muro di cinta (3040, attività 32, vedi supra) e del muro us 3036 (attività 161) (Fig. 71). L’edificio, di nuovo impianto, a cui si accede tramite un’apertura posizionata sul lato sud (larghezza circa 1 metro), è costituito da murature di esiguo spessore (larghezza 65 centimetri) - costruite con pietre rozzamente sbozzate di calcare cavernoso e alberese - di cui si conservano esclusivamente pochi filari. Data l’esiguità dei reperti restituiti dalle stratigrafie di uso dell’ambiente (attività 43) non è possibile ipotizzarne la funzione, anche se le ridotte dimensioni portano a pensare che non si tratti di un edificio abitativo. Inoltre, sugli strati di abbandono dell’attività 43 si edifica un recinto di cui si conserva un muretto costruito a secco (us 3068), forse funzionale alla delimitazione di uno spazio ortivo (attività 45).

Lo scavo della struttura adiacente, Ambiente 11, ha evidenziato inoltre come questo fosse stato edificato sopra alcuni livelli di crollo databili al XII secolo (si veda att. 143-144), elemento che parrebbe confermare l’esistenza di una prima, forse ridotta, serie di ambienti produttivi legati alla fase signorile dell’insediamento. Giuseppe Fichera 4. PERIODO IV (XIV-primo quarto XV secolo) Fase 1 Prima metà XIV secolo Massa Marittima acquista il controllo sul castello di Rocchette e le sue risorse dalla fine del XIII secolo, comprando varie quote da esponenti della famiglia Pannocchieschi. Già nel 1298 Nello Pannocchieschi cedette al Comune la propria quota corrispondente ad un dodicesimo del castello, del palazzo, del cassero e la quota a lui spettante di case, terre e diritti, compresi quelli sulle miniere di argento (FARINELLI 2007, scheda 23.9). In conseguenza di ciò l'insediamento sembra avere una ripresa anche edilizia e probabilmente demografica. Si costruì in questa fase un piccolo borgo addossato esternamente alle mura, si edificarono nuovi ambienti anche all'interno del circuito murario, si riadattarono tratti di mura e soprattutto si realizzò un nuovo polo artigianale/produttivo compreso tra le doline B e C che evidenzia la motivazione principale dell’interesse di Massa Marittima per questo sito, cioè quello economico. L’area sommitale mostra ancora delle frequentazioni, ma di tipo quasi parassitario, finalizzate a riusare le strutture esistenti e all’adattamento a funzione di servizio di aree precedentemente a destinazione abitativa (Figg. 69-70).

Il borgo di nuova costruzione all’esterno delle mura (Ambienti 15-28) L’espansione demografica che interessò il sito di Rocchette nel corso della prima metà del XIV secolo è documentata anche e soprattutto dalla realizzazione di un borgo esterno alle mura, costituito da abitazioni disposte su due fasce parallele fra il lato sud del muro di cinta e il crinale della dolina B. Per quanto l’area non sia stata indagata archeologicamente, tuttavia sono state registrate le tracce visibili di questi edifici, costituite da resti di murature a ridosso sia del muro di cinta sia del limite della dolina B; sul muro di cinta sono inoltre leggibili le numerose buche pontaie allineate che sorreggevano le travature dei tetti. Gli ambienti di nuova costruzione individuati sono quattordici e verranno descritti nel dettaglio più avanti nel contributo sugli elevati.

LO SCAVO

L’area artigianale fra le doline A e B (Ambienti 10-14) Nell’area artigianale situata a sud della porta di accesso al castello, fra le doline A e B, sono stati messi in evidenza numerosi interventi cronologicamente attribuibili alla prima metà del XIV secolo. Si può dunque ipotizzare che con la dominazione massetana anche l’area artigianale venga riattivata ed ampliata e sembra, dunque, funzionare contemporaneamente all’area di nuova costruzione.

L’area sommitale (attività 11, 19, 154, 156) Per tutto il XIV secolo la parte sommitale del castello continua ad essere abitata: le strutture della torre, dell’edificio signorile e della cisterna sono ancora in uso, per quanto lo scavo non abbia evidenziato stratigrafie orizzontali riferibili a questa fase. Nella prima metà del secolo si attestano, inoltre, anche in questo settore del 76

Fig. 69: pianta delle evidenze di Periodo IV, fase 1 (ricostruzioni studio Inklink e Daniele De Luca; elaborazioni grafiche di Enrica Boldrini, Maddalena Belli e Francesca Grassi)

77

Fig. 70: tabella delle attività registrate nel Periodo IV, fase 1 Una quarta struttura, invece, si trovava di fronte ai tre edifici e sono rimasti in superficie solo i resti delle murature costituenti un angolo dell’ambiente (ambiente 14). A questo edificio si addossava una muratura funzionale alla delimitazione della viabilità lungo la dolina A (attività 177). Degli ambienti individuati è stato indagato completamente solo l’ambiente 11 (attività 145) al quale si accedeva attraverso una porta posizionata sul lato sud (larghezza porta 80 centimetri). All’interno dell’ambiente, sul crollo del tetto della struttura di XII secolo, si datano alla prima metà del XIV secolo alcuni livelli di vita (attività 146) costituiti da terre argillose, che recano le tracce in negativo di due probabili punti di fuoco. Tale fase di vita sembra non avere lunga durata, dato che si colloca sempre nella medesima fase l’obliterazione dei focolari (attività 148), a cui segue la parziale ristrutturazione dell’edificio che comporta lo spostamento dell’accesso (larghezza 85 centimetri) sul lato est (attività 147) e il conseguente tamponamento dell’apertura originaria (attività 151). Si associa a questa nuovo momento costruttivo una frequentazione (attività 149), a

Si datano, infatti, a questa fase gli impianti di alcuni edifici, ad eccezione dell’ambiente 10, già costruito, e del lotto adiacente, non edificato, ma usato come discarica per le scorie. Si tratta di almeno tre edifici affiancati, posizionati sul limite della viabilità principale esterna al castello e di un ulteriore edificio, posto sul versante della dolina A. Le tre strutture allineate (Ambienti 10-11-12) si impostano ad una quota più bassa rispetto alla strada percorribile e sfruttano il lieve pendio roccioso sul lato a monte. Essi prevedevano pianta rettangolare, di grandi dimensioni, le murature sono strette (larghezza media 70 centimetri), riferibili alla tipologia di ultima fase, individuabile anche nella nuova area industriale esterna al castello, costruita con una tecnica disordinata ed uso di materiale lapideo misto (attività 179). Dei tre, l’ambiente 12 potrebbe anche essere usato come spazio aperto, pur avendo inizialmente pianificato l’edificazione di un ambiente: infatti non si sono ritrovate murature, ma tutta l’area era utilizzata come discarica di scorie di riduzione del minerale, a conferma dell’uso di questi ambienti anche per attività metallurgiche.

78

cui segue il primo abbandono dell’edificio (attività 150) costituito dal crollo di parte delle murature. I reperti restituiti da queste stratigrafie, oltre ad inquadrare cronologicamente la fase, permettono anche di caratterizzare funzionalmente l’area che, per la presenza di vari strumenti artigianali in ferro, era molto probabilmente adibita all’immagazzinamento o alla conduzione di attività lavorative.

Fig. 73: l’ambiente 30 nel quartiere artigianale tra le doline B e C serie di interventi tesi a modificare e sistemare la roccia sterile (attività 63). A diretto contatto con lo scarico di scorie, individuato sul bordo della dolina B, il fondo roccioso su cui sono edificate le strutture edilizie di XIV secolo conserva labilissime tracce di fuoco, alcuni depositi di carboni e sporadiche presenze di minerale. In particolare, in corrispondenza dell’area dell’ambiente 32, di futura realizzazione, l’indagine ha portato alla luce una serie di interventi (attività 64 e 66) riferibili all’impianto ed all’uso di una struttura assimilabile ad un focolare ben strutturato (probabilmente un formo da riduzione, si veda infra, contributo Bruttini), costituito da un piano di argilla concotta, addossato ad un muretto in pietre legate da terra e coperto da ampi livelli di carboni, ceneri e argilla (Fig. 74).

Fig. 71: particolare dell’ambiente 37 nel borgo L’area artigianale tra le doline B e C (Ambiente 30) Nel corso del XIV secolo si ha l’edificazione di una nuova, ampia area a carattere artigianale in prossimità delle doline B e C, la cui urbanistica è caratterizzata da lotti di grande ampiezza, dotati di porte molto larghe, forse funzionali all’ingresso di materiali ingombranti trainati da animali (Fig. 72).

Fig. 72: vista d’insieme dell’area artigianale tra le doline B e C

Fig. 74: impianto di una struttura produttiva nell’area a valle dell’ambiente 30 (att. 63)

La prima fase insediativa di quello che potremmo definire il “quartiere massetano” è costituita dalla realizzazione di un grande (11 x 8 m.) edificio rettangolare (attività 55), denominato ambiente 30. L’edificio, composto da murature larghe in media 60 cm, era probabilmente funzionale quale magazzino, possedeva due porte di accesso, entrambe di grandi dimensioni (larghezza di 185 centimetri), poste sul fronte est e sul fronte sud. All’interno dell’edificio sono state riscontrate solo labili tracce della vita (attività 77) (Fig. 73). Contemporaneamente alla costruzione e all’utilizzo dell’ambiente 30, sul pianoro sottostante si collocano una

La presenza, in associazione, di scorie di forgia restituite dalle fasi di vita della struttura e dalla sua obliterazione (attività 64) permette di collegarla ad attività metallurgiche, ed è probabile che le labili tracce descritte costituiscano il disfacimento di una piccola struttura di forgia, il cui uso potrebbe collegarsi all’uso degli attrezzi per le altre attività artigianali che si svolgevano nell’area. La seconda ipotesi possibile riguardo alle evidenze sopra descritte è che si tratti della labile traccia di attività metallurgiche, probabilmente collegate al trattamento preliminare del minerale (struttura di arrostimento) come 79

costituiti da tegole, coppi e lastrine frantumati e compattati (attività 14) e si impianta un focolare a ridosso del muro perimetrale della torre us 535 (attività 13). Tale focolare è formato da una buca circondata da pietre ed un muretto laterale di appoggio. All’esterno della torre così sistemata, la cisterna in muratura sembra essere ancora in uso per la raccolta dell’acqua piovana (Fig. 76). Nel settore ovest dell’area sommitale, tra i muri di cinta us 353-356, viene costruito un piccolo edificio di servizio, a ridosso del muro della torre (attività 158). L’edificio, che sembra sfruttare per il suo impianto una parete di roccia naturale a cui viene addossato un perimetrale, è delimitato dalla cinta stessa e dalle murature us 338 e us 342, realizzate a secco, parte con materiale di reimpiego, parte con materiale non sbozzato. Il tetto dell’ambiente era costituito da coppi e tegole ed il piano di calpestio, costituito da terreno argilloso molto compatto (attività 180), era ricco in superficie di tracce di carboni e di reperti ceramici, in particolare maiolica arcaica e ceramica da dispensa (Fig. 77). Infine, l’ultimo intervento che registriamo nell’area sommitale è l’abbandono dell’edificio B; si è registrato infatti il crollo delle murature perimetrali che ne sigillano definitivamente il piano di calpestio interno, costituito da malta (attività 141). Al contrario, il palazzo A si mantenne ancora in elevato, ma non è possibile stabilire se fosse abitato, data l’assenza di scavo.

quelli di valutazione della resa. E’ in questo momento, inoltre, che si inizia a formare la discarica di scorie trovata nella dolina B a valle dell’ambiente 30, interpretata come residuo delle lavorazioni che avvenivano nei forni impiantati nell’area aperta tra l’ambiente stesso e la dolina. Fase 2 Seconda metà XIV secolo Nel corso della seconda metà del XIV secolo il castello risulta godere di una certa prosperità, ipotizzabile considerando i nuovi nuclei abitativi edificati all’esterno delle mura del borgo (ambienti 15-28) e la prosecuzione dell’impianto del nuovo polo artigianale posto tra le doline B e C (ambienti 32-33). Il ripopolamento e le nuove edificazioni mostrano che Rocchette fu primariamente un centro metallurgico; l'economia degli abitanti del castello può dunque, anche in questa fase, essersi concentrata soprattutto sull’estrazione e sulla lavorazione del metallo monetabile e solo secondariamente sulla coltura degli appezzamenti agricoli attorno all'insediamento e sulla cura e gestione del bosco per il pascolo degli animali. Infatti, le numerose scorie all'interno degli edifici, la discarica al di fuori del quartiere di lavorazione massetano ed alcuni frammenti di parete di forno negli strati di abbandono delle aree in questione mostrano che fu intensa l'attività mineraria e metallurgica. Del resto è possibile che Massa sfruttasse ancora le vene già utilizzate nel comprensorio territoriale del castello, facesse un temporaneo stoccaggio del minerale in questi grandi magazzini, forse anche dei test di valutazione della resa, e trasportasse poi il minerale stesso in centri di produzione e di trasformazione metallurgica più efficienti dotati dell’energia idraulica, o addirittura indirizzasse il minerale all’Arialla, impianti metallurgici posti sotto il diretto controllo del Comune cittadino (Fig. 75).

Area del borgo (attività 46-47-48-49-50-51-52): nell’area del borgo indagata all’interno delle mura si riconoscono alcuni interventi di spianamento e livellamento dei crolli degli ambienti precedenti, volti a creare un’area d’uso aperta nello spazio prima occupato dalle costruzioni e nell’area immediatamente esterna (attività 46-47-48). In seguito a queste operazioni, viene costruito un edificio a monte della cinta muraria us 3002 (ambiente 34), definito dai muri us 3001, 3055, 3054 e dalla cinta muraria 3040 (attività 49). Inoltre, sul versante rivolto all’area sommitale, l’edificio sfrutta l’appoggio alla roccia calcarea affiorante, visibile dalle tracce di incassi (Figg. 78-79). Il piano di calpestio di questo edificio è in terra battuta e non sono stati trovati focolari al piano terreno (attività 50); si ipotizza infatti che l’ambiente fosse costruito con un solo piano in elevato, provvisto di un pavimento ligneo, e che si fosse sfruttato il dislivello presente verso la cinta del borgo per l’impianto di una piccola cantina, delimitata da un muro contro terra (us 3166, attività 51). Questo ambiente ha restituito un corredo tipico di un’abitazione, oltre ad un numero considerevole di monete senesi di piccolo taglio; potrebbe trattarsi della casa di un artigiano che operava nel castello (si veda infra, contributo Cicali). Alla fine del secolo tale ambiente risultava già in abbandono, come hanno testimoniato i crolli delle murature e del solaio ligneo (attività 52).

Area sommitale (attività 10-12-13-14-18-141-158-180): le evidenze relative alla seconda metà del XIV secolo mostrano che l’area sommitale assunse una valenza abitativa, alla pari delle case del borgo. Infatti, si registrano alcuni interventi che mettono in evidenza, da un lato il parziale crollo o l’abbandono definitivo di alcune delle strutture fortificate signorili (la torre, l’edificio B) e dall’altro il riuso di parte delle murature per la creazione di edifici di servizio o per un riparo temporaneo. Risulta dunque difficile cercare di dare un valore sociale a queste frequentazioni, dagli indicatori in nostro possesso. Cominciando dall’area della torre, in seguito ad un parziale crollo degli elevati, essa viene ristrutturata ad uso di piccola unità abitativa. Infatti, lo scavo ha mostrato nella muratura a ridosso della cisterna (us 504), ricavati sul piano orizzontale creatosi nel sacco del muro con il crollo, almeno quattro incastri per travetti e nel paramento verticale un incastro per trave (attività 10). Questi tagli, assieme ad una buca per palo posta al centro dell’area, sono funzionali all’impianto di una tettoia che copre tutta la torre, compresa tra il muro di cinta us 501 ed il muro della torre us 504 (attività 12). All’interno di questo spazio chiuso si formano dei piani di calpestio

Area artigianale tra le doline B e C (attività 56-57-6067-68-69-70-72-73-86-87-88): il nuovo quartiere artigianale, la cui costruzione ebbe inizio a partire dal primo Trecento, è interessato da un allargamento con l’edificazione di altri tre edifici, simili nelle dimensioni al 80

Fig. 75: tabella delle attività registrate nel Periodo IV, fase 2

81

Fig. 76: sezione ricostruttiva della torre e della cisterna nell’area sommitale al momento dell’ultimo uso dell’edificio (ricostruzione di Daniele De Luca)

Fig. 77: il piccolo ambiente ricavato a ridosso della cinta muraria nell’area sommitale (att. 158)

Fig. 78: panoramica dell’ambiente 34, posto a monte della cinta muraria del borgo (us 3002)

82

perimetrali us 1039, 1036, 1035, 1041. Tali muri sono realizzati con la tecnica tipica di questa fase costruttiva trecentesca. L’edificio rettangolare è dotato di due porte (us 1102, 1101) e riutilizza, come comunicazione con l’ambiente 30, la porta già presente nella muratura us 1046. La prima fase di vita dell’ambiente è uno strato compatto di pietrisco rossastro (attività 87), presente su tutta l’area (Fig. 81).

Fig. 79: le rocce alle quali si addossa l’ambiente 34 nel borgo primo ambiente definito (ambiente 30). I tre edifici, uno dei quali risulta non terminato mancando la copertura (ambiente 32), sono ad un solo piano, con pavimenti costituiti da terreno argilloso compattato, a volte provvisti di focolare interno e muniti di una o più porte, sempre molto larghe (Fig. 80).

Fig. 81: vista dell’ambiente 31 In seguito, forse a causa delle attività svolte al suo interno, l’edificio subisce una ristrutturazione, che prevede il tamponamento delle due porte aperte verso le viabilità (attività 56), il rifacimento del piano pavimentale in malta (attività 88) ed infine la costruzione di un ambientino nell’angolo sud-ovest (attività 57). Infatti, si ricava all’interno dell’edificio un piccolo ambiente rettangolare (attività 57), definito dai muri us 1058 e us 1061, impostati sul calpestio, ed addossato ai muri 1046 e 1035 (Fig. 82). L’uso ipotizzato per questo

Fig. 80: planimetria degli ambienti 30-33 nella nuova area artigianale tra le doline B e C Il primo intervento che si registra è la costruzione di un edificio rettangolare (ambiente 31), adiacente al 30, analogo per forma e dimensioni (11 metri di lunghezza, 9 metri di larghezza), che riutilizza come parete ovest il muro us 1043-1046 (attività 86). Per costruire questo edificio si realizzano, su un calpestio relativo al cantiere, le fosse di fondazione per la realizzazione dei muri

Fig. 82: il piccolo ambiente rettangolare (att. 57) ricavato nell’ambiente 31 83

piccolo annesso è quello di deposito di scorie, come ha testimoniato il piano scavato al suo interno, costituito da un battuto di terra argillosa e malta all’interno del quale sono state trovate molte scorie (attività 57). Dopo la costruzione di questo ambiente di servizio, l’edificio viene dotato di un focolare, ai piedi del muro ovest us 1039, composto da una struttura circolare in pietre (attività 60, us 1071), contenente carboni e cenere (us 1070). Nel terrazzamento sottostante, verso la dolina B, si costruisce un terzo edificio rettangolare (ambiente 33) presumibilmente di dimensioni analoghe ai precedenti, dato che al momento dello scavo i limiti nord ed est non erano più riconoscibili a causa dell’erosione del suolo (Fig. 83).

Vengono scavate due fosse di fondazione per la costruzione di due muri (us 1002, 1003) che si legano nell’angolo sud-ovest dell’ambiente (attività 67), uno dei quali provvisto di una nicchia (us 1020). Nella parte a monte l’edificio è caratterizzato da un gradone definito da un basso muretto (us 1028) e dall’allineamento us 1044 (Fig. 85).

Fig. 85: l’area lavorata a gradoni che delimita a monte l’ambiente 32 L’edificio, sempre a monte, confina con la viabilità che lo separa dall’ambiente 31, mentre ad est confina con l’ambiente 33 di cui sfrutta il perimetrale us 1010. La porta dell’ambiente si trova a sud, verso la dolina B, in analogia con quella dell’edificio 33. Alcuni strati molto organici testimoniano con la presenza di ceramica e carboni la vita dell’ambiente (attività 68). Un punto di fuoco è stato trovato immediatamente a ridosso del muro us 1002, in corrispondenza della nicchia. In uno dei piani di calpestio viene scavata una buca di alloggio per palo, esattamente al centro dell’ambiente, per sorreggere il solaio, che non verrà mai costruito, come ha mostrato l’assenza di crollo di copertura o di solai (attività 69). Infatti, in seguito, la chiusura del cantiere che determinò l’incompletezza dell’ambiente, ne ha comportato un secondo uso (attività 70), con l’obliterazione dell’alloggio centrale per il palo e la preparazione di un focolare per uso sporadico.

Fig. 83: vista dell’ambiente 33 L’impianto dell’edificio prevede la preparazione dell’area con la realizzazione di buche di palo e tagli nella roccia (attività 72); viene effettuato un livellamento della roccia vergine e il taglio di uno strato geologico giallastro (us 1252) per la costruzione dei muri perimetrali. L’ambiente è così delimitato dai muri us 1010-1017, 1205, 1209 e viene provvisto di una unica porta che immette all’area prospiciente la dolina B (attività 73). Tale ambiente era coperto da un tetto a doppio spiovente in lastre di ardesia. Infine, nello stesso terrazzamento, si costruisce un quarto ed ultimo edificio rettangolare (ambiente 32) (Fig. 84).

Francesca Grassi ANALISI DEGLI ELEVATI Le trasformazioni urbanistiche del XIV secolo Il castello di Rocchette Pannocchieschi nel XIV secolo presenta una situazione del tutto peculiare legata allo sviluppo di un borgo di notevoli dimensioni esterno alle mura castellane. La localizzazione degli ambienti si distribuisce in tre gruppi principali, per il primo dei quali, localizzato tra le doline A e B, è stata ipotizzata, in base ai risultati dello scavo ed al rinvenimento di un ridotto lacerto murario, una possibile fase costruttiva più antica, risalente alla fase signorile dell’insediamento.

Fig. 84: vista dell’ambiente 32

84

Un secondo gruppo di ambienti si distribuisce su due file tra loro parallele situate a ridosso del versante occidentale della cinta muraria e sul bordo della dolina B. La fitta vegetazione che attualmente ricopre le strutture non permette di escludere la possibilità che ne esistessero anche altre, legate ad un analogo momento di pianificazione edilizia16. Infine un terzo gruppo di ambienti, quasi integralmente interessati da scavo archeologico, è localizzato poco più distante tra le doline B e C (Fig. 86).

ambiente da un’ampia viabilità larga 3.35 metri, come mostrerebbero anche gli ingenti scarichi di scorie recuperati proprio in questa area (vedi supra). Ancora più a nord in relazione ad un ulteriore Ambiente, denominato 13, si conserva soltanto un lacerto murario relativo all’angolata sud-orientale edificata con una tecnica costruttiva analoga a quella descritta per l’Ambiente 11. La particolarità consiste nel fatto che in questo caso anche nel versante a monte fu costruito un muro, laddove negli altri casi gli ambienti sembravano appoggiarsi direttamente alla parete rocciosa. Analogo livello di conservazione, limitato cioè ad una angolata, si registra per l’Ambiente 14, situato a monte delle strutture descritte.

Area artigianale tra le doline A e B (Ambienti 10-14) Nella zona situata a sud della porta di accesso al castello (area 5000) sono stati individuati almeno 4 ambienti, posizionati su due file parallele e separati da una viabilità larga circa 2 metri, posta a ridosso di un leggero salto di quota. I lotti che furono costruiti più in basso sfruttarono infatti la parete di roccia naturale sul versante orientale, appositamente regolarizzata, come uno dei lati perimetrali. Lo scavo di uno di questi, Ambiente 11, ha permesso di verificare una cronologia di fondazione che rimonta alla prima metà del XIV secolo, e la presenza di stratigrafie più antiche sulle quali le murature successive si impostano che potrebbero testimoniare l’esistenza, al pari di un lacerto murario localizzato nell’adiacente Ambiente 10 (vedi supra), di una più antica lottizzazione dell’area, probabilmente legata alla fase signorile dell’insediamento. L’Ambiente 11 ha dimensioni pari a 4.70 x 9.75 metri, con una superficie interna di circa 45.82 mq ed una prima apertura, posta nell’angolo meridionale della facciata, larga 0.80 m, alla quale è possibile associarne una seconda, situata nel perimetrale sud/est, successivamente tamponata a seguito di un lieve intervento di ristrutturazione. I muri, di spessore compreso tra 0.65 e 0.70 m, furono edificati a diretto contatto con il locale banco di roccia, principalmente in blocchi di arenaria sottoposti a semplice spaccatura. Un processo di lavorazione molto sommario che generò elementi di forme e dimensioni variabili posti in opera su filari pseudo orizzontali spesso sdoppiati e regolarizzati tramite il frequente inserimento di scaglie dello stesso litotipo (Fig. 87). Il legante visibile è costituito da terra a matrice argillosa mista a piccoli grumi di malta. Nel versante a monte, come accennato poco sopra, i perimetrali si appoggiano direttamente alla parete di roccia accuratamente regolarizzata. A nord dell’Ambiente 10 si individua uno spazio aperto, denominato Ambiente 12, delimitato ad est e a nord da un analogo intervento di regolarizzazione della parete di roccia naturale, elemento che potrebbe far ipotizzare un intervento di preparazione dell’area, larga circa 7 metri, funzionale all’edificazione di un nuovo ambiente, più che alla semplice sistemazione di un’area aperta per la quale non sarebbe stato necessario un accurato taglio della parete rocciosa. Forse in questo caso l’iniziale progetto non fu portato a compimento e l’area fu semplicemente utilizzata come spazio aperto, separato dal successivo

Borgo esterno alle mura (Ambienti 15-28) Per le strutture situate a sud del castello, tra le doline A e B, la tipologia di stratigrafie indagate aveva permesso di ipotizzare una destinazione d’uso di tipo artigianale, connessa alla presenza di grandi quantitativi di scorie metalliche negli spazi esterni agli ambienti e di attrezzi metallici all’interno di uno di questi. Per la doppia schiera di ambienti situati a ridosso del versante occidentale della cinta muraria e sul bordo della dolina B, nessuno dei quali è stato interessato da scavo archeologico, è forse possibile azzardare una cronologia di riferimento coeva ma una diversa caratterizzazione funzionale, basandosi esclusivamente sull’analisi delle tipologie edilizie e sulle caratteristiche delle tecniche costruttive. Per prima cosa tutti gli ambienti individuati, almeno 14, sembrano essere il risultato di una precisa elaborazione progettuale secondo la quale, in particolare sul bordo della dolina, i costruttori avanzarono edificando coppie di ambienti dotati di un unico muro di facciata oscillante, in lunghezza, tra i 10 ed i 15 metri, che probabilmente fungeva da contenimento e assicurava una maggior stabilità, considerata la presenza di un pendio abbastanza scosceso nella zona antistante le facciate stesse. Tali ambienti inoltre erano probabilmente articolati su un unico piano abitabile, a differenza di quelli addossati al muro di cinta per i quali invece è evidente la presenza di due piani17 e, nei casi in cui questa è interamente leggibile, sembrano aver adottato una planimetria tendente alla forma quadrata più che a quella rettangolare che invece caratterizza le case del quartiere “massetano” e della zona situata a sud della porta del castello18. Tutte le case sembrano infine essere accomunate da una tecnica costruttiva più curata che prevede la regolare posa in opera di bozze di calcare cavernoso sottoposte ad un processo di lavorazione piuttosto sommario ma spesso associato ad una finitura della faccia vista. In 17 La presenza di un secondo piano risulta ancora ben leggibile nel paramento orientale dell’Ambiente 20, che sfrutta la parete di roccia tagliata per il piano terreno. Nel secondo piano si leggono ancora due livelli di buche pontaie funzionali all’aggancio del solaio ligneo e forse della falda di copertura del tetto. Da notare inoltre che tutti gli ambienti non furono semplicemente appoggiati alla cinta muraria, ma furono appositamente dotati di un proprio muro perimetrale a sua volta addossato alla cinta difensiva risalente al XII secolo. 18 La superficie media di questa serie di ambienti oscilla attorno ad un valore di circa 40 mq. Soltanto per uno di questi, l’Ambiente 28, la presenza di un cantonale che segue un angolo molto acuto lascia ipotizzare una planimetria abbastanza anomala.

16 Ulteriori lacerti murari non meglio interpretabili si leggono tra la vegetazione a nord dell’Ambiente 28, ad una quota leggermente più elevata, tra le doline C e D.

85

Fig. 86: planimetria del castello con le evidenze murarie di XIV secolo conseguenza di ciò l’apparecchiatura muraria si sviluppa su filari orizzontali e abbastanza paralleli tra loro che spesso ricorrono a scaglie di arenaria usate come zeppe, e che in taluni casi si sdoppiano, in particolar modo in prossimità delle angolate, di tipo gerarchizzato, o degli stipiti delle aperture, costituiti da conci di dimensioni maggiori (Fig. 88). I paramenti murari presentano uno spessore abbastanza costante pari a circa 0.70 metri, ed il ridotto spazio tra le due incamiciature è riempito in maniera caotica da pietre spaccate di medie dimensioni legate tra loro. Gli elementi lapidei sono legati da una malta friabile abbastanza povera di calce, di color nocciola e a matrice principalmente sabbiosa, caratterizzata dalla presenza di inclusi millimetrici. In molti casi è stato possibile registrare un trattamento delle superfici murarie basato sulla stesura di abbondanti quantità di malta a coprire i giunti ed i letti di posa. La malta adoperata è diversa da quella utilizzata come

Fig. 87: l’ambiente 11 esterno alle mura del castello

86

friabile e di color nocciola chiaro, è ricco di calce, presente al suo interno in numerosi grumi, insieme a sabbia usata come inerte e, in taluni punti, è possibile osservare un espediente volto a stendere il legante rifluente a coprire giunti e letti di posa. Lo spazio interno del vano fu interessato più tardi da interventi abbastanza consistenti attraverso i quali furono costruiti un ripostiglio nell’angolo nord-orientale, ed un forno a cupola che causò la demolizione di parte del muro orientale.

Fig. 88: l’ambiente 25 esterno alle mura del castello legante del muro, in quanto molto più compatta e ricca di calce di colore giallastro, mentre sembra simile a quella individuata tra le pietre del paramento la sabbia usata come inerte. Area artigianale tra le doline B e C (Ambienti 29-33) A nord/ovest del castello, tra le doline B e C, è situato infine il cosiddetto quartiere massetano. In relazione a questo si conservano almeno 5 ambienti, attribuibili in base alle principali caratteristiche tecniche ad un’unica fase costruttiva, interessata in un momento successivo da lievi interventi di modifica, come attestano i tamponamenti di alcune delle originarie aperture e l’edificazione di piccoli ambienti di stoccaggio e di un forno in muratura che asporta parte del muro perimetrale di una delle strutture. L’analisi dei rapporti stratigrafici ha evidenziato come il cantiere prese avvio dalla costruzione dell’Ambiente 30 (Attività 55), di dimensioni pari a 5.30 x 10.90 m, per un totale di 57.77 mq di superficie interna, e sviluppato secondo un allineamento nord-ovest/sud-est. I quattro muri perimetrali della struttura, di spessore compreso tra 0.60 e 0.65 m, sono tra loro stratigraficamente legati, evidenziando in tal modo l’appartenenza ad un unico e ininterrotto momento costruttivo. L’edificio fu dotato di due grandi aperture (1.85 m di larghezza), localizzate la prima nel perimetrale sud, in corrispondenza di una viabilità posta sul bordo del dislivello che separa tali ambienti da quelli edificati nel terrazzamento sottostante, e la seconda nel perimetrale occidentale, funzionale al collegamento con la struttura adiacente. La tecnica muraria utilizzata si caratterizza per l’impiego di blocchi sommariamente sbozzati di dimensioni medio-grandi, principalmente di calcare cavernoso, alternati in taluni casi a blocchi di un calcare compatto di colore grigio-azzurro, litotipo non individuato in altre murature del castello. I blocchi sono posti in opera su filari orizzontali e paralleli, regolarizzati anche grazie ad un frequente impiego di scaglie di pietra inserite come zeppe nei giunti e nei letti di posa. In corrispondenza delle due aperture si registra l’impiego di conci di calcare cavernoso di grandi dimensioni, ben squadrati e corrispondenti in altezza a due filari dell’adiacente paramento murario (Fig. 89). Il legante,

Fig. 89: la porta ricavata nell’ambiente 30 In un momento successivo, evidenziato dai rapporti stratigrafici che attestano una posteriorità relativa, ma probabilmente all’interno di una stessa fase edilizia, come sembrano attestare le analogie riscontate nelle tecniche costruttive e nelle tipologie di aperture, fu edificato l’Ambiente 31 (Attività 86), addossato al primo in corrispondenza del versante occidentale. La forma leggermente trapezoidale del vano generò dimensioni maggiori rispetto al precedente pari a circa 72.27 mq, dimensioni interne 9.95 x 7.50 m circa, e anche in questo caso l’ambiente fu dotato di due porte sui lati sud e ovest, larghe 1.30 e 1.65 m, ed entrambe tamponate in un momento più tardo, forse contemporaneamente all’edificazione di un ambiente di piccole dimensioni nell’angolo sud-orientale. Il piano pavimentale fu realizzato attraverso un’accurata operazione di spianatura del banco roccioso e i tre muri, spessi ancora 0.60 m, furono edificati all’interno di strette fosse di fondazione con una tecnica costruttiva che si differenzia da quella registrata nell’ambiente 30. Innanzitutto le dimensioni dei blocchi, di arenaria e calcare cavernoso, sono più ridotte e molto più eterogenee, e inoltre la lavorazione è più sommaria e limitata nella maggior parte dei casi ad una semplice spaccatura, priva di alcun tipo di finitura superficiale. I giunti e i letti di posa sono del tipo arretrato con un legante color nocciola molto povero di calce, con una consistenza pastosa, forse dovuta alla prevalente componente sabbiosa. L’unica analogia con la tecnica costruttiva dell’ambiente adiacente è data dalla presenza di filari pseudo orizzontali e paralleli, mantenuti tali attraverso il costante ricorso a scaglie litiche usate

87

come zeppe, e da una lavorazione migliore negli stipiti delle aperture e nei cantonali. A est dell’ambiente 30 si individuano i resti di un’ulteriore struttura, denominata Ambiente 29, in relazione alla quale non è possibile stabilire le dimensioni originarie in quanto si sono conservati soltanto due muri perimetrali, orientati secondo un allineamento parallelo agli ambienti vicini e dunque probabilmente concepiti all’interno di un medesimo progetto edilizio. Quest’ultimo ambiente è separato ad ovest dall’ambiente 30 da una sorta di viabilità o forse uno spazio chiuso ricavato in un momento successivo attraverso l’edificazione di un muro nel versante settentrionale. I tre ambienti descritti si affacciavano, in corrispondenza del fronte meridionale, su una viabilità larga circa 3 metri, realizzata spianando il locale banco di roccia, a valle della quale furono edificate, a ridosso del limite della dolina B, altre due strutture che mantennero un orientamento analogo, pur con dimensioni più ridotte. Anche in questo caso i rapporti di cronologia relativa tra le strutture murarie indicano chiaramente che il primo a essere edificato fu l’Ambiente 33 (Attività 73), dotato di tre muri perimetrali e addossato sul lato settentrionale alla parete di roccia appositamente spianata. L’accesso alla struttura, di dimensioni pari a 4.90 x 6.30 m con una superficie interna di 30.87 mq, era assicurato da una porta larga 1.65 m, situata in corrispondenza dell’angolo sudorientale. L’apparecchiatura muraria si caratterizza per la presenza di blocchi di calcare cavernoso, uniti a un esiguo quantitativo di arenaria, principalmente sottoposti a spaccatura con rari casi di sbozzatura. Gli elementi mantengono comunque una posa in opera nella quale i filari vengono mantenuti abbastanza orizzontali e paralleli tramite una consistente presenza di scaglie di arenaria usata come zeppe. Gli stipiti e le angolate sono composti da conci di calcare cavernoso ben squadrati e spianati in superficie. Lo scavo ha infine individuato, al di sopra di un livello pavimentale costituito dal piano di roccia spianato, le tracce della originaria copertura del tetto composta da lastre di ardesia (Fig. 90).

addossato a monte, secondo un procedimento costruttivo analogo, alla parete rocciosa appositamente regolarizzata, alta circa 1.60 metri. Qualche metro più a nord di tale parete si individua un taglio più ampio del banco roccioso, al quale corrispondono anche i resti di un ulteriore muro. È dunque possibile che la parete rocciosa creasse una sorta di gradone, associato anche ai resti di alcuni scalini realizzati nella roccia, a monte del quale si trovava il vero muro della struttura. I due muri meglio conservati, dello spessore di circa 0.65 m, si caratterizzano per un’apparecchiatura muraria composta da elementi di piccole e medie dimensioni di calcare cavernoso e arenaria, generalmente spaccati e non sottoposti ad ulteriore finitura della faccia vista. A differenza degli ambienti posti più in alto, la posa in opera è più irregolare e i filari sono spesso sdoppiati o anche assenti in alcuni casi. Il cantonale dell’edificio e gli stipiti della porta, larga 1.85 m e situata nell’angolo sudorientale dell’ambiente19, sono composti da elementi sbozzati con maggiore accuratezza. Nel perimetrale occidentale si conservano infine i resti di una nicchia di larghezza pari a 0.60 m e profondità pari a 0.40 m. Il legante, leggermente rifluente, è composto per lo più da una matrice sabbiosa di consistenza pastosa mista a piccolissimi grumi di calce di colore biancastro. Al centro del piano pavimentale, realizzato spianando il banco di roccia, è stata individuata durante lo scavo una buca di forma circolare, probabilmente funzionale al sostegno della copertura, anche se l’assenza di tracce relative al crollo della stessa, avrebbe portato gli scavatori ad interpretare l’ambiente come parte di un progetto non portato a compimento. Gli ultimi interventi costruttivi alla fine del XIV secolo Alle più tarde fasi di occupazione del sito è infine possibile attribuire una limitata serie di interventi costruttivi che, oltre ad una precisa datazione proveniente dall’analisi della stratigrafia orizzontale, ben si caratterizzano per l’adozione di una peculiare tecnica costruttiva. In prossimità dell’angolo nord-occidentale del borgo interno alle mura del castello, nell’area che nel corso del XIII secolo era stata abbandonata e destinata ad uso ortivo (vedi supra capitolo scavo), fu edificata una nuova struttura, denominata Ambiente 34 (Attività 49 e 51). La struttura ha forma quadrangolare, dimensioni pari a circa 6 x 6.5 m e una superficie interna di 35 mq, e si appoggia nel versante settentrionale al muro di cinta, oggi quasi interamente crollato. Il lato occidentale e quello meridionale furono delimitati attraverso l’edificazione di due muri perimetrali, il primo dei quali, posto a ovest, si imposta direttamente sopra i resti di una muratura più antica attribuita ad un orizzonte cronologico di XI secolo. La porta dell’Ambiente 34, situata a sud, dava accesso ad una sorta di piccolo vano-cantina, come si evince dall’analisi delle quote del piano roccioso sfruttato in

Fig. 90: panoramica degli ambienti 32 e 33 19 È possibile che esistesse una seconda porta funzionale al collegamento diretto con l’ambiente adiacente, in relazione alla quale si conservano soltanto tracce della soglia ricavata direttamente nella roccia.

I rapporti di cronologia relativa indicano che l’ultimo ad essere edificato, addossato al perimetrale occidentale dell’Ambiente 33, fu l’Ambiente 32 (Attività 67) 88

parte come piano pavimentale. Una conferma indiretta a tale ipotesi giunge dall’analisi del sistema di buche di forma quadrata conservate nel muro perimetrale occidentale, funzionali al sostegno di un solaio che, nel versante orientale dell’ambiente, si poggiava direttamente al piano roccioso. La tecnica costruttiva adottata nei perimetrali leggibili di questa struttura, analoga ad un consistente intervento di restauro che ha interessato la cinta muraria situata nel terrazzamento inferiore, si caratterizza principalmente per la posa in opera di un numero notevole di elementi di riutilizzo (Fig. 91).

e nell’area industriale “massetana” si sono registrate all’inizio del XV secolo labili frequentazioni sui primi crolli delle murature, in seguito obliterate dai crolli definitivi. Dalle stratigrafie relative ai crolli degli edifici provengono molti reperti di ceramica, metallo, vetro e monete che hanno permesso la ricostruzione della cultura materiale presente nel castello alla fine del Trecento (Fig. 92). LO SCAVO Area sommitale (attività 155, 157, 159, 168, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 16): in questa fase l’area sommitale viene definitivamente abbandonata sino al crollo di tutte le murature in elevato. Si ha il crollo della piccola struttura di servizio sottostante la torre (attività 159) e l’abbandono di tutta la parte di area sommitale più elevata, occupata dalla torre (attività 21, 22, 23) e dalla cisterna (attività 168, 25, 24). Anche le aree sottostanti, occupate dal palazzo, vengono abbandonate e si è registrato il disfacimento e crollo di parte delle murature (attività 155, 157, 16, 26). Area del borgo (attività 53, 54, 167): sia l’area indagata relativa alla porta del castello, sia le case nell’angolo opposto del borgo vengono definitivamente abbandonate e si registrano i crolli graduali di tutte le murature che sigillano gli strati finali di vita degli edifici. Area industriale tra le doline A e B (attività 152, 153): all’inizio del XV secolo si segnala un riuso di alcune parti dell’ambiente 11 dell’area artigianale (attività 152) a cui fa seguito l’abbandono definitivo di tutta l’area (attività 153).

Fig. 91: materiali di reimpiego nel restauro del muro di cinta Si tratta di conci ben squadrati di calcare cavernoso apparecchiati su filari pseudo orizzontali spesso sdoppiati, alternati a numerose scaglie di arenaria funzionali al recupero dell’orizzontalità dei filari. Anche i sistemi di buche pontaie presenti nei due muri sono analoghi, soprattutto per l’impiego di bozze di arenaria maggiormente sviluppate nel senso della lunghezza utilizzate come architravi delle buche. L’accurata lavorazione dei conci contrasta con una posa in opera poco regolare, elemento che ha portato ad interpretare gli elementi come provenienti da un’operazione di recupero dalle numerose murature certamente rovinate in un’epoca così avanzata dell’insediamento.

Area industriale tra le doline B e C (attività 59, 61, 62, 71, 75, 76, 78, 79, 80, 83, 84, 85): all’inizio del XV secolo, nella nuova area industriale, si documentano le ultime fasi di vita dei quattro ambienti edificati nel corso del XIV secolo, a partire dall’edificio 30 (attività 59, 84), all’interno del quale era stato ricavato, qualche decennio prima, un piccolo annesso forse utilizzato come rimessa (attività 85). Nello stesso edificio si è ritrovato un forno da pane, costituito da una camera di cottura unica impostata su una muratura, forse in uso in queste ultime fasi finali (attività 83). In seguito si ha il crollo dell’edificio 31, delle sue murature e del tetto in tegole e lastre (attività 61, 62); l’abbandono dell’edificio 32, con un parziale riuso come discarica di tutta l’area ed in seguito il riempimento della buca centrale che era stata scavata per il tetto (attività 71, 75). Infine, si registra anche il crollo dell’edificio 33 (attività 76, 79), sul quale sono stati indagati alcuni livelli di dilavamento, depositati sul disfacimento delle travi lignee del tetto (attività 78, 80).

Giuseppe Fichera Fase 3 Inizio XV secolo L’abbandono del sito di Rocchette risulta abbastanza lento ed inquadrabile fra la fine del XIV secolo e il XV secolo. Probabilmente già alla fine del Trecento, come detto, gli edifici dell’area sommitale del castello erano quasi completamente crollati e questa parte del sito non fu più frequentata, a differenza delle aree del borgo il cui abbandono definitivo è leggermente più tardo, databile al XV secolo. In particolare, in alcune delle aree del borgo

Francesca Grassi

89

Fig. 93: tabella delle attività registrate nel periodo IV, fase 3

90

2. Le architetture in pietra del castello di Rocchette Pannocchieschi. Tecniche costruttive e tipologie edilizie tra X e XIV secolo

sua volta sostenuta dall’analisi dei materiali rinvenuti e da una serie abbastanza nutrita di analisi al radiocarbonio.

Giuseppe Fichera

1. Cronotipologia delle tecniche costruttive L’analisi delle architetture del castello di Rocchette Pannocchieschi ha portato al riconoscimento di 11 gruppi di tecniche costruttive che utilizzano in maniera esclusiva la pietra come materiale da costruzione, distribuite lungo un arco cronologico che dal X secolo si spinge fino almeno alla seconda metà del XIV. L’inquadramento cronologico delle tecniche costruttive corrisponde alla scansione adottata per la descrizione delle evidenze murarie, mutuata dalla Periodizzazione generale delle stratigrafie scavate e supportata da una griglia cronologica che proviene innanzitutto dalla datazione dei reperti di scavo e da una nutrita serie di analisi al radiocarbonio. Le tecniche costruttive sono state inoltre sottoposte ad un confronto tipologico con quelle di altri insediamenti fortificati del territorio.

Introduzione L’indagine sulle architetture in pietra del castello di Rocchette Pannocchieschi si è posta ad oggi, alle soglie dell’edizione finale di un progetto di ricerca protrattosi, con vicende alterne, per oltre un decennio, come naturale prosecuzione di una ricerca avviata nel 1994 da Giovanna Bianchi, nella quale si avanzava una preliminare bozza di schedatura e analisi delle principali evidenze murarie già visibili o riportate alla luce dalle prime campagne di indagine archeologica (BIANCHI 1994, pp. 257-260; BIANCHI 1995, pp. 23-42; BIANCHI 1996, pp. 53-64). Se da una parte gli obbiettivi prioritari della ricerca sono sostanzialmente rimasti gli stessi, “l’individuazione delle tecniche costruttive e la ricostruzione dei più importanti periodi edilizi” (BIANCHI 1994, p. 257), un biologico percorso di maturazione dell’Archeologia dell’Architettura ha portato all’acquisizione di una maggior consapevolezza circa il potenziale informativo connesso all’analisi delle architetture, ed inoltre la ricerca si avvale oggi di una campionatura di confronto a livello territoriale estremamente analitica, derivata da più di un ventennio di ricerche condotte dall’Area di Archeologia Medievale dell’Università degli Studi di Siena (BIANCHI 2003a-b; BIANCHI 2010; BIANCHI 2008; BIANCHI, FRANCOVICH 2005). Il castello di Rocchette infine, unitamente al limitrofo castello di Cugnano (FARINELLI 2005, p. 11; FARINELLI 2007, scheda 27.05), è stato analizzato dallo scrivente nell’ambito del proprio dottorato di ricerca concluso ormai da qualche anno (FICHERA 2009 a-b). A livello metodologico ci siamo orientati verso una lettura stratigrafica di tipo “macroscopico”, finalizzata cioè alla comprensione dei rapporti stratigrafici tra i differenti ambienti riportati in luce dallo scavo e, dove possibile, anche tra i singoli lacerti murari, inseriti comunque all’interno di una griglia interpretativa sulla base del campionamento della tecnica muraria. Scelta che si è affidata anche su una stratigrafia degli elevati relativamente semplice, almeno all’interno dei singoli muri, che ha permesso di riservare una lettura più dettagliata alle tecniche costruttive ed alle tipologie edilizie, entrambe analizzate nella diacronia costruttiva del sito. Sulla base di tali scelte, l’attribuzione delle Unità Stratigrafiche Murarie, e delle corrispondenti Attività, si è avvalsa della numerazione già esistente da scavo, e la sequenza di analisi ha fedelmente ripercorso la Periodizzazione delle stratigrafie indagate, semplificando al massimo la descrizione delle architetture analizzate. Le seriazioni cronotipologiche elaborate si sono potute infine avvalere, oltre che di un approfondito confronto con i principali insediamenti fortificati del territorio archeologicamente indagati, anche di datazioni assolute desunte dalla periodizzazione generale dei dati di scavo, a

Tecnica 1 (Fig. 1). Corrisponde alle più antiche tracce di architetture edificate interamente in pietra, che compaiono nella Fase 3 del Periodo I, cronologicamente attribuibile al X secolo1. La tecnica è attestata in un ridotto lacerto murario corrispondente ad una prima cortina difensiva che cinse un’area di circa 500 mq, localizzata nella porzione sommitale del poggio2. La muratura, di spessore pari a 1.35 m, impiega pezzame di arenaria locale privo di evidenti tracce di lavorazione o sottoposto a sommaria spaccatura, di forme irregolari e dimensioni non omogenee tra loro, forse esito di una modalità di approvvigionamento basata sulla raccolta selezionata. I blocchi sono talvolta posti in opera in obliquo o in verticale e regolarizzati da scaglie di dimensioni mediopiccole usate come zeppe e da abbondanti gettate di malta. Si tratta di un legante a base di malta di calce di consistenza friabile, con inclusi di grandi dimensioni ed un inerte composto da sabbia fine color ocra, utilizzata in alta percentuale rispetto alla calce stessa, stesa in abbondanti quantità, tali da ottenere una notevole regolarità nell’apparecchiatura muraria. Un’apparecchiatura muraria del genere potrebbe essere rapportabile all’operato di buoni muratori, capaci ad ottenere almeno una posa in opera abbastanza regolare, anche grazie al sapiente impiego di abbondanti quantità di legante. Le influenze generate dall’adozione della pietra come materiale da costruzione ebbero come conseguenza, in occasione dell’impianto di nuove strutture con destinazione artigianale contemporanee alla cinta, il ricorso ad una tecnica mista caratterizzata da pali lignei impostati su uno zoccolo in muratura.

1 Nella descrizione di tali evidenze era stata considerata la possibilità che le murature di questo periodo, esigue nello stato di conservazione, potessero rappresentare la traccia di una tecnica mista, con base in pietra ed elevato in materiale deperibile. 2 L’assenza di tracce di questa tecnica nella porzione inferiore del borgo ha portato ad ipotizzare un perimetro murario limitato alla sola porzione sommitale.

91

Tecnica 5 (Fig. 2). Nel corso del XII secolo le tecniche costruttive, al pari delle tipologie edilizie, secondo modalità che trovano confronti nelle architetture coeve di numerosi insediamenti fortificati della regione, riflettono un decisivo momento di cambiamento che coincise con la ridefinizione di un nuovo insediamento, ormai di pertinenza esclusiva del lignaggio dei conti Pannocchieschi. A marcare ancor più chiaramente la presenza di un ambiente tecnico certamente articolato contribuisce la presenza di più modi di costruire, tra loro contemporanei, che ben riflettono l’operato di maestranze specializzate al quale si accompagna il lavoro di consistenti gruppi di manodopera con competenze differenziate. L’apparecchiatura muraria che potrebbe costituire una sorta di archetipo, traccia evidente dell’operato di scalpellini professionisti secondo la distinzione operata da Mannoni (MANNONI 1997, pp. 15-24), è stata individuata nella cinta muraria conservata in corrispondenza del versante settentrionale dell’area sommitale, nel paramento murario della cisterna e negli stipiti della porta di accesso al borgo3. Conci ben squadrati, quasi sempre rifiniti da spianatura superficiale, sono posti in opera in maniera estremamente regolare, con filari paralleli e orizzontali che utilizzano pochissime zeppe del tipo lamellare in ardesia. Come litotipo, l’arenaria, prevalente nelle fasi costruttive più antiche, è ora rimpiazzata dal calcare cavernoso, la cui struttura geologica non permette una buona leggibilità di eventuali tracce lasciate dagli strumenti degli scalpellini. Il legante utilizzato è costituito da una malta di calce compatta e tenace di colore chiaro, mista ad inclusi di dimensioni anche centimetriche, composti da ghiaia non fluitata. Un particolare accorgimento tecnico legato alla posa in opera contribuisce a distinguere l’operato di costruttori certamente più specializzati, e consiste nel fatto che l’intero paramento murario del versante settentrionale del pianoro, dello spessore di 1.35 m, presenta filari progressivamente decrescenti, che probabilmente conferivano al muro stabilità e robustezza maggiori. Nel paramento murario della cisterna si registra invece un particolare tipo di trattamento superficiale della malta, che si ritrova anche nelle murature del palazzo, che prevedeva la spianatura della malta rifluente a coprire i margini dei conci4. Tecnica 5a (vedi fig. 2). Sulla scorta dell’analitica ricostruzione della sequenza costruttiva parrebbe emergere l’ipotesi di una prima fase di lavoro eseguita direttamente dalle maestranze più specializzate, consistente nella definizione del circuito murario e nell’avvio dei lavori di costruzione dello stesso, probabilmente dal fronte settentrionale dell’area sommitale. Gli edifici interni furono appoggiati in un secondo momento e, a parte la cisterna, edificati con una

Tecnica 2 (vedi fig. 1). Nel corso dell’XI secolo fu ricostruito un nuovo muro di cinta che racchiuse anche i terrazzamenti inferiori del borgo. Questa tecnica è attestata sia nel circuito murario sia nel muro perimetrale di una struttura ad esso appoggiata in prossimità dell’area sommitale. L’apparecchiatura muraria, di spessore analogo alla precedente, impiega blocchi spaccati di arenaria misti ad una percentuale quasi uguale di bozze di calcare cavernoso lavorate in maniera leggermente più accurata, di dimensioni medie ma comunque abbastanza eterogenee tra loro. L’irregolarità della posa in opera viene assorbita attraverso una cospicua presenza di scaglie di dimensioni medio piccole miste a zeppe lamellari e tramite giunti e letti di posa molto spessi, che obliterano quasi del tutto il sottostante livello di pietre. Il legante utilizzato ad una maggior percentuale di malta di calce associa una ghiaia con elementi anche di dimensioni centimetriche utilizzata come inerte. Rispetto alla tecnica costruttiva del periodo precedente, la principale differenza è rappresenta dalla comparsa del calcare cavernoso, probabilmente estratto in loco, come materiale da costruzione, mentre lavorazione e posa in opera degli elementi e uso del legante rimanderebbero ad un gruppo di maestranze dotate di un bagaglio di conoscenze tecnicamente abbastanza vicino, forse anche da un punto di vista cronologico, a quello che distingueva il primo gruppo di costruttori. È possibile effettuare dei confronti abbastanza stringenti con la Variante 2A della seriazione cronotipologica delle murature del castello di Miranduolo, databile tra la prima metà e la metà dell’XI secolo (CAUSARANO 2008), e con il Tipo C2 individuato nel circuito murario del limitrofo castello di Cugnano, attribuito ad un medesimo orizzonte cronologico (QUIROS CASTILLO 2005, p. 57). Tecnica 3 (vedi fig. 1). Nonostante i lacerti sopravvissuti in relazione alla cinta muraria edificata nel corso dell’XI secolo a difesa del borgo inferiore siano esigui (si veda infra), è possibile ipotizzare che questi facessero riferimento ad una tecnica costruttiva leggermente differente dalla precedente. Le differenze più macroscopiche consistono in una più sommaria preparazione del pezzame litico, causa di una posa in opera più irregolare, colmata dalla cospicua presenza di scaglie usate come zeppe, e soprattutto da un legante a matrice essenzialmente argillosa mista ad una esigua percentuale di calce e ad inclusi di dimensioni notevoli, fino al centimetro. Tecnica 4 (vedi fig. 1). Nel settore del borgo posto nell’angolo nord-occidentale delle mura lo scavo ha restituito consistenti tracce inerenti un’edilizia privata a destinazione verosimilmente abitativa, risalenti alla fase di XI secolo. In uno dei muri meglio conservati delle due abitazioni si registra un’apparecchiatura muraria caratterizzata da blocchi di arenaria spaccati nel senso della giacitura naturale del litotipo, maggiormente sviluppati in lunghezza più che in altezza, misti a pochi pezzi in calcare cavernoso. Nonostante l’impiego di pezzame dalle forme regolari, la posa in opera procede per filari irregolari e a volte del tutto assenti, tenuti assieme da un legante a matrice argillosa.

3 In corrispondenza dello stipite sud della porta si registra uno spessore murario di 1.80 m circa, caratterizzato da un riempimento caotico della sezione muraria composto da pietre non lavorate di dimensioni variabili ben costipate con scaglie di dimensioni minori e legate da malta. 4 Il paramento interno, integralmente ricoperto da uno spesso strato di malta idraulica, era composto da bozze di dimensioni più ridotte e sottoposte ad una lavorazione meno curata, forse proprio per la copertura di cocciopesto.

92

tecnica identificata come variante della prima, ossia derivata dal medesimo archetipo ma eseguita con lievi differenze di lavorazione, scelta del litotipo e posa in opera. Tale tecnica, pur sempre ben riconducibile ad un orizzonte cronologico di XII secolo, caratterizza i paramenti murari del palazzo, della torre per i lacerti visibili, e di almeno uno degli ambienti del borgo situato nei pressi della porta di accesso5. L’apparecchiatura muraria è realizzata con conci di calcare cavernoso, misti ad una esigua percentuale di arenaria, squadrati in maniera abbastanza curata e sommariamente spianati in superficie. Il legante è costituito da una malta di calce estremamente compatta e tenace di colore giallastro, adoperata in abbondanti quantità che prevedevano la stesura delle parti rifluenti fino a coprire i margini dei conci, ed in pochi casi ancora visibili anche una ulteriore stilatura effettuata con uno strumento a punta. Tecnica 5b (vedi fig. 2). Una lavorazione che si arresta alla squadratura sommaria unita ad una finitura superficiale poco evidente e ad una posa in opera che prevede talvolta lo sdoppiamento dei filari sembrano caratterizzare una ulteriore variante dell’archetipo cui fecero riferimento costruttori di un livello medio, probabilmente buoni muratori. Tale tecnica fu adoperata, verosimilmente ancora nel corso del XII secolo, per l’edificazione di alcuni degli ambienti del borgo (5, 6, 7 e 9) regolarizzando i filari attraverso un costante ricorso all’uso di scaglie di pietra e zeppe di tipo lamellare in ardesia. Due di questi ambienti, il 7 e il 9, sfruttavano nel versante a monte la parete di roccia che costituiva il fianco del pianoro sommitale, come attestano le numerose evidenze negative individuate nella parete rocciosa, funzionali all’alloggio di travi lignee per il sostegno del tetto e alcune nicchie usate dagli abitanti come piccoli ripostigli. Tecnica 6 (vedi fig. 2). Il completamento del circuito murario dovette essere affidato a gruppi di manodopera di provenienza locale o giunti al seguito delle maestranze specializzate, che limitarono la lavorazione dei singoli elementi litici ad una buona sbozzatura. Caratteristica del resto abbastanza diffusa nelle cortine difensive atte a rispondere ad esigenze di robustezza e rapidità di esecuzione più che a criteri estetici. Questa tecnica si caratterizza dunque per la presenza di bozze di calcare cavernoso e di arenaria ben lavorate ma generalmente prive di spigoli vivi, raramente sottoposte a spianatura superficiale, effettuata con uno strumento a punta le cui tracce sono maggiormente evidenti nelle bozze di arenaria. La posa in opera procede per filari orizzontali e paralleli ulteriormente regolarizzati tramite l’inserimento di scaglie litiche di dimensioni medio piccole sia nei letti che nei giunti di posa. Il legante utilizzato, a base di malta

di calce compatta e tenace, risulta steso in abbondanti quantità e a volte spianato a coprire i bordi dei conci. Dal crollo di una porzione di paramento si individua inoltre un riempimento interno del tipo “a bancate”, nel quale blocchi non lavorati e scaglie di pietra legati da malta seguono un ritmo di accrescimento legato a quello dei filari del muro stesso. Tecnica 7 (vedi fig. 2). Si tratta di una tecnica costruttiva individuata in un solo caso, attribuibile ancora al radicale progetto di ridefinizione del borgo e delle sue architetture avvenuto nel corso del XII secolo. L’apparecchiatura, presente nei paramenti settentrionale e occidentale dell’Ambiente 1, si caratterizza per la presenza di conci squadrati in calcare cavernoso di grandi dimensioni limitati alle porzioni murarie staticamente più significative, come l’angolata o gli stipiti dell’apertura. Lo spazio racchiuso tra il cantonale, del tipo gerarchizzato ed evidenziato, e lo stipite della porta è riempito da pietre di arenaria e calcare cavernoso, spaccate o sommariamente sbozzate di medie dimensioni, poste in opera su filari irregolari e sdoppiati rispetto al cantonale, con numerose scaglie usate come zeppe. Il legante, forse steso in giunti del tipo arretrato, è costituito da una compatta malta di calce di colore biancastro mista ad inclusi molto fini. Tecnica 8 (Fig. 3). Agli inizi del XIV secolo la proprietà del castello passò definitivamente nelle mani del centro di Massa Marittima. Potrebbe essere collocato in questo momento storico un forte investimento costruttivo che determinò l’edificazione di due poli artigianali esterni al castello e di un borgo, probabilmente con funzione abitativa, posto tra il versante occidentale della cinta muraria e il bordo della dolina B6. Per la costruzione delle case, distribuite su due file, pur con alcune limitate varianti, sembra che i costruttori fecero ricorso ad una tecnica costruttiva caratterizzata da una regolare posa in opera di bozze di calcare cavernoso sottoposte ad un processo di lavorazione piuttosto sommario ma spesso associato ad una finitura della faccia vista. I filari, abbastanza orizzontali e paralleli tra loro, a volte si sdoppiano in particolar modo in prossimità delle angolate, di tipo gerarchizzato, o degli stipiti delle aperture, costituiti da conci di dimensioni maggiori, e ricorrono spesso a scaglie di arenaria usate come zeppe. I paramenti murari presentano uno spessore costante di circa 0.70 metri, ed il ridotto spazio tra le due incamiciature è riempito in maniera caotica da pietre spaccate di medie dimensioni legate tra loro da una malta friabile povera di calce, di color nocciola e a matrice principalmente sabbiosa, caratterizzata dalla presenza di inclusi millimetrici. In molti casi è stato registrato un trattamento delle superfici murarie basato sulla stesura di abbondanti quantità di malta a coprire i giunti ed i letti di posa. La malta adoperata è diversa da quella utilizzata come legante del muro, in quanto molto più compatta e ricca di calce di colore giallastro, mentre sembra simile a quella individuata tra le pietre del paramento la sabbia usata come inerte.

5

Si tratta della parete orientale dell’Ambiente 1, edificata in comune con la struttura costruita nel terrazzamento soprastante. Considerata inoltre la scarsa visibilità dell’Ambiente 10, localizzato a sud del castello tra le doline A e B, è difficile stabilire se i pochi filari che emergono, composti da conci di calcare cavernoso sommariamente squadrati ma rifiniti in superficie, siano da riferire alla stessa tecnica costruttiva. I conci, di dimensioni medio-piccole e forme omogenee tendenti al quadrato, sono posti in opera su filari orizzontali e paralleli con giunti e letti di posa ampi e arretrati nei quali non sembra di vedere zeppe o scaglie litiche, uniti forse da un legante a matrice argillosa mista a grumi di calce.

6 Gli ambienti individuati, almeno 14, sembrano far parte di un preciso progetto edilizio secondo il quale la costruzione procedeva per coppie di ambienti dotati di un unico muro di facciata oscillante tra i 10 ed i 15 metri.

93

Tecnica 12 (Fig. 4). Questo tipo di tecnica costruttiva dalle caratteristiche peculiari si individua in alcune porzioni della cinta muraria interessate da interventi di restauro e nelle attività di ripristino di qualche edificio, tra i quali l’Ambiente 34, interventi databili sulla scorta dei risultati della stratigrafia orizzontale alla seconda metà del XIV secolo, dunque alle fasi immediatamente precedenti l’abbandono dell’insediamento. La tecnica costruttiva si caratterizza principalmente per l’adozione di un metodo di approvvigionamento basato sul recupero di elementi verosimilmente provenienti dalle numerose murature rovinate, presenti nel castello in un’epoca così avanzata. L’accurata lavorazione di questi elementi, soprattutto conci, contrasta con una posa in opera poco regolare, con filari pseudo orizzontali spesso sdoppiati, alternati a numerose scaglie di arenaria funzionali al recupero dell’orizzontalità, frutto del lavoro di costruttori certamente non professionisti. Anche i sistemi di buche pontaie presenti sono analoghi, soprattutto per l’impiego di bozze di arenaria maggiormente sviluppate nel senso della lunghezza utilizzate come architravi delle buche.

Tecnica 9 (vedi fig. 3). Lo scavo di uno degli ambienti posizionati nella zona a sud della porta di accesso al castello ha permesso di verificare una cronologia di fondazione che rimonta alla prima metà del XIV secolo. Gli Ambienti 11 e 13, maggiormente visibili, sono inoltre accomunati da muri di spessore compreso tra 0.65 e 0.70 m, realizzati con un’apparecchiatura muraria composta da blocchi di arenaria sottoposti a semplice spaccatura, di forme e dimensioni variabili, posti in opera su filari pseudo orizzontali spesso sdoppiati e regolarizzati tramite il frequente inserimento di scaglie dello stesso litotipo. Il legante visibile è costituito da terra a matrice argillosa mista a piccoli grumi di malta. Tecnica 10 (vedi fig. 3). Le murature del cosiddetto “quartiere massetano” fanno riferimento a due principali tecniche costruttive, anche queste databili alla prima metà del XIV secolo sulla base dei risultati dello scavo. La prima delle due, assieme ad una sua variante, si individua negli Ambienti 30 e 33, posti su terrazzamenti differenti ed edificati per primi, come mostrano precisi rapporti di cronologia relativa tra le murature, a differenza degli Ambienti adiacenti che furono appoggiati in un momento successivo, con una tecnica dall’apparecchiatura meno ordinata verosimilmente derivata dalla prima. Con la tecnica in questione furono realizzati muri di spessore compreso tra 0.60 e 0.65 m, con blocchi di calcare cavernoso sbozzati in maniera sommaria o solo spaccati misti ad una esigua percentuale di un calcare compatto di colore grigio-azzurro, non individuato in altre murature del castello. Nonostante l’eterogeneità di forme e dimensioni degli elementi è evidente uno sforzo di mantenere una certa orizzontalità nei filari di posa in opera, ottenuta anche grazie ad un frequente impiego di scaglie di pietra inserite come zeppe sia nei giunti che nei letti di posa. Una lavorazione più accurata era riservata agli elementi delle angolate o agli stipiti delle aperture. Il legante, friabile e di color nocciola chiaro, è ricco di calce, presente al suo interno in numerosi grumi, insieme a sabbia usata come inerte e, in taluni punti, è possibile osservare un espediente volto a stendere il legante rifluente a coprire giunti e letti di posa. Tecnica 10a (vedi fig. 3). La variante che si individua nelle murature dell’Ambiente 33, attribuibile ad un medesimo orizzonte cronologico, si distingue soprattutto per la scelta del litotipo. Con un analogo grado di lavorazione il calcare cavernoso ha sostituito l’arenaria con blocchi di dimensioni più omogenee. Tecnica 11 (vedi fig. 3). Tale tecnica, attestata nei paramenti murari degli Ambienti 31 e 32, di spessore pari a circa 0.65 m, si caratterizza per un grado di lavorazione più sommario e dimensioni più eterogenee degli elementi litici, di arenaria e calcare cavernoso in percentuali analoghe. La posa in opera risulta dunque caotica con filari spesso assenti o frequentemente sdoppiati che si accompagnano ad un uso massiccio di scaglie litiche usate come zeppe. I cantonali degli edifici e gli stipiti delle aperture sono composti da elementi sbozzati con maggiore accuratezza. Il legante, steso in abbondanti quantità spesso rifluenti, è molto povero di calce ed ha una consistenza pastosa, forse dovuta alla prevalente componente sabbiosa.

2. Considerazioni conclusive Da un punto di vista geologico la località di Poggio Trifonti, ed in particolare il limitrofo rilievo sul quale si sviluppò il castello di Rocchette Pannocchieschi, è composta in prevalenza da calcari cavernosi del periodo triassico che confinano, più ad ovest, con un vasto areale di più compatti calcari silicei, detti palombini. Dalla comparsa delle prime architetture in pietra, sul finire del X secolo, fino alle fasi più tarde di occupazione del sito, è stato registrato un impiego strettamente locale di litotipi presenti in corrispondenza del sito stesso o nelle immediate vicinanze, con un uso scarsamente rilevante di altri materiali costruttivi come il laterizio. Le uniche variazioni, legate a motivi di difficile interpretazione, riguardano la scelta del litotipo nelle singole fasi costruttive. Nelle strutture murarie più antiche infatti, corrispondenti alla prima cinta difensiva edificata nel corso del X secolo, il calcare cavernoso risulta ancora assente, a vantaggio di un’arenaria compatta approvvigionata molto probabilmente tramite raccolta o limitato sfruttamento di limitrofi fronti di cava, e lavorata essenzialmente a spacco, per la produzione di elementi di dimensioni generalmente medio-piccole che sfruttavano talvolta i naturali piani di giacitura del litotipo nella faccia vista del muro. L’opera edilizia potrebbe essere attribuita all’impegno di validi muratori, esperti nella fabbricazione di una buona malta di calce e capaci di realizzare una tessitura muraria che sopperiva ad una sommaria lavorazione della pietra con una sapiente selezione delle dimensioni degli elementi ed un abbondante uso della malta, allettata in quantità funzionali ad assicurare una certa orizzontalità dei filari (Tecnica 1). Questo circuito murario, in assenza di evidenze materiali relative a più antichi elementi di fortificazione, rappresenta il primo segno di una strutturazione dell’insediamento, limitata molto probabilmente alla zona sommitale del castello ampia circa 500 mq, con 94

terrazzamenti inferiori ancora non occupati da strutture insediative, come suggerirebbe l’assenza di strutture e stratigrafie risalenti a queste prime fasi nei sondaggi di scavo effettuati nella parte bassa del sito. Nell’ambito del medesimo orizzonte cronologico, nel limitrofo castello di Cugnano, le tracce legate ad un primo insediamento sono state individuate nell’area sommitale, area 3000, al di sotto delle strutture del palazzo edificato nel corso del XII secolo, ma non nella zona del borgo, e non sembra inoltre esistere a questa data un circuito difensivo in pietra (BELLI, FRANCOVICH, GRASSI, QUIROS CASTILLO 2005, p. 50). Nel corso dell’XI secolo, a Rocchette, le principali caratteristiche della tecnica costruttiva non presentano differenze sostanziali rispetto all’apparecchiatura muraria del secolo precedente, tranne la comparsa del calcare cavernoso in associazione alla pietra arenaria, lasciando in tal modo avanzare l’ipotesi di maestranze dotate di bagagli di conoscenze non troppo diversi. Un cambiamento evidente si registra piuttosto nella fase di progettazione probabilmente legata ad un tipo di investimento più sostanziale, evidenziato da una serie di elementi estremamente importanti. Innanzitutto si registra una netta espansione del circuito difensivo che andò a racchiudere anche i terrazzamenti sottostanti del borgo, raggiungendo una dimensione che verrà mantenuta anche nel corso dei secoli successivi, in stretta analogia con quanto avviene nello stesso periodo nel limitrofo castello di Cugnano7. In secondo luogo anche la forma di organizzazione del lavoro si presenta più articolata e forse le maestranze impegnate più numerose, pur all’interno di un ambiente tecnico non del tutto differente. Questo è quanto lascerebbe supporre l’esistenza di due tecniche costruttive attestate nella parte sommitale dell’insediamento e nella zona inferiore del borgo, ben distinte tra loro per il grado di lavorazione degli elementi litici e per l’impiego di un legante a matrice argillosa in una, diverso dalla buona malta di calce ancora usata nelle apparecchiature dell’area sommitale (Tecniche 2 e 3). In questa parte dell’insediamento infine l’indagine archeologica ha portato alla luce i resti di un muro, edificato con una tecnica analoga a quella del circuito murario e ad esso appoggiato, non riconducibile, in assenza di altri dati, ad una più precisa tipologia abitativa. Sarebbe certamente azzardato ipotizzare una prima fisionomia di struttura “palaziale”, sulla base di un orizzonte cronologico così precoce e di un panorama regionale in cui strutture di questo tipo inizieranno a comparire almeno a partire dal secolo successivo, tranne rare eccezioni8. Tuttavia, pur all’interno di una tipologia abitativa più “modesta”, è importante registrare la

presenza di abitazioni costruite interamente in pietra sia nell’area sommitale sia nel borgo inferiore9. Un confronto estremamente interessante a livello di tecniche edilizie e di procedimenti costruttivi emerge con il non lontano sito di Miranduolo, insediamento legato alla consorteria dei Della Gherardesca, nel quale si riscontra una situazione costruttiva simile in un arco cronologico di prima metà/metà XI secolo, con un muro di cinta che presenta un’apparecchiatura muraria analoga a quella di Rocchette ed un muro perpendicolare ammorsato che verrà riutilizzato un secolo dopo come fondazione di un perimetrale del palazzo (CAUSARANO 2008). Dal confronto con il sito di Cugnano emergono alcune analogie nella fase di progettazione di una cinta muraria che raggiunse la sua massima estensione, nella costruzione di edifici in pietra e nell’adozione di apparecchiature murarie abbastanza simili. Un elemento che sembra differenziare le storie dei due siti riguarda la portata economica degli investimenti. A Cugnano infatti il circuito murario, con un perimetro di 260 m racchiuse una superficie di 5675 mq (QUIROS CASTILLO 2005, p. 62), laddove a Rocchette un perimetro di 217 metri racchiuse una superficie pari a quasi 2500 mq. Un dato singolare valido per entrambi i siti, ma che in particolar modo a Cugnano il proseguo dello scavo potrà verificare, consiste nel fatto che non sembra che l’intera superficie interna delle mura fosse fin dall’inizio interamente edificata. A Cugnano infatti molte aree mostrano, anche in base ai più recenti dati di scavo, di non essere state interessate da interventi costruttivi precedenti il XIII-XIV secolo, come a Rocchette dove gli scavi effettuati in prossimità della porta di ingresso al castello non hanno restituito materiali anteriori al XII secolo. Elementi estremamente importanti quelli emersi finora in relazione all’ambiente tecnico e alla fase progettuale che caratterizza l’XI secolo, anche se purtroppo legati nel caso di Rocchette ad una committenza dall’identità piuttosto nebulosa. In linea generale però appare plausibile l’ipotesi secondo la quale i castelli minerari come il nostro, unitamente a Cugnano e a Rocca San Silvestro, sembrerebbero vivere una fase di definizione più solida nel corso dell’XI secolo, con quasi due secoli di ritardo rispetto ad insediamenti come Donoratico, Scarlino o lo stesso Miranduolo (QUIROS CASTILLO 2005, p. 63). Gli elementi analizzati finora, uniti ad altri, saranno portati a sviluppi più maturi nel corso del XII secolo, in linea con quanto avviene nella gran parte degli insediamenti fortificati della regione. Per quanto riguarda la possibile committenza, benchè le attestazioni documentarie che fotografano un consolidato predominio della signoria dei Pannocchieschi sul castello siano leggermente più tarde, la ricostruzione pressoché integrale dell’insediamento e la forte volontà di controllo e autorappresentazione che traspare dal progetto edilizio

7 A Cugnano infatti il circuito murario datato tra fine X e inizi XI secolo non sembra, ad oggi, essere stato preceduto da una più antica cinta muraria, e avrebbe dunque avuto sin dal primo impianto le dimensioni ancora visibili (BELLI-FRANCOVICH-GRASSI-QUIRÒS CASTILLO 2005, p. 84). Una situazione analoga si individua nella rocca di San Silvestro nella quale il primo circuito murario, edificato con una tecnica “complessa” caratterizzata da una posa in opera priva di regolarità nei filari e datata tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo, raggiunse fin dall’inizio una estensione che non cambiò nel corso dei secoli (BIANCHI 1997, p. 438). 8 Il palazzo di Arcidosso, datato da Nucciotti tra la seconda metà e la fine del X secolo, è comunque da ricondurre ad una committenza del calibro del marchese Ugo di Tuscia (NUCCIOTTI 2006, pp. 167-168).

9

Ancora nella zona sommitale, in prossimità di questa struttura è stata rinvenuta una serie di lacerti murari edificati con una tecnica apparentemente simile, posti a delimitazione di un’area pavimentata con un livello di malta. Le stratigrafie interne all’ambiente si limitavano ai crolli databili ad epoca basso medievale ma in questo caso, se risale davvero ad un contesto di XI secolo, è più verosimile oltre che prudente pensare ad una sorta di terrazzamento o una zona di stoccaggio di eventuali riserve alimentari.

95

dimensionale è possibile effettuare un confronto con il palazzo della rocca di Campiglia Marittima, la cui articolazione volumetrica prevedeva la presenza di almeno due pilastri mediani per il sostegno del solaio del piano superiore, elementi che probabilmente non erano necessari nel caso del palazzo di Rocchette Pannocchieschi, in quanto travi lignee opportunamente ancorate ai muri perimetrali avrebbero potuto sostenere il solaio ligneo10. Se nel caso del palazzo di Campiglia le particolarità architettoniche della struttura avevano giustificato un confronto con il palazzo vescovile di Genova, a sua volta rapportato alla sede episcopale di Beauvais, e con il palazzo dei vescovi di Pistoia (BIANCHI 2004c, p. 731), la modestia della nostra struttura potrebbe forse rappresentare una suggestione, riveduta e semplificata, dello stesso edificio campigliese, imitato nelle dimensioni ed in alcune soluzioni formali e funzionali, come le aperture a feritoia al pian terreno adibito a magazzino o ripostiglio o gli scarichi per le acque reflue. In un confronto che era stato fatto tra le vicende edilizie di Campiglia Marittima e di Rocca San Silvestro, era emersa per Campiglia una cultura costruttiva di riferimento di ambito prettamente urbano, connessa allo status sociale e politico più elevato dei Della Gherardesca che controllavano il sito, contrapposta ad una di ambito più rurale legata alla famiglia dei Della Rocca ed alla finalità insediativa di Rocca San Silvestro (BIANCHI 1997, pp. 437-444). Osservazioni e dinamiche che restano valide anche per il castello di Rocchette Pannocchieschi, considerata la principale vocazione economica del sito connessa, come a San Silvestro, allo sfruttamento delle risorse metallifere. Una analogia relativa all’organizzazione edilizia dell’area sommitale può, ancora una volta, essere effettuata con l’insediamento di Miranduolo nel quale, in un ambito cronologico di inizio XII secolo, venivano edificati proprio un palazzo, una torre ed una cisterna11. A Rocchette Pannocchieschi, nella precisa gerarchizzazione degli spazi interni alle mura una minuziosa pianificazione degli spazi deputati ad ospitare le abitazioni del borgo si osserva nei terrazzamenti sottostanti l’area signorile. Gli edifici del borgo si sviluppavano su due file parallele, la prima delle quali si appoggiava ad ovest alla cinta muraria, la seconda sfruttava la parete rocciosa come perimetrale orientale12. Le abitazioni potevano avere muri in comune o essere separate da spazi usati come viabilità. Sono stati individuati almeno otto ambienti che, sulla base di un’analisi dimensionale, sembrano far riferimento a due tipologie principali13. La prima, dotata di un fronte di

permettono di attribuirne la paternità alla consorteria che dominerà sul sito per tutto il secolo e per gran parte di quello successivo, prima di essere spodestata dalla espansione della città di Massa. Seppure il nuovo assetto urbanistico ripropose modello e dimensioni ereditate dal secolo precedente, i committenti, attraverso il ricorso a strutture e modelli edilizi socialmente rappresentativi (la torre, il palazzo e la cisterna dell’area sommitale) e a tecniche costruttive di pregio che avevano ormai riacquisito il passaggio della squadratura nel ciclo di lavorazione della pietra, affermarono in maniera forte la paternità dell’opera e la signoria su uomini e risorse. Di importanza non secondaria risultano infine le labili stratigrafie con materiali ceramici di XII secolo individuate nel quartiere esterno a sud, le quali lascerebbero supporre una prima occupazione anche delle aree esterne al castello, probabilmente con destinazione artigianale. L’analisi delle evidenze materiali ha permesso di ricostruire le linee guida di una progettazione edilizia connessa ad una sequenza costruttiva estremamente precisa secondo la quale i lavori ebbero inizio dalla edificazione della cinta muraria, dell’area sommitale e del borgo, una ricostruzione che fu integrale in alcuni punti o che si limitò al restauro delle murature più antiche ancora in buono stato di conservazione. Tale sequenza costruttiva, sulla scia di quanto registrato per il secolo precedente, è ben evidenziata da rapporti stratigrafici che vedono tutte le strutture appoggiate al circuito difensivo, all’interno di un progetto unitario che aprì sulla cinta finestre e scarichi legati all’articolazione formale del palazzo prima ancora che questo fosse completato. L’edificio assolveva quasi certamente la funzione di residenza signorile, affidando una destinazione prettamente difensiva alla massiccia torre edificata sullo sperone roccioso più alto e stratigraficamente legata alla cisterna. Se le lacunose informazioni di cui disponiamo in relazione alla torre, a causa del pessimo stato di conservazione delle evidenze materiali, consentono di registrare una forma quadrangolare e dimensioni interne pari a 8.23 x 4.86 m, per una superficie totale di 40 mq, più numerosi risultano i dati raccolti in relazione al palazzo. Il palazzo ha un perimetro leggermente trapezoidale, definito dall’andamento del circuito murario cui si appoggia, e dimensioni interne molto ampie, pari a 18 x 5/7 m, che creano una superficie di 104 mq. I volumi interni erano suddivisi almeno su due livelli, con un piano terra attualmente illuminato soltanto da tre strette feritoie, che poteva avere una funzione di magazzino o di alloggio per un eventuale personale di servizio, ed un piano superiore certamente adibito a residenza dei signori e in relazione al quale si conservano una nicchia nella muratura e uno scarico per i liquami connesso alla presenza di servizi igienici. Dell’ingresso principale posto al centro del prospetto meridionale, largo 1.60 metri e aperto su una viabilità interna, si conservano soltanto gli stipiti. Certamente il livello di conservazione dei resti materiali non permette di comporre una ricostruzione più dettagliata dell’aspetto formale dell’edificio, che risulta ad esempio carente di ulteriori informazioni sul sistema di aperture del primo piano. A livello esclusivamente

10 All’interno del palazzo lo scavo ha soltanto asportato le stratigrafie inerenti i più tardi livelli di crollo mettendo in evidenza la cresta di un muro, posto al centro dello spazio, costruito probabilmente nelle ultime fasi di vita dell’edificio. 11 Le misure del palazzo di Miranduolo sono di 7 x 10,5 m, pari a 73.5 mq. (CAUSARANO 2008). 12 Numerose in tal senso le tracce in negativo individuate sulle pareti rocciose, rappresentate da buche funzionali all’alloggio di travi per i solai e da nicchie-ripostiglio per le necessità della vita domestica. 13 Il calcolo delle dimensioni ha permesso di ipotizzare che nel versante nord del borgo potevano trovare posto almeno altre tre abitazioni del tipo più grande e forse due o tre di dimensioni più ridotte.

96

almeno 12 metri, una profondità di circa 8 metri ed una superficie interna oscillante tra 95 e 104 mq, risulta attestata in ben quattro casi14. Questi edifici erano alternati ad altri di dimensioni minori, con un fronte compreso tra 4 e 6 metri ed una superficie interna di circa 33 mq. Ulteriori ambienti avevano dimensioni diverse per adattarsi alla cinta muraria e sfruttare al meglio le aree edificabili o anche perché assolvevano probabilmente ad attività particolari, come l’ambiente localizzato in prossimità della porta di ingresso al castello e dotato sul lato esterno di un sistema di salita alla cinta muraria, apparentemente destinato a punto di guardia. Dal punto di vista delle tecniche costruttive, l’ambiente tecnico di XII secolo si caratterizza per una varietà abbastanza contenuta, specchio della presenza sul cantiere di gruppi di maestranze specializzate dotate di una ottima capacità organizzativa e che esercitarono un forte ascendente sulla manodopera locale. Tali capacità sono evidenziate non solo o non tanto dal diverso grado di lavorazione degli elementi lapidei, quanto soprattutto dalla razionalizzazione delle operazioni che compongono il ciclo di lavorazione della pietra e dall’accurata pianificazione dei diversi compiti, certamente connessa a tempi e costi di realizzazione. Procedendo per ordine, la scelta del materiale da costruzione dall’arenaria, esclusivamente utilizzata nei periodi precedenti, ricadde sul calcare cavernoso che divenne prevalente nelle nuove apparecchiature murarie, attestando un radicale cambiamento di tendenza rispetto al passato, probabilmente per ragioni legate ad una maggior disponibilità e lavorabilità del litotipo. Il ciclo di lavorazione della pietra fu razionalizzato, acquisendo una complessità resa possibile grazie alla presenza di figure professionali più specializzate, e la coltivazione di fronti di cava divenne un passaggio integrante del ciclo di realizzazione delle nuove apparecchiature murarie 15. A livello di apparecchiature murarie è stata individuata una tecnica “principale” (Tecnica 5), rapportabile per accuratezza all’operato di buoni scalpellini e limitata per economia di tempo e denaro ad alcuni tratti della cinta sommitale ed al paramento esterno della cisterna. Una prima variante di questa (Tecnica 5a) è attestata nelle strutture del settore signorile, palazzo e torre, e si caratterizza per una squadratura ed una finitura superficiale non perfette, oltre che per l’impiego di alcuni elementi di arenaria. Pensiamo sia ancora il prodotto del lavoro di uno scalpellino ma eseguito con più rapidità, forse occultata dall’accorgimento di stendere e stilare la malta rifluente dai letti di posa. Una seconda variante (Tecnica 5b), nella quale risultano maggiormente sacrificate la finitura superficiale e la posa in opera, è attestata in alcune delle case del borgo e potrebbe essere attribuita a dei buoni muratori, al pari di coloro ai quali fu affidato il compito di completare l’edificazione della

cinta muraria con una tecnica (Tecnica 6) in cui differenze di lavorazione e scelta del materiale si accentuano leggermente, come spesso si verifica nelle apparecchiature delle cortine difensive. In generale comunque, a parte la Tecnica 7, che rappresenta una sorta di unicum visibile in uno dei perimetrali dell’Ambiente 1, sembra emergere una realtà di cantiere nella quale i saperi tecnici legati alla cultura locale affiorano con una certa difficoltà, esito di una forte adesione della manodopera autoctona ai saperi importati, specchio a sua volta di una volontà e di un potere signorile molto sviluppati16. Ampliando lo sguardo alle dinamiche insediative di ambito regionale, se dal punto di vista delle tecniche costruttive il XII secolo mostra una notevole omogeneità, quello che sembra cambiare riguarda l’entità dei singoli investimenti, in particolare tra i castelli a vocazione mineraria come Rocchette, Cugnano e San Silvestro e gli altri siti. I cambiamenti risultano leggibili con più chiarezza analizzando le tipologie edilizie adottate e i progetti di pianificazione urbanistica che emergono con un impatto molto forte nei siti di Rocchette Pannocchieschi, di Rocca San Silvestro e di Cugnano, rispetto a castelli quali lo stesso Donoratico o ancora Miranduolo, entrambi legati ai Della Gherardesca (BIANCHI, FICHERA, PARIS 2009). Ritornando al nostro sito, le attività edilizie riferibili ad un contesto di XIII secolo sono molto esigue, salvo forse alcuni interventi di restauro alle architetture dell’area sommitale, e contribuiscono poco a delineare l’immagine di un potere signorile in fase di stallo o intento a mantenere il controllo sul sito, progressivamente contrastato dall’ingerenza e dall’espansione della vicina Massa Marittima, cui fa da contraltare il controllo senese che si afferma sul castello di Cugnano a partire dalla fine del XIII secolo. Forse proprio al comune di Massa Marittima il quale, a seguito di forti investimenti economici riuscì ad acquisire il controllo sul castello di Rocchette Pannocchieschi, tra gli ultimi anni del XIII secolo e il primo quarto del secolo successivo, è possibile attribuire un intervento radicale, equiparabile nella portata e nell’impatto architettonico alla ricostruzione di XII secolo . Sulla base del numero minimo di ambienti individuati e valutando la superficie da questi occupata all’esterno delle mura castellane è possibile parlare di un vero e proprio borgo nuovo, imperniato intorno a tre poli principali inequivocabilmente legati ad una accurata ed economicamente impegnativa pianificazione edilizia. Uno di questi si sviluppava tra il versante occidentale della cinta muraria e il bordo della dolina B, e la razionale progettazione sembra particolarmente evidente analizzando la sequenza costruttiva della serie di ambienti situati sul bordo della dolina, la maggior parte dei quali edificati a coppie e dotati di un unico muro di facciata di dimensioni comprese tra i 10 ed i 15 metri. Tutti gli edifici, almeno 14 quelli individuati, sono inoltre accomunati da una tecnica costruttiva abbastanza curata che utilizza bozze di calcare cavernoso apparecchiate in maniera ordinata (Tecnica 8), e da una tipologia edilizia

14 Strutture di dimensioni simili riportano al contemporaneo contesto di Rocca San Silvestro, nel quale il fronte delle case misurava tra 9 e 14 m, con una superficie interna compresa tra 96 e 126 mq. (BIANCHI 1997, p. 444). 15 Posto che non possediamo precise informazioni sull’epoca nella quale fu realizzato il fossato artificiale che difende il sito nel versante settentrionale, è possibile ipotizzare che l’organizzazione del cantiere di XII secolo abbia sfruttato il deposito locale per estrarre il materiale da costruzione e creare allo stesso tempo una difesa ulteriore.

16 A risultati analoghi aveva condotto l’interazione tra manodopera locale e saperi specializzati nel cantiere di Rocca San Silvestro (BIANCHI 1997, p. 438).

97

funzione di una simile vocazione artigianale si potrebbe anche spiegare il ricorso ad una tecnica costruttiva abbastanza irregolare, forse attribuibile all’operato di coloro che occuparono gli ambienti, bravi muratori ma certamente non professionisti. Per quanto riguarda l’inquadramento cronologico e una possibile ipotesi di committenza in relazione al progetto di edificazione dei numerosi edifici esterni al castello a ridosso della cinta muraria, soprattutto in assenza di dati di scavo, ci siamo basati su considerazioni indirette. Stando infatti a quanto affermano i documenti in relazione alle fasi di vita più tarde dell’insediamento, quando ormai il potere signorile dei Pannocchieschi era definitivamente tramontato, Siena entrò in possesso dell’insediamento solo per pochi anni, orientativamente tra il 1263 ed il 1267, un lasso temporale troppo breve rapportato ad un investimento economico molto ingente per poter pensare di attribuire l’edificazione della schiera di case alla città senese. È dunque sembrato più plausibile, supportati anche dalle principale caratteristiche delle tecniche costruttive e delle tipologie edilizie, che ben si adatterebbero ad una caratterizzazione funzionale di tipo residenziale, identificare la committenza dell’ambizioso progetto di edificazione di un borgo nuovo al comune di Massa, nell’ambito dello stesso disegno di ripopolamento del sito operato agli inizi del XIV secolo. Già dalla seconda metà dello stesso secolo lo stato di abbandono in cui versa l’area sommitale e le sporadiche attività costruttive, basate ormai sul riutilizzo di materiali recuperati dai crolli, attestano un cambiamento radicale, la fine di un progetto comunale che aveva, qualche decennio prima, eclissato il ricordo di un potere signorile edificando un borgo che con i suoi 3200 metri quadrati di superficie si era rivelato decisamente più ampio del circuito murario stesso.

che adotta una planimetria generalmente di forma quadrata di circa 40 mq e uno sviluppo volumetrico ad un piano per le case situate sul bordo della dolina e a due piani per le case addossate al muro di cinta. L’insieme delle abitazioni individuate occupa una superficie totale, misurata per difetto e comprensiva degli spazi di viabilità, di circa 2000 mq. Gli altri due poli insediativi, entrambi oggetto di scavo e per i quali usufruiamo dunque di una griglia cronologica di riferimento molto precisa, furono edificati entro la prima metà del XIV secolo. Il primo è localizzato a nordovest rispetto alle mura del castello, tra la doline B e C, ed è composto da almeno 5 ambienti accomunati da una planimetria di forma rettangolare e dimensioni comprese tra i 30 ed i 70 mq, dalla presenza di ampie aperture e da apparecchiature murarie abbastanza irregolari con una lavorazione molto sommaria (Tecniche 10 e 11). Il “quartiere” occupa un areale di circa 650 mq e gli ambienti sono posizionati su terrazzamenti digradanti, e le strutture edificate alla quota più bassa si addossano direttamente alla parete rocciosa regolarizzata. Il secondo quartiere è situato nella zona a sud del castello, tra le doline A e B, ed è composto da almeno 4 ambienti posizionati, come nell’altro caso, su due file parallele a quote diverse, una delle quali a ridosso della parete di roccia naturale. Anche questo gruppo di edifici copre un areale di circa 650 mq e sia le tipologie edilizie sia le tecniche costruttive abbastanza irregolari (Tecnica 9) accomunano ulteriormente i due quartieri. Inoltre le caratteristiche delle stratigrafie orizzontali indagate avevano in entrambi i casi permesso di ipotizzare una destinazione d’uso di tipo artigianale, connessa alla presenza di grandi quantitativi di scorie metalliche negli spazi esterni agli ambienti, confermata dalla presenza di aperture di grandi dimensioni, funzionali al passaggio di carichi ingombranti e di animali per il trasporto. In

98

Fig.1: tavola riassuntiva delle tecniche costruttive del X-XI secolo

99

Fig. 2: tavola riassuntiva delle tecniche costruttive del XII secolo

100

Fig. 3: tavola riassuntiva delle tecniche costruttive del XIV secolo

101

Fig. 4: tavola riassuntiva delle tecniche costruttive del XIV secolo

102

sequenza insediativa che lo scavo ha evidenziato. A Rocchette assistiamo, attraverso la ricostruzione archeologica, allo sviluppo di un villaggio altomedievale e solo successivamente alla sua trasformazione in una sede fortificata, possesso della famiglia signorile dei Pannocchieschi. Dunque, la questione principale che si è posta di fronte ad una cronologia insediativa così ampia è stata quella relativa all’economia del sito ed al ruolo effettivamente svolto dalla lavorazione del metallo monetabile proprio nelle fasi di nascita dell’insediamento. A questo riguardo, accanto agli indicatori forniti dallo scavo, come la presenza di scorie di piombo e di argento e/o di impianti produttivi, lo studio della ceramica ha potuto evidenziare alcune caratteristiche del villaggio di Rocchette, aiutandoci nel tentativo di illustrare la tipologia dell’insediamento ed i suoi contatti commerciali, come illustreremo nel paragrafo successivo. La trattazione delle ceramiche è stata effettuata all’interno delle scansioni cronologiche ipotizzate con lo studio della sequenza stratigrafica, con una discussione sulle singole classi ceramiche presenti e sulle implicazioni che le stesse ci forniscono riguardo ai caratteri della produzione e del consumo nel sito.

3. I materiali provenienti dallo scavo 3.1 La ceramica Francesca Grassi Le 10 campagne di scavo effettuate a Rocchette hanno permesso di raccogliere 23405 frammenti ceramici che coprono un arco cronologico compreso tra VIII e XIV secolo (Figg. 1 e 2). Come per le altre classi di reperti, il progredire della ricerca nelle Colline Metallifere, attraverso vari lavori di tesi universitarie e di dottorati di ricerca in Archeologia Medievale svolti presso l’Università di Siena, ci permette di interpretare le evidenze ceramiche del sito di Rocchette nel complesso dell’economia e della cultura materiale del sistema territoriale. Inoltre, dato che i materiali ceramici provenienti da Rocchette sono già pubblicati in varie sedi (in ultimo GRASSI 2010a, pp. 136-139), qui tenteremo di effettuare una nuova sintesi, ponendo particolare attenzione all’analisi delle produzioni nella loro globalità, basandosi anche sull’apporto che le datazioni radiocarboniche hanno fornito all’affinamento delle cronologie. VIII-X Numero di frr/Numero di individui

3750 /310

XI 1277/ 87

XII/XIII

XIV

Totale

5800/345 12578 /420

23405/ 1162

1. Periodo I (VIII-inizio XI secolo) Il contesto più cospicuo relativo al villaggio altomedievale proviene da pochi strati in giacitura primaria relativi al villaggio di VIII-IX secolo (attività 135, 160, 170, 108, 111, 121) e dal livellamento effettuato nel corso del X secolo per l’impianto della nuova area artigianale, all’interno della zona sommitale (attività 113) (BOLDRINI, GRASSI 2003). I resti ceramici pertinenti all’arco cronologico VIII-X secolo sono nella totalità 3750 frammenti, corrispondenti a 310 forme, divisi in ceramica depurata (AD), ceramica grezza (AG), ceramica dipinta a colature rosse (BR) e ceramica con invetriatura sparsa (VS) (Fig. 3). Premessa la difficoltà di distinguere le produzioni di VIII da quelle di IX-X secolo, date le modalità di ritrovamento in giacitura secondaria, abbiamo constatato che molti tipi ceramici sembrano rimanere in uso per tutto l’altomedioevo, con l’unica distinzione di una graduale semplificazione dei registri decorativi e delle rifiniture esterne.

Fig. 1: numero di frammenti/numero di individui ceramici divisi in fasce cronologiche acroma grezza acroma depurata colature rosse vetrina sparsa invetriata da fuoco maiolica arcaica invetriata fine graffita arcaica

VIII-X 1230 2508 5 7 -

XI 479 798 -

XII-XIII 2099 3667 34 -

XIV 3915 5740 49 2735 121 18

Totale 7723 12713 5 7 83 2735 121 18

Fig. 2: I frammenti ceramici trovati a Rocchette divisi per classe e per fasce cronologiche L’analisi della ceramica di Rocchette Pannocchieschi riveste, a nostro parere, un’importanza fondamentale per lo studio della cultura materiale di un villaggio dedito alle attività minerarie. Difatti, dopo lo studio della ceramica del castello di Rocca San Silvestro (FRANCOVICH 1991; BOLDRINI, GRASSI 1997; GRASSI 1998a-b, BOLDRINI, GRASSI, MOLINARI 1997) non si è più tentata la sintesi di tutto il corredo ceramico, correlandolo alla vita quotidiana all’interno di un villaggio specializzato nel settore metallurgico. Se questa riflessione è valida per i secoli bassomedievali (XI-XIV), lo è ancora di più per quelli altomedievali per i quali i dati di Rocchette sono al momento unici. Infatti, a differenza di Rocca San Silvestro, Rocchette ci ha aperto uno spaccato storico molto ampio, in virtù della lunga

BR 0%

VS 0% AG 37%

AD 63%

Fig. 3: VIII-X secolo. Rapporto percentuale tra classi calcolato sul numero di frammenti

103

filatura della lana collegato a questo manufatto sembra tipico dei soli secoli altomedievali, dato che nelle fasi successive diminuiscono drasticamente: nel caso di Rocchette sembra dunque un indicatore non utilizzabile o forse potrebbe farci ipotizzare un’economia già orientata, dall’altomedioevo, solo alle risorse del sottosuolo. Infine, brocche ed anfore per gli usi della dispensa e della conservazione (nn. 11-12) sembrano mettere in luce un possibile collegamento del nostro sito con alcuni insediamenti situati sulla costa. Infatti, la presenza di frammenti pertinenti ad anfore, sia nel IX che nel X secolo (si veda infra) sarebbe al momento rara tra i siti della Toscana meridionale, con l’eccezione della curtis di Scarlino, di Grosseto, di Montemassi e del sito di Poggio Serratone (per Scarlino, MARASCO 2003-2003; per Grosseto VALDAMBRINI 2006; per Montemassi GRASSI 2010a, pp. 117-119; per Poggio Serratone CAMPANA, FRANCOVICH, VACCARO 2005). I recenti studi sul sito di Scarlino, ne hanno accertato una produzione locale ubicata nell’entroterra di Gavorrano, almeno dall’VIII secolo (MARASCO 2002-2003, pp. 235-239): dunque, data la similarità di impasti e forme tra le anfore recuperate a Rocchette e quelle di Scarlino, abbiamo ipotizzato che l’area di provenienza fosse la medesima e forse tali relazioni economiche potrebbero essere state incentivate dalla commercializzazione di metalli monetabili. Certamente, date le restituzioni ceramiche del sito, questa forma da dispensa risulta al momento una delle poche di origine non strettamente locale e dunque assume una valenza economica molto ampia.

VIII- IX secolo Nei reperti distinti per i secoli VIII ed in parte per l’inizio del IX (Fig. 4, nn.1-6) si è denotato una compresenza di tre elementi caratterizzanti: forme di tradizione altomedievale, svariati elementi decorativi e tecnologici e infine l’uso di impasti molto grossolani per la realizzazione di contenitori da dispensa (i cosiddetti impasti “semidepurati”). Infatti, riguardo agli impasti, abbiamo registrato forme da dispensa associate ad argille utilizzate anche per la ceramica da fuoco, mentre, nei secoli successivi, verranno fabbricate con argille sempre più depurate. Inoltre, le forme con decori in rilievo (nn. 4-5) ed elementi tecnologici marcati (n. 2), come le steccature anche interne delle superfici, mostrano una capacità produttiva ed una volontà decorativa che scomparirà nei manufatti di X secolo. Ad esempio, un bollo a rosetta impresso sul culmine dell’ansa di una brocca (n. 1) sembra indicare, in quanto marchio di fabbrica o di garanzia, un tipo di modalità produttiva legata a forme di organizzazione già codificate (VANNINI 1987, p. 423; FRANCOVICH, VANNINI 1989), facenti capo ad officine strutturate in modo complesso ed in grado di produrre vasellame di alta qualità. Inoltre, la brocchetta n. 2, presenta decorazioni molto complesse sulle superfici, steccate in fase di produzione e rimanda nuovamente, per i caratteri, ad una bottega nella quale si produceva ceramica con decori particolari e complessi, trovandosi all’interno della funzionalità della cucina e della dispensa. Per quanto riguarda le forme, sono da evidenziare tre fattori. Innanzitutto la presenza di un grande catino-coperchio (n. 3), sicuramente utilizzato come piccolo forno a riverbero per cuocere o riscaldare il cibo, che mostra la cultura domestica dei primi abitanti del villaggio di Poggio Trifonti: infatti, il catino-coperchio potrebbe essere indizio della mancanza di focolari stabili per la cottura del cibo così come dell’esigenza di tostare, in luoghi esterni alle abitazioni, granaglie e semi conservati nelle strutture seminterrate che sono state ritrovate durante lo scavo archeologico. Un uso simile è ipotizzato anche per la curtis altomedievale di Montarrenti (CANTINI 2003) e mette in luce nel nostro villaggio un modello di vita di stampo rurale che sembra essere diffuso in tutte le Colline Metallifere, sia nei siti con vocazione mineraria perchè prossimi ai giacimenti sia in quelli più lontani dalle risorse e particolarmente attenti allo stoccaggio delle derrate cerealicole (BIANCHI, GRASSI 2013). Secondariamente, la minima presenza di fuseruole (soltanto 6), almeno nei livelli legati al villaggio di VIIIIX secolo, differenzia Rocchette da altri villaggi altomedievali, come Montemassi, Donoratico o Campiglia Marittima1, nei quali le quantità erano assai maggiori. Infatti, la fuseruola in ceramica in questi siti è interpretabile come il segnale di un’economia dedita in particolare modo alle attività silvopastorali ed il lavoro di

X - inizio XI secolo Il panorama di forme ascrivibile al X secolo si presenta molto più articolato e ben delineabile (Fig. 4, nn. 7-21). Anche in questo caso non descriveremo le forme, già ampiamente discusse in BOLDRINI, GRASSI 2003. Come detto già nel paragrafo precedente riguardo alle anfore, il villaggio di Rocchette, almeno sino al X secolo, ebbe la possibilità di accedere ad una linea di distribuzione di vasellame collegata ad un circuito di curtes sulla costa e contemporaneamente ebbe collegamenti e relazioni con siti produttivi ubicati nelle vicinanze del villaggio, forse nello stesso entroterra massetano-volterrano, per l’approvvigionamento di tutte le altre forme ceramiche. Inoltre, sarebbero stati attivi in questa fase così precoce i collegamenti con la città di Pisa o l’area del Valdarno, da cui potrebbero arrivare le brocche dipinte con colature di ingobbio rosso. Di fronte a questa vivacità commerciale, è lecito chiedersi se la vocazione “mineraria” di Rocchette non abbia favorito il rapido sviluppo del sito sin dall’altomedioevo ed il suo conseguente inserimento nei commerci regionali. Nel dettaglio, per quanto riguarda la cucina, non descritta nei secoli precedenti, è probabile che una parte delle olle attribuite al X secolo fosse già in uso antecedentemente (nn. 15-18): si tratta di prodotti torniti per la maggiore parte, anche se si riscontrano alcuni tipi modellati a mano, come evidenziato dai nn. 18-20.

1 A Montemassi nel villaggio altomedievale sono presenti 23 fuseruole, a Campiglia Marittima 9 fuseruole, a Donoratico 16, ma quest’ultimo dato è parziale visto che lo studio del materiale ceramico è ancora in corso (GRASSI 2010a, pp. 24-25).

104

Fig. 4: tipi ceramici di VIII-X secolo provenienti dal villaggio di Rocchette (da BOLDRINI, GRASSI 2003) Le forme modellate a mano rappresentano circa il 30% delle olle da cucina tra VIII e X secolo mentre il restante 70% è costituito da forme prodotte a tornio veloce. Sono inoltre presenti grandi brocche (nn. 13-14), realizzate con impasti grossolani e con evidenti tracce di fumigazioni sulle superfici esterne, indizio di un utilizzo sul fuoco. Si può ipotizzare che siano inoltre ancora presenti in cucina coperchi di vario tipo.

Infine, si è notato che i fondi delle olle potevano essere sia piani sia arrotondati (nn. 19-20), ad indicare l’uso di almeno due diverse modalità di cottura e forse di focolari, differenti, strutturati con un piano rigido su cui appoggiare il manufatto oppure predisposti per immergere il manufatto stesso nella brace.

105

primo impianto ipotizzato produceva manufatti depurati, il secondo manufatti semidepurati ed il terzo ugualmente, ma con l’uso di decori complessi e di rivestimenti vetrosi (vetrina sparsa). A questi si aggiungono gli sporadici arrivi di ceramica con colature rosse forse dall’area del Valdarno, considerati come testimonianza di un quarto atelier (Fig. 5).

Nella dispensa, le novità rispetto al secolo precedente consistono in classi ceramiche con rivestimenti vetrosi (vetrina sparsa) o argillosi (colature di ingobbio rosso). La ceramica a vetrina sparsa (n. 7) appartiene alla produzione conosciuta per Campiglia Marittima e Donoratico, localizzata nell’areale delle Colline Metallifere, come hanno mostrato le analisi effettuate per Campiglia Marittima. Si tratterebbe di botteghe posizionate tra la costa e l’entroterra, che producevano manufatti invetriati per un tipo di commercio ad estensione subregionale (GRASSI 2010a, pp.19-20). La ceramica a colature rosse (n. 8) invece, data l’estrema depuratezza, non ha permesso precise localizzazioni geografiche, ma nella forma sembrerebbe richiamare fortemente le produzioni sia della città di Pisa, sia di contesti extra-regionali come Roma e Napoli (BOLDRINI, GRASSI 2003). Recenti studi sulla Toscana, effettuati confrontando l’area settentrionale con quella meridionale della Regione, avrebbero portato ad evidenziare lungo il fiume Arno una vasta produzione e diffusione di questi manufatti e quindi a considerare i prodotti con ingobbio rosso presenti nelle Colline Metallifere come importati direttamente dal Valdarno (CANTINI, GRASSI 2012, p. 132). Come per Campiglia Marittima, anche a Rocchette queste due classi presentano un repertorio formale collegato prevalentemente alla dispensa o, forse, alla mensa. La monopresenza della brocca, in alcune varianti dimensionali, ci porta ad ipotizzare che la nicchia funzionale occupata dai prodotti con vetrina o ingobbio fosse quella associabile alle coeve brocche globulari prive di qualsiasi rivestimento. Nel complesso si è notata, ad eccezione del caso delle colature rosse, la marcata assenza di rifiniture tecnologiche complesse. Le produzioni da dispensa si connotano infatti per una crescente omologazione delle forme (pareti molto sottili, impasti con un grado di depuratezza maggiore, elementi decorativi semplificati, come le filettature). Gli unici trattamenti che interessano le superfici sono degli sbiancamenti ottenuti in cottura, visibili sulle pareti esterne dei vasi. Tra le forme, anche nel caso dei prodotti depurati privi di rivestimento, sembra prevalere il tipo della brocca, mentre risultano assenti forme aperte. Ancora nel X secolo si è notato inoltre la presenza di contenitori da trasporto, non solo locali, come descritto nella fase 1, ma anche di produzione extraregionale. Infatti sono stati recuperati in questi contesti ceramici alcuni frammenti di un’anfora al momento in corso di analisi, ma per la quale non sembrerebbe ipotizzabile una fabbricazione regionale. Frammenti simili sono stati recuperati ancora una volta nel castello di Scarlino. La presenza di queste forme di importazione in un centro costiero potrebbe essere essenziale per permetterne l’arrivo nell’entroterra, attraverso vie di circolazione del metallo monetabile. Passando agli impasti, la loro analisi nelle ceramiche da dispensa, al momento solo macroscopica, ha fornito alcuni dati interessanti sulle produzioni; infatti, le 8 miscele argillose distinte sono state raggruppate, in base ai componenti, in quattro gruppi, associati in via ipotetica ad altrettanti poli produttivi, con caratteri peculiari. Il

3 ad+vs, semidep. con a. grigia 25%

1 ad, Depurato 46%

2 ad, semidep. 29%

Fig. 5: le botteghe e gli impasti utilizzati per le ceramiche da dispensa tra VIII e X secolo (valore espresso in numero di frammenti) L’analisi degli impasti utilizzati per la ceramica grezza (Fig. 6) ha permesso la distinzione di 8 miscele argillose, raggruppabili in tre gruppi principali, sempre in base ai componenti. Questi tre gruppi sono stati considerati come tre impianti produttivi distinti che rifornivano di vasellame il castello in percentuali pressoché simili. Per la bottega 1ag abbiamo operato anche una distinzione tra le forme prodotte, così da evidenziare che la sua produzione era orientata prevalentemente ai testelli.

1 ag, testi 24%

3 ag 38%

1 ag, olle 9% 2 ag 29%

Fig. 6: le botteghe e gli impasti utilizzati per le ceramiche da cucina tra VIII e X secolo (valore espresso in numero di frammenti) Nel complesso, vi sarebbe un solo atelier rappresentativo della produzione altomedievale: la bottega 3ag. Infatti gli impasti e le forme che la caratterizzano sono tipici delle fasi di vita del villaggio e l’afflusso di questi prodotti cesserà con la formazione del castello, dall’XI secolo. Vi si produssero oggetti sia torniti sia fatti a mano, con un’alta variabilità delle forme, molte delle quali ad uso promiscuo. Dove si trovasse questa bottega non è al momento ben chiaro, ma le caratteristiche degli impasti,

106

Iniziando l’analisi dalla ceramica grezza (Fig. 8), abbiamo notato che nell’XI secolo rimase la sola produzione tornita, ad eccezione dei testelli. Per quanto riguarda la varietà dei tipi morfologici, in questa fase entrarono in uso alcuni tipi che ebbero lunga durata, per tutto il bassomedioevo (nn. 5-9), pur rimanendo ancora presenti molte delle forme già descritte, ad esempio le olle con insellatura, funzionale all’alloggio del coperchio (nn. 1-4). Gli unici trattamenti documentati per le superfici delle olle sono relativi a filettature delle pareti esterne. Accanto alle olle, abbiamo ricomposto alcune forme ansate che, per la morfologia, sembrerebbero da identificare non tanto in pentole, quanto in boccali o piccole brocche ad uso promiscuo (n. 10). Completano il corredo vari testelli di ogni dimensione e forma, tra cui anche alcuni testi-tegami ed almeno una forma simile ad una ciotola (nn. 11-15). Con la scomparsa di olle fabbricate a mano cessò l’arrivo di prodotti dalla bottega 3ag: olle e testelli giungevano al castello solo da due tra le botteghe che nel periodo precedente già erano presenti e si è notato un netto accrescimento della loro produzione, con l’aggiunta di forme nuove (la bottega 1ag produsse nell’XI secolo anche olle) e di miscele argillose più ricche (nella bottega 2ag si consolidò l’uso di due diversi impasti e non più di uno solo). Unendo i dati tipologici con quelli relativi agli impasti, abbiamo osservato una contrazione numerica delle botteghe che rifornivano il castello. Inoltre, tale cambiamento negli ateliers sembrerebbe corrispondere anche ad un accentramento degli stessi nei pressi del castello, con la sopravvivenza di tutti quegli impianti produttivi ipotizzati nelle vicinanze di Rocchette (Fig. 9). L’analisi dei tipi della ceramica depurata di questo secolo ha mostrato cambiamenti netti e marcati rispetto alle forme presenti tra IX e X secolo (vedi Fig. 8). Circa il 60% della ceramica è adesso fabbricata con impasti depurati, con assenza di dettagli tecnologici marcati e rare decorazioni, quali sinusoidi o filettature (nn. 18-19). A livello formale si afferma in questa fase il tipo morfologico relativo alla brocca con ansa complanare, antecedente delle forme tipiche del Duecento. Accanto a queste forme di nuova “concezione” si ritrovano ancora brocche e boccali che presentano corpi molto globulari, anse sormontanti e collo strozzato e che rientrano nella tradizione delle produzioni da dispensa del secolo precedente, pur essendo già prodotte con impasti molto depurati (nn. 16-17). Dunque, lo studio delle forme da dispensa ha messo in evidenza un panorama decisamente rinnovato, con la presenza di alcune forme antesignane dei corredi duecenteschi; tuttavia, accanto a queste, si trovavano ancora prodotti con impasti semidepurati e con caratteristiche “antiche”. Questo dato è emerso molto chiaramente anche dall’analisi degli impasti depurati in uso nell’XI secolo (Fig. 10). Infatti, pur ritrovando impasti identificati nel periodo precedente, in percentuali simili, si è notato l’aggiunta di un quarto impasto depurato, identificabile forse con un nuovo atelier (definito bottega 4 ad, e caratterizzato dall’impasto depurato chiamato RO 12).

con frammenti vetrosi e vulcanici, e le tecnologie in uso la avvicinano alla produzione delle fornaci identificate a Roccastrada e Roccatederighi dal VII secolo e riconosciute nelle ceramiche presenti nel villaggio di capanne di Montemassi e nella curtis di Scarlino (BASILE, GRASSI, RICCARDI, BASSO 2011; MARASCO 2002-2003). Dunque potrebbe trattarsi, per la bottega che rifornisce Rocchette, non tanto dello stesso polo di Roccastrada, quanto di un gruppo di officine nucleate organizzate in maniera simile (GRASSI 2010a, pp. 21-24) 2. Periodo II (XI secolo) Per descrivere la ceramica della fase relativa alla nascita del castello in muratura, abbiamo utilizzato depositi provenienti dall’area sommitale e dal borgo. I primi sono relativi ad ampliamenti e costruzioni (attività 119 e 125), i secondi invece comprendono alcuni livelli precedenti alle prime case indagate, rapportabili forse al cantiere per la costruzione della cinta muraria (attività 37) e i livelli della vita delle case stesse che ci hanno permesso di quantificare un corredo domestico relativo ad un’abitazione del borgo (attività 35, 36, 37, 40). Il totale delle restituzioni (sommando i depositi del borgo e della parte signorile) è costituito da 1277 frammenti tra cui si sono riconosciute 87 forme, composte da una maggiore quantità di ceramica da dispensa con impasti depurati (70%) (Fig. 7); ciononostante i tipi morfologici che siamo riusciti ad inquadrare sono maggiori per la ceramica da cucina. Ciò è dipeso dal fatto che la dispensa di queste case era composta prevalentemente da grandi brocche, difficilmente ricomponibili dato l’alto grado di frammentarietà. Sempre per la dispensa, un altro dato da sottolineare è la scomparsa delle ceramiche con rivestimenti (vetrina o ingobbio): questa assenza marcherebbe ancora di più il loro carattere di produzioni non locali, dato che in altri siti ubicati sulla costa, come Campiglia Marittima e Donoratico, proprio l’XI secolo sembra esserne il momento di maggiore attestazione (BOLDRINI et alii 2004; GRASSI, LIGUORI 2004).

AG 30%

AD 70%

Fig. 7: XI secolo. Rapporto percentuale tra classi calcolato sul numero di frammenti

107

Fig. 8: tipi ceramici di XI secolo provenienti dal castello di Rocchette (da GRASSI 2010a) Il quadro delle produzioni appare dunque molto frammentato, tanto da ipotizzare una produzione ed uno smercio contemporaneo di vasellame di tipo “nuovo” e di tipo “vecchio”. La ripartizione delle 4 botteghe individuate in modo così netto e preciso

(ognuna occupa circa 1/4 della produzione che arrivava al castello) ci ha permesso di ipotizzare un momento di riassetto delle produzioni ceramiche in concomitanza con il passaggio al castello medievale.

108

3. Periodo III (XII-XIII secolo) Per illustrare i secoli XII e XIII abbiamo preso in considerazione alcuni contesti provenienti da livellamenti dell’area sommitale e dagli abbandoni delle case del borgo (attività 3, 163, 38, 39, 41). Di fatto, le produzioni che abbiamo usato rientrano molto più facilmente nel XII piuttosto che nel XIII secolo, a causa della generale mancanza di depositi che si è registrata a Rocchette per tutto il secolo XIII. Le uniche produzioni rivestite, in questa fase, furono le invetriate da fuoco, la cui presenza sarebbe stata assai precoce nel castello; sembra infatti che già dal XII secolo i contesti delle abitazioni risultassero interessati dalla presenza di tegami invetriati da fuoco ed in particolare di una produzione specifica, contraddistinta da una spessa vetrina nera. La sistematicità delle restituzioni di ceramica invetriata in tutti i contesti esaminati nel castello relativi al XII secolo ci ha spinti a retrodatare questa produzione, attribuita in precedenza solo al pieno Trecento (GRASSI 1999; GRASSI 2010a, pp. 30-31). Non sono ancora presenti, al contrario, corredi specifici da mensa (non è attestata maiolica arcaica e invetriata fine delle prime fasi produttive); questo fattore ha confermato la datazione dei depositi non oltre la prima metà del XIII secolo. Tra i 5800 frammenti totali appartenenti a questo periodo, per un computo di 345 forme, la ceramica da fuoco (grezza e invetriata) occupa una percentuale bassa (16% e 1%), a differenza delle ceramiche depurate (83%). Questo dato si è presentato come una costante sin dalle prime fasi di vita del castello. Tentandone un’interpretazione, potrebbe essere relazionato alla grande necessità di contenitori in depurata per la dispensa, data l’ubicazione isolata del castello, lontano dalle direttrici viarie principali (Fig. 12).

1 ag, testi 28%

2 ag 31%

1 ag, 41%

Fig. 9: le botteghe che rifornivano Rocchette di ceramica grezza nell’XI secolo

4 ad 22%

3 ad 29%

1 ad 36%

2 ad 13%

Fig. 10: le botteghe che rifornivano Rocchette di ceramica depurata nell’XI secolo Storicizzando questo dato collegato alla produzione, si può pensare che la formazione del castello abbia provocato dei fenomeni di riorganizzazione del territorio circostante e delle attività produttive; la stessa presenza dei Pannocchieschi, legati a Volterra, potrebbe di fatto aver favorito l’afflusso dalla cittadina di prodotti urbani o di manodopera disposta a spostarsi in officine situate nell’entroterra che avrebbe prodotto ceramica secondo le modalità in uso nei centri urbani. Infine, per concludere l’analisi della ceramica presente nell’XI secolo a Rocchette, possiamo esporre alcuni dati sul consumo. Il corredo ricostruito per una casa del borgo nell’XI secolo (area 3000, ambiente 35) è da un lato composto da alcuni oggetti essenziali e dall’altro caratterizzato dall’adattamento a molteplici funzioni di pochi contenitori. Risulta totalmente assente il corredo da mensa e ciò porta all’ipotesi legata al consumo del cibo nei contenitori per la cottura, come olle e testi, ed al contemporaneo uso di taglieri in legno anche per consumare il pasto (Fig. 11).

Dispensa

Cucina

INV. 1%

AG 16%

AD 83%

Fig. 12: XII-XIII secolo. Rapporto percentuale tra classi calcolato sul numero di frammenti Nello specifico, per la ceramica grezza (Fig. 13), sono scomparse definitivamente olle prodotte a mano ed il corredo domestico è formato da olle tornite e testi o testi/tegami. Rari anche i coperchi, ma questo dato, che sembra ripetersi in molti altri siti rurali, deve essere spiegato con la semplicità dell’utilizzo dei materiali più svariati, anche di riutilizzo (pietra, legno, mattone), per coprire il vasellame. Le rare decorazioni sono costituite solo da filettature.

Casa del borgo (area 3000) 4 brocche AD 1 orciolo AD 5 olle AG 3 testi AG 1 testo/tegame AG

Fig. 11: il corredo domestico relativo all’XI secolo in una casa del borgo (acroma dep. e grezza)

109

Fig. 13: tipi ceramici di XII-XIII secolo provenienti dal castello di Rocchette (da GRASSI 2010a) Per quanto riguarda i tipi ceramici non si sono notate sostanziali diversità dal secolo precedente (nn. 1-4). La novità fondamentale della ceramica per cucinare è costituita dalla presenza di tegami e olle invetriate fatte in

monocottura (nn. 5-7). Si tratta di una produzione già analizzata in un precedente lavoro, ma sicuramente sottovalutata nelle attestazioni cronologiche (GRASSI 1999, p. 430). Oggi, potendo considerare nuovi contesti

110

I trattamenti delle superfici di tutte queste forme sembrerebbero limitati a schiarimenti, sottili filettature e rare incisioni sinusoidali. Per quanto riguarda gli impasti e quindi l’analisi delle botteghe operanti sul territorio, si è notato un netto incremento delle miscele più depurate, con la bottega 4ad che produsse circa la metà del fabbisogno di vasellame del castello. Da questa bottega provenivano anche i tipi ad imitazione dei prodotti pisani e senesi (Fig.15).

di scavo ed avendo considerevolmente allargato la visione cronologica delle produzioni a Rocchette, ne abbiamo un quadro più completo (CANTINI, GRASSI 2012, p. 134). Già dal XII secolo, probabilmente dalla seconda metà, fece la sua comparsa tra la ceramica da cucina una produzione contraddistinta da una spessa vetrina nera, uniformemente stesa nelle superfici interne, interessate dal contatto con i cibi, e soltanto colata nelle superfici esterne, solitamente filettate. Assieme all’uso innovativo della vetrina per scopi prettamente funzionali, dobbiamo anche considerare la nascita di una nuova forma, quella del tegame, prima sconosciuta nei corredi per cucinare. Per quanto riguarda gli impasti utilizzati per questa produzione con vetrina (RO3), si tratta di un’unica miscela argillosa non usata precedentemente e che si associa a prodotti invetriati e a prodotti acromi da fuoco (indicato di seguito come bottega 4 ag+inv). Questa bottega, in base alle analisi archeometriche, risulterebbe ubicata nell’area costiera del campigliese, come mostra la presenza di minerali specifici di questa zona miscelati negli impasti e nelle vetrine (FORTINA, MEMMI TURBANTI, GRASSI 2007) (Fig. 14).

1 ad 31%

4 ad 56%

2 ad 13%

Fig. 15: le botteghe che rifornivano Rocchette di ceramica depurata nel XII secolo 4 ag+inv 34%

Per quanto riguarda il consumo registrato nelle abitazioni, abbiamo quantificato l’abbandono della stessa casa da cui provenivano i primi livelli di vita nel secolo XI. La situazione del corredo domestico non sembra molto cambiata per quanto riguarda le forme presenti, ad eccezione delle ceramiche invetriate da fuoco, che si assommarono al vasellame grezzo negli usi della cucina, e dell’uso specifico di alcuni oggetti depurati per la dispensa, come i catini ed i boccali. Sarebbero invece molto più elevate le quantità degli oggetti presenti, ma questo dato può essere relazionato al fatto che abbiamo fornito con questi dati “numerici” la fotografia di tutto ciò che si è trovato nello strato di abbandono e dunque di un momento prolungato nel tempo rispetto ai primi livelli di vita dell’XI secolo (Fig. 16).

1 ag 48%

2 ag 18%

Fig. 14: le botteghe che rifornivano Rocchette di ceramica da fuoco nel XII secolo Dunque, con la comparsa della ceramica da fuoco invetriata, si segnala un nuovo impianto produttivo sul territorio costiero che fabbrica sia prodotti acromi sia con invetriatura (Bottega 4 ag+inv). Le altre botteghe rimasero costanti nelle attestazioni: la bottega 1ag fu decisamente quella che rifornì il castello di una maggiore varietà di manufatti, mentre la bottega 2ag passò ad una produzione caratterizzata da una sola miscela argillosa, sempre con molta calcite aggiunta nell’impasto. I caratteri della ceramica depurata del XII secolo sono riassumibili nella presenza di impasti molto raffinati e nell’uso di forme e trattamenti che la ricollegano alle produzioni presenti in città (vedi Fig. 13). Tra le brocche, compaiono quelle con ansa complanare al bordo e bolli sulle anse, di tipo pisano o senese, associate a vistosi schiarimenti delle superfici (nn. 8-9). Tra i boccali vi sono, come nell’XI secolo, tipi formali con corpo globulare (nn. 10-11) assieme a tipi di forma più allungata e con solcatura all’altezza della spalla, di immediato richiamo ai boccali depurati prodotti a Siena, ma anche a Pisa (nn. 12-13). Infine, la ceramica depurata si arricchisce di alcune forme tipiche del XII secolo: catini con tesa e orcioli (nn. 14-15).

Dispensa

Casa del borgo (area 3000) 6 brocche AD

Cucina

20 olle AG 6 testi AG 5 tegami INV 1 olla INV

Mensa

3 catini AD 3 boccali AD

Fig. 16: il corredo domestico relativo al XII secolo di una casa del borgo

111

4. Periodo IV (XIV secolo) La ceramica relativa al XIV secolo proveniente da Rocchette è stata studiata e sintetizzata utilizzando i resoconti preliminari dei primi anni di scavo (BIANCHI, BOLDRINI, DE LUCA 1994). Forniremo dunque dei quadri di sintesi sulle classi, estrapolati da tali pubblicazioni, effettuando un’approfondimento relativo alle sole produzioni di maiolica arcaica. Infatti, per quanto riguarda il castello bassomedievale, i dati maggiormente significativi sono relativi alle produzioni in maiolica ed in particolare alla presenza nel castello di produzioni identificate come volterrane e massetane. Le maioliche volterrane nel Trecento rappresentano a Rocchette la metà delle restituzioni da mensa, testimoniando il flusso produttivo e commerciale della cittadina ed il collegamento diretto esistente tra le aristocrazie volterrane e il castello. Sono invece del tutto assenti i contatti con l’area produttiva pisana e con i prodotti che circolavano tra altri castelli collegati alla città marinara: non si sono trovate importazioni mediterranee, ad eccezione di alcuni rari frammenti di graffita arcaica ligure, il cui arrivo potrebbe essere stato mediato dal porto di Piombino, avvalendosi di vie di terra ripristinate nel corso del Trecento. L’ubicazione di Rocchette nell’entroterra fu sicuramente un fattore decisivo anche per l’assenza di maioliche spagnole, solitamente associate in questo secolo agli arrivi dalla Liguria. Inoltre, nel XIV secolo, l’economia del castello sarebbe stata gestita direttamente dalla città di Massa Marittima e finalizzata principalmente alla ripresa del lavoro sui metalli monetabili, nel tentativo di rivitalizzare l’intero sito e di renderlo competitivo con il limitrofo sito di Cugnano, gestito dal comune di Siena (BRUTTINI, FICHERA, GRASSI 2010). Affrontando l’ambito quantitativo della restituzione, il Trecento risulta a Rocchette il secolo con maggiori quantità di ceramica, data la grande presenza di vasellame anche in tutti i contesti di abbandono del castello (12578 frammenti per un totale di 420 forme riconosciute). Tuttavia, volendo collegare la nostra esposizione a contesti di vissuto, utilizzeremo i depositi del borgo, relativi ad un’abitazione costruita alla metà del XIV secolo (attività 50, 51, 52). Il totale dei frammenti relativi a questo contesto è 3582 (Fig. 17), il rapporto tra classi ha segnalato la prevalenza netta della ceramica per la dispensa (63% di acroma depurata, anche se da questa percentuale occorre togliere il 6,2% costituito da catini, in uso in cucina o sulla mensa, ma non per conservare il cibo), mentre la ceramica per cucinare e per la mensa si equivalgono nelle proporzioni. Per la maiolica arcaica e per la ceramica grezza è poi importante notare che circa l’80% del totale delle restituzioni è pertinente a forma chiuse, rispettivamente boccali e olle. Occorre però sottolineare che a Rocchette la scarsità delle forme aperte, per la ceramica grezza (la quantità di testi ritrovati non supera il 2%), è una caratteristica riscontrata anche nel deposito di altre aree e sembrerebbe da ricondurre semmai ad una problematica culturale (modi di cucinare, preferenze alimentari).

MA 19%

INV 2%

GRAL AG 0% 16%

AD 63%

Fig. 17: XIV secolo. Rapporto percentuale tra classi in una casa del borgo (n. di frammenti) Passando all’analisi delle singole classi ceramiche, per la ceramica depurata, tra le poche forme ricostruibili circa il 40% della restituzione è pertinente a forme non identificabili, quali pareti appartenenti a catini o brocche. Vi sono inoltre boccali, con solcatura tra collo e spalla, corpo allungato o globulare a volte filettato, inseribili nel corredo trecentesco di area senese assieme ai catini con tesa, ben rappresentati nel XIV secolo a Siena. La porzione principale di ceramica depurata è costituita da brocche, in alcuni casi simili alle brocche prodotte a Pisa, con orlo squadrato, solcatura tra collo e spalla e bollo sulle anse. Dato che gli impasti risultavano molto depurati, è stato difficoltoso effettuare delle distinzioni nei diversi tipi di produzione; la bottega identificata nei secoli scorsi come 1ad non è più “visibile” e dunque possiamo ipotizzarne la scomparsa, mentre sembrerebbe ben rappresentato il lavoro della bottega 4ad e 5ad+ma, riconoscibili grazie alle caratteristiche tecniche degli impasti. La bottega 5 fu attiva a partire da questo secolo e produsse acroma depurata e maiolica arcaica; in teoria potrebbe trattarsi di un’officina cittadina, dato che le forme di maiolica arcaica sono riconducibili alle caratteristiche dei prodotti di Siena (Fig. 18). N.bottega Classe

Impasto Ubicazione

4 ad

Depurata

RO 12

Contado

5 ad+ma

m. arcaica acroma depurata m. arcaica m. arcaica monocroma m. arcaica

RO22 RO24

Siena

RO23 RO26

Volterra

RO25

Massa Marittima

1 ma 2 ma 3 ma

Fig. 18: maiolica arcaica, invetriata fine, acroma depurata presenti nel XIV secolo a Rocchette Articolata la restituzione delle olle in acroma grezza (Fig. 19), non ricostruibili nella loro interezza, ma confrontabili, sulla scorta degli orli, degli spessori delle

112

Fig. 19: tipi ceramici di XIV secolo per la cucina provenienti dal castello di Rocchette (da BIANCHI, BOLDRINI, DE LUCA 1994 e GRASSI 2010a) pareti e di alcune particolarità tecnologiche con i repertori di altri contesti di area senese (nn. 9-13). Olle, testi, coperchi in acroma grezza presentano caratteristiche tecniche di buon livello; lo olle sono eseguite a tornio veloce, con spessore delle pareti medio-sottile e nella maggior parte si tratta di varianti del tipo con bordo “ad arpione” di influenza senese nella forma (nn. 1-7).

Una considerazione tecnologica: molto rare le olle fatte a mano, di solito del tipo con bordo inclinato ed orlo tagliato (n. 14). I rari testi sono a bordo leggermente rialzato, squadrato o arrotondato (n. 8); presenti anche alcuni esemplari a parete alta e notevole spessore delle pareti, forse utilizzabili come una sorta di tegame.

113

Per quanto riguarda l’analisi delle produzioni di ceramica da cucina, rimangono attive le botteghe della fase precedente e costanti le attestazioni quantitative dei singoli ateliers, pur con una razionalizzazione della bottega 1ag (testimoniata da un calo delle miscele argillose utilizzate), dopo che lo stesso fenomeno è stato indicato alla fine del XII secolo per la bottega 2ag. Anche la bottega 4ag produsse in questo secolo poche varianti formali, in particolare tegami con vetrina nera applicata esternamente, già descritti tra i corredi di XII secolo. Per la maiolica arcaica, infine, accanto a prodotti genericamente “senesi” abbiamo ipotizzato boccali e catini di produzione massetana e volterrana, distinguibili per gli aspetti tecnologici e per le caratteristiche degli impasti. La distinzione è stata possibile procedendo per eliminazione: dato che oggi, con la tradizione di studi consolidata sulle maioliche arcaiche pisane e senesi, siamo in grado di riconoscere con facilità i prodotti in maiolica di queste due cittadine, abbiamo semplicemente lavorato escludendo che i nostri reperti potessero appartenervi, mancando dei più noti dettagli tecnologici e formali. L’invetriata, scarsa e presente solo negli strati di crollo, è composta per lo più da brocchette in vetrina verde, prodotte con l’impasto della maiolica arcaica, associabili ai corredi da mensa di ambito senese. A livello generale, la produzione senese e quella ipotizzata come volterrana sembrerebbero in percentuale equivalenti, mentre la produzione di maiolica massetana corrisponde ad una porzione minima del corredo da mensa (Fig. 20).

Massa 6% Siena 44% Volterra 50%

Fig. 20: le produzioni di maiolica arcaica presenti a Rocchette nel XIV secolo Nel dettaglio (Fig. 21), la produzione senese presenta due tipi di boccali, quello con corpo bitroncoconico e quello con piede a disco e ventre ribassato (nn. 3-4). Un terzo tipo, con corpo cilindriforme e fondo piano, attestato ad oggi solo in contesti di XIII secolo, potrebbe trovarsi qui in forma residua (n. 7). Tra le forme aperte, prevalgono i catini rispetto alle ciotole e accanto alle forme “classiche” a nastro convesso (nn. 5, 8), vi sono anche alcune varianti delle stesse, con nastro convesso marcato da uno stacco con il corpo (n.1), solitamente inserito nelle tipologie volterrane, ma associato ad un impasto di area senese. La maiolica arcaica senese è presente con due impasti distinti, uno dei quali utilizzato anche su prodotti

depurati e invetriati di verde (RO22). L’altro invece (RO24), sempre di produzione senese, si è registrato a partire dal XIV secolo con l’arrivo della maiolica arcaica e verrà utilizzato anche per la maiolica più tarda, come quella monocroma con decori molto semplificati costituiti da barrette in manganese e ramina sul bordo. Di fronte all’utilizzo di due impasti distinti per la produzione di maiolica arcaica, ci siamo chiesti se uno dei due possa rappresentare un centro intermedio di fabbricazione alle dipendenze della città piuttosto che Siena stessa, quale doveva essere ad esempio Campagnatico (FRANCOVICH 1982; GRASSI 2010a, pp. 48-54). E’ comunque certo, almeno dai dati che abbiamo raccolto, che il primo atelier (RO22) fu sicuramente un centro di produzione completo che riforniva il castello di tutto il fabbisogno di vasellame sia da mensa sia da dispensa, mentre il secondo approvvigionò il sito solo di ceramiche da mensa. La produzione volterrana comprende boccali, ben attestati anche nella cittadina, (come il tipo 533 simile a PASQUINELLI 1987, tav. 14 ed il tipo dis. 2, tavola 13) accanto a tipi non inseriti precedentemente nel repertorio volterrano, come il boccale bitroncoconico e quello, particolarissimo, con corpo ovoide e carenatura a ridosso del fondo (n. 12). Vi sono inoltre catini e ciotole, nelle tipologie conosciute per la produzione di XIV secolo e ancora frammenti di coperchietti, tipici del repertorio volterrano (nn. 9-11, 13). Come per la maiolica arcaica senese, la maiolica volterrana presenta due impasti distinti, abbastanza simili tra loro, ma solo uno dei due sembrerebbe attestato anche su forme di tipo monocromo. La presenza dei prodotti volterrani a Rocchette è molto alta e ciononostante potrebbe essere stata sottovalutata, non essendo possibile distinguere, tra il vasellame acromo, quello di provenienza dalla cittadina stessa. La vicinanza di Rocchette con il centro produttore fu molto stretta e facilitata dalla viabilità che attraversava la Valdera, importante via di comunicazione anche nel medioevo. Inoltre, occorre considerare eventuali arrivi di ceramica di tipo volterrano da centri intermedi, come potrebbe fare ipotizzare la presenza, sulla viabilità della Valdera, di Pomarance, centro produttore conosciuto ad oggi solo per i prodotti ingubbiati e graffiti, ma ancora da analizzare nella piena potenzialità produttiva (COSCARELLA, DE MARCO, PASQUINELLI 1987). Infine, la produzione identificata come massetana (n. 15) risulta minoritaria (6%). I fattori che potrebbero avere influito sulla bassa presenza di prodotti dalla cittadina, pur così prossima al castello, potrebbero essere di ordine storico. Il castello di Rocchette fu soggetto al dominio di Massa solo nel Trecento, quando la città stessa era sotto il controllo della politica senese (FARINELLI, FRANCOVICH 1999, p. 483) e dunque in una fase di omologazione con Siena anche per quanto riguarda i prodotti ceramici. Dobbiamo inoltre considerare che è ignoto il volume produttivo ed il raggio di esportazione di maiolica arcaica massetana, dato che tra i siti analizzati, l’unico che al momento abbia fornito una certa quantità di maioliche inseribili in una produzione “locale” è proprio Rocchette.

114

Fig. 21: tipi ceramici di XIV secolo per la mensa provenienti dal castello di Rocchette (rielaborata da BIANCHI, BOLDRINI, DE LUCA 1994 e GRASSI 2010a) Accanto ai rinvenimenti di Rocchette, l’attestazione di maiolica arcaica ipotizzata come massetana si ha solo dalle fonti scritte (FRANCOVICH 1982, p.103) e da alcuni frammenti provenienti dai castelli di Scarlino, Vignale e dal territorio circostante (CUCINI 1985, sito 78, 85, 87 e sintesi p. 309).

Le forme attestate nel castello sono catini con nastro convesso, di forte influenza senese nella forma. L’identificazione della produzione non è avvenuta però attraverso forme o decori, ma con i dati derivanti dall’analisi ottica dell’impasto e dall’analisi delle vetrine, molto chiare e di colore giallo. Questi stessi dati sono anche, a nostro parere, la causa della scarsa

115

lavorazione del metallo monetabile proprio nelle fasi di nascita dell’insediamento: preponderante o accessorio? A questo riguardo, accanto agli indicatori fornito dallo scavo, come la presenza di scorie di piombo e di argento e/o di impianti produttivi, lo studio della ceramica a potuto evidenziare alcune caratteristiche del villaggio di Rocchette, aiutandoci nel tentativo di illustrare la tipologia dell’insediamento ed i suoi contatti commerciali. Il villaggio di Rocchette, almeno sino al X secolo, avrebbe avuto la possibilità di accedere ad una linea di distribuzione di vasellame (vetrina sparsa, anfore, rari prodotti di importazione), collegata ad un circuito di curtes sulla costa, e contemporaneamente a reti commerciali locali, con siti produttivi ubicati nelle vicinanze del villaggio e nell’entroterra massetanovolterrano. Inoltre, sembrerebbero già aperti i collegamenti con la città di Pisa e l’area del Valdarno, da cui potrebbero arrivare le brocche dipinte con colature rosse. Di fronte a questa vivacità commerciale, è lecito chiedersi se il ruolo di villaggio “minerario” non abbia favorito il rapido sviluppo del sito sin dall’altomedioevo ed il suo conseguente inserimento nei commerci regionali. La stessa ceramica, invece, non ci ha permesso di cogliere la presenza di gerarchie interne al sito, pur nell’abbondanza di resti relativi alla vita del villaggio. Infatti, a causa delle modalità dei depositi, non siamo riusciti per l’altomedioevo a quantificare ed esemplificare un corredo tipico per le abitazioni. Per quanto riguarda il castello bassomedievale, i dati maggiormente significativi che sono emersi dalle schedature della ceramica sono relativi alle produzioni in maiolica ed in particolare alla presenza di produzioni volterrane e massetane nel castello. Le maioliche volterrane nel Trecento rappresentano la metà delle restituzioni da mensa e testimoniano il flusso produttivo e commerciale della cittadina ed il collegamento diretto esistente tra le aristocrazie volterrane e il castello. Sono invece del tutto assenti a Rocchette i contatti con l’area produttiva pisana e con i prodotti che circolavano tra i castelli collegati alla città marinara: l’ubicazione di Rocchette nell’entroterra è stata sicuramente un fattore decisivo anche per l’assenza di maioliche spagnole, solitamente associate in questo secolo agli arrivi dalla Liguria.

riconoscibilità dei prodotti massetani, simili alle caratteristiche morfologiche e tecnologiche di altri centri, come Volterra. Interessante, anche se minoritaria, la presenza di frammenti di graffita arcaica (n. 14), pur trattandosi di poca restituzione, molto frammentata, tra cui alcuni piedi ad anello ed alcune tese con decori non identificabili; è questa l’unica ceramica non regionale presente nel Trecento. Nel complesso dunque, il XIV secolo è caratterizzato, come nel limitrofo castello di Cugnano (GRASSI 2005), da una preponderanza di produzioni cittadine ed in particolare senesi e volterrane. Anche per il XIV secolo abbiamo cercato di estrapolare dai dati della ceramica alcune informazioni collegate al consumo dei diversi tipi ceramici, utilizzando i reperti provenienti dalle fasi d'uso di uno degli ambienti dell’area industriale, posta tra le doline B e C, fatta costruire dalla città di Massa Marittima. Infatti, ci è sembrato di particolare interesse capire se anche dalla ceramica emergesse una particolare funzionalità legata alla nuova area artigianale. I dati più difficilmente ricostruibili sono stati quelli relativi alle forme in acroma depurata, per l'estrema frammentarietà degli anforacei e per la mancanza di elementi distintivi tra fondi di forma aperta e chiusa. Uno sguardo alle quantità (Fig. 22) restituite dallo scavo ha mostrato che le necessità primarie affrontate dal vasellame in questi grandi ambienti, luoghi di lavoro giornalieri, furono: cucinare il cibo (41% AG) e consumarlo (43% MA e 2% INV), mentre appare minoritario il bisogno di tenere scorte di alimenti e di immagazzinare, funzione svolta sicuramente presso le case dei singoli lavoranti (14% AD). Gli strati di frequentazione di uno di questi ambienti, hanno restituito 10 forme da dispensa, per la cucina un quantitativo di olle compreso tra 22 e 27 forme, 6/8 testelli e 9/13 catini depurati, per la mensa infine 10/11 catini di maiolica arcaica e 16 boccali sempre in maiolica. Si mette in evidenza dunque la grande quantità di ceramica per cuocere il cibo e per consumarlo, come era già stato evidenziato dai dati quantitativi generali. Si potrebbe ipotizzare, comparando questo dato con il fabbisogno di vasellame ricavato per una famiglia del castello minerario di Rocca San Silvestro nel XIV secolo (GRASSI 1998a-b), che in questo ambiente dell’area artigianale lavorassero circa 20 persone ogni giorno. In sintesi, l’analisi della ceramica di Rocchette Pannocchieschi riveste un’importanza fondamentale per lo studio della cultura materiale di un villaggio dedito alle attività minerarie. Difatti, dopo lo scavo del castello di Rocca San Silvestro, quello che ha interessato Rocchette è l’unico che permetta la ricostruzione della vita quotidiana all’interno di un villaggio specializzato nel settore metallurgico. Inoltre, a differenza di Rocca San Silvestro, Rocchette ci ha aperto uno spaccato storico molto ampio, in virtù della lunga sequenza insediativa che lo scavo ha evidenziato. Dunque, la questione principale che si è posta di fronte ad una cronologia insediativa così ampia è stata quella relativa all’economia del sito ed al ruolo effettivamente giocato dalla

116

conosciuta per i tipi. Nel secondo paragrafo si discutono i vetri rinvenuti nei periodi cronologici individuati a Rocchette facendo, dove possibile, considerazioni di tipo socio-economico.

3.2 I manufatti vitrei Marja Mendera In uno scavo i reperti vitrei restituiti sono in misura percentualmente minore rispetto ai reperti ceramici, per l’abitudine di riciclare i vetri rotti, che, aggiunti alla massa vitrea in formazione, agevolano la fusione delle materie prime (sabbie silicee e fondenti alcalini), riducendo la quantità di combustibile (legna) necessaria. Allo stato attuale delle ricerche non sappiamo se nel periodo medievale, funzionassero vetrerie nel circondario di Rocchette Pannocchieschi e se quindi i vetri rinvenuti siano o meno di produzione locale. Ricerche storiche ed archeologiche, effettuate negli ultimi decenni in Toscana, hanno evidenziato come, in epoca basso medievale, officine vetrarie furono attive a Pisa, Prato, Pistoia, Firenze, Siena, Volterra, in Valdarno (Montopoli, S. Giovanni Valdarno) e soprattutto in Valdelsa (S. Gimignano, Gambassi, Montaione, Castelfiorentino, Certaldo). In quest’ultima zona, fin dai primi decenni del XIII secolo, le maestranze fabbricavano con metodi produttivi semindustriali, soprattutto bicchieri e bottiglie da tavola, ma anche lampade e urinali in vetro verde ed incolore, la cui morfologia tipologica è ormai ben conosciuta2. Gli artigiani da lì si spostarono non solo in Toscana, ma in tutta la penisola, contribuendo in tal modo al diffondersi della tecnologia vetraria e di oggetti dalle forme standardizzate. Quindi siamo abbastanza ben informati sulla dinamica produttiva delle vetrerie basso medievali e sul consumo del vetro in Toscana e Liguria, mentre rimangono sostanzialmente oscure, per tutto il territorio nazionale, le vicende delle vetrerie dei secoli precedenti e di conseguenza della tipologia degli oggetti in esse fabbricate. Per quanto riguarda gli aspetti del consumo, assumono importanza tutti i rinvenimenti in contesti di scavo, gli unici che permettono di cogliere anche gli aspetti socio-economici, potenzialmente presenti in qualsiasi tipo di reperto archeologico. A Rocchette sono stati trovati 159 frammenti vitrei, riconducibili a 61 oggetti che coprono un arco cronologico compreso tra l’VIII e il XX secolo. Provengono, con diversi quantitativi, dalla zona sommitale (aree 500, 600 e 4000), dalla zona artigianale tra le doline B e C (area 1000) e dal borgo (area 3000) (Fig. 1). La maggior parte dei vetri è stata trovata nel borgo (area 3000) da dove proviene il 45% dei manufatti, databili prevalentemente al XIV secolo. I reperti più inconsueti sono stati trovati nell’area 4000, dove purtroppo la stratigrafia è, in parte, senza riferimenti cronologici precisi (si veda supra, capitolo II.1). Nei paragrafi che seguono si presenta, nel primo, la morfologia delle singole forme vitree, discutendone l’ambito cronologico ed inserendo il contesto dei rinvenimenti di Rocchette nella griglia cronologica

1. Le forme Le forme riconosciute sono in prevalenza bicchieri in vetro verde e giallino (70%), pochi esemplari di bottiglie, un solo calice e due forme aperte forse ascrivibili a coppe o lampade (Fig. 2). Bicchieri Per i 42 bicchieri rinvenuti complessivamente si sono potuti distinguere 4 tipi (Fig. 3), ben conosciuti tra i reperti vitrei rinvenuti in scavi italiani di epoca medievale, spesso raffigurati dalla pittura bassomedievale (CIAPPI 1991, pp. 278-299). I bicchieri, trovati a Rocchette in tutte le aree, sono presenti per tutti i periodi ed aggiungono, per i contesti di rinvenimento, interessanti dati cronologici, soprattutto per i tipi 1 e 2 (Fig. 4). Tipo 1 (24% sul totale dei bicchieri) Bicchiere a forma di tronco di cono rovesciato, caratterizzato da un fondo rientrante e un basso piede ad anello vuoto con pareti lisce o con costolature verticali ottenute per soffiatura in stampo. Inizia a comparire in Italia nella seconda metà dell’XI, ma ha la sua massima presenza nel XII-XIII secolo (MENDERA 1996, pp. 299301; STIAFFINI 1991, tipo H2a, pp. 200-201, 230, QUATTRINI 2003/2004, pp. 86-94). Il tipo è presente a Rocchette con dieci esemplari: un esemplare è probabilmente infiltrato (area 4000), uno proviene da uno strato di vita di una struttura nel borgo databile all’XI secolo3. Altri due esemplari4, di cui uno con decorazione a costolature verticali impresse per soffiatura in stampo, sono stati trovati in strati di accumulo formatisi nell’area 600 durante l’XI secolo. Dall’area del borgo proviene un esemplare databile all’XI secolo ed altri due sono stati trovati in contesti di XIIXIII secolo5.

3 Inv, 60: 1 fr. di fondo con piede ad anello, vetro verde, diam. 5,5 cm. (US 4102, Periodo I, fase 1, attività 135). Inv. 49: 1 fr. di fondo con piede ad anello vuoto, vetro incolore con riflessi giallognoli, diam. 9 cm. (US 3150, periodo II, fase 1, attività 35). 4 Inv. 12: 1 fr. di fondo con piede ad anello vuoto (diam. 6 cm.), verde chiaro (US 693, periodo II-fase 2, attività 134); inv. 8: 1 fr. di fondo con piede ad anello vuoto (diam. 6 cm.) e 1 fr. di parete contigua con decorazione a costolature verticali impressi nella parete (US 674, periodo II-fase 2, attività 134). 5 Inv 46: 1 fr. di fondo ad anello vuoto, vetro verde, diam. 6 cm: >< 0,22cm. (US 3126, periodo II, fase 1, attività 36). 22 Inv. 36: 1 fr. di fondo con dec. impressa non id., incolore (US 3070, periodo IV, fase 3, attività 54). Inv. 34: 1 fr. di fondo di bottiglia non id., verde (US 3056, US 3070, periodo IV, fase 3, attività 54). 23 Inv. 61: 1 fr. di bordo con, 1,7 cm. sotto l’orlo arrotondato, una coppia di filamenti rossi applicati orizzontalmente e, 0,5 cm più in basso, altri due filamenti dello stesso vetro verde con cui è fabbricato il recipiente; diam. 17 cm. (US 4107, periodo II, fase 1, attività 174). Inv. 58: 1 fr. di parete bombata con 7 filamenti orizzontali applicati, di cui le due superiore sono in vetro rosso, i restanti in vetro verde come il resto del recipiente (US 4024, periodo II, fase 1, attività 174). 24 Inv. 9: 1 fr. di parete decorata con filamento a festone applicato, vetro giallo chiaro (US 683, periodo 2, fase 2, attività 134).

16 Inv. 37: 3 frr. di bordo e 4 frr. di pareti (3 frr. incolore, 4 frr. verde chiaro), diam. bordo: 7 cm. (US 3085, periodo IV, fase 2, attività 31). 17 Inv. 2: 1 fr. di fondo a conoide rientrante, vetro verde azzurro, diam. fondo 3,5 cm. (US 330, periodo IV, fase 3, attività 159). Inv. 7: 1 fr. di fondo a conoide rientrante, vetro azzurrino (US 595, periodo III, fase 1, attività 3). Inv. 40: 1 fr. di fondo, vetro giallo chiaro (US 3085, periodo IV, fase 2, attività 48). 18 Inv. 59: 1 fr. di bordo a parete doppia con dei vuoti che formano 2 fili orizzontali 1 ,5 cm sotto il bordo e più in basso due vuoti di forma non determinabile, verde oliva, diam. 7,5 cm. (US 4102, periodo I, fase 1, attività 135). 19 Inv. 18: fr. di stelo pieno di calice, vetro verde, diam. max. 0,9 cm. (US 807, periodo 1, fase 3, attività 113). 20 Roma, Domus del Foro di Nerva, esemplari con stelo liscio e tortile: DEL VECCHIO 2001, pp. 582, 583: datazione XI-XII secolo; DEL VECCHIO 2005, fig. 1, 8, datazione XII secolo. Roma Crypta Balbi: CINI

121

chiaro; è stato trovato nel saggio dell’area 400025 (Fig. 5, n. 2). Questi frammenti, benché non sia possibile risalire ad una forma definita, si avvicinano molto, per il tipo di decorazione, a reperti restituiti a S. Antonino di Perti in Liguria nelle fasi più tarde di fine VII-VIII secolo e potrebbero appartenere a coppe o corni potori26. I due reperti in questione assumono quindi una particolare importanza, in primo luogo per l’attestazione di un tipo di reperto fino ad ora non conosciuto in Toscana e in secondo luogo come conferma della frequentazione del sito fin dall’VIII secolo.

bicchiere di tipo non identificabile proveniente dall’area signorile, sembra confermare una pur limitata circolazione del vetro nel primo periodo. Periodo II (XI secolo) Nel corso dell’XI secolo, quando il sito di Rocchette assume la dimensione del castello signorile, l’uso di recipienti in vetro risulta ancora sporadico e si limita a dieci oggetti. L’area sommitale ha restituito, nel piano di cantiere per la costruzione della nuova cinta muraria e negli strati di accumulo all’esterno dei palazzi, complessivamente 6 manufatti, di cui due bicchieri di tipo 1, due di tipo 2, un oggetto non identificabile e un frammento di parete con filamenti applicati a festone. Quest’ultimo, rinvenuto in strati di accumulo all’esterno del palazzo, deve essere considerato residuale e può essere ricondotto alla prima fase del primo periodo abitativo del poggio. Come già accennato sopra, si tratta di un reperto che può essere datato tra la fine del VII e l’VIII secolo. Importante il riferimento cronologico di XI secolo per i due frammenti di forme aperte caratterizzati dai sottili filamenti applicati orizzontalmente, tra cui due di colore rosso. Si tratta di oggetti, pur non conoscendone la morfologia esatta, che non sembrano appartenere ad un corredo da tutti giorni. Dagli strati di vita di due case del borgo (strutture 35 e 36) provengono, dalla prima, un bicchiere di tipo 1 e una bottiglia in vetro spesso dalla seconda. La posizione stratigrafica dei bicchieri di tipo 1 e tipo 2 sembra confermare la datazione alta di ambedue i tipi, soprattutto se si considera che i manufatti rinvenuti nell’area sommitale provengono da strati di accumuli con alta probabilità di residualità.

2. La distribuzione dei vetri nei periodi L’analisi della distribuzione dei vetri nei periodi consente di fare, pur con le debite riserve a causa del quantitativo limitato, alcune considerazioni di tipo socio economico che scaturiscono dal tipo di oggetti in uso in ognuno dei periodi riscontrati (si veda fig. 1). Periodo I (fine VIII-inizio XI secolo) Gli oggetti vitrei rinvenuti in contesti relativi al primo periodo sono otto. Tre provengono dall’area 4000, posta sulla sommità, dal calpestio esterno di una delle capanne (struttura 4), e si collocano significativamente nella prima fase del I periodo, tra VIII e la prima metà IX secolo. Si tratta di oggetti particolari, quale il frammento con filamenti applicati a festone, il bordo di un bicchiere dalla parete doppia ed un bicchiere di tipo 1. Altri cinque manufatti provengono dall’area 600, cioè dalla zona sottostante la parte più alta dell’insediamento, dove buche per pali e tracce nella roccia segnalano la presenza di almeno 4 strutture in materiale deperibile, costruite ed usate tra VIII e metà IX secolo. Da tali strutture non sono pervenute evidenze materiali dirette, a causa del livellamento della zona sommitale operata nel X secolo. E’ nella fase 3 del I periodo che si depositano due frammenti significativi di vetro. Il primo, rinvenuto nelle terre di riporto per il livellamento della zona N-W per l’impianto della tettoia ad uso artigianale, è uno stelo pieno di calice. Il suo rinvenimento, trattandosi di un oggetto non certo di uso comune, potrebbe avvalorare l’ipotesi della frequentazione del sito da persone di un certo livello, oppure potrebbe essere messo in relazione con la presenza di una vicina struttura religiosa, dove l’uso di un calice sarebbe fattibile. Il secondo frammento viene da uno strato di vita della stessa tettoia ed appartiene ad un bicchiere di tipo 2, il cui contesto stratigrafico induce ad una sicura datazione al X secolo. Dallo stesso strato proviene un frammento non identificabile, che però testimonia un moderato consumo di manufatti vitrei in questa fase del villaggio. Pure il rinvenimento, nella fase 4 del I periodo, di un frammento di forma non definibile in uno strato relativo all’abbandono della stessa tettoia e di un fondo di un

Periodo III (XII-XIII secolo) Nonostante questo periodo costituisca la fase signorile del castello di Rocchette, con la nuova cinta muraria, la torre, la cisterna, il borgo e una area artigianale tra le doline A e B, si coglie dalle testimonianze archeologiche un sostanziale abbandono del sito nella seconda metà del XIII secolo. Di fatto, i reperti vitrei del periodo si limitano a sette bicchieri tutti provenienti dal borgo. Un bicchiere di tipo 1 è rinvenuto nella fase di abbandono di una casa del borgo (strutttura 36), mentre lo strato di abbandono della casa adiacente (struttura 35) ha restituito due bicchieri di tipo 2. Su dette strutture abbandonate si creò la zona ortiva da dove provengono due bicchieri di tipo 1 e due di tipo 2. Periodo IV (XIV -prima quarto XV secolo) Nel XIV secolo continuano ad essere abitate sia l’area sommitale, sia il borgo all’interno delle mura. Nella prima metà del XIV secolo viene inoltre realizzato un nuovo borgo all’esterno della cinta muraria e si attiva una nuova zona artigianale tra le doline B e C (area 1000). L’abbandono dell’area sommitale può essere inquadrato alla fine del XIV secolo, mentre il borgo e l’area artigianale vengono abbandonati al’inizio del XV secolo.

25 Inv. 54: area 4000, periodo I, fase 1, attività 135, calpestio esterno alla struttura abitativa 4, databile tra VIII-prima metà IX secolo. 26 Riflessi del passato, 2003, pp. 6, 7, nn. 10, 13, 14. FALCETTI 2001, Tav. 58, n. 410, Tav. 60, nn. 492, 496, 497.

122

Rispetto agli altri periodi si può segnalare un consumo più elevato di manufatti in vetro: i 29 oggetti individuati provengono prevalentemente dal borgo, con presenze minori nell’area sommitale e artigianale. Si sono riconosciuti 24 bicchieri, 2 bottiglie, 2 frammenti di vetro incolore di forma non identificabile e un calamaio moderno infiltrato. Prevalgono i bicchieri di tipo 3 con 15 esemplari: quattro vengono dagli strati di crollo dell’area sommitale, due dall’area artigianale, di cui uno relativo alla fase di costruzione dell’ambientino al’interno dell’ambiente 31 e l’altro da uno strato di livellamento. Il borgo ha restituito 9 esemplari di questo tipo, in strati del disfacimento del pavimento ligneo e dell’abbandono dell’edificio 34, del livellamento dell’area e del crollo e abbandono definitivo dell’area. Sempre nel borgo, in uno strato di livellamento, vi sono due bicchieri troncoconici lisci di tipo 4 e un esemplare di tipo 1, ormai residuale. Un esemplare di questo tipo è stato trovato anche nell’area artigianale, mentre gli ultimi esemplari del bicchiere tipo 2 sono uno nell’area 4000, un’altro da uno strato d’uso dell’impianto produttivo dell’area 1000 e infine nel borgo, area 3000. Una delle due bottiglie, rinvenute in strati di abbandono del borgo, è decorata con la stessa tecnica della insufflazione in matrice usata per i bicchieri di tipo 3. La preponderanza a Rocchette di quest’ultimo tipo di bicchieri nel contesto del IV periodo, è perfettamente in linea con il consueto quadro del consumo ordinario di bicchieri rilevato altrove.

3. Conclusioni Si può affermare, con la dovuta prudenza legata alla quantità non eccessiva dei vetri rinvenuti a Rocchette, che i manufatti studiati si configurano come indicatori di una dinamica insediativa, che ha visto nei primi tre periodi di vita del sito (VIII-XII secolo), una presenza piuttosto sporadica e limitata dei rappresentanti del ceto nobiliare. Di fatto, in questo arco di tempo appaiono come reperti che si discostano per forma e lavorazione da quelli ordinari e che pertanto si possono definire d’elite. Si tratta dei già discussi frammenti con filamenti a festoni, del calice a stelo pieno, di due forme aperte con fasce di filamenti applicati orizzontalmente e di un bicchiere dalla parete doppia, che convivono con i bicchieri di tipo 1 e 2. Significativamente provengono tutti dall’area sommitale. Per l’ultimo periodo di frequentazione del sito (XIV-XV secolo) risulta invece una prevalenza di oggetti d’uso comune, rinvenuti nel borgo e nella nuova area artigianale, costituiti soprattutto da bicchieri di tipo 3, con qualche esemplare residuale dei bicchieri di tipo 1 e 2. In questo arco cronologico si segnala una totale mancanza di manufatti di fattura più pregiata, assenza questa che sembra evidenziare la scomparsa, ormai da tempo, dei rappresentanti del ceto nobiliare, peraltro confermata anche da altri indizi scaturiti dallo scavo.

123

3.3 I reperti in metallo Maddalena Belli VIII-X 3%

Lo scavo archeologico condotto sul castello minerario di Rocchette Pannocchieschi ha restituito un fornito repertorio di oggetti in ferro, che rappresenta un campione di rilievo per l’evoluzione cronologica di certe categorie di oggetti, quali le armi, e per l’analisi funzionale dei molteplici manufatti riferibili alle lavorazioni artigianali. Sono stati schedati 923 oggetti in metallo provenienti dallo scavo di Rocchette. Di tale quantitativo 20 oggetti non sono identificabili; 250 sono identificabili, ma non associabili a tipologie, in quanto frammentari o troppo ossidati. I manufatti ricondotti ad una tipologia morfologica sono dunque 653, pari al 72% del totale dei 923 reperti schedati. Per quanto riguarda i metalli e le leghe utilizzate si nota la forte presenza di ferro rispetto alle leghe di rame o altri metalli. Questo dato, che in parte è da considerarsi in linea con quanto generalmente emerge sugli scavi medievali di contesti di abitato e quindi anche sui contesti rurali della Toscana meridionale, tuttavia risulta a Rocchette particolarmente evidente e rimane un indicatore della peculiarità del corredo del castello, costituito perlopiù da oggetti funzionali. La lunga continuità di vita dell’insediamento e la tipologia dei saggi di scavo effettuati che rappresentano campioni di aree a funzione distinta (area signorile, porta di accesso al borgo, area del borgo, aree artigianali), permottono di sviluppare un ragionamento diacronico sia sul piano quantitativo, sia sul piano tipologico (Figg. 1a e 1b).

XII-p.m.XIII 18%

XIV 75%

Fig. 1b: divisione cronologica dei reperti in metallo Gli oggetti analizzati possono essere suddivisi nelle dieci categorie funzionali visibili nell’istogramma (1a). Tralasciando le alte percentuali dei chiodi e degli strumenti comunque riferibili a parti strutturali degli edifici (ganci, ma anche cardini e altri elementi da infisso) è, invece, consistente la presenza di strumenti d’uso in genere (domestici e artigianali, solo in minima parte agricoli) e di armi .

1. Periodo I (Fine VIII-X secolo) Le attestazioni di manufatti in metallo riferibili al villaggio altomedievale rappresentano poco più del 3% del totale del repertorio, inoltre, così come avviene per i reperti ceramici, la gran parte dei ritrovamenti interessa le stratigrafie di riporto per il livellamento, funzionale all’impianto delle strutture di X secolo (attività 113) e ciò non permette di distinguere nettamente gli esemplari riferibili all’VIII-IX secolo rispetto a quelli di X secolo. Nell’ampia colmata del dislivello che oblitera la prima fase di vita attestata si ritrovano alcuni oggetti riferibili al lavoro artigianale. Il gruppo degli attrezzi di lavorazione artigianale comprende cinque oggetti di piccole dimensioni. Quattro esemplari sono costituiti da scalpelli e punteruoli (Fig. 2, nn. 3-5). I tipi di riferimento, attestati a Rocchette fino alla seconda metà del XIV secolo, si abbinano all’uso di bulino-scalpello. Rimane difficile individuare in maniera certa la funzione specifica di certi manufatti, riferibili a tipi morfologicamente basilari e proprio per questo contraddistinti da una lunga continuità di vita. Le piccole dimensioni portano ad ipotizzarne un uso per attività di rifinitura; i confronti tipologici da scavo propongono utilizzi legati alla lavorazione del legno o alle pratiche metallurgico-metallotecniche. Anche il contesto di ritrovamento non ci aiuta più di tanto; infatti, dal momento che i reperti provengono sia dalle terre di livellamento (attività 113), sia dall’uso della struttura 7 (attività 158), rimane difficoltoso attribuire con certezza tali pezzi al lavoro svolto sotto la tettoia limitrofa al forno, o, invece, alla lavorazione del legno nell’ambito del villaggio altomedievale di VIII-IX

70 60 50 40 30 20 10

ur a

e

a b a rm i rd at ur a co do lte lli m e se s t i c rr o am en s ti at tr ut t st tu ru rez zi re m en ag ti r ar ico tig li ia na el em li el em en en ti v I e ti ap stia pl rio ic az io ne ch io di

0

fe rr at

XI 4%

Fig. 1a: attestazioni funzionali dei manufatti in metallo rinvenuti nel sito di Rocchette (istogramma)

124

secolo27. In riferimento a quest’ultima funzione tali strumenti sembrano morfologicamente più adatti alla produzione di manufatti di piccole dimensioni, come contenitori, mestoli, cucchiai, manici, il cui uso doveva essere comune. Nelle stratigrafie di uso della tettoia (attività 158), in associazione con alcuni degli utensili appena descritti, si ritrova anche una lama (taglierino), di piccole dimensioni, di forma semilunata, con taglio convesso (Fig. 2, n. 6). Lo strumento presenta una terminazione a codolo sottile, funzionale all’innesto del manico. La forma della lama e le piccole dimensioni dell’oggetto, ne indicano una funzione specifica atta al taglio e alla raschiatura. L’oggetto di Rocchette trova un confronto puntuale con un esemplare proveniente dal castello minerario di Rocca San Silvestro. E’ probabile che persino questo manufatto sia funzionale alle attività legate alla lavorazione di superfici metalliche, dal momento che anche l’esemplare di San Silvestro proviene da un livello di abbandono della struttura della forgia, in associazione ad altri strumenti artigianali quali gli scalpelli-bulini appena descritti. Per quanto si tratti di deboli tracce, la caratterizzazione funzionale di tali reperti, la loro associazione ed il confronto con Rocca San Silvestro, rafforza l’ipotesi del carattere artigianale delle evidenze di X secolo. Oltre agli strumenti artigianali dai contesti della prima fase insediativa (attività 135) proviene un chiodino da ferratura (Fig. 2, n. 1), riferibile al tipo a testa di violino, morfologia che in genere si associa agli esemplari più antichi di ferri da cavallo e da mulo e che, come avviene anche per il nostro sito, rappresenta l’unico tipo attestato fino al X secolo e, comunque, il tipo di riferimento ancora per l’XI e il XII secolo, quando cominciano ad entrare in uso le forme più semplici, a testa rettangolare. Se prendiamo per buona l’ipotesi che chiodi del tipo con testa a chiave di violino siano associati con ferrature a bordo ondulato (SOGLIANI 2000, p. 472) possiamo constatare che l’utilizzo di questo tipo di ferratura è già ampiamente diffuso nel IX secolo nel territorio della Toscana meridionale. Questo tipo di ferratura, ritenuto il più arcaico, è comunque legato ad un processo di forgiatura non del tutto sviluppato dal punto di vista tecnico. Inoltre è probabile che in questo periodo la pratica della ferratura venga adottata limitatamente al cavallo. Ritornando al repertorio di Rocchette, infine, fra i pochi pezzi tipologizzabili, si attesta la presenza (attività 113) di un esemplare di cuspide di freccia (Fig. 2, n. 2) da arco del tipo foliato, con cuspide a sezione molto schiacciata. Si tratta dell’unico esemplare foliato ritrovato a Rocchette. Il tipo si caratterizza per una funzionalità distinta per l’incidenza del taglio e rappresenta una delle forme peculiari nell’uso venatorio dell’arco. La frammentazione dell’esemplare, conservato soltanto nella

parte della cuspide, non permette di individuare il sistema di fissaggio della punta all’asta lignea della freccia, la terminazione della parte inferiore - a sezione quadra, abbastanza sottile - non esclude un fissaggio con codolo ad innesto. Il tipo si rifà ad una morfologia di antica concezione, comunemente usata nell’altomedioevo28, non solo italiano, anche per la guerra; tuttavia le stesse forme foliate, e, soprattutto, gli esemplari con folia più squadrata, come quello di Rocchette, si mantengono in uso per tutto il periodo bassomedievale, per quanto dal XII-XIII secolo si facciano sempre più rare, sia come armi da guerra sia per le attività venatorie (DE LUCA 2004)29. Oltre ai pochi oggetti tipologicamente identificabili, appena descritti, il repertorio riferibile alle fasi relative al villaggio altomedievale, conta due frammenti di coltelli, un boncinello ed un gancio a cerniera. La presenza di elementi in lega di rame è molto limitata ed è costituita da pochi frammenti associabili a lamine di applicazione. Per quanto il campione di Rocchette sia esiguo, la sua analisi in riferimento al contesto toscano permette di portare alla luce alcuni elementi d’interesse, utili alla comprensione delle dinamiche di produzione e circolazione-consumo dei metalli. Relativamente al villaggio altomedievale, anche avvalendosi del confronto con altri contesti analizzati, emerge come, ancora nei secoli VIII-IX, l’uso del metallo all’interno delle abitazioni fosse molto limitato. Gli unici oggetti ritrovati a Rocchette come anche in altri contesti Toscani, quali ad esempio Donoratico (BELLI 2004) sono i coltelli, che rappresentano, tuttavia, gli strumenti principe, sia nelle attività domestiche, sia in quelle lavorative. Il metallo più utilizzato è il ferro. La produzione di oggetti in ferro si limita a coprire le necessità di base, ossia si usa il ferro esclusivamente per quelli utensili che debbono essere dotati di capacità meccaniche peculiari (parti trancianti, parti sottoposte a sforzo meccanico quale sfregamento o trazione) le quali difficilmente possono essere risolte tramite l’utilizzo di materiali diversi. Sul piano dei manufatti questa semplificazione è percettibile sui due livelli distinti delle categorie funzionali e dei tipi morfologici. Per quanto concerne le categorie funzionali, infatti, si nota che solo otto categorie su dodici sono rappresentate. Le funzioni evidenziate, a Rocchette e in maniera abbastanza omogenea sul territorio, sono quelle delle armi, della ferratura del cavallo, delle attività domestiche di base e di attività artigianali probabilmente legate alla produzione di utensili. La debole presenza, fino a tutto il X secolo, di chiodi, testimonia che non si fa ancora uso di tali manufatti per il sostegno degli elementi strutturali e delle strutture di copertura.

27

GAMBARO, 1990, p. 338, tav. IX, n.9; riguardo all’abbinamento di tali strumenti con le attività metallotecniche si veda, ad esempio, la struttura di forgia rinvenuta nello scavo di Poggio Imperiale, dove gli strati di abbandono restituiscono tre piccoli scalpelli riferibili allo stesso tipo; PANICHI, 2001-2002, p. 22-23 e p. 251-252; uno scalpello uguale proviene anche dal contesto della forgia di Rocca San Silvestro; per l’abbinamento di utensili simili alle lavorazioni metallurgiche vedi anche CIMA, NISBET, 1982, pp. 491-492 e pp. 493-494 e MARTIN 1994.

28 Vedi gli esempi, databili al VI-VII secolo di San Vincenzo al Volturno: SOGLIANI, 2000 p.471 e della Cripta Balbi: RICCI 2001b, p. 398, II.4.742-744 29 Esemplari riferibili a questo tipo provengono dal castello di Donoratico e da Scarlino (tipo 3 delle cuspidi di freccia in BELLI 2005, volume II e BELLI 2007)

125

Figura 2: gli oggetti in ferro di Rocchette dal IX alla fine del XIII secolo (da BELLI 2003) Se l’analogia delle funzioni presenti riscontrata sul territorio trova giustificazione nella omogeneità dei contesti trattati e nella necessità del manufatto in ferro di assolvere a pochi usi, che, in quanto basilari, rimangono sostanzialmente invariati nei diversi contesti, più interessante è, invece, il dato morfologico che dà ragione di una generalizzata uniformazione dei tipi. Venendo al nostro caso, quello che ci interessa mettere in rilievo è il dato concernente le forme di molti oggetti riferibili a questo periodo, forse la maggioranza di essi e cioè le cuspidi di freccia, gli elementi da ferratura, gran parte degli strumenti artigianali. Gli stessi tipi sono attestati pressochè su tutto il territorio. Le forme di riferimento e soprattutto le cuspidi a folia bipiramidale, i ferri a bordo ondulato e i chiodini a chiave di violino ad essi associati, sono tutti tipi attestati in un panorama geografico molto ampio che spazia fino alle regioni del nord Europa. Le cuspidi di freccia foliate a foglia di forma romboidale si ritrovano in Italia in contesti sia longobardi, sia bizantini, fino al VII secolo30, per poi ricomparire in maniera massiccia nell’uso nel bassomedioevo in Inghilterra, in Francia e in Italia, per quanto l’uso di questo tipo di cuspide non si perda nelle

fasi centrali del medioevo (CANTINI 2003, p. 175, tav. 41, n. 18; LEBOLE DI GANGI 1999, p. 405, fig. 157, n. 81). I ferri festonati entrano nell’uso comune nel X-XI secolo in Francia, in Germania, in Inghilterra e in l’Italia, per quanto in molti contesti si noti la continuità d’uso di questo tipo, fino al XIII secolo. Ritornando dunque sul nostro territorio, l’attestazione di questi tipi in contesti databili dalla fine del IX al X secolo è indicativa della sopravvivenza di modelli morfologici più antichi, come si evince dall’analisi delle cuspidi, e, contemporaneamente, del contatto con saperi tecnici e modi di costruire manufatti, comuni ad un ampio ambito territoriale. In seconda istanza la standardizzazione dei manufatti in uso propone un quadro dinamico dell’economia di produzione e di mercato, capace di mettere in contatto l’intero territorio della Toscana meridionale e apporta dati di rilievo nell’ipotesi di un sistema organizzativo delle produzioni e dei commerci interno al territorio in questione. Purtroppo non abbiamo dati sufficienti per definire con chiarezza l’entità e la forma di tale sistema di contatti. Certo è che per quanto riguarda la produzione di ferrosi sappiamo che dal IX-X secolo sulla costa si ha una riattivazione della lavorazione dell’ematite elbana (CUCINI, TIZZONI 1992, pp. 57-58; BAIOCCO et alii 1990, pp. 80, 88, 136), mentre, contemporaneamente, in alcune aree interne si ha l’attestazione dello sfruttamento delle

30

Per alcuni confronti con materiale altomedievale vedi ad esempio RICCI 2001b (Crypta Balbi), p. 398, II.4.742-744, VI-VII secolo; SOGLIANI 2000 (San Vincenzo al Volturno), p. 471, datati al VI-VII secolo; VON HESSEN 1971, tav. 21, pp. 20-21; MENIS 1990, p. 379, X. 29-30.

126

risorse locali31. Infine oltre che a manufatti, verghe e pani in ferro sembrano circolare dai villaggi ai centri monastici sottoforma di censi32. Tutti questi dati, uniti a ciò che scaturisce dai manufatti rappresentano le prime spie di un cambiamento in corso, che arriverà a conclusione solo nell’XI secolo. Il carattere dei manufatti prodotti sul territorio fa pensare che i fabbri attivi in questo periodo si rifacciano a modelli comunemente utilizzati anche nei secoli VI e VII, all’interno del consumo di centri longobardi o longobardizzati. D’altra parte la documentazione scritta ci informa riguardo alla presenza della città longobarda di Lucca sul territorio delle Colline Metallifere già dal VII secolo. In considerazione anche a ciò che riguarda l’importanza di questa città per la prosecuzione delle attività metallurgiche nel passaggio dalla tarda antichità all’altomedioevo, è possibile pensare che le maestranze attive sul territorio provengano proprio dall’area lucchese. Guardando alla documentazione scritta riguardante le maestranze itineranti attive sul territorio si nota la più alta attestazione di metallurgisti di metalli non ferrosi. Dunque è ipotizzabile che, per quanto anche la metallurgia del ferro ne tragga modelli e insegnamenti, i saperi tecnici circolino sul territorio in riferimento ad un rinnovato interesse per la risorsa argentifera, probabilmente da collegare a nuove richieste di metallo monetabile, anche e soprattutto da parte della città di Lucca, nella cui zecca, dalla fine dell’VIII secolo si passa dalla coniazione aurea a quella argentea (FRANCOVICH, WICKHAM 1994, p. 22). E’ infine probabile che proprio l’organizzazione dello sfruttamento di minerali piomboargentiferi costituisca già nel pieno periodo altomedievale uno stimolo all’iniziativa di famiglie costituitesi proprio nell’ambito lucchese, quale è quella degli Aldobrandeschi, che nell’VIII secolo cominciano ad incentrare il loro potere sulle aree minerarie, come ad esempio quella limitrofa al monastero di S. Regolo in Gualdo (FRANCOVICH, FARINELLI 1994, pp. 456-457). Proprio all’interno di questo processo è possibile spiegare i primi tentativi di attuazione di metallurgie di piombo quali quella probabile di Rocchette e proporre una nuova visione dell’evoluzione degli insediamenti minerari che, per quanto in epoche più alte, rispetto a quelle relative alla formazione del castello, si caratterizzano per la stabile presenza di entità di potere le quali, fin dall’inizio, pilotano l’economia mineraria di questi centri.

interventi successivi alla fase in questione, dal momento che l’area sommitale si caratterizza come area aperta e mantiene questa conformazione fino alle fasi finali di vita dell’insediamento. Nell’area sommitale i reperti metallici provengono dall’attività concernente il cantiere per il rifacimento ed ampliamento della cinta muraria (attività 119) e per la costruzione del palazzo (attività 125). La gran parte del repertorio restituito da tali attività è costituita da chiodi, funzionali al cantiere stesso, fra i quali si attestano i tipi di medie dimensioni e quello di grandi dimensioni, da carpenteria. Inoltre si ritrovano nelle stesse stratigrafie due punteruoli (Fig. 2, nn. 9-10) di medio-piccole dimensioni, privi d’immanicatura; tali oggetti, riferibili al tipo morfologico già attestato nella fase precedente, probabilmente erano usati sul cantiere, per le attività di carpenteria, giacché le piccole dimensioni degli esemplari sembrerebbero escluderne l’uso per la scalfittura del pietrame. Per quanto riguarda l’area del borgo, i reperti in metallo riferibili a questa fase provengono tutti dalla vita dell’ambiente IX (attività 36). Si tratta di una punta di freccia non identificabile e un ferro di cavallo del tipo a profilo ondulato (Fig. 2, n.7), un chiodino da ferratura del tipo con testa a chiave di violino, un punteruolo (Fig. 2, n. 11), un frammento di catena e un frammento di un oggetto probabilmente identificabile con una maniglia. Dunque, anche per l’area del borgo, l’esiguità dei ritrovamenti non permette di avanzare ipotesi funzionali sulle strutture messe in evidenza. Il carattere scarno del corredo relativo all’XI secolo, nel castello di Rocchette Pannocchieschi, si discosta dall’andamento generale che i corredi in metallo hanno nel medesimo periodo: l’anomalia di Rocchette, dal punto di vista sia quantitativo, sia qualitativo del repertorio, da un lato è sicuramente dovuta, come abbiamo accennato al carattere dello scavato, ma in parte possiede motivazioni di altro genere, le quali possono essere interpretate solo confrontando il repertorio del nostro sito con gli altri contesti simili. La complessiva analisi dei reperti di XI secolo, infatti, mette in luce una disomogenea distribuzione dei tipi sul territorio. Per quanto, cioè, si possa denotare un generalizzato incremento dell’uso di metallo, tuttavia i caratteri di crescita e di innovazione non investono uniformemente l’intero repertorio e tendono a segnalare la presenza di contesti privilegiati. Una forma di omogeneità sul territorio è riscontrabile esclusivamente in riferimento agli elementi in ferro utilizzati nelle strutture, mentre per il restante repertorio sul piano quantitativo, su quello funzionale e su quello tipologico si percepisce una netta disparità fra i contesti sulla costa, quali Rocca S. Silvestro e Donoratico, in maniera minore anche la Rocca di Campiglia Marittima e l’entroterra (BELLI 2005). Gli aspetti che accomunano questi tre ambiti di consumo, fornendoli una connotazione particolare, sono sia di carattere quantitativo, sia riguardanti la maggiore articolazione funzionale e morfologica. Passando dunque a riflettere sulla complessità del nostro territorio si può immaginare un modello di produzionecircolazione-consumo di manufatti contraddistinto da una

2. Periodo II (XI secolo) Le attestazioni di oggetti in metallo riferibili alla prima fase signorile non subiscono un incremento particolare (rappresentano circa il 4% del totale delle attestazioni); gli oggetti inquadrabili in questa fase provengono per la maggior parte dall’area sommitale del castello, ma questo dato probabilmente è condizionato dall’entità degli 31

E’ il caso del Monte Amiata (FARINELLI 1996), ma anche di Montarrenti, dove si ha la testimonianza materiale del bassofuoco (CANTINI 2003, pp. 37-44). 32 Vedi ad esempio la documentazione relativa a San Salvatore al Monte Amiata (FARINELLI 1996, p. 42).

127

infatti, ricordare che il tipo con strozzatura può essere funzionale sia all’uso dell’arco sia della balestra, per quanto, proprio la datazione delle prime attestazioni faccia pensare ad un uso associato soprattutto alla balestra. Del resto, anche nel caso di Rocchette, si nota che gli esemplari morfologicamente più standardizzati provengono soprattutto da stratigrafie riferibili alla fase finale del XIII secolo, rispetto a forme con lieve strozzatura che provengono da strati databili al XII prima metà del XIII secolo. Tuttavia, l’ampia variazione dimensionale, che si riscontra all’interno della medesima forma, non dipende esclusivamente da un fattore produttivo di standardizzazione, ma, in determinati casi, rappresenta l’indicatore fondamentale dell’uso di due distinti tipi d’arma da tiro: l’arco e la balestra. Si rende inoltre opportuno porre un’ulteriore distinzione; infatti se gli esemplari di più piccole dimensioni, con una lunghezza massima che si aggira intorno ai dieci centimetri, venivano usati su balestre maneggevoli, come ad esempio quelle del tipo con caricamento a staffa dall’area sommitale del castello proviene anche un esemplare (Fig. 2, n. 20) di dimensioni molto più grandi il quale attesta l’uso di una grande balestra da postazione. Le cuspidi di freccia da balestra pesante sono rare nei ritrovamenti archeologici, tuttavia l’esemplare di Rocchette, con un peso nettamente superiore agli altri, potrebbe trovare confronti col tipo del quadrello grosso (DE LUCA, FARINELLI, 2002, p. 472). Inoltre, se è vero che una delle cause delle scarse attestazioni di punte da balestra grossa, nelle aree interne alle mura, è rappresentata anche dal fatto che in genere questo tipo di arma era usato contro la cavalleria, ossia, dall’interno del castello, contro gli assalitori, allora è anche possibile ipotizzare che fino alla metà del XIII secolo il castello di Rocchette sia provvisto di una guarnigione militare di elevato spessore, dato che fra le armi probabilmente è presente anche una grande balestra da postazione, che rappresentava un’arma di alto valore economico. Oltre al repertorio delle armi, l’area sommitale restituisce chiodini da ferratura, riferibili sia al tipo a chiave di violino, già precedentemente attestato, sia al tipo con testa di forma rettangolare (Fig. 2, n.13) e, sempre nell’ambito degli elementi relativi al cavallo, si attesta la presenza di una grande fibbia da bardatura in ferro, con staffa di forma trapezoidale (Fig. 2, n.14). Non è possibile inquadrare il tipo in un ambito cronologico ben definito in quanto l’esemplare rappresenta una forma a lunga continuità tipologica; tuttavia vale la pena ricordare che le forme trapezoidali probabilmente rappresentano una evoluzione delle semplici forme quadrate e rettangolari. Diverso è il materiale restituito dall’area del borgo, che si caratterizza per una più vasta presenza di funzioni riferibili all’ambito domestico. Il corredo proviene in gran parte dall’abbandono di uno degli ambienti addossati alla cinta muraria (attività 38) e dai livelli ortivi (attività 41). Le armi sono meno rappresentate e, per la maggior parte provengono dagli strati di orto relativi alla fine del Duecento. Un esemplare, per quanto frammentario, può essere riferito al tipo con lieve strozzatura e cuspide sottile a sezione quadra, attestato già dal XII secolo anche nell’area sommitale del castello. Tra gli esemplari contraddistinti da una strozzatura fra punta e gorbia,

forte dualità fra aree. Da un lato, infatti, abbiamo i castelli vicini alla costa che paiono privilegiati, in parte a causa proprio della loro localizzazione, per l’immissione in circuiti caratterizzati da un mercato più ampio e da saperi tecnici più specializzati. Dall’altro lato abbiamo i contesti dell’entroterra, sui quali, al contrario, si nota una più evidente stasi dei consumi, che costituisce l’indizio di una forma produttiva chiusa nell’ambito locale; è il caso di Rocchette, ma anche di Montemassi, di Castel di Pietra, forse anche di Cugnano. Quello che rimane da chiedersi è se su questo fenomeno influiscano altri fattori oltre a quello della localizzazione. Il legame con la famiglia dei della Gherardesca è indubbiamente un aspetto determinante che accomuna tutti e tre i casi privilegiati. E’ probabile, infatti, che la spinta espansionistica che, proprio in questo periodo investe la casata determini la formazione di contesti contraddistinti da ambiti privilegiati di consumo. Il forte legame di questa famiglia con la città di Pisa e d’altra parte l’interesse della famiglia stessa in investimenti sull’economia dei metalli rappresentano il tramite attraverso il quale si incrociano, sugli ambiti controllati dai Della Gherardesca, saperi tecnici specializzati in campo metallurgico e manufatti provenienti dalle botteghe urbane, che, pur essendo probabilmente pochi, funzionano come modelli per i fabbri che operano nei diversi contesti locali. 3. Periodo IIII (secoli XII-prima metà XIII) La fase di ridefinizione signorile del castello restituisce un repertorio di oggetti in metallo abbastanza consistente, pari circa al 18% del totale dei rinvenimenti. Quantitativamente, si nota un’omogenea suddivisione dei ritrovamenti fra l’area sommitale e l’area del borgo. Fra i reperti restituiti dall’area sommitale, oltre ai chiodi, si annota la presenza di undici cuspidi di freccia, tutte provenienti dall’area aperta compresa fra la cisterna e il palazzo (attività 163). Il primo esemplare (Fig. 2, n. 15) si riferisce al tipo del pillotto, ossia con la punta caratterizzata dall’assenza della gorbia e da un tipo di innesto tramite un sottile codolo a sezione quadra. Alla scarsa attestazione di questi tipi nei contesti di scavo, in parte, sopperisce la documentazione scritta, nella quale le più antiche menzioni del pilloctum da strale risalgono alla prima metà del Duecento (DE LUCA, FARINELLI 2002, p. 468). Dunque l’esemplare di Rocchette, la cui datazione può essere inquadrata nella prima metà del XIII secolo, rappresenta un’importante attestazione cronologica. Solo due esemplari si riferiscono alla morfologia (Fig. 2, n. 16) con cuspide a sezione quadra, indistinta dalla gorbia avvolta, mentre gli altri (Fig. 2, n. 17) si caratterizzano per una strozzatura che divide la parte della cuspide (a sezione quadra o romboidale) dalla gorbia di forma conica, più o meno accentuata. L’introduzione in questo periodo di dette forme concorda con gran parte dei confronti archeologici di ambito italiano, i quali riferiscono tale morfologia ad un tipo di transizione, introdotto nel XIII secolo, molto comune tra la fine del XIII ed il corso del Trecento, gradatamente sostituito dalle forme tipiche da balestra: i verrettoni. Bisogna,

128

Il XII secolo rappresenta un periodo abbastanza enigmatico. Sul piano quantitativo si assiste al decremento delle attestazioni di manufatti in metallo che investe omogeneamente un vasto territorio nella Toscana meridionale. Gli aspetti più innovativi riguardano, infatti, esclusivamente gli oggetti di abbigliamento e ad alcuni elementi riferibili alle strutture e all’arredo delle abitazioni. In riferimento a questi ultimi si riscontra un uso più vasto di serramenti (chiavi, boncinelli, ganci da chiavistello) associabili sia a infissi sia a parti di mobilio, i quali rappresentano gli unici documenti indiziari di un rinnovato modo di costruire e di abitare, all’interno delle case. Il cambiamento più visibile nel corredo di oggetti in metallo si riscontra nel XIII secolo. Prendendo in considerazione esclusivamente la prima metà del secolo si nota l’evolversi della tendenza già individuata nel periodo precedente. I reperti in metallo coprono la gamma completa delle funzioni, tuttavia, sul piano tipologico si riscontra un incremento e rinnovamento delle forme più marcato per i tre gruppi di funzioni degli oggetti da vestiario, degli accessori di mobilio, del lavoro artigianale e delle armi. Sulle altre categorie funzionali, a parte qualche eccezione, si evidenzia la continuità d’uso delle forme introdotte già dall’XI secolo. Il periodo compreso fra il XII e la prima metà del XIII secolo costituisce la fase più importante nel processo di distribuzione e assetto dei poteri gestionali delle risorse minerarie del territorio della Toscana meridionale. Per quanto i presupposti di questa organizzazione si ritrovino già dalla metà dell’XI secolo, è nel XII secolo che alcuni di questi fenomeni vengono a definirsi più distintamente. Caso esemplificativo è quello che riguarda il ruolo della città di Pisa nella gestione diretta della metallurgia dei ferrosi33. Sul piano generale della produzione, dunque, il XII secolo sembra porsi in netta continuità con il secolo precedente, tuttavia ogni fase storica porta con sè i segni della conclusione di un processo e dell’inizio del processo seguente. Credo che in merito il repertorio di oggetti in metallo relativo al XII secolo possa essere considerato un caso esemplare. Abbiamo infatti messo in evidenza come all’interno di un repertorio di manufatti che non si discosta molto da quello di XI, si colgano due indizi fondamentali dell’evoluzione che si paleserà solo nel pieno XIII secolo. Tali indicatori sono rappresentati dalla prima comparsa di oggetti di pregio legati ad una produzione specializzata, che opera secondo un gusto che sarà caratterizzante del secolo successivo e, d’altra parte, dall’omogeneità dei rinvenimenti sul territorio, che incrementerà progressivamente fino alle epoche tardomedievali. Credo che sia possibile interpretare entrambi questi fattori come le distinte facce di una medesima medaglia che nel nostro caso è costituita da un raggiunto rinnovamento delle modalità di produzione e delle scelte di uso dei manufatti in metallo. Anche in questo periodo si evidenziano due tendenze distinte, quella legata alla produzione dei ferrosi e quella

proviene dall’area del borgo una cuspide a carattere più massiccio (Fig. 2, n. 19), sicuramente da balestra e databile alla fine del XIII secolo. Altri due esemplari, interamente conservati, presentano una forma diversa (Fig. 2, n. 18): si tratta di punte di piccole dimensioni, contraddistinte da una forma conica, con cuspide a sezione circolare. La linearità della forma e le ridotte dimensioni fanno ipotizzare che si tratti di un tipo atto all’uso sia da arco, sia da balestra, probabilmente da esercitazione. A Rocchette questi rappresentano gli unici esemplari riferibili al tipo, che comunque è abbastanza attestato nei contesti bassomedievali, in associazione a repertori di cuspidi da balestra (DE LUCA 2004). Un unico esemplare di cuspide di freccia presenta invece un corpo rettilineo; le ridotte dimensioni del tipo portano ad ipotizzare che si tratti di esemplari usati su frecce da arco (Fig. 2, n. 16). Sono presenti anche i ferri, probabilmente cinque esemplari da riferirsi al mulo, solo tre esemplari da cavallo. Si attesta ancora alla fine del XIII secolo il tipo a profilo ondulato, ma si incrementa la tipologia a profilo lineare (Fig. 2, nn. 12-13). Fra gli oggetti riferibili alla sfera domestica si ritrovano ganci, bandelle e anelli di catena, una serratura, tre coltelli, un frammento di un paiolo in lega di rame, una bugia. Fra i coltelli due esemplari presentano un’immanicatura ad innesto, mentre uno ha immanicatura a largo codolo rivettato, tuttavia per quanto riguarda la morfologia della lama, si caratterizzano tutti per il dorso diritto e il taglio leggermente convesso; si tratta di una forma semplice a funzione non specializzata, comunemente usata nell’ambito domestico e per la mensa, come fanno pensare anche le medie dimensioni degli oggetti. Ai coltelli probabilmente si associa un puntale in lamina bronzea, di piccole dimensioni, da riferirsi alla terminazione di un fodero in cuoio o in stoffa. Solo due esemplari si riferiscono alla sfera del vestiario e si tratta di una fibbia in ferro e di un anello da laccio in lega di rame. Tutti questi oggetti, tuttavia, provengono perlopiù dalle stratigrafie ortive e dunque solo in minima parte rappresentano gli indicatori delle funzioni svolte all’interno delle case. Dati funzionali più certi, invece, derivano dai livelli di abbandono di una casa (attività 38) che oltre ad alcune cuspidi di freccia e ferri da cavallo e da mulo restituisce un gruppo di strumenti artigianali di lavorazione. Fra questi, oltre ad un cuneo e ad un punteruolo tipologicamente non identificabile provengono uno scalpellino (trincetto) di piccole dimensioni, privo di immanicatura, riferibile al tipo già attestato nelle prime fasi di vita dell’insediamento e uno scalpello, di più grandi dimensioni, caratterizzato da una terminazione superiore più assottigliata che doveva fungere per l’innesto del pezzo in un manico probabilmente ligneo; si tratta di un tipo che a Rocchette compare alla fine del XIII secolo. A livello regionale, trattare in forma unitaria i dati riferibili al XII e alla prima metà del XIII secolo non è semplice. Infatti, le due distinte fasi si differenziano nettamente per quanto riguarda le quantità di restituzioni di manufatti metallici. D’altra parte, però, il quadro storico di riferimento sul nostro territorio ci spinge all’analisi organica di questo periodo.

33 Nell’anno 1192 viene riconosciuto a Pisa il diritto di estrazione dell’ematite nelle miniere elbane (CECCARELLI LEMUT 1985, pp. 5862).

129

concernente la produzione di oggetti in lega di rame. Le produzioni in lega di rame riferibili a questo periodo necessitano di presupposti che solo una città può garantire e cioè l’attuazione di processi metallotecnici specializzati, l’impianto di atelier stabili che tende a escludere l’azione di maestranze itineranti sul territorio rurale, il contatto con un gusto comune ad un territorio molto ampio34. Diversamente la produzione di oggetti in ferro rimane probabilmente ancorata al territorio rurale, dove, tuttavia l’organizzazione delle lavorazioni tende ad allontanarsi sempre più dalla forma parcellizzata non solo in riferimento alla produzione di semilavorato, ma, probabilmente anche per la fabbricazione degli oggetti35. La distribuzione degli oggetti sul territorio che, già dal XII secolo e in maggior misura dal XIII, raggiunge, almeno per i manufatti in ferro, una omogeneità che interessa l’intero territorio, rappresenta l’indice di un avvenuto allargamento dei mercati a livello regionale, oltre che di una più ampia circolazione di manodopera specializzata. In riferimento ai ferrosi, poi, per il XIII secolo è necessario sottolineare l’inizio della sperimentazione di nuove tecnologie nel territorio interno della val di Merse. Infatti, anche se l’attivazione di lavorazioni specializzate, legate allo sfruttamento dell’energia idraulica, in questo territorio, è un fenomeno che, come vedremo in seguito, si svilupperà soprattutto dalla metà del XIII secolo, è comunque lecito ipotizzare che la rinascita di consumo di oggetti in ferro, nelle aree interne al territorio della Toscana meridionale, possa, già in questo periodo essere legato all’inizio dell’attività di centri produttivi specializzati, in territori molto più vicini della costa. Gli oggetti che ancora nel XII secolo sembrano circolare in minore misura nel territorio lontano dalla costa sono quelli in lega di rame. In questo quadro si distingue, inoltre, il sito di S. Silvestro il cui carattere privilegiato risulta palese dall’immissione nell’uso di alcuni oggetti particolari decorati tramite punzonature e doratura superficiale (BELLI 1997-1998). Se si può con maggiore sicurezza ipotizzare che questi ultimi manufatti provengano da botteghe cittadine, rimane difficile capire se la città, in questo periodo accentrasse la produzione di tutti gli oggetti in bronzo, o se, le forme semplici, prive di trattamenti, potessero essere prodotte dalle maestranze attive sul territorio, il cui sapere tecnico non si limitava alla siderurgia, ma abbracciava anche altri campi, quale quello della bronzistica36.

4. Periodo IV (XIV secolo) Dopo la fase del tardo Duecento, durante la quale parte dell’area in precedenza abitata viene abbandonata o muta per definizione funzionale, dagli inizi del Trecento si attesta una nuova fase di ripresa della vita del castello, dovuta alla gestione urbana del sito, da parte del comune di Massa Marittima. I circa 690 reperti restituiti dal castello nella sua fase trecentesca (pari al 75% del totale del repertorio), rappresentano un corredo capace di fornire un quadro completo della cultura materiale del sito e dati rilevanti su cui basare un’ipotesi di caratterizzazione funzionale di alcuni degli spazi indagati. In via generale, si annota l’attestazione in questo periodo di alcuni attrezzi agricoli che provengono dall’area del borgo e dall’area artigianale di nuova realizzazione. Si tratta di due falcetti, di due roncole (Fig. 3, nn. 18-19) e di uno strumento a tre denti, funzionale quale zappasarchiatoio (Fig. 3, n. 23). La sporadicità degli oggetti riferibili ai lavori agricoli, tuttavia, dà ragione della relativa marginalità delle attività legate alla coltivazione dei campi. L'insediamento, dunque, forse nuova residenza di artigiani e cittadini provenienti da Massa, mantiene in ogni caso un certo ruolo quale sito minerario. A livello dei manufatti in metallo, la continuità funzionale delle attività minerarie è attestata dal ritrovamento, nell’area sommitale del castello (attività 168), di un piccone da minatore (Fig. 3, n. 17). L’oggetto, integro ed in ottimo stato di conservazione, rappresenta un importante indicatore archeologico dell’attività di estrazione mineraria nell’ambito della Toscana meridionale del bassomedioevo37. Oltre agli strumenti da lavoro, anche artigianali, nella fase trecentesca si nota un radicale cambiamento del corredo delle armi, fra le quali si riscontrano nuove tipologie sia fra le cuspidi per armi da tiro, sia per l’attestazione di armi da getto, come la punta di giannetta (Fig. 3, n. 6), per uso venatorio, nonché di armi da taglio, quali la daga (Fig. 3, n. 8) e di elementi di armatura in piastra (Fig. 3, n. 7). L’area sommitale restituisce un gran numero di reperti, pari circa al 34% del totale delle attestazioni riferibili al periodo. I pochi strati di vita della torre (attività 13 e 14) che restituiscono manufatti metallici e gli strati di abbandono (attività 21 e 16), sempre relativi all’area interna alla torre, restituiscono in gran parte elementi legati alle strutture edilizie. Oltre il 60% di questi reperti è rappresentato da chiodi, in gran parte provenienti dagli strati di crollo degli elementi di copertura. L’area adiacente alla torre, nella quale in questo periodo si attesta la costruzione di un piccolo ambiente addossato al muro di cinta (attività 158, 180), restituisce una percentuale abbastanza elevata di cuspidi di freccia. Si tratta di tredici esemplari, che, pur riferendosi a tipologie morfologiche diverse, si associano perlopiù ad un uso su frecce da balestra. Si tratta dei veri e propri verrettoni

34 Gli oggetti in lega di rame riferibili al XIII, restituiti dai nostri contesti, trovano stretti confronti con un ambito territoriale molto vasto. Alcuni tipi, come le guide da laccio (DEMIANS D’ARCHIMBAUD 1980 (Rougiers – Francia) si rifanno a morfologie che sono identiche in Italia, in Francia, in Germania, in Inghilterra. Ciò significa che la produzione di questi oggetti è ipotizzabile che si situi nel luogo privilegiato degli scambi, delle relazioni sociali e dei consumi, che è quello urbano. 35 Infatti, anche se non possediamo dati sufficienti a confermare questa ipotesi, il caso di S. Silvestro dove si coglie il progressivo abbandono prima della pratica della riduzione del minerale di ferro e, in seguito, nel corso della I metà del XIII secolo, della forgia, rappresenta l’esempio emblematico di una tendenza che conduce ad accorpare in centri di produzione specializzata sia le pratiche metallurgiche, sia metallotecniche riferibili alla produzione di ferrosi (BELLI 2000). 36 I fabbri pisani non si limitavano alla lavorazione del ferro, ma operavano su tutti i metalli non preziosi. Ciò è testimoniato anche dall’intestazione del loro statuto che prevedeva la soggezione all’Arte

anche dei caldularii, degli stagnatarii e dei metallarii in genere. Vedi FARINELLI, FRANCOVICH 1994, p. 450. 37 Per un confronto con materiale proveniente dall’area di Massa Marittima, vedi PESTELLI 1992-1993, pp. 80-93.

130

dell’edificio in questione hanno restituito materiali databili alla fine del XIV secolo, nonché numerose monete (si veda infra, contributo CICALI). Le medesime stratigrafie hanno restituito un fornito insieme di manufatti in ferro comprendente coltelli, un martello tipo cacciachiodo (Fig. 3, n. 12), strumenti riferibili al lavoro artigianale, un falcetto, uno strumento a tre denti, tre cuspidi di freccia ed una punta di lancia, una lucerna interamente conservata (Fig. 3, n. 22), tre chiavi, una serratura, una fibbia, una borchia e tre ferri di cavallo, insieme a numerosi chiodi, a ganci a cerniera ed alcuni frammenti di placchette, un anello di catena. Il carattere del ritrovamento, contraddistinto dall’alta percentuale di strumenti d’uso sia artigianale-domestico sia agricolo, potrebbe confermare la funzione di magazzino dell’ambiente in questione. Inoltre, il ritrovamento di alcuni chiodi di medie dimensioni, di ganci a cerniera di medio-piccole dimensioni, di una borchia con testa a calotta, di una chiave forata di piccole dimensioni, di una serratura e di un boncinello, porta ad ipotizzare la presenza di un cassone in legno nel quale si conservavano gli oggetti precedentemente descritti. Ma particolarmente interessante risulta il gruppo dei reperti restituiti dai livelli di abbandono di tutta l’area abitativa addossata al muro di cinta (attività 46, 47, 48, 54) nel quale si riscontrano tipologie morfologiche riferibili a disparate funzioni. Fra le armi spicca l’alta concentrazione di placchette da armatura di medie e piccole dimensioni, probabilmente riferibili ad un'unica corazzina (SCALINI 2004).

(Fig. 3, n. 5). I verrettoni, a Rocchette, tuttavia, anche nel XIV secolo sono presenti solo in forma sporadica (esclusivamente 7 esemplari) e sembrano non soppiantare mai del tutto la forma con strozzatura, che rimane la più attestata (Fig. 3, n. 4). Le restituzioni riguardanti l’area sommitale del castello si riferiscono inoltre a tipi più affusolati, con cuspide a sezione quadra, non distinta dalla gorbia, probabilmente associabili ad un uso con frecce da arco (Fig. 3, n. 3). La sporadicità di punte sicuramente riferibili alla balestra, nel corso del XIV secolo, conduce a legarne la provenienza ad attacchi militari esterni, documentati agli inizi del secolo (ALBERTI et alii 1997, p. 82) e ad escludere la presenza sulla rocca di un contingente di balestrieri; il che potrebbe far pensare ad un sostanziale allentamento del controllo sull’insediamento da parte della gestione comunale, dovuto probabilmente alla marginalità che oramai contraddistingue il sito di Rocchette nel rinnovato assetto economico ed amministrativo del territorio massetano. Per quanto riguarda altri reperti, l’area sommitale appare povera di restituzioni e pur continuando ad essere frequentata, tuttavia, nel corso del XIV secolo ha chiaramente perso il ruolo di zona signorile. Diversamente, l’area del borgo, in questo periodo, appare ricca di reperti metallici, provenienti per la maggior parte dalla casa nell’area 3000, e si individua una concentrazione meno ingente, ma pur tuttavia indicativa, nei livelli sia di vita sia di abbandono, di un edificio, impiantato sulla parte nord-est dell’area di scavo agli inizi del Trecento (attività 50, 51 e 52), funzionale probabilmente come cantina. Gli strati di abbandono

Figura 3: gli oggetti in ferro di Rocchette del XIV secolo (da BELLI 2003)

131

Il dato più evidente riguarda sicuramente l’aspetto militare. Dalla metà del XIII secolo, infatti, tutti i contesti rurali acquisiscono una forte caratterizzazione militare. In gran parte il fenomeno della militarizzazione degli insediamenti è dovuto all’inserimento in alcuni castelli di guarnigioni armate da parte della città di Pisa (CECCARELLI LEMUT 2004). Ma per quanto l’aspetto delle guarnigioni pisane sia quello che maggiormente spicca, la presenza dell’ambito militare riscontrabile su tutto il territorio costituisce la conferma materiale del carattere di instabilità politica e amministrativa attribuibile a questo periodo. La sfera militare è sicuramente quella che più assorbe il consumo di manufatti in ferro e, per questo, acquisisce maggiore visibilità rispetto ad altre funzioni, che comunque in questo periodo attraversano una fase di indiscussa crescita. Si coglie una generalizzata articolazione dei consumi e specializzazione delle funzioni. La forte articolazione tipologica interessa la complessità delle categorie funzionali e, in maggior misura caratterizza la sfera militare, la sfera domestica e gli oggetti accessori dell’abbigliamento. Trattiamo ora più da vicino ciò che interessa il sito di Rocchette e concentriamoci dunque sull’aspetto militare e su quello domestico. All’interno del repertorio toscano delle armi si coglie sia una evoluzione cronologica dei tipi, sia una differenziazione dei contesti. Le armi usate nel corso della seconda metà del XIII secolo sono costituite da esemplari da tiro ed armature in piastra. Fra le armi da tiro è più frequentemente attestato l’uso dell’arco. Si nota l’introduzione, fra le cuspidi di freccia da arco, di forme innovative, caratterizzate dalla separazione della punta dal corpo centrale dell’oggetto e dalla parte terminale della gorbia. Questa innovazione va di pari passo con l’evoluzione complessiva dell’armamento e della difesa del corpo per la quale si introducono, proprio in questo periodo, le prime armature a piastra. A tale evoluzione si lega, ovviamente anche l’introduzione nell’uso comune della balestra. Le numerose cuspidi di freccia sono riferibili a balestre portatili, mentre più raro sembra l’uso di balestre da postazione, riscontrabile, per la prima metà del XIII secolo, esclusivamente a Rocchette. Rocchette e S. Silvestro, rappresentano i siti con maggior presenza di armi nella metà del XIII secolo. Nel XIV secolo si assiste ad una netta evoluzione che si traduce in crescita quantitativa, in sviluppo tecnologico dei tipi e in un rinnovato assetto distributivo delle attestazioni sul territorio. L’influsso dell’espansione militare della città di Pisa nell’area della costa, ma anche quello del centro urbano di Massa Marittima nel cuore delle Colline Metallifere e quello di Siena nella parte più interna del nostro territorio, costituiscono il trait d’union del rinnovamento individuabile nell’ambito militare del XIV secolo. Il primo dato di spicco è costituito dalla disomogeneità delle restituzioni di nuove forme fra cuspidi da arco e da balestra. La balestra acquisisce sempre più importanza. Ma se per l’arco si continuano ad usare i tipi introdotti nel XIII secolo, per la balestra i tipi di cuspide introdotti sono caratterizzati da forme massicce, efficaci per la loro forza

Per quanto riguarda l’area artigianale 5000, il corredo metallico restituito è scarno (circa 6% del totale delle restituzioni). Analizzando, tuttavia, i dati percentuali per categoria funzionale, si nota che oltre alla categoria dei chiodi spicca l’alta presenza degli strumenti artigianali (16% sul totale delle restituzioni dell’area), che porta a confermare la funzione dell’area. L’esiguità dei reperti in metallo restituiti dall’area di nuova realizzazione (area 1000) non permette di ipotizzare alcuna suddivisione funzionale degli spazi. La gran parte dei ritrovamenti comprende oggetti abbinabili alle strutture. Negli ambienti posti a ridosso della dolina la maggior parte dei ritrovamenti è rappresentata da oggetti riferibili al cavallo e al mulo, oltre a qualche strumento domestico fra cui si sottolinea la presenza di un colino quasi interamente conservato (Fig. 3, n. 21). Per quanto riguarda gli altri due edifici non si notano dati distributivi di rilievo, oltre al fatto che da un ambiente provengono due oggetti di grandi dimensioni: una roncola (Fig. 3, n. 19) e la daga. La netta differenziazione funzionale di questi oggetti porta a pensare che la loro giacitura sia dovuta probabilmente ad una volontà di immagazzinamento, così come potrebbero confermare anche le grandi dimensioni dei manufatti. Ragionando a livello regionale, la metà del XIII secolo rappresenta indubbiamente un punto di rilievo nell’andamento del consumo di manufatti in metallo. Da questo periodo, infatti, il metallo entra a pieno nella vita e nelle attività lavorative sia in campagna, sia in città. Da questo periodo e progressivamente nel secolo successivo l’uso del metallo invade la complessità delle sfere funzionali sostituendo in molti ambiti l’uso di altri materiali. La seconda metà del XIII secolo rappresenta inoltre un periodo denso di innovazioni anche sul piano metallurgico. Cominciano, infatti, a sorgere, nel territorio della Val di Merse, fra Siena e Massa Marittima, alcuni impianti di lavorazione del ferro che impiegano energia idraulica (CORTESE 1997). Questa nuova tecnologia, che nel corso del XIV secolo si allargò a più aree della Toscana meridionale, provocò un aumento della produttività e, di conseguenza la riduzione dei costi di produzione, fenomeni dai quali derivò una maggiore circolazione di manufatti, semilavorati e minerale, favorita anche dalla perdita del monopolio pisano sulle risorse minerarie dell’Isola d’Elba. Il fenomeno condusse alla liberalizzazione del commercio di minerale grezzo e alla scomparsa della lavorazione del ferro sulla costa maremmana. Gran parte degli avvenimenti appena descritti sono resi visibili dal processo evolutivo che si coglie negli ambiti di consumo riferibili a questo periodo, a cui si data circa l’80% dei reperti analizzati. Questa visibile crescita delle attestazioni rappresenta chiaramente il primo indicatore di un cambiamento che simultaneamente interessa sia la domanda, sia l’offerta e che arriva a conclusione solo nel corso del XIV secolo. Tale sviluppo interessa, come abbiamo visto, anche il repertorio di Rocchette. Cerchiamo, dunque, di mettere in risalto gli aspetti peculiari del corredo del nostro castello in questo periodo alla luce del panorama generale della Toscana meridionale.

132

Lo spazio della casa non si limita alla sfera della cucina, ma ospita al suo interno attività artigianali di base quali la lavorazione dei filati e del legno40. Sintetizzando, anche per questo periodo, dunque, il dato materiale si propone come lo specchio di una società dinamica, legata ad un modello che trova origine nel piano medioevo, ma che già si intuisce proiettata verso l’evoluzione rinascimentale. Ma il dato che più interessa sottolineare di questo periodo è che gli aspetti innovativi arrivano nelle campagne con il tramite della città. Tali aspetti danno ragione di un rinnovato modo di produrre legato alla richiesta della società urbana che riacquista, progressivamente e definitivamente fra Duecento e Trecento, un ruolo centrale sul territorio. La standardizzazione delle forme evidenziabile su alcune categorie di oggetti e databile soprattutto al XIV secolo rappresenta l’indicatore di un nuovo modo di produzione sia per le leghe di rame sia per il ferro, costituito da una probabile riduzione delle officine che attuano una lavorazione in serie, producendo un alto quantitativo di prodotti. Questo tipo di organizzazione prevede inoltre probabilmente anche la progressiva specializzazione delle produzioni, dato, fra l’altro evidenziabile anche dalla documentazione scritta riferibile ai centri urbani, nei quali in questo periodo si attesta una ampia articolazione del lavoro artigianale anche in riferimento ai manufatti in metallo. E’ difficile definire quanti di questi oggetti in ferro provenissero da botteghe specializzate, che oltre a rifornire le città smerciavano sul territorio, è comunque ipotizzabile che in gran parte la fase metallurgica di produzione degli oggetti fosse ancora ampiamente distribuita sul territorio rurale, e forse fosse anche incentivata dalla rinnovata articolazione dei commerci di semilavorato ferroso, prodotti dai centri più specializzati.

d’urto e dunque funzionali ad un utilizzo associato alle armature in piastra, ormai comunemente utilizzate. In generale per le armi si può riassumere che le forme di nuova concezione si concentrano soprattutto nei siti interessati dallo stabilimento di una guarnigione militare da parte della città di Pisa. D’altra parte, sia il quantitativo di questi pezzi, sia l’elevato grado di standardizzazione su di essi individuabile si pongono come indicatori di una produzione in serie, effettuata da botteghe specializzate, probabilmente localizzate in ambito urbano: circuiti dai quali il castello di Rocchette Pannocchieschi sembra escluso. In relazione allo strumentario domestico gli oggetti provenienti dalle case dei contesti rurali e anche i molteplici oggetti che alla fine del XIV secolo sono gettati nelle discariche degli abitati riescono a darci un’idea di quello che poteva essere il consumo di manufatti in metallo. Partendo dagli elementi strutturali si nota il comune utilizzo di sistemi di chiusura delle porte con serratura. L’arredo interno delle abitazioni, che anche le fonti scritte ci descrivono come essenziale, comprendeva comunque alcuni pezzi di base costituiti probabilmente da casse di varie dimensioni, e si può supporre il comune utilizzo di ganci, catene ed altri elementi di sospensione alle pareti. Alcuni elementi in metallo correlavano il focolare. L’attestazione di alcuni raschietti rimanda all’attività di ripulitura dalle farine, tuttavia non necessariamente indica la presenza di mobili del tipo della madia. L’illuminazione delle case prevedeva raramente la presenza di lucerne o di portacandele sia del tipo della bugia sia del tipo più semplice del portacandele da innesto. Per quanto più da vicino interessa la cucina, i dati archeologici provenienti dal nostro territorio propongono un quadro dei consumi di oggetti in metallo abbastanza scarno rispetto a quello prospettato dalla documentazione scritta38 e d’altra parte, però sufficientemente articolato rispetto a quello riferibile alle epoche precedenti. I coltelli continuano ad essere gli oggetti più comunemente utilizzati. Oltre ai coltelli la documentazione archeologica attesta solo in rari casi l’uso di mestoli e colini in ferro, che completavano il quadro riferibile alla preparazione dei cibi. L’altro dato, che infatti proviene dal nostro repertorio riguarda la quasi totale assenza di oggetti contenitori, che porta ad ipotizzare che dove possibile l’uso del metallo fosse in gran parte sostituito dall’utilizzo di materiali meno costosi, quali la ceramica e il legno39, il che rappresenterebbe indirettamente una conferma del valore che ancora nel XIV secolo si attribuisce agli oggetti in metallo. 38 La differenza edivenziabile fra dimore contadine e dimore signorili, o fra corredi rurali e corredi urbani, non consiste tanto nella quantità e nel tipo degli oggetti e degli strumenti posseduti, quanto dal loro stato di conservazione. La documentazione scritta riferibile agli inventari dei beni, alle donazioni e ai lasciti testamentari, forse in quanto spesso cronologicamente più tarda rispetto al periodo da noi preso in esame, da ragione di un corredo funzionalmente articolato, per quanto costituito da manufatti ormai logori, se non vecchi, gattivi e rotti. 39 Riguardo all’uso delle stoviglie metalliche nel bassomedioevo esiste una vasta bibliografia documentaria ed iconografica, alla quale tuttavia fa da controparte l’esiguità del materiale archeologico (AMICI 1997).

40 I dati provenienti da Rocca S. Silvestro, costituiscono il campione più rappresentativo sul piano dell’analisi distributiva degli oggetti nello spazio interno di un insediamento. Nelle case si evidenzia una dispersione di manufatti quali trapani, scalpelli, punteruoli, martelli cacciachiodo, indicativa dello svolgimento di attività generiche, probabilmente funzionali al riassetto di cui gli oggetti quotidianamente utilizzati abbisognavano (BELLI 1997-1998).

133

Solo un denaro lucchese della seconda metà del XII secolo è rappresentativo del periodo della signoria Pannocchieschi e appena due nominali sono ascrivibili alla seconda metà del Duecento: si tratta in tutti e due i casi di denari piccoli coniati rispettivamente dall’autorità comunale di Arezzo poco dopo la metà del Duecento e dalla zecca di Manfredonia tra il 1255 e il 1266. La quasi totalità del circolante è rappresentata dalla moneta in mistura fiorentina (24 pezzi), riconducibile alle emissioni che vanno dal primo quarto alla fine del Trecento, di cui, eccetto tre quattrini, la presenza più cospicua è quella dei fiorini piccoli. Seguono i denari di Pisa a nome di Federico II emessi in seguito all’ordinanza del 1317-1318 (9 pezzi), quelli di Lucca (un denaro ‘castruccino’ e due aquilini piccoli) ed un quattrino emesso dalla zecca di Siena alla metà del XIV secolo (Fig. 2).

3.4 I reperti monetali: tipologie e analisi della circolazione monetaria Cristina Cicali Le campagne di scavo condotte nel castello di Rocchette hanno restituito 42 reperti monetali in mediocre stato di conservazione salvo alcune eccezioni; si tratta esclusivamente di moneta piccola medievale in mistura, rinvenuta durante il normale lavoro a trowel (CICALI 1997, p. 82). In tutti i casi le monete sono riferibili quasi esclusivamente alle fasi di frequentazione e di abbandono di epoca trecentesca. Lo scavo, infatti, ha restituito prevalentemente monete che ricoprono un arco di tempo che va dagli inizi del XIV secolo al 1371, cronologie ovviamente riferibili alle date di emissione dei nominali. Quasi tutte le monete rinvenute a Rocchette provengono da zecche Toscane, fatta eccezione per un quartaro di Genova antecedente al 1339, un denaro a nome del Re Manfredi coniato a Manfredonia tra il 1255 e il 1266 e due denari di Perugia della metà del XIV secolo (Fig. 1)41.

1150-1200 1200-1250 1250-1300 1300-1350 Lucca

1

3 8

Pisa Siena

1

1

Perugia

2

Firenze

26

Manfredonia

1 1

Genova Arezzo

2

1

Fig. 2: distribuzione cronologica delle 47 monete rinvenute a Rocchette Pannocchieschi

1. Dalle fasi altomedievali (VIII-X secolo) al castello signorile (XI-XII secolo) Questa prima sezione attinente le fasi insediative più antiche del castello di Rocchette ci consente solamente di riportare il trend negativo relativamente alla circolazione monetaria altomedievale, sottolineando la totale mancanza di numerario nelle prime fasi di vita del villaggio (VIII-X secolo)42. Nonostante Rocchette si configuri come un villaggio, la sua collocazione, all’interno di un’area a spiccata vocazione mineraria, ha sicuramente favorito l’inserimento dell’insediamento nei percorsi commerciali dell’entroterra e costieri, tanto da far giungere a Rocchette alcuni contenitori ceramici con decori in vetrina (“vetrina sparsa”) e vetri di importazione. Gli abitanti di Rocchette acquistavano, dunque, merci da più aree produttive, ma questa economia di tipo apparentemente aperto non contemplava l’uso di moneta,

Fig.1: le zecche di provenienza dei nominali

41 Nel comprensorio delle Colline Metallifere denari di Perugia sono stati rinvenuti oltre che a Rocchette anche a Rocca S. Silvestro (CICALI 2005), a Montemassi e a Castel di Pietra. Solo per fare altri esempi di ritrovamenti di moneta perugina fuori dal territorio umbro si veda AMANTE SIMONI 1986, p. 244, chiesa di S. Vito presso Calci - Pisa), FINETTI 1987a, (Ripostiglio di “Fontana Antica”, Tarquinia) BALDASSARRI 2000a, p. 268 (scavi di Montecatini, Pistoia), BALDASSARRI 2005, p. 343 e p. 350 (Monastero di S. Michele alla Verruca –PI), Poggio Imperiale a Poggibonsi.

42

Solo in via preliminare, poiché ancora oggetto di studio all’interno del dottorato di ricerca di chi scrive, possiamo riportare come su un totale di 5 siti incastellati rurali con fasi altomedievali (castelli di Montemassi, Miranduolo, Cugnano, Donoratico e Rocchette), solo in un caso (a Donoratico) è da rilevare la presenza di un ottolino pavese della seconda metà del X secolo. Sul tema delle dinamiche monetarie e circolatorie, ROVELLI 1990; ROVELLI 1994, p. 524 e 526; BARELLO 1999, p. 444; ARSLAN 2001, p. 242; DEGASPERI 2003, p. 559; ROVELLI 2010, p.163170.

134

almeno non per le transazioni interne al villaggio. Evidentemente, proprio per il tipo di monetazione in uso tra VIII e XI secolo e cioè il buon denaro d’argento, era sufficiente avere poche monete da conservare gelosamente ed utilizzare al momento del bisogno per acquisti di una certa entità come vasellame, vetro e, forse, attrezzi in metallo. Se da un lato l’altomedioevo di Rocchette è avaro di testimonianze monetarie, dall’altro ciò che stupisce ancora di più è la pressoché totale assenza di numerario anche per l’XI e il XII secolo che, oltre a rappresentare per l’insediamento un periodo di forte ridefinizioni urbanistica e di ampliamento degli spazi già esistenti (si veda supra contributo Fichera, Grassi), costituisce anche il momento del dominio del denaro lucchese nei mercati e nei centri rurali fino almeno alla prima metà del XIII secolo43. La presenza di circolante, inoltre, avrebbe sicuramente aiutato a definire meglio la gestione della risorsa mineraria sotto i Pannocchieschi e i modi di approvvigionamento e di commercializzazione della stessa, dati questi che si sarebbero aggiunti agli indicatori puramente metallurgici. L’unico esemplare rinvenuto nel castello (area del borgo, us 3085, attività 48) e riferibile alla seconda metà del XII secolo è un denaro lucchese a nome di Enrico III-IV-V di Franconia: per la forma del tondello, del monogramma dell’imperatore, nonché per il valore ponderale, la moneta sembrerebbe riferibile ai consueti nominali lucchesi emessi nella seconda metà del XII secolo44; il condizionale è d’obbligo dal momento che la moneta presenta nel campo del rovescio, internamente alla C di LVCA un piccolo tratto perpendicolare al corpo della lettera stessa, decisamente inconsueto. Come abbiamo già avuto modo di esporre in precedenti lavori45,questa piccola ma significativa variante, individuata sul lucchese, pone alcuni interessanti interrogativi, primo fra tutti quello se si tratti di un errore di conio o piuttosto di un “tipo” monetale nuovo. Denari lucchesi con la stessa variante sono stati rinvenuti a Montemassi (9 esemplari), Poggibonsi, (4 esemplari), Miranduolo (2 esemplari) e a Rocchette Pannocchieschi, appunto, con un solo esemplare (Fig. 3). Questi denari, oggetto di un prossimo studio più dettagliato ed esaustivo, non presentano mai, comunque, né identità d’impronta né tracce di ribattitura o salto di conio, il che suggerisce che si tratti più del frutto di una produzione di zecca, programmata e forse anche prolungata nel tempo, piuttosto che di un errore di conio46.

Fig. 3: localizzazione dei rinvenimenti dei denari di tipo enriciano con “trattino” Come già osservato per i primi due esemplari di questo tipo individuati e provenienti da collezione privata (CICALI 2005, pp. 93-94), anche nel “lucchese” rinvenuto a Rocchette Pannocchieschi la percezione visiva che si ha, guardando il campo del rovescio e leggendo il nome della città, è quella di vedere una T, chiara e delineata (Fig. 4) al posto della C che solitamente si trova a formare la parola LVCA in croce. Seguendo dunque in circolo, ed in senso orario, le lettere del campo del rovescio, sembra di poter leggere la parola VVLT, Volterra. La sollecitazione a questo tipo di lettura proviene anche dall’ipotesi che i primi denari volterrani, fino ad oggi conosciuti solo dal punto di vista documentario, siano da ricercarsi proprio tra i denari di tipo “enriciano”, coniati dal terzo quarto del XII secolo, ipotesi sostenuta ormai da molti studiosi47. Una interpretazione simile era già stata proposta nel 1982 dal Winselman-Falghera, il quale, tra alcuni denari toscani del XII secolo acquistati sul mercato antiquario, aveva individuato un lucchese attribuibile con probabilità alla zecca di Volterra (WINSELMAN FALGHERA 1982, p. 126). Potrebbe dunque trattarsi, anche per l’esemplare di Rocchette, di uno dei primi denari volterrani? Ad avvalorare e confortare sull’attribuzione cronologica alla seconda metà del XII secolo abbiamo, purtroppo, solo il dato strettamente stilistico, visto che la natura della stratificazione archeologica ci indirizza verso la residualità del nominale; tuttavia gli aspetti grafici, morfologici e ponderali ci consentono di collocare il lucchese di Rocchette nel Gruppo H5 a e b della

43 Per un attento studio sulla monetazione lucchese e per una prima seriazione tipologica e ponderale, si veda MATZKE 1993. 44 Tipo H 4 a e b MATZKE 1993, pp. 165-169, tav. III nn. 47-49 e tipo H5 a e b, MATZKE 1993, pp. 174-175, tav. IV nn. 53-55. Il peso dell’esemplare rinvenuto a Rocchette è di g. 0,69 ed il suo diametro è 15 mm. 45 Sul tipo monetale e sulle prime possibili interpretazioni si veda CICALI 2005, pp. 93-94 e CICALI 2008, p. 406. 46 Sarà interessante a questo proposito verificare se, tra i denari editi ed inediti tradizionalmente attribuiti alla zecca di Lucca, ci siano esemplari con questo tipo di variante; è noto, infatti, come l’invariabilità e la poca leggibilità dei denari lucchesi cosiddetti “Enriciani” abbia più volte fuorviato gli studiosi, come gli stessi compilatori del Corpus

Nummorum Italicorum, nell’individuazione dei tipi, delle varianti se non addirittura nell’attribuzione alle zecche di produzione. 47 Sull’argomento si veda WINSELMAN FALGHERA 1982 pp. 125-127, VILLORESI 1992 p. 158, VILLORESI 1994, pp. 157-158, BALDASSARRI 2006, p. 163.

135

classificazione fatta da Matzke48, e conseguentemente, in virtù di queste coincidenze stilistiche, di avere un inquadramento cronologico piuttosto attendibile.

2. Il XIV secolo Il gruppo più consistente di monete che ha restituito lo scavo di Rocchette è costituito principalmente dai nominali trecenteschi ed in particolare dalla moneta fiorentina e pisana che, all’inizio del Trecento, rappresentavano i coni più forti in area volterrana. Anche la documentazione scritta descrive dettagliatamente gli aspetti monetari del territorio: solo per fare un esempio, proprio in una Provvisione del 1318 relativa alla valutazione delle monete che avevano corso in Volterra, e verosimilmente anche nel territorio circostante, si legge” [...]Et nullus de civitate Vult: vel alibi in civitate Vult: vel eius fortia debeat nec possit dare, expendere vel recipere aliquem denarium parve monete, nisi solum denarios florentinos, senenses e pisanos[...]” (LISINI 1909, p. 451). Dall’area 1000 (quartiere artigianale) provengono un fiorino picciolo ed un denaro pisano entrambi della prima metà del Trecento. Le monete sono state rinvenute nell’attività 71 del XIV secolo. Insieme alle associazioni ceramiche costituite da maiolica arcaica senese e volterrana, olle eseguite a mano e frammenti di testi, i reperti numismatici sembrano confermare appieno le datazioni proposte sia dalle relazioni stratigrafiche, sia dall’analisi dei reperti. Come abbiamo già brevemente esposto, le monete rinvenute, come anche la maggior parte degli altri reperti che lo scavo ha restituito, sono riferibili alle fasi trecentesche e soprattutto ai livelli di abbandono dell’area 3000, la zona abitativa del borgo. Molti dei materiali della seconda metà del Trecento provengono dallo strato di abbandono di un piccolo ambiente (US 3056, attività 54), probabilmente un magazzino, che oltre a numerosi reperti in ferro come coltelli, un falcetto, punte di lancia, una lucerna ed altro ancora, ha restituito ben 18 monete tutte trecentesche, che, per il loro pessimo stato di conservazione dovuto alla prolungata circolazione, confermano l’abbandono dell’ambiente alla fine del XIV, inizio XV secolo (Fig. 5). Si tratta di monete pressoché coeve, che coprono un cinquantennio come date di emissione. La sola eccezione è rappresentata da un denaro di Manfredonia che può considerarsi, forse, moneta residuale probabilmente ancora circolante nella prima metà del Trecento. Se osserviamo la forma del tondello sono ben visibili i tratti della tosatura dei bordi che determina la forma piuttosto anomala dell’esemplare (Fig. 6). Quella della tosatura era una pratica piuttosto frequente nel medioevo soprattutto durante il XIV secolo e non stupisce di trovare una grande quantità di monete (anche in ripostigli) che presentano questa caratteristica. Il mercato invaso comunque da moneta svilita e logora per la lunga circolazione accettava probabilmente anche pezzi più antichi, e di maggior valore, tosati e quindi alleggeriti artificialmente (FINETTI 1987b, p. 103).

Fig. 4: Denaro lucchese con “trattino” (US 3085) rinvenuto a Rocchette e restituzione grafica del rovescio Se da una parte dunque l’attribuzione dell’esemplare di Rocchette alle emissioni lucchesi della metà del XII secolo è certa, dall’altra rimane da sottolineare l’aspetto spaziale del rinvenimento, che, senza dubbio, fornisce degli elementi interessanti di riflessione. Sappiamo dalla documentazione d’archivio che il Vescovo di Volterra, il potente Ildebrandino Pannocchieschi, riceve il privilegio di battere moneta dall’Imperatore Enrico VI nel 1189, ma quasi certamente questo beneficio è solo l’atto formale che sancisce di fatto un’attività di coniazione precedente, svolta con ogni probabilità a Montieri (LISINI 1909, p. 256; WINSELMAN FALGHERA 1982, pp. 129-130, VILLORESI 1994; BRUTTINI, GRASSI 2010a). Se osserviamo la distribuzione dei rinvenimenti (si veda fig. 3) ci accorgiamo che, ad eccezione di Poggibonsi, i castelli di Rocchette, Montemassi e Miranduolo si collocano nel territorio delle Colline Metallifere molto vicino a Montieri, probabile officina monetaria del denaro volterrano; se dunque il denaro “vecchio” (WINSELMAN FALGHERA 1982, p. 126) di Volterra doveva presumibilmente circolare soprattutto nel territorio di emissione (LISINI 1909, p. 271), i rinvenimenti appena descritti sembrerebbero confermare certe dinamiche circolatorie. Non dobbiamo dimenticare, inoltre, l’influenza del Vescovo Pannocchieschi, al quale era stato concesso non solo lo sfruttamento delle miniere di piombo argentifero, ma addirittura di battere moneta propria: non stupisce dunque che proprio da Rocchette, di proprietà della famiglia Pannocchieschi, e dal territorio sotto il controllo del Vescovado provengano questi enriciani “pseudo volterrani”. 48 Sui caratteri peculiari del lucchese del gruppo H5a e b si veda MATZKE 1993, pp. 174-175, tav. IV nn. 53-55.

136

US 3056

ZECCA

CRONOLOGIA

NOMINALE SEGNI DI ZECCA

Manfredonia

1255-1266

denaro

Siena

1316-1371

Denaro piccolo

Pisa

1318-1350

Denaro piccolo

Pisa

1318-1350

Denaro piccolo

Pisa

1318-1350

Denaro piccolo

Perugia

1320-1350

Denaro piccolo

Firenze

1323-1326

Fiorino piccolo

Firenze

1323-1326

Fiorino piccolo

Firenze

1325-1400

Fiorino piccolo

Firenze

1325-1400

Fiorino piccolo

Staffa

Foglia di fico

Firenze

1325 I sem. Guccio di Totto da Uzzano

Fiorino piccolo

raggi

Firenze

1325-1400

Fiorino piccolo

Firenze

1325-1400

Fiorino piccolo

Firenze

1325-1400

Fiorino piccolo

Firenze

1325-1400

Fiorino piccolo

Firenze

1332-1335

quattrino

Firenze

Stella a sei

quattrino

luna mano

1334 Falcone di Ghero Baroncelli parte visibile Firenze

1371-1374

quattrino

Genova

1312 -1339

quartaro

Fig. 5: tabella riassuntiva delle associazioni numismatiche in US 3056

137

degli esemplari che le riportano con il mezzo grosso o grossetto da 6 denari coniato dal 1316 al 1318 che non solo mostra le stesse caratteristiche epigrafiche, ma presenta, appunto, le stesse rosette ai lati della S (Fig. 7).

Fig. 6: denaro di Manfredonia della seconda metà del XIII secolo (us 3056) Tra i 18 esemplari dell’US 3056 figura anche un quartaro di Genova, in mediocre stato di conservazione, come del resto mediocri sono le patine delle altre monete associate. La presenza di questo nominale, insieme al denaro di Manfredonia, evoca percorsi circolatori marittimi, che hanno veicolato fin nell’entroterra di Rocchette monete piuttosto inusuali nel panorama monetario del comprensorio analizzato. Probabilmente il quartaro genovese giunge fino a Rocchette attraverso le vie marittime che collegavano la Liguria con la costa tirrenica; da qui per mano di mercanti, attraverso le reti commerciali dell’entroterra, arrivavano anche a siti più interni49. Non è un caso che anche a Campiglia Marittima, collegabile a Rocchette per le evidenze minerarie, siano stati rinvenuti proprio due quartari di Genova. Questa moneta, a bassissimo potere liberatorio emessa nel primo quarto del XIV secolo50, è presente a Rocchette nella variante del terzo tipo, recante al dritto il grifone rampante a destra e la legenda QUARTARO e nel rovescio la croce patente con CVNRADVS in circolo, tutto senza corona: nonostante i repertori classici (DESIMONI 1874; DESIMONI 1877; CNI, III, 1912) riportino come data di coniazione il periodo 1313-1339, i rinvenimenti archeologici suggeriscono il protrarsi delle coniazioni verso il pieno Trecento: in molti contesti stratigrafici, infatti, i quartari si trovano in depositi di tardo XIV secolo se non addirittura del primo Quattrocento (BERTINO 1977, BALDASSARRI 2000b, p. 168). Le associazioni numismatiche presenti nell’US 3056, inoltre, consentono di apportare dati aggiuntivi sulle ipotesi, già proposte, in merito alla ridefinizione cronologica del denaro senese con le rosette (TODERI 1992), ritenuto dal CNI una delle emissioni di piccioli battuti in seguito all’ordinanza del 1279 (CNI, XI, p. 356, n. 68, tav. XXIII n. 8). In realtà questa moneta senese dovrebbe essere stata battuta in seguito alla delibera del 1285 e la sua emissione, in base all’elevato numero di segni di zecca riscontrato nei tipi conosciuti, dovette protrarsi quasi sicuramente fino al 1371 quando fu sostituito dal tipo successivo. Tra gli esemplari conosciuti, però, non tutti presentano le rosette accantonate alla S nel campo del dritto, in questo senso viene suggerita (TODERI 1992, p. 296) la contemporaneità

Fig. 7: denaro piccolo senese 1316 (?). Sul dritto in evidenza le parti leggibili del campo Nonostante l’esemplare rinvenuto a Rocchette Pannocchieschi sia in pessimo stato di conservazione, le parti leggibili della S retta e della rosetta di destra e l’associazione con 16 esemplari di pieno XIV secolo ci guidano nell’identificazione cronotipologica. Il dato strettamente archeologico, dunque, che indica un contesto omogeneo e ben inquadrato cronologicamente, sembra avvalorare le motivazioni iconografiche e quelle strettamente numismatiche che collocano il denaro senese nel pieno XIV secolo. In base al rinvenimento nella stessa unità stratigrafica di elementi metallici come chiodi, ganci a cerniera, una borchia con testa a calotta, una chiave forata, una serratura ed un boncinello si è potuto ipotizzare la presenza di un cassone ligneo atto a contenere gli attrezzi del magazzino: possiamo dedurre, da ciò, che anche le 18 monete possano far parte del contenuto del cassone o comunque di un contenitore all’interno dell’ambiente (BELLI 2003, p. 62). Una situazione non molto diversa sembra essere quella delle US 3163, 3164, 3165 (attività 52) che hanno restituito rispettivamente 3, 8 e 4 monete ciascuna, nominali inseriti dal secondo quarto alla fine del XIV secolo (Fig. 8). Le tre unità stratigrafiche, relative ad una abitazione del borgo, si riferiscono alla fase di abbandono dell’edificio, interpretata per la presenza di terra con una colorazione marrone scuro mista a numerosi frammenti organici, come il disfacimento di una pavimentazione lignea. La formazione del deposito stratigrafico, nonché l’omogeneità cronotipologica dei reperti numismatici, suggeriscono forse l’appartenenza delle monete ad un unico peculio, perduto e lasciato sulla pavimentazione, che, successivamente, la formazione del deposito archeologico ha restituito in tre unità stratigrafiche distinte.

49 Ad esempio nel XIV secolo a Rocchette si trovano alcuni frammenti ceramici di graffita arcaica ligure proveniente da Savona. 50 Per un’analisi cronotipologica aggiornata sulle varianti di quartari genovesi si veda JANIN 1983.

138

US 3163

US 3164

ZECCA

CRONOLOGIA

NOMINALE

Arezzo

Prima metà XIV sec.

Denaro

Pisa Lucca ZECCA

1318-1350 1342-1369 CRONOLOGIA

Denaro piccolo Aquilino picciolo NOMINALE

Pisa Pisa Firenze

1318-1350 1318-1350 1323-1326 1324 Cenne di Nardo

Denaro piccolo Denaro piccolo Fiorino piccolo Fiorino piccolo

Firenze

US 3165

SEGNI DI ZECCA

ampolla

Firenze

1324 Cenne di Nardo

Fiorino piccolo

Firenze Firenze

1325-1400 1325-1400

Fiorino piccolo Fiorino piccolo

Firenze

1330 II semestre Lotterio di Chito

Fiorino piccolo

ZECCA

CRONOLOGIA

NOMINALE

Lucca

1316-1328

Castruccino

Firenze

1325-1400

Fiorino piccolo

Firenze Lucca

SEGNI DI ZECCA

ampolla

falcetto SEGNI DI ZECCA

1329 II semestre Falcone di Ghero Fiorino piccolo Baroncelli 1342-1369 Aquilino picciolo

staffa

chiave

Fig. 8: tabella riassuntiva delle associazioni numismatiche relative alle US 3163, 3164, 3165

XIV secolo

Certo, dal momento che l’abbandono di Rocchette sembra essere stato pianificato nel tempo, senza eventi improvvisi che abbiano determinato la fuga della popolazione, rimane dubbia la motivazione che ha portato i frequentatori dell’edificio a lasciare pur sempre 15 monete piccole ancora circolanti e quindi spendibili. Nonostante che il Trecento veda l’aumento della disponibilità monetaria pro capite, il rinvenimento di una buona quantità di moneta piccola, che, ricordiamo, rappresenta solo una piccola percentuale, quella smarrita, del circolante effettivo, può essere giustificato non solo relativamente alle attività di compravendita quotidiane, ma anche alla necessità di moneta che l’attività metallurgica, anche se ridotta, presupponeva (Fig. 9). L’approvvigionamento della risorsa mineraria, inoltre, esigeva non solo strutture e mezzi, ma anche lavoratori specializzati che verosimilmente avranno percepito un salario erogato, appunto in divisionale minuto.

Pisa

Lucca Arezzo Siena Genova Perugia

Fig. 9: riepilogo delle zecche di provenienza dei nominali del XIV secolo

139

3.5 I reperti osteologici animali Frank Salvadori Introduzione Sono passati ormai cinque anni da quando è terminata l’indagine archeozoologica con la stesura del report che ne sintetizza i risultati. Nonostante ciò, l’impalcatura complessiva, nonché molte delle idee e delle suggestioni emersi allora rimangono validi, anche se certamente la ricerca è proseguita in tutti questi anni e talune tipologie di dati non sono debitamente aggiornate. La decisione più sensata, quindi, è parsa quella di mantenere sostanzialmente invariato il contributo. Rispetto alla prima stesura sono stati semplicemente aggiunti alcuni titoli nell’apparato bibliografico, allora ancora in corso di stampa, che possono in qualche modo risultare di riferimento ed essere utili ai lettori e agli appassionati di faune medievali. L’analisi dei resti osteologici animali ha interessato unicamente l’area sommitale dell’insediamento dove è stata individuata una sequenza insediativa databile tra l’VIII secolo e gli inizi del XV secolo. Lungo questo arco temporale, una serie di ristrutturazioni topografiche ed architettoniche testimoniano un centro demico in continua evoluzione. La ricerca archeologica ha suddiviso tale diacronia insediativa in quattro periodi e, conseguentemente, l’intero campione archeozoologico recuperato nel deposito archeologico è stato suddiviso in altrettanti insiemi (Fig. 1). I sottoinsiemi osteologici così ottenuti presentano consistenze numeriche disomogenee, dalle quali emerge la netta predominanza, con oltre il 50% dei reperti studiati, del campione riferibile al deposito più antico (periodo I). Riguardo a questo periodo, oltre alla separazione dei resti ossei tra le due principali fasi insediative, le quali si riferiscono ad altrettante variazioni strutturali succedutesi tra l’VIII ed il X secolo, denominate fasi 1-2, relative al villaggio di capanne di VIII-IX secolo, e fasi 3-4, attinenti al primo importante riassetto urbanistico della porzione sommitale, occorso nel X secolo, è stato necessario operare un ulteriore frazionamento del campione osteologico. In pratica è stato definito un insieme rappresentato con il termine di periodo 1 fasi 12/3, in quanto alcuni strati accumulati nel corso del X secolo, quindi in periodo 1 fase 3, sono in realtà livelli più antichi, quindi di periodo 1 fase 1-2, asportati dalla loro collocazione originaria. Questa scelta è stata necessaria per verificare l’esistenza di eventuali differenze tra questo campione e quello sicuramente attribuibile al X secolo (fase 3-4), ricollegabili a differenti strategie di utilizzo delle faune. Essendo il campione più antico di VIII-IX secolo (fase 1-2) contraddistinto da soli 27 frammenti, dei quali solamente 3 sono risultati determinabili tassonomicamente, tale operazione è stata necessaria per individuare elementi di contiguità o discontinuità tra le prime fasi di frequentazione del villaggio e quella immediatamente successiva.

Periodi

Fasi

Cronologia

1

1-2

VIII-IX secolo

27

1

1

3-4

X secolo

742

27

1

1-2/3

VIII-X secolo XI secolo

739 597

27 22

3

XII-XIII secolo

276

10

4

XIV-I° quarto XV secolo

360

13

2

Numero resti %

Fig. 1: numero di resti analizzati suddivisi per Periodi I frammenti analizzati sono in totale 2.741, dei quali 2.394 sono stati determinati a diverso livello tassonomico (dal generico vertebrato sino alla specie, tabella 2), mentre 347 non sono stati determinati. Il panorama faunistico si compone di 7 ordini, 11 famiglie, 15 generi e 16 specie, catalogate in 26 categorie appartenenti alla classe dei mammiferi, degli uccelli e dei rettili. Più nel dettaglio, 1.158 frammenti sono stati identificati a livello specifico di genere o specie (includendo anche i generici capriovini), quasi tutti relativi a mammiferi, essendo il 97% attribuibile a questa classe, mentre solo il 3% appartiene ad altre due classi. Si tratta di animali domestici e selvatici, attraverso i quali è possibile cogliere taluni aspetti relativi alle interazioni instauratesi tra una piccola comunità rurale, quale doveva essere quella di Rocchette, e la popolazione animale, nei secoli compresi tra l’età carolingia ed il tardomedioevo. Bovini, ovicaprini, maiali, cavalli, asini sino agli animali da compagnia, quali il gatto ed il cane, rinvenuti nelle stratigrafie archeologiche (Fig. 2), evidenziano un rapporto strutturato e complesso tra le faune e la comunità antropica, non riducibile al solo cieco impiego degli animali a fini economici ed alimetari. Ciononostante, la superiorità di resti dei tre principali gruppi di domestici (bovini, ovicaprini e maiali), accertata dall’89% dei frammenti determinati, risalta soprattutto questa finalità. Allo stesso modo, i resti di selvatici, rappresentati in gran parte da cervidi, suidi e lagomorfi, sono riconducibili ad un uso quasi esclusivo per l’alimentazione, confermato dalla bassa incidenza, tra i cervidi, dei resti di corno (solamente 5 frammenti, pari al 9%), il cui rinvenimento è spesso ricollegabile ad attività artigianali piuttosto che venatorie. Accanto a questi animali si ritrovano due sole altre specie silvestri: il tasso ed il riccio. La presenza di questi ultimi, almeno in quattro casi su cinque, è più verosimilmente riconducibile ad intrusioni, essendo stati rinvenuti nei livelli di abbandono del villaggio; un unico caso, invece, relativo ad una mandibola di tasso ritrovata in livelli di X secolo, è certamente riferibile ad un esemplare coevo allo strato di ritrovamento.

140

Ordine

Famiglia

PERISSODATTILI

Equidi

ARTIODATTILI

Bovidi

Taxon

Nome scientifico

Asino

Equus asinus (L., 1758)

Cavallo

Equus caballus (L., 1758)

Bue

Bos taurus (L., 1758)

Capra

Capra hircus (L., 1758)

4

Pecora

Ovis aries (L., 1758)

41

Capra-Pecora Suidi

Cervidi

LAGOMORFI DIGITIGRADI

Leporidi

N° framm. 2 2 105

298

Maiale

Sus domesticus (Erxleben, 1777)

593

Cinghiale

Sus scrofa (L., 1758)

13

Cinghiale-Maiale

Sus sp.

1

Capriolo

Capreolus capreolus (L., 1758)

20

Cervo

Cervus elaphus (L., 1758)

34

Daino

Dama dama (L., 1758)

1

Lepre

Lepus sp.

3 2

Mustelidi

Tasso

Meles meles (L., 1758)

Felidi

Gatto domestico

Felis catus (L., 1758)

1

Canidi

Cane

Canis familiaris (L., 1758)

5

INSETTIVORI

Erinacidi

Riccio

Erinaceus europaeus (L., 1758)

3

TESTUDINATI

Testudini

Tartaruga

Testudo sp.

12

Tartaruga di hermann

Testudo hermanni (Gmelin, 1789)

1

Gallus gallus (L., 1758)

GALLIFORMI

Fasianidi

Gallo domestico

NON IDENTIFICABILE

Non identificabile

Medio vertebrato

17 590

Piccolo vertebrato

47

Grande Ungulato

129

Piccolo Ungulato

457

Avifauna

13

Non identificabile

347

Fig. 2: i taxon riconosciuti nel deposito archeologico del castello (VIII - I° quarto XV secolo) dal precisare i sistemi adottati nel corso dell’esame di laboratorio dei reperti osteologici, sia per quanto concerne i criteri di anatomia comparata, e conseguente determinazione tassonomica, sia e soprattutto per i manuali e le collezioni di riferimento a cui si fa continuo riferimento per i vari tipi di analisi applicate. Innanzitutto lo studio è stato condotto presso il Laboratorio di Archeologia Ambientale51 del Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena, recentemente dotato di una collezione osteologica composta da mammiferi, uccelli, pesci. La determinazione anatomico-tassonomica è il risultato di analisi macroscopiche comparative delle ossa, attraverso il confronto con la collezione osteologica del laboratorio. Per quanto concerne la classificazione di alcuni reperti osteologici come capra oppure come pecora, è stato fatto riferimento ai criteri editi da Boessneck-Müller-Teichert (1964), oltre ai lavori più recenti di Prummel-Frisch (1986) e Halstead-Collins-Isaakidou (2002). Allo stesso modo i resti di lagomorfi sono stati determinati tassonomicamente, con un buon grado di affidabilità, grazie al lavoro edito da Cécile Callou (1997).

Il maiale, è la specie più diffusa tra i taxon individuati, costituendo il 51% dei resti anatomici determinati. Seguono i capriovini con il 30% ed, infine, i bovini con il 9%. I tre principali gruppi domestici sono, quindi, gli insiemi tassonomici più frequenti occupando l’89% del panorama osteo-zoologico recuperato nel deposito archeologico del castello. Seguono i cervidi (5%), il pollame (1%), il cinghiale (1%), la tartaruga terrestre (1%), mentre sono rare le attestazioni di altri taxon. Osservando la frequenza degli animali all’interno delle singole periodizzazioni si notano delle fluttuazioni importanti, soprattutto nel rapporto tra numero di ossa di maiale e di capriovini. Infatti, ad una preminenza del maiale nei periodi più antichi, con oltre il 60% delle ossa determinate, segue un brusca diminuzione a favore dei capriovini a partire dall’XI secolo (Fig. 3). In virtù di queste variazioni, è stata affrontata l’analisi quantitativa del campione approfondendo oltre agli aspetti concernenti il rapporto percentuale tra i taxon determinati, la loro distribuzione anatomica, le età di decesso ed, infine, alcuni caratteri osteometrici. 1. Materiali e metodi

51

http://www.paesaggimedievali.it/lab_amb.html. La collezione è provvista di 23 specie di mammiferi, 17 specie di pesci e 33 specie di uccelli.

Ogni qual volta si presentano i risultati ottenuti dallo studio di un campione archeozoologico, non è possibile esimersi

141

Taxon

Periodo 1 fasi 1-2 (VIII-IX secolo)

Periodo 1 fasi 1-2/3 (VIII-X secolo)

Periodo 2 (XI secolo)

Periodo 3 (XII-XIII secolo)

Periodo 4 (XIV-I° quarto XV secolo)

6

20

2

Asino Cavallo Bue

Periodo 1 fasi 3-4 (X secolo)

2

Capra

1

1

17

25

35

1

1

2

7

8

10

5

11

61

54

84

47

51

188

202

91

40

72

Cinghiale

7

4

1

1

Cinghiale-Maiale

1

Capriolo

2

1

6

5

Cervo

4

6

10

Pecora Capra-Pecora

1

Maiale

14

1

Daino

2

Lepre

1

1

Tasso

1 1

Gatto domestico 1

Cane

4 3

Riccio 1

Tartaruga

6

6

1

1

294

320

251

111

179

1

6

4

2

14

173

168

222

8

20

3

Avifauna

103

Piccolo vertebrato Grande Ungulato

3

3

Gallo domestico

Medio vertebrato

8 1

Tartaruga di hermann Totale

6

15

74

Piccolo Ungulato

13 44

3

30

29

27

83

85

112

Non identificabile

2

180

127

7

5

26

Totale

27

742

739

597

276

360

Fig. 3: distribuzione dei resti osteologici nei periodi cronologici Database, denominato DBMS Ossa animali52. Ogni record rappresenta o un solo segmento anatomico oppure un insieme di ossa, a seconda del livello di informazioni ad esso o ad esse riferito. La molteplicità dei dati archeozoologici raccolti, associata ad un altissimo grado di compenetrazione con la griglia archeologica, ha permesso di processare ripetutamente, secondo chiavi di ricerca semplici e complesse, un enorme quantitativo di informazioni difficilmente gestibile in altre forme di registrazione, semplificando notevolmente la fase di elaborazione. Questa soluzione informatica consente inoltre di organizzare in forma coerente i risultati di ricerche e quantificazioni dei dati, nonché di operare in tempo reale confronti proficui con una sterminata massa di dati afferente ad altri contesti archeologici.

Oltre alla determinazione anatomica e tassonomica, nel corso delle indagini di laboratorio sono state condotte altre analisi al fine di raccogliere il maggiore numero di informazioni possibili. Tra queste si segnalano la stima dell’età di decesso, per la quale è stato fatto riferimento principalmente ai lavori di Silver (1969), di Grant (1982) (per il sistema di codificazione delle usure dentarie di alcuni domestici), di Bull e Payne (1982), oltre ai compendi di Amorosi (1989) ed, infine, di Reitz e Wing (1999). Le alterazioni tafonomiche sono state costantemente monitorate qualora vi fossero tracce conservate sul tessuto osseo, in particolare rosicatura e masticazione per quanto concerne quelle animali, tracce di macellazione per quelle antropiche, infine weathering (BEHRENSMEYER 1978), bioturbazioni ed eventuali patologie per quelle naturali. Tutti i segmenti anatomici, qualora lo stato di conservazione lo consentisse, sono stati misurati seguendo le direttive del fondamentale volume di riferimento redatto da Angela Von den Driesch (1976). L’eterogeneo panorama di dati ottenuti nel corso delle analisi di laboratorio è stato raccolto in un apposito

2. Periodo 1 - fasi 1 e 2 (VIII-IX secolo) Si tratta di un campione assai povero, composto da soli 27 frammenti, di cui sono stati determinati, a livello di 52 Sulla struttura e le funzionalità di questo sistema alfanumerico, BOSCATO, FRONZA, SALVADORI 2003 e 2007.

142

dello smalto nel caso dei terzi molari, mentre uno stadio più avanzato per i primi ed i secondi molari, indica una maggiore concentrazione nell’intervallo compreso tra il primo ed il terzo anno (Fig. 4). Tra i soggetti deceduti in età più giovane, si segnalano individui macellati a meno di tre mesi56, meno di sei mesi57 e nell’intervallo compreso tra 6 e 12 mesi58. Individui anziani sono testimoniati unicamente da un frammento di vertebra toracica saldata, la quale indizia la presenza in sito di scrofe allevate sino in età senile. Il rapporto tra verri e scrofe, individuato esclusivamente in base alle differenze morfologiche tra i rispettivi denti canini, mostra una netta preminenza delle seconde rispetto ai primi. Sono, infatti, 6 i canini attribuibili alle femmine rispetto a 2 soli denti di maschi. Non si notano, invece, particolari strategie di allevamento sulla scorta delle età di decesso e dell’appartenenza sessuale, se non che le femmine erano macellate a partire dagli otto mesi (un solo caso di esemplare abbattuto tra 812 mesi), ma soprattutto oltre i 18 mesi, ad indicare un loro allevamento a fini riproduttivi. Un solo astragalo integro (GLl 36,96 mm sensu Von den Diesch) appartiene, secondo gli indici di Teichert, ad un esemplare alto, al garrese, 66 cm. Questo elemento anatomico potrebbe appartenere ad un individuo non completamente sviluppato, in quanto l’astragalo non da indicazioni sull’età di decesso dell’animale; quindi il garrese derivato apparentemente segnala la sola altezza approssimativa del soggetto deceduto ma non può essere considerato esemplificativo delle stature dei maiali allevati. Il confronto con alcuni insediamenti toscani, in cui sono stati stimati i garresi, secondo la misura degli astragali rinvenuti, mostra invece come l’esemplare di Rocchette rientri in un intervallo di altezze tipico della regione, compreso tra 65 cm e 75 cm (SALVADORI 2008) e, quindi, essere attribuibile non solo all’esemplare ma più in generale ad una “razza” diffusa sul territorio regionale. In tal caso, essendo una misura prossima ai valori minimi, non è da escludere che si tratti di una femmina. Ampliando il confronto su scala nazionale, emerge un minimo comune denominatore tra i resti osteologici dei suini di età medievale. Innanzitutto, le età di decesso si concentrano mediamente oltre il primo anno ed entro il termine del terzo anno, tranne alcuni casi particolari come il villaggio di X secolo di Campiglia Marittima, dove è accertata un’alta mortalità di suini al di sotto dei dodici mesi (SALVADORI 2004). In secondo luogo, a questo stadio di anzianità i maiali avevano raggiunto un garrese compreso tra 65 cm e 75 cm. A tale intervallo corrisponderebbe un peso medio vivo dei maiali leggermente superiore al quintale, almeno secondo una stima derivata dal confronto tra le dimensioni dei reperti

specie o sottofamiglia, unicamente 3 resti ossei: rispettivamente 2 di bue53 ed 1 di ovicaprino54. Lo stato di conservazione delle ossa non ha consentito di registrare alcuna misura. I restanti segmenti anatomici sono stati catalogati come grande ungulato (8 frammenti), medio vertebrato (14 frammenti) e non identificabile (2 frammenti). Un campione, quindi, assai povero, che non consente di individuare alcuna informazione sulle strategie di gestione delle faune, se non segnalare la presenza di bovini ed ovicaprini nel villaggio di VIII-IX secolo. 3. Periodo 1 - fasi 3 e 4 (X secolo) Il deposito archeologico di X secolo (vedi fig. 3), ha restituito 739 frammenti dei quali sono stati identificati a livello di genere o specie (comprendendo anche i frammenti catalogati come capra-pecora) 320 frammenti, pari al 43% del campione, mentre 419 segmenti sono stati catalogati con nomenclature più generiche (avifauna, grande ungulato, piccolo ungulato, medio vertebrato e non identificabile). Le specie identificate sono 12, appartenenti in prevalenza a mammiferi, sia selvatici che domestici, ai quali si affiancano i rettili (la tartaruga terrestre) e gli uccelli (esclusivamente il gallo domestico). Il maiale è il taxa con il numero maggiore di resti rinvenuti, occupando oltre il 60% dei segmenti anatomici determinati. La rassegna anatomica di questo insieme zoologico mostra una sostanziale omogeneità, ovvero non si notano picchi particolari nei rapporti tra lo scheletro assile ed appendicolare, e nemmeno tra l’arto toracico e quello pelvico. La preminenza di ossa della testa, in associazione ai più radi resti delle estremità degli appendicoli, è riconducibile ad una macellazione in sito degli animali; confermata dal rapporto stesso tra arto anteriore e posteriore, per il quale va comunque segnalata una leggera preminenza di frammenti della cintura toracica (scapola), dovuta all’alta frammentazione di questo segmento essendo attestate porzioni prossimali, distali e mediali55. Lo stato di saldatura delle ossa, così come il grado di usura dentaria, rivelano un’alta mortalità tra gli esemplari giovani e sub-adulti. I dati riassunti nella tabella 4, mostrano inequivocabilmente, per il primo stadio, l’alto numero di segmenti non saldati, associabili quindi ad individui giovani, affiancati da una quantità leggermente meno consistente di segmenti saldati, appartenenti ad esemplari più maturi. Questi ultimi sono riferibili a soggetti sub-adulti o adulti, ma non senili, come mostra la presenza di soli frammenti non saldati, riferibili al secondo ed al terzo stadio. Lo stesso grado di usura dei denti mandibolari, contraddistinto da un consumo iniziale

56

1 frammento di tibia distale è da riferire ad un feto, mentre 2 secondi metatarsi ed una mandibola (con dp3 e dp4 privi di usura), sono attribuibili ad un esemplare che non superava i tre mesi di vita. 57 Sette segmenti anatomici, riferibili ad un solo individuo, indicano un’età di decesso di poco inferiore ai sei mesi. 58 11 resti osteologici, appartenenti ad almeno tre individui, come mostrano gli altrettanti frammenti distali di omeri sinistri, sono riferibili ad esemplari giovani deceduti in questo intervallo d’età.

53 Si tratta di una scapola medio-distale ed una porzione di vertebra toracica. 54 Un radio medio-distale. 55 I 16 frammenti di scapola, rappresentano in realtà un numero minimo di elementi anatomici pari a 7, come evidenziato dal conteggio delle porzioni distali e medio-distali di lato sinistro.

143

i denti, mentre l’assenza delle estremità posteriori potrebbe essere imputabile ad una redistribuzione dei tagli corrispondenti in altre zone dell’insediamento.

archeozoologici con quelle di ossa appartenenti a razze attuali migliorate (SALVADORI 2008). Saldatura Saldato

Non saldato

Saldatura

Neosaldato

Saldato

I° stadio Scapola, distale Omero, distale

1

Radio, prossimale

3

Falange 1

3

Falange 2

1

2

I° stadio

4

Omero, distale

Tibia, distale

1 (p)

3

III° stadio Radio, distale

1

2

Femore, prossimale

1

2

Femore, distale

2

Calcaneo Metacarpo, distale

1

Metatarso, distale

2

5

Radio, distale

Mandibola

1

Ulna, prossimale

Dente

2

Femore, distale

2

Tibia, prossimale

2

Vertebra

1

3 M1

M2

M3

Dente d

Dente

b

Dente

b

Mandibola

d

k

Mandibola

f

e

Mandibola

k

g

Mandibola

e

k

Mandibola

d

k f

g

f

M3

M1-2 f

g

I segmenti anatomici che consentono di osservare le età di decesso di questo gruppo zoologico non sono molti. In ogni caso è attestato qualche frammento di esemplare molto giovane e giovane61, ed una curva di mortalità che aumenta sensibilmente oltre il primo anno per proseguire poi sino in tarda età, come riportato in figura 5. L’ordine dei segmenti anatomici all’interno dei vari stadi di saldatura mostra una concentrazione dei decessi oltre il primo anno ed entro il terzo anno. Si notano, infatti, nel primo stadio, unicamente segmenti anatomici saldati, mentre nel secondo stadio, sia saldati che non saldati, infine nel terzo stadio, escludendo i non saldati per i quali è accertata un’età di decesso molto giovane, un solo frammento distale di femore saldato, quindi attribuibile ad un esemplare adulto, se non anziano, il quale poteva superare i 60 mesi di età, nel caso si tratti di una capra, oppure i 42 mesi, se appartiene ad una pecora. I pochi denti conservati, di cui è possibile elaborare uno schema di usura secondo le tavole di Grant, confermano la presenza di soggetti adulti, essendo osservabile una diffusione ampia della dentina ed una corrispondente contrazione dello smalto, sulla superficie di masticazione. In definitiva, la strategia allevatizia delle greggi capriovine sembrerebbe orientata alla produzione casearia, indiziabile dalla mortalità di soggetti molto giovani (DE GROSSI MAZZORIN 1995), e della lana, vista l’alta concentrazione di pecore. Il bue con 25 frammenti, pari all’8% del campione, è la terza specie in ordine di frequenza anatomica, per la

M1-2 e

Dente

M2

Fig. 5: periodo 1 fasi 3 e 4 - stato di fusione epifisiaria e di usura dentaria degli ovicaprini (c = capra; p = pecora)

Usura dentaria P4

M1 Dente

3

Femore, prossimale

1 Usura dentaria

III° stadio

a

b

Fig. 4: periodo 1 fasi 3 e 4 - stato di saldatura epifisiaria e di usura dentaria del maiale Capre e pecore, sono il secondo insieme tassonomico con un numero totale di 63 frammenti, pari al 20% del campione di X secolo. Il rapporto tra le due specie è di 1:8, come emerge dal conteggio di un solo frammento determinato come capra59 a fronte di otto segmenti accertati come pecora60. La distribuzione anatomica dell’intero insieme ovicaprino evidenzia una preminenza di ossa appendicolari, in particolare degli arti (Fig.5). Non si notano differenze tra lo stilopodio anteriore e posteriore, mentre sono assenti segmenti dell’autopodio pelvico a fronte di pochi segmenti metacarpali. Ciononostante è ipotizzabile una macellazione in sito di questi animali, vista la consistente presenza di ossa di scarto quali il cranio, la mandibola ed 60

2

II° stadio

1

Tibia, distale

59

4 (1c; 2p)

Falange 1

II° stadio

Mandibola

Non saldato

61 Un radio non saldato appartiene ad un esemplare deceduto intorno ai 3 mesi di vita, un dp3 ed un coxale, ad un soggetto di massimo 6 mesi, un femore prossimale non saldato ad un esemplare deceduto tra 6 e 12 mesi.

Un omero sinistro distale saldato. Si tratta di 3omeri, 2 prime falangi, 2 scapole ed 1 tibia.

144

I pochi resti di gallo domestico attestano la presenza di questi animali da cortile, di cui si conservano unicamente segmenti appendicolari, relativi sia all’arto anteriore sia a quello posteriore65. Come evidenzia lo stato di completa saldatura delle ossa rinvenute, il pollame era allevato sino in età adulta, molto probabilmente femmine custodite per la produzione di uova. Difficile è distinguere la forma selvatica dei suini da quella domestica, ciononostante alcuni frammenti presentano dimensioni sensibilmente al di sopra dei valori osservati nei depositi archeologici toscani, da far supporre trattarsi del cinghiale. Si tratta di quattro segmenti anatomici66, probabilmente relativi ad un unico individuo che aveva superato i 24 mesi di vita, come mostra un terzo metacarpo saldato, e raggiungeva un’altezza al garrese di quasi un metro (95 cm). Questo esemplare selvatico era quindi contraddistinto da un garrese di ben 20 cm superiore all’intervallo 65-75 cm tipico, come descritto in precedenza, dei maiali rinvenuti non solo in Toscana ma su buona parte del territorio italiano (Fig. 7) (SALVADORI 2008). I cervidi sono la famiglia più numerosa tra i mammiferi selvatici rinvenuti nel campione di X secolo. Sono stati identificati sette frammenti, di cui sei di cervo67, appartenenti a due individui adulti68, ed uno solo di capriolo adulto69. I valori osteometrici della scapola di capriolo (in appendice) trovano confronti attinenti con un esemplare rinvenuto tra i rifiuti di fine XIV secolo, prodotti da una ricca famiglia risiedente nella cittadina di Tarquinia (CLARK 1989), inoltre con un frammento conservato nei livelli urbani, di fine XII - Ia metà XIII secolo, individuati nei pressi della chiesa di Santa Cecilia in Trastevere (DE GROSSI MAZZORIN, MINNITI 2004; MINNITI 2007), infine, con un esemplare maschile di età contemporanea ritrovato in Liguria, nel territorio comunale del Municipio di Chiavari70. Più numerosi sono, invece, i dati relativi ai valori osteometrici delle prime falangi di cervo, in particolare quelli concernenti la lunghezza periferale (GLpe sensu Von den Driesch), per i quali sono disponibili ben 14 contesti cronologico-insediativi distinti, situati in 6 regioni, per un totale di 32 misure. Questa casistica restituisce un intervallo di valori compresi tra un minimo di 44,8 mm, relativo ad un esemplare rinvenuto nel cumulo di rifiuti di fine XIV secolo della cittadina di Tarquinia (CLARK 1989), ad un massimo di 66 mm, relativo ad un individuo conservato in stratigrafie datate genericamente I-VII secolo del castello friulano di Invillino Ibligo (STORK, VON DEN DRIESCH 1987), ed una media, infine, di 55,85 mm. I valori di Rocchette (in appendice) si collocano al di sopra della media stimata,

quale non sembrano evidenziarsi particolari differenze nella consistenza delle porzioni assili ed appendicolari. I segmenti anatomici che consentono di individuare un’età ontogenetica sono scarsi; tuttavia è possibile accertare la presenza di almeno due esemplari, di cui un vitello, o manzetta, deceduto tra il primo ed il secondo anno62, ed un adulto che aveva raggiunto il quarto anno63. Nel primo caso, è possibile che si tratti di un soggetto allevato per il consumo, mentre nel secondo, essendo un esemplare adulto, le cause del suo decesso possono essere diverse. Potrebbe, infatti, trattarsi di un animale ferito non più in grado di svolgere le proprie mansioni, oppure un bovino poco robusto e quindi inadatto ad essere utilizzato nei pesanti lavori di trazione, oppure una femmina rimasta infeconda e che risulterebbe perciò dannosa nell’economia di un gruppo famigliare contadino, il cui profitto allevatizio deriva proprio dalla consuetudine di ingravidare le vacche una volta all’anno per ottenere vitelli e latte, necessari al sostentamento della comunità in termini di carne e di grassi animali. I restanti segmenti anatomici non conservano quelle regioni necessarie alla lettura delle età di decesso, anche se lo sviluppo e lo spessore del tessuto osseo indicano trattarsi dei resti di esemplari adulti. Un radio-ulna incompleto di cavallo, una scapola ed un navicolare di asino, sono le uniche presenze di equidi nei livelli di X secolo. La lunghezza laterale del radio di cavallo (Ll sensu Von den Driesch) restituisce, secondo gli indici di Keisewalter, un garrese di 140 cm; un valore prossimo alla media nazionale, come indicato dai resti di cavalli rinvenuti in stratigrafie datate tra l’età romana ed il tardo medioevo (Fig. 6)64. Secondo quanto riassume la figura 6, il cavallo ritrovato a Rocchette si colloca nella parte medio-alta dell’intervallo di valori delle medie derivate dai singoli contesti archeologici. Tra questi spicca certamente l’alta concentrazione dei depositi tardoantichi ed altomedievali quali Aquileia, la tomba di Arzignano, il castra tardoantico di Invillino Ibligo, l’area della meta Sudans e l’immondezzaio della Crypta Balbi a Roma, le ville di S. Giacomo degli Schiavoni e di San Giovanni di Ruoti. Diversi tra questi casi potrebbero rappresentare, come la tomba di Arzignano o quella di Vicenne, le tracce materiali di animali robusti utilizzati dalle milizie a cavallo oppure, come ipotizzato per la villa di Ruoti (MACKINNON 2002), da personaggi di rango. Alla luce di questa evidenza, l’esemplare di Rocchette potrebbe forse appartenere a razze da cavalcatura ed essere perciò di proprietà di un personaggio appartenente all’aristocrazia militare. 62

Due denti, rispettivamente un dp4 (usura h) ed un M1-2 (usura b) appartengono ad un individuo spirato in questo intervallo. 63 Una mandibola conserva la sequenza M1 (usura h), M2 (usura g) ed M3 (usura e), attribuibile ad un esemplare di almeno 48 mesi, allo stesso individuo dovrebbe appartenere un frammento di tibia prossimale neosaldata, quindi un soggetto di 36-48 mesi. 64 L’esemplare più alto (172 cm) così come il più basso (114 cm) sono stati rinvenuti nell’immondezzaio di IX secolo della Crypta Balbi a Roma. La media risultante dai 24 contesti cronologico-spaziali, ubicati tra il nord ed il sud d’Italia, è pari a 139 cm, con una varianza di 34 cm, ovvero di soli due centimetri più ridotta dell’esemplare rinvenuto nel castello di Rocchette.

65

Si tratta di un radio, tre ulne e due tibiotarso. Un III° metacarpo integro, un frammento prossimale di III° metatarso, un frammento medio-prossimale di coxale ed, infine, una porzione mediale di femore. 67 Un frammento di palco, uno di radio e quattro prime falangi. 68 Come mostrano tre delle quattro falangi ritrovate: due sono saldate, mentre una terza è in fase iniziale di saldatura. 69 Si tratta di un frammento distale di scapola. 70 Resti osteologici conservati presso la collezione osteologica animale del Laboratorio di Archeologia Ambientale dell’Ateneo senese. 66

145

anche se non di molto, e potrebbero perciò rappresentare i resti materiali di un esemplare maschile. Garrese (cm) Sito

Cronologia

Volano (Riedel, Scarpa 1988)

Fine III - Inizi IV secolo

Verona, cortile del Tribunale (Riedel 1994b) Ponte Nepesino (Clark 1984)

1310 secolo

Roma, Crypta Balbi (De Grossi Mazzorin, Minniti 2001; Minniti 2007) Roma, Crypta Balbi (De Grossi Mazzorin, Minniti 2001; Minniti 2007) Mombello Monferrato (Bedini 2007) Invillino Ibligo (Stork, Von den Driesch 1987) Vicenne (Bökönyi 1988) Bolzano, piazza Walther (Riedel 1991)

Max

1350

Min

Med 121

137

128

133

Seconda metà VIII XI secolo VIII secolo

134 154

117

136

X secolo

157

115

136

Fine V - VI secolo I - VII secolo

144

130

137

VI - VII secolo

141

135

138

XI secolo

140

135

138

XIII

136

Verona, cortile del Tribunale (Riedel 1994b) Duomo Siena

Ultimo decennio VI VII secolo I secolo

Rocchette

X secolo

140

Roma, chiesa di Santa Cecilia (De Grossi Mazzorin, Minniti 2004; Minniti 2007) Aquileia, insula ad est del Foro (Riedel 1994a) Arzignano, Tomba di via Canove (Reggiani, Rizzi 2007) Invillino Ibligo (Stork, Von den Driesch 1987) Roma, Crypta Balbi (De Grossi Mazzorin, Minniti 2001; Minniti 2007) Roma, Crypta Balbi (De Grossi Mazzorin, Minniti 2001; Minniti 2007) Roma, Meta Sudans (De Grossi Mazzorin 1995) Settefinestre, villa sestii (King 1985) San Giacomo degli Schiavoni (Albarella 1990 e 1993) Ruoti, San Giovanni (MacKinnon 2002)

Fine XII - I metà XIII secolo

140

138 143

134

148

136

142

V - VI secolo

144

140

142

V - VII secolo

Un frammento incompleto di mandibola indica la presenza, tra i mammiferi selvatici, del tasso. Al momento, sono rare le attestazioni di questo mustelide in campioni medievali italiani, essendo stato ritrovato in soli quattro casi, rispettivamente nei livelli di XI secolo del limitrofo castello di Rocca di Campiglia (LI)71, nel deposito di fine XIV secolo di palazzo Vitelleschi a Tarquinia (CLARK 1989), nell’immondezzaio di VII secolo della Crypta Balbi a Roma (DE GROSSI MAZZORIN, MINNITI 2001; MINNITI 2007), e nel riempimento di una cisterna, occorso tra gli anni 420-430 d.C., della villa rustica di S. Giovanni degli Schiavoni (ALBARELLA 1990, 1993). Secondo alcuni autori, questa specie era oggetto di caccia sia per il suo pelo sia per la sua carne ritenuta commestibile (GRAND, DELATOUCHE 1981). Alla luce del ritrovamento nel limitrofo castello di Campiglia, anche se in stratigrafie leggermente posteriori (XI secolo), è possibile che la presenza di questo mustelide rappresenti la traccia materiale di un vero e proprio costume ludico.

139

II - Metà V secolo

143

IX secolo

172

114

143

VII secolo

147

140

144

V - VI secolo

157

131

144

IV secolo 420 secolo

Figura 7: metapodiali di genere Sus a confronto - in alto terzi metacarpi (a. large white, b. cinghiale, c. maiale) in basso quarti metacarpi (d. large white, e. cinghiale, f. maiale)

XIV

4. Periodo 1- fasi 1-2/3 (VIII-X secolo)

147

430

150

146

148

340 - Fine IV secolo

152

144

148

Questo campione osteologico, come accennato in precedenza, proviene da un deposito formatosi a seguito degli interventi cantieristici occorsi agli inizi del X secolo, che hanno intaccato e rimescolato livelli dell’età precedente per realizzare una sorta di livellamento. Per tale motivo questo insieme faunistico è stato analizzato come entità a sé stante, in quanto essendo il materiale conservato al suo interno databile tra l’VIII ed il X

Fig. 6: altezze al garrese dei cavalli di età romanomedievale rinvenuti sul territorio italiano

71

146

Si tratta di una prima falange integra (SALVADORI 2004).

secolo, era interessante osservare se presenti delle diversità, con il campione delle fasi 3-4, attribuibili a materiale residuale appartenente alla prima fase insediativa del villaggio. Il campione osseo è costituito da 742 frammenti (vedi fig. 3), dei quali sono stati identificati a livello di genere o specie (includendo anche l’insieme osteologico classificato come capra-pecora) 249 frammenti, pari al 40% dell’insieme osseo, mentre 448 segmenti sono stati catalogati con nomenclature più generiche (avifauna, grande ungulato, piccolo ungulato, medio vertebrato e non identificabile). Le specie identificate sono dieci, appartenenti in prevalenza a mammiferi, sia selvatici che domestici, ai quali si affiancano i rettili (un solo frammento di Testudo sp.) e gli uccelli (tre frammenti di gallo domestico). Come per il campione di X secolo, l’insieme osteologico è contraddistinto dalla preminenza di ossa di maiale, pari al 64%, mentre l’unico elemento di distinzione è rappresentato dal rapporto paritario tra maschi e femmine72. Anche la distribuzione anatomica presenta gli stessi caratteri riscontrati per il X secolo, consistenti in una discreta omogeneità tra scheletro assile ed appendicolare come anche tra arto toracico e pelvico (Fig. 8).

Mandibola Mandibola Mandibola

Mandibola

5 3

1

Falange 1

1

II° stadio Tibia, distale

2

2

Fibula, distale

4

Calcaneo

3

Metacarpo, distale

3

1

III° stadio Ulna, prossimale

2

Femore, distale

1

Tibia, prossimale

2

Fibula, prossimale

1

Vertebra

1 Usura dentaria P4

M1

M2

M3

Dente

b

Dente

c

Dente

f

Dente

a

Dente

c

Mandibola

d

Mandibola Mandibola

j

e

g

e

a

e

a

f

h

f

b

e

b

e

a

La preminenza di ossa della testa (cranio, mandibola e denti), in associazione ai più radi resti delle estremità degli appendicoli, è allo stesso modo riferibile ad una macellazione in sito degli animali. La distribuzione delle età ontogenentiche coincide anch’essa con quanto emerso dal campione di X secolo. Lo stato di saldatura delle ossa, così come il grado di usura dentaria, rivelano, infatti, la medesima concentrazione di esemplari giovani e subadulti. I dati riassunti nella figura 8, mostrano inequivocabilmente, per il primo stadio, l’alto numero di segmenti non saldati, associabili quindi ad individui giovani, affiancati da una quantità leggermente meno consistente di segmenti saldati, appartenenti ad individui più maturi. Questi ultimi sono riferibili principalmente a soggetti sub-adulti o adulti, come mostra la preminenza di frammenti non saldati, riferibili al secondo ed al terzo stadio. Lo stesso grado di usura dei denti mandibolari, contraddistinto da un consumo iniziale dello smalto nel caso dei terzi molari, mentre uno stadio più avanzato per i primi ed i secondi molari, indica una maggiore concentrazione nell’intervallo compreso tra il primo ed il terzo anno. La presenza di soggetti senili è attestata soprattutto dai frammenti prossimali saldati di tibia, probabilmente riferibili a scrofe giunte al termine del ciclo riproduttivo. Un terzo metacarpo (GL 71,21 mm sensu Von den Driesch) ed un astragalo (GLl 38 mm sensu Von den Driesch) integri, secondo gli indici di Teichert appartengono a due individui contraddistinti rispettivamente da un garrese di 76 cm e 68 cm. Mentre nel primo caso l’altezza, pur essendo indicativa ma non assoluta, è attribuibile ad un esemplare completamente sviluppato, essendo accertabile, dallo stato di saldatura del metapodiale, un’età di decesso superiore almeno ai 24 mesi, nel secondo caso il valore può rappresentare, in quanto l’astragalo non fornisce informazioni sull’età di morte, o un individuo giovane, quindi non ancora giunto al termine della crescita, oppure femminile, quindi di statura più piccola. Al di là di questa questione che non è risolvibile, l’elemento degno di nota è un altro e si osserva nel fatto che le misure stimate rientrano nel range di valori accertato per la toscana medievale, esemplificato da un valore minimo di 65 cm ed uno massimo di 75 cm (SALVADORI 2008), ai cui estremi si approssimano i garresi stimati per Rocchette. Capre e pecore rappresentano il secondo gruppo zoologico con 69 frammenti catalogati, pari al 23% del campione in esame, tra i quali si constata una predominanza di pecore rispetto alle capre, evidenziata da

1

Radio, prossimale

a

Fig. 8: periodo 1 fasi 1-2/3 - stato di saldatura epifisiaria e di usura dentaria del maiale

Non saldato

Omero, distale

c k

Mandibola

I° stadio Scapola, distale

a

Mandibola

Saldatura Saldato

e

b

72

Sono stati, infatti, accertati tre denti canini per ciascuno gruppo sessuale.

147

8 frammenti attribuiti agli ovini73 a fronte di un solo resto determinato come capra74. La distribuzione anatomica è contraddistinta dall’assenza delle estremità degli appendicoli anteriori (carpo e metacarpo), mentre le restanti parti anatomiche sono uniformemente rappresentate, ad indicare un depezzamento in sito degli animali macellati. L’assenza delle estremità dell’arto anteriore, e la bassa incidenza di quelle posteriori (5 frammenti relativi ad un solo appendicolo), sono forse lo specchio di una destinazione di queste porzioni in altre aree dell’insediamento, probabilmente esterne alla zona sommitale circoscritta dalla fortificazione in pietra eretta nel X secolo. Lo stato di saldatura ed il grado di usura dentaria riportati sotto (Fig. 9), indicano una maggiore concentrazione di esemplari deceduti in età sub-adulta o adulta. Si tratta in prevalenza di segmenti anatomici saldati, ma sono attestati anche 3 frammenti non saldati, appartenenti al primo stadio, attribuibili a due individui molto giovani, rispettivamente di 3 e 6 mesi, come mostrano le dimensioni ed il grado di sviluppo del tessuto osseo. Secondo questa tendenza, quindi, non si notano delle sostanziali differenze con quanto osservato per i capriovini rinvenuti nei livelli di periodo 1 fasi 3-4.

riconducibili ad un numero minimo di tre individui come mostrano altrettante porzioni distali di omero sinistro. Le età di decesso, deducibili da una prima falange, dagli omeri distali e da un radio prossimale, tutti saldati, sono riferibili ad esemplari che avevano superato i 24 mesi di vita, molto verosimilmente individui adulti. Rispetto al campione di X secolo, non sono stati ritrovati segmenti attribuibili ad esemplari più giovani. Altri mammiferi domestici individuati nel campione sono il cavallo, rappresentato da un frammento medioprossimale di coxale, ed il cane, di cui è stato recuperato un dente canino superiore. All’interno dell’insediamento si trovavano, o per lo meno erano parte integrante della dieta degli abitanti, anche animali da cortile quali il pollame, di cui sono stati rinvenuti tre frammenti, attribuibili ad un esemplare adulto75. Un carpometacarpo integro (GL = 37,75 mm sensu Von den Driesch), attesta la presenza di un soggetto di medie dimensioni che rientra pienamente tra i valori medi del panorama nazionale, come mostrano numerosi casi editi di età romana e medievale76, il cui range è compreso tra 43,1 mm (Castello di Fiumedinisini, ME) e 31,1 mm (Brescia S. Giulia), con una media nazionale pari a 37,41 mm quindi molto prossima al segmento osteologico di Rocchette. Oltre a resti osteologici di animali domestici, il campione faunistico conserva tracce di ungulati selvatici, in particolare di cinghiale, cervo e capriolo. Tra questi la specie più frequente, con sette frammenti attestati77, è il cinghiale, la cui distinzione con il maiale è stata dedotta attraverso un confronto metrico con i segmenti osteologici conservati presso la collezione di confronto, soprattutto quelli relativi a depositi archeologici toscani di età medievale. Un quarto metacarpo integro attribuito a questa specie (vedi figura 7), secondo gli indici di Teichert, doveva appartenere, ad esempio, ad un esemplare che raggiungeva un’altezza al garrese prossima al metro (98 cm). Si tratterebbe, quindi, di un animale selvatico dotato

Saldatura Saldato

Non saldato

Neosaldato

I° stadio Scapola

2

Omero, distale

2

Radio, prossimale

1

2 (1 p)

II° stadio Tibia, distale

3 (1c; 2p)

Calcaneo

1

III° stadio Vertebra

2 Usura dentaria dp4

M1

M2

Dente

M3 h

Dente

e

Mandibola Mandibola

M1-2

f (p)

m

h

f (p)

a (p)

75

Si tratta di una scapola destra incompleta, un carpo-metacarpo integro ed un tibiotarso destro distale. 76 Castello di Fiumedinisi (ME, Fine XIII-I metà XIV secolo - Gl max 43,1 mm; GL min 39,7 mmm; GL med 41,4 mm; Villari 1988), Convento S. Giulia a Brescia (VI-VII secolo - GL max 41,5 mm: GL min 40,1 mm; GL med 40,8 mm; IX - X secolo GL max 41,3 mm; GL min 31,1; GL med 36,1 mm; Baker 1999), città di Herdonia (FG, II secolo - GL 40 mm; Leguilloux 2000), villa rustica di S. Giacomo degli Schiavoni (CB, 420-430 d.C. - GL 39,1 mm; Albarella 1990 e 1993), villa di Settefinestre (GR, II secolo - 38,34 mm; Rielly 1985), cantiere della chiesa di S. Cecilia a Roma (Fine XII-I metà XIII secolo - GL max 40,4 mm; GL min 36,3 mm; GL med 38,32 mm; De Grossi Mazzorin, Minniti 2004, Minniti 2007), P.zza della Signoria a Firenze (VII - X secolo - GL max 40,5 mm; GL min 35 mm; GL med 37,96 mm; Corridi 1995), castrum tardoantico di Monte Barro (CO, II metà V-metà VI secolo - GL max 41,4 mm; GL min 35 mm; GL med 37,96 mm; Baker 1991 e 2001), castrum tardoantico di Invillino Ibligo (UD, I - IV secolo - GL max 38,9 mm; GL min 35,3 mm; GL med 37,46 mm; Stork, Von den Driesch 1987), Piazzetta Castello a Ferrara (II metà XIV secolo GL 36 mm; Farello 1992), Arivito località mandragone (CE, VIII-XI secolo - GL 35 mm; Albarella 1989), castello di Mola di Monte gelato (RM, X - XI secolo - GL 34,66 mm; West 1997), castello di Miranduolo (SI, II quarto XII secolo - GL 34,49 mm). 77 Si tratta di tre denti, una prima falange, 1 mandibola, un quarto metacarpo ed un terzo metatarso.

g

Fig. 9: periodo 1 fasi 1-2/3 - stato di fusione epifisiaria e di usura dentaria degli ovicaprini (c = capra; p= pecora) Il bue è la terza specie per frequenza anatomica, essendo stati identificati 17 frammenti che costituiscono il 6% dell’insieme osteologico; un valore di due soli punti percentuali inferiore al campione di X secolo. Si tratta di un numero di segmenti anatomici tutto sommato scarso, composto per il 90% da frammenti appendicolari

73

Rispettivamente 1 mandibola con M2 (in fase di eruzione), M1, dp4 e dp3, 2 frammenti distali di scapola, 1 prossimale di radio, 2 distali di tibia ed 1 incompleto di calcaneo. 74 Si tratta di un frammento distale di tibia sinistra.

148

La tabella delle età di decesso dei maiali (Fig. 10), indica una mortalità media compresa tra il primo ed il terzo anno, sia osservando lo stato di fusione delle ossa sia l’usura dentaria. Si segnala, inoltre, qualche sporadica presenza di esemplari molto giovani, come testimonia un omero attribuibile ad un soggetto di età non superiore ai tre mesi. Rari sono anche gli individui anziani, rappresentati da un unico dente (I1), il cui stato di usura avanzato è attribuibile ad un’età superiore ai 36 mesi. Nessuna evidenza permette di osservare la composizione sessuale dei branchi o una particolare strategia di allevamento e sfruttamento dei capi ricollegabile a questo fattore, in quanto due soli canini superiori appartengono rispettivamente ad un maschio e ad una femmina. I resti anatomici identificati come capre, pecore e capriovini, mostrano una netta concentrazione di esemplari di età compresa tra il primo ed il quarto anno, come si evince dalla prevalenza di segmenti saldati appartenenti al primo stadio di fusione e quelli non saldati che rientrano, invece, nel terzo stadio. I pochi resti dentari confermano questa tendenza. Sono stati individuati anche frammenti di età ontogenetica più giovane, ovvero un mascellare con dp4 ed M1 (in fase di eruzione), inoltre una prima falange ed un femore non saldati, tutti presumibilmente associabili allo stesso individuo, che non doveva raggiungere i sei mesi. Una scapola, infine, appartiene ad un soggetto di non più di un mese di vita.

di un garrese di oltre 20 cm superiore sia alla forma domestica rinvenuta nello stesso deposito archeologico ed appena discussa, sia più in generale al campione medievale Toscano come, infine, a numerosi altri depositi archeologici italiani (SALVADORI 2008). Allo stesso modo, due terzi molari inferiori presentano una lunghezza complessiva di 42,05 mm e 44,8 mm (sensu Von den Driesch) che, secondo un recente censimento, si colloca in un intervallo tipico della forma selvatica piuttosto che domestica (SALVADORI 2004, pp. 482-484). Lo stesso confronto con la lunghezza di otto terzi molari inferiori rinvenuti nel deposito di Rocchette, ed attribuiti al maiale (in appendice), evidenzia una differenza inequivocabile, essendo il valore massimo della forma domestica pari a 35,5 mm. Si tratta, in definitiva, dei resti di un cinghiale maschio di grosse dimensioni, che aveva superato i 36 mesi di età, come indicano i resti di un canino superiore molto usurato, attribuibile con certezza ad un soggetto maschile, l’usura dei restanti terzi molari ritrovati e, infine, lo stato di saldatura dei segmenti osteologici. Il cervo è il secondo mammifero selvatico per frequenza osteologica, essendo stati rinvenuti e determinati quattro frammenti, appartenenti ad un solo esemplare adulto78. Il capriolo, infine, chiude la rassegna degli animali selvatici, con due soli frammenti determinati attribuibili ad un esemplare adulto79.

Saldatura

5. Periodo 2 (XI secolo)

Saldato Non saldato Neosaldato I° stadio

Il deposito archeologico di XI secolo, ha restituito 547 frammenti dei quali sono stati identificati a livello di genere o specie (inclusi i frammenti classificati come capra-pecora) 251 frammenti, pari al 46% del campione, mentre 346 segmenti sono stati catalogati con nomenclature più generiche (grande ungulato, piccolo ungulato, medio vertebrato e non identificabile). Le specie identificate sono undici (vedi figura 3), appartenenti in prevalenza a mammiferi, sia selvatici che domestici, ma sono presenti anche rettili (la tartaruga terrestre Testudo sp.) ed uccelli (esclusivamente il gallo domestico). Il maiale ed i capriovini sono i gruppi tassonomici di cui è attestato il numero maggiore di resti anatomici (rispettivamente 91 frammenti e 96 frammenti ), seguiti dai bovini (36 frammenti). Le età di decesso dei tre gruppi domestici, mostrano una strategia di allevamento mirata, in primo luogo, alla produzione di carne. Per i capriovini, sembra inoltre accertabile una custodia delle greggi orientata alla produzione di tessuti, in particolare la lana, vista la preminenza di ossa di pecore rispetto alle capre. I bovini, erano certamente allevati anche per altre finalità, quindi sino in età adulta e senile, ricollegabili ad un utilizzo come forza lavoro per il traino di carri ed aratri.

Omero, distale

2

Radio, prossimale

2

Falange 1, prossimale

1

Falange 2, prossimale

2

1 1

2

II° stadio Tibia, distale

1

Fibula, distale

1

Calcaneo

1

III° stadio Omero, prossimale

1

Ulna, prossimale

3

Femore, distale

2

Tibia, prossimale

2

Fibula, prossimale

1 Usura dentaria M1

M2

M1-2 M3

Dente

a

Dente

a

Dente

j

Dente

f

Mandibola

d

a

Fig. 10: periodo 2 -stato di saldatura epifisiaria e di usura dentaria del maiale

78 Si tratta di un M3, un I2, una prima falange saldata ma incompleta e di un frammento prossimale di ulna. 79 Sono stati identificati un frammento medio-distale di scapola ed uno mediale di tibia.

149

Il soggetto di statura più modesta è tra i più bassi sino ad ora rinvenuti in Toscana, mentre i due tarsali appartengono ad esemplari indubbiamente più alti. Tale disparità, di circa 10 cm, è forse riconducibile ad un dimorfismo sessuale, piuttosto che alla presenza di razze distinte, quindi il soggetto più basso rappresenterebbe una femmina, mentre i due più alti sarebbero da identificare come maschi. A conferma di questa ipotesi, il confronto con i casi toscani medievali, sia rurali che urbani, mostra come l’intervallo di Rocchette rispecchi un andamento più generalizzato, su scala regionale. Nella vicina Rocca di Campiglia (LI), in strati datati al XIV secolo, sono presenti ovini con un garrese compreso tra 56,3 cm e 68,5 cm (SALVADORI 2004). Nella Rocca di Sillana (PI), in depositi di fine XII-inizi XIII secolo e di inizi XIV secolo, l’intervallo al garrese della popolazione ovina, interpretata dall’autore come una razza di taglia media, varia da 59,5 cm a 63 cm (CORRIDI 1996). Nella fortezza di Poggio Imperiale, una sequenza insediativa datata tra gli inizi del IX secolo ed il 1313 d.C. restituisce i resti di ovini alti 53,2 - 66,5 cm. Nella Rocca di Selvena, tra la metà del XII secolo e gli inizi del XV secolo, erano presenti greggi composte da individui con un garrese compreso tra 55,6 cm e 69,3 cm (BALDI 2003). Nel castello di Miranduolo, nei secoli IX - XII, erano allevate pecore di altezza variabile tra 60,8 cm e 64,7 cm (SALVADORI 2008). Nella città di Firenze, nel deposito archeologico conservato presso Palazzo Vecchio, in stratigrafie datate IIa metà XIV - XV secolo, è stato individuato un soggetto alto 55,7 cm. I resti osteologici classificati come bovini, di cui è stato possibile accertare un’età di decesso, sono nella quasi totalità dei casi completamente saldati, ed appartengono quindi ad esemplari che hanno superato almeno il primo anno di età. Solamente due calcanei non sono saldati, ma le dimensioni indicano comunque trattarsi di individui che si avvicinano a circa 36-42 mesi. L’unica mandibola, in cui si conserva una parte della dentatura, apparterrebbe ad un esemplare di 1618 mesi, come mostra la sequenza dentaria ivi conservata, composta da un dp4 molto usurato, un dp3 usurato, inoltre P4, P3, I1 ed I2, visibili all’interno dell’osso mandibolare ma non ancora emersi. Tali evidenze mostrerebbero una strategia tesa da un lato ad allevare animali per il lavoro, i quali potevano aver raggiunto l’età senile, come testimonia un P2 molto usurato, dall’altro ad ottenere soggetti da macellare al raggiungimento di una taglia contraddistinta da un’ottima resa in carne, forse individuabile tra il terzo ed il quarto anno, intervallo di cui si conservano in maggior quantità, anche se in numero ridotto, frammenti anatomici saldati e neo-saldati. Tra i selvatici, la famiglia dei cervidi ha restituito il numero maggiore di resti osteologici. Il cervo è la specie più frequente80, seguita dal capriolo81 ed, infine, dal daino82. Secondo la stima del numero minimo di individui, il capriolo

A fianco di una concentrazione principale, collocabile tra il secondo ed il quarto anno, si ritrovano, quindi, alcuni resti appartenenti a soggetti molto giovani, la cui macellazione e consumo dovevano essere saltuari. I reperti determinati come pecore, mostrano un’età di decesso superiore ai 12 mesi (Fig. 11). Pur tenendo conto della relativa scarsezza di questa specie, si osserva una curva di mortalità probabilmente generata da una gestione delle greggi orientata principalmente alla produzione di lana e tessuti, mentre scarso doveva essere il settore caseario, solitamente indicato da una discreta presenza di individui macellati in età molto giovane (DE GROSSI MAZZORIN 1995). Un metatarso, un calcaneo ed un astragalo integri, identificati come pecora, permettono, secondo gli indici elaborati da Teichert (1969), di stimare indicativamente l’altezza al garrese dei relativi esemplari di appartenenza. Il metatarso, ha restituito il valore più basso (54,4 cm), il calcaneo, invece, è attribuibile ad un individuo più alto di ben 10 cm (64,1 cm), mentre l’astragalo, infine, è relativo al soggetto più grande (66,3 cm). Saldatura Saldato

Non saldato

Neosaldato

I° stadio Scapola, distale

1

Omero, distale Radio, prossimale

2 (1p) 2

Falange 1

1

2

3 (p)

2

Falange 2 II° stadio Tibia, distale Fibula, distale Calcaneo Metatarso, distale

1

1 (p)

1 (p)

III° stadio Omero, prossimale

1

Radio, distale Ulna, prossimale Femore, prossimale

1

5

Femore, distale Tibia, prossimale Fibula, prossimale Vertebra lombare

1

2 Usura dentaria M1

M2

M1-2

g

f

e

Mandibola

h

Non id

Non id

Mandibola

Non id

dp4

dp3

Dente Mandibola

M3 a

80

Si tratta di 10 frammenti determinati, dei quali 2 denti, 2 radii, 1 falange, 1 mandibola, 1 metacarpo, 1 metatarso, 1 omero ed 1 plesiometacarpale. 81 Sono stati identificati 6 frammenti, in particolare 2 tibie mediali, 1 femore mediale, 1 omero distale (presumibilmente di maschio, viste le notevoli dimensioni superiori ai soggetti femminili contenuti nella collezione di confronto e simili a quelli maschili), 1 radio distale ed 1 prima vertebra cervicale integra. 82 Si tratta di un solo frammento di scapola.

dp2

Fig. 11: periodo 2 - stato di fusione epifisiaria e di usura dentaria degli ovicaprini (p= pecora)

150

del radio evidenzia, invece, un valore che rientra nella media italiana edita90. Tra gli animali selvatici sono da annoverare anche la lepre91 ed il cinghiale92, i quali rafforzano l’ipotesi di un ruolo importante della caccia tra le attività quotidiane di procacciamento di cibo, o per lo meno attestano un’attività venatoria che contempla un discreto panorama faunistico. Il gallo domestico è rappresentato da soli 6 segmenti anatomici93, una frequenza irrisoria imputabile forse non ad una scarsa presenza dell’animale da cortile nell’insediamento, quanto piuttosto alla maggior fragilità delle ossa di questa specie rispetto ai mammiferi. Il solo individuo stimabile in base alla distribuzione anatomica, è di età adulta (maggiore ai sei mesi), ma non è possibile stabilire se si tratti di un maschio oppure di una femmina. Tre frammenti di carapace di tartaruga terrestre (Testudo sp.) concludono il panorama faunistico di questo periodo.

è l’ungulato più abbondante con due soggetti, in base alla presenza di due tibie appartenenti allo stesso lato (sinistro) ed alla stessa porzione (mediale), mentre un esemplare è accertabile per il cervo ed uno per il daino. Si tratta, in tutti e tre i casi, di individui adulti, come conferma la sola attestazione di frammenti osteologici saldati. La presenza di questi animali è senza alcun dubbio riferibile a rifiuti di pasto e macellazione, procacciati attraverso attività venatorie, vista la preminenza di segmenti appendicolari e l’assenza di porzioni di palco, spesso riferibili ad un artigianato dell’osso in loco oppure a rinvenimenti casuali visto che questi animali se ne privano periodicamente una volta all’anno. Un metacarpo integro di cervo (in appendice), consente di stimare l’altezza al garrese dell’animale, secondo gli indici di Godynicki (1965), che risulta compresa tra 119 cm e 114 cm, a seconda se si tratti di un maschio oppure di una femmina, con un valore medio di 116 cm. Qualsiasi sia il valore esatto, questo intervallo di valori trova confronti, in alcuni casi attinenti mentre in altri meno, con i rinvenimenti archeozoologici italiani di età medievale. A Verona, in stratigrafie datate al XIII secolo, è stato stimato un cervo alto 115 cm83. Nella villa di San Giovanni di Ruoti (PZ), nella IIa metà del IV secolo, sono attestati due cervi leggermente più piccoli, ovvero con un’altezza al garrese di 111 cm e 112 cm84. Presso il castrum tardoantico di Ibligo Invillino (UD), in strati datati genericamente I - VII secolo, sono stati individuati tre esemplari alti rispettivamente 108 cm, 122 cm e 124 cm85. Nella della villa di Settefinestre (GR), in livelli datati in modo assai impreciso al IV - XIV secolo, è presente un esemplare che raggiunge i 125 cm al garrese86. Nel castello di Brucato (PA), infine, sono stati ritrovati, nel deposito di XI - inizi XIV secolo, i due esemplari più piccoli sino ad ora conosciuti per l’età medievale, i quali raggiungono un garrese di 82 cm e 89 cm87. Due soli segmenti anatomici di capriolo, rispettivamente un omero distale ed un radio distale, sono risultati misurabili (in appendice). La misura Bd dell’omero (sensu Von den Driesch 1976) è la maggiore sino ad ora censita per l’Italia medievale88, mentre la larghezza della troclea (BT) è seconda solamente ad un frammento ritrovato nel riempimento di un pozzo (Pozzo 181), datato alla fine del XIV secolo, rinvenuto al di sotto dell’attuale Palazzo Vitelleschi della cittadina di Tarquinia (VT)89. La misura Bd

6. Periodo 3 (XII - XIII secolo) Il deposito archeologico di XII - XIII secolo (vedi figura 3), ha restituito 276 frammenti dei quali sono stati identificati a livello di genere o specie (includendo i frammenti classificati come capra-pecora) 111 frammenti, pari al 40% del campione, mentre 276 segmenti, ovvero il 60% dell’insieme osteologico, sono stati catalogati con nomenclature più generiche (avifauna, grande ungulato, piccolo ungulato, piccolo vertebrato e non identificabile). Come per il periodo precedente, le ossa di capriovini sono le più frequenti, di poco superiori ai suini, con 52 frammenti identificati. Questo insieme tassonomico occupa il 47% del campione mentre il 36%, corrispondente a 40 ossa, è rappresentato dal maiale. I bovini sono la terza specie in ordine numerico di rinvenimento con 6 soli frammenti, pari al 5% del campione. Tale percentuale è ripresa dal capriolo di cui sono stati ritrovati 5 frammenti94. Rispetto al deposito di XI secolo ricompare il cane, già presente nelle stratigrafie altomedievali, di cui sono stati riconosciuti 4 frammenti, relativi ad un unico individuo95. Il gatto domestico, invece, è attestato per la prima volta in questo periodo con un unico frammento osteologico96. Non mancano, infine, gli animali da cortile come il pollame, anche se risulta rappresentato da un solo frammento osteologico97. 90

A Montarrenti, Bd 24,7 mm (II metà VIII-IX secolo; CLARK 2003). Presso la chiesa di S. Cecilia a Roma, Bd 25,2 mm (fine XII-I metà XIII secolo, DE GROSSI MAZZORIN, MINNITI 2004). Infine, presso Palazzo Vitelleschi a Tarquinia, Bd 23,8-27,1 mm (fine XIV secolo, CLARK 1989). 91 Sono due i frammenti recuperati; rispettivamente una prima falange integra, ed una porzione di scapola medio-distale. 92 E’ stato associato al cinghiale una testa di femore non saldata, le cui grandi dimensioni trovano confronti con la forma selvatica, oppure con le razze domestiche migliorate di età contemporanea. 93 1 omero medio-distale, 1 femore prossimale, 1 tibiotarso distale, 1 scapola medio-prossimale, 1 coracoide medio-prossimale ed, infine, 1 carpometacarpo integro. 94 2 frammenti mediali di metatarso destro, 2 tibie sinistre mediali ed 1 ulna sinistra prossimale. 95 Sostanzialmente 1 mandibola in cui si conservano 3 denti: P3, P1 e C. 96 Più precisamente una porzione medio-prossimale di tibia sinistra non misurabile. 97 Un frammento distale di femore.

83

Valore ricavato dalla lunghezza di un metatarso (RIEDEL 1994b). 84 I due esemplari sono rappresentati da due metacarpi (MACKINNON 2002). 85 I garresi massimo e minimo sono stati stimati dalla lunghezza di due metacarpi, mentre il terzo valore da un metatarso (STORK, VON DEN DRIESCH 1987). 86 Altezza calcolata da un metacarpo integro (KING 1985). 87 Valori ottenuti dalle misure di due metatarsi (BECK BOSSARD 1984). 88 Nel campione di fine XIV secolo del Palazzo Vitelleschi presso Tarquinia, 9 frammenti hanno restituito valori compresi tra 26,8 mm e 31 mm (CLARK 1989); nel deposito tardoantico di Torcello un resto misura 27,8 (RIEDEL 1979); nei livelli di I-VII secolo, rinvenuti nell’insediamento fortificato di Ibligo Invillino, un omero misura 27 mm (STORK, VON DEN DRIESCH 1987). 89 A Tarquinia i valori di BT sono compresi nell’intervallo 23,4-30,5 (CLARK 1989). Ad Invillino un solo frammento restituisce un valore di 24 mm (STORK, VON DEN DRIESCH 1987).

151

un lato alla produzione di carne per il consumo e dall’altro al ricavo di prodotti secondari quali il latte ed i tessuti (lana e pelli). Gli unici segmenti anatomici determinati a livello di specie appartengono alla pecora101, ad indicare una prevalenza, forse assoluta, di questi animali tra i capriovini e, forse, la presenza di un settore produttivo rivolto al mercato della lana. Un astragalo integro di pecora (in appendice), secondo l’indice di Teichert, appartiene ad un esemplare alto 66,8 cm. Alla luce di quanto esposto per il periodo precedente, si tratterebbe di un ovino che rientra nel range di valori individuato per il territorio toscano, quindi o un soggetto femminile oppure, non essendo possibile stabilire l’età di decesso, un maschio non completamente sviluppato. I resti osteologici di maiale, secondi per numero di segmenti identificati, mostrano una strategia univoca di allevamento e selezione dei capi da macellare. Lo stato di saldatura ed usura dentaria, nella totalità dei casi in cui è stato possibile stabilire un’età di decesso, sono riferibili ad animali deceduti tra il primo ed il terzo anno di vita, come mostra chiaramente Fig. 13. In altre parole, i maiali erano custoditi sino al raggiungimento della migliore resa in carne, ovvero del rapporto ottimale tra masse muscolari ed adipose. In un sistema d’ingrasso come quello medievale, tale obiettivo si raggiungeva tra il primo ed il terzo anno. La distribuzione anatomica di questo animale, pur nel modesto numero degli elementi anatomici rinvenuti, mostra una certa uniformità delle parti scheletriche presenti, con una leggera superiorità dei frammenti appendicolari anteriori rispetto a quelli posteriori, e con una relativa scarsità di ossa della testa rispetto al computo totale dei segmenti degli arti. Solamente due frammenti di bue, su un totale di sei determinati, consentono di stimare un’età minima di abbattimento. Trattandosi di una porzione distale di metatarso e di una seconda falange, entrambi saldati, i resti recuperati dal deposito dovrebbero appartenere ad un unico individuo di almeno due anni.

Tra i selvatici, oltre al capriolo, già accennato, sono presenti un frammento di cinghiale98 ed uno di lepre99. Come per il periodo precedente, il rinvenimento di tre distinte specie selvatiche attesta la pratica di attività venatorie, anche se il numero complessivo di resti osteologici è assai esiguo e percentualmente meno rilevante rispetto all’XI secolo. Questo elemento, in associazione all’assenza del cervo, rinvenuto invece in quantità apprezzabile nei livelli del secolo precedente, potrebbe far supporre ad un calo della caccia o per lo meno ad un ruolo più marginale nell’approvvigionamento della comunità di XII e XIII secolo. Per quanto concerne le età di abbattimento dei capriovini, lo stato di saldatura delle ossa lunghe, il grado di eruzione ed usura dei denti, nonché lo stadio di sviluppo di alcuni segmenti anatomici mostrano una mortalità eterogenea in cui sono attestati esemplari di età diverse. Sono, infatti, presenti individui molto giovani, deceduti a meno di un mese e di tre mesi, come mostrano un radio distale ed un metacarpo prossimale, inoltre un omero distale ed un radio mediale, appartenenti ad un agnello di tre - cinque mesi di vita. Una mandibola, in cui si conserva la sequenza dentaria, attesta invece la presenza di una pecora deceduta tra 8-12 mesi100. Come riportato (Fig. 12), l’intervallo compreso tra il primo ed il terzo anno concentra il numero maggiore di resti, ad indicare una selezione mirata ad alleggerire le greggi dagli esemplari sub-adulti ed adulti. Un solo frammento di radio saldato, infine, conferma il criterio selettivo ipotizzato e, inoltre, testimonia come una parte della popolazione capriovina sia stata custodita sino all’età matura se non tarda. La presenza di soggetti macellati e consumati a vari stadi di sviluppo, sembra indicare una strategia allevatizia mirata da Saldatura Saldato

Non saldato

Omero, distale

2

1

Radio, prossimale

2

I° stadio

Saldatura Saldato

II° stadio

I° stadio

Tibia, distale

2

Calcaneo

2

Omero, distale

2 (1p)

Metacarpo, distale

3

Falange 1

1

1

II° stadio

III° stadio

Tibia, distale

Radio, distale

1

Ulna, prossimale

1

1

Metatarso, distale

1

III° stadio

Usura dentaria Mandibola

Non saldato

dp4

M1

f

d

1

Omero, prossimale

2

Ulna, prossimale

2

Ulna, distale

1 Usura dentaria

Fig. 12: periodo 3 - stato di fusione epifisiaria e di usura dentaria degli ovicaprini (p= pecora)

dp4 Mandibola Mandibola

98

Si tratta di un dente canino inferiore, appartenente ad un soggetto maschile, la cui struttura robusta e le dimensioni notevoli suggeriscono un’appartenenza tassonomica alla forma selvatica. 99 Frammento di radio destro prossimale. 100 La sequenza è formata da dp4, dp3, dp2, M1 ed M2, (non ancora erotto, ma con il rispettivo alveolo in fase di formazione nell’osso mandibolare).

M1

M2

d

b

k

Fig. 13: periodo 3 - stato di saldatura epifisiaria e di usura dentaria del maiale 101 Un calcaneo, un astragalo, una tibia, un omero, una terza falange ed una mandibola in cui si osservano i denti M1, dp4, dp3 e dp2.

152

7. Periodo 4 (XIV - I° quarto XV secolo)

Saldatura

Il deposito archeologico di XIV - I° quarto XV secolo (vedi figura 3), ha restituito 360 frammenti, dei quali 179, pari al 50% del campione, sono stati identificati a livello di genere o specie (inclusi i frammenti catalogati come capra-pecora), mentre 181 segmenti, ovvero l’altra metà dell’insieme osteologico, sono stati classificati con nomenclature più generiche (grande ungulato, piccolo ungulato, medio vertebrato, piccolo vertebrato e non identificabile). I resti osteologici di maiale sono quelli più frequenti: 72 frammenti compongono, infatti, il 40% del campione faunistico. Il secondo gruppo tassonomico, per frequenza di reperti, è quello dei capriovini, i quali occupano il 34% dell’insieme con 62 frammenti, di cui 11 determinati come pecore mentre sono assenti, allo stesso modo del periodo precedente, ossa di capre. Il bue è la terza specie con una frequenza di 20 frammenti, pari all’11%. Ultimo, tra i domestici, è il pollame, di cui è stato rinvenuto un solo frammento102. Sono stati recuperati anche resti osteologici di animali selvatici, in prevalenza appartenenti alla famiglia dei cervidi. Il cervo è, infatti, rappresentato da 14 frammenti103, pari ad una frequenza dell’8%, mentre le ossa di capriolo sono risultate 6104, ovvero il 3% del campione. Il riccio (3 frammenti)105 ed il tasso (1 frammento)106 sono gli altri taxa selvatici rinvenuti. La presenza di questi animali, soprattutto dei cervidi, indica, alla luce della preminenza di segmenti appendicolari, che l’esercizio delle attività venatorie proseguì sino all’ultima fase di frequentazione, più precisamente l’aumento percentuale sul complesso di resti faunistici determinati, potrebbe forse suggerire un rinnovato interesse per la caccia. Le età di decesso dei maiali sono eterogenee, in quanto sono state ritrovate ossa appartenenti ad esemplari molto giovani107, giovani108, sub-adulti ed adulti (Fig. 14). Come evidenziato sopra, la concentrazione maggiore di segmenti anatomici converge nell’intervallo compreso tra il primo ed il terzo anno, ad indicare una strategia allevatizia volta ad ottenere capi in grado di fornire la massima resa in carne. E’ presente anche qualche raro frammento di adulto come mostrano le ossa saldate o neo-saldate, appartenenti al terzo stadio di sviluppo osteologico, probabilmente attribuibili ad una o più scrofe giunte al termine del loro ciclo riproduttivo. Non sono stati, invece, recuperati denti inferiori integri per comprovare, attraverso l’osservazione del grado di usura dentaria, quanto emerso dalle ossa appendicolari.

Saldato

Non saldato

1

2

Neosaldato

I° stadio Omero, distale Falange 1

1

II° stadio Tibia, distale

1

2

Fibula, distale Metacarpo, distale

2 1

III° stadio Omero, prossimale Radio, distale

1 1

1

Femore, distale

1

Tibia, prossimale

1

Fibula, prossimale

1

Fig. 14: periodo 4 - stato di fusione epifisiaria e di usura dentaria dei maiali Allo stesso modo dei maiali, i resti di capriovini mostrano una concentrazione importante di decessi tra il primo ed il terzo anno. Un solo frammento, infatti, appartiene ad un esemplare deceduto a poco meno di tre mesi di vita109, mentre non sono stati ritrovati resti saldati appartenenti al terzo stadio di fusione, intervallo nel quale sono attestati due segmenti non saldati (Fig. 15). Saldatura Saldato

Non saldato

3 (2p)

3

Tibia, distale

3 (1p)

1

Calcaneo

1 (p)

1

Neosaldato

I° stadio Omero, distale II° stadio 1

III° stadio Omero, prossimale

1

Tibia, prossimale

1 Usura dentaria

Mandibola (p)

dp4

M1

M2

M3

g

g

e

a

Fig. 15: periodo 4 - stato di fusione epifisiaria e di usura dentaria degli ovicaprini (p= pecora) I pochi resti di cui è stato possibile risalire indicativamente ad un periodo di decesso, suggeriscono quindi un consumo prevalente di esemplari sub-adulti ed adulti, ma non anziani. Trattandosi di un campione proveniente dalla sola area sommitale, mentre manca lo studio del materiale osteologico proveniente dal borgo sottostante, è assai difficile comprendere se la distribuzione emersa dalla zona del cassero possa essere esemplificativa di una strategia allevatizia adottata dalla comunità di Rocchette, o piuttosto rappresenti lo specchio di una domanda. In

102

Un femore sinistro distale. Si tratta di quattro resti di palco, tre coxali, un dente, un femore, tre mandibole, un omero ed un radio. 104 Un’ulna, un coxale e quattro tibie. 105 Una mandibola e due femori. 106 Una tibia. 107 Una tibia, una mandibola sinistra con inseriti dp3 e dp2, una vertebra ed un dente dp4 destro, appartengono ad un soggetto che non aveva raggiunto il mese di vita, mentre un omero, un coxale ed un femore sono riconducibili ad un individuo che non doveva superare i tre mesi di età. 108 Una tibia risulta, per lo stato di sviluppo raggiunto, appartenere ad un esemplare di circa 6-8 mesi. 103

109

153

Si tratta di un frammento medio-distale di omero destro.

sensibilmente tra un periodo e l’altro (tabelle 1 e 3) ed, inoltre, il conteggio totale per ciascuno non presenta quell’abbondanza necessaria a soddisfare appieno l’intransigente rigorosità dell’approccio, e soprattutto del criticismo, quantitativo. Ma se con dieci ossa è possibile determinare le specie presenti in un campione, con cento le proporzioni relative e con mille le variazioni di età e sesso all’interno di uno stesso taxon (DAVIS 1987), al di là di indubbie differenze numeriche, i campioni proposti possono essere considerati almeno sufficienti per avanzare alcune considerazioni sulle peculiarità paleoeconomiche che dovevano contraddistinguere l’insediamento di Rocchette nei diversi periodi esaminati.

altre parole, i resti osteologici rappresenterebbero i rifiuti di pasto di un determinato gruppo sociale, quindi attesterebbero l’esistenza di un mercato della carne: esemplari sub-adulti ed adulti costituivano la merce di scambio, erano cioè acquistati per essere consumati dagli abitanti dell’area sommitale dell’insediamento. Un calcaneo integro di pecora (di seguito in appendice), secondo l’indice di Teichert, appartiene ad un esemplare alto 57,8 cm. Secondo quanto esposto per il periodo 2, potrebbe trattarsi di una femmina, essendo saldato e quindi di adulto, la quale rientra tra i valori più modesti del range di garresi individuato nel castello ma soprattutto nel territorio toscano. I resti di bue individuati sono attribuibili a due soli esemplari di cui uno prossimo all’età adulta110, mentre un secondo avviato ormai all’età senile111. Contrariamente a quanto osservato per le altezze al garrese del cervo di periodo 2, le quali mostrano valori che rientrano nella media nazionale, un radio prossimale di cervo presenta una larghezza prossimale (Bp sensu Von den Driesch, in appendice) di dimensioni molto modeste. Il valore misurato è il più piccolo sino ad ora attestato sul territorio nazionale (Fig. 16), dal cui censimento emerge una concentrazione dei valori più elevati nel nord d’Italia. Alla luce del range di misure raccolte per il castrum tardoantico di Ibligo Invillino, delimitato tra un valore massimo di 67 mm ed uno minimo di 53 mm, così come per il cortile del tribunale di Verona, in cui sono state registrate una misura di 61,6 mm ed una di 56,3 mm, probabilmente specchio di un dimorfismo sessuale; l’esemplare di Rocchette potrebbe forse essere attribuibile ad una femmina. E’ necessario, quindi, proseguire nella raccolta di questi dati, per verificare se la contrapposizione emersa tra il settentrione ed il centro d’Italia, possa indicare semplicemente un dimorfismo sessuale attestabile su larga scala, oppure se non sia da attribuire alla presenza di cervi contraddistinti da proporzioni anatomiche differenti, forse indotte da una diversa influenza dell’ambiente stesso sull’organismo di questi animali.

Sito

Cronologia

Rocchette

XIV-I secolo I-VII

Ibligo Invillino (Stork, Von den Driesch 1987) Roma, S. Cecilia (De Grossi Mazzorin, Minniti 2004) Roma, S. Cecilia (De Grossi Mazzorin, Minniti 2004) Verona, cortile del Tribunale (Riedel 1994b)

quarto

XV

fine XII-I metà XIII secolo fine XII-I metà XIII secolo Fine VI-VII secolo

Bp (mm) 50,13 53 53,5 55,9 56,3

Settefinestre (King 1985)

IV-XIV secolo

Verona, cortile del Tribunale (Riedel 1994b)

II metà X- I metà XI secolo I-IV secolo

61,6

V-VII secolo

62,8

VI-XI secolo

63,1

Sant'Antonino di Perti (Giovinazzo, 2001)

Fine VI-VII secolo

63,2

Ibligo Invillino (Stork, Von den Driesch 1987)

I-VII

Ibligo Invillino (Stork, Von den Driesch 1987) Ibligo Invillino (Stork, Von den Driesch 1987) S. Valier (Riedel 1987)

60

62,5

67

Fig. 16: valori Bp (sensu Von den Driesch) di radii di cervo censiti sul territorio italiano L’esposizione dei dati, relativi ad ogni singolo campione faunistico di periodo, ha messo in evidenza elementi di contiguità e di diversità, i quali possono se non altro contribuire a tracciare delle tendenze importanti per un proficuo confronto sia diacronico, intra-sito, sia sincronico, con il contesto toscano nel suo complesso. Osservando l’andamento percentuale nel tempo, dei principali gruppi domestici, emerge chiaramente una crescita considerevole dei capriovini, a partire dall’XI secolo, ed una conseguente caduta dei maiali. Questi ultimi, presentano percentuali importanti nelle fasi altomedievali, raggiungendo valori che superano il 60% dell’intero insieme, a cui si contrappone un calo netto nell’XI secolo, periodo in cui occupano il 36%, ovvero due punti percentuali inferiori ai capriovini (38%). Nel periodo successivo, corrispondente al XII-XIII secolo, continua la crescita dei resti di capre e pecore, i quali raggiungono il 47% dei frammenti anatomici determinati, mentre la frequenza dei suini rimane sostanzialmente invariata. Al di là dei rapporti percentuali specifici di ogni fase, il fattore più importante è rappresentato dall’andamento sul lungo periodo, ovvero dall’VIII secolo sino al XIII secolo. L’evoluzione delle curve relative a suini e capriovini indica nell’XI secolo il momento topico di non ritorno, di separazione tra l’età altomedievale e quella

8. Conclusioni Alla luce dei dati emersi, le vicende sociali, economiche e urbanistiche, che interessarono l’area di provenienza del campione faunistico descritto, possono essere annoverate come i principali fattori tafonomici di accumulo ed alterazion. Questo non significa attribuire a tali dati un valore semantico incontestabile, il quale esemplifichi le interazioni esistenti tra la comunità antropica di Rocchette e la popolazione animale, così come le strategie allevatizie ed i costumi alimentari. L’ammontare dei frammenti osteologici determinati, ad esempio, varia 110 Indicativamente 30-36 mesi come evidenziato da un frammento di mascellare, in cui si conservano inseriti M1 ed M2 in uno stato di usura non avanzato. 111 A questo esemplare possono essere attribuiti alcuni frammenti osteologici saldati, tra i quali una prima falange, un frammento distale di femore ed una vertebra lombare neosaldata, quest’ultima associabile ad un individuo di almeno sette anni.

154

villaggio altomedievale di Campiglia M.ma (IX secolo), nel quale la concentrazione di esemplari giovani deceduti prima di aver raggiunto l’anno di vita è molto alta (SALVADORI 2004).

successiva. Questo dato trova confronti attinenti con numerosi altri casi toscani, sia urbani che rurali, e perciò rientra in una tendenza generale, contraddistinta dalla contrapposizione tra i campioni faunistici altomedievali, molto spesso connotati dalla preminenza osteologica del maiale, e quelli bassomedievali, altrettanto frequentemente caratterizzati dal predominio di ossa di capre e pecore112. I valori percentuali delle frequenze di maiale (Fig. 17), mostrano inequivocabilmente come le maggiori concentrazioni coincidano con i siti altomedievali. L’importanza dell’allevamento suino, nell’economia di numerosi villaggi altomedievali, è quindi innegabile, così come le percentuali rinvenute tra i resti di pasto e macellazione, in quanto evidenze di una cultura materiale, trasmettono la dimensione del ruolo fondamentale svolto da questa specie, quale risorsa alimentare ed economica per le popolazioni rurali (Rocchette, Miranduolo, Rocca di Campiglia e Montarrenti) ed urbane (Firenze e Pisa) della toscana altomedievale (Fig. 18). La capillare diffusione di questo animale nel territorio, è d’altronde confermata dallo spoglio della documentazione scritta; il dettagliato polittico di Santa Giulia, ad esempio, ne registra la presenza in oltre l’85% delle aziende (MONTANARI 1990, pp. 224-225). Allo steso modo le leggi longobarde (AZZARA, GASPARRI 2005), lasciano trapelare l’importante ruolo economico ricoperto dalla suinicoltura, espresso dai risarcimenti più consistenti per le offese recate a porcari, o per i furti di maiali equiparati all’appropriazione indebita di un cavallo, un animale particolarmente tutelato dai longobardi (Rothari 135, 249) ed, infine, la complessità e la consistenza stessa della forma allevatizia del maiale (Rothari 351). La consolidata importanza economica, assunta dalla suinicoltura lungo i secoli altomedievali, si evince anche dai documenti fiscali e dalle permute di proprietà, dove l’estensione degli appezzamenti boschivi si misura in quantità di maiali potenzialmente sostentabili (MONTANARI 1990). A Rocchette Pannocchieschi, quindi, tra l’VIII ed il X secolo, l’allevamento suino doveva rappresentare un’attività importante per l’approvvigionamento della comunità. Non solo la frequenza percentuale, ma le stesse età di decesso sembrano convergere in questa direzione, essendo attestati in discreto numero resti di esemplari giovani e molto giovani (al di sotto dell’anno). La loro presenza deve senz’altro essere attribuibile ad una cospicua disponibilità di capi allevati, la quale consente di macellare più spesso i maiali rinunciando, in questi casi, alla massima resa in carne. Un scelta economicoalimentare che presenta delle spiccate analogie con il

Sito

Cronologia

%NISP

NISP

Scarlino, castello (Bedini 1987)

X - XIII

68

772

Rocchette

VIII-X

64

188

Rocchette

X

63

202

Miranduolo, castello (Salvadori 2008) Firenze, piazza della Signoria (Corridi 1995) Miranduolo, castello (Salvadori 2008) Miranduolo, castello (Salvadori 2008) Settefinestre, villa sestii (King 1985) Miranduolo, castello (Salvadori 2008) Campiglia Marittima, rocca (Salvadori 2004) Montarrenti, castello (Clark 2003)

VIII-inizi IX

62

90

VII - X

59

752

fine X-metà XI

56

196

II metà XI-II quarto XII II d.C.

53

392

51

1062

Inizi IX-ultimo quarto X X d.C

49

271

49

93

II metà VIII - IX

49

127

Pisa, Piazza Dante (Sorrentino 1993) Castel di Pietra (Betetto 2005)

Metà X - Inizi XI

43

130

XIV

42

1569

Montarrenti, castello (Clark 2003)

XII - XIII

38

284

Rocca di Selvena (Baldi 2003)

37

164

Rocchette

Metà XII - Fine XIII XI

36

91

Pisa, Piazza Dante (Sorrentino 1993) Scarlino, castello (Bedini 1987)

II metà XI - I metà XIII XIV - XV

35

279

32

656

Gavorrano, Castel di Pietra (Betetto 2005) Montarrenti, castello (Clark 2003)

1320 - 1380

31

1569

XIV d.C.

30

94

Settefinestre, villa sestii (King 1985) Settefinestre, villa sestii (King 1985) Poggibonsi, Poggio Imperiale (Salvadori 2007) Siena, Santa Maria del Carmine

IV - XIV

27

635

Inizi III - III decennio III Metà IX - Primo quarto X I metà XIV

27

560

25

90

23

167

XIV d.C.

22

201

1313

21

119

XIII d.C.

20

154

Metà XIII - 1270

19

249

II metà XIII

18

137

Campiglia Marittima, rocca (Salvadori 2004) Poggibonsi, Poggio Imperiale (Salvadori 2007) Campiglia Marittima, rocca (Salvadori 2004) Poggibonsi, Poggio Imperiale (Salvadori 2007) Firenze, piazza della Signoria (Corridi 1995)

Fig. 17: sus domesticus (Erxleben 1777) - valori percentuali e frequenze assolute nei campioni medievali toscani Il confronto tra i campioni più consistenti di periodo 1 (Fase 1-2/3 e fase 3-4), non ha restituito alcuna differenza sostanziale: i rapporti tassonomici, anatomici, le età di decesso e l’osteometria presentano le stesse caratteristiche. Tale evidenza non permette di chiarire se vi sia stata una contiguità nelle strategie allevatizie, tra la prima fase di frequentazione del villaggio (VIII - IX secolo) e quella successiva (X secolo), oppure se il campione sia in realtà da associare soprattutto a rifiuti gettati nel corso della frequentazione di X secolo.

112 Quanto sin qui osservato è di per sé sufficiente per aggiungere una considerazione di carattere più propriamente metodologico: se da un lato è vero che le frequenze percentuali dei resti determinati non sono sufficienti per affermare la maggiore o minore presenza, nel sito o nel territorio circostante, delle rispettive specie, allo stesso modo una tendenza comune su più larga scala può al contrario essere lo specchio di una condizione demografica influenzata da scelte antropiche ben precise: economiche, sociali, politiche ed anche culturali; in generale da quelle influenze “eco-culturali”, per riprendere un concetto desueto, espresso oltre un ventennio fa da Maria Ginatempo (GINATEMPO 1984).

155

Fig. 18: andamento percentuale dei principali domestici lungo l’intera diacronia insediativa del castello Un secondo elemento di evoluzione diacronica, emerge dalla variazione dei rapporti tra le porzioni anatomiche del maiale, contraddistinte da una costante decrescita dei resti appartenenti alla regione della testa a vantaggio di un aumento percentuale degli arti113. Questa contrazione potrebbe forse essere riconducibile alle vicende politiche e sociali dell’insediamento, le quali determinano un cambiamento delle strategie economiche a partire dall’XI secolo. In altre parole sarebbe la manifestazione di una domanda di beni di consumo: a partire da questo momento una quota di maiali è immessa nell’area sommitale già macellata. Se così fosse, è necessario tenere presente anche i caratteri peculiari della zona di provenienza del materiale osteologico, in quanto si potrebbe trattare di uno spazio frequentato da un gruppo sociale di spicco, la cui disponibilità di liquidità, procacciata per mezzo del controllo della produzione agraria e minerale, consente loro di attrarre beni di consumo. Si tratta di un’ipotesi verosimile, ma l’assenza di un confronto con l’area del borgo non consente di verificare se effettivamente questa distribuzione anatomica sia imputabile a costumi alimentari derivanti da un contesto sociale. Alla luce di quanto emerso nel limitrofo villaggio altomedievale di Miranduolo (IX - X secolo), dove è stato operato un confronto tra i resti di pasto rinvenuti nell’area di diretto controllo signorile con quelli depositati negli spazi di residenza dei ceti subalterni, appare interessante la distribuzione delle estremità appendicolari dei domestici (carpi, tarsi, metapodi e falangi), rinvenuti in percentuali assai irrisorie nel periodo di frequentazione altomedievale di Rocchette (periodo 1). La comparazione tra gli spazi del castello di Miranduolo mostra non solo una differenza quantitativa inequivocabile, tra la famiglia dei possidenti e quelle del massaricio, divise tra loro da un profondo fossato,

ma anche qualitativa, la quale rivela, per i ceti subalterni, una condizione alimentare precaria, almeno per quel che concerne l’apporto proteico derivante dalla carne. I contadini, non solo disponevano di minori quantità di carne rispetto ai possidenti, secondo quanto espresso dalle percentuali irrisorie di ossa rinvenute nel borgo114, ma la loro alimentazione appare caratterizzata soprattutto da elementi di scarto, come indicano i segmenti osteologici attribuibili a tagli di ultima scelta (le zampe, il cranio) (SALVADORI 2008). In definitiva, i possidenti gestiscono direttamente gli animali allevati nel circondario del castello, ed in quanto tali esercitano un rigido controllo delle operazioni di macellazione e distribuzione della carne, tra gli abitanti del villaggio. Assumendo quindi l’area sommitale di Rocchette come lo spazio di diretto controllo signorile, la mancanza delle estremità degli appendicoli potrebbe essere dovuta allo stesso tipo di interazione sociale, ma si tratta unicamente di una suggestione, in quanto non essendo state rinvenute tracce del borgo altomedievale, anche se è ipotizzata una sua dislocazione in un’area non indagata archeologicamente, manca il materiale necessario per verificare se le parti associabili a tagli di qualità inferiore siano concentrate in questa parte del villaggio. Pur tuttavia, l’affinità tra i due insediamenti, a cui bisogna aggiungere il villaggio di Poggio Imperiale (seconda metà IX - inizi X secolo), dove la distribuzione dei rifiuti di pasto ha inequivocabilmente evidenziato lo stesso tipo di controllo dei consumi di carne (VALENTI 2004; VALENTI, SALVADORI 2003, 2007; SALVADORI 2003, 2007; NARDINI, SALVADORI 2000, 2003), apre nuovi quesiti sulla rappresentatività delle ossa animali quali indicatori di status sociale. Queste impressioni, impongono nuove domande al dibattito storico inerente le reali condizioni di vita delle masse contadine. Alla luce dei rinvenimenti osteologici, l’età carolingia più che un momento di rinascita appare, almeno in base a quanto emerso nei tre casi accennati, come un periodo di forte

113

Nel corso del periodo 1 (VIII - X secolo) i frammenti della testa (denti, cranio e mandibole) superano il 60% dei resti attribuiti al maiale, mentre nel periodo 2 (XI secolo) tali frammenti decrescono sino al 38%, ma rimangono comunque quelli più abbondanti. Con il periodo 3 (XIIXIII secolo), rappresentano il 39% di questa specie, assieme ai frammenti dell’appendicolo anteriore. Infine, nel periodo 4 (XIV - inizi XV secolo) sono la regione meno rappresentata con il 27% delle attestazioni.

114 Solamente il 4% (pari a 59 frammenti) dei reperti rinvenuti in stratigrafie di IX-X secolo dell’insediamento curtense di Miranduolo proviene dall’area massaricia, mentre il restante 96% (pari a 941 frammenti) è stato rinvenuto nell’area signorile (SALVADORI 2008).

156

di un mutamento più generalizzato degli assetti economici e sociali. Se, infatti, non mancano le evidenze di una presenza di attività artigianali metallurgiche già nel X secolo, ricollegabili però ad un fenomeno di accentramento di questo settore produttivo negli spazi di diretto controllo signorile (VALENTI 2004), i metodi di consumo, espressi dalle età ontogenetiche e dalle distribuzioni anatomiche, si ricollegano ad un gruppo che gestisce allo stesso tempo il settore allevatizio e non rappresenta, come sembra avvenire dall’XI secolo, semplicemente un consumatore che si rivolge ad un mercato.

depressione sociale. In una società ruralizzata, come quella altomedievale, la ricchezza si manifesta nella gestione diretta dei processi produttivi agrari, quindi nel possesso di fondi da coltivare e di animali da allevare (VALENTI 2007); i ceti contadini appaiono schiacciati verso condizioni di estrema povertà e legati ai possidenti da un’indipendenza non solo contrattuale ma anche vitale: da questi ricevono, a guisa di servi, il cibo necessario alla sopravvivenza del nucleo familiare, che nel caso della carne si tradurrebbe in quantità manifestamente più modesta e di qualità peggiore. La presenza di equidi, nei livelli di X secolo dell’area sommitale, è anch’essa in linea con altri casi toscani quali Montarrenti (CLARK 2003), Miranduolo (SALVADORI 2008), Poggio Imperiale (SALVADORI 2007; VALENTI 2004), ovvero si ritrovano negli spazi di diretto controllo signorile, a testimoniare come il possesso di un cavallo rappresenti un ulteriore elemento di appartenenza sociale. Le dimensioni stesse del cavallo rinvenuto a Rocchette, indicano trattarsi di un esemplare alto e robusto (140 cm al garrese), riconducibile a razze da cavalcatura ed essere perciò di proprietà di un personaggio di rango, appartenente all’aristocrazia militare. Se da un lato, quindi, il contesto sociale di riferimento può aver determinato differenti stati di conservazione dei segmenti anatomici, l’aumento dei capriovini nel quadro evolutivo dell’insediamento sembra invece derivare da mutamenti di più larga scala, in particolare dall’affermazione dell’agricoltura, nel corso dei secoli centrali e tardi del Medioevo, a danno degli spazi incolti, e dallo sviluppo di un mercato in cui sono richieste materie prime come la lana, forse entrambi indotti dall’espansione di nuove realtà importanti come le città. Se si osservano, allo stesso modo dei maiali, i contesti archeologici in cui sono attestate le maggiori concentrazioni di capriovini (Fig. 19), appare evidente una casistica connotata da una prevalenza schiacciante di campioni datati all’età bassomedievale. L’affermazione di nuove entità istituzionali quali le città, sembra quindi portare con sé dei cambiamenti sostanziali non solo negli assetti politici della regione toscana, ma anche e soprattutto in quelli economici. Dal punto di vista faunistico tali cambiamenti lasciano traccia nel diffuso aumento delle percentuali di capriovini, e lo stesso castello di Rocchette non ne rimane estromesso, pur trovandosi in un’area tutto sommato periferica ed essendo concentrato nelle attività metallurgiche. Le variazioni osservate nei rapporti percentuali tra le specie, così come nella distribuzione anatomica del maiale, lungo l’intera diacronia insediativa del villaggio, interessano anche le età di decesso degli animali. Il passaggio dal periodo altomedievale all’XI secolo, segna un incremento del settore produttivo della carne, per tutte e tre le principali specie domestiche, a conferma di quanto detto in precedenza riguardo ad un insediamento che si concentra principalmente nelle attività metallurgiche a scapito di altri settori produttivi, quali l’allevamento degli animali. Tenendo conto che il campione faunistico si riferisce ad uno spazio pertinente alla frequentazione di un gruppo sociale importante, quali erano i conti Pannocchieschi, in grado di produrre una domanda di beni di consumo come la carne di migliore qualità, tale cambiamento è in ogni caso il riflesso

L’allevamento non era la sola fonte di approvvigionamento carneo, accanto a resti di animali domestici compaiono costantemente anche specie selvatiche quali il capriolo, il cervo, il cinghiale e la lepre. I rapporti percentuali, con gli altri taxa, variano durante l’intera diacronia del villaggio, da valori minimi del 4%, attestati per le fasi altomedievali, sino ad un massimo dell’11%, registrato nel campione più tardo di XIV e XV secolo. Il rinvenimento di questi animali, all’interno di stratigrafie di età medievale, rappresenta un tema di discussione importante concernente i rapporti tra ceti egemoni e subalterni nell’ambito dei diritti di venazione. Il caso di Rocchette, rientra a pieno titolo in una casistica accertata per la Toscana ma non solo, in cui si constata la comparsa delle specie selvatiche in concomitanza con i primi circuiti fortificati, eretti interamente o in parte in pietra per iniziativa di una committenza privata (VALENTI, SALVADORI 2007; SALVADORI 2010b.). Il campione di periodo 1 fase 1-2, non presenta al suo interno resti di selvatici, ma la scarsità numerica del materiale non consente di attribuire tale mancanza al fatto che la caccia non fosse praticata. Il campione osteologico attribuito al periodo 1 fasi 1-2/3, lascia completamente aperto tale quesito, essendo stati rinvenuti resti di selvatici al suo interno, ma non è possibile stabilire se la loro presenza sia da riferire alla fase più antica piuttosto che a quella immediatamente successiva. In definitiva, non è accertabile se nel villaggio di VIII-IX secolo la caccia fosse annoverata tra le attività di procacciamento di cibo. Certamente con il X secolo (periodo 1 fasi 3-4) gli abitanti dell’area sommitale praticavano questo esercizio. I dati osteometrici, infine, abbondanti per il cosiddetto menuto peculio (ovvero maiali, capre e pecore) (MONTANARI 1990) restituiscono un panorama faunistico in cui non si notano sostanziali cambiamenti delle razze allevate lungo i secoli di frequentazione del sito, e nemmeno diversità sincroniche con il contesto toscano di riferimento. I maiali raggiungevano un’altezza compresa tra 65 cm e 76 cm, a cui presumibilmente corrispondeva un peso di poche decine di chili superiori al quintale. Allo stesso modo gli ovini non mostrano sostanziali variazioni, al contrario sembra essere diffusa, su buona parte del territorio regionale e per tutto l’arco medievale, una razza contraddistinta da un garrese che varia da un minimo di 53 cm ad un massimo di 70 cm, o poco più.

157

Sito

Cronologia

%NISP

NISP

Firenze, piazza della Signoria (Corridi 1995)

II metà XIII

67

500

Campiglia Marittima, rocca (Salvadori 2004)

XIV

63

390

Firenze, via de’ Castellani (Corridi 1995)

II metà XIV - Metà XVI

51

196

Castel di Pietra (Betetto 2005)

XIV

48

1795

Rocchette

XII-XIII

47

52

Poggibonsi, Poggio Imperiale (Salvadori 2007)

Metà IX - I quarto X

43

132

Pisa, Piazza Dante (Sorrentino 1993)

Metà XV - I metà XVII

42

153

Pisa, Piazza Dante (Sorrentino 1993)

II metà XI - I metà XIII

41

329 139

Pisa, Piazza Dante (Sorrentino 1993)

Metà XIII - I metà XV

38

Rocchette

XI

38

96

Siena, Santa Maria del Carmine

I metà XIV

37

265

Rocca di Selvena (Baldi 2003)

Metà XII - Fine XIII

36

158

Montarrenti, castello (Clark 2003)

XV

36

110

Gavorrano, Castel di Pietra (Betetto 2005)

1320 - 1380

35

1795

Montarrenti, castello (Clark 2003)

II metà VIII - IX

35

90

Poggibonsi, Poggio Imperiale (Salvadori 2007)

1155 - Metà XIII

33

151 168

Miranduolo, castello (Salvadori 2008)

Inizi IX-ultimo quarto X

31

Pisa, Piazza Dante (Sorrentino 1993)

Metà X - Inizi XI

30

92

Poggibonsi, Poggio Imperiale (Salvadori 2007)

Metà XIII - 1270

29

377

Miranduolo, castello (Salvadori 2008)

fine X-metà XI

25

88

Miranduolo, castello (Salvadori 2008)

II metà XI-II quarto XII

24

176

Rocchette

VIII-X

23

69

Montarrenti, castello (Clark 2003)

XII - XIII

22

164

Scarlino, castello (Bedini 1987)

XIV - XV

21

437

Rocchette

X

20

63

Firenze, piazza della Signoria (Corridi 1995)

VII - X

18

228

Campiglia Marittima, rocca (Salvadori 2004)

XIII

17

131

Poggibonsi, Poggio Imperiale (Salvadori 2007)

1313

16

91

Settefinestre, villa sestii (King 1985)

IV - XIV

16

361

Settefinestre, villa sestii (King 1985)

II

13

260

Scarlino, castello (Bedini 1987)

X - XIII

12

141

Settefinestre, villa sestii (King 1985)

Inizi III - III decennio III

5

107

Fig. 19: capre e pecore - valori percentuali e frequenze assolute nei campioni medievali toscani

158

Falange 1 (Bp 18,27 SD 15,42 Bd 17,97 Dd 16,23) Capriolo (Capreolus capreolus L., 1758) Scapola (SLC 17,88 GLP 27,89 LG 20,77 BG 19,18) Gallo domestico (Gallus gallus L., 1758) Carpo-Metacarpo (GL 37,75 L 35,18 Bp 12,45 Did 6,4)

Appendice di Frank Salvadori Le misure, riportate in millimetri, fanno riferimento al volume di Angela Von den Driesch (Von den Driesch 1976). Periodo 1 fasi 1-2/3 (VIII-X secolo) Bue (Bos taurus L., 1758) Omero (BT 59,3) Naviculo-cuboide (GB 48,38 GD 42,57) Falange 1 (GLpe 51,52 Bp 20,73 SD 17,21 Bd 19,33 Dp 23,23 Dd 16,85) Falange 3 (DLS 65,52 Ld 51,08 MBS 20,02) Capra (Capra hircus L., 1758) Tibia (Bd 26,32 Dd 20,98) Pecora (Ovis aries L., 1758) M1 (L 15 B 7,51) Scapola (SLC 16; SLC 18,35 GLP 30,30 LG 24,11 BG 18,33) Radio (Bp 27,55 BFp 25,44) Tibia (Bd 27,13 Dd 20,41; Bd 23,83 Dd 18,26) Calcaneo (GB 16,57) Maiale (Sus domesticus Erxleben, 1777) M1-2 (L 21,57 B 15,37) M1 (L 16,1 B 14,17; L 15,5 B 13,88) M2 (L 20,45 B 17,01; L 21,24 B 16,14) M3 (L 30,85 B 16,96) Mandibola (9 72,65) M1 (L 15,1 B 10,31; L 15,35 B 10,75; L 17,1 B 10,88; L 16 B 10,46; L 15 B 10,79; L 15,66 B 10,64; L 16,15 B 11,48; L 17,12 B 10,58) M2 (L 18,05 B 12,18; L 20,55 B 13,36; L 20,12 B 13,17; L 19,65 B 12,37; L 21,78 B 13,26; L 20,25 B 13; L 18,7 B 13,01; L 19,6 B 15,85; L 19 B 12,95; L 21,9 B 14,01) M3 (L 29,05 B 14,03; L 27,58 B 15,9; L 32,74 B 14,99; L 27,89 B 14; L 30,1 B 14,61; L 27,2 B 13,93; L 35,5 B 15,41; L 29,7 B 14,75) Atlante (BFcd 45,8 GLF 36,49 LAd 19,53 H 47,11) Scapola (GLP 29,86 LG 25,04 BG 21,94; SLC 21,75; SLC 21,85; SLC 22,35) Omero (SD 14,92; SD 17,76) Radio (Bp 26,18 Dp 17,74; Bp 27,62 Dp 17,14; Bp 27,32) Ulna (DPA 32,62 BPC 17,24; DPA 33,05 BPC 20,27; DPA 32,21 BPC 17,78) Metacarpo 3 (GL 71,21 B 11,86 Bd 15,73) Tibia (Bd 25,82 Dd 23,05; SD 19,04) Astragalo (GLl 38 GLm 35,68 Dl 18,97 Dm 21,49 Bd 20,43) Cuboide (GB 21,24) Falange 1 (Bd 13,1 Dd 9,53) Falange 3 (DLS 31,48 Ld 30,27 MBS 12,35) Cinghiale (Sus scrofa L., 1758) M3 (L 44,8 B 18,64; L 42,05 B 15,85) Metacarpo 4 (GL 92,92 Lep 90,24 Bp 19,77 B 16,07 Bd 20,72 Dp 19,59) Metatarso 3 (Bp 17,4) Cervo (Cervus elaphus L., 1758)

Periodo 1 fasi 3-4 (X secolo) Bue (Bos taurus L., 1758) M1 (L 26,78) M2 (L 26,61 B 15,2) M3 (L 36,76 B 16,22) Metacarpo (Bp 53,5 SD 29,73) Coxale (LA 49,68) Calcaneo (GB 41,96) Falange 1 (Bd 24,15 Dd 18,28) Falange 3 (DLS 60,95 Ld 45,17 MBS 18,76) Capra (Capra hircus L., 1758) Omero (Bd 29,86 BT 27,56) Pecora (Ovis aries L., 1758) Scapola (SLC 18,45; SLC 19,2) Omero (Bd 29,26 BT 24,98; SD 15,15 Bd 30,1 BT 28,96) Tibia (Bd 25,35 Dd 21,73) Falange 1 (GLpe 35,29 Bp 12,2 SD 11,27 Bd 13,51; GLpe 30,28 Bp 10,8 SD 9,55 Bd 9,94) Maiale (Sus domesticus Erxleben, 1777) M1 (L 16,4 B 13,31; L 16,35 B 13,83) M2 (L 20,3 B 15,21; L 20,9 B 16,33) M1 (L 15,25 B 10,97; L 16,6 B 10,4; L 14,3 B 9,85; L 14,8 B 10,59; L 16,46 B 10,33) M2 (L 18,1 B 12,46; L 19,55 B 13,4) M3 (L 31,25 B 14,89; L 28,1 B 13,93; L 30,63 B 14,18) Vertebra toracica (PL 24,99 GLPa 32,98 BPacr 33,09 BFcr 26,82 HFcr 14,86 BFcd 14,72 HFcd 16,68) Scapola (SLC 22,26 BG 25,06; SLC 21,96 BG 22,53; SLC 22,56) Omero (Bd 37,15 BT 32,04) Radio (Bp 25,98 SD 14,91; Bp 24,71; Bp 30,05 Dp 20,59; SD 16,41) Ulna (DPA 31,64 BPC 19,74; DPA 32,2 BPC 18,92; DPA 34,04 BPC 20,98; DPA 30,65 SDO 22,94 BPC 16,92; DPA 34,2 BPC 19,08; BPC 19,28; DPA 29,63 BPC 20,0) Metacarpo 2 (Bp 3,92) Metacarpo 3 (Bp 16,23) Metacarpo 5 (Bp 4,96; GL 50,49 Bp 7,59 B 5,5 Bd 10,22) Coxale (LA 35,58 LAR 27,75) Femore (Bd 39,77) Tibia (Bd 29 Dd 24,26) Astragalo (GLl 36,96 Glm 34,57 Dl 18,29 Bd 21,79) Calcaneo (GB 22,99; GB 17,98) Metatarso 3 (Bp 14,94; Bp 13,92 B 11,41; Bp 14,62) Metatarso 5 (Bp 5,75) 159

Gallo domestico (Gallus gallus L., 1758) Scapola (Dic 12,58) Carpometacarpo (GL 33,43 L 28,7 Bp 10,49 Did 6,7) Tibiotarso (Bd 12,54 Dd 13,04)

Falange 1 (GLpe 33,17 Bp 15,13 SD 12,1 Bd 15,18; GLpe 29,52 Bp 13,93 SD 11,0 Bd 13,13) Falange 2 (GL 22,63 Bp 16,22 SD 13,4 Bd 14,61) Falange 3 (DLS 28,18 Ld 26,28 MBS 9,8; DLS 31,13 Ld 29,91 MBS 11,87) Cavallo (Equus caballus L., 1758) Radio (GL 342,25 PL 334,93 Ll 322,91 Bp 83,06 BFp 76,13 SD 40,06 Bd 76,14 BFd 63,8) Ulna (DPA 62,23 BPC 47,56) Cinghiale (Sus scrofa L., 1758) Metacarpo 3 (GL 88,57 Lep 84,1 Bp 21,39 B 17,92 Bd 21,45) Coxale (SH 36,86 SB 14,8) Metatarso 3 (Bp 18,59 B 14,64) Cervo (Cervus elaphus L., 1758) Falange 1 (GLpe 58,28 Bp 21,84 SD 17,16 Bd 20,26; GLpe 57,78 Bp 22,58 SD 16,63 Bd 20,98; SD 15,89 Bd 18,13; Bp 19,02 SD 14,89 Bd 17,97) Capriolo (Capreolus capreolus L., 1758) Scapola (SLC 16,98 GLP 27,9 LG 21,24 BG 21,2) Gallo domestico (Gallus gallus L., 1758) Ulna (GL 69,63 Dip 12,4 Bp 9,08 SC 4,28 Did 9,46) Tibiatarso (SC 5,42 Bd 10,28 Dd 10,63)

Periodo 3 (XII- XIII secolo) Bue (Bos taurus L., 1758) Falange 2 (GL 37,23 Bp 28,85 SD 22,65 Bd 24,39 Dp 31,33) Pecora (Ovis aries L., 1758) Omero (SD 14,93 Bd 30,81 BT 29,13) Tibia (Bd 25,16 Dd 19,55) Astragalo (GLl 29,47 GLm 28,41 Dl 16,96 Dm 17,24 Bd 19,24) Falange 3 (DLS 23,6 Ld 19,13 MBS 4,86) Maiale (Sus domesticus Erxleben, 1777) Vertebra cervicale 1 (GL 40,67 BFcd 56,81 GLF 39,64 H 48,19) Scapola (SLC 22,76) Ulna (BPC 19,67; BPC 18,76) Falange 1 (GLpe 32,22 BP 15,67 SD 12,2 Bd 15,21 Dp 9,91 Dd 15,52) Lepre (Lepus sp.) Radio (Bp 9,96) Capriolo (Capreolus capreolus L., 1758) Ulna (DPA 25,52 SDO 22,28 BPC 15,81) Tibia (SD 12,58) Metatarso (SD 12,73; SD 12,96) Gallo domestico (Gallus gallus L., 1758) Femore (Bd 13,46)

Periodo 2 (XI secolo) Bue (Bos taurus L., 1758) Calcaneo (GB 40,59) Falange 1 posteriore (GLpe 58,3 Bp 30,42 SD 23,6 Bd 27,64 Dp 30,22) Capra (Capra hircus L., 1758) Astragalo (GLl 27,76 GLm 25,68 Dl 14,96 Dm 15,51 Bd 17,02) Calcaneo (GL 60,36 GB 20,26) Pecora (Ovis aries L., 1758) Omero (SD 14,7 Bd 30,04 BT 29,33) Coxale (LA 29,77) Tibia (SD 13,68 Bd 24,38 Dd 20,7; Bd 26,34 Dd 20,81; SD 14,83 Bd 25,56 Dd 20,62) Metatarso (GL 119,79 Bp 19,85 SD 11,93 Bd 24,6 Dd 15,49 Dp 19,66) Astragalo (GLl 29,24 GLm 27,02 Dl 16,21 Dm 16,98 Bd 19,7) Calcaneo (GL 56,26 GB 20,04; GB 22,12) Maiale (Sus domesticus Erxleben, 1777) M3 (L 29,7 B 16,36) M3 (L 32,95 B 15,05) Scapola (SLC 21,5) Radio (Bp 27,72; Bp 27,83 SD 17,42 Dp 18,95) Ulna (BPC 18,63; DPA 34,1 BPC 20,03) Falange 1 (GLpe 30,71 Bp 13,54 SD 11,85 Bd 13,82 Dp 12,73 Dd 9,48) Falange 3 (DLS 24,99 Ld 23,63 MBS 9,97; DLS 24,4 Ld 22,54 MBS 10,19) Cervo (Cervus elaphus L., 1758) Metacarpo (GL 254,90 Bp 43,15 SD 23,67 Bd 43,12 Dd 29,38 Dp 31,94 DD 19,98) Falange 2 (GL 39,27 Bp 19,86 SD 15,12 Bd 16,97 Dp 26,50 Dd 24,42). Capriolo (Capreolus capreolus L., 1758) Omero (Bd 31,63, BT 30,2) Radio (Bd 25,36, Bfd 21,7)

Periodo 4 (XIV-I° quarto XV secolo) Bue (Bos taurus L., 1758) M3 (L 25,86 B 21,36) Falange 1 (GLpe 54,13 Bp 20,56 SD 16,73 Bd 20,48 Dp 25,95 Dd 15,58) Pecora (Ovis aries L., 1758) Omero (Bd 29,45 BT 27,52; Bd 30,75 BT 29,28) Tibia (SD 14,21 Bd 24,61 Dd 20,05) Calcaneo (GL 50,71 GB 17,72) Maiale (Sus domesticus Erxleben, 1777) M1 (L 15,75 B 13,67) M2 (L 21,73 B 15,18) Omero (Bd 37,36 BT 28,24; Dp 53,58) Radio (SD 18) Metacarpo 3 (Bp 15,62; Bp 17,26) Metacarpo 5 (GL 48,1 B 5,48 Bd 9,6) Femore (SD 18,83) Falange 1 (GLpe 31,95 Bp 15,02 SD 12,6 Bd 14,84 Dp 14,33 Dd 9,83) Cervo (Cervus elaphus L., 1758) Radio (Bp 50,13 BFp 47,58) Coxale (LA 50,95) Femore (SD 26,8) Capriolo (Capreolus capreolus L., 1758) Ulna (DPA 22,63 BPC 12,37)

160

Analisi antracologiche

3.6 Boschi e coltivi: la gestione delle risorse agroforestali

Ai fini dello studio è stato considerato il materiale superiore ai 2 mm. I carboni sono stati osservati con un microscopio ottico a luce riflessa munito di contrasto interferenziale con ingrandimenti a 100x, 200x e 500x; l’identificazione tassonomica è avvenuta per confronto con atlanti di anatomia del legno (GREGUSS 1959; SCHWEINGRUBER 1990; VERNET 2002) e con i materiali della collezione del Laboratorio di Archeologia Ambientale dell’Università degli Studi di Siena. La nomenclatura tassonomica utilizzata fa riferimento a Pignatti (1982). L’analisi antracologica è finalizzata di norma alla ricostruzione del paesaggio forestale che circonda il sito, ma può fornire anche informazioni economiche e tecnologiche legate all’uso della risorsa legno. In antracologia, si parla di carboni ‘concentrati’, che sono quelli derivati da un unico evento (focolari, fornaci, pali, elementi di strutture), e di carboni ‘dispersi’, che sono il risultato di più episodi di combustione (CHABAL 1997). I primi sono di norma di grosse dimensioni e forniscono importanti indicazioni sul legname da opera impiegato, ma hanno scarso significato ai fini della ricostruzione del paesaggio vegetale, mentre i secondi, sempre molto piccoli, sono quelli che meglio si prestano alle ricostruzioni paleo ambientali. I campioni provenienti da us interpretate come piani di vita, accumuli in seguito all’abbandono delle strutture o all’uso come immondezzai possono essere considerati ‘buoni’ ai fini della caratterizzazione ecologica del paesaggio. Dallo scavo proviene un’unica campionatura “concentrata” relativa al palo di una capanna che ha fornito indicazioni di carattere tecnologico.

Mauro Buonincontri, Giuseppe Di Falco, Gaetano Di Pasquale Introduzione Dall’età etrusca, il distretto delle Colline Metallifere ha visto modificare fortemente il proprio territorio, soprattutto per l’intenso sfruttamento minerario. Qui l’impatto antropico si è compiuto nell’uso delle foreste per la legna necessaria ai processi di estrazione mineraria e nella gestione degli spazi per le coltivazioni e l’allevamento. Da diverso tempo la collaborazione tra i laboratori di Siena e Napoli mira a risolvere quest’aspetto dell’archeologia del paesaggio. Proseguendo quanto iniziato con Montarrenti (CANTINI, GIORGI 2003), le ricerche sui siti di Campiglia Marittima (DI PASQUALE 2004), Populonia (DI PASQUALE, TERZANI 2006), Miranduolo (DI PASQUALE, DI FALCO, MOSER 2008), ora Rocchette e, nel futuro prossimo, Donoratico, Cugnano e Rocca degli Alberti, hanno fornito e forniranno una mole di dati tale da rendere il comprensorio tra le province di Livorno e Siena il più studiato in Italia centrale dal punto di vista delle interazioni tra l’uomo e il paesaggio agroforestale. Il sito di Rocchette Pannocchieschi è ubicato ad un’altitudine di circa 450 m s.l.m., su substrato litologico caratterizzato da calcare cavernoso e massiccio che in questa zona della Metallifere contraddistingue versanti a pendenza da moderata a forte, soggetti di conseguenza ad erosione idrica. Il suolo che ne deriva è poco profondo, da debolmente a molto calcareo, da neutro a debolmente alcalino, ben drenato. Climaticamente, l’area presenta una temperatura media annuale compresa tra i 13° e i 14° C e una piovosità media tra i 950 e i 1000 mm. La copertura è prevalentemente forestale, con boschi a prevalenza di carpino nero, con cerro e leccio; fa parte del piano arboreo anche l’orniello, diffuso ovunque, ed è presente anche la roverella. La composizione specifica varia in relazione alle condizioni stazionali: leccio, carpino nero e talora cerro tendono localmente a formare popolamenti quasi puri.

Analisi carpologiche L’unica unità a restituire carporesti è stata la 900. Tutto il materiale si presentava carbonizzato e in buono stato di conservazione (pressoché totale assenza di fratture e protusioni). L’analisi è avvenuta mediante osservazione allo stereo microscopio; sono stati separati gli interi dai frammenti, entrambi i gruppi contati, ed ogni categoria è stata identificata e suddivisa per specie/tipo carpologico in base ai caratteri morfologici. La determinazione tassonomica è avvenuta per confronto con i materiali della collezione del Laboratorio di Archeologia Ambientale dell’Università degli Studi di Siena e con atlanti e letteratura specialistica (RENFREW 1973; SCHOCH ET AL. 1988; VIGGIANI 1991; HUBBARD 1992; MAIER 1996; SADORI, SUSANNA 2005). La nomenclatura tassonomica utilizzata fa riferimento a Pignatti (1982). Per quanto riguarda i grani nudi, benché si tratti di specie geneticamente ben differenziate (esaploidi e tetraploidi), è difficile distinguerne in modo certo le cariossidi carbonizzate: molto simili per taglia e forma, per la loro identificazione sono necessarie le parti della spighetta (HUBBARD 1992; MAIER 1996; ALONSO 2005; RUAS et al. 2005), assenti nel campione. La dizione Triticum aestivum/turgidum, in accordo con Zohary e Hopf (2000), è usata per indicarli genericamente. I taxa rinvenuti sono stati raggruppati per gruppo

1. Materiali e metodi La campagna di scavo ha permesso di recuperare complessivamente 6 campioni di terra, ciascuno di volume pari a 1,5 dm3, provenienti da altrettante unità stratigrafiche individuate nell’area 600. Il materiale abbraccia tre fasi cronologiche attribuibili al X secolo, alla fine dello stesso/inizi del XI e infine alla prima metà del XIV secolo. L’estrazione dei macroresti botanici, carboni e semi, è stata fatta in laboratorio mediante setacciatura manuale a secco, usando una colonna di setacci con maglie di 4-2-10,5 mm.

161

PASQUALE 2004), il castello di Cugnano (DI PASQUALE, DI FALCO 2005) e la curtis di Miranduolo (DI PASQUALE, DI FALCO, MOSER 2008), mostra per tutto il Medioevo che il legno di querce a foglie caduche è di gran lunga il più utilizzato in carpenteria per le sue proprietà tecnologiche e come fonte energetica per il suo potere calorifero; i frutti della pianta sono invece apprezzati per l’alimentazione animale. Carbone di orniello (Fraxinus ornus) è stato rinvenuto nei livelli di accumulo in seguito all’abbandono di una tettoia ad uso artigianale, associato alla quercia, al noce (Juglans regia) e al castagno (Castanea sativa). L’utilizzo di legno e ramaglia di frassino, anche come materiale d’opera, è attestato presso lo scavo medievale del castello di Miranduolo. Di particolare interesse la presenza del noce e del castagno, specie coltivate per il legno e la produzione di frutti. A Miranduolo, frammenti del guscio dell’endocarpo di noci sono state rinvenute nelle stratigrafie comprese tra IX e XI secolo (DI PASQUALE, DI FALCO, MOSER 2008). Sempre a Miranduolo la regolare presenza del castagno come legno da opera e come frutto, lungo l’intera fase insediativa, ha retrodatato l’inizio della castanicoltura in Toscana al secolo VIII (DI PASQUALE, DI FALCO, MOSER 2008); il dato di Rocchette indica la presenza della specie alla fine del secolo X periodo in cui, secondo le fonti storiche (ANDREOLLI 1977; MONTANARI 1979), inizierebbe la grande diffusione della coltivazione del castagno in Toscana. L’erica (Erica), specie sempreverde della macchia mediterranea, compare nelle stratigrafie di XIV secolo in associazione con le querce a foglie caduche. Nel complesso i pochi dati antracologici di Rocchette permettono una bozza di ricostruzione del paesaggio forestale. Considerando solo i campioni “dispersi”, utili a questo scopo, le identificazioni hanno permesso di determinare taxa riferibili ad un bosco misto di caducifoglie, verosimilmente a maggioranza di querce, con buona probabilità cerro e/o roverella, le più comuni in questa fascia collinare delle Toscana meridionale, in cui potevano trovare spazio individui coltivati di castagno e noce.

ecologico e le percentuali calcolate sulla base dei soli individui recuperati interi. 2. Risultati Carboni Sono stati analizzati frammenti di dimensioni variabili dai 4 mm ai 3 cm, con il riconoscimento di 5 taxa (Figg. 1 e 2). Quercus tipo caducifoglia è il gruppo più presente (60,78% dei carboni dispersi); con questo nome vengono indicati tutti quei carboni le cui caratteristiche anatomiche riconducono a quelle specie di quercia a foglia caduca presenti in Italia. Le querce decidue della Toscana si riducono a quattro specie: la roverella (Quercus pubescens Willd.), il cerro (Quercus cerris L.), la rovere (Quercus petraea -Matt.- Liebl.) e la farnia (Quercus robur L. s.s.) (BERNETTI 1987). Il carbone è il più attestato in tutte le us e nelle tre fasi cronologiche considerate. Tra le altre essenze utilizzate, Fraxinus ornus (19,61%) e le specie coltivate Castanea sativa (1,96%) e Juglans regia (1,96%). La vegetazione sempreverde mediterranea è scarsamente rappresentata col genere Erica (5,88%). Semi e frutti Sono stati analizzati 235 carporesti, interi e frammentati, per un totale di 10 taxa, con una netta prevalenza di specie coltivate o coltivabili (cereali e legumi) sulle infestanti Poaceae e Fabaceae (vedi figura 2). Tra le coltivate/coltivabili prevalgono i cereali (92,17%): Triticum aestivum/turgidum (grani nudi, 90,43%) e di seguito Hordeum vulgare (vestito, 1,30%) e Triticum cfr dicoccum (0,43%); il primo gruppo, in particolare, rappresenta la quasi totalità del campione. Tra i legumi (5,22%) sono presenti, invece, Pisum sativum (1,74%), Lens culinaris (1,30%), Vicia sativa (1,73%) e Vicia cfr ervilia (0,43%). Infine, le sporadiche infestanti identificate (2,61%) appartengono alle famiglie Poaceae e Fabaceae: Lolium sp. (1,74%), Vicia cfr. cracca (0,43%) e Lathyrus sp. (0,43%).

La produzione agricola e l’alimentazione I grani nudi sono una presenza più che significativa all’interno del campione analizzato. Dal punto di vista economico avevano una resa maggiore ed erano destinati esclusivamente alla panificazione (CORTONESI 1997), che si trattasse di grano tenero (esaploide, Triticum aestivum), duro (tetraploide, T. durum) o grosso (tetraploide, T. turgidum). La presenza della qualità vestita di orzo (Hordeum vulgare), spesso indicata anche come foraggio animale (ZOHARY, HOPF 2000), può essere in questo contesto attribuibile ad un probabile consumo umano come suggeriscono alcuni reperti rinvenuti puliti dalle glume. L’orzo, adatto come il farro (T. cfr dicoccum) alla preparazione di zuppe, contribuiva eventualmente ad una panificazione mista (CORTONESI 1997). I cereali rinvenuti non si discostano da quanto fino ad ora evidenziato per l’Italia settentrionale medievale (CASTELLETTI et alii 2001) e, in particolare, per la Toscana dopo il secolo VIII: le stesse specie sono state infatti individuate anche

3. Discussione Il bosco e la scelta del legno L’ampia presenza del gruppo delle querce a foglie caduche fa pensare ad un utilizzo del legno come fonte energetica e come materiale costruttivo. I frammenti provenienti dal piano di vita e dagli accumuli per abbandono e discarica testimoniano l’uso della quercia soprattutto come fonte energetica per le attività connesse all’uso del fuoco; l’evidenza più significativa, per l’uso del legno come materiale d’opera, è emersa invece dallo studio dei reperti recuperati nel riempimento di una buca per palo (us 900, fine X-inizio XI secolo, 100% Quercus caducifoglia). Un confronto coi siti compresi tra la Montagnola senese e la Colline Metallifere, ovvero la curtis di Montarrenti (CANTINI, GIORGI 2003), la rocca di Campiglia (DI 162

coevi dell’Italia settentrionale e della Toscana. I legumi, complementari ai carboidrati dei cereali, sono una delle maggiori fonti di proteine vegetali e forniscono aminoacidi, fosforo, potassio, ferro e vitamina B. Dopo il raccolto potevano venire consumati freschi o cotti oppure essiccati se si volevano conservare a lungo. Lenticchie e piselli potevano venire cotti in acqua per preparare pappe e minestre, spesso miste con i cereali o con l’aggiunta di pezzi di carne per ottenere cibi più compositi. Ervo (Vicia ervilia) e veccia dolce (V. sativa) sono destinate all’allevamento, tuttavia nei periodi di miseria non venivano disprezzate nella creazione di zuppe o farinate (MONTANARI 1979; ZOHARY, HOPF 2000). Tuttavia non si esclude che la loro presenza nel campione sia dovuta ad individui che infestavano, ad esempio, le coltivazioni di cereali (JONES, HALSTEAD 1995). Infine la frutta secca, non rinvenuta tra i carporesti, ma che possiamo ipotizzare per la presenza, tra i carboni, di castagno (Castanea sativa) e noce (Juglans regia), taxa i cui frutti, raccolti durante l’autunno, potevano venire consumati freschi o conservati per la stagione fredda, cui erano molto adatti perché ricchi di proteine.

in altri siti rurali come Montarrenti, Luni (CASTELLETTI 1977) e Miranduolo. Si segnala tuttavia la pressoché totale assenza dal campione di Rocchette dei cereali inferiori e meno pregiati come la segale, il farro monococco, il miglio e il panico presenti invece nei siti sopra menzionati. Premettendo che una sola us ha restituito carporesti, una spiegazione plausibile andrebbe allora cercata nell’origine dell’accumulo archeologico. Nel caso dei grani nudi, l’assenza di glume, frammenti di rachide e basi di spighetta indica che siamo in presenza di materiale ripulito, pronto per il consumo o la macinazione e la produzione di farina; in questo senso va interpretata anche la bassa quantità di semi attribuibili alle specie infestanti (cicerchia, loglio e veccia montanina) che potevano sfuggire durante le operazioni di vagliatura dopo la trebbiatura dei cereali (HILLMAN 1981, 1984; JONES 1984). Tra le fabaceae, le specie riconducibili ad un sicuro consumo alimentare umano sono lenticchia (Lens culinaris) e pisello (Pisum sativum). Anche per quanto riguarda i legumi, premettendo quanto accennato sopra sull’origine dell’accumulo archeologico, Rocchette è in linea con i siti

Fig. 1: risultati antracologici dei carboni “dispersi”. Taxa identificati e frequenza nelle singole unità stratigrafiche e fasi cronologiche

163

Fig. 2: risultati carpologici. Taxa identificati e frequenza nelle singole unità stratigrafiche e fasi cronologiche

164

Archeometria dell’Instituto de Investigaciones Antropológicas della UNAM, già applicate in diverse occasioni in Italia (BARBA et alii 1991, BARBA 2007, PECCI 2009). Tali analisi sono dirette alla determinazione della presenza di fosfati, acidi grassi, residui proteici e del livello del pH:

3.7 Le analisi funzionali degli spazi abitativi: il caso di una capanna altomedievale Alessandra Pecci Introduzione



Svolgere attività lascia spesso tracce sulle superfici d’uso, che assorbono le sostanze liquide e semiliquide con cui entrano a contatto. Dall’analisi dei residui assorbiti da tali superfici è pertanto possibile proporre delle ipotesi sul tipo di attività svolte (BARBA 1986, 2007; BARBA et alii 1996; MIDDLETON et alii 2010; PECCI 2003; 2009). In particolare, ricerche sul campo hanno dimostrato che anche piani di calpestio quali i battuti possono mantenere le concentrazioni chimiche prodotte dalle attività umane (BARBA, ORTIZ, 1992; LÓPEZ VARELA et al. 2005; PECCI et alii 2010, 2011). Tali considerazioni sono basate su lavori di tipo etnoarcheologico in cui sono stati analizzati piani di calpestio di case abitate attualmente o abbandonate di recente. I risultati delle analisi sono stati messi a confronto con la distribuzione degli spazi e l’uso delle diverse aree evidente nell’organizzazione della casa o dai racconti delle persone che vi hanno vissuto (BARBA, BELLO 1978; BARBA, ORTIZ 1992; BARBA, DENIS 1981; BARBA et alii 1995; FERNANDEZ et alii 2002; LÓPEZ VARELA et alii 2005). In questo modo si è potuto mettere in relazione le concentrazioni degli elementi chimici con le attività osservate in campo e l’informazione fornita dagli abitanti. A Rochette il piano di calpestio della capanna denominata struttura 2 (attività 101, US 728 e 773) è stato campionato per cercare di capire la destinazione d’uso della struttura e l’utilizzo delle diverse aree al suo interno. La struttura 2 è una capanna di forma irregolare, semicircolare, di dimensioni 5x 2,5 m circa, a livello del suolo, con una canaletta perimetrale e due buche di palo interne. La canaletta serviva probabilmente a inserire l’assito di legno. Vi sono inoltre tracce di fuoco nelle US 724 e 790 (attività 109), interpretate come focolari interni alla capanna. Le buche di palo sono rasate, così come una parte della canaletta, facendo pensare che probabilmente non si sia conservato del tutto il piano di calpestio originale. D’altra parte, come si vedrà di seguito, la presenza di concentrazioni chimiche suggerisce che almeno parte dei residui delle attività svolte si siano conservati.







fosfati: si trovano in luoghi in cui sono stati depositati rifiuti organici ricchi in fosforo (feci, alimenti, sangue, ossa); si trovano per esempio nelle cucine, nelle stalle, nelle latrine, nelle tombe, nelle discariche, nelle zone destinate alla macellazione degli animali. residui proteici: si trovano in prodotti vegetali o animali, in particolare nella carne, nel sangue, nelle uova e possono rispecchiare attività di preparazione e consumo di alimenti, macellazione di animali e attività di tipo rituale, se i rituali implicano offerte di cibo o di sangue animale o eventualmente umano. acidi grassi: la loro presenza riflette la dispersione di sostanze grasse come olio, grasso animale, cera o resina che si possono trovare in zone di preparazione di alimenti, in frantoi, in bagni, o in zone rituali in cui viene bruciato incenso. Acidi grassi sono presenti anche nel sangue e quindi è possibile trovarli anche nelle zone di macellazione (in questo caso devono essere associati alle proteine). Livello di pH: un livello alto di pH, in genere superiore a 9, suggerisce la presenza di cenere derivata da attività di riscaldamento o fuoco: la cenere è infatti alcalina. La presenza di alti livelli di pH nel suolo può quindi mostrare l’esistenza di focolari, forni, incendi. L’associazione o meno di questo indicatore con tutti o parte dei precedenti può indicare la presenza di una cucina, di zone destinate al riscaldamento dell’acqua o degli ambienti.

I risultati di tutte le analisi sono stati riportati sul GIS di scavo e per ognuno dei composti studiati sono state create piante di distribuzione utilizzando il metodo di interpolazione Inverse Distance Weighting (IDW) (Fig. 1). Tali piante hanno permesso di evidenziare le aree di concentrazione e di assenza dei composti studiati: nelle immagini i colori più scuri corrispondono a maggiori concentrazioni. Nella fase interpretativa le piante devono essere considerate congiuntamente: la presenza di due o più indicatori può suggerire la realizzazione di una attività piuttosto che di un’altra. Ad esempio, un livello di pH molto alto da solo può indicare la presenza di un focolare destinato a riscaldare un ambiente o un punto di luce, mentre associato a residui proteici, fosfati e acidi grassi può indicare una zona di preparazione di alimenti. Non solo la presenza di indicatori chimici è importante per l’interpretazione delle funzioni, ma anche la loro assenza. Una superficie pavimentale priva di residui chimici può indicare che l’area era destinata

1. Metodologia Il piano di calpestio è stato campionato seguendo una griglia regolare di 1 x 1 m. Tutti i campioni cadono all’interno della capanna, tranne due che sono stati prelevati ai lati dell’accesso. Le analisi sono state svolte nel Laboratorio Archeometrico del Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena, secondo le tecniche di analisi sviluppate nel Laboratorio di

165

Figura 1: piante di distribuzione dei fosfati, acidi grassi, residui proteici e livello del pH nella struttura 2. La superficie pavimentale della parte sud della struttura è invece priva di concentrazioni di residui. Tale dato suggerisce che questa zona aveva una funzione diversa, forse di magazzino o dormitorio. Tracce di residui chimici sono presenti all’esterno della capanna, sul lato nord-ovest. Ciò fa pensare che non solo l’interno della struttura fosse utilizzato, ma anche l’esterno. Intorno alla capanna vi era un pianoro sul quale potevano essere svolte attività di tipo diverso. In particolare, l’area ubicata sul retro poteva essere utilizzata per gettare i resti di pasto o al limite anche cucinare. Lavori etnoarcheologici attestano infatti l’uso di focolari esterni per la preparazione di alimenti. Benché non vi siano tracce di focolari, il fatto che la canaletta non si sia interamente conservata suggerisce che anche se esistevano, potrebbero essere stati asportati. In generale, l’assenza di ceramica, ossa animali e carporesti nel contesto complica l’interpretazione della funzione della capanna, ma la distribuzione dei residui, insieme alle sue caratteristiche strutturali suggeriscono che si tratta di una struttura domestica all’interno della quale venivano svolte attività diverse come la preparazione e forse il consumo degli alimenti. Le analisi indicano inoltre l’uso dello spazio esterno alla struttura e non solo di quello interno.

a dormitorio o allo stoccaggio di materiali che non lasciano residui identificabili con le tecniche di analisi impiegate, come ad esempio il vino o il grano. Nell’interpretazione archeologica della funzione dello spazio è necessario mettere in relazione i dati ottenuti con le analisi chimica con i materiali archeologi rinvenuti. Purtroppo, nella struttura 2 non sono stati rinvenuti materiali botanici o archeozoologici e la ceramica era molto scarsa e le interpretazioni sono state fatte solo in base alla distribuzione dei residui e alle tracce della struttura. 2. Risultati delle analisi e conclusioni In corrispondenze degli arrossamenti di argilla situati nella parte nord della capanna vi è un alto livello del pH, che dovrebbe corrispondere ad uno spargimento di cenere. Nella stessa area sono presenti concentrazioni di fosfati e residui proteici che suggeriscono la presenza di un focolare usato per la preparazione di alimenti. Tale dato, insieme alle caratteristiche della capanna, descritte nel capitolo 2.1, indica che si trattava di una struttura domestica.

166

indagini stratigrafiche di siti di produzione metallurgica, affiancati da una serie di analisi sugli scarti della lavorazione e dall'esame di fonti storiche di specifico interesse, come il Codice Minerario Massetano, analizzato per quanto riguarda le fasi del trattamento metallurgico (vedi infra).

III. Le risorse minerarie e le attività metallurgiche nelle Colline Metallifere nel Medioevo 1. La ricostruzione dei processi metallurgici attraverso l’analisi archeometrica degli indicatori materiali e l’analisi documentaria dello Statuto Minerario di Massa Marittima

1. Parametri di uno studio di archeometallurgia e problemi di interpretazione cronologica

Silvia Guideri

Ogni reperto archeologico artificiale (manufatto), sia esso una struttura muraria, un vaso o uno strumento di lavoro, costituisce il prodotto finale di un processo produttivo che si articola in tre fasi distinte: la prima è quella di estrazione, ossia di trasformazione delle risorse naturali in materia prima (argilla, pietra, minerale etc.), la seconda è la fase di trasformazione della materia prima in materiali semilavorati, la terza è la trasformazione dei semilavorati in prodotti finiti. Le tecniche di estrazione metallurgica, come tutti i processi produttivi, sono soggette a condizionamenti sia naturali (disponibilità e composizione della materia prima), sia storici (disponibilità economiche, conoscenze tecniche, itinerari commerciali); un primo importante condizionamento è costituito, ad esempio, dalla tipologia del giacimento di provenienza. La diversa composizione dei minerali influisce infatti in maniera considerevole sui processi metallurgici di estrazione. Ci sono poi numerosi altri parametri che condizionano, in vario modo, i processi necessari alla produzione di un metallo e che pertanto vanno debitamente considerati nel corso della ricostruzione tecnologica. Si tratta dei metodi utilizzati per l'estrazione e l'arricchimento del minerale (una buona purificazione ed un buon arricchimento del minerale riducono notevolmente i problemi legati alla fusione), della disponibilità locale di combustibile (talora il carbone diveniva più prezioso dello stesso minerale) e delle qualità richieste al prodotto finale (nel caso del piombo argentifero, ad esempio, la qualità del piombo era subordinata al recupero di tutto l'argento in esso contenuto; a temperature più basse si otteneva infatti un piombo più malleabile, ma si perdeva una notevole quantità di metallo nelle scorie). Accanto a questi esistono inoltre tutta una serie di fattori, che dipendono dai sistemi socio economici e politici e che costituiscono pertanto la complessità del contesto storico delle varie produzioni (FRANCOVICH 1993). E' necessario evidenziare anche che uno dei maggiori problemi che si incontrano nel corso di una indagine sulle antiche attività estrattive e metallurgiche è quello della datazione delle evidenze; le tecniche infatti, a differenza delle forme e degli stili, possono rimanere sostanzialmente invariate per secoli. Ciò che, anche nell'ambito dell'archeologia della produzione, varia in maniera più percepibile è dunque l'organizzazione del lavoro e la gestione del potere. Le aree di trasformazione metallurgica si presentano nella maggior parte dei casi, ad una indagine di superficie, come spargimenti più o meno consistenti di scorie, terra

Introduzione La Toscana dispone di un patrimonio minerario e mineralogico particolarmente rilevante e significativo anche a scala mondiale e ciò ha permesso lo sviluppo di una industria estrattiva tra le più antiche e continue nel tempo (FRANCOVICH 1993; BIANCHI, DALLAI, GUIDERI 2009). Importanti giacimenti di ferro, rame, piombo e argento, antimonio, mercurio, pirite, lignite e zolfo, interessano quasi tutto il sottosuolo della nostra regione. E' possibile tuttavia distinguere alcune aree la cui ricchezza mineralogica ha costituito un elemento determinante per la loro definizione di "paesaggi minerari". Per paesaggio minerario, si intende infatti, un territorio fortemente caratterizzato dalla presenza di giacimenti il cui sfruttamento ha influenzato la dinamica di insediamento. Il presente contributo ha preso spunto dallo studio di un paesaggio minerario, per ricostruire, attraverso una costante integrazione fra metodologie e fonti di tipo diverso, gli aspetti delle produzioni metallurgiche, affrontati sia dal punto di vista dell'organizzazione del territorio, sia da quello delle conoscenze tecniche (GUIDERI 1996). Tale studio ha preso prevalentemente in considerazione gli aspetti connessi alla metallurgia dei non ferrosi poichè la maggior parte delle evidenze era da mettere in relazione allo sfruttamento dei locali giacimenti polimetallici (a rame e piombo argentifero). Il comprensorio esaminato è quello delle Colline Metallifere, nella Toscana centro-meridionale, un contesto che, per la sua forte caratterizzazione produttiva, si presentava ideale per evidenziare le possibili relazioni fra siti archeologici e giacimenti minerari e per raccogliere tutti i dati necessari alla ricostruzione dei processi metallurgici antichi. La ricerca si è infatti dedicata, con particolare attenzione, agli aspetti tecnologici del ciclo produttivo dei metalli monetabili ed alle sue trasformazioni nel corso del medioevo, applicando le metodologie proprie della ricerca scientifica allo studio dei contesti archeologici (MANNONI, MOLINARI 1990). In tale direzione hanno trovato ampio spazio l'impostazione e la codifica di specifici criteri metodologici, quali l'individuazione di tutti i possibili indicatori delle attività archeometallurgiche e l'illustrazione del potenziale informativo delle analisi effettuate. A questo scopo, mi sono basata sui dati provenienti dalla ricognizione di superficie e dalle

167

destinatogli, le strutture più recenti cancelleranno progressivamente le tracce più antiche (come a Rocca San Silvestro, GUIDERI 1996). Le scorie quindi costituiscono molto spesso gli unici indicatori dei processi metallurgici avvenuti. Nella produzione dei metalli, inoltre la scorificazione era una fase essenziale del processo pirometallurgico (BACHMANN 1982). Un'efficiente fusione dei metalli dipende infatti da un adeguato controllo della scoria. Il processo di scorificazione ha lo scopo di fluidificare la ganga, ossia il materiale terroso mescolato col minerale e il compito non meno importante di assorbire impurità come gli ossidi dei metalli indesiderati. Pertanto le scorie non costituiscono dei rifiuti dovuti ad errori accidentali del processo (come avviene nella lavorazione del vetro o della ceramica), bensì dei prodotti intenzionali, la cui formazione è parte integrante del processo stesso: è quindi evidente che la loro identificazione è più informativa di quella di altri tipi di scorie non metallurgiche. Uno studio mirato alla ricostruzione delle tecniche produttive non potrà prescindere tuttavia, almeno idealmente, dallo scavo stratigrafico di una struttura produttiva (o di ciò che resta di essa) e da una analisi comparata degli scarti di lavorazione. Un manufatto ha infatti bisogno del suo contesto, tanto per una corretta interpretazione cronologica, quanto per quella funzionale e tecnica. Le scorie non devono dunque essere viste come parti isolate di una evidenza, ma vanno inserite in un contesto di reperti e circostanze associate. Al fine di interpretare un ritrovamento preliminarmente classificato come scoria o materiale scorificato, dovranno quindi essere verificate le circostanze di rinvenimento, le associazioni, le caratteristiche macroscopiche dell'insieme e quelle microscopiche dei vari campioni; le scorie variano infatti nel colore, nell'aspetto, nella struttura, nel peso specifico ed a ciascuna variazione corrisponde una precisa informazione.

scura e carboniosa, con frammenti di argilla cotta. Solo nei casi più fortunati si trovano in associazione con questi materiali, anche dei frammenti di ceramica che consentono una attribuzione cronologica più precisa. Le scorie forniscono, come vedremo, una grande quantità di informazioni sul tipo di lavorazione, sul livello tecnologico raggiunto, sui volumi della produzione; non offrono ancora tuttavia un’autonoma scansione cronologica; si potrebbe osservare, in termini molto generali, che solo in presenza di analisi sui resti di carbone intrappolati nella matrice della scoria, si potranno avere delle datazioni cronologiche assolute. La diversa tecnologia espressa dai differenti tipi di scoria può ovviamente costituire un indicatore (CUCINI, TIZZONI 1992), tuttavia, astraendo tale campione dal contesto territoriale ed archeologico diviene estremamente problematico attribuirlo con certezza ad una determinata fase, piuttosto che ad un’altra. Tale osservazione resta valida naturalmente, con alcune eccezioni, solo per i secoli dell'età preindustriale. Anche nel caso dell'interpretazione cronologica si rendono necessarie delle distinzioni fra scorie ferrose e scorie provenienti dalla trasformazione dei solfuri. La metallurgia dei ferrosi infatti segue uno sviluppo del tutto indipendente e soprattutto subisce, nei secoli del basso medioevo, una radicale trasformazione tecnologica, con il passaggio dal processo diretto a quello indiretto1. Tale trasformazione diventa percepibile anche negli scarti della lavorazione che quindi, in tal caso, rivestono anche il ruolo di indicatori cronologici. Non è escluso dunque che, con il progredire delle ricerche sul campo, associate a tutte le necessarie indagini archeometriche, si possa giungere a circoscrivere, all'interno degli scarti di lavorazione, delle microvariazioni e delle costanti tecnologiche e quindi ad individuare gli indicatori di quelle fasi che si nascondono sotto ogni tappa dello sviluppo di una produzione. Allo stato attuale delle ricerche tuttavia, l'attribuzione cronologica delle varie fasi di attività produttiva, necessita una strategia di indagine multipla, che preveda un continuo confronto fra documentazione scritta, dati materiali ed analisi di laboratorio. Identificare un sito archeometallurgico significa, nel 90% dei casi, riconoscere ed interpretare delle aree di scorie. Le fornaci che venivano utilizzate per l'attività metallurgica erano infatti, generalmente, delle strutture estremamente precarie fatte in pietre e argilla, che venivano costantemente restaurate e ricostruite anche durante i periodi di utilizzo, a causa della forte usura dovuta alle alte temperature a cui erano sottoposte. Esse lasciano quindi numerose ed evidenti tracce della loro attività, ma molto spesso ben poca evidenza della loro forma originaria. Qualora poi l'attività metallurgica sia svolta all'interno di un insediamento in un luogo appositamente

2. Il quadro dell'organizzazione produttiva comunale attraverso una rilettura del Codice Minerario di Massa Marittima Il Codice Minerario nel contesto europeo Il cosiddetto Codice Minerario Massetano costituisce la quarta distinzione dello Statuto del Comune di Massa2. Il fatto che tale distinzione sia l'unica ad avere un titolo, "Ordinamenta super arte fossarum rameriae et argenteriae civitatis Massae ", ha fatto ritenere che tali documenti facessero parte di uno statuto autonomo precedente, poi inserito nello Statuto Comunale redatto nel 1325 (PANELLA 1938, p. 27). La redazione del Codice risale quindi al 1325, mentre il nucleo principale, sicuramente

1

In natura il ferro si trova incorporato insieme ad altri elementi all'interno del minerale. L'operazione che consente di separare il ferro dagli altri componenti viene definita riduzione. La riduzione può avvenire in due modi, quello diretto, che fu utilizzato per tutta l’antichità fino al XIV secolo, e quello indiretto che, con numerosi perfezionamenti, è il principio ancora oggi utilizzato.

2 L'unica redazione pervenutaci è nel codice 434 della collezione di Statuti conservati nell'Archivio di Stato di Firenze. Gli Ordinamenta sono stati ristampati (riproduzione anastatica) nel 1983, sulla base dell'edizione curata nel 1938, da Niccolò Rodolico (RODOLICO 1938). Una trascrizione italiana del Codice è in BALDINACCI, FABRETTI 1989.

168

anteriore al 12943, si fa risalire alla metà del XIII secolo (PANELLA 1938, p. 29; BRAUNSTEIN 1993, p. 288; BALDINACCI, FABRETTI 1989, p. 67). Sono numerosi i documenti di questo genere nelle zone a vocazione mineraria (BRAUNSTEIN 1993; FRANCOVICH, WICKHAM 1994), poichè questo tipo di produzione necessita di interventi normativi che regolino la proprietà e la gestione delle risorse, l'organizzazione del lavoro, l'investimento dei capitali e la commercializzazione dei prodotti; l'economia mineraria implica infatti l'uso del sottosuolo, ma anche l'uso dei boschi, delle acque e delle vie di trasporto. Il diritto minerario coinvolge dunque tanto gli aspetti pubblici, quanto quelli privati, ha bisogno al tempo stesso di libertà contrattuale e di regole che favoriscano il dinamismo dell'impresa mantenendo il controllo sui prodotti (BRAUNSTEIN 1993, p. 298). E' stato notato tuttavia che i regolamenti minerari trattano quasi esclusivamente di metalli monetabili, soprattutto a causa del ruolo che tali metalli rivestono nell'organizzazione dei poteri signorili o pubblici (BRAUNSTEIN 1993, p. 279; FRANCOVICH, FARINELLI 1994). Tutti questi documenti sembrano infatti più preoccupati di confermare i diritti dei ceti egemoni sull'attività produttiva e sulla sua commercializzazione che non di regolamentare un particolare settore della vita economica. Uno statuto minerario è dunque "una raccolta di leggi e privilegi che regolano le varie fasi del lavoro minerario, formando un corpo di consuetudini, ordinamenti e procedure, convalidato dal potere pubblico" (BRAUNSTEIN 1993, p. 277). La zona Alpina pare, anche in questo caso, l'epicentro della diffusione delle codificazioni minerarie (BRAUNSTEIN 1993, p. 299), che si è diffuso in varie direzioni assumendo peculiarità distinte a seconda della realtà mineraria e giuridica locale in cui si innestava. In questo senso il Codice Massetano rappresenta la prima vera e propria espressione del potere legislativo della municipalità; a differenza di Montieri, che legifera senza mai svincolarsi dalla giurisdizione vescovile (VATTI 1983, pp.108-118; VOLPE 1961), Massa ha redatto il suo codice minerario come parte integrante della sua costituzione e come espressione di una autonomia già conquistata.

ricerca, la razionalizzazione dei procedimenti e la meticolosa verifica delle delicate fasi finali di raffinazione e commercializzazione del prodotto. Dietro a ciascuna norma non si trovano i singoli imprenditori o delle società, bensì il Comune come espressione ormai consolidata di quella dirigenza politica e amministrativa, spesso direttamente derivata dalle famiglie che avevano fino a quel momento detenuto i diritti giurisdizionali sul territorio. Ma accanto ad informazioni di questo genere, sulle quali si sono soffermati gli studiosi che fino ad ora hanno analizzato questo ed altri Codici minerari, questo documento offre anche preziosi spunti per la ricostruzione del paesaggio minerario, sulle condizioni topografiche e sulle tipologie insediative connesse alle infrastrutture "industriali" e pur non essendo un trattato tecnico, vi si possono ricavare, per deduzione, anche numerose informazioni di natura tecnologica circa le operazioni che venivano effettuate nei secoli in questione4. Proprio questo aspetto verrà qui approfondito, al fine di trarre da tale fonte ulteriori informazioni che, di corredo a quelle desunte dalle indagini archeologiche ed archeometriche, siano utili alla ricostruzione dei vari processi metallurgici effettuati nel territorio massetano. Interpretando la terminologia usata nel testo si possono fare alcune osservazioni sulle diverse fasi del ciclo metallurgico. Non esiste ancora uno studio dedicato esplicitamente alla lettura dei termini tecnici utilizzati dal codice; i vari autori che, più o meno approfonditamente se ne sono occupati (SIMONIN 1858, pp. 602-607; CUOMO DI CAPRIO, STORTI 1984, pp. 149-152; BALDINACCI, FABRETTI 1989), propongono talvolta letture diversificate dei termini più complessi; è tuttavia possibile, attraverso una rilettura dei vari lessici proposti puntualizzare alcuni passaggi del ciclo. Le fasi del trattamento metallurgico Il Codice si occupa di tutte le fasi che vanno dalla prospezione ed individuazione della vena metallifera alla sua coltivazione ed alla trasformazione del minerale in metallo commerciabile o prodotto finito e tratta tanto i minerali di rame che quelli di argento. Le prime fasi di trattamento meccanico riguardavano tutto il minerale estratto e non necessitavano differenziazioni di processo fra minerali di rame e minerali di argento: Frantumazione e lavaggio - Il minerale, una volta estratto, veniva ammucchiato in uno spiazzo (scittum)5, poi frantumato e ridotto in piccoli pezzi (boccaticciumarzefa6); tale operazione avveniva molto probabilmente a bocca di miniera. Anche se ciò non risulta chiaro dalle rubriche del codice, a conferma di questo si sono

Potenziale informativo di questo tipo di documentazione Lo studio dei documenti di storia mineraria fino a non molto tempo fa, ha molto spesso privilegiato gli aspetti strettamente giuridici, soffermandosi sul tema della continuità o innovazione del diritto minerario (BRAUNSTEIN 1993, p. 297). Sono invece numerose ed estremamente differenziate le possibili letture di questo tipo di documentazione. Da un punto di vista normativo, dalle varie rubriche del codice massetano traspare un costante sforzo di mantenere il controllo su tutte le fasi della produzione mineraria, attraverso una mediazione fra la libertà di 3

4

Un tentativo di questo genere è in CUOMO DI CAPRIO, STORTI 1984, pp. 149-152. 5 Dal tedesco schutt = mucchio / schutten = ammucchiare, SIMONIN 1858. 6 Dal tedesco bocken (mod. pocken) = frantumare. Da erze-hefen (heben): in questo caso SIMONIN 1858 traduce scoria, mentre gli altri leggono minerale frantumato.

Anno a cui risalgono le additiones più antiche, PANELLA 1938, p. 29.

169

fase, nelle aree di trasformazione metallurgica, è quella individuata alla Marsiliana, nei pressi di Massa Marittima, di ancora incerta datazione e probabilmente relativa all'arrostimento della metallina (GUIDERI 1996). A partire da questo punto diviene inevitabile distinguere i procedimenti a cui venivano sottoposti i diversi minerali di rame e argento. Sarà inoltre necessario osservare, a questo proposito, che la maggior parte delle norme del Codice e quindi delle informazioni ricavabili sono relative alle fasi di produzione del rame9, mentre meno chiare risultano le tappe della produzione dell'argento.

ritrovati, nei pressi di alcune escavazioni (Stregaio e Serrabottini), dei cumuli di sterile composti da materiale di dimensioni ridotte ed estremamente omogenee; in un caso (Stregaio), l'aspetto sabbioso e stratificato del mucchio di sterile, lascia supporre addirittura che vi fosse un qualche sistema di frantumazione meccanica e di lavaggio nello stesso luogo dell'estrazione (SIMONIN 1858, p. 601). La fase seguente del primo arrostimento sicuramente riguardava i solfuri di rame (calcopirite o coffarum), mentre non sappiamo con certezza se veniva sottoposta ad arrostimento anche la vena d'argento o di piombo. La galena argentifera infatti, se pura, non richiede un arrostimento preliminare e distinto dalla successiva fase di fusione, tuttavia la diversa natura dei minerali trattati non esclude la possibilita di variazioni del processo. A questo proposito mi sembra interessante notare che in tutte le rubriche nelle quali si parla del minerale estratto, questo viene sempre distinto in venam e coffarum, dove vena sembra sempre avere il significato di minerale di piombo-argento7. Arrostimento - L'operazione successiva è quella dell'arrostimento del minerale estratto, ossia una cottura preliminare fatta per liberare dal minerale lo zolfo e facilitarne la frantumazione. A questo proposito vi sono nel codice degli elementi di duplice interpretazione: se leggiamo infatti coffarum come minerale torrefatto o arrostito (BALDINACCI, FABRETTI 1989, p. 132) si dovrebbe concludere che la prima torrefazione avveniva nel luogo dell'estrazione poichè in più casi viene ordinato che "nulla persona ferat sive ferri faciat de monte Poczorii aut de aliquo alio monte iurisditionis et districtus Masse, aut de aliquo alio, venam, coffarum, venam argenti aut ramis...." (Rubrica 45). Se invece tale termine ha, come sembra più credibile, il più generale significato di rame o minerale di rame8 non disponiamo di un preciso riferimento per tale interpretazione. La rubrica 39 tuttavia sembra confermare, seppure indirettamente, che estrazione e primo arrostimento avvenissero insieme; in questo caso infatti viene ordinato "quod nulla persona mangna vel parva debeat gottare et bacchare in aliquo monte sito in districtu et iurisditione Masse ubi laboreria fiat de foveis que laborantur et non sunt dimisse et perdant tempus; et qui contrafecerit, puniatur pro qualibet vice in solidis LX denariorum, et restituat quod gottaverit". Poichè bacchare (dal tedesco backen) viene unanimamente letto come arrostire, mentre gottare è un termine tecnico che significa estrarre il minerale residuo, la proibizione di compiere queste due operazioni in luoghi dove siano attive altre concessioni lascia supporre che, altrove, sia lecito e quindi normale estrarre e, nello stesso luogo, arrostire. In questo senso l'evidenza materiale non fornisce elementi probanti in quanto nelle aree di escavazione esaminate non si sono rinvenute tracce certe del processo di arrostimento, mentre l'unica evidenza pertinente a tale

La metallurgia del piombo-argento Riduzione - Mentre le citazioni della vena cruda dell'argento o del piombo, compaiono piuttosto frequentemente in associazione con il rame, estremamente più rare sono le citazioni del piombo inteso come prodotto finale e del tutto assenti sono i riferimenti al processo di riduzione di tale metallo. L'unico dato che ci consente di risalire, seppure indirettamente, a tale processo risiede nell'interpretazione del termine arsicciume10. Tale termine compare infatti sempre associato ai termini vena o plumbum ed in un certo senso distinto dai termini coffarum e rame: "Statuimus et ordinamus quod nulla persona cuiuscumque conditionis existat, debeat emi vel emi facere coffarum crudum aut cottum, aut venam, arsicciume, vel plumbum, vel aliqui aliud quod ad artem sive officium argenterie et ramerie spectet.." 11. Tale materiale inoltre viene controllato e tutelato contro i furti e quindi considerato materiale commerciale al pari del minerale o del metallo: "Et quicumque fecerit furtum ad ariallam vel ad hedifitia de vena, plumbo, arsicciume, vel grana, vel arzefa, coffaro vel rame, vel aliqua alia re dicte artis tollam ei dupplam penam ...."12. Unanimamente tradotto con scoria, arsicciume sembra quindi un termine specifico per indicare quelle scorie provenienti dalla prima fusione del minerale di piombo, preziose perchè ancora molto ricche in piombo e argento. Tale interpretazione consente di ipotizzare per il trattamento dei minerali di piombo argentifero un processo di arrostimento e riduzione in unica fase, che costituisce per altro il processo più frequentemente attestato in epoca medievale. Per quanto riguarda i termini che indicano le fasi metallurgiche del minerale di piombo, si dovrà osservare inoltre che essi compaiono sempre contestualmente all'arialla (magazzino e deposito del materiale metallico dove avvenivano anche alcune operazioni di fusione13); l'arialla non viene mai citata quando si parla esclusivamente di lavorazione del rame. Se ne potrebbe

9 Già il Simonin osservava che "La loi de Massa ne dit rien du traitement du plomb argentifere" (SIMONIN 1858, p. 603). 10 Rubriche XLIIII, XLVII, LXXXIIII. 11 Rubrica XLVII. 12 Rubrica LXXXIIII. 7 13 Rubriche dello Statuto XLIIII, XLV, XLVII, XLVIIII. Sembra che il nome Arialla, poi divenuto toponimo e tutt'ora esistente, 8 SIMONIN 1858, p. 607; coffarum viene definito "il rame greggio, quale fosse inizialmente il nome comune di tale edificio in muratura; a differenza viene estratto dalla miniera, passato o non passato attraverso il fuoco" di altri toponimi quale monte de Poczorio (Rubrica LI), viene sempre (coffarum crudum vel cottum). scritto con la iniziale minuscola.

170

scribi dicta renuntiatione a dictis partiariis coffara et venas suprascriptas, et quantitates earum, et quando miserint dicta coffara at venas ad hedifitia, et vecturales que dicta coffara et venas portabunt ad hedificia vel ariallam.... et quantum coffarum et vena portaverint.... Si vero aliquis habens hedificium sive firmum ad ariallam, debeat suprascripta omnia observare, et dicere a quo emerit et de qua fovea et quantam quantitatem"17. Nei vari hedifitia, dotati di fornaci, il minerale arrostito veniva fuso una prima volta per la produzione di metallina (coffarum de polzone) e scoria. La metallina veniva quindi nuovamente arrostita e rifusa fino ad arrivare alla produzione di rame grezzo (rame de polzone) (CUOMO DI CAPRIO, STORTI, pp. 151). Purtroppo non è possibile ricavare dalle rubriche del codice ulteriori informazioni tecniche circa il tipo di fornaci che qui vengono genericamente definite furnus e fornax18. Il rame de polzone poteva essere commerciato anche con l'esterno a patto che fosse sotto forma di panectolis o isgranatum e a condizione che non fosse mescolato con rame di altro tipo de quo fiunt caldarie vel paioli. Prima che il rame fosse messo in commercio, doveva essere quindi necessariamente trasportato a Massa dove veniva pesato e saggiato, sotto il controllo di tre uomini appositamente eletti. Raffinazione - A questo punto, se ritenuto buono, vale a dire se la percentuale di impurità non superava il 2,5%, il rame veniva raffinato e formato in panelle sulle quali poteva e doveva essere segnato il marchio del comune ed il nome del raffinatore: "...Et quilibet affinator ramis in pannellis teneatur et debeat in quolibet pannello ramis affinati ponere et singnare singnum M, et etiam singnum sui affinatoris.....et quod nullum rame dicti officiales debeant pro bono acceptare, vel affinare in panellis possit, quod sit minimamenti a XXV libris ad pondus supra pro miliario. Et quod dictum rame quando sagiatur ponderetur per gabbellarios comunis, et quando datur et recipitur ad afinatore dictum sagium; et nullus possit rame affinare in panellis nisi prius fuerit sic sagiatum et provisum a dictis officialibus..."19. In questo caso il documento ci fornisce un elemento estremamente interessante che è quello relativo alla percentuale di purezza del rame (al 97,5%), estremamente elevata, se consideriamo che si parla ancora di rame nero. Nel 1310 viene aggiunta alle preesistenti una formula nella quale si specifica che un lotto di rame non sarà considerato fino e non potrà essere venduto come tale se su mille libbre ve ne siano oltre trentacinque di rame meno fino20. E' interessante notare che, contrariamente alle apparenze si tratta di un’addizione forse volta ad alleggerire il peso di un eccessivo controllo sulla qualità

dedurre che la metallurgia dell'argento fosse circoscritta all'officina dell'arialla, che risulta tra le altre la più tutelata: "Statuimus et ordinamus quod dominus capitaneus Massani populi cum sua curia infra VIII dies intrante ianuario eligat duos guercos de arte arialle, qui provideant de custodia arialle, et aliis dicte artis..."14 . L'evidenza materiale costituisce in questo caso un elemento a favore di tale interpretazione, poichè le aree di lavorazione metallurgica individuate nel territorio e corrispondenti alle più note officine massetane (Marsiliana, Accesa) hanno restituito tutte scorie relative alla trasformazione del rame, mentre all'Arialla si trovano principalmente scorie di lavorazione del piombo argentifero (GUIDERI 1996). Il rinvenimento fortuito di scorie pertinenti alla lavorazione di rame e piombo-argento nei pressi del Cassero, all'interno della città di Massa, sebbene di generica collocazione cronologica, lascia invece aperta la possibilità che nel centro urbano si effettuasse, oltre che la raffinazione del rame, anche la lavorazione del piombo argentifero. Coppellazione - Se pochi ed indiretti sono, all'interno del Codice, i riferimenti alla fase di riduzione del piombo argentifero, del tutto assenti sono le informazioni sulle fasi metallurgiche di deargentificazione del piombo. Si parla spesso, anche nel titolo, di artem (o di officium) argenterie e di venam argenti, si parla sporadicamente di plumbum e di arsicciume, mentre una sola volta si menziona l'argento come metallo puro o prodotto finale di tutto il processo15. I due saggiatori eletti dai governatori del popolo sono infatti chiamati a testare il minerale di argento (pro comuni saggiatores venarum de argento)16 e non la qualità del prodotto finito come avveniva per il rame. Tale 'evidenza negativa' potrebbe far pensare che la delicata fase finale della coppellazione avvenisse, anzichè nell'officina pubblica, in laboratori posti all'interno della città o addirittura altrove, ma purtroppo non disponiamo di sufficienti elementi per poter provare tale ipotesi. La metallurgia del rame Fusione - Il processo di fusione avveniva in diverse fonderie o officine disseminate nel territorio per servire ai vari campi minerari; tali officine si trovavano sempre vicine ai corsi d'acqua (Marsiliana, Arialla, Accesa, Noni). Le fonderie potevano essere anche private, oppure singoli proprietari (soci dell'impresa di scavo: partiarii fovee) e/o società (compagnie formate dai partiarii: societas fovee) potevano disporre di un magazzino o di un deposito presso l'officina comunale dell'Arialla, ma Massa si assicurava sempre il controllo sulla quantità e sulla qualità del materiale lavorato e/o venduto: "Statuimus et ordinamus quod per dominos dicte artis fiat unus liber de cartis bambasie, in quo scribantur coffara et vene dicte artis et partiarii dictarum venarum et coffari;....Qui domini suprascripte artis teneantur facere

17

Rubrica XLIIII. Rubriche LXXII, LXXVI, LXXXIII. Trovo eccessivamente forzata l'interpretazione di furnus con “shaft furnace” e fornax come “reverberatory crucibles furnace” in CUOMO DI CAPRIO, STORTI 1984, p. 151. 19 Rubrica LXX. 20 Rubrica LXX. 18

14

Rubrica LXXXV. Rubrica XLIIII. 16 Rubrica LXXV. 15

171

metallo argentifero erano sicuramente inferiori a quelli del rame, prima di tutto per ragioni naturali. I giacimenti sui quali si basava l'economia del comune massetano erano infatti prevalentemente ramiferi, trovandosi i principali giacimenti argentiferi della zona nei territori a nord di Massa e soprattutto nell'area di Montieri, non compresa dunque nel distretto massetano. L'argento era presente, sotto forma di galena argentifera e di tetraedrite, nei due campi minerari del Piastraio e del Ceciaione, dove si ubicava il castello di Rocchette Pannocchieschi, ma in quantità certamente inferiore e costituiva una produzione preziosa, forse anche per gli usi della locale zecca. Se ne dovrà concludere che la reale importanza della città di Massa in un'ottica di economia regionale è sempre stata legata alla produzione di rame. Era dunque possibile e certo preferibile circoscrivere la produzione dell'argento ad una sola officina, diventando in tal caso meno pressante la necessità di controllare tutte le varie fasi del ciclo ed i relativi spostamenti del prodotto. I momenti in cui tale controllo si rendeva necessario si riducevano al passaggio dal sito di estrazione a quello di trasformazione e da questo al deposito dove veniva accumulato. Il primo passaggio risulta tutelato analogamente a quanto visto per il minerale di rame: "...statuimus et ordinamus quod nulla persona ferat sive ferri faciat de monte Poczorii, aut de aliquo alio monte iurisditionis et districtus Masse, aut de aliquo alio, venam, coffarum, venam argenti aut ramis absque verbo et licentia duorum bonorum atque legalium hominum ipsius artis, eligendorum a dominis Novem gubernatoribus Massani populi;..."25 oppure "Statuimus et ordinamus quod nulla persona cuiuscumque conditionis existat, debeat emi vel emi facere coffarum crudum aut cottum, aut venam, arsicciume, vel plumbum, vel aliqui aliud quod ad artem sive officium argenterie et ramerie spectet, nisi primo petierit et manifeste sciverit emptor a vendente sive vendentibus unde, quomodo et qualiter et a quo et quo titulo habuerit sive habuerunt predicta, ad penam librarum X denariorum"26. Il secondo passaggio non viene mai esplicitamente citato, sappiamo tuttavia che era estremamente accurato il controllo dei depositi del metallo: "Et postquam rame vel argentum fuerit affinatum, hostendantur dominis suprascriptis sive ab eis commissis, et super hoc ponantur custodes secreti."27. Vi sono infine anche ragioni di economia più generali che possono in parte spiegare il ruolo di secondo piano che l'argento riveste all'interno del Codice massetano. Lo sfruttamento da parte di Pisa dei ricchi giacimenti dell'Iglesiente in Sardegna (TANGHERONI 1985), il crescente significato della produzione d'argento tedesco (soprattutto quello proveniente dallo Harz) per l'economia monetaria europea (BRAUNSTEIN 1993, p. 293) in relazione alla generale crescita dei traffici commerciali, avranno inoltre contribuito a mantenere l'argento massetano nel suo ruolo di produzione accessoria.

del rame in un momento in cui il volume della produzione doveva essere estremamente elevato. Nel caso del rame quindi la produzione era sistematicamente distribuita nelle varie officine del territorio per quanto riguardava le fasi di riduzione (dal minerale arrostito al rame grezzo o nero), mentre la raffinazione, qualora non fosse stata effettuata in tali officine, poteva compiersi ad opera degli affinatori del comune; per ragioni di controllo della qualità del rame, infatti, tutto il materiale veniva fatto confluire nella città di Massa dove avveniva il saggio e da dove il prodotto poteva essere commercializzato. Altre informazioni di tipo generale riguardano l'orario di lavoro: si lavorava continuativamente dal lunedì al sabato "ad diem sabbati, ad diem claram"21 ed inoltre non si doveva: "rumpere furnum usque ad dictum mane facto die". Oltre a supporre la presenza di alloggi e/o di un insediamento nei pressi delle officine, si ricavano da questi passi ulteriori informazioni sul tipo di ciclo: se proviamo infatti a leggere letteralmente 'rumpere furnum' con 'aprire le fornaci' e quindi interrompere la fusione oltrechè 'sospendere il lavoro', come è stato letto fino ad ora, se ne ricava che il processo di fusione era continuo e cioè che si procedeva periodicamente alla fuoriuscita della scoria e della metallina, non interrompendo mai, durante la settimana, il caricamento delle fornaci stesse ed incrementando significativamente i volumi della produzione. A conferma di questo, le scorie rinvenute in tutti i siti delle officine comunali presentano regolarmente tracce di 'tapping'. Questo dato, insieme al fatto che non vengono mai citate interruzioni stagionali dell'attività metallurgica, conferma il livello organizzativo e l'estrema efficienza della produzione comunale. Un ultimo dato interessante riguarda la tutela del bosco; il Codice impone norme precise circa la produzione del carbone, fornendo una unità di misura standard per il bigoncio del carbone, di cui dovevano essere dotate tutte le officine (De bigonciis carbonum)22, imponendo ai carbonai di rispettare le commesse “Statuimus et ordinamus quod nullus carbonarius debeat (vendere) carbones alicui persone sive alicui guerco nisi prius satisfecerit illi cui carbones prius vendiderat...”23 e soprattutto regolando accuratamente la vendita del legname, di cui si doveva conoscere la provenienza, “Quod nullus dominus vel factoe hedifitii emat lignamina nisi primo sciverit de quo bosco fuerint”24. Osservazioni conclusive La divergenza riscontrabile all'interno del codice fra lo spazio e l'attenzione dedicate alle due diverse produzioni di rame ed argento può essere spiegata in vario modo; una delle ragioni più importanti ed al tempo stesso più ovvie, è quella legata all'entità della produzione. Si dovrà infatti tenere presente che i volumi di produzione del 21

Rubrica LXXII. Rubrica LXXVI. 23 Rubrica LXXVII. 24 Rubrica LXXVIII. 22

25

Rubrica XLV. Rubrica XLVII. 27 Rubrica XLIIII. 26

172

2011/2012), per essere infine solo parzialmente editi in DALLAI 2005. Fra i siti censiti nella porzione di territorio delimitato a nord e a ovest dal fiume Milia e a sud dal fiume Rio Torto e ad est dal rilievo del poggio di Santa Croce, territorio che probabilmente corrisponde all’antico toponimo del “Piastraio”, Pestelli segnala la presenza di 93 punti di estrazione del minerale databili al periodo medievale, fra cui 10 doline e 83 imbocchi di miniera. In realtà il numero delle miniere individuato non corrisponde al numero di imbocchi effettivamente attivi nel periodo preso in esame: questo a causa della scarsa visibilità del territorio censito, ricoperto per un’ampia percentuale da una fitta vegetazione costituita principalmente da boschi, e per la difficoltà di individuare nel terreno le tracce degli imbocchi franati. Tra questi, circa 65 sono stati censiti e segnati nella documentazione come catini di franamento, ma non possiamo escludere, per le ragioni appena esposte, che molti altri non siano stati segnalati. Non è tanto il numero degli imbocchi che ci pare significativo per uno studio dei punti di estrazione, quanto la possibilità di poter raggruppare alcuni di questi punti di estrazione in campi minerari e di poter attribuire il loro sfruttamento ai siti di Cugnano e di Rocchette, gli unici insediamenti presenti ed in grado di gestire il lavoro di estrazione all’interno del distretto minerario del “Piastraio”. In questa sede possiamo dunque definire “campo minerario” i punti di estrazione riuniti in un medesimo areale geografico che può essere delimitato dalla presenza di fossi o di versanti differenti dei rilievi collinari. Osservando quindi la distribuzione spaziale dei punti di coltivazione del minerale possono essere distinti 14 campi minerari. Fra questi, sono divisibili due gruppi, il primo, che comprende 6 campi minerari compresi in un raggio di un chilometro in linea d’aria dal sito di Cugnano, ed il secondo che raggruppa 7 campi minerari posti fra Rocchette Pannocchieschi e il fiume Rio Torto e posti ad una distanza massima di 1,7 chilometri lineari dal sito. Ad una distanza intermedia fra i due siti si colloca il campo minerario individuato sulla sommità del poggio Trifonti. Si può dunque ipotizzare che il primo gruppo fosse di pertinenza del sito di Cugnano e che il secondo gruppo fosse sfruttato dal sito di Rocchette Pannocchieschi, mentre risulta non attribuibile il campo minerario di Poggio Trifonti che potrebbe essere stato sfruttato da entrambi i siti. I luoghi di lavorazione degli uomini di Rocchette sembrano essere stati: il campo minerario di Rocchette Pannocchieschi, quello posto sul fianco occidentale del Poggio Mandriacce, quello posto nei pressi del limite settentrionale del Pian dell’Uccelliera sulla sponda destra del fiume Riotorto, quello vicino all’odierna Casa Poggetti posto oltre il limite meridionale del Piano dell’Uccelliera, quello vicino al toponimo Casa Castagnoli sul fianco del pendio e sulla sponda destra del fosso dei Castagni, quello nei pressi di Casa Bugettai ed infine quello del podere Le Piane, posto sulla sommità e

2. I giacimenti minerari dell’area di Rocchette Pannocchieschi Jacopo Bruttini Introduzione Nel corso dei secoli, all’interno del comprensorio collinare denominato “Colline Metallifere” sono state molte le aree minerarie sfruttate. Nei diversi periodi storici sono cambiate le qualità delle vene metallifere ricercate così come, a seconda del periodo storico, è cambiata l’intensità dello sfruttamento. Questo ha comportato che la maglia insediativa dei siti legati all’estrazione e alla produzione mutasse in base al tipo di metallo ricercato e in base al modello produttivo messo in atto. In questo contributo ci occuperemo esclusivamente delle attività estrattive legate al sito di Rocchette Pannocchieschi, nato nel corso dell’VIII secolo e abbandonato alla fine del XIV secolo. Nel Medioevo, i giacimenti sfruttati furono essenzialmente quelli a solfuri misti con la finalità di estrarre dalle vene del sottosuolo i metalli utilizzati per la monetazione che, per il periodo preso in esame, era quasi esclusivamente realizzata con una lega di rame e argento. A tal fine quindi vennero sfruttate le mineralizzazioni a solfuri misti e a galena argentifera, presenti nel comprensorio. I principali giacimenti delle Colline Metallifere che contenevano formazioni mineralogiche a solfuri misti e a galena argentifera sono individuabili nell’area costiera, nel territorio compreso fra gli odierni abitati di S.Vincenzo e Campiglia Marittima; nell’area montierina, sui rilievi delle Cornate, di Poggio Mutti, del poggio di Montieri e sui rilievi orientali del bacino della Merse; nell’area dell’odierna Prata; nel territorio di Niccioleta; nell’area di Massa Marittima, che comprende i dintorni dei siti di Perolla, dell’Accesa e di Montepozzali (area detta “Pozzoia”) e Marsiliana (area detta “Ceciaione”); nell’alta valle del Bruna, nei territori dei castelli di Roccatederighi, Sassoforte e Castel di Pietra ed infine nell’area che la documentazione medievale chiama del “Piastraio”, posta nella parte centrale delle Colline Metallifere e nella quale sorsero i siti di Cugnano e di Rocchette Pannocchieschi (BALDINACCI, FABRETTI 1989, pp. 151-152) (Fig. 1). Fin dall’avvio della ricerca sulle Colline Metallifere (si veda supra, Capitolo I), furono previste delle indagini conoscitive sul patrimonio minerario dell’intero comprensorio svolte attraverso numerose campagne di ricognizioni territoriali con la finalità di mappare i siti, le varie frequentazioni e le innumerevoli tracce legate alle attività produttive svolte in questo territorio. In particolare, per il distretto minerario dei castelli di Rocchette Pannocchieschi e di Cugnano risulta fondamentale una prima ricognizione svolta in occasione di un lavoro di tesi (PESTELLI 1992/1993). I siti individuati furono in seguito controllati ed i nuovi dati sono confluiti in due tesi (FINESCHI 2005/2006; PONTA

173

Fig: 1: campi minerari e cave minerarie nel massetano (elaborata da Jacopo Bruttini)

174

veniva portato nei magazzini della vicina area produttiva denominata area 5000. La dolina B29 ha una forma imbutiforme con un diametro massimo di 110 m. e minimo di 40 m., fondo di forma circolare con andamento pianeggiante. Le pareti della dolina hanno una pendenza non molto accentuata fatta eccezione per il versante ovest dove le pareti sono verticali. La profondità massima è di 12-15 metri nel lato orientale, in direzione del sito mentre nella parte ovest raggiungevano un massimo di 5-6 m. Il fronte di cava principale è situato nel versante occidentale mentre la discarica principale era posta al di fuori della dolina in un pianoro a valle. Altri accumuli di materiale inerte sono disposti al centro della depressione e un’altra discarica di dimensioni maggiori è sistemata nella parte est. Il versante settentrionale fu interessato nel corso del XIV secolo dalla discarica di scorie che si formava dall’area produttiva denominata area 1000. Non possiamo ipotizzare dove fosse l’accesso alla dolina anche se è possibile che avvenisse dal lato più accessibile, quello occidentale, lo stesso dove era posto il fronte di abbattimento principale del minerale e dove era sistemata la discarica maggiore (Fig. 3).

sul fianco occidentale del poggio, a nord dei poderi moderni de “Le Piane-San Giuseppe” e “San Giulio”. Il campo minerario di Rocchette Pannocchieschi Il campo minerario principale del castello era sicuramente quello rappresentato dalle quattro doline che circondavano il sito (Fig. 2).

Fig. 2: il castello e le doline A-B-C-D La dolina A28 ha una forma imbutiforme con un diametro massimo di 80 m. e minimo di 24 m., fondo di forma circolare con andamento piatto ed un’altezza massima di 35 metri nella parte nord. Le pareti sono verticali nella parte ovest, quella dove sorge il castello, mentre le altre pareti hanno una pendenza minore. Il lato con pendenza meno accentuata è quello meridionale, in corrispondenza di una delle aree produttive esterne del castello, dove il dislivello con il limite del taglio risulta essere di pochi metri. Lo scavo incide il calcare cavernoso in prossimità del contatto Flysch-Cavernoso: il fronte di cava principale si trova nella parete nord-est. Tutto il lato sudovest è costituito da un terrapieno formato con il materiale inerte proveniente dall’abbattimento del fione minerario. Il terrapieno è alto dai 3 ai 4 metri ed è delimitato da un muro a retta che dal centro della dolina arriva fino all’area produttiva. Il terrapieno fu sfruttato nell’ultimo periodo di conduzione dei lavori anche per impostare un tratto della viabilità che univa la porta del castello con l’area produttiva e con la dolina stessa. Alla dolina si accedeva dunque dal lato meridionale dalla strada proveniente dalal porta del castello. Il fronte di cava del minerale era condotto principalmente nel versante settentrionale. Il materiale cavato era parzialmente lavorato all’interno della dolina, l’inerte era sistemato in una discarica interna mentre il minerale

28

Fig. 3: l’accesso della dolina B dall’ambiente 32 dell’area artigianale (a. 1000). Particolare del saggiotrincea scavato sulla discarica di scorie del XIV secolo Un’ultima considerazione può essere fatta circa il periodo di sfruttamento di questa dolina. La presenza di un’ampia discarica che dal limite nord arriva fin quasi al centro dell’escavazione, in fase con le attività metallurgiche dell’area produttiva denominata 1000 ci suggerirebbe una 29

PESTELLI 1992-1993, sch. 24, sito n°10 UT 6.

175

PESTELLI 1992-1993, sch. 25, sito n°10 UT 7.

prossimità della confluenza di due fossi provenienti dai versanti occidentali del poggio Trifonti e del poggio delle

cessazione delle attività di coltivazione del minerale precedente all’impianto della discarica e cioè prima dell’inizio del XIV secolo. La dolina C30 ha una forma imbutiforme con un diametro massimo di 50 m. e minimo di 20 m., fondo irregolare di forma pressochè circolare. L’altezza massima raggiunta dalle pareti della dolina è di 20 metri nella parte nord. Le pareti sono verticali nel versante settentrionale e si mantengono con una pendenza accentuata anche nel versante meridionale. Lo scavo incide il calcare: il fronte di cava principale si trova nel versante settentrionale. Il lato meridionale dello scavo è costeggiato da un muro a secco, oltre il quale è sistemata la discarica del materiale inerte di pertinenza della dolina. Sempre sul versante meridionale venne impiantata una piazzola da carbone. Molto probabilmente l’accesso alla cava avveniva dal lato meridionale, il filone coltivato veniva abbattuto nella parte settentrionale. Il materiale di risulta veniva fatto uscire dal versante sud dove era poi sistemato al di là del muro a retta che delimitava la discarica. La carbonaia presente all’interno non è stata scavata e pertanto non è possibile datarla. La sua presenza però all’interno dell’escavazione potrebbe suggerirci un impianto della piazzola successivo all’abbandono delle attività estrattive, forse in fase con la vicina area produttiva nella quale il carbone prodotto sarebbe stato utilizzato nelle fornaci attive nell’area. La dolina D31 ha una forma imbutiforme con un diametro massimo di 70 m. e minimo di 25 m., fondo di forma circolare con andamento piatto ed un’altezza massima di 40 metri nella parte nord (Fig. 4). Le pareti sono verticali nel versante settentrionale mentre digradano più dolcemente nel versante meridionale. Lo scavo incide il calcare cavernoso in prossimità del contatto FlyschCavernoso: il fronte di cava principale si trova nel versante settentrionale mentre nel versante ovest / sudovest è sistemata una discarica di materiale inerte formata da pietre di piccole dimensioni. Alla cava si accedeva dal lato meridionale, l’abbattimento del filone era condotto principalmente presso il fronte nord della dolina mentre è possibile che lo scavo condotto negli altri versanti fosse sfruttato per cavare il calcare cavernoso usato per lavori di edilizia. Sempre all’interno della cava avveniva la separazione fra il minerale e una parte dell’inerte che veniva sistemato nel lato meridionale, mentre il minerale proseguiva verso le aree produttive.

Fig. 4: la dolina D durante la ripulitura Mandriacce. L’escavazione si presenta come un anfiteatro di forma circolare con pareti alte dai 3 ai 4 metri dal lato settentrionale mentre risultano praticamente inesistenti le pareti del lato meridionale. Il fronte di cava principale è posto nel lato nordorientale mentre un ampio pianoro semicircolare di 40 m. di diametro si apre nel lato meridionale dove è predisposta la discarica di materiale inerte. L’altra dolina33 è un ampio semicerchio scavato nel calcare del versante sudovest del poggio. Le pareti del fronte di cava sono alte 20 m. e il fronte estrattivo principale è posto al limite nordest dello scavo. Ai piedi delle pareti verticali si apre un pianoro circolare di 29 m. di diametro delimitato da un terrapieno nel lato meridionale oltre il quale è sistemata la discarica del materiale inerte. L’imbocco di miniera è esattamente posto fra le due doline lungo il fianco del poggio e conserva nelle vicinanze i resti di una piazzola da carbone. Infine, negli altri campi minerari sono stati registrati solamente imbocchi. Nel campo di Pian dell’Uccelliera, distante 1300 m. da Rocchette sono stati individuati 10

Il campo minerario di Poggio Mandriacce e gli altri campi minerari minori Il campo minerario di Poggio Mandriacce è posto ad una distanza di 250-300 metri dal centro di Rocchette. Anche in questa area estrattiva sono presenti due doline ed un imbocco di miniera. La prima dolina32 è posta in

30

PESTELLI 1992-1993, sch. 26, sito n°10 UT 8. PESTELLI 1992-1993, sch. 23, sito n°10 UT 5. 32 PESTELLI 1992-1993, sch. 27, sito n°11. 31

33

176

PESTELLI 1992-1993, sch. 29, sito n°13.

catini di franamento34 con le relative discariche di miniera; nel campo minerario di Casa Poggetti, distante 1200 m. da Rocchette sono stati individuati solo 2 catini di franamento35; nel campo minerario di Casa Castagnoli, distante 1400 m. da Rocchette sono stati individuati 6 catini di franamento36; nel campo minerario di Casa Bugettai distante 1600 m. da Rocchette sono stati individuati 2 catini di franamento37, ed infine, nel campo minerario delle Piane distante 1400 m. da Rocchette sono stati individuati 6 catini di franamento38

I risultati di queste analisi sono particolarmente interessanti soprattutto se confrontati con quelli provenienti dagli altri giacimenti delle Colline Metallifere. Il tenore di argento rilevato per i campioni del Poggio Trifonti, di Lecceta e di Casa Bugettai risulta rispettivamente 4500, 2800, 4200 e 300 parti per milione di Argento a fronte di valori di 3800, 2800 e 3700 per i giacimenti di Montieri, delle Cornate di Gerfalco e di Poggio Mutti e di 3000 per i giacimenti di Poggio al Dolago. Dunque, stando ai risultati esposti, i giacimenti sfruttati da Rocchette sembrano essere fra quelli che avevano la maggiore quantità di Argento presente nelle mineralizzazioni. Pur rimarcando come questi risultati siano stati ottenuti dall’analisi di soli quattro campioni e non siano estendibili automaticamente all’intero giacimento sfruttato nel corso del Medioevo, ci forniscono importanti dati quantitativi per avere una stima dell’impatto economico dei giacimenti sfruttati nel medioevo dal nostro sito ed in particolare, in seguito ad una comparazione con i dati quantitativi provenienti dagli scarti di produzione, rivelano utili indicazioni per formulare una stima della produzione complessiva del sito nelle differenti epoche storiche.

Lo studio dei minerali presenti in questi giacimenti è stato effettuato con analisi chimico-fisiche, edite in uno studio, “Inventario del Patrimonio minerario e mineralogico della Toscana” (BENVENUTI, GUIDERI, MASCARO 1991) con una dettagliata panoramica di tutti i giacimenti minerari della regione39 e inserito in una tesi discussa presso l’Università di Firenze (PRATELLESI 1983/1984), che affrontava lo studio archeometrico dei giacimenti e delle mineralizzazioni argentifere del comprensorio massetano. Le campionature effettuate per questo lavoro di tesi sono state fatte analizzando i giacimenti corrispondenti a cinque campi minerari: uno per quello di Rocchette, uno per quello del Pian dell’Uccelliera, uno riferibile a Casa Poggetti, uno a Casa Bugettai e l’ultimo relativo al campo minerario sulla sommità del poggio Trifonti. I dati riportati per questi quattro campioni ci informano che in questi giacimenti le mineralizzazioni presenti erano galena, calcopirite, blenda, tetraedrite e pirite. I ricercatori che hanno compilato la scheda inoltre sostengono che i metalli che si potevano ottenere dalla loro riduzione fossero stati argento, rame e ferro (PRATELLESI 1983-1984, pp. 24-38). All’ampio repertorio dell’Inventario si possono unire dunque le analisi condotte da Pratellesi che utilizzò una serie di campioni di minerale, principalmente Galena e Tetraedrite, provenienti da numerose discariche di miniera rinvenute nel territorio compreso fra Montieri e Massa Marittima fra cui anche cinque campioni provenienti dai campi minerari di Rocchette Pannocchieschi (PRATELLESI 1983-1984, pp. 47-49). Questi erano costituiti da Galena e Tetraedrite, fatta eccezione per quello di Casa Bugettai che era composto esclusivamente da Galena. Tutti i campioni furono sottoposti ad analisi chimiche con il metodo dello spettrofotometro all’A.A.S., e, esclusivamente per i due campioni di Poggio Trifonti furono effettuate analisi fisiche con il metodo del SEM (PRATELLESI 1983-1984, pp. 53-57). 34

PESTELLI 1992-1993, sch. 39, sito n°21. FINESCHI 2005-2006, UT 78 e 79. 36 PESTELLI 1992-1993, sch. 36 sito n°18 UT 2. 37 PESTELLI 1992-1993, sch. 30 sito n°14. 38 PESTELLI 1992-1993, sch. 32 sito n°16. 39 BENVENUTI, GUIDERI MASCARO 1991, sch. n°60. areale “Rocchette Cugnano - Uccelliera - Lecceta - Mandriacce – Trifonti”, si descrive la formazione del giacimento come una “mineralizzazione epigenetica di tipo idrotermale, formatasi in seguito agli eventi di magmatismo, metamorfismo e tettonica distensiva tardo appenninici, che hanno interessato la Toscana meridionale durante il Miocene-Pliocene”. 35

177

particolare caratteristiche di sviluppare alte temperature in modo costante. Se il grado di mobilità può essere considerato abbastanza alto dal momento che è possibile coltivare i diversi tipi arborei, dobbiamo però considerare come fattore limitante le condizioni ambientali entro le quali è possibile impiantare determinate coltivazioni quali l’altitudine e le temperature medie in rapporto all’essenza coltivata. Per il terzo fattore risulta invece indispensabile la presenza di corsi d’acqua limitrofi. Questo elemento che può essere considerato molto limitante è invece più facilmente ovviabile con la costruzione di strutture volte alla conservazione della risorsa idrica come cisterne o dighe per la costituzione di un bacino. La necessità quindi di ridurre al minimo i costi di approvvigionamento di queste risorse, indispensabili per l’esistenza stessa di un processo produttivo, sia che ci si limitasse alla sola estrazione sia che si coinvolgessero anche le fasi successive della riduzione, risulta fondamentale nel processo decisionale per selezionarne l’ubicazione, dato che la variabilità dei costi di produzione incideva nella resa di un giacimento metallifero. Come dimostrano la quasi totalità dei siti minerari medievali conosciuti (BAILLY-MAÎTRE 2002, pp. 36-43) la selezione del luogo risulta imprescindibile dalla vicinanza alla risorsa mineraria e viceversa la vicinanza della risorsa mineraria ha condizionato sempre le attività economiche del sito. In questo rapporto di interdipendenza a nostro avviso è da privilegiare una scelta volontaria del sito, non è cioè la presenza di un affioramento minerario a condizionarne le attività economiche quanto la necessità di avviare determinate attività a comportare la selezione di un sito per ospitare un insediamento. La scelta della fondazione di un insediamento in questo areale particolare del territorio e la presenza di un numero consistente di individui che si stabiliscono in un luogo che nei periodi successivi risulterà perfettamente funzionale allo sfruttamento dei filoni affioranti nelle vicine doline, non appare quindi casuale. A nostro avviso infatti la selezione stessa del sito è un indizio più che sufficiente per definire il villaggio di VIII-IX secolo come un sito minerario. Dalle analisi fatte sui giacimenti e dagli scarti di produzione dei periodi successivi sappiamo che le mineralizzazioni sfruttate erano la Tetraedrite argentifera e la Galena agentifera (GUIDERI 1996; SANTARELLI 2000/2001; PRATELLESI 1983/1984; MANASSE, MELLINI 2002), fasi mineralogiche di solfuri misti dalle quali si potevano estrarre quantità significative di piombo argentifero, argento e rame. Pur non sapendo come dovevano presentarsi le doline al momento della nascita del villaggio, dobbiamo immaginare degli avvallamenti di diametro significativo con evidenti tracce di affioramenti metalliferi. Le fasi del processo in atto nel sito in un periodo compreso fra VIII e IX secolo si possono ricondurre esclusivamente all’estrazione, che avveniva nelle miniere circostanti, nelle doline e negli altri imbocchi di miniera

3. Analisi degli indicatori produttivi ritrovati a Rocchette Pannocchieschi Jacopo Bruttini 1. La sequenza delle strutture produttive VIII – IX secolo Nei depositi scavati relativi all’insediamento datato tra VIII e IX secolo non sono state individuate evidenze direttamente riconducibili al ciclo produttivo dei metalli monetabili. Dobbiamo però tenere in considerazione il luogo specifico dove sorse il primo insediamento. Il rilievo sul quale venne fondato il villaggio infatti è caratterizzato dalla centralità rispetto alle quattro doline e dalla vicinanza con numerosi affioramenti minerari che nel corso dei secoli verranno sfruttati attraverso l’escavazione. A nostro avviso la scelta stessa del luogo per la fondazione di questo insediamento non risulta casuale, tantochè nei cinque secoli di vita successivi, dall’inizio del X alla fine del XIV secolo, la presenza di un ciclo produttivo dei metalli è confermata dalle numerose tracce di attività metallurgica rinvenute nelle aree produttive allestite per i differenti passaggi per la riduzione del minerale estratto ed i soggetti che gestivano il sito e la sua principale attività, non ebbero l’esigenza di spostare il villaggio che risultava quindi già funzionale allo sfruttamento dei vicini filoni metalliferi. La scelta del luogo per l’impianto delle strutture principali per uno sfruttamento economicamente vantaggioso di un giacimento minerario non è assolutamente marginale (MALANIMA 1995). Per l’abbattimento dei costi di produzione era indispensabile che alcuni luoghi risultassero limitrofi ed i fattori che intervengono nella scelta di un luogo piuttosto di un altro sono molteplici, ma fra quelli principali dobbiamo considerare, la materia prima, la facilità di approvvigionamento del combustibile per le fornaci e la facilità di accesso a bacini idrici. Questi tre elementi hanno diverse caratteristiche e diversi gradi di importanza nel processo decisionale; per capire quali possano risultare decisivi possiamo considerare come fattore di scala la mobilità di questi requisiti. Al primo posto vi sono i luoghi di approvvigionamento della materia prima: nel nostro caso, i giacimenti di solfuri misti che non possono ovviamente essere spostati. Una variabile però è rappresentata dalla possibilità di selezionare i diversi affioramenti ai quali approvvigionarsi e quindi scegliere in quale luogo impiantare l’estrazione. Al secondo posto possiamo mettere, alla pari, l’approvvigionamento del combustibile e l’accesso ai bacini idrici. Per ottenere il combustibile adatto a sviluppare le temperature necessarie per un soddisfacente processo di riduzione sono necessarie determinate essenze, che risultano più congeniali di altre per le loro

178

riduzione di un campione unitario del minerale estratto dalla miniera per stabilire il metallo estraibile e la resa totale (quanti grammi di Ag si trovano in un chilo di minerale estratto). Questi potevano essere effettuati o in prossimità del luogo in cui avveniva la monetazione o in un luogo intermedio. In siti presumibilmente limitofi avveniva anche la riduzione cioè la lavorazione dell’intero quantitativo prodotto dalla miniera. In questo caso sono comunque da considerarsi implicate nella vita dell’insediamento, anche se non presenti a Rocchette, le figure professionali necessarie. E’ possibile che gli amministratori e i responsabili della riduzione e dei test frequentassero solo saltuariamente il distretto minerario e che fossero residenti nel luogo dove lavoravano, ma anche in questa eventualità il rendimento delle miniere di Rocchette, e di conseguenza la continuità di investimento nel sito, veniva stabilito al momento dell’effettuazione dei testaggi che fissavano la rendita di un filone per un dato periodo. Nel secondo caso, possiamo ipotizzare che le operazioni di testaggio del materiale cavato avvenissero in un areale limitrofo al villaggio o comunque nelle immediate vicinanze dei campi minerari coltivati. Il resto del materiale estratto era trasportato nel luogo dove avveniva la vendita, in base ai test effettuati nel sito. Per spiegare la mancanza di tracce riconducibili a queste attività dobbiamo ricordare che queste strutture venivano sottoposte, durante il ciclo di lavorazione, a continui rifacimenti a causa dell’elevato grado di deperibilità delle murature che costituivano la camera di combustione per le alte temperature sopportate, e in molti casi alla distruzione totale delle murature per poter estrarre il materiale dal suo interno.

censiti. La fase successiva del ciclo e cioè la selezione del materiale estratto poteva in parte avvenire già nelle gallerie o nelle cave e successivamente a bocca di miniera dove veniva effettuata un ulteriore selezione e separato il materiale inerte dal minerale, con la conseguente formazione delle discariche di miniera. Per il periodo preso in considerazione non abbiamo ulteriori tracce che attestino la presenza nel sito delle fasi successive del processo. Dobbiamo però fare alcune considerazioni in merito ad eventuali operazioni di saggiatura dei filoni coltivati. L’estrazione del minerale implicava una sua lavorazione, ma soprattutto una sua commercializzazione; in tal caso il processo prevedeva un controllo della produzione del rendimento delle miniere attraverso test (cioè la riduzione di un campione unitario del minerale estratto dalla miniera per stabilire il tipo di metallo da estrarre -Pb, Ag o Cu- e la loro resa). Possiamo ragionevolmente supporre quindi che i dati che i responsabili della produzione riuscivano ad ottenere da tali test fossero cruciali per la conduzione dei lavori. Da essi dipendevano il buon funzionamento delle miniere, le indicazioni sulle tecnologie da impiegare nel trattamento del metallo e la massimizzazione della resa dello sfruttamento dei giacimenti. Saggiando, attraverso l’estrazione del metallo, un campione di minerale, infatti, si ottenevano importanti indicazioni per sospendere o meno lo sfruttamento di un filone, per l’individuazione dei fondenti necessari, della temperatura di fusione e l’adozione degli accorgimenti tecnici necessari per la sua lavorazione. I test erano inoltre fondamentali per prevedere, attraverso il contenuto di argento o rame del campione, la quantità di metallo estratto dal totale della produzione. Questo passaggio era necessario, dato che permetteva di avere dei calcoli affidabili sul totale di metallo immesso in commercio e quindi di stimare la resa della miniera e dell’investimento. In assenza di indicatori di attività metallurgica nei depositi scavati nel villaggio di Rocchette per l’altomedioevo, possiamo considerare almeno due ipotesi sui luoghi di continuazione del ciclo, cioè su dove avvenissero le fasi di testaggio del minerale e di riduzione del totale del quantitativo estratto. Il minerale, una volta portato in superficie, poteva subire due percorsi differenti, verso il luogo dove si effettuavano i test per individuare il metallo da estrarre e per verificarne la resa (e questo avveniva per una percentuale minima del minerale estratto), o verso il luogo dove avveniva la riduzione della quasi totalità del materiale. Prendiamo ora in considerazione il luogo dove avvenivano le attività di controllo del filone minerario, fase per la quale non disponiamo, per l’altomedioevo, di evidenze. In base alle osservazioni fatte sopra, possiamo formulare almeno due ipotesi sul luogo dove si svolgevano queste delicate operazioni. Nel primo caso il minerale già frantumato lavato e selezionato nel sito, veniva trasportato in un altro luogo per la vendita. Qui doveva avvenire preliminarmente un controllo della produzione del rendimento delle miniere attraverso test e cioè la

X secolo Prima di descrivere nel dettaglio tutte le strutture relative alla fase, ricordiamo che l’insediamento di X secolo si contraddistingue rispetto alla fase precedente per un assetto forte, distinguibile per alcuni elementi che possono essere considerati validi indicatori di una definita strutturazione del sito dal punto di vista urbanistico ed economico. Questi elementi sono costituiti dalla presenza di un’opera di fortificazione in muratura, dalla presenza di attività artigianali specializzate e soprattutto dalla visibile divisione funzionale degli spazi fra area artigianale ed area insediativa (Fig. 1). L’area sommitale dell’insediamento in questa fase è occupata da alcune strutture insediative in materiale deperibile che mostrano una continuità di vita con il periodo precedente. Questa parte dell’abitato subisce però sostanziali modifiche ed in particolare la costruzione di una muratura che racchiude un ampio spazio, corrispondente a una superficie totale di 780 mq. ca. All’interno dell’area sommitale vennero creati almeno due spazi, separati tramite la costruzione di una palizzata che racchiudeva uno spazio artigianale di 210 mq. Le evidenze produttive scavate all’interno di quest’area sono relative ad un forno da riduzione del minerale e ad una

179

Fig. 1: planimetria del castello. In grigio tutte le evidenze produttive emerse dallo scavo struttura coperta per le attività connesse all’utilizzo del forno. Lo spazio dell’area produttiva era delimitato ad est dalla cinta in muratura e ad ovest dalla palizzata in legno. All’interno il terreno era caratterizzato da una forte pendenza in direzione ovest-est nella parte meridionale creata artificialmente tramite un ampio taglio di sbancamento. Questo salto di quota non era invece presente nella parte settentrionale che invece si presentava sostanzialmente pianeggiante con una leggera pendenza e alcuni avvallamenti della roccia livellati da alcuni strati40 che costituivano il piano di capestio di tutta questa porzione. La pendenza accentuata della parte meridionale fu sfruttata per l’impianto di una struttura produttiva41 interpretata come un forno per la riduzione del minerale (Fig. 2).

Fig. 2: il forno per la riduzione del minerale. Sono ben visibili gli incassi per le due camere La struttura era costituita da due camere circolari, una posta ad una quota più elevata di forma quadrangolare

40

US 908 e 869, vedi attività 100 e 102, periodo I, fase 3. Il taglio per l’impianto della struttura è US 852 vedi attività 103, periodo I, fase 3. 41

180

il porfido è utilizzato per la messa in opera dei basamenti delle strutture interpretate come forni per la riduzione del rame (GUIDERI 1996) e per la costruzione del forno per la riduzione del piombo; il caso di Cugnano dove nell’ampia area produttiva sono state scavate almeno quattro strutture fusorie al cui interno erano messe in opera elementi in porfido, associati in alcuni casi ad elmenti di macroconglomerato e altre strutture in cui numerosi elementi sono stati trovati negli strati di abbandono (BIANCHI, BRUTTINI, CERES, LORENZINI, QUIROS CASTILLO 2012). Infine, il caso della Canonica di San Niccolò, dove in associazione con le evidenze produttive dell’area artigianale limitrofa al sito ecclesiastico sono stati rinvenuti alcuni elementi di porfido (in un caso collocati all’interno di una struttura interpretabile come un forno da riduzione del piombo) associati a micro e macro conglomerato (BIANCHI, BRUTTINI, DALLAI 2011, pp. 262-274). Per concludere, numerosi sono anche i siti da ricognizione nei quali la presenza di scarti di fusione era associata nella quasi totalità dei casi a questi elementi in porfido. In base alle evidenze descritte possiamo formulare almeno due ipotesi sulla ricostruzione della struttura. Nel primo caso possiamo ipotizzare che la struttura in muratura, di forma troncoconica, fosse impiantata al di sopra della camera “alta” e che la camera “bassa” avesse la funzione di far defluire i fluidi che si creavano all’interno del forno. A favore di questa ipotesi, la considerazione che la realizzazione di una struttura simile sarebbe stata la più semplice da mettere in opera, ma ci sono alcuni elementi discordanti, principalmente relativi alle alterazioni della superficie rocciosa. Esse sono omogenee in entrambe le camere e questo fatto suggerisce che le temperature sviluppate nella camera “alta” fossero simili a quelle raggiunte nella parte “bassa”; ciò non sarebbe difatto possibile se la parte bassa fosse un ambiente aperto perchè la temperatura esterna avrebbe abbassato quella interna. Nel secondo caso possiamo prevedere una struttura in muratura che inglobasse entrambe le camere. In questo caso la fornace avrebbe avuto una pianta quadrangolare e la differente quota delle due camere interne avrebbe potuto essere funzionale allo scorrimento e alla separazione del fluido che si veniva a formare in seguito alla cottura. Grazie al ritrovamento pressoché integro della base della struttura possiamo inoltre fare delle stime per quanto riguarda il volume interno della fornace ipotizzando che la struttura avesse un’altezza di circa un metro44. Nel caso in cui la struttura avesse pianta circolare e comprendesse all’interno solo la camera alta, allora è ragionevole pensare che la struttura avesse una forma troncoconica il cui diametro alla base era di 48 cm. (dato ricavato dall’evidenza archeologica) e il diametro superiore di 30 cm. ca. In questo caso se si applica la formula per il

con angoli stondati, al cui interno erano visibili due impronte negative, probabilmente tracce di alcuni elementi in pietra che ne foderavano l’interno, ed una posta ad una quota inferiore di 45 cm. di forma circolare42; di questa struttura si sono conservate le pareti meridionali scavate nel banco di roccia vergine che risulta fortemente arrossato sia all’interno sia nella fascia posta immediatamente all’esterno del limite dei due tagli, spessa circa 5 cm. Non sono stati rinvenuti in posto né elementi riferibili all’alzato, presumibilmente costituito da elementi di porfido legati da argilla (rinvenuti invece in notevole quantità negli strati di abbandono soprastanti) né accumuli di scarti di produzione legati all’utilizzo della struttura, mentre all’interno della camera alta è stato scavato uno strato carbonioso, depositatosi probabilmente al momento dell’ultimo ciclo di cottura avvenuto nella stuttura43. Le tracce scavate ci permettono di descrivere con un buon grado di accuratezza le attività svolte all’interno delle due camere: in particolare ci aiutano l’alterazione cromatica e le tracce interne alla camera “alta”. Per quanto riguarda il calore sviluppato durante l’attività, la colorazione del terreno in questi punti risultava essere di rosso intenso, fatto che possiamo interpretare come il risultato di una prolungata esposizione ad alte temperature prodotte nelle due camere. In particolare, la sezione esposta presentava una fascia di 5 cm. di spessore che seguiva regolarmente tutti i limiti di entrambi i tagli, a testimonianza di come il processo di cottura avvenuto all’interno fosse stato omogeneo e costante in entrambe le camere. L’utilizzo di elementi in porfido per la realizzazione delle pareti delle strutture fusorie è possibile ipotizzarla con un buon grado di sicurezza, infatti ritrovamenti di elementi più o meno lavorati di questo gruppo litologico sono ampiamente attestati nei contesti produttivi (Fig. 3).

Fig. 3: parete di forno in porfido Solo per citare gli esempi geograficamente affini al nostro sito ricordiamo il caso di Rocca San Silvesro, dove 42 43

44 Questa ipotesi si basa sulle poche notizie che abbiamo sulla forma delle strutture in particolare, vedi AGRICOLA 1556.

I due tagli misuravano rispettivamente 54 e 48 cm. di diametro. US 864, vedi attività 107, periodo I, fase 3.

181

calcolo del volume45 otteniamo che l’interno della fornace poteva ospitare 0,12 m3 di materiale. Se invece ipotizziamo la fornace a base quadrangolare46 questa avrà avuto il lato lungo di 1,30 m e il lato corto di 0,38 m ed un volume stimabile intorno ai 0,53 m3. Le altre evidenze in nostro possesso concernenti l’area produttiva sono quelle relative all’impianto ed alla vita di una struttura in materiale misto (Struttura 7) (Fig. 4). Su uno zoccolo in muratura che si addossava alla cinta si impiantarono una serie di pali in legno di diametro variabile dai 25 ai 30 cm. Il calpestio interno era costituito da uno strato di terra che non recava tracce di alterazioni da esposizione al calore. Il contesto si può

XII secolo Nel XII secolo il castello subisce una profonda ristrutturazione con la realizzazione di una cinta in muratura più ampia rispetto al periodo precedente e la destinazione dello spazio interno al circuito murario esclusivamente ad uso residenziale. Queste modifiche coinvolsero anche le aree destinate alla lavorazione che da questo momento in poi risulteranno sempre esterne al circuito murario (si veda fig. 1). La nuova area artigianale venne allestita in prossimità di un area di estrazione del minerale (la dolina A), in un luogo pianeggiante in corrispondenza della viabilità. In quest’area infatti vennero edificati due edifici in muratura a pianta quadrangolare adiacenti (ambiente 11ambiente 10), lungo la strada che in questo tratto misura 2,50 mt. ca. All’esterno dell’edificio 10 inoltre venne costruita una tettoia in legno addossata al lato meridionale. La datazione di queste evidenze, in alcuni casi non sottoposte a scavo, si è dedotta dalla tecnica muraria impiegata per la realizzazione degli edifici. Lo scavo purtroppo non ha indagato completamente le stratigrafie dei due ambienti e solo parzialmente le evidenze relative alla tettoia, tuttavia in base ad alcune osservazioni che possiamo fare sul resto dell’insediamento quest’area risulta fondamentale per illuminare la dinamica dei processi produttivi che avvenivano nel sito nel periodo compreso fra l’inizio del XII e la fine del XIII secolo. Pur non avendo dei contesti produttivi evidenti, notiamo che sembra ben radicata la volontà di effettuare all’interno dell’areale di pertinenza del castello alcune delle operazioni di riduzione del minerale, cavato nelle vicine doline. L’interruzione dello scavo dei depositi di quest’area ci impedisce di avere ulteriori dati sulle attività produttive svolte nel sito per il periodo compreso fra il XII e la seconda metà del XIII secolo, ma osservando quello che avvenne nel resto dell’insediamento possiamo fare alcune considerazioni di carattere generale. L’impressione che si ricava dallo studio dei depositi del castello relativi al XII secolo è quella di un generale incremento delle attività svolte nel sito. E’ in questo periodo, infatti, che assistiamo ad un riassetto generale dell’insediamento che portò alla realizzazione di un’area sommitale occupata solamente dalle strutture signorili, all’edificazione di un’ampia area di borgo con l’occupazione di tutta la superficie interna al circuito murario composta da edifici residenziali ed all’allestimento di una nuova area produttiva. La piccola zona artigianale attiva tra X e XI secolo venne trasferita in un area esterna al sito. Questa nuova sistemazione permetteva di avere più spazio a disposizione per lo svolgimento delle diverse attività e di concentrarle in un luogo posto nelle immediate vicinanze di uno dei maggiori punti di estrazione del minerale, la dolina A. Questi elementi sono da leggersi come un tentativo di razionalizzazione degli spazi del sito: la nuova sistemazione consentiva infatti di accogliere all’interno delle mura un numero maggiore di individui,

Fig. 4: la struttura 7. A dx della foto è visibile la massicciata di pietre che costituiva il perimetrale della tettoia interpretare come una tettoia costruita in una zona limitrofa a quella che ospitava il forno fusorio. All’interno della struttura possiamo ipotizzare che avvenissero attività di stoccaggio del materiale usato per la fusione del minerale. Era necessario infatti per lo svolgimento di queste attività che fossero stoccati in un’area limitrofa a quella dove avveniva la lavorazione sia il minerale pronto per essere inserito nella fornace, sia del carbone per alimentarla e una serie di utensili in ferro per le diverse attività, fra cui pinze, pale e palette. La tettoia poteva ospitare inoltre le attività lavorative che non avevano necessità di punti di fuoco, ad esempio la frantumazione del minerale, operazione che precedeva l’immissione del carico nella fornace. Quali che fossero le attività svolte al di sotto della tettoia, queste sono certamente da mettersi in collegamento con il lavoro della fornace data la contiguità dei luoghi e la separazione di questi spazi dal resto del villaggio attraverso la palizzata soprastante.

45

La formula del volume di un solido troncoconico è: V=1/3h(R2+rR+r2) dove R è il raggio maggiore (alla base), r il raggio minore e h l’altezza. 46 In questo caso la formula da applicare è quella del calcolo dei volumi di un parallelepipedo che è V=lLh dove l è il lato minore, L il lato maggiore e h sempre l’altezza.

182

Insieme a questo nuovo quartiere produttivo, attivo nella prima metà del 1300, rimasero in uso gli edifici antistanti la dolina A, facenti parte del quartiere artigianale esterno alla porta del castello. Furono costruiti infatti gli ambienti 13 e 14 e fu ricavato, lavorando la roccia, un ampio spazio a lato dell’ambiente 11 dove venne impiantata una discarica di scorie (si veda fig. 1). Sul piano di calpestio dell’edificio 11 venne allestito un focolare con un taglio circolare delimitato su un lato da una struttura in muratura costituita da due filari di pietre sbozzate legate da terra. Nella parte centrale dell’edificio venne allestita un’altra struttura di cui però è rimasta solamente un lacerto di muratura che non è stato possibile interpretare. L’edificio non ospitò al suo interno le strutture fusorie legate alla fase di riduzione dei metalli, ma è possibile che venisse usato come magazzino o capanno dove venivano svolte altre attività. Il focolare e la ceramica da mensa rinvenuta nei piani di vita dell’ambiente potrebbe suggerire che questo spazio fosse usato come il luogo dove avveniva la preparazione del cibo per le due aree di lavoro vicine, la dolina e l’area dei forni fusori. Un’altra ipotesi sulla funzione svolta da questo edificio potrebbe essere quella di annesso di servizio, e cioè uno di quegli edifici che fungevano da magazzino per lo stoccaggio delle diverse materie prime utilizzate che potevano essere il minerale cavato, il legname da trasformare in carbone, il carbone utilizzato per alimentare le fornaci o i numerosi attrezzi utilizzati per svolgere queste attività. Lo spazio compreso fra l’edificio 11 e la dolina A è utilizzato in questo periodo per allestire una discarica degli scarti provenienti dalle fornaci da riduzione. Per quanto riguarda l’area delle fornaci, anche se nel corso dello scavo non è stata individuata alcuna struttura possiamo avanzare alcune ipotesi sulla loro dislocazione. Lo spazio a nord dell’area della discarica è occupato da alcuni edifici di servizio, fra cui gli edifici 10 e 11 sopra descritti, che si disponevano lungo la strada che metteva in comunicazione la porta di accesso del castello con la dolina A, mentre lo spazio ad est era interamente occupato dal fronte di cava meridionale della dolina stessa. Gli unici spazi a disposizione sarebbero quindi quelli ad ovest e a sud della fossa. A questo punto ci pare ovvio indicare l’area meridionale come quella più adatta ad ospitare le fornaci. Per allestire la discarica delle scorie provenienti dai forni fusori, fu praticato un ampio taglio nella roccia largo 3,5 m., lungo oltre 7 e profondo 1 m. circa. A monte di questo taglio vennero costruiti due muri di sostegno probabilmente funzionali a rinforzare il lato verso la dolina A. All’interno della fossa si accumularono, in un periodo di tempo non definibile, una serie di strati tutti caratterizzati da un’alta densità di scorie rinvenute al loro interno. Sulle scorie provenienti da questo deposito sono state effettuate analisi archeometriche i cui risultati saranno discussi nel paragrafo successivo (vedi infra). Le attività che venivano svolte all’interno dell’edificio 10 invece sono definibili con maggiori difficoltà non essendo stato scavato il deposito interno. La presenza di

di realizzare strutture produttive in spazi adeguati e di avere un minore dispendio di energia ed un minore utilizzo di uomini nel trasporto del minerale cavato fino alle fornaci da riduzione. I pochi elementi che abbiamo sembrano dunque descriverci una fase in cui si aumentò il volume della produzione attraverso la ristrutturazione delle aree artigianali e, forse, l’incremento della popolazione. XIV secolo Nel corso della prima metà del XIV secolo venne costruito un nuovo quartiere produttivo ed ampliato il quartiere già esistente. La nuova area artigianale, posta in prossimità delle doline B e C, fu iniziata edificando un ambiente quadrangolare (ambiente 30). A valle dell’edificio, nello spazio compreso fra il nuovo ambiente e il limite nord della dolina B, la roccia venne livellata e lavorata per ospitare alcune strutture produttive (si veda fig. 1). Il piano di calpestio dell’ambiente 30 era costruito da uno strato di terra battuta che non recava tracce di esposizione al fuoco. All’edificio si accedeva tramite tre aperture, una aperta nel perimetrale ovest, larga 1,5 mt., una nel lato est, in direzione della dolina C, larga 1,8 mt. e una nel perimetrale sud, larga 2,00 mt. che metteva in comunicazione l’ambiente con lo spazio aperto che ospitava le strutture produttive. Nella parte sud la roccia spianata fu livellata con alcuni strati di terra. Nella parte ovest venne impiantata una struttura produttiva interpretata come forno da riduzione. Della struttura si sono conservati solamente la parete posteriore della camera di combustione e il taglio circolare per l’impianto della struttura, concavo al centro nella parte che con ogni probabilità ospitava la camera di combustione. La terra circostante era fortemente arrossata e gli strati di vita depositati sul piano di calpestio erano ricchi di carboni e con un elevata quantità di scorie. Sempre appartenente a questa fase è un taglio di forma circolare con un diametro di 1 m. Il taglio si imposta sullo stesso piano di capestio su cui è impostata la struttura precedente e gli strati di vita associati sono ugualmente ricchi di scorie e carboni con evidenti alterazioni da esposizione al calore nella parte centrale del taglio e nelle zone immediatamente circostanti. La scarsità delle tracce appena descritte non permette di avere certezze, ma visto il contesto e l’estrema labilità delle fornaci da riduzione potremmo avanzare l’ipotesi che anche quest’evidenza sia da associare all’impianto di una struttura produttiva. I piani di calpestio di queste strutture presentano ampie zone con la colorazione alterata, sia nella parte ovest (quella delle due strutture) sia nella parte est dove non sono state rinvenute tracce significative. E’ in questo periodo che inizia a formarsi la discarica mappata nella dolina B, alimentata dalle scorie prodotte nello spazio aperto compreso fra la dolina e l’ambiente 30. La grande quantità di scorie scavata in quest’area del sito è un ulteriore testimonianza delle numerose attività di fusione e riduzione del minerale cavato nelle doline e nelle miniere circostanti.

183

In seguito, nel corso del XIV secolo la nuova area produttiva impiantata vicino alla dolina B subì alcuni cambiamenti. Vennero costruiti cinque ambienti e risistemata la viabilità di accesso all’area proveniente dal castello mentre risulta ancora in funzione la discarica impiantata all’inizio del periodo storico (si veda fig. 1). Ad est dell’edificio iniziale, sullo stesso allineamento, vennero edificati tre ulteriori ambienti a pianta quadrangolare (edifici 31-32-33). Nell’edificio 31, il primo ad essere costruito, il calpestio era costituito da un piano di terra battuta sul quale non sono state rinvenute tracce di attività di fuoco. Nel corso della vita dell’ambiente, in un momento di poco precedente il suo abbandono, fu ricavato un piccolo ambiente che misurava 3,00 per 3,50 m. con una superficie interna di 10 mq (attività 57), utilizzato come discarica di scorie ed oggetto di un’analisi approfondita per il calcolo del volume (vedi infra). Nello spazio fra gli ambienti 30 e 31 e la discarica della dolina, che nella fase precedente risultava aperto, vengono costruiti due ambienti, l’edificio 32 e l’edificio 33. Entrambi gli edifici avevano un’apertura posta nell’angolo sud-ovest che metteva in comunicazione l’interno dei due ambienti con l’area della discarica, ma l’accesso principale ai due nuovi lotti avveniva dalla viabilità principale: in entrambi gli ambienti infatti il perimetrale nord non era in muratura, ma costituito dalla roccia vergine lavorata in modo da regolarizzare il salto di quota fra la viabilità e il piano di calpestio interno posto ad una quota inferiore di quasi un metro. In entrambi gli ambienti sembrano proseguire le attività produttive già avviate nella fase precedente, prima della costruzione degli edifici in muratura. Nell’edificio 32 viene sistemato un nuovo livello in terra battuta. Il piano di vita risultava fortemente alterato su gran parte della superficie. Sull’interfaccia di calpestio però è stato possibile rilevare solamente l’impianto di due strutture sovrapposte. In una prima fase, al centro dell’ambiente venne impostato una struttura circolare con un diametro di 7080 cm. di cui si è conservato solamente lo strato di disfacimento costituito da uno strato di carboni al cui interno sono state trovate tre elementi di porfido con almeno una superficie che risultava fortemente alterata da una prolungata esposizione al fuoco. Pur avendo delle tracce molto labili possiamo interpretare le evidenze come strati di abbandono di una fornace da riduzione del minerale. Sull’abbandono di questa struttura venne impostata una fossa attraverso un ampio taglio di forma circolare che misurava 4,00 per 3,00 m. ca. e profonda poche decine di centimetri. Il riempimento scavato era costituito interamente da carboni. Anche in questo caso le evidenze conservate sul terreno sono molto labili ma potrebbero corrispondere ad una fossa per l’arrostimento del minerale. Nell’ambiente adiacente (edificio 33) la stratigrafia conservata presentava un deposito analogo. Il piano di calpestio anche in questo caso era in terra battuta la cui superficie risultava fortemente arrossata, con aloni di colorazione che andavano dall’arancione al rosso acceso,

quattro frammenti di macina può tuttavia offrirci degli spunti per caratterizzare ulteriormente le attività svolte in questo settore del sito. Nello strato di crollo dei perimetrali dell’edificio sono ancora in posto quattro frammenti di calcare cavernoso riferibili a due pietre da macina di dimensioni differenti; tre di questi appartengono ad una pietra da macina di 30 cm. di spessore ed un diametro di 1,30 mt.; il foro praticato al centro è di forma quadrangolare con il lato di 16 cm., mentre il frammento singolo apparteneva ad una pietra da macina di 10 cm. di spessore, 44-45 cm. di diametro e con un foro al centro di cui non è stato possibile documentare né la forma né le dimensioni (Fig. 5).

Fig. 5: la macina ancora in posto nell’ambiente 10 Sull’elemento appartenente alla pietra da macina di dimensioni minori non è stato possibile individuare nessuna traccia d’uso, mentre sono numerose quelle presenti sulla macina più grande. Queste evidenze negative sono interpretabili come l’asportazione della superficie originaria causata dalla rotazione della pietra durante il suo utilizzo. La superficie superiore della pietra si presenta levigata senza evidenti segni di uso mentre la faccia inferiore reca diversi segni di usura costituite da due solchi più profondi e numerose tracce trasversali47. Purtroppo, non essendo proseguite le indagini non abbiamo la possibilità di sapere come era fatta la struttura che ospitava questa pietra da macina né se il suo utilizzo fosse legato ad attività metallurgiche come la frantumazione del minerale, come ipotizzato in altri contesti (BAILLY-MAÎTRE 2002 e 2011) oppure alla produzione alimentare.

47 Il primo solco di 6 cm. di larghezza e 1 cm. ca. di profondità interessa tutto il bordo esterno della pietra in modo omogeneo, fatta eccezione per un punto in cui questo solco esterno rientra verso il centro della pietra fino ad una distanza di 6 cm. dal bordo. Un secondo solco interessa invece la parte interna della pietra, è largo dai 5 ai 6 cm. ed ha una profondità di poco inferiore al centimetro. Questa seconda traccia si sviluppa in modo non assiale rispetto al foro centrale della pietra; in alcuni punti è distante dal solco esterno 17 cm. mentre in altri la distanza si riduce a 5cm. Entrambi i solchi non sembrano interrotti e percorrono tutta la circonferenza della pietra. Le altre tracce sono segni più o meno accentuati profondi da 0,2 a 0,8 cm. di larghezza minima (0,2-0,4 cm.) di lunghezza limitata (6-12 cm.) e disposti sia nella fascia compresa fra i due solchi sia nella fascia compresa fra il solco interno e il foro centrale. Queste tracce di dimensioni minori hanno un andamento tendenzialmente parallelo fra di loro e con una direzione inclinata di 45° circa rispetto all’asse radiale della macina.

184

sequenza di attività, testimoniata dal consistente accumulo degli scarti della produzione, abbia lasciato di contro poche tracce, rinvenute nel corso dell’indagine archeologica.

in particolare nella fascia meridionale. Su tutto il piano erano presenti concentrazioni di carboni e al centro era praticato un taglio di forma circolare con un diametro di 70 cm. Il riempimento del taglio era costituito interamente da carboni e, a differenza della struttura individuata all’interno dell’ambiente 32, al suo interno non conservava nessun elemento in porfido. Nonostante la mancanza di strutture in posto ci sono diversi elementi che ci fanno ipotizzare la presenza in quest’area del sito di un numero consistente di fornaci per la riduzione del minerale. La prima considerazione va fatta sui numerosi elementi di porfido che sono stati rinvenuti negli strati di crollo. A fronte delle poche strutture rinvenute sui piani di calpestio, corrispondevano all’interno dei crolli degli stessi ambienti centinaia di pietre di porfido, molte delle quali con più facce squadrate ed un numero altrettanto elevato di elementi che conservavano almeno una parete scorificata. La seconda considerazione poi interessa la discarica di scorie scavata all’interno della dolina B. Nel corso del XIV secolo infatti, nel fianco settentrionale della dolina B, vennero accumulati oltre 500 mq di scorie di riduzione. La disposizione di questa discarica indica in modo inequivocabile come il luogo di produzione degli scarti stessi fosse in uno spazio immediatamente a monte. Tratteremo in modo più ampio i dati provenienti dalla discarica nel paragrafo successivo, ma per il momento sottolineiamo la sua presenza e quella delle strutture produttive nei due ambienti. L’ultima considerazione va fatta sulla natura stessa delle fornaci all’interno delle quali avveniva la riduzione del minerale, sulla loro struttura, il loro utilizzo e la loro durata. Le strutture erano costruite con pietre refrattarie (nel nostro caso con un arenaria ricca di inclusi, probabilmente porfido) legate da argilla e solitamente avevano una forma cilindrica o troncoconica. L’immissione del combustibile e della carica di minerale avveniva dall’apertura posta nella parte superiore della struttura. All’interno della camera la temperatura raggiunta per la separazione degli elementi metallici che si volevano isolare, piombo o, in alternativa, rame, era compresa fra gli 800 e i 1200 gradi ed era mantenuta costante grazie alla continua ventilazione interna per mezzo di un mantice. La durata dell’intero ciclo era variabile e dipendeva dal tipo di minerale e dal metallo che si voleva estrarre, ma poteva durare anche più di 24 ore. Alla fine del ciclo, per estrarre il materiale, vi erano sostanzialmente due modi: o la struttura era dotata di un’apertura bassa dalla quale si faceva defluire all’esterno il metallo e la scoria, o l’intera fornace veniva destrutturata per permettere il recupero del metallo. Il ciclo lavorativo quindi comportava che le fornaci fossero soggette a continui episodi di rifacimento o di completa destrutturazione. Concludendo, possiamo dunque supporre che all’interno degli edifici 32 e 33 nel corso della loro vita, si siano avvicendate un consistente numero di fornaci, alcune delle quali probabilmente impiantate nello stesso punto e che, per le considerazioni appena esposte, questa intensa

2. Lo studio degli scarti di produzione e dei volumi delle discariche Nel corso delle decennali ricerche svolte a Rocchette Pannocchieschi sono state effettuate numerose analisi sugli scarti produttivi con l’obiettivo di indagare con metodi scientifici la natura fisico-chimica di questi manufatti al fine di avere dati in base ai quali ricostruire i processi produttivi svolti all’interno del sito (Fig. 6). a.1000

Campioni 35

Autoptiche 23

XRD 11

XRF 11

SEM 10

a.5000

14

-

11

14

12

casa Poggetti casa Castagnoli Totale

3

3

-

-

-

2

2

-

-

-

54

28

22

25

22

Fig. 6: tabella riassuntiva delle diverse analisi effettuate sui campioni Questi indicatori infatti sono di grande importanza per lo studio delle tecniche estrattive ed in particolare per capire come venivano condotte le diverse fasi della lavorazione del minerale, l’efficacia delle operazioni che portavano all’eliminazione dello zolfo dal minerale, le temperature raggiunte dalle fornaci e il loro livello di efficienza ed infine cercare di ottenere indizi utili a ricostruire la provenienza dei giacimenti ed il tipo di metallo estratto. Le prime analisi fatte sugli scarti produttivi rinvenuti nei depositi del castello risale alla fine degli anni ’80 del secolo scorso (CUCCHIARA, MANNONI 1989). Si tratta di un’analisi mediante diffrazione ai raggi X per la determinazione delle fasi cristalline effettuata su un singolo campione proveniente dal castello, molto probabilmente da uno dei due scarichi individuati nei pressi delle doline. Le analisi effettuate portarono i ricercatori alla conclusione che la scoria analizzata fosse il prodotto di un processo di estrazione del rame (Fig. 7, campione n. 41). In seguito, nel corso della ricognizione effettuata da Pestelli, furono raccolti 23 campioni di scorie provenienti dalla discarica dell’area 1000, 3 campioni raccolti presso Casa Poggetti e 2 presso Casa Castagnoli. Nel suo lavoro Pestelli articolò una tipologia in base alle analisi autoptiche dei campioni raccolti, stabilendo 6 raggruppamenti in cui i tipi A e B, da cui provenivano le scorie raccolte nelle aree produttive di Casa Poggetti e Casa Castagnoli erano relative alle operazioni di arrostimento di minerali ferrosi mentre, i campioni delle tipologie C, D, E ed F, a cui appartenevano i campioni raccolti nei pressi di una delle aree produttive del

185

desulfurazione fosse stato portato a compimento con efficienza a fronte dei 10 campioni dell’area 5000 (il 71,43%). La maggior efficacia delle operazioni di arrostimento condotte nell’area 5000 è testimoniata anche dalla percentuale dei campioni per i quali possiamo parlare di processo poco efficiente (con zolfo compreso fra 2 e 4%): sono il 36,36% per l’area 1000 ed il 28,58% per l’area 5000. Vi sono poi alcuni campioni per i quali possiamo parlare di processo inefficiente (con zolfo superiore al 4%): nessuno per l’area 5000 ed il 18,18 % per l’area 1000. I risultati di laboratorio permettono poi di ipotizzare l’insufflaggio meccanico di aria all’interno della camera di combustione grazie a mantici azionati a mano, accorgimento tecnico che permise la creazione di un’atmosfera riducente che favoriva la completa combustione del carbone e permetteva il raggiungimento di elevate temperature all’interno delle fornaci, che in base alle analisi effettuate erano comprese fra i 1150 e i 1300 gradi centigradi. Dallo studio delle caratteristiche mineralogiche e tessiturali, inoltre, è emerso che la struttura interna delle scorie è, per la maggior parte dei campioni, microcristallina e scarsamente vetrosa. Questo dato, unito alla caratterizzazione morfologica delle olivine, permette di ipotizzare che il raffreddamento delle scorie sia avvenuto in tempi relativamente poco rapidi. La natura prevalentemente kirschteinitica delle olivine e la frequente formazione di meliliti, legate all’elevato contenuto di calcio, che caratterizza la composizione chimica dei campioni, è da ricondurre alla presenza di ganga calcitica proveniente dal calcare cavernoso che doveva ospitare le mineralizzazioni di provenienza della carica mineraria. In alternativa, l’elevato contenuto di calcio all’interno dei campioni analizzati, 11,21% del peso per quelli dell’area 1000 e 13,35% per i campioni provenienti dall’area 5000, potrebbe essere spiegata come aggiunta volontaria di calcio come fondente per abbassare la temperatura di fusione del minerale e condurre a termine più facilmente ed efficacemente il processo di separazione dei metalli. Un altro valore che ci fornisce indicazioni circa la buona riuscita delle operazioni di fusione condotte nel sito è l’indice di viscosità delle scorie. I dati riportati in tabella (vedi figg. 8a e 8b) indicano che, in entrambe le aree, le scorie prodotte dalle fornaci avevano una fluidità sufficiente che permetteva una buona separazione della scoria dal metallo fuso con valori medi di 4,08 per l’area 1000 e 3,61 per le scorie dell’area 5000.

castello, erano relativi alle operazioni di fusione di minerali a solfuri misti. Anailisi chimiche più approfondite e su un numero di campioni più ampio vennero poi condotte in tre studi effettuati fra la fine degli anni ’90 e l’inizio di questo secolo (GUIDERI 1996; SANTARELLI 2000/2001; MANASSE, MELLINI 2002) (vedi fig 7). In questi tre contributi furono analizzati rispettivamente 25 campioni provenienti dalle due discariche individuate nei pressi del castello (11 per l’area artigianale adiacente alla dolina Barea 1000- e 14 per l’area artigianale esterna alla porta del castello - area 5000)48. Le analisi effettuate permisero di avere maggiori informazioni circa i processi metallurgici svolti, la provenienza del minerale trattato, le tecniche impiegate e il metallo ottenuto da queste lavorazioni (Figg. 8a e 8b). Per quanto riguarda la provenienza del minerale, le inclusioni metalliche di antimonio (Sb) e arsenico rinvenute nelle scorie prodotte a Rocchette Pannocchieschi sono da attribuirsi alla fusione di minerali di rame con alto contenuto di questi due elementi come la tetraedrite, la calcopirite e la tennantite. La presenza di questi minerali nella carica delle fornaci che hanno prodotto le scorie è compatibile con i giacimenti minerari campionati nei pressi di Rocchette Pannocchieschi. Le analisi quindi ci confermerebbero una provenienza del minerale dai giacimenti locali. Sulle tecniche di lavorazione del minerale, sono molti i dati analitici che ci possono fornire dei validi indicatori. In primo luogo la percentuale in peso dello zolfo rimasto nelle scorie permette di stabilire l’efficienza del processo di arrostimento. Con il termine “arrostimento” vengono indicate le operazioni effettuate per ridurre la percentuale di zolfo all’interno del minerale. Questo dato si può rilevare attraverso le analisi XRF effettuate sui campioni: abbiamo riunito i dati e suddiviso i campioni in base alle aree di provenienza per osservare se fra le due diverse aree produttive del castello esistessero differenze significative nella conduzione delle operazioni (Figg. 9a e 9b)49. Data la quantità di campioni analizzati, 22 in tutto, possiamo provare ad analizzarli in modo più circostanziato per vedere l’effettiva efficacia del processo di arrostimento condotto nelle due aree metallurgiche. Se consideriamo la soglia del 2% come parametro al di sotto del quale si può definire un arrostimento efficiente e i valori superiori al 4% indicanti un processo non efficiente, osserviamo come le due aree produttive offrano valori differenti. Nel caso dell’area 1000 (Fig. 10) abbiamo solo 5 campioni (il 45,45%) che indicano che il processo di 48

Questi campioni furono sottoposti ad analisi in microscopia ottica e elettronica a scansione (S.E.M.), di spettrometria per fluorescenza a raggi X (X.R.F.) e di diffrattometria a raggi X (X.R.D.). 49 Le analisi effettuate sulle scorie indicano che lo zolfo è presente all’interno dei campioni per un valore medio del 3,10 % del peso per i campioni dell’area 1000 ed un valore medio del 1,78% per quanto riguarda le scorie dell’area 5000. Se prendiamo però i singoli campioni possiamo notare che esiste una forte oscillazione dei valori compresi fra lo 0,14 del campione 1047 e 7,75 del campione RP2b.

186

Cucchiara, Mannoni 1989 camp. 41

Wustite Magnetite Kirschsteinite Melilite Maghemite Akermanite Monticellite Fayalite Hardysonite Willemite Galena Zolfo Piombo Ferro Pirite Quarzo microsfere di rame metallico microsfere di ferro metallico

Wustite Magnetite Kirschsteinite Melilite Maghemite Akermanite Monticellite Fayalite Hardysonite Willemite Galena Zolfo Piombo Ferro Pirite Quarzo microsfere di rame metallico microsfere di ferro metallico

X X X

Santarelli 2000/2001 5000 5004

X X -

50031 50032 50033 X X X -

Manasse, Mellini 2002 RP1a RP1b RP1c (5000) (5000) (5000) X X X X X X X X X X X X X X X X X X

50034a

50035

50036

1047

1051a

1051b

1053

1057

1060

1074 1082

X X X -

X X X X -

X X X X -

X X X X -

X -

X X -

X X X -

X X X X X X X -

X X X -

X X -

RP2a (1000) X X X X X X

RP2b (1000) X X X X X X

187

Fig. 7: risultati delle analisi XRD (dai contributi CUCCHIARA, MANNONI 1989; SANTARELLI 2000/2001; MANASSE, MELLINI 2002)

Fig. 8a: risultati delle analisi XRF effettuate sui campioni dell’area 1000 (da GUIDERI 1996; SANTARELLI 20002001; MANASSE, MELLINI 2002)

Fig. 8b: risultati delle analisi XRF effettuate sui campioni dell’area 5000 (da GUIDERI 1996; SANTARELLI 20002001; MANASSE, MELLINI 2002)

188

campioni arrostimento efficiente

arrostimento non efficiente

arrostimento inefficiente

1047 1051b 1060 1074 1082 trincea 1051° 1057 RP2a 1053 RP2b

% di S in peso 0,14 0,84 1,36 1,84 0,91 2,70 2,42 2,41 3,94 9,76 7,75

può dunque ipotizzare che la quantità di piombo riscontrata nello speiss, che dalle analisi risulta essere di 1,29% in peso per le scorie dell’area 1000 e di 0,67% per l’area 5000, rappresentasse la parte del metallo prezioso persa nel processo e che ne condizionava la resa finale. Riassumendo quanto esposto possiamo affermare che le indagini mineralogiche hanno consentito di caratterizzare i campioni come scorie derivanti da un probabile processo di prima riduzione del piombo, fase preliminare all’estrazione dell’argento, attraverso il trattamento di solfuri e solfosali di approvvigionamento locale. La frequente presenza nelle scorie di composti ad elevato contenuto di arsenico ed antimonio (speiss), associato ad argento e piombo, conferma che l’origine della carica mineraria risiedeva nei giacimenti presenti negli affioramenti minerari vicini al sito, ricchi di galena e tetraedrite argentifere. L’ipotesi di smelting del rame può essere esclusa per la scarsa presenza di rame metallico nelle scorie e per le condizioni fortemente riducenti in cui veniva svolto il processo, sicuramente non necessarie per l’estrazione del rame. La presenza di solfuri nelle scorie fa ipotizzare che il processo di arrostimento non sia stato completo, ma comunque sufficiente per condurre in modo corretto il processo di estrazione. Le scorie studiate hanno temperature di formazione comprese tra 1100 e 1300°C, la viscosità delle scorie risulta essere relativamente bassa, probabilmente a causa dell’elevato contenuto in calcio che caratterizza la loro composizione, forse aggiunto come fondente, indicando quindi la possibilità di una buona separazione tra scoria e metallo durante il processo.

media

1,02

2,87

8,76

Fig. 9a: tenore di zolfo dei campioni dell’area 1000 campioni arrostimento efficiente

arrostimento non efficiente

5003.a 5003.b 5000 5003-1 5003-2 5003-3 5003-4a 5003-5 5003-6 5004 5003-4b RP1a RP1b RP2c

% di S in peso 1,10 1,20 1,11 1,65 1,13 0,97 1,47 0,78 0,50 1,69 2,36 2,81 4,08 4,08

media

1,16

3,33

Fig. 9b: tenore di zolfo dei campioni dell’area 5000 tenore di zolfo

arrostimento ottimale arrostimento efficiente arrostimento non efficiente

area 1000 n° campioni

%

area 5000 n° campioni

%

5

45,45

10

71,43

2>4

2

18,18

-

-

contenuto di zolfo in % di peso