Il secolo di ferro 1550-1660


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Il secolo di ferro 1550-1660

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COLLEZIONE STORICA

Proprietà letteraria riservata Gius . Laterza & Figli Spa, Roma-Bari CL 20-0895-5

PREMESSA

Questo non è un resoconto completo del periodo 1 550- 1 660. La mia scelta è stata quella di centrare i problemi del muta­ mento sociale e del destino delle classi più umili e di collocarli nel quadro della storia politica ed economica . Perciò le parti I, II, IV hanno una certa unità, mentre la parte III è più stac­ cata con l 'accento posto sulla Controriforma ( più che sul prote­ stantesimo) e su aspetti del periodo, come la tolleranza e la con­ cezione utopistica che raramente compaiono nei resoconti gene­ rali . Il lettore non troverà in questo lavoro quasi nulla sull 'arte, la cultura, la scienza ed anche la trattazione dei problemi religiosi è frammentaria. Prima di essere accusato di ignoranza o di defor­ mazioni faccio subito due puntualizzazioni. Innanzitutto, che questo lavoro è una ricerca di storia sociale quantitativa sulle infrastrutture materiali della vita più che sulle sovrastrutture culturali . In secondo luogo, che, a mio parere, arte, cultura e scienza sono cosi importanti in questo stimolante periodo da meritare un volume a sé e non pochi frettolosi riferimenti all 'in­ terno di quello che è già un volume di notevole mole . Perciò questo libro non pretende di rappresentare la totalità del secolo della Controriforma. Inoltre ci si accorgerà che la trattazione dei problemi non è uniforme e che temi come quello dei profughi e della strego­ neria hanno ricevuto eccessiva attenzione . Devo dire che ho di proposito allargato quei paragrafi per i quali la disponibilità di materiali e l'interesse dell'argomento sembravano giustificare questa operazione . In questa luce il lungo capitolo X sulle ribellioni popolari rappresenta uno sforzo di fornire al lettore un'informazione su tutta la letteratura sull'argomento e in un certo senso può essere considerato il capitolo-chiave del libro . La mancanza di uniformità e di equilibrio rientrano nel

Premessa

VIII

piano del lavoro perché mio obiettivo è stato quello di esporre ragionamenti e di sviluppare linee di indagine e non di conse­ gnare al lettore una semplice esposizione da manuale. I lettori che preferiscono un approccio più convenzionale hanno diversi libri fra i quali scegliere : il mio non vuole certo aggiungersi ad essi . Ho scelto di scrivere di un Secolo di Ferro e di un'Età di Ferro, perché cosi i contemporanei definirono il periodo ed è ormai tempo che guardiamo al passato attraverso i loro occhi e non attraverso quelli di scrittori attuali che guardano solo al dorato luccichio delle cose di superficie . Buona parte del volume si basa su ricerche originali, ma ho deciso di non appesantire questa edizione con note o con un elenco di fonti documentarie. Per questo chiedo l'indulgenza degli studiosi. I miei ringraziamenti vanno agli editori che hanno dato prova di tanta pazienza nell'attendere che consegnassi il testo del libro ; anche se a mia difesa devo dire che una parte della colpa per il procrastinarsi del lavoro va attribuita ai miei due piccoli figli ai quali il libro è dedicato . Michael Mallet, Henry Cohn, Hugh Trevor-Roper hanno gentilmente letto alcune parti del libro e sono loro grato per le osservazioni e le critiche . Infine mia moglie ha dattiloscritto il testo e mi ha salvato da vari errori. H. K. Università di Warwick

AVVERTENZA PER L'EDIZIONE ITALIANA. La presente edizione è una versione riveduta e corretta della prima edizione inglese pubblicata nel 197 1 , alla quale è stata apportata solamente qualche variante di poco conto. Per la trattazione di alcuni significati del termine ' Iran Century ', rinvio al mio articolo Golden Age, Iran Age: A Conflict of Concepts in the Renaissance, in « The Journal of Medieval and Renaissance Stu­ dies », Autumn 1974.

IL SECOLO DI FERRO

Questa è l'Età di Ferro nella quale prevale l'iniquità e uomini di tutte le condizioni e di tutti gli stati cercano di vivere di espedienti ed è considerato saggio chi riesce meglio a ottenere fortune. Robert Greene, Defence of Conny Catcbing (1592) Felice quell'età, felici quei secoli che gli antichi han­ no chiamato l'Età dell'Oro: non perché l'oro cosi adorato in questa Età di Ferro, fosse allora facilmente ottenibile, ma perché queste due parole, tuo e mio, erano ignote alle persone che vivevano in quella santa età, quando tutto era posseduto in comune. Cervantes, Don Cbisciotte della Mancia (1609) Non voglio dir nulla sui costumi del secolo in cui viviamo. Posso solo garantire che non è dei migliori, è un Secolo di Ferro. Robert Mentet de Salmonet, Histoire des troubles de la Grande-Bretagne (1649)

Parte prima LE STRUTTURE

I LE DIMENSIONI DELLA VITA

Il mondo è piccolo: intendo dire che non è cosi grande come si afferma. Cristoforo Colombo (nel 1503) [ . ] anche l'esistenza dell'uomo, solitaria, misera, ripu­ gnante, bestiale e breve . Thomas Hobbes, Leviathan (1651) .

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Intorno alla metà del sedicesimo secolo era già iniziata l'espansione europea verso ogni angolo del mondo e gli europei stavano diventando pericolosi per la sicurezza delle civiltà più progredite della terra. Questa vigorosa espansione comportò inevitabilmente un mutamento di prospettiva nella vita quoti­ diana, dovuto all'afllu sso di nuovi prodotti sui mercati interni e allo sfruttamento delle ricchezze dei possedimenti d'oltremare, da poco conquistati . Ma non era solo il mondo esterno all'Eu­ ropa che stava cambiando . All'interno del continente i modi di vita degli europei erano stati sconvolti dagli avvenimenti rivo­ luzionari della Riforma . Lungo l'arco del periodo che prende­ remo in esame, i cento anni successivi alla Riforma protestante, i problemi e i conflitti sollevati dalla scissione della cristianità rimasero ancora in pieno fermento. Cosl profondi sono i muta­ menti che si verificano in questo periodo che molti storici con­ tinuano a guardare agli eventi politici, economici e religiosi del­ l'epoca come ad avvenimenti rivoluzionari . Ed anche se per buona parte le cose stanno cosl, è però importante osservare che l'ondata rivoluzionaria produsse a sua volta una reazione che arrestò e corresse la spinta al mutamento. Questa tensione

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Parte I. Le strutture

sobriamente che dei palazzi di Montezuma « non c'è l'uguale in tutta la Spagna » . Il grande tempio, disse, era qualcosa « le cui dimensioni e la cui magnificenza nessuna lingua umana poteva descrivere », e la città la definì « la più bella del mondo ». Bernal Dfaz, ricordando in vecchiaia gli splendori del Messico, disse che anche il mercato era tale che « alcuni dei nostri soldati che erano stati in molte parti del mondo, a Costantinopoli, a Roma e in tutta l'Italia dissero che non avevano mai visto un mercato così ben progettato, così grande, così regolato, e così pieno di persone » . Sul finire del sedicesimo secolo a questa consapevolezza della modesta parte che spettava all'Europa fra le civiltà del mondo si sostituì un atteggiamento diverso, più aggressivo . Sicuri della loro superiorità quanto ad armi e tecnologia, gli europei entra­ rono quasi senza sforzi nell'epoca del colonialismo. Conseguenza di ciò fu una fin troppo facile presunzione di essere destinati al governo morale e civile dei nuovi mondi . Le iniziative com­ merciali dei portoghesi e degli inglesi, non meno del più spietato imperialismo degli spagnoli e degli olandesi, furono permeati ugualmente di questo atteggiamento . Esso scaturiva per un verso dalla convinzione puramente religiosa che bisognava portare la fede ai pagani . Sotto questo aspetto i risultati più notevoli fu. rono raggiunti da uomini come s. Francesco Saverio, la cui visione globale della questione lo portò a Goa, nel Malabar, in Malacca, nel Giappone e sulle coste cinesi, e come fra' Toribio de Motolinfa, che nel 1 524 sbarcò in Messico con altri undici francescani per dare inizio alla prima evangelizzazione cristiana su larga scala mai intrapresa al di fuori dell'Europa. E per un altro verso scaturiva anche da una presunzione di una intrinseca superiorità razziale . « Come possiamo dubitare », scrisse nel 1 547 l 'umanista spagnolo Juan Ginés de Sepulveda, « del fatto che questi popoli - così incivili, così barbari, contaminati da tante empietà e oscenità - sono stati a buon diritto conquistati da un re così eccellente, devoto e tanto giusto, e da una nazione così umana che primeggia in ogni tipo di virtù? ». Il suo atteg­ giamento verso gli indigeni, l'atteggiamento di un teorico che non aveva una diretta conoscenza personale dell'America, può essere paragonato al credo di chi invece aveva una larga cono­ scenza personale dei possedimenti coloniali del suo paese, come l'olandese Jan Pieterz Coen, creatore dell'impero olandese nelle

I. Le dimensioni della vita

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Indie orientali. « In Europa », controbatté a chi cnttcava i suoi sistemi, « non si può fare quel che si vuole del proprio bestiame? Cosi si comporta qui [nelle colonie ] il padrone con i suoi uomini, perché costoro con tutto quel che gli appartiene sono di proprietà del padrone come in Olanda lo sono le bestie ». Quel che stiamo dicendo ora in maniera molto compendiosa - che l 'attenzione degli europei per il mondo esterno andava trasformandosi da esplorazione in colonizzazione - può essere spiegato meglio guardando alla potenza spagnola. Già nel corso del decennio 1 580-90 la Spagna aveva istituito il più grande impero sulla faccia della terra. Lo spazio-mondo europeo era stato allargato fino a riempire tutto il globo. Dominante in Eu­ ropa, suprema nella penisola iberica, erede dell'impero coloniale portoghese, padrona dell'America e conquistatrice delle Filippine, la Spagna tipjzzava bene il nuovo vigore dell'Europa. L'animo di uno spagnolo non poteva mancare di mostrare un certo orgo­ glio per questa nuova monarchia universale. « Si è passati attra­ verso ogni luogo e tutto è ormai conosciuto », gridò nel 1552 lo storico Francisco L6pez de G6mara. Frontiere senza limiti si dischiudevano alla diffusione della Fede, proclamò uno scrit­ tore nel 1 588 : « non c'è lontano Perù, non c'è Cina, non c'è isola segreta, non c'è zona torrida cosl incandescente, non c'è circolo artico o antartico, cosi freddo e gelato, che la mano di Dio non possa raggiungere ». In sintonia con questa fiducia c;i formò la nuova tradizione di predominio, fermamente enunciata nel 1590 dallo storico gesuita José de Acosta quando, appro­ vando il possesso dell'America da parte della Spagna, affermò che esso era del tutto « conforme al desiderio della Provvidenza che certi regni governino gli altri ». L'allargamento dello spazio non rimase limitato alla visione del mondo di statisti, propagandisti e commercianti. Per la prima volta si aprivano straordinarie possibilità di movimento per la gente comune. All'interno dei loro paesi gli europei erano in grado di compiere regolari migrazioni, cosi da non rimanere con­ finati per la vita a quel limitato spazio in cui erano destinati a vivere e a morire. Ma oltre a ciò gli si offriva ora l'abbagliante prospettiva di emigrare nelle nuove terre al di là dell'Atlantico . Furono gli spagnoli ad aprire la strada verso l'America, ma all'inizio del diciasettesimo secolo emigrarono anche molti in­ glesi . Chi poteva resistere ai richiami di un continente dove,

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Parte I. Le strutture

come scrive un propagandista inglese, la « fertilità del suolo, l'insinuarsi dei mari, la molteplicità dei fiumi, la sicurezza dei porti, la salubrità dell'aria, la facilità di dimorarvi, le speranze presenti e future, la varietà dei mondi in quel mondo già così diversificato, stimolano le nostre menti ad afferrare quel che le nostre lingue dichiarano e le riempiono entrambe di argomenti di lodi divine? ».

Le distanu. Caratteristica sorprendente e non meno importante dell'espan­ sione europea fu la conquista dello spazio . Un'occhiata ad una carta geografica, alle distanze coperte dalle navi che commercia­ vano con l'Asia doppiando il Capo di Buona Speranza , ai viaggi compiuti dai colonizzatori inglesi verso l'America settentrionale, ai territori attraversati da Francesco Saverio o da Pizarro, po­ trebbe portare a sospettare che a renderli possibili era stato il progresso tecnologico, che aveva ridotto il rapporto spazio­ tempo . Eppure, malgrado tutti i progressi rivoluzionari nella nautica, il tempo fu appena attaccato . Le navi e i trasporti ter­ restri dovevano attendere come prima per le condizioni migliori del vento e del tempo, e il fattore decisivo nella conquista delle distanze era ancora la capacità di resistenza dell'uomo . Anche il migliore trasporto era soggetto al capriccio degli elementi : per quale altra ragione il tempo impiegato alla fine del sedicesimo secolo dal servizio postale di terra fra Lisbona e Danzica variava da cinquantatre a centotrentadue giorni? All'interno dell'Europa la conquista delle distanze fu relati­ vamente facile, anche se incerta . Per viaggiare c'erano tre mezzi di diversa efficienza, navi, cavallo o diligenza. Per le lunghe di­ stanze il metodo più rapido di comunicare era senza dubbio quello via mare, ma per le aree più piccole il cavallo era certa­ mente più rapido e più sicuro, ponendosi come l'ovvio punto di partenza dei nascenti servizi postali europei. Una distinzione di principio va fatta fra distanza postale e distanza umana, per­ ché la posta veniva fatta viaggiare a velocità che il normale viag­ giatore non poteva o non voleva raggiungere. Per tutto ciò i servizi postali stavano certamente contribuendo a restringere lo spazio europeo, sia diffondendo più rapidamente le notizie ,

Fig. l

Velocità delle notizie nell'Europa del Cinquecento (a intervalli isometrici di una settimana).

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Parte I. Le strutture

sia abituando di più a viaggiare velocemente. La pubblicazione di notizie è un'utile guida al rapporto tempo-distanza fra le città. Un giornale di Haarlem del 9 gennaio 1 627 pubblicava per esempio dispacci da Linz, datati 12 dicembre; da Venezia, datati 1 8 dicembre ; da Parigi, datati 2 1 dicembre, e da Ber­ lino, datati 22 dicembre. Se si tien conto del lasso di tempo che precede la pubblicazione, si ha un'idea della velocità alla quale potevano viaggiare le notizie. Nella fig. l si indicano le diverse velocità alle quali viaggiavano all'inizio del sedicesimo secolo le notizie fra Venezia e altre città europee. È difficile specificare, per via dell'incertezza delle condizioni, quale avrebbe dovuto essere un normale rapporto tempo-distanza fra due zone. Per esempio sembra che, verso la fine del sedice­ simo secolo, il servizio postale con cavalli fra Augusta e Ulm richiedesse una giornata, mentre fra Augusta e Marsiglia ci volevano, con le soste necessarie, quattordici giorni. Nello stesso periodo il servizio postale fra Anversa e Amsterdam prendeva da tre a nove giorni, mentre da Anversa a Danzica ci voleva qualcosa fra ventiquattro e trentacinque giorni. Successivamente, un regolamento inglese del 1637 stabili che il servizio postale dovesse svolgersi ad una velocità di circa 1 1 km all'ora d'estate e di circa 9 e mezzo d'inverno . Ma i progressi in questa dire­ zione non dovettero essere rilevanti se troviamo che nel 1666 la velocità media delle lettere da Plymouth, Chester e York a Londra non era superiore ai 6 km e mezzo all'ora. Se ci spo­ stiamo dall'Europa del sedicesimo secolo, con questa velocità quasi da gita, al Nuovo Mondo rimaniamo a bocca aperta. Qui infatti il sistema postale degli Inca raggiungeva velocità inegua­ gliate fino all'invenzione del motore a combustione interna . Lungo le strade degli Inca vi erano a intervalli regolari dei posti di tappa ai quali erano assegnati dei corridori che portavano tutti i messaggi . La velocità media da loro raggiunta era di oltre 240 km al giorno . Il percorso da Lima a Cuzco era cosl coperto in tre giorni, mentre col sistema dei cavalli in uso nel diciasset­ tesimo secolo ci volevano dodici giorni per coprire la stessa distanza. Tanto efficiente era questo sistema che gli Inca erano abituati a ricevere a Cuzco il pesce fresco trasportato dalla costa, coprendo una distanza di oltre 560 km in due giorni . Malgrado l'incerto e lento sviluppo delle comunicazioni, gli europei videro a poco a poco ridursi le distanze fra di loro.

I. Le dimensioni della vita

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Fuori d'Europa, l'enormità delle distanze richiedeva che il para­ metro di riferimento fosse espresso più in termini di resistenza che di tempo (e il servizio postale degli Inca può ben essere collocato in questa categoria). Coloro che riuscivano a conqui­ stare questi spazi erano degli autentici eroi, come nel caso di Colombo, che nel 1 503 informò la regina Isabella che « il mondo è piccolo : voglio dire che non è così grande come si dice che sia » . Ma pochi altri sarebbero stati d'accordo con queste parole. La prodigiosa impresa di Magellano e di Sebastian del Cano, iniziata nel settembre 1 5 1 9 con la partenza di cinque navi da Siviglia e terminata col ritorno nel settembre 1522 di una sola nave con quindici uomini, dopo aver circumnavigato il globo, provò qual era l'alto costo da pagare per rendere il mondo più piccolo. Quando Francis Drake rifece lo stesso viaggio cinquan­ tacinque anni dopo, le difficoltà erano ancora proibitive : dispo­ neva di cinque navi quando salpò da Plymouth nel dicembre 1577 e di una soltanto quando ritornò quasi tre anni dopo, nel set­ tembre 1 580. La lunghezza del viaggio da sola è ingannevole, perché in tutti i viaggi di allora si trascorreva la maggior parte del tempo nei porti e non navigando, ma anche così ridimen­ sionato l 'oceano costituiva una distanza formidabile. Le navi che viaggiavano sul percorso America-Spagna, la carrera de Indias, impiegavano in media settantacinque giorni per attraversare l'Atlantico da Siviglia a Vera Cruz, e centotrenta giorni per ritornare, ma i primi quindici giorni di questo secondo periodo se ne andavano nel porto dell'Avana in attesa che tutta la flotta si riunisse. Il viaggio nel suo complesso, compresa la sosta a Vera Cruz, era perciò piuttosto lungo per cui una nave in par­ tenza da Siviglia nel mese di luglio non vi sarebbe normalmente ritornata prima del mese di ottobre dell'anno successivo. L'Ame­ rica era ancora un paese lontano, e coloro che vi si avventura­ vano dovevano sottoporsi a tutte le difficoltà del viaggio. Quando il Mayflower lasciò Plymouth nel settembre del 1 620 per il suo viaggio di sessantacinque giorni attraverso l 'oceano, i suoi passeggeri certo non sospettavano il pesante pedaggio che dove­ vano pagare nel corso del loro tentativo. Solo cinque dei cento­ quarantanove passeggeri e membri dell'equipaggio morirono du­ rante la traversata, ma le sofferenze del viaggio ebbero come diretta conseguenza un'epidemia che uccise metà di coloro che sbarcarono in America .

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Parte I. Le strutture

Attraverso l'esame di questi singoli viaggi per mare possiamo appena farci un'idea del coraggio col quale avventurieri e pelle­ grini vissero il problema della distanza, soprattutto nell'America centrale e meridionale. Quale altra razza se non la spagnola, si chiese lo storico Cieza de Le6n, sarebbe stata capace di aprirsi la strada « attraverso terre cosl incivili, foreste cosl fitte, mon­ tagne e deserti cosl grandi, e su fiumi cosl larghi ? ». Possiamo rispondere che i russi in Siberia, i puritani nella Nuova Inghll­ terra, gli olandesi e i portoghesi in Africa e in Asia, ciascuno a modo suo e spesso con metodi che pochi approverebbero, sta­ vano rendendo il mondo esterno più vicino all'Europa e si avvia­ vano perciò a conquistare il grande abisso imposto dal tempo e dallo spazio. Solo agli imperialisti le distanze sembravano costantemente insuperabili . Dal 1 870 gli inglesi potevano governare l 'India quasi senza sforzi servendosi del telegrafo, ma nel sedicesimo secolo Filippo II fu posto in gravi difficoltà dalla lentezza delle comunicazioni con i suoi amministratori . « Non ho avuto notizie dal re sugli affari delle Province Unite fin dallo scorso 20 novem­ bre », lamentava da Anversa il 24 febbraio 1 575 Luis de Reque­ sens, governatore della regione. Un ritardo nelle comunicazioni di questa ampiezza - tre mesi - avrebbe avuto certamente serie conseguenze se si fosse verificato troppo spesso. Fu una tragedia che ciò accadesse troppo spesso nel corso dei vani ten­ tativi compiuti da Madrid per mantenere un controllo diretto ed efficiente sull'America. L 'insistenza delle autorità spagnole per controllare gli affari più importanti delle Indie significava che le decisioni prese sarebbero state soltanto riferite a Madrid . Infatti data la distanza e il tempo necessario perché nella capi­ tale si prendesse una decisione, la risposta avrebbe impiegato uno o più comunemente due anni per arrivare in America. Qui gli amministratori per i loro fini potevano inoltre procrastinare le loro risposte. Per esempio quando Carlo V scrisse nel giugno 1523 a Cortés dando ordine che fosse rispettata la libertà degli indiani, Cortés non rispose fino all'ottobre del 1524, il che signi­ ficò che solo nel 1525 l 'imperatore seppe dell'impossibilità di Cortés a eseguire i suoi ordini ! Fra rinvii nelle decisioni e rinvii nella spedizione delle comunicazioni il funzionamento del governo assoluto diventava sempre meno efficiente .

I. Le dimensioni della vita

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Il tempo.

Per gli amministratori, come per i generali e per coloro che governavano vicende umane, il tempo era di somma importanza. Nel 1 560, per l'ambasciatore di Filippo II in Francia, fu di tale importanza far arrivare un messaggio urgente a Toledo ed avere la risposta personalmente a Chartres, che pagò l'enorme somma di trecentocinquantotto ducati (ben maggiore dell'intero stipendio annuale di un professore universitario ) per ottenere il servizio richiesto. Anche per i mercanti il tempo costituiva un investi­ mento . Ogni ritardo nel pagamento di cambiali, nell'arrivo dei galeoni, nella spedizione di derrate deperibili poteva significare la rovina. Tuttavia se si esaminano tutti i documenti relativi alle urgenti richieste di questi uomini in tutto il mondo, si ricava con quasi certezza che essi costituivano solo una piccola minoranza . Il tempo non era ancora diventato quel che è ora in un'età industriale, un tiranno inappellabile. Al contrario c'erano poche attività che dovevano, o potevano essere crono­ metrate, per cui quell'epoca sembra muoversi quasi a caso e con incomprensibile lentezza, regolata solo dai movimenti del sole, dal ciclo delle stagioni e da qualche occasionale orologio . Gli orologi, insieme con ogni concetto di regolazione del tempo, costituivano una relativa novità nel 1550. La popola­ zione di ogni centro prendeva sempre dalla Chiesa la divisione del tempo in ore e minuti . La giornata era scandita dalle ore liturgiche, le campane della chiesa scandivano il passaggio dal­ l'una all'altra, e le unità minori erano espresse in termini di Ave o Paternoster. In una tale cultura tempo civile e tempo ecclesiastico erano inseparabili e fu uno dei meriti del periodo successivo alla Riforma l'aver contribuito a distinguere fra i due . Il protestantesimo liberò il tempo dai suoi abiti ecclesiastici e gli orologi entrarono successivamente in scena per secolarizzarlo completamente. Alla fine del sedicesimo secolo l'industria degli orologi era in piena espansione, soprattutto in seguito alla fuga degli orologiai dai paesi cattolici verso quelli protestanti . Nel 1 5 1 5 a Ginevra non c'erano orologiai, dopo il 1550 essi vi giun­ sero fuggendo dalla Francia e nel 1 600 la città aveva un venti­ cinque-trenta maestri orologiai e un numero sconosciuto di ap­ prendisti . Anche in Inghilterra l'industria degli orologi non si

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Parte I . L e strutture

sviluppò finché non arrivarono alla fine del sedicesimo secolo degli orologiai che erano emigrati dai loro paesi. Nell'universo decisamente matematico che scienziati e intellettuali si inventa­ rono all'inizio del diciassettesimo secolo, gli orologi giocarono un ruolo essenziale . A differenza dei decenni precedenti in cui la scansione temporale era affidata al genio e non misurata, in contrasto con la protesta di Gargantua, «Non mi regolo mai sul tempo », il diciassettesimo secolo dette inizio allo spietato assog­ gettamento dell'umanità all'orologio . Fu il grande astronomo Keplero che dopo aver osservato l'universo lo defìnl « simile a un orologio » ; fu Boyle che lo considerò «un bel lavoro di orologeria » . Il cammino dell'orologio fu ulteriormente accelerato nel 1 657 quando Huggens presentò agli Stati di Olanda un orologio la cui misurazione del tempo era esattamente control­ lata dalle oscillazioni perfettamente bilanciate di un pendolo. Malgrado questi progressi scientifici, il mondo europeo rimase sostanzialmente estraneo a ogni tentativo di razionalizzare il tempo . L'uso degli orologi rimaneva privilegio di una minoranza. La popolazione lavoratrice si regolava ancora sulle diverse fasi del giorno, sulle campane, sulle stagioni . Si era soliti lavorare solo alla luce del giorno, per cui d'inverno una giornata lavo­ rativa era generalmente più corta almeno di due ore rispetto a una giornata di lavoro estiva, e di conseguenza anche i salari erano inferiori . Per esempio, nell'Anversa del sedicesimo secolo gli operai dell'edilizia lavoravano per sette ore al giorno d'in­ verno, ma per dodici ore d'estate; e i salari invernali erano infe­ riori di un quinto rispetto a quelli estivi. Concetti come «alla luce del giorno » e «dall'alba al tramonto » li si trova in genere nei regolamenti di lavoro, ma raramente potevano essere appli­ cati alla lettera. Solo per pochi maestri le ore di lavoro erano dettate con precisione senza riferimenti alla lunghezza della gior­ nata : cosl nel 157 1 i tipografi di Lione protestarono perché si era stabilito che la loro giornata di lavoro iniziasse alle 2 del mattino e finisse alle 8 di sera. Per molti lavoratori, soprattutto in campagna, l'imprecisione del tempo eliminava dal lavoro le forme di più rigorosa disciplina . Il riposo era ufficialmente rico­ nosciuto ed incoraggiato. La domenica era normalmente una giornata festiva, ma in molte zone anche il lunedl veniva preso come giornata non ufficiale di riposo. Inoltre c'erano i numerosi giorni festivi della chiesa . Per esempio nella diocesi di Parigt

I. Le dimensioni della vita

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all'inizio del diciassettesimo secolo c'erano cinquantanove festi­ vità religiose obbligatorie, per cui insieme con le domeniche si superavano i 100 giorni festivi all'anno . Come osservò in seguito La Fontaine, « on nous ruine en fétes ». Ma questo sistema non era necessariamente dannoso come può sembrare, perché, soprat­ tutto per via dell'economia prevalentemente agricola dell'epoca, non c 'era sempre lavoro a sufficienza per impiegare intensiva­ mente tutti durante la settimana, di modo che le giornate di vacanza rappresentavano un'alternativa rispetto a quelle che altri­ menti sarebbero state le giornate di disoccupazione. Tutte le classi, non solo i ceti più agiati, accettavano quest 'atteggi a­ mento disordinato quanto alla utilizzazione del tempo . Era il programma di un'epoca che ignorava il capitalismo industriale, di un'epoca di comunicazioni lente e distanze lunghe, di un'epoca in cui la prevalente economia agraria faceva più affidamento sul ritardo delle stagioni che non sull'orologio. Non c'è da meravi­ gliarsi allora che ci si ribellasse quando il vecchio e ben collau­ dato ordine fu sostituito con un nuovo calendario . In Francia nel 1 563 il re decretò che, invece del precedente sistema secondo il quale l 'anno andava da una Pasqua all'altra, l'anno iniziasse da allora per tutto il paese il I gennaio . Ci fu una forte oppo­ sizione e il Parlamento di Parigi rifiutò di registrare l 'editto fino a gennaio del 1567, per cui l'anno 1 566 in Francia fu solo di otto mesi e diciassette giorni. Ma una definitiva riforma inter­ nazionale del calendario non fu varata che nel 1 582, quando papa Gregorio XIII riorganizzò un nuovo anno dal quale veni­ vano tolti dieci giorni . Questa volta l'opposizione venne dalla maggioranza dei paesi protestanti, che preferirono ignorare la riforma papale e rimanere indietro di dieci giorni rispetto al resto dell'Europa.

Le strutture demografiche. Quale fu il posto dell'uomo nell'Europa di questo secolo? Forse la caratteristica più ovvia è che il tempo assegnato all'uomo medio era più breve se comparato alle attuali probabilità di vita. Un numero minore di bambini riusciva a diventare adulto, un numero maggiore di adulti moriva giovane. La situazione era differente in rapporto all'ambiente e alle classi sociali, ma in

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Parte I. Le strutture

complesso era una società ( e , poiché le ricerche finora condotte sono limitate ad un'area, dobbiamo dire una società europea occidentale ) nella quale la bilancia pendeva nettamente a favore dei giovani, semplicemente perché le possibilità di raggiungere un'età avanzata erano incerte. Un modo di rendersi conto della brevità della vita è quella di considerare le probabilità medie di vita al momento della nascita . A questo riguardo di più pronta utilizzazione sono le indicazioni relative a minoranze privilegiate e facilmente misu­ rabili come l'aristocrazia. Un'indagine compiuta fra le famiglie che governarono l'Europa occidentale nel diciassettesimo secolo induce a ritenere che le probabilità medie di vita al momento della nascita fossero di ventotto anni per i maschi e di trenta­ quattro anni per le femmine. Fra la nobiltà inglese le possibilità medie di vita al momento della nascita furono, nei cento anni dal 1 575 al 1 674, di trentadue anni per i maschi, di 34,8 per le femmine ( mentre nel periodo 1 900- 1 924 le probabilità di vita per un aristocratico furono di sessanta anni, e di settanta per un'aristocratica ) . Analogamente uno studio congiunto sulle di­ ciannove più importanti famiglie borghesi di Ginevra mostra che nel mezzo secolo fra il 1 600 e il 1 649 le probabilità di vita per i maschi al momento della nascita erano di trenta anni, per le femmine di trentacinque. Queste cifre, se rapportate a rileva­ zioni moderne, sono certo sconcertanti, pure è bene tener pre­ sente che in queste cifre sono rappresentate solo le classi privi­ legiate, cioè quelle che avevano maggiori possibilità di difesa dalla fame e dalle malattie. La situazione dei ceti più poveri, per i quali è più difficile ottenere dei dati, era certamente e indescrivibilmente peggiore. Infatti, un'indagine condotta su tre­ milaseicento bambini di tutte le classi sociali, nati a Parigi alla fine del diciassettesimo secolo, arriva a formulare una possibilità di vita generale di ventitré anni, una cifra che è certo più vicina alla condizione delle masse. Il quadro che emerge da queste cifre sembra abbastanza brutto se raffrontato alla probabilità di vita di oltre sessanta anni che ha dinanzi a sé un bambino inglese del nostro secolo, ma esso diventa incommensurabilmente peggiore se passiamo ad esaminare i dati sulla mortalità infantile di quell'epoca. Infatti le cifre mostrano che le probabilità di vita venivano diminuite dall'altissimo tasso di mortalità infantile. Nella Castiglia del se-

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dicesimo secolo la mortalità era notevolmente elevata : nelle zone rurali intorno alla città di Valladolid, nei villaggi di Simancas, Cabez6n e Cigales un numero fra il quaranta e il cinquanta per cento di tutti i bambini morl prima del settimo anno di vita; mentre nella vicina città di Palencia addirittura il sessantotto per cento dei nati fra il 1576 e il 1 600 morl prima dei sette anni . E cifre analoghe si hanno per la Francia. Generalizzando i dati disponibili per la parrocchia di Crulai in Normandia e per le zone circostanti la città di Beauvais e di Amiens, possiamo affermare che quasi il venticinque per cento di tutti i bambini nati nel diciassettesimo secolo nel nord della Francia morl du­ rante il primo anno di vita, e che in media il cinquanta per cento del totale non arrivò a venti anni. Ciò lo si può verificare in dettaglio sul distretto di Auneuil dell'area di Beauvais, dove fra il 1 656 e il 1 7 3 5 su mille nati vivi ci furono solo settecento­ dodici sopravvissuti, maschi e femmine, alla fine del primo anno di vita . Alla fine dei primi cinque anni di vita c'erano cinque­ centosessantasette sopravvissuti , alla fine dei dieci anni ne erano rimasti in vita cinquecentoventinove, alla fine dei venti anni solo quattrocentottantanove. Queste cifre indicano che dopo gli anni della prima infanzia si ha una diminuzione dell'incidenza della mortalità e un aumento delle probabilità di vita. Probante al riguardo è l 'esempio fornito dalla famiglia Capdebosc di Con­ domois in Francia. Jean Dudrot de Capdebosc sposò il 19 mag­ gio 1 560 Margaride de Mouille . Ebbero dieci bambini, cinque dei quali morirono prima del decimo anno di età. Il primo figlio , Odet, sposò nel 1 595 Marie de la Crompe : dei loro otto figli , cinque non arrivarono al loro decimo anno di vita. A sua volta Jean, il primo degli otto figli, si sposò due volte. Jeanne, sua prima moglie, gli dette due bambini, uno dei quali morl a nove anni e l'altro dopo cinque settimane di vita . Marie, sua seconda moglie, gli dette tredici figli nei ventuno anni fra il 1 623 e il 1 645. Di questi sei morirono, uno fu ucciso in guerra, due si fecero suore . Dei trentatré bambini nati nel corso di un secolo in questa prolifica famiglia solo sei fondarono un'altra famiglia. Ragione principale di ciò la mortalità infantile. La coscienza che la vita era breve e che solo una propor­ zione relativamente piccola della popolazione sarebbe arrivata alla vecchiaia deve aver reso la qualità della vita sensibilmente di­ versa da quella dell'Europa contemporanea . Senza una larga pre-

Parte I. Le strutture

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senza di anziani, l 'Europa del 1 600 doveva essere un'Europa prevalentemente giovane, una società pre-industriale in cui le forze naturali cospiravano per mantenere la vita crudelmente breve . Dovunque, più degli anziani, dovevano essere presenti bambini e giovani . Nel 1 5 3 8 in Germania Sebastian Franck si lamentava che « l'intera Germania brulica di bambini » . Che non si trattasse di una semplice immaginazione si è indotti a ritenerlo dai calcoli del demografo inglese Gregory King che nel 1 695 valutò che oltre il quarantacinque per cento della popola­ zione dell'Inghilterra e del Galles era costituita da bambini . Ana­ loga era la situazione in altre zone europee. Nel 1 574 in quattro parrocchie di Colonia il trentacinque per cento della popolazione era costituito da bambini sotto i quindici anni di vita; nel 1 640 in sei distretti di Jena il rapporto era in media del trentotto per cento ; mentre Leida nel 1 622 sembra che fosse vicina al quarantasette per cento . Di conseguenza il gruppo d'età predo­ minante nella società era sorprendentemente giovane. Le cifre di Gregory King per l'Inghilterra pongono l 'età media della popolazione a circa ventisette anni, un calcolo che è corroborato da altre prove. Questa media cosi bassa per l'Inghilterra non era un'eccezione. A Ginevra nel periodo 1 5 6 1 - 1 600 l 'età media della popolazione scese fino a ventitré anni, e solo nel periodo 1 6 0 1 - 1 700 sali a 27,5 anni . Questa insolita struttura della so­ cietà per gruppi di età può essere resa più evidente confrontando alcune cifre. Nella tabella che segue sono poste a confronto al­ cune cifre contemporanee relative all'Inghilterra e cifre dei pe­ riodi precedenti.

Gruppo di età

Venezia 1610-20

Inghilterra e Galles 1695 (King)

Zona di Blbogen (Boemia) fine dicianettcaimo secolo

Inghilterra c Galles 1958

in percentuali della popolazione da O a9

18,5

27,6

26

da10a19

18,2

20,2

20

14,2

da20a29

15,4

15,5

18

13,8

da30a39

14,8

15,7

11,7

14

14,1

49

11,0

8,4

9

13,9

da50a59

8,3

5,8

da40

a

13,2 13

oltre 60

12,9

10,7

16,9

I. Le dimensioni della vita

21

Se il gruppo d'età predominante era giovane, si può presu­ mere che i matrimoni fossero anche più precoci di quanto avviene oggi . Ma una tale ipotesi, che un tempo si corroborava sulla base di prove letterarie, non è più valida. Le prove fornite dagli storici, attentamente valutate, mostrano che, contrariamente a quel vec­ chio pregiudizio, le persone tendevano in realtà a sposarsi ad una età ragionevolmente matura, e che ciò si verificava sia nelle zone urbane sia in quelle rurali . I perché non sono del tutto chiari. Forse, come in alcune zone ancora oggi, gli interessati rinviavano fino al conseguimento dell'indipendenza economica dai loro ge­ nitori , o forse il matrimonio in età matura era un modo consa­ pevole per costringere l'ampiezza della nuova famiglia. Pochi anni potevano significare una bella differenza. Infatti, come ha osservato uno storico, « se l 'età media delle donne al primo ma­ trimonio era, poniamo, di ventiquattro anni, esse potevano dare due bambini in più che se si fossero sposate all'età media, po­ niamo, di ventinove anni ». Quali che fossero le ragioni, le cifre disponibili forniscono questo quadro . Da un'indagine sulla bor­ ghesia ginevrina, le cifre ottenute mostrano, pur nella loro li­ mitatezza, che nella seconda metà del sedicesimo secolo ( 1 550-99 ) le ragazze tendevano a sposarsi in media a ventidue anni, gli uomini a ventisette ; nella prima metà del diciassettesimo secolo ( 1 600-1 649 ) queste età erano salite quasi a venticinque anni per le ragazze e a ventinove per gli uomini. Nella vecchia Castiglia le età medie di matrimonio erano, nel sedicesimo secolo, un po' più basse : le ragazze di sposavano sui venti anni, gli uomini sui venticinque anni. Nessuna di queste cifre è però abbastanza rap­ presentativa da permetterei di generalizzare che c'era una prassi comune : per Ginevra le età medie si riferiscono ad una classe piccola e forse non tipica, per la Castiglia invece ad una solida comunità rurale. Comunque nel diciassettesimo secolo non si registrarono mu­ tamenti sostanziali rispetto ai campioni che precedono . Fra il 1 6 1 9 e il 1 660 nella diocesi di Canterbury, su un totale di oltre mille primi matrimoni celebrati, l'età media delle spose era di 23,9 anni, degli sposi di 26,8 anni. Nella parrocchia di campagna di Colyton nel Devon l'età media di uomini e donne al primo matrimonio era, fra la fine del sedicesimo secolo e l 'inizio del diciassettesimo secolo, di circa ventisette anni . Gli usi matrimo­ niali della nobiltà inglese differivano solo in questo , che le no-

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Parte I. Le strutture

bildonne tendevano a sposarsi prima. Infatti mentre l'età dei nobiluomini al primo matrimonio variava dai venticinque anni nel 1 560 a quasi ventisette anni nel 1 660, le nobildonne nel 1 560 si sposavano a poco più di venti anni e nel 1 660 a poco meno di ventidue anni . Le cifre che si hanno per Crulai, Beau­ vais e Amiens portano alle stesse conclusioni per quel che ri­ guarda la metà del diciassettesimo secolo . In questo periodo le ragazze tendevano a sposarsi fra ventiquattro e venticinque anni, gli uomini a ventisette anni e più. Se teniamo presenti le probabilità di vita del periodo, l'età matrimoniale sembra piuttosto avanzata e non precoce ; inoltre la vita matrimoniale di una coppia media doveva essere relati­ vamente breve . Per esempio a Basilea, nel decennio 1 660-70 , la lunghezza media di un matrimonio era di poco superiore ai venti anni . In conseguenza di ciò e dell'alta mortalità, l 'unità della famiglia doveva spesso essere mantenuta con un secondo o anche un terzo matrimonio . Ciò potevano permetterselo so­ prattutto le classi più alte. A Ginevra, fra il 1 550 e il 1 59 9 , su cento matrimoni , in settantaquattro gli uomini erano al primo matrimonio, in ventisei al secondo . Anche fra la nobiltà inglese c'era un alto tasso di secondi matrimoni. Fra il 1 575 e il 1 674 il 2 1 ,8 per cento di nobili di entrambi i sessi già sposati si riac­ casò . Passando ad un quadro sociale più vasto di quello rappre­ sentato dalle classi privilegiate, troviamo ancora una situazione analoga, come ad Amsterdam dove nel 1 600 ci furono 2 1 seconde nozze ogni cento matrimoni. La relativa brevità della vita matrimoniale e l'altissima mor­ talità infantile significavano che la prevalenza delle nascite sulle morti era sempre molto precaria . Bastava un disastro - una guerra o un'epidemia - a far pendere pesantemente la bilancia a favore delle morti . Ma anche senza disastri, in condizioni nor­ mali erano necessari, all'inizio del diciassettesimo secolo, due nati vivi per avere un adulto . È perciò di enorme importanza in questo periodo il tasso di fecondità. Ai fini del presente lavoro è più sem­ plice prendere le dimensioni di una famiglia media dell'Europa occidentale. Salta subito agli occhi una prima differenza con la situazione attuale. Nell'Europa del ventesimo secolo le classi e le nazioni economicamente privilegiate tendono ad avere famiglie piccole, mentre nelle zone e negli ambienti più poveri ci sono in genere famiglie numerose. Nell'Europa del sedicesimo e del

I. Le dimensioni della vita

23

diciassettesimo secolo si verificava esattamente l'opposto : i più poveri tendevano ad avere pochi bambini, mentre coloro che erano più in alto nella scala sociale tendevano ad averne di più. Un'analisi condotta sul villaggio di Villabafiez nella Vecchia Ca­ stiglia mostra che nel sedicesimo secolo le famiglie, in media, raramente avevano più di quattro bambini . Nella Francia e nel­ l'Inghilterra del diciassettesimo secolo la stessa dimensione fa­ miliare la si trovava nelle piccole città e nelle zone rurali, in Francia il numero medio di bambini per famiglia era di poco su­ periore a quattro . Un censimento della città di Norwich sul finire del sedicesimo secolo indica la cifra di 2 ,3 come il numero medio di bambini fra le famiglie delle classi più povere ( contro il 4,2 di bambini nelle famiglie dei cittadini più ricchi ) . Da indicazioni di questo tipo sulle dimensioni delle famiglie si può dedurre che l'Europa dell'epoca era ben lontana dall'avere quelle famiglie numerose, ritenute solitamente espressione di comunità pre-indu­ striali non privilegiate. Bisogna passare ad esaminare il settore privilegiato della po­ polazione, ricca borghesia e nobiltà, per trovare dei genitori che potessero permettersi una famiglia numerosa. Ma in questa di­ rezione l'aristocrazia inglese dà l'impressione di essersi piuttosto contenuta perché nel periodo 1 575- 1 674 si ebbero in essa cinque bambini in media per famiglia . Questa linea moderata fu buttata all'aria solo raramente da qualche eroe, come il primo conte Ferrers ( 1 6 5 0- 1 7 1 7 ), al quale furono attribuiti ventisette figli legittimi e trenta bastardi. Per la fiorente borghesia ginevrina, invece, le famiglie numerose più che un'eccezione erano una re­ gola. Anzi sul finire del sedicesimo secolo, delle famiglie nelle quali la moglie si era sposata prima dei venti anni non meno del quarantadue per cento aveva da nove a undici figli e l'undici per cento oltre i quindici . Per l'intero periodo 1 550-1649 il numero medio di bambini di una famiglia dipendeva dall'età della moglie al momento del matrimonio, come indicano le seguenti cifre: Età al momento del matrimonio: sotto i 20

20-24

25-29

30-39

9,67

7,37

4,85

2,29

Bambini:

Lo squilibrio fra diversi gruppi di popolazione nelle dimen­ ' sioni delle famiglie non è motivo di grosse discussioni in un'età

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Parte I. Le strutture

come la nostra, nella quale il controllo delle nascite è una prassi normale. Ma nel sedicesimo secolo l'evidente differenza fra il numero di nati vivi nelle famiglie ricche e in quelle povere fa concludere per l'esistenza di qualche forma di controllo delle nascite. Le famiglie povere non potevano permettersi di avere molti figli e dovevano perciò ricorrere a qualche mezzo di con­ trollo . Per esempio uno dei più grossi problemi sociali che s. Vin­ cenzo de ' Paoli dovette affrontare in Francia fu quello dei bam­ bini abbandonati in gran numero, che potevano rinvenirsi do­ vunque, in città o in campagna, deliberatamente esposti perché morissero o abbandonati perché non c 'era per loro da mangiare. Rispetto a questa prassi è più difficile individuare delle vere �> proprie pratiche anti-concezionali . Probabilmente non erano molto diffuse e contro di esse si faceva sentire tutto il peso del divieto formulato dalla Chiesa, ma alcuni dati fanno ritenere che in certe situazioni - per esempio durante una carestia - una drastica caduta del tasso di natalità possa attribuirsi non solo ad una mortalità fuori del comune ma anche a qualche pratica di limitazione volontaria. Anche in periodi normali però non c'è dubbio che, come ha mostrato uno studio condotto sulla parroc­ chia di Colyton all'inizio del diciassettesimo secolo, fosse prati­ cata la limitazione delle nascite, anche se i mezzi utilizzati non sono noti . I casi meglio documentati di controllo delle nascite non si riferiscono tanto alla popolazione rurale quanto a quella urbana, al ceto medio e soprattutto agli ambienti di corte . Le prostitute dovevano ovviamente essere esperte di pratiche anti-concezionali, ma anche altre donne dovevano esserlo . Uno scrittore francese, Henri Estienne, in un lavoro del 1 566 parla di donne che utilizzavano « preservativi che evitano loro di ingravidare »; e un altro scrittore francese della stessa epoca, Pierre de Bourdeille, cita il caso di una serva che, rimproverata dal suo padrone per essere diventata gravida, affermò che ciò non sa­ rebbe successo « se io fossi stata istruita cosl bene come la mag­ gior parte delle mie amiche ». Secondo un manuale per confes­ sioni pubblicato a Parigi nel 16 7 1 , ai sacerdoti era detto di in­ dagare nel confessionale se il fedele avesse « impiegato mezzi per prevenire il concepimento », e se le « donne dopo essere diven­ tate gravide avessero preso qualche bevanda o qualche altro intruglio per evitare il concepimento ». Si possono fare altre ci-

I. Le dimensioni della vita

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tazioni dello stesso tipo, come le ben note apprensioni di Ma­ dame de Sévigné per le troppe gravidanze di sua figlia . Cenni come questi ci rendono sicuri che pratiche anti-concezionali erano attuate da uomini e donne all'inizio dell'età moderna . Tuttavia la novità più interessante è lo sviluppo di un pregiudizio fra le classi alte contro i troppi figli, tanto più che esso sembra pren­ dere piede contemporaneamente ad una diminuzione del ritmo di crescita della popolazione verso la metà del diciassettesimo secolo. In Inghilterra questo atteggiamento portò alla pubblica­ zione nel 1 695 di un libro chiamato Populaidias, ovvero Discorso

sull'avere molti figli nel quale si rimuovono i pregiudizi contro la prole numerosa, e si risponde alle obiezioni. L'autore con­ danna coloro che « oggi sono molto più prudenti o peggio delle precedenti generazioni ; che hanno paura di quel che hanno tanto desiderato ; che considerano la fecondità delle mogli meno van­ taggiosa della loro sterilità ; e che avrebbero preferito che le loro famiglie fossero vuote piuttosto che grandi ». Prassi di limitazione delle nascite, sia per pressioni di ordine morale (paura delle na­ scite illegittime ) sia per la povertà, erano state abbastanza dif­ fuse ; ma la tendenza alla limitazione delle nascite presso am­ bienti nei quali la povertà e la fame erano sconosciute era un fatto nuovo, un passo verso norme e valori moderni .

Tendenze dello sviluppo demografico. Quali furono le tendenze dello sviluppo demografico fra il 1 550 e il 1 660? L 'espansione che si verificò in Europa dopo il Rinascimento si espresse anche a livello demografico ? A queste domande è possibile rispondere solo in termini generali, perché la mancanza di cifre precise rende difficile una risposta più det­ tagliata. Gli uomini di governo dell'epoca erano in genere co­ scienti dell'importanza di avere cifre precise sulla popolazione, soprattutto per esigenze fiscali e militari, ma si curarono poco di raccogliere metodicamente i dati e si accontentarono di risposte imprecise o contraddittorie ai censimenti fiscali e alle imposi­ zioni di leva. Prima della Riforma le nascite, i matrimoni, le morti erano registrati in maniera disorganica in alcuni paesi. Ma anche dopo che le registrazioni divennero obbligatorie - in Inghilterra dopo il 1653 ( anche se la registrazione dei battesimi

Fig. 2

La densità di popolazione nell'Europa del Seicento.

I. Le dimensioni della vita

27

era stata imposta fin dal 1 5 3 8 ), nei paesi cattolici dopo il Con­ cilio di Trento - era raro trovare un parroco abbastanza co­ scienzioso da tenere aggiornati e in ordine i registri . Ciò che si chiedeva al solo clero cattolico era piuttosto scoraggiante: che ogni sacerdote tenesse aggiornati ben cinque registri. Sia gli uffi­ ciali governativi che i sacerdoti non erano in grado di far fronte alle richieste dei loro superiori, per cui le cifre sulla popolazione non potevano che rimanere imprecise . Per una visione globale del problema può essere utile pren­ dere prima in esame la popolazione di alcune città e di alcune zone geografiche, dopo di che dovrebbe essere possibile disegnare i contorni della tendenza generale presente in Europa. Al 1 660 l'Europa era ancora una società di tipo prevalentemente rurale, pre-industriale. La campagna dominava la scena : i suoi spazi aperti, punteggiati qua e là da insediamenti davano al viaggiatore un sentimento di immensa solitudine. In questo periodo si eb­ bero mutamenti di scarso rilievo nella densità globale della po­ polazione. A un estremo dell 'Europa, in Russia e in Ucraina, la densità della popolazione era di cinque abitanti per chilometro quadrato . Fra le zone con maggiore densità di popolazione la più vasta era quella dell'Italia settentrionale, dove alla fine del sedicesimo secolo c'erano quarantaquattro abitanti per chilometro quadrato, ma in realtà la zona più densamente popolata era quella olandese con cinquanta abitanti circa. Nella fig . 2 si dà un quadro generale della distribuzione della densità di popo­ lazione in Europa. Un calcolo approssimativo per i vari paesi europei indica che alla fine del sedicesimo secolo la Francia aveva una densità di trentaquattro abitanti per chilometro qua­ drato, la Germania centrale di diciotto-ventitré abitanti e la Castiglia di 1 8 ,2 abitanti . Come mostra la cartina geografica, la maggior parte della popolazione viveva ad occidente ; andando verso est le città a poco a poco scomparivano e si aprivano ampi spazi liberi. Comunque, malgrado la prevalenza di campagna, le città crescevano continuamente, soprattutto in rapporto alle esigenze delle imprese commerciali . Il più rilevante esempio di ciò è costituito da Anversa, che aveva raggiunto nel 1 568 un livello di circa centomila abitanti, cioè era cresciuta di quasi il cin­ quanta per cento nel giro di una generazione. In genere le grandi città dell'epoca dovevano la loro crescita principalmente, anche

Parte I. Le strutture

28 Migliaia 400

Londra Anversa Amsterdam---· Madrid Siviglia Venezia Napoli Milano Augusta

350

300

250

200

150

IOO

50-

1500

Fig. 3

1550

1600

1650

1700

Aumento della popolazione in alcune città europee.

se non esclusivamente, al commercio . Siviglia raggiunse i cento­ cinquantamila abitanti nel 1 5 8 8 , Amsterdam i centomila all'inizio del diciassettesimo secolo . Nella fig. 3 si indica la crescita di alcune delle principali città europee. Le città qui segnate non sono state scelte solo per le loro dimensioni . Le città più grandi che intorno al 1 600 avevano

I. Le dimensioni della vita

29

oltre centomila abitanti erano le seguenti : Amsterdam, Anversa, Lisbona, Londra, Messina, Milano, Palermo, Roma, Siviglia, Venezia ; oltre 200 .000 : Napoli, Parigi. La crescita dei centri urbani non è ovviamente un indice infallibile delle tendenze demografiche generali, poiché i fattori che regolavano la vita di una città erano significativamente di­ versi da quelli propri delle zone rurali . Dobbiamo dunque pren­ dere in esame alcune aree regionali per vedere se ne emerge un chiaro modello . Tutte le testimonianze a nostra disposizione indicano che sul finire del sedicesimo secolo ci fu un deciso aumento di popolazione, il che viene confermato da dati per le zone rurali, dai quali sono stati deliberatamente esclusi quelli riguardanti la crescita delle città. Dall'esame dei registri di bat­ tesimo del villaggio di La Chapelle-des-Fougerets ( Ille-et-Vilaine ) in Francia emerge un aumento della popolazione del cinquanta per cento per il periodo compreso fra il 1 520 e il 1 6 1 0 , e la stessa tendenza viene confermata dai registri di battesimo della Bretagna. Anche da uno studio sulla zona rurale intorno a Valladolid nella Vecchia Castiglia questa tendenza esce confer­ mata. Fra il 1 530 e il 1 59 3 le famiglie del villaggio di Tudela de Duero passarono da trecentoventitré a cinquecentottantasette, con un aumento dell'8 1 ,7 per cento, mentre fra il 1 5 3 0 e il 1 5 9 1 i l villaggio d i Cigales vide crescere l a sua popolazione del cin­ quantatré per cento. Per l'Italia il quadro è lo stesso. Nel Regno di Napoli ( capitale esclusa) fra il 1 545 e il 1 595 la popolazione aumentò del ventisei per cento da 422.080 persone a 540.090 circa . In Svizzera si calcola che il territorio di Zurigo ( città esclusa ) fra il 1 529 e il 1 585 vide aumentare la sua popolazione del quarantacinque per cento . Spostandosi ancora più a nord, in Norvegia, abbiamo che la popolazione passò dalle 246.000 unità del 1 520 alle 359 .000 del 1590, con un aumento del quarantasei per cento in settanta anni. L'aumento di popolazione sia in campagna che nelle città sembra essere stato forte soprattutto nei primi anni del sedice­ simo secolo, ed essere diminuito dopo l 'inizio del diciassettesimo secolo. Finché durò ebbe conseguenze importanti perché dette il necessario slancio ai mutamenti economici e politici . Le cause di questo aumento di popolazione non sono ancora ben chiare, ma gli effetti sono ben noti . L'improvvisa presa di coscienza, più o meno giustificata, di una situazione di sovraffollamento ,

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Parte I. Le strutture

i movimenti continui di popolazioni migranti, la colonizzazione dei territori d'oltremare, sono tutti fenomeni connessi in qualche modo con l 'espansione demografica. Altrettanto lo sono l'au­ mento dei prezzi che si verificò in Europa a causa dell'accresciuta domanda, la pressione per l'utilizzazione della terra, e la crisi della prassi di sfruttamento del lavoro con la correlata stabiliz­ zazione dei salari . Con una certa sicurezza si può affermare che un periodo come questo, che vide un forte aumento demografico, fu un periodo di adattamento e mutamento insieme, e in maniera più rilevante fu un periodo di espansione in ogni ramo delle attività umane. La tendenza all'aumento della popolazione fu rovesciata all'inizio del diciassettesimo secolo . In Castiglia la svolta si veri­ ficò un po' più presto, e cioè poco prima del 1 60 0. Qui, come accadde in altre regioni, soprattutto in Italia, il movimento di­ scendente della popolazione fu aggravato da forti epidemie. An­ che se l'intera Europa rimase vittima dei drammi prodotti dal­ l'accresciuta mortalità, pure sembra che l'area mediterranea ne soffrì di più . Dai primi anni del diciassettesimo secolo in poi possiamo registrare un generale riflusso di sviluppo demografico nelle zone meridionali . La fig. 4 esemplifica a questo riguardo la tendenza demografica generale all'opera in Italia. Anche se le epidemie ebbero un ruolo importante nel deter­ minare questa contrazione, una spiegazione per essere soddisfa­ cente deve tener conto di altri fattori che saranno successi­ vamente esaminati. Diversamente dall'area mediterranea, nel­ l'Europa settentrionale e nord-occidentale ci furono solo deboli diminuzioni , e anzi in alcune regioni si ebbero addirittura degli aumenti di popolazione. La crisi demografica ebbe perciò due importanti aspetti : una generale diminuzione di popolazione dopo l'inizio del diciassettesimo secolo ed un pronunciato con· trasto fra il nord e il sud dell'Europa . In termini politici questo secondo aspetto può essere espresso nei termini del passaggio della leadership europea dalle potenze cattoliche del Mediter­ raneo agli Stati protestanti del nord. Per fare l'esempio di un altro paese settentrionale, la popolazione dell'Inghilterra e del Galles nel corso del diciassettesimo secolo aumentò abbastanza costantemente, e senza subire arresti decisivi. Il periodo di cre­ scita maggiore pare debba collocarsi nei primi tre decenni del '600 . Facendo i calcoli su un periodo più lungo, l'aumento de-

I. Le dimensioni della vita

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5500

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Fig. 4

1600

Movimenti della popolazione in Italia.

1 6 50

Parte I. Le strutture

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mografico fra '500 e '600 è stato valutato del quaranta per cento e fra '600 e '700 del venticinque per cento. Analogamente per le Province Unite, e particolarmente per l'Olanda, il periodo 1 550-1 650 fu di significativa espansione. Ciò fu in parte dovuto all'immigrazione dai Paesi Bassi spagnoli e da altre zone, ma ci fu anche un aumento naturale della popolazione, soprattutto nelle città . Questa inarrestata crescita demografica delle due maggiori potenze marittime doveva avere un potente effetto sulla storia europea. I territori olandesi furono considerati come un modello di industriosità e di popolosità : « brulicano di persone come gli alveari di api », scrisse un polemista inglese nel 1 6 7 7 . Diversamente dalle due potenze marittime, nella maggior parte d'Europa la tendenza all'incremento demografico delinea­ tasi nel sedicesimo secolo fu rovesciata all'inizio del diciassette­ simo secolo, causa non solo le epidemie ma anche le guerre. Alla metà del diciassettesimo secolo il moltiplicarsi delle crisi di sussistenza, delle guerre e delle epidemie aveva consolidato la tendenza al decremento della popolazione. Questa diminuzione certo non fu una delle caratteristiche meno importanti della crisi generale del Seicento . Lamentele per Io spopolamento della Spagna ricorrevano continuamente nei memorandum inviati al re, ma alla metà del secolo non era solo la Spagna a trovarsi in brutte condizioni . Sulla Francia aveva infierito la guerra dei Trent'anni e la Fronda, sulla Polonia e sulla Moscovia occiden­ tale gli svedesi e le rivolte degli ucraini, mentre la Svezia aveva gettato le sue risorse umane sui campi di battaglia tedeschi e Io stesso Impero doveva diventare sinonimo di tutto ciò che un paese può soffrire, salvo l'annientamento totale.

Ostacoli allo sviluppo demografico. L'unica grande realtà della vita era la morte, accettata senza difficoltà perché sempre inevitabile, onnipresente non solo nelle vicende ordinarie della vita, ma anche nell'ambiente del tempo: nell'insegnamento e nella raffigurazione della religione; nell'arte, nella poesia e nei drammi; negli spettacoli popolari e nelle cele­ brazioni pubbliche . La mano della morte sembrava del tutto ine­ vitabile poiché non poteva essere controllata. Dei tre flagelli della litania a peste, fame et bello, libera nos Domine i -

-

I. Le dimensioni della vita

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primi due potevano considerarsi solo dei cataclismi naturali anche se c'erano già delle proposte perché l'iniziativa pubblica rimediasse alle loro conseguenze peggiori. Il tasso di mortalità infantile e la breve durata della vita fanno pensare che nella maggior parte delle case si doveva essere abituati alle conse­ guenze della morte per cause inaspettate. La mortalità era pre­ sente con spietata regolarità tanto che anche nei periodi di incre­ mento demografico o di pace civile si dovevano sempre regi­ strare gravi perdite di vite umane.

Epidemie. Causa furono le estensione in cui si toccate :

prima e probabilmente più grave di morte prematura epidemie. Poiché raramente esse ebbero un raggio di continentale può essere di ausilio elencare i periodi verificarono e le zone più importanti che ne furono

1 563-64 1 575-78 1 580 1 595-99 1 625 1 630 1 635-36 1 655-56 1 664-65

Londra, Barcellona, Amburgo, Boemia Italia settentrionale, Londra, Brema, Belgio Parigi, Marsiglia, Inghilterra Spagna, Inghilterra, Germania Inghilterra, Germania, Palermo Italia settentrionale, Baviera, Sassonia, Danzica, Montpellier Olanda, Inghilterra, Germania Olanda, Napoli, Roma, Genova Londra, Amsterdam.

È impossibile imporre un modello esplicativo alla apparizione delle epidemie perché si presentarono a intervalli frequenti ma molto irregolari, e anche nell'elenco precedente le uniche che abbiano sistematicamente devastato un'ampia zona geografica fu­ rono quelle del 1 63 0 nell'Italia settentrionale e del 1 635-36 in Germania . I grandi centri urbani furono ovviamente i luoghi dove furono più presenti e i dati che si hanno per alcune città stanno ad indicare che in esse le epidemie erano più che una eccezione una regola di vita . Prendendo a caso qualche città, a Brema ci furono delle forti epidemie nel 1 565, 1 566, 1 568,

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Parte I. Le strutture

1 575-77 , 1 5 8 1 -86, 1 597-9 8 , 1 6 1 0- 1 2 , 1 626, 1 6 3 3 e 1 653-57 ; a Danzica ci furono nel 1 564, 1 6 0 1 -02, 1 620, 1 624, 1 630, 16 39-40, 1653, 1 657 e 1 66 1 ; a Siviglia nel 1 57 1 , 1 58 2, 1 5951599, 1 6 1 6 e 1 648-49 ; ad Amiens nel 1 582-84, 1 596-98, 1 6 1 9 , 1 627 e 1 63 1-3 8 ; mentre Londra ebbe i maggiori scoppi di epi­ demie nel 1 563-64, 1 577-8 3 , 1 592-9 3 , 1 603 , 1625, 1 63 6-37 e 1 665. Da queste date non si possono ricavare costanti sicure. Le città sono di diverse aree geografiche, ma anche all'interno dei confini nazionali raramente emerge un sicuro modello espiicativo . Perché morire in questa maniera era una caratteristica cosi comune della vita di allora ? Certo è che non tutti gli scoppi di epidemia possono essere attribuiti alla « peste », anche se i contemporanei erano soliti servirsi di quella parola per indicare un'epidemia particolarmente violenta. Imputabili sono anche l'influenza, il tifo, le febbri tifoidee e il vaiolo . Nel 1 558, per esempio, un memorialista inglese notò che « all'inizio di que­ st'anno morirono molti fra gli uomini più ricchi di tutta l 'In­ ghilterra a causa di una strana febbre ». Da tempo gli storici tendono a identificare « febbri » come questa con l'una o con l'altra delle malattie indicate, soprattutto con l 'influenza . Ope­ rando delle distinzioni fra i diversi tipi di malattia diventa più facile individuare le ragioni dell'alto tasso di mortalità e la fig. 5, nella quale è illustrato l'andamento dei tre principali tipi di malattia prevalenti a Londra dal 1 629 al 1 666, rende più facile questa spiegazione . Il diagramma mostra che la peste colpi raramente, ma che i suoi colpi furono di una ferocia inusitata . Per questo fu ricor­ data con timore, ma in termini numerici essa fu un nemico meno persistente, che pretese pedaggi inferiori a quelli imposti dalle comuni malattie di ogni giorno. Nei casi di epidemie, per i quali manca la documentazione, è spesso difficile stabilire se si trattava di peste o di altre malattie. In genere si può affer­ mare che le epidemie con il più alto tasso di mortalità furono quelle dovute alla peste e che le città ne erano tendenzialmente più colpite, come mostrano le tre grandi ondate di peste che si abbatterono su Londra. Nel 1 603 le vittime della peste rappre­ sentarono il settantasette per cento di tutte le morti, nel 1 6 2 5 i l sessantacinque per cento, mentre nel 1 665 l a cifra del totale

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Parte I. Le strutture

delle morti superò di ben otto volte quella di un anno normale ed il settanta per cento di essa fu dovuto alla peste. Non è sempre facile calcolare le perdite di popolazione do­ vute a questa causa, ma in termini prudenziali le si può fissare ad un ottavo del totale . Le tre pesti che colpirono Londra fecero registrare perdite di questa ampiezza . Per le epidemie che ci furono ad Amsterdam nel 1 624, 1 636, 1 655, 1 664 si calcola che le perdite di popolazione furono rispettivamente di un nono, un settimo, un ottavo e un sesto . Quanto all'impatto su una piccola comunità, possiamo riferirei alla città di Uelzen nella Bassa Sassonia. Qui la peste del 1 566 portò via il ventitré per cento di una popolazione di 1 . 1 8 0 anime, quella del 1 597 il trentatré per cento di una popolazione di 1 .540 anime. All'alto tasso di mortalità per peste fa contrasto nella stessa città nel 1 599 la proporzione più bassa, il quattordici per cento circa, di perdite per dissenteria. Nelle grandi città, a causa dell'affolla­ mento e delle condizioni igieniche largamente insufficienti, il tasso di mortalità poteva essere molto più alto . In Spagna nel 1 599 Santander fu praticamente cancellata dalla carta geografica, avendo perso duemilacinquecento dei suoi tremila abitanti . Gli esempi di alcune città italiane sono particolarmente impressio­ nanti . Dal luglio del 1575 al luglio del 1576 Venezia perse 46.72 1 abitanti su circa 1 7 0 .000, pari al ventisette per cento ; nel 1 630 Mantova perse quasi il settanta per cento di una po­ polazione di 30 .000 abitanti , Napoli e Genova persero quasi metà della loro popolazione durante la peste del 1 656 . Ciò che di orrendo aveva la peste consisteva nel fatto che non esistevano difese contro di essa. Nella misura in cui si era stabilito che essa si trasmetteva per il tramite di agenti umani, la difesa più sicura era l 'isolamento . In Inghilterra, durante la peste del 15 6 3 , la regina Elisabetta ordinò che fossero sospesi i collegamenti fra Windsor e Londra e, come ci informa lo Stow, un umanista, « fu eretta sulla piazza del mercato di Windsor una forca per impiccare chiunque fosse entrato in città venendo da Londra » . L'isolamento non dava però alcuna protezione contro i topi infettati dalle pulci, principale veicolo delle epi­ demie. La velocità di sviluppo di un'epidemia, grazie a questo veicolo, è mostrata nella fig. 6 che illustra il progredire del­ l 'ondata del 1 563-66 dalle sue origini mediorientali e dalla sua prima apparizione in Europa, nella Boemia.

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Parte I. Le strutture

La sua ultima appanzwne si ebbe all'inizio del diciottesimo secolo . In Inghilterra l'ultima epidemia di peste fu quella di Londra del 1 665 . Sulla fine del decennio 1 670-80 se ne ebbe un'altra in Spagna e nei primi anni del secolo successivo la regione baltica e la Provenza ne furono ancora duramente col­ pi te. Con l'epidemia di Messina del 1 7 4 3 finì il regno della peste in Europa . L e conseguenze sociali della peste non sono state ancora ben studiate, ma non c'è dubbio che essa operò delle discriminazioni fra le sue vittime . Essendo una malattia che prosperava nella sporcizia, colpiva anzitutto le classi più povere della città. Un esame dell'incidenza della peste sulla città di Amiens ha mo­ strato che i settori più benestanti ne erano invariabilmente risparmiati, mentre i quartieri più poveri ne erano colpiti di più. Altrettanto si verificava a Londra, dove i registri di mortalità mostrano che le epidemie nascevano nei quartieri più poveri. Quando nel 1 628 un'epidemia colpì Lione, un contemporaneo si consolò riflettendo che « solo sette o otto persone importanti sono morte, e altre cinque o seicento di condizione inferiore » . Questo tipo d i commento è abbastanza diffuso. U n borghese di Tolosa annotò nel suo diario nel 1 56 1 : « Il contagio colpisce sempre solo la povera gente [ . . . ] . Dio nella sua grazia avrà deciso così . I ricchi si proteggono contro di essa » . La bassa mortalità fra le classi più alte può essere spiegata in una certa misura col fatto che erano proprio loro, i guardiani dello Stato, i primi a cercare scampo nella fuga . Quando nell'autunno del 1598 la peste colpì Bilbao, « solo quelli che erano completa­ mente poveri rimasero » in città, secondo quel che viene rife­ rito. I borghesi si spostarono in altre città, i nobili andarono nelle loro campagne . Qualche ricco che rimase lo fece nella convinzione che la peste era discriminatoria e che essi ne erano ampiamente immuni . Scrivendo da Valladolid nel luglio 1 599, in una settimana che aveva visto quasi un migliaio di persone morire di peste, il banchiere Fabio Nelli osservava che, poiché erano morti solo nove funzionari della municipalità, « io non intendo partire da qui [ . . . ] quasi nessuna importante persona è morta » . Anche le cifre disponibili per Venezia per i periodi anteriore e successivo all'epidemia del 1 630 dimostrano che era la gente comune a morire di più ; infatti la loro proporzione in rapporto al totale della popolazione cadde dall'88,7 all'85,4 per

I. Le dimensioni della vita

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cento, mentre la proporzione dei nobili e dei borghesi salì dal1 ' 1 1 ,3 al 1 4,6 per cento . Conseguenza di questa situazione fu un aggravamento delle tensioni sociali e dell'odio di classe. Da quel che i loro occhj vedevano le classi superiori conclusero che la peste era stata causata e diffusa dai poveri . Al loro disprezzo verso i ceti più bassi faceva riscontro dall'altro lato un accanito rancore perché a coloro ai quali non erano mai mancati benefici materiali era anche risparmiata la vendetta ed il castigo. In queste circostanze, i tempi delle epidemie erano anche poten­ zialmente tempi di violenze di classe . Povertà e alimentazione insufficiente erano i due principali tratti caratterizzanti delle vittime di ogni epidemia, e anche oer la peste le cose andavano alla stessa maniera, come mostrano le cronache della disastrosa epidemia del 1 599 in Spagna. Degli ottanta morti per peste che ci furono a Burgos il 22 aprile, « solo sette erano fra quelli che avevano da mangiare a suffi­ cienza ». Nella città di Santo Tomé del Puerto solo cinque dei duecentocinque morti del 26 aprile avevano di che nutrirsi ade­ guatamente. Dei trecento morti che ci furono ad Aranda 1!e Duero 1' 1 1 maggio, solo due erano benestanti . II 26 aprile a Sepulveda « tutti coloro che sono morti in questa città e in questa regione erano molto poveri e mancavano di ogni sosten­ tamento » . La connessione fra povertà ed epidemia poteva dif­ ficilmente sfuggire all'attenzione delle pubbliche autorità, che fecero qualche tentativo per migliorare le condizioni dei centri abitati , ma è dubbio se qualcuna delle misure prese dalle muni­ cipalità riusd veramente efficace. Se la peste si allontanò dal­ l'Europa ciò fu dovuto a cause puramente naturali connesse con il ciclo biologico dei topi. II fatto che il tifo, il vaiolo e altre malattie continuassero a manifestarsi con forza mostra quanto ancora ci fosse da fare nella battaglia per la difesa della vita umana. C'è un ultimo importante aspetto delle crisi sociali causate dalle epidemie che va sottolineato . In assenza delle pubbliche autorità, che abbandonavano i loro uffici non appena scoppiava un'epidemia, i cittadini ricorrevano a forme di controllo popo­ lare diretto . A Bilbao nel 1 598 e nel 1 599 tutte le decisioni più importanti furono decretate da un'assemblea generale dei citta­ dini che si riunivano nella chiesa di San Giovanni . In diverse altre città fu allargata la partecipazione dei cittadini al governo

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Parte I. Le strutture

per consentire che le misure di controllo prese fossero più effi­ caci. Situazioni di emergenza portarono all'adozione di misure di emergenza, fino a concessioni alla democrazia, che spesso erano inevitabili : a Santander nel gennaio 1597 ci fu una som­ mossa popolare quando il sindaco abbandonò la città per la peste e in seguito per tutte le decisioni importanti fu convocata una assemblea di cittadini .

Carestie. Essenziali per la vita umana erano dunque regolari e ade­ guate forniture di prodotti alimentari, ma come provvedervi se la natura stessa si mostrava ostile? « Quest'anno », scrisse nel 1 606 un corrispondente spagnolo da Napoli, « Dio ha voluto visitare questo reame e la Sicilia e altre parti d'Italia con un disastroso raccolto ; di quello di Napoli si dice che sia il peg­ giore degli ultimi quaranta anni ». C'era in questa relazione una tipica esagerazione, perché c 'era stata una carestia anche più dura solo dieci anni prima; ma inevitabilmente ogni crisi sem­ brava peggiore di quelle precedenti e gli intervalli fra gli anni di carestia erano abbastanza regolari perché si producesse un effetto negativo cumulativo . Comunque l'incidenza di queste crisi alimentari va vista in una prospettiva più larga. Le carestie, nel senso di grandi disastri naturali, erano poco frequenti : ma più significativa era la costante minaccia di morire di fame se giorno dopo giorno non si riusciva ad avere cibo a sufficienza. Sulla disponibilità di risorse alimentari incidevano diversi fattori : innanzitutto il tempo, poi le variazioni della domanda in rapporto all'accrescersi della popolazione, il tipo di sfrutta­ mento delle terre e infine la sicurezza dei trasporti e lo scoppio di guerre. Ognuno di questi fattori o tutti insieme potevan.:> avere conseguenze disastrose sui prezzi delle derrate. La situa­ zione di Roma durante il sedicesimo secolo può servire a illu­ strare la loro incidenza. Minacciata dai banditi per lunghi pe­ riodi, con le vie di comunicazione ripetutamente tagliate, la città non sempre vide arrivare entro le sue mura i convogli di grano. Eliminati i banditi, fu l'utilizzazione delle terre a inci­ dere sui rifornimenti di grano, perché vaste estensioni coltivate precedentemente a grano erano state nel giro di alcuni anni

I. Le dzmensioni della vita

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destinate a pascolo . Dalla città di Napoli, invece, si ha l'esempio delle conseguenze derivanti dalla rapida crescita della popola­ zione di una città sulla quantità di derrate necessarie per il consumo cittadino . Fra il 1 560 e il 1 600 ci furono sei annate di carestia : 1 560, 1 565, 1570, 1 584, 1 585 e 1 59 1 . Tali crisi nelle disponibilità alimentari non necessariamente furono causate dalla scarsezza dei raccolti. Nondimeno esse portarono alla care­ stia, perché non si era preso alcun provvedimento per nutrire l'enorme popolazione. La possibilità di morire di fame dipendeva da un gran nu­ mero di fattori interdipendenti, non soltanto dal tempo . In un periodo in cui le comunicazioni erano insufficienti, con barriere doganali che separavano una provincia dall'altra all'interno dello stesso paese, era possibile che di due aree confinanti in una si morisse di fame e in un'altra ci fosse da mangiare ad un livello accettabile. E ciò è dimostrato dalle eccezionali variazioni dei prezzi fra differenti regioni di uno stesso paese. La ricerca del profitto e l'incapacità amministrativa testimoniano entrambe che carestie costruite da uomini non sono un'invenzione del capita­ lismo moderno . In ultima analisi però era la mano di Dio che decideva . La mancanza di raccolti non poteva che aggravare una situazione già difficile di cui erano responsabili amministratori incompetenti e speculatori sul grano . Nei cento anni qui considerati due grandi carestie - quelle del 1 594-97 e del 1 659-62 ebbero conseguenze particolar­ mente disastrose sull'Europa . Gli anni 1 594-97 furono in buona parte dell'Europa anni di piogge eccessive e di cattivi raccolti e ne risultò un incredibile aumento del prezzo di quel poco di grano che si riusciva a raccogliere. In Spagna, in Italia e in Germania in particolare il disastro coincise con un notevole aumento di mortalità dovuto al diffondersi di epidemie di peste. Malcontento e agitazioni causarono grandi rivolte contadine e insurrezioni nelle città in zone così distanti come Francia, Austria, Finlandia e Lituania . In Inghilterra ci furono tentativi non riusciti di sollevazioni armate che spinsero il governo inglese a redigere nel 1597 una nuova Poor Law per affrontare il dif­ fondersi della povertà e della miseria. In quegli anni morire diventò la cosa più normale . Le autorità di Bristol dettero ese­ cuzione a misure di soccorso con le quali, annunciarono con soddisfazione, « i poveri della nostra città furono tutti aiutati -

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Parte I. Le strutture

evitando che morissero di fame o che si sollevassero » . A New­ castle le cose non andarono altrettanto felicemente. Sui registri cittadini si legge : « ottobre 1597. Pagati 6 s. e 8 d. per seppel­ lire otto poveri morti di inedia per strada » . Nelle regioni set­ tentrionali dell'Inghilterra, nel 1597, la carestia fu molto acuta; sul continente la situazione era all'incirca la stessa. Un contem­ poraneo registrò sul suo diario che nel 1 597 ad Aix-en-Provence mentre « il clero della chiesa dello Spirito Santo stava distri­ buendo pane per soccorrere gli altri milleduecento poveri pre­ senti, ne morirono sei o sette e fra essi delle ragazzine ed una donna » . La depressione del 1 659-62 fu anche la più significativa a livello politico, perché creò delle situazioni di crisi che in molti paesi facilitarono il passaggio all'assolutismo monarchico . A Londra, tumulti e malcontento popolare contribuirono a ren­ dere più accettabile alle classi dominanti il ritorno al potere della monarchia Stuart . La carestia del 1 6 6 1 aiutò il giovane Luigi XIV a presentarsi al suo popolo come benefico governante . Colbert ci riferisce che il nuovo re « non solo fece distribuire grano a singoli e a comunità a Parigi e nei dintorni, ma ordinò anche che fossero messe in circolazione ogni giorno trenta e quarantamila libbre di pane » . L'indigenza del popolo era asso­ luta . In campagna, secondo un testimone oculare, quel che era « pastura dei lupi è diventato il cibo dei cristiani, perché quando essi trovano cavalli, asini e altri animali morti si nutrono di carni putrescenti » . « Nei trentadue anni durante i quali ho eser­ citato la professione medica in questa provincia » , annotò un medico di Blois, « non ho visto nulla che si approssimasse alla desolazione che c'è nelle campagne. Sì, la carestia è così grave che i contadini senza pane si gettano sulle carogne. Non appena un cavallo o un altro animale muore, lo mangiano » . L a realtà della carestia è innegabile, ma la sua distribuzione è più controversa . Ci furono certamente alcune zone che furono risparmiate dai suoi orrori . In Spagna, in Italia e in altri paesi le città avevano granai municipali da cui attingere nei casi di necessità ; in Germania, in Olanda e in Inghilterra le città furono abbastanza scrupolose nell'adottare provvedimenti a favore dei poveri . Ma la stessa prassi dell'immagazzinamento del grano testimoniava di una situazione in cui la sicurezza di rifornimenti

I. Le dimensioni della vita

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era diventata una ossessione a causa della costante minaccia di una crisi alimentare. Ma non tutti rischiavano di morire di fame. « Nulla di nuovo qui » era scritto in un dispaccio da Roma nel febbraio 1 558, « tranne il fatto che ci sono delle persone che muoiono di fame » . Dopo d i che si passava a descrivere u n grande banchetto offerto dal papa nel corso del quale tutti erano rimasti a bocca aperta per delle « statue fatte di zucchero con delle vere torce ». Il contrasto di situazioni era abbagliante e deliberato . Se qualche volta i ricchi potevano essere toccati dalla peste, quasi mai lo erano dalla fame. È raro trovare relazioni come quella di Ginevra del 1628, nella quale si dice che « diverse importanti persone che si rifiutano di supplicare soffrono molto per mancanza di pane » . A Digione durante la grande carestia del 1 694 si ebbero novantanove morti nella ricca parrocchia di Notre-Dame, e invece duecentosessantasei nella povera parrocchia di s. Filiberto. La ca­ restia non si accompagnava ai ricchi . Da un dispaccio dei Fugger apprendiamo che nel 1 58 7 , anno di carestia di grano in quasi tutta l'Europa, uno dei maggiori nobili di Praga, Guglielmo di Rozmberk dette un banchetto di matrimonio nel corso del quale furono divorati trentasei cervi, dodici tonnellate di selvag­ gina, trentasei cinghiali, milleduecentonovanta lepri, duecentoset­ tantadue fagiani, settantacinque bovini, settecentosessantaquattro ovini, duecentoventuno agnelli, trentadue grossi maiali, cento­ sessanta giovani scrofe e molte altre cose. Fra le classi inferiori, la mortalità era sempre più alta fra H proletariato rurale che nelle città, perché mentre qui si poteva chiedere assistenza, i contadini dovevano trovare il loro sosten­ tamento nel loro inospitale ambiente naturale . Quando il suolo non dava loro più grano cercavano di sfamarsi con carcasse, radici, cortecce, paglia e insetti, come certamente fecero in Francia in questo periodo. Di quel che accadde nella Franca Contea durante la carestia del 1637 un contemporaneo scrisse : « i posteri non lo crederanno, le persone per vivere si servivano delle piante dei giardini e dei campi ; scovavano anche le car­ casse di animali morti . Le strade erano lastricate di persone [ . ] . Infine si arrivò al cannibalismo » . Ci vuole molto coraggio per respingere tutti i racconti dei contemporanei su questo ultimo e più orrendo fenomeno. . .

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Parte I. Le strutture

È difficile però indicare il numero delle morti attribuibili soltanto a carestia e ciò può far dubitare del fatto che la fame fosse cosl stretta compagna dei nostri antenati . È vero che i registri parlano per lo più di malattia, di febbre o di altre cause, pure rimane possibile che morti premature e predisposizione alle malattie fossero provocati dal basso livello alimentare che aveva gravi conseguenze durante le carestie. Può essere esatto dire che la morte per fame era rara in condizioni normali, ma non è facile definire quali fossero « le condizioni normali » in una società che passava cosl frequentemente da una crisi all'altra. La gente comune non si faceva illusione sulla sua predisposi­ zione alla fame e la frequenza di moti per il pane nelle città testimonia del loro rifiuto di accettare questo destino con rasse­ gnazione. Nel 1 628 uno dei pastori di Ginevra spiegò ai suoi fedeli che la crisi alimentare ( che sarebbe durata fino al 1 63 1 ) era causata dai loro peccati, il che fece infuriare l'uditorio . Le persone che avevano patito a lungo per lo scarso cibo, si sentirono offese e lasciarono la chiesa molto scontente dicendo che avevano più bisogno di consolazione che di accuse [ . ] ; che erano ben consce del vero stato di cose e che il pastore non aveva idea della miseria dei tanti che trascorrevano giornate e settimane intere nelle loro case senza avere qualche pezzo di pane ; e che dovevano digiunare mentre altre si ingrassavano. ..

A Ginevra , sia in periodi normali sia in periodi difficili, la denutrizione era diffusa. Nel gennaio del 1630 durante una grave crisi alimentare, i setaioli guadagnavano soltanto due sols al giorno mentre il pane costava cinque sols la libbra ed il minimo per una ragionevole alimentazione giornaliera era di due libbre. In questa situazione il consiglio cittadino dové ordinare degli aumenti di salario . Nel 1 655, un anno di normalità con prezzi che possono essere considerati normali , col pane a cinque sols la libbra, formaggio e carne sette sols, il salario giornaliero di un carpentiere era di circa ventidue sols che potevano a mala­ pena bastare per mantenere una famiglia, eppure i carpentieri non erano certamente lo strato più basso della classe lavoratrice della città. Qualche informazione sul livello di alimentazione la si può ricavare vedendo se la terra produceva abbastanza cibo per

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la popolazione e analizzando l'alimentazione giornaliera delle classi lavoratrici. In termini elementari l'insufficienza della produzione alimen­ tare la si può determinare guardando semplicemente ai dati del commercio d'oltremare. L'ingresso nel Mediterraneo, sul finire del sedicesimo secolo, di grano del Baltico è una chiara indica­ zione del fatto che i paesi meridionali non riuscivano più 3d assicurare tutta la produzione alimentare necessaria per le loro popolazioni e che nei paesi del nord esistevano dei considerevoli surplus. Fu questa grande domanda di grano a far prosperare le proprietà della nobiltà dell'Europa orientale. Ma questo esem­ pio non vuoi dire che i contadini dell'Europa orientale fossero nutriti meglio di quelli italiani, anzi si è argomentato, e con molta plausibilità, che la produzione e l'esportazione di grano abbiano compresso il livello di vita dei contadini polacchi. Co­ munque, per stabilire un rapporto fra produzione alimentare e probabilità di morte per inedia è necessaria una verifica di tipo più strettamente statistico. Si può utilizzare a questo fine il caso dei Paesi Bassi (prima della divisione in Belgio e Olanda ) . Si è calcolato che nel sedicesimo secolo il consumo medio e minimo di pane richiedesse circa duecento chilogrammi di grano per persona all'anno, il che per gli interi Paesi Bassi significherebbe un consumo di quattrocento milioni di chilogrammi. Poiché la resa media annuale per ettaro era intorno ai seicento chilo­ grammi, sarebbe stato necessario coltivare tutto il territorio dei Paesi Bassi per rifornire sufficientemente la popolazione di grano . Ma tutta questa terra non era disponibile, perciò varia­ zioni anche minime nel tempo e nella produzione si riflettevano gravemente sui prezzi, costringendo i Paesi Bassi a importare grano con regolarità . Su scala inferiore a quella nazionale, le comunità contadine e i singoli contadini vivevano spesso quasi a un livello di pura sussistenza, poiché la terra non bastava per dare loro tutto quello di cui abbisognavano. In un periodo in cui la grande maggioranza della popolazione era contadina, la terra coltivata era estremamente frammentata per dare a ciascun contadino le basi materiali per vivere. Tale suddivisione, che nel corso del sedicesimo secolo si aggravò per l'aumento della popolazione, servì in pratica a distruggere le basi dell'autosuffi­ cienza contadina, come dimostra l'evoluzione della condizione economica delle classi rurali nel villaggio di Lespignan in Lin-

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guadoca. Nel 1 492 la grande maggioranza dei contadini-proprie­ tari riuscivano a produrre un surplus che vendevano per com­ prare altri beni, e si collocavano al di sopra del livello minimo di indipendenza economica. Nel 1 607 invece la maggior parte dei contadini doveva comprare grano per l'alimentazione e do­ veva cercare lavoro altrove per mantenere le rispettive famiglie. Cosl ridotti avrebbero costituito facile preda dell'inedia negli anni di carestia . Malgrado ciò, il processo di suddivisione delle proprietà contadine andò ancora avanti in questa zona e altrove. Nel Beauvaisis si arrivò a una situazione in cui i nove decimi della popolazione contadina avevano perso l 'indipendenza eco­ nomica e non potevano assicurare in ogni caso una sufficiente alimentazione alle proprie famiglie. Come osserva Goubert, « il contadino che aspirava all'indipendenza economica doveva colti­ vare in anni di abbondanza un minimo di 12 ettari e in anni di crisi un 27 ettari ». Ma nel diciassettesimo secolo in quella zona meno di un decimo dei contadini possedeva ventisette o più ettari . La maggior parte di essi perciò era costretta inevitabil­ mente alla fame nei periodi di crisi dell'agricoltura . Non c'è analisi dell'alimentazione corrente di questo periodo che non sia controversa, perché è estremamente difficile met­ tersi d'accordo su un criterio di individuazione del livello ali­ mentare reale. Se è relativamente facile scoprire quel che si mangiava, è molto più complicato determinare il valore nutritivo di quell'alimentazione. Secondo Goubert non c'è dubbio che la maggior parte dei contadini del Beauvaisis soffrisse di una quasi continua denutrizione perché la carne era quasi totalmente assente dalla loro alimentazione, altrettanto lo era la frutta e le verdure erano in genere di cattiva qualità, cosicché il cibo principale era formato da pane, zuppa, farina d'avena, piselli e fagioli . Ma in altre zone, sulle quali sono stati condotti degli studi , l'alimentazione era più variata . Pane, verdure, burro, for­ maggio e carne figuravano sulla tavola di un operaio di Anversa nel sedicesimo secolo, e si è calcolato che tutto ciò desse due­ mila calorie al giorno. Questa cifra può essere paragonata con quella fornita dalla FAO nel 1 957 sul minimo necessario per un'adeguata alimentazione, posta poco al di sotto delle tremila calorie. La differenza non è eccessiva, soprattutto in considera­ zione del fatto che la maggior parte della popolazione mondiale vive al di sotto di questa indicazione. Comunque, si può dire

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che l'operaio di Anversa fosse denutrito ? In uno studio su Val­ ladolid si è indicata la cifra di 1 .580 calorie come il valore nutritivo dell'alimentazione del cittadino medio nel sedicesimo secolo, ma si è anche concluso che un tale livello era perfetta­ mente in regola per quel tempo. D'altro canto, studiando l'ali­ mentazione dei contadini delle proprietà reali polacche sul finire del sedicesimo secolo si è arrivati ad una cifra di quasi 3 .500 calorie. Tali consistenti variazioni nei calcoli rendono impossi­ bile tirare una conclusione che voglia essere esatta. Il solo fatto indisputabile è che la gran massa delle persone viveva pericolo­ samente vicina a quel livello di alimentazione che ne minacciava la stessa esistenza fisica.

Guerre. Tutti gli altri flagelli potevano nascere dalla guerra . « È stato impossibile riscuotere le tasse », si riferisce dalla Lorena nei decennio 1 63 0-40, « a causa delle guerre che hanno colpito la maggior parte dei villaggi, abbandonati per la fuga di alcuni e la morte di altri da malattia o morbo derivanti dall'inedia » . Epidemie e carestie erano una conseguenza naturale dei saccheggi della soldatesca : è possibile che jn questo periodo abbiano fatto più morti delle campagne militari. Di conseguenza è piuttosto fuorviante guardare a questo periodo come a uno di guerre limi­ tate. È vero che gli eserciti erano relativamente piccoli, che non esisteva la mobilitazione generale e che le armi non erano ecces­ sivamente letali ; ma i paesi nei quali ci fu lo stato di guerra subirono danni cosl gravi all'economia e alla popolazione che l'ampiezza delle distruzioni non dovrebbe essere minimizzata. Anche il fatto che il numero delle morti in battaglia tendesse ad essere moderato va collocato in una prospettiva più larga, perché ci furono certamente occasioni in cui lo zelo fece supe­ rare tutti i limiti . Forse le atrocità peggiori del diciassettesimo secolo furono commesse dagli inglesi . Il genocidio messo in pratica contro gli irlandesi fra il 1 6 4 1 e il 1 652 portò, se dob­ biamo credere alle cifre di Sir William Petty, alla loro dimi­ nuzione di 504.000 unità . Le lagnanze contro la guerra erano universali . « Quando la faremo finita con questi guerrieri ? » era il grido di un

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Parte I. Le strutture

abitante del villaggio in un dialogo francese della metà del diciassettesimo secolo . Ci vollero le vicende della guerra dei Trent'anni perché la popolazione europea arrivasse a capire gli orrori che ogni guerra comportava e non è una coincidenza che i disegni di Callot traggano le loro origini da quella stessa situazione che portò all'apostolato di s. Vincenzo de' Paoli in Piccardia. Fra i molti libri contro la guerra che spuntarono dopo il 1 640, il Simplicissimus di Grimmelshausen, pubblicato nel 1 668, coglie la temperie dell'epoca, con la sua continua denuncia delle soldataglie, la sua descrizione delle stragi della battaglia di Wittstock, e i suoi attacchi contro i Merodebruder, bande isolate di soldati ai quali fu attribuita la maggior parte dei saccheggi durante la guerra. È difficile valutare l'effetto globale di una guerra sulla popo· !azione . Non basta contare il numero dei morti ; bisogna anche tener conto dei profughi e dell'emigrazione, di una possibile diminuzione del numero dei maschi e del livello di fecondità. Dall'esame che ora segue, di quattro situazioni diverse, sarà possibile farsi un'idea dell'incidenza delle guerre nel periodo 1 550- 1 660. In Francia le conseguenze di quel mezzo secolo di conflitti conosciuto come periodo delle guerre di religione ( 1 559-9 8 ) fu­ rono senza dubbio pesanti . Il nostro interesse verso quel periodo è per ora limitato ai soli aspetti demografici senza affrontare il problema dei suoi effetti sul commercio e sull'industria. Met­ tendo da parte i grandi massacri, come quello della notte di s. Bartolomeo che costò la vita a più di tremila protestanti a Parigi e a quasi ventimila nell'intera Francia, ci furono delle sostanziose perdite di popolazione in molte regioni . In Borgogna sul finire del '500 ci furono una serie di cattive annate agrarie che culminarono nella carestia del 1 597 . E la guerra aggravò certamente questa situazione: per esempio nel baliaggio di Auxer­ rois nel 1 597 c'erano 864 case distrutte e 1 . 1 44 abbandonate al nemico . Se ci spostiamo dall'analisi di singole situazioni ad uno sguardo di insieme più generale il quadro sembra farsi meno critico . Nella stessa Borgogna il numero delle nascite e dei matrimoni aumentò regolarmente durante gli anni di guerra, ed una diminuzione si ebbe solo nell'ultimo decennio del '500 quando fattori diversi dalla guerra fecero sentire il loro peso. Per le altre regioni il quadro che emerge dai registri parroc-

I. Le dimensioni della vita

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chiali suggerisce l'ipotesi che i primi decenni delle guerre di religione, fino agli anni '80, coincidano con la grande espan­ sione demografica del sedicesimo secolo e che non l'abbiano ostacolata in misura apprezzabile. Le cifre annuali dei battesimi celebrati nel villaggio di Souvigny ( Loir-et-Cher) salgono dai ventitré battesimi all'inizio del secolo ai trentasette degli anni '80 e ai trenta degli anni '90 . Nella parrocchia di Saint-Erblon ( Ille-et-Vilaine ) avvenne altrettanto : la media di trentaquattro battesimi all'anno sall a quarantuno durante le guerre di reli­ gione. Quando ci furono delle vere e proprie inversioni di ten­ denza, esse sono riferibili in genere ad anni di epidemie e di crisi economiche. La limitata documentazione disponibile con­ sente di affermare che la Francia prese parte alla generale espan­ sione demografica di questo periodo e che sulla popolazione civile le guerre ebbero un effetto molto minore rispetto a quel che si è generalmente creduto . Ovviamente queste osservazioni non pren­ dono in considerazione le conseguenze delle guerre di religione su altri settori dell'economia. Grosso modo nello stesso periodo gli olandesi stavano con­ ducendo la loro guerra, la lunga guerra per l'indipendenza olan­ dese, conosciuta in Olanda come guerra degli Ottant'anni ( 1 5681 648 ), che divise il paese in una regione settentrionale ( Pro­ vince Unite ) ed in una meridionale ( governata dalla Spagna ). All'inizio le zone settentrionali sopportarono le conseguenze più gravose, ma dalla fine del sedicesimo secolo furono le zone meri­ dionali a sostenere l'urto della guerra. Una serie di fattori contribuì a produrre effetti del tutto disastrosi per le regioni meridionali e, pur concretizzandosi non tanto in perdite di vite umane quanto in un flusso migratorio, se ne può discutere in questa sede. Il collasso del paese fu in una certa misura una conseguenza del collasso di Anversa che risentì dopo il 1 572 del blocco della Schelda e nel 1576 della rivolta delle truppe spagnole, la furia spagnola . Dal 1 580 in poi nel territorio belga si sviluppò una severa crisi dovuta allo sgretolamento delle attività economiche. Nel 1 5 8 1 crollarono le industrie del lino di Curtrai e di Oudencarde. Nel 1 582 le truppe del duca d'Angiò saccheggiarono diverse città industriali. Nell'autunno del 1581 a causa della guerra non si poté seminare nei campi intorno a Bruxelles . Le truppe mercenarie uccisero i coltivatori e distrus­ sero le fattorie e così i campi rimasero incolti. Nel 1 585 i lupi

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Parte l. Le strutture

assalirono delle persone nei pressi di Gand. Nello stesso anno la foce della Schelda fu saldamente bloccata da navi olandesi. I villaggi furono rasi al suolo . Vicino a Gand l 'estensione di una zona coltivata si ridusse da 4. 726 ettari a 3 7 7 . E furono anche, soprattutto il 1 586, anni di carestia. In molti villaggi del Bra­ bante nel 15 8 6 la popolazione era scesa a livelli fra il venti­ cinque e il cinquanta per cento rispetto a quelli precedenti al 1 57 5 . A Lovanio le case abitate diminuirono da 3 .299 nel 1 526 a 1 .658 alla fine del sedicesimo secolo . Nel 1 604 gli Stati di Fiandra affermarono che « la voce del contadino povero grida davanti a Dio » . « Il commercio è quasi totalmente cessato », riferl il duca di Sassonia dopo la sua visita ad Anversa nel 1 6 1 3 . « Dove una volta s i accalcavano folle d i mercanti, ora s i vedono solo pochi spagnoli a passeggio per le strade » . Questa crisi non colpl tutte le province meridionali alla stessa maniera. Le zone settentrionali, a popolazione fiamminga, lo furono più duramente ; le zone meridionali, a popolazione vallone, accen­ narono a riprendersi soprattutto nella zona intorno a Liegi. Ma nel 1 6 2 1 la ripresa della guerra, dopo la fine della tregua di dodici anni fra la Spagna e le Province Unite, fu foriera di ulteriori calamità. Morte e miseria riconfermarono il dramma­ tico calo di popolazione nella zona meridionale dei Paesi Bassi : « Sono arrivato ad Amsterdam dove ora mi trovo », scrisse un prete nel 1 62 7 , « e vedo tutte le città piene di persone cosl come quelle tenute dagli Spagnoli ne sono vuote » . I n una certa misura queste disastrose guerre del sedicesimo colo coincisero con un periodo di espansione demografica, di modo che non pare che ci siano stati dei seri ostacoli allo svi­ luppo dei tassi di natalità e di fecondità. La situazione cambia con le guerre intorno alla metà del diciassettesimo secolo . Quale che sia stato il loro effetto nelle diverse regioni, queste guerre segnano un critico momento di svolta. Fin dall'inizio del dicias­ settesimo secolo prende corpo una recessione demografica e le guerre accentuano questa tendenza. In Francia questi muta­ menti nella crescita della popolazione furono strettamente asso­ ciati alla Fronda. Le campagne del 1 648-53 ebbero luogo per lo più nel nord della Francia e in particolare intorno a Parigi. I contemporanei non ci lasciano alcun dubbio sulle orribili con­ seguenze che esse ebbero sul diritto, sull'ordine pubblico, sulla vita e la proprietà delle persone . Scrivendo nel 1 649 Angélique

I. Le dimensioni della vita

51

Arnauld parla dello « spaventevole stato di questa povera cam­ pagna ; tutto è saccheggiato, non si ara più la terra, non ci sono cavalli, tutto è stato rubato , i contadini sono spinti ad andar:! a dormire nei boschi » . In una relazione preparata nel 1 652 per le autorità ecclesiastiche sulla situazione della regione in­ torno a Parigi si parla di « villaggi e gruppi di casolari abban­ donati e privi di sacerdoti, strade infettate da carogne puzzo­ lenti e da cadaveri che giacciono all'aperto, case senza porte e finestre, tutto ridotto a pozzi neri e stalle, e soprattutto malati e moribondi senza pane, carne, medicine, fuoco per riscaldarsi, letti o coperte, e senza preti, dottori, chirurghi o una qualunque persona che li conforti ». Si è calcolato che nella regione pari­ gina le perdite di popolazione causate dalla Fronda siano state nell'ordine del venti per cento . In altre parole nei cinque anni di guerra un villaggio avrebbe perso circa un quinto della sua popolazione . In questo periodo, per citare un caso ben docu­ mentato, la parrocchia di Saint-Lambert-des-Levées - popola­ zione tremila abitanti - perse seicentocinquantatré vite umane, cifra che indica l'eccedenza delle morti sulle nascite . La fig. 7 illustra l'effetto cumulativo che tale tasso di mortalità ebbe sulle nascite. Il diagramma mostra in termini concisi ed efficaci come il protrarsi di una guerra minacciasse la sopravvivenza umana. Le vicende della Germania testimoniano ancora meglio sulla guerra come fattore di eliminazione di vite umane. La lunga controversia sugli effetti della guerra dei Trent'anni sulla popo­ lazione tedesca può ora considerarsi in larga parte risolta, grazie a dettagliati studi su centinaia di località colpite dal conflitto . Morte e distruzione furono senza confini e, il che fu peggio, prolungate nel tempo . Anche ridimensionando le esagerazioni e la propaganda dei racconti sugli orrori della guerra, non c'è motivo di disconoscere la realtà delle devastazioni, della peste , della carestia e della ferocia illimitata della soldataglia. La Re­ nania, per la quale combatterono truppe di ogni nazione di Eu­ ropa, fu ridotta in rovine. « Da Colonia in qua » ( verso Franco­ forte ), riferì l'ambasciatore inglese nel 1 63 5 , « tutte le città, i villaggi e i castelli sono stati cannoneggiati, saccheggiati e bru­ ciati ». « Sto guidando i miei uomini », affermò il generale bava­ rese Johann von Werth attraversando la Renania nel 1 6 3 7 , « at­ traverso una regione dove migliaia di uomini sono morti di fame

Parte I. Le strutture

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500

- , - SOPRAVVIVENZA INFANTILE DA 1 A 4 ANNI - NASCITE

450

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........ SOPRAVVIVENZA INFANTILE FINO A 1 ANNO

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Fig. 7 La guerra e il tasso di natalità durante la Fronda ( Saint­ Lambert-des-Levées, Angiò) .

I. Le dimensioni della vita

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e non si vede per molte miglia di strada un'anima viva » . Le perdite di popolazione effettivamente misurabili sono così grandi da essere incredibili. Nella contea di Lippe, una regione colpita dalla guerra in maniera solo moderata, la popolazione diminuì del trentacinque per cento, passando da 40 .220 unità nel 1 6 1 8 a 26 .000 nel 1 648 . Nel distretto d i Lautern nella Renania, che fu più duramente devastata, su sessantadue città trenta erano abbandonate nel 1 656, mentre la popolazione da quattromila­ duecento unità ( escluso il capoluogo Kaiserslautern ) era scesa a quasi cinquecento unità. Andando oltre singoli esempi, la fig. 8 dà un'idea delle perdite di popolazione subite dalla Germania nel suo complesso .

Fig. 8 Gli tedesca.

effetti

della

guerra

dei Trent'anni

sulla

popolazione

La conclusione che si può tirare da questo diagramma è che i centri urbani persero un terzo della loro popolazione e le zone rurali quasi il quaranta per cento . Le perdite variarono da meno del dieci per cento nella Bassa Sassonia a oltre il cinquanta per "

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10

10 .

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1500 Fig. 9

1550

1600

1650

L'inflazione dei prezzi del grano in Europa.

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Parte I. Le st�utture

specie di indice del costo della vita. Questo calcolo è stato fatto da E. H. Phelps Brown e Sheila V. Hopkins sulla base di un numero di articoli consumati nel sud dell'Inghilterra fra il 1 264 e il 1 954. I risultati per il periodo 1 450- 1 700 sono illustrati nella fig. 1 0 ; da essi si deduce che l'aumento dei prezzi fu di tale ampiezza da intaccare la vita della maggior parte della popolazione. Un esame più attento dell'ampiezza dell'aumento illustrato in questa ed in altre fonti può far nascere dei dubbi sulla pro­ prietà del termine « rivoluzione dei prezzi » . Per esempio l'in­ dice Brown-Hopkins dà fra il 1 5 3 2 e il 1 660 un aumento annuo medio dello 0,86 per cento, e anche nel maggiore periodo infla­ zionistico, quello dei Tudors dal 1 5 3 2 al 1580, esso non fu superiore all' 1 ,5 per cento . Per contro in Inghilterra in un periodo a noi vicino, fra il 1 935 e il 1 956, i prezzi all'ingrosso furono quasi quadruplicati, con un tasso annuale di oltre il sette per cento. Si può ancora considerare così rivoluzionario l'au­ mento del sedicesimo secolo ? Sulla base di criteri contemporanei la velocità dell'aumento è senza dubbio bassa. Per esempio a Firenze fra il 1 552 e il 1 600 i prezzi aumentarono con una media annua non superiore al 2 per cento . Per una giusta valu­ tazione del problema bisogna tener conto di diversi fattori . L'intensità dell'aumento dei prezzi dipende dall'arco di tempo preso in considerazione; infatti sembra che i prezzi abbiano subito un lento e costante aumento dalla fine del quindicesimo secolo, ma non incontriamo l'inflazione più acuta finché non arriviamo alla metà del sedicesimo secolo . Che si prenda in esame il periodo dell'aumento lento e costante o quello dell'au­ mento più intenso, rimane vero che fu la natura senza prece­ denti del fenomeno a colpire di più i contemporanei e che ha fatto sì che gli storici gli attribuissero la definizione di « rivo­ luzione ». Caratteristica fu anche l'incidenza dell'aumento . Di­ versamente dalla nostra epoca, nel sedicesimo secolo si era meno capaci di adattarsi ad una caduta del potere d'acquisto della moneta e ad un aumento di un ristretto assortimento di beni . Se il prezzo del pane veniva raddoppiato, le persone facevano la fame; oggi invece possono mangiare patate. Inoltre, calcolare un tasso di aumento annuale su un lungo periodo può essere fuorviante, perché vengono così offuscati i frequenti e catastro­ fici cambiamenti improvvisi di breve periodo della curva dei

II. Mutamento e decadenza

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800 750 700 650 600 550 500 450 400 350 300 250 200 150 100

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Fig. 10

1500

1550

1600

1650

1700

II costo della vita in Inghilterra, dal 1 450 al 1700.

prezzi. Infine, nessuno oggi discute seriamente di dei prezzi » solo in termini di aumento dei prezzi ; cizio è viziato a meno che non si inseriscano nel fattori - come per esempio i salari e i fitti mutamento dei prezzi solo una realtà troppo fosca buona parte della popolazione.

« rivoluzione l'intero eser­ discorso altri che resero il nella vita di

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Parte I. Le strutture

Le cause dell'aumento dei prezzi. Come in tutti i periodi di difficoltà furono ovviamente accu­ sati dell'aumento dei prezzi i soliti cattivi, i mercanti e gli spe­ culatori ; e al coro delle accuse popolari si aggiunsero le auto­ rità con la loro parte di critiche. Diffuse e abituali erano le lagnanze contro esportazioni di generi alimentari a fini di pro­ fitto, certo non necessarie in un momento in cui ce n'era grande bisogno in patria, e in qualche caso esse sfociarono in sommosse e sedizioni . Nel 1 548 le Cortes castigliane affermarono che « negli ultimi anni i grossi acquisti di lana, seta, ferro, acciaio, di altre mercanzie e provvigioni da parte di stranieri » aveva portato ad un eccessivo aumento del livello dei prezzi . Nel 1 55 1 l e lagnanze venivano ripetute con l'affermazione che « l a causa principale dell'aumento del prezzo del pane e di altri cibi è che gli stranieri [ residenti ] speculano su tutti i generi di viveri » . Interessi monopolistici nel settore alimentare e per altri prodotti furono posti sotto accusa nel decennio 1 560-70 da Bodin come maggiori responsabili degli alti prezzi e della carenza di pro­ dotti sui mercati francesi. Anche in Inghilterra nel 1 549 l'autore di un opuscolo, nel tentativo di spiegare gli alti prezzi di alcuni beni come la lana, di cui non c 'era penuria, concludeva che « la causa principale è l 'accaparramento delle cose nelle mani di pochi uomini » . Questi « pochi uomini » che dovunque erano posti sotto accusa variavano da paese a paese. In Inghilterra si tendeva a identificarli con i proprietari terrieri ; ma non sfug­ givano anche gli incettatori di cereali, che in seguito l'arcive­ scovo Laud con una pittoresca frase biblica avrebbe accusato di « schiacciare i visi dei poveri ». Sul continente invece erano identificati con i mercanti di grano, con gli amministratori cor­ rotti, con gli usurai stranieri ; gli uomini che furono assassinati dalla folla a Napoli nel 1 585 e nel Delfinato nel 1 5 8 8 . Nella maggior parte dei casi i l popolo aveva ragione ad accusare quelle persone. I fitti venivano aumentati, gli alimen­ tari venivano incettati. Ma pochi avrebbero capito che il pro­ blema non poteva essere risolto nemmeno dagli speculatori, perché l 'unità di base sulla quale ognuno faceva affidamento per la stabilità finanziaria, la moneta del reame, si stava essa stessa svalutando. In Inghilterra all'inizio del sedicesimo secolo En-

II. Mutamento e decadenza

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rico VIII svill in diverse occasioni il conio delle monete. Fra il 1 543 e il 1 5 5 1 l a quantità di argento contenuta nelle monete inglesi fu ridotta di oltre due terzi, e i salariati scoprirono che il potere d'acquisto di quelle monete era notevolmente ridotto. I più poveri, che tiravano avanti con pochi spiccioli, trovarono che per lo più erano diventati senza valore ; mentre i commer­ cianti aumentarono i prezzi per recuperare le perdite. Solo nel 1 560 Elisabetta tentò infine di stabilizzare il conio delle mo­ nete per rafforzarle contro speculazioni straniere. Dopo il 1 560 l'Inghilterra, in maniera abbastanza sorprendente, fu il solo importante paese europeo ad avere una moneta che non si trovò più svalutata. Tutti gli altri paesi, dalla Russia e dalla Polonia alla Francia e alla Spagna, incorsero in un certo grado di infla­ zione in seguito alla riduzione della quantità di argento nelle monete. La Spagna fu una delle ultime a svalutare alterando il conio delle monete. Riduzioni minime del contenuto di argento si erano avute con Carlo V e Filippo II, ma fu durante il regno di Filippo III che l'argento incominciò a scomparire del tutto dalle monete e il governo ricorse a una larga svalutazione. Le lagnanze degli spagnoli che subirono le conseguenze della nuova moneta svalutata danno qualche indicazione su come in altri paesi europei le popolazioni devono aver patito quando furono prese misure analoghe : come in Polonia per esempio, dove fra il 1578 e il 1 650 il contenuto d'argento del grosz fu ridotto di due terzi . Comunque si considerino le poche date finora fornite si pone un singolare problema. Le difficoltà monetarie inglesi e francesi possono essere fatte risalire almeno all'inizio del sedicesimo secolo, mentre invece le monete spagnole e polacche rimasero stabili fino alla fine del secolo. Eppure per tutti questi paesi un continuo aumento dei prezzi, collegato o no all'inflazione monetaria, fu un fatto normale. Si può ipotizzare dunque che l 'aumento dei prezzi doveva essere posto a carico delle altera­ zioni di conio di quell'epoca solo in parte. Questo fatto colpl con particolare forza l'attenzione di Jean Bodio. Nel suo Discours [ . . ] et Reponse aux Paradoxes de M. de Malestroict, del 1 568, dove criticava quello scrittore che negava persino che esistesse un aumento di prezzi, Bodio mise in evidenza la fallacia del ragionamento che collegava i livelli dei prezzi solo al contenuto argenteo o aureo delle monete. .

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Parte I. Le strutture

Per Bodin « la principale e quasi l'unica » causa dell'aumento dei prezzi consisteva ( causa che nessuno ha ancora individuato ) « nell'abbondanza di oro e argento » dall'America . Il ragionamento di Bodin sarebbe diventata la spiegazione classica delle urigini della rivoluzione dei prezzi, soprattutto dopo che un vasto appa­ rato di dati raccolti dal professar Earl J. Hamilton gli garantl un poderoso sostegno . In breve, secondo questo ragionamento, dopo la scoperta dell'America l'importazione di metalli preziosi inondò non solo la Spagna ma anche l'Europa, integrando il Busso monetario e incominciando a far salire i prezzi . Prima della scoperta delle miniere americane ogni aumento di quantità di metalli preziosi era attribuito all'accresciuta produzione delle miniere d'argento dell'Europa centrale. In quell'epoca, in ter­ mini molto approssimativi, il volume dell'argento aumentava in rapporto a quello dei beni circolanti, e il valore di questi ultimi aumentava corrispondentemente. Sembrò che questa stretta inter­ relazione fra metalli preziosi e prezzi fosse provata oltre ogni dubbio dal seguente grafico ( fig. 1 1 ) nel quale Hamilton rapNumeri indice 1 50 1 40 _ Prezzi 1 30 Tesore 2 ·-1am n o 1 20 11 0 100 90 80 ,J 70 60 J Y, � . 50 A · 40 / 30 1550 1500

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Fig. 1 1 Importazioni d 'oro e d'argento e inflazione dei prezzi in Spagna.

presentò il rapporto fra importazioni in Spagna di metalli pre­ ziosi e prezzi correnti in quel paese. Comunque si dovette arrivare quasi alla metà del sedicesimo secolo perché gli scrittori europei incominciassero a considerare l'argento americano come una possibile causa di aumento dei

II. Mutamento e decadenza

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prezzi. Con tutta probabilità colui che per primo stabilì una connessione fra i due fenomeni fu il giurista di Salamanca Martin de Azpilcueta, che nel 1 556 disse che « in Spagna, quando la moneta era meno diffusa, i beni in commercio e il lavoro erano dati per molto di meno rispetto a dopo la scoperta delle Indie, che inondarono il paese di oro e argento. La ragione di ciò è che la moneta vale di più dove e quando è scarsa che dove e quando è abbondante » . Francisco L6pez d e G6mara, storiografo d i Carlo V e bio­ grafo di Cortés, fece nel 1 558 un'osservazione analoga in un lavoro che rimase inedito fìno al 1 9 1 2 . L'autore abitualmente accreditato del merito della formulazione e diffusione di questa spiegazione è invece Jean Bodin. Certo in Francia le idee di Bodin furono assorbite e riprodotte da studiosi dell'epoca di problemi economici ed in Spagna la sua opera fu letta e diffusa da un eminente scrittore, Sancho de Moncada. In Inghilterra, intanto, l'autore del Discourse of the Camman Weal dette per scontato il ruolo giocato « dalle grandi riserve e dall'abbondanza di ricchezze, che circolano in queste parti del mondo, in quan­ tità molto maggiori in questi nostri giorni di quel che i nostri avi abbiano mai visto nel passato . Chi non sa delle infinite quantità di oro e di argento accumulate dalle Indie e da altri paesi e trasportate ogni anno su queste coste? ». Gerard Malynes, u n importante mercante inglese, disse nel 1 6 0 1 che « la grande riserva o abbondanza di monete e di me­ talli preziosi, che dagli ultimi anni arrivano dalle Indie occi­ dentali nei paesi della cristianità, hanno reso ogni cosa più cara » . Per quella data questa spiegazione era ormai largamente accettata. Gli storici contemporanei sono stati però molto cauti nel­ l'accettare questa ipotesi cosl come è stata formulata. Proprio come può sembrare che l'inflazione dei prezzi non abbia avuto alcun necessario rapporto con la svalutazione delle monete, così si può dimostrare che i prezzi incominciarono a salire ben prima che l'argento americano incidesse in modo apprezzabile su certi paesi. L'Inghilterra ne costituisce l'esempio più evidente, anche se si potrebbero indicare diversi altri paesi . I metalli preziosi non cominciarono a giungere in Spagna in grosse quantità fìno al decennio 1 540-50, quando incominciarono a funzionare le mi­ niere boliviane, e certo minime quantità ne possono essere

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Parte I. Le strutture

entrate in Inghilterra prima della metà del secolo. Eppure già nel 1 550 il livello dei prezzi vi si era raddoppiato : l'indice Brown-Hopkins, che per il 1 5 1 0 segna centotré, per il 1 550 segna duecentosessantadue. La situazione francese è di più dif­ ficile valutazione perché, come correttamente mise in evidenza Bodin, l'aumentato commercio con la Spagna, le migrazioni sta­ gionali e la crescita di Lione e Parigi come centri di affari inter­ nazionali contribuirono tutti insieme ad attrarre numerario nel paese. Per l'Italia ci sono pochi dubbi quanto ai periodi di tempo . Quantità significative di metallo prezioso per finan­ ziare le truppe spagnole non cominciarono ad arrivare che dopo il 1570, raggiungendo le dimensioni di una piena nel decennio successivo, ma già dagli anni Trenta la curva dei prezzi si stava muovendo decisamente verso l'alto. Delle difficoltà sorgono anche per il caso spagnolo. Il grafico di Hamilton, riprodotto nella fig. 1 1 , sembrerebbe dimostrare la validità della sua conclusione che « oltre ogni dubbio le " ab­ bondanti miniere d'America " furono la causa principale della rivoluzione dei prezzi in Spagna » . E tuttavia la coincidenza delle direzioni delle due curve disegnate sul grafico può essere messa in dubbio. È estremamente difficile ottenere delle cifre assolutamente sicure sull'importazione dei metalli preziosi e quelle elaborate da Hamilton, verso cui tutti gli storici sono in debito per le sue ricerche pionieristiche svolte cosl coscienzio­ samente, offrono il fianco a qualche critica. Infatti non solo non tiene alcun conto del numerario contrabbandato ( che era spesso una porzione notevole del totale ) ma qualche volta tralascia anche delle spedizioni ufficialmente registrate. Inoltre la curva dei prezzi può essere tracciata su scala diversa e dare cosl un risultato secondo il quale i prezzi aumentarono proporzional­ mente di più nella prima parte del secolo, prima delle grosse spedizioni dei metalli preziosi. Comunque, qualunque grafico che voglia cercare di illustrare il rapporto fra metalli preziosi e prezzi dovrebbe darci non una curva per le sole importazioni ma per il volume totale dei metalli preziosi circolanti all'interno di quel paese, poiché non fu solo l'importazione di monete a modi­ ficare i prezzi quanto il totale delle monete usate nelle transa­ zioni d'affari . E dovrebbe anche chiarire che i metalli preziosi importati nella Spagna non sempre vi rimanevano, un fatto

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questo di cui i contemporanei erano ben consci. Già nel 1 5 58 l'arbitrista Luis Ortiz fece omaggio al re di una difesa ragio­ nata contro l'esportazione di metalli preziosi in considerazione della loro penuria nel reame. Intorno al 1 600, quando Martin Gonzalez de Cellorigo scrisse il suo Memoria! de la politica necesaria, la situazione era espressa nei termini di un paradosso : « Se la Spagna non ha monete d'oro o d'argento è perché ne ha; e ciò che la rende povera è la sua ricchezza : si che ci sono due contraddizioni che, anche se non possono essere formalmente riconciliate, devono necessariamente essere considerate entrambe come vere nella nostra Spagna » . Hamilton ovviamente sapeva che l'inizio dell'aumento dei prezzi in Spagna era precedente all'importazione su larga scala di metalli preziosi, ma non diede alcuna prova a sostegno della sua ipotesi che ne fosse responsa­ bile la produzione delle miniere tedesche d'argento. In breve, esistono notevoli dubbi sulla validità della spiegazione secondo la quale le importazioni di metalli ebbero un ruolo determinante nelle prime fasi dell'aumento dei prezzi . La sua validità è basata principalmente sulla teoria quanti­ tativa della moneta, secondo la quale una variazione nel volume della moneta circolante ha un effetto proporzionato sui prezzi . La teoria quantitativa è stata espressa nell'equazione MV = PT, formulata dall'economista Irving Fisher, dove M sta per moneta, V per la sua velocità di circolazione, P per il livello generale dei prezzi e T per il volume totale delle transazioni di affari . Se V e T sono costanti, M e P hanno chiaramente un diretto influsso l'uno sull'altro ; in altre parole se lo stesso numero di persone compra lo stesso numero di beni, l'ingresso sul mercato di un'ulteriore massa di denaro farà crescere i prezzi in propor­ zione. Non è nostro intento esaminare in questa sede l'equa­ zione di Fisher, sottoposta dagli economisti a numerose critiche . Attualmente si tende a considerarla poco utile e qualche volta fuorviante come metodo di approccio. Le critiche più rilevanti sono probabilmente quelle che sottolineano come essa soprava­ luti il ruolo di M nella determinazione di P, ignorando i ruoli di V e T. È difficile riuscire a ottenere la prova della quantità di denaro, della velocità di circolazione e del volume delle merci . Lo storico tedesco Wiebe e altri dopo di lui hanno ricavato

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Parte I. Le strutture

delle cifre che dimostrano un aumento della scorta aurea euro­ pea, ma gli storici dell'economia sono riluttanti ad accogliere le loro conclusioni . Riguardo alla produzione e allo scambio di merci di questo periodo sappiamo pochissimo. Però abbiamo rile­ vato che nel Cinquecento si verificò un notevole aumento di popolazione. Ciò poteva significare più gente che acquistava e, quindi, un tasso più elevato del movimento del contante (V). Ciò poteva significare anche un cambiamento nel volume delle transazioni ( T ) . Ci sono almeno tre prove che indicano una connessione cau­ sale fra popolazione e prezzi nel sedicesimo secolo. Sappiamo che ci fu un aumento costante e diffuso del valore delle terre, indice preciso della fame di terra da parte di una popolazione in espansione. Sappiamo che in molte zone ci fu una marcata caduta dei salari reali, il che prova un allargamento della forza­ lavoro, per cui essa divenne meno costosa. Comunque questi due fattori saranno esaminati dettagliatamente in seguito. Infine, ed è forse l 'elemento più significativo, non tutti i prezzi sali­ rono ugualmente o allo stesso tasso. Per la Spagna, Hamilton ha dimostrato che « nel corso dei primi tre quarti del sedicesimo secolo i prezzi dei prodotti agricoli aumentarono più rapidamente dei non-agricoli ». La giustificazione da lui suggerita è che la produzione agricola declinò, il che è solo in parte esatto, perché, per alcuni riferimenti, sembra invece che la produzione sia aumentata. « Anche le montagne scomparvero », testimoniò nel 1 552 Florian de Ocampo, « perché ogni parte della Castiglia fu arata per seminarvi ». Nella vecchia Castiglia, una delle poche regioni finora studiate, i demani comunali furono recuperati alle aree di dissodamento in continua espansione. Non fu tanto la produzione agricola a diminuire, accadde invece che essa rimase ancora insufficiente per i bisogni di una popolazione in continuo aumento. Sappiamo che, come in Castiglia, anche nel resto dell'Europa del sedicesimo secolo ci fu una grande ripresa della produzione agricola . Se la popolazione fosse rimasta stabile, ciò avrebbe significato che i prodotti agricoli sarebbero diventati meno costosi di quelli industriali . Ma i calcoli di Brown e Hopkins sui prezzi di tre diversi paesi, col periodo 1 4 5 1 -75 rappresentato da un numero-indice uguale a cento, danno per il 1 6 0 1 -20 le seguenti cifre:

I I. Mutamento e decadenza

85

Alsazia

Indice dei prezzi degli alimentari Indice dei prezzi dei prodotti industriali

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Francia

517

555

729

294

265

335

In ogni caso, i prezzi degli alimentari raddoppiarono quasi rispetto agli altri prodotti. Evidentemente questa fu un'infla­ zione selezionata che vide salire i prezzi dei generi di consumo più richiesti da una popolazione in aumento . Il quadro è valido anche per i paesi come il Belgio, la Germania e la Polonia, per i quali disponiamo di ricerche dettagliate. Muovendosi su questi binari si può andare molto avanti nello spiegare perché i prezzi incominciarono ad aumentare anche prima che i metalli preziosi arrivassero dall'America . Dalle stesse premesse si può dedurre che il T dell'equazione di Fisher diminui perché la produzione non poteva mantenersi al livello delle esigenze di una popola­ zione in espansione. Non di meno sarebbe impossibile eliminare del tutto l'argento dalla spiegazione del fenomeno perché esso giocò una parte notevole nell'aggravare il malessere - e soprat­ tutto l'inflazione monetaria - di cui soffriva sull'onda dell'au­ mento dei prezzi buona parte dell'Europa. L'aumento dei prezzi non ebbe dovunque le stesse dimen­ sioni . Basta guardare la fig. 9 per rendersi conto che la Spagna e la Francia ne furono toccate più duramente, mentre in regioni lontane dall'area commerciale occidentale, come la Polonia, i prezzi continuarono a mantenersi su livelli molto più bassi anche se l'inflazione può essere stata dello stesso ordine. Se misuriamo il livello dei prezzi in diverse città europee nel periodo 1 5 5 1 1 600 rapportandoli a i prezzi olandesi ( fatti cento per cento) , osserviamo che man mano che s i procede verso est gli aumenti inflazionistici sono di minore ampiezza . I prezzi spagnoli e fran­ cesi sono in genere più alti di quelli olandesi . A Francoforte il loro livello segna novantatré su cento, ad Augusta settantatré, a Vienna sessantuno, a Danzica cinquantatré e a Varsavia qua­ rantasei . Malgrado questi squilibri fra le diverse parti del con­ tinente l'aumento dei prezzi fu senza dubbio un fenomeno euro­ peo, che toccò in maniera più o meno intensa tutti i paesi, e, il che ci interessa ancora di più, tutte le classi sociali .

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Parte I. Le strutture

Redditi e rivoluzione dei prezzi. Se ci fermassimo a considerare il solo livello dei prezzi, il grado di inflazione spesso moderato e i frequenti periodi di crisi ci porterebbero a chiederci se stava veramente accadendo qual­ cosa di rivoluzionario, anzi si potrebbe ben argomentare che, in questo contesto, l'uso della parola ' rivoluzione ' è fuorviante. Eppure le testimonianze dei contemporanei lasciano intendere che scaturirono conseguenze molto serie dall'aumento dei prezzi . In un'economia meno flessibile della nostra, con consistenti gruppi di popolazione, sia lavoratori sia proprietari, che vive­ vano di redditi tradizionalmente fissi, l'incidenza di un'inflazione strisciante poteva essere catastrofica. Nel 1 5 8 1 un cronista inglese, basandosi « sulle affermazioni concordi di tutti gli uomini anziani che vivono nel nostro tempo », osservò che « in tempi passati, ma ancora presenti, nella memoria degli uomini, egli era stato considerato un uomo ricco e dovizioso e molto abile fra i suoi vicini ad amministrare la sua casa, del valore di trenta o quaranta sterline ; ma in questi nostri giorni l 'uomo che godeva di quella stima è cosl lontano ( nell'opinione comune ) da essere un buon padrone di casa o un uomo opulento, che è considerato più vicino a un mendicante » . Non c'è bisogno di prendere alla lettera questo resoconto per capire il problema che viene avanzato . Prenderemo in esame in questo paragrafo solo i salari di coloro che lavoravano, ci occuperemo successivamente dei red­ diti di altre provenienze. Il nudo dato statistico ci mostra che il reddito del salariato riusd in questo periodo, e per la più gran parte di professioni per le quali abbiamo dei dati, a salire. In Spagna il salario nominale medio di un lavoratore aumentò, nei dieci anni 1 5 1 1 -20 da un indice di cinquanta a uno di centoses­ santacinque. In Polonia nella città di Leopoli i salari che negli anni 1 5 2 1 -3 0 segnavano centocinque erano passati nel 1 62 1 - 3 0 a duecentoquarantaquattro . Nell'Inghilterra meridionale i salari giornalieri degli edili salirono, per un manovale, da quattro pence nel 1 548 a uno scellino nel 1 642 e, per un qualificato, da sei pence a uno scellino e sei pence. Cioè nel corso di un secolo i salari raddoppiarono o triplicarono . In tempi normali questi aumenti sarebbero stati sufficienti a tenere agganciati i

II. Mutamento e decadenza

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salari agli aumenti dei prezzi, ma bisogna prendere in conside­ razione le circostanze del periodo indicato. Triplicare un salario non significa necessariamente triplicare il potere di acquisto perché i prezzi possono essere aumentati ( come accadde) di quattro o cinque volte e la moneta con cui i salari erano pagati poteva essere stata alterata e svalutata. Invece di guardare al salario monetario nominale di una persona sarebbe meglio guar­ dare al suo salario reale, cioè al potere d'acquisto dei soldi che aveva. I salari in sé considerati non sono in nessun caso un indizio della posizione economica di un lavoratore, perché in molti mestieri c'era di certo un'alta disoccupazione stagionale, per cui poteva darsi che quel che guadagnava in sei mesi dovesse bastargli per gli altri sei mesi nei quali non avrebbe lavorato . Uno dei modi per stimare quale fosse in questo periodo il salario reale di un lavoratore può essere quello di ipotizzare che egli fosse regolarmente occupato e valutare così il suo salario reale in rapporto ai commestibili che poteva comprare. Questa operazione è stata compiuta per i lavoratori dell'edilizia da E. H. Phelps Brown e da Sheila Hopkins, e i risultati conseguiti per le città di Valencia, Vienna e Augusta sono illustrati nella fig. 1 2 . I dati del diagramma confermano le informazioni prove­ nienti da altre fonti sulle gravi difficoltà economiche dei lavo­ ratori. Per esempio, si è dimostrato che fra il 1 520 e il 1 62 1 nella città di Speyer i salari furono raddoppiati e in qualche caso triplicati , ma nello stesso periodo il prezzo della segala, uno dei principali generi di consumo, aumentò di quindici volte, quello del grano di tredici, quello dei piselli di quattordici, della carne e del sale di sei. La maggior parte dei salari presi in esame erano salari industriali, ma non c'è da sorprendersi che anche i salari agricoli siano diminuiti in termini reali . Nel Poitou col salario di un bracciante si poteva comprare nel 1578 solo il cinquantadue per cento di quel che si poteva comprare nel 1 470, ma anche il reddito di un mietitore aveva perso il cinquantotto per cento del suo precedente valore. Nel sud della Francia, in Linguadoca, le paghe dei contadini che nel 1 500 erano su un indice di cento, nel 1 600 erano cadute a cinquan­ taquattro . In tutti i paesi europei tutti gli strati delle classi lavoratrici, sia urbane che rurali, furono severamente colpiti . Gli storici che parlano facilmente di questi anni come di un'età dell'oro tendono a dimenticare, sia che si tratti della Spagna

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Parte I . Le strutture

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o di qualunque altro paese, che i trionfi dei governanti e della loro cultura erano fondati sull'indigenza di gran parte della popolazione. Bisogna far presente però che il solo esame dei salari nomi­ nali non ci rende ancora la situazione reale perché il reddito effettivo poteva essere maggiore o minore del salario nominale. I conti relativi al sedicesimo secolo del Capitolo della chiesa di Notre-Dame di Anversa mostrano che anche lavoratori con rego­ lare occupazione erano disoccupati e quindi senza paga, per quasi un sesto dell'anno. In tal caso il loro reddito reale per l'intero anno era chiaramente più basso del salario nominale. D 'altra parte c'erano coloro per i quali il salario monetario era solo una piccola parte del reddito poiché erano pagati in natura - con uno o due pasti al giorno in genere - ed erano perciò meno dipendenti dalla moneta . Questo gruppo costituiva una larga parte della classe lavoratrice delle città e comprendeva soprattutto i lavoranti non qualificati ; e in buona parte d'Eu­ ropa era la maggioranza assoluta dei lavoratori rurali . Una parte, la più depressa o la più dipendente, del contadiname era inte­ ramente pagata in natura . Da ciò scaturiscono due conseguenze . lnnanzitutto, per citare R. H. Tawney, « il problema sociale del sedicesimo secolo non era un problema di salari ( perché poche persone dipendevano interamente dal salario per vivere ), ma di fitti e di corrispettivi per concessioni, di prezzi e di usura, questioni che riguardano il piccolo proprietario o il piccolo mae­ stro artigiano quanto il salariato » . In secondo luogo, è certo possibile che molti di coloro che vivevano in parte o in tutto di pagamenti in natura non abbiano risentito dell'aumento dei prezzi nella misura indicata dalla figura 1 2 , basato su pagamenti in moneta. È anche possibile scoprire che i salari di alcuni lavo­ ratori aumentarono di più del livello dei prezzi : il che è vero per il Belgio del sedicesimo secolo, dove, tuttavia, circostanze particolari connesse ad un'emigrazione di massa e alla crisi eco­ nomica avrebbero contribuito a tenere alta la domanda di lavo­ ratori specializzati. Quando tutte le tarature sono state fatte, rimane però sem­ pre vero che nella maggior parte d'Europa una preoccupante riduzione del tenore di vita fece del lavoratore comune, sia in città sia in campagna, la vittima principale della rivoluzione dei

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I l ribasso dei livelli d i vita nel Seicento.

prezzi . Ciò è esemplificato dalla fig. 1 3 , che illustra per il sedi­ cesimo secolo il rapporto fra prezzo del grano, prezzi industriali e salari in sei paesi europei. La lentezza della dinamica salariale fu dovuta a diverse cause, e forse la più rilevante fu l'aumento della forza-lavoro dovuto all'incremento della popolazione, ma in termini politici il risultato fu dovunque lo stesso. Uno degli aspetti che più colpiscono in questo secolo di mutamenti e di crisi fu la crescente insubordinazione delle classi più umili. Ed è un esercizio relativamente facile mettere in relazione le grandi esplosioni sociali del periodo con momenti nei quali un disastro inaspettato, come il duro inverno del 1 565-66 o gli scarsi rac­ colti successivi al 1 594, resero completamente insopportabile la vita per chi solo con un miracolo era riuscito a sopportarla .

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La terra e la rivoluzione dei prezzi. Capitale unità di ricchezza in Europa non erano i metalli preziosi bensì la terra e furono proprio i mutamenti nei prezzi e nell'utilizzazione della terra a rendere memorabile per i con­ temporanei l'inflazione del sedicesimo secolo . Nel 1 549, nel suo Discours of the Common Weal, Sir Thomas Smith osservò che in questo processo inflazionistico c'era chi ci guadagnava e chi ci perdeva. Ci guadagnavano « tutti coloro che hanno in gestione aziende o fattorie al vecchio fitto, perché se pagano al vecchio tasso vendono al nuovo ; cioè, pagano per la loro terra ben poco e ne vendono i prodotti a caro prezzo » . D'altra parte ci perdevano « tutti i nobili e i gentiluomini e tutti coloro che vivono di fitti o rendite imposte [ cioè fisse ] , o che non lavo­ rano la terra, o che non si occupano di acquisti e vendite ». A causa della diminuzione delle loro entrate fisse, i nobili dovet­ tero darsi da fare per recuperare i loro livelli di reddito, « e perciò i gentiluomini studiano tanto l'accrescimento delle loro terre, l'aumento delle loro entrate e cosi prendono nelle loro mani l 'amministrazione delle fattorie e dei pascoli » . Queste preziose osservazioni sulla situazione inglese non diventavano meno vere se applicate al resto d'Europa. Ma anche se in generale le notazioni di Smith erano valide, egli tendeva a sottolineare troppo il suo ragionamento secondo il quale gli affittuari si avvantaggiavano mentre i proprietari peggioravano . Secondo lui i nobili di campagna, vedendo che le spese di mantenimento di tutta la casa assommano a tanto da non poter in nessun modo farvi fronte, abbandonano la magione e vanno a vivere a Londra in appartamento oppure vicino al castello ; e così passano il loro tempo, alcuni si riducono con un servo o due mentre erano abituati a tenerne quotidianamente in casa trenta o quaranta e a servire in campagna, mantenendo l'ordine e governando fra i vicini.

Anche se è vero che alcuni membri delle classi dominanti videro in questi anni ridursi le loro sostanze, con conseguenze che saranno successivamente prese in esame, non c'è dubbio che la maggior parte si adattò alla situazione dovunque fu possibile

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Parte I. Le strutture

e fece uno sforzo concertato per mantenere il possesso delle sue proprietà. Ne consegul un aumento premeditato dei fitti pagati sia in città che in campagna . Questi aumenti furono unanimemente condannati dai con­ temporanei come puro e semplice arricchimento illecito e usura a sangue freddo. Nel 1 550 lo scrittore inglese Robert Crowley non ebbe dubbi sul fatto che stava puntando il dito contro i veri colpevoli denunciando : i grandi agricoltori, gli allevatori di bestiame, i ricchi macellai, gli uomini di legge, i mercanti, i gentiluomini, i cavalieri, i nobili, di cui non posso dirvi il nome ; uomini che non hanno nome perché sono coloro che agiscono in tutte le faccende che si riattaccano a un lucrc . Uomini senza coscienza. Uomini che non hanno timor di Dio. Sl, uomini che vivono come se Dio non ci fosse per niente ! Uomini che vorrebbero avere tutto nelle loro mani ; uomini che non vorrebbero lasciar niente agli altri ; uomini che vorrebbero essere soli sulla terra ; uomini che non sono mai soddisfatti. Cormorani, gabbiani avidi ; sì , uomini che mangerebbero uomini, donne e bambini, sono loro la causa della sedizione ! Prendono le nostre cose passando sulle nostre teste, comprano le nostre terre tirandocele dalle mani, fanno aumen­ tare i fitti, impongono il pagamento di grosse ( sl, e irragionevoli) somme per ottenere concessioni, recintano le terre comuni ! Non c'è consuetudine, diritto o legge che possa frenare le loro angherie su di noi , di modo che non sappiamo da che parte girarci per vivere .

Gli statisti inglesi, preoccupati per il benessere della comu­ nità, non furono meno rapidi nel denunciare coloro che aumen­ tavano i fitti come la vera causa delle difficoltà economiche del popolo. Eppure per molti proprietari aumentare i fitti era una operazione assolutamente necessaria, del che era convinto anche Smith, lui stesso un proprietario. Gli aumenti dei prezzi li avrebbero notevolmente danneggiati se non fossero riusciti ad aumentare le loro entrate per questa via ( ma quando i fitti erano fissati in accordi feudali scritti anche essa era impratica­ bile ), o in altra maniera entrando sul mercato come produttori per avvantaggiarsi degli alti prezzi agricoli . Sull'aumento di valore delle terre e dei fitti c'è abbondante documentazione. La tendenza però non fu dovunque la stessa, come mostrano gli esempi dalle campagne di Linguadoca dove nel sedicesimo secolo i fitti agrari rimasero all'incirca stazionari,

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aumentando solo all'inizio del diciassettesimo secolo. Ma in altre parti d'Europa il processo di valorizzazione delle terre fu ine­ quivocabile. Dalle cifre relative alla proprietà di Eiderstedt nello Schleswig-Holstein apprendiamo che un fitto di 1 0 ,75 marchi per ettaro di terreno arabile nel periodo 1 526-50 era salito per il periodo 1 576- 1 600 a trentuno marchi ; mentre per gli stessi periodi il prezzo di mercato di un ettaro passò dal numero-indice cento a seicentosessantadue. Ad Altenburg in Sassonia una pro­ prietà venduta nel 1578 per quattromilacento fiorini fu riven­ duta nel 1 6 1 5 per ottomilanovecentocinquanta fiorini. Nel Poitou una terra venduta nel 1 5 3 1 ad un prezzo-indice di cento nel 1 60 1 fu venduta ad un prezzo-indice di cinquecentoventi. In Inghilterra nel decennio 1 550-60 il vescovo Latimer si lamentò che la fattoria presa in fitto da suo padre a 3 sterline l'anno avesse ora un fitto di oltre 16 sterline. « Nella mia epoca » , osservò William Harrison negli anni 1 580-90 « 4 sterline di fitto hanno fruttato fino a 40, 50 e 100 sterline ». Queste asserzioni pos­ sono essere esagerate, ma da ricerche dettagliate i gravami escono confermati . Nell'East Anglia i fitti di terre arabili salirono di sei volte fra il 1 590 e il 1 650, il che non solo è un'indicazione del valore della terra arabile ma anche della sua maggiore rilevanza economica sulle terre a pascolo, i cui fitti nello stesso periodo non aumentarono più di due o tre volte . I proprietari inglesi danno l'impressione di essere stati estre­ mamente efficienti nell'incrementare le loro rendite. Nella pro­ prietà della famiglia Petre nell'Essex, una terra che dava un introito come fitto di 1 .400 sterline nel 1572, ne dava 2 .450 nel 1595 e oltre 4 .200 nel 1 640 . Nel periodo 1 6 1 9-5 1 i fitti ricavati da dodici feudi dei Saviles di Thornhill nello Yorkshire salirono di oltre il quattrocento per cento . Sulle nuove acquisi­ zioni alle proprietà della famiglia Herbert nel Wiltshire i fitti salirono da un indice di cento per il 1 5 1 0- 1 9 a uno di ottocento­ ventinove nel 1 6 1 0- 1 9 , aumentando cioè di otto volte. Nella stessa contea sulle nuove terre della famiglia Seymour i fitti passarono da un indice di cento nel 1 5 1 0- 1 9 a un indice di novecentocinquantuno nel 1 600-09, con un aumento di più di nove volte . Le curve complete dei fitti relativi a questi due casi sono illustrate nella fig. 1 4 . Sarebbe però sbagliato ritenere che gli aumenti dei fitti rappresentassero invariabilmente un guadagno netto, o che gli

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Fig. 14 Aumento degli introiti dell'aristocrazia derivanti da affitti : un esempio dall'Inghilterra.

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affittuari ne subissero sempre le conseguenze. La nobiltà spesso aveva delle forti spese di amministrazione e di mantenimento, cui si poteva far fronte solo con un aumento dei fitti. Inoltre i fittavoli poterono realizzare e realizzarono i loro profitti, so­ prattutto quando avevano qualche mezzo proprio. E poi il rapido aumento dei prezzi di mercato di cereali, carne e lana prove­ nienti dalle loro terre li avrebbe prontamente indennizzati della somma maggiore pagata al proprietario . Nel villaggio di Wigston Magna nel Leicestershire l'ultima parte del sedicesimo secolo fu un periodo di buoni guadagni per i piccoli agricoltori , perché gli esorbitanti aumenti di prezzo dei prodotti alimentari che vendevano sul mercato li indennizzò ampiamente delle altre spese, come fitti o tasse . Questo fenomeno dei prezzi che aumen­ tavano anche di più dei fitti fu cosl ingigantito da un perso­ naggio della « East Frisian Chronicle » ( 1 545 ) di Beninga : « Quando si pensa che il burro, il formaggio e tutto ciò che cresce sulla terra e che un lavoratore deve comprare, costa mol­ tissimo ed è più che raddoppiato di prezzo negli ultimi venti anni, allora non si può dire che le tasse e i fitti siano aumen­ tati nella stessa misura » . Oltre a guadagnare dall'aumento dei prezzi, i piccoli agri­ coltori potevano essere protetti dai fitti esorbitanti dalla durata dei loro contratti di locazione. Per esempio nella Vecchia Ca­ stiglia, come pure a Leopoli in Polonia, per buona parte del sedicesimo secolo i contadini furono almeno in parte protetti da contratti a lungo termine e solo nel diciassettesimo secolo i contratti di fitto furono revisionati e stipulati per periodi molto brevi. Spiegando la situazione della Vecchia Castiglia Bennassar osserva che « la durata dei contratti e la stabilità del fitto non potevano che incoraggiare il contadino a migliorare la sua terra, ma il fatto che per Io meno nel novanta per cento dei casi ne fosse previsto il pagamento in natura non gli permise di assi­ curarsi tutti i vantaggi derivanti dall'aumento dei prezzi » . Il tentativo d i revisionare i contratti e sganciare i fitti da somme prefissate non fu compiuto solo nelle campagne ma anche nelle città. In Inghilterra Crowley si lamentò dei nobili e dei padroni perché « alcuni hanno comprato, altri hanno preso in locazione vicoli interi, rendite intere, file intere di case e perfino intere strade e viottoli, cosl che i fitti sono aumentati ,

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Parte I. Le strutture

alcuni raddoppiati, altri triplicati, altri ancora quadruplicati rispetto ai livelli di questi ultimi dodici anni ». È difficile trovare delle prove a sostegno delle opinioni di Crowley, perché, anche se il costo della vita nelle città, e soprat­ tutto a Londra, può essere stato in aumento, erano all'opera cause diverse dalla semplice cupidigia dei proprietari . Il movi­ mento delle popolazioni verso le città, fenomeno universale in questo periodo, deve avere automaticamente provocato una spinta al rialzo dei fitti fornendo nuove occasioni agli specula­ tori , e lo stesso effetto dovrebbe avere avuto la urbanizzazione della nobiltà di campagna. Quale che ne sia stata la causa, è certo che in città i fitti aumentarono nettamente. Alla metà del sedicesimo secolo a V alladolid, in un periodo in cui la corte era ancora in città, i fitti di case aumentarono nel corso di un decennio da un minimo del cinquanta a un massimo dell'ottanta per cento. A Leopoli, i fitti dei locali usati per il commercio aumentarono fra il 1 500 e il 1 550 fra il centocinquanta e l'otto­ cento per cento. A Parigi, fra il 1 550 e il 1 67 0 , i fitti aumen­ tarono di dieci volte ( anche se bisogna tenere presente che parte dell'aumento può essere stato mangiato dall'inflazione ) . Non sarebbe certo un'esagerazione affermare che la « rivo­ luzione della terra » seguita all'aumento dei prezzi fu anche più significativa della stessa « rivoluzione dei prezzi ». E basta la specificazione di tre motivi per giustificare un'affermazione del genere. lnnanzitutto, la terra protesse in questo periodo i pri­ vilegiati . In Germania, in Francia, in Inghilterra, in Italia i detentori di proprietà e feudi, quei nobili signori i cui terreni producevano frumento, sui cui campi pascolavano le pecore, i cui contadini producevano i generi lattiero-caseari, tennero le loro teste ben al di sopra delle onde dell'inflazione, aumenta­ rono i loro fitti appena possibile o necessario, ma soprattutto incominciarono a sfruttare le loro risorse per trarre tutti i van­ taggi dall'andamento favorevole dei prezzi . Una di queste storie fortunate fu quella della famiglia Seymour, le cui tenute feudali nel Wiltshire fecero registrare un aumento di introiti da 475 sterline nel 1 575-76 a 1 .429 nel 1 6 3 9-40, a 3 .204 nel 1 649-50. L'aristocrazia - o per lo meno la maggior parte di essa - non solo si salvò : essa si trincerò ancora più saldamente e sicura­ mente nella vita politica sia dell'Europa occidentale che di quella orientale. In secondo luogo, in un mondo nel quale la maggior

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parte degli altri valori economici sembrava crollare, la terra dava sicura garanzia e suggeriva a coloro che in delicate imprese finan­ ziarie e commerciali avevano accumulato dei capitali di mettere al sicuro le loro famiglie, comprando una o due proprietà nelle quali trascorrere i giorni del tramonto. La terra ebbe sul piano sociale una funzione conservatrice e insieme dissolvente; pur preservando le vecchie forze sociali essa offriva maggiori possi­ bilità di ricchezza economica e di mobilità sociale a coloro che avevano fatto fortuna in professioni disapprovate dalle classi do­ minanti . Infine, j mutamenti che si produssero sulla terra fecero registrare un numero notevole di perdite. In Inghilterra inco­ minciò a scomparire ( non solo proletarizzandosi, ma anche salendo nella scala sociale ) il piccolo agricoltore indipendente. Sia in Inghilterra che sul continente, anche in regioni come la Svezia con un contadiname relativamente libero, dovunque i mutamenti nei valori agricoli e nello sfruttamento della terra portarono alla espropriazione di parte dei contadini e all'aumento della disoc­ cupazione sia urbana che rurale.

I governi e la rivoluzione dei prezzi.

L'inflazione produsse inevitabilmente le sue reazioni sulla macchina dello Stato . Queste si verificarono attraverso due vie principali : intaccando la stabilità del sistema monetario e ren­ dendo più costosa la conduzione delle guerre, attività principale dei governi . In subordine, potevano nascere delle difficoltà attra­ verso molte altre vie, dal costo delle amministrazioni all'otte­ nimento di un credito, e così via. La stabilità del sistema finanziario non era necessariamente connessa all'affluenza di argento, e i governi avevano svalutato, motivo principale il guadagnarci da tutta l'operazione, anche prima che si facesse sentire l'urto dell'aumento dei prezzi. Ma l'afflusso di argento ebbe un impatto decisivo su questo punto, che intaccò il valore intrinseco della moneta, il cui contenuto argenteo variava da paese a paese. L 'inflazione dei prezzi ebbe come naturale conseguenza una caduta del valore reale delle monete e nessuno ne soffrì di più delle casse regie, i cui introiti scesero. Nel sedicesimo secolo sul continente la lotta per stabilizzare

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Parte I. Le strutture

il sistema finanziario è strettamente collegata alle grandi ondate di argento americano che la Spagna spedl all'estero per finan­ ziare i suoi eserciti . Fu cosl la Spagna a segnare l 'andatura finan­ ziaria in campo internazionale. Già nel 1 557 la caduta dei suoi crediti e la dichiarazione di bancarotta furono la causa della bancarotta anche in Francia, nei Paesi Bassi, a Napoli e a Mi­ lano, rendendo necessaria la pace di Cateau-Cambrésis due anni dopo . Per recuperare insieme la stabilità fiscale e la sua posi­ zione imperiale, la Spagna dové dirottare larghe riserve argentee verso l'Italia e i Paesi Bassi . Anche la Francia fu destinataria di consistenti quantitativi di argento, non solo per via indiretta, col commercio, ma anche direttamente, attraverso i sussidi ver­ sati dalla Spagna alla Lega Cattolica nel decennio 1 580-9 0 . In tutti questi paesi l 'argento incominciò a esercitare un ruolo infla­ zionistico, naturalmente ingrandito ed aggravato dalle incertezze delle continue guerre. In Italia l'argento cominciò ad essere emesso dalle zecche in forma di moneta : solo a Napoli fra il 1 548 e il 1 587 furono messi in circolazione per questa via dieci milioni e mezzo di ducati . Eppure intorno al 1 58 7 solo sette­ centomila ne rimanevano in circolazione, il resto era caduto nelle mani di speculatori e di incettatori , persone comuni che si garan­ tivano cosl da monete di basso valore . In Francia si verificò lo stesso fenomeno. Ci fu prima un'inflazione di monete d'argento, successivamente quando ci furono dei tentativi ( come nel 1 602 ) di !imitarne il valore nominale, incominciarono a sparire dalla circolazione, sostituite da monete contraffatte o svalutate. In queste situazioni erano attivi speculatori stranieri, come affermò nel 1 6 0 1 una relazione proveniente da Lione : « i commercianti tedeschi e svizzeri di questa città, facendosi scudo dei loro pri­ vilegi, stanno ammassando monete da far uscire dal regno » . L a Spagna, fonte di diffusione dell'argento, fu il paese che subl le conseguenze più gravi . Filippo II aveva lottato contro l'aumento dei prezzi senza mai permettersi di svalutare la mo­ neta d'argento o di biglione. Invece Filippo III all'inizio del suo regno permise nel 1 599 l'emissione di biglione senza alcuna parte d'argento . Il governo ci guadagnò da questa operazione, come pure nel 1 602 quando ordinò che la moneta di rame fosse coniata in dimensioni più piccole. Si pensava che il conio di una maggiore quantità di rame avrebbe rimediato negli anni successivi alla penuria di moneta e invece ebbe due principali

II. Mutamento e decadenza

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effetti contrari : una severa inflazione e la quasi totale scomparsa dell'argento dalla circolazione. Il livello dei prezzi raggiunse in Spagna altezze che quasi nessun altro paese d'Europa toccò ; e le monete di rame, invece di quelle di argento, arrivarono a rappresentare oltre il novantotto per cento delle monete circo­ lanti in Spagna nel 1 65 0 . L'Inghilterra fu i l solo paese a mantenere in questo periodo una relativa stabilità finanziaria grazie alla riforma monetaria intrapresa da Elisabetta nel 1560-6 1 , operazione questa che richiese diversi anni per arrivare a compimento, ma che restaurò la fiducia del pubblico nella moneta legale e comportò per la corona anche un piccolo guadagno. Altrove in Europa il valore intrinseco della moneta cadde ripetutamente, quasi da un anno all'altro, per cui, altrettanto regolarmente, i prezzi mostrarono la tendenza ad aumentare e le spese statali a salire a spirale. Introiti fiscali minori in termini reali e maggiore costo delle guerre furono l'infelice destino proprio di tutti i governi nell'età della rivoluzione dei prezzi . Nelle preoccupazioni espresse nel 1 623 da Cranfield, lord Tesoriere, è rispecchiata la situazione finanziaria dei primi Stuart che regnarono sull'Inghilterra : « non potete immaginare in quali ristrettezze mi trovo ogni giorno per le esigenze di spesa di Sua Maestà, alle quali il tesoro non è in grado di far fronte perché sono cosi infinite e molto urgenti » . I n Francia l e guerre della seconda metà del sedicesimo secolo paralizzarono la monarchia che più volte sospese il pagamento degli interessi sulle rendite di Stato e disconobbe i suoi debiti. Quando il Sully fu chiamato al governo il suo primo atto fu quello di sospendere il pagamento dei debiti della Corona, dichiarando in realtà una bancarotta. In Spagna furono il colpo peggiore di tutti le regolari bancarotte di stato ogni venti anni : nel 1557, 1575, 1596, 1 607, 1 627 , 1 647. « La guerra è per lui eccessivamente costosa » , scrisse nel 1597 un francese riferendosi a Filippo II, « e gli fa spendere più di quanto spende ogni altro principe ». Ed era questa una verità lapalissiana perché la Spagna - o piuttosto la Castiglia doveva provvedere a finanziare il più vasto Impero del mondo. Essa diventa per noi più concreta se guardiamo alle spese che costrinsero la Corona all a bancarotta del 1575. In un memo­ randum dell'aprile 1 574 Juan de Ovando valutò le entrate della Corona per l'anno successivo a 5 .642 .304 ducati, dei quali un

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solo milione sotto forma di metallo prezioso era atteso dall'Ame­ rica. A quella data il totale dei debiti della Corona, distinto dalle obbligazioni correnti, ammontava a 73 .908 .27 1 ducati, di cui quattro milioni erano dovuti nei Paesi Bassi. Le cifre non vanno prese cosl come sono, perché altre valutazioni contem­ poranee ne differiscono leggermente, ma l'entità del debito appare del tutto credibile. Caratteristica ironica di tale situazione è che fu precisamente in quell'epoca che i governi europei apparvero decisi a costruire le strutture dell'assolutismo . Per gli oppositori politici degli Stuart e di Richelieu aspetto fondamentale dell'assolutismo fu il tentativo di far fronte alle ristrettezze finanziarie dei tempi aumentando gli introiti fiscali attraverso metodi poco ortodossi . In Francia la crisi politica degli anni dopo il 1630 e in Inghil­ terra la Tirannia degli Undici anni furono entrambe connesse soprattutto con i problemi delle finanze pubbliche. Le rivolu­ zioni del decennio 1 640-50, quando in diverse parti d'Europa le sommosse popolari si diressero contro le tasse considerate l'in­ giustizia più importante sublta, mostrano che quei problemi rimasero insoluti. A quell'epoca la fase della rivoluzione dei prezzi era terminata, ma i problemi che si erano accumulati con­ tinuarono ad affliggere i governi . E l'ironia è nel fatto che nessun governo poteva diventare « assoluto » a meno che non si fosse reso finanziariamente indipendente ; ma l'indipendenza finanziaria non era facile da raggiungere . Certo il periodo peggiore che uno Stato potesse scegliere per rendersi indipendente dai pro· cedimenti parlamentari era un periodo d'inflazione, quando solo col consenso dei governati si potevano aumentare le tasse per far fronte ai costi crescenti del governare.

Verso la crisi del diciassettesimo secolo. Allontanandoci dall'intenso periodo contrassegnato dall'au­ mento dei prezzi ed entrando nel diciassettesimo secolo, ci im­ battiamo in una riduzione della velocità dell'inflazione e in una corrispondente variazione della spinta del sistema economico . Indicatore essenziale di questi mutamenti fu, ancora una volta, la Spagna. In Castiglia alla fine del secolo le grandi crisi scatu­ rite dalla bancarotta e dalla peste posero un brusco termine ad

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un periodo di espansione . In campo politico questo passaggio di epoche fu contrassegnato dalla morte di tre monarchi : Fi­ lippo II nel 1 598, Elisabetta nel 1 60 3 , Enrico IV nel 1 6 1 0 . D i fronte alla Spagna s i apriva un futuro che vedeva, nonostante tutti gli sforzi di Filippo, il consolidamento dell'Inghilterra e della Francia come i due più potenti stati d'Europa. All'interno, in Castiglia iniziava un periodo di regresso demografico; la penisola era presa nella stretta di dif!icili problemi finanziari ; e l 'America, che per tanto tempo era stata un sostegno del tesoro reale, incominciò a far mancare il suo aiuto. Cosi come era stata il simbolo dell'aumento dei prezzi, l 'Ame­ rica divenne ora il simbolo della recessione. Il decennio 1 5 9 1 1 600 f u i l periodo d i massima importazione d i metalli preziosi in Spagna con quasi tre miliardi di grammi di argento e dician­ nove milioni di grammi di oro . Dopo il 1 600- 1 0 ci fu nel corso della prima metà del secolo una rapida caduta delle importa­ zioni di metalli preziosi . La parte spettante alla corona si ridusse da quasi undici milioni di pesos nel 1 6 0 1 -05 a soli seicentomila nel 1 656-60. La diminuzione delle importazioni non specifica che l 'argento avesse finito di giocare la sua parte nella gestione della macchina bellica spagnola. Ancora verso la metà del secolo l'Olivares doveva spedirne in Italia per sopperire alle inesau­ ribili esigenze provocate dalla guerra dei Trent'anni . Il declino dell'argento è significativo perché esso annuncia l 'epoca del rame. In Spagna ci si mosse verso questa direzione già con l'emissione nel 1 599 di monete di semplice rame, e il paese rimase vittima rilevante dell'inflazione causata dal biglione . Cosi mentre l 'argento diventava raro e scompariva, i governi dovevano ricorrere a monete adulterate o del tutto senza argento . Dopo il 1 602 anche in Francia si cominciarono a coniare mo­ nete di rame perché non c'era più argento a sufficienza per le zecche. Dopo che il prodotto delle ricche miniere svedesi di rame incominciò a scorrere abbondantemente, il pericolo di un'infla­ zione da biglione si diffuse in tutta Europa. A Mosca, a Leopoli e a Danzica intorno al 1 620 il valore delle monete aumentò di circa tre volte. In Germania nel 1 63 2 un pamphlettista protestò perché « negli ultimi anni il conio del rame ha provocato grande confusione in Germania e Spagna ». Le vicende belliche che sconvolsero l'Europa centrale non contribuirono certo ad alle­ viare il problema . In Germania la crisi monetaria intorno al

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1 620, conosciuta col nome di Kipper- und Wipperzeit, squilibrò il sistema dei prezzi anche più duramente della guerra stessa. Nella nostra città si dice che è Kipper, ma il vicino Hans , lui dice che è Wipper,

erano le prime strofe di una canzone di allora diffusa a Franco­ forte ( Kipper era un tosatore di monete ). Tosatura di monete, speculazione, guadagni illeciti coniando le monete, furono fra le cause della crisi . Fra il 1 6 1 9 e il 1 622 in Alsazia e nel Brande­ burgo il tallero imperiale aumentò il suo valore reale di cinque volte rispetto a quello nominale, seguito ovviamente dai prezzi dei generi di consumo. Per esempio in Alsazia, fra il novembre 1 6 1 7 e il novembre 1 622, il prezzo del vino sall di oltre il sei­ cento per cento . A Lipsia nel 162 1 -22 i prezzi salirono a livelli che non avrebbero mai superato nemmeno nei peggiori anni di guerra. Nello stesso periodo sull'intero continente si delineò una crisi dell'agricoltura. In Francia, in Inghilterra, in Germania, in Italia caddero i prezzi del grano . Il borgomastro di Lubecca si lamentò perché la contrazione dei mercati e il collasso del sistema creditizio fecero salire, negli anni 1 603-20, il tasso di interesse a « punte certo non cristiane, sconosciute dacché il mondo ebbe inizio » . I l temporaneo abbandono dell'argento era u n indice d i un malessere più profondo. Alla riduzione delle importazioni di metallo prezioso dall'America fece riscontro, nello stesso periodo 1 6 1 0-20, l'inizio di una contrazione nel volume totale del com­ mercio fra la Spagna e le Indie . In senso più stretto ciò significa solo una diminuzione del commercio atlantico, ma la Spagna era anche una potenza europea e mediterranea, per cui quella riduzione rifletteva la posizione della Spagna in Europa. E d'al­ tronde la disorganizzazione del commercio non toccò solo la Spagna, ma interessò l'intera area commerciale europea, com­ preso il Baltico e il Mediterraneo . A partire da questi anni anche l'Inghilterra ( e precisamente dal 1 6 1 6 ) subì una grossa crisi commerciale causata in parte da tentativi sbagliati di rior­ ganizzare l'esportazione dei tessuti, in parte da manipolazioni finanziarie all'estero e dalla decisa concorrenza olandese. Fu du­ rante questa crisi che le strade dell'Europa settentrionale e del­ l'Europa meridionale si divisero. Nelle zone del nord la ripresa

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fu lenta : fra i porti orientali del B altico il solo a continuare ad espandersi fu Riga, mentre gli altri, come Danzica, attraver­ sarono un periodo di relativo declino fino alla metà del secolo. In Inghilterra , invece, nella prima metà del secolo ci furono una serie di crisi che fecero languire periodicamente il com­ mercio e che spinsero nel 1 640 l'ambasciatore veneziano a scri­ vere da Londra che « il commercio di questa città e del reame si sta nell'insieme fermando » . Sulla base di questa documentazione si può ragionevolmente considerare la crisi del 1 620 come un preludio alla crisi che si scatenò verso la metà del secolo. Ma per lo meno nei paesi settentrionali in questi anni difficili fu attuata una riorganizzazione del commercio per cui non ci fu sulla lunga durata alcun declino della forza commerciale. Nel Mediterraneo, d'altra parte, negli anni intorno al 1 620 iniziò un declino economico da cui in realtà non ci si riprese più. In quest'area il decennio 1 6 1 0-20 inaugurò un periodo caratteriz­ zato dalla caduta dei prezzi nelle due principali zone commer­ ciali, la Spagna e l'Italia. Anche se dopo gli anni '20 i prezzi aumentarono per qualche tempo, la direzione complessiva del loro movimento era ormai segnata e le regioni meridionali d'Eu­ ropa subirono nel corso del diciassettesimo secolo una prolungata crisi . Le caratteristiche di questa crisi economica saranno breve­ mente esaminate in seguito, per il momento può bastare rife­ rirne come uno spostamento decisivo dell'equilibrio commer­ ciale. Le esportazioni italiane crollarono, la marina mercantile spagnola si avviò al tramonto. In un'epoca nella quale il com­ mercio estero era una guida sicura, più sicura della produzione industriale, verso il rafforzamento dell'economia questi fatti erano significativi. L'ingresso massiccio nel Mediterraneo di interessi stranieri divenne cosl un fenomeno irreversibile. Già nel sedicesimo se­ colo per nutrire una massa crescente di popolazione si era do­ vuto far ricorso a importazioni di grano dalle regioni setten­ trionali e da quelle baltiche. Dopo la grande carestia di fine '500, il grano delle regioni settentrionali si impiantò stabilmente sui mercati meridionali. Può darsi che nel corso del diciassettesimo secolo le regioni mediterranee, con l'aiuto del grano siciliano, siano riuscite a diventare autosufficienti, ma a quell'epoca le navi straniere avevano trovato altri articoli in cui commerciare : stagno e piombo, legnami e stoffe. Gli inglesi furono alla testa

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di queste attività. Nel porto di Livorno nel 1590-9 1 ci furono sei vascelli inglesi, nel 1 5 9 1 -92 tre, ma nel 1 592-93 sedici. Inoltre gli inglesi avevano acquisito già nel 1 582 il diritto di commerciare liberamente a Malta . Il passo successivo fu verso il Levante, esplorato dalla Compagnia del Levante, fondata solo un anno prima, che nel 1 595 contava quindici navi . Al 1 620 risale l'ingresso nel Mediterraneo di navi da guerra inglesi . Ad esse seguirono non molto più tardi, soprattutto dopo la conclusione della tregua di dodici anni nel 1 609, navi olandesi. Nel 1 6 1 1 gli Stati Generali nominarono il loro primo console per il Levante, e l'anno dopo fu aperto a Livorno il loro primo consolato in Italia. Ironicamente, si può misurare l'andamento dell'espansione olandese attraverso il numero di navi catturate dai corsari algerini : trenta nel 1 6 1 7 , ventidue nel 1 6 1 8 , addi­ rittura ottantadue nel 1 62 0 . Poi venne la grande crisi che costrinse anche le navi straniere a ritirarsi dal Mediterraneo . Nel 1 622 gli algerini catturarono una sola nave olandese, nel 1 623 nessuna. Nello stesso anno il rappresentante commerciale olandese a Costantinopoli scrisse in patria dicendo che erano ormai due anni che non gli venivano inviate istruzioni per la sua attività. Ma quando la crisi fìnl , i mercanti dell'Europa set­ tentrionale si ripresentarono . E la situazione navale del Medi­ terraneo stava cambiando, denotando un importante mutamento nel commercio internazionale: adesso i marinai inglesi ed olan­ desi potevano avventurarvisi senza timore di rappresaglie da parte delle potenze cattoliche. Decadenza del commercio e crisi demografica ( la peste del 1 599 in Castiglia e quella del 1630 in Italia ), erano questi i segni che indicavano che l 'iniziativa in Europa era passata ai paesi del nord, alla Svezia, alle Pro­ vince Unite, all'Inghilterra. Per questi tre paesi protestanti - i soli all'inizio del dicias­ settesimo secolo ad avanzare delle pretese alla supremazia na­ vale - sarebbe seguita un'età dell'oro, ma per motivi differenti . Gli svedesi celebrarono questi anni come il loro più importante periodo di grandezza ; per gli olandesi fu questa un'epoca di espansione coloniale, di consolidamento culturale e di grandezza commerciale; gli inglesi soli dovettero superare nella prima metà del secolo i rigori del governo degli Stuart, ma anche per essi furono questi gli anni in cui furono poste le basi della loro potenza imperiale e commerciale . La Francia, sola fra i paesi

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occidentali, rimase sospesa sulla soglia dello slancio verso la creazione di un Impero, senza mai attraversarla, come invece facevano i suoi vicini protestanti . Ma anche se è possibile parlare già dai primi anni del 1 600 di declino delle regioni meridionali e di destino delle province settentrionali, pure la sostanziale unità dell'Europa rimane a far da freno alle nostre generalizzazioni . I paesi meridionali, nono­ stante tutta la loro decadenza, ci misero un tempo irragionevol­ mente lungo a crollare. Fino agli anni 1 640-50 almeno, la Spagna fu considerata, e a ragione, come il paese più potente del mondo. E se discutiamo della Spagna che crollò alla metà del secolo, dobbiamo pure ammettere che fu seguita poco dopo dalla Svezia e, in maniera meno ovvia, dalle Province Unite. E allora la divisione fra un'area meridionale indebolita e un'area setten­ trionale risorgente non è interpretazione facile a sostenersi come può sembrare, anche se per certi versi - soprattutto econo­ mici - è valida e utile. In realtà, sulla lunga durata, sia l 'Europa settentrionale che quella meridionale parteciparono allo stesso processo di sviluppo. Le divergenze politiche devono essere riportate alla sostanziale unità imposta dalla situazione economica. Una conferma in que­ sto senso viene dalla crisi degli anni 1 620-30, che ebbe una por­ tata internazionale. Ugualmente internazionale fu la crisi a metà secolo . Ora una maniera di guardare a questi avvenimenti è quella di mettere l 'accento sulla tendenza dei prezzi al ribasso negli anni '20 e poi, dalla metà del secolo all'incirca, sulla depressione secolare: a Milano dal 1 6 3 7 , in Linguadoca dal 1 654, a Beauvais dal 1 662, a Danzica dal 1 663 . A questo movi­ mento, che si irradiò inizialmente dai paesi del Mediterraneo (per cui si indicano abitualmente Francia e Spagna come i primi paesi ad avviarsi verso il tramonto ), partecipò tutta l'Europa la cui struttura economica e sociale fu da esso modificata gra­ vemente. Ma una tale interpretazione della storia, in termini di dati quantitativi sui prezzi, può sembrare troppo meccanici­ stica, per cui sono gli aspetti umani e sociali della crisi del dicias­ settesimo secolo che saranno soprattutto esaminati nei capitoli seguenti . Caratteristica rilevante di questa crisi è l 'unità che sembra imporre su tutti i paesi europei, senza badare al livello di sviluppo relativo a ciascuno . Studiando questa crisi come un fenomeno unitario possiamo isolare quei fattori che contribui­ rono a far cambiare la società europea.

III LO SVILUPPO DEL CAPITALISMO

È la fede che rende beati. La fede nel valore mone­ tario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici perso­ nifìcazioni del capitale autovalorizzantesi. Karl Marx, Il capitale, Roma 1973, libro III/2, p. 301

Il XVI e il XVII secolo videro in Europa il passaggio dal­ l'accumulazione primitiva del capitale alla piena pratica del capi­ talismo commerciale. La crescita del capitale mercantile ( piut­ tosto che industriale) è una caratteristica cosi rilevante di questa epoca che molti storici non hanno esitato a definirla « età del mercantilismo » . Sia il termine ' capitalismo ' che quello ' mer­ cantilismo ', posti in rilievo in questo contesto, sono difficili da definire, e paradossalmente né l'uno né l'altro hanno diretto rapporto col periodo in questione, poiché le origini del capita­ lismo si possono vedere molto prima del XVI secolo, e l'apogeo del mercantilismo arrivò soprattutto dopo il 1660. È impossi­ bile comunque guardare all'economia europea senza provare ad usare questi ed altri simili termini di incerta definizione.

Religione e capitalismo: la fine di una controversia. Nel suo L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, pub­ blicato per la prima volta nel 1 904, il sociologo tedesco Max Weber sostenne che le Chiese protestanti, e in particolare quella calvinista, avevano contribuito a creare una concezione della

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vita che incoraggiava il risparmio e lo spirito d'impresa. Ma questa concezione, egli osservava, non creò da sé il capitalismo : [ . . ] Ma d'altra parte non si deve combattere per una tesi cosi pazzamente dottrinaria come sarebbe la seguente : che lo « spirito ca­ pitalistico » ( sempre preso nel senso da noi provvisoriamente dato finora a questa parola ) sia potuto sorgere solo come emanazione di determinate influenze della Riforma o che addirittura il capitalismo come sistema economico sia un prodotto della Riforma . Già il fatto che alcune importanti forme di aziende capitalistiche sono notoria­ mente assai più antiche della Riforma si oppone una volta per sempre ad una tale opinione. Ma si deve porre in chiaro soltanto se ed in quanto influenze religiose abbiano avuto parte nella formazione qua­ litativa e nella espansione quantitativa di quello « spirito » nel mondo e quali lati concreti della civiltà che posa su basi capitalistiche deri­ vino da tali influenze 1 . .

Weber sosteneva che la nuova etica della Riforma aveva inco­ raggiato ulteriori sviluppi del capitalismo, perché coloro che credevano in essa, pensavano che l 'accumulazione di capitali fosse sanzionata da un disegno divino . I vecchi scrupoli del Medioevo verso l'usura e il profitto svanivano così di fronte a una dottrina che poteva giustificare l'arricchimento con i più alti principi morali . Il capitalismo aveva trovato i suoi ideologi : d'allora in poi la borghesia calvinista fu la grande promotrice dell'avan­ zata capitalistica, e i circoli commerciali d'Inghilterra e d'Olanda divennero i suoi alfieri. Le basi molto fragili della costruzione weberiana erano andate demolendosi sotto i colpi della critica quando nel 1 926 R. H. Tawney presentò il suo brillante studio su La religione e la genesi del capitalismo, un'opera che discordava da molte delle premesse di Weber ma che, attraverso un esame della contro­ versia sull'usura e di altri argomenti, finiva per condividerne le posizioni. « Lo " spirito capitalistico " - affermava Tawney è vecchio come la storia, e non fu il prodotto del puritanesimo . Ma in certi aspetti del tardo puritanesimo esso trovò un tonico che rinvigoriva le sue energie e fortificava il suo già gagliardo 1 Max Weber, The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism, 1904 ; trad . it., L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Roma 1945, pp. 91-2.

[ N.d.T.]

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temperamento ». A dispetto delle attente espressioni di questo passaggio, si può dire che Tawney, come altri storici di parte protestante, per qualche aspetto condivideva l 'atteggiamento di Weber. Da allora la discussione delle opinioni di Weber e di Tawney è diventata un'esercitazione cosl comune e obbligatoria per gli studenti di storia che sembra giusto sottolineare che la contro­ versia è stata a lungo sterile e improduttiva sia per gli studenti che per gli storici di professione. Per quanto preziosi e stimo­ lanti siano stati i contributi di quei due grandi studiosi, è bene precisare che nessuno oggi crede che la religione protestante, come tale, giocò un ruolo senza pari nello sviluppo del capita­ lismo europeo . Sebbene in realtà sia da discutere se le tesi di Weber siano storicamente provate, sembra chiaro che in primo luogo è il suo approccio metodologico che deve essere fondamentalmente messo in dubbio . L'idealismo filosofico di Weber faceva sl che lui e i suoi seguaci postulassero un metafisica « spirito » che aveva modificato tutto il corso della storia verso il capitalismo. Pur accettando che un tale « spirito » sia essenziale allo sviluppo ca­ pitalistico, gli storici più recenti hanno rifiutato l'assunto che esso sia un pre-requisito di tale sviluppo . Era il capitalismo, in altri termini , che promuoveva lo spirito capitalistico e non l'in­ verso . Le idee di Marx in proposito sono un valido correttivo di quelle di Weber. Il capitalismo in Weber finiva per essere un atteggiamento mentale : per Marx esso era comunque un modo di produzione, fondato non tanto nelle strutture mentali quanto negli eventi reali della storia. Per Marx il capitalismo si era sviluppato attraverso lo sfruttamento e l'espropriazione delle classi lavoratrici, che avevano contribuito all'accumulazione del capitale nelle mani di una nuova classe protesa verso il futuro. La natura mistificante degli argomenti proposti da Weber, che non era uno storico ma un sociologo, è ben delineata nel seguente brano di Tawney, che riportiamo per esteso. Se per capitalismo s'intende la direzione dell'industria da parte di chi possiede il capitale con lo scopo del proprio guadagno pecu­ niario, e le relazioni sociali che si stabiliscono fra i possessori del capitale e il proletariato salariato che essi controllano, allora il capi­ talismo esistette in grande scala nell'Italia e nelle Fiandre medie-

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vali . Se per spirito capitalistico s'intende la tendenza a sacrificare ogni scrupolo morale al perseguimento del profitto, esso era fin troppo noto a tutti i santi e i saggi del Medio Evo. Fu l'imperia­ lismo economico dei regni cattolici di Spagna e Portogallo, e i non meno evidenti, anche se più solidi, successi delle potenze protestanti, a impressionare gli uomini del tempo, fino agli anni della Grande Armata. Erano città prevalentemente cattoliche le capitali commer­ ciali d'Europa, e banchieri cattolici i re della finanza. Né è più fon­ data l'idea che il protestantesimo favorisse l'atmosfera contraria alle limitazioni imposte alle imprese economiche. Se è vero che la Ri­ forma lasciò libere forze che avrebbero agito come elementi di dis­ soluzione dell'atteggiamento tradizionale del pensiero religioso in materia di problemi economici e sociali, ciò accadde senza precisa finalità e contro le intenzioni della maggior parte dei riformatori [ . . . ] Ritenere che la rinuncia della religione al proprio primato sull'atti­ vità economica e sulle istituzioni sociali sia stata contemporanea alla rivolta contro Roma, significa antedatare un movimento che si compì solo un secolo e mezzo più tardi, e che fu determinato tanto dai cambiamenti occorsi nell'organizzazione economica e sociale, quanto dagli sviluppi nella sfera del pensiero religioso 1 .

Era soprattutto attraverso l'esempio anglosassone che Weber illustrava le sue tesi, e lo stesso Tawney si affidò agli scrittori puritani, in particolare a Richard Baxter, per mostrare quale grande contributo dette la loro dottrina etica al capitalismo. Tuttavia l'esempio inglese non è necessariamente il migliore da adottare solo perché gli inglesi caddero vittime della loro stessa propaganda e cominciarono a credere realmente in ben ripetuti atteggiamenti. Abbiamo, per esempio, un pamphlettista che nel 1 67 1 affermava che « c'è una specie di inettitudine per gli affari nella religione cattolica, mentre all'opposto tra i riformati più grande è il loro zelo, più grande è l'inclinazione al commercio e all'industria » . Una larga parte della letteratura protestante inglese identificò il cattolicesimo con l'ozio, per l 'unica ragione apparente che il clero cattolico non lavorava ( mentre presumi­ bilmente il clero protestante lo faceva), e che i paesi cattoli::i avevano troppi giorni festivi, che tenevano in ozio la gente ( men­ tre è da supporre che nei paesi protestanti vi fosse una continua, 1 R . H. Tawney, Religion and the Rise of Capitalism. An historical Study, Holland Memoria! Lectures 1922, London 1926 ; trad. it., La religione e la genesi del capitalismo, Milano 1967, p. 83 . [N.d.T. ]

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completa applicazione al lavoro, e che poche mani restassero oziose ). In realtà non ci fu, e non avrebbe potuto esserci, tra i paesi europei, una differenziazione sostanziale fondata sulla di­ versità di religione, come poco sopra si sforzava di dimostrare la citazione di Tawney. Gli economisti e gli uomini di Stato cattolici, non meno di quelli protestanti, erano consapevoli che le feste dovevano essere ridotte al minimo, e che si doveva con­ trastare il vagabondaggio, compreso quello del clero. L'ozio e la disoccupazione erano diffusi tanto in Inghilterra quanto in Spa­ gna, se dobbiamo credere all'economista Thomas Mun, che, in­ torno al 1 620, denunciava i suoi compatrioti « per lo sperpero del nostro tempo nell'ozio e nei divertimenti » . Pose mai rimedio l 'etica puritana a queste cattive abitudini, contribuendo così a cambiarle? La domanda non troverà mai risposta adeguata, dal momento che gli storici discordano nel valutare l'influenza dello spirito calvinista in Inghilterra . Facendo uso dei più rigidi cri­ teri, si può persino dimostrare che i puritani, gruppo sempre minoritario, ebbero un vero predominio in Inghilterra solo alla metà del XVII secolo. Dopo di allora si può dire che gli inglesi tornarono alle vecchie abitudini, cosicché, nel 1663, un viaggia­ tore francese avrebbe potuto affermare che gli inglesi erano « per natura oziosi e passavano metà del loro tempo consumando tabacco » . S e prendiamo u n paese più profondamente calvinista come le Province Unite (dove, comunque, oltre metà della popolazione era nel Seicento ancora cattolica), troviamo che l'etica del pro­ fitto non era originariamente associata al calvinismo. Ciò che è qui in discussione non sono tanto le idee di Calvino, per quanto importanti siano state, quanto il reale contributo che lui e i suoi seguaci possono aver dato al rapido accoglimento della pra­ tica dell'usura come fattore-chiave nello sviluppo capitalistico. Generalmente si conviene che il pensiero di Calvino sull'usura restava, nei suoi elementi essenziali, legato alla tradizione, ma che introduceva alcune sfumature che i suoi seguaci avrebbero sviluppato in una teoria più permissiva. Per un secolo o forse più ci fu ben poca traccia che Calvino avesse introdotto qualche sostanziale cambiamento rispetto alla tradizionale posizione cat­ tolica. Di conseguenza, nel periodo più determinante per lo sviluppo della potenza olandese, non ci fu una chiara identifi­ cazione tra la religione ufficiale e lo sviluppo dei metodi capita-

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listici . I teologi si opponevano fermamente ad ogni pratica del­ l'usura che uscisse dai limiti della tradizione medievale. Le deci­ sioni prese nel sinodo generale di Emden del 1 57 1 , nel sinodo provinciale di Dort nel 1574, e nel sinodo nazionale di Middel­ burg nel 1 5 8 1 mostrano una forte opposizione all'usura. Il se­ condo di questi sinodi proibl ai banchieri che praticavano l'usura di accostarsi alla Sacra Mensa . Ancora nel 1 646 abbiamo un rapporto discusso dai più influenti teologi del calvinismo olan­ dese in cui si denunciavano gli alti tassi d'interesse, e gli inte­ ressi sui prestiti ai poveri ; nella stessa occasione si acconsentiva che gli usurai potessero essere esclusi dalla comunione. In verità c 'era anche una posizione discordante dalla Chiesa olandese. Nel 1 63 8 Claude Saumaise pubblicò il suo De Usuris in cui per la prima volta un maestro calvinista andava oltre Calvino nel liberalizzare l'atteggiamento verso il guadagno usu­ rario. L'anno seguente pubblicò De modo usurarum liber. Le sue idee trovarono ancora una forte opposizione da parte del clero, e solo nel 1 658 un sinodo locale, a Leida, disap­ provò pubblicamente « il pregiudizio contro l'usura ». Ma ci volle la mano dell'autorità secolare, quella degli Stati d'Olanda, per stabilire, nel 1658, che di fatto nessun banchiere avrebbe potuto esser escluso dalla comunione, semplicemente per il fatto di praticare l'usura. Vediamo quindi che durante il periodo di maggior sviluppo del calvinismo, il tardo Cinquecento, l'etica capitalistica non era certamente ancora dominante tra i pensa­ tori calvinisti, e i pastori delle Chiese calviniste mostravano di non sapere che la loro religione strizzava l'occhio all'usura. L'assai più tardo accoglimento dell'usura può anche esser dimostrato riportandoci alla Ginevra di Calvino, ma l'esempio che forse più colpisce è quello dell'altro paese più diffusamente calvinista, la Scozia (o almeno la bassa Scozia), che fornisce ancor meno argo­ menti alla tesi che tenta di collegare l'iniziativa capitalistica con la fede di Giovanni Calvino e di John Knox. Il grande vantaggio dell'argomento religioso è che ogni reli­ gione può, con un po' di sforzo, essere identificata con il sorgere dello spirito capitalistico. Werner Sombart ha avuto quindi molte ragioni per sostenere che fu il cattolicesimo e non la religione protestante a giocare il ruolo indicato da Weber. Il sistema delle finanze papali, il pensiero di teologi come s. Antonino da Firenze

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e i l cardinale Caietano, la pratica del capitalismo i n Italia e nella cattolica Anversa, tutte queste cose possono ben adattarsi al­ l 'interno di una tesi plausibile. Similmente H. M. Robertson, nello sforzo di giungere ad una reductio ad absurdum, dall'atteg­ giamento dei gesuiti tedeschi verso la pratica dell'interesse del cinque per cento trae la conseguenza che la Compagnia fu tra i precursori dello spirito capitalistico . Il fatto è che, come Henri Hauser ha già da parecchio sotto­ lineato, il dibattito sull'usura non è necessariamente il punto centrale della discussione. Hauser osservava correttamente che erano due le principali questioni in gioco : quali fossero stati i primi pensatori favorevoli all'usura, e perché alcune nazioni pro­ testanti fossero state più avanzate di quelle cattoliche. Weber aveva confuso le due questioni, sovrapponendo alcuni pensatori - che erano al centro del primo problema - alle nazioni pro­ testanti, che stavano al centro del secondo, e ne aveva tratto la formula puritanesimo = capitalismo. In questo modo parecchie questioni d'indubbio interesse storico, ma distinte, furono con­ fuse per proporre una tesi stimolante ma in fondo falsa . I sostenitori della tesi d i Weber partivano d a due posizioni sbagliate . Essi adottavano un erroneo rapporto di causalità, per­ ché, come scrive H. M. Robertson, « fu lo sviluppo dell'industria e del commercio a promuovere il costume d'una vita operosa, e non l'operosità calvinisticamente ispirata a promuovere l'indu­ stria e il commercio ». Cosl come essi adottavano un inesatto rapporto di successione storica, partendo dalla considerazione delle fortunate iniziative degli inglesi e degli olandesi , per poi risalire indietro alle fortune della loro religione . Il metodo di Weber lasciava qui ampio spazio alla critica, poiché egli assu­ meva l'ideologia di un americano del Settecento, Beniamino Franklin, come prototipo dell'ideologia dei suoi europei del Cinquecento. Uno sguardo al XVI secolo ci può mostrare la completa im­ parzialità di Dio nell'accordare favori economici ad una Chiesa piuttosto che a un'altra . Anche alla fine del Seicento i paesi cat­ tolici non erano sensibilmente più arretrati di quelli protestanti . Quando si siano esaminati i vari fattori connessi con l'espan­ sione commerciale, con lo sviluppo dell'agricoltura e il progresso dell'industria, quando si siano considerate le condizioni dei lavo-

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ratori e la disponibilità di capitali, non c'è dubbio che la religione ci appare come il fattore di minore importanza per lo studio delle origini dell'impresa capitalistica.

Profughi e capitalismo. Jacques Savary, nel suo Dictionnaire Universel de Commerce ( 1 723 ) , dichiarava: Non c'è chi non sappia che Amsterdam è tra le città commerciali più fiorenti del mondo, sia per la quantità di denaro rimessa dai suoi mercanti e banchieri verso tutti i paesi stranieri, sia per il numero quasi infinito di merci di cui son pieni i suoi magazzini e che essa commercia senza posa, su e giù, sino in capo al mondo .

Amsterdam era una città protestante, ma solo formalmente. In realtà era la patria di ogni confessione religiosa, e questa politica tollerante in fatto di fede aveva dato origine alla frase proverbiale : « un'Amsterdam di religioni ». Se i forestieri vi si recavano con grande frequenza era perché la sua liberale politica religiosa permetteva che ognuno si dedicasse in pace ai suoi affari. E non solo in Amsterdam, ma in tutta l'Europa furono i rifugiati, privati della patria e delle fortune, in cerca solo della tolleranza che permettesse loro di prosperare, a promuovere la diffusione del capitalismo . In Inghilterra, in Olanda, in Ger­ mania, in Svizzera, furono stranieri e forestieri che andarono a fondarvi e a far fiorire quelle iniziative che, dai conflitti religiosi, erano stati costretti ad abbandonare nella loro terra. Il fenomeno è più facile da descrivere che da spiegare . Sto­ rici come Brentano hanno sostenuto che il forestiero proveniente da una comunità più progredita è uno straordinario veicolo di iniziative economiche, ed è più adatto a gestire in maniera redditizia gli affari dei suoi ospiti non essendo legato alle loro norme etiche . Era di comune esperienza nell'Inghilterra medie­ vale trovare italiani e fiamminghi al controllo dei settori finan­ ziari ; cosl come nella Spagna del sedicesimo secolo le attività finanziarie erano nelle mani dei genovesi . Amintore Fanfani ha sostenuto che trafficanti e mercanti internazionali « favorirono grandemente la nascita dello spirito capitalistico » per il semplice

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fatto che le loro attività internazionali li rendevano liberi dalle costrizioni morali di qualunque società . Questo ruolo classico dello straniero assume nuova importanza in un'età in cui intere comunità si trasferivano per motivi religiosi . La punta più alta dell'emigrazione religiosa si verificò nella seconda metà del Cinquecento. Nell'epoca della rinascita del cattolicesimo accadde che la maggior parte degli emigrati fosse protestante. La loro fede religiosa non ha in sé molta rilevanza, ed è difficile distinguerli sulla base di considerazioni teologiche, poiché essi tendevano ad oscillare ampiamente tra varie tradi­ zioni religiose . Ciò che è importante è invece l'indubbia influenza che essi ebbero in Europa sulla vita economica e finanziaria. Quando gli emigrati provenivano da ambienti economicamente progrediti tendevano a portare con sé il proprio patrimonio di esperienze e di capacità, e riuscivano cosl a contribuire all'allar­ gamento della tecnica imprenditoriale. I più notevoli contributi furon dati dagli emigrati provenienti da quelle che erano state le due regioni europee più progredite sia industrialmente che commercialmente : l'Italia e i Paesi Bassi meridionali . Gli emigrati italiani avevano diretto i loro passi verso la Svizzera sin dai primi tempi della Riforma e fu Il, soprattutto nelle aree di lingua tedesca, che essi ebbero la maggiore influenza. Venivano per lo più da Vicenza, da Cremona, da Locarno � Lucca, e fu nel campo della produzione tessile che portarono all'estero il maggior contributo . La fortuna economica di Zurigo trovò la sua origine nel lavoro dell'imprenditore locarnese Evan­ gelista Zanino, che fondò la prima industria tessile su larga scala ( soprattutto velluti ) nella Svizzera tedesca. Zanino dominò la vita industriale della città per quasi tutta la fine del Cinque­ cento, passando la maggior parte del suo tempo fuori della Sviz­ zera, in missioni d'affari, mentre i suoi fratelli badavano agli stabilimenti di Zurigo . Morl nel 1 603 . La famiglia Pellizzari, che si era allontanata da Vicenza nel 1 553 , fece fortuna sia a Basilea che a Ginevra, preparando la strada ad altri emigrati. A Ginevra la loro opera fu ben presto superata da altri, come il capitalista lucchese Paolo Arnolfini, che vi era arrivato nel 1 570. La figura più notevole tra i rifugiati lucchesi fu Francesco Turrettini ( 1 547- 1628), che era dapprima arrivato a Ginevra nel 1575. Ma i viaggi e l'avvio dei suoi affari ad Anversa, Fran­ coforte e Zurigo lo occuparono per qualche anno di seguito, e

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fu solo nel 1 593 che egli tornò a Ginevra per fondarvi la « Grande Boutique », la più grossa industria della seta a quel­ l'epoca. Il fatto che i suoi soci fossero imprenditori emigrati come Cesare Balbani e Pompeo Diodati testimonia la grande influenza esercitata dai capitalisti italiani . Il capitale della « Grande Boutique » crebbe nel giro di vent'anni da diciotto­ mila a centoventimila corone. Turrettini fu senza dubbio il più importante capitalista straniero in Svizzera . I suoi affari si svi­ lupparono nei primi anni del XVII secolo, ma, come altri im­ prenditori, egli fu colpito dalla crisi economica del 1620. La « Grande Boutique » fu liquidata nel 1 627 e sostituita da un'altra azienda in cui i membri della sua famiglia continuarono ad avere larga partecipazione . L'anno seguente, nel marzo 1628, Turrettini morl lasciando una fortuna di oltre duecentomila co­ rone, che lo aveva reso il più ricco imprenditore straniero del paese. La sua ascesa deve essere paragonata a quella di molti altri emigrati europei. Gli italiani furono protagonisti dell'introduzione in Svizzera di nuovi metodi di produzione e di nuovi tessuti ( introdussero la coltivazione del gelso ). In più furono loro a istituire in quel­ l'area l'impresa su larga scala, e liberarono, fino a un certo punto, la Svizzera dalla dipendenza economica dei paesi vtcmt . Sebbene nel paese i metodi capitalistici fossero già esistenti, gli italiani andarono più in là, aprendo un varco nel sistema cor­ porativo, fondando una nuova organizzazione industriale e isti­ tuendo società commerciali. L 'influenza italiana negli altri paesi d'Europa fu limitata, perché pochi furono gli emigrati che andarono oltre la Svizzera. In Inghilterra, che era i l luogo d'esilio subito dopo più popo­ lare, gli italiani costituivano la più piccola di tutte le comunità straniere. Essi furono attivi nella Germania meridionale, ma più come mercanti di passaggio che come imprenditori stabili . A Lipsia, per esempio, sembra che, nel periodo 1 55 1 - 1 650, un solo grosso commerciante italiano ne abbia preso la cittadinanza. In Inghilterra gli italiani più importanti preferirono fare più i finanzieri che gli imprenditori . Orazio Pallavicina, un genovese d 'origine ma completamente inglesizzato, si distinse intorno al 1 570 a Londra e ad Anversa come uno dei più ricchi finanzieri d'Inghilterra, con legami familiari nei Paesi Bassi, in Spagna e in Italia. Egli trattò grossi prestiti a favore di Elisabetta nel

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1578 ; in seguito, fu nominato cavaliere nel 1587 dopo aver reso all'Inghilterra grossi servigi finanziari sul continente, e morì nel 1 600 lasciando circa 100 .000 sterline. Questi pochi cenni sottolineano un fatto su cui non ci sarebbe bisogno di attirare l'attenzione : che soprattutto gli italiani furono gli ambasciatori del capitale finanziario, un ruolo che ricoprivano fin dal Medioevo e dal Rinascimento . I loro nomi sono una legione : il fiorentino Lodovico Diaceto, che fece e perse la sua fortuna nelle guerre di religione in Francia; i Bonvisi di Lucca, imprenditori che fiorirono per tutto il XVI secolo, traendo la loro fortuna soprattutto da Anversa e Lione, dove andarono in rovina nel 1 62 9 ; l'altro lucchese Zametti, che divenne il più grosso banchiere di Enrico IV di Francia, e il cui figlio diventò vescovo in quel paese. Essi servirono tutti i governi e tutti i paesi. Gli italiani impiegarono la loro abilità imprenditoriale per lo più in Svizzera, mentre gli olandesi furono attivi in tutta l'Europa. La loro diaspora fu provocata soprattutto dal deca­ dimento del commercio di Anversa. Alcuni partirono solo per rifarsi una fortuna ( con il risultato che molti emigrati erano cattolici ), e li possiamo trovare all'estero anche prima che la rivolta olandese colpisse la città ; ma la parte più consistente se ne andò in conseguenza della situazione religiosa e della rovina abbattutasi sull'economia cittadina con la guerra . Alla fine del Cinquecento tutte le città più importanti della Ger­ mania occidentale avevano una forte rappresentanza di capita­ listi fiamminghi e valloni. A quel tempo le aziende straniere a Costantinopoli erano da 15 a 25 portoghesi, circa 40 italiane e 60 olandesi . Dovunque andassero in Germania, sia i mercanti che gli artigiani trovavano grande difficoltà a farsi accettare dalle co­ munità che li ospitavano . Significativo il caso di Francoforte, che insieme ad Amburgo fu il più grande centro di emigrazione olandese, e dove proprio per questo ebbe inizio la discrimina­ zione. I mercanti furono colpiti da due leggi, una del 1 58 3 che vietava agli esuli l'acquisto di case senza il permesso del Con­ siglio di città, e una del 1 586 con la quale si stabiliva che nes­ suno potesse ottenere la cittadinanza, a meno che non fosse entrato con un matrimonio a far parte della famiglia di un cit­ tadino . A loro volta gli artigiani furono colpiti da severe restri-

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zioni corporative, che regolavano le condizioni a cui avrebbero potuto prestare lavoro o iniziare la propria attività . Non c'è da sorprendersi che per molti olandesi Francoforte diventasse un luogo di breve sosta . Le loro vicende mostrano che il talento economico degli emigrati non dappertutto trovò subito una buona accoglienza . Nonostante ciò è assai chiara l'importanza del contributo che i rifugiati dettero alla vita di Francoforte. I belgi ( possiamo chiamarli cosl dal momento che provenivano quasi esclusiva­ mente dal sud dei Paesi Bassi ) vi affiuirono in gran numero, raggiungendo la punta massima nel 1 560 e nel 1 56 1 , quando arrivarono duemila e più emigrati per anno . Malgrado tutti gli ostacoli, un gran numero di essi riusd ad ottenere la cittadi­ nanza, tanto che negli anni 1 554-6 1 ben il 3 8 ,4 per cento dei nuovi cittadini era costituito da belgi . La maggior parte di questi nuovi cittadini proveniva dalle aree industriali di lingua francese dei Paesi Bassi. Di quanti ottennero la cittadinanza fra il 1 554 e il 1 5 6 1 quasi l'ottanta per cento erano valloni. A Francoforte giocarono ben presto un ruolo di primo piano nei settori di lavoro a cui erano stati avviati . L'attività più rappresentata era l'industria tessile: quasi il quarantasette per cento dei belgi che erano cittadini di Fran­ coforte nel 1 56 1 , erano occupati in uno dei due rami di quel­ l 'industria. La produzione della seta fu introdotta dai nuovi arrivati, che divennero anche i più grossi trafficanti di quasi tutte le merci di maggior consumo. I più importanti commer­ cianti di droghe furono Johann Heuss e Jacob Bernoully, di Anversa ; il commercio dello zucchero fu dominato dalla famiglia de Hamel, di Tournai, ma un posto di primo piano avevano anche Anton e Daniel Meerman, di Anversa ; il più importante gioielliere di Francoforte era Daniel de Briers, ancora di An­ versa, come pure da questa città provenivano i più ricchi orafi e argentieri, come Mertens, Hensberg, Moors e Ufieln. Dovunque andarono in Germania gli emigrati lasciarono il segno . Fondarono Frankenthal, come centro specificamente indu­ striale, nel 1 562, Neuhanau nel 1597, Mannheim nel 1 607 . Il maggior contributo lo dettero più che nel settore manifattu­ riero ( che abbracciava soprattutto l'industria tessile), nel settore del capitale mercantile, in cui troviamo dappertutto finanzieri di Anversa, uomini come Louis de Behaut ad Amburgo, God-

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fried Houtappels, Simon de Decker e Jean Resteau a Colonia, come gli Heldewiers a Francoforte. Il ruolo-chiave dei mercanti di Anversa nel commercio tedesco, un ruolo che non era pro­ porzionale al loro numero, è ben rappresentato nella fig. 1 5 , che indica le aree di origine dei mercanti e negozianti stranieri che ottennero la cittadinanza di Lipsia nel periodo 1 5 5 1 - 1 65 0 . In questo periodo, dei mercanti olandesi - senza contare gli altri che esercitavano mestieri differenti - solo dieci otten­ nero la cittadinanza di Lipsia, in contrasto con il gran numero di mercanti di altri paesi cui invece fu concessa. Sei di quei dieci erano arrivati negli anni 1 555- 1 590 : erano i facoltosi mer­ canti Dominicus Breun, Marcus Mertens, Sebastian van der Velde e Hans Cuvelier, di Anversa ; Heinrich Cramer von Clauss­ bruch di Arras e Heinrich von Ryssel di Maastricht. Il loro numero non rende l'idea della loro importanza, che li poneva tra i personaggi di maggior rilievo e di maggior ricchezza nella vita commerciale di Lipsia. Fu a questa piccola schiera che la Sassonia dovette l'avvio dell'espansione capitalistica e industriale del sedicesimo secolo. L'Elettore Augusto adottò un'accorta linea di condotta per attirare gli olandesi : fece venire lavora­ tori tessili per fondare lo stabilimento di Torgau, fornaciai nel 1 566, e dispose concessioni come l'esenzione dalle tasse, di cui ad esempio beneficiò Cramer. Nel 1579 questi fu incoraggiato ad avviare, nella sua tenuta di Menselwitz, presso Lipsia, uno stabilimento tessile che impiegasse operai belgi e che fosse libero dal controllo delle corporazioni . Nel 1588 il primo stabilimento per la lavorazione dell'oro e dell'argento fu fondato da von Ryssel e continuò ad essere diretto dalla sua famiglia per quasi un secolo. Di tutti questi imprenditori Cramer, che mori nel 1 599, fu il personaggio più notevole, poiché ai suoi tempi egli fu il più ricco cittadino di Lipsia, il più potente mercante della città e fu inoltre il fondatore delle manifatture della lana nella Sassonia-Altenburg. L'importanza dei belgi andò anche più lontano. Il più grande dei condottieri, Wallenstein, ebbe come consigliere finanziario ed economico un fiammingo, Hans de Witte, di cui è stato documentato il ruolo che ebbe come primo imprenditore nelle iniziative capitalistiche avviate a Friedland, nelle tenute di Wallenstein, e come finanziatore della nobiltà cèca e dell'impe­ ratore. Nato ad Anversa intorno al 1583 , de Witte - che

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Mercanti stranieri in rapporti d'affari con Lipsia, dal 1551 al 1 650.

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Origine

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Tu ringia

Polonia

inccrla

Bautzen

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4

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13

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104

Lubecca e StetliM

Brunswick

Amburgo

Vestlaha

Paesi Bassi

Ji.ilich

Colonia

Francoforte

Alsazia

WUrttemberg

Baden

Palatinato

Augusta

Wi.irzburg

Bamberg

Norimberga

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rimase sempre calvinista - arnvo a Praga circa nel 1 600, e vi costruì la sua fortuna in società con altri esuli, trovando il suo momento d'oro nel 1 620, dopo la battaglia della Montagna Bianca. Fu determinante per la sua opera la partecipazione di alcuni suoi connazionali. Uno dei suoi primi collaboratori a Praga fu l'emigrato vallone Jean Matieu. L'elenco dei princi­ pali corrispondenti bancari di de Witte in altri centri europei è una vera e propria rassegna dell'emigrazione : c'erano suo cugino Arnold de Witte ad Anversa, l'italiano Giulio Cesare Pestalozzi ad Augusta, l'influente emigrato olandese Daniel de Briers a Francoforte, Walter de Hertoge ad Amburgo, Anton Frey-Aldenhoven a Colonia, e il famoso mercante di Anversa Abraham Blommaert a Norimberga . Questi esempi hanno sottolineato solo l'impiego di capitale mercantile che si irradiò da Anversa . Ma oltre a questo è neces­ sario sottolineare che dai Paesi Bassi meridionali si esportarono anche tecniche e iniziative industriali . L'Inghilterra, che era un posto di rifugio assai vicino, ne beneficiò largamente. Dagli anni intorno al 1 550 le comunità di rifugiati in quel paese comincia­ rono ad assumere dimensioni notevoli . Fu stimato che durante il 1 568 siano sbarcati a Londra 6 .704 profughi, di cui 5 .225 pro­ venienti dal sud dei Paesi Bassi : si può non fare affidamento sui numeri, ma le proporzioni sembrano ragionevoli. Alla fine del Cinquecento i commercianti e i lavoratori tessili costituivano a Londra oltre il trentacinque per cento di tutti i rifugiati ; nel 1 635 la percentuale era salita al sessantotto per cento. Al di fuori della capitale il luogo di maggior insediamento era Nor­ wich, una città che trasse così chiaro beneficio dall'attività degli emigrati che un contemporaneo poté descrivere il loro contri­ buto in questi termini : In primo luogo introdussero quassù un bene di grande utilità, e cioè la costruzione delle dighe [ . . ] ancora - grazie alle loro risorse la nostra città è ben abitata, e le case in rovina sono state ricostruite o riparate [ .. ] ancora - vangano e scavano una quantità di acri di terra , vi piantano il lino e ne traggono panni, dando lavoro a molta gente [ ] ancora - vangano e scavano grandi campi di tuberi, che aiutano a vivere i poveri [ . ] ancora - vivono del tutto a lor spese, non chiedono niente a nessuno, e mantengono tutta la loro povera gente [ ] . .

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Sono ben noti i numerosi contributi dati dagli immigrati, l'introduzione dell'incisione del vetto, di nuovi tipi di ceramica, la fabbricazione dei pizzi e cosl via. Bisognerebbe ricordare, in generale, quanto facilmente e comunemente l'uso del vocabolo ' olandese ' da parte degli inglesi contemporanei celi il fatto che esso si riferisce ai belgi e agli abitanti di Anversa : il telaio multiplo ' olandese ' - ad esempio - che fu introdotto verso il 1 560 e che rivoluzionò la tessitura ; i mercanti ' olandesi ' , come John Carré ( di Anversa ), che introdusse i n Inghilterra gli artigiani del vetro ; i diciotto finanzieri ' olandesi ' - quasi tutti provenienti dal sud dei Paesi Bassi - che furono arrestati per inadempienze finanziarie nel 1 6 1 8- 1 9 e da cui prese il via quel notevole ru olo che avrebbero avuto i banchieri ' olandesi ' nella finanza londinese ; e ancora le chiese ' olandesi ' innalzate dagli immigrati fiamminghi. Un trattato del 1577 commentava così la situazione : A causa dei conflitti sortl m altri paesi, la costruzione di dighe [ . . . ] e i manufatti di lana sono molto più diffusi in Inghilterra [ . . . ] . Per questo motivo noi dobbiamo favorire gli stranieri che ci hanno insegnato tante cose utili [ . . . ] perché noi inglesi siamo non tanto buoni inventori, quanto buoni discepoli degli altri .

Gli « stranieri », bisogna notare, non erano sempre dei rifu­ giati . Un esame dell'anno 1 5 7 3 , per esempio, ci rivela che più della metà degli stranieri che entrarono in Londra quell'anno, vi erano andati più per motivi economici che religiosi . Per la stessa ragione nella generale maggioranza di immigrati prote­ stanti si potevano trovare alcuni cattolici. Per finite fu soprattutto straordinario il contributo degli esuli di Anversa allo sviluppo di Amsterdam e dell'economia delle Repubbliche d'Olanda. Se il numero degli emigrati dal sud dei Paesi Bassi è certamente significativo, il loro apporto fu importante soprattutto per qualità e per funzione. Amsterdam divenne immancabilmente il loro principale traguardo . Oltre il trenta per cento di coloro che ottennero la cittadinanza di Amsterdam negli anni 1 5 7 5- 1 606 venivano dal sud, e degli immigrati meridionali oltre il cinquanta per cento in questo periodo veniva dalla sola Anversa . Tra gli immigrati vi erano nomi che vennero subito annoverati tra i più illustri nomi del

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nord : Johan de Brauw e François Fagel fiamminghi, Frans van Aerssen di Bruxelles, Daniel Heinsius di Gand, Louis Elsevier di Anversa, Gomarus di Bruges, Justus Lipsius di Overijssel. Ma fu la presenza di finanzieri e di magnati del commercio e dell'industria che realmente contribul a trasformare il poten­ ziale economico delle Province Unite : uomini come Louis de Geer di Liegi, lsaac Lemaire di Tournai, Balthasar de Mouche­ ron di Lovanio, Willem Usselincx di Anversa, e ancora una ventina che venivano da Liegi ( come Trip e De Besche ), da Anversa ( come Heldewier, Della Faille, Dirck van Os e Balthasar Coymans ) e da altri luoghi del sud. Chiaramente il loro contributo si mosse, innanzi tutto e soprattutto, nella sfera del capitale mercantile. Nel 1 6 1 0 dei trecentoventi più grossi correntisti della Banca di Cambio di Amsterdam, oltre la metà proveniva dal sud. Verso il 1 63 1 si stimò che un terzo dei più facoltosi abitanti di Amsterdam fosse d'origine meridionale. Un quadro simile poté fornirlo Rotterdam, dove uno dei più ricchi e influenti commercianti della città fu Johan van der Veken, un cattolico di Malines . Tutte le grandi imprese dell'espansione commerciale e coloniale olandese furono capeggiate da uomini del sud. Fu per esempio Olivier Brunei, di Bruxelles, che gettò le basi dei traffici olan­ desi verso il Mar Bianco ; Balthasar Moucheron divenne il primo e il principale promotore delle spedizioni verso il Polo Nord e la Nuova Zemlia ; Lemaire e van Os furono i due maggiori azionisti della Compagnia delle Indie Orientali, questa pietra angolare della ricchezza olandese; Usselincx fondò la Compagnia delle Indie Occidentali, che riusd quasi a conquistare il Brasile all'Olanda. Ma forse l'influenza di questi uom1m si ripercosse ancora più chiaramente sulle fortune dell'industria olandese. Anversa e il sud furono le centrali della rapida espansione di quelle industrie che erano necessarie al successo commerciale. L 'indu­ stria tessile fu la maggiore beneficiaria, dal momento che gli emigrati si spostarono da Hainault e dalle Fiandre verso Haar­ lem, Leida e Middelburg. Essi fuggivano non soltanto per mo­ tivi religiosi ma anche perché la guerra e l'arresto del commer­ cio nel sud aveva colpito le industrie e tutte le loro fonti di sussistenza. Intere comunità e intere industrie si trasferirono al nord. Quasi nello spazio di una nottata grandi centri indu-

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striali del sud si spopolavano. Haarlem tolse alle province meri­ dionali la sua industria dell'imbianchimento dei panni, Leida la sua produttiva industria tessile . Furono introdotte nuove attività artigianali, come la lavorazione dell'oro e dell'argento : dei trentotto orafi che divennero cittadini di Amsterdam nel 1585, ventotto venivano dal sud. Se consideriamo i principali mestieri dichiarati all'atto di ottenere la cittadinanza di Amster­ dam nel periodo 1 575-1 606, troviamo che venivano dal Belgio il ventidue per cento dei commercianti di tessuti, il trentacinque per cento dei fabbricanti di tessuti, e quasi il trentacinque per cento dei mercanti . Queste cifre ci danno in parte l'idea della perdita sofferta dal Belgio in seguito alla guerra, e del grande guadagno fatto dalle Province Unite . L'opera di Anversa non si fermò Il, poiché dalle loro nuove sedi settentrionali i belgi estesero la loro influenza su tutta l'Europa occidentale. In Francia gli ' olandesi ' si stabilirono per lo più a Parigi, come pure nella cittadella del protestante­ simo francese, La Rochelle. Lo storico francese Mathorez non esita ad affermare che « il XVII secolo [ cioè gli anni 1 5981 685 ] fu il grande periodo della penetrazione olandese in Fran­ cia » . Ma che olandesi erano questi ? Di loro il più importante, più volte impiegato da Richelieu come agente finanziario, fu Jan Hoeufft, non un olandese ma un meridionale del Brabante, che aveva abbandonato la sua patria e si era naturalizzato fran­ cese nel 1 60 1 . Suo fratello Mattheus si stabili ad Amsterdam come banchiere, e aiutò cosi la Francia ad attingere credito nella capitale olandese. L'incarico di prosciugare le paludi fu affidato in Francia ad un altro uomo del Brabante, Humphrey Bradley, e solo grazie all'ingente capitale che questi investi l'impresa poté avere inizio . Nessun altro finanziere ' olandese ' del primo Seicento eguagliò questi due belgi per ampiezza di investimenti, anche se ce ne furono altri, come la famiglia Meerman, che fondò attive raffinerie di zucchero a Bordeaux, o come la fiorente famiglia Crucius, di La Rochelle. Mathorez suppone che fossero olandesi, che non dovettero quindi entrare in conflitto con la ben nota posizione di controllo che gli ' olan­ desi ' esercitavano sul commercio estero di quei due grandi porti francesi. La famiglia Crucius era originaria di Hainault, in Belgio, e i Meerman erano mercanti di Anversa, ed avevano, sia gli uni che gli altri, ampi interessi non solo in Francia, ma

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anche in Germania, con una solida base a Francoforte. È inte­ ressante notare che uno degli emigrati in Francia in quel trava­ gliato periodo era un artista, quasi certamente belga, di nome Noel Bernard, il cui nipote Samuel rifiutò di seguire la tradi­ zione del padre e del nonno per dedicarsi invece ad attività finanziarie, grazie alle quali diventò infine il più grosso e il più ricco banchiere di Luigi XIV. Il successo di Samuel Bernard ben rappresenta la grande importanza dei finanzieri belgi nella storia di Francia. Non solo la Francia ma l'Europa intera fu aperta agli im­ prenditori belgi . Possiamo prendere come esempio la famiglia Marcelis . Gabriel Marcelis fuggì da Anversa durante la guerra, si stabill ad Amburgo ed intrecciò legami d'affari con Amster­ dam e Copenaghen . I suoi tre figli Gabriel, Celio e Pieter scel­ sero Amsterdam come base dei loro affari, e di ll estesero i loro interessi all'Europa settentrionale, curando in particolare affari con le industrie di munizioni . Il più giovane, Gabriel, divenne negli anni Quaranta uno dei principali banchieri del governo danese, e nel 1 645 contribuì all'armamento di una flotta contro la Svezia . Celio servì il governo danese come imprenditore e fornitore di armi, mentre Pieter ebbe interessi nelle ferriere di Moscovia. Le loro pur vaste iniziative furono superate al di là del mare, in Svezia, da quelle di un altro belga, Louis de Geer, di Liegi . De Geer ( 1 587- 1 652 ) fu uno dei capitalisti più importanti del secolo . Benché fosse nato a Liegi, dal 1 596 fu educato nelle Province Unite, e si spostò ad Amsterdam nel 1 6 1 5 . De Geer iniziò la sua carriera come finanziatore di imprese militari, fa­ cendo prestiti alla Svezia, all'Inghilterra e alla Francia, e con­ tribuendo a pagare le armate di Gustavo Adolfo e di Mansfeld in Germania . Dopo il 1 620 si trasferì in Svezia, dove continuò a finanziare Gustavo Adolfo e nello stesso tempo cominciò a far sviluppare gli stabilimenti minerari svedesi, per i quali fece arrivare lavoratori valloni . Finanza, miniere e munizioni erano i tre pilastri del vasto impero di de Geer. Nel 1 645, quando la Svezia entrò in guerra con la Danimarca fu lui che andò in Olanda a mettere insieme e ad equipaggiare una flotta sotto la bandiera svedese. Navigando verso il Baltico, dopo un insuccesso iniziale, la flotta sbaragliò quella danese, che a sua volta era stata in parte allestita con il denaro dell'olandese Marcelis .

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L'esempio dell'emigrazione dall'Italia e dai Paesi Bassi è chiaro. Ci furono aree economicamente avanzate che, al tra­ monto della loro vita, seminarono e suscitarono nel mondo, nella giusta stagione, nuovo progresso, nuove industrie, nuova valorizzazione di capitale. Anche gli emigrati da aree meno svi­ luppate ebbero, comunque, una parte significativa nello sviluppo del capitalismo . Gli ugonotti provenivano da una regione non particolarmente progredita, e dettero scarso contributo di inno­ vazioni tecniche, tuttavia la loro presenza fu dovunque ben accetta come uno stimolo di progresso. La prima grande ondata di emigrazione si ebbe in Francia alla fine del XVI secolo. La stragrande maggioranza di questi emigrati, circa il novanta per cento, aveva abitato nelle città e tra loro i lavoratori industriali erano i più numerosi. Conosciamo i mestieri e le professioni di più della metà dei nuovi arrivati elencati nel Livre des Habi­ tants di Ginevra. Di questa metà, il sessantotto per cento nel 1 549-60 era costituito da operai, in maggioranza addetti al set­ tore tessile. Negli anni 1 572-74 oltre un quinto dei lavoratori di cui si conosceva il mestiere era costituito da operai tessili, e ancora nel periodo 1 585-87 quasi un terzo era formato da operai tessili e artigiani, che complessivamente costituivano il cinquantasei per cento del totale. Queste cifre fanno compren­ dere che un'ampia ed attiva forza-lavoro era stata introdotta in Ginevra . Il risultato fu un indubbio stimolo per l'industria della città, da cui trassero beneficio Turrettini ed altri capita­ listi . Erano tre in particolare i mestieri che i rifugiati contri­ buirono a sviluppare . L'orologeria fu introdotta a Ginevra in questo periodo dagli artigiani ugonotti, e continuò ad essere affidata alle mani dei lavoratori di questa nazionalità. L'emigra­ zione in massa di artigiani non poteva non riguardare anche il settore tessile. Infine l'industria ginevrina del libro ricevette un impulso eccezionale dalle centinaia di stampatori e di librai che erano fuggiti dalla Francia. Anche un'altra parte della Svizzera, forse in minor grado, beneficiò dell'emigrazione francese. L'in­ dustria dei merletti, per esempio, fu introdotta a Basilea nel 1 5 7 3 da Antoine Lescailles, un rifugiato della Lorena. Contri­ buti come questi vennero da una minoranza religiosa che si era dedicata alle attività economiche perché le era stata negata la possibilità di raggiungere alcun potere sociale e politico. Una spiegazione simile può essere fornita per l'indubbio sti-

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molo che fu dato dagli ebrei al capitalismo. Gli ebrei, messi al bando dalla cristianità, furono per lungo tempo associati all'idea dell'usura, una pratica che, pur essendo vietata ai cri­ stiani, sembra fosse agli ebrei permessa proprio perché estranei al cristianesimo . Come tali gli ebrei non erano limitati dalle norme sociali : prosperavano ma in conseguenza erano odiati . Nonostante che ovunque ci si servisse di loro come fossero indi­ spensabili alle imprese finanziarie, gli ebrei furono però ripe­ tutamente cacciati da molti paesi d'Europa nel XV e nel XVI secolo ; la più imponente di queste operazioni di espulsione si svolse nel 1 492 nei territori spagnoli . Durante il XVI secolo furono in continua migrazione come molti seguaci delle sette ereticali cristiane, ma in alcune città commerciali furono accolti liberamente. Nel Seicento i più ricchi centri commerciali del­ l'Europa occidentale, Amsterdam, Amburgo e Francoforte erano anche le città con le più grandi comunità ebraiche. Inevitabil­ mente i contemporanei - non meno di economisti come lo storico tedesco dell'Ottocento Werner Sombart - furono pronti a notare che doveva esserci un legame tra il genio ebraico e il progresso economico . Per quanto insostenibile possa essere questa tesi, la storia delle imprese degli ebrei nell'Europa occidentale di questo periodo, fornisce indubbiamente materia al dibattito . In alcune contrade d'Europa, come a Roma ( dove nel 1 592 c'era una popolazione di quasi tremilacinquecento ebrei ), questi erano ancora in buona misura ridotti al loro ruolo medievale di usurai . Nelle città del nord in via di sviluppo, invece, essi avevano un ruolo preminente nel campo dell'impresa capitalistica . In An­ versa si erano affermati, grazie ai loro legami in Spagna e in Portogallo, come una delle più utili comunità di affari . Benché con ripetuti decreti si fosse tentato di espellerli all'inizio del XVI secolo, continuarono ad operare, naturalmente non come « ebrei » ( dal 1 492 ciò non sarebbe stato possibile in un paese controllato dalla Spagna), ma come ebrei convertiti, conversos o marranos, nome con cui erano conosciuti al nord. Quando si ebbe la grande emigrazione da Anversa, anche essi partirono . L'azienda di Felipe Dinis, ad esempio, stabilita ad Amburgo, si era spostata da Anversa negli anni intorno al 1 560. Forse il più noto dei marranos fu in questo periodo Marcus Pérez ( 1 527-72), di origine spagnola, che doveva diventare uno dei

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principali finanziatori di Guglielmo il Taciturno. Egli fuggl da Anversa nel 1 566 e si trasferl a Basilea, dove cercò, con risul­ tati piuttosto scarsi, di introdurre nuovi sistemi industriali . Una prova dell'importanza dei marranos è data dalla costituzione, nel 1 653 , di un comitato che doveva stabilire se si potesse per­ mettere loro di tornare ad Anversa ; la conclusione fu che « poiché essi svilupperebbero il commercio ben oltre i limiti attuali, gran beneficio ne verrebbe per tutto il paese » . L a riemigrazione degli ebrei verso la Germania , l e Province Unite ed altri paesi, risolse solo alcuni dei problemi della comu­ nità. Anche nelle città dove furono « liberamente » accolti, tro­ varono severe restrizioni . Cosl Amburgo e Francoforte avevano dei ghetti in cui gli ebrei furono confinati . Inoltre essi erano soggetti a notevoli limitazioni nell'esercizio dei diritti civili, cosicché, ad esempio, era piuttosto raro che ad un ebreo fosse concessa la cittadinanza. Anche nella numerosa comunità di Amsterdam, i documenti indicano che dal 1 575 al 1 606 solo sette ebrei portoghesi ricevettero questo privilegio. In Amburgo dovettero essere concordate speciali condizioni perché gli ebrei potessero risiedervi e lavorare. Una volta superati questi osta­ coli, gli ebrei prosperarono . A Francoforte divennero un'attiva parte della vita commerciale della città, fino a quando la rivolta di Fettmilch, nel 1 6 1 2 , non mise a sacco il quartiere ebraico . Ad Amburgo e ad Amsterdam i più ricchi membri della comu­ nità erano ebrei portoghesi, commercianti che mantenevano i loro legami con la penisola iberica , permettendo cosl ai nord­ europei di penetrare utilmente negli Imperi d'oltremare della Spagna e in particolare del Portogallo . Ad Amburgo i marranos trattavano una gran parte delle importazioni dai paesi iberici. Delle sedici aziende importatrici di spezie, undici erano porto­ ghesi . Complessivamente, dei quarantuno mercanti che importa­ vano dal Portogallo, diciotto erano ebrei, il più importante dei quali era il ricchissimo Ruy Fernandez Cardoso. In Amsterdam gli ebrei giocarono un ruolo molto meno importante di quanto solitamente viene loro attribuito. Non più tardi del 1 63 0 ci si accorse che nella città c'erano stati soltanto un migliaio di ebrei, nessuno dei quali ricco in maniera rilevante. Molti vi erano giunti da Anversa, altri dal Portogallo. I commercianti ebrei contribuirono allo sviluppo delle manifatture della seta, all'im­ portazione dello zucchero dal Brasile e alla sua raflinazione, ed

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ebbero una parte notevole nel commercio dei gioielli e dei dia­ manti . Operarono anche attivamente nel settore della stampa, dal momento che Amsterdam era l 'unico paese d'Europa in cui si potessero liberamente pubblicare testi ebraici . Il successo forse più rilevante degli ebrei nel Seicento fu di permettere agli interessi olandesi di infiltrarsi nelle terre portoghesi del Brasile settentrionale, e per qualche tempo anche di possederle. In altre parti d'Europa gli ebrei ebbero un ruolo modesto. In Inghilterra ce n 'era una piccola comunità molto tempo prima che Cromwell concedesse loro il diritto di entrare legalmente nel paese. A Londra la prima comunità del XVI secolo faceva capo ai rappresentanti della ditta Mendes di Anversa. Nel 1 550 gli ebrei di Londra erano circa un centinaio. Nel 1 625 un pam­ phlettista poteva affermare che « c'è una quantità d'ebrei in Inghilterra, pochi a corte, molti in città, e più ancora in cam­ pagna » . Sotto Cromwell e dopo di lui , gli ebrei stabilirono in In­ ghilterra una notevole rete di relazioni nel mondo della finanza, ma qualunque possa essere stato il loro contributo, non furono un insostituibile fattore nella formazione del capitalismo. È vero che essi godevano di preziosi legami internazionali, particolar­ mente tra i membri della loro stessa razza, sviluppando così la natura essenzialmente internazionale dello sviluppo capitalistico . Ma in ciò essi non fecero niente di più degli altri rifugiati di quell'epoca . Quale fu la funzione degli altri finanzieri stranieri, piccoli gruppi, in particolare di italiani, che fiorirono alle corti europee ? Questi uomini hanno poca o nessuna importanza in questo nostro quadro. I banchieri genovesi e fiorentini della Santa Sede, nel tardo Cinquecento, i finanzieri della Corona spagnola - Gri­ maldi, Centurioni, Spinola, Pallavicina - dettero scarso contri­ buto allo sviluppo capitalistico o industriale. Contribuirono, come i loro predecessori, allo sviluppo del credito. Del resto essi erano creature del passato, membri ormai di una classe di rentiers, vaganti per le anticamere dei principi meridionali nella vana speranza di recuperare i loro crediti insoddisfatti, finché ad uno ad uno nel corso del secolo furono soffocati dalla bancarotta. La persecuzione delle minoranze razziali e religiose ebbe un effetto non proporzionale al numero di rifugiati che vi furono coinvolti. Dai centri industriali dell'Italia settentrionale, dalla

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ricca metropoli di Anversa, dai ghetti della Spagna e del Porto­ gallo, dalle manifatture rurali della Francia, un'ondata di self­ made men, provati da lunghe avversità e privati infine della patria, se ne andarono a vivere tra stranieri e a esercitarvi il loro considerevole talento. In questo flusso possiamo vedere rappresentato 1 quasi visivamente il passaggio della leadership capitalistica dall'Europa cattolica a quella protestante . Il fatto che molti degli imprenditori fossero calvinisti, come Turrettini, Marcus Pérez, de Witte e de Geer, fu una circostanza determi­ nata dall'ambiente da cui provenivano o da quello in cui cerca­ vano rifugio. Durante il secolo XVII la loro importanza per il capitalismo sarebbe stata citata anche nei paesi cattolici come prova che la tolleranza religiosa era un pre-requisito necessario dell'espansione economica .

Moneta e capitalismo. La moneta giocò un ruolo relativamente poco importante nella vita dei popoli europei . Il baratto e lo scambio avevano ancora troppa importanza in alcune regioni, e in intere zone (come in Svezia) la moneta metallica non era ancora usata come mezzo di scambio . La ragione principale di ciò era che le comu­ nità agricole continuavano ad essere autosufficienti rispetto ai bisogni domestici . Fu solo quando l'economia cittadina fu col­ legata alle aree rurali e quando divenne necessario il commercio esterno che si cominciò a sentire la necessità della moneta come unità di scambio. Anche allora ci furono due importanti fattori che influirono sulla funzione dei metalli preziosi nell'economia . In primo luogo la gente comune raramente vide o tenne tra le mani una moneta di oro o d'argento ; per lo più essi trafficavano con monete di scarso valore, con unità di rame o di altri metalli vili di cui erano fatte di solito le monete spicciole . La circola­ zione dell'oro e dell'argento era rigidamente limitata e tendeva a concentrarsi nelle mani di un ristretto numero di commercianti . In secondo luogo, il credito può sicuramente aver giocato un ruolo più ampio rispetto al pagamento in contanti nelle attività ordinarie dei produttori agricoli . D'altra parte noi troviamo la 1

Si veda la fig. 22, p. 547.

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forma di un'economia monetaria o in denaro liquido, ma siamo ancora molto lontani dal vederne la realtà. Questo quadro generale può essere arricchito di particolari, almeno per certe parti d'Europa. Solo quando le sue miniere di rame cominciarono a far scorrere la loro ricchezza anche la Svezia cominciò ad avere una quantità di metallo sufficiente a dar vita a un sistema monetario. Frattanto i contadini pagavano i loro debiti con prestazioni di lavoro e ricevevano il loro salario in natura piuttosto che in denaro . La proporzione delle entrate in contanti sia dei contadini che dei signori era molto esigua nella maggior parte delle aree agricole europee. Il vescovado di Olomouc in Boemia, per esempio, nel 1 6 3 6 traeva il suo red­ dito quasi esclusivamente da tre fonti : produzione agricola, prestazioni di lavoro e tasse in natura, ( solo occasionalmente in contante ). Nel Beauvaisis, in Francia, ai mietitori e ai vignaiuoli nel Seicento erano dati il vitto e un piccolo compenso in mo­ neta : non si parlava qui di monete d'oro o d'argento. Gli operai tessili nelle aree rurali si dovevano talvolta accontentare solo di un pezzo di stoffa che loro stessi avevano tessuto. I debiti dei contadini nel Beauvaisis erano pagati in natura o col lavoro. Altrove, nella Francia rurale del Cinquecento, anche le classi più alte non avevano dimestichezza col denaro contante. I casi - che ci sono noti - di commercianti del Poitou, di Lione, di Tolosa, mostrano che era eccezionale la conversione delle ricchezze in moneta. Ciò che contava era la terra o l'accumula­ zione di crediti, ed era B che sembra fossero dirette tutte le energie. È proprio nel Beauvaisis che possiamo osservare il fun­ zionamento del credito agrario. I contadini indebitati erano soliti firmare dichiarazioni giurate di debito su strisce di carta, e le strisce servivano a rappresentare capitale, da vendere o da trasferire secondo la richiesta. Coesistente con questo mondo ancora primitivo era un appa­ rato sempre più sofisticato di capitalismo finanziario. La com­ mutazione delle rendite feudali in moneta, l 'espansione indu­ striale, il commercio e i mercati, la caduta della proibizione dell'usura, tutto ciò significava che la moneta andava assumendo una funzione più importante nella vita della comunità. Così il volume monetario crebbe sensibilmente in questo periodo. Per un verso crebbe come effetto della crescita della popolazione, di una maggiore domanda e di una maggiore velocità di circo-

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lazione. Ma crebbe anche in senso assoluto, e possiamo qui richiamare l'indiscutibile argomento delle importazioni di oro e di argento in verghe dall'America all'Europa, avvenute non solo attraverso i canali ufficiali cosi attentamente elencati da Earl J. Hamilton, ma anche per vie clandestine, come il con­ trabbando e la pirateria . Ci possiamo anche rifare alle numerose coniature, riconiature e adulterazioni del periodo, tutte cose che miravano ad ottenere una maggiore circolazione di moneta. La distribuzione di questo denaro era, come abbiamo visto, limitata alle classi urbane commerciali o più elevate, ed era esclusa in generale dalla vita della gente comune e delle zone rurali . In questo secolo di inflazione, anche per questi ultimi la moneta andava rapidamente diventando una significativa realtà. Lo sviluppo più interessante nell 'economia monetaria del Cin­ quecento fu la manipolazione del capitale per mezzo del credito . Il credito come tale non era una novità, e non ottenne i suoi più grandi trionfi che molto dopo questo periodo, ma fu solo i n questo momento che l e attività dei finanzieri cominciarono a seguire nuove prospettive nell'utilizzazione del capitale. Per dirla con Marx « le due caratteristiche immanenti al sistema credi­ tizio erano per un verso di dare maggiore incentivo alla produ­ zione capitalistica [ . . . ] , e d'altra parte di costituire la forma di transizione di un nuovo modo di produzione » . Marx si rife­ riva al sistema creditizio moderno, ma le sue osservazioni hanno ugual valore nel contesto del nostro periodo, quando il credito forni uno strumento essenziale allo sviluppo capitalistico, ren­ dendo innanzi tutto più mobile il capitale e facilitando gli inve­ stimenti, poi dando la possibilità ai più grossi manipolatori del credito, agli uomini della borghesia, di accumulare beni nelle loro mani, a spese delle classi rurali e della nobiltà. Il meccanismo del credito variava moltissimo da paese a paese. Al livello più basso rimase tra le attività degli usurai . Nell'Inghilterra del XVI secolo, ha osservato Tawney, « la mag­ gior parte degli usurai erano, nei distretti rurali, fattori, piccoli proprietari o gentiluomini, e nelle città mercanti, bottegai, com­ mercianti di sete, sarti, venditori di stoffe, merciai, droghieri e altri simili negozianti ». Non aveva ancora preso piede la con­ centrazione delle attività usurarie nelle mani di un piccolo gruppo specializzato. Il maneggio del denaro restò soprattutto a coloro che, come gli orefici e i commercianti di tessuti, erano

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originariamente collegati con mestieri individuali . All'occasione, comunque, furono proprio queste due categorie di commercianti che abbandonarono il loro mestiere appena crebbe il volume delle transazioni puramente monetarie. Una professione che nel tardo Cinquecento divenne molto importante nel mondo della finanza fu quella dei notai, che in origine lavoravano al servizio degli altri con il compito di curare gli affari e le questioni legali, ma che, per la loro indispensabilità, in un momento di espan­ sione commerciale e in cui la terra cambiava sempre più fre­ quentemente di proprietario, cominciarono a concludere essi stessi una quantità di affari e divennero i principali operatori monetari . Tutti quelli che, per motivi di lavoro, erano impegnati in questo genere di operazioni finanziarie, tendevano a trattare in moneta reale ; in particolare vi erano interessati gli orefici, ai quali nella storia inglese si attribuisce solitamente di essere stati i predecessori dei moderni banchieri . Nel XVI secolo comunque tutti gli agenti monetari, non solo gli orefici , presero parte a transazioni monetarie, non soltanto facendo prestiti, ma accet­ tando anche depositi di denaro liquido . Nel 1 660 un contempo­ raneo avrebbe riferito che « gli orafi in Lombard street [ . . . ] hanno la stessa natura dei banchieri di Amsterdam, poiché oggi­ giorno custodiscono i denari di molti grandi mercanti di Lon­ dra ». Questo sistema di deposito presso agenti privati è stato praticato in gran parte dell'Europa occidentale, molto prima del 1 550, ed ebbe due importanti sviluppi . L'accettazione di depositi indicava chiaramente che gli agenti erano ora diventati banchieri privati. Inoltre dove i banchieri non addebitavano il servizio di deposito, essi tendevano ad investire il denaro in pre­ stiti, in maniera moderna. Un depositante che richiedesse il suo capitale poteva riaverlo in contanti o, come spesso avveniva, sotto forma di credito e, per aumentare la sua fiducia nel ban­ chiere depositario, poteva essergli concessa un'apertura di credito . L'estensione dei servizi di deposito e di credito fu una caratte­ ristica essenziale delle banche private, che fiorirono più nella loro patria, nei paesi del Mediterraneo, che nell'Europa setten­ trionale. La vera natura delle banche private era fonte di insicurezza. Il loro capitale era piccolo, e i depositi erano usati per specu­ lazioni molto rischiose. Cosi la pratica del credito era molto precaria, poiché bastava qualche voce insistente a provocare

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una corsa al rlttro dei depositi e quindi il crollo della banca. Nel caso di un banchiere che operasse sui cambi internazionali una crisi dovunque, ad Anversa o in Spagna, avrebbe trascinato molte aziende private in un crollo rovinoso. Cosi accadde nel­ l'Europa continentale quando la monarchia spagnola, nel 1 557 e negli anni successivi, non riconobbe i suoi debiti . L'incertezza del credito colpiva non solo i grossi finanzieri ma anche tutti i piccoli commercianti che in Francia, in Germania, in Olanda e in Italia non potevano difendersi . Un uomo di Stato come il Contarini asseriva, nel 1 584, che delle centotré banche che erano esistite nella sola Venezia, novantasei avevano fatto una brutta fine. In Francia le guerre di religione accelerarono il disastro . Nel 1 575 c'erano ancora a Lione quarantuno banche ; nel 1 580 ce n 'erano una ventina , nel 1 592 solo quattro . Gli anni 1 578-79 dovettero essere particolarmente disastrosi, se solo in Spagna e in Italia si registrarono venti bancarotte tra i mag­ giori banchieri . Dietro la crescente richiesta di istituzione di banchi pubblici premeva soprattutto l'incertezza finanziaria provocata da questi crolli. Le aziende del primo Cinquecento si erano chiamate « pubbliche » , ma solo nel senso che avevano ottenuto una licenza dalle pubbliche autorità. Verso la fine del Cinquecento molte vecchie fondazioni bancarie assunsero una posizione più chiaramente pubblica . Nel 1 586 la Casa di San Giorgio di Genova cominciò ad offrire servizi di deposito pubblico; altre banche fecero lo stesso a Venezia e a Messina nel 1587, nel 1597 a Milano, nel 1 605 a Roma. Nei territori della Corona aragonese servizi di banco pubblico erano esistiti fin dai primi del Quattrocento, in particolare a Barcellona e a Valencia, ma in questo momento nacquero a nuova vita. La caratteristica essenziale di un banco pubblico era di essere a disposizione sia dei clienti privati che del governo, anche se la maggior parte del loro capitale era « pubblico » o municipale . A Valencia per esempio la Taula o banca fungeva sia da tesoreria che da ammi­ nistrazione delle finanze cittadine. Dal momento che la parola d'ordine dei banchi pubblici era sicurezza piuttosto che spirito d'iniziativa, avveniva che il credito fosse concesso raramente. Malgrado ciò si ebbe un'evoluzione promettente, che portò nel 1609 alla fondazione di un pubblico banco di cambio ad Amsterdam.

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La debolezza delle banche private e l'insufficienza del cre­ dito offerto dalle banche pubbliche fece sl che la finanza specu­ lativa andasse altrove a cercare i suoi profitti. In questa situa­ zione si inserirono i mercanti-banchieri ( che già si erano affer­ mati in età medievale ) . Sebbene all'epoca fossero generalmente qualificati « banchieri », essi erano più propriamente financiers, dal momento che i loro traffici si svolgevano in denaro, merci e crediti, e raramente si servivano per le loro operazioni dei servizi bancari e di deposito . Cominciarono come piccoli capi­ talisti, negoziando in merci, ed estesero le loro attività al cambio internazionale del denaro, che era necessario all'espansione del commercio . Poiché non erano possibili trasferimenti internazio­ nali di denaro liquido, si fece ricorso al trasferimento di crediti, e Io strumento principale che venne usato a questo scopo fu la cambiale. La cambiale fu il più importante mezzo di credito che si offra alla nostra attenzione. Originatasi e largamente usata in epoca precedente, fu definitivamente accolta nel mondo finan­ ziario alla metà del Cinquecento. Cosi osservava nel 1 543 il finanziere di Anversa Jan lmpyn : « Non si può commerciare senza cambiali, come non si può navigare senz'acqua » . Comun­ que, spesso le cambiali del Cinquecento avevano poco a che fare con il commercio . Per dirla con Tawney, la cambiale « era stata usata nel Medioevo soprattutto come strumento di paga­ mento dei debiti internazionali, ed era stata emessa in contro­ partita di beni reali . Ciò che faceva lambiccare e andare in bestia moralisti e uomini di Stato del Cinquecento era che il suo uso si andava estendendo da strumento di pagamento delle importazioni a strumento di anticipazioni e di apertura di cre­ diti, senza alcun passaggio di merci » . Una cambiale anticipata ad Anversa, ad esempio, per essere pagata a Lione entro tre mesi, avrebbe potuto costituire semplicemente una transazione finanziaria, un prestito . Sotto due importanti aspetti, comunque, ciò poteva significare più di un prestito ordinario. Innanzi tutto l'indicazione di un periodo di tempo per il pagamento significava che il credito si andava estendendo . Inoltre, sebbene il paga­ mento a Lione fosse esattamente per la somma prestata, i costi della transazione cosi come la differenza del tasso di cambio si sarebbero aggiunti e accumulati alla cambiale, fino a quando non fosse stata soddisfatta. Questo creò chiaramente un mer-

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cato di capitali in cui trovavano posto sia il credito che l 'usura (i « costi » ), anche se in forma dissimulata. I finanzieri pote­ vano in questo modo prestare e prendere in prestito denaro dovunque in Europa, e farci sopra ottimi affari. « In altri ter­ mini - per citare ancora Tawney - la circolazione cambiaria assicurava il flusso del capitale per tutto il mondo commerciale, metteva le riserve del mercato nazionale e di quello europeo a disposizione di qualsiasi azienda di una certa importanza, e forniva un conveniente canale di investimento ai mercanti e ai banchieri che volessero lucrare alti interessi su prestiti a breve termine » . Ciò che impresse a l mercato monetario una notevole solle­ citazione - e fu la ragione principale dell'apparizione di grosse case come quelle dei Fugger, dei Grimaldi e degli Herwarth fu l'insaziabile richiesta di denaro che veniva dalle monarchie dell'Europa occidentale. L'intervento dello Stato nel mondo della finanza incoraggiò i finanzieri a riunirsi in cartelli per far fronte alle sue richieste : la tendenza, qui come nel mondo com­ merciale e dell'industria, era verso la concentrazione e il mono­ polio . Le grandi ditte come i Fugger e i Welsers erano , come ha dimostrato Ehrenberg, non tanto imprese familiari quanto società di capitalisti che investivano il loro denaro nell'azienda in cambio di un certo tasso d'interesse. Questa associazione di capitali permise guadagni eccezionali . Il finanziere genovese Niccolò Grimaldi, che iniziò la sua car­ riera nel 1 5 1 5 con ottantamila ducati, aveva aumentato nel 1 5 7 5 questo capitale ad oltre cinque milioni ; i l patrimonio dei Fugger, che ammontava nel 1 5 1 1 a 1 9 7 . 7 6 1 fiorini, arrivò nel 1 527 a 2 . 0 2 1 .202, con un profitto annuale di oltre il cinquantaquattro per cento . Essere creditore dello Stato era chiaramente un van­ taggio, specialmente quando questa posizione di favore permet­ teva in qualche modo di controllare le entrate del governo e la sua politica commerciale. Personalmente, inoltre, i finanzieri po­ tevano salire - e salirono - nella scala sociale : i Fugger ad esempio diventarono prìncipi dell'Impero . Ma lo svantaggio di essere troppo strettamente collegati con lo Stato divenne per­ fettamente chiaro dopo il crollo internazionale del 1 557 . In particolare furono fatali ai finanzieri le bancarotte della Corona spagnola. Nel 1557 Filippo II non adempì il pagamento di debiti correnti per un ammontare di sette milioni di ducati,

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nel 1575 la somma compromessa si aggirava sui quindici mi­ lioni . In ogni caso il debito non era annullato, ma piuttosto si consolidava : ai finanzieri dovevano essere corrisposte quote an­ nuali ad un certo tasso, fino all'estinzione del debito . Tutte le municipalità e i governi d'Europa ( con la rilevante eccezione dell'Inghilterra ) usavano questo metodo per far fronte ai debiti che non potevano pagare. Il fenomeno contribuì alla distru­ zione delle grandi case finanziarie, ma fu anche all'origine di un nuovo fenomeno : il debito pubblico . Nel '500 la maggior parte dei governi era indietro nel paga­ mento dei debiti e immancabilmente spendeva le sue entrate con un anticipo di uno, due anni, o più ancora. Benché questa fosse una pratica comune, non fu mai considerata con favore, e ministri come Sully s'interessarono prima di ogni altra cosa di ridurre le spese e di pareggiare il bilancio . Nel corso del XVI secolo i paesi economicamente più progrediti si erano andati accorgendo che un debito considerevole non era neces­ sariamente un passivo . Nel 1 620 un ambasciatore veneziano scriveva dalle Province Unite : « la provincia d'Olanda ha un debito di quaranta milioni di fiorini, per cui paga il sei e un quarto per cento d'interesse. Potrebbe facilmente sbarazzarsi dei suoi debiti aumentando le tasse, ma non sarebbe la stessa cosa per i creditori dello Stato. Ho sentito dire che i commer­ cianti hanno tanto di quel capitale disponibile che lo Stato potrebbe ottenere da essi tutto quello che gli serve ». Il debito pubblico in questo caso era considerato un solido investimento dai creditori dello Stato . Scrivendo nel 1 67 3 Sir William Tempie notava che l'ampliamento del debito pubblico era così popo­ lare in Olanda che « chiunque era ammesso a investirvi il suo denaro, lo considerava un grande onore, e quando si liquidano tutte le quote del capitale, quelli a cui spettano le ricevono con le lacrime agli occhi, non sapendo come investirle ad inte­ resse con la stessa sicurezza e facilità » . Lo sviluppo del debito pubblico ebbe due importanti con­ seguenze. Diede origine nel XVI secolo ad una notevole classe di rentiers, proveniente soprattutto dalla borghesia, e rinforzò anche la stabilità finanziaria e politica dei governi, rimandando ogni liquidazione degli arretrati del fisco, e legando più stretta­ mente i creditori al regime. In Spagna, che grazie al suo dispen­ dioso programma imperiale era arrivata a mandare in deficit il

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suo bilancio, le pubbliche annualità o juros divennero il sostegno dell'ordine sociale . Col passare degli anni, il debito pubblico si accumulò, mentre la possibilità di un rimborso completo si allon­ tanò più che mai nel tempo. Sebbene la crescita del debito pubblico sia un esempio del­ l'estensione del fenomeno del credito, il risultato di fondo di un simile ricorso al credito era improduttivo ed estraneo ad una logica capitalistica. Il denaro fu immobilizzato , investito in istituzioni, e servl solo a mantenere una classe di rentiers. Quando il volume degli affari finanziari lo richiese, la fonda­ zione di una banca pubblica di nuovo tipo sembrò di gran lunga più vantaggiosa. Il risultato fu la fondazione, nel 1 609 , della Banca di Cambio di Amsterdam, che forniva servizi di cambio e di deposito e, dal 1 6 1 4 , di credito. La Banca di Amsterdam, che in seguito sarebbe stata citata come un modello per le altre nazioni, godette di una solidità molto apprezzata da chi vi aveva investito i suoi soldi, ma la sua funzione principale fu la pro­ mozione di iniziative commerciali, industriali e finanziarie. Essa aveva 708 depositanti nel 1 6 1 1 e 2 .698 nel 1 70 1 . I depositi aumentarono dai 925 .562 fiorini del 1 6 1 1 ai 1 6 .284.849 del 1 700. I più grossi capitalisti di Amsterdam, in particolare quelli con interessi internazionali, erano compresi in queste cifre. Il grande meccanismo a cui la Banca era collegata era quello del capitalismo commerciale, per servire il quale fu resa disponibile una gran massa di capitali . Esisteva certamente un patrimonio in oro ed argento che poteva far fronte a qualsiasi richiesta di credito, ma l'ammontare delle transazioni monetarie, la loro portata internazionale, e la velocità con cui erano realizzate, rese possibile costituire un fondo di credito che non dipendeva dal puro e semplice denaro liquido in modo cosl essenziale come in altri centri commerciali d'Europa .

Commercio e capitalismo. La formazione del capitale dipendeva principalmente dal commercio . Il grande aumento dell'attività finanziaria e delle iniziative bancarie non era che il riflesso dell'espansione del commercio. La ricchezza di Amsterdam traeva la sua ortgme non dal mondo speculativo dei cambi ma dal concreto mondo

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del commercio e dei profitti che esso creava. Ogni attività eco­ nomica in Europa era diretta a fini commerciali, e fuori d'Europa era ancora di commercio che si occupavano gli europei. Lungi dall'essere una semplice preoccupazione economica, il commercio divenne cosl importante da attirare l'interesse quasi ossessivo dello Stato, per il quale finl per diventare sinonimo di potere. Le nuove forme di commercio che si svilupparono nei secoli XVI e XVII avevano da superare un terribile numero di osta­ coli. I mercati erano per necessità ancora piccoli e ristretti. Il trasporto, sia per terra che per mare, era lento, e le merci depe­ ribili trovavano un mercato limitato dal fattore tempo. Con strade cattive e specialmente in tempo di guerra, il commercio via terra era rischioso . Il trasporto per mare o per fiume era il più sicuro per merci voluminose, ma i disastri naturali e la pirateria rendevano egualmente vulnerabile questo metodo di trasporto. « Non è di solito un buon affare trasportare grano per mare » - si lamentava nel 1 5 9 1 il mercante Simon Ruiz di Medina del Campo - « ho visto perderne una gran quantità in questo modo » . Il tempo non era un affare meno vitale della pura e semplice perdita : quando dal Baltico il grano raggiun­ geva le sue destinazioni nel Mediterraneo, negli anni subito dopo il 1 590, era già vecchio di un anno, e, in periodi più brevi di questo, poteva rovinarsi, come talvolta accadeva. La diffi­ coltà di portare merci a grande distanza via terra dipendeva non solo dalla natura ingrata del suolo e dall'insufficienza delle strade, ma anche dalla mancanza di una efficace forza motrice, essendo i cavalli o i muli i principali animali da tiro . Anche quando le strade furono migliorate ( sia per scopi militari che commerciali ) e furono costruiti canali, i mercati non ne furono ampliati in maniera apprezzabile. Insomma non ci furono inno­ vazioni tecniche tali da superare le vecchie barriere di tempo e di spazio . Le barriere umane non erano di minore impedimento . Dal punto di vista politico e fiscale l'Europa dell'ancien régime era un gran cumulo di giurisdizioni che interferivano continuamente sul libero transito del commercio . È probabile che una strada o un fiume che attraversassero i territori di diversi nobili signori avessero tanti caselli daziari quanti erano i territori attraversati. Alla fine del '500, viaggiando dalla sua città a Colonia, il mer­ cante Andrea Ryff, di Basilea, contò non meno di trentuno bar-

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riere doganali che le merci avrebbero dovuto superare su questo percorso . L'Elba nello stesso periodo aveva quarantacinque posti doganali, mentre il Danubio ne aveva settantasette solo nella Bassa Austria. Nel 1 567 lungo la Loira e i suoi tributari si pagavano duecento pedaggi, raccolti in centoventi differenti loca­ lità . Nel XVII secolo, sul Rodano, nel breve tratto che andava dalla frontiera della Savoia ad Arles , s 'incontravano quaranta posti di pedaggio . È evidente che tutto questo si accumulava sui costi e sulla distribuzione. A causa di questi ostacoli al commercio interno, ci fu un notevole balzo in avanti del volume dei traffici costieri, cioè del trasporto sui mari esterni. Ciò che contava era navigare, e furono soprattutto gli inglesi e gli olandesi a fare da battistrada. Dal commercio sul mare si potevano trarre notevoli guadagni, anche in acque europee. I costi del trasporto marittimo erano i più bassi. Ad esempio, per mandare luppolo dai Paesi Bassi all'Inghilterra si andava incontro, alla fine del '500, ad una spesa del solo cinque per cento del capitale ; portare un carico di lino da Reval a Lubecca costava nello stesso periodo solo un sei per cento . Sui viaggi più lunghi le spese erano più alte, ma erano pochi i commercianti che li affrontavano, a meno che il profitto non fosse adeguato ai costi. Mandare navi da Anversa a Siviglia rendeva regolarmente alla compagnia di Della Faille profitti del cento per cento, ampia ricompensa della spesa ini­ ziale. Nelle avventure in America e in Asia, naturalmente, i profitti erano così alti da sembrare vertiginosi a noi moderni . Le prime spedizioni in India tornarono con merci che valevano sessanta volte i costi originari . Nel '600 l 'inglese East India Company superava regolarmente profitti del cento per cento ( nel 1 6 1 7 realizzò un profitto del cinquecento per cento ) e Sir Walter Raleigh diceva sul serio quando parlava di un « piccolo affare » riferendosi al profitto del cento per cento di un'impresa coloniale. Il ruolo chiave della marina mercantile nello sviluppo dei mercati ha incoraggiato alcuni storici a considerarla, in un certo modo, paragonabile ad un indice dello sviluppo economico di un paese . Da questo punto di vista il volume del commercio estero, come si può rilevare dalle cifre relative ai trasporti ma­ rittimi, sarebbe un riflesso diretto della produttività. Natural­ mente questa ipotesi può essere seriamente contestata, ma ci

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sono ancora pochi dubbi che le nazioni di più fiorente commer­ cio marittimo fossero, per usare un'espressione superflua e tau­ tologica, economicamente le più attive. Il passaggio alle aree settentrionali della supremazia economica del Mediterraneo ad esempio si può seguire chiaramente lungo le rotte navali . Al­ l'inizio del XVI secolo la potenza di Venezia e della Spagna era ancora incontrastata sui mari interni, e ancora nel 1 5 7 1 a Le­ panto solo loro riuscirono ad opporsi alle avanguardie dell'Islam. Alla fine del '500 - come s 'è già visto - gli inglesi e gli olandesi cominciarono a prenderne il posto sulle rotte commer­ ciali. Il volume del commercio marittimo di Venezia e di altri centri italiani cominciò a declinare, mentre il tonnellaggio mer­ cantile inglese crebbe da un totale di sessantasettemila tonnel­ late calcolate nel 1582, alle 1 1 5 .000 del 1 629 e alle 340 .000 del 1 686. Intorno alla metà del XVII secolo il volume del com­ mercio nel Mediterraneo e verso il Levante venne a trovarsi sempre più in mano agli inglesi . Le cifre del volume di commercio marittimo raggiunto dal­ l'Inghilterra riflettono il rivoluzionario sviluppo, avutosi nel '500, del commercio marittimo e di terra. Venezia e la Spagna, le potenze dominatrici del Mediterraneo, presero parte a questa espansione fino alla fine del '500, benché la Spagna, come vedremo , dirigesse i suoi sforzi soprattutto verso le rotte atlan­ tiche. L'intervento di un nuovo fattore fu rappresentato dalla nascita della potenza marittima olandese, che ben presto superò tutti i suoi competitori . Un segno di questa nuova presenza fu la crescita commerciale di Amsterdam. Nel 1589, subito dopo la chiusura del fiume Schelda, le tasse portuali riscosse ad Am­ sterdam ammontarono a circa 250.000 gulden ; arrivarono al tre­ centodieci per cento di questa cifra nel 1 620, al quattrocento­ ventitré per cento nel 1 63 8 e all'ottocentocinque alla fine del secolo . Per quanto di vitale importanza per le fortune degli olandesi dovette essere lo schiudersi delle vie dell'Oriente, il loro impegno si orientò sempre principalmente verso il Baltico che in questo periodo sostitul il Mediterraneo come centro focale dell'interesse internazionale. Non più tardi del 1666 si calcolava che tre quarti del capitale operante sulla Borsa di Amsterdam era investito nel commercio del Baltico . Nel 1 6 7 1 De Witt defi­ niva il commercio baltico di grano « la fonte e la radice della maggior parte del commercio e della navigazione di queste

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terre » . Questo commercio attirò sul Baltico, nel periodo 1 5621657, 1 1 3 . 2 1 2 navi olandesi, una cifra che comprende solo quelle ufficialmente segnate nei registri doganali del Sound e che non va oltre i tre quarti dell'effettivo totale. Che cosa aveva reso possibile questa grande espansione delle attività commerciali ? A grandi linee possiamo indicare le cause principali : la disponibilità del credito, lo sviluppo dell'assicu­ razione, i progressi tecnici delle costruzioni navali, la creazione di società per azioni . Il bisogno di credito era esteso special­ mente perché senza di esso restava scarso spazio a quel grande stimolo allo sviluppo, che è la disponibilità ad affrontare rischi commerciali . I piccoli commercianti potevano in questo modo impegnarsi in imprese i cui profitti erano fortemente speculativi, e il commercio a lunga distanza poté prendere il posto di quello locale. Inoltre interveniva la considerazione che il giro d'affari di un grosso impegno di capitale era lento a realizzarsi, come poteva essere ad esempio per le spedizioni da Anversa a Siviglia della ditta Della Faille che duravano da nove a tredici mesi . Una estensione di credito mentre il capitale era investito in un'impresa avrebbe permesso di avviarne un'altra . L 'uso della cambiale in casi come questo accelerava la mobilità del capitale e semplificava il compito del commerciante . Lo sviluppo del­ l'assicurazione, specialmente di quella marittima, fu egualmente importante, perché dette grande sicurezza a quell'insostituibile caratteristica del capitalista che era la propensione ad affron­ tare il rischio. I progressi della tecnica navale furono una conseguenza logica piuttosto che una causa dell'espansione del commercio. Il problema iniziale era semplicemente quello di costruire una nave di capacità abbastanza grande da ·rendere vantaggioso il commercio a lunga distanza. La cosa era complicata dal fatto che le navi mercantili avrebbero dovuto essere modificate a seconda del mare in cui avrebbero navigato, e poteva anche esser necessario tener conto dell 'armamento . La più fortunata delle navi mercantili messe a punto in questo periodo dagli olandesi, sempre all'avanguardia nelle costruzioni navali, fu il fluyt. Progettato specialmente per il commercio baltico, senza o con pochi cannoni, questo scafo era inutilizzabile nell'Atlan­ tico o nel Mediterraneo, e aveva una ristretta sfera d'azione.

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Nondimeno divenne il simbolo della supremazia olandese nelle acque europee. Nessuno dei fattori che abbiamo considerato implicò inno­ vazioni tecniche radicali. La stessa cosa non si può dire della società per azioni, che segnò un significativo allontanamento dalle pratiche precedenti. Infatti prima di allora le società com­ merciali, o regulated companies, erano costituite da un certo numero di commercianti che lavoravano insieme, unendo i capi­ tali per la durata di una singola operazione. A conclusione di ogni affare i proventi venivano divisi e l'impresa liquidata, dopo di che gli ex soci erano teoricamente liberi di andarsene col loro capitale . La società per azioni propriamente detta si basava non tanto sulla cooperazione di più commercianti quanto sul­ l 'investimento permanente di un capitale che aveva una vita continua e sopravviveva alla fine di ogni affare. Il ristretto mondo della partecipazione personale e dell'associazione privata di commercio fu sostituito da una struttura in cui non era affatto necessaria la partecipazione diretta dei commercianti : essi acquistavano le azioni della compagnia, che commerciava nel loro interesse. Attingendo capitali da fonti diverse, non soltanto dai mercanti, i direttori delle compagnie potevano costituire un considerevole fondo di capitale disponibile, con cui si potevano perseguire progetti a lungo termine. Al tempo stesso i commercianti potevano partecipare per procura a diverse imprese contemporaneamente, senza pregiudizio per quelle che potevano richiedere la loro cura personale. Allora per la prima volta la società per azioni rese possibile imprese commerciali su larga scala e a lungo termine, di natura monopolistica, e la tendenza al monopolio si basava sul fatto che non c'erano molte possibilità di concorrenza di fronte alle risorse di cui disponevano le compagnie. (Anche le regulated companies, in verità, tendevano a diventare monopolistiche, ma in teoria avrebbe potuto esserci una limitata concorrenza tra i membri della società. ) La prima grossa società inglese che adottò il sistema azio­ nario ( tra le minori la Muscovy Company era stata la prima nel 1 553 ) fu la East India Company, che nacque nel 1 600 come regulated company e costitul un capitale azionario nel 1 6 1 2 ; m a fu solo nel 1 657 che esso divenne permanente. Altre orga-

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nizzazioni, sia in Inghilterra che all'estero, ne seguirono l 'esem­ pio, cosicché a metà del XVI secolo le società per azioni erano un fenomeno diffuso. Nel 1 703 le società per azioni d'Inghil­ terra avevano raggiunto gli otto milioni di sterline di capitale. Ma più che la somma investita, erano importanti per lo svi­ luppo capitalistico le caratteristiche di questo tipo di società. Con loro, è stato detto, « il capitale era sovrano » . L'estendersi del monopolio, il profitto ottenuto dai grandi imprenditori, por­ tarono a una concentrazione del potere economico nelle mani di pochi grossi capitalisti . Questa concentrazione di capitale commerciale promosse la ricchezza e il rango sociale delle classi mercantili, poiché, come osserva il van der Wee, fu l'espansione del capitalismo commerciale che « dette ad una riorganizzata produzione industriale la spinta finale per un irresistibile svi­ luppo ». L o Stato non poté fare a meno d i interessarsi ai vantaggi del commercio. Lo scrittore inglese Roger Coke affermava nel 1 6 7 1 che « triplice è il fine del commercio, e cioè forza, ricchezza e lavoro per tutti » . In conto di tutto ciò il governo avrebbe avuto dunque ragione di intervenire - ma non di dirigere la politica commerciale. L'entrata in vigore in Inghilterra del­ l' Atto di navigazione del 1 65 1 è di solito considerata il cul­ mine di questa tendenza interventista, e la politica economica di Colbert in Francia è del pari accolta come un esempio di ciò che è noto come mercantilismo . I settori dei quali si interes­ sava lo Stato possono essere facilmente elencati : i trasporti ma­ rittimi ( in particolare per difenderli ), le colonie, l 'importazione di metalli preziosi, l'esportazione dei manufatti e cosi via. La promozione del commercio era considerata, alla metà del Sei­ cento, un interesse primario dello Stato, non solo perché assi­ curava profitti ma anche perché assicurava potenza. Per dirla con Sir Josiah Child, era « assolutamente necessario che il pro­ fitto e il potere fossero considerati insieme ». Con l'intervento dello Stato il capitalismo commerciale trovò un potente alleato . I loro interessi non sempre coincisero, e l'adozione di una politica di guerra da parte dello Stato, per esempio, fu accolta con amara irritazione dai mercanti che sape­ vano che avrebbe fatto crollare il commercio e perdere mercati . Ma per lo più nelle due maggiori nazioni commerciali, l'Inghil­ terra e l'Olanda, gli interessi dei circoli mercantili andarono

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prevalendo, e di conseguenza il monopolio delle compagnie poté prosperare.

L'organizzazione industriale. Il concetto di ' industria ' gioca un ruolo inadeguato nello studio della vita economica di quella che era ancora un'età prein­ dustriale. Cosi poca gente era occupata nelle industrie, e una cosi esigua fetta di capitale vi era investita, che possiamo guar­ dare con sospetto agli storici che misurano lo sviluppo in questo periodo dalla produzione di carbone e di tessuti. In verità un rispettabile argomento fu proposto oltre vent'anni or sono da John U. Nef, che affermò di aver rintracciato in questo periodo germi di una rivoluzione industriale. Per quanto in passato l'argomento di Nef possa essere stato persuasivo, non può oggi essere accettato senza riserve. In quell'epoca la produzione sali a grandi balzi in alcuni settori e in alcune aree industriali, ma fu una crescita puramente quantitativa a cui mancavano i pro­ gressi tecnologici e sociali che solo la rivoluzione industriale avrebbe reso possibili. Non ci fu allora nessun progresso industriale nel Cinque­ cento e nel Seicento ? Se questo capitolo ha indicato finora qual­ cosa, è sicuramente che questo progresso ci fu. La diffusione di tecniche da parte dei lavoratori emigrati contribui alla fonda­ zione di nuove industrie ; l'attività degli imprenditori e dei capi­ talisti contribui a produrre denaro da investire nell'industria; e, ancora più chiaramente, il commercio non si sarebbe svilup­ pato se non ci fosse stata una più grande massa di merci da commerciare. Questo quadro di prosperità economica non può comunque essere accettato per il suo valore nominale. L'am­ montare complessivo dell'accresciuta produttività industriale cor­ rispondeva ancora ad una frazione del totale di beni e di capi­ tali incidenti sul mercato . Inoltre l 'industria arrancava ancota in una assai primitiva condizione di controlli corporativi , di utilizzazione del lavoro e cosi via . Daremo qui un breve sguardo ad alcuni aspetti delle attività industriali nei secoli XVI e XVI I . Non c i fu i n quel periodo nessuna impresa industriale su larga scala di cui si abbia notizia. L 'industria principale era in Europa quella tessile, ma come in epoche precedenti dappertutto

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i tessuti erano per lo più prodotti con il sistema del lavoro a domicilio, nel quale i telai domestici erano affidati al lavoro individuale e talvolta erano anche disseminati a notevole di­ stanza, sebbene potessero essere diretti da un unico inca­ ricato o da un capitalista . Insomma era raro che un gran numero di telai funzionasse sotto lo stesso tetto, come nell'indu­ stria moderna. C'erano due o tre rilevanti eccezioni a questa regola, come i grandi stabilimenti Gobelin in Francia, diretti da Van Robais, che riunivano qualcosa come millesettecento operai in una sola impresa, divisi in reparti. Quantità anche più consistenti di maestranze si potevano trovare nell'industria delle costruzioni navali : si è calcolato che nel 1 560, presso l'arsenale di Venezia, lavorassero all'incirca 2 .346 artigiani. Un'altra in­ dustria che si può dire impiegasse lavoro in maniera intensiva era quella mineraria, ma anche qui è difficile trovare un'indu­ stria su larga scala, persino in quella del carbone. Le grosse miniere di carbone avevano in genere un centinaio di operal: a Liegi la più grande ne aveva centoventi all'inizio del Cinque­ cento, quella di Kincardine in Scozia ne aveva nel 1 679 settan­ tuno ; la miniera Gran Lease presso Newcastle costituiva agli inizi del '600 un'eccezione rilevante, poiché vi lavoravano sopra e sotto la superficie quasi cinquecento operai . Tra le imprese minerarie occuparono un posto ineguagliato le miniere di allume di Tolfa ( nei pressi di Roma ) . Nel 1 557 davano lavoro a 7 1 1 operai, risultando così il più grande complesso minerario e la più grossa impresa industriale di quel tempo. I contemporanei si facevano impressionare anche da imprese di modeste dimen­ sioni ; così a metà Cinquecento il Guicciardini chiamava « fucine di Vulcano » una ferriera che in realtà non produceva più di otto­ centoquarantadue tonnellate di ferro all'anno. Le imprese sem­ bravano enormi perché c'era ben poco da paragonarvi. La con­ centrazione e la divisione del lavoro erano ancora nella loro infanzia. Allora non fu la dimensione ma il numero delle imprese a contribuire alla moltiplicazione del capitale. C'erano imprendi­ tori che investivano in diverse industrie, il cui sviluppo dipen­ deva in definitiva dalla loro attività. Da parte loro essi avreb­ bero investito solo se avessero visto il modo di aprirsi un varco attraverso le restrizioni che pesavano sulla produzione. Le numerose interessanti innovazioni tecniche di questo periodo

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- come il telaio multiplo o ' olandese ' - si trovarono di fronte all'opposizione tenace sia delle corporazioni che dei lavo­ ratori, cosicché la prima preoccupazione del capitalista fu di aggirare le corporazioni . Ma non era così facile. Sin dal Medioevo le corporazioni, che rappresentavano mestieri individuali o gruppi di mestieri, regolavano le condizioni di assunzione, di apprendistato e di produzione. Tipici erano i regolamenti stabiliti a Liegi dalla cor­ porazione dei lavoranti tessili . Nel 1 589 le corporazioni permet­ tevano solo telai a struttura individuale perché « il povero po­ tesse vivere come il ricco, e non fosse da lui oppresso » ; la produzione era limitata a « solo due pezze la settimana », e non si potevano comprare più di dodici sterline di lana alla volta. Nel 1 6 1 8 fu stabilito che la lunghezza dell'apprendistato dovesse essere di otto anni . Queste poche regole avrebbero comportato, se fossero state rispettate, una severa restrizione del numero dei lavoranti finiti, del volume e della rapidità della produzione, della varietà delle tecniche. Le regole erano completamente in contrasto con lo sviluppo capitalistico ed avrebbero ridotto la produzione tessile alla dimensione di una manifattura rurale. Per quanto ammirevoli potessero essere state le corporazioni nel proteggere i loro piccoli produttori, erano un chiaro ostacolo allo sviluppo dell'industria. Diversi fattori contribuirono a mettere fuori gioco le corpo­ razioni . L'immigrazione di lavoratori stranieri ebbe su di esse un notevole effetto corrosivo, come possiamo rilevare dalla pro­ testa levata nel 1 6 1 6 dalle corporazioni inglesi contro gli immi­ grati stranieri, col pretesto che « tengono per sé i loro segreti, grazie ai quali da qualche tempo si possono permettere di inven­ tare macchine per fabbricare nastri, merletti, fettucce e cose del genere, con cui uno di loro fa più di sette inglesi ». Le corpo­ razioni locali non potevano conservare più a lungo il monopolio delle conoscenze tecniche, e le loro regole si applicavano solo ai vecchi settori delle attività produttive e a mestieri determi­ nati . Era quindi difficile che potessero estendere le loro restri­ zioni fino a colpire nuove industrie e nuovi metodi di lavoro . Per di più, sebbene fosse in ottimi rapporti con le corporazioni e facesse ogni sforzo per rafforzare il loro controllo, lo Stato permise tante eccezioni individuali che il sistema lentamente ne fu indebolito. Ai nuovi, indipendenti e ricchi capitalisti , per

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esempio furono fatte dalla Corona ampie concessioni, di carat­ tere fiscale o di altro genere. Insomma i diversi fattori operanti in un'età come questa, in cui tutto cambiava e le vecchie regole finivano di applicarsi a nuove situazioni, resero inevitabile il tramonto delle vecchie strutture corporative . Tenendo ben strette nelle mani le concessioni dei monarchi europei , i capitalisti di quegli anni si spingevano coraggiosa­ mente in avanti alla ricerca della ricchezza . Fu in quegli anni che per la prima volta un pubblico incauto cominciò a rendersi conto che la « libertà » concessa agli imprenditori troppo spesso significava « monopolio ». Già a Liegi nel 1 562 la piccola ma fiorente ferriera era controllata da un giro di venticinque mer­ canti . Nel 1 600 a Dordrecht il commercio del ferro era nelle mani di un gruppo di venti commercianti. Nel 1 603 il ricco capi­ talista cattolico Jean Curtius aveva a Liegi il monopolio di una industria in rapido sviluppo come quella delle armi . Con Louis de Geer la tendenza raggiunse il culmine. Nel senso in cui noi lo stiamo usando il termine ' monopolio ' indica una concentra­ zione di capitale, e non semplicemente il controllo di un settore produttivo da parte di uno o più individui, e fu in questo senso che le tendenze monopolistiche ebbero rilevanza nel XVI secolo, perché concentrarono le energie di più imprenditori su una sola attività industriale, che poté cosi disporre di investimenti di capitale sufficienti per una rapida espansione. Come reagirono le classi lavoratrici ai netti cambiamenti che l'evolversi dei tempi apportava alle condizioni di lavoro ? Come prima reazione dovette loro esser chiaro che il sistema corpora­ tivo era antiquato, non rappresentava i loro interessi e non poteva far fronte alla sfida dei nuovi metodi capitalistici . È vero che i metodi di sfruttamento che i padroni andavano perfezio­ nando superavano le più nere paure delle deboli corporazioni . L'industria del cotone del Lancashire, che era stata introdotta dagli immigrati belgi, controllava un sistema in rapido sviluppo di lavoro a domicilio, che impiegava una numerosa schiera di povera gente, tanto che alla fine del Seicento, nel 1696, si rife­ riva che « il numero dei poveri che lavoravano nelle manifat­ ture di Manchester ascende, secondo una cauta valutazione, a circa quarantamila » . Col pagamento di bassi salari aveva tnlZlo lo sfruttamento del lavoro . In Olanda alla fine del XVI secolo, erano già correnti i bassi salari e lo sfruttamento di donne e

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bambini . Nel 1 597 un decreto condannava alcuni padroni che avevano praticamente ridotto alcuni bambini in « schiavitù » . Ogni tanto i giudici intervenivano per condannare i l lavoro infantile, come a Delft, nel 1 636 ; ma poi arrivò il boom del­ l'industria tessile di Leida, negli anni 1 6 3 8-48, quando gli im­ prenditori di quella città fecero venire da Liegi quattromila pic­ coli orfani come inservienti ai telai . La loro condizione peggiorò tanto che nel 1 646 dovette essere emanato un editto che proi­ biva di far lavorare i fanciulli per più di quattordici ore al giorno . Questi sono esempi che indicano una prassi abbastanza raf­ finata, ma già verso la fine del Cinquecento le condizioni dei lavoratori potevano portare, e così avvenne, a fenomeni di agi­ tazione. I padroni, dichiaravano gli stampatori che si appella­ rono al Parlamento di Parigi nel 1 5 7 7 , erano degli sfruttatori che si arricchivano « a spese del duro e difficile lavoro degli operai » . Nella nuova situazione del XVI secolo parecchi e differenti antagonismi si svilupparono nel mondo dei padroni e dei sala­ riati . I piccoli produttori lottarono non meno dei grossi capi­ talisti per l'indipendenza dalle corporazioni . Ci interesseremo qui soltanto di alcuni casi di conflitti tra padroni ed operai . Gli scioperi di cui conosciamo i particolari si originarono per lo oiù tra le categorie operaie privilegiate, soprattutto fra gli stampa­ tori . A Parigi e a Lione, nel 1567 e nel 1 57 1 , ci furono dei tumulti in cui furono coinvolti gli stampatori, che, oltre alla vecchia protesta contro l'orario di lavoro chiedevano di poter costituire nuove associazioni operaie e la creazione di un sistema di arbitrato . I grandi scioperi del 1 5 7 1 -72 in entrambe le città furono seguiti dai tentativi del governo di regolare il sistema dei salari . L'insoddisfazione condusse, il 22 gennaio 1 5 7 7 , ad una vera e propria dimostrazione per le strade di Parigi , con car­ telli contro il benessere dei ricchi. Nondimeno il governo non permise che si creassero nuove associazioni , e intervenne contro uno sciopero dei panettieri parigini nel 1 57 9 , e contro i sarti della stessa città nel 1 5 8 3 . Anche gli stampatori olandesi s i mossero, e i più noti epi­ sodi di sciopero del XVI secolo li videro protagonisti . Uno di questi scioperi nato dalle difficoltà economiche della fine del decennio 1 560-70, dimostra come fosse difficile per gli scontenti riuscire a vincere . Nel 1572 il famoso editore Christophe Plantin

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si lamentava « della cattiveria e del complotto degli operai » che erano scesi in sciopero chiedendo qualche miglioramento . Piut­ tosto di cedere Plantin operò una serrata, e disse agli operai che avrebbe chiuso la stamperia. Temendo per il loro posto Ji lavoro gli uomini fecero marcia indietro dopo poche settimane, e - come osservava Plantin trionfante « ora sono tutti così pronti a servirmi nel migliore dei modi, quanto prima mostra­ vano di essere ribelli e scontenti » . Quando a lavoratori come questi era proibito di riunirsi in associazioni, essi cercavano allora nonostante le repressioni di dar vita a società di mestiere di natura segreta. Queste società, come sappiamo per la Francia, implicavano giuramenti, cerimonie e un armamentario quasi reli­ gioso. Si diffusero tra i lavoratori francesi, tra la seconda metà del XVI secolo e la prima metà del XVII , nonostante la minaccia della pena di morte ( 1 6 1 8 ), e nonostante che contro di esse la legge intervenisse in varie occasioni . Ad onta del cerimoniale cabalistico, si trattava di vere e proprie associazioni di mutuo soccorso : aiutavano i membri dell'associazione che avevano per­ duto il lavoro . Le associazioni rivali adottavano nomi esotici come i Figli di Salomone, i Lupi, o i Figli di Master Jacques, e qualche volta si combattevano tra loro . Ma era la minaccia implicita nella loro segretezza, nel fatto che incoraggiavano l'organizzazione di scioperi, e che erano capaci di unire le classi lavoratrici, ad attirare su di loro l'anatema dello Stato e a far sì che una energica campagna fosse condotta contro di loro non solo dal governo ma anche dalla Chiesa . Così la facoltà di teo­ logia di Parigi si assunse il compito di proibire, nel 1 655, le associazioni di lavoratori, o compagnonnages, come erano anche dette. Sappiamo poco degli scioperi di quel periodo nei centri industriali . Leida fu la città in cui avvennero regolarmente degli scioperi negli anni 1 6 3 7 , 1 643 e 1 648, con una solleva­ zione particolarmente pericolos a nel 1 6 3 8 . Ad Amiens nel XVII secolo ci furono vere e proprie controversie di lavoro tra gli operai tessili, particolarmente negli anni 1 620-3 5 . Nel 162 1 gli operai protestarono contro l'impiego di manodopera straniera a buon mercato. Nel 1 623 era stata formata un'associazione, e così avvenne che un giorno « tutti quelli lasciarono il lavoro simul­ taneamente, e quelli che non vollero farlo spontaneamente, vi furono obbligati dai capi dello sciopero, che erano circa venti -

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o trenta ed erano noti come " grandi fratelli » . Gli scioperi do­ vettero essere avvenimenti assai normali, a giudicare dalla facilità con cui potevano essere proclamati . Altra cosa è valutare il signi­ ficato di questi fatti, specialmente in un periodo in cui il lavora­ tore non era ancora stato estraniato dal suo ambiente. È chiaro che la loro importanza non deve essere esagerata, dal momento che di rado erano scontri aperti, e spesso erano provocati non da cause di lavoro, ma ad esempio dalla penuria di pane. Al tempo stesso sarebbe sbagliato mettere in dubbio lo sviluppo di un certo tipo di proletariato ( se ne discuterà nel cap . XI ), e di un crescente spirito militante da parte dei lavoratori meglio organizzati. A Lione, che era giustamente considerata una delle prime città industriali d'Europa, per esempio, la popolazione operaia era probabilmente quasi i due terzi dell'intera popola­ zione urbana. Alcune delle nuove associazioni erano abbastanza numerose e si diceva che Rouen, agli inizi del XVII secolo, contasse alcune migliaia di compagnons. In fine, se si vuole una prova della combattività dei lavoratori, basta solo considerare la parte di rilievo che alcuni mestieri giocarono nei tumulti e nelle ribellioni di questo periodo . "

Sviluppo economico e capitalismo. Purtroppo ogni seria discussione sul capitalismo deve trat­ tare del capitale e non ci sono molti dati sulla formazione e sullo sviluppo del capitale in questo periodo. Per questo alcuni storici si sono disinteressati del problema, col pretesto che si trattava ancora di un'età precapitalistica ; oppure hanno discusso del capitalismo solo come fenomeno finanziario, come se la moneta fosse in se stessa capitale. Nel quadro dei cambiamenti strutturali dell'economia europea è comunque un problema di grande importanza quello dell'accumulazione primitiva del capi­ tale. Vi dedicheremo qui un breve cenno, solo perché speriamo di concretizzare alcune affermazioni che saranno argomentate nei capitoli seguenti. Il nostro interesse non è tanto diretto verso i sistemi economici di accumulazione originaria, che in fondo fu un processo che ha avuto un lungo svolgimento, quanto verso i tre fattori di più immediata importanza : la forte incidenza della espansione oltremare sullo sviluppo interno dell'Europa, la pra-

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Parte I. Le strutture

tica del risparmio e il contributo dell'accumulazione agricola . Gli effetti economici dell'apertura di rotte commerciali verso l 'Asia e l'America furono così profondi e di vasto raggio che è impossibile definirne adeguatamente tutti gli aspetti, né gli sto­ rici hanno tentato di farlo . Nel periodo che stiamo esaminando si è prestata innanzi tutto attenzione all'importazione in Europa dei tesori d'oltremare. L'introduzione di massicce quantità di metallo prezioso sui mercati europei, quantità che non sono mai state esattamente misurate e per le quali disponiamo soltanto di stime globali, non poteva mancare di rivoluzionare l'anda­ mento delle attività commerciali . Un 'idea dell'importanza attri­ buita all'argento americano si può avere leggendo la corrispon­ denza dei mercanti di Anversa e dei loro colleghi di altri paesi europei, in particolare spagnoli . I preziosi lingotti erano ric­ chezza e contribuivano a crearne, sia attraverso le transazioni che incoraggiarono sia perché i governi li adoperavano per bat­ tere moneta . Da ciò dipese la continua ricerca di sempre mag­ giori quantità di metalli preziosi . Lungo le rotte commerciali dell'Impero spagnolo verso l 'Europa se ne potevano ottenere senza le grandi difficoltà che avevano invece i paesi esclusi da quelle rotte : gli inglesi risolsero il problema con un forte ricorso alla pirateria e alla guerra. Dalla pirateria diretta contro la Spagna e l 'America spagnola arrivarono a Londra grossi profitti, che furono investiti in normali affari commerciali . Nel 1 6 1 7 l 'ambasciatore veneto commentava : « Niente più delle guerre contro gli spagnoli al tempo della regina Elisabetta si può pen­ sare abbia arricchito gli inglesi o abbia permesso ad alcune per­ sone di ammucchiare le ricchezze che notoriamente posseggono » . L'importazione d i metalli preziosi f u forse i l risultato più importante delle scoperte geografiche. I pensatori economici europei ne furono fortemente colpiti, e di qui derivò la loro perdurante insistenza sul bisogno di accumulare quanto più oro e argento si potesse, perché in essi stava la ricchezza. Questa idea era naturalmente fondata. Tutta l'economia europea fu sti­ molata dall'affiusso di metalli preziosi, che non rimasero nei loro luoghi di giacenza ( come nella penisola iberica ) ma furono espor­ tati nell 'Europa settentrionale e ad est, attraverso l'Italia, nel Levante ( nel 1 595 solo Venezia mandò in Siria, per pagamenti commerciali, 29 .400 libbre d'argento ) . Tuttavia, sebbene potes­ sero far salire il livello dei prezzi favorendo lo sviluppo delle

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attività industriali, i metalli preziosi non furono necessariamente un impulso al capitalismo. Lo sviluppo dipendeva direttamente dalla produzione, dal commercio e dai mercati . Il grande svantaggio delle nuove sco­ perte era che non offrivano mercati ai produttori europei . Gli industriali inglesi che nei secoli XVIII e XIX imposero con le armi i loro tessuti ai contadini indiani e cinesi non erano in grado nel XVI I secolo di vendere i loro panni di lana agli orien­ tali che non ne avevano bisogno. Le autorità spagnole elabo­ rarono uno speciale sistema di monopolio per affrontare questa situazione. Solo i manufatti spagnoli potevano essere importati in America, e per assicurare loro un mercato, ai coloni ameri­ cani era proibito di promuovere certe attività produttive. In più occasioni fu vietato che in America si producessero alcune merci di prima necessità, tra cui particolarmente importanti erano il vino, l'olio d'oliva, i tessuti. In teoria la Spagna avrebbe dovuto essere in condizione di fornire questi beni . Ben presto comunque i coloni impiantarono una produzione locale di questi beni in quelle aree in cui era possibile. Dove ciò non era pos­ sibile, si affidarono agli approvvigionamenti spagnoli , che erano, come si sa, inadeguati . Nel 1 555 il clero di Hispaniola si lamen­ tava che « i rifornimenti arrivano dalla Spagna ad intervalli di anni, e siamo senza pane, vino, sapone, olio, panni, tele . Quando arrivano, hanno prezzi altissimi ». Nel 1 566 il vescovo di Cuba avrebbe riferito che « il sacrificio della Messa molte volte non è stato offerto per mancanza di vino . Di questi tempi, quando qui regna una povertà estrema, arriva la flotta e una iarda di tela costa un castellan, un foglio di carta un rea!; tutto ciò che viene dalla Spagna, anche i prodotti della terra, è veramente carissimo » . Le navi straniere - inglesi , olandesi e francesi riuscirono a rompere il monopolio e cominciarono a fornire dei loro prodotti le colonie americane. Privata del suo mercato estero, la Spagna non riuscl altresi a godere dei vantaggi che i prodotti americani avrebbero potuto darle. Le spezie americane non furono mai accessibili a tutti, la cioccolata non divenne una bevanda di moda che nel '600, quando anche il tabacco diventò di largo consumo. L'oro e l'argento, le merci americane di maggior valore, finirono con l'avere un effetto disastroso sul­ l'economia spagnola. Insomma i possedimenti spagnoli d'oltre­ mare non dettero all'industria nazionale lo stimolo sufficiente a

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spingere più avanti il paese sulla via dello sviluppo capitalistico . Praticamente lo stesso problema della mancanza di mercati ebbero di fronte gli inglesi e gli olandesi, che risolsero le loro difficoltà in maniera brillante. All'inizio del XVI secolo gli olan­ desi assunsero il controllo della maggior parte dei trasporti marittimi verso i primi possedimenti portoghesi delle Indie orientali . In questo modo riuscirono anche a stabilire un mono­ polio di fatto sul commercio europeo delle spezie e del caffè. Il problema di come vendere i prodotti europei in Oriente di­ ventò in questo caso secondario, poiché i metalli preziosi per pagare le spezie erano di fatto ottenuti in Oriente coi proventi del trasporto di merci . L'inglese East India Company, dal canto suo, non ebbe paura di portare oro e argento fuori d'Europa per pagare i suoi acquisti . Nei primi dieci anni di esistenza il totale delle esportazioni della compagnia ascese a 1 7 0 .673 ster­ line di cui ben 1 1 9 .202 in metalli preziosi. Quelli che pensa­ vano che la politica imperiale consistesse tutta nel portare oro in Europa erano naturalmente piuttosto preoccupati . Fu forse per loro che Thomas Mun spiegava nel suo England's Treasure by Forreign Trade ( 1 664 ) : S e noi mandiamo cento sterline nelle Indie orientali per acquistarvi pepe, portarlo qui e da qui spedirlo in Italia o in Turchia, ci deve rendere almeno settecentomila sterline in quei posti, in considerazione delle fortissime spese che in quei lunghi viaggi hanno gravato sul mercante, per il trasporto, i salari, i viveri, l'assicurazione, la dogana, le imposte e cosl via, tutte cose nondimeno che finiscono al re e al regno .

Le compagnie commerciali inglesi e olandesi, con le merci che importarono in Europa, furono alla base dell'assai fortunato capitalismo commerciale di queste due potenze protestanti. La Spagna, con il suo facile accesso ai metalli preziosi, trascurò la marina mercantile ; le potenze marittime ammucchiarono tesori con i traffici e le riesportazioni . In tal modo le scoperte geo­ grafiche contribuirono alla ricchezza dell'Europa. Gli europei ne approfittarono ? La propensione agli investi­ menti dipendeva dalle condizioni economiche e dalle norme sociali di ciascun paese. In un mondo in cui l 'impresa più pro­ duttiva era il commercio si deve necessariamente tener conto

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dell'atteggiamento dei ricchi verso le attività commerciali . Ci accorgiamo subito che non solo interi settori della classe pro­ prietaria disapprovavano l'esercizio del commercio ( come, ad esempio, la nobiltà dell'Europa occidentale ), ma che molti che avevano fatto fortuna con il commercio non erano interessati a reinvestire nel processo da cui avevano tratto profitto. Il capi­ tale e il risparmio accumulati furono deviati verso investimenti di maggior prestigio sociale, come impieghi pubblici o terre. Era insomma difficile che il capitalismo si sviluppasse se il sistema sociale e le relazioni tra le classi lo ostacolavano. Il commercio atlantico degli schiavi, ad esempio, aveva caratteristiche ironi­ camente contraddittorie, poiché mostrava tutti i requisiti di una buona impresa capitalistica, ma finiva con restaurare, nei paesi di vendita, una struttura feudale di lavoro . Malgrado questi ostacoli ci sembra innegabile che il crollo delle prevenzioni eti­ che contro l'usura, la pratica del risparmio e dell'investimento si stessero facendo strada. L'esempio dell'Olanda può illustrarci il modo in cui il capi­ tale trovava impiego attraverso il risparmio. Li i profitti non potevano essere cosl facilmente investiti in terre, che erano ben poco disponibili, né l'acquisto di impieghi pubblici occupava un posto cosl importante nella scala delle priorità sociali come in altri paesi. Il risparmio quindi si trasformava in rentes ( cioè in titoli del prestito pubblico ), in imprese di trasporto marit­ timo, di pesca e di drenaggio. L'importanza che investiva per gli olandesi il concetto di risparmio fu sottolineata nel XVII secolo da Sir William Tempie che osservava degli olandesi : « la loro comune ricchezza risiede nel fatto che ognuno possiede più di quanto spende ; o per meglio dire nel fatto che ognuno spende meno di quanto ha guadagnato, comunque vada » . La propen­ sione dei piccoli investitori ad impiegare a buon fine i loro risparmi deve aver contribuito in maniera determinante ad una pronta disponibilità di denaro, causa diretta del basso tasso d'interesse sul quale si fondarono le fortune del capitalismo commerciale olandese ( agli inizi del XVII secolo un mercante di una certa posizione poteva ottenere credito a un tasso varia­ bile dal tre al quattro e mezzo per cento ) . Per l a minore importanza che l e forme d i capitalismo indu­ striale avevano in un tempo in cui l'economia era prevalente­ mente agricola, il ruolo di maggior rilievo deve essere attri-

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buito all'accumulazione di capitale in questo settore piuttosto che in quello industriale o commerciale. L'accumulazione com­ merciale di capitale ebbe un'enorme importanza in Inghilterra e in Olanda, ma quasi in tutti gli altri paesi europei il com­ mercio ebbe un ruolo minore nella produzione di capitale. Ciò che contava era la terra. Questo rilievo può sembrare fuori luogo, dal momento che in genere accettiamo l'idea che i pro­ fitti agrari e il mutamento qualitativo nei metodi di sfrutta­ mento della terra sopraggiunsero solo nel XVIII secolo, cosicché solo allora fu estratto dalla terra il surplus di capitale che fu poi investito nella rivoluzione industriale. Tale quadro per alcuni versi non tiene conto dei risultati ottenuti nel secolo precedente . In Inghilterra, come vedremo, sembra esserci stato un più ampio miglioramento dei metodi colturali . Furono introdotti nuovi tipi di coltivazioni e di pascoli ; aumentò la produzione di foraggio, grano, carne e di altri prodotti ; le enclosures, proi­ bite prima del 1 640 dalla politica regia, dopo questa data si diffusero rapidamente . È vero che i frutti di questi miglioramenti non furono molto rilevanti prima del XVIII secolo , ma anche nel secolo precedente si andarono mettendo le basi per una redistribuzione del lavoro - attraverso le enclosures dalla terra all'industria tessile, e per una più alta produzione di generi alimentari che avrebbero aiutato l'Inghilterra a liberarsi dalla necessità di importarli. L'Europa orientale costituì il caso più evidente di applicazione dei metodi capitalistici all'agricoltura , tanto che il sistema delle grandi tenute che impiegavano il lavoro servile è stato spesso chiamato « capitalismo feudale ». Questa espressione ci mette anche in guardia dal sopravvalu­ tare il significato di questo sistema. È vero che la produzione per i mercati esterni e la creazione di un surplus erano tra le caratteristiche essenziali delle tenute servili, ma il punto decisivo è che questo surplus non era investito in iniziative economiche . I grandi signori che possedevano le terre convertivano le loro rendite in lussi privati . -

Capitalismo, guerra

e

progresso.

Uno studioso della scorsa generazione, John Nef, sosteneva che la guerra non fu utile alle iniziative capitalistiche e che le

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guerre del periodo 1 562- 1 648 « allontanarono la maggior parte dell'Europa dal capitalismo del XIX secolo piuttosto che spin­ gerla in direzione di esso » . Le guerre, affermava Nef, erano devastatrici e dissipatrici degli sforzi umani , e il definitivo rag­ giungimento della leadership industriale da parte dell'Inghilterra può essere attribuito in misura non secondaria al suo rifiuto di essere implicata nelle guerre del continente . Poiché in realtà il numero delle guerre fu notevole in questo periodo, è bene chiedersi se, in fondo, esse furono così inutili allo sviluppo capitalistico . C'è una difficoltà nel parlare delle guerre in generale, con­ sistente nel fatto che, come è certo, esse poterono differire radicalmente l'una dall'altra. Innanzi tutto una guerra poteva avere insieme effetti favorevoli e deleteri . La prima guerra anglo-olandese, che seguì l'Atto di navigazione del 1 65 1 , fu descritta con le seguenti parole da uno dei suoi fautori, Sir Arthur Haselrig : « Alla fine [ del Rump Parliament ] , bastava uno sguardo per vedere che c'era stata una guerra . Il commercio fioriva, la City si arricchiva, avevamo la flotta più potente che mai si fosse vista in Inghilterra ». Se è vero che gli olandesi soffrirono della guerra 1 652-54 ( l'Olanda fu descritta come « morta, con il grano a caro prezzo, la pesca impedita e la gente molto inquieta » ), anche l'Inghilterra ne soffrl qualche effetto negativo, specialmente per i danni finanziari e per l'interruzione del commercio. In secondo luogo è importante stabilire se stiamo parlando di guerre interne o esterne, perché i contemporanei le consideravano in maniera totalmente differente. I pensatori mercantilisti del '600 spesso sostennero la guerra come affare di politica statale, ma raramente la considerarono un beneficio per l'economia nel suo complesso. Colbert pensava che la guerra poteva essere vantaggiosa perché poteva aumentare le riserve nazionali di oro e di argento. Ma né lui né altri riteneva che la guerra avrebbe portato qualche beneficio oltre alla conquista di metalli preziosi, di territori e di spazi commerciali . Per questi pensatori la guerra era spesso vantaggiosa, ma solo se portata sul territorio altrui : combattuta sul proprio territorio poteva essere pregiudizievole, poiché poteva danneggiare gli stessi pro­ pri beni. Una terza distinzione è necessario fare riguardo alla natura della guerra . È un luogo comune attribuire alla ' guerra ' il declino della Germania nel XVII secolo, mentre essa fu sol-

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Parte I. Le strutture

tanto uno dei molti fattori che colpirono lo sviluppo della Ger­ mania. In questo caso alla guerra è attribuito un danno ecces­ sivo. Ma altri esempi mostrano che alla guerra spesso è attri­ buito meno di quanto le sia dovuto . Discutendo sull'espansione del commercio europeo, Nef sostiene che ad essa « non la guerra ma il commercio diede l'andatura », un argomento difficile da sostenere quando così spesso fu il commercio a seguire le insegne di guerra. Queste tre semplici constatazioni ci spingono a fer­ marci brevemente per cercare di vedere come la pratica della guerra risultò essere un aspetto sostanziale del primo capita­ lismo moderno. La crudeltà e la capacità distruttiva della guerra non può in ogni caso esser messa in dubbio. Ma in questo come in tutti i periodi ci furono quelli che ne trassero profitto, e su questi profitti si fondarono le loro fortune di capitalisti . In questi limiti si può parlare di ' benefici ' della guerra. Se prendiamo il caso dell'Inghilterra, è strano che si dica che essa era costan­ temente in pace quando di fatto era regolarmente in guerra, ufficialmente o ufficiosamente. I pirati sotto la regina Elisabetta portarono in patria dalle loro spedizioni considerevoli quantità di oro e di argento. Sebbene la guerra anglo-spagnola che si concluse nel 1 604 fosse seguita da un decennio di crisi nel com­ mercio dei tessuti, la ricchezza dei mercanti nella Londra gia­ cobita testimoniava ancora dei profitti che poteva dare la pira­ teria, e il fallimento delle più piccole aziende portava al mono­ polio e alla concentrazione capitalistica nelle mani delle princi­ pali compagnie commerciali. Malgrado le perdite nel settore dei trasporti marittimi, la guerra vide un boom delle costruzioni navali, e una crescita corrispondente della marina mercantile inglese. Per certi versi la stessa cosa si può dire della prima guerra anglo-olandese ( 1 652-54 ) che aumentò il tonnellaggio della marina inglese semplicemente con le prede tolte al nemico. Un'immagine ancora più convincente della guerra come stimolo alla costruzione di navi può darla l'esempio della repubblica d'Olanda . A livello dell'industria dobbiamo solo ricordare l'in­ dustria degli armamenti, in tutti i paesi ma soprattutto nel nord e nel sud dei Paesi Bassi . Fu in questo campo che divennero dei magnati uomini come Crucius, de Geer e Marcelis, i quali a loro volta dettero impulso a tutto il commercio. In Svezia le necessità della guerra stimolarono l'industria metallurgica, sia

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del rame che del ferro, cosicché già nel 1 629 la Svezia era di­ ventata autosufficiente nella produzione bellica e non aveva bisogno in questo campo di ricorrere all'importazione . La cre­ scita dell'industria del ferro e lo sviluppo di forme di organiz­ zazione capitalistica sotto uomini d'affari come de Geer, furono tra i risultati direttamente più importanti di una politica che, a scopi bellici, dette il lancio agli investimenti industriali . Per lo storico Werner Sombart la guerra favorì il capitali­ smo in tre modi : sviluppando, per scopi militari, l'industria pesante, aumentando gli investimenti industriali e introducendo procedimenti finanziari che portavano a incrementare il mercato di capitali . I primi due fattori possono in particolare essere illustrati dal caso della Svezia, e se mettiamo il commercio al posto dell'industria il secondo fattore diventa assai significativo anche per lo sviluppo dell 'Inghilterra e dell'Olanda . Il terzo fattore, sebbene operasse prima del 1 660, ebbe un più rapido sviluppo dopo questa data. La guerra aveva come conseguenza la necessità di finanziare spedizioni in paesi lontani , e in una epoca di mentalità bullionista l'esportazione di denaro liquido era la peggiore soluzione possibile . Questa fu una delle ragioni principali del rapido sviluppo dell'uso della cambiale tra paesi in guerra, attraverso la mediazione di una clearing house inter­ nazionale qual era allora diventata Amsterdam . I pochi riferimenti alla guerra che abbiamo fatto sottoli­ neano l'importanza di distinguere tra guerre interne ed esterne, perché l'Inghilterra, che tuttavia non fu mai invasa, ne trasse certamente profitti capitalistici, come fecero anche l'Olanda e la Svezia . Una guerra combattuta sul territorio altrui poteva non avere i chiari effetti negativi di una guerra combattuta in casa propria. Gli svedesi perfezionarono questo metodo. Mante­ nendosi in Germania con gli aiuti francesi e olandesi e i contri­ buti degli altri alleati, e vivendo fuori della loro patri a, fecero una realtà della massima bellum se ipsum alet. Nel dicembre 1 634 Oxenstierna proclamava, non senza esagerazione, che « noi finora, per un periodo di quattro anni , praticamente non abbia­ mo spedito denaro fuori del regno per la guerra di Germania » . Non è privo d'interesse che, alla fine del XVII secolo, alcuni pensatori mercantilisti si avvicinarono all'opinione che le guerre interne fossero economicamente preferibili . Lo scrittore inglese Davenant sottolineava che era più vantaggioso condurre una

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Parte I. Le strutture

guerra sul proprio territorio piuttosto che fuori, perché nel secondo caso la guerra attirava denaro fuori del proprio paese. Basandosi sull'esperienza del loro paese, alcuni scrittori spagnoli sarebbero arrivati alla stessa conclusione . Le relazioni della guerra con il commercio non richiedono che si dedichi loro molto spazio . Le guerre navali non furono semplicemente questioni di profitti a breve termine. Erano piut­ tosto il perfetto strumento di un aggressivo mercantilismo . An­ che se Cromwell, con una balorda politica di guerra contro i territori spagnoli, indebolì la marina mercantile, i suoi contem­ poranei ne promossero lo slancio con un'attenta combinazione di commercio e di guerra. Proprio come sotto Elisabetta diversi alti membri delle compagnie di Barberia e del Levante ricorsero alla pirateria per proteggere ed estendere il commercio, cosl all'inizio del XVIII secolo le spedizioni inglesi nel Mediterraneo distrussero la potenza navale francese, consolidarono le posta­ zioni commerciali in Italia e in Levante, ed eressero un sistema di basi navali per assicurare un comodo passaggio al commercio inglese. Nel Baltico, come nel Mediterraneo, il commercio stette al seguito delle insegne di guerra. La pace era irrilevante in un periodo in cui il commercio era la continuazione della guerra con altri mezzi.

Parte seconda LA SOCIETÀ

IV NOBILI E GENTILUOMINI

miDal momento che nasciamo nobili, noi siamo gliori. Il nobile Stefano Guazzo, La civil conversazione ( 1584)

Le cause per le quali i grandi signori, i nobili e le persone più importanti di questo regno si rovinano e si uccidono sono i numerosi acquisti esosi e i debiti che essi contraggono. Le Cortes della Castiglia ( 1563 )

Alla fine del sedicesimo secolo si era verificato un cosl sor­ prendente cambiamento nelle posizioni di comando della società una volta tenute dalla nobiltà europea che i contemporanei prontamente Io rilevarono nei loro ricordi. Ciò che veniva sot­ tolineato era innanzi tutto il declino economico di certi settori dell'aristocrazia e il loro avvicendamento, nella vita economica e politica, con i nuovi arrivati provenienti da un più basso livello sociale. Non è difficile, fino a un certo punto, descrivere e spiegare questi sviluppi. Ci inganneremmo comunque se ci fermassimo al tema del declino, perché per molti versi gli avve­ nimenti furono più complessi ed è impossibile farne una gene­ ralizzazione che si applichi, convenientemente e in maniera . i­ multanea, a diversi paesi europei . La peculiare importanza del­ l'aristocrazia e della piccola nobiltà - di cui qui, per molti motivi, si parlerà insieme - era fondata a quell'epoca sul quasi completo monopolio del potere politico e della supremazia sociale. Non fu quindi un affare da poco quando questo mono-

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Parte II. La società

polio cominciò ad essere spezzato, quando nuove forze si intro­ dussero nelle sfere inviolabili del governo e lo stesso concetto di nobiltà cominciò a cambiare.

Una nuova (( etica della nobiltà » . L e parole ' aristocratico ' , ' nobile ' e ' gentiluomo ' saranno qui usate in maniera intercambiabile, per la semplice ragione che la maggior parte dei contemporanei faceva così . In tutti i paesi la nobiltà si divideva generalmente in almeno due livelli, il più alto e il minore. Quando nel 1 602 Sir William Segar scrisse il suo Honour Military and Civil, usava la parola gentleman per descrivere la categoria sociale più elevata, e procedeva poi suddividendola cosl : « Dei Gentlemen il primo e il più impor­ tante è il Re, poi vengono il Principe, i Duchi, i Marchesi, i Conti, i Visconti e i Baroni. Costoro sono chiamati Lords o Noblemen. Dopo di loro ci sono i Cavalieri, gli Esquires, e i semplici Gentiluomini : tutti questi ultimi compongono la no­ biltà minore » . Segar seguiva la distinzione tra nobili titolari e non, ma in molti altri paesi si faceva una netta distinzione all'interno della stessa classe titolata : cosi in Spagna, dove i Grandi erano di un grado superiore agli ordinari titulos. Perciò singole parole come noblesse o nobleza designavano in genere sul continente una classe notevolmente differenziata, e in Europa orientale la szlachta, per esempio, comprendeva non solo la pic­ cola e l'alta aristocrazia ma tutto lo ' stato ' della nobiltà po­ lacca. Un solo termine, dunque, definiva tutto uno spettro di diverse gradazioni . Le parole potevano anche riferirsi a dei valori, e qui c'imbat­ tiamo in un'importante distinzione, perché in questo campo nobility si riferiva in genere al rango esteriore di una persona, e gentility alla virtù interiore che vi si poteva accompagnare. La prima, ad esempio, si poteva comprare e vendere, la seconda poteva solo essere inculcata dalla natura. Il re poteva essere un nobleman, si diceva comunemente, e non un gentleman. La distinzione non era solo accademica, ma di reale significato poli­ tico, perché sollevava la domanda : con quale diritto governano i nobili? Governano per diritto ereditario e per consolidato prestigio, senza tener conto se siano realmente la classe migliore

IV. Nobili e gentiluomini

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della società, i depositari della virtù ? O comandano perché sono veramente i migliori, aristocratici per qualità? Alla fine del sedi­ cesimo secolo erano ancora molti a sostenere che il potere era dato dal lignaggio, perché un nobleman era per definizione un gentleman. Come scriveva nel 1 584 il nobile monferrino Ste­ fano Guazzo, « siamo i migliori, in quanto siamo di alto lignag­ gio ». Cosi Alessandro Sardo sosteneva nei suoi Discorsi ( 1 587 ) che la nobiltà non era data dal valore ma dalla nascita e dal lignaggio, e non poteva essere distrutta neanche da atti ripro­ vevoli. In confronto a queste posizioni tradizionalistiche, i pen­ satori post-rinascimentali cominciarono ad adottare un nuovo metodo di giudizio, che era spesso dettato dalla necessità di tro­ vare nel sistema politico un posto per una classe di fortunati mercanti e di funzionari civili mal tolleranti di una troppo rigida struttura sociale. Il nuovo punto di vista fu espresso da parecchi scrittori, tra cui Guillaume de la Perrière, che nel suo Le miroir politique ( 1 567 ) dichiarava che « non sono la stirpe e il lignaggio che rendono un uomo nobile o non nobile, ma i costumi, la cultura, l 'istruzione e l 'educazione ». Il Rinascimento poneva l 'accento sulla virtù, sulla cultura e sulla dedizione allo Stato, ma di queste tre qualità non c'è dubbio che l'ultima sarebbe diventata il fon­ damento razionale della nuova etica . Fra i più significativi trat­ tati dedicati all 'argomento ci fu Il Gentiluomo di Girolamo Muzio ( Venezia, 1 575). Benché inizi con l'affermare che « la nobiltà è uno splendore che procede dalla virtù » , Muzio trova che la classe nobiliare ha perso già da molto tempo il suo onore, e sposta la sua attenzione da una tradizionale, degradante nobiltà a una nuova nobiltà civile creata dallo Stato in ragione delle sue virtù ( vale a dire dei servigi resi ) . Il governo doveva ancora essere aristocratico, anche se doveva essere affidato non alla vecchia nobiltà guerresca ma ad una aristocrazia che si era distinta nelle lettere e nel diritto. Sebbene si possa sospettare che molti trattatelli come questo fossero scritti da un ben preciso punto di vista antiaristocratico e fìloborghese, resta il fatto che la maggior parte degli scrittori era sinceramente interessata ad un ringiovanimento della nobiltà anche se solo per preservare l 'ordine sociale da una spaccatura. Questa propaganda trovò un seguito incoraggiante, anche se non abbiamo prove statistiche che ci mostrino quanto grande fosse

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Parte II. La società

il cambiamento culturale nell'aristocrazia europea. Pur avendo le migliori possibilità d'istruzione, la classe nobiliare non sfruttò questo vantaggio fino in fondo, né i nobili fecero un uso ade­ guato delle altre prerogative che avrebbero potuto perpetuare il dominio della loro casta . Il risultato fu che, sotto la pressione dei cambiamenti economici e politici, una grave crisi sconvolse i ranghi dell'aristocrazia.

Abitudini di violenza. La nobiltà europea ebbe davvero un ruolo così antiquato e anacronistico, come hanno asserito gli storici, e come afferma­ rono anche alcuni contemporanei? Alla domanda si può rispon­ dere molto semplicemente considerando le abitudini litigiose, ben documentate, dell'aristocrazia. L'importanza militare dei nobili era data dal loro personale séguito di armati e dalle truppe che essi potevano richiamare al servizio del re. Si trattava di due prerogative tipicamente feudali, anche se la seconda, almeno nella forma, era destinata a fornire un servizio all'organizzazione statale. In ogni caso la nobiltà controllava la maggior parte delle forze militari del regno. Non sorprende che in queste cir­ costanze quasi tutti gli atti di violenza ricordati dai contempo­ ranei venissero dall'aristocrazia . Qualsiasi critica rivolta contro i nobili deve quindi tener conto del fatto che essi avevano il quasi completo monopolio dei metodi violenti, e che in molte parti d'Europa solo a loro era permesso di ostentare le armi. I nobili agivano in una struttura di potere che era loro familiare, in cui erano cresciuti e che si aspettavano di veder perpetuata. Questa situazione sarebbe rimasta in piedi in alcune parti dell'Europa centrale ed orientale in cui l'autorità territo­ riale era ancora spezzettata e il potere della Corona era debole. Così nella Russia di Ivan il Terribile fu concesso alla cosiddetta « nobiltà di servizio » un potere ancora più ampio di ricorrere alla violenza, per permettere di estendere con il terrore l'auto­ rità della Corona. Ma negli Stati nazionali dell'Europa occiden­ tale la violenza privata stava diventando sempre più un anacro­ nismo, perché contravveniva apertamente all'ordine pubblico, l'ordine cioè assicurato dalla Corona. L'intervento regio contro il potere militare dei grossi vassalli fu naturalmente molto cauto .

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Innanzi tutto l'esercito regio o nazionale alla metà del '500 e in alcuni paesi addirittura alla metà del '600 aveva ancora una struttura feudale. Sotto Enrico VIII nel 1523 un terzo di tutta l'armata d'Inghilterra era fornita direttamente dall'aristocrazia titolata. In Francia il re doveva ancora ricorrere alle assemblee feudali nella forma di ban et arrière-ban, che, si ammetteva, pro­ ducevano pochi risultati, ma, come mostrano le Fronde, le forze messe insieme dai nobili riuscivano ancora ad essere più nume­ rose di quelle raccolte dalla Corona sotto la sua autorità. Per tutto il periodo da noi considerato i nobili mantennero l'iniziativa militare. Solo verso l 'inizio del XVII secolo ci fu un serio passo in avanti - ad opera del principe Maurizio in Olanda e di Gustavo Adolfo in Svezia - verso la formazione di un esercito nazionale svincolato da alleanze di tipo feudale, e soltanto con la New Mode! Army di Cromwell fu creata una forza nazionale completamente democratica . Per altri versi fu­ rono i nobili a servire da modello . Le guerre civili in Francia furono preminentemente decise da leghe di fazioni aristocra­ tiche, e l'equilibrio di potenza tra diversi interessi nobiliari giocò il suo ruolo nella storia dei Paesi Bassi, della Polonia e di altri paesi . In queste situazioni non era raro trovare esempi di abuso e di violenza . Particolarmente rilevante è il caso della Francia. Conosciamo le lagnanze dei rappresentanti della città di Epernay nel 1 560, perché « la nobiltà al giorno d'oggi è cosl violenta e fuori legge che si dedica soltanto alla spada e agli assassinii » . François d e l a Noue, egli stesso veterano d i molte guerre, con­ dannava nel 1 585 quei nobili che pensavano che « i segni della nobiltà fossero spargere il terrore, colpire e impiccare a proprio piacimento ». Non furono solo le guerre di Francia, ma anche altri rivolgimenti a mostrare come i nobili avessero il potere di minacciare lo Stato : in Inghilterra la ribellione contro Elisabetta dei conti del nord nel 1 569 e di Essex nel 1 60 1 , in Francia le rivolte dei protestanti e della fazione di Montmorency nel 1632, contro Luigi XIII . L'indignazione dei contemporanei era diretta più che contro le rivolte politiche, contro l'uso arbitrario della violenza perso­ nale, in cui i nobili erano veramente imbattibili . Durante le guerre civili in Francia ci furono diversi commentatori che lamentavano di scorgere nelle spedizioni militari le trame ordite dai nobili dell'una e dell'altra parte religiosa per sfruttare le

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popolazioni. « Sembra che i nobili e il nemico - protestava uno scrittore cattolico nel 1573 abbiano giurato di causare la totale rovina della gente » . Non e r a ampiamente provato, recl a­ mava uno scrittore del Delfinato, che i nobili ben di rado attac­ cassero le loro proprietà, anche quando appartenevano a partiti diversi, mentre saccheggiavano soltanto le case dei cittadini ? I francesi erano come agnelli portati al macello. Gli ugonotti e la nobiltà cattolica, si scriveva dalla Linguadoca, « si aiutano chiaramente fra di loro ; gli uni tengono il vitello mentre gli altri lo sgozzano ». Era assai comune che i nobili si dessero al banditismo, specialmente in tempo di guerra. Le guerre civili in Francia restarono famose per la comparsa di nobili-banditi, il più potente dei quali fu il membro della Lega La Fontenelle, che operò in Bretagna fino al 1 602 . Claude Haton raccontava nel 1 578 le gesta di un gruppo di signori nella Champagne « che perpetravano indicibili e incredibili atti di violenza, ra­ pine, ratti, furti, assassinii, incendi, e ogni altro genere di cri­ mini, senza alcun rispetto delle persone di qualsiasi rango » . Sotto Luigi XI I I molti dei signori feudali continuarono l e loro violente abitudini, come ben potevano permettersi dal momento che avevano i loro eserciti personali e le loro clientele . Il duca di La Rochefoucauld arruolò millecinquecento uomini in quattro giorni per l'assedio di La Rochelle e disse con orgoglio al re : « Sire, non c'è nessuno che non sia dei miei » . Con l'estendersi di queste influenze locali, alcune signorie feudali degenerarono nella tirannia . Così avvenne per Gabriel Foucault, visconte di Daugnon, governatore di La Marche, descritto dal commentatore Tallemant des Réaux come « un gran ladro, uno che prende volentieri in prestito senza mai restituire, e un gran dispensa­ tore di randellate ». Era lui che ricompensava i suoi seguaci con le figlie che aveva rapito ad altri. Il banditismo dei nobili era un fenomeno comune dell'Europa meridionale, e molte delle bande operanti in Castiglia al tempo di Filippo IV erano coman­ date da nobili signori . Nell'anno 1 578 fece la sua comparsa Alfonso Piccolomini, duca di Montemarciano, che per i tredici anni successivi operò come il più grosso feudatario masnadiero d'Italia. Fu contro l'anarchia feudale rappresentata da uomini del genere che papa Sisto V combatté con qualche successo. Quando il granduca Ramberto Malatesta aveva cominciato a -

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praticare il brigantaggio negli stati pontifici, Sisto V lo aveva prontamente fatto arrestare e giustiziare nel 1 5 8 7 . Alla metà del XVII secolo, gran parte d i questi fenomeni di brigantaggio e di anarchia feudale erano stati eliminati, essendo una troppo aperta minaccia contro lo Stato, perché lo Stato potesse chiudere un occhio . Non avvenne la stessa cosa per quelle più limitate forme di violenza tipiche della vita feu­ dale, come i duelli e i crimini minori, che continuarono a so­ pravvivere ad onta della politica statale. Gli editti contro i duelli, ad esempio, caddero sempre nel vuoto . Se un nobile pensava di poter difendere il suo onore, lo faceva, e la costante ripeti­ zione degli editti contro la pratica dei duelli dimostra l'impossi­ bilità di cancellare quest'usanza . Nel ducato di Lorena si potreb­ bero enumerare formali e solenni divieti di fare duelli nel 1 586, 1 59 1 , 1 60 3 , 1 609, 1 6 1 4 , 1 6 1 7 , 1 626 e cosi quasi all'infinito. I governi francesi si preoccuparono egualmente di questa pra­ tica, e Sully cercò di reprimerla duramente . La ben nota ostilità di Richelieu non fu una novità ma restò senza effetti. Egli ordinò l'esecuzione di Montmorency-Bouteville solo perché la sua vittima lo aveva provocato ; oltre a questo, come egli disse nel 1 63 2 , « il re deve dare altri esempi ». Ma i duelli durarono ben più di Richelieu . In ogni caso, emanando i suoi editti contro la pratica dei duelli, il cardinale non si ispirava ad un senti­ mento contrario alla nobiltà. Al contrario, le leggi erano desti­ nate a far desistere dall'autodistruzione una classe dirigente altamente stimata, « nulla standomi più a cuore », come osser­ vava Luigi XIII, « che fare tutto quello che posso per proteg­ gere i miei nobili » . Fa testo il caso del maresciallo di Francia duca di Gramont : stando a quanto diceva, lui solo duellando aveva tolto la vita a novecento gentiluomini, durante la reg­ genza di Anna d'Austria. Per quanto sia facile raccogliere testimonianze del genere, rimane tuttavia il fatto che nel XVII secolo l 'esercizio della vio­ lenza da parte della nobiltà stava diventando più l'eccezione che la regola . Le ragioni di ciò sono soprattutto da cercare nella deliberata politica di rafforzamento della legge seguita dalle mo­ narchie occidentali, nel graduale impoverimento di molte fami­ glie di nobili e quindi nella riduzione del loro seguito, nella nascente preferenza per le contese legali piuttosto che per gli

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atti di brigantaggio. Per l'Inghilterra, lo Stone ha dimostrato in maniera convincente che le armi e gli uomini di cui la nobiltà poteva disporre erano sensibilmente diminuiti all'inizio del XVII secolo . Il governo cominciava ad intervenire con mano ferma. Un giudice inglese, nel 1592, ammoniva il conte di Shrewsbury : « Quando nel paese in cui vi trovate dovete entrare in conflitto con i vostri inferiori, credo che sia giusto, equo e saggio badare che la parte più debole non sia sopraffatta dalla più forte » . Nel 1 597 in Spagna, Castillo de Bobadilla, uno scrittore contemporaneo di Filippo II, diceva di lui che aveva umiliato i nobili : « non li perdona con la consueta cle­ menza, né ha rispetto per le loro terre, e non c'è ora giudice che non possa agire contro di loro e togliere loro denaro e cavalli » . In queste dichiarazioni è possibile scorgere la chiara afferma­ zione di un principio giuridico, che, sebbene ancora incapace di controllare l'indipendenza della nobiltà, si avviava a farle accettare le regole di condotta stabilite dallo Stato.

Nobiltà e affari. La pacifìcazione della nobiltà, la lenta distruzione dell'idea che il nobile doveva considerarsi innanzi tutto un guerriero, la­ sciavano posto ad una nuova etica. Quasi nello stesso modo andavano rapidamente cambiando altri pregiudizi che i nobili avevano lungamente nutrito . Forse il più noto di questi atteg­ giamenti era la convinzione che i nobili non dovevano lavorare per vivere, che un gentiluomo non doveva sporcarsi le mani con il lavoro . Per molte ragioni questa convinzione era più radicata nell'Europa meridionale e meno in quella occidentale . È risaputo che nella Spagna nessun hidalgo avrebbe compromesso il suo onore nel commercio. Lavorare per guadagno o per profitto era degradante . Come osservava il nobile ferrarese Sardo, « la ric­ chezza ereditaria è più onesta di quella acquisita, considerato che quest'ultima è frutto di un vile guadagno ». Questi possono essere stati ammirevoli sentimenti sulle labbra di chi si era trovato ad ereditare ricchezze. Ma in un mondo in cui moltissimi cercavano di ricostruire fortune perdute, ci sarebbe stato chi non avrebbe condiviso i pregiudizi contro il commercio . In Inghil­ terra non c'era mai stata alcuna obiezione, sia di carattere sociale

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che di principio, contro la partecipazione dei nobili al mondo degli affari . È quindi ai paesi latini che dobbiamo guardare per renderei conto di questo mutato atteggiamento . Tra gli scrittori che nel tardo Cinquecento argomentavano in favore del commercio c'era il giurista francese André Tira­ queu : nei suoi Commentarii de nobilitate (Basilea 1 56 1 ) egli affermava che il commercio non era contrastante con la nobiltà quando era l'unico modo possibile di sbarcare il lunario . In Italia il giurista Benvenuto Stracca, pur rappresentando il punto di vista più conservatore che aveva prevalso in precedenza a Venezia, metteva in chiaro nel suo Tractatus de mercatura ( Ve­ nezia 1 575 ) che un nobile poteva prendere parte al commercio su larga scala ma non a quello minuto, né poteva parteciparvi di persona, ma come sovrintendente. Queste distinzioni sareb­ bero state le regole più largamente accettate. Ma a dispetto di questi scrittori l'atteggiamento prevalente era quello tradizio­ nalista . Come affermava il giurista francese del Cinquecento Loyseau, nel suo Traité des ordres, « è il guadagno , vile o sor­ dido, che deroga alla nobiltà, il cui vero ruolo è di vivere di rendita » . Deroga, dérogeance, era un termine tecnico con un significato molto serio, indicava vale a dire la possibile perdita dello status nobiliare. Come altri giuristi, Loyseau ammetteva che prendere parte al commercio non comportava la perdita, ma soltanto la sospensione del rango della nobiltà : « tutto dò che è necessario per la riabilitazione è una lettera sottoscritta dal re ». Certamente in Francia furono il re e il governo che fecero il possibile per demolire il vecchio atteggiamento nei con­ fronti del commercio . Al volgere del secolo, per esempio, quando il Parlamento di Lione richiese che i mercanti diventati nobili vivessero noblement ( cioè senza più praticare il commercio ), a consiglio reale dichiarò, nel giugno 1 607: « il re desidera che essi godano pienamente e liberamente i privilegi della nobiltà, come se fossero nobili di antico lignaggio , e che essi possano continuare a dedicarsi agli affari e al commercio su larga scala » . Questo verdetto ufficiale non faceva che seguire altri simili , e confermava l 'interesse del governo a vedere i nobili investire il loro denaro là dove portava maggiori benefìci allo Stato . Con Richelieu si ha la più precisa affermazione di questo orienta­ mento. Nel codice Michau, dovuto a lui e a Marillac, una clau­ sola dichiarava che « tutti i nobili che direttamente o indiretta-

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mente hanno quote di partecipazione di navi e del loro carico, non perdono la loro condizione nobiliare » . Al tempo di Colbert i nobili che si dedicavano al commercio non rischiavano certa­ mente l'infamia. In realtà alla fine del XVII secolo anche la Spagna sembra aver abbandonato il tradizionale atteggiamento : tra le leggi del codice è accolta una decisione, adottata sia in Aragona che in Castiglia ( rispettivamente nel 1626 e nel 1682 ), secondo cui l'esercizio dell'industria e del commercio dei tessuti non era contrario alla condizione nobiliare ; e a Segovia, centro dell'industria tessile castigliana, molti stabilimenti appartene­ vano a nobili . In altre parti d'Europa c'erano cosi pochi ostacoli alle atti­ vità imprenditoriali dell'aristocrazia, che dovunque si trovavano nobili interessati ad attività industriali e commerciali . Si è af­ fermato qualche volta che, almeno nell'Europa occidentale, ra­ ramente i nobili si davano al commercio, e più spesso avevano interessi in imprese industriali . In Inghilterra Dudley Digges affermava nel 1 604 che « il ruolo di mercante si addiceva soltanto ai gentiluomini di Firenze, di Venezia o di simili paesi »; in altre parole che solo decadenti forestieri si dedicavano al com­ mercio. Ma sarebbe sbagliato prestar fede alla testimonianza di Digges . Se i nobili preferivano l 'industria al commercio, c'erano certamente buoni motivi : essi erano in genere proprietari ter­ rieri, e la terra produceva minerali, carbone, metalli, legna e altri beni del genere, un capitale che era logico fosse investito dagli stessi produttori . Il commercio, specialmente quello d'ol­ tremare, non poteva essere al primo posto negli interessi di chi aveva in casa una ricca industria. Ciò non vuoi dire che un industriale di nobili origini avesse pregiudizi contro il commer­ cio, perché moltissimi imprenditori industriali avevano anche interessi negli scambi commerciali e nelle esportazioni. Il tentativo di modificare atteggiamenti radicati è testimo­ niato dall'uso, sia in Lorena che in Francia, dei termini gentils­ hommes-verriers e gentilshommes-mineurs, per indicare coloro che godevano privilegi nobiliari a seguito della loro partecipa­ zione alle industrie del vetro e a quelle minerarie. Alcuni nobili avevano partecipazioni nell'industria del vetro . Altri , nelle mag­ giori città - per esempio a Lione e a Bordeaux - avevano ottenuto con decreto reale il permesso di dedicarsi al commercio . In Inghilterra non c'erano barriere da demolire, perché qui i

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nobili si distinguevano nello sfruttamento delle mtmere di loro proprietà e nella promozione di iniziative mercantili. « Nel pe­ riodo elisabettiano - è stato scritto - il più attivo imprendi­ tore del paese non era uno degli abili mercanti o degli intrapren­ denti personaggi della nuova nobiltà, ma un pari di antico li­ gnaggio, George Talbot, nono conte di Shrewsbury » . Questi era un grosso agrario, un armatore, un industriale del ferro, del­ l'acciaio, del carbone e del vetro ; per di più aveva interessi in compagnie commerciali. I più illustri nomi dell'aristocrazia del regno, tra i quali i Norfolk, i Devonshire e gli Arundel, erano soci di imprese industriali . Non tutti i nobili erano diretti im­ · prenditori : alcuni facevano solo da prestanome. Nessun aristo­ cratico affidava le sue entrate soltanto all'industria. I profitti più grossi venivano ancora dalla terra e fu all 'incirca dopo il 1 600, che i nobili cominciarono ad interessarsi allo sviluppo edilizio della città e al drenaggio delle paludi. Tutto considerato co­ munque la partecipazione dei nobili al mondo degli affari fu sempre considerevole. « L'aristocrazia ricoprl un ruolo - ricorda lo Stone - con cui nessun altra classe, né la piccola nobiltà né i ceti mercantili, riuscirono a rivaleggiare » . Sebbene il loro con­ tributo allo sviluppo economico fosse quantitativamente ridotto , era rivolto verso iniziative finanziariamente assai rischiose. Fu­ rono gli aristocratici a rischiare in imprese industriali e com­ merciali il loro denaro, in misura cosl notevole da mandare molti di loro alla rovina, ma essi contribuirono anche a spianare la strada ai successivi investimenti di capitale operati da altre classi. Rispetto all 'Inghilterra, nei paesi vicini le cose non andarono in maniera molto diversa . Se prendiamo la Scozia del XVII ,e­ colo, è qui che il conte di Wemyss diceva a Cromwell nel 1 658 che la ricchezza di molti scozzesi « nobili, gentiluomini o di altra condizione viene in gran parte dalle miniere di carbone », attri­ buendo alla nobiltà un particolare ruolo capitalistico. È interes­ sante notare che i nobili-imprenditori scozzesi potevano servirsi, nelle loro miniere di carbone, di una forza-lavoro sottosviluppata. Questa combinazione di feudalesimo e di capitalismo, era diffusa nel continente, dove ricchi mercanti e industriali di rango no­ biliare, nell'Holstein, in Prussia, in Boemia, in Russia beneficia­ vano della disponibilità di mano d'opera a buon mercato che seguiva ai mutamenti nell'economia agraria. Heinrich Rantzau,

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il primo e il più importante dei nobili-imprenditori nell'Holstein del XVII secolo, trasse grandi profitti dalla messa a coltura dei suoi possedimenti, e ne reinvestl i proventi in attività industriali sulle sue terre. Rantzau impiantò trentanove stabilimenti per la produzione di legname, farina e olio, e per la fabbricazione di oggetti di rame, ottone, ferro . I prodotti agricoli e quelli in­ dustriali erano esportati, e i più ricchi mercanti di Kiel, per esempio, erano nobili . Dopo i critici anni del primo Seicento i nobili dell'Holstein cominciarono ad allontanarsi dagli aff ari per volgersi alla cura delle loro tenute. Ancora nel 1 6 1 5 un aristo­ cratico come il duca Giovanni Adolfo di Holstein-Gottorf affer­ mava che « il commercio non è degno di un nobile » . Nell'Europa centro-orientale i nobili non desistettero cos} facilmente. È proprio all'inizio del XVII secolo che nel ducato di Friedland assistiamo alla fondazione, da parte di Wallenstein, della più grande impresa capitalistica dell'Europa centrale. Il Friedland godeva, è vero, di una particolare condizione, poiché era finanziato e faceva parte dell'ingranaggio della guerra: le sue industrie, tra cui quella delle munizioni, non erano essen­ zialmente collegate con i traffici di pace . Ma il Friedland illustra chiaramente una condizione comune, che è bene sottolineare, in cui solo i nobili avevano i mezzi per procurarsi i capitali e per investirli. Nelle aree in cui la borghesia era debole, o in progres­ sivo declino, fu la nobiltà ad assumere il controllo del commercio e dell'industria. Se, invece di !imitarci alla situazione dell'Europa occidentale, consideriamo l'Europa nel suo insieme, emerge il fatto importante che la maggior parte della nobiltà del conti­ nente era impegnata attivamente negli affari, senza escludere il commercio . In Svezia i nobili erano importanti imprenditori sin dal XVI secolo . Generalmente essi sfruttavano le miniere delle loro terre - specialmente di minerali di ferro - e da questa attività pas­ savano poi al commercio . I profitti commerciali consentivano loro di accumulare capitali che investivano in fucine e in attività industriali, o anche prestandoli ad interesse . I loro investimenti commerciali erano assicurati dal privilegio, ad essi garantito, che i prodotti potessero essere esportati dalle loro terre liberi da ogni tassa. Fu cos} che molti dei nobili più ricchi acquistarono bastimenti. La nobiltà tedesca si dedicò a varie attività. Nel Brandeburgo, come ora vedremo, i nobili tendevano a monopo-

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lizzare sia l'industria che il commercio. Fu a loro che il cuore della Germania deve i suoi esordi industriali, poiché fu l'inco­ raggiamento dei principi che permise agli imprenditori rifugiati da altri paesi di mettere radici . Nella Bassa Sassonia il duca Antonio I von Oldenburg incoraggiò i suoi nobili a prendere parte personalmente alle attività mercantili, e da ciò derivò l'emergere di una classe di capitalisti nobili . Uno di questi fu Stats von Miinchhausen, che fondò la sua fortuna sfruttando le sue terre, ma investì poi i profitti agricoli nel commercio del ferro e del legname. La sua fortuna crebbe fino a diventare im­ mensa : si disse che nel 1 6 1 8 possedesse oltre dieci tonnellate di oro e oltre un milione di thaler. Qualcosa di questo denaro fu impiegato nella costruzione del suo castello di Bevern sul fiume Weser. Sulla costa del Baltico, in Pomerania, i Loytze, originari di Stettino, diventarono i « Fugger del nord » reinve­ stendo i profitti che avevano tratto dalla terra . Quando la loro azienda andò in rovina, nel 1572, un gran numero di nobili si trovò in difficoltà e il Cancelliere di Pomerania, per le perdite subite, si suicidò . L'Ungheria si può usare come sommario esempio della situa­ zione dei paesi dell'est. Dal momento che la sua economia non era in nessun senso industrializzata, i traffici ungheresi con l'estero consistevano nell'esportazione di prodotti agricoli e nell'importa­ zione di manufatti. I nobili erano signori terrieri e per di più dominavano il commercio dei loro prodotti : erano così sia agrari che mercanti . Nella sua autobiografia Bethlen Miklos , nobile transilvano del XVII secolo, racconta di aver commerciato in grano e vino . Inoltre, egli scrive, « ho commerciato sale senza nessuna perdita; al contrario è da questi tre prodotti [ grano, vino, sale ] che ho tratto quasi tutta la mia fortuna, perché la rendita delle mie terre da sola non avrebbe mai potuto sostenere le spese che ho dovuto fare » . Bethlen, tra l'altro, commerciava in bestiame, ovini, miele e cera. In Russia le condizioni erano così radicalmente differenti da quelle dell'Europa occidentale che un ambasciatore austriaco ri­ feriva stupito nel 1 66 1 : « tutte le persone di rango e persino gli ambasciatori vendono ai principi stranieri, commerciano pub­ blicamente. Comprano, vendono, scambiano senza scrupoli, met­ tendo così il loro rango elevato, per quanto possa essere rispet­ tabile, al servizio della loro cupidigia ». Egli avrebbe potuto

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aggiungere che lo stesso zar era tra i più grossi uomini d'affari, con redditizi interessi sia nel commercio che nell'industria. Nelle terre dello zar, dei monasteri e dei boiardi fiorivano attività in­ dustriali . Tra i più grossi mercanti di condizione nobiliare del XVI secolo c'era la famiglia Stroganov, i cui membri avevano collegamenti con il commercio internazionale. Per servire gli interessi produttivi e commerciali di questa élite, fu creata una forza-lavoro di condizione servile : la schiavitù industriale era una realtà, e i lavoratori di questa categoria di sfruttati erano noti come « servi di Stato » . Queste poche osservazioni ci chiariscono che i n gran parte dell'Europa i nobili non erano affatto gli indolenti parassiti che essi hanno spesso fatto credere di essere . Al contrario, erano spesso produttori anziché consumatori di ricchezze. In qualunque paese, ad est, o ad ovest, gli aristocratici si dedicavano ad attività industriali e commerciali se le condizioni economiche erano fa­ vorevoli e se non c'era altra classe imprenditoriale a portata di mano . Da questo punto di vista più generale, è possibile capire perché la nobiltà francese si teneva generalmente lontana dal commercio, mentre non era cosi per la nobiltà russa. Non bisogna d'altra parte trascurare un altro importante fenomeno sociale, che cioè in alcuni paesi occidentali persistette un forte pregiudizio sociale verso i profitti guadagnati col com­ mercio, e che nel XVII secolo questo pregiudizio era ancora ab­ bastanza forte da incidere sulle attività imprenditoriali della nobiltà mercantile italiana, ad esempio, di cui alcuni membri appartenevano a famiglie che provenivano dalla borghesia. La presenza dei nobili nella vita economica, è bene sottoli­ nearlo, non rispose necessariamente a una funzione progressiva . Nell'Europa centrale e orientale l'ingresso degli aristocratici nel mondo degli affari arrestò la crescita di un'autonoma classe di mercanti, e in alcune città distrusse un preesistente settore com­ merciale . . Il controllo di capitale da parte delle classi feudali impedl lo sviluppo di una forte borghesia, e la comparsa di signori terrieri che esercitavano il commercio portò alla deca­ denza dei centri urbani . Tutto ciò fini per avere sfavorevoli conseguenze per la vita economica delle aree interessate. « Ca­ pitalismo feudale » suona come una contraddizione in termini, ma era anche una contraddizione reale. In effetti fu solo in quei paesi dove una vigorosa borghesia assunse il controllo dello svi-

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luppo economico, che il contributo della nobiltà può essere con­ siderato un benefico, costruttivo, audace passo in avanti.

Ricchezza n obiliare e spreco. Se c'era una sola caratteristica essenziale della nobiltà che sovrastava tutte le altre, questa era la ricchezza : l'aristocratico era il ricco. Chi apparteneva saldamente alla classe nobiliare avrebbe preferito che il suo status corrispondesse al « sangue » , ma i l principio corrente nelle varie nazioni contraddiceva questo desiderio. Osservava uno scrittore spagnolo del tempo, Arce Otalora : « è legge e costume dappertutto in Italia, in Germania e in Francia, che coloro che non vivono in condizione di nobiltà, non possano godere i suoi privilegi ». Per di più in Spagna, egli avrebbe potuto aggiungere, le antiche leggi di Castiglia dichia­ ravano che « se un nobile cade in povertà e non può sostenere la sua condizione nobiliare, egli diventerà un semplice cittadino, e con lui i suoi figli ». L'uguagliamento della nobiltà alla ric­ chezza, creava diversi problemi, di cui il più fastidioso per gli aristocratici di nascita era la capacità dei neo-ricchi di elevarsi al loro rango . I nobili di conseguenza si aggrappavano dispera­ tamente al principio di una élite di sangue, che non cessava di essere tale solo perché era caduta in povertà. I proventi ottenuti con la leva feudale ( arrière-ban ) nella Francia di Luigi XIII di­ mostrarono quanto fosse diffuso l'impoverimento, e come la nobiltà provinciale fosse strutturata come una piramide, la cui sommità era composta di pochi ricchi, mentre la base era occu­ pata da un vasto numero di gentiluomini squattrinati . Per questi molti, l'espressione « nobile ma povero » fini per diventare una comune definizione, usata dai funzionari amministrativi, che erano ben consapevoli della contraddizione in termini . I libri contabili della tesoreria di Francia presentavano voci riguardanti somme di dieci o più livres pagate come sussidio a « gentiluomini po­ veri » al fine « di aiutarli a vivere ». In Spagna dove il numero di coloro che si autodefinivano « di condizione nobiliare » ( hidal­ gos) era di gran lunga più alto che in Francia, il fenomeno di una nobiltà impoverita era un fatto cosi comune da diventare un tema tipico, quasi predominante, della letteratura e dell'arte del tempo . Tuttavia malgrado questi nobili impoveriti, la ric-

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chezza rimane il contrassegno degli aristocratici europei. Di che era fatta? Se in parte si affidava ad attività capitalistiche nel commercio e nella produzione, la nobiltà di tutti i paesi ricavava i suoi redditi dalla terra, sebbene vi si dedicasse in maniera assai diffe . rente . In genere nell'Europa occidentale i nobili andarono allon­ tanandosi dalle loro terre per trasformarsi in proprietari terrierì assenteisti piuttosto che in produttori agricoli ; nei paesi dell'est invece si andarono sempre più legando allo sfruttamento della terra. La natura della proprietà nobiliare diventò in questo modo differente nelle due aree. Ad occidente una fiorente economia monetaria significava che si poteva fare di tutto per ricavarne subito denaro : le terre si davano in fitto, le case erano vendute, le cariche pubbliche comprate e vendute. In Inghilterra l'abbandono dello sfruttamento diretto del suolo fu considerevole. Prima del 1 600 gli introiti che il conte di Rutland ricavava facendo coltivare le sue terre ammontavano a circa un quinto del suo reddito ; dopo il 1 6 1 3 , quando cominciò a dare in fitto la terra, scesero fino a circa un ventesimo . Alla metà del secolo XVII la maggior parte degli alti aristocratici inglesi si erano trasformati in proprietari assenteisti . Via via che lo sfruttamento della terra diventava capitali­ stico, essa cessava di essere quel principale cespite d'entrata che era stato prima. Molti degli aristocratici più dotati di preroga­ tive nobiliari ricorsero ad altre fonti d'entrata, agli affitti, alle pensioni, alle cariche pubbliche. La proporzione tra redditi agrari e altre fonti di guadagno può essere illustrata da qualche semplice esempio che si rife­ risce ad aristocratici di più antica nobiltà e a funzionari dello Stato, che, come si ammette, erano in miglior posizione, rispetto ai più, per potersi assicurare entrate da fonti diverse dai diri tti feudali . In Francia il maresciallo d'Ancre nel 1 6 1 7 aveva un patrimonio di oltre sette milioni di franchi, di cui un solo mi­ lione veniva dalla terra, mentre il resto derivava da cariche o da altre fonti pubbliche di reddito. Il duca d'Epernon, di antico lignaggio, aveva intorno al 1 640 un reddito annuo di 343.000 livres, di cui solo metà veniva dalle sue ventitré tenute. In Spagna nel 1 622 il duca di Lerma stese per il re una rela­ zione sui suoi redditi : di un'entrata complessiva di 1 20 .000 ducati, quasi due terzi erano compensi di servizio, e solo un

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terzo proveniva dalla terra. Il duca di Béjar nel 1 630 ricavò solo il trentacinque per cento del suo reddito dalle sue terre ; per il resto, la quota più alta, il quarantacinque per cento era rappresentata da diritti fiscali . Questi nobili erano ricchi, ma erano pochi . La maggior parte, come osservava Richelieu nel 1 6 1 4 , « povera di denaro, per quanto è ricca di onore, non può ottenere posti nella Casa Reale o cariche giudiziarie, dal momento che si può arrivare a questi alti uffici solo disponendo di mezzi che essi non pos­ seggono ». Dispensatrici di queste cariche pubbliche erano le corti, fenomeno limitato più o meno a cinque centri in Europa : Londra, Parigi, Vienna, Madrid e, in buona misura, Roma . Gli altri paesi avevano i loro centri di governo e di vita sociale, ma solo in quei cinque le corti riunivano le caratteristiche sia delle grandi città che delle residenze reali ( Madrid era chiamata difatti semplicemente la Corte), e sia dei centri di vita politica che di vita sociale ; soprattutto erano il cuore di una crescente burocrazia, in seno alla quale era permesso un aperto traffico di pubbliche cariche . A prima vista Roma potrebbe sembrare un'eccezione tra quelle cinque, ma in effetti rappresentava l 'archetipo delle corti . Fornita di personale proveniente da una ricca aristocrazia, come le famiglie Colonna e Orsini, teatro del più prodigo sfoggio di lusso, Roma dispensava cariche e favori alla più nutrita buro­ crazia del mondo, quella ecclesiastica . In Francia la corte aveva attirato l'attenzione degli aristocratici molto prima del regno di Luigi XIV. La protezione reale non aveva solo portato all'ascesa di parvenus come d'Ancre, ma si era anche mossa in aiuto della nobiltà, concedendo gratifiche a quella minore ed enormi pen­ sioni all'alta aristocrazia . Tra il 1 6 1 1 e il 1 6 1 7 un totale di quaranta milioni di livres fu sborsato a nove nobili, tra cui il Condé, che ricevette tre milioni e cinquecentomila livres. Una fonte parimenti lucrosa di entrate per il re e i cortigiani era la vendita delle cariche pubbliche : cosl Sully vendette il grado di capitano della Bastiglia per 300 .000 livres, e il marchese di Rambouillet il posto di regio guardarobiere per la stessa cifra. I nobili inglesi sfruttavano la corte allo stesso modo. Essi rice­ vettero in dono o in fitto terre che appartenevano ai disciol ti monasteri, terre irlandesi o di altra origine . Ottenevano anche doni in denaro (Giacomo I nell'anno-record 1 6 1 1 elargl 43 .000

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sterline ai suoi favoriti scozzesi ), o rendite ; traendo beneficio dalla loro influenza si assicuravano privilegi commerciali, ap­ palti di tasse e monopoli, in misura tale che i ceti mercantili cominciarono a mostrare il loro risentimento contro la corte per questa arbitraria direzione della politica economica. Madrid, che era non solo la più burocratica delle grandi città europee, ma anche una di quelle in cui l'aristocrazia aveva maggiore potere, non era da meno delle altre corti nel concedere vantaggiose sistemazioni a chi andava a caccia di favori . I nobili non anda­ vano tanto alla ricerca di denaro ( sebbene anche questo avve­ nisse ) quanto di altre mercedes o benefici : lucrosi incarichi in Spagna o nelle Indie, rendite (juros ), terra e altri simili privi­ legi . Le nobili case che navigavano in cattive acque attendevano come un loro diritto che la Corona le salvasse, cosicché poteva succedere che il duca di Sessa morisse nel 1 606 « di crepacuore per essere caduto in rovina e perché il re non gli aveva concesso una merced per pagare i suoi debiti ». In effetti Filippo III pagò un quarto dei debiti del duca morto e stabill una rendita in favore della vedova e del figlio . Col sostegno del patrimonio terriero ereditario e dei favori delle grandi monarchie, la classe nobiliare era ben lontana dal­ l'essere impoverita, come senza dubbio succedeva ad alcuni dei suoi membri . L'aristocrazia della Chiesa e dello Stato attraversò momenti difficili , ma non corse alcun pericolo di perdere la posizione di privilegio che gli assicuravano la ricchezza e la tradizione . Questo pericolo poteva venire dal bisogno di « vivere nobil­ mente ». Anche rispetto agli standard del tempo una gran quan­ tità di denaro era sperperata . Ciò che è stato chiamato « con­ sumo cospicuo » non era che il tentativo di tener alte le appa­ renze . Confessava lo spagnolo duca di Béj ar nel 1 62 6 : « Tutti credono che io sia ricco e io non desidero che gli altri sappiano altrimenti perché non avrei più credito nei loro confronti se sapessero che sono povero » . Sin troppo spesso, comunque, la scelta di tenere alte le apparenze era finanziariamente un sui­ cidio . Un esempio tipico era l'abitudine di mantenere un grande apparato di servi e di dipendenti . Nel 1 57 1 l'inglese conte di Pembroke aveva duecentodieci uomini che vestivano la sua livrea, e nel 1 6 1 2 troviamo, sempre in Inghilterra, il conte di Rutland con un seguito di quasi duecento persone. La pratica

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di mantenere un corteggio di seguaci al proprio servtzto incorag­ giava la violenza e la lotta tra case rivali, teneva in piedi gli orpelli di un feudalesimo in disfacimento, rendeva di moda il parassitismo e impoveriva la nobiltà . I governi perciò incomin­ ciarono ad adottare provvedimenti per regolare questa pratica. Una interpretazione contemporanea dello Statuto inglese dei dipendenti fu fornita da Bacone : « i monarchi di questo regno - egli scriveva - trovando che da molto tempo un'autorità di tal genere concessa ai nobili fosse pericolosa per la Corona e non utile al loro popolo, pensarono che fosse opportuno limi­ tarla con disposizioni di legge ; per questo nacque lo Statuto dei dipendenti ; cosl gli uomini ora dipendono ·dal principe e dalle leggi e da nessun altro » . Questo orientamento, espresso dal governo, rifletteva l'interesse dell'ordine pubblico. Ma i disordini non cessarono del tutto , cosl come non spari il costume di mantenere un grosso seguito di persone. Tra le leggi spa­ gnole, per esempio, ce n 'era una del 1 623 che limitava il seguito personale a non più di diciotto persone ; tuttavia, cin­ quant'anni più tardi il primo ministro, conte di Oropesa, ne aveva uno composto di settantaquattro uomini . A Roma, ancora alla fine del XVI secolo, i principi della Chiesa mantenevano, in maniera veramente principesca, un seguito che arrivava a cen­ tinaia di persone, tra cui numerosi schiavi . Era a questa Roma che un ambasciatore veneziano si riferiva quando, nel 1 5 9 5 , scriveva che « a i nostri giorni i l lusso e l e comodità sono stati introdotti in tutti i paesi e in tutte le corti anche nelle nazioni più lontane e più barbare ; cosl è per Roma, che sembra un campo aperto a queste influenze più di altri paesi » . All'inizio del Seicento, quasi a conferma di queste parole, l'ambasciatore francese in Polonia osservava che « i Polacchi vivono con pompa e lusso incredibile. Molti nobili hanno un seguito di cinque o seicento persone » . Generalmente questa smodata ostentazione di seguaci era troppo dispendiosa perché i nobili riuscissero a mantenerla per lungo tempo, e ben presto si presentava loro la scelta tra fare economia o fare bancarotta. Ma in molti altri modi una eccessiva dispendiosità poteva essere rovinosa. Ci si concedeva abiti sontuosi, contro cui pun­ tavano il dito le accuse di La Noue alla nobiltà francese, cibi, gioco d'azzardo, cacce e altri simili passatempi, in misura tale che sbalordiva i comuni cittadini . I banchetti offerti a Roma

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dai cardinali e dal papa erano leggendari . I prlncipi secolari non erano meno dediti a questo smodato consumo di cibi, special­ mente nell'esercizio di funzioni diplomatiche . Fu senza dubbio il bisogno di sbalordire che fece dare all'inglese lord Hay, nel 1 62 1 , un banchetto in onore dell'ambasciatore francese, per il cui allestimento un centinaio di cuochi furono occupati otto giorni a cuocere milleseicento piatti . In uno dei capitoli prece­ denti ho parlato della stravagante festa nuziale del nobile boemo Guglielmo di Rozmberk nel 1 5 8 7 . Anche di suo fratello Peter si diceva che offrisse da mangiare ogni giorno a centonovantadue persone, su quattordici tavole. Molti nobili temevano banchetti di tal genere. Quando nel 1 643 l 'ammiraglio di Castiglia offrì un grande pranzo agli ambasciatori dei Grigioni, « gli altri si­ gnori », riferiva un contemporaneo gesuita, « a cui era stato chiesto di partecipare, temevano l 'avvenimento perché non avreb­ bero potuto fare di più . I tempi non erano propizi a questi eccessi di prodigalità, ma se essi avessero speso meno, la cosa sarebbe stata notata . Non sapevano dunque che decisione pren­ dere, e dicevano che i tempi erano duri ». Eppure si continuava a fare buon viso a cattivo gioco e la prodiga ostentazione con­ tinuava. Poche cose davano lustro al proprio rango, e infastidi­ vano i governi, come l'acquisto e l'abbellimento delle carrozze . In tutte le corti europee si sprecavano piccole fortune per ten­ tare di possedere una carrozza più elegante di quelle dei nobili . Era questo uno dei particolari più importanti che caratterizza­ vano le leggi suntuarie del tempo . I governi si opponevano per due ragioni soprattutto : in primo luogo perché sfoggiando car­ rozze più lussuose di quelle dei loro superiori sociali, i nobili contravvenivano alle regole della precedenza e provocavano ten­ sioni sociali ; secondariamente perché l 'uso dei materiali decora­ tivi come l 'oro e l'argento violava la politica statale nei con­ fronti dei metalli preziosi . Tali stravaganze fecero le loro vlttlme, e lo dimostrarono molti casi che conosciamo di nobili che letteralmente distrus­ sero le loro sostanze, come il conte di Oxford che, tra il 1 575 e il 1 586, dette fondo non solo alla sua rendita terriera di oltre duemila sterline annue, ma anche a più di sessantamila sterline che aveva ricavato dalla vendita della sua intera proprietà. Nella Francia di Luigi XIII uno dei generali delle galee, Pont-Courbay, che godeva del considerevole reddito di sessantamila livres

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all'anno, e manteneva un seguito di quarantaquattro servitori, fece in modo di accumulare debiti per quattrocentomila livres nel breve spazio di due anni. Il francese principe de Conti, l.In principe del sangue, aveva nel 1 655 un patrimonio fondiario di circa cinque milioni di livres, che gli fruttava una rendita annua di duecentomila livres. Ma in quell 'anno le sue uscite ammon­ tarono all'incredibile somma di oltre un milione. La pensione annua che il re gli faceva corrispondere, mezzo milione di livres, lo aiutò a coprire metà dei suoi debiti . Per far fronte al resto, Conti vendette il suo governatorato della provincia del Berry. Assai rilevante tra le voci di spesa, specialmente perché pos­ siamo ancora oggi vederne i risultati, era quella relativa alla costruzione di edifici . Il tardo Cinquecento e il primo Seicento furono in Europa la grande èra della ricostruzione. Un motivo sembra essere stato predominante : l 'ambizione dei ricchi di costruire case degne della loro ricchezza e del loro status, e che, comunque, potessero superare quelle dei loro rivali . Tornando in patria dalle guerre d'Italia e di Fiandra, gli aristocratici si dettero a sbalordire i loro vicini e i loro sovrani con uno splen­ dido tenore di vita . « Quel che è stato fatto in passato è ben poco di fronte al nostro tempo », osservava La Noue nel 1585, « poiché noi vediamo che l o splendore dei palazzi e i l numero di coloro che li fanno costruire supera di gran lunga ogni nostra cognizione, specialmente tra i nobili, che vi si dedicano più per la gloria che per necessità ». In Inghilterra il grande processo di riedificazione rurale di questo periodo, dimostrato dal numero di fattorie e di case di campagne che furono ricostruite fra il 1 570 e il 1 640 in almeno quattro differenti contee, fu parallelo all'opera della nobiltà che si costrul dimore e palazzi sia in cam­ pagna che a Londra. Questa fu l'epoca in cui videro la luce Burghley House, Chatsworth, Hardwick, Hatfield e Longleat. Tutti i ranghi dell'aristocrazia erano uniti nello sforzo di co­ struire case più grandi e più belle. « Non c 'era mai stato un numero di case belle e grandi come quelle che furono costruite e innalzate dal tempo del regno [ di Elisabetta ] », scriveva Ba­ cone nel 1 592. « Nessun regno al mondo spese tanto nella costru­ zione di palazzi quanto facemmo noi all'epoca [ di re Giacomo ] » , osservava u n altro contemporaneo . Il fenomeno può certo essere sembrato unico a un inglese, in considerazione delle enormi somme investite negli edifici. Il visitatore di Londra non aveva

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che da volgere lo sguardo su Somerset House, o su Banqueting House a Whitehall, per vedere come questa febbre si fosse diffusa nella città . Ma era una febbre comune ad altre parti d'Europa, perché la nobiltà, quando non innalzava edifici sulle sue terre, si trasferiva nelle città, dando un nuovo impulso allo sviluppo edilizio urbano . Quando le loro terre si trovavano in montagna o vicino alle frontiere, i nobili vi costruivano castelli, non più per difen­ dersi, come nell'età passata, ma come nuovi lussuosi monumenti architettonici. L'aristocrazia dell'Europa settentrionale e centrale sembra aver seguito questa pratica, specialmente quando i suoi redditi agrari glielo permettevano . Fu in questo periodo che il duca Ernesto von Schaumburg costrul il castello di Biickeburg e con esso una chiesa, entrambi riccamente decorati . Miinchhausen, come abbiamo visto, investì una parte del suo denaro in un castello . La piccola nobiltà della Pomerania, del Mecklemburg e della Prussia orientale scelse questo periodo per costruirsi ampi e lussuosi manieri , arredati con tappezzerie, cristalli e tutti gli ornamenti che poteva far venire dall'estero. Da queste prin­ cipesche e isolate dimore i nobili amministravano le loro tenute. Questo isolamento rurale fu generalmente caratteristico della classe nobiliare alla metà del XVI secolo . Essa si sentiva più al suo posto in campagna, « come se » osservava ironicamente uno scrittore francese nel 1 600, « ci fosse una contraddizione tra l'essere nobile, il portare le armi, e il vivere in città ». Ma la vita in campagna offriva certi tratti di autosufficienza che le dava un sapore tutto particolare, come ci mostra il diario di un nobile di campagna, il francese Gouberville. Il 6 febbraio 1 555, per esempio, egli annotava : « Ce jour là il ne cessa de plouvoyr . Mes gens furent aux champs, mais la pluie les rachassa . Au soir, toute la vesprée nous leusmes en Amadis des Gaules comme il vainquit Dardan ». Fu Noel du Fail ad osservare, in quel tempo, che « le nostre città di Francia hanno certamente alcune attrattive, ma sono adatte solo agli uomini di legge, ai mercanti e agli artigiani. Ne abbiamo conferma se osserviamo che un gentiluomo che sia in città come visitatore o come ospite, vi sta per pagare o per essere pagato, per prendere in prestito denaro a enorme interesse o a spenderlo prodigalmente ». L'in­ viato di Venezia, Soranzo, nel 1 558, durante il suo soggiorno

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in Francia, riferiva : « I nobili non vivono nelle città, ma nei villaggi e nei castelli ». Questa osservazione alludeva chiara­ mente alla contrastante circostanza che in Italia, come in Spagna e in alcune parti della Germania, i nobili vivevano in città. Ma in gran parte d'Europa la differenziazione di classe tra città e campagna era abbastanza definita. Nell'Europa occidentale il flusso migratorio dalle campagne, e la grande attrattiva esercitata dalle capitali, modificava in qualche modo questo quadro . L'aristocrazia portava i suoi capi­ tali in città, e li investiva in nuovi splendidi edifici. Quest'J sviluppo coincise con l'età della Controriforma, che ispirò in gran parte il boom architettonico verificatosi allora. Inevitabil­ mente il modello fu la Roma della Controriforma, in cui i papi , in particolare Pio IV e Sisto V, vollero deliberatamente rifare della « città eterna » il centro urbano più bello d'Europa. In questa città rinnovata i principi e i cardinali si fecero costruire palazzi e ville, splendide residenze che presero il nome dai loro costruttori , come villa d'Este a Tivoli, o villa Farnese a Capra­ rola. Buona parte dell'attività edilizia si svolse a Roma nella seconda metà del Cinquecento, in coincidenza con la fine delle guerre in Italia. Fu proprio dopo queste guerre, ci informa La Noue, che i gentiluomini francesi, tornati in patria, mori­ vano dalla voglia di costruire case come si era fatto in Italia. Castelli e giardini decorativi spuntarono in tutta la Francia . Il costo per la gente delle campagne fu pesante, perché i villaggi furono distrutti quando le nuove sontuose dimore e i loro vasti parchi cominciarono ad invadere le zone rurali . « Oh, età del­ l'oro ! - esclamava uno scrittore francese nel 1 622, con amara ironia - vediamo ora le nostre campagne arricchite di superbi edifici, il cui spettacolo cancella il ricordo dell'antichità ; e sono non solo le case della borghesia , ma anche i superbi castelli dei giudici, dei finanzieri, dei nobili che in meno di un anno hanno distrutto cento case contadine per costruirne una nobile » . A Parigi u n grande impulso alla ricostruzione fu dato da Enrico IV, che modificò le residenze reali e progettò nuove spaziose piazze, come Piace Dauphine . I nobili contribuirono alla proliferazione di h6tels, grandi palazzi aristocratici di città, di cui lo stesso Richelieu fissò lo stile con il suo Palais-Cardinal ; cosl come, dopo di lui, Sully avrebbe costruito l'Hotel Sully.

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L'universe entier ne peut rien voir d'égal Aux superbes dehors du Palais-Cardinal

scrisse Corneille. Le case nobili erano così imponenti che quando il duca di Nevers si costruì un hotel, il re mormorò che lo tro­ vava « un bocconcino troppo prezioso per stare di fronte al Louvre » . Quel poco che sappiamo delle altre aree dell'Europa occidentale ci mostra lo stesso importante contributo della no­ biltà al processo di sviluppo urbanistico. Si disse così che V alla­ dolid, all'inizio del XVII secolo, quando da lungo tempo non era più la capitale di Spagna, avesse circa quattrocento case e palazzi signorili. Pochi nobili potevano impegnarsi in un lus­ suoso dispendio e sperare di veder sopravvivere il patrimonio famigliare per un'altra generazione. I più ricchi potevano farlo e lo fecero, ma anche per essi ci furono delle trappole che avreb­ bero dovuto evitare, in un mondo in cui la crisi economica minacciava ogni classe sociale .

Mutamenti di fortuna e uomini nuovi. Un punto su cui la maggior parte delle testimonianze con­ temporanee sembra concordare è che c'era stata una netta caduta delle fortune dell'aristocrazia . « I lords erano in passato molto più forti, più bellicosi, avevano un maggior sèguito, quando vivevano nelle loro terre, di quanto non avvenga ora », osser­ vava Sir Walter Raleigh all'inizio del XVII secolo. « Ci sono stati, in età trascorse, - dichiarava Bacone nel 1 592 nobili non solo di più ampia ricchezza ma anche di maggior autorità e influenza che ai nostri giorni ». Le ragioni di questa decadenza erano differenti da una parte all'altra dell'Europa. Nelle Pro­ vince Unite l'aristocrazia aveva perso molti dei suoi possedi­ menti durante la guerra d'indipendenza . In Francia furono le guerre civili che contribuirono alla rovina di larghi strati della nobiltà. « Quanti gentiluomini francesi sono stati spogliati delle ricchezze che davano lustro alle loro case al tempo di Luigi XII e di Francesco l! Li si vede ora andare in cerca di molte delle cose più necessarie, con l 'eccezione delle case di recente fonda­ zione o di altre che una saggia amministrazione ha tenuto in piedi e ha arricchito » . Quattro quinti degli aristocratici, affer-

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mava La Noue con evidente esagerazione, si sono impoventl, e « tutta la nobiltà può sbarcare il lunario solo standosene a casa » . Anche in Spagna non si contavano le lamentele. La città di Siviglia, protestando nel 1 627 contro l'inflazione galoppante, sosteneva che « è in particolare la nobiltà ad essere colpita, poiché deve mantenersi con un reddito che non è sufficiente oggi a comprare ciò che prima si comprava con un quarto della stessa somma » . Al tempo di Filippo IV, un visitatore osser­ vava: « La maggior parte dei Grandi di Spagna son caduti in rovina, anche se dispongono di notevoli entrate » . In Russia la migliore aristocrazia soffri dure difficoltà durante il periodo opriénina ( 1 564- 1 572 ), che distrusse in gran parte la sua po­ tenza militare e il suo patrimonio terriero . A Napoli, alla fine del XVI secolo, di centoquarantotto famiglie nobili, una cin­ quantina erano troppo povere per sostenere il loro rango e la loro posizione. Questo declino apparentemente innegabile delle classi feudali, non era né cosi universale né cosi chiaro come potrebbe sem­ brare. In nessun paese europeo, neanche nella borghese Olanda, la nobiltà cadde completamente in declino . Molti « grandi » e molte grandi case sparirono durante le guerre e durante i oe­ riodi di crisi , ma il loro posto era spesso preso da altri . Molti membri della nobiltà minore andarono in rovina, ma vennero subito rimpiazzati da coloro che avevano salito la scala sociale. È vero che nell'Europa occidentale molte ricchezze passarono nelle mani della borghesia, ma questo avvenne solo in pochi paesi ; altrove il dominio della nobiltà non si allentò mai, e in Europa orientale la classe nobiliare costrui la sua supremazia sociale sulle rovine della borghesia. Anche dove l'aristocrazia aveva visto declinare la sua ricchezza, essa non cessò mai di esercitare il suo ruolo dirigente nei posti di governo e nella società. Come e perché una parte dei nobili andò in rovina ? I rile­ vanti consumi, in tutte le forme, furono chiaramente la causa maggiore. Ciò che rese questi consumi cosi rovinosi, in questo periodo più che in altri, fu l'effetto combinato di spese troppo elevate, della diminuzione dei redditi, e dei costi crescenti tipici di un secolo d'inflazione. L'aumento del costo dei cibi, delle case, degli abiti e dei generi di lusso fu abbastanza rilevante, ma divenne catastrofico quando non ci fu un aumento propor-

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zionale della principale fonte di guadagno dei nobili, la terra. Anche se la terra non fu sempre la maggior fonte di reddito, era certo la più importante, perché le famiglie nobili, quasi senza eccezione, dipendevano da essa per l'approvvigionamento domestico e per le rendite. Solo una ristretta minoranza di nobili, che ricoprivano incarichi pubblici, potevano beneficiare di sti­ pendi e pensioni lucrose, e non avevano bisogno di grandi tenute per sostenersi . Il declino della nobiltà veneziana trova pochi termini di paragone nel resto d'Europa. Di origine mercantile, questo ceto dirigente aveva legato le sue fortune al commercio veneziano e, quando questo decadde, trovò difficile adattarsi ad altre forme di attività imprenditoriale, per esempio all'industria tessile. Per di più nel tardo Cinquecento la nobiltà veneziana si era chiusa in un rigido principio di casta, e vedeva di mal'occhio l'ingresso nelle sue file di nuovi arrivati . All'inizio del secolo XVII essa era in uno stato di irrimediabile rovina . Il numero dei nobili scese da un totale di duemila e novanta nel 1609, a millesei­ centosessanta nel 1 63 1 . L'ambasciatore inglese, nel 1 6 1 2 , trat­ teggiava cosl la loro condizione : « Essi hanno qui mutato i loro costumi , sono diventati faziosi, vendicativi, dissoluti e dissipatori. Originariamente vivevano da mercanti, ma hanno abbandonato questo modo di vita e guardano alla terra, comprano case e fondi, sfoggiano carrozze e cavalli e si danno ai divertimenti con ostentazione e galanteria oltre ogni abitudine » . Nonostante le crescenti difficoltà economiche, non sembra che l 'aristocrazia dell'Europa occidentale abbia tentato di mi­ gliorare le proprie condizioni sfruttando la terra, anche se c'erano tutte le ragioni perché si dedicasse all'agricoltura. In un periodo di crescita della popolazione e di inflazione dei prezzi agricoli, c'era una maggior domanda di prodotti alimentari, e non a caso si sarebbe verificato un aumento delle terre colti­ vate. Questa espansione avvenne tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento, ma non riguardò le terre dei nobili in misura tale da portar loro dei vantaggi . Ci furono certamente numerose e rilevanti eccezioni . In Piemonte i nobili sembrano aver diretto i loro investimenti soprattutto in direzione della terra, perché altri investimenti offrivano limitate prospettive . All'inizio del XVII secolo le loro rendite arrivavano a oltre il

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cinque per cento del capitale investito, un buon guadagno annuo. Altro caso notevole fu quello del marchese de Gamaches, che, nella Francia della metà del Cinquecento, trasse dalla terra e dai suoi investimenti profitti sufficienti a dare alla figlia una dote di milleottocento livres. Scrivendo nel 1 600, Thomas Wilson attestava che in Inghilterra « i gentiluomini che erano soliti dedicarsi alle armi, si sono ora gradualmente trasformati in saggi amministratori, e sanno sfruttare fino in fondo le loro terre come fattori e contadini, cosicché quando scadono i con­ tratti d'affitto, si riprendono i loro fondi e li coltivano essi stessi, altrimenti li affittano a chi offre loro di più » . Ancora un esempio ce lo forniscono le terre della famiglia Percy, che erano abbastanza ben amministrate e producevano una rendita annua che da 3 .602 sterline nel 1582, salì a 1 2 .978 nel 1 6 3 6 . M a per completare l'immagine offerta d a Wilson, è necessario tener presente che più che alla coltivazione delle loro terre, i nobili si dedicavano all'allevamento del bestiame . Aristocratici come il duca di Norfolk e il conte di Shrewsbury erano tra i più grandi possessori di greggi dell'Inghilterra . Non erano molti i nobili che s 'ingegnavano di coltivare le loro tenute, se dobbiamo credere all'esempio di quelli che, come il conte di Rutland, pre­ ferivano affittare vantaggiosamente i loro terreni piuttosto che condurne essi stessi la coltivazione . Per far fronte alle necessità, anche le più piccole, dell'approvvigionamento domestico, Rutland si faceva pagare buona parte delle sue rendite in natura, fino al punto che, come avvenne nel 1 6 1 1 , egli ricavò, in forma di rendita, tutta l'avena e il grano che gli serviva, e solo segale e orzo come prodotti dei suoi terreni ; del resto la maggior parte della carne che si mangiava in casa sua veniva dai suoi pascoli . Per la Francia si potrebbe pensare che il noto entusiasmo di Enrico IV per il Théatre de l'Agricolture ( 1 600 ) di Olivier de Serres si riflettesse nell'atteggiamento della nobiltà di provincia , ma l'ipotesi sarebbe sbagliata. Dovunque, dopo le guerre civili , i nobili di maggior rango sembrano essere stati incapaci di dedi­ carsi con impegno all'amministrazione delle loro terre . I genti­ luomini che oltre alla terra non disponevano di altro capitale, e tuttavia ne avevano bisogno per « vivere nobilmente », si ritennero obbligati a coprirsi di debiti . Nello sforzo di sbarcare il lunario vendettero le terre, o aumentarono i canoni d'affitto,

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ma raramente si diedero a coltivarle. Qui, come in Spagna, avvenne che la classe dei grandi proprietari terrieri si allontanò dalla terra; il contrario si verificò in altri paesi, dove la situa­ zione economica e politica era in qualche modo differente. In Danimarca, per esempio, dove non più tardi del 1 625 solo il cinque per cento dei nobili occupava cariche pubbliche, il restante ottantacinque per cento viveva principalmente delle rendite della terra. Ma anche questi ultimi erano in crisi. Nel 1 604 il Con­ siglio reale informò Cristiano IV che « una parte notevole della nobiltà ha enormi debiti di denaro » . I nobili che non erano capaci d i sfruttare direttamente la terra, la affittavano. L'inflazione del XVI secolo pose i fitti e le rendite al centro di un dilemma di vitale importanza. I pro­ blemi essenziali erano due : lo sfruttamento delle rendite esi­ stenti e l'estensione delle affittanze, o la vendita delle proprietà. Come s 'è visto in uno dei capitoli precedenti, i nobili terrieri, nel tentativo di stare al passo con l'aumento dei prezzi, avevano elevato i canoni d'affitto. Nelle tenute gallesi della famiglia Somerset, gli affit ti furono raddoppiati tra il 1 549 e il 1583. Gli aumenti più rilevanti dovettero però seguire questo periodo, se possiamo ritenere attendibile il modello che lo Stone ha tratto dai dati relativi alle proprietà di diciassette famiglie, in diverse località d'Inghilterra e del Galles, e che mostra come, all'incirca tra il 1 590 e il 1 640, le rendite si raddoppiarono. Confrontando questo dato con il diagramma della fig. 1 4 ( p . 94) s i può fare l 'ipotesi che l e rendite tennero il passo, all'inizio del Seicento, con i prezzi agricoli, cosl da permettere alla nobiltà che dava in fitto le sue terre, di ottenere profitti soddisfacenti. Purtroppo è difficile estendere questa ipotesi al resto dell'Eu­ ropa, perché la situazione variava ampiamente. Ciò che è certo è che il movimento delle rendite non può attendibilmente dimostrarci la vitalità delle grandi proprietà terriere, perché mentre alcune rendite potevano essere aumen­ tate e lo furono, altre, fondate sul diritto consuetudinario feu­ dale o su accordi scritti non poterono aumentare cosl facilmente. I signori terrieri di cui gran parte delle proprietà fossero affi­ date a possessori consuetudinari di questo tipo, che godevano per di più concessioni di lunghissima durata, avrebbero visto che la rendita loro corrisposta non era proporzionata al valore della terra. Ad esempio fu calcolato nel 1 624 che i possessori

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a titolo di copyhold 1 pagavano al conte di Southampton, per le sue terre, 272 sterline, mentre l'effettivo valore delle concessioni era di 2.372 sterline. I signori più potenti erano in grado di ricorrere alle minacce per convincere i copyholders a mutare le loro concessioni in affitti ordinari, ma in ogni caso questi tenta­ tivi si sarebbero imbattuti in potenti ostacoli : l'incontestabile diritto dei possessori di conservare il loro consuetudinario godi­ mento della terra, il pericolo di ribellioni, le tensioni sociali che consigliavano il mantenimento di buone relazioni tra signori e affittuari . Il sistem::t di sfruttamento delle rendite esistenti non era meno importante della crescita o della diminuzione del valore reale delle rendite stesse . A questo proposito non pare che ci possano essere dubbi che i nobili inglesi, come quelli dell'Europa centrale e orientale, dedicassero maggior cura alle loro terre dei nobili francesi e spagnoli . Anche in Inghilterra c'era ancora confusione nella contabilità e negli altri rami della gestione del patrimonio terriero, ma molte famiglie nobili ave­ vano trovato capaci intendenti che avevano portato un po' d'ordine nell'amministrazione del feudo . In Francia e in Spagna, al contrario, dove la più alta aristocrazia era abitualmente assente dalla terra, gli intendenti erano notoriamente incapaci di gestire le tenute dei padroni o, ciò che è forse più impor­ tante, di trarre dalla terra un reddito sufficiente a coprire le enormi spese della vita a corte. La concessione in fitto di nuove quote di proprietà era sempre l'alternativa più conveniente alla revisione dei canoni feudali . La tendenza non era nuova, e ci indica che la terra sfruttata direttamente dai signori era in realtà una parte molto ridotta delle loro proprietà. In generale la nobiltà dell'Europa occidentale più che una classe di produttori era una classe di rentiers. Avendo divorziato dalla terra i nobili avevano scarsa comprensione dei problemi che la riguardavano : le difficoltà degli affittuari, i magri proventi degli affitti e delle colture . Peggio ancora, come rentiers essi consideravano le loro pro­ prietà come una fonte di approvvigionamento, e quasi mai la rendita era reinvestita nella terra. Ma la pratica dell'affitto serviva solo a rimandare il triste giorno della resa dei conti . l Copyhold era una concessione di terra annotata nei registri del feudo, in base alla quale si poteva godere il possesso della terra ; l'am­ montare del canone dovuto era specificato nella registrazione.

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Quando quel giorno arrivava, la terra doveva essere venduta, tranne che nei casi in cui le leggi di successione ereditaria vie­ tavano l'alienazione. Il processo era, all'epoca, abbastanza diffuso . Ciò che, co­ munque, è importante stabilire, è se il declino economico riguar­ dava un tal numero di gentiluomini da avere un decisivo effett:J sull'ampiezza e sulla composizione della classe nobiliare. Non è facile dare un'adeguata risposta a questa domanda. Le nobili famiglie dei Clifford e degli Stanley in Inghilterra, i grandi casati come gli Enriquez e gli Osuna in Spagna furono tra le vittime più illustri ; ma a questi nomi altri se ne potrebbero aggiungere senza provare che essi rappresentassero una parte proporzional­ mente significativa della loro classe. In Francia e in Olanda ci fu una netta diminuzione del numero dei nobili, ma fu questa la naturale conseguenza delle guerre civili di fine Cinquecento . Nelle Province Unite i resti della nobiltà erano ridotti a un piccolo gruppo che, secondo quanto affermava Sir William Tempie nel 1 6 7 3 , salvaguardava l'esiguità delle sue file evitando di sposarsi con persone di altro rango . Allo stesso tempo essa ostentava una « esclusività » che si rivelava nell'adozione della moda francese, nelle abitudini , nel linguaggio . Questa « esclu­ sività », come abbiamo visto nel caso della nobiltà veneziana, portava inevitabilmente ad un assottigliamento numerico e al declino . Altrove il declino, se declino vi fu , consistette in una dimi­ nuzione della ricchezza . Lo scrittore francese Jacques Hurault nei suoi Discours ( 1 59 1 ) affermava che « il Terzo Stato è il più numeroso dei tre, e sarebbe il più ricco se fosse meno gravato di tasse . La nobiltà è la meno numerosa e la meno ricca dei tre, ma l'unica tassa che il principe le impone è il servizio militare » . L'asserzione è fuorviante : nessun membro della borghesia avrebbe potuto eguagliare in ricchezza i grandi signori, né in realtà i nobili erano sempre liberi da obblighi nei confronti della Corona . Inoltre per « nobiltà » dobbiamo intendere uno status piuttosto che un titolo, dal momento che il termine com­ prende tutta la piccola nobiltà campagnola e tutti i più giovani discendenti che ingrossavano gli strati più bassi dell'aristocrazia. Da questo punto di vista era facile farsi l'idea d i una nobiltà povera . In Danimarca, dei circa cinquecento nobili terrieri esi­ stenti nel 1 625, quasi un terzo possedeva tre quarti di tutta la

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proprietà terriera. Essendo la ricchezza fondiaria concentrata in poche mani, cosi come avveniva per tutte le aristocrazie euro­ pee, era inevitabile che moltissimi membri di queste classi fos­ sero poveri . Nel 159 1 lo storico danese Vedel deplorava che si vedessero gentiluomini chiedere la carità per le strade di Kiel. Abbiamo già osservato come Richelieu descrivesse i nobili francesi del 1 6 1 4 come « poveri di denaro ma ricchi di onore » . Molti di essi versavano i n cosi dure difficoltà che Luigi XIII ricordava ai suoi giudici con un decreto del 1639 « di non im­ prigionarli per debiti, e di non vendere i loro beni » . I l settore della nobiltà che gli storici hanno generalmente descritto come quello che versava nelle peggiori condizioni era la piccola nobiltà di campagna, e ci sono prove che sembrano confermare questa immagine. Nel Beauvais, alla fine del XVII secolo, per esempio, un buon terzo delle famiglie nobili poteva essere classificato di povere condizioni e sembra certo che a molte di esse fosse perfino erogato un sussidio di povertà. L'ascesa e la rapida caduta di una famiglia francese si può osser­ vare nelle vicende di Nicolas de Brichanteau, signore di Beau­ vais-Nangis, capitano di una squadra di cinquanta uomini, che mori nel 1 563 . Suo figlio Antonio fece carriera nell'esercito, si guadagnò il favore reale e fini per diventare ammiraglio di Francia e colonnello della guardia . Le altissime spese necessarie a sostenere questa elevata posizione furono all'origine della sua rovina . Suo figlio Nicolas cercò di far carriera a corte ma i debiti di famiglia lo perseguitarono . Nel 1 6 1 0 la proprietà di Nangis era coperta di debiti, accumulati a corte, per un ammon­ tare circa quattro volte superiore al suo valore . Nicolas fu quindi costretto a ritirarsi in povertà nelle sue terre. La decadenza di alcuni settori dell'aristocrazia spagnola fu un fenomeno rilevante . In assenza di guerre civili, e di un asso­ lutismo accentratore, i problemi dei nobili spagnoli devono essere spiegati in termini puramente finanziari. « I Grandi, titulos e singoli gentiluomini, che oggi possiedono terre ed altre rendite », scriveva un contemporaneo nel 1 660, « sono comple­ tamente privi di entrate a causa del calo della popolazione e della mano d'opera contadina, e perché i prezzi, a causa delle tasse, sono aumentati in modo cosi sproporzionato che i lavo­ ratori possono chiedere salari tre volte più alti di quanto chie­ dessero prima ». I nobili terrieri assenteisti sembra abbiano

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giocato un ruolo più grande nel crescente distacco fra spese di corte e rendite fondiarie. « Molti dei titulos castigliani » rife­ riva un gesuita nel 1 640, « si sono dispensati dagli obblighi di corte a causa delle loro ristrettezze finanziarie, e Sua Maestà ha ordinato loro di ritirarsi nelle loro terre e di non !asciarle senza un suo esplicito ordine, poiché desidera che essi risparmino così da poterlo servire in qualche altra occasione » . Sono rivelatori sia la situazione che il rimedio per essa suggerito, poiché sem­ bra che il re e i nobili considerassero le terre non come territori da sviluppare ma come ricchezza da sfruttare. Gran parte di questa ricchezza era spesa per tenere alte le apparenze, come si addiceva al rango nobiliare, col risultato che anche in Spagna si andò formando un corpus sempre più ampio di leggi suntuarie. Tentando da un lato di far fronte alle esigenze della vita di corte e ai doveri connessi col servizio reale, e dall'altro di tenere il passo con la catastrofica inflazione, la nobiltà spagnola affrontò l'umiliazione di ricorrere agli usurai . I nomi dei più alti signori di Castiglia - il duca di Albuquerque e di Osuna , i conti di Benavente e di Lemos, i marchesi di Santa Cruz e di Aguilar - figuravano negli elenchi dei debitori della borghesia di Valladolid. Le ragioni per cui essi ricorsero ai prestiti non sono prive d'interesse. Albuquerque chiese denaro nel 1 597 per pagare i costi di un processo di corte, Aguilar per pagare nello stesso anno una tassa al re, Benavente si fece prestare nel 1 5 8 1 l a grossa somma di quarantacinquemila ducati per darli i n dote a sua figlia. Furono in parte le difficoltà di un secolo sempre più disastroso che costrinsero la nobiltà castigliana a rifiutare nel 1 639 di contribuire ai costi della spedizione contro la Fran­ cia di Olivares . Quando i nobili si rifiutarono nello stesso modo di partecipare personalmente alla guerra, Filippo IV denunciò nel 1 640 la loro defezione, sottolineando - il che non rispon­ deva certamente a verità - « quanto diversamente ci si com­ portasse in Francia ». I feudatari napoletani si trovarono nelle stesse difficoltà dei loro pari d'Europa . La vendita delle loro terre fu la logica con­ seguenza dei loro debiti . Il principe di Bisignano, proprietario di sessantacinque tenute in Calabria e in altre regioni, era così carico di debiti che nel 1 636 tutte le sue proprietà dovettero essere vendute. Quindici delle venticinque tenute che forma­ vano nel 1 5 5 1 il patrimonio del principe di Molfetta, furono

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vendute all'inizio del Seicento . La famiglia del marchese di Acaya alienò sei dei dieci feudi che possedeva in Terra d'Otranto. Oggetto di transazioni furono anche le giurisdizioni cittadine. Solo tra il 1 6 1 0 e il 1 640, in otto delle dodici province del regno di Napoli, furono alienate almeno duecentoquindici uni­ versità, da famiglie di nome illustre come i Carafa, gli Orsini e i Pignatelli . Le mutate fortune della nobiltà, sia della più alta che della più bassa, non ci danno, come vedremo, una prova sostanziale del declino di questa classe . Il fenomeno di grossi indebitamenti era comune in Inghilterra, ad esempio, ma pare che la maggior parte dei debitori ne venne fuori sia con l'aiuto del favore reale che con l'aiuto della fortuna. Qualcuno tentò di far fronte ai suoi debiti vendendosi le terre. Il quarto duca di Huntingdon, che nel 1 596 aveva debiti per circa 1 8 .000 sterline, negli anni 1 59 1 - 1 600 vendette terre per un valore di quasi 20 .000 ster­ line. Tra coloro che avevano in Inghilterra i debiti più grossi, vi era lo sfortunato conte di Essex, i cui debiti ammontavano nel 1 6 0 1 a circa 25 .000 sterline e che, nel decennio precedente, aveva venduto terre per un valore di oltre 40.000 sterline. Il conte di Arundel era tra coloro i cui debiti superavano le 100 .000 sterline. Comunque non è detto che i debiti si pagassero sempre con la rovina . Quando la proprietà era ipotecata e le terre ven­ dute nel tentativo di procurarsi credito, si rimandava in qualche modo la rovina altrimenti inevitabile della casa. Questo indica certamente che molte famiglie nobili, tra cui alcune delle più ricche di terre, decaddero e andarono in rovina in tempi difficili a causa di difficoltà finanziarie. « Quante nobili famiglie ci sono state la cui memoria è del tutto cancellata ! » scriveva un inglese nel 1 603 . « Quante fiorenti case si son viste che l'oblio ha ora offuscato ! ». Se tanti aristocratici uscirono di scena, che ne fu delle loro ricchezze? Nella misura in cui la parte principale della ricchezza che usciva dalle mani dei nobili era la terra, fu soprattutto la borghesia a beneficiarne. A Napoli lo spazio lasciato vuoto dall'aristocrazia fu occupato da mercanti genovesi, toscani o veneziani, e dalla borghesia o dalla burocrazia napoletana. In Spagna i creditori della nobiltà erano borghesi o funzionari del governo . Nel 1 656 un nobile normanno espri­ meva con queste parole il suo odio per la borghesia :

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Tre cose hanno rovinato la nobiltà : la facile possibilità di trovare denaro, il lusso e la guerra. In tempo di pace i nobili sono stati distrutti dal lusso ; in tempo di guerra, non disponendo di riserve di denaro, anche i più agiati gentiluomini potevano andare avanti solo ipotecando le loro terre e i loro mulini. Ciò è tanto vero che, lo si può provare, sin dal 1492, qu ando aumentò la disponibilità di denaro, i borghesi di città si appropriarono di oltre sei milioni di libbre d'oro prodotte dalle terre dei gentiluomini che prestavano servizio in guerra secondo la natura e il rango dei loro feudi [ . . ] . La gente di città prestava denaro e come risultato tutti i proprietari furono cacciati dalla campagna. .

Ma in alcune parti d'Europa ci fu forse un altro gruppo sociale che approfittò della situazione, un gruppo che, nei suoi strati più bassi, si confondeva con la borghesia, e in quelli più alti con la nobiltà. Per comodità chiameremo questo gruppo « piccola nobiltà ». L'ascesa della piccola nobiltà a spese della vecchia aristocrazia è un tema molto dibattuto dagli storici anglosassoni . Il dibattito può essere in qualche modo ampliato se consideriamo il fenomeno come non limitato solo all'Inghil­ terra. Ci sbarazzeremo di altre ambiguità chiarendo subito che parleremo qui della piccola nobiltà come di una parte della classe nobiliare, e che l'argomento in discussione non è il tra­ sferimento di proprietà e di ricchezza da una classe ad un'altra quanto il passaggio di proprietà e quindi il mutamento del­ l 'equilibrio all'interno della stessa classe. La piccola nobiltà inglese non aveva in genere una forma mentis di tipo borghese. « Io detesto il vile guadagno, e il meschino risparmio », scriveva nel 1 647 Sir John Oglander, un uomo della piccola nobiltà, rinnegando due delle maggiori carat­ teristiche della mentalità borghese. Come ha sottolineato Trevor­ Roper « era un'epoca aristocratica, e la piccola nobiltà accettava - in generale - i modelli di valore e di condotta dell'aristo­ crazia ». La sorte della piccola nobiltà fu in gran parte quella dell'aristocrazia più alta. Alcuni dei suoi membri caddero in rovina, non furono in grado di far fronte ai loro debiti, vendet­ tero le loro proprietà; alcuni prosperarono sugli errori degli altri, investirono in terre o in affari al tempo in cui i guadagni erano promettenti, e fondarono grandi fortune . Tra la fine del XVI secolo e l'inizio del XVII la piccola nobiltà inglese crebbe complessivamente in numero e in ricchezza, che fu dovuta so-

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prattutto ai notevoli trasferimenti di terra che caratterizzarono il mercato immobiliare. La misura di questo fenomeno ci può essere fornita dalle vendite di terra fatte da lord Henry Berkley tra il 1 5 6 1 e il 1 6 1 3 . Mentre il totale delle vendite assommava a 42.000 sterline, terre per un valore di 39 .000 sterline furono vendute a tredici persone che appartenevano agli strati più alti della piccola nobiltà, e il resto ad altre di condizioni non speci­ ficata. In questo modo, costruendo le proprie fortune con l 'ac­ quisto di proprietà, molte nuove famiglie si avviarono a com­ piere la loro scalata sociale. Nel Wiltshire, tra il 1 565 e il 1 602. non meno d i centonove nuovi nomi gentilizi erano stati aggiunti all'originario numero di duecentotré. Questo aumento di numero e di ricchezza dette alla piccola nobiltà una nuova importanza agli occhi dei contemporanei . Lo scrittore politico James Har­ rington nel suo Oceana ( 1 656) arrivava ad affermare che la pic­ cola nobiltà era diventata la classe più ricca del regno . Per dirla con le sue parole, « ai nostri giorni, annullato il clero , le terre possedute dal popolo superano quelle degli aristocratici in pro­ porzione di almeno dieci a nove » . Un altro contemporaneo asseriva nel 1 600 che i membri più ricchi della piccola nobiltà avevano entrate pari a quelle di un conte, e nel 1 628 c'era chi affermava che la Camera dei Comuni avrebbe potuto comprare tre volte la Camera dei Lord. Queste affermazioni, come altre contemporanee, avevano poche prove. È vero che la piccola nobiltà ingrossò le sue file, e, molto probabilmente, essa aveva complessivamente nelle sue mani più terre nel 1 660 che un secolo prima. Ma resta ancora da dimostrare, in modo decisivo, che il potere economico era passato dall 'aristocrazia alla piccola nobiltà e che la guerra civile del 1 640 fu una lotta per il tra­ sferimento del potere politico alle forze che detenevano il potere economico. L'ascesa della piccola nobiltà non può in ogni caso essere misurata soltanto in termini di ricchezza, perché pochi ancora dei suoi membri potevano competere con i grandi signori ter­ rieri, e anche la vendita delle terre dei realisti, durante il pe­ riodo repubblicano, non creò una nuova classe gentilizia di grandi proprietari terrieri . L'importanza della piccola nobiltà dev'essere misurata invece in termini di rapida accumulazione di potere nelle campagne ( piuttosto che a corte, dove pochi di questi nuovi nobili ebbero fortuna), basata certamente sulla

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terra, ma accelerata, in quegli anni di cns1 e dopo il 1 688, dal trasferimento della supremazia sociale all'unica classe che aveva mantenuto la sua influenza sulla società inglese. Negli altri paesi d'Europa la piccola nobiltà si inserl in ma­ niera molto più netta nelle posizioni dei vecchi magnati. Questo fu specialmente il caso della Russia e della Polonia . L'ascesa della piccola nobiltà russa si accompagnò soprattutto alla lotta dei boiardi e dei magnati contro l'assolutismo di lvan il Terri­ bile. Il tentativo di Ivan IV di annientare spietatamente, tra il 1 564 e il 1 572, l'opposizione degli aristocratici, confiscando le loro terre e distruggendo le loro persone, fu dal punto di vista politico un completo successo. I due principali obiettivi di Ivan erano la creazione di una sicura forza militare e di una finanza adeguata ai bisogni della Corona. Egli li raggiunse entrambi ponendo le basi di quello « stato di servizio » in cui, come ha scritto uno storico, « il suddito poteva godere solo quei pnvl­ legi e quelle facoltà che lo Stato gli accordava come ricompensa della funzione cui egli adempiva al suo servizio » . Nel 1 556, per esempio, lo zar stabill che ogni signore terriero dovesse fornire un soldato a cavallo completamente equipaggiato per una certa quantità di terra posseduta ; in alternativa questo ser­ vizio poteva essere commutato in una prestazione monetaria. Questo significava chiaramente introdurre quei principi feudali che stavano cadendo in disuso in Europa occidentale. Ivan, comunque, non si fermò qui . Egli divise arbitrariamente il suo regno in un ampio territorio demaniale, controllato da una corte e chiamano opril:nina, comprendente metà della Moscovia ( in particolare l'area intorno a Mosca ), e in un territorio in cui ai boiardi era concesso di possedere la terra, la zemscina. Nel territorio della opril:nina il potere dei boiardi fu cancellato, le loro tenute distrutte e quelli che si opposero furono giustiziati . Per assicurare il successo di questa rivoluzione, lvan cercò di guadagnarsi il favore della piccola nobiltà, il dvoryanstvo, che fu generosamente compensata con le terre confiscate ai boiardi . Scrivendo allo zar degli eccessi compiuti dagli opril:niki gli esecutori della politica dello zar nella opril:nina il principe dell'opposizione boiarda Kurbsky nel 1573 denunciava « il de­ serto che voi stesso e i vostri figli delle tenebre [ gli opril:niki] state facendo delle vostre terre [ . . . ] . Chi ornerà le fosse e abbel­ lirà le tombe dei tanti martiri che voi e i vostri figli delle te-

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nebre avete ucciso? ». Anche la corrispondenza dei Fugger da Mosca riferiva nel 1 572 che « lo stesso Moscovita devasta e saccheggia la sua terra e la sua nazione » . La retorica di Kurbsky rifletteva i grandi mali immediati che la opriénina aveva cau­ sato : il malcontento politico e sociale era assai diffuso, l 'agri­ coltura era andata in rovina, dappertutto la popolazione era diminuita ( tra il 1 566 e il 1574, ad esempio, la città di Murom aveva perso quattrocentosettantasei delle sue cinquecentottanta­ sette fattorie ), e le difese militari della Moscovia erano distrutte. Sulle rovine di questo vecchio ordine, la piccola nobiltà costrui la sua ascesa come nuova classe nobiliare. Il processo che aveva ricevuto un cosi potente impulso da lvan il Terribile continuò fino all'inizio del XVII secolo sotto i Romanov. Nel 1 566 Ivan aveva riunito un'assemblea chiamata Zemskij Sobor, composta soprattutto di piccoli nobili al servizio della Corona, per controbilanciare l'assemblea boiarda. La piccola nobiltà go­ dette della concessione di terre, il cui possesso era sottoposto a nuove condizioni ; perché mentre i vecchi magnati avevano posseduto le loro terre liberamente, a titolo di votéiny, i nuovi proprietari le ebbero in ragione del loro servizio, a titolo di pomestye. In conseguenza di ciò i proprietari terrieri di piccola nobiltà furono noti come pomeféiki, e fu per mezzo loro che lo Stato russo fu governato sotto i Romanov. Come la piccola nobiltà russa fondò il suo predominio so­ ciale sulla proprietà della terra, cosi anche quella polacca, la szlachta, diventò la classe nobiliare estendendo il suo controllo sulla terra e sulla produzione agricola. All'inizio del XV secolo lo stato della nobiltà era composto per un verso dai grandi magnati, proprietari di vaste tenute - famiglie come gli Osto­ rogs, i Leszczynski, e i Radziwill - e per altro verso da nume­ rose schiere di cavalieri e di gentiluomini . Questi ultimi accreb­ bero il loro potere politico innanzi tutto agendo unitariamente per assicurarsi le garanzie costituzionali che riguardavano i loro diritti e il loro status, e affermando la loro autorità a livello locale attraverso consigli di contea o sejm. Alla fine del Quat­ trocento i sejm locali avevano dato vita al Sejm nazionale o par­ lamento composto di tre ordini : il re, il senato ( comprendente i vescovi e i nobili di maggior esperienza nell'amministrazione), e da una Camera dei rappresentanti ( composta quasi interamente dalla szlachta). La costituzione di questo parlamento fu ufficial-

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mente confermata dal re nel 1505, quando egli promise di non prendere nessuna decisione importante senza il suo consenso. Essendo in maggioranza nel Sejm, la piccola nobiltà riuscl ine­ vitabilmente a dominare le sue riunioni e ne approfittò per pro­ mulgare le leggi che servivano ai suoi interessi. Alla fine del Cinquecento, per quanto continuasse l'influenza dei grandi ma­ gnati, era la szlachta che rappresentava la nobiltà polacca. La szlachta, come la piccola nobiltà degli altri paesi, non era un gruppo economicamente omogeneo . Su tutto il territorio po­ lacco - costituito essenzialmente dalla Polonia e dal Grandu­ cato di Lituania - la classe nobiliare rappresentava poco meno del dieci per cento della popolazione, ma per oltre metà era costituita da piccolissima nobiltà, che godeva dei diritti e dello status nobiliari ma che possedeva un po' più di terra dei semplici contadini . Nonostante ciò la terra costituiva il fondamento del potere della szlachta, che per difendere i suoi interessi ebbe cura di limitare il potere del clero e delle municipalità . La piccola nobiltà si era anche infiltrata nelle gerarchie ecclesiastiche e nel 1 562 la Chiesa fu privata del suo potere disciplinare contro le eresie . Nel 1 565 il Sejm stabilì limitazioni alle attività della classe mercantile . In questo modo prese forma quella cosid­ detta « repubblica dei nobili » in cui tutta la classe gentilizia, di alto e di basso rango, partecipava egualmente al governo della Polonia . Nelle altre regioni dell'Europa centrale e orientale s i può egualmente parlare di una ascesa della piccola nobiltà, che si accompagnò ad un cambiamento nei metodi di sfruttamento della terra . Forse l'esempio più rilevante di ciò fu la Prussia orien­ tale, dove nel Quattrocento fecero la loro comparsa i nuovi nobili, gli Junkers, usciti dalle file dei cavalieri, dei soldati e degli avventurieri delle frontiere tedesche . Il processo di reclu­ tamento di questa nuova classe di possidenti, che si può consi­ derare composta essenzialmente di nobiltà campagnola o di pic­ cola nobiltà, dal momento che condivideva ben poco dell'etica elitaria della nobiltà dell'Europa occidentale, continuò per tutto il XVI e fino all'inizio del XVII secolo . C'era una profonda differenza tra la nobiltà terriera dell'est e le classi agiate del­ l'ovest, e ciò giustifica questa nostra più attenta considerazione delle caratteristiche che contraddistinguevano l'aristocrazia del· l'Europa orientale.

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La crisi politica dell'aristocrazia. La fluttuazione della ricchezza all'interno dei diversi strati dell'aristocrazia era solo una componente della crisi che essa stava vivendo. Anche quando una larga parte della vecchia ari­ stocrazia ebbe visto declinare le sue fortune, non parve che complessivamente tutta la classe nobiliare fosse finita in deca­ denza. Era questo in realtà uno dei paradossi del tempo, perché i signori e le signore dell'aristocrazia continuavano a vivere splendidamente mentre il fondamentale presupposto della loro funzione sociale era sempre più in discussione. Si può qui citare, tra altri esempi, ciò che rilevava sull'aristocrazia inglese un ambasciatore veneziano nel 1 622 : « i nobili sono soprattuto odiati per la loro vana ostentazione, più conveniente alle loro vecchie prerogative di potere che alla loro presente condizione » . S i può dedurre d a questa osservazione che potere e ricchezza erano usciti dalle mani della nobiltà . La ragione principale di ciò era l'aumento della forza della Corona. In nessun paese dell'Europa occidentale questa crescita era stata spettacolare come nel caso del dispotismo russo, ma vi era un'irresistibile tendenza verso la formazione di uno Stato amministrativamente centralizzato . Dovunque l'aristocrazia si vedeva colpita soprattutto in tre modi : attraverso la riduzione del suo potere militare, l 'esclusione dalle alte cariche di governo e la generale restrizione dei suoi privilegi . L'ultimo di questi punti riguardava solamente i duelli, le leggi suntuarie, la giu­ risdizione delle corti reali, e altre simili riforme che diminui­ vano l'indipendenza dei nobili . Sarebbe un errore credere che i gruppi dominanti e i governi favorevoli all'assolutismo monarchico fossero ostili agli interessi dell'aristocrazia . Al contrario essi erano sinceramente devoti alla classe nobiliare come ai naturali e tradizionali capi del popolo, e come al solo fondamentale sostegno dello Stato . Quei versi appropriati di Shakespeare Togli, ma pian piano, accorda ciò che stona, E poi ascolta, quel che segue alla discordia

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suonavano con troppa verità nelle orecchie degli uomini di governo perché essi potessero avere intenzione di abolire le distinzioni e i gradi sociali, di scalzare la posizione degli eredi­ tari signori della terra. Se i sovrani assoluti attaccavano i loro nobili non era per distruggerli ; e se ciò talvolta avvenne furono pronti a trovare chi ereditasse il loro ruolo . La loro azione non era rivolta contro le persone o la ricchezza degli aristocratici, ma contro la loro incapacità di essere classe dirigente, contro « il loro disprezzo per tutti i rami del sapere e la poca pena che si prendono per adattarsi alle diverse cariche », come disse il duca di Sully, primo ministro di Enrico IV. Non fu mai nelle intenzioni delle monarchie assolute di sostituire i nobili nei posti di potere o di ricorrere a ministri borghesi : tutta la men­ talità dell'assolutismo era troppo antidemocratica, troppo essen­ zialmente aristocratica per giungere a tanto . Man mano che il potere dello Stato andò aumentando, esso si trovò in una posi­ zione sempre più illogica, perché da un lato dovette fare affida­ mento e favorire una classe dirigente d'origine ereditaria, e dall'altro fu costretto a cercare al di fuori dei ranghi di questa classe la collaborazione necessaria ad organizzare un'efficiente amministrazione. Era qui l'origine di una contraddizione interna all'assolutismo che sarebbe stata risolta, nel corso del XVII se­ colo, ricorrendo a metodi radicali, persino violenti. Il primo e il più grosso pericolo che stava di fronte alle monarchie era la potenza armata dei nobili . Ivan il Terribile risolse il problema in modo particolarmente brutale. Nell'Eu­ ropa occidentale, dove il feudalesimo aveva avuto più salde radici, la limitazione della sua potenza militare fu un processo lungo e difficile. In Spagna la monarchia cattolica ebbe tanto successo in questa opera di pacificazione che le armate che i Comuneros sollevarono nel 1 520 ( sotto Carlo V ) furono le ultime ad essere mandate contro la corona spagnola fino alla fine dell' ancien régime. Lo spirito marziale degli spagnoli fu speso invece sui campi di battaglia stranieri, in Europa o in America. Il rapido declino del valore spagnolo nel corso del XVI secolo è dimostrato molto chiaramente dall'incapacità di riprendere il sopravvento sul Portogallo, e dalla inettitudine dei Grandi di Spagna a rispondere ai bisogni del loro paese . Al di fuori della Spagna, molte delle rivolte aristocratiche ebbero origini religiose : cosl la ribellione dei conti inglesi del nord

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nel 1569, e la rivolta degli ugonottl m Francia, nel terzo decennio del Seicento, anche se influenzate notevolmente dallo spirito regionalistico, presero il via da ragioni religiose. L'ul­ timo tentativo di sollevazione di carattere non religioso fu in Inghilterra prima della guerra civile quello operato, nel 1 60 1 , dal conte di Essex. I n Francia l o spirito feudale resistette più a lungo, mostrandosi ancora come fenomeno notevole nella Fronda aristocratica degli anni 1 649-53 . Solo nel caso dell'Inghilterra si è fatto qualche tentativo di esaminare il declino della forza militare dei nobili. In questo paese, come osservava Sir Walter Raleigh al principio del XVII secolo, « la forza che preoccupava i nostri re nei tempi passati è scomparsa ». Ciò era avvenuto in seguito agli sforzi legisla­ tivi della Corona e al suo diretto intervento per restringere il numero dei dipendenti al servizio degli aristocratici, ma anche perché i nobili non poterono più a lungo permettersi di mante­ nere eserciti privati, e - come in Spagna - smisero di avere qualsiasi esperienza personale della guerra ( sebbene tre quarti dell'aristocrazia titolata d'Inghilterra avesse prestato servizio militare prima della metà del secolo, nel 1 576 solo un quarto aveva avuto diretta esperienza della guerra ) . In Francia, dove le abitudini feudali resistettero più a lungo che in Inghilterra, gli eserciti privati furono un fenomeno molto diffuso ancora intorno al 1 650; e la possibilità d'impiegarli non mancò mai, grazie ad un secolo di guerre quasi continue dentro e fuori il paese. Con la disfatta del Condé, nel 1 6 5 3 , si spense l'ultima rivolta feudale dell' ancien régime. Le ribellioni armate dei nobili derivarono in parte dalla loro esclusione dal governo, e non si può considerarle senza far riferimento a questo fattore. In epoca medievale era esistito il diritto dei magnati di influire sulle decisioni del re, di solito attraverso le assemblee . Cosi come era stato loro riconosciuto il diritto ad occupare i principali posti nell'organizzazione difen­ siva e amministrativa delle province. Alla fine del XV secolo, e ancor più dopo l'età della Riforma, i sovrani tolsero la loro fiducia ai nobili di incerta fedeltà o dissidenti, e ristrutturarono l'amministrazione statale con l'aiuto di personaggi meno impor­ tanti, ma di cui potevano fidarsi e che non contavano sulla pro­ tezione di qualche aristocratico per fare carriera. Questi uomini sono stati abitualmente indicati come commoners, e alcuni di

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essi erano effettivamente di oscura ongme, ma con una rapida carriera giungevano ad affermarsi come influenti gentiluomini di rango. Alla fine del Cinquecento non c 'erano al servizio delle grandi monarchie dei veri commoners. Segretari di Stato come Walsingham e Antonio Pérez erano gentiluomini del rango più alto. Questa tendenza sarebbe continuata anche nel XVII secolo, durante il quale non c'era esperto amministratore di umili ori­ gini che fosse rimasto tale . Gli storici che hanno visto nell'im­ piego di uomini di governo d'origine non nobile il segno del­ l 'alleanza tra le monarchie assolute e la borghesia, si sono in realtà fatti trascinare dalla loro fantasia. È certamente vero che l'antica nobiltà si sentiva oltraggiata dall'impiego di questa gente, ma era questa la logica di tutta la situazione : per gover­ nare senza dipendere dalle fazioni aristocratiche i sovrani dove­ vano guardare fuori delle loro file . Il fatto che in Spagna non ci furono ribellioni è spiegato dal completo controllo che i nobili mantenevano su tutti i rami dell'amministrazione, e ci fornisce l'esempio di uno Stato in cui l 'assolutismo operò con l'aiuto dell'aristocrazia. I consigli di Stato erano composti di nobiluomini, le famiglie nobili domi­ navano le campagne e le municipalità . Olivares fu il primo dei grandi ministri a diffidare della potenza dei nobili . Cosl una volta egli informò Filippo IV : « Non credo che sia opportuno affidare loro importanti cariche giudiziarie o finanziarie » ; e fu durante il suo governo che le relazioni tra i nobili e la Corona furono più tese. « Se l'esenzione dalle tasse è una prerogativa fondamentale della nobiltà - si lamentava un nobile - in questo periodo, a causa dell'immensa ondata di richieste di donativi, il lustro del privilegio si è estinto ». Questa lagnanza era in qualche modo giustificata, perché anche se i nobili non pagavano le tasse, essi pagavano generosamente, con libere dona­ zioni , ciò di cui il governo aveva bisogno in ogni situazione di emergenza. Resta il fatto che Olivares non ebbe successo in nessuna delle sue maggiori iniziative, e che il potere degli ari­ stocratici non subl diminuzioni . Un censimento della Nuova Castiglia ordinato da Filippo II nel 1 597 mostrava che i nobili controllavano quasi il quaranta per cento delle città e il trenta­ quattro per cento della popolazione di quel tempo . Nella Vec­ chia Castiglia, durante il XVIII secolo, il quarantasette per cento della popolazione viveva sotto la giurisdizione signorile ,

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e nella provincia di Salamanca addirittura il sessanta per cento. Alti aristocratici come il Connestabile di Castiglia e il duca di lnfantado erano ciascuno signori di oltre cinquecento città. Le più importanti città del regno, tra cui Siviglia e Toledo, erano completamente sotto il controllo di oligarchie aristocratiche. Se qualche nobile era in declino, dunque, cosl non era per la sua classe. La dinastia Tudor ( 1 485- 1 603 ) introdusse in Inghilterra al­ cune riforme amministrative che mutarono completamente gli equilibri di potere nel regno. L'ampia autorità che il consiglio reale aveva assunto a Londra e nelle province (per esempio nel nord e nel Galles ), era esercitata da nobili e prelati che avevano abbracciato la causa della Corona . Ma gli uomini su cui cadde sempre più il compito di amministrare realmente il paese appar­ tenevano alla piccola nobiltà, la classe da cui erano general­ mente scelti gli sceriffi e i giudici di pace. Per di più la piccola nobiltà costituiva il grosso dei membri della Camera dei Co­ muni, la cui importanza costituzionale era enormemente aumen­ tata alla fine del XVI secolo. Tagliati fuori quasi completamente dalla partecipazione al governo locale e centrale, un compito per il quale non avevano mai avuto molta inclinazione, gli ari­ stocratici affidavano la loro carriera a quelle alte cariche dello Stato che il re aveva la facoltà di donare - luogotenenze di contea, posti e sinecure nella casa reale e nei servizi militari e diplomatici . La fedeltà e il rispetto tradizionali nei confronti degli aristocratici avrebbero continuato ad avere il loro posto nelle campagne, ma anche questo legame sarebbe andato scom­ parendo insieme ai diritti feudali di possesso, e gli affittuari '>i sarebbero liberati dai vincoli di dipendenza che li legavano ai signori terrieri. Inevitabilmente, dunque, i nobili gravitavano intorno alle corti, e restava alla Corona di decidere tra quali gruppi avrebbe dovuto dividere i suoi favori. La politica uffi­ ciale era favorevole all'opportunità di utilizzare i nobili al ser­ vizio della Corona . « Gratificate i vostri nobili - consigliava Burghley alla regina Elisabetta nel 1579 e le persone più importanti del regno, per legarli strettamente a voi ». La diffi­ coltà consisteva nel fatto che i posti disponibili erano troppo pochi di fronte al gran numero degli aspiranti. Fu notato, per esempio, che c'erano tre o quattrocento candidati per i venti posti di maggior importanza che offriva la nuova casa del gio-

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vane principe Carlo, nel 1 63 8 . Una concorrenza cosi ampia a tutti i livelli dell'amministrazione di corte non poteva che la­ sciare un grande numero di delusi. Una carica pubblica, in Inghilterra come sul continente, offriva una posizione ( spesso ereditaria), influenza e denaro. Per quegli aristocratici e per quei gentiluomini che avevano con la loro prodigalità ipotecato il loro futuro, la perdita di una carica significava la rovina. Gli sforzi della monarchia francese di sottomettere i suoi nobili coincisero con la politica di Richelieu, ma non c'è dubbio che allo stesso fine erano diretti i tentativi di Caterina de' Me­ dici, di Enrico IV e del D'Ancre contro il continuo atteggia­ mento bellicoso della nobiltà, in particolare di quella ugonotta. Efficaci misure contro i nobili cominciarono ad essere attuate solo con Richelieu, che dovette per forza adottare una politica che discriminava le sue vittime, dal momento che egli non avrebbe potuto né voluto agire contro di esse come contro un'intera classe. Intrighi di corte contro il cardinale, che si ripercossero nelle province, furono repressi e i loro capi giusti­ ziati : il conte di Chalais nel 1 626, il duca di Montmorency nel 1 632, il marchese di Cinq-Mars nel 1 642 . Anche le alte cariche militari furono tolte dalle mani dei nobili e soppresse : la carica di ammiraglio di Francia fu abolita nel 1 627, insieme a quella di connestabile di Francia. I governatorati di province strategicamente importanti furono tolti dalle mani di alti aristo­ cratici come Vendome ( Bretagna), Guise ( Provenza ) e Soissons ( Champagne ), e furono dati a nobili più fidati, oppure a luogo­ tenenti generali dipendenti dalla Corona. Misure come queste furono per qualche verso efficaci , ma non andarono fino in fondo . Si può scorgere in che modo la massa dei nobili reagi a questo generale orientamento politico attra­ verso un esame, per esempio, dei cahiers redatti dalla nobiltà e dai gentiluomini dell'Angoumois in vista degli Stati Generali previsti per il 1 649 ma mai convocati . Alcune delle lamentele più significative contenute nei cahiers riguardavano l'impossibi­ lità dell'aristocrazia di mantenere la sua legittima autorità in un campo come quello della giurisdizione signorile, che era stato invaso dalla competenza della magistratura regia. Inoltre, il controllo prima esercitato sull'amministrazione delle province era minacciato dalla presenza degli intendenti, ragion per cui

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alla Corona « si chiedeva molto umilmente di non istituirli nuo­ vamente ». Più grave di tutto, pensavano i nobili, era il notevole pregiudizio sofferto dalla nobiltà in seguito alla venalità delle cariche, non solo nella casa reale e nell'esercito ma anche nel­ l 'amministrazione giudiziaria, a cui l'accesso era reso quasi impossi­ bile dai prezzi eccessivi; ed era causa di rammarico per loro essere privati di posti che prima occupavano, e vedersi nel presente caduti nelle mani di gente di oscura origine, di nessun merito e capacità.

Sebbene gli Stati Generali non fossero stati riuniti, nel 1 6 5 1 i nobili tennero una loro assemblea, i n cui la Corona fu aspra­ mente criticata non solo per l'abolizione del diritto dei nobili al monopolio delle cariche di Stato, ma anche per il carico di tasse che gravava su di loro. « I nobili, essi affermavano, sono sottoposti a tailles e a tasse di ogni genere, e le loro terre dimi­ nuiscono di valore con la stessa frequenza con cui bisogna pa­ gare queste tailles » . Per questi e per altri motivi essi sentivano di avere reali ragioni di risentimento contro lo Stato. Sebbene queste doglianze fossero in parte giustificate, non si può non sottolineare che solo una parte dei nobili era stata colpita ingiustamente . Molti aristocratici continuavano a rico­ prire importanti incarichi nell'amministrazione, godevano dei benefici finanziari assicurati dagli uffici pubblici e dal favore reale, e davano un tono decisamente aristocratico al governo. Se la nobiltà era impoverita, la colpa non era sempre del governo : la corte non poteva adeguatamente accontentare le centinaia di persone che pretendevano un posto in ragione del loro rango. Il problema dell'allontanamento della nobiltà dai posti di governo, come si è osservato, costituiva un'intima contraddizione dell'assolutismo, e il motivo centrale della crisi politica dell'ari­ stocrazia. Sebbene intendesse mostrare i suoi favori agli aristo­ cratici, la monarchia era riluttante a concedere loro un reale potere . Uno dei modi seguiti per aggirare questo problema era quello di concedere un gran numero di onorificenze personali, gratuite o a pagamento . Il risultato fu un'enorme inflazione delle dimensioni dell'aristocrazia, che, nei momenti difficili, si trovò ingrossata dall'immissione di centinaia di nuovi arrivati. La monarchia spagnola fu l'ambiente ideale per questo tipo di crescita . L'aristocrazia titolata si moltiplicò di numero

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all'inizio del XVII secolo . Mentre c 'erano stati fino al 1597 solo centoventiquattro nobili titolati, nel 1 63 1 erano saliti a duecentoquarantuno, e soltanto durante il regno di Filippo IV furono creati quasi duecento nuovi titoli nobiliari . L'aumento della distribuzione di onorificenze può trovare una singolare conferma nella rapida crescita delle file degli ordini cavallereschi. I motivi che stavano dietro a questo atteggiamento delle mo­ narchie furono brevemente spiegati da Filippo IV nel 1 625 : « Senza ricompense e punizioni nessuna monarchia può conser­ varsi . Ora le ricompense possono essere finanziarie o onorifiche. Noi non disponiamo di denaro, e così abbiamo ritenuto giusto e necessarie riparare a questo difetto accrescendo il numero delle onorificenze » . Questo aumento fu formidabile . Nei venticinque anni trascorsi tra il 1 5 5 1 e il 1575 erano stati creati ben 3 54 nuovi membri dell'Ordine di Santiago ; dal 1 62 1 al 1 645 il totale salì a 2 .288 . La crescita più notevole si verificò a Napoli. Qui il numero dei baroni titolati crebbe di oltre il trecento per cento tra il 1 590 ( quando essi erano in tutto centodiciotto ) e il 1 66 9 . In Inghilterra questo processo f u accelerato d a Giacomo I, poiché i titoli da lui creati furono distribuiti gratuitamente e non venduti . Prima della sua assunzione al trono , nel marzo 1 603 , l'Inghilterra aveva circa cinquecento cavalieri . Nei primi quattro mesi del suo regno Giacomo I nominò non meno di novecen­ tosei nuovi cavalieri, e nel dicembre 1 604 solo il numero dei nuovi cavalieri ammontava a 1 . 1 6 1 . L'ingrossarsi delle file del­ l'aristocrazia titolata fu, rispetto alle sue caratteristiche, ancora più sorprendente. Nei tredici anni tra il 1 6 1 5 e il 1 628 , Gia­ como e suo figlio Carlo I portarono il numero dei membri del­ l'aristocrazia inglese da ottantuno a centoventisei, l'aumento maggiore essendosi verificato nella schiera dei conti, che crebbe da ventisette a sessantacinque membri . Questo processo di cre­ scita, rispettivamente del cinquantasei e del centoquarantuno per cento, è stato chiamato « una delle più radicali trasforma­ zioni dell'aristocrazia inglese titolata che sia mai avvenuta » . Non bisogna pensare, comunque, che questo fenomeno fosse unico, perché qualche altra nazione europea conobbe un pro­ cesso di crescita della nobiltà ancora più notevole . In Svezia la regina Cristina, nello spazio di dieci anni, raddoppiò il numero delle famiglie nobili, e sestuplicò quello dei conti e dei baroni .

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In Spagna Carlo II, che sall al trono nel 1 665, creò nei trenta­ cinque anni del suo regno tanti titoli onorifici per l'aristocrazia quanti ne avevano distribuiti tutti i suo1 predecessori Asburgo nei due secoli precedenti. Ma l'inflazione delle onorificenze non riuscì a placare o a ricompensare la già malcontenta aristocrazia . I nobili di sangue furono anzi ancor più offesi dalla presenza di questi nuovi arri­ vati . « Si può mai dubitare - scrisse un inglese della genera­ zione successiva, Sir Edward Walker - che la distribuzione così generosa di titoli onorifici non avrebbe dato origine a un generale malcontento, specialmente tra le persone di elevata estrazione? ». Il fatto è che le nuove nomine conferivano uno status, ma non un potere corrispondente. Si nobilitavano dei commoners ma né la nuova né la vecchia nobiltà ricevevano nuove cariche o remunerazioni, e la Corona, come l'aristocrazia, ne perdevano di prestigio . La notevole capacità di recupero della classe nobiliare di fronte al suo declino economico e alla decadenza politica e mi­ litare fu per molti versi illusoria. Lasciata a se stessa la nobiltà sarebbe stata sopraffatta dalla crisi . Ma il suo più potente alleato, proprio quello che era responsabile di molte delle sue difficoltà, fu la Corona . E sebbene la Corona avesse sempre a cuore la supremazia sociale e politica di questa classe, soprat­ tutto da un certo punto di vista essa le garantì di continuare ad esistere : attraverso l'istituzione del maggiorascato . Questo pare essere stato il fattore che più di ogni altro contribuì alla salvezza dell'aristocrazia. È significativo il caso della Danimarca . Nel 1 660 fu calcolato che i debiti della nobiltà danese ammon­ tassero complessivamente a un terzo del valore di tutte le terre nobiliari. In molti altri paesi questo avrebbe portato alla com­ pleta svendita delle terre. Ma il sistema di privilegi che la Co­ rona aveva concesso ai nobili alla metà del XVI secolo fece sl che le tenute nobiliari raramente uscissero dalle mani di questa classe, e che, quando erano vendute, finissero nelle mani di altri nobili . Il caso della Danimarca, sebbene non si riferisca propria­ mente al maggiorascato, ci mostra un sistema di privilegi che era molto simile ad esso. Fu in Spagna che il maggiorascato o mayorazgo ottenne ciò che può essere definito il suo più grande successo. Coloro che stavano alla testa delle grandi case e tutti i loro dipendenti piangevano periodicamente miseria, e la loro

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era una situazione comprensibile dal momento che le regole del maggiorascato non permettevano di vendere le proprietà della famiglia ; ma fu grazie a ciò che le case nobili continuarono a vivere anche se qualche membro di esse morl quasi in povertà. Il maggiorascato della nobiltà spagnola era protetto da molti privilegi, non ultimo quello che i debiti potevano essere con­ tratti sul maggiorascato anche se la proprietà stessa non poteva mai essere venduta. Il maggiorascato e la primogenitura erano i principali sistemi per salvaguardare l'integrità della proprietà nobiliare. La pratica della primogenitura era esistita in Inghilterra sin dal Medioevo ; quella del maggiorascato vi prese piede solo nel XVII secolo . In Spagna i maggioraschi erano già comuni nel XV secolo e furono specificamente consentiti dalle Leggi di Toro del 1 505 . In Francia e in Germania divennero co­ muni nel XVII secolo, e in Italia furono ampiamente diffusi nel XVI . Un inconveniente del maggiorascato era che, non per­ mettendo l'alienazione delle tenute comprimeva il mercato della terra, in un momento in cui ve n 'era una continua domanda. Per questa ragione la primogenitura poteva talvolta essere pre­ feribile. I sovrani piemontesi tentarono ( nel 1598 ) di limitare la durata del maggiorasco, e nel 1 648 Carlo Emanuele II pro­ mulgò un editto che incoraggiava la pratica della primogenitura, « dal momento che essa ci consente cosl di mantenere in vita e di accrescere lo splendore della nobiltà » . Grazie alle paterne cure dei loro re, gli aristocrat1c1 europei vennero a capo di molti problemi. Le loro terre furono protette per legge, le loro tasche conobbero spesso la lusinga delle pen­ sioni reali, essi furono in gran parte esentati dalle tasse, alle loro persone fu spesso concessa l'immunità dai processi penali . Ma fu nei difficili anni di metà secolo che la loro posizione cominciò a mostrarsi sempre più contraddittoria, e portò ad una svolta che può giustamente essere definita come il momento più grave della loro crisi .

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LA BORGHESIA EUROPEA

Altra specie di gente è sorta fra noi, nata per causare la rovina degli altri [ . . . ] . I rentiers, individui ignoranti e analfabeti, i quali accumulano ricchezze senza sforzo, senza fatica, senza rischio : grandi buoni a nulla, i quali trattano unicamente con i notai allo scopo di essere rim­ borsati. Sono loro che hanno scacciato dai loro antichi possedimenti i due pilastri dello Stato, la piccola nobiltà di campagna e i contadini.

Ricordi di un nobile normanno ( 1656 circa ) La quantità di detentori di cariche pubbliche che abbiamo disonora lo Stato ed espone al vilipendio la sua amministrazione. Noel du Fail ( 1576)

Secondo il giurista francese Charles Loyseau, autore del

Traité des Ordres ( 1 6 1 3 ), un bourgeois non era altro che un abitante di città o di un bourg. Parlando di ceti medi, egli pre­ ferl identificarli con il Terzo stato, un gruppo che comprendeva personalità tali come letterati, funzionari di banca, avvocati e mercanti. Ma proprio verso i primi del Seicento, presso alcuni storici francesi, la parola stava già diventando d'uso comune con un significato attinente più al ceto che alla residenza, e già alla metà del secolo, per esempio, essere definiti « bourgeois de Paris » voleva dire qualcosa di molto importante in termini di valori sociali. Quest'ultimo impiego della parola divenne comune nella lingua inglese, secondo la quale ' burgher ' o ' bur­ gess ' equivaleva a cittadino, fosse anche un funzionario, anziché a un semplice residente. Tuttavia, malgrado le differenti funzioni

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delle parole bourgeois e bourgeoisie, biirger e biirgertum, emer­ geva un unico fattore innegabilmente comune: a tutti i fini pra­ tici il ceto medio era costituito da gente di città, mentre le città rappresentavano l 'ambiente per eccellenza della borghesia. Fu dalla vita sociale ed economica delle città che la bor­ ghesia trasse le sue fortune. Al pari della nobiltà, essa non era una classe omogenea . Al livello più basso era costituita da pic­ coli mercanti , da funzionari minori, da fiorenti artigiani e simili, i quali aspiravano ad avere risorse finanziarie indipendenti e non prestavano servizio per conto di altri . A un livello superiore era formata da burocrati, da avvocati e da altri addetti al servizio statale . Inoltre, a questo livello la borghesia era la classe capi­ talistica, creatrice di ricchezza nei settori del commercio all'in­ grosso, del commercio interurbano e dell'usura. Da ciò risulta chiaro il concetto che la borghesia dovesse inserirsi fra altre due classi : alla base coloro che dovevano sgobbare per campare, all'apice coloro che vivevano con un reddito non guadagnato con il lavoro . Non è possibile però considerare queste tre cate­ gorie in senso letterale, in quanto tra l'una e l'altra intercorreva un'infinità di livelli . Dato che la borghesia aveva una precisa funzione da svolgere nella vita delle città, è ovvio che essa dovesse esistere ovunque potesse svilupparsi un centro urbano . In questo senso è sempre esistito un ceto medio . La difficoltà risiede nel fatto che alcuni storici, parlando di « borghesia », hanno la tendenza a riferirsi in particolare alla sua funzione storica di classe imprenditoriale, mentre è naturale che una borghesia imprenditoriale non sia esistita ovunque e spesso fosse di formazione assai recente. Ciò nonostante in questa sede la parola ' borghesia ' sarà usata, per semplicità di espressione, più del termine ' ceto medio ', altret­ tanto valido . Anche se abbiamo definito la borghesia come gente di città, non si trattava di una classe urbana stagnante, poiché faceva continuamente proseliti provenienti dai gradi inferiori. Alcuni emergevano dai piccoli bottegai, altri dai contadini . Una sor­ prendente quantità di piccoli agricoltori aveva posto il cuore nel dare ai propri figlioli una sistemazione di vita migliore di quella che essi avevano avuto. Tale fu durante il secolo XVI il modello dell'alto Poitou, dove i ricchi contadini mandavano i figli all'università, brigavano per acquistare per loro cariche pub-

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bliche minori, iniziando così la loro ascesa nella borghesia. Ci sarebbero volute generazioni . In Borgogna troviamo l'esempio della famiglia Ramillon, che nel 1 5 1 5 esercitava ancora l'agri­ coltura nella città di Charlay. Verso il XVII secolo alcuni mem­ bri della famiglia si erano trasferiti a Varzy, dove si dedicarono al piccolo commercio di macellaio o di fornaio . Già nel 1 67 1 Etienne Ramillon era diventato un commerciante di tessuti . Nel 1 7 1 2 un suo nipote divenne avoca! presso il Parlamento. Il movimento dalla piccola bottega fu altrettanto lento ma sicuro . Loyseau notò con sicurezza nel suo Traité che « i mer­ canti sono le persone di rango più basso che godano di una onorevole condizione sociale, essendo descritti come honorables hommes o honnétes personnes e bourgeois des villes, titoli che non vengono dati agli agricoltori o agli artigiani e tanto meno ai braccianti, i quali sono considerati tutti plebei ». Ma una ge­ nerazione dopo è possibile scoprire che nei documenti notarili di Parigi anche gli artigiani sono qualificati con tutti questi epiteti . Dato che le qualifiche erano del tutto ufficiose, esse venivano impunemente adottate da coloro che ritenevano di averne diritto . In una società estremamente gelosa del titolo e della precedenza, riuscire a usurpare un titolo onorifico era il segno sicuro di avere raggiunto uno status borghese. Nel 1 650 un osservatore francese scriveva : « Prima di questo secolo le mogli di ministri, di avvocati, di notai e di commercianti non sapevano di chiamarsi Madame ». Il nuovo sviluppo era un segno della mobilità fra i settori del ceto medio inferiore, ansioso di trovare il suo posto al sole .

La vita economica della borghesia. Le ricchezze accumulate offrirono alla borghesia un potere in termini monetari che non si giustificava soltanto sul piano quantitativo . La forza numerica del ceto medio è in qualsiasi momento difficile a definirsi, se non altro a causa delle divisioni all'interno del gruppo e dell'impossibilità di individuare una « classe » con attributi nettamente definiti. I dati numerici, nel caso in cui siano disponibili, tendono a delineare un'oligarchia cittadina più che una categoria economica, un'oligarchia però che comprendeva i mercanti più cospicui , i detentori di cariche

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pubbliche e il clero, in modo che è possibile calcolare almeno il nucleo centrale della borghesia. Per esempio, a Venezia verso la fine del Cinquecento, i cittadini 1 rappresentavano il 6 per cento della popolazione della città. A Norwich, all'inizio dello stesso secolo, il ceto medio superiore annoverava circa il 6 per cento della popolazione e possedeva circa il 60 per cento delle terre e dei beni, in base ai quali la città percepiva le imposte. Vi si potrebbe includere un altro quattordici per cento in quanto rientrante nella definizione di ceto medio, ma si trattava piut­ tosto dei più poveri . Se come indice dello status adottiamo il possesso della proprietà e ci basiamo sulle ripartizioni dell'im­ posta urbana, risulta che il ceto medio formato dai proprietari era un gruppo abbastanza ristretto . Sembra che a Coventry, du­ rante il Cinquecento, il 45 per cento della proprietà facesse capo soltanto al 2 per cento della popolazione. Non c'è dubbio che questo esiguo numero di ricchi costituisse il ceto medio . Per esempio, fu Richard Marler, droghiere di Coventry, che pagò circa 1 /9 dei contributi per la sovvenzione della città . Verso la fine del Seicento esistevano a Beauvais all'incirca trecento fami­ glie, su un totale di 3 .250, che pagavano le tasse e che pote­ vano essere considerate come appartenenti all'alta borghesia, mentre perfino all'interno dello stesso gruppo esisteva una limi­ tata élite di circa un centinaio di famiglie. Soltanto a questa specie di élite si deve la disponibilità di dati adeguati, di solito sotto forma di cifre riguardanti coloro che detenevano diritti di cittadini e ai quali si attribuiva il godimento di privilegi patrizi . La maggior parte della borghesia raggiunse il suo status at­ traverso uno dei due principali canali : il commercio o le pub­ bliche cariche. Da essi proveniva il capitale che spingeva poi all'acquisto della terra. In se stesso il termine ' trade ' viene usato in questa sede in riferimento non solo al commercio ma anche all'attività industriale e finanziaria, ciascuna delle quali rappresentava un potente incentivo per la concentrazione di ricchezza nelle mani di un piccolo gruppo privilegiato di impren­ ditori . I porti marittimi, i centri industriali e le città-mercato d'Europa erano le sedi naturali della nascente borghesia e, di conseguenza, è in città come Amsterdam, Liegi e Medina del l

In italiano nel testo. [N.d.T.]

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Campo che riusciamo meglio a trovare i rappresentanti del nuovo benessere. Abbiamo già gettato uno sguardo alla parte svolta da An­ versa e da Amsterdam nella espansione del capitalismo . Lo svi­ luppo di Amsterdam ai primi del Seicento fu particolarmente notevole e, secondo la testimonianza di Sir William Tempie, esso derivò in massima parte dall'etica borghese degli olandesi : « La loro ricchezza si basa di solito su ciascuno che abbia più di quanto spende ; oppure, per dirla in termini più precisi, su ciascuno che spenda meno di quanto guadagna, come si prefe­ risce ». Il risultato del commercio internazionale e dei rapporti finanziari dei mercanti olandesi, nonché delle nuove occasioni offerte dall'Impero d'oltremare, fu che le classi commerciali di Amsterdam assunsero una struttura più esclusiva man mano che si arricchivano . Parte di questa esclusività si attuava attraverso il matrimonio, poiché le fortune commerciali tendevano a con­ solidarsi con legami di parentela fra le grandi ditte, mentre di conseguenza le compagnie diventavano una faccenda quasi uni­ camente di famiglia . Ma l'esclusività si attuava anche attraverso il monopolio che i cittadini-mercanti esercitavano sulla vita so­ ciale e politica della città di Amsterdam . L 'ordine di precedenza della borghesia incominciò a cambiare. Nel 1 6 1 5 un borgoma­ stro di Amsterdam riferì che l'élite amministrativa, cioè i reg­ genti, erano mercanti in attività o da poco ritiratisi. Già nel 1 652 i commercianti si lamentavano che i reggenti non guadagnavano più denaro impegnandosi attivamente nel commercio, « ma le loro entrate provenivano dalle case, dalle terre e dagli interessi di usura ». Si trattava chiaramente d i un 'esagerazione, in quanto i reggenti mantenevano spesso stretti legami con il commercio per mezzo di matrimoni e di investimenti. Ma la tendenza era inequivocabile . In molti casi il commercio aveva cessato di essere l'occupazione principale del borghese troppo arrivato. Nel principato di Liegi, durante gli anni 1577-78, la mag­ gioranza della borghesia traeva le sue entrate dal commercio e dall'attività finanziaria. Com'era di regola a quel tempo in ogni parte d'Europa, quella industriale era la meno importante delle iniziative . Furono gli stranieri immigrati ad agevolare lo sviluppo di quello che divenne uno dei più importanti centri di arma­ mento in Europa. Dal 1 565 al 1607, su ogni cinque nuovi am-

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messi alla borghesia di Liegi , quattro erano stranieri . Già nel 1595 fu uno straniero di nome Jean Curtius ( da Den Bosch ) ad avere il massimo reddito individuale di Liegi, proprio con le forniture di munizioni . Insieme a Jacques le Roy di Anversa, Curtius aveva nel principato un monopolio di fabbriche di armi . Durante il suo più attivo periodo di accumulazione di capitale ( 1 595- 1 603 ), Curtius fece investimenti esattamente nello stesso campo di interessi che attirava i mercanti di Amsterdam : la terra e gli affitti . Si trattava di una tendenza condivisa dalla borghesia di Liegi, in quanto quasi la metà della somma com­ plessiva di denaro investita nel 1 595 in prestiti statali ( rentes ) proveniva da appartenenti a questa classe. Soltanto dopo aver fatto danaro con il commercio si poteva diventare finanzieri . Simon Ruiz di Medina del Campo si distinse di più in mezzo al gruppo ristrettissimo di spagnoli, i quali este­ sero verso la fine del Seicento le loro operazioni dal commercio dei prodotti tessili al prestito di denaro . Già nel 1 576 egli faceva prestiti a Filippo Il e aveva cominciato a partecipare alla com­ plessa rete di scambi internazionali, attraverso i quali il re prov­ vedeva al pagamento delle sue truppe ad Anversa e altrove. Grazie al profitto che ricavò da queste attività finanziarie, Ruiz accumulò una fortuna considerevole . Ma il denaro non fu ammi­ nistrato secondo la linea di comportamento tipicamente borghese . Al contrario, la generazione successiva della sua famiglia dissipò la ricchezza e preferl abbandonare le incertezze del mercato monetario a favore dei più attraenti onori della condizione nobile . I borghesi che avevano fatto danaro con il commercio costi­ tuivano appena la prima generazione della ricchezza, poiché ave­ vano il piede soltanto sul primo gradino della scala sociale. Dove arrivassero, partendo da quel punto, dipendeva dalla so­ cietà e dal paese in cui vivevano . Fu qui che le differenze fra nazioni come l'Olanda, l'Italia e la Francia divennero evidenti . In un brano ben noto Jacques Savary riassunse il suo punto di vista in merito a quelle differenze fra i francesi e gli olandesi : Dal momento in cui un mercante francese ha acquistato una grande ricchezza nel commercio, i suoi figli, !ungi dal seguirlo in questa professione, preferiscono al contrario la carica pubblica [ ... ] invece in Olanda i figli dei mercanti continuano di solito la professione e il

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commercio dei padri, si alleano con altre famiglie mercantili e asse­ gnano ai loro figli, quando si sposano, somme talmente cospicue che uno solo di essi già disporrà, nell'accingersi a commerciare per conto proprio, di una ricchezza maggiore di quella che avrà il più ricco mercante francese nel momento in cui si ritirerà dall'attività per sistemare la sua famiglia in altre professioni. Pertanto, dato che il denaro non viene distolto dal commercio ma viene continuamente investito di padre in figlio, nonché da famiglia a famiglia in seguito alle alleanze reciprocamente strette dai mercanti, i singoli mercanti olandesi possono impegnarsi nei commerci con il Nord Europa e la Moscovia con più facilità dei singoli mercanti francesi 1 .

I l contrasto cui accenna Savary era i n un certo senso falso, in quanto una parte della borghesia olandese fu attratta dalla carica pubblica non meno di quella francese : in Olanda la pre­ ferenza per gli introiti derivanti da affitti e dalla carica pub­ blica fu veramente considerevole. A causa però della differente struttura sociale nei due paesi, il processo si svolse in Francia molto più rapidamente e con conseguenze più gravi . È certo che la borghesia francese si dedicò al commercio e all'industria con scarso entusiasmo . Già nel 1 560 troviamo che il Cancelliere L'Hospital si lamenta che « il commercio è molto declinato a causa dell'assegnazione di rentes da parte dell'Hotel­ de-Ville », da parte cioè della città di Parigi . I mercanti, non appena avevano fatto fortuna, decidevano di investire i profitti in prestiti municipali, che garantivano un'entrata fissa per ;l futuro . In tal modo i commercianti distoglievano il loro denaro dal commercio e si ritiravano dagli affari . Le cifre disponibili riguardanti la borghesia di Amiens dimostrano che, su ventisette nominativi dei principali mercanti interessati all'industria dei prodotti tessili nel 1 5 89-90, trentacinque anni dopo ne rimane­ vano soltanto sei ; mentre dei trentotto cognomi rinvenibili nel 1 625, verso il 1 7 1 1 ne rimanevano soltanto sette. Se le cifre sono esatte, ne risulta un apprezzabile esodo di famiglie dall'atti­ vità commerciale una volta raggiunta la ricchezza . Questo pro­ cesso di allontanamento consisteva semplicemente nel trasferi­ mento di patrimoni a un diritto di proprietà che avrebbe dato l Jacques Savary, Le parfait négociant ou Instruction générale pour ce qui regarde le commerce. . , Paris 1675, livre second, p. 1 12. [ N.d.T. ] .

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un tasso d'interesse solido ma non necessariamente alto . Al rischio si preferiva la sicurezza, intendendosi per quest'ultima quella della propria famiglia e dei propri figli. La ricchezza per la ricchezza, l'etica del capitalismo, veniva abbandonata a favore della ricchezza che procurava una posizione comoda e sociale . Il patrimonio lasciato dal mercante Lucien Motte di Beauvais nel 1 650 rivela i primi inizi di un trasferimento dall'attività commerciale verso altri interessi : soltanto il 4 % del suo denaro era investito nella terra, ma il 2 7 % rappresentava altrettante rentes e attività estranee al commercio . Come abbiamo visto, la tendenza era ben conosciuta e il governo non poteva astenersi dal biasimare l'effetto negativo che essa doveva avere avuto sull'economia. Un rapporto diretto a Richelieu nel 1 626 affer­ mava: « Ciò che ha danneggiato il commercio è il fatto che tutti i mercanti, quando si arricchiscono, non rimangono nel com­ mercio, ma impiegano i loro beni per acquistare cariche pub­ bliche ai loro figli » . Pressappoco nella stessa epoca un commer­ ciante di Lione, nel prendersela di più contro i titoli nobiliari che contro la detenzione di cariche pubbliche, affermava che il commercio crea ricchezza ; e quasi tutte le migliori famiglie di Parigi, Lione, Rouen, Orléans e Bordeaux traggono origine non solo da avvocati, notai, procuratori, ma anche da mercanti [ . ] . Anche il mercato a Londra, la fiera di Lione, i mercati di Anversa e di Rouen producono malgrado tutto più famiglie. Il mercante acquista, il deten­ tore di cariche pubbliche conserva, il nobile dissipa [ . . ] . La nostra città è caduta in rovina soltanto da quando si è compromessa con le rentes e con la nobiltà. ..

.

Il borghese francese cominciò a salire la scala sociale me­ diante l'acquisto di cariche pubbliche . Non solamente i commer­ cianti ma anche altri settori del ceto medio diedero inizio alla scalata in questo modo . Alla carica pubblica faceva sèguito l'ac­ quisto della terra, e lo spostamento verso la terra, cui appena si accenna nel caso del patrimonio di Lucien Motte, fu la carat­ teristica più rilevante dei patrimoni borghesi in questo periodo . Se consideriamo l'esempio di Toussaint Foy, funzionario fiscale di una regione del Beauvais , scopriamo che alla sua morte , avve­ nuta nel 1 660, il suo patrimonio era così costituito :

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21 9

Terre Denaro contante e beni Carica pubblica Rentes e credito Case

55,8 14,1 5,8 1 3 ,5 1 0 ,8

per per per per per

cento cento cento cento cento

Queste cifre, relative a un patrimonio borghese alla fine del periodo che esaminiamo, ci inducono a volgere la nostra atten­ zione ai tre più importanti aspetti della vita economica della borghesia : il suo reddito proveniente dalle rentes, dalla terra e dalle cariche pubbliche.

Una classe

«

rentier

»

e una classe terriera.

Le rentes, ossia le rendite annuali, svolsero una parte fon­ damentale non solo nel distrarre il danaro della borghesia dal­ l'attività commerciale, ma anche nell'agevolarle la conquista della terra . Sconosciute in Inghilterra, dove la monarchia trovò altri modi per procurarsi danaro, le rentes del continente consi­ stevano in prestiti pubblici a favore di un governo bisognoso e le si poteva rintracciare in Italia durante il Medioevo. Molti altri Stati incominciarono ad assegnare le rentes nei secoli XV e XVI . In Francia le rentes, anche se in senso tecnico erano un prestito alla Corona, venivano rilasciate a Parigi dall'Hotel-de­ Ville, il quale versava un interesse annuo sui prestiti . In Spagna esistevano due specie principali di prestito : i juros, emessi dallo Stato, e i censos, emessi sia dalle municipalità che da singoli privati . Allo stesso modo le municipalità in Italia, in Germania e nei Paesi Bassi emettevano prestiti dietro pagamento di un interesse annuo. In Italia, i monti l , come veniva chiamato il debito pubblico consolidato, avevano svolto a lungo un ruolo di primaria importanza nel finanziamento delle attività politiche dei comuni . Le rendite annuali di qualsiasi specie erano una forma allet­ tante d'investimento, particolarmente quando lo Stato offriva alti tassi di interesse, nel tentativo di attirare gli investitori. In un'epoca in cui l 'attività bancaria era relativamente scono­ sciuta , le autorità assunsero il ruolo di banchieri, facendosi pre1

In italiano nel testo. [N.d.T.]

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Parte II. La società

stare denaro dai cittadini e pagando loro l'interesse in esenzion� da imposte. Il sistema ottenne un successo enorme. A Firenze, verso la fine del Quattrocento, esso contribui a far nascere una mentalità di rentier fra la borghesia più ricca e a far concen­ trare la ricchezza finanziaria nelle mani dei cittadini di rango superiore, in quanto erano essi che controllavano la macchina dello Stato. Può darsi che questo processo impedisse in pratica l 'accumulazione di capitale fra quelle classi che avevano mag­ giore interesse a incrementare la produzione. In tal modo l'inve­ stimento nei monti distoglieva il capitale dalle attività impren­ ditoriali . Una situazione analoga prevalse in altre parti d'Italia in un successivo periodo . Nella regione di Como contigua al Ducato di Milano esisteva un ceto medio forte e ricco . Oltre ai loro altri interessi, i cittadini di Como si dedicavano al pre­ stito di danaro . Loro clienti erano sia i centri rurali che il governo, dai quali la borghesia traeva le sue rendite, i suoi censi 1 • Nel 1 663 il centro rurale di Gravedona, uno fra i tanti, si lamentò di essere paralizzato dai debiti a causa dei censi che doveva pagare ai precedenti consiglieri e funzionari della città. L'investimento nelle rentes non offriva di per sé il fianco alla critica . Ciò che contava era l'ordine di precedenza che gli veniva dato . La borghesia di Amsterdam era una classe di rentiers numerosa quanto qualsiasi altra dell'Europa occidentale ( per esempio, Louis Trip lasciò alla sua morte nel 1 684 qual­ cosa come 1 5 7 .000 fiorini di sole rentes ) , ma gli olandesi si decisero a fare investimenti in questa specie di prodotto sol­ tanto dopo aver soddisfatto le richieste di capitale da parte del commercio e dell'industria, di modo che le rentes tendevano a divorare soltanto una parte del capitale circolante . Invece, in Germania, in Francia e in Italia dedicarsi alle rentes divenne una passione. I prestiti statali furono un investimento popolare e, come abbiamo visto a proposito del debito pubblico inglese, riusci­ rono ad attirare una vastissima parte di capitale senza obbligare in quel caso il ceto medio a fare assegnamento unicamente sul debito a causa della sua rendita. Per molti investitori della bor­ ghesia inglese il debito dovette essere la loro alternativa tra l'acquisto della terra e una assicurazione contro il futuro . In l

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Spagna, però, per molti investiton 1 turos rappresentavano vera­ mente la loro principale fonte di reddito. I nobili facevano investimenti non meno della borghesia, tanto che gli esempi di aristocratici che nel 1 680 dipendevano unicamente dai juros per la loro rendita in contanti sono rivelatori : il visconte di Ambite « l'intera rendita del quale si limitava ad essi », il visconte de la Frontera « il quale non aveva altra risorsa per vivere », il conte di Toreno « la cui principale fonte di rendita sono questi juros » . Innumerevoli famiglie borghesi, e i n modo speciale l e vedove, facevano assegnamento sui juros come se si trattasse di un si­ stema di pensione. Ci vuole poco a dimostrare che coloro i quali vivevano sull'interesse proveniente dalle rendite annuali dello Stato in effetti vivevano a carico dello Stato, senza dargli nessun apporto produttivo. Forse l'esempio più impressionante a questo riguardo, anche se non necessariamente l'unico nel suo genere, era la città di Valladolid, dove verso la fìne del Cinquecento 232 cittadini percepivano dal governo, a titolo di juros, più denaro di quello effettivamente pagato da tutta la città come imposte, sicché in pratica lo Stato manteneva la città . Oltre che servirsi dello Stato come fonte di entrata, la bor­ ghesia era anche in grado di offrire credito altrove. Le rentes in suo possesso erano in questo caso prestiti fatti a singole per­ sone le quali, in cambio di un anticipo immediato di contante, si impegnavano a versare al loro creditore una rendita in contanti o in natura fìno alla estinzione del debito . Non sempre la tran­ sazione era così semplice, poiché talvolta si frapponevano diffi­ coltà al pronto rimborso del prestito. Le rentes di questa specie, i censos e i censi resero la borghesia creditrice particolarmente nei riguardi di due categorie di persone , i contadini e l'aristocrazia. I contadini e i centri rurali d'Europa tendevano a dipen­ dere esclusivamente dagli usurai delle città, per ottenere il capi­ tale di cui avevano bisogno allo scopo di migliorare i loro pos­ sedimenti . Il contante messo a disposizione del contadino non era mai molto ; in periodi di deflazione o di calamità, quando più occorreva credito per il miglioramento e la sopravvivenza, la situazione si faceva critica . Inevitabilmente i contadini diven­ tavano la più vasta categoria di coloro che chiedevano prestiti . Dai conti del notaio Antonio de Cigales di Valladolid risulta, ad esempio, che negli anni 1 576-77 oltre il 51 per cento dei suoi debitori erano contadini . Invariabilmente si trattava di

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piccole somme, che però aiutavano sicuramente il contadino a sbarcare il lunario e a sviluppare, se necessario, i suoi poderi. In quasi tutte le regioni d'Europa, fatta naturalmente ecce­ zione per quelle orientali, la borghesia ebbe una parte di rilievo nel prestare aiuto alla ricostruzione agricola. Tale aiuto fu richiesto in misura massima dopo le grandi guerre che deva­ starono i territori rurali, in Francia dopo le guerre civili e le Fronde, in Germania dopo la guerra dei Trent'anni. Il credito che in quelle occasioni intervenne in soccorso dei centri rurali era di solito valuta di provenienza borghese, fornita dai mer­ canti, dai dettaglianti e dai funzionari delle città. In tal modo il capitale veniva investito nell'agricoltura, con buone speranze che nel complesso ne beneficiassero il contadino e la collettività. Le difficoltà si presentavano quando sorgeva la questione del pagamento delle rendite annuali e del rimborso del prestito. Un contadino, il quale non provvedeva a restituire il prestito approfittando di un buon raccolto, spesso perdeva per sempre l'occasione favorevole. Una cattiva annata poteva segnare l 'inizio dell'incapacità di pagare ; ciò a sua volta, poteva e faceva pro­ vocare l'indebitamento permanente e il fallimento definitivo . Il rentier poteva farsi avanti e confiscare la proprietà terriera che aveva garantito il prestito. Durante i lunghi periodi di depressione agricola che si verificarono nell'economia rurale, migliaia di possedimenti rurali passarono dalle mani dei loro proprietari in quelle della borghesia urbana. Nel Seicento la Castiglia era abbondantemente popolata di città e villaggi op­ pressi dal peso dei censos: per esempio, il villaggio di Escurial (nella provincia di Caceres ), che nel 1 679 aveva una popola­ zione di circa 1 .375 abitanti, un capitale di 9 . 7 1 2 ducati in proprietà e bestiame, contro un debito principale complessivo di 24.6 1 6 ducati di censos; oppure quello di Aldeanueva de Fi­ gueroa, che solo negli anni dal 1 664 al 1 686 alienò oltre un terzo delle sue terre a favore della borghesia di Salamanca . È relativamente facile capire il trasferimento della terra dai contadini, ma esistevano anche altri settori della società che si indebitarono con i rentiers. La lista dei debitori di Antonio de Cigales, negli anni 1 576-77, per circa il dieci per cento era costituita da artigiani, per il tredici per cento da detentori di cariche pubbliche e per quasi il tre per cento da nobili . Tutti

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costoro non perdettero necessariamente la proprietà, ma questa tendenza risulta rappresentata a vari livelli sociali in modo straordinariamente vasto . Un esempio dei primi del Cinquecento spiega questa situazione. Nel 1 52 1 , in una sola parrocchia del­ l'area di Rouen, su di un totale di 288 persone che vendevano i loro appezzamenti di terre, 1 8 3 erano coltivatori diretti, 52 artigiani, 20 braccianti, 19 borghesi e 14 preti . Gli acquirenti furono quasi senza eccezione borghesi . Le rentes divennero pertanto uno strumento di deteriora­ mento e di espropriazione nei riguardi dei contadini indipen­ denti e promossero la conquista del suolo da parte delle classi urbane. Naturalmente il trasferimento della terra dal contadino al borghese non fu causato esclusivamente o direttamente dalle rentes. Le condizioni economiche all'inizio del Cinquecento ave­ vano già impresso una vigorosa spinta al processo. Ma l'indebi­ tamento del contadino verso i rentiers certamente ebbe molta parte in ciò. Già a metà del Seicento si diceva che più della metà della terra intorno a Montpellier appartenesse agli abitanti della città. L'estendersi del possesso della terra da parte della borghesia era evidente. Mentre nel 1 547 i funzionari fiscali pos­ sedevano nel territorio di Montpellier soltanto sei ettari, già nel 1680 ne possedevano 220 . Anche la nobiltà era vittima delle attività degli usurai di città. Sopraffatta dai costi crescenti, dallo sfruttamento inade­ guato delle sue tenute e dagli enormi consumi, doveva procu­ rarsi prestiti presso la classe che aveva più capitale disponibile . Si è già visto come l'alta nobiltà della Castiglia si fosse inde­ bitata, talvolta per somme enormi, con la borghesia di Valla­ dolid. In questa città i creditori non furono soltanto delle sin­ gole persone : molto spesso erano, come in altre parti della Spagna, sia enti morali che collettività religiose. Il grado di indebitamento della nobiltà castigliana era talmente allarmante ( agli inizi del Seicento il conte di Benavente pagò più del 4 5 per cento del suo reddito annuo per censos), che verso la fine del suo regno Filippo II intervenne in salvataggio della sua classe dirigente. Mediante decreti reali , i singoli debitori aristo­ cratici furono autorizzati a domandare delle riduzioni sul tasso di interesse che essi pagavano ; in caso di rifiuto da parte dei creditori, si consentl ai nobili di riscattare i loro censos, con la

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creazione di nuovi debiti allo scopo di risarcire quelli vecchi. La domanda di rendita derivante dai censos era talmente grande che la borghesia concesse prontamente le riduzioni . Grazie ai debiti contratti dalla nobiltà, i ceti urbani conti­ nuarono a rilevare la proprietà del suolo nei confronti sia dei nobili che dei contadini. La terra offriva una ricompensa straor­ dinaria, come dimostrato dal patrimonio di Toussaint Foy, cui abbiamo accennato sopra. La terra offriva sicurezza e rispetta­ bilità e, soprattutto, l'aspirazione alla condizione aristocratica. Le terre che apparivano più allettanti a un borghese che avesse delle pretese sociali erano quelle dotate di diritti feudali e signo­ rili, e molti borghesi ebbero l'abilità di autonominarsi di conse­ guenza in pieno diritto signori di questo o quel feudo . È natu­ rale che la condizione di proprietario di una seigneurie non significava di per sé che si era diventati nobili ; però la dignità di signore di una o più tenute piuttosto grandi era un argo­ mento irrefutabile al momento di presentare la richiesta per ottenere un titolo nobiliare. L'avanzamento della borghesia della città di Digione costi­ tuisce un caso tipico . Con una popolazione, ai primi del Sei­ cento, di circa 4.300 famiglie ( circa 20 .000 persone ), la quantità di coloro che potevano essere classificati borghesi oscillava da 6 a 8 .000 persone. Sebbene il nucleo di questa categoria fosse composto di avvocati, funzionari, membri del parlamento e si­ mili , vi era anche una mescolanza di piccoli nobili di campagna, trasferitisi in città in quanto attirati dal reddito derivante dalla carica pubblica . A sua volta la borghesia spostò nella campagna i suoi interessi (non però le sue persone ) . Grazie ai ricchi pro­ fitti commerciali, il patriziato di Digione acquistò terra allo scopo di darsi quel marchio di distinzione, quella qualité che conferiva lo status. Già alla metà del Seicento la città di Di­ gione aveva ottenuto un controllo solido e irreversibile sulla terra e sulle tenute che la circondavano . Lo stesso processo si verificò nel XVII secolo ad Amiens. La borghesia acquistò terra a seconda della disponibilità di con­ tanti e del rango : i mercanti minori comprarono piccoli lotti, la noblesse de robe comprò le tenute . L'alta borghesia traeva quasi il 60 per cento del suo reddito dalla terra e dagli affi t ti, un chiaro segno dei valori sociali cui essa teneva. Un'indagine condotta nel 1 634 su tutti i feudi fondiari in possesso della

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borghesia di Amiens rivelò che complessivamente 3 5 1 cittadini, tutti senza titolo nobiliare, possedevano proprietà che andavano dal piccolo appezzamento di terra fino alle vaste tenute signo­ rili . Di queste grandi tenute, 28 conservavano la giurisdizione feudale ; 1 8 appartenevano alla noblesse de robe, 5 a cittadini borghesi e 4 ad avvocati . In Alsazia l'appropriazione della terra da parte della gente di città toccò il culmine tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento . Come al solito, le collettività rurali subirono la sorte peggiore . I possedimenti territoriali della città di Hagenau si moltiplicarono in seguito all'indebitamento rurale. La città di Strasburgo non fu seconda a nessuno negli acquisti . A partire dall'anno 1 587 si leva un lamento secondo il quale « sempre più di giorno in giorno aumenta il ritmo inaudito in cui case e possedimenti passano nelle mani di quelli di Strasburgo ». Ma quella che la borghesia valutava di più era la proprietà aristo­ cratica, a causa del suo status e anche perché si credeva che le terre degli aristocratici potessero pretendere l'esenzione fiscale, a prescindere dal loro proprietario ; una convinzione, si deve sottolineare, che le leggi tendevano a sostenere. I borghesi , accu­ mulando diritti di proprietà sia rurali che aristocratici, incomin­ ciarono ad alterare l'aspetto della proprietà nella campagna e a diventare essi stessi i nuovi signori, spesso con ampi possedi­ menti. Un borghese possidente di questo tipo fu Pierre Cécile, un conseiller del Parlamento di Dole ( Franca Contea ) . All'epoca della sua morte nel 1587, egli era proprietario di 250 appezza­ menti di terra e di prato, di 3 case di città, di 3 casette di cam­ pagna e di 14 vigneti sparpagliati su di un territorio compren­ dente oltre 25 città e villaggi . L'indebitamento della nobiltà rurale può essere studiato in base ai conti di un importante giudice della regione di Beau­ vais. Coloro che nel 1 647 avevano rapporti di rentes con Mal:tre Tristan per quasi tre quarti erano aristocratici e tutti con nomi di rilievo, compreso quello della famiglia Rouvroy de Saint­ Simon. Quasi tutte le terre, le case e le seigneuries che caddero in mano a Maitre Tristan, in seguito alle sue attività di rentier, provenivano da debitori appartenenti all'aristocrazia. Dalla ce­ lebre famiglia Gouflier, discendente da due ammiragli di Fran­ cia, una famiglia che inoltre era ormai sommersa da debiti e che aveva venduto tutti i suoi possedimenti in Piccardia alla bor-

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ghesia, Tristan acquistò le tenute e i feudi di Juvignies e di Verderel, che rimasero nella sua famiglia per oltre un secolo. Verso la fine del Seicento i Tristan erano pervenuti alla ricchezza a spese dei patrimoni in rovina di nobili caduti in povertà, mentre ai primi del Settecento ottennero il titolo nobiliare me­ diante l'acquisto di un incarico a corte. Il loro esempio, uno fra molti perfino entro i confini del Beauvaisis, spiega in quale straor­ dinaria misura le rentes servirono a trasferire la terra e la pro­ prietà dall'aristocrazia ai nascenti ceti medi e contribuirono successivamente alla creazione di una nuova nobiltà in Francia. L'acquisto della terra da parte della borghesia è stato spesso riguardato senza riserve come uno sviluppo regressivo e antica­ pitalistico, soprattutto perché distoglieva il denaro dal commer­ cio. Commenti come quelli di Savary, già citati, hanno rafforzato questa impressione nella mente degli studiosi. È perciò molto importante guardare il rovescio della medaglia. Non c'è dubbio che la terra tendesse a trarre giovamento dovunque i nuovi feudatari borghesi prendessero sul serio i loro obblighi e appli­ cassero le loro abitudini di parsimonia all'economia agricola. Introdussero cambiamenti nella pratica e nei metodi di sfrutta­ mento . Per esempio, nelle tenute che i ceti mercantili acquista­ rono nei dintorni di Tolosa a metà del Cinquecento venne intro­ dotta l'organizzazione razionale del lavoro . Il numero degli affit­ tuari fu ridotto al minimo necessario, si esigevano gli affitti in natura anziché in contanti e venne introdotta la mezzadria ( mé­ tayage), in sostituzione dei tipi di locazione meno proficui. Il fatto è che in molte regioni solamente la borghesia aveva il capi­ tale necessario per rianimare l 'agricoltura, tanto a lungo trascu­ rata dagli aristocratici, i quali avevano considerato le loro tenute come proprietà da sfruttare, oppure dai coltivatori diretti che avevano lottato contro i debiti . Molti feudatari della borghesia presero un profondo interesse alle loro terre, tanto che a Varzy, per esempio, l'amministrazione dei beni occupava gran parte del tempo dei nuovi proprietari. In breve, la borghesia non fu indolente. L'aiuto dato dall'investimento del suo capitale fu decisivo soprattutto dopo i periodi di guerra, come abbiamo già osservato. In Alsazia, dopo il nefasto decennio dal 1 630 al 1 640, fu la borghesia urbana di Strasburgo e di altre città che concorse a ricostruire i centri rurali distrutti dalla guerra. Nella metà del Seicento, nella zona di Digione, fu grazie ai feudatari

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della borghesia che si ripopolarono i villaggi, si restaurarono i campi, si piantarono di nuovo e si estesero i vigneti e si ripri­ stinò il bestiame. Dopo la guerra dei Trent'anni, in molte zone della Germania furono i mercanti delle città che anticiparono il capitale, senza il quale non sarebbe stato possibile recuperare le aree rurali. In termini puramente economici, l'avvento dei borghesi come proprietari terrieri non fu se non benefico. Ma in termini sociali e in una prospettiva storica, la meta­ morfosi della borghesia in un ceto di rentier e di proprietari ter­ rieri fu un passo indietro, in quanto i ceti medi adottarono per questo motivo l'arroganza, i valori e il modo di vita dell'aristo­ crazia. Riuscirono poi a procurarsi anche lo status di nobili?

La funzione sociale ed economica della carica pubblica. Il professar Mousnier ha descritto l'avanzata della borghesia verso l'aristocrazia nei seguenti termini : « La nobiltà cominciò dalla carica pubblica, il feudo l'aumentò, la spada la completò » . I n altre parole, alla carica pubblica faceva seguito l'acquisto di terra e, da ultimo, l'addestramento di uno o più figli per l'eser­ cito : l'intera scala dei valori aristocratici era cosl colmata. Non sempre l'ascesa assumeva necessariamente questa forma. Nella sua opera classica su Digione, Gaston Roupnel asserl che l'ac­ quisto di terra precedeva molto più spesso l'acquisto di una carica pubblica . Qualunque sia l'ordine che adottiamo, la verità è che il possesso di un pubblico ufficio fu uno dei più potenti mezzi d'influenza nello sviluppo della borghesia europea. Già verso la metà del Cinquecento tanto i nobili che i borghesi avevano da lungo tempo stabilito la pratica di fare investimenti nelle cariche pubbliche. La carica pubblica comportava lo status e anche un reddito . Essendo « pubblici », gli uffici erano accessibili a tutti coloro che avevano interesse ad attenerli. Sembrerebbe quindi che la carica pubblica fosse un veicolo ideale per la mobilità sociale ed è questo che ha indotto gli storici a considerarlo un fattore importante agli effetti del cambiamento sociale. Tuttavia in alcuni Stati la carica pubblica non rappresentava un'affare tanto allettante. Gli Stati dell'Europa orientale avevano una buro­ crazia ridotta al minimo, nella quale la carica pubblica contava

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ben poco, mentre la famiglia reale era la massima dispensatrice di favori. Anche in Inghilterra chi contava era la famiglia reale, sicché erano il favore e la raccomandazione a fare ottenere la carica pubblica, piuttosto che il denaro ; i posti in Parlamento o nell'amministrazione provinciale, tutti non remunerati, ricom­ pensavano lo status ma non lo conferivano, di modo che non erano i canali naturali della mobilità sociale. Nelle repubbliche come Venezia e le Province Unite, i posti più ragguardevoli erano controllati in permanenza da una oligarchia, cui era quasi impossibile accedere se non per via di matrimonio o di appoggi. Per esempio, a proposito dei mercanti olandesi, Sir William Tempie osservò che « quando raggiungono una grande ricchezza, decidono di avviare i loro figli sulla stessa strada e maritano le figlie presso le famiglie degli altri che godono generalmente del massimo credito nelle loro città, e perciò introducono le loro famiglie sulla strada del governo e degli onori, che in questo caso non consistono in titoli ma in cariche pubbliche » . Perciò in nessuno di questi Stati la vendita, o la venalità, delle cariche pubbliche guadagnò mai molto terreno, anche se per quelle mi­ nori fu, come a Venezia, cosa abbastanza comune essere com­ prate e vendute. La carica pubblica non incoraggiò di per sé la mobilità ; questa si verificò quasi esclusivamente grazie alla venalità. E quest'ultima, lungi dall'essere un fenomeno comune in Europa, fu molto rilevante nella sola Francia . Si ebbe in altri paesi, ma più come mezzo occasionale per garantirsi appoggi o per procu­ rarsi denaro ( le vendite in Spagna rientravano in queste cate­ gorie), che come forma regolare di amministrazione. È quindi inevitabile che, parlando di venalità, ci soffermiamo a conside­ rare la borghesia francese. Scopo iniziale della monarchia francese nel mettere in ven­ dita le cariche pubbliche, fu quello di procurarsi denaro, ma già nella metà del Cinquecento la cosa aveva creato problemi di maggiori dimensioni . Nel 1 546 l'ambasciatore veneziano rifed che « esiste un numero infinito di cariche pubbliche, che aumen­ tano ogni giorno ». Loyseau calcolò che nella seconda metà del Cinquecento erano stati creati circa 50 mila nuovi uffici, una cifra che non appare improbabile, se la si raffronta con alcune di quelle relative all'accrescimento della burocrazia. La profes­ sione più rappresentata in questo sviluppo spettacolare era

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quella legale, che Noel Du Fail defini « questa spaventevole fiu­ mana di avvocati » . Erano costoro che si accalcavano negli organi amministrativi dello Stato praticamente a ogni livello, ma uni­ camente sulla carta . In realtà la grande maggioranza dei nuovi funzionari era assente, trattandosi di uomini i quali avevano acquistato la carica per la posizione sociale che ne derivava e per lo stipendio che comportava . Ciò che minacciava lo Stato non era quindi un eccesso di burocratizzazione, bensi l'assen­ teismo dei funzionari, i quali erano stati nominati non per le loro qualifiche ma perché avevano pagato per avere il posto. La richiesta di cariche fu talmente vasta da provocare una con­ siderevole inflazione di prezzi . Per esempio, nel 1 605 una carica di giudice presso il Parlamento di Parigi era valutata 8 .000 livres; sotto Luigi XIII raggiunse le 70 .000, verso il 1 660 il posto ne costava 1 40 .000. Anche ammettendo l'importanza della venalità in se stessa, ciò che la istituzionalizzò veramente fu la possibilità di rendere la carica ereditabile. Quando nel 1 604 si introdusse la Paulette l , essa provocò un immediato rialzo dei prezzi delle cariche, che ormai potevano diventare legalmente ereditarie. Si continuò ad accumulare cariche come una proprietà da trasmettere di padre in figlio, ma con una sicurezza maggiore di prima. Si deve non­ dimeno tener presente che, molto prima della Paulette, erano state scovate le maniere di mantenere l'impiego in famiglia, sicché la legge del 1 604 si limitò a formalizzare una pratica acquisita. Basta qualche esempio per dimostrare fino a qual punto la borghesia contasse sulla venalità ai fini del suo red­ dito . Nel 1 589 la ricchezza di Nicolas Caillot, conseiller del Par­ lamento di Rouen e figlio di un orefice, era costituita per il 22 per cento da rentes, per il 33 per cento da introiti derivanti da affitti e per il 4 5 per cento da quanto fruttava la carica pub­ blica ; in termini di reddito annuo, la carica era la voce più importante, poiché gli forniva il 56 per cento delle entrate. Nel 1 600 le entrate di Jean Godart, sieur di Belleboeuf e funzio­ nario fiscale superiore in Normandia, provenivano per il 29 per cento dalla terra, per il 39 per cento dalle rentes e per il 32 per cento dalle cariche pubbliche. Il funzionario normanno Jacques d'Amfreville, morto nel 1 629, lasciò un patrimonio il 30 per 1

Imposta sulle cariche pubbliche. [ N.d.T.]

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cento circa del quale era costituito da cariche pubbliche e il 49 per cento dalla terra. Sebbene questi esempi mettano in luce la carica pubblica come fattore determinante, in realtà molti altri potrebbero ser­ vire a mostrare un aspetto diverso della situazione ; in ogni caso la carica raramente fu valutata al pari della terra. Preziosa la testimonianza di Loyseau, secondo il quale la borghesia poneva le successioni [ cioè feudi e terre ] al primo posto, trattandosi del titolo di proprietà più solido e più sicuro, nel quale principalmente consisteva il patrimonio famigliare; subito dopo le cariche pubbliche, perché oltre al profitto fornivano grado sociale, autorità e occupa­ zione al capo famiglia e lo aiutavano a mantenere la restante pro­ prietà ; da ultimo le rentes, in quanto si limitavano a procurare un'en­ trata supplementare.

I detentori di cariche pubbliche in Francia erano talmente numerosi che venivano considerati da soli quasi uno degli « stati » del regno, « il quarto stato » . Grazie alla venalità molte famiglie di modeste origini giunsero a produrre i più eminenti funzionari del regno, mentre amministratori come Jeannin, Talon, Molé, Séguier, de Thou e altri, si elevarono seguendo la stessa strada. Essi costituirono una nuova aristocrazia, la noblesse de robe, che poteva differenziarsi in tre distinti livelli : la petite robe, formata da funzionari inferiori come i notai e gli avvocati, la moyenne robe, in prevalenza nelle province, formata per lo più dai membri dei Parlamenti e di altri organi giudiziari, e la grande robe, costituita dagli alti funzionari dello Stato che erano semplici cittadini . Il loro prestigio era talmente potente perfino presso il governo centrale che nel 1 624, su 30 membri del Con­ siglio di Stato, 24 appartenevano alla toga. Servendosi della venalità la borghesia giunse a governare la Francia, non senza però l'aspra opposizione delle classi alte. Abbiamo già visto che gli aristocratici insorsero contro la ven­ dita di cariche pubbliche, che essi consideravano un loro domi­ nio. Durante questo periodo gli Stati Generali, fino alla loro ultima convocazione nel 1 6 14, protestarono ogni volta per via della « paurosa quantità di pubblici impieghi » ( gli ecclesiastici, in occasione degli Stati del 1576). Ma finché lo Stato ebbe

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bisogno di vendere le cariche, la venalità non ebbe alcuna alternativa. Quello della carica non era un problema da addossare inte­ ramente alla borghesia. Il fatto è che, nella maggior parte dei paesi europei, il sistema dell'istruzione superiore, a prescindere del tutto dal progresso sociale offerto dalla carica, era program­ mato per produrre ogni anno migliaia di laureati in una delle principali materie, il diritto. La logica di questa evoluzione è tale da richiedere ancora una adeguata trattazione. In Inghil­ terra, in Germania, in Spagna, in Italia, e non solamente in Francia, una « spaventevole fiumana di avvocati » si riversò nella vita pubblica, con risultati ampiamente diversi da un paese all'altro. Se non potevano essere assorbiti entro la struttura amministrativa, come si fece in Francia, che cosa si poteva fare di loro ?

Rango e mobilità nella borghesia. L'ascesa dei ceti medi fu un fenomeno indiscutibile dell'Eu­ ropa del XVI secolo. Coloro i quali si erano fatti strada nel commercio, con la carica e con la terra, si preoccupavano ormai di consolidare i vantaggi conseguiti dalla loro classe sul piano sia dello status sociale che dell'influenza politica. In concomi­ tanza con la crescente importanza della borghesia urbana, si svi­ luppava quella delle città nell'economia nazionale. Fu la dana­ rosa borghesia urbana a cominciare a dare il passo, non solo in Inghilterra o in Olanda ma anche in altri paesi, dove il capitale circolante poteva essere ottenuto unicamente da questo gruppo, le cui aspirazioni destavano molta irritazione in quanto sovver­ titrici dell'ordine naturale delle classi sociali. Un osservatore inglese cosl si dolse nel 1 578 : « Chi mai ha visto tanta gente insoddisfatta, molti annoiati delle proprie condizioni, tanto pochi che si accontentano della propria occupazione, e moltissimi desi­ derosi e avidi di cambiamenti e novità? ». Anche a quell'epoca il processo dell'avanzamento borghese era in pieno corso nei paesi come la Francia, mentre una nuova « aristocrazia » era nata sottoforma di noblesse de robe. Quello a cavallo del Cin­ quecento e del Seicento fu un periodo di rapida mobilità sociale,

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durante il quale furono compiute gravi intromissioni abusive nelle posizioni di privilegio tenute dall'antica e, in parte, esau­ rita aristocrazia . La trasformazione non può essere meglio de­ scritta se non esaminando la Danimarca, dove in una petizione del 1 560 i ceti mercantili definivano se stessi come « gli ultimi rami all'ombra di Vostra Maestà e dei nobili di Danimarca » . Però nel 1 658 la borghesia di Copenaghen esigeva pubblica­ mente di « ottenere cariche pubbliche e privilegi alle stesse condizioni riservate ai nobili » . L'evidenza, chiaramente rilevata d a molti contemporanei, di sangue nuovo, di sangue parvenu, nelle file della piccola nobiltà di campagna, era sufficiente a suscitare la condanna . Nell'ottobre del 1 560, in occasione di una riunione degli Stati Provinciali ad Angers, un avvocato di nome Grimaudet rovesciò il suo disprezzo « sugli innumerevoli falsi nobili , i padri e gli antenati dei quali brandirono le armi e compirono gesta cavalleresche nei magaz­ zini di foraggi, nelle osterie, nel commercio di tessuti, nei mulini e nelle cascine ; e tuttavia, quando parlano del loro lignaggio discendono dalla monarchia, le loro radici risalgono a Carlo Magno, a Pompeo e a Cesare » . Nel 1 5 8 1 Nicolas de Montaud, l'autore del Miroir des Français, denunciò « alcuni gentiluomini i quali avevano assunto il titolo nobiliare appena usciti dal loro tirocinio di calzolai, di tessitori e di ciabattini ». In realtà po­ chissimi borghesi di successo rientravano in queste categorie, né dovettero ricorrere a pretese fantastiche sulla loro nascita, dato che la loro ascesa fu troppo clamorosa per camuffarla in quel modo . In ogni caso, la filosofia politica dei borghesi non sempre collimò con quella della vecchia aristocrazia ossessionata dal lignaggio. La borghesia riuscl a farsi strada nella società in meno di una generazione, come accadde nel Cinquecento al droghiere Jean Camus di Lione, i cui investimenti e acquisti di terra lo lasciarono, al termine della sua esistenza, in possesso di otto tenute di provenienza aristocratica, alcune delle quali compren­ devano villaggi e pjccole città . Ma gli alti gradi della società francese erano ancora estremamente dominati dai pregiudizi di casta : come abbiamo visto, la terra e la carica pubblica, come pure la spada, erano i presupposti del successo . Ad Amiens l'ascesa ai gradi nobili non richiese più di una o due genera­ zioni . Fra la noblesse de robe della città nella metà del Sei-

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cento, la carica rappresentava dal 30 al 40 per cento del red­ dito, ma il rimanente derivava per la maggior parte dalla terra e dalle rentes. La carica non costituì un mezzo infallibile per ottenere lo status, come possiamo constatare in Normandia dove, su 544 patenti di nobiltà concesse tra il 1589 e il 1643, soltanto 1 1 7 ( pari al 2 1 ,5 per cento) furono rilasciate a detentori di cariche pubbliche. Raramente la carica e la terra da sole erano sufficienti : per guadagnarsi il diritto d'ingresso nella casta costi­ tuita, un borghese di successo doveva dare prova di « campare da nobile », mantenere un certo stile di vita e praticare la pro­ fessione più tipica della casta, quella delle armi. Ad Amiens è possibile imbattersi in diversi rami di una sola famiglia, occu­ pati contemporaneamente nell'una o nell'altra delle funzioni de­ stinate a configurare lo stile aristocratico di vita. In Inghilterra si ebbe un miglioramento senza precedenti nella posizione dei ceti medi, al punto che, secondo alcuni con­ temporanei come Lord Clarendon, fu la borghesia arrivista che durante la guerra civile in Inghilterra formò il partito antimo­ narchico . Per dimostrare l'affermazione di Lord Clarendon, non occorre prendere la guerra come termine di paragone. Riguardo sia alla terra che al commercio erano avvenuti importanti cam­ biamenti nella distribuzione della ricchezza. Sino a un certo limite, qualsiasi discussione sull'ascesa della borghesia si con­ fonde con la questione di vecchia data riguardante la piccola nobiltà di campagna, dato che anche alcuni settori di quest'ul­ tima stavano migliorando la loro posizione : infatti, sotto il pro­ filo sia della ricchezza che dello status, esisteva poca o nessuna differenza tra il fortunato appartenente ai ceti medi e il fortu­ nato possidente. In Inghilterra l'aristocrazia, anche se era una élite, non era una casta, tanto che bastava poco per entrare a far parte dei suoi gradi inferiori. A quell'epoca Sir Thomas Smith affermò : « Chi può vivere senza far niente e senza fatica e avrà il porta­ mento, la carica e l'aria da gentiluomo, costui sarà chiamato signore, poiché questo è il titolo che gli uomini danno ai cava­ lieri e agli altri gentiluomini , e sarà preso per un gentiluomo ». In base a questa definizione, era possibile diventare un genti­ luomo semplicemente vivendo come tale, senza avere necessa­ riamente alcuna proprietà terriera. Questo fu uno dei tanti modi in cui le classi terriere e quelle mercantili si confusero, rendendo

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difficile distinguerne le ongm1. La confusione fu accresciuta dalla tendenza dei figli dei piccoli nobili di campagna a impie­ garsi come apprendisti nell'attività commerciale: per esempio, abbiamo appreso che già nel decennio 1 630-40 quasi un quinto degli apprendisti della Stationer's Company di Londra prove­ niva da famiglie della piccola nobiltà di campagna. Perciò, quando risulta che nel 1635 esistevano quasi 1 .200 persone residenti in Londra, le quali si definivano gentiluomini e per la maggior parte erano anche occupati nel commercio, è diffi­ cile stabilire la proporzione in cui questa gente si fosse effetti­ vamente elevata attraverso i gradi sociali per conquistare il suo status. Questo gruppo urbano di gente agiata appartenente alla classe professionale e commerciale, non sostenuto dalla ricchezza della terra, è stato chiamato la « pseudo piccola nobiltà di campagna » . Ma anche i ceti medi d i città e d i campagna ingrossarono le file della piccola nobiltà propriamente detta . Due furono le correnti principali che vi contribuirono, i floridi piccoli proprie­ tari terrieri di campagna e i mercanti di città in ascesa, i quali acquistarono le terre. Grazie al piccolo proprietario terriero, fu certamente la mobilità della terra che facilitò la mobilità sociale. Possidenti indipendenti ( anche se non necessariamente proprie­ tari in senso assoluto ), essi furono giovati dall'accresciuto valore del suolo, mentre la ricchezza media della loro categoria proba­ bilmente si raddoppiò nel periodo dal 1600 al 1 640. Vivendo nello stesso ambiente della piccola nobiltà di campagna, spesso rispetto a molta parte di essa in condizioni più fiorenti, salirono quasi impercettibilmente nel gruppo più elevato . « Da quel mo­ mento in poi - osservò un contemporaneo nel 1 6 1 8 - si sono formate molte famiglie nobili e illustri ». Su 57 famiglie dello Yorkshire, cui furono concessi gli stemmi tra il 1 603 e il 1 642, più della metà erano piccoli proprietari terrieri arricchiti . Su di un totale di 335 piccoli nobili nella contea del Northamptonshire a metà del Seicento, la grande maggioranza era costituita da gente appena arrivata non solo nella contea ma anche fra gli stessi proprietari terrieri, mentre almeno tre quarti di essi ave­ vano conseguito il loro nuovo status solo da pochissimo tempo . Una cospicua parte di essi doveva essere venuta dalle famiglie di piccoli proprietari, mentre molti dovevano essere avvocati

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o commercianti di Northampton. Tuttavia il tasso di mobilità non sempre fu cosi elevato . La terra fu importante agli effetti della mobilità urbana. Già ai primi del Seicento, come ci ricorda Tawney, era difficile tro­ vare un eminente capitalista di Londra, il quale non fosse anche un ricco proprietario terriero. Il contemporaneo Stow rilevò che « i mercanti e i ricchi ( essendo soddisfatti di guadagnare) per la maggior parte fanno sposare i loro figli all'interno del paese e, seguendo il parere di Cicerone, si trasferiscono veluti ex portu in agros et possessiones ». Questo commento, come molti altri di contemporanei, richiede una cauta valutazione. Infatti, anche se la terra costituiva uno sprone alla mobilità, spesso ( a diffe­ renza della Francia) non era altro che l'ultimo stadio di avan­ zamento verso lo status, né le famiglie che ottenevano la terra smettevano l'attività commerciale. Uno studio sulla ricchezza di 78 famiglie della piccola nobiltà del Sussex in epoca elisabettiana dimostra che, fra 29 delle più ricche famiglie, soltanto 4 si sostenevano principalmente con la terra, mentre la maggior parte dei capifamiglia erano ancora - come lo erano stati prima di elevarsi al rango di « piccoli nobili » padroni di ferriere, gestori di fucine e di fornaci, mercanti e avvocati . Ana­ logamente, se consideriamo i più grandi mercanti della città di Londra agli inizi del Seicento, constatiamo che essi vivevano sullo stile della piccola nobiltà, possedevano tenute in campagna con relativo intendente, riserve di caccia con relativi guarda­ caccia per perlustrarle, nonché case di campagna messe a dispo­ sizione di ospiti regolari. Ma, nonostante questo impegno for­ male verso la campagna, tre quarti dei maggiori mercanti non si staccarono mai da Londra, conservando nella città sia gli affari che le amicizie per tutta la durata della loro carriera. È chiaro che sulla scala sociale ci fu simultaneamente anche un movimento verso il basso, ma i contemporanei non si allar­ marono tanto per i fallimenti quanto per i successi . Gli aristo­ cratici si crucciavano nel vedere che i nuovi arrivati, il cui unico titolo consisteva nella loro ricchezza, assurgessero a im­ portanza nella vita pubblica. ( mercanti si preoccupavano altret­ tanto che molti dei loro colleghi abbandonassero la professione e adottassero le abitudini improduttive dell'aristocrazia. Thomas Mun ebbe a lamentarsi che « il ricordo dei nostri più ricchi -

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mercanti si è improvvisamente estinto; il figlio, ricevuta l'ere­ dità, disprezza la professione paterna, ritenendo più onorevole essere un gentiluomo, distruggere la sua tenuta per crassa igno­ ranza, che seguire le orme del padre come laborioso mercante per conservare e accrescere le sue ricchezze ». Tuttavia il suc­ cesso sociale sembra che abbia avuto in Inghilterra poco effetto sull'impresa commerciale, mentre le lamentele di Mun si riferi­ scono più alle mutevoli fortune di singole famiglie che a una ampia deviazione di capitale dal commercio . Nondimeno molti mercanti debbono aver esitato di fronte alla scelta tra la professione e lo status, scelta che forse in Francia fu molto angosciosa. Claude Dare, mercante di Amance ( Franca Contea), il quale mori nel 1597, risolse le sue difficoltà in una maniera particolarmente interessante. Le sue figlie si accasarono con giudici, sicché il loro status era garantito . Scelse il più grande dei suoi due figli, Guillaume, affinché rimanesse negli affari ; ma fece istruire il minore Simon, perché diventasse dottore in legge. In questo modo un ramo della famiglia avrebbe continuato ad accumulare ricchezza, mentre l'altro avrebbe cer­ cato di ottenere la posizione. Nel suo testamento egli parlò di Simon « e di tutte le spese che mi è costato, sia per fargli pro­ seguire gli studi, sia per il suo mantenimento durante i trasc01 si 25 anni, nonché a Parigi, a Friburgo, a Colonia, a Roma, a Na­ poli, a Dole, e dovunque egli sia stato sino ad ora, durante gli otto anni che ci vogliono per diventare dottore ; tutto questo mi è costato ( che Dio mi aiuti ! ) più di dodicimila franchi » . Egli parlò anche di Guillaume, il quale aveva « esposto i mi­ gliori anni della sua giovinezza, nonché messo a repentaglio la sua persona molte volte, ai rischi e ai pericoli dei lunghi viaggi che egli aveva compiuto in lontani e strani paesi, e durante quei venti anni egli, con il suo lavoro e con la sua fatica, ha aumen­ tato e accresciuto la ricchezza della famiglia molto più di quanto il predetto dottore abbia speso » . Due linee di condotta molto diverse, a ciascuna delle quali però il padre dette con tutto il cuore il suo sostegno . Nelle Province Unite il raggiungimento dell'indipendenza nazionale affidò alla borghesia un saldo controllo. Le vicende di Amsterdam si possono datare dall'anno 1 578, da quando un colpo di Stato dell'Alteratie si concluse con il rovesciamento del vecchio regime, compresi i suoi funzionari e il clero, e con

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l 'immissione nel Consiglio governativo della città di nuovi mem­ bri della borghesia calvinista . In termini storici, la borghesia continuò a dominare le Province Unite, perché i suoi interessi commerciali l'avevano indotta a sostenere la lotta contro la Spagna. In termini geografici, fu la parte occidentale e nord­ occidentale del paese che trasse vantaggio dalla guerra d'indi­ pendenza . « Mentre in generale rientra nella natura della guerra rovinare la terra e il popolo », osservò un borgomastro di Am­ sterdam, C. P. Hooft, « al contrario questi paesi ne sono usciti notevolmente migliorati ». Protetta dai suoi fiumi e con il mare aperto davanti, la borghesia dell'Olanda e della Zelanda, sin dal decennio 1 570-80, era stata praticamente immune dalla guerta, di modo che mentre la Spagna consumava le sue forze contro di essa nel sud, nel nord-ovest essa costruiva una rigogliosa base sulla quale doveva fondarsi l'economia olandese. D'altra parte la zona orientale del paese era sottosviluppata, fondamentalmente agricola e dominata dalla classe aristocratica. I nobili di Guelderland e di Overij ssel rappresentarono in modo particolare il sostegno principale della Casa d'Grange nelle sue controversie con la borghesia occidentale. La loro relativa debo­ lezza nel complesso del paese diede il controllo dell'amministra­ zione alla élite borghese delle città, la classe dei reggenti. Nella classe dei reggenti d'Olanda abbiamo un chiaro esempio del modo in cui si sviluppò un settore della borghesia molto favo­ rito. Essendo ragguardevoli funzionari amministrativi, i reggenti provenivano in origine o dai mercanti in attività, o da quelli che si erano recentemente ritirati dagli affari. Il loro diritto di possesso di una carica pubblica divenne inevitabilmente un co­ modo monopolio e li spingeva a ritirarsi dal commercio attivo . L'antica incompatibilità tra il commercio e la detenzione di cariche pubbliche operava a danno del primo . Già nel 1 652 i mercanti di Amsterdam si lamentarono, quasi quanto Thomas Mun, del fatto che i reggenti avevano smesso di sostenere il commercio e traevano il loro reddito « dalle case, dalle terre e dal denaro prestato su interesse » . I mercanti della fine del Cinquecento erano diventati nel Seicento un ceto rentier. I de Witt offrono un'esempio evidente di deviazione dall'attività commerciale. Cornelius de Witt, nato nel 1 545, fu borgomastro di Dordrecht e fortunato commerciante di legname. Il più emi­ nente dei suoi figli, Jacob, continuò l 'attività del padre, ma la

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sua crescente implicazione negli affari pubblici ( specie la sua opposizione a Guglielmo II d'Orange nel 1 650 ) lo costrinse a disfarsi dell'attività della famiglia tra il 1632 e il 1 65 1 . Il figlio di Jacob, Johan, illustre membro della classe dei reggenti, si concentrò tutto sui doveri connessi all'incarico politico . La borghesia olandese viveva modestamente. Sir William Tem­ pie dichiarò che « quanto ai due alti funzionari della mia epoca, il vice ammiraglio de Ruyter e il Pensionario de Witt [ . . ] non ho mai visto il primo vestito meglio del più ordinario capitano di mare [ . ] mentre a casa sua né la dimensione, la costruzione, il mobilio, né qualsiasi divertimento eccedevano le abitudini di un comune mercante e artigiano » . Quanto a de Witt, « di solito lo si vedeva per le strade a piedi e solo, come il più comune ahi· tante della città » . « Questo modo di vivere - prosegue Tem­ pie - non era seguito soltanto da questi uomini, ma era una usanza o moda generale fra tutti i magistrati dello Stato ». Questa apparente austerità fu soltanto il preludio per l'adozione di un modo di vivere neo-aristocratico . La mobilità sociale, come di solito la si intende, non c'entrava, in quanto praticamente la classe dei reggenti già nel Seicento si era collocata al disopra della vecchia aristocrazia. In questa posizione, l'alta borghesia adottò chiaramente delle abitudini conservatrici . Tempie riferiva che « i loro giovani, dopo il corso di studi in patria, viaggiavano per alcuni anni, come usano fare i figli della nostra piccola nobiltà » . Quando andavano all'università, d i solito studiavano diritto ci­ vile. Johan de Witt fu uno di quelli che studiò diritto a Leida ed effettuò il viaggio di istruzione con suo fratello nel 1 64 5-4 7 . Una classe patrizia sorse i n Olanda e l a sua nascita fu accom­ pagnata dall'abbandono della frugalità . « L'antico modo di vita sereno e sobrio in Olanda è ormai quasi del tutto scomparso » , doveva lamentarsi Tempie pensando alla borghesia di Amsterdam e dell'Aia. Il desiderio di lusso fu illustrato da un libellista del 1 662, il quale esigeva l'adozione delle leggi suntuarie, sotto il pretesto che la gente incominciava a vestirsi e a vivere al disopra della sua condizione sociale. Lo scopo era evidentemente di fare una distinzione tra la élite oligarchica dei reggenti, dei magistrati, e dei ricchi mercanti e la massa della borghesia. Le leggi suntuarie erano il mezzo fondamentale per cercare di difendere il grado sociale e di controllare la mobilità, ma gli olandesi ne furono relativamente esenti . In altri paesi d'Europa .

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le pretese dei ceti medi erano sottoposte sia alla legislazione che alla critica. Philip Stubbs, nella sua Anatomie of Abuses ( 1583 ) , disse : « Non dubito punto che sia legittimo per l'aristocrazia, per la piccola nobiltà e per la magistratura indossare abiti son­ tuosi. Quanto ai semplici sudditi, non è in nessun caso lecito che essi indossino sete, velluti, rasi, damaschi, oro, argento e ciò che desiderano » . L'abbondante legislazione suntuaria di questo periodo in Europa è la prova che le autorità condividevano le opinioni di Stubbs, anche se i loro motivi, come abbiamo già osservato, non erano del tutto diretti alla difesa del grado so­ ciale. In ogni caso, la legislazione si dimostrò invariabilmente un fallimento . La monarchia francese fu costretta a emettere non meno di tredici editti suntuari tra il 1 540 e il 1 6 15, ma con scarso successo . Dopo il 1 604 il governo inglese, nel revocare tutte le leggi suntuarie esistenti, non si diede pena di dettare le norme di abbigliamento ai suoi sudditi. Bodin cosl osservò ri­ guardo alla Francia : « Erano stati approvati dei begli editti, ma senza scopo . Infatti, dal momento che la gente di corte indossa ciò che è proibito, tutti lo indossano, sicché i funzionari vengono intimoriti dai primi e corrotti dai secondi. Inoltre, in materia di abbigliamento, è sempre considerato un pazzo e un seccatore chi non si veste secondo la moda corrente » . I l fallimento delle leggi suntuarie fu quindi un'altra dimo­ strazione del successo mondano dei ceti medi.

Ascesa e caduta della borghesia. L 'Inghilterra e la repubblica d'Olanda potrebbero essere de­ scritte come Stati borghesi modello, in quanto in essi predomi­ narono lo spirito d'iniziativa e la dedizione all'attività commer­ ciale che contraddistinsero i borghesi . Ciò naturalmente non spiega in modo adeguato la notevole espansione del capitalismo commerciale in questi paesi al di sopra di tutti gli altri d'Europa, ma è indiscutibile che i loro ceti di affaristi e di commercianti svolsero un ruolo fondamentale nella storia di questo successo . Il commercio fìorl e le città si allargarono tutte le volte che i ceti medi contribuirono alla direzione del programma economico e politico. Quando invece ebbero poca ingerenza nella poli­ tica, e quando i loro diretti interessi li distolsero dall'atti-

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vità imprenditoriale, si ebbero gravi ripercussioni sulla vita eco­ nomica. Questo fu il caso che si verificò nella maggior parte del­ l'Europa centrale e meridionale. In Spagna la borghesia urbana ebbe una parte importante nei porti marittimi, a Barcellona, a Valencia, a Siviglia e nella campagna basca ; ma la sua funzione nelle città dell'entroterra, durante il Cinquecento, fu meno importante. Come in altri paesi, il mezzo più semplice per lo Stato di controllare la borghesia consisteva nel limitare i privilegi delle città. L'avvio fu dato nel 1 52 1 da Carlo V, dopo la rivolta dei Comuneros. Sotto Filippo II le principali città della Castiglia - in numero di diciotto furono autorizzate a inviare i loro rappresentanti alle Cortes Ca­ stigliane . Sotto di lui e sotto i suoi successori questo privilegio fu man mano attenuato, poiché ai ceti urbani si consentiva poca o nessuna voce in capitolo nella formulazione della politica. Ri­ sulta che ai primi del Seicento le deliberazioni delle Cortes erano diventate niente altro che un inutile veicolo di lagnanze, che non aveva nessun potere di riparare i torti . Il declino commer­ ciale era anche più impressionante di quello politico . Con Carlo V e Filippo II le fiere di Medina del Campo resero la vecchia Castiglia parte integrante del mercato dell'Europa occidentale, mentre i mercanti fortunati come Simon Ruiz rappresentavano il settore più intraprendente della borghesia castigliana. Ciò no­ nostante, verso il Seicento, Medina, le fiere e il ceto mercantile nativo erano tutti scomparsi . Il capitale che un tempo era stato raccolto con l'attività commerciale, l'eccedenza che era stata de­ stinata a costruzioni ambiziose come l'ospedale di Simon Ruiz a Medina, erano state ormai sostituite dalle attività finanziarie straniere. La debolezza dei ceti medi castigliani è ancora più sorpren­ dente, in quanto si astennero dal trarre vantaggio dalla incom­ parabile ricchezza offerta dall'America. Ciò si potrebbe spiegare in blocco con la scusa che la Spagna era stata privata nel 1 492 della sua intraprendente borghesia ebrea, se non fosse per il fatto che in tutte le maggiori città spagnole esisteva un gruppo vasto e attivo di commercianti non ebrei, non meno capaci degli ebrei stessi. Inoltre la spiegazione ignora la circostanza che gli ebrei, in qualità di conversos, agivano attivamente nel mondo del com­ mercio e che il loro numero aumentava periodicamente in se­ guito alla immigrazione di conversos portoghesi . A prescindere

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dalla debolezza politica cui abbiamo già accennato, l'unica carat­ teristica rilevante nella storia della borghesia castigliana è co­ stituita dalla sua trasformazione in un ceto rentier. Si è già visto come la borghesia di V alladolid prendesse parte attiva nel procurarsi censos da parte sia dell'aristocrazia, sia dei contadini. I censos ebbero all'inizio, almeno in agricoltura, un effetto utile, ma a lungo andare provocarono l'indebitamente e la rovina dei ceti rurali. Le conseguenze per la classe rentier non furono migliori . Tutti i settori della borghesia - avvocati, detentori di cariche pubbliche, clero e mercanti - distrassero il loro capitale in una instancabile caccia ai censos. Il denaro fu distolto dalle imprese produttive, perché ritenute troppo rischiose e destinato ai censos e ai ;uros, perché procacciavano un solido guadagno . Di conseguenza questi investimenti divennero un og­ getto di proprietà molto apprezzato . Quale altro modo c'era per ottenere una rendita senza lavorare? Costernato dagli effetti di questa mentalità rentier, nel 1 600 Martin Gonzales de Cell6rigo, un borghese di Valladolid, condannò i censos come una piaga che ha ridotto questo regno nella povertà più assoluta, in quanto molta gente o la maggior parte di essa si è messa a vivere per mezzo loro e dell'interesse ricavato dal denaro [ . . . ] . Ossessionati dalle rendite, hanno abbandonato le virtuose occupazioni dell'alleva­ mento del bestiame e dell'agricoltura, nonché tutto ciò che mantiene gli uomini naturalmente [ . . . ] . Si può ben dire che i ricchi, che avreb· bero dovuto portare ricchezza, hanno portato la povertà, poiché hanno tanto abusato che il commerciante non fa più il commercio, il colti­ vatore non coltiva più e molti sono disoccupati e indigenti.

In un brano che si sofferma su un fenomeno comune ad altri paesi oltre che alla Spagna, Cell6rigo prosegue dicendo : I censos sono la piaga e la rovina della Spagna. A causa del dolce sapore del profitto sicuro procurato dai censos, il mercante abban­ dona la sua attività, l'artigiano il suo lavoro, il coltivatore la sua fattoria, il pastore il suo gregge ; mentre l'aristocratico vende le sue terre allo scopo di permutare il prodotto che esse rappresentano con quello cinque volte maggiore dei ; uros [ . ] . Ditte fiorenti sono state rovinate per via dei censos, mentre la gente comune ha lasciato l'im­ piego, il commercio e il lavoro dei campi per darsi alla pigrizia ; in tal modo il regno è diventato una nazione di ozio e di vizio. ..

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Alla fine del Cinquecento le Cortes della Castiglia non erano meno preoccupate per questo problema quando protestarono che « molti si sono dedicati ai censos e, ritenendo che questo sia un buon modo di vivere, hanno abbandonato i loro greggi, la terra e altri mestieri dai quali il regno traeva profitto e impiegano le loro ricchezze nei censos » . Secondo Cell6rigo, il trasferimento della proprietà a causa dei censos aveva dato luogo a una forma di mobilità sociale che per la Spagna era risultata disastrosa. In particolare i ceti medi avevano rinunciato alla loro funzione sociale : La maggior parte del gruppo medio è andata a raggiungere le schiere dei ricchi, grazie ai censos, alle transazioni e alle assegnazioni che ha stipulato con quelli ; e cosl ha ottenuto uno status particolare, quello di un gruppo che si è fatto da sé ; e poiché non appartiene né ai ricchi né ai poveri, né al centro, ha gettato lo Stato nella confusione cui ora assistiamo. Molti di loro che erano in ottime condizioni finanziarie si sono uniti ai ricchi; mentre altri che erano in condi­ zioni migliori nel commercio, nei loro affari, nelle loro occupazioni e nel ceto medio al quale appartenevano i loro padri, si sono uniti alla piccola nobiltà di campagna. Molti di media condizione sono caduti anche in povertà, in quanto hanno talmente desiderato lan­ ciarsi nella classe dei ricchi, e quindi in quella della piccola nobiltà di campagna, e vivere cosl senza fare niente, che sono precipitati al livello più basso [ . . . ] . In seguito a ciò, molte sono le conseguenze sfortunate che affliggono il gruppo medio. Difatti, oltre che a dimi­ nuire di numero e all'essere in uggia sia ai ricchi che ai poveri, sono quelli che di solito difendono il ricco, mantengono il povero, proteg­ gono il monaco, arricchiscono il clero ; sono loro che provvedono al­ l 'esercito, servono il Principe e pagano le imposte. Tuttavia il ceto medio è ormai talmente povero, sottomesso, debole e svigorito che, portando su di sé, come fa, l'intero peso dello Stato, non potrebbe cadere in una condizione peggiore di quella in cui attualmente si trova.

Non possiamo separare il declino dei ceti medi castigliani dal contesto generale dello sviluppo economico della Spagna. Non si trattò di una peculiare caratteristica nazionale che spinse i castigliani, fra i quali una notevole proporzione di conversos, ad abbandonare l'attività industriale e a ricorrere alle rentes. Il clima economico era contro di loro. La Spagna subl in mas­ simo grado il violento rialzo d�i prezzi, la cui fluttuazione, aggra-

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vata da una disastrosa inflazione e dalla svalutazione monetaria, alimentò un'atmosfera inadatta agli investimenti, poiché pochis­ simi uomini facoltosi erano propensi a correre rischi in vista di profitti che, come regolarmente si verificò, potevano essere spazzati via dall'inflazione monetaria. Per quanto l 'inflazione fosse provocata dalla troppo rapida immissione di ricchezza pro­ veniente dall'America, era stato l'oro - sosteneva Cell6rigo che aveva immiserito la Spagna, « non di per sé, perché ciò significherebbe negarne l'elemento costitutivo, ma a causa di coloro che lo posseggono, in quanto non sanno come farne uso » . L a vitalità della borghesia v a quindi valutata i n considera­ zione non solo delle sue prerogative, ma anche della situazione economica. Nel caso dell'Italia è appena da dubitare che il declino economico fu un fattore importante. Per esempio, il lento sca­ dimento dell'industria tessile veneziana verso la fine del Cinque­ cento, nonché il suo declino agli inizi del Seicento, non poteva non condurre a una ridistribuzione dell'investimento. Le aumen­ tate difficoltà nel commercio con il Levante, insieme alla cre­ scente concorrenza commerciale da parte di altre città italiane e dei paesi nordici, resero più allettante la sicurezza relativa rap­ presentata dalla terra e dagli introiti derivanti da affitti. I no­ bili, i cittadini e il popolo di Venezia acquistarono proprietà e tenute nel continente, la « Terraferma » l , in modo particolare tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento . Nello stesso tempo a Venezia, come in altre città, le possibilità di vivere da rentier, erano facilmente accessibili. Pertanto il declino del com­ mercio, non meno del successo negli affari, incoraggiò i ceti mer­ cantili ad abbandonare le loro occupazioni tradizionali a favore della sicurezza e dello status. Poco a poco l'oligarchia mercantile divenne un patriziato, come nella città di Lucca; mentre nella città di Como essa, pur mantenendo un punto d'appoggio sui profitti della sua attività, ampliò gli affari con la riscossione del­ l 'interesse derivante dai prestiti che aveva fatto al governo o ai centri rurali . Si puntava verso un'esistenza più comoda. Gli sviluppi del Ducato di Milano offrono una chiara visione di quanto la borghesia affermata, una volta arricchitasi, si facesse attrarre dalla terra. Di solito gli storici hanno attribuito il de­ clino economico del Ducato al lungo periodo della dominazione l

In italiano nel testo. [N.d.T.]

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spagnola, ma l 'effettiva responsabilità deve essere fatta risalire al ceto mercantile. Molti dei grandi mercanti e industriali del Quattrocento si erano uniti, verso il Seicento ai ceti dirigenti feudali. Eminenti costruttori navali del Quattrocento, come la famiglia Missaglia, ottennero un titolo nobiliare al termine del loro periodo di massimo successo e ritirarono il loro capitale dagli affari. Mercanti del Cinquecento, come i Cusani, stornarono il loro denaro dall'attività commerciale per acquistare terra. Bor­ ghesi, i quali avevano compiuto la carriera al servizio dello Stato (famiglie come i Borromeo, patrizi come i Moroni ), membri delle professioni e detentori di cariche pubbliche, tutti affidarono i loro patrimoni alla terra, dalla quale traevano un titolo nobiliare e rendite feudali . Dal momento che il privilegio e lo status si potevano ottenere cosl facilmente, perché inseguire l'abbietto guadagno ? Mentre il declino della borghesia mediterranea era stretta­ mente connesso a fattori economici di carattere generale, il de­ stino dei ceti commerciali dell'Europa centrale e orientale fu, oltre a ciò, modificato dalle forze politiche. In una parte del continente con una densità di popolazione inferiore a quella del­ l 'Europa occidentale, le città erano più piccole e più povere, f' quindi più adatte a essere dominate dalle zone rurali. La lunga lotta tra i commercianti delle città e i produttori delle campagne, lotta che in Russia fu il presupposto delle grandi rivolte urbane del 1648 , si risolse durante il Cinquecento, nella maggior parte dell'Europa centrale e occidentale, a favore dei produttori . La distinzione fra città e campagna, che proprio ora abbiamo applicato alla Russia, non è beninteso del tutto precisa. Non è possibile fare nessuna divisione del genere in una economia re­ lativamente primitiva; ciò appare chiaro se teniamo conto della « borghesia » russa, che di solito può assere considerata la classe commerciale della città, cioè la posadskie lyudi, che era però formata anche dai commercianti rurali, abitanti dei villaggi noti con il nome di slobody. Per di più i commercianti più facoltosi avevano i loro interessi sia in città che in campagna. Può darsi che questa mancanza di differenziazione, unita alla struttura feu­ dale della società russa, reprimesse lo sviluppo di una borghesia urbana autonoma. Non esisteva alcun settore che i commercianti e i mercanti potessero considerare particolarmente di loro com­ petenza. Si è già visto che l'aristocrazia e i monasteri dominavano

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su larga scala il commercio e l'industria. Il primo m1mstro Mo­ rozov, che fu destituito nel 1648 , commerciava in grano, estraeva e produceva potassa, possedeva distillerie e molini, sfruttava miniere di ferro e dirigeva un'industria metallurgica. Egli fu a un tempo grande proprietario terriero, mercante, industriale, im­ prenditore e usuraio. Quando i principi sia dello Stato che della Chiesa promuovevano il capitalismo fino a queste dimensioni, quale funzione poteva sperare di avere la nascente borghesia? Ciò che conferi particolare importanza al conflitto tra com­ mercianti e produttori in altre parti d'Europa fu che i secondi, proprietari del suolo e dei contadini, facevano parte della classe aristocratica. La nobiltà, avendo rafforzato il possesso della terra in seguito alla confisca delle proprietà della Chiesa dopo la Ri­ forma, giunse poco a poco a esercitare, all'interno dello Stato, una preponderanza politica che nessun governante era in grado di contestare. Sul piano politico ciò ebbe gravi conseguenze nei confronti della borghesia, in quanto i governanti si misero ripe­ tutamente dalla parte degli aristocratici in occasione delle contro­ versie costituzionali con le città, sicché la voce delle città negli « Stati » di ogni regno si andò progressivamente affievolendo. Però il fattore decisivo fu quello economico . Ne abbiamo un esempio dalla sorte toccata ai privilegi urbani nel Brandeburgo . Come in altre parti dell'Europa centrale, la fabbricazione della birra era una delle prime industrie delle città. La nobiltà godeva di alcune esenzioni fiscali riguardo a questo prodotto e, di con­ seguenza, era in grado di produrre birra a prezzo più economico rispetto alle fabbriche urbane, in aperta violazione della legge che prescriveva il livellamento dei prezzi . Ben presto si impadronl della maggior parte del mercato rurale, provocando la depres­ sione nelle città : nel 1 595 le autorità calcolarono che le fab­ briche di birra fallite nelle città del Brandeburgo erano 891, mentre nella campagna continuavano a spuntarne di nuove . Ana­ logamente ne risentl il commercio, attività da lungo tempo della borghesia cittadina. Gli aristocratici, una volta iniziato lo svi­ luppo della produzione di orzo nelle loro tenute, incominciarono anche a trovare i mezzi per trasportarlo da soli, allo scopo di fare a meno dei mediatori delle città . Nonostante qualche ten­ tativo di limitazione, verso la metà del Cinquecento l'aristocrazia esportava il suo orzo liberamente. Al principio del Seicento la piccola nobiltà di campagna del Brandeburgo pretendeva di avere

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diritto a esportare liberamente, sia per via terra che fluviale, e alla esenzione da dazi e dogane. Le autorità non furono in grado di intervenire. Il risultato fu il decadimento delle città e della loro popola­ zione dedita al commercio . A volte le città dovettero subire per­ sino la carestia a causa del modo in cui i produttori nascondevano i viveri allo scopo di speculare sui prezzi. Non si trattava sol­ tanto dell'orzo e della birra, ma di tutti gli altri prodotti della terra, con i quali la piccola nobiltà di campagna incominciò a commerciare sulla base di privilegi irregolari che le erano stati concessi. Le città persero la loro posizione privilegiata sul piano commerciale e industriale, mentre la classe aristocratica si elevò a danno della borghesia. In tutta l'Europa nord-orientale la si­ tuazione fu la stessa. Anche in Prussia e in Pomerania l'esenzione fiscale diede campo libero alla piccola nobiltà di campagna nel­ l'ambito dell'orzo e della birra. Nel 1634, dopo un secolo di lagnanze, il grande porto di Konigsberg protestò che nulla era stato compiuto per porre rimedio alla situazione. La decadenza economica e commerciale delle città e l'indebolimento della bor­ ghesia, proseguirono durante il Seicento, mentre la tendenza si consolidò tra il 1650 e il 1660-70, grazie ai vari provvedimenti per un controllo statale adottati dai governanti della Prussia­ Brandeburgo . A oriente, il caso dell'Ungheria presenta un quadro analogo. Risentendo del peso delle lunghe guerre contro i turchi, l'Un­ gheria subì sia una crisi politica che una crisi di produzione. Preoccupati di salvare le loro ricchezze, gli aristocratici, che erano produttori agricoli, avanzarono diritti per il controllo della di­ stribuzione come pure della produzione. Furono fatte alcune concessioni nel 1563, quando il regno approvò una legge che consentiva agli aristocratici scampati ai turchi di acquistare case nelle città e di importare liberamente vino dalla campagna, a condizione che ciò servisse soltanto per loro uso. Una volta con­ cessi a un settore della nobiltà, questi privilegi aprirono la strada a tutti i nobili per stabilirsi nelle città e, oltre a ciò, per prendere parte mediante matrimoni con il patriziato urbano ai governi cittadini. Invano nel 1574 le città chiesero che i proprietari ter­ rieri non venissero autorizzati a commerciare i prodotti agricoli. La dieta decretò che, a patto che si pagassero i diritti doganali, essi potevano commerciare tutte le merci sia all'interno che al-

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l 'esterno . Di fronte al dominio economico della piccola nobiltà di campagna, il crollo delle città e della borghesia fu inevitabile. La borghesia della Germania centrale presentava caratteri­ stiche intricate, che non sono mai state studiate adeguatamente. Forse è esatto affermare tuttavia, che qui, come nell'Europa oc­ cidentale, il successo sociale compromise l'etica affaristica dei ceti medi . Ciò si adatta non solo ai commercianti e ai finanzieri che si erano fatti strada nel mondo, ma in modo particolare anche ai numerosissimi cacciatori di cariche pubbliche negli Stati tedeschi. Forse i più famosi dei mercanti-banchieri dei primi del Cinquecento, i Fugger, furono l'esempio tipico del modo di ve­ dere tradizionalista che pose limiti alla borghesia ricca. La fa­ miglia entrò nei ranghi della nobiltà dell'Impero; acquistò inoltre estensioni di terra e amministrò le sue tenute secondo il più raffinato stile feudale. La decadenza di vasti settori dei ceti com­ merciali si può desumere anche dal declino dei patrimoni eco­ nomici in Germania, con la scomparsa della supremazia della Lega Anseatica nelle città nordiche, e dalla depressione che si stabill nei centri commerciali della Germania meridionale, in seguito al declino del commercio italiano e di Anversa. Ma si trattò semplicemente di uno spostamento delle forze economiche, non di un declino in senso assoluto, tanto che i ceti medi mer­ cantili di Amburgo e di Lipsia, per citarne due, prosperarono sia prima che dopo la guerra dei Trent'anni . Ciò che caratterizzò la borghesia in molte città della Ger­ mania centrale fu il possesso di una carica pubblica . Un decreto imperiale del 1530 distingueva i ceti medi urbani grosso modo in tre categorie : i semplici cittadini ( compresi i negozianti al dettaglio e gli operai qualificati ), al di sopra di questi i mercanti e i maestri artigiani, infine il ceto patrizio dei detentori di ca­ riche pubbliche. Nelle città minori gli ultimi due gruppi tende­ vano ad amalgamarsi, per il fatto che anche coloro che si erano fatti da sé si permettevano di aspirare alla carica e di « vivere completamente di investimenti e di rendite » (per citare il pre­ detto decreto del 1530). Le famiglie mercantili fornirono prose­ liti alla categoria dei funzionari. Ma la grandissima maggioranza di proseliti proveniva dal corpo dei laureati (i quali, qui come in ogni altra parte dell'Europa occidentale, preferivano studiare diritto allo scopo di entrare nell'amministrazione ), usciti dalle famiglie patrizie e pertanto sicuri di avere un posto nell'élite

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appena laureati. A metà del Cinquecento, nel Wiirttemberg, questo gruppo occupava quasi i tre quarti dei posti nell'ammi­ nistrazione. Si trattava di un rigoglioso ceto medio, di una bor­ ghesia in ascesa che si era però chiaramente separata da qualsiasi partecipazione alla produzione della ricchezza, mentre si era affi­ data agli ideali della carica e delle rentes, ideali che in un regime monarchico preludevano al conseguimento dello status nobiliare. Allettata da ideali che implicavano la possibilità di vivere completamente con un reddito immeritato, l'alta borghesia di una buona parte dell'Europa si era praticamente dimessa dalla sua classe; altrove, sfavorevoli circostanze economiche indebo­ lirono la posizione sia delle città che della borghesia. Quale peso ebbe ciò nel quadro generale della storia europea?

La borghesia e la crisi europea. Anche se non si può essere pienamente d'accordo sull'esi­ stenza di un cosl detto spirito o etica borghese, si può appena dubitare che dal punto di vista storico i settori della popolazione urbana che normalmente chiamiamo borghesi - oscillanti dai piccoli artigiani indipendenti fino agli alti gradi del patriziato costituissero la parte più vigorosa della popolazione . Spesso fu­ rono dei conservatori, specie quando tentavano di proteggere il sistema della gilda ; però l'impresa economica, l'avventura com­ merciale e l 'accumulazione di capitale furono collegati origina­ riamente a loro . Era inevitabile che la loro eliminazione o il loro ritiro dalla vita politica ed economica di un paese servisse a creare una grave crisi. La borghesia svolse un ruolo fondamentale nell'evoluzione della crisi europea. La decadenza delle grandi vie commerciali del Rinascimento - i collegamenti tra il Mediterraneo, la Ger­ mania meridionale e il Belgio - è legata alla fine di una fase storica della borghesia europea . Quando quella fase fu superata, quando Venezia fu in declino, l'Impero spagnolo in rovina e Anversa spopolata, il futuro si spostò verso la borghesia dell'Eu­ ropa nord-occidentale. Il cambiamento nell'equilibrio delle forze economiche verso il nord-ovest non può essere spiegato in ter­ mini di classe; tuttavia, qualsiasi spiegazione che non tenga conto della funzione - evidente per i contemporanei - del

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ceto medio farebbe violenza ai fatti . Pensatori spagnoli, da Cel­ lorigo fino al conte-duca di Olivares, furono ben consapevoli della connessione tra il declino della borghesia e la sua incapa­ cità . « La nostra repubblica - dichiarava esagerando Cellorigo è giunta ai due estremi dei ricchi e dei poveri, senza nessun pas­ saggio intermedio che li unisca » . In uno dei suoi progetti più stravaganti, Olivares pensò perfino di richiamare gli ebrei, allo scopo di immettere nuova energia vitale e nuovo capitale nella società spagnola. In breve, la borghesia era un elemento essenziale per l'espan­ sione economica. La cartella clinica che spiega più facilmente questo argomento è offerta dalla Svezia, che ai primi del Seicento appariva a tutta l'Europa come il terzo colosso del mondo pro­ testante. Tuttavia, anche se durante il secolo la Svezia ebbe un rapido sviluppo, il suo vigore economico fu incomparabilmente inferiore alla sua forza militare, se non altro perché non aveva praticamente un ceto medio efficiente di capitalisti e di avvocati. Il contrasto con le potenze marittime era impressionante. Difatti, nonostante ciò che sappiamo riguardo alla struttura conservatrice della società inglese e di quella olandese, esisteva una ragione evidente per cui i due predetti Stati sarebbero potuti sembrare di spirito borghese, almeno ai loro concorrenti europei. Quali che fossero le prerogative del modo di vivere in patria, il suc­ cesso commerciale all'estero delle potenze protestanti si basava su di un regolare investimento di capitale da parte della piccola nobiltà di campagna e della borghesia mercantile. Uno studio effettuato di recente su oltre 5 .000 investitori nazionali nelle so­ cietà commerciali inglesi d'oltremare, durante il periodo 15751630, fornisce le seguenti cifre : il 73,5 per cento degli investi­ tori erano mercanti borghesi, il 2,4 per cento erano mercanti che erano stati creati cavalieri, il 9,9 erano cavalieri, il 9,3 erano piccoli nobili di campagna, il 3,5 erano pari, 1' 1,4 era costituito da coltivatori diretti e da appartenenti alle professioni. La pic­ cola nobiltà di campagna prevaleva nelle compagnie, alcune delle quali erano composte, in larga misura o interamente, da aristo­ cratici e da gentiluomini, come nel caso della Virginia Company ( 44,7 per cento) e dell'Africa Company ( 78,9 per cento). Inoltre la piccola nobiltà di campagna, nel corso dei predetti cinquan­ tasei anni, investl nelle compagnie approssimativamente l mi­ lione e mezzo di sterline. Furono però i mercanti borghesi, -

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senza alcun dubbio, a cost1tmre il fondamento della grandezza commerciale dell'Inghilterra. In nessun momento, a partire dai primi del Seicento, nessun altro paese ( tranne la sola Olanda ) riuscl a mobilitare con altrettanto successo le risorse dei suoi ceti medi. Le fiduciose argomentazioni del codice Michau in Francia stettero a dimostrare l 'incapacità dello Stato francese a compiere alcunché di simile a ciò che avevano fatto gli inglesi e gli olandesi . Il cambiamento di potere segnalato dalla preponderanza com­ merciale della borghesia anglo-olandese, fu solo un aspetto della crisi. Dal punto di vista interno, gravi spaccature si verificarono nel tessuto vitale di alcuni Stati a causa della decadenza della loro borghesia . Forse è possibile cogliere la situazione al punto massimo della sua gravità nell'Europa centrale e orientale, dove il declino politico ed economico delle città, unitamente al rapido sviluppo di un sistema di agricoltura dominato dai piccoli nobili e basato sulla servitù della gleba, sfociò in una lunga lotta fra città e campagna. L'epoca in cui la lotta si fece più accanita fu la metà del Seicento, che segnò la vittoria delle classi feudali nel Brandeburgo ( con il Rezess del 1 653 ) e in Russia ( con la Uluf.enie del 1 649 ). Pertanto, nell'Europa orientale la campagna vinse la sua battaglia contro le città, mentre in quella occiden­ tale si verificò il contrario . La situazione critica di quegli anni trovò naturalmente riscontro in altre parti d'Europa : per esem­ pio, un aspetto significativo della rivolta di Napoli nel 1 647, come pure delle Fronde nel 1 649, fu il tentativo da parte di un'aristocrazia irrobustita da sangue borghese di assumere la direzione della macchina statale. È esatto affermare che, nel com­ plesso, i paesi privi di una forte borghesia furono gli unici e i soli a soccombere nel momento della crisi e ad accettare un si­ stema di governo assoluto, messo in atto non necessariamente da un singolo governante, ma dall'intera classe aristocratica. I paesi che invece si opposero con la massima energia alle tendenze assolutistiche del governo e che diedero una struttura teorica alla loro presa di posizione, furono quelli - in modo speciale l'Inghilterra e l'Olanda - nei quali la piccola nobiltà di campagna e la borghesia compirono tentativi clamorosi per difendere dall'attacco le loro conquiste materiali . È chiaro quindi che, sebbene l 'intera Europa .subisse a metà del Seicento un periodo di intensa crisi, le cause e le circostanze di quest'ultima,

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almeno sotto il profilo sociale, variarono da un estremo all'altro del continente. Anche se la borghesia fu al centro degli avveni­ menti, il suo peso fu molto diverso a seconda della situazione.

La borghesia ha tradito?

Una volta era di moda fra gli storici anglo-sassoni presentare il Cinquecento e il Seicento come un'epoca di grandi trionfi della borghesia, ritenuta eccezionalmente laboriosa e in vasta mi­ sura puritana, alla quale si attribuiva inoltre il merito di avere preparato l'Inghilterra al suo destino di potenza mondiale. Dietro questa strana mescolanza di Weber con Marx, noi non riusciamo a distinguere nulla di più allarmante se non la storia del partito Whig di una generazione superata, in preda a ipertonie salda­ mente nazionalistiche e fortemente protestanti. Il tentativo di presentare la borghesia come la classe rivoluzionaria e progres­ sista dell'Inghilterra del Seicento ( un mito tutt'ora sostenuto dalla storiografia pseudo-marxista ) da lungo tempo ha smesso, alla luce delle dettagliate ricerche fatte sulla guerra civile in­ glese, di essere convincente . Con ciò non intendiamo sollevare obiezioni in merito all'importanza della parte avuta dai suoi capitalisti e dai suoi commercianti ; ma al di là di questa fun­ zione economica, i ceti medi non furono eccezionalmente pro­ gressisti sul piano politico, né radicali su quello sociale. In genere in Europa la borghesia fu affetta da due gravi debolezze : fu una classe incoerente e fu rigidamente conservatrice. Si può mettere in dubbio se fosse cosi incoerente. Dopo tutto si trattò di un forte gruppo in ascesa di creatori e di promotori di ricchezza, geloso dei suoi privilegi politici e talvolta anche della sua religione. Studiando una parte dell'Europa di solito non menzionata per il suo ceto medio, la Franca Contea, Lucien Febvre ha dimostrato niente meno che quella borghesia fu pro­ babilmente il gruppo sociale più attivo del paese. Essendo com­ mercianti, si dedicarono regolarmente alla loro attività e viag­ giarono in lungo e in largo per tutta l'Europa, allo scopo di sviluppare il loro commercio. In qualità di proprietari terrieri si dedicarono regolarmente ad ampliare i terreni e usarono le loro tenute per attività sociali di ampio respiro come andare a cavallo o a caccia. I componenti maschili della famiglia sapevano com-

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battere ed erano statl m guerra. A giudicare dalle biblioteche che possedevano in casa, costituivano anche la classe più istruita del paese. Il quadro si potrebbe ripetere per l'Inghilterra e per altri Stati, ma non fornisce una prova sufficiente. Difatti, in questa sede, per « coerenza » intendiamo un'impressione di iden­ tità, di cui la borghesia sembra essere stata notevolmente ca­ rente. Fra tutti gli strati sociali, essa era quella che aveva meno diritto di essere definita una « classe » . Come vedremo, la gente comune fu spesso molto consapevole della sua identità, mentre gli aristocratici perdevano molto tempo a discutere sulla loro; ma la mentalità del ceto medio rimase indifferenziata. Sotto il profilo etico, la borghesia non aveva ancora trovato se stessa. Invano fra i documenti privati di mercanti e di capitalisti cer­ chiamo ricordi che possano darci qualche idea sulle loro prospet­ tive, sulle loro speranze e sui loro ideali . Dobbiamo invece fare assegnamento sui resoconti di cronisti come Jacques Savary, o di teologi come Richard Baxter. Uno storico accurato può met­ tere insieme tutti questi frammenti e pretendere di avere sco­ perto quale fosse la mentalità borghese. Tuttavia si tratta di qualcosa di completamente diverso da ciò che avrebbe potuto scrivere il borghese in persona. Secondo lui, e secondo Loyseau, la sua identità si riferiva principalmente non ad una classe, bensl semplicemente alla sua condizione sociale nella vita, una condizione che poteva miglio­ rare costantemente. A differenza degli aristocratici, i quali cono­ scevano e riconoscevano i componenti del proprio raggruppa­ mento, senza tener conto dei confini municipali, il borghese ( a prescindere dalla sua lealtà civica ) sentiva d i appartenere i n de­ finitiva soltanto al rango al quale aspirava. Perciò, come si è visto, la mobilità sociale implicava l'accettazione da parte della borghesia degli ideali di una classe che in senso tecnico era estranea alla sua. In questo senso la loro « incoerenza » condusse i suoi componenti più fortunati ad accettare ciò che potremmo definire conservatorismo, la cui dimensione variava naturalmente da un paese all'altro . In alcuni paesi, il borghese di successo volgeva le spalle all'attività commerciale e agli utili del capitale . È questa la tendenza che Braudel ha categoricamente indicato come un grande « tradimento da parte della borghesia » .. Però nei paesi in cui anche la piccola nobiltà di campagna svolgeva, come in Inghilterra, l 'attività commerciale, non occorreva but-

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tare a mare il commercio come prezzo del successo sociale. Nelle repubbliche fu cosa facilissima per la borghesia adattarsi al suo nuovo status: si formarono le oligarchie e, con il tempo, le aristo­ crazie. Nello Stato italiano di Lucca l'oligarchia commerciale do­ minante, che nel passato si era definita patres, patricii, senato­ resque, verso la fine del Cinquecento mutò questa definizione in nobilitas; invece il gruppo già fregiato del titolo di plebs et po­ pulus fu degradato al rango di ignobilitas. La funzione e lo status della nuova nobiltà di Lucca furono discussi per la prima volta dallo scrittore Pompeo Rocchi, nel suo trattato Il Gentilhuomo del 1 568. L'oligarchia olandese del Seicento non tornò mai in­ dietro in maniera altrettanto radicale, ma la struttura della sua società fu descritta in termini risoluti ai primi del Settecento da un inglese, il quale affermò che « il loro governo è aristocratico : di modo che la tanto esaltata libertà degli olandesi non deve essere intesa in senso generale e assoluto, ma cum grano salis » . Nel caso della borghesia francese la reazione f u più manifesta. I suoi apologisti condivisero l'opinione in base alla quale, per citare un presidente del Parlamento di Parigi del Seicento, « esi­ ste un solo tipo di nobiltà, che si acquista prestando servizio o nell'esercito o nella magistratura giudiziaria, ma i diritti e le prerogative sono le stesse » . Il concetto di servizio costituì inoltre la base della teoria che lo scrittore ugonotto Louis Tur­ quet de Mayerne espose nel suo trattato De la monarchie ari­ stodémocratique ( scritto nel 159 1 e pubblicato nel 1 6 1 1 ) Mayerne rigettò totalmente i vecchi concetti di nobiltà. A pro­ posito della nobiltà di nascita egli affermò che « la nascita non rappresenta l'origine né la base della nobiltà ». Invece la ric­ chezza era un presupposto necessario, in quanto « una nobiltà povera è inutile per lo Stato ». A giustificazione della mobilità sociale, egli dichiarò che «le persone comuni sono il terreno fecondo della nobiltà » . E conclude enunciando : « La vera no­ biltà pone le sue basi soltanto sulle buone azioni ; voglio dire sul lavoro di uomini benemeriti dello Stato ». E difatti « l'esatto adempimento di un incarico pubblico nobilita un uomo ». Tutto ciò voleva dire semplicemente che Mayerne stava cercando di creare un concetto borghese della noblesse, per consentire alla borghesia di sostituirsi alla vecchia classe dirigente. Soltanto il mercante, affermava, meritava la nobiltà, poiché lo provava con il suo successo nel mondo ; inoltre egli giovava al regno per .

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mezzo dell'attività commerciale che arricchiva il paese e dava a lui, come nessun'altra professione, anche una conoscenza degli affari pubblici . Quindi le armi e la guerra erano una professione ignobile ; ciò che era nobile era l'attività commerciale, l'attività finanziaria e l'agricoltura. Fu esattamente attraverso idee rivo­ luzionarie di questa specie che le aspirazioni conservatrici della borghesia si espressero paradossalmente, in modo chiarissimo ; difatti, se Mayerne desiderava rovesciare una nobiltà, fu soltanto per sostituirla con un'altra . Nonostante l'orientamento conservatore dei ceti medi, il « tra­ dimento », come tale, fu limitato soprattutto ai tre principali paesi latini . I paesi della Germania settentrionale ebbero le proprie forme di reazione sociale, che nel complesso non com­ portarono l'abdicazione della borghesia dalle professioni che l 'avevano collocata nel punto in cui si trovava.

VI L' ECONOMIA RURALE

Du sehr verachter Bauerstand

Bist doch der beste in dem Land Kein Mann dich gnugsam preisen kann Wann er dich nur recht siehet an.

Wie Hiitt Mid Von

stiind es jetzund um die Welt Adam nicht gebaut das Feld? Hacken niihrt sich anfangs der dem die Fiirsten kommen her 1. Grimmelshausen, Simplicissimus ( 1668)

Chiunque non difende l'aratro distrugge questo Regno. Sir Robert Ceci! ( 1601 )

I l settore più importante dell'economia, prima dell'avvento del capitalismo industriale, fu la terra; il settore più vasto e più importante della popolazione fu quello dei contadini . Di conseguenza, l'agricoltura era il sostegno dell'economia, della so­ cietà e dello Stato. Corrispondentemente, i ceti contadini erano il sostegno di tutti e tre. In una stampa tedesca del Cinquecento, assai nota, è raffigurato l'albero della società, di cui i contadini rappresentano le radici e - risalendo di ramo in ramo dalle classi inferiori a quelle più alte, fìno al re e al papa - forse in modo più significativo, anche la cima. In breve, si accettava più comunemente di quanto si può pensare il fatto che i braccianti 1 «Voi, disprezzatissimi contadini, siete tuttavia i migliori della terra; nessuno può apprezzarvi in misura troppo elevata, una volta che abbia constatato i vostri meriti. Cosa ne sarebbe ora del mondo, se Adamo non avesse arato la terra? In origine fu la zappa che aiutò l'uomo, dal quale discendono i principi » .

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agricoli fossero la base effettiva dello Stato . La citazione sopra riportata, ripresa da Robert Ceci!, segretario di Stato di Elisa­ betta, pone in rilievo la preoccupazione delle autorità riguardo a questo settore . A differenza degli operai industriali, raramente i contadini furono una categoria disprezzata . La cosa sembra strana quando ci rendiamo conto in quali miserabili condizioni la mag­ gioranza delle classi rurali lavorasse duramente agli inizi del pe­ riodo moderno . Tuttavia il rispetto tradizionale per la terra e per i suoi frutti, un rispetto consacrato dalle cerimonie stagio­ nali della Chiesa, continuò a circondare la classe occupata nel lavoro dei campi . Verso il Seicento gli artisti incominciarono a rappresentare i contadini come degli ubriaconi, come gente rozza e maleducata, senza dubbio un segno della crescente mancanza di compren­ sione da parte della popolazione urbana in espansione. Però il rispetto annesso alla condizione di contadino manteneva una forte influenza sia sull'atteggiamento sociale, sia sull'indirizzo politico . Sarebbe sbagliato interpretare questo rispetto soltanto sotto il profilo economico, anche se era naturale che l'interesse verso la principale classe produttiva fosse diffuso . Esistevano due importanti ragioni di carattere etico, in base alle quali gli europei difesero in questo periodo il contadino : in primo luogo , perché egli personificava i valori tradizionali della società ; in secondo luogo, perché la sua posizione era insidiata dalle forze dirompenti del vecchio sistema . L 'opinione secondo la quale il contadino era all'origine della società è chiaramente espressa nella citazione riportata sotto il titolo del presente capitolo, appartenente alla metà del Sei­ cento . Adamo fu il primo contadino : perciò tutti gli uomini e tutti gli aristocratici discendevano dai contadini. Lungi dal­ l'essere una rivendicazione rivoluzionaria, l'asserzione era un luogo comune, reperibile nella letteratura della maggior parte dei paesi europei . Nel contadino si dovevano trovare quelle virtù di fatica, di pazienza, di subordinazione, di dovere e di pietà che ogni prete cristiano predicava dal suo pulpito . Il con­ tadino non era contaminato dai peccati degli abitanti delle città, né dall'avidità di guadagno . Egli rappresentava un complesso autonomo, che non viveva alle spalle di nessuno e aveva fiducia in Dio. Perlomeno questo era il mito, del tutto innocuo, che ribadiva i pregiudizi di molti secoli di civiltà cristiana. Nella

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vita economica l 'accettazione dell'attività agricola necessaria all'esistenza come cosa naturale e buona, e dell'attività commer­ ciale, specialmente quella tendente al profitto, come cosa cat­ tiva, ebbe un effetto costantemente regressivo. I gruppi sociali non impegnati nell'agricoltura in misura apprezzabile erano messi al bando in quanto ritenuti parassiti economici, che non volevano sporcarsi le mani lavorando seriamente: di qui la base popolare dell'antisemitismo, in quanto gli ebrei erano tenden­ zialmente una minoranza urbana e si dedicavano al vizio inna­ turale dell'usura . In un'epoca in cui i valori della terra stavano rapidamente cambiando e la funzione dei braccianti rurali veniva turbata, coloro i quali erano preoccupati per la giustizia sociale si allar­ marono più di tutti a causa dello stato di depressione delle classi contadine. In particolare in Inghilterra, durante il Cin­ quecento, si assisté allo sforzo da parte di numerosi autori di difendere la posizione del contadino indipendente nella società rurale. In questa operazione le virtù della classe dei piccoli proprietari terrieri inglesi vennero altamente idealizzate, come se il destino del regno dipendesse praticamente dalla loro libertà. Nel complesso gli inglesi fecero in modo da conservare una classe di liberi lavoratori della terra. Sul continente la situa­ zione era completamente diversa.

L'economia agraria. Sembra che il Cinquecento sia vissuto all'ombra delle con­ troversie sullo spopolamento : i villaggi abbandonati in Inghil­ terra, i Wiistungen ( terre disabitate ) dell'Europa centrale, erano ancora una prova della scomparsa delle città. E, nonostante il nettissimo aumento demografico durante questo periodo, poche città tornarono a vivere . Le città crescevano, i centri esistend si espandevano, ma si espandevano anche i campi, tanto che nell'alleanza tra città e campagna quest 'ultima fu il socio più importante. La maggior parte della popolazione attiva era occu­ pata nelle campagne ; le derrate essenziali provenivano unica­ mente dalla terra. Nonostante i rapidi profitti derivanti dal commercio e dalla vendita al minuto, i mezzi di sussistenza della maggior parte della gente dipendevano dal suolo . Di qui

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la grande facilità con cui la rottura poteva essere causata dal cattivo tempo, dagli scarsi raccolti, dal passaggio di truppe ; di qui anche la preoccupazione degli economisti ogni volta che la superficie coltivabile veniva minacciata dal pascolo . In linea generale, gli anni :fino alla metà del Seicento furono favorevoli all'agricoltura e la supremazia del suolo ebbe poco da temere. Durante i cento anni che vanno dal 1 550 al 1 650 prevalse la tendenza ad estendere l'arativo. Essa si manifestò in tre modi : nella trasformazione del diritto e del terreno da pascolo in ara­ tivo, nella bonifica del terreno dalle acque del mare e nello spingere l'aratro in quello che in origine era stato terreno bo­ schivo. Quest'ultimo forse fu quello meno rilevante. Anche se l 'area silvestre subl in questo periodo una continua distruzione, le cause di solito comprendevano la vendita di alberi da parte di proprietari di boschi a corto di denaro ( compresa la monar­ chia ), lo spianamento dei boschi per edificare e per tracciare i parchi (un'abitudine comune agli aristocratici di tutta Europa), nonché i furti di legna a opera dei contadini . In Inghilterra un rapporto del Seicento, molto attendibile, dichiarava che « la causa principale e speciale del saccheggio delle foreste e dei parchi è dovuta alle miserrime condizioni della gente che abita lungo i loro margini » . Grazie al prezzo elevato della legna da ardere e del legname da costruzione, gli stessi proprietari erano riluttanti a vendere i loro boschi o a convertirli in terreno ara­ tivo. Rimane però il fatto che le foreste venivano consumate e distrutte, sicché lo Stato dovette intervenire per proteggerle. Sia in Francia che in Spagna si ebbero leggi a getto continuo per difendere i boschi, mentre in Francia la monarchia fece applicare le sue leggi perfino a tutti i boschi di proprietà feu­ dale e privata, sotto il pretesto che essi rientravano nella sfera della sua sovranità . Gli alberi costituivano la maggiore preoc­ cupazione pubblica in quanto fornivano combustibile, venivano impiegati nelle costruzioni navali ed erano essenziali per impe­ dire l 'erosione del suolo . Tuttavia sembra che Carlo I d'Inghil­ terra abbia valutato le foreste meno per questi motivi che per il fatto che esse erano una proficua fonte di reddito mediante la vendita degli alberi ( anche la corona francese violò nello stesso modo le proprie leggi ), ed erano adattissime per andarvi a caccia. Proprio la massa di disposizioni legislative che proteg-

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gevano gli alberi guidò gli assalti ai boschi. Inevitabilmente dove il bosco veniva distrutto, subentrava lentamente l'arativo : « Stanno disboscando la campagna », protestarono nel 1 546 gli « stati » della Linguadoca, con qualche esagerazione. Ai primi del Seicento in Inghilterra incominciò ad acquistare forza l'argo­ mento in base al quale il terreno arativo dovesse essere per la nazione più vantaggioso di quello forestale ; la cosa trovò espres­ sione in Parlamento mediante la legge dell'ottobre 1 65 3 , rela­ tiva al disboscamento, alla vendita e al miglioramento delle regie foreste. Nonostante questa legge, non si verificarono muta­ menti più importanti, né l'aratro fu il principale strumento di distruzione dei boschi . Il passaggio dal pascolo all'arativo non fu evidentemente una norma generale, in quanto il pascolo era necessario per il bestiame, il che voleva dire carne e lana, due voci di eccezio­ nale importanza. Anche se l 'arativo tendeva a predominare, non è facile calcolare il mutamento in base alla quantità di acri. Forse il modo più semplice e più a portata di mano per orien­ tarsi era rappresentato dal valore relativo della terra, come nel­ l'East Anglia, dove abbiamo già visto che tra il 1 590 e il 1 650 l'affitto dell'arativo era aumentato sei volte, contro quello del pascolo che era salito soltanto due o tre volte . La bonifica del terreno dalle acque del mare mette in maggior risalto la domanda di arativo . La bonifica diventò una delle più impor­ tanti industrie, nella quale valloni e olandesi dimostrarono di essere gli ingegneri più competenti . Vaste aree vennero bonifi­ cate dalle acque del mare per le Province Unite : tra il 1 565 e il 1 590 furono riconquistati 8 .046 ettari, mentre tra il 1 590 e il 1 6 1 5 il totale ascese a 3 6 .2 1 3 , la più vasta area che sia mai stata bonificata nel corso di due secoli . Altre aree d'Europa non si dimostrarono meno attive in questo sforzo. Già nel 1 650 nello Schleswig-Holstein erano stati bonificati circa 25 mila ettari di terreno paludoso lungo la costa. Enrico IV di Francia invitò una squadra di illustri olandesi, guidati da Humphrey Bradley, affinché sorvegliassero il drenaggio delle paludi in Francia; e furono gli olandesi i quali, grazie alla loro lunga esperienza, ebbero una parte di rilievo in moltissimi progetti di bonifica in altri punti del continente, in Italia e in Germania. Per esempio, per le opere di bonifica compiute nel 1 598 nei

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pressi di Ferrara, furono assunti mgegneri olandesi. In Inghil­ terra il drenaggio dei Fens 1 a lungo dibattuto, fu periodica­ mente rimandato per mancanza di capitale e il progetto fu poi attuato soltanto dopo che Carlo I riuscì a raccogliere i fondi necessari . L'ingegnere cui fu affidato il compito fu Cornelis Vermuyden, il quale promise di bonificare « un continente di circa 400 mila acri, che essendo adatto a proteggere le piante durante i rigori invernali avrebbe fruttato ogni anno al Com­ monwealth un profitto di 600 mila sterline e oltre » . In realtà venne sottratta al mare in via permanente una superficie che si avvicinava a quella cifra e si produsse uno dei più fertili terreni arativi di Inghilterra. Il motivo principale della grande estensione di terra e di arativo era la maggiore richiesta di derrate . Beninteso ci fu una notevole variazione, in periodi differenti, tra la domanda di carne e quella di prodotti agricoli . Il punto essenziale è che la domanda si formò per via della rapida espansione della popo­ lazione verso la fine del Cinquecento, riflettendosi negli elevati prezzi dei generi alimentari. Furono soprattutto gli alti prezzi dei cereali che spinsero i coltivatori a realizzare i loro profitti arando la loro terra. Per un po' di tempo i raccolti di prodotti alimentari non incontrarono ostacoli : il terreno da pascolo fu trasformato in arativo quando l'allevamento del bestiame si rivelò meno vantaggioso, e almeno in un'area, precisamente nel Maine ( Francia nord-occidentale ), perfino i vigneti furono tra­ mutati in campi di grano . Nell'Europa orientale l'aumento della popolazione non ebbe un gran peso nell'avvicendamento del­ l 'arativo . Là la ragione più immediata fu la favorevole situa­ zione di prezzo del mercato dell'Europa occidentale, per rifor­ nire il quale venne appunto sviluppata la produzione cerealicola. Fra la parte occidentale e quella orientale, quindi, i mot1v1 sottostanti alla medesima evoluzione economica furono piuttosto diversi. L'importanza data all'agricoltura fu accompagnata da una valanga di pubblicazioni sull'argomento, specie durante i cento anni a partire dal 1550. Il più famoso autore inglese fu Sir Anthony Fitzherbert. In Francia le opere di Belon, di Choyselat l The Fens, zona bassa e paludosa (Cambridgeshire e Lincolnshire) . [N.d.T.]

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e di Estienne, del tardo Cinquecento, furono seguite nel 1 600 dal più celebre dei libri francesi, il Théatre d'Agriculture, di Olivier de Serres, che nel giro di una generazione ebbe nume­ rose edizioni . In Germania il trattato più degno di nota fu il dialogo De re rustica di Conrad Heresbach ( 1 570 ), seguito agli inizi del Seicento dall' Oecon om ia ruralis di Jacob Coler, una combinazione delle due opere che egli aveva scritto e pubbli­ cato per la prima volta intorno al 1 5 9 0 . In Polonia l'opera più popolare, Notaty gospodarskie (Appunti di economia rurale ), fu pubblicata nel 1588 da un nobile, Anselm Gostomski, e tenne il campo per un intero secolo. Molti libri sull'agricoltura erano soltanto dei manuali tecnici , ma i migliori avvertirono l'esi­ genza di una filosofia sociale . Per esempio l'intenzione palese di Olivier de Serres fu di ricordare ai proprietari aristocratici in Francia, che abbandonavano spesso le loro terre in numero sempre crescente, sia le gioie che i profitti connessi alla colti­ vazione delle tenute. Nonostante le condizioni di rapido sviluppo predomina' n ti in agricoltura durante i cento anni fino al 1 650 circa, sembra esatto affermare che nella produzione non fu compiuto alcun progresso tecnico effettivo . Ciò è ancora più sorprendente, dato che in quasi ogni altra sfera di attività stavano verificandosi mutamenti rivoluzionari. Invece, riguardo alla terra, i sistemi agricoli, i metodi di rotazione, gli attrezzi e l'utilizzazione del raccolto e del foraggio, mutarono molto poco . Se il progresso va misurato in base al rendimento, appare evidente che i rap­ porti di resa del seme ( vale a dire la proporzione tra il seme seminato e quello raccolto ) non aumentò in maniera notevole nell'Europa occidentale rispetto alla media, che oscillava tra 6 e 8 ,9 per il frumento . Anzi, le proporzioni diminuirono con il salire della depressione agricola della metà del Seicento . Tale sorprendente stabilità nella produzione cerealicola è in netto contrasto con due rilevanti caratteristiche del periodo: la grande estensione di terra coltivata, che almeno per le imprese di dre­ naggio comportò una immissione senza precedenti di capitale e di macchinario; e il mutamento fondamentale nei rapporti sociali, che nell'Europa occidentale può essere identificato grosso modo con il declino del feudalismo, in quella orientale con l 'inizio di un nuovo feudalismo . Questo quadro contraddittorio dello sviluppo agricolo ha

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spinto uno storico a metterne in dubbio la validità per quanto riguarda l'Inghilterra . Eric Kerridge ha affermato che è stato precisamente nel Cinquecento e nel Seicento che si è assistito alla cosiddetta « rivoluzione agricola » in Inghilterra, e che « tutte le sue principali realizzazioni avvennero prima del 1 72 0 ; moltissime prima del 1 6 7 3 , e u n gran numero ancora molto prima » . In base a questa valutazione, il periodo 1 560- 1 67 3 fu testimone di importanti cambiamenti, comprendenti l'irrigazione delle marcite, la sostituzione della coltivazione variabile ( alter­ nata con il prato e con il dissodamento ) in luogo del dissoda· mento e del prato in via permanente, l'introduzione di nuovi raccolti e di erbe a maggese ( rape, trifoglio ecc . ) , il drenaggio delle paludi, la concimazione e l'allevamento del bestiame. Forse gli effetti di questi cambiamenti non sono stati immedia­ tamente sentiti e, in ogni caso, la depressione tra la fine del Seicento e i primi del Settecento avrebbe limitato l'espansione. Nondimeno Kerridge sostiene che i prodotti del raccolto erano coltivati su di una vasta area e che « la produzione delle der­ rate deve essere stata almeno raddoppiata tra il 1 540 e il 1 700 » . Fu grazie a i cambiamenti realizzati i n questo periodo che Sir William Petty poté affermare nel 1 676 che è

chiaro che a causa del drenaggio delle paludi, l'irrigazione dei ter­ reni �ridi, del miglioramento dei boschi e dei pascoli, della lavorazione dei terreni ricchi d'erica e sterili per produrre lupinella e trifoglio, del miglioramento e del moltiplicarsi di parecchie specie di frutti e di verdure, della navigabilità di alcuni fiumi ecc. - io affermo che è chiaro che la terra può, nelle sue presenti condizioni produrre più viveri e derrate rispetto a quarant'anni fa.

Di chi era la terra? Siamo talmente abituati a pensare ai contadini come a una popolazione depressa, e alla nobiltà come a una classe di pro­ prietari terrieri, che è opportuno ricordarci che nell'Europa occidentale i contadini possedevano la terra in proporzione di gran lunga più estesa. Le cifre molto generiche che abbiamo a disposizione si riferiscono principalmente al Settecento, ma possono essere applicate con una certa sicurezza al Seicento

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durante il quale, se non altro, i ceti rurali possedevano di solito più terra. Si è valutato che in Francia la metà circa della terra apparteneva ai contadini, variando da una proporzione del 20 per cento in Bretagna e in Normandia, fino a oltre il 50 per cento nel Delfinato . A Brunswick, nella Germania occidentale, gli aristocratici possedevano soltanto 1'8 per cento di tutta la terra coltivata, mentre i contadini ne possedevano il 67,5 per cento. La logica elementare dell'economia suggeriva che coloro che sfruttavano il suolo tendevano, in quelle parti d'Europa non dominate dai latifundia, a esserne i proprietari. Beninteso questo quadro di una classe contadina proprie­ taria della terra è del tutto erroneo. Innanzi tutto, e con la massima evidenza, i contadini, formando la classe più grande, erano troppo numerosi rispetto alla terra disponibile e i loro possedimenti erano invariabilmente inadeguati . Per esempio, il 50 per cento di terra francese doveva bastare per il 90 per cento della popolazione che lavorava in campagna. Il possedimento del contadino medio, pertanto, solamente in circostanze ecce­ zionali era in grado di mantenere comodamente una famiglia rurale. Un esempio eloquente è dato dalla città di Roquevaire nella Bassa Provenza, della quale abbiamo notizie per l'anno 1 663 . La proprietà terriera era cosl distribuita : il clero posse­ deva l'l per cento, la borghesia il 19 per cento, gli aristocratici il 23 per cento e i contadini il 57 per cento . A giudicare dalle apparenze, i contadini avevano la parte del leone . Ma la comu­ nità dei proprietari terrieri di Roquevaire era composta da 9 nobili, da 1 2 borghesi e da oltre 1 5 0 contadini proprietari, sicché grosso modo la proprietà di ciascuna famiglia aristocra­ tica e di ciascuna famiglia borghese corrispondeva rispettiva­ mente a nove e tre volte quella della media appartenente alla famiglia contadina. In secondo luogo, il diritto di possesso del suolo da parte del contadino non poteva ritenersi separato dagli eventuali obblighi che vincolavano tanto il suolo che il conta­ dino, o ambedue. I liberi contadini erano una minoranza, che tendeva a restare confinata all'Europa settentrionale e alle terre baltiche. Altrove i proprietari fondiari assoluti erano pochi. Potevano godere della libertà personale, come nella maggior parte dell'Europa occidentale, ma non avevano la piena pro­ prietà della maggior parte della loro terra, con l'obbligo di for­ nire diverse prestazioni a favore del feudatario . In realtà si

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trattava di un diritto di locazione e non di proprietà. Dove il sistema feudale fu efficace, in varie parti della Francia, nella Spagna orientale, in Italia e nell'Europa centrale e orientale, essi dovevano eseguire prestazioni sia in natura che lavorando per il signore, un dovere che limitava la loro libertà personale. Tutti i contadini, liberi o meno, stavano rendendosi conto che la base della loro indipendenza e della loro proprietà veniva implacabilmente distrutta da sviluppi ( ad esempio la fiscalità) che erano al di là del loro controllo . Infine, è necessario ricor­ dare che esisteva una quantità enorme di popolazione rurale che non possedeva terra in senso assoluto. Le grandi differenze di condizione dei ceti rurali d'Europa ci dimostrano l'importanza di esaminarli a seconda delle zone, più di quanto abbiamo dovuto fare per altri settori sociali.

I contadini inglesi. Grazie alla struttura ammtmstrativa e giuridica del feuda­ lismo in Inghilterra, dove i sistemi del diritto romano non avevano mai messo radice, l'agricoltore contadino inglese era, verso il Cinquecento, quasi del tutto libero . In alcune zone i contadini proprietari di terra continuavano a pagare i tributi tradizionali ai castellani, ma la proporzione non era numerica­ mente o socialmente importante . Coloro i quali non coltivavano la propria terra costituivano un operoso settore rurale, che rap­ presentava circa un terzo della popolazione complessiva della campagna. Come in qualsiasi periodo di cambiamento, gli agri­ coltori contadini seguirono una linea di sviluppo sia ascendente che discendente : nel primo caso, miglioravano il loro appezza­ mento ed entravano nella categoria dei coltivatori diretti o della piccola nobiltà ; nel secondo andavano ad aumentare ciò che, in un'epoca di espansione demografica, era un crescente prole­ tariato rurale. Generalizzazioni come queste diventano più com­ prensibili se esaminiamo in particolare un esempio. Il villaggio di Wigston Magna, nel Leicestershire, durante i cento anni che vanno dal 1 525 al 1 625 raddoppiò la sua popo­ lazione da circa 70 famiglie a 1 40 , diventando perciò uno dei più fiorenti villaggi delle Midlands inglesi. Da un'analisi dei mestieri degli abitanti del villaggio , nel tardo Seicento, risulta

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che il 36 per cento dipendeva dall'agricoltura per guadagnarsi da vivere, il 30 per cento dipendeva da mestieri e attività com­ merciali attinenti alla terra, il 1 7 per cento dal telaio per la lavorazione a maglia. Il rimanente 16 per cento veniva definito semplicemente « povero » . Gli agricoltori contadini si avvan­ taggiarono per via del rialzo dei prezzi dei generi alimentari durante il secolo dell'inflazione e accumularono una comoda eccedenza, che negli anni fino ai primi del Seicento non fu in larga misura toccata dall'imposizione fiscale. Qui le forme del­ l'organizzazione feudale scomparvero nel 1 606, quando l 'ultima grande proprietà terriera fu venduta dal suo feudatario, e gli abitanti del villaggio si rifiutarono di continuare a pagare i tri­ buti feudali ai nuovi locatari . La fine del controllo feudale signi­ ficò anche la fine del possesso di terre soggette a speciali diritti, in quanto i registri che attestavano il diritto di possesso erano di solito conservati dal feudatario. Ogni diritto di possesso diventò ormai proprietà fondiaria assoluta. Man mano che il villaggio si sviluppava, la sua attività economica si fece più differenziata . Gli agricoltori contadini si arricchirono, a causa della domanda della loro produzione di derrate ; ma i contadini più deboli non furono in grado di competere con i produttori più forti, mentre man mano che la popolazione aumentava le proprietà terriere dei contadini più piccoli diventavano ancora più insufficienti. A fianco dell'agricoltore benestante cominciò allora ad apparire il proletariato rurale. Anche il villaggio, centro di una economia autosufficiente, veniva sempre più invaso dal denaro, in proporzione allo sviluppo dei traffici per il mercato. Le transazioni in contanti divennero più comuni, e ne abbiamo un'esempio immediato nelle doti, che venivano date in contanti anziché in natura. L'aumento della miseria rurale fu una caratteristica rilevante di questo periodo . Nelle Midlands il costo del sostentamento per un bracciante agricolo sall tra il 1 500 e il 1 640 di sei volte, mentre la sua paga effettiva diminuì nello stesso periodo di circa il 50 per cento . Non sorprende che le strettezze econo­ miche erano diffuse fra la popolazione rurale e contribuirono in primo luogo ad aumentare il numero dei mendicanti, i quali spesso non erano altro che braccianti privi di terra in cerca d'impiego . Beninteso, la situazione era molto diversa in altre parti dell'Inghilterra e vi furono perfino alcuni personaggi

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patriarcali, ad esempio Sir George Sondes di Lees Court nel Kent, il quale per trent'anni spese, secondo lui, « almeno mille sterline all'anno » per dare un aiuto economico ai suoi braccianti. Tuttavia è significativo che anche la media degli affittuari non era precisamente ricca. A questo proposito uno storico ha tracciato un'esempio ipotetico . Ai primi del Seicento un piccolo agricoltore di media condizione poteva avere un podere di 30 acri usando un sistema a tre campi . Di solito i due costi principali erano il pagamento dell'affitto a un proprietario e il fabbisogno di semenza : messi insieme, potevano assorbire i due terzi delle spese per il podere . Circa un quarto del prodotto del raccolto soleva essere accantonato per la semenza da utilizzare l'anno seguente. Vi erano di solito un po' di pecore e i buoi per l'aratro . Durante un'annata normale un podere di questo tipo poteva rendere un profitto netto di 15 sterline, che era un margine meno che sufficiente con il quale lavorare. Una comunità indipendente e libera come Wigston Magna potrebbe essere quindi un'esempio tipico che rappresenta la fine del controllo feudale e l'aumento tanto della ricchezza che della povertà ; non è però un'esempio chiaro di quella che forse fu la tendenza dominante tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, la ridistribuzione del reddito fondiario a favore dei ceti fondiari . Piccoli agricoltori e braccianti agricoli subi­ rono un periodo sempre più difficile ; i primi perché era sempre una lotta fare in modo che il rendimento superasse il livello degli affitti, i secondi perché le paghe diminuivano anziché salire . Un piccolo proprietario terriero poteva avvantaggiarsene, ma doveva competere con il maggior potere contrattuale dei grossi produttori . In termini sociali , per la massa della popola­ zione rurale non fu un periodo tranquillo . Però, in termini puramente economici, fu un periodo di rapido progresso per la produzione, per lo sviluppo del mercato e per la formazione del capitale .

I contadini dell'Europa occidentale. In questa sede non ci interessa tanto descrivere i contadini , un compito al di là della nostra prospettiva, quanto definire alcuni aspetti del cambiamento strutturale dell'economia rurale .

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Abbiamo già osservato che, senza dubbio, i contadini possede­ vano nell'Europa occidentale la maggior parte del suolo. Per esempio, durante il Seicento in Svezia i contadini possedevano metà della terra, la monarchia circa un terzo e la nobiltà circa un quinto. Tuttavia queste cifre sono molto insignificanti per quanto riguarda i contadini, poiché non ci dicono con esattezza quanta terra possedesse il contadino medio . Nel complesso, il contadino dell'Europa occidentale era libero, nel senso che egli non aveva rapporti di dipendenza personale come i servi della gleba dell'Europa medievale e orientale. Però in tutti i tempi questa libertà fu circondata da gravi restrizioni, che spesso la rendevano puramente nominale. Forse la restrizione più importante era la quantità di terra posseduta . Il podere del contadino medio bastava appena al sostentamento di un uomo e della sua famiglia ; inoltre si trat­ tava più di una locazione che di una proprietà fondiaria asso­ luta. Perfino dove la terra era ritenuta libera, come in Castiglia, raramente essa era sufficiente ad assicurare un'entrata regolare e sicura. L'esiguità dei poderi fu un fenomeno esasperato dal­ l'aumento demografico del tardo Cinquecento, che causò una divisione ancora maggiore del suolo in appezzamenti. All'intern:-> della classe rurale esisteva una struttura di proprietà terriera immediatamente riconoscibile : all'apice vi era un gruppo ri­ stretto di agricoltori indip.endenti e grandi possidenti, in fondo una grande quantità di contadini con poderi in affitto molto più piccoli . Goubert esprime l'ipotesi che nel Seicento, nel distretto francese del Beauvaisis, una comunità rurale tipica di circa cento famiglie avrebbe avuto uno o due laboureurs { agricoltori conta­ dini ) molto ricchi, cinque o sei laboureurs di media condizione e circa venti contadini di media grandezza ( che egli raggruppa insieme sotto il nome di haricotiers ) . Ma perfino al di sotto di questi vi era la vastissima categoria degli operai agricoli e dei lavoratori a giornata di parecchie specie, i quali in molti paesi ( sicuramente in Francia e in Inghilterra ) costituivano la mag­ gioranza della popolazione rurale. Quanto alla sua comunità di Beauvasis, Goubert è del parere che vi siano state fino a cin­ quanta famiglie di questi manouvriers. In Borgogna, nella zona di Digione, questi operai rappresentavano la grande maggio­ ranza dei maschi adulti nella campagna e superavano in totale gli agricoltori contadini. Di solito i braccianti agricoli avevano

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una residenza fissa, mentre i lavoratori a giornata erano tal­ mente scarsi di mezzi propri che si trasferivano più spesso, specie nelle città. Questo quadro fa pensare che è sbagliato con­ siderare il contadino proprietario terriero come appartenente al settore più grande della popolazione rurale : di certo egli fu il più tipico e il più importante, ma non sempre il più numeroso. Un secondo fattore limitativo che colpiva la condizione so­ ciale del contadino era il proprietario sotto il quale egli lavo­ rava . Per esempio, i contadini svedesi si dividevano in tre cate­ gorie : i contadini della Corona, i contadini degli aristocratici e i contadini contribuenti. Il contadino dell'ultima categoria era così chiamato, perché era un proprietario fondiario in senso assoluto e la sua unica obbligazione era il pagamento delle im­ poste allo Stato . Forse era più fortunato dei contadini della Corona, i quali pagavano l'affitto, rendevano prestazioni obbli­ gatorie per un dato numero di giorni all'anno e dovevano pagare la tassa di rinnovo alla scadenza dei loro contratti d'affitto ; oppure dei contadini della nobiltà, i quali condividevano le stesse condizioni dei contadini della Corona, ma erano più in balìa dei loro proprietari . In Svezia, i contadini dipendenti da privati erano esenti dalle imposte ordinarie, cosa che non si verificava in molti altri paesi Nella Nuova Castiglia, per citare una regione spagnola sulla quale abbiamo qualche informazione, il contadino proprietario terriero costituiva una minoranza molto esigua. Più della metà della popolazione rurale era formata da braccianti agricoli, tanto che la media generale della regione era di oltre il 70 per cento . Il « contadino » della Nuova Castiglia il più delle volte era un'operaio agricolo . In molti villaggi non esistevano contadini in modo assoluto : erano tutti braccianti alle altrui dipendenze, che frequentemente soffrivano la fame quando non c'era modo di assicurarsi il necessario per vivere. I contadini, quindi, non erano più di un quarto o di un terzo della popolazione rurale , ma anche di questi soltanto una minoranza possedeva la terra. Come in molte altre parti d'Europa, il suolo consisteva princi­ palmente di campi comuni e di terra di proprietà degli aristo­ cratici, del clero e degli abitanti delle città : l'appezzamento pri­ vato del contadino era una cosa eccezionale . Le varie obbligazioni dei contadini possono essere spiegate ricorrendo a qualche esempio . Nelle terre della Germania occi-

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dentale le prestazioni obbligatorie facevano parte del sistema economico delle tenute, noto come Grundherrschaft. A Bruns­ wick il lavoro obbligatorio venne formalizzato con una legge del 1597 , in base alla quale i contadini di quello Stato dove­ vano prestare dei servizi settimanali : un Ackermann ( coltivatore contadino ) doveva prestare due giornate lavorative con le sue bestie da tiro per l'aratro, un Halbspanner ( ossia detentore di mezzo hide 1 di terreno ) doveva prestare una sola giornata. Quando si trattava di lavoro puramente manuale, i contadini erano obbligati a prestare servizi che variavano da due giorni a mezza giornata alla settimana. Da qualunque punto di vista, si trattava di esigenze abbastanza pesanti ; eppure si verificavano in un sistema che di solito viene definito libero, in contrasto con la servitù della gleba dell'Europa orientale. Per esempio le prestazioni obbligatorie con l'aratro erano gravose, in quanto era necessario che la squadra fornisse due persone, quattro cavalli e un carro . L'enorme vantaggio di questi servizi per i proprietari te rr ie ri è dimostrato dal fatto che durante i 50 anni dal 1 6 1 0 al 1 660 nella proprietà terriera di Gandersheim non si tennero assolutamente cavalli da lavoro, in quanto tutta l'ara­ tura veniva eseguita dalle squadre di fatica, più che sufficienti per le sue necessità . Eccetto che per le terre tedesche e la Da­ nimarca, le prestazioni obbligatorie non furono altrettanto fre­ quenti in nessun'altra parte dell'Europa occidentale. Il contadino pagava in denaro contante se non in natura. In Francia e in Spagna era il sistema fiscale che offriva motivo maggiore di infrazione, sicché si può dedurre che in definitiva le imposte furono per l 'economia rurale più dannose delle pre­ stazioni obbligatorie. s(' quando ha seminato il suo terreno [ osservava nel 1622 un illustre avvocato francese, La Barre ] il contadino sapesse effettiva­ mente per chi lo ha fatto, egli non seminerebbe. Difatti egli è quello che profitterà di meno della sua fatica. La prima manciata di grano che getta sul suolo è per Dio, sicché egli la getta gratuitamente. La seconda è destinata agli uccelli ; la terza va per l'affitto del terreno; la quarta per le decime; la quinta per le tailles, tasse e imposte. E tutto ciò prima ancora che egli abbia nulla per se stesso. l

Misura agraria equivalente a 48 ettari. [ N.d.T. ]

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I prospetti statistici del censimento del 1 575-80, relativo ai contadini della Nuova Castiglia, confermano la condizione sociale e finanziaria del produttore contadino, il quale era obbligato a consegnare in media ben più della metà del suo raccolto in pagamento di imposte e di tributi di vario genere . Il gravame più leggero era rappresentato abitualmente dai tributi pagabili al feudatario . Le decime, che di solito venivano valutate esatta­ mente a un decimo di quota, corrispondevano a dieci volte il valore dei tributi feudali . Nel 1 6 1 8 un critico contemporaneo, Lope de Deza, affermò che le decime nella provincia di Toledo eguagliavano il valore di tutte le altre imposte, ma ( ecco quale era la natura della lealtà nei riguardi della Chiesa, condivisa da tutti gli autori ) piuttosto che consigliare l'abrogazione delle decime, egli proponeva la soppressione di tutte le altre imposte. Da ultimo, ma più importante di tutti, l'affitto della terra . Nella Nuova Castiglia esso assorbiva da un terzo a una metà del rac­ colto di un contadino. Molto spesso l'affitto ammontava a tre o quattro volte il valore delle decime . Sommando affitto e im­ poste, al produttore poteva toccare poco, come si apprende da un villaggio nei pressi di Toledo che nel 1 580 si lamentava che « dopo il pagamento dell'affitto non restava nulla ». E; come abbiamo già visto, neanche questo metteva fine ai dispiaceri dei contadini, in quanto quelli che erano in difficoltà ricorrevano a prestiti di denaro e si trovavano vincolati dai censos. L'inde­ bitamento rurale era una cosa fin troppo d'uso corrente. « In breve - protestarono nel 1 598 le cortes di Castiglia presen­ tando una petizione contro i censos - ogni cosa tende a di­ struggere il contadino povero e ad aumentare la proprietà, l'autorità e il potere del ricco ». Una visione più esatta sul presunto peso della struttura fiscale in Francia si può ottenere dai contadini del Beauvaisis della metà del Seicento. Il contadino di media condizione ( hari­ cotier) lavorava circa cinque ettari di terra. Il pagamento delle imposte statali assorbiva di solito circa un quinto della sua produzione ( la faille vi concorreva per la maggior parte ), !ascian­ dogli 1'80 per cento del raccolto. La decima e le imposte per il clero assorbivano abitualmente un altro 8 per cento del suo reddito, più il 4 per cento per altre imposte, di modo che al contadino restava poi il 68 per cento del raccolto. Però un altro 20 per cento doveva essere messo da parte per i costi di

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esercizio e per la riserva da seminare l'anno successivo . Rima­ neva il 48 per cento, ma le spese non erano finite, in quanto bisognava pagare l'affitto al proprietario. Quest'ultimo variava molto, a seconda del sistema del diritto di possesso. Ciò che in seguito il contadino riceveva poteva essere soltanto una pic­ cola parte del suo raccolto originale. Tutto questo, natural­ mente, accadeva in un'annata normale, ma non tiene conto degli eventuali debiti del contadino da rimborsare a carico del suo reddito. Se l'annata era stata cattiva, come troppo di frequente capitava, oppure se i suoi debiti erano molti, cosa che in genere si verificava, il contadino era esposto alla rovina. L'aumento dei gravami fiscali a carico dei contadini fu un fenomeno generale dell'Europa occidentale, che ebbe luogo ap­ prossimativamente nello stesso periodo, a partire dagli anni 1 630 in poi . In Francia, esso fu il risultato della politica fiscale di Richelieu, in Spagna di quella di Olivares, in Svezia delle esi­ genze imposte dallo sforzo bellico d'oltremare . L'esito finale fu quello di uguagliare il livello economico dei contadini e di ridurli in un comune stato di miseria. I piccoli contadini fran­ cesi non furono in grado di avvantaggiarsi della favorevole situa­ zione dei prezzi di quel periodo, non solo perché di regola non avevano eccedenze da inviare al mercato, ma anche perché le imposte aumentavano in una proporzione molto più alta dei prezzi . Oltre e al di sopra dei mali immediati dovuti alle imposte e ai cattivi raccolti, la situazione a lunga scadenza dei braccianti agricoli, che abbiamo già indicato come la più numerosa cate­ goria rurale, si deteriorò. Sia in Inghilterra che nell'Europa occidentale il loro potere salariale si aflìevofi . Nella Linguadoca, fra il 1 500 e il 1 600 le paghe dei braccianti agricoli precipita­ rono dall'indice 1 00 a 54. Date le difficoltà economiche cui erano esposti sia i braccianti che i contadini piccoli proprietari, subentrò una depressione delle masse rurali. Tutto ciò era desti­ nato a esercitare una profonda influenza sugli umori politici rivoluzionari della metà del Seicento. Dalle difficoltà che tormentavano i contadini scaturiscono due conseguenze. Man mano che si indebitavano, abbandona­ vano le loro locazioni, se ne andavano dalla terra per dispera­ zione e i loro poderi venivano presi da altri . Di qui nacquero i due fenomeni della concentrazione delle tenute e dell'appro-

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priazione dei poderi rurali da parte dei ceti urbani . Si è già visto quanto importante fu la parte della borghesia in questo secondo fenomeno. Nel Beauvaisis, verso la fine del Seicento, i borghesi della città di Beauvais controllavano circa il 1 3 ,5 per cento della terra, contro il 20-25 per cento controllato dalla nobiltà. In Italia, nella provincia di Como, le espropriazioni a carico dei contadini raggiunsero la loro punta massima du­ rante gli anni di crisi 1 620-50, mentre la maggior parte della terra che mutò proprietario andò a finire nelle mani della bor­ ghesia o della Chiesa. Il medesimo processo si ebbe in Spagna e in Germania . A Brunswick, già fin dal 1 546, circa il 34 per cento dell'appoderamento nel distretto di Wolfenbtittel veniva valorizzato da fittavoli della borghesia. La concentrazione delle tenute fu un processo a lunga sca­ denza. Tra i molti esempi di questo importante sviluppo, che durante il Settecento diede l'intonazione al rapporto con la terra, possiamo citare quello del villaggio di Manguio in Linguadoca, che nel 1 595 aveva soltanto una tenuta oltre i 1 00 ettari, men­ tre nel 1 653 ne aveva tre e verso il 1 770 otto .

Il feudatario e la terra nell'Europa orientale. Nel Cinquecento si assistette nell'Europa orientale all'ascesa della piccola nobiltà di campagna in una posizione di potere economico e di influenza politica . I Junkers della Prussia orien­ tale, le szlachta della Polonia e i pomeH:iki della Moscovia si collocarono a fianco della vecchia classe aristocratica . La loro funzione sociale e il loro stile di vita si accostavano stretta­ mente a quelli dell'aristocrazia tradizionale ed è a causa di ciò che con il solo termine ' nobiltà ' possiamo riferirei liberamente allo strato sociale superiore della maggior parte dei paesi del­ l 'Europa orientale . La base del potere di questo strato sociale era il possesso della terra, ed è sotto questo profilo che dob­ biamo trattare il cambiamento della funzione di feudatario e di contadino nell'Europa orientale. Perché l'Europa orientale ( cioè a est dell'Elba) deve essere trattata distintamente da quella occidentale? Anche se le gene­ ralizzazioni sono tendenzialmente ingannevoli, gli argomenti che seguono indicano le speciali condizioni prevalenti nell'Europa

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orientale. I paesi orientali erano popolati molto meno densa­ mente di quelli occidentali : per esempio, la densità di popola­ zione in Polonia variava da 14 abitanti per kmq nella Grande Polonia a 3 per kmq in Ucraina . Di conseguenza esisteva una mano d'opera più esigua per un'area più grande di suolo colti­ vato. Le terre orientali erano economicamente meno progredite di quelle occidentali . La macchina di uno Stato centralizzato non era ancora nata in nessuna parte dell'Europa orientale, sicché la nobiltà era una classe molto più autonoma rispetto all'Europa occidentale. In mancanza di uno Stato forte e senza alcuna tradizione di servizio per uno Stato del genere, la nobiltà orientale concentrò i suoi sforzi per coltivare le sue terre e per acquistare ricchezza e prestigio su di una base territoriale . Il predominio della classe aristocratica è una caratteristica straordinaria della storia dell'Europa orientale . Essa sorse prin­ cipalmente a causa della debolezza delle città e della borghesia, argomento che abbiamo trattato nel precedente capitolo . La scarsezza di grandi città ( su 700 città in Polonia all'inizio del Seicento, soltanto otto avevano una popolazione superiore ai 1 0 .000 abitanti ), la corrispondente mancanza di una borghesia vigorosa, nonché la debolezza costituzionale del Terzo stato, offrl alla nobiltà di campagna un incalcolabile vantaggio . Il risul­ tato fu il rapido impadronirsi dei governi orientali da parte del­ l'aristocrazia e il decadimento dell'interesse commerciale dei borghesi. Il trionfo costituzionale della piccola nobiltà di cam­ pagna e dei nobili fu semplicemente un riflesso del loro ormai bene affermato dominio della terra. Il diritto di possesso aristocratico del suolo non diede di per sé l'impulso a una espansione della produzione e a un suc­ cessivo sfruttamento dei contadini. Questo impulso parti dalla situazione economica generale esistente in Europa. Fin dal Quat­ trocento i porti orientali erano stati i fornitori di grano per l'Europa occidentale. Pertanto, il prodotto delle tenute orien­ tali e l'attività commerciale di porti come Konigsberg e Gdansk (Danzica ) erano strettamente legati alle esigenze di mercato dell'Europa occidentale. Con l 'importante eccezione della Russia , molti paesi orientali facevano parte entro certi limiti del mer­ cato europeo . Ciò avveniva anche nel caso di territori interni come l'Ungheria, poiché grazie alla sua condizione politica di sfera di influenza asburgica, l'Ungheria occidentale esportava

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Parte II. La società

prodotti agricoli attraverso Vienna e la Germania meridionale. Lo stretto legame commerciale tra Oriente e Occidente, nono­ stante il loro dissimile sviluppo economico, è riflesso nei prezzi del grano e delle derrate. Sebbene il livello dei prezzi rimanesse più basso nella zona orientale ( nell'arco dei 50 anni dal 1 5 5 1 al 1 600 i prezzi a Danzica rappresentavano soltanto i l 5 3 per cento rispetto a quelli di Amsterdam, e quelli di Varsavia sol­ tanto il 43 per cento ), l'ordine dell'inflazione fu paragonabile a quello della zona occidentale. Per esempio, in Polonia il rialzo nei prezzi del grano raggiunse la sua punta massima nel tardo Cinquecento, poiché la differenza fra il secondo e il terzo quarto di secolo fu dell'ordine del 75 per cento. Il parallelo con le tendenze occidentali risulta più evidente nei dati sui prezzi di Danzica, un porto la cui attività rifletteva in modo naturale il mercato occidentale. Le crescenti domande del mercato occiden400

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1626-1650

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tale, e perfino di quello mediterraneo, sortirono l'effetto di im­ primere ai prezzi un ripido movimento ascensionale. Per il con­ seguente rialzo dei prezzi delle derrate all'interno della Polonia aggravato dall'aumento delle esportazioni, si rinvia alla fig. 1 6 . F u questo rialzo dei prezzi dei cereali e delle derrate, pro­ vocato principalmente dalla domanda estera, a favorire l 'incen­ tivo occorrente ai proprietari terrieri dell'Europa orientale. Inoltre, i differenti livelli di prezzo fra Est ed Ovest garanti­ rono un profitto per tutti, sia per gli esportatori dell'Est che per gli importatori dell'Ovest, interessati al traffico del grano . Il rialzo dei prezzi mise in rilievo i vari sviluppi sociali e poli­ tici che coinvolgevano la nobiltà dell 'Europa orientale . Mentre nell'Europa occidentale la coltivazione della proprietà terriera declinava e gli aristocratici cercavano di procurarsi entrate da fonti diverse dalla produzione agricola, in gran parte dell'Europa centrale e orientale i nobili si rivolgevano di nuovo alla terra come fonte di ricchezza . I profitti che si potevano ottenere con l 'attività agricola risultano dai prospetti statistici relativi a una tenuta della famiglia Rantzau dell'Holstein, durante il 1 600. Su una rendita annua di 5 .000 marchi, soltanto 250 proveni­ vano dagli affitti dei contadini . Il resto era rappresentato dal bestiame, dal grano e dalla produzione dei latticini . Il contadino e le terre incolte venivano assorbite nella pro­ prietà terriera, mentre la produzione di grano destinata a un mercato profittevole divenne un'occupazione di fondamentale importanza. Nei paesi privi di accesso verso il mare, il grano non dominò necessariamente l'economia delle grandi tenute . Al contrario, in Boemia il principale prodotto, per il mercato sia interno che esterno, era la birra ; in Ungheria il vino rappresen­ tava di gran lunga la fonte più importante di reddito e di capi­ tale. I signori, sia ecclesiastici che secolari, partecipavano a questa espansione della produzione che accresceva il reddito del loro capitale e permetteva loro di attuare praticamente un mo­ nopolio sull'attività economica . Il rialzo dei prezzi, fatale ai feudatari dell'Europa occidentale, consolidò il loro potere in quella orientale. L'attività imprenditoriale degli aristocratici compl un grande passo avanti . « I nobili negli anni passati - commentò un fun­ zionario della Pomerania verso la fine del Cinquecento - non sono stati molto operosi e perspicaci nel guadagnarsi da vivere.

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Ma da pochi anni ormai sono migliorati e, dato che esisteva la campagna, la nobiltà non è mai stata così ricca e potente come al giorno d'oggi » . Analogo fu il progresso della piccola nobiltà di campagna in Ungheria . Un regio decreto del 1 6 1 8 confermò la libertà della piccola nobiltà di campagna dal dazio di con­ sumo e dalle imposte. Nel 1 625 furono abrogati i controlli sui prezzi e sui salari. Nel 1 6 3 0 la Dieta deliberò che gli aristocra­ tici potevano partecipare al commercio con l'estero senza pagare imposte o tributi doganali . Verso il 1 655 una memoria del­ l 'epoca poteva affermare che « gli aristocratici si occupano di tutti i generi di commercio », di cereali, di vino, di bestiame, di miele e così via. Quanto ciò toccasse le altre classi viene descritto nella stessa memoria : « I signori e i nobili assumono la direzione del commercio; si impadroniscono di tutto ciò che ritengono utile; escludono la gente ordinaria e i mercanti ; con­ fiscano indiscriminatamente ogni cosa al povero e se la tengono come se fosse loro proprietà privata » .

L'avvento della servitù della gleba. Il feudalesimo, proprio nel periodo in cui nell'Europa occi­ dentale era in decadenza, cominciò a prosperare in quella orien­ tale . Tuttavia il processo che portò all'asservimento fu lungo e richiese più di un secolo di legislazione repressiva . Il processo si svolse in due fasi principali, una nel Cinquecento, l'altra a metà del Seicento ; saranno esaminate separatamente. La servitù della gleba significava per il contadino tre cose : sfruttamento più intensivo della sua fatica, espropriazione della sua terra, essere legato al suolo ( o a un padrone). In ordine di tempo, lo sfruttamento venne per primo . Lo sviluppo della coltivazione della proprietà terriera comportava una maggiore richiesta di mano d'opera, ma i contadini non erano disponibili in numero sufficiente né erano tutti obbligati a regolari presta­ zioni obbligatorie. I proprietari terrieri si fecero un dovere di procurarsi una massa adeguata di mano d'opera e cercarono di farlo aumentando gli obblighi a carico dei contadini dipendenti . Molti di costoro, appena i nuovi obblighi furono imposti, scap­ parono, ma ciò servì solamente a rendere più grave il problema della mano d'opera . Fu invocato perciò il potere dello Stato,

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affinché intervenisse a risolvere la difficoltà. Le leggi che furono approvate dai vari governi a partire dai primi del Cinquecento in poi ebbero un unico scopo : vincolare il contadino più stret­ tamente possibile alla terra e privarlo della libertà di movi­ mento . Fine secondario delle leggi fu quello di aumentare gli obblighi dei contadini, in modo particolare le prestazioni obbli­ gatorie. Non è possibile trovare una prova migliore del fatto che l'apparato dello Stato serviva gli interessi della classe feudale. In Prussia, le ordinanze del 1 526, del 1 540 , del 1 5 7 7 , del 1 6 1 2 e del 1 6 3 3 limitarono progressivamente il diritto del con­ tadino a lasciare la sua terra o a ereditare la proprietà. Gli obblighi di lavoro furono aumentati e ai padroni venne ricono­ sciuto il diritto di sfruttare il lavoro dei figli del contadino. Nel Brandeburgo, le leggi del 1 5 1 8 , del 1 53 6 e degli anni successivi vincolarono parimenti i contadini alla terra, mentre la questione della mano d'opera fu definita quando l'Alta Corte decretò che tutti i contadini erano idonei senza limiti ai servizi, a meno che non potessero provare il contrario . Nei territori asburgici vi fu la stessa tendenza, ma il particolare problema di quelle province di frontiera - in prossimità della Turchia - fece mutare sistema. Il quadro generale può essere offerto da quanto av­ venne in Ungheria . Le leggi del 1 5 1 4 e del 1 548 stabilirono ufficialmente i limiti della prestazione obbligatoria ( robot ), ma in pratica i contadini venivano sfruttati molto al di sopra della quota autorizzata di 52 giorni all'anno. Questa situazione sfociò nella fuga dei contadini, che a sua volta provocò le disposizioni di legge in base alle quali il lavoratore era vincolato al suolo, come stabilito con i provvedimenti del 1 556 e del 1 608 . Non possiamo sottovalutare l'importanza delle prestazioni obbligatorie . A differenza dell'Europa occidentale, dove la mano d'opera veniva normalmente assunta, molte tenute dell'Europa centrale dovevano contare in larga misura sui servizi feudali . Come in occidente, le obbligazioni del contadino consistevano anche in un tributo in contanti e in natura. Dato che nelle grandi tenute la mano d'opera era più necessaria del tributo , nell'Europa orientale divenne regola generale commutare i ser­ vizi in contanti e in natura con le prestazioni obbligatorie. Un esempio di ciò lo troviamo nel Brandeburgo, dove nel 1 608 alla famiglia Von Armin, nell'Uckermark, fu accordato un per­ messo generico di pretendere dai suoi dipendenti i servizi in

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luogo degli affitti . In questa regione l 'estensione delle presta­ zioni obbligatorie divenne generale. Verso la fine del Cinque­ cento la maggior parte dei villaggi posseduti dal capitolo della cattedrale di Havelberg dovevano fornire mano d'opera per circa 90 giorni in un anno . Nel 1 60 1 , i contadini appartenenti al margravio in prossimità di Wittstock dovevano di norma prestare lavoro per non meno di tre giorni alla settimana e per un tempo illimitato durante l'epoca del raccolto. A questo pro­ cedimento si unirono i tentativi per vincolare il contadino alla terra. Alla fine del Quattrocento, una legge aveva stabilito che qualunque contadino che lasciava il possedimento doveva, prima di potersene andare, trovare chi lo sostituisse. Nel Cinquecento questa legge divenne norma generale. Nel 1 53 6 nessun conta­ dino poteva essere ammesso in una città o possedimento, se non a condizione che esibisse una lettera del suo padrone, per dimostrare che era partito con il suo consenso. L'espropriazione delle terre ai contadini fu la conseguenza inevitabile dell'intensificazione dei tributi fiscali o di lavoro . Il numero dei contadini liberi non era mai stato alto . In Baviera, perfino durante l'affrancamento del Settecento, essi assomma­ vano soltanto al 4 per cento della popolazione rurale . Una col· lettività di contadini liberi e indipendenti come la Colmer in Prussia era una cosa eccezionale. In Boemia, verso il 1 654, su di un totale di 64.000 contadini, non più di 500 godevano della libertà personale. La grande maggioranza era economica­ mente miserabile e in un profondo stato di soggezione. In un periodo di crisi si ingolfavano facilmente di debiti, finendo di conseguenza nelle mani del più grosso usuraio, il proprietario in persona. Esistevano parecchie categorie di contadini, da quelli relativamente ricchi fino a quelli completamente asserviti, ma tutti erano ridotti dalla miseria a un comune livello di esistenza. I contadini della Pomerania, che possiamo considerare un esem­ pio, vengono così descritti per noi da un autore contemporaneo degli anni intorno al 1 540 : La situazione dei contadini non è assolutamente uguale. Alcuni posseggono per eredità le loro fattorie, pagano modici tributi e deb­ bono prestare servizi limitati. Questi sono in buone condizioni finan­ ziarie e ricchi; e se uno di loro desidera lasciare la fattoria con i suoi figli, la vende con il consenso del suo signore, gli versa una

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decima sul prezzo ricavato e se ne va liberamente con i suoi figli e con tutto ciò che possiede dovunque vuole. Ma per altri la cosa è diversa; infatti non posseggono i loro -poderi per eredità e debbono servire il padrone ogni volta che egli lo vuole. Spesso non possono svolgere il proprio lavoro a causa delle prestazioni obbligatorie, sic­ ché si impoveriscono e si danno alla latitanza [ . . ] . Praticamente sono dei servi feudali, in quanto il signore se ne libera quando gli pare e piace . .

In realtà, verso la fìne del Cinquecento, esisteva poca diffe­ renza tra queste due categorie, in quanto i contadini liberi venivano sempre più condizionati alla terra, venivano pesante­ mente tassati e oppressi con nuove prestazioni obbligatorie. Nel Brandeburgo si può constatare lo stesso deterioramento. Nel 1 552 un'autore affermò descrivendo la Marca Nuova : « Rustici omnes in libertate educati sunt: tota enim Marchia neminem habet servili conditione natum ». Cinquant'anni dopo il giurista Scheplitz così commentò questo passo : « Vix dici potest ». Nel 1632, per la prima volta, alcuni contadini del­

l'Ucker e della Marca Nuova furono classificati semplicemente come leibeigen, cioè servi. Fu in Russia che la degradazione sociale si manifestò in modo più marcato. Prima della legalizzazione definitiva della servitù della gleba, i contadini erano stati classificati in vari modi, dagli schiavi e dai servi feudali, che abitualmente si tro­ vavano nelle proprietà degli aristocratici, fino ai contadini completamente liberi e ai proprietari terrieri indipendenti. Fra questi estremi vi erano le normali categorie dei fittavoli, sog­ getti a obbligazioni di grado diverso . Nella seconda metà del Cinquecento si assisté a una grave disorganizzazione dello Stato russo, a causa soprattutto delle guerre e della opricnina. Du­ rante la depressione e lo spopolamento che seguirono a questi avvenimenti, i proprietari terrieri ebbero molta difficoltà a pro­ curarsi una mano d'opera adeguata. Migliaia di contadini erano emigrati oltre la Moscovia e il tentativo, da parte dei proprie­ tari terrieri ( i pome'Sciki), di sfruttare quelli che erano ri­ masti servì soltanto ad aggravare la fuga dalla terra. Essendo feudatari della monarchia, i pome'SCiki invocarono il suo aiuto . In seguito alla piena di disposizioni legislative, emanate tra la fìne del Cinquecento e la metà del Seicento, furono colpite tutte le categorie di contadini, tanto quelli dipendenti che quelli

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liberi . Come al solito, le leggi finirono per ridurre la facoltà di movimento dei contadini . La prima di queste leggi risale al 1580. Possiamo constatarne l 'efficacia per quanto riguarda il monastero di Volokolamsk, dove nel 1 579-80 se ne andarono perlomeno 76 contadini e ne furono assunti 20 ; nel 1 5 8 1 non si trasferi neppure un contadino. Però era difficile ottenere ovunque la piena osservanza della legge, come risulta dalla necessità di altri decreti negli anni successivi . I più importanti furono approvati nel 1597 e nel 1 60 7 . È di grande interesse rilevare che queste leggi, a differenza di quelle analoghe ema­ nate altrove, vincolavano i contadini non alla terra ma al loro signore: il rapporto di subordinazione era totalmente perso­ nale. Mentre accadeva tutto questo, veniva aumentato l'obbligo dei contadini riguardo alle tasse e alle prestazioni obbligatorie ( barscina). Queste ultime costituivano l'obbligazione più im­ portante non soltanto nella Russia centrale, ma anche altrove in quanto i proprietari terrieri, rendendosi conto che essa era più vantaggiosa dei semplici tributi in natura, incominciarono a estenderla ai loro contadini. Le crescenti difficoltà fronteg­ giate dai contadini liberi ne costrinsero moltissimi a chiedere prestiti e, quindi, ad ingolfarsi nei debiti . Già ai primi del Sei­ cento una combinazione di parecchi fattori aveva ridotto i con­ tadini russi alla semplice condizione di servi della gleba. Final­ mente, nel 1 649, tutto ciò fu legalizzato sul piano costituzional.!. Nel corso di questi eventi, molti contadini dell'Europa orientale persero la terra . Oppressi dai debiti, vittime della necessità o di forze assolutamente superiori, essi cedettero o vendettero i loro poderi agli aristocratici . Per costoro l'appro­ priazione della terra non era una cosa nuova . I profitti ottenuti da parte della Chiesa durante la Riforma diedero loro la base per estendere ulteriormente il loro territorio. Nel 1 540 il Mar­ gravio del Brandeburgo concesse ai nobili della Marca Vecchia, e più tardi a quelli dell'intero paese, il diritto di indennizzare i loro contadini allo scopo di sostituire i poderi con la proprietà terriera. Con il sostegno attivo dei governanti, i quali compra­ vano terra anch'essi, gli aristocratici rimpiazzarono i piccoli poderi con le grandi tenute. Fra il 1 575 e il 1 624 circa, in base a un'indagine di quest'ultimo anno, nella Marca Media su di un totale di 7 .988 contadini 44 1 furono indennizzati affinché abbandonassero la loro proprietà . Il risultato in questa zona fu

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un aumento delle proprietà terriere di circa il 50 per cento e una diminuzione delle terre dei contadini di circa 1'8 per cento . Nell'Estonia nord-orientale, dove i proprietari terrieri subentra­ vano allo stesso modo nelle terre dei contadini, il numero delle tenute aumentò da 45 ai primi del Seicento fino a 1 35 nel 1 69 6 . L e nuove tenute erano d i notevoli dimensioni e la loro grandezza rimase come una caratteristica dell'economia al di là dell'Elba. Nel Meclemburgo, in Pomerania e nell'area centrale della Prussia orientale, più della metà delle tenute si estendeva, ciascuna, per più di l 00 ettari di terra coltivata. In Prussia e nel Brandeburgo, dal 30 al 50 per cento erano della stessa dimensione. A ovest dell'Elba, le tenute erano di solito molto più piccole . Molte proprietà di contadini di solito venivano fuse per formare una grande proprietà terriera . In Sassonia il feudo di Tauscha fu creato a metà del Cinquecento, unendo sette fat­ torie con una superficie totale di dodici Hufen 1 • Il feudo di Wiinschendorf, nei pressi di Pirna, fu costituito nel 1 6 1 0 con l'unione di cinque fattorie aventi una superficie totale di quattro Hufen e mezzo. L'andamento dell'alienazione della proprietà rurale risulta dalla tabella seguente, che contiene i dati relativi ai poderi del distretto russo di Varzuga, sul Mar Bianco . L'unità di misura della superficie è il luk, di dimensione variabile ma corrispondente approssimativamente a tre ettari di terreno agri­ colo e boschivo . Proprietari terrieri (in luki)

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Parte II. La società

Tuttavia, mentre l'aumento delle tenute feudali avveniva a danno dei contadini, il grado delle espropriazioni doveva essere stabilito in proporzione. La servitù della gleba si era stabiliz­ zata, ma sarebbe falso pensare che tutti i contadini dell'Europa centrale e orientale venissero asserviti e privati completamente della loro proprietà. Dai dati esistenti si deduce che l'espropria­ zione ebbe un'andamento lento. Perfino verso il 1 624, nella Marca Media del Brandeburgo, i contadini possedevano ancora quattro Hufen per ognuno di questi compreso nella proprietà terriera. Secondo una valutazione dei primi del Seicento, di tutto il territorio prussiano i liberi Colmer possedevano il 1 5 per cento, gli aristocratici i l 3 6 per cento e i contadini i l 4 9 per cento . Tuttavia queste erano fra le regioni che apparentemente patirono di più a causa dell'istituzione della servitù della gleba. In alcune zone le perdite da parte contadina furono perfino minori . In Sassonia, che notoriamente risentì meno dell'avan­ zamento delle tenute degli aristocratici, si è calcolato che la perdita globale di terra da parte dei contadini fino al Settecento non superò il 5 per cento dei poderi rurali. In breve, i conta­ dini soffrirono di più per il deterioramento del loro status per­ sonale e dell'indipendenza economica, che per la completa perdita della loro terra . Che cosa si poteva opporre a questi eventi ? Le città e i loro abitanti erano apertamente contrari al potere economico che l 'introduzione della servitù della gleba concedeva alla no­ biltà . In alcune zone della Germania e dell'Europa occidentale la stessa borghesia partecipava all'espropriazione delle terre dei contadini ; ma in quella orientale ciò raramente avveniva, e in­ fatti là gli aristocratici incominciarono a espropriare effettiva­ mente anche gli abitanti delle città. Pertanto le città, quando cercarono di resistere agli abusi delle classi terriere, lottarono per la loro esistenza. Ciò spiega la lotta accanita tra i porti del Baltico e la tenuta dell'aristocratico . Fra le città che opposero la più forte resistenza vi fu Reval, che condusse una lotta lunga ma in definitiva senza speranza contro la nobiltà dell'Estonia. I cittadini protestavano in particolare per il fatto che gli aristo­ cratici negoziavano direttamente con gli olandesi, tanto che nel 1 594 ottennero al riguardo un ordine di proibizione, che però fu poi revocato durante lo stesso anno . Allo stesso modo la città

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di Riga era impegnata in una lotta con gli aristocratici delia Livonia. Konigsberg si compromise anche più direttamente, per protestare contro la legalizzazione della servitù della gleba in Prussia. La città si rifiutò di osservare le clausole degli editti che limitavano i privilegi dei contadini, sostenendo con fermezza che tutti i contadini che vi si rifugiavano erano fuori della giu­ risdizione dei loro padroni . Nel 1 634 le autorità cittadine in una dichiarazione unanime stabilirono che tutti i contadini in Prussia erano liberi e non servi dell a gleba, e che essi con i loro figli avevano diritto alla libertà di movimento . Dopo aver de­ nunciato lo sfruttamento da parte dei Junker, Konigsberg giunse al punto di respingere totalmente la pratica della servitù della gleba. Anche molti cittadini di altre città ebbero il coraggio di denunciare la servitù della gleba. Tra loro vi fu Balthasar Prutze, assessore comunale di Stralsund e appartenente a una delle prin­ cipali famiglie cittadine, il padre e il nonno del quale erano stati in precedenza borgomastri . Una sua relazione del 1 6 1 4 parlava delle condizioni dei contadini in Pomerania nei seguenti termini : Ovunque appaia questa schiavitù, barbarica e quasi egtztana, vediamo gente povera e di conseguenza nessun ricco gentiluomo ma, piuttosto, terre esaurite ; mentre al contrario dove i contadini arano i loro propri campi, la gente è ricca e in grado di pagare le tasse [ ] . Cinquanta o cento anni fa nel nostro territorio non esisteva la servitù della gleba e non era conosciuta neanche prima, ma ultimamente è stata introdotta su larga scala ed è passata inosservata, con la pro­ tezione delle autorità [ . ] . Per ratificare ciò, sono state prese da parte di alcuni giuristi le misure per redigere i relativi regolamenti : un contadino non può citare in giudizio il suo padrone senza uno spe­ ciale permesso, o inoltrare reclamo alcuno, tanto meno intentare una causa penale, contro di lui ; non può ceder� la sua proprietà ; non può sposarsi senza il permesso del signore ; non può mandare senza permesso i suoi figli in città perché imparino un mestiere, né dare loro una dote, né farli sposare, né lasciare loro un'eredità [ . ] però egli deve ubbidire al signore come un vassallo, prestargli aiuto e so­ stegno contro i suoi nemici, contribuire alla dote di sua figlia, accet­ tarlo come giudice anche nei casi che lo riguardano [ . ] arare, erpi­ care, seminare, mietere e trebbiare il grano nei campi del signore con tutta la sua capacità, anche a costo di trascurare il proprio; prestare altri servizi, trasportare legname da costruzione e sorvegliare senza pagamento ; nutrirsi e riposarsi per conto suo; sopportare le puni...

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zioni ; prestare il suo cavallo e le sue mani ; ed effettuare altri servizi richiesti dal signore, oppure in mancanza di servizi versare danaro, o al posto del denaro dare il grano [ . . ] . .

I n alcuni paesi le autorità si mostrarono indifferenti nei ri­ guardi della servitù della gleba. È chiaro che questo non fu il caso della Russia, dove lo zar, grande proprietario terriero in mezzo ad altri proprietari terrieri, aveva interesse a sostener � i pomeJciki. Neppure lo fu in quelle zone dove gli aristocratici dominavano la vita sia politica che economica. Ma in alcune parti dell'Europa centrale i governanti furono abbastanza forti per comportarsi in maniera diversa. I sovrani della Sassonia perse­ guirono una politica coerente per « proteggere » i contadini, in quanto il trasferimento della terra da parte dei contadini non solo rafforzava la nobiltà ma esentava inoltre la terra dal paga­ mento delle imposte. Ritenendo che se qualcuno doveva arric­ chirsi, non poteva trattarsi che di loro, i sovrani della Sassonia accaparrarono la terra sia dai contadini che dagli aristocratici : l'Elettore Maurizio aveva speso fino al 1 564 la somma di 705 mila fiorini per acquistare terra, mentre l'Elettore Giovanni Giorgio accaparrò, tra il 1 590 e il 1 626, non meno di quattro città e 1 0 8 villaggi . Nel frattempo una serie di leggi - nel 1 56 3 , nel 1 609, nel 1 623 e in particolare nel 1 669 - limi­ tarono gli obblighi dei contadini sassoni e il trasferimento di proprietà. Anche in Baviera ci fu soltanto un'azione limitata verso la servitù della gleba, dato che i principali proprietari ter­ rieri erano lo Stato e la Chiesa, e nessuno dei due aveva alcun interesse a cambiare i metodi di sfruttamento già esistenti . II duca di Baviera estendeva la signoria su almeno il 20 per cento dei contadini del paese e in più esercitava la giurisdizione su quasi il 50 per cento, mentre la Chiesa possedeva circa la metà dei contadini del paese . Da questi esempi risulta chiaro che l'avan­ zata della servitù della gleba doveva il suo successo in massima parte alla preponderanza di una sola classe sociale, la nobiltà terriera. Riesce difficile generalizzare sulla parte avuta dalla Chiesa in questo schema. Certamente, più ci spingiamo verso est più si fa evidente che la Chiesa fu tra i massimi proprietari terrieri e che, nei paesi dell'Europa orientale, essa contribuì allo svi­ luppo della servitù della gleba quanto qualsiasi proprietario ter-

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riero . Negli anni intorno al 1 580 il territorio posseduto dai mo­ nasteri russi era considerevole : nel distretto di Mosca avevano il 36 per cento di tutto l 'arativo, in quello di Pskov il 52 per cento. Una parte era terra che era stata donata durante l'opric­ nina, quando gli aristocratici, temendo la confisca, consegnarono le loro tenute alla Chiesa in cambio di un usufrutto vitalizio . Nel solo 1 570-7 1 ai monasteri di Mosca vennero date 99 tenute di questo genere . Vaste zone di territorio, dotate di un enorme potenziale economico, finirono così nelle mani della Chiesa. In Polonia l'arcivescovado di Gniezno, sul quale è stato fatto uno studio dettagliato, possedeva ( verso il Settecento ) tenute sparse che comprendevano non meno di 426 villaggi e 13 città. In Polonia e in Russia la produzione delle tenute ecclesiastiche era avviata verso un mercato esterno, sicché la Chiesa aveva un interesse acquisito riguardo ai provvedimenti presi per control­ lare la mobilità della mano d'opera. Il motivo per cui le grandi proprietà della Chiesa in Baviera, in Austria e in altre regioni non contribuirono alla servitù della gleba fu in parte dovuto al potere politico dello Stato, in parte perché il problema della mano d'opera non era molto pressante, in parte perché le te­ nute non erano amministrate in modo precipuo per una produ­ zione destinata ai mercati esterni . Verso i primi del Seicento una concomitanza di fattori eco­ nomici e politici aveva ridotto i contadini nella maggior parte dell'Europa centrale e orientale in condizioni che rasentavano la schiavitù . Friedrich Engels descrisse una volta queste condi­ zioni come una « seconda servitù della gleba » (zweite Leibei­ genschaft), in quanto differivano sia per l 'epoca che per la qua­ lità dalla servitù della gleba europea del primo periodo . Vi fu­ rono due caratteri distinti che crearono la nuova servitù della gleba e furono essenziali al suo sviluppo : il consolidamento del potere terriero nelle mani della classe aristocratica, l'impegno dell'economia feudale a produrre cereali destinati a un mercato di solito esterno. Sotto questo profilo la servitù della gleba giu­ stificò se stessa sul piano economico ? Sembrerebbe che l'economia basata sui servi della gleba fosse relativamente vantaggiosa durante il primo secolo della sua esi­ stenza, fino alla crisi della metà del Seicento ( non ci occupiamo in questa sede dei profitti derivanti dalla servitù della gleba durante il Settecento e oltre ) . L'eccedenza di utile ricavata dai

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proprietari terrieri con il lavoro dei contadini oppressi, nonché lo sviluppo dei prezzi dei cereali fra l 'Europa orientale e occi­ dentale, assicurarono solidi profitti e un'espansione dell'esporta­ zione. Le esportazioni di cereali dai porti del Baltico orientale aumentarono di volume con regolarità, dal Cinquecento al Sei­ cento . In tutto questo periodo il cereale più importante espor­ tato fu la segale, la cui quantità fu spesso pari a dieci volte quella delle esportazioni di grano . Le esportazioni di segale della Polonia salirono da circa 20 mila tonnellate all'anno agli inizi del Cinquecento a circa 1 7 0 mila nel 1 6 1 8 . La massima zona di importazione era Amsterdam che, per esempio, nel 1 600 con­ trollò 1'80 per cento delle esportazioni di segale provenienti da Danzica. Dato che Amsterdam stessa ne impiegava soltanto il 25 per cento, i grossi profitti nella parte occidentale venivano realizzati attraverso le riesportazioni . Per esaminare la produzione delle tenute è necessario sce­ gliere le zone non visibilmente colpite dalle guerre del Seicento. I dati particolari relativi ad alcune proprietà terriere del Baltico orientale, che erano al di fuori della rotta principale degli eser­ citi, confermano l'aumento di produzione durante i cento anni dal 1 550 al 1 650. Nella figura 17 vengono analizzati gli introiti di una tenuta della Prussia orientale . % 1 00

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Fig. 17 Proprietà terriere con servitù della gleba : introiti derivanti dai cereali nel distretto di Tapiau, dal 1550 al 1 696, in periodi quinquennali.

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Tutti questi dati, anche se puntano nella stessa direzione, sono in una certa misura fuorvianti, in quanto né l'aumento delle esportazioni, né lo sviluppo della produzione costituiscono un'in­ dicazione attendibile riguardo all'efficienza con cui la terra veniva sfruttata in un regime di servitù della gleba. In realtà, sembra quasi fuori dubbio che, fin dal primo momento, la servitù della gleba fosse una delle forme più inefficienti di lavoro agricolo che venisse impiegata nel continente europeo . Per esempio, pare che la più alta produzione globale di cereali fosse dovuta non alla maggiore capacità della mano d'opera fornita dai servi della gleba rispetto a quella libera, bensl del tutto semplicemente alla espansione della superficie dissodata, un'operazione resa possi­ bile dai due caratteri distintivi cui abbiamo accennato sopra ( il controllo del suolo da parte degli aristocratici e la produzione destinata al mercato ) . S e l e fattorie aumentarono i l loro rendimento, ciò f u perché si ingrandirono. È certo che questo fu il caso delle grandi tenute dell'Estonia, durante il Seicento . In via analoga, da uno studio condotto su dieci fattorie selezionate nella Prussia orientale ri­ sulta che tra il 1 600 e il 1 640 esse aumentarono la loro super­ ficie del 1 57 ,6 per cento . Inoltre si deve tenere presente che pochissime fattorie erano gestite basandosi unicamente sul lavoro dei servi della gleba, e che esistevano elementi relativi alle im­ poste, alle decime e al lavoro retribuito che ci permettono di esaminare la produttività dei vari settori di una tenuta. Per esempio, nel distretto di Tapiau della Prussia orientale per tutto il periodo dal 1 550 al 1 696 soltanto il 45 per cento dei cereali fu prodotto dalla stessa tenuta ; la maggior parte proveniva dai contadini dipendenti, i quali pagavano l'affitto in natura ( pari al 26 per cento del reddito dei cereali ), sotto forma di imposte per l'uso del mulino appartenente al signore ( 1 4 per cento ) e di altri tributi. È possibile dedurre che in una tenuta di questo genere quella che aumentava era la quota di cereali non prodotta dal lavoro dei servi della gleba, mentre l'impiego dei servi della gleba ( esclusivamente nella tenuta ) non provocava alcun aumento di rilievo nella produzione, a meno che la superficie della tenuta non venisse ampliata . Qualche prova simile la si può riscontrare durante il Seicento nelle tenute feudali in Ungheria, dove il rapporto produttivo per i cereali variava in genere da 2,5 a 3 ,5 . Possiamo confron-

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tare ciò con il rendimento dei produttori contadini, i quali riu­ scirono a raddoppiare queste cifre . I dati relativi alla produzione di grano fanno pensare che mentre il rapporto produttivo delle tenute era 6, quello dei contadini era 1 2 . La stessa situazione prevaleva nel settore della viticultura. Quando al posto delle prestazioni obbligatorie si fece ricorso al lavoro retribuito, la pro­ duttività durante il Seicento risultò triplicata. Evidentemente la conclusione da trarsi era che i contadini rendevano meno quando eseguivano prestazioni obbligatorie per conto di un altro, che quando lavoravano per conto proprio . Di qui una tendenza, al­ meno nel settore della viticultura, a respingere le prestazioni obbligatorie : infatti constatiamo che durante il Seicento, nelle tenute della famiglia Rak6czi, circa il 90 per cento delle viti era coltivato da mano d'opera assunta . Esistevano per questa tendenza delle limitazioni d'ordine pratico, tanto che la servitù della gleba continuò a essere l 'aspetto fondamentale dei rapporti di lavoro . Considerando nel complesso l'Europa orientale, sembra che la servitù della gleba abbia scoraggiato il rendimento agli inizi dell'epoca moderna ( non è necessario che questo abbia intaccato eccessivamente i profitti, a causa dei prezzi elevati realizzabili nella parte occidentale ) . Le cifre relative alle tenute polacche indicano che il rapporto produttivo del grano, che era di 4,7 nel periodo 1550-99, era sceso a 4,6 nel periodo 1 600-49 e a 2,5 in quello 1 650-9 9 . I rapporti produttivi della segale per gli stessi periodi furono, rispettivamente, 4,0, 3 ,5 e 3 , 1 . I dati inducono a pensare a un declino man mano che veniva intensificata la servitù della gleba. Anche al livello massimo del loro rendimento le tenute dell'Europa orientale non riuscirono mai a produrre quanto quelle della parte occidentale. Da un confronto fra le tenute della Prussia orientale e quelle di Brunswick ( nella Ger­ mania occidentale ) risulta che mentre le prime ebbero, per tutto il periodo dal 1 550 al 1 695, una produzione media di 760 kg per ettaro, le seconde produssero, per tutto il periodo dal 1 540 al 1 676, una media di 8 1 0 kg. In complesso, tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento, i paesi dell'Europa orientale ebbero, riguardo al grano, dei rapporti produttivi varianti da 3 a 5,9, mentre in Inghilterra, nei Paesi Bassi e in Francia, i rap­ porti furono doppi, variando da 6 a 8,9 .

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La crisi del Seicento e l'affermazione della servitù della gleba.

Tre furono i fattori più importanti che condussero a una ulteriore intensificazione della servitù della gleba in Europa orien­ tale : una depressione economica internazionale accentrata nella metà del Seicento, le distruzioni provocate dalla guerra, in par­ ticolare da quella dei Trent'anni, nonché le contraddizioni all'in­ terno della struttura della servitù della gleba. La depressione agricola che incominciò verso la metà del Seicento fece sentire i suoi effetti sull 'intera economia europea. Fra i suoi sintomi più gravi vi fu la caduta dei prezzi dei ce­ reali, il passaggio dall'arativo al pascolo e un declino della bo­ nifica della terra dalle acque del mare. Dato che gli approvvi­ gionamenti di cereali dell'Europa occidentale erano più che suf­ ficienti per il fabbisogno corrente, si ebbe un calo della domanda di cereali del Baltico . A Danzica i prezzi dei cereali segnarono una netta caduta, mentre salirono quelli della carne. Nelle te­ nute dell'arcivescovado di Gniezno la superficie coltivata inco­ minciò a recedere . Dopo mezzo secolo, vi fu un abbassamento generale sia della superficie che della produzione, a causa, al­ meno in parte, delle contrazioni del mercato . Per porre riparo alla diminuzione di reddito, i proprietari terrieri aumentarono la loro oppressione sui contadini. In Prussia i contributi che si esigevano dai contadini furono aumentati a varie riprese e gli obblighi del lavoro si erano fatti talmente gravosi, che nel 1 664 i contadini di una zona si lamentarono perché « non potevano sopportare più a lungo il peso di simili prestazioni obbligatorie imposte dalla legge » . Furono le guerre che causarono la massima rovina, per lo più in via diretta. Le terre della parte orientale furono esposte a lunghe e distruttive campagne militari . Verso la fìne del Cin­ quecento la pressione russa fu diretta verso ovest nelle guerre che dal 1 558 al 1 582 devastarono la Livonia. Nel Seicento gli aggressori furono gli Svedesi. Quasi in continuazione, per tutti gli anni immediatamente successivi al 1 600, essi intervennero nei territori baltici contro la Russia e la Polonia. I territori del­ l'Europa orientale, anche se non parteciparono formalmente alla guerra dei Trent'anni, ne risentirono ugualmente. La Polonia subì in maniera particolarmente disastrosa le invasioni svedesi

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del 1 626-29 e del 1 655-60. Le perdite di popolazione sopportate dalla Grande Polonia in quegli anni sono state valutate al 42 per cento, quelle subite dalla Piccola Polonia al 22 per cento. Probabilmente la regione peggio colpita fu la Masovia, che per­ dette circa il 64 per cento dei suoi villaggi, ed ebbe 1'85 per cento dei suoi terreni coltivati messi fuori uso . Il flagello più grande fu senza dubbio la guerra dei Trent'anni . Abbiamo già gettato uno sguardo sugli effetti che ebbe sulla popolazione. Il declino della popolazione, a causa della morte o dell'emigrazione, ebbe gravi ripercussioni sull'economia agricola. Se pochi piccoli centri o distretti scomparvero in via perma­ nente, e alcuni villaggi furono sostituiti dal terreno boschivo, le eccezioni, temporanee o permanenti, furono sufficienti a cau­ sare una crisi della terra. La crisi fu duplice, poiché trascinò sia il lavoro che il capitale. Lo smembramento del periodo bellico aveva obbligato molti contadini indipendenti ad abbandonare la campagna per trasferirsi nelle città ; nello stesso tempo i con­ tadini dipendenti, che da lungo tempo pativano per gli obblighi di lavoro, abbandonarono volentieri in massa la terra. Quando arrivò di nuovo l'epoca della semina e del raccolto, i proprietari terrieri si resero conto che il numero delle maestranze si era ridotto, sicché furono obbligati a pagare un salario favorevole ai loro braccianti regolari, come pure a quelli assunti . Fu ine­ vitabile che i contadini si accorgessero che la loro fatica valeva una ricompensa, un fattore che rese i feudatari ancora più im­ pazienti di asservire il bracciantato. Sotto parecchi aspetti la situazione dei contadini si deteriorò . Dove i loro poderi erano sufficientemente grandi per fornire i mezzi di sussistenza, ma abbastanza piccoli da essere ripristinati senza l'impiego di un grosso capitale, essi poterono continuare a vivere sulla loro terra . Dove però l'appezzamento era stato venduto durante la guerra a un ricco proprietario terriero, oppure dove esso era stato ro­ vinato o abbandonato al punto da richiedere l'investimento di un certo capitale, non c'era modo di fare ritorno alla terra senza disporre di danaro . Nella crisi corrente di potenziale umano, il lavoro divenne molto più prezioso della terra, mentre molti con­ tadini scopersero che era più vantaggioso in maniera immediata diventare braccianti giornalieri che dissodare il suolo . In quelle circostanze era possibile comprare in quantità ter­ reni abbandonati a prezzi di occasione . Aristocratici e proprietari

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terrieri, che disponevano del capitale necessario, accumularono la proprietà che nel passato apparteneva ai villaggi indipendenti e ai contadini. La ricostruzione dell'agricoltura fu di conseguenza effettuata in conformità con i desideri della classe dei proprie­ tari terrieri . Per esempio, le case dei contadini vennero restau­ rate soltanto in quantità limitata alle esigenze dei nuovi pro­ prietari del terreno . I feudi sostituirono i villaggi. In un solo caso nei pressi di Stralsund 14 poderi furono sostituiti da una grande tenuta. L'operazione si moltiplicò altrove in Pomerania e in tutte le terre tedesche. Le comunità rurali non furono in grado di opporvi resistenza, in quanto molte di esse erano pe­ santemente indebitate e non avevano altra alternativa se non di svendere. Il villaggio di Boersch in Alsazia, quando cercò di avere un prestito per mantenere la sua condizione, riuscì a otte­ nere un prestito a Strasburgo, ma soltanto al tasso di interesse del 28 per cento. Sia individualmente che sul piano della comu­ nità i contadini vennero spinti in un periodo di rovina econo­ mica . I nobili contadini elogiati da Grimmelshausen ( si veda la citazione all'inizio del presente capitolo ) erano una classe rim­ piazzata dai principi che essi pretendevano di avere generato. Risulta che le zone peggiori per il consolidamento della grande proprietà siano state il Meclemburgo e la Pomerania : nel di­ stretto di Stargard, nel Meclemburgo, dove la guerra aveva pra­ ticamente annientato i contadini, tre quarti dei poderi caddero nelle mani degli aristocratici. Infine, le contraddizioni e la debolezza nella pratica della servitù della gleba fino al Seicento esigevano una intensificazione del sistema. Per esempio, il fatto che le fughe dei contadini crescessero in proporzione alle obbligazioni feudali, era di per sé chiaramente deludente . La fuga di contadini dal Brandeburgo verso la Polonia si verificò in un distretto del fiume Netze nei pressi della Marca Nuova: verso il 1 620 più di 40 villaggi vi erano stati fondati dai contadini profughi. Perciò a metà del Seicento fu compiuto il massimo sforzo per immobilizzare com­ pletamente la mano d'opera. Come conseguenza della grande necessità di questa immobi­ lità, la servitù della gleba fu introdotta in tutta la sua ampiezza legislativa. In precedenza, sul piano legislativo, ci si era compor­ tati in modo accidentale e moderato. Quando nel 1 6 1 6 furono compilati i regolamenti per i contadini della Pomerania-Stettino,

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essi furono indicati come homines proprii et coloni glebae ad­ scripti, senza dubbio un cambiamento importante della loro con­ dizione, che però non era formalizzato in un codice ufficiale. Durante gli anni successivi, le autorità fecero ogni sforzo per dare efficacia legale sul piano formale alla servitù della gleba. In Estonia, con una legge del 1 632 si incominciò a reprimere le fughe dei contadini, mentre intorno alla metà del secolo si ottenne la stabilità della mano d'opera . Venne introdotto un sistema di servitù della gleba contrattuale, sulla base di quello applicato nelle tenute svedesi della famiglia De la Gardie nel­ l'isola di Osel. In Russia, una maggiore crisi sociale e politica precedette l'approvazione del Codice delle leggi, l'Ulozenie, del 1 649 . Conseguenza della crisi, durante la quale fu confermata la vittoria dell'aristocrazia terriera, fu che i contadini russi ven­ nero completamente asserviti . Tutti i contadini e le loro famiglie furono considerati vincolati ai loro padroni, senza diritto di allontanarsi e senza diritto di asilo nelle città. Non si fece nes­ suna distinzione fra contadini e servi feudali : entrambi dove­ vano servire alle stesse condizioni, con gli stessi obblighi e con la stessa mancanza di libertà . Come era avvenuto per l'Ulozenie, il Rezess ( o codice), concesso dall'Elettore del Brandeburgo nel 1 65 3 , subl l'influenza della nobiltà. Per la prima volta, questo editto parti dal presupposto che i contadini erano servi della gleba, accollando al contadino l'onere di dimostrare il contrario . Nei territori occupati dagli svedesi, come la Pomerania-Wolgast, le autorità svedesi si opposero energicamente alla servitù della gleba. Ma la situazione si dimostrò incontrollabile, tanto che nel 1 645 e nel 1 670 le leggi da loro emanate offrirono una ulteriore conferma dell'esistenza della servitù della gleba in Po­ merania . Non f u soltanto nell'Europa orientale che i contadini furono danneggiati . Anche nell'Europa occidentale, specie dove la guerra dei Trent'anni aveva colpito più duramente, gli anni di depres­ sione arrecarono un peggioramento alla condizione delle classi rurali . Per citare un esempio della Francia, la regione di Digione in Borgogna fu gravemente devastata durante la guerra dalle truppe sia alleate che nemiche. « Per dieci leghe intorno a Digione, ogni cosa è stata distrutta sia dagli svedesi che dal nemico » , scrisse Condé nel 1636 a Richelieu . Come conseguenza delle

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campagne di guerra le comunità rurali della zona furono finan­ ziariamente rovinate. Per saldare i debiti, furono venduti i di­ ritti ai creditori e si alienarono tanto il pascolo quanto le terre boschive. Un villaggio, Noiron-les-Citeaux, era una comunità li­ bera che nel 1 55 7 aveva una ricca proprietà terriera e pagava soltanto una modesta taille. Già nel 1 666 la proprietà terriera si era dissolta a seguito delle alienazioni e alla taille originaria erano stati aggiunti una taille più gravosa, i pagamenti in natura, le corvées e una decima. In genere questi villaggi finirono nelle mani della borghesia di Digione, che fu responsabile di aver dato origine a quella che potrebbe essere definita esattamente una reazione feudale, in quanto le proprietà erano ormai diven­ tate niente altro che dei feudi , il cui unico vantaggio consisteva nel riportare rapidamente l'agricoltura alla sua primitiva fiorente condizione a seguito dell'investimento di capitale da parte dei nuovi feudatari borghesi. L'affermazione della servitù della gleba riportò l'Europa orien­ tale al Medioevo ? Questa è una domanda difficile, in merito alla quale alcuni storici non sono d'accordo . Giudicando dalle apparenze, sembra quasi che l 'imposizione delle forme feudali - l'economia della proprietà terriera, le prestazioni obbligatorie, la pomestie fosse un passo indietro . Esistono gravi motivi per mettere in dubbio la vitalità di un'economia e di una società basate sul lavoro servile. La semplice servitù della gleba, nel senso di un uomo vincolato in modo assoluto a un padrone o alla terra, sembra che sia stata, come abbiamo sostenuto, meno efficiente di un sistema di lavoro retribuito o di altra forma di sfruttamento meno servile. Tuttavia la servitù della gleba basata sull'assoluta subordinazione fu in molte regioni l'unico modo per procurarsi una mano d'opera garantita . Una parte del pro­ blema consiste nello spiegare come la nobiltà riuscl a prosperare grazie a questo tipo di lavoro antiquato e quali cambiamenti, se mai ve ne furono, si verificarono nell'economia. I profitti derivavano beninteso dalla produzione di beni, in primo luogo i cereali, per un mercato esterno . In Russia il mercato non era all'estero, bensl interno e rivolto verso oriente. È questa pro­ duzione destinata a un mercato che è una manifesta contraddi­ zione di qualsiasi idea secondo la quale la « seconda servitù della gleba » era medievale, poiché l'economia feudale di vecchio tipo non era stata predisposta per un mercato e per i profittt . -

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La « seconda servitù della gleba » fu quindi di diritto un nuovo sistema economico, creato dalle particolari condizioni della sua epoca, che ebbe poco da spartire con il Medioevo, nonostante le sorprendenti rassomiglianze istituzionali . In base a ciò, tuttavia, è stato sostenuto che il sistema fu realmente progressivo e aprì la strada allo sviluppo del capita­ lismo . Si è usato il termine paradossale ' capitalismo feudale ', nel quale la parola ' feudale ' si riferisce all'impiego delle pre­ stazioni obbligatorie e ' capitalismo ' all'avviamento della pro­ duzione verso un mercato di esportazione. Il concetto è affasci­ nante, se non altro a causa del paradosso che contiene. Per di­ mostrarne la fondatezza, dobbiamo vedere se le due caratteri­ stiche essenziali della transizione al capitalismo - l'esistenza di un'economia monetaria e del cambiamento tecnologico dei mezzi di produzione - sono presenti nella « seconda servitù della gleba ». A questo punto sorgono le difficoltà. Evidentemente si stava sviluppando un'economia monetaria, sulla base dell'attività commerciale e dei relativi profitti che si accumulavano nelle mani degli aristocratici ; inoltre, lo sviluppo delle grandi tenute, che producevano per un mercato esterno, comportò neces­ sariamente alcuni mutamenti nei metodi dello sfruttamento della terra . Però è molto difficile affermare che un sistema nel quale circolava poco denaro, nel quale la maggior parte dei lavoratori non riceveva salario, e nel quale l 'accumulazione veramente im­ portante era quella delle terre anziché del capitale, fosse una « economia monetaria ». Difatti è stato affermato che, almeno per quanto riguarda la Polonia, l'intera economia della servitù della gleba del Cinquecento e del Seicento fosse priva di qual­ siasi accumulazione cospicua di capitale. La questione non è stata esaminata sul piano storico, ma la prova esistente su quello non statistico serve a far riflettere che i grandi proprietari ter· rieri, per quanto attaccati alla gestione della tenuta, non ave­ vano prospettive capitalistiche . La fastosa maniera di vivere della piccola nobiltà di campagna della Pomerania e della Prussia orientale, le residenze signorili di campagna che costruiva con un arredamento raffinato e costoso, dimostrano in modo chiaro dove il capitale eccedente venisse investito. Inoltre la successiva generazione di proprietari non sempre fu intraprendente come la precedente . In Ungheria si incontra il caso di un importante aristocratico, Gy. Hédervary, il quale nel 1 542 poteva esprimersi

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con queste parole : « Il mio unico scopo è di comprare una nave e di trasportare tonnellate di staia di orzo e di grano . Traspor­ terò orzo, farina e altre provviste ». Ma un secolo dopo, nel 1 642, uno dei suoi discendenti, I . Hédervary, aveva rivelato abitudini diverse. Scrivendo a un cugino, spiegò che « egli non deve tenere in sospeso nei miei confronti le mie nozze e le mie forti spese, perché anche il mio defunto padre considerava che fosse una rendita adeguata, dato che riteneva confacente e ono­ revole mantenere una buona mensa. lo sono figlio di mio padre e non riesco a vivere come fanno gli altri » . Riguardo alle inno­ vazioni tecniche, si può dimostrare che, tranne l'istituzione della stessa servitù della gleba, non si verificò nessun cambiamento fondamentale nel metodo di sfruttamento del suolo . In alcune zone si ebbero senza dubbio parecchi progressi. Per esempio, in merito alla Boemia si è affermato che il declino dell'economia urbana e l'aumento della produzione rurale portò al trasferimento dell'impresa dalle città alla campagna, di modo che un'industria domestica rurale si sviluppò esattamente negli anni successivi al 1 648, quando ancora si sentivano gli effetti peggiori della guerra dei Trent'anni e della depressione agricola. Tuttavia è improbabile che simili argomenti riescano a dimo­ strare il contributo della servitù della gleba allo sviluppo eco­ nomico, a meno che non vengano convalidati da una ricerca sta­ tistica approfondita. Difatti è innegabile che a lungo andare l'economia basata sulla servitù della gleba fu quella che dan­ neggiò il mercato interno, accentuando in modo eccessivo l 'espor­ tazione ; ritardò l'espansione dell'impresa urbana ; avvill la mano d'opera ; concentrò la ricchezza nelle mani di un'aristocrazia feu­ dale. L'Europa orientale e i suoi contadini ebbero uno sviluppo in direzione opposta a quella occidentale. Qui la borghesia e il capitale commerciale progredirono di pari passo ; nella parte orientale non si amalgamarono fino all'Ottocento . Nell'Europa occidentale i contadini stavano avanzando verso una libertà e una mobilità maggiori ; in quella orientale avveniva il contrario .

Parte terza FEDE E RAGIONE

VII LE NUOVE DIMENSIONI SPIRITUALI

Il faut premièrement regarder Dieu et non pas soi­ meme. Cardinal Pierre de Bérulle Finché non se ne è parlato e scritto, non sono esi­ stite né streghe né stregati. L'inquisitore Alonso Salazar de Frias ( 1612)

Il periodo che va dal 1 550 al 1 660 coincide con quella che gli storici chiamano la Controriforma, un termine che, quando fu usato in origine nella metà dell'Ottocento, suggerl l 'idea di un movimento conservatore e difensivo contro la Riforma pro­ testante. Gli storici successivi, molti dei quali cattolici, inco­ minciarono presto a mettere in rilievo che il movimento non era semplicemente una risposta reazionaria e che molte delle riforme ad esso collegate affondavano le loro radici nel periodo prece­ dente alla Riforma ; sicché era giusto entro certi limiti parlare anche di una Riforma cattolica, che era analoga allo sviluppo del protestantesimo, ne era un'estensione, ma altresi un'evidente reazione contro di esso . Considerata da questo punto di vista, risulta che la Controriforma sia un concetto ampio e mutevole, le cui origini risalgono al tardo Quattrocento - per esempio, alla scuola spirituale olandese della devotio moderna - e le cui ultime manifestazioni si hanno nell'opera dei riformatori del tardo Seicento come l'abate de Rancé, fondatore dei trappisti. Durante questo breve lasso di tempo il movimento trasse il suo impulso più energico dai paesi latini, di modo che la struttura e la pratica della Chiesa cattolica si latinizzarono profondamente,

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Parte III. Fede e ragione

come difatti si sono mantenute fino alle riforme più importanti del Concilio Vaticano Secondo . La Chiesa cattolica rinacque, con l 'aiuto efficace di tre Je­ vatrici : la Spagna, l'Italia e la Francia. Solo se valutiamo al punto giusto la funzione di questi tre paesi possiamo incomin­ ciare a capire l 'immensa fioritura della vita religiosa che restituì alla Chiesa di Roma l 'iniziativa che essa aveva perduto all'epoca della Riforma .

I l rinnovamento spirituale. La chiave più importante del conseguimento spirituale della Controriforma è il Concilio di Trento ( 1 545-63 ). Le discussioni che vi si svolsero e che, alla fine, si conclusero con i decreti relativi alla dottrina della giustificazione ( 1 547 ), fornirono ampia prova in merito ai diversi atteggiamenti teologici dei padri della Chiesa. Alcuni fra coloro che alzarono la voce, in favore di una definizione che giungesse a un compromesso con la dottrina lu­ terana, rappresentavano una tradizione cattolica liberale che aveva raggiunto la sua posizione senza dipendere dalla Riforma. Questa attinenza fondamentale della dottrina della giustificazione richiede di essere messa di nuovo in evidenza, tenuto conto della parte minore assegnatale da alcuni storici, in quanto la giustificazione coinvolgeva il completo impegno da parte del sin­ golo cristiano e, come tale, era considerata il problema spirituale centrale. Il sorprendente accordo raggiunto da Contarini e dai luterani durante il colloquio di Ratisbona nel 1 54 1 , in merito a questa sola dottrina, fu la testimonianza della comune origine spirituale dei partecipanti . Però Trento cambiò tutto questo : non che il Concilio respingesse in blocco l'esperienza spirituale che la giustificazione comportava, o le varie forme in cui la grazia poteva essere ricevuta ; quello che respinse fu la convin­ zione mistica personale che escludeva l 'efficacia della Chiesa e dei sacramenti . In tal modo il Concilio delimitò la dottrina della giu­ stificazione in un senso attivo, non passivo . La giustificazione si doveva conseguire non accogliendo semplicemente l'attribuzione della grazia da parte di Dio : la si doveva conquistare attiva­ mente, partecipando al suo corpo mistico , la Chiesa . Questo, :n un certo senso, doveva essere il tono di tutta la spiritualità della

VII. Le nuove dimensioni spirituali

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Controriforma. Tutto l 'orientamento del movimento consistette nel respingere la continua lotta per la salvezza personale e pun­ tare sul raggiungimento della salvezza di tutti gli uomini ; in breve, tornare dalla preghiera all'azione, dalla contemplazione all'apostolato . Se in ciò il misticismo o la meditazione interpretavano un ruolo, esso doveva essere spostato dall'individuo e messo al ser­ vizio di questo fine più grande. Tale spiritualità attivistica ed esteriore doveva essere la grande garanzia della Riforma cattolica e forse il motivo principale del suo successo. Nonostante la sua apparente ostilità nei confronti dei padri dell'umanesimo cri­ stiano, il cattolicesimo ortodosso produsse un proprio umane­ simo destinato a mettere fra i laici radici più profonde dello splendore intellettuale degli erasmiani. Allo scopo di non fraintendere questa esaltazione dell'atti­ vità, dobbiamo soltanto guardare gli scritti di tre eminenti santi, la cui opera fu fondamentale per la Controriforma. Nelle opere spirituali di s. Teresa d'Avila ( Il castello interiore, Il cammino della perfezione), negli Esercizi spirituali di s. Ignazio di Loyola, nonché nella Introduzione alla vita beata di s . Francesco di Sales, l'unica preoccupazione degli autori era l'anima individuale e il suo rapporto con Dio . L'Autobiografia di s . Teresa non è altro che la storia di un'anima alla ricerca della perfezione. La prima preoccupazione del cristiano era la sua vita interiore, mentre tutto il suo dovere consisteva nel servire Dio. Vi era quindi una contraddizione fra l'esaltazione interna ed esterna della spi­ ritualità cattolica? La risposta viene fornita dagli Esercizi spirituali ( pubblicati nel 1 548 ). Un'opera, nelle sue linee essenziali, di perfezione spirituale, gli Esercizi erano più un manuale di pratica che di meditazione . Ignazio non esortava, guidava. L'anima doveva es­ sere soggiogata, sfruttata, educata. Gli Esercizi non si rivolge­ vano soltanto al clero ; erano fatti sia per il clero che per i laici. Non miravano alla direzione spirituale di un ordine monastico, erano un'arma per consentire a ogni sorta di uomini di conse­ guire la perfezione spirituale. Ogni uomo doveva completare se stesso, secondo gli insegnamenti della Chiesa . L'istituzione dei gesuiti fu di per sé un'espressione di questo umanesimo, in quanto il primo obiettivo di Ignazio era l'attività nel mondo e non la contemplazione. La devozione assoluta verso la Chiesa

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divenne un complemento necessario del ringiovanimento inte­ riore . Si risolveva in tal modo l'apparente dicotomia tra spiri­ tualità individuale e attività esteriore. Il vero fondamento di questa attività doveva essere la pre­ ghiera mentale, ed ecco di nuovo che la pratica e la tecnica della preghiera venivano fatte uscire del tutto dal chiostro e collocate al centro del mondo. La preghiera doveva essere il grande mezzo per salire a Dio, ma non richiedeva la guida del sacerdote ; ciascun individuo, con l'aiuto di numerosi manuali, doveva essere messo in condizione di lottare a modo suo . L'opera che rispecchiò in senso assoluto questa spiritualità fu il grande prodotto della devotio moderna, L'imitazione di Cristo ( del 1 4 1 8 circa ), che nel Cinquecento fu ristampata numerose volte e, tra il 1 550 e il 1 6 1 0, toccò nella sola Francia le trenta edi­ zioni. Ma l'opera più autentica e più tipica dell'umanesimo della Controriforma fu l'Introduzimze alla vita beata. In origine Fran­ cesco di Sales aveva inviato una serie di lettere di guida spiri­ tuale a una nobildonna di Parigi . Venne persuaso a raccoglierle in un libro e l'Introduzione fu pubblicata a Parigi nel 1 609, riscuotendo un successo straordinario . La seconda edizione uscl nello stesso anno, la terza in quello seguente. Già nel 1 620 vi erano oltre quaranta edizioni francesi, mentre nel 1 656 il libro era stato pubblicato già in diciassette lingue . L'Introduzione non aveva, come l'Imitazione, un carattere teologico. Il suo scopo era, molto più dell'Imitazione, il perfezionamento dei co­ muni laici nelle loro ordinarie attività quotidiane e secolari. « È un'eresia - soleva dire s . Francesco - voler rifiutare la vita beata alla compagnia di soldati, alla bottega dell'artigiano, alla corte del principe, alla famiglia. Ovunque siamo, dobbiamo e possiamo aspirare alla vita perfetta ». Secondo il vescovo di Annecy e di Ginevra, l'opera e la preghiera del cattolico erano due aspetti di un unico fine, il suo perfezionamento come indi­ viduo al servizio di Dio. Alla sua preghiera personale il cristiano aggiungeva quella elevata per il tramite della Chiesa . La Controriforma e Trento effettuarono una rivoluzione di fatto nel culto dei sacramenti : le vecchie strutture rimasero, ma sia la pratica che la teoria subirono un mutamento radicale. Veniva ricordato al cristiano che il primo scopo della preghiera era l'adorazione . Tutti i sa­ cramenti furono riconfermati, meglio definiti e consolidati . La

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confessione doveva essere più abituale, la comunione pm rego­ lare, la messa settimanale obbligatoria . Apparvero nuove pre­ ghiere dedicate all'ostia consacrata, mentre la messa diventava una volta di più l'avvenimento centrale della vita spirituale ia del clero che dei laici. Tuttavia questi mutamenti erano ben lungi dall'avere ottenuto l'effetto ideale: per un prete, dire messa tutti i giorni era una cosa rara anche dopo il Concilio di Trento, mentre la comunione una volta al mese o perfino alla settimana rimase, in pieno Seicento, una innovazione temeraria .

La riforma istituzionale. Il successo della Controriforma sarebbe incomprensibile , se dovessimo considerare soltanto quello della sua letteratura. La maggior parte dei cristiani era analfabeta, esclusa dai manuali spirituali e, ancor più, dal latino ufficiale della Chiesa. I fedeli, digiuni di teologia e delle decisioni di Trento, dovevano fare assegnamento sui loro pastori. Ecco perché le più eminenti per­ sonalità cattoliche puntarono non tanto su di una missione di­ retta tra le masse, quanto su di una riforma delle istituzioni per mezzo delle quali operava il clero . L'ossessione della riforma clericale, comune ai grandi cambiamenti effettuati prima della Riforma in Spagna da Cisneros, nonché all'opera del Bellarmino e di altri funzionari della curia romana durante la Riforma, doveva dominare praticamente le deliberazioni dei padri riuniti a Trento . La riforma dei vescovi e dei sacerdoti ( al Concilio non si consentì di discutere la riforma della curia) fu la loro prima preoccupazione. Al clero non fu data importanza sempli­ cemente per via delle accuse di abusi mosse dai protestanti : le autorità cattoliche da un pezzo erano al corrente della necessità di cambiare le cose. Inoltre glielo aveva regolarmente ricordato la satira arguta di Erasmo, mentre l'opera di Cisneros prean­ nunciava una più vasta pulizia delle stalle di Augia. Ma l'insi­ stenza a favore del cambiamento divenne presto sospetta quando alcuni riformatori abbandonarono la cautela. In Spagna s. Te­ resa lottò contro una potente opposizione e a un dato momento i suoi scritti furono denunciati all'Inquisizione. In I talia l'or­ dine dei cappuccini fu sul punto di venire abolito, in seguito alla sensazionale diserzione del loro generale Ochino nelle file pro-

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e

ragione

testanti. Per fortuna lo slancio innovatore resistette. Ignazio riuscì a ottenere nel 1 540 l'approvazione del papa per la nuova Compagnia, sicché vennero alla luce gli ordini più grandi e, sotto molti aspetti, più caratteristici della Controriforma. Come i gesuiti, i nuovi ordini furono quasi senza eccezione orientati verso l'apostolato, nel pieno spirito della Controri­ forma. Però tutto il clero, regolare e secolare, dovette ugual­ mente sottostare all'esigenza fondamentale di istruirsi, adde­ strarsi e prepararsi bene per svolgere il suo servizio . Il rilievo innegabilmente giusto dato alle grandi imprese esterne dei nuovi ordini - nel campo del servizio sociale e soprattutto in quello dell'istruzione - rischia purtroppo di farci sottovalutare l 'enorme importanza delle riforme interne da essi compiute. La Compagnia di Gesù fu un esempio rilevante di cambiamento interno . Con il porre l 'accento sulla disciplina e sull'obbedienza, richiamava le caratteristiche più rigide delle classiche regole medievali ; ma, non essendo un ordine monastico in quanto partecipava attivamente alle cose mondane, i suoi membri veni­ vano incoraggiati a esplicare le proprie capacità al servizio della Chiesa. La Compagnia attuò una combinazione di intransigenza e di flessibilità, praticamente unica. Fin dal primo momento, perciò, essa produsse alcune delle figure più eminenti della Controriforma. In definitiva la Chiesa traeva energia dal sacerdote ordi natio, anziché dai missionari errabondi . Cosa abbastanza strana, questo fattore fondamentale fu trascurato moltissimo, esatta­ mente fino alla fine del Cinquecento . Le grandiose conquiste realizzate dal partito cattolico nell'Europa della Controriforma furono compiute sul piano dell'ingrandimento politico e mili­ tare, sul piano dell'istruzione universitaria e secondaria, nonché della predicazione ( forse il più grande predicatore fu il gesuita olandese s. Pietro Canisio, la cui fatica contribul a mantenere fedeli a Roma la Germania centrale e l 'Austria). La fondazione dei nuovi ordini, per quanto importante, fece tuttavia ben poco per curare la fondamentale debolezza del clero secolare. A Roma, s . Filippo Neri fu uno dei primi a dedicare i suoi sforzi per riabilitare in primo luogo il sacerdozio . Nel 1 575 fondò la Congregazione dell'Oratorio, che all'inizio non intendeva essere un nuovo ordine, bensl un'associazione, il cui scopo era la pre­ ghiera e la discussione, l'aiuto ai poveri e l'istruzione dei gio-

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vani. L 'esempio di s. Filippo trovò i suoi più illustri seguaci nei capi della Controriforma francese. Il principale ispiratore del risveglio cattolico in Francia, fu il cardinale Pierre de Bérulle, il quale nel 1 6 1 1 fondò un oratorio sul modello di quello di s . Filippo. A causa dei cinquant'anni di guerra civile nel paese, la Con­ troriforma francese giunse più tardi che altrove . Essendo l'ul­ timo importante paese cattolico a riformarsi, la Francia offre un esempio straordinariamente chiaro delle varie influenze che concorsero a produrre il movimento della riforma nell'Europa cattolica. L'impulso politico a favore della riforma; l'introdu­ zione del cambiamento a un livello aristocratico, di corte ; l'im­ padronirsi dell'iniziativa da parte dei gesuiti ; la frenetica fon­ dazione dei nuovi ordini ; l'istruzione dei giovani ; l'inculcazione di una nuova forma di devozione, mettendo in risalto il culto della madonna ; la diffusione delle influenze spagnole e italiane ; la maggiore attenzione al ruolo del sacerdozio : tutto ciò fu messo in pratica in Francia con un'energia difficilmente ugua­ gliata altrove. Spesso si è detto che i decreti del Concilio di Trento non furono accolti in Francia. Ciò è vero soltanto in parte . Il Parlamento di Parigi si rifiutò di registrare i decreti tridentini, che però furono adottati senza esitazione nel 1 6 1 5 dall'assemblea generale della Chiesa francese . L'impulso politico a favore della riforma venne dal partito dévot riunito intorno alla famiglia Marillac e al cardinale Bérulle, il quale era fautore di una politica di alleanza con la Spagna contro l 'Europa protestante. Fu a questo livello aristocratico ( in particolare con il circolo mistico di Parigi, che si riuniva presso la residenza di Madame Acarie ) che nacque nella Chiesa francese l'ispirazione per la riforma, tanto che il movimento non si liberò mai del tutto delle sue origini nobili : perfino s. Vin­ cenzo de' Paoli fece, per riuscire, molto assegnamento sul favore di corte . Il successo dei gesuiti, i quali ritornarono in Francia nel 1 603 e furono favoriti con entusiasmo da Enrico IV, fu forse la dimostrazione più espressiva di ciò che la Controriforma poteva compiere. Nel 1 6 1 7 ottennero il permesso di insegnare ai bambini e pochi anni dopo si appropriarono della maggior parte dell'istruzione pubblica in Francia. Già nel 1 626, nella sola regione parigina, avevano 12 collegi e 1 3 .000 alunni . Anche l 'Oratorio di Bérulle giunse in tempo per partecipare alla gara

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(la concorrenza a questo riguardo spiega l'impopolarità dei gesuiti fra molti capi della Controriforma) e in venti anni fondò complessivamente 43 collegi . La fondazione di nuovi ordini e l'istituzione di nuovi conventi prosegul a un ritmo notevole. Soltanto nella prima metà del Seicento, furono istituite circa 7 .500 case religiose . I vecchi ordini religiosi furono fondati di nuovo ( per esempio, il rinnovamento della regola benedettina portò alla fondazione della congregazione di Saint-Maur e alla riforma di Angélique Arnauld a Port-Royal ), e ne furono isti­ tuiti dei nuovi ( da Jean-Jacques Olier, s . Giovanni Eudes e da Jeanne Françoise Frémiot baronessa di Chantal, fra gli altri). L'introduzione i n Francia, nel 1 605, dell'ordine delle Carmeli­ tane riformate a opera di Madame Acarie e di Bérulle fu parti­ colarmente significativa, poiché metteva in risalto quanto la Francia traesse vantaggio dal movimento della riforma negli altri paesi latini. L'ordine carmelitano francese ricalcò diretta­ mente le esperienze personali di Bérulle durante una sua visita in Spagna nel 1 604, mentre l'Oratorio berulliano fu modellato direttamente su quello romano di s. Filippo . Gli scritti di s. Te­ resa entrarono in Francia insieme alle sue carmelitane riformate e, dal 1 6 0 1 in poi, i suoi libri furono stampati in numerose edizioni francesi. Con s . Vincenzo de' Paoli ( 1 58 1 - 1 660), il più grande santo del più grande secolo del cattolicesimo, la Controriforma riusd a fondere la devozione con la pratica . La religione che Bérulle rappresentava era soprattutto mistica, di un misticismo concen­ trato sulla persona di Cristo. Bérulle stimava la santità al di sopra della riforma. Come sottolineò una volta Henri Bremond, un riformatore cerca di portare il clero a un minimo di osser­ vanza religiosa e di buona condotta, mentre Bérulle si preoccu­ pava di portarlo a un livello massimo di virtù. L'unico scopo dell'Oratorio, scopo che non perdette mai anche dopo che si sentl costretto a entrare nel mondo dell'insegnamento, consi­ steva nel migliorare il sacerdozio e nel renderlo più sacro. Ques to divenne il principio direttivo del protetto di Bérulle, Vincenzo de' Paoli . La sua immensa attività in favore dei poveri, degli affamati e dei dissoluti, è brevemente descritta più oltre nel presente libro . Non basta lo spazio per parlare del suo profondo impegno personale nell'occuparsi dei prigionieri e dei forzati (egli stesso era stato schiavo a Tunisi nel 1 606 ) . Quantunque

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la sua fama si appoggi su queste opere esteriori di carità, il suo primo scopo fu di servire i suoi compagni di sacerdozio. « Il cristianesimo si basa sui preti » : questo era il tema di tutto il suo programma. La questione consisteva nel cambiare i cri­ stiani cambiando i loro ministri. Dal 1 628 in poi Vincenzo pre­ parò regolari programmi di ritiro per gli ordinandi ; la loro fama fu tale da farli adottare in ogni diocesi della Francia. Questi corsi di seminario furono forse la sua impresa più profonda e più duratura, in quanto i sacerdoti che furono educati da Vin­ cenzo contribuirono a salvare la Francia per la Chiesa proprio al livello più importante, nelle parrocchie urbane e in quelle rurali. Tale programma d'azione non fu esclusivamente maschile. Ad accrescere i numerosi ordini femminili istituiti dalla Con­ troriforma francese, guidati da donne insigni come s . Giovanna Chantal e Angélique Arnauld, s. Vincenzo apportò le sue Dame e le sue Figlie della Carità. In un organismo burocratico come la Chiesa cattolica, una riforma del clero di tale estensione era giusta ed essenziale se si voleva che le vie della grazia, da lungo tempo infangate e ostruite, fossero di nuovo libere. La preoccupazione del Con­ cilio di Trento in merito all'organizzazione del clero e lo sforzo enorme sostenuto da Vincenzo de' Paoli per riformare i semi­ nari partivano da questa premessa . La Chiesa e il popolo cri­ stiano dovevano essere purificati attraverso i ministri del van­ gelo. Tuttavia si verificò un grave squilibrio, che non si rad­ drizzò fino al XX secolo . La legittima premura riguardo alla fun­ zione del clero servì in seguito a esagerarne l'importanza a danno del laicato, un destino ironico se pensiamo alle sincere aspirazioni umanistiche dei capi della Controriforma . Trento non acconsentì mai a prendere in considerazione la funzione del laicato nella Chiesa . Ciò che si manifestò, quindi, non fu sem­ plicemente un inevitabile accrescimento del potere papale, ma anche un regresso a quel clericalismo che i riformatori, tanto cattolici che protestanti, avevano coerentemente cercato di evitare.

Missione

e

conversione.

Per tradizione le grandi prove delle opere missionarie du­ rante il Cinquecento vengono attribuite alla Controriforma.

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L 'affermazione è giusta qualora ci riferiamo alla riconversione interna dell'Europa alla fede cattolica, ma è meno sostenibile se intendiamo alludere all'opera di uomini come s. Francesco Saverio. AI contrario, le missioni sinceramente ispirate e apo­ stoliche fuori dell'Europa incominciarono prima della grande epoca della Controriforma e si estinsero quando essa era al suo apice . Il periodo idealistico delle missioni in America e in Asia durò dal 1 520 al 1 570 circa, mezzo secolo di autentica evange­ lizzazione cristiana. Non vi parteciparono né Roma né la Com­ pagnia di Gesù, tranne il caso estremamente speciale di Saverio . La grande opera dei gesuiti in Giappone, in Canada e nel Para­ guay appartiene principalmente agli inizi del Seicento, quando la pesante mano del controllo imperiale aveva incominciato a far crollare l'ideale puro delle missioni ; di fronte al genere di politica missionaria allora perseguita in America, gli alti scopi dell'Utopia Paraguayana rappresentarono l'eccezione più che la regola . L e grandi realizzazioni dell'iniziativa missionaria della Con­ troriforma si ebbero più in Europa che nelle terre d'oltremare . Fino a qual punto si riuscl a ricondurre la gente alla fede ? Qualunque prova sta a dimostrare uno straordinario ritorno al cattolicesimo . Tutti i settori sociali ne furono colpiti . Nella Linguadoca il ceto rurale, che a metà del Cinquecento era con­ tagiato dall'eresia e ostile all'obbligo della decima, ai primi del Seicento era diventato prevalentemente cattolico e accondiscen­ dente al pagamento del tributo . La Polonia, tormentata dalle sette durante gli anni intorno al 1 570, divenne il paese domi­ nato dai gesuiti nel 1 640 circa. Perfino nell'Inghilterra prote­ stante la corte di Elisabetta favorevole alla Riforma divenne, sotto i primi Stuart, una corte di regine cattoliche, di lord cat­ tolici dissidenti e di gesuiti di passaggio . Dove la reazione venne istigata dalle autorità secolari, la gente fu evangelizzata in modo tale che divenne cattolica credente in poco più di una genera­ zione. Non occorre ripetere che la maggior parte della « con­ versione » di questo periodo fu messa in atto con la minaccia della guerra. Le vicende della Boemia dimostrano fin troppo chiaramente la propensione della Controriforma ad appoggiarsi alla forza delle armi . Si era però ancora in un'epoca di religione di Stato, sicché i protestanti non furono da meno dei cattolici nel fare ricorso al braccio secolare . Per quanto importante possa

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essere stato l'intervento dello Stato, è probabile che una sover­ chia attenzione prestata alla sua attività ne deformi l'aspetto storico. Infatti, a prescindere da quanto peso abbiano avuto le forze di coercizione, o con il duca di Alba nei Paesi Bassi o con il conte di Tilly nella guerra dei Trent'anni, la Controriforma non dipese da esse. Secondo un recente storico, « ciò che con­ venzionalmente si definisce Controriforma fu fondamentalmente un poderoso risveglio religioso che dovrebbe essere esaminato come tale ». Non dobbiamo dimenticare il rovescio di questa medaglia. Se la religione autentica fu in pieno rigoglio, altrettanto lo furono la miscredenza e l'irreligione, l'irrazionalità e la stre­ goneria.

Il regno delle tenebre: la stregoneria in Europa. La pratica della « stregoneria », che alle orecchie moderne non suggerisce altro che l 'uso antiquato di oscure cerimonie smascherate molto tempo fa da secoli di razionalismo, costitul un punto talmente importante nell'esistenza degli europei del Cinquecento e del Seicento, che a causa di ciò centinaia di migliaia di loro furono giustiziati . Una persecuzione di cosl vaste proporzioni, che soltanto di recente ha cominciato a richia­ mare l'attenzione che merita, si può dire che sia sorta contem­ poraneamente dalla superstizione popolare e dalla fantasticheria teologica . L a superstizione popolare non aveva nulla d i più complicato della magia folcloristica, la magia bianca e nera delle collettività rurali . Possiamo definire bianca la magia che si riteneva capace di rimedi e di soluzioni non ottenibili in via ordinaria. Predi­ zione dell'avvenire, filtri d'amore, incantesimi per guarire, ritro­ vamento di oggetti smarriti, rientravano in questa categoria. Ciò che la religione e la medicina non riuscivano a dare, veniva offerto dalla magia bianca . La magia nera era l'opposto del­ l'altra e si riferiva in genere a due cose : ottenere con mezzi diabolici lo stesso servizio di solito reso dalla magia bianca e fare deliberatamente del male ( maleficium ) per mezzo della magia . Per esempio, un maleficium poteva consistere nell'inviare la maledizione alle persone, oppure nel fare ammalare il loro

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bestiame. Sia la magia bianca che quella nera svolsero, agli inizi dell'epoca moderna, una riconoscibile funzione sociale : in un certo senso, furono entrambe attività razionali. Il momento in cui la comune magia folcloristica europea divenne irrazionale fu quello in cui il diavolo fece il suo in­ gresso nella storia. Fu quando la dottrina del sabba incominciò a essere seriamente considerata, nel Trecento e nel Quattrocento, che il problema della stregoneria prese veramente corpo. Due furono le componenti del sabba che impressero alla stregoneria una tendenza del tutto nuova e le attirarono addosso la collera delle autorità. In primo luogo, gli incontri delle streghe al cosiddetto sabba presupponevano l'esistenza di una confrater­ nita, una confraternita perversa che per sua natura non poteva essere se non internazionale ; in secondo luogo, dato che lo scopo della riunione era la presunta adorazione del diavolo, tutte le streghe si erano decisamente legate a Satana e avevano rinnegato Cristo . L'antica magia popolare si era ormai estesa in una minaccia diabolica, e in quanto diabolica i teologi inter­ vennero con le loro osservazioni . Grazie alla fertile mentalità teologica, il Malleus Maleficarum ( 1486 ) divenne il primo di una lunga serie di manuali stampati, che pretendevano di ana­ lizzare la stregoneria. La distinzione tra magia nera e bianca si fece improvvisa­ mente improrogabile. Il delitto, che secondo i giuristi e i teo­ logi doveva essere punito con la morte, era quello del malefi­ cium, o fattura. Era questo che comportava i rapporti sessuali con il diavolo, il trasferimento nel luogo del sabba ( spesso per una ventina di miglia), l'armonia con demoni familiari, l'inari­ dimento dei raccolti, l'assassinio dei bambini e la maledizione mortale contro i loro genitori . Coloro che intendevano scovare l 'incantesimo, potevano apprenderne i sintomi leggendo uno qualsiasi dei numerosi manuali scritti da uomini di intelligenza veramente molto elevata : per esempio, quelli del grande giu­ rista Jean Bodin ( 1 5 80 ), del vescovo coadiutore di Treviri, Peter Binsfeld ( 1 589 ), del presidente del tribunale della Bor­ gogna, Henri Boguet ( 1 59 1 ), del procuratore generale della Lorena, Nicolas Rémy ( 1 5 9 5 ) , oppure dell'illustre gesuita belga Martin del Rio ( 1599 ) . Questi autori attinsero le loro prove dai processi del Cinquecento e furono considerati essi stessi degli specialisti in materia dai successivi cacciatori di streghe

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I n parte a causa loro, l a gente venne a sapere del sabba e del grande complotto diabolico che vi era implicato. In questo quadro l'Inghilterra fu l'unica eccezione. Per l'intero periodo fino alla metà del Seicento non vi furono mai condannati né streghe né stregoni per colpa del sabba o dell'arte diabolica. In Inghilterra una strega veniva imputata per quello che era, per avere causato maleficium , e mai ( eccetto forse dopo il 1 645 ) per fare parte di una setta di adoratori del demonio. Di che specie erano le persone processate per stregoneria ? Nel tentativo di spiegare una pazzia che tenne in pugno un con­ tinente per oltre un secolo, alcuni storici hanno cercato di asso­ ciare la stregoneria alle zone montuose e remote. Lo storico tedesco Hansen, per esempio, mise in rilievo che la supersti­ zione nacque soprattutto sulle montagne delle Alpi e dei Pi­ renei . Sottolineò il fatto che il nome dato a un gruppo di eretici alpini - i valdesi - già nel Quattrocento veniva dato anche alle streghe in Francia, quasi a conferma non solo della loro comune eterodossia ma anche delle loro origini alpestri . La teoria è allettante . La più forte esplosione di pazzia spagnola, quella del 1 6 1 0 , avvenne nei Pirenei ; in Francia, come ram­ menta Pierre Delancre, scoppiò a Tolosa e nei Pirenei francesi. Il celebre cacciatore di streghe Henri Boguet agl verso la fine del Cinquecento nelle regioni montuose della Francia centrale. Analizzando alcune zone in cui la pazzia per le streghe imper­ versava, risulta che la maggior parte delle vittime proveniva da località lontane e relativamente impervie, con un basso livello culturale e con uno scarso stato di servizio riguardo alla professione di fede cristiana. Dove Cristo non era arrivato, le antiche superstizioni popolari avevano ancora il sopravvento . Può darsi che la zona più intensamente infestata fosse l'Europa centrale, sia ai confini della Svizzera che dentro. La Valtellina era un focolaio di streghe, come pure lo era Ginevra ai tempi di Calvino . Potremmo quindi dedurre che le vittime dei pro­ cessi di stregoneria furono per lo più montanari analfabeti, esclusi da ogni forma di vita civile. Tuttavia ciò è confutato dalle zone di pianura come l'Essex e i Paesi Bassi, dove la pazzia fiorì rigogliosa nelle immediate vicinanze di grossi centri urbani. Difatti in molte città-stato tedesche non si poté evitare che la cosa si sviluppasse come un fenomeno urbano . Tali con­ traddizioni inducono a riflettere che non è facile stabilire l'am-

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biente in cui nacquero i processi di stregoneria e che, in una collettività dominata dalle streghe, forse è opportuno conside­ rarne più l 'aspetto sociale che la posizione geografica. È più facile descrivere la classe sociale e il carattere delle vittime dei cacciatori di streghe. Tutte le indagini particolareg­ giate mettono in evidenza il fatto che esse provenivano dai livelli inferiori della società. Era a questi livelli che la supersti­ zione prosperava. « È spaventevole - commentò l 'umanista ita­ liano Galateo quando la paura per le streghe cominciò a filtrare nell'Italia meridionale agli inizi del Cinquecento - come questa bizzarria si sia impadronita di ognuno dopo essersi diffusa dalle classi più misere ». Esistono tutte le ragioni per credere che un periodo di depressione economica poteva spingere alla dispe­ razione spirituale, a una intensificazione della superstizione, a ricorrere apertamente alla fede nel demonio . La prova che ab­ biamo riguardo all'Essex non è molto precisa circa le condi­ zioni economiche o altro delle vittime. Ma un'analisi condotta su 366 casi nella contea di Namur, fra il 1 509 e il 1 646, chia­ risce che la maggior parte di esse apparteneva ai settori meno privilegiati e comprendeva mandriani, prostitute, servi e con­ cubine di preti. A Namur la maggior parte di questi accusati rientrava nella vasta categoria dei rifiuti della società. Ciò non sorprendeva, in quanto in una piccola comunità erano le per­ sone anormali - i vecchi, i deboli di mente, i brutti e talvolta perfino quelli eccezionalmente belli - che diventavano i rnartiri della società. Da un'indagine sulla stregoneria nella regione del Giura è risultato che, durante il periodo in esame, la maggio­ ranza delle vittime era gente di età avanzata e senile, malata, isterica e deforme . Fu il frate italiano Samuele de Cassinis , il primo in tutta l'Europa che denunciò la persecuzione, il quale indicò ai primi del Cinquecento che le cosiddette streghe erano immancabilmente « quaedam ignobiles vetulae, aut personae idio­ tae atque simplices, grossae et rurales »; si trattava insomma di vecchi e di scemi. Come in tutte le persecuzioni , sembrerebbe che le persone meno capaci di difendere se stesse fossero quelle scelte per essere punite. Questo è certamente esatto per quanto riguarda coloro che soffrivano di disturbi mentali e di varie affiizioni patologiche. Ripetutamente medici e clero dichiaravano sana gente del genere, dopo di che essa era passibile di pro­ cesso . I casi di « possesso diabolico » nel convento di Notre-

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Dame de Verger a Oisy ( Artois ) nel 1 6 1 3- 1 5 , nonché nel con­ vento delle orsoline a Loudun in Francia, fanno pensare che le comunità precluse e isolate fossero adatte per ricevere questa forma di visitazione. Tuttavia il fenomeno si verificò anche su scala più ampia, come attestò nel 1 609 Delancre durante la sua missione nella regione di Labourd (Bayonne ) . Là, in un solo villaggio, scoprl « più di quaranta persone affe tte da epilessia a opera degli stregoni e un infinito numero di altre che abbaiano come i cani » . Fu questa gente, povera, bandita, mutilata e malata, che venne accusata di complotti e di delitti talmente terribili che giudici, vescovi e perfino sovrani si scomodarono per parteci­ pare all'opera di sterminio . L'atteggiamento nei riguardi dei reati variava a seconda del tribunale . Se le vittime erano accu­ sate di rapporti con il diavolo, di recarsi al sabba e di rinne­ gare il loro battesimo a favore di Satana, i tribunali ecclesiastici di solito erano inclini alla severità, dato che tutte quelle azioni sapevano di eresia. Se invece l'accusa principale era di avere arrecato danno e ucciso per mezzo dei maleficia, potevano esserne interessati i tribunali secolari. In pratica la gente veniva di solito processata per entrambi questi motivi, mentre i tribunali non si comportavano secondo un criterio generale . Inevitabil­ mente predominavano le accuse di maleficia : le 503 persone, processate dal 1 560 al 1 680 nei tribunali dell'Essex, furono tutte accusate, tranne undici, di avere danneggiato o ucciso esseri umani o i loro beni . Anche da una rapida lettura delle deposi­ zioni nei processi alle streghe risulta evidente che di solito si trattava di reati impossibili e che invariabilmente i prigionieri erano innocenti . Allora perché il gran numero di confessioni volontarie ottenute in Inghilterra e altrove senza ricorrere alla tortura ? Fra le molte eventuali risposte a questa domanda quella seguente, data da un giudice scozzese nel 1 678, rappresenta un esempio : Quando ero giudice supplente andai a esaminare alcune donne che avevano confessato in giudizio e una di esse, la quale era una creatura sciocca, mi disse in segreto che ella non aveva confessato perché era colpevole, ma essendo una povera creatura che lavorava per procurarsi il cibo ed era considerata una strega, sapeva che sarebbe morta di fame, perché da quel momento in poi nessuno le

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avrebbe dato cibo e alloggio ; e che tutti gli uomini l'avrebbero pic­ chiata e le avrebbero aizzato contro i cani, ragione per cui desiderava andarsene dal mondo.

Fu questo martirio voluto dalla società che accelerò le accuse di stregoneria, come era bene a conoscenza dei contemporanei . Le osservazioni di Reginald Scot, un inglese la cui Discoverie of Witchcraft ( 1 584 ) fu uno dei libri più autorevoli scritti contro la pazzia, dimostrano chiaramente fino a che punto sospetti insignificanti, gelosie e pettegolezzi sfociassero poi in un processo penale. Vogliate considerare il modo in cui addossano a loro carico accuse e reati, vale a dire : Ella era da qualche tempo a casa mia, voleva avere una pentola di latte, se ne andò di cattivo umore perché non la ebbe, insultò, maledl, borbottò e sospirò e alla fine disse che sarebbe tornata da me : e subito dopo il mio bambino, la mia mucca, la mia scrofa e la mia pollastrella o morirono o furono presi da stranezze. Anzi (se fa piacere a vostra signoria) ho un'altra prova : ero con una saggia donna e lei mi disse che io avevo una vicina cattiva, che sarebbe venuta a casa mia di n a poco e cosl fece ; e che ella aveva un marchio sopra la vita, e difatti lo aveva : e, che Dio mi perdoni, ho dato di stomaco davanti a lei per un bel pezzo. Prima di lei sua madre era stata considerata una strega, era stata picchiata e graffiata sul viso finché non si è ricoperta di sangue, poiché era stata sospettata, e in seguito è stato detto che qualcuna di quelle persone se ne è pentita. Queste sono cose certe che ho udito dire dai loro testimoni.

La stragrande maggioranza delle presunte streghe erano donne, in genere vecchie. Di conseguenza erano per lo più vedove, sebbene vi fossero anche donne sposate. Le streghe giovani erano rare. Moltissime di quelle donne credevano vera­ mente nei loro poteri magici, e molte erano del tutto convinte di essere trasportate nei sabba e di avere avuto rapporti ses­ suali con il diavolo . Tutto ciò, sul piano della superstizione popolare, non presentava nulla di strano . I contadini italiani dello stesso periodo, i quali credevano nel culto dei benandanti 1 , erano convinti di avere la facoltà di lasciare i loro corpi di notte l Cfr. C. Ginzburg, I benandanti. Ricerche sullfl stregoneria, Torino 1966. [N.d.T. ]

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e di uscire a lottare contro le potenze delle tenebre. Tuttavia quello dei benandanti era un culto puramente locale, tribale, che non aveva nessun collegamento con i maleficia. Ciò che sconcertava i tribunali che giudicavano la stregoneria era il fatto che, caso per caso, gli accusati ripetevano praticamente le stesse storie, e che queste storie si differenziavano pochissimo da un paese all'altro, sicché da un capo all'altro dell'Europa emerse la terrificante visione di centinaia di migliaia di anime non più cristiane, votate al servizio di Satana. I primi sospetti, secondo i quali i sabba erano semplicemente delle riunioni dove si svol­ gevano orge sessuali, furono presto accantonati. Il sesso aveva poco o nulla a che fare con la stregoneria, il cui spirito era tutto rivolto contro il sesso e contro la fecondità. Le presunte orge dei sabba, !ungi dall'essere cerimonie per la fecondità, erano in realtà dei riti per la sterilità : come era ben noto, il rapporto sessuale con il diavolo faceva congelare l'utero . Dato che il processo e la condanna erano soltanto le ultime fasi della procedura contro la stregoneria, è ovvio che la prima fase - la denuncia - era quella critica. Se non vi fossero state reiterate e regolari denunce, le autorità avrebbero dimostrato scarso interesse alle abitudini esoteriche di una minoranza della popolazione . Una recente indagine sulla stregoneria nell'Essex cerca di offrire una spiegazione razionale dell'assetto sociale da cui scaturivano le denunce . « Le accuse di stregoneria - afferma l'autore - si verificavano quando un'etica tradizionale di carità verso il prossimo si stava deteriorando ». In altre parole, la situazione era molto simile a quella delineata da Reginald Scot. I vicini di una comunità smettevano di prestarsi reciproco aiuto : risentimento, gelosia e sospetto facevano nascere le ac­ cuse. Partendo da questa interessante spiegazione, si può affer­ mare che il sacrificio delle classi inferiori, dei poveri e dei disgraziati, era il risultato di un mutamento strutturale dei rap­ porti della comunità. Però se la spiegazione è valida per l 'Essex, è estremamente difficile considerarla valida per la maggior parte dell'Europa durante i due secoli, dal 1 500 al 1 700, in cui si assistette al salire e allo scendere della pazzia per le streghe. Il carattere chiaramente irrazionale e patologico di molte esplo­ sioni di stregoneria fa pensare che le spiegazioni sociologiche da sole non sono sufficienti e richiedono un complemento di inda­ gine sotto il profilo medico e psicologico .

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Un aspetto strano di molte esplosioni di stregoneria consi­ stette nella parte dominante che vi ebbero i bambini. Per parec­ chi casi della città di Valenciennes si trattò di bambini che denunciarono i loro genitori : nel 1590 Jeanne Cuvelier fu denunciata dal figlio, nel 1 662 Catherine Polus di otto anni accusò il padre. Sembra che un'altra esplosione a Chelmsford ( Essex ) nel 1 579 fosse dovuta alle accuse di un bambino ma­ lato, mentre a proposito del famoso caso Warboys la prova d'accusa si basò soprattutto sulla testimonianza di tre bambini , i quali furono accusati dalla loro vittima di « leggerezza » o di malignità . La grave esplosione avutasi in Svezia nel 1 669 si svolse tutta intorno a un gruppo di bambini accusati di strego­ neria. Uno dei casi più noti che mosse dalle accuse di bambini fu quello accaduto a Salem ( Massachusetts ) nel 1 692, che alla fine costò la vita a ventidue persone. Forse il caso più grottesco in cui si trovarono coinvolti dei bambini si verificò in Spagna nel 1 6 1 1 - 1 2 , quando l'inquisitore Salazar si recò in Navarra allo scopo di riconciliare con la Chiesa alcune streghe ree con­ fesse. Secondo quanto egli stesso riferisce, si presentarono 1 .802 persone confessando di essere streghe, delle quali 1 .384 erano bambini al di sotto dei quattordici anni . Fortunatamente per loro, l'inquisizione spagnola aveva deciso di non considerare attendibili le loro dichiarazioni. In altre parti d'Europa spesso i bambini furono giustiziati senza pietà : a Valenciennes la quin­ dicenne Marie Carlier fu segretamente giustiziata all'alba in pri­ gione, per evitare la reazione popolare ; nel 1 657 a Quingey ( Franca Contea ), mentre venivano trascinati sul luogo dell'ese­ cuzione due ragazzi di tredici e di undici anni, uno di loro, rendendosi vagamente conto dell'orrore in cui si era cacciato con le sue dichiarazioni, urlò al giudice istruttore : « Tu mi hai fatto dire cose che non capivo ! » . I problemi connessi all'esame di questi casi vanno molto al di là dei confini puramente socio­ logici. Per capire perché il periodo 1 550- 1 660 fu tanto importante da poterlo considerare senza esitazione come quello della mas­ sima attività per quanto riguarda la pazzia per le streghe, dob­ biamo dare uno sguardo ad alcune cifre. Alcune statistiche sono state sicuramente pompate . Si dice che Nicolas Rémy della Lorena abbia raccolto il materiale relativo alla sua ricerca sul culto demoniaco, pubblicata nel 1 595, avvalendosi dei processi

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carico d i circa 9 0 0 persone, d i cui egli aveva pronunciato la sentenza di morte nel corso dei precedenti quindici anni. Ciò non trova riscontro nei documenti del tribunale : per il periodo dal 1 550 al 1 660 ci troviamo di fronte a un totale minimo ( minimo, tenuto conto di eventuali lacune nei documenti ) di 1 20 sentenze capitali e a un totale di 832 procedimenti . Al presidente del tribunale della Borgogna, Henri Boguet, in carica dal 1598 al 1 6 16, sono state attribuite 600 esecuzioni, ma da un accurato esame della documentazione sono finora risultate con evidenza, per il predetto periodo, soltanto 25 o 26 esecu­ zioni effettive. Sembra quindi probabile che le 600 morti attri­ buite a Delancre nel 1 609, le 600 attribuite al vescovo di Bam­ berg dal 1 622 al 1 6 3 3 , nonché le 900 attribuite al vescovo di Wiirzburg all'incirca nello stesso periodo, possano essere tutte esagerazioni grossolane. Vi sono però delle cifre di entità rela­ tiva che non è possibile controllare. A Wiirzburg, tra il 1 627 e il 1 629, furono giustiziate in totale 1 5 7 persone distribuite in 29 roghi . Le vittime compren­ devano tre canonici, quattordici sacerdoti aggiunti, la vedova del Cancelliere della diocesi, parecchi consiglieri municipali , la più bella ragazza di Wiirzburg, molti bambini dai nove ai dodici anni, quattro locandieri, molte vecchie e via di seguito . In Inghilterra si sa che, tra il 1 560 e il 1 680, soltanto presso la corte d'Assise dell'Essex morirono 1 1 0 persone accusate di stregoneria ; molti altri decessi non furono registrati . A Ginevra , fra il febbraio e il maggio 1 545, vennero giustiziate complessi­ vamente 34 persone, pari a circa una ogni tre giorni . I docu­ menti dell'Alta Corte di Edimburgo, relativi al Cinquecento e al Seicento, contengono l'elenco di circa 1 .800 casi di strego­ neria. Su scala più ridotta, esaminiamo il villaggio di Winningen ( 300 abitanti ) nell'arcivescovado di Treviri . Risulta che in questa piccola località, tra il 1 63 1 e il 1 6 6 1 , siano state processate per stregoneria almeno 3 4 persone, di 28 delle quali si sa con cer­ tezza che sono state giustiziate. In tutti i 34 casi, tranne uno , fu usata la tortura . Winningen era un centro di poco conto, senza alcuna fama eccezionale di culto per il diavolo . Altre città della zona furono ugualmente preda della pazzia . In altri otto villaggi del luogo, tra il 1 629 e il 1 652, furono bruciate per stregoneria complessivamente 26 persone . La massima incidenza della persecuzione si ebbe a Treviri nel periodo 1 587-9 3 , quando a

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in 27 villaggi dell'arcivescovado furono bruciate vive comples­ sivamente 368 persone accusate di sortilegio. Distribuita in un ampio arco di tempo, la somma totale dei casi si riduce a una media annua irrisoria. Ma fare il calcolo delle medie significa andare completamente fuori strada, poiché la pazzia per le streghe esplodeva in modo discontinuo, quasi irrazionale. Di conseguenza è impossibile tracciare uno schema o seguire un ritmo della persecuzione. Presso l'arcivescovado di Treviri i casi non cominciarono in realtà anteriormente al 1 59 1 . Nell'Essex l'anno di massima attività fu i l 1584. I n Lorena e a Namur la quantità dei casi conosciuti giudicati dai tribunali, ragguagliata in quinquenni, traccia quasi una curva nella fig. 1 8 . Anche s e l e curve non rappresentano u n modello, mettono in evidenza che il periodo di più intensa attività processuale fu quello compreso tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento. A questo punto diventa essenziale definire cto che inten­ diamo per « pazzia per le streghe » . Vogliamo dire che tutt'a un tratto migliaia di vecchie inasprite abbiano incominciato a farsela con il diavolo, o abbiano creduto di farlo ? Oppure in­ tendiamo dire che tutt'a un tratto migliaia di preti e di giuristi fanatici si siano messi a inventare frottole sul conto di inno­ centi e abbiano cominciato a giustiziarli ? Posto in un altro modo , il problema si riduce a questo : vi fu realmente un aumento nella pratica della magia nera, oppure vi fu puramente e sem­ plicemente un aumento dell'azio n e legale contro questo presunto delitto ? Alcuni, come Henry Charles Lea, hanno insistito sul fatto che l'intero fenomeno fu un isterismo inventato dai teologi e dai giuristi, sicché non esistette una vera pazzia per le streghe se non nella mente delle autorità . Forse la prova più rilevante addotta da Lea a sostegno di questa tesi fu il suo resoconto in merito all'atteggiamento dell'inquisizione spagnola, che dap­ prima aveva adottato le solite misure sanguinose e repressive, ma poi, dopo un famoso autodafé nel 1 6 1 0 arrivò alla conclu­ sione che le confessioni di arte diabolica erano semplici fan­ tasie, stimolate dall'interesse ufficiale . Un'inchiesta svolta dal­ l'inquisitore Alonso Salazar de Frias concluse che « finché non se ne è parlato e scritto, non sono esistiti né streghe né stre­ gati ». Vale a dire che la stregoneria esisteva soltanto se fosse

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stata messa sotto processo . Di conseguenza, l'inquisizione spa­ gnola si rifiutò di processare le « streghe », tanto che dopo il 1 6 1 0 in Spagna non fu giustiziata neppure una strega. La possi­ bilità che l'intera pazzia fosse il triste effetto di menti fanta­ siose e dotte, che riunivano insieme informazioni frammentarie e intentavano poi un processo contro i presunti stregoni, risulta in modo chiaro perfino da una lettura superficiale dei processi celebrati in Europa contro le streghe. Tuttavia, sostenere insieme a Lea che l'accusa da parte della magistratura era la causa principale, non spiega i motivi dei magistrati . I grandi cacciatori di streghe incoraggiarono deli­ beratamente un mito per la propria cupidigia, oppure per il loro fanatismo personale ? Quanto alla cupidigia, esistono delle prove : nel 1 626 un francese dichiarò di essersi trovato in una certa città della Lorena « dove vi era moltissima gente accusata di strego­ neria e, si diceva, veniva giustiziata soltanto quella che aveva qualcosa da perdere » . Ma l'avidità non fu mai un motivo im­ portante, in quanto la grande maggioranza delle vittime era poverissima. Mercenari corrotti come Matthew Hopkins in In­ ghilterra si procurarono denaro non dagli accusati ma per via del premio offerto per ogni arresto . Tutti i grandi persecutori - Delancre, Boguet, Rémy - o i grandi teorici - Giacomo I d'Inghilterra e Bodin - nutrirono soltanto dei sommi ideali . Nicolas Rémy era un uomo gentile e schivo, dedito alla sua famiglia numerosa e affezionata, che si immergeva nella lettura della storia e nella composizione di versi francesi e latini . Bodin ebbe cura di controllare alcuni dei suoi dati con i documenti processuali prima di inserirli nel suo libro . Nei riguardi almeno di tutti i personaggi più importanti di questa storia, la loro reputazione non presenta macchie, né abbiamo la prova che la pazzia per le streghe fosse inventata o deliberatamente fomen­ tata dalle autorità. Tuttavia, la teoria dell'invenzione non può essere del tutto respinta, essendovi stati soprattutto tre modi in cui un con­ cetto talmente assurdo come quello del sabba avrebbe potuto essere accettato come una realtà . In primo luogo, gli inquirenti potrebbero avere messo le parole in bocca ai loro prigionieri . La gente anziana e sprovveduta potrebbe essersi facilmente smarrita in seguito a un abile interrogatorio. In secondo luogo , può darsi che il sabba sia stato prodotto dalla tortura . Lea di-

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mostra in modo convincente che la stregoneria e il sabba sem­ bra che proliferassero ovunque sia stata applicata la tortura, mentre i sussulti della pazzia sembrano coincidere con l'impiego della tortura nei casi di « stregoneria » . Secondo il suo punto di vista, l'Inghilterra fu esente dal sabba poiché non vi era appli­ cata la tortura : il sabba vi fece la sua prima autentica appari­ zione nel 1 645, quando Hopkins usò una forma di tortura . La terza possibilità, che si trattasse di invenzione, è data sempli­ cemente dall'autoinganno : isterismo e autosuggestione. Tranne che credere effettivamente nel personale intervento visibile del diavolo nelle faccende umane, dobbiamo prendere sul serio questa categoria, in quanto era una di quelle vaste e importanti. Ma anche una spiegazione dell'autosuggestione sul piano psi­ chiatrico ci lascia nella difficoltà di accertare perché essa assunse la forma della credenza nella stregoneria. Il diffuso carattere del sortilegio di « corte » può essere identificato con la teoria secondo la quale la stregoneria fu « inventata » o « imposta » dall'alto . Sembrava che il sortilegio nelle alte sfere registrasse un aumento netto e sospetto ogni volta che si verificavano crisi politiche. Le principali esplosioni di pazzia in Scozia e in Inghilterra rientrano in questa categoria. La prima grave esplosione di stregoneria a livello nazionale in Scozia accadde negli anni 1 590-9 7 , un periodo durante il quale il conte di Bothwell venne accusato di « consultarsi con le streghe [ . . . ] per tramare la morte del re » . Dopo la fuga di Bothwell dal castello di Edimburgo nel 1 59 1 , il proclama ema­ nato contro di lui dichiarava che egli aveva tenuto « consulto con chi esercita la negromanzia, con le streghe e con altre per­ sone malvage ed empie » . Non occorre dire che, durante questa crisi, parecchi avversari politici furono giustiziati come stregoni. Le altre due grandi crisi di stregoneria nella storia scozzese - negli anni 1 640-50 e 1 660-63 - ebbero entrambe molto a che fare con la politica interna. In Inghilterra il periodo prin­ cipale per i processi di stregoneria fu il regno di Elisabetta, durante il quale la paura per la vita della regina dominò tutto il comportamento del consiglio privato. Qualunque diceria si levasse nel paese riguardo alla stregoneria veniva immediata­ mente riferita al consiglio ed esaminata attentamente come in­ dice di complotto contro la regina . Le trame in cui negli anni 1 568-7 1 fu coinvolta Maria di Scozia furono gravemente intor-

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bidite per la presenza della stregoneria. Alla fine il consiglio trasferl tutta la giurisdizione in merito a questo reato dai tri­ bunali ecclesiastici a quelli dello Stato. In Francia Richelieu denunciò come stregone il suo avversario politico Luynes . « È estremamente verosimile - riferl il cardinale - che Luynes abbia fatto uso di incantes1m1, grazie ai suoi rapporti con due celebri maghi, i quali gli hanno dato delle erbe da mettere nelle pantofole del re e della polvere da mettere nei suoi vestiti » . I giudici del re non furono da meno nel preoccuparsi della sicurezza di sua maestà : nel 1 63 1 condannarono alle galere a vita, per il delitto di lèse-majesté, uomini « i quali ave­ vano fatto pronostici e oroscopi contro la vita del re ». Nella Russia di Ivan il Terribile la stregoneria imperversava . Il prin­ cipe Kurbsky, l'avversario del momento dello zar, attribul la grande persecuzione di Ivan contro i suoi nemici degli anni intorno al 1 560 a una vera o presunta paura della stregoneria. Riferisce Kurbsky: « Non c 'è mai stata prima d'ora una così inaudita persecuzione » . Purtroppo non possediamo dati relativi al terrore delle streghe nella Moscovia. È noto che zar come I van III e Basi! Suisky facevano ricorso alle streghe e che lo stesso Kurbsky credeva alla stregoneria. Una fonte russa del­ l'epoca ammetteva che « i russi sono attirati dalla stregoneria e vi si dedicano » . L'alternativa alla teoria di una credenza imposta è quella che realmente ci fosse un aumento sia nella pratica che nella credenza. « Da dove viene la strega? », si chiedeva Michel .!t nella sua inchiesta La sorcière. « Lo dico senza esitazione : dai periodi di disperazione ». La stregoneria, affermava Michelet , traeva origine dalle epoche d i depressione, sia economica che personale . La stregoneria compariva di solito in tempo di guerra, di carestia, di crisi economica e sociale, di perdita della fede, della certezza e dell'orientamento . Di qui le grandi cacce alle streghe durante le guerre civili in Francia, durante la guerra dei Trent'anni in Germania e durante l'opricnina in Russia . Anche Brouette, il cui lavoro sulla contea di Namur è una delle poche indagini scientifiche che possediamo sulla stregoneria, afferma che « l'apparizione e lo sviluppo del satanismo sono connessi con le disgrazie subite dagli abitanti di un paese » . S e ciò s i intende nel senso delle disgrazie materiali, esistono innumerevoli esempi a sostegno di questa tesi . La testimonianza

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di Galateo riguardo all'Italia del Cinquecento, secondo la quale le fantasticherie si diffondevano in mezzo alle « classi più mi­ sere », può trovare sostegno nei casi avvenuti altrove. Nelle zone rurali devastate dalla guerra e dalle ristrettezze alimentari la popolazione poneva prontamente le sue speranze nell'uso di metodi straordinari e mandava al martirio coloro nei quali ve­ deva personificati i suoi mali . Uno degli esempi più esplicativi e orribili si può trovare nella regione di Digione dilaniata dalla guerra, nel 1 644 . Un pazzo proveniente dal villaggio di Arcée compì un'escursione a caccia di streghe attraverso la regione di Flavigny. Dovunque andasse, riferì un parroco locale, gli abi­ tanti dei villaggi gli si asserragliavano intorno, mentre lui « li esaminava e indicava questo o quell'altro come strega o stre­ gone, i quali venivano immediatamente catturati e immersi [ cioè nell'acqua del giudizio di Dio ] , finendo per morire du­ rante il procedimento . Altri accendevano i forni e vi gettavano tutti quelli che egli accusava di stregoneria ». Fu questa acco­ glienza pronta e disperata della realtà della stregoneria che diede a Matthew Hopkins ampia possibilità di manovra nell'Inghil­ terra meridionale durante il periodo 1 645-4 7 . Non si trattò del fatto che le masse si votassero letteralmente alle arti diaboliche, bensì che nelle loro sofferenze videro la presenza attiva del diavolo in modo più chiaro di prima, sicché da questa perce­ zione nacque la ferocia con la quale sterminarono i servi di Satana. In ogni paese europeo le persecuzioni contro le streghe scoppiarono nella maniera più violenta nei periodi di calamità. Vista da lontano, l'uguaglianza fra crisi e stregoneria diviene anche più impressionante. Fu proprio durante il periodo in cui si ebbe il massimo rialzo dei prezzi - tra la fine del Cin­ quecento e gli inizi del Seicento - che si registrò il più alto numero di casi di accusa e di persecuzione contro le streghe . Sviluppando il punto di vista di Michelet in termini non sostanziali, risultano possibili almeno due distinte maniere per avvicinarsi a una spiegazione della persecuzione. Da un lato la stregoneria può essere identificata con l'avvento delle eresie della Riforma, dall'altro con l'avvento dell'irrazionalità. Fu il dome­ rucano tedesco Sprenger, co-autore del Malleus Maleficarum, il quale nel Quattrocento affermò che la stregoneria era eresia pura e semplice. In un brano vivace e stravagante di scienza libresca, sostenne che la parola maleficium « viene da malefi-

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ciendo, che significa male de fide sentiendo

», ossia, in altre parole, eresia . Gli storici posteriori, compresi tutti i più impor­ tanti studiosi tedeschi della pazzia per le streghe, furono d'ac­ cordo sul fatto che la coincidenza della persecuzione delle stre­ ghe con quella degli eretici rivestiva un certo significato . In realtà, molti dei cosiddetti processi alle streghe furono, se fac­ ciamo attenzione ai dibattiti, dei processi di eresia : gli accusati venivano processati soprattutto per avere rinnegato il battesimo, per avere rifiutato i sacramenti e via di questo passo . Prose­ guendo nella discussione, questa circostanza giova a spiegare la parte avuta dai gesuiti e da altri eminenti personaggi religiosi, come Calvino, nell'azione di sterminio delle streghe . Il ruolo speciale assegnato al diavolo ( ricordiamoci che Lutero gli scagliò addosso un calamaio ) fu un aspetto essenziale di quest'epoca di intenso conflitto religioso . Solo quando l 'Età della Fede cedette il passo all'Età della Ragione la persecuzione si estinse . Il ragio­ namento ha la sua importanza, ma non sempre è convincente. Per esempio, in Spagna scoppiarono vaste persecuzioni contro le streghe, a Calahorra e in Catalogna, almeno una generazione prima delle cacce agli eretici . Se il ragionamento presenta dei limiti nello spiegare la persecuzione in generale, di sicuro serve a spiegare la sua intensità in determinate epoche. L'avvento dell'irrazionalità può essere avvertito attraverso tutta la cultura dell'epoca. Come sistema per spiegare la pazzia è del tutto inadeguato, in quanto non tiene conto dei conflittt sociali inerenti al fenomeno della stregoneria. Però induce forte­ mente a pensare che l'accoglienza favorevole alla credenza nella stregoneria rendesse la persecuzione accettabile perfino alle per­ sone colte. Per costoro, inoltre, non esisteva contraddizione tra stregoneria e ragione. La grande ricerca nel campo della cono­ scenza era ancora soltanto una continuazione della ricerca della pietra filosofale. Con Napier a Edimburgo torniamo a usare i logaritmi per calcolare il numero della bestia dell'Apocalisse . Lo slancio di attività intellettuale che distinse l'epoca fu per­ meato, forse più che mai, dalla magia, dal fare ricorso alle fonti al di là dell'empirismo . Per quale altra ragione gli scienziati ricorsero all'alchimia, all'astrologia e alla magia con una pas­ sione mai conosciuta durante il Medioevo ? Perché Bosch e Brueghel il Vecchio occupano un posto cosl importante nell'arte dell'epoca, la cui iconografia pullulò di mostri e di demoni ?

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Allora non fu per caso che nel 1587 la tradizione di Faust fece il suo ingresso nella stampa in Germania, per essere tradotta in olandese e in inglese nel 1592, in francese nel 1 5 9 8 . Faust non era un pedante reazionario. Fu proprio il suo odio per le scuole e l'amore per la ragione a spingerlo ad allargare i con­ fini della conoscenza. Allo stesso modo fu l'amore per la ragione che guidò lo scienziato inglese Joseph Glanvil nel suo Saddu­ cismus triumphatus ( 1 66 6 ) a sostenere la realtà della stregoneria, che egli era persuaso che fosse una valida materia di ricerca come qualsiasi altra . Si può dire che questo strano mondo intel­ lettuale è la prova che l'irrazionalità della stregoneria non fosse un'attività marginale ma facesse parte integrante di questo clima intellettuale. Tuttavia, accettare l'irrazionalità come norma rende del tutto più difficile classificare le opinioni dei più importanti av­ versari della persecuzione . L'inquisizione spagnola e quella ro­ mana erano note per essere contrarie alla pena di morte. Anche la Chiesa ortodossa in Russia si oppose alle esecuzioni . Si deve pensare che queste istituzioni fossero illuminate? Nel 1 6 1 1 due donne di Milano, le quali confessarono di avere avuto rapporti sessuali con Satana, di avere commesso omicidi e altri reati inqualificabili , furono condannate dagli inquisitori a una breve prigionia . In molti paesi, che non fossero stati sotto il giogo dell'inquisizione, esse avrebbero patito la morte . Inoltre, quale significato aveva il fatto che alcuni dei più autorevoli opposi­ tori della persecuzione fossero cattolici ? Per esempio, uomini come de Cassinis ( Questione de la strie, 1 505), Adam Tanner e Friedrich von Spee ( Cautio criminalis, 1 63 1 ). Il più famoso di tutti gli oppositori fu il medico calvinista del duca di Clèves, Johann Weyer, u n olandese il quale nel 1 563 pubblicò a Basilea De praestigiis daemonum. Nella prefazione della sua opera Weyer spiega che « io lotto con la ragione naturale contro le insidie che provengono da Satana e dalla folle immaginazione delle cosiddette streghe. Il mio scopo è anche di carattere medico, in quanto dimostro che le infermità che vengono attribuite alle streghe provengono da cause naturali ». Né i cattolici né i cal­ vinisti furono necessariamente degli oscurantisti. L'indagine storica della stregoneria continua a sollevare pro­ blemi per i quali non si dispone di risposte sicure. L'analisi interna della stregoneria non rappresenta il problema più impor-

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tante. La sua natura patologica era riconosciuta già nel Cinque­ cento ed è stata studiata esaurientemente nel caso della Lorena da Delcambre. Il problema che sussiste è quello esterno : perché il sorgere e il calare della persecuzione coinciderebbe con l'inizio dell'età moderna? Quali forze sociali, quali mentalità collettive fecero di questa epoca di crisi anche un'epoca di irrazionalità?

La pratica della religione e il progresso dello scetticismo. Il crollo della Chiesa durante il Medioevo e il successo dello spirito di setta durante il Cinquecento inducono a domandarsi se i mutamenti rispecchiano effettivamente un aumento o una diminuzione nella pratica religiosa. L'epoca della Controriforma fu veramente un'epoca di fede ? Oppure i cambiamenti furono più facilitati, perché il sentimento religioso degli uomini si era affievolito ? Accostandoci a un secolo in cui il cambiamento ideologico era diffuso, qualunque definizione di « irreligione » non può essere applicata in senso troppo stretto, in particolare perché tutte le Chiese insistevano nell'accusarsi vicendevolmente di ateismo e di idolatria. Può darsi che durante il Medioevo l'anti­ clericalismo sia stato un indice di irreligione, ma già nel Cin­ quecento esso era diventato una risorsa mentale dei radicali della religione e, di conseguenza, è molto difficile identificarlo con la mancanza di fede. Per esempio, nell'Inghilterra puritana l'anti­ clericalismo imperversava proprio fra quelle persone che crede­ vano di essere in diretto rapporto personale con Dio . Anche la frequenza in chiesa e al sacramento della comunione nei paesi cattolici non rappresenta una base attendibile, non solamente perché i dati relativi sono insufficienti, ma anche perché fu sol­ tanto dopo il Concilio di Trento che la frequenza domenicale divenne obbligatoria e fu incoraggiata la comunione regolare . I dati relativi alla comunione pasquale non costituiscono una vera indicazione in merito allo stato della fede o della pratica religiosa, dato che la pressione morale e sociale all'ubbidienza, specialmente nelle zone rurali, era fortissima. In ogni caso, quasi ogni persona adulta appartenente a una parrocchia catto­ lica si comunicava a Pasqua. È appena da dubitare che esistesse un elevato grado di in-

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differenza nei riguardi della religione di Stato . In quale altro modo i profondi cambiamenti di professione di fede durante il Cinquecento, che in alcune regioni provocarono un rapido avvi­ cendamento tra le principali fedi cristiane, poterono essere por­ tati a buon fine con tanto successo ? In quale altro modo la superstizione della magia - presumendo che essa esistesse effet­ tivamente e non fosse attribuita alle masse - poté prevalere in mezzo a cosl tante comunità dell'epoca ? Di solito si ritiene che i cambiamenti e la superstizione fossero entrambi i prodotti di un'epoca di fede e di credulità intense : ma non poteva darsi che fossero anche il frutto dell'incredulità? La religione della massa del popolo è quasi inaccessibile per lo storico . Sembra che coloro i quali conducevano un'esistenza ordinata sia in città che in campagna abbiano praticato con regolarità la loro fede, con la presenza in chiesa e recitando le pubbliche preghiere della loro religione. Nei paesi cattolici la norma della regolarità della vita cristiana era la frequenza della messa, nei paesi protestanti la chiesa e il pulpito si associavano per persuadere all'osservanza, in quanto, come fece notare una volta Carlo I d'Inghilterra a suo figlio, « in tempo di pace il popolo si governa più dal pulpito che con la spada » . Erano le classi senza fissa dimora, in modo speciale i poveri e i senza tetto, che avevano poco o nessun contatto con la religione . Dato che esse rappresentavano oltre un quinto della popolazione delle città, esiste ogni possibilità che l'irreligione fosse una caratte­ ristica significativa della vita quotidiana. Perfino nella campagna i poveri raramente erano in regolare contatto con la Chiesa. Uno strano caso viene riferito da un gesuita che nel 1 55 3 scri­ veva dal Périgord: « Nei pressi di Bordeaux si estendono circa trenta leghe di bosco, i cui abitanti vivono come bestie selva­ tiche, senza alcuna preoccupazione per le cose celesti . È possi­ bile imbattersi in persone di cinquant'anni le quali non hanno mai ascoltato messa, né appreso una sola parola di religione » . Nel 1 69 8 ( un periodo i n cui non v i era carenza d i preti ) un parroco nella zona di Rouen raccontò che « ci sono molti poveri e gente del genere che non appartengono alla parrocchia, che sono molto sregolati e stanno molti anni senza confessarsi » . S i potrebbe pensare che i l « disordine » d i questa gente fosse dovuto a circostanze puramente fortuite e non a un atto cosciente di apostasia. Ma l'atteggiamento dei poveri di città fa pensare

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proprio a un atto di diserzione del genere . Lo storico Henri Sauval del Seicento, il quale conosceva la sua Parigi nei minimi particolari, attestò che i mendicanti di Parigi non avevano mai messo in pratica il matrimonio, né fatto ricorso ai sacramenti. Nella Corte dei Miracoli avevano una statua davanti alla quale pregavano, ma si trattava della loro unica concessione alla super­ stizione ; e quando entravano in Chiesa lo facevano soltanto per tagliare le borse. Quando nel 1 595 la polizia arrestò a Roma un giovane mendicante, costui li informò che essi ( i mendicanti ) non erano bene intenzionati nei riguardi della fede: « Pochi di noi la praticano, perché la maggior parte di noi è peggio dei luterani ». L'autore spagnolo Pedro Ord6fiez, a proposito dei vagabondi delle città osservò, scrivendo nel 1672, che « vivono come barbari, perché non si sa né si è visto che si rechino a messa, a confessarsi o a comunicarsi » . Sotto certi aspetti l'incredulità aveva una dimensione molto più vasta di quello che fanno pensare queste osservazioni . Al­ cune minoranze razziali, per esempio gli zingari, non erano nor­ malmente impegnate con la religione cristiana. Le superstizioni pagane si attardavano ancora tra i boschi e le montagne del­ l'Europa centrale e nelle remote località della Scandinavia. Per­ fino nella cittadella dell'ortodossia, la Spagna, esisteva abba­ stanza resistenza nei riguardi della religione ufficiale da tenere occupata l 'inquisizione . I discendenti degli ebrei convertiti, i conversos, erano apertamente ostili alla fede da essi formalmente professata. I numerosi casi registrati di sacrilegio e di empietà, ad esempio come quello di un uomo che urinò sulle mura della chiesa o dell'altro che sputò sul pavimento all'elevazione del­ l'ostia, stanno a dimostrare una tradizione di odio imperituro contro il cattolicesimo . Nelle regioni in cui vivevano i moriscos, il viaggiatore poteva fermarsi e chiedersi perché, alla vigilia del digiuno musulmano, ogni dimora in vista rimanesse con le im­ poste chiuse e non si vedesse anima viva : questo fra un popolo cristiano di nome. Ma la religione degli stessi castigliani era messa in discussione dai contemporanei . Ai primi del Cinque­ cento Guicciardini, quando giunse in qualità di ambasciatore di Firenze, concluse che gli spagnoli erano « molto religiosi nelle apparenze e nell'aspetto esteriore, ma non altrettanto nei fatti ». Nel 1 563 il ministro plenipotenziario veneziano Tiepolo usò quasi le stesse parole. Costoro erano testimoni ostili, di

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cui non ci si può facilmente fidare. Tuttavia in Spagna non mancarono dei liberi pensatori, fra i quali un farmacista arre­ stato nel 1 707 dall 'inquisizione a Laguna ( Tenerife ) . Si dice che abbia detto « che si poteva vivere in Francia perché là non esisteva la povertà e l'assoggettamento che oggi esiste in Spagna e in Portogallo, perché in Francia non cercano di scoprire o di farsi un dovere di sapere chi sia ognuno e quale religione abbia e professi . Sicché chi vive comportandosi bene e gode di buona reputazione può diventare ciò che desidera » . L'opinione del farmacista riguardo alla Francia non era del tutto esatta. I miscredenti dichiarati vi venivano processati con altrettanta prontezza, specie se appartenevano alle classi inferiori o alla bassa borghesia. Però era vero che si concedeva una con­ siderevole libertà agli scettici appartenenti ai ceti alti che, a dire la verità, erano molto numerosi . Il Seicento fu in Francia un secolo di santi, ma anche di increduli. In Francia La Noue osservò in quel periodo che « sono state le nostre guerre di religione a farci dimenticare la religione » . Ai primi del Sei­ cento le sfere governative erano dei focolai di scetticismo o, come veniva definito, « libero pensiero ». Molti fattori contri­ buirono a questo modo di pensare : le guerre recenti, l'anticle­ ricalismo, la nuova coesistenza tra cattolici e protestanti pro­ mossa dall'editto di Nantes, la corte epicurea di Enrico IV, fra gli altri. Alcuni trassero un guadagno dalla loro irreligione, come Jérémie Ferrier, un pastore ugonotto, il quale abiurò la sua fede nel 1 6 1 3 , riscosse cospicue pensioni in qualità di prete fino alla sua morte avvenuta nel 1 626 e dichiarò che per quat­ tordici anni aveva predicato Cristo senza crederci. La maggior parte dei miscredenti teneva nascoste le sue convinzioni. Cosa consigliabile, specie dopo l'enorme scandalo del 1 62 3 , quando il poeta Théophile de Viau fu arrestato per empietà e più tardi condannato a morte, una sentenza che in seguito venne commu­ tata in esilio. Come dichiarò Pierre Bayle, il risultato fu che molti « muoiono come chiunque altro, dopo la confessione e la comunione » . « L'incredulità - scriveva nel 1665 il Sieur de Rochemont - ha le sue leggi di prudenza » . La perdita della fede era necessariamente accompagnata dall'ipocrisia e dalla finzione . I più famosi scettici francesi provenivano dalle file degli intellettuali che frequentavano le accademie letterarie di quel

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periodo, come l 'Hotel de Rambouillet ; oppure le accademie filo­ sofiche, la più eminente delle quali fu quella dei fratelli uma­ nisti Dupuy, che per ventotto anni, dal 1 6 1 7 al 1 645, si riunl nel palazzo del presidente de Thou . Purtroppo la parola ' scet­ tico ' è inadeguata, al pari di ogni altra, per descrivere il modo di pensare generale di quegli intellettuali, il cui « libero pen­ siero » era in realtà nient 'altro che uno scetticismo limitato, o pirronismo. Due dei più celebri scettici, Gabriel Naudé ( 1 6001 653 ) e Guy Patin ( 1 60 1 -72 ), erano medici ; nessuno dei due era ateo. Patin non ripudiò la fede ; anzi, egli faceva una distin­ zione fra il regno della fede e quello della ragione, assegnando a ciascuno i suoi giusti confini . Pierre Gassendi ( 1 592- 1 65 5 ) fu forse i l più paradossale degli scettici, dato che era u n prete che celebrava regolarmente messa, ma era anche uno dei liberi pensatori più in vista. La difficoltà nel classificare questi e altri importanti pensatori come parte del processo di sviluppo dello scetticismo risiede nel fatto che pochi di loro ripudiarono il cri­ stianesimo come sistema . Di solito essi accettavano la legitti­ mità della fede, in quanto questa era al di sopra della cono­ scenza ; ma essi sentivano che tutta la conoscenza dovesse essere assoggettata alle leggi ferree del dubbio. Per tutto questo periodo il principale influsso intellettuale sulla Francia fu esercitato dall'Italia, in quanto era qui - a Venezia, a Padova, a Roma e a Firenze - che si attingeva alle fonti umanistiche . Giudizi severi furono emessi dai fran­ cesi nei confronti dell'Italia. Il verdetto di Naudé fu il se­ guente : « È un paese di bricconi e di superstiziosi ; alcuni non credono abbastanza, altri credono troppo ». Egli dichiarò inoltre che « l'Italia è piena di liberi pensatori, di atei e di gente che non crede a niente » . Questa sorprendente osservazione, anche se si tratta chiaramente di una esagerazione, è un salutare pro­ memoria del fatto che in Italia l 'entusiasmo umanistico del Rinascimento era ancora vivo fra il fior fiore della società. Gior­ dano Bruno offri ai suoi lettori la visione di un universo del tutto anticristiano . L'uomo, personificato da Bruno, aveva rag­ giunto un nuovo orizzonte : Or ecco quello, ch'ha varcato l'aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decime ed altre, che vi s'avesser

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potuto aggiongere, sfere, per relazione d e vani matematici e cieco veder di filosofi volgari; cossì al cospetto d'ogni senso e raggione, co' la chiave di solertissima inquisizione aperti que' chiostri de la verità, che da noi aprir si posseano, nudata la ricoperta e velata natura, ha donati gli occhi a le talpe, illuminati i ciechi che non possean fissar gli occhi e mirar l'imagin sua in tanti specchi che da ogni lato gli s'opponeno, sciolta la lingua a' muti che non sapeano e non ardivano esplicar gl'intricati sentimenti, risaldati i zoppi che non valean far quel progresso col spirto che non può far l'ignobile • e dissolubile composto . . . l .

Le cose della fede cristiana e del 1 suo Dio non rientravano in questo disegno . Naudé ci informa che fra i liberi pensatori italiani vi era Hieronymus Borro, professeur de philosophie à Pise, [ .. ] fort chéri du Gran-Due; c'étoit un athée parfait; il n'a pas été brulé, mais il le méritoit bien . Il avoit dit un jour que supra octavam sphaeram nihil est. L'inquisiteur le voulut obliger de se dédire : il monta en chaire le lendemain et dit à ses auditeurs : « Messieurs, je vous ai maintenu et prouvé que supra octavam sphaeram nihil est. On veut que je me dédise ; je vous assure que s'il y a autre chose, ce ne peut étre qu'un plat de macaroni pour M. l'inquisiteur » . Quo dieta, se fuga proripiens, saluti consuluit. Il eut été brulé plusieurs fois sans le Gran-Due qui l'aimoit 2• .

In realtà alcuni furono messi al rogo. Bruno vi morì a Roma nel febbraio del 1 60 0 ; Giulio Cesare Vanini ( 1 585- 1 6 1 9 ), un sacerdote napoletano e già medico di Clemente VIII, fu bruciato fuori del suo paese, a Tolosa. Tommaso Campanella ( 1568- 1 6 3 9 ) scampò per u n pelo l'esecuzione, ma fu messo i n prigione per ventisette anni e torturato sette volte . Nonostante il loro appa­ rente richiamo alla ragione, come nuova base del loro accosta­ mento al cristianesimo, questi pensatori e altri come loro - per esempio Cesare Cremonini, un professore di Padova, il quale fu denunciato al Santo Uffizio nel 1 604 in realtà si ispirarono alle fonti pagane antecedenti al cristianesimo. La loro prospettiva non era necessariamente rivolta verso l 'Età della Ragione; si -

1 Cfr. Frances A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari 1969, p. 261 . [N.d.T.] 2 Cfr. G. S pini , FJcerca dei libertini, Roma 1950, pp. 3 1-2 . [N.d.T. ]

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basava saldamente sulle tradizioni, sui miti e sulla filosofia esote­ rica di un'epoca passata. Per sfuggire alla sfera dogmatica creata dalla filosofia cristiana e da s. Tommaso d'Aquino, essi rievoca­ rono gli antichi dèi, le arti perdute e i riti segreti . Per sfuggire a una religione, ne crearono un'altra, segnatamente il culto ma­ gico del sole, cui Bruno e Campanella prestarono fede . Lo scet­ ticismo incominciò con una mistificazione. Fu in quest'epoca di dubbio assillante e crescente che i mi­ stificatori, i quali sostennero sempre di essere dalla parte della ragione, fecero ricorso a superstizioni più antiche della fede che intendevano sostituire. La massoneria, che divenne storicamente rilevante soltanto all'inizio del Seicento , attirò molti a causa del suo sottinteso accesso a una conoscenza da lungo tempo rimasta nascosta . Ecco cosa indusse l 'antiquario inglese dottor William Stukely a unirsi al movimento e « a essere iniziato ai misteri della massoneria, avendo l'impressione che fossero le reliquie dei misteri degli antichi ». In un certo senso questo spirito po­ trebbe essere ritenuto razionalista, perché implicava la ricerca delle verità umane indipendentemente dalla Rivelazione . Il dif­ fuso appello alla magia e al cabalismo, che accompagnava l'al­ lontanamento dalla tradizione cristiana, fu una caratteristica del Rinascimento e penetrò sia nel pensiero che nell'azione di molti dotti del tardo Rinascimento . La tendenza non era considerata in conflitto con il cristianesimo sotto nessun aspetto formale, ma la credenza in una conoscenza segreta e il fare ricorso alle associazioni segrete degli adepti e degli iniziati era palesemente in disaccordo con la disciplina ufficiale. Forse la più importante delle « società » che misero in pratica la nuova mistifìcazione fu quella dei Rosacroce . Sembra che costoro non siano realmente esistiti, nel senso di una società e dei suoi membri . La prima pubblicazione che ne annunciava l'esistenza, la Fama Fraternitatis ( 1 6 1 4 ), fu se­ guita da altre, ma non fu mai offerta traccia dei loro autori né dell'attività della loro società. Al suo apparire la Fama creò una diffusa eccitazione fra gli intellettuali . In Germania, sua patria d'origine, fu letta con avidità e presto portata in altri paesi. Nel giro di tre anni circolava in tre diverse edizioni, come pure in molte traduzioni straniere . Molti di coloro che inseguivano la conoscenza cercarono di unirsi all'ordine, ma non riuscirono a mettersi in contatto con nessuno dei membri conosciuti. Descar-

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tes , che nel 1 6 1 9 viveva a Francoforte, fu uno di costoro : dopo tentativi inutili, concluse che l'ordine non esisteva. Alla fine del secolo, Leibniz dichiarò che si trattava di una finzione. Tuttavia, il vero significato dei Rosacroce non sta nella loro realtà, bensl nella reazione che suscitarono . La fame di conoscenza esoterica, l'ardore per l'ignoto e per l'inconoscibile, vennero ancora più attizzati dal mito secondo il quale una società segreta aveva ere­ ditato da un aristocratico tedesco del Quattrocento, Christian Rosenkreuz, l'antica sapienza del Medio Oriente. In realtà il mito era stato in massima parte creato dal pensatore luterano Johann Valentin Andrea ( 1 586- 1 654 ) , probabile co-autore della Fama, uomo che più di chiunque altro potrebbe essere chiamato il fondatore della società. Nondimeno molti continuarono a cre­ dere nelle pretese dei Rosacroce . In Germania il filosofo Michael Maier spiegò la dottrina in base alla quale i fratelli della Croce di Rose avevano accesso alle antiche verità della Persia e del­ l'India; in Inghilterra il medico Robert Fludd considerò la dot­ trina dei Rosacroce come un nuovo sistema di filosofia naturale. Anche se questa credenza distorta non può essere ritenuta come una forma di miscredenza, sicuramente ne costitul la pre­ messa, in quanto andava a cercare la conoscenza al di fuori dello schema della certezza dogmatica. La ricerca della conoscenza eso­ terica fu, se possiamo cosl definirla, una deviazione a destra della religione; quella a sinistra consisteva nell'aggirare la reli­ gione senza contraddirne le verità. Quest'ultimo spirito dichia­ ratamente laicistico comparve con la massima chiarezza nei dogmi democratici dei levellers ( « livellatori » ) e dei diggers ( « zappa­ tori » ) la cui filosofia sociale era del tutto atea. Gerrard Win­ stanley, capo degli « zappatori », giunse a definire la religione soltanto in termini di giustizia sociale : « La religione vera e pura è questa : restituire la terra che è stata presa e posseduta a danno degli umili con la forza della conquista e liberare gli oppressi » . Due secoli prima d i Marx, Winstanley definl la religione come l'oppio dei popoli : « Questa dottrina spirituale divina­ toria è un imbroglio ; infatti mentre gli uomini guardano verso il cielo, sperando nella beatitudine, o temendo l'inferno dopo la morte, i loro occhi si confondono ; non vedono ciò che è il loro diritto di primogenitura, né ciò che deve essere fatto da loro qui sulla terra durante la loro esistenza ». ,

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In un ruolo alquanto diverso, la certezza del dogma veniva insidiata da un altro impulso umanistico : la tolleranza.

La tolleranza: la cartella clinica di Basilea. Uno dei più famosi avvenimenti del periodo della Riforma fu la condanna al rogo per eresia, eseguita nel 1553 a Ginevra, di Miguel Serveto, l'aragonese antitrinitario . La colpa di questa esecuzione deve essere giustamente addossata a Giovanni Cal­ vino. Questa e altre condanne al rogo sono state spesso giusti­ ficate sotto il pretesto che si trattava di un'epoca di intolleranza. L'esecuzione di Serveto ottenne praticamente l'approvazione una­ nime delle Chiese protestanti . Ma la reazione contraria di una minoranza costitui la prova sufficiente che molti cristiani con­ vinti, ammaestrati nella tradizione umanistica, avevano cominciato a sentire la necessità di rispettare la coscienza. Forse il più importante centro di liberalismo di quest'epoca di contesa reli­ giosa fu la città svizzera di Basilea. Una testimonianza contemporanea del collegamento tra Ser­ veto e Basilea fu data da Pietro Paolo Vergerio, già nunzio pontificio e ora ministro del vangelo in Svizzera . Vergerio si rattristò per l'esecuzione di Serveto . Questo ricorso ai metodi cattolici, scrisse a Heinrich Bullinger di Zurigo, avrebbe con­ sentito ai papisti di « farsi beffa del fatto che sotto l'apparenza della Riforma le Chiese venivano deformate e scosse fino alle fondamenta » . Poco dopo egli scrisse : « Un amico mi ha scritto da Basilea che là vi sono dei sostenitori di Serveto ». La mas­ sima accusa contro Calvino parti da Basilea sotto forma di un libretto intitolato De haereticis, an sint persequendi, apparente­ mente scritto da un certo Martin Bellius di Magdeburgo, ma in realtà pubblicato nel 1 554 da Sébastien Castellion di Basilea. Castellion, nato nella Savoia francese, era stato in passato col­ lega di Calvino a Ginevra e si era trasferito a Basilea nel 1 544 per dissapori . Nel 1553 divenne professore di greco all'univer­ sità di Basilea e visse tranquillamente nella città fino alla morte, avvenuta nel 1 563 . Attraverso i suoi scritti egli doveva dimo­ strarsi uno dei primi apostoli della libertà di fede . Ma Castellion non fu un innovatore in materia. Già prima di lui Basilea si era costituita a centro umanistico . Dal 1 522 al 1 529 era stata

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la città di Erasmo . Là la Riforma lo colse di sorpresa: nel 1 529 fu abolita la messa, la direzione della città fu assunta dal rifor­ matore Giovanni Ecolampadio e dal suo partito, mentre Erasmo fu costretto a partire. Nonostante ciò, sotto Ecolampadio Ba­ silea si mantenne liberale. Lo stesso riformatore fu un grande ammiratore di Erasmo e, come lui, andava alla ricerca della pax ecclesiarum degli umanisti . Non sorprende il fatto che nel 1535 Erasmo decidesse di tornare a Basilea. Vi morì l'anno seguente e fu sepolto nella cattedrale . Calvino riconobbe presto in Basilea il punto focale del li­ beralismo . Ecco quanto apprendiamo da un manoscritto auto­ grafo di Castellion : A Basilea vi sono tre professori che i calvinisti trattano aperta­ mente come seguaci di Serveto : si tratta di Martin Borrhaus, primo professore di teologia ; di Celio Secondo [ Curione ] e di Sébastien Castellion, entrambi professori di lettere. Questi ultimi due hanno scritto contro la persecuzione. Quanto a Borrhaus, Serveto gli inviò il suo libro [ De Trinitatis erroribus, Hagenau 153 1 , a causa del quale fu condannato al rogo ] prima di pubblicarlo. Borrhaus gli rispose amichevolmente, dicendo che approvava alcune parti, ne respingeva altre e che ve ne erano alcune che non aveva capito. Riguardo alla persecuzione, egli ha detto a parecchia gente che secondo lui nessuno dovrebbe essere perseguitato per i suoi con­ vincimenti.

Era chiaro che Castellion e i suoi colleghi difendevano una tradizione estranea ai concetti sostenuti a Ginevra. A Basilea lo spirito umanistico fu arditamente mantenuto in vita durante tutta l'ultima parte del Cinquecento . Nel 1 540, mentre Calvino si preparava a recarsi in Svizzera per iniziare la riforma di Ginevra, proprio l'anno in cui Paolo III approvò la Compagnia di Gesù e l'inquisizione romana inco­ minciò il suo lavoro in Italia, gli editori di Basilea Johann Fra­ ben e Nikolaus Episkopius fecero uscire un'edizione delle opere di Erasmo. L'amico ed esecutore testamentario di Erasmo, Bo­ nifacius Amerbach, a quell'epoca era professore di diritto presso l'università : più tardi ne divenne rettore . Molto tempo dopo che la Riforma aveva separato gli umanisti, Amerbach continuò a mantenere i contatti con i suoi amici in tutta Europa. Man­ tenne la sua amicizia con l 'umanista Jacopo Sadoleto, anche dopo

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che quest'ultimo divenne cardinale della Chiesa di Roma. Ogni volta che Sadoleto inviava lettere in Germania, di solito incari­ cava il messaggero di portarne una a Basilea per Amerbach. Cosl si esprimeva Amerbach in una delle sue lettere del 1 556 : « Uti­ nam vero D. Jacobus Sadoletus cardinalis viveret! ». Era un'eco proveniente da un'epoca non divisa dall'ideologia . Tuttavia l'in­ tuizione di Amerbach non si fissava esclusivamente sul passato. Anche se ben consapevole delle opinioni molto radicali di Ca­ stellion, la sua stima verso di lui fu talmente grande che egli lo fece tutore del suo unico figlio Basilius, anch'egli destinato a diventare un celebre dotto . Tutta l'educazione di Basilius segul un programma umamsuco : essendo uno svizzero protestante, fu educato successivamente a Tubinga, a Padova, a Bologna e a Bourges. Nel settembre del 1 557, tre anni dopo la controversia sul De haereticis, i riformatori Teodoro di Beza e Guillaume Farei si recarono a Basilea per affrontare coloro che avevano sostenuto l'eresia di Serveto . Trascinati in un'accesa discussione con i più importanti intellettuali di Basilea, commisero l'errore di insul­ tare Erasmo. « Il peggiore dei seccatori », lo chiamò Farei, men­ tre Beza esclamava: « Erasmo, ebbene, era fondamentalmente un ariano ! ». A seguito di ciò fu elevata una protesta pubblica, firmata da Amerbach, da Froben e da Episkopius : « Noi sotto­ scritti dichiariamo disonesto il vostro modo di agire e pura ca­ lunnia la vostra affermazione . Siamo convinti che il nome di Erasmo meriti di essere rispettato da tutti gli uomini onesti ». La continuità dell'umanesimo a Basilea dimostra in modo adeguato che le tradizioni di libertà intellettuale erano mante­ nute vive a un certo livello, nonostante le divisioni internazionali create dal dogma . A Basilea, quello che va dal 1 530 al 1580, non fu soltanto un periodo di grande attività dell'università : fu anche un periodo che si distinse per le grandi edizioni delle opere classiche del Rinascimento . La scelta dei libri da stampare non fu governata da nessun preconcetto settario. Cattolici, ri­ formatori e settari vi furono ugualmente rappresentati. Una nuova edizione del Petrarca, edizioni di Ficino, di Pico della Mirandola, le opere minori di Boccaccio e di Dante, le storie di Guicciardini e di Machiavelli, le opere di Bruni, del Bembo e di Enea Silvio Piccolomini ( Pio Il ) : tutte queste opere uscirono dai torchi di Basilea per un periodo di anni . Sadoleto non fu

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dimenticato, né lo furono le opere degli esuli italiani, come eu­ rione, Vergerio e Pietro Martire Vermigli, né a liberali come Bernardino Ochino e Fausto Socini fu negata la libertà di com­ parire a Basilea. Fu come se una nuova èra fosse incominciata nel mondo delle lettere. Pierre de la Ramée, il profugo ugonotto che andò a Basilea e più tardi, nel 1 572, doveva essere una delle vittime del massacro di San Bartolomeo, fu spinto a dire a pro­ posito del Piccolomini, con il quale la città aveva un debito speciale in quanto egli aveva fondato l 'università nel 1 460 : « Hic nostrae Romae Romulus fuit ». In questa frase due epoche del­ l'umanesimo, una nata in Italia e l 'altra in Francia, si estesero fino a incontrarsi a Basilea. Basilea rappresentò uno dei più importanti rifugi in Europa per gli scampati alla persecuzione . Il celebre Erasmo, il capo degli anabattisti Hans Denck, il libero pensatore Sebastian Franck, lo stesso Giovanni Calvino ( la prima edizione della sua Institutio vi fu pubblicata nel 1 5 3 6 ), furono fra i famosi pro­ fughi che ai primi del Cinquecento vi trovarono accoglienza. Tuttavia furono gli italiani a occupare il posto più importante nella storia della tolleranza religiosa. Curione giunse a Basilea nel 1 546, Giacomo Aconcio nel 1557, Fausto Socini nel 1 576. Più importante della loro presenza fu il fatto che essi e i loro amici ebbero la possibilità di pubblicare liberamente i loro scritti a Basilea. Nel 1 554 Curione scrisse con uno pseudonimo una Apologia pro M. Serveto e la pubblicò a Basilea . L'umanista Mino Celsi, il quale era scappato a Basilea nel 1 57 1 , scrisse un'opera che fu pubblicata nel 1 5 7 7 , due anni dopo la sua morte, intitolata In haereticis coercendis. Con l 'ambiente intellettuale di Basilea egli condivise non solo il rifiuto della pena di morte in materia di fede, ma anche una solida fiducia nella tradizione del più grande degli umanisti : « Magnus ille, nec unquam satis

laudatus Erasmus

».

I n particolare tre uomini rivestirono uno speciale carattere nell'ascendente liberale di Basilea. Essi furono il celebre ex gene­ rale dell'ordine dei cappuccini Bernardino Ochino, il quale pub­ blicò a Basilea i suoi Dialogi XXX nel 1 563 ; Giacomo Aconcio, il quale pubblicò nel 1 565 una delle opere più fertili mai scritte sulla libertà religiosa, Stratagemata Satanae; e Fausto Socini , il quale nel luglio del 1 578, mentre si trovava a Basilea, completò la sua opera principale De Jesu Christo servatore.

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La storia di Ochino è ben conosciuta. Dopo la sua fuga dal­ l'Italia nel 1 542, alla· fine si stabilì a Zurigo. La rigida disciplina del posto lo obbligò a pubblicare i suoi Dialogi a Basilea. Il libro attaccava la repressione fisica dell'eresia, ma fu a causa della sua apparente giustificazione della poligamia che i magistrati di Zurigo decisero di procedere contro l 'illustre convertito. Or­ mai settantaseienne, fu espulso dalla città e costretto a partire in un rigido dicembre con i suoi quattro bambini rimasti orfani. Finalmente trovò rifugio in Polonia fra gli anabattisti, ma non prima che la peste avesse portato via con sé tre dei bambini. La storia di Ochino coincide con quella di Castellion, suo intimo amico, il quale aveva tradotto in latino il testo italiano di Ochino per farlo pubblicare a Basilea. Informato dell'espulsione del suo amico, Castellion si apprestò ad andare volontariamente in esilio con lui . La cattiva salute rese vane le sue intenzioni ed egli morl nel dicembre del 1 563 . Il suo corpo, che dapprima era stato sep­ pellito nel chiostro della cattedrale, venne più tardi trasferito da tre giovani nobili polacchi in una tomba di famiglia della città. Un altro italiano che scelse come patria la Polonia, con ben altri risultati, era entrato in contatto con Castellion soltanto dopo la sua morte . Fausto Socini, fondatore del socinianesimo, si era fermato a Basilea dal 1 5 7 6 . Nel corso della sua opera egli si imbatté in alcuni manoscritti di Castellion che lo impressio­ narono a tal punto da farli pubblicare. Nel 1 57 8 completò la sua opera principale De Jesu Christo servatore a Basilea, anche se fu pubblicata soltanto nel 1594. Poco dopo si recò in Polonia per collaborare con il movimento antitrinitario. I sociniani do­ vevano diventare i sostenitori della libertà intellettuale. Il legame tra la Polonia ( il primo paese europeo ad ammet­ tere nel 1 573 la tolleranza religiosa ) e Basilea risulta ancora più sorprendente di quanto gli esempi casuali di Ochino e di Socini possano far pensare. Basilea era la prima università sviz­ zera frequentata da studenti polacchi : il periodo di massima fre­ quenza fu quello compreso tra il 1 555 e il 1 57 1 , ma la quantità si mantenne a un alto livello fino alla guerra dei Trent 'anni. La tradizione erasmiana fu protetta per mezzo dell'opera del seguace dell'irenismo Andrea Frycz Modrzewski, la cui De re­ publica emendanda, dopo essere stata confiscata a Cracovia, fu pubblicata nel 1554 a Basilea . Qui, nel 1 557, apparve una tra-

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duzione tedesca e nel 1 559 il tipografo Johann Oporinus fece uscire una raccolta delle opere di Modrzewski . L'esempio di Socini sta a dimostrare fino a qual punto Ba­ silea era divenuta un vivaio del liberalismo, che si irradiava oltre i confini della città. Mentre Socini gettava le basi per un ac­ . cordo religioso a Rakow in Polonia, un altro esule italiano, Gia­ como Aconcio, stava svolgendo la sua opera sulla teoria della tolleranza in Inghilterra. Fuggito nel 1 557 dall'Italia per andare a Basilea, egli era entrato nella cerchia di Castellion e di Cu­ rione. Sebbene dopo il 1 559 risiedesse in Inghilterra, decise di pubblicare la sua opera principale, Stratagemata Satanae, nel 1 565 a Basilea . Essa divenne una delle opere più autorevoli sulla tolleranza scritte nel Cinquecento e venne tradotta nelle prin­ cipali lingue europee. Inutile dire che Basilea ebbe i suoi demeriti. Nel maggio del 1 559, precisamente nello stesso mese e anno in cui l'inquisizione spagnola bruciava i suoi primi eretici protestanti nella città :ii Valladolid, la città protestante di Basilea celebrò il suo auto­ dafé. La vittima era il capo degli anabattisti David Jorisz, il quale era vissuto nella città sotto falso nome dal 1 544 fino alla sua morte nel 1 556, e le cui spoglie mortali furono esumate e date alle fiamme. Fra i cantoni cattolici svizzeri presto circolò un proverbio secondo il quale « Basilea brucia gli eretici morti e non quelli vivi ». La frase, intenzionalmente dispregiativa, era in realtà un elogio . Basilea non diventò mai una città sangui­ natia. Il suo primato durante i giorni più bui della pazzia per le streghe, quando vittime indifese venivano giustiziate nelle città di tutta Europa, fu quasi impeccabile : soltanto una vittima fu condannata per stregoneria a Basilea. Dopo la controversia riguardante Serveto, la dottrina di Cal­ vino trionfò e divenne la forma predominante di protestantesimo nell'Europa occidentale. Tuttavia, per ironia della sorte, i semi della dissoluzione furono gettati da Castellion . Al bellianismo ( come veniva chiamata la dottrina del De haereticis) fu neces­ saria una generazione per maturare, ma quando ciò avvenne esso minacciò di scalzare la struttura eretta da Calvino . Fin dal 1 555 il più eminente pastore calvinista del Wiirttemberg era stato accusato da Farel di voler « convertire il paese ai princlpi di Castellion » , vale a dire di volere introdurre la tolleranza . Tra i calvinisti in Francia si costitul un gruppo ristretto che assunse

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il nome di « discepoli di Castellion ». Di entità e di prestigio trascurabili, rappresentarono però l'inizio di un partito liberale nella Chiesa riformata. Quando nel suo paese natio scoppiarono le guerre di religione, nell'autunno del 1 562 Castellion compose il suo Conseil à la France désolée. Rivolse un appello ai suoi compatrioti affinché rinunziassero alla violenza per risolvere le contese religiose e rispettassero le coscienze dei loro avversari : « Sostenete entrambe le religioni e !asciatele libere, di modo che ciascuno possa seguire senza ostacoli quella che preferisce » . Il suo appello fu rivolto a entrambe le parti . « A coloro i quali fanno violenza alla coscienza altrui basta dire : vorreste che le vostre coscienze siano sottomesse dagli altri ? ». L'appello fu di­ satteso, ma formò una delle basi su cui il partito politique in Francia costrul il suo programma di riconciliazione nazionale. Inoltre esso divenne un testo utilizzato dal capo e pubblicista ugonotto Filippo di Mornay du Plessis , durante la sua opera in Francia e nei Paesi Bassi devastati dalla guerra. Nei Paesi Bassi, che furono occupati dopo il 1 566 a seguito della ribellione contro la Spagna, gli scritti di Castellion diven­ nero uno dei testi fondamentali della libertà. Nel 1 57 8 , sotto gli auspici di Mornay du Plessis, il Conseil venne tradotto in olandese e distribuito. Negli anni successivi molte altre opere vennero tradotte da Dirck Coornhert, forse il personaggio di maggiore spicco per quanto riguarda la tolleranza nel periodo posteriore alla morte di Castellion . In tal modo, fin dall'inizio della lotta per l'indipendenza, esisté là una forte minoranza ( per lo più calvinista ) per la quale la libertà intellettuale e quella civile erano mete inscindibili . Questo partito, appena si svi­ luppò, cercò l'appoggio degli scrittori di Basilea. Nel 1 6 1 1 : Stratagemata Satanae di Aconcio apparvero in olandese. Nel 1 6 1 2 il trattato inedito d i Castellion, Contra libellum Calvini, fu fi­ nalmente dato alle stampe ; l'anno dopo, questo e altri scritti che formavano l'Opera Castellionis furono pubblicati in olandese. Sia Castellion che Coornhert furono inevitabilmente mobilitati in di­ fesa della lotta degli arminiani ( rimostranti ) per la libertà. La spaccatura ideologica all'interno del calvinismo olandese e inter­ nazionale fra i liberali e i rigoristi venne confermata nel 1 6 1 9 a l sinodo d i Dort. Fermo restando che la polemica di Dort andò in profondità , poiché toccò questioni di vasta portata, non è del tutto arbi-

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trario considerarla in un certo senso l'atto finale del dramma che incominciò con la condanna di Serveto al rogo, avvenuta a Ginevra nel 1 553 . In Olanda, nel paese di Erasmo, gli eredi dell'umanesimo liberale affrontavano i fautori della teologia dog­ matica . Lo spirito di Erasmo era tornato in patria. I rimostrantl persero a Dort, ma alla fine la loro ideologia vinse : attraverso la tradizione degli indipendenti in Inghilterra e la tradizione di Saumur in Francia, essi crearono una scuola liberale che scalzò la struttura dogmatica del calvinismo e sfociò alla fine nell'Illu­ minismo. Questa discendenza è inequivocabile. In un senso la si può esprimere mettendo in rilievo il modo in cui il pensiero erasmiano rappresentato da Castellion fu classificato nel calvi­ nismo e finalmente sostituì la vecchia ortodossia di Ginevra . In un altro senso possiamo indicare l'influenza che la filosofia del dubbio e della docta ignorantia esercitò su Castellion o per mezzo di lui . Implicita nei suoi primi scritti, non diventa esplicita se non con la sua De arte dubitandi, che restò inedita fino al 1 9 3 7 . I n essa Castellion affermava che « s e i cristiani dubitassero un poco di se stessi, non commetterebbero tutti questi assassinii » . I l criterio della verità d a lui proposto « antecedeva tutte l e Scrit­ ture e tutte le cerimonie »: era la voce della ragione. Con lui, quindi, come con Bayle - il massimo esponente del calvinismo liberale - la libertà si basava sulla coscienza e sulla ragione . Desta poca meraviglia il fatto che lo storico Lecky considerasse Castellion uno dei « più illustri precursori dell'Illuminismo » . Può darsi che l a nascita del razionalismo sia stata l'ultima cosa che Castellion desiderasse, ma si trattò di un movimento al quale egli, con Basilea, contribuì in misura tutt'altro che modesta.

La crisi dell'agostinismo. Nonostante la parte di primo piano avuta durante la lotta del popolo olandese contro la Spagna, già agli inizi del Seicento il calvinismo non era nelle Province Unite più di una religione di minoranza. La maggioranza della popolazione era nominai­ mente cattolica. Però l'effettiva minaccia per l'influenza calvi­ nista derivava dallo spirito di Erasmo, quello spirito che si è già visto tornare da Basilea in Olanda. Con la nomina, nel 1 602, di Jacobus Arminius ( 1 560- 1 609 ) alla seconda cattedra di teo-

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logia presso l'università di Leida, la tradizione erasmiana con­ quistò una piattaforma pubblica che le consentiva di sferrare l'attacco al calvinismo ufficiale . La dottrina arminiana costitul nelle Province Unite un pro­ blema sia religioso che cattolico . Le opinioni espresse nella Ri­ mostranza di ispirazione arminiana, che fu presentata nel 1 6 1 0 agli Stati d'Olanda, rappresentavano, generalmente parlando , l'umanesimo liberale. La questione che alla fine simboleggiò le differenze tra i rimostranti e i loro oppositori, i controrimostranti ( guidati da Gomarus, professore di teologia a Leida ), fu quella della predestinazione. Il conflitto divenne politico quando i ti­ mostranti conquistarono il favore, nonché la tolleranza per le loro idee, da parte dell'oligarchia patrizia. I controrimostranti gravitavano intorno al partito della Casa d'Grange . Il conflitto politico fra questi partiti fu la causa della momentanea vittoria del principe Maurizio d'Orange-Nassau e dell'esecuzione del lea­ der repubblicano Oldenbarnevelt nel 1 6 1 9 . All'incirca nella stessa epoca si tenne a Dort ( Dordrecht ), dal novembre 1 6 1 8 al maggio 1 6 1 9 , un sinodo nazionale della Chiesa olandese. In occasione di questo sinodo i rimostranti furono condannati come eretici ed espulsi dalla Chiesa ufficiale . Dort fu niente di meno che un consiglio generale delle Chiese calviniste. Degli oltre cento rappresentanti intervenuti, un quarto circa proveniva dalle Chiese calviniste fuori delle Province Unite. Sebbene al sinodo trionfasse l'ortodossia, era stato gettato un seme che doveva spezzare i dogmi delle Chiese riformate . Stando alle parole del partito ortodosso, le dottrine degli arminiani erano semi-pelagiane. Con questa frase la questione a lungo di­ battuta circa la parte rivestita dalla grazia e dal libero arbitrio nella redenzione dell'uomo fu rimessa di nuovo in discussione . Sant'Agostino era emerso tra i teologi cattolici, i quali ave­ vano esaltato il ruolo supremo di Dio nel disegno della salvezza dell'uomo. I pensatori sia cattolici che protestanti dovettero ser­ virsi generosamente delle sue precise esposizioni allo scopo di definire da capo il rapporto tra Dio e l 'uomo . Fu grazie a lui che Calvino fu influenzato a svolgere la teoria della predestina­ zione, che venne riaffermata a Dort . Gli arminiani si opposero non solamente alla predestinazione ma alla serie di conseguenze che l'accettazione della dottrina comportava . Avevano l'impres­ sione che insistere ufficialmente sull'onnipotenza di Dio e sulla

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debolezza dell'uomo conducesse alla detestabile conclusione che fosse Dio a volere i peccati dell'uomo e perfino la sua danna­ zione. Essi sostennero che l'uomo, !ungi dall'essere semplice­ mente un recipiente passivo della grazia divina, era al contrario dotato di sufficiente libero arbitrio per opporsi alla grazia di Dio. Ne conseguiva che nessun uomo era sicuro di salvarsi ( come sostenuto dalla predestinazione ) ma che perfino i santi potevano ricadere nell'errore. Non esistevano uomini eletti sicuri di sal­ varsi per mezzo della grazia onnipotente. La grazia divina era uguale per tutti gli uomini, Cristo era morto per tutti e non soltanto per pochi designati. Nell'accesa atmosfera di Dort, que­ s te proposizioni furono assai giustamente considerate come sov­ vertitrici dell'intera struttura della teologia di Calvino. In realtà gli arminiani avevano derogato ai principi fondamentali e, come la loro storia futura avrebbe dimostrato, dovevano spingersi an­ cora più lontano dalla dottrina accettata di quanto avrebbero consentito i loro antesignani . La loro partecipazione nell'insidiare l'ortodossia di Calvino consisté non solo nelle loro proprie convinzioni, ma anche nel­ l'impulso che impressero per una revisione generale a mezzo dei delegati presenti a Dort. In particolare i delegati provenienti dall'Inghilterra e da Brema rappresentavano un settore di cal­ vinisti che desideravano conoscere alcune delle critiche mosse dagli arminiani . Ammettevano che Cristo fosse morto per tutti gli uomini, una concessione importante, date le circostanze ; ma continuavano ancora a credere che soltanto un eletto si sarebbe salvato . Fu questa posizione liberale, modificata ed estesa dai calvinisti in Francia, che divenne uno dei principi del movi­ mento verso il razionalismo . I canoni del sinodo di Dort furono formulati in maniera tale che si adattavano al punto di vista liberale. Sicché l'orto­ dossia dei canoni concedeva una certa larghezza alla loro effet­ tiva interpretazione . Ciò non bastò agli arminiani, i quali con­ dannarono energicamente la posizione ortodossa in tutte le sue sfumature ; ma fu sufficiente a un'importante minoranza di cal­ vinisti, i quali non condividevano le rigide opinioni dei teologi ginevrini . Fu in Francia, dove esisteva la comunità calvinista più numerosa d'Europa, che le discussioni di Dort ebbero le più gravi ripercussioni . Il 1 6 1 8 , l'anno dell'apertura del sinodo, ebbe per il calvi-

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nismo francese un duplice significato, in quanto fu l'anno del­ l'insediamento dello scozzese John Cameron in qualità di pro­ fessore di teologia presso l'accademia di Saumur. Saumur, fon­ data dal leader ugonotto Mornay du Plessis , crebbe fino a di­ diventare il più eminente collegio teologico dei protestanti fran­ cesi . Cameron non rifuggi dal meditare di nuovo le convinzioni fondamentali alla luce di Dort, tanto che fu lui a proporre la dottrina dell'« universalismo ipotetico » , un'estensione della po­ sizione liberale al sinodo . Cameron condivideva l'opinione libe­ rale e perfettamente ortodossa secondo la quale Cristo era morto per tutti gli uomini, ma soltanto pochi ( gli eletti } si sarebbero salvati . Tuttavia la novità di Cameron si palesava nel modo in cui si attuava la redenzione. Dio non schiaccia l'uomo con la grazia, rendendogli cosi impossibile di rifiutare la salvezza ; al contrario, egli illumina l'intelletto con una forza tale che la vo­ lontà è necessariamente consenziente, di modo che la fede viene prodotta dall'intelletto e dalla ragione. Altri corollari si aggiun­ sero agli scritti di Cameron, ma è chiaro che egli aveva già oltrepassato i limiti dei teologi conservatori . Il suo più vicino collaboratore a Saumur fu Moi:se Amyraut, il quale più tardi divenne rettore e i cui scritti sulla grazia e sulla predestinazione dovevano accentuare la tendenza razionalista che la teologia avrebbe assunto presso l 'accademia protestante. Secondo Amyraut e i suoi seguaci, la ragione diventava il principio centrale della fede : tutte le dottrine contrarie alla ragione erano false. L'ac­ cademia di Saumur esercitò una profonda influenza sui teologi ugonotti e a molti di loro ispirò un liberalismo religioso che rese più facile l'accettazione della tolleranza religiosa. Nel 1 644 un professore cartesiano di nome Chouet fu nominato alla cat­ tedra di filosofia presso l 'accademia. Nel 1 669 egli si trasferl a Ginevra, dietro invito di un ex discepolo di Amyraut a Saumur, Louis Tronchin, ormai professore di teologia nella capitale cal­ vinista. Sia Chouet che Tronchin insegnavano la filosofia di De­ scartes : nel 1 670 tra i loro allievi di Ginevra vi era Pierre Bayle. L'evoluzione dell'universalismo attraverso Descartes verso il razionalismo e Bayle rivesti un significato particolare, in quanto si verificò entro lo schema non dell'irreligione ma della fede assoluta. L'intento di quei calvinisti impegnati, i quali mettevano in discussione la predestinazione, era di rivendicare all'uomo una certa responsabilità nell'accettare la propria salvezza. Tale

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accettazione poteva attuarsi soltanto grazie al libero eserctzto della ragione umana, e fu proprio quest'ultima che arminiani e liberali introdussero nella struttura del calvinismo . Al di fuori di questo ambiente improntato al calvinismo più intenso, al di fuori delle polemiche collegate alla teologia dei dotti, emerse una crisi profonda che secondo Bayle si poteva risolvere soltanto in un modo : insistendo che « ogni dogma non verificato e re­ gistrato dal tribunale supremo della Ragione e della conoscenza naturale è destinato ad avere soltanto un'autorità incerta », e che pertanto la ragione è arbitra di ogni principio di fede . Mentre le dispute in merito alla grazia e alla predestinazione nelle chiese calviniste si evolvevano verso il razionalismo, all'in­ terno della Chiesa cattolica la crisi dell'agostinismo produsse un movimento in direzione opposta. Come nel caso precedente, la controversia ebbe origine nei Paesi Bassi, questa volta nelle province meridionali, presso l'università cattolica di Lovanio . Il conflitto tra la facoltà di teologia, con prospettive agostiniane, e i gesuiti, ostili all'agostinismo, sfociò nel 1 567 in una con­ danna papale degli insegnamenti di un professore di teologia, Michel de Bay ( Baius ) . La vittoria conseguita dai gesuiti in questa occasione li indusse a continuare il loro controllo nei confronti dei loro oppositori . La loro apprensione apparve giu­ stificata, in quanto nel 1 640 fu pubblicata, con il titolo Augu­ stinus, un'opera postuma di Cornelio Giansenio, vescovo di Ypres dal 1 63 6 fino alla sua morte avvenuta nel 1 6 3 8 . L'Augustinus, anziché frutto della meditazione di u n unico autore, era sotto certi aspetti un lavoro in collaborazione, aveva richiesto dieci anni di maturazione di pensiero e si ispirava de­ liberatamente al patrimonio dell'insegnamento della patristica. Forse l'influenza più forte, diretta e personale, esercitata sul­ l'autore fu quella del suo amico ed ex compagno di stud.:, l'abate di Saint-Cyran . Il loro interesse per s. Agostino, espli­ citamente dichiarato nel titolo del libro di Giansenio, fu condi­ viso non soltanto da molti teologi belgi ma anche dai più im­ portanti esponenti della Controriforma francese. Il cardinale Bérulle fu un ardente discepolo di s. Agostino e la sua perso­ nale amicizia con Saint-Cyran si basava su di una considerazione del concetto agostiniano della suprema grandezza di Dio . Gli stretti legami tra Saint-Cyran e Bérulle meritano di essere messi in rilievo, in quanto indicano chiaramente le origini co-

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muni sia del giansenismo francese che della Controriforma fran­ cese . Tra i due non esisteva alcuna contraddizione intrinseca ; ambedue esaltavano la subordinazione dell'uomo alla grazia redentrice di Dio . Solo quando nel quadro si insinuarono i pro­ blemi politici e i gesuiti, nemici sia di Bérulle che di Saint­ Cyran, si accanirono nella polemica, la crisi scoppiò nel cuore del cattolicesimo francese e il « giansenismo » incominciò a essere associato all'eresia. Nel 1 6 3 8 Giansenio mori ; tre anni dopo il suo Augustinus fu condannato dal papa, nel 1 643 si spense anche Saint-Cyran. Il loro trapasso avrebbe potuto segnare la fine della polemica. Ma fu a questo punto che intervenne la famiglia Arnauld, in quanto senza gli Arnauld non vi sarebbe stato nessun movi­ mento giansenista. Saint-Cyran era stato amico intimo della famiglia sin dal 1 620 ; dal 1 63 0 divenne direttore spirituale del convento di Angélique a Port-Royal ; e fu sotto la sua egida che il giovane Antoine - l'ultimo di venti figli di prolifici genitori - consegul nel 1 63 5 alla Sorbona il dottorato con una tesi su s . Agostino. Fu Antoine, le grand Arnauld come poi lo si chiamò, che nel 1 64 3 , a distanza di pochi mesi dalla morte del suo maestro, pubblicò la sua opera Traité de la fréquente Commu nion, accendendo cosl di nuovo una vertenza che doveva protrar si per altri trenta anni . Il nucleo della controversia giansenistica risiedeva nelle cin­ que proposizioni sulla grazia che Innocenza X condannò nel 1 653 con la bolla Cum occasione e che erano presumibilmente contenute nell'Aug us tinus . AI di là della grande disputa in me­ rito alle proposizioni, si collocava una divergenza fondamentale tra gesuiti e giansenisti ( nonché tra i loro rispettivi partigiani) in relazione ai mezzi della salvezza e al ruolo svolto dall'uomo . Sostenendo saldamente la loro interpretazione dell'agostinismo e dell'onnipotenza della grazia divina, i giansenisti respinsero le opinioni dei loro avversari, definendole semi-pelagiane. Forse in tempi normali il problema avrebbe assunto una veste pura­ mente accademica. Ma essendo questo il momento dell'alta marea per la Controriforma francese, il lavoro di evangelizza­ zione avrebbe potuto essere gravemente compromesso da una dottrina che sminuiva gli sforzi dell'uomo e valutava eccessiva­ mente la predestinazione da parte di Dio . Dapprima fortemente attratti dall'energia che si irradiava da Port-Royal, i missionari

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francesi ben presto si disincantarono . « Figlia mia - domandò s. Francesco di Sales in tono di rimprovero a Mère Angéli­ que - non sarebbe meglio gettare più al largo la tua rete e catturare più pesce ? » . La convinzione di essere gli eletti, di potere accedere alla grazia divina più degli altri, di essere tra i pochi predestinati alla salvezza in un mondo di dannati, ben presto si impadronl di Port-Royal e spiega perché il giansenismo non divenne mai un movimento ricco di proseliti . San Vincen.w de' Paoli, in passato amico di Saint-Cyran e collaboratore della vasta opera di carità di Port-Royal, fini per invitare i cattolici ad annientare « questo piccolo mostro che sta incominciando a devastare la Chiesa e che alla fine la ridurrà alla desolazione se non viene strangolato fin dalla sua nascita » . L a storia interna del giansenismo s i concluse, a tutti gli effetti, nel 1 669 quando Clemente IX impose la tregua cono­ sciuta come la « pace della Chiesa » . Gli sviluppi successivi , che culminarono nella distruzione materiale di Port-Royal-des­ Champs nel 1 7 1 1 e con la bolla Unigenitus del 1 7 1 3 , furono quasi esclusivamente politici . Il giansenismo come deviazione puramente religiosa scomparve, per riaffiorare soltanto per un attimo durante il grottesco episodio dei convulsionari di Saint­ Médard a Parigi. In tal modo una forma ossessiva per la grazia, alimentata e difesa dai più illustri intelletti dell'epoca, degenerò nell'estasi irrazionale. I giansenisti furono considerati i calvinisti della Chiesa cat­ tolica ; a loro volta gli arminiani furono sospettati di essere segretamente dei papisti (effettivamente alcuni di loro si fecero cattolici ) . Nonostante la loro base comune nella controversia a proposito della grazia e della redenzione, i due movimenti eterodossi avevano pochi punti di contatto sul piano ideologico ed erano orientati verso destinazioni diverse. Gli arminiani cre­ devano prevalentemente nella tolleranza religiosa e diedero un notevole impulso allo sviluppo del pensiero razionale ; i gianse­ nisti erano notoriamente intolleranti , non solamente nei riguardi dei loro compagni cattolici e dei gesuiti, ma in particolare dei protestanti. Tuttavia, restringere tutto a una questione dog­ matica significa non riuscire a cogliere la crisi nella sua intera prospettiva, che era non solo religiosa ma anche sociale. Si può affermare in modo plausibile che, nonostante le loro differenze fondamentali, le due eterodossie furono espressioni

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dell'ideologia borghese. Nelle Province Unite fu il ceto citta­ dino, indipendente, bene istruito, ostile al controllo teocratico e fortemente preoccupato di difendere la libertà di commercio, che abbracciò la causa dei rimostranti . Secondo loro la libertà di coscienza era essenziale se si voleva far prosperare l'attività commerciale della nazione, alla quale partecipava il popolo di tutte le nazioni e di tutte le fedi . Amsterdam era una roccaforte liberale, tanto che nel 1 598 il suo borgomastro Cornelis Hooft, durante un famoso processo di empietà, dichiarò che « è molto strano che coloro i quali sostengono con tanto accanimento la dottrina della predestinazione insistano nel perseguitare e :tel fare violenza alla coscienza, poiché se la loro dottrina fosse vera nessuno potrebbe sottrarsi a ciò che gli è stato ordinato » . I l calvinismo intransigente, lungi dall'essere l'ideologia del pro­ gresso, era esattamente la dottrina che i ceti commerciali olan­ desi respingevano . È meno facile definire il borghese che si dimostrava soddisfatto del giansenismo. Non si può negare che il nucleo dei suoi sostenitori derivasse dalla noblesse de robe, la burocrazia del ceto medio . Un gruppo ristretto dell'alta ari­ stocrazia ( formato principalmente dalla famiglia Condé e com­ prendente Madame de Longueville e il principe de Conti ) pro­ tesse Port-Royal, ma nessuno partecipò mai da vicino alla sua attività religiosa. D'altro canto, un gruppo di borghesi si im­ pegnò interamente con il giansenismo : vi erano compresi i Cau­ let, i Pavillon, i Pascal e, al di sopra di tutti, gli Arnauld. Di recente il critico marxista Lucien Goldmann ha affermato che questi borghesi rappresentavano l 'avanguardia della lotta del ceto officier contro l'attacco dell'assolutismo monarchico, e che il fallimento della loro protesta li indusse a ritirarsi dal mondo e a rifugiarsi nel misticismo di Port-Royal . Purtroppo questa tesi non è sorretta da alcuna prova concreta . Se le controversie agostiniane che tormentarono i Paesi Bassi e la Francia servono a dimostrare qualcosa, si tratta della comune eredità sia dei cattolici che dei protestanti nell'Europa della Controriforma . Tanto la Chiesa cattolica che quella rifor­ mata si trovarono di fronte a deviazioni che scaturivano da una stessa fonte. Fu questa percezione che spinse uomini come Ugo Grozio, illustre profugo della persecuzione calvinista, a mettere in evidenza quanto avessero in comune tutte le parti dissen­ zienti . « Per tutta la mia vita - scrisse Grozio nel 1 6 4 1 -

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ho desiderato con tutto il mio ardore di riconciliare il mondo cristiano ». Citando s. Agostino , in una delle sue opere ricor­ dava ai suoi lettori quanto fosse difficile guarire la gente dai suoi errori più radicati con l'uso della violenza. La via per la pace religiosa passava attraverso la tolleranza, attraverso la dot­ trina di Erasmo . Anche altrove la lotta in Europa, specialmente durante la guerra dei Trent'anni, fece desiderare ardentemente agli uomini quella unanimità che un tempo era esistita nella cristianità. La polemica religiosa, invece di provocare ulteriori spaccature, portò a un rinnovato desiderio di armonia . I gian­ senisti lottarono accanitamente per il diritto di rimanere nel­ l'ambito della struttura della Chiesa cattolica ; i rimostranti non desiderarono altro che svolgere attività pacifica e il diritto di dissentire, all'interno della congregazione ufficiale dei fedeli, nello spirito della « reciproca tolleranza » voluta da Episkopius, uno dei loro capi.

VIII INFORMAZIONE E FANTASIA

L'arte della stampa divulgherà a tal punto la cono­ scenza, che la gente del popolo, conoscendo i propri diritti e le proprie libertà, non sarà governata con l'oppressione. Samuel Hartlib, A Description of the Famous King­

dom of Macaria ( 1641 )

Pretendere che tutti gli uomtm stano uguali non è altro che fantasia da utopisti, poiché la Sacra Scrittura nulla dice al riguardo. John Cook , Unum Necessarium or the Poor Man's Case ( 1648 )

Quella di cui ci occupiamo fu, sotto molti aspetti, un'epoca di sconfinato ottimismo. Come abbiamo visto, nel 1 552 G6mara fu tanto sconsiderato da dichiarare che « ora si è discusso tutto e si conosce tutto » . L'umanesimo del Rinascimento , con la sua sete inestinguibile di sapere, non fece nulla per scoraggiare questa suprema sicurezza. Man mano che le frontiere dell'espe­ rienza, della scienza, della creazione artistica e dell'esplorazione geografica si estendevano, sembrava che ci fossero tutte le ragioni per credere nella strabiliante capacità dell'uomo a dominare il mondo conosciuto . Qualunque testo di storia fa un elenco delle straordinarie conquiste scientifiche dell'epoca, delle nuove pro­ spettive nel campo del pensiero e della filosofia . La conoscenza si diffuse in maniera tanto notevole, che ormai si è accettato di parlarne in termini di rivoluzione : la rivoluzione pedagogica, la rivoluzione scientifica sono pietre miliari nell'evoluzione di alcuni gruppi sociali europei . Ma parlarne in questi termini

Parte III. Fede

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ragione

senza riserve significa correre il rischio di deformare i fattl, poiché se vi furono delle rivoluzioni esse si produssero senza incidere materialmente in nessun modo sull'esistenza della grande maggioranza degli europei . Nel presente capitolo ci occuperemo di alcune implicazioni dell'estensione della conoscenza umana e di alcune delle sue contraddizioni interne.

L'alfabetismo

e

il popolo.

Il saper leggere e scrivere, quantunque nell'Europa medie­ vale fosse considerata cosa auspicabile, veniva da molti ancora ritenuta una capacità pratica, un requisito più che una necessità culturale . Molti sovrani e perfino molti prelati del Medioevo erano analfabeti: non erano però incolti , in quanto dispone­ vano di lettori e di scribi che leggevano e scrivevano per loro . L'importanza dell'alfabetismo come requisito pratico si trova rispecchiata negli statuti redatti da un arcivescovo di York per un istituto superiore da lui fondato nel 1 4 8 3 , nei quali si dichia­ rava che uno degli scopi dell'istituzione era che « i giovani pos­ sano diventare più abili nelle arti meccaniche e nelle altre fac­ cende terrene » . Tale importanza tecnica dell'alfabetismo deve avere avuto sempre il suo peso . La massima utilità tecnica doveva naturalmente servire alla Chiesa, poiché soltanto un clero istruito era in grado di essere arbitro della vita religiosa ( non meno di quella sociale ) . In un senso molto particolare, inoltre, l'alfabetismo era la riserva di caccia della Chiesa, che esercitava un controllo esclusivo sull'istruzione. L'invenzione della stampa, introducendo metodi più rapidi e più economici per la produzione dei libri, rivoluzionò il pro­ blema dell'analfabetismo . Vivendo nel secolo immediatamente successivo alla valorizzazione della stampa a opera di Gutenberg, Francesco Bacone la descrisse come una delle tre grandi inven­ zioni che avevano « mutato l'aspetto e lo stato del mondo in­ tero » ( le altre due erano la polvere da sparo e la bussola ) . Le immense possibilità e le prospettive spalancate dall'invenzione non ci interessano immediatamente in questa sede . La stampa apportò qualche cambiamento nel livello culturale della gente del popolo ? Almeno sotto tre distinti aspetti - l 'impulso alla istruzione, alla propaganda ( per lo più religiosa ) e all'educazione

VIII. Informazione e fantasia

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del gusto popolare - l 'alfabetismo e il libro stampato dovevano svolgere una parte importante. L'avvento del libro stampato non bastò da solo a promuo­ vere l'alfabetismo . I libri erano ancora relativamente cari, men­ tre gli editori dedicavano i loro sforzi alle opere che il comune uomo della strada non sempre poteva pretendere di capire. Nondimeno l'aumentata accessibilità ai libri servì a ispirare un accresciuto interesse per l'istruzione. La teoria della comunica­ zione della conoscenza cambiò profondamente, mentre la peda­ gogia diventava una scienza a parte, tenuto conto che il più insigne di tutti i pensatori pedagogici durante questo periodo fu Comenio. Si accettò ampiamente il principio che era natu­ rale acquisire un'istruzione elementare, non solo perché l'alta­ betismo offriva alcuni vantaggi d'ordine pratico, ma perché era moralmente giusto e conveniente che un essere umano facesse progressi . Non disponiamo di dati relativi ai cambiamenti dei tassi dell'alfabetismo che possono essersi verificati in seguito a questa tendenza favorevole, ma almeno per quanto riguarda l'Inghilterra esiste la prova che gli elementi essenziali del leg­ gere e dello scrivere venivano insegnati a un'alta percentuale di gente del popolo . Nelle zone rurali la scuola del villaggio (per esempio a Wigston, Leicestershire, negli anni intorno al 1 58 0 ) riuniva insieme bambini ricchi e poveri nel comune do­ vere di apprendere. Nella città di Norwich esisteva l'istruzione elementare gratuita per i figli dei poveri. Grazie allo stimolo religioso e alla disponibilità della parola stampata, l'istruzione primaria si diffuse sia in Inghilterra che sul continente. Non esiste possibilità di dire se ciò produsse qualche cambiamento nell'alfabetismo popolare. In primo luogo, anche ammettendo che le scuole siano aumentate di numero ( specie in Inghilterra), sembra che i ceti più poveri non abbiano avuto occasione di frequentarle. Secondariamente, non abbiamo una serie ininter­ rotta di campioni che ci consenta di analizzare lo sviluppo del­ l'alfabetismo riferito a un determinato periodo. Al massimo abbiamo degli esempi irregolari, dai quali è molto rischioso trarre conclusioni generiche. Anche nell'Europa settentrionale relativamente lontana, nella Svezia centrale, un autore del 1 6 3 1 era in grado di riferire che la gente era « talmente appassionata di letteratura che, sebbene le scuole pubbliche siano molto poche, nondimeno la persona

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istruita insegna agli altri con tale entusiasmo che la maggior parte della gente del popolo e perfino i contadini sanno leggere e scrivere ». Però, che significava essere istruiti ? Di solito con questa espressione si intende la capacità di leggere e di scrivere. Ma all'atto di valutare l'alfabetismo attraverso i documenti, gli storici sono stati costretti a fare affidamento su poco più di una singola prova : la capacità di firmare con il proprio nome. Anche se ciò lascia la porta aperta a molte obiezioni, il fatto è che la prova basata sulle firme di solito è stata molto accetta­ bile. Soltanto la categoria di persone presumibilmente capace di leggere e di scrivere ( il ceto medio e gli artigiani ) firmava con il proprio nome ; braccianti e soldati facevano un segno di croce. Su 1 .265 persone nelle campagne del Surrey, che nel 1 642 fecero atto di lealtà al governo per iscritto, un terzo firmò con il proprio nome e il resto con un segno di croce. L'alfabetismo presentava notevolissime oscillazioni a seconda della categoria sociale. Nel villaggio inglese di Limpsfield soltanto il 20 per cento dei servi firmava con il suo nome, contro il 62 per cento dei capifamiglia. Nel tardo Cinquecento in Francia, nella zona di Narbona, gli indici dell'alfabetismo segnavano circa il 9 1 per cento per la borghesia, circa il 65 per cento per gli artigiani di città, mentre variavano dal 10 al 30 per cento per la popola­ zione rurale. Siamo talmente abituati a desiderare la massima diffusione dell'alfabetismo, che occorre un certo sforzo per renderei conto di quanto potesse essere pericolosa e rivoluzionaria ( sul piano sia ideologico che politico) la capacità di leggere e di scrivere. A seguito dell'estesa divulgazione di nuove idee attraverso lo strumento di massa della stampa, quelle nuove e sovvertitrici potevano essere messe tutt'a un tratto alla portata dei ceti infe­ riori . Di conseguenza la contesa ideologica dell'èra della Riforma provocò nell'atteggiamento ufficiale una strana ambivalenza nei confronti dell'istruzione . Da un lato sia i cattolici che i prote­ stanti si premuravano di insegnare ai loro seguaci a leggere i rispettivi manuali di insegnamento religioso ; dall'altro, entrambe le parti erano ugualmente preoccupate di non permettere che le pubblicazioni sgradite cadessero nelle mani di credenti igno­ ranti . Allo stesso modo, sul piano sociale veniva compiuto ogni tentativo per non consentire che i ceti inferiori si istruissero troppo e si mettessero in testa di migliorare la loro condizione

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sociale . Il dilemma - istruire o no il popolo - era talmente grave che tutti gli esponenti della cultura e della politica, uma­ nisti e liberali, dovettero affrontarlo . Fu una coincidenza che i Paesi Bassi, terreno fertile di eresie e di rivoluzione, avessero probabilmente il più alto tasso di alfabetismo d'Europa? Nel 1525 Erasmo scrisse : « In nes­ sun'altra parte si trova una quantità maggiore di gente di media istruzione ». Verso la fine del Cinquecento Guicciardini riferl che « la massima parte del popolo dei Paesi Bassi possiede i rudimenti della grammatica ; quasi tutti, compresi anche i con­ tadini, sanno leggere e scrivere » . Sembra che quello che im­ pressionò Guicciardini fosse più il contrasto con l'Italia che lo straordinario grado di alfabetismo degli olandesi : perfino verso il 1 6 3 0 , in una città progredita come Amsterdam, il tasso di alfabetismo era piuttosto al di sotto del 50 per cento . L'istruzione elementare non costituiva necessariamente un avanzamento verso una maggiore diffusione dell'alfabetismo . In molti paesi la « grammatica » insegnata nelle scuole, in aggiunta alla lettura e alla scrittura, era la grammatica latina. L'uso del latino veniva deliberatamente incoraggiato dagli autori, i quali ritenevano che la conoscenza fosse privilegio di pochi, tanto che perfino innovatori come Copernico preferirono usare il latino, convinti che i misteri della scienza non dovessero essere comu­ nicati al grosso pubblico. Il latino divenne un simbolo di oscu­ rantismo per i riformatori protestanti, i quali lo combatterono aspramente, partendo dal presupposto che esso impediva alla massa del popolo di aprirsi la strada verso la verità. Dovunque giunsero i riformatori, sia in Inghilterra dove preti cattolici analfabeti avevano ridotto il canone della messa a un borbottio strampalato, sia in Francia dove s. Vincenzo de' Paoli si rese conto che il clero ignorante era incapace di ricordare i testi rituali, emerse in modo evidente la necessità di servirsi della lingua nazionale. I sermoni e i libri in lingua nazionale assun­ sero molta più importanza di prima, poiché potevano cambiare la mentalità e gli interessi della popolazione . Quando nel 1 5 3 3 Sir Thomas More dichiarò che quasi tre quinti degli inglesi riuscivano a leggere l'inglese e, di conse­ guenza, erano in grado di leggere la Bibbia tradotta in lingua nazionale, il suo intento fu di gettare l'allarme contro il danno che avrebbero potuto provocare le pubblicazioni non autoriz-

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zate. Le cifre di More erano sicuramente inesatte, ma rimaneva la paura dell'alfabetismo nella lingua nazionale. Enrico VIII, durante gli ultimi anni di regno, si rammaricava di avere con­ sentito che la Bibbia circolasse in inglese. « Sono molto addo­ lorato di sapere in quale modo il preziosissimo gioiello del Verbo di Dio venga discusso, messo in rima, cantato e stonato in tutte le birrerie. Mi addolora anche il fatto che i suoi lettori la seguano con scarso interesse e con freddezza nel loro modo di vivere. A causa di ciò sono certo che la carità non fu mai altrettanto :fiacca fra di voi, che la virtù e la devozione non furono mai meno osservate e che Iddio in persona non fu mai meno venerato, onorato e servito dai cristiani » . Questa era l'opinione dominante, condivisa più dai cattolici che dai prote­ stanti, in quanto questi ultimi erano più sulla difensiva. Non sorprende perciò il fatto che i cattolici furono forse i più dif­ fidenti nei riguardi di qualsiasi cosa che esulasse dall'alfabetismo elementare. I cattolici, sebbene in questo periodo non fossero affatto contrari all'istruzione, ebbero cura di precisarne i limiti e di sottoporre l'istruzione superiore al più rigido controllo. La linea di condotta degli spagnoli fu forse quella più draco­ niana. Mentre all'interno della penisola iberica si esercitava un tenace controllo sui metodi pedagogici, nel 1 558 Filippo II proibl agli spagnoli di studiare fuori di essa se non presso quattro istituti superiori espressamente indicati. Nelle colonie americane il governo assunse un atteggiamento deliberatamente restrittivo. Nel Cinquecento un viceré della Nuova Spagna, Gil de Lemos, disse seccamente a una delegazione di coloni : « Im­ parate a leggere, a scrivere e a dire le preghiere, perché questo è quanto un americano deve sapere » . Il miglioramento dell'alfabetismo fra la gente del popolo fu preso con una certa serietà di intenti soltanto nei paesi pro te­ stanti. Il motivo fu a un tempo semplice e ideologico : la Bibbia era la base della fede, quindi la Bibbia doveva essere letta. « La sacra Scrittura - aveva affermato vivacemente Lutero non può essere compresa senza conoscere le lingue e le lingue si possono apprendere soltanto a scuola. Se i genitori non pos­ sono privarsi dei loro :figli per tutto il giorno, lasciate che li mandino anche per poco. Scommetto che in mezza Germania non ci sono più di 4 .000 scolari . Mi piacerebbe sapere dove andremo a prendere i pastori e gli insegnanti di qui a tre anni » .

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L'addottrinamento dei protestanti, genitori e figli, poteva rea­ lizzarsi soltanto aumentando il livello dell'alfabetismo. Dopo la Riforma furono soprattutto i protestanti che ottennero i mas­ simi risultati nel campo dell'istruzione popolare. La maggior parte del successo ottenuto dal movimento della Riforma in Francia si basava sullo sforzo di dare impulso all'alfabetismo. Si distribuivano alla popolazione libri di testo elementari e abbecedari . Per esempio, nel 1 562 venne chiesto al Parlamento di Parigi di procedere contro un macellaio, il quale aveva distri­ buito un abbecedario eretico a circa 200 bambini di età infe­ riore ai dieci anni. Una volta che aveva imparato a leggere, la gente si sentiva incoraggiata a consultare da sé, nella propria lingua, il sacro testo che la Chiesa esitava a lasciare nelle sue mani . Anche se non dobbiamo esagerare il merito del protestan­ tesimo nello stimolare l 'alfabetismo ( il progresso era lento, le scuole e gli insegnanti erano in numero esiguo, le classi più povere ne traevano pochissimo beneficio ), è difficile cancellare l'impressione che già alla fine del Seicento nei paesi protestanti, soprattutto in Inghilterra e nelle Province Unite, si riscontrasse il maggior grado di istruzione in Europa. Quanto all'Inghilterra, si è calcolato che verso la metà del Seicento esisteva una scuola per ogni 4 .400 abitanti in un raggio di circa dodici miglia. La parte puritana della popolazione, dove l'alfabetismo era neces­ sario alla devozione che si affida moltissimo alla lettura ispirata, presentava un'elevata concentrazione culturale. L'esercito di Cromwell deve essere stato di sicuro l'esercito più istruito mai conosciuto a quei tempi, a giudicare dai documenti e dalle peti­ zioni redatte dai soldati, cosa che fa pensare che la grande mag­ gioranza dei sottufficiali e della truppa era in grado di firmare con il proprio nome.

Lo sviluppo della propaganda. L'unico scopo di fare leggere la gente era quello di convin­ cerla della giustezza di determinate idee. Il periodo della Con­ troriforma può pertanto essere considerato come un esercizio prolungato delle tecniche della persuasione. Il pulpito fu adope­ rato come forse mai lo era stato in precedenza, ma per sua

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natura era limitato alle quattro mura di un edificio. Fu la parola stampata, divulgata per mezzo dei libri , dei manifestini e dei giornali, che alla fine si rivelò come il metodo propagandistico più convincente. Durante il Medioevo il pulpito era stato il mediatore per eccellenza della pubblica opinione e la sua funzione prosegul per tutto il Seicento . I predicatori della Controriforma ottennero un successo senza precedenti, arginando in tal modo i grandi progressi compiuti dai luterani per mezzo del pulpito . Si dice che s. Pietro Canisio, forse il più notevole fra tutti i predica­ tori cattolici d'Europa, abbia con la sua eloquenza preservato Vienna alla fede . In Francia, in epoca posteriore, Bourdaloue mieté conversioni per mezzo dei suoi sermoni. È significativo che questi due sacerdoti fossero gesuiti, in quanto furono i ge­ suiti che nel settore cattolico usarono nel modo più intelligente le nuove tecniche allo scopo di conquistare le masse. Inoltre le prediche ebbero un duplice effetto . Espresse dapprima oral­ mente, successivamente venivano stampate e divulgate in modo da raggiungere un pubblico più vasto . In questa maniera avreb­ bero giovato sia alle persone istruite che agli analfabeti . La forza del pulpito era talmente grande che occorreva l'au­ torizzazione ecclesiastica per ottenere il permesso di predicare. Nel continente la Riforma affrancò il pulpito dal controllo del vescovo, ma nell'Inghilterra episcopale i vescovi tenevano ancora a freno la manifestazione pubblica delle idee dissidenti . Ciò spinse le comunità puritane della Chiesa anglicana a nominare presso le loro parrocchie dei conferenzieri ufficiosi ai quali, dato che non facevano parte in senso formale del clero parrocchiale, non occorreva l 'autorizzazione per predicare . I conferenzieri po­ tevano spesso avanzare opinioni teologiche diverse da quelle della Chiesa ufficiale. Venivano designati dalle parrocchie puri­ tane, dai pari e dalle corporazioni cittadine. Di conseguenza il modo di pensare dei puritani venne divulgato impunemente da centinaia di pulpiti in tutto il paese e minacciò di sovvertire l'ordine costituito. I conferenzieri, tuonò l'arcivescovo Laud nel 1 62 9 , « sono creature del popolo ed emettono il muggito della sua sedizione ». La lotta per il pulpito fu perciò, in un senso veramente autentico, una lotta per conquistare la mente degli uomini . Nel 1 64 1 Lord Falkland protestò che i vescovi ave­ vano « screditato i conferenzieri, o perché la diligenza di altri

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uomini nello svolgere quelle mansioni sembrava un rimprovero alla loro negligenza, oppure con l 'intento di fare scendere le tenebre, sì da potere più facilmente seminare la loro zizzania con il favore della notte » . L'eloquenza era un'arma potente m a transitoria; era il carattere permanente della parola stampata che metteva in al­ larme le autorità. La repressione e il controllo dell'informa­ zione furono in massima parte rivolti contro le pubblicazioni. Dato che i circoli dominanti cattolici erano sulla difensiva nei confronti delle nuove idee, l'attività della stampa nelle zone cattoliche tendeva a cadere in sospetto, mentre nei territori protestanti agì ( in un primo momento ) con maggiore libertà. Di conseguenza, nell'epoca immediatamente successiva alla Con­ troriforma, si assistette a una emigrazione su vasta scala di tipo­ grafi dall'Europa cattolica a quella protestante. In Germania l 'industria della stampa gravitava dai principati meridionali verso il nord ; durante il Cinquecento i tipografi costituirono una cospicua componente dell'emigrazione dalla Francia a Gine­ vra ; fra gli esuli illustri che lasciarono Anversa per i Paesi Bassi settentrionali vi fu la famiglia Elzevier. In ogni caso questo movimento non tolse all'Europa cattolica i suoi mezzi di pro­ paganda, ma sicuramente la privò di molta iniziativa. La battaglia dei libri continuò per tutto questo periodo, fino ad assumere un carattere religioso . La Riforma diede im­ pulso alla stampa protestante ; a partire dal 1 570 circa, la Con­ troriforma fece la stessa cosa per quella cattolica . Sebbene l'ap­ parizione del libro stampato aprisse infinite possibilità per le opere di letteratura, di viaggi, di diritto e così via, durante questo periodo il libro di religione ( devozionale o polemico ) non fu mai rimosso dalla sua posizione di comando . Su di un totale di 1 69 libri pubblicati a Parigi nel 1 598, 49 erano di materia religiosa, oltre 54 di letteratura, 1 7 di materie gmrt­ diche, 26 di storia e 22 di arte e di scienza. Nel 1 645, su di un totale di 456 libri pubblicati nel corso dell'anno, 1 7 2 erano di religione, 1 1 0 di letteratura, 83 di storia, 32 di materie giu­ ridiche, 34 di scienza e 25 di altri argomenti . Circa un terzo dei libri pubblicati nel cinquantennio compreso fra le predette date riguardava la religione. Entro un certo limite, come si è già visto, ciò fu dovuto al fatto che la Controriforma avvenne in Francia durante quegli anni. Ma anche oltre i confini della

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Francia le preoccupazioni dei tipografi dimostrano che verso la metà del Seicento la polemica religiosa { gli arminiani in Olanda, il giansenismo in Belgio ) continuò a dominare il mercato. L 'età della ragione e della scienza non era ancora apparsa all'orizzonte. I libri non furono necessariamente il mezzo ideale per la propaganda : erano ancora relativamente cari e di solito veni­ vano pubblicati in tirature limitate ( da 1 .250 a 1 .500 copie circa ). Naturalmente la Bibbia era sempre un best-seller, come lo erano alcuni altri libri citati nel precedente capitolo . Ma se si può fare assegnamento sui cataloghi della fiera internazionale di Francoforte, i libri in lingua nazionale costituivano ancora una minoranza. Dal 1 564 al 1 600 in questa fiera, la più impor­ tante d'Europa, furono esibiti quasi 1 5 .000 libri di origine tedesca . In media, non più di un terzo di essi era in lingua tedesca. Nel periodo 1 60 1 -05, su 1 .334 libri presenti alla fiera , 8 1 3 erano in latino e 422 in tedesco . Soltanto dopo il 1 680 i libri in tedesco divennero la maggioranza . In Inghilterra la lingua nazionale ebbe un'influenza più forte sull'editoria, ma nonostante ciò non vi fu nessun tentativo di rilievo di usare i libri per la formazione delle idee . La difficoltà principale era la censura, di fronte alla quale i libri erano particolarmente vulnerabili. Il pubblico capace di leggere e di scrivere era meno adatto a leggere libri che i trattatelli concisi e bene espressi, di con­ tenuto chiaro e dal linguaggio semplice. I trattatelli di questo tipo si dividevano grosso modo in due categorie : i libelli a stampa e i volantini, dove insieme al testo c'era un'illustrazione a cliché o su lastra di rame . A cominciare dalla guerra degli opuscoli durante la Riforma fino alla propaganda spesso cru­ dele della Fronda e della guerra dei Trent'anni, questa fu la categoria che più di ogni altra riuscì a produrre una certa forma di propaganda per le masse. Di solito i volantini contenevano illustrazioni satiriche, talmente ingegnose da attirare la simpatia del lettore o almeno la sua attenzione. Nella maggior parte dei casi il testo consisteva di filastrocche, spesso della lunghezza di qualche strofa. Anche se quello della Controriforma fu un periodo di lotta e di polemica, la propaganda libellistica non ne fu l 'aspetto permanente. Al contrario, la schiacciante mag­ gioranza dei libelli giunti fino a noi data soltanto da un'epoca ben definita, dai decenni a metà del Seicento . L'esistenza di una

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crisi generale della vita politica non si trova meglio illustrata da nessuna parte, tranne che in queste raccolte che si occupano di tre avvenimenti basilari : la rivoluzione inglese, la Fronda e la guerra dei Trent'anni. La quasi totalità dei manifestini tedeschi riguardanti la guerra dei Trent'anni cercò di presentare la giustizia di una causa e gli eccessi compiuti dalla parte avversaria. La quantità di produzione letteraria che ne derivò segnalò la comparsa di un particolare tipo di scrittore : il pubblicista professionale . Nel corso del conflitto i tedeschi ne produssero molti del genere, segnatamente Kaspar Schoppe, il quale scrisse per i cattolict, e Hoe von Hoenegg, predicatore di corte presso l'Elettore della Sassonia, per i luterani . Tutte le tecniche della più rozza pro­ paganda - deformazione, esagerazione e palese falsificazione dei fatti - furono generosamente impiegate da questi scrit­ tori. Lo storico rimane poco sorpreso per il fatto che i volantini più interessanti non sono tanto quelli che ostentano spirito di parte, quanto quelli che reagiscono contro tutti i protagonisti e intercedono faticosamente per la pace e per l'umanità. Fra tutti il più tipico è uno del 1 642, in cui si protesta aspramente contro le sofferenze sopportate dai contadini per colpa degli aristocratici e dei soldati : Non si può più vedere la magnificenza della terra, La guerra, il saccheggio, l'assassinio e il fuoco la stanno [ devastando, L'Impero romano libero crolla di fronte ai barbari.

Sembra che la propaganda della guerra dei Trent'anni abbia spesso rispecchiato il pensiero popolare, mentre invece fu per la maggior parte il prodotto di un gruppo di esperti pubblicisti . Il materiale pubblicitario che accompagnò la rivoluzione inglese e la Fronda ebbe tutt'altro carattere. Per i contemporanei uno degli aspetti più allarmanti dei conflitti sociali in Inghilterra e in Francia fu il fatto che i capi dei ribelli avevano invitato, attraverso la loro propaganda, la gente del popolo a prendere parte ai misteri che le erano pre­ clusi . L 'assunto era, chiaramente, che la pubblicità diretta a conquistare le masse alla propria causa era ammissibile ; ma la pubblicità che esponeva tutte le questioni al popolo e lo invi-

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tava a riflettervi sopra era una cosa assolutamente deplorabile. Da questo punto di vista il materiale pubblicitario dal 1 640 in poi fu una delle prime grandi manovre di propaganda rivo­ luzionaria. « Il popolo è penetrato nel sancta sanctorum », disse il cardinale de Retz dando soddisfazione alla Fronda . In Inghil­ terra Clement Walker criticò, con la sua History of Indepen­ dence del 1 66 1 , il modo di procedere degli indipendenti : « Hanno gettato tutti i gelosi segreti di governo in pasto alla plebe, hanno insegnato ai soldati e al popolo a esaminarli a fondo e a confondere di nuovo tutti i tipi di governo con i primi principi naturali ». Un altro inglese dell'epoca denunciò « le tu­ multuose agitazioni di moltitudini brutali che minacciano san­ gue e rovina, la predicazione dei ciabattini, dei feltrai, dei sarti, degli staffieri e delle donne », un elenco senza dubbio redatto in ordine crescente a seconda del grado dell'offesa. Si dovette affrontare la situazione : la propaganda era più che una manovra persuasiva ; spesso rifletteva modi di pensare schiettamente popolari, si impegnava non a favore dei partiti dominanti bensl nella contestazione di ogni forma di autorità . Appena le cateratte della censura furono aperte, attraverso di esse proruppero i sentimenti di tutti i settori del popolo . La quantità che abbiamo registrato sta a dimostrare una produ­ zione propagandistica molto significativa. A Parigi la guerra degli opuscoli si concentrò nel periodo dal gennaio 1 649 all'ot­ tobre 1 652 . Il catalogo di Moreau relativo alle Mazarinades (cosi chiamate sulla scia del notissimo libello La Mazarinade, in data 1 1 marzo 1 6 5 1 e diretto contro il cardinale Mazzarino ) elenca più di 4 .000 voci . Forse la cifra totale effettiva era circa due volte tanto . Sembra che la circolazione degli opuscoli sia stata molto diffusa, non limitandosi alla sola Parigi , né tanto meno alla Francia; per esempio, la biblioteca di Dresda pos­ siede circa 3 .000 pezzi, raccolti presumibilmente in Sassonia e in Germania. Durante la guerra civile inglese la produzione, a quanto si sa, fu la più alta d'Europa. La raccolta del British Museum ne conserva quasi 2 .000 soltanto per l'anno 1 642, pari a una media di quasi sei opuscoli al giorno . Quanto agli anni dal 1 640 al 1 66 1 , gli opuscoli giunti fino a noi sono in totale quasi 1 5 .000 . Di massima, sia in Inghilterra che in Francia, gli opuscoli non erano delle raffinatezze di propaganda, né un lavoro

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accurato di pubblicisti esperti . Un'altissima percentuale fu total­ mente estranea alla crisi che li aveva generati : erano semplice­ mente il prodotto di imbrattacarte che componevano filastroc­ che. Fra i rimanenti, nonostante il loro carattere transitorio, vi erano moltissimi opuscoli che rispecchiavano il modo di vedere della gente del popolo, erano pieni di proverbi scritti in gergo, di espressioni salaci e di uno schietto linguaggio osceno . Quanto alla massa della pubblicistica in senso assoluto, il Seicento fu un secolo di innovazione. Questa attività significava che le tipografie lavoravano a pieno ritmo . Un tipografo di Parigi cosl commentò nel 1 649 : « Mezza Parigi stampa o vende opuscoli, l'altra metà li scrive » . Appena i manifestini uscivano dai torchi, dalle prime ore del mattino i venditori ambulanti si mettevano in giro per venderli nelle strade. Dopo la capitale, la distribuzione veniva effettuata nelle province con straordinaria efficienza. Nel 1 649 Mazzarino si dolse che « hanno inviato più di 6 .000 copie del manifestino contro me e d'Hémery [ ministro delle Finanze ] in tutte le pro­ vince » . Dato che le norme della censura erano teoricamente ancora in vigore, i libellisti dovevano essere sempre cauti . I pubblicisti più inafferrabili e più bravi di questo periodo furono i « livellatori » . John Lilburne diventò una spina nel fianco del­ l'autorità grazie alla sua capacità di stampare opuscoli non autorizzati, che uscivano regolarmente dalle macchine per la stampa per essere distribuiti nelle varie parti d'Inghilterra. Il suo intento era esplicitamente quello di fare propaganda : « Ora sono deciso a sollevare tutto il regno e l'esercito contro di loro [ i presbiteriani ] », dichiarò nel 1 647 . Dal 1 648 al 1 649 fu aiu­ tato dall'esistenza di un giornale, il « Moderate », che forniva al pubblico la maggior parte delle principali notizie del partito dei « livellatori ». Questo fu uno dei primi esempi di un gruppo rivoluzionario strettamente collegato, che faceva largo uso della stampa allo scopo di cambiare l 'opinione pubblica. Il più im­ portante centro di propaganda d'Europa fu senza dubbio la repubblica olandese. Ad Amsterdam e a Leida le macchine per la stampa producevano i testi in quasi tutte le principali lingue europee. In pratica Amsterdam esercitava un monopolio nella produzione della propaganda antifrancese, mentre anche il ma­ teriale pubblicistico sovversivo veniva contrabbandato con rego-

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larità in Inghilterra, in Scozia e in altri paesi. Disponendo della stampa più indipendente d'Europa, gli olandesi minacciavano la sicurezza di ogni Stato dove era applicata la censura. La storia degli opuscoli si sovrappone a quella della stampa periodica. Ambedue avevano la funzione di suscitare la discus­ sione pubblica, sicché un opuscolo che appariva periodicamente ( il primo esempio in Inghilterra fu la serie dei trattatelli di Marprelate nel 1588 e nel 1 5 8 9 ) costituiva già un precedente. Tuttavia la vera differenza tra i due consisteva nel fatto che il periodico aspirava a fornire notizie ed era effettivamente un giornale. Siamo talmente abituati all'informazione quotidiana, che essa ci appare come un aspetto innocuo e necessario dei rapporti umani . Invece nel Seicento, come in alcuni moderni Stati autoritari, le notizie potevano essere pericolose. Un tipo­ grafo poteva essere accusato di fornire informazioni al nemico, o di deformare deliberatamente i fatti e di diffamare, oppure di incitare il popolo con pubblicazioni sediziose. Le punizioni contro la sedizione potevano essere dure : nel 1 63 7 , in Inghil­ terra, William Prynne subl il taglio delle orecchie, fu pesante­ mente multato e poi gettato in prigione. Nel 1 572 a Roma il papa montò talmente in collera a causa del tono ostile degli avvisi 1 che ne proibl la pubblicazione, mentre il suo successore approvò un editto contro i propagatori di notizie false e illecite. Uno dei giornalisti che nel 1 5 8 7 , durante il pontificato di Sisto V, trasgredl questi regolamenti, fu condannato al taglio della mano e della lingua e, infine, all'impiccagione. Gli avvisi erano per lo più bollettini per i mercanti e fu­ rono la prima forma di giornalismo italiano . Quelli inviati da Venezia ai Fugger di Augsburg negli anni 1 554-65 furono tra i primi, ma la prima serie regolare fu quella inviata dal suo agente di Roma al duca di Urbino negli anni compresi tra il 1 554 e il 1 605. Le informazioni venivano raccolte da giorna­ listi chiamati menanti 1 • I bollettini più noti, patrocinati da un'impresa commerciale, furono quelli di Fugger, ai quali col­ laborarono corrispondenti da ogni parte d'Europa. Non si limi­ tavano semplicemente a notizie commerciali , ma fornivano in­ formazioni su ogni cosa che il corrispondente ritenesse degna di nota . Non è facile definire la differenza tra i bollettini publ

In italiano nel testo. [ N.d.T.]

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blicati come gli avvisi e i primi giornali. Forse la base di giu­ dizio più adatta è la periodicità . Il « Mercure français » di ca­ rattere ufficiale, pubblicato agli inizi del Seicento, era soltanto annuale. Altre pubblicazioni apparvero più di frequente, ma a intervalli molto irregolari . Di comune accordo il primo « gior­ nale » si fa risalire ai primi del Seicento : fu il mensile « Rela­ tion », pubblicato per la prima volta a Strasburgo dal tipografo Johann Carolus nel 1 609 e distribuito anche ad Augusta. Con­ teneva la cronaca proveniente da 17 diverse città europee . Un altro contendente al titolo di primo giornale è l'« Avis a, Rela­ tion und Zeitung », che apparve a Helmstedt sempre nel 1 60 9 . Non sembra che s i a esistito u n settimanale fino a che nel 1 6 1 5 non uscl i l « Frankfurter Zeitung » , pubblicato d a Egenolf Em­ me! . La Germania può giustamente rivendicare la responsabilità sia dell'invenzione della stampa, sia di avere dato inizio al gior­ nalismo . Il primo giornale francese fu pubblicato nel 1 620, tuttavia non in Francia ma ad Amsterdam. Fu inoltre ad Am­ sterdam che usd in quello stesso anno il primo giornale inglese, il « Corrant out of ltaly, Germany etc. », che fornì regolar­ mente la cronaca della guerra dei Trent'anni . Sembra che nel 1 62 1 apparissero regolari giornali inglesi, ma si trattava sol­ tanto di traduzioni di giornali olandesi inviati dall'Olanda . Due cose in particolare diedero un grande impulso allo sviluppo di veri e propri giornali e allo sviluppo della stampa. In primo luogo lo Stato si preoccupava di dare la più estesa pubblicità possibile alle sue opinioni . Venivano stampate e distribuite le copie degli editti ( la Biblioteca Nazionale di Pa­ rigi possiede, relativamente ai soli anni 1 598-1 643 , un totale di oltre 50 .000 diversi documenti a stampa, emanati dallo Stato ). Fu il desiderio di avere una regolare piattaforma per il pensiero ufficiale che indusse Théophraste Renaudot a fondare nel 1 63 1 , dietro sollecitazione del cardinale Richelieu, la « Ga­ zette de France ». Lo stesso Renaudot ammise che la « Gazette » era fondamentalmente un giornale per « i re e per l'autorità costituita » . Però doveva fornire anche un'informazione onesta a uso del cittadino medio, di modo che « il mercante non nego­ zierà più in una città assediata e in rovina, né il soldato andrà in cerca di impiego in un paese dove non c'è guerra: per non parlare della condizione di coloro che scrivono ai loro amici, i quali in passato erano costretti a fornire notizie che erano o

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inventate, o per sentito dire ». La « Gazette » era settimanale ed era composta di quattro (più tardi otto ) pagine in-quarto. Questo fu l'inizio della propaganda governativa per mezzo della parola stampata. Altri Stati seguirono l'esempio. Firenze ebbe una gazzetta settimanale nel 1 636, Roma nel 1 640, Genova nel 1 642, gli Stati Generali della repubblica olandese nel 1 649, mentre in Spagna la « Gaceta de Madrid » fu pubblicata per la prima volta nel 1 6 6 1 per ordine del re. Il secondo motivo saliente dello sviluppo degli organi di informazione fu il desiderio delle fazioni politiche di ostentare con regolarità le loro idee. Le notizie si facevano particolar­ mente interessanti durante una crisi politica e si afferrava cOn avidità qualsiasi specie di informazione . Durante la Fronda i parigini furono profondamente influenzati da ciò che leggevano. Particolarmente apprezzata era la « Gazette » di Renaudot. « Dal grande al piccolo, ciascuno discute ciò che succede sol­ tanto per mezzo della " Gazette ". Coloro che possono com­ prano alcune copie e le raccolgono . Gli altri si contentano di pagare per averla in prestito e per leggerla, o altrimenti si met­ tono insieme per comprarne una copia » . Il medesimo tratta­ tello che ce ne parla prosegue affermando che perfino nelle peg­ giori giornate dell'assedio « i parigini, rinchiusi dentro le loro mura, soffrirono meno per la mancanza di pane che per la man­ canza di gazzette », quest'ultima verificandosi ogni volta che gli avvenimenti costringevano Renaudot a sospendere la pub­ blicazione . « Il pane non si vendeva meglio » - ci viene detto - del « Courrier français » quando apparve . Dietro que­ ste esagerazioni c'è di vero il fatto che una crisi creava l 'esi­ genza di notizie, situazione ideale per i propagandisti. Durante la crisi inglese le fazioni ebbero estrema cura di far conoscere le loro idee . La sospensione della censura e delle autorizzazioni durante la guerra rese possibile un'ondata di giornali senza precedenti . Qualche idea su ciò che avvenne pos ­ siamo averla dagli opuscoli che fanno parte della raccolta Tho­ mason presso il British Museum . Per il 1 64 1 la collezione pos­ siede soltanto quattro giornali, per il 1 642 ne ha 1 6 7 . L'anno di massima attività è il 1 645, con 722 giornali. I due giornali più importanti erano il « Mercurius Aulicus » ( pubblicato a Oxford), monarchico, e il « Mercurius Britanicus », parlamen­ tare. Nella sola Londra la tiratura del primo toccava circa 500

VIII. Informazione

e

fantasia

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copie. Tale era la tiratura media complessiva della maggior parte degli altri giornali . Una tiratura di 500 copie a Londra era più significativa di quanto possa sembrare. Supponendo che una dozzina di giornali vendesse a Londra altrettante copie all'incirca, e che ciascuna copia venisse letta da quattro o cinque persone, può anche darsi ( come afferma uno storico ) che i gior­ nali siano stati letti dalla metà dei maschi di Londra in grado di leggere e di scrivere. Non c'è dubbio che la stampa svolse una certa parte nell'intensificare la coscienza politica dei londi­ nesi, compito nel quale nessuno avrebbe potuto mostrarsi più attivo di John Lilburne e dei suoi colleghi del partito dei « livellatori » . Con u n livello di alfabetismo relativamente basso, e con una stampa ai suoi primi passi, nulla che si potesse paragonare alla pubblica opinione avrebbe fatto la sua apparizione attra­ verso la parola stampata. È qui che sorge il pericolo di un'inter­ pretazione erronea. Le penne che scrivevano erano per lo più nelle mani di uomini privi di idee proprie. Allora, quanto erano importanti e in quale misura si disperdevano quelle idee, che soltanto casualmente ( come avveniva per mezzo degli « zappa­ tori » e dei « Hvellatori » in Inghilterra ) finivano per essere stampate ? Da un lato è possibile considerarle idee atipiche, come il prodotto di una minoranza non rappresentativa e imma­ tura . Ma esiste anche il valido motivo di considerarle - specie durante la Fronda e le altre insurrezioni del continente - come la cima di un iceberg, una piccola frazione della grande massa di radicalismo sociale che non poteva manifestarsi, in quanto l'analfabetismo e lo stato di arretratezza dell'informazione ave­ vano precluso ogni possibilità di espressione. L'antica, eterna barriera frapposta al progresso della stampa era la censura. Il controllo dell'informazione era stato un aspetto naturale della struttura della società cattolica medievale, men­ tre le autorizzazioni a predicare erano state rigorosamente con­ trollate dalla Chiesa. La minaccia costituita dalle tipografie non autorizzate gettò nel panico le autorità e provocò, per la prima volta nella storia d'Europa, un fiume di leggi da parte di ogni governo europeo . Fino a una certa estensione, gli sviluppi avu­ tisi in Inghilterra furono caratteristici . Il primo elenco di libri proibiti in Inghilterra fu emesso nel 1 529, mentre nel 1 530 venne introdotto un sistema di autorizzazione rilasciata dallo

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Parte III. Fede e ragione

Stato . Nel 1 586 venne approvato il famigerato Star Chamber Decree relativo al controllo della stampa. I controlli venivano esercitati anche sugli stessi tipografi. Nel 1 557 la regina Maria li organizzò in una corporazione di mestiere, la Stationers Com­ pany, cui furono conferiti poteri di monopolio. Già nel 1583 Londra aveva 23 maestri tipografi, tutti membri della predetta Company, che facevano funzionare un complesso di 53 mac­ chine. Fu il tentativo di spezzare questa alleanza tra autorizza­ zione dello Stato e stampa in regime di monopolio che impegnò i ribelli del periodo delle lotte tra i Tudor e gli Stuart. Il sistema fu sul punto di cadere durante le guerre civili, ma in seguito venne rafforzato. I grandi appelli per la libertà di infor­ mazione si addensarono negli anni di guerra : uno dei primi forti oppositori al sistema dell'autorizzazione fu l'esponente dei « livellatori » Walwyn, il quale nel 1 644 chiese che « la Stampa possa essere libera per tutti coloro che non scrivono nulla di estremamente calunnioso e pericoloso per lo Stato » . Sebbene la presa di posizione di Walwyn e dei « livellatori » per una stampa libera fosse sicuramente la più avanzata fra quelle assunte in Europa ai loro tempi, forse il loro appello fu pur­ troppo eclissato da quello dell'A eropagitica di Milton ( 1 644 ) che, per quanto stimolante, si era messo in una posizione deci­ samente meno liberale. Con la presenza della censura le idee venivano messe in cir­ colazione con lentezza, con grande difficolà, spesso niente affatto. Il modo più rapido per un dotto autore di comunicare era ancora quello di scrivere in latino, in quanto si sarebbe fatto comprendere più facilmente dal mondo accademico : quando nel 1 565 pubblicò il suo Stratagemata Satanae, Aconcio non lo fece in Inghilterra, dove risiedeva fin dal 1 559, ma a Basilea, uno dei grandi centri della stampa europea ; e anche allora esso non fu pubblicato né in italiano ( sua lingua d'origine ) né in inglese, ma in latino. I suoi lettori inglesi dovettero attendere molti anni prima di paterne disporre nella loro lingua. L'utilità del latino era sempre grande. La letteratura in lingua nazionale, anche se fece aumentare il numero dei lettori all 'interno di un paese, costitul un altro ostacolo per il libero scambio delle idee. Difatti la letteratura in lingua nazionale spesso facilitava il com­ pito del censore e consentiva di bloccare il flusso delle idee. Per esempio, l'Inghilterra si isolò di più dal continente, una

VIII. Informazione e fantasia

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situazione dimostrata con la massima evidenza dal fatto che nessuno dei principi della rivoluzione inglese del 1 640 riuscì ad attecchire in un'altra parte d'Europa. Mentre i fermenti rivoluzionari scuotevano sia l'Inghilterra che le sue colonie americane, il continente rimase a guardare. Il tentativo di Cromwell nel 1 65 3 di esportare a Bordeaux una versione fran­ cese riveduta e corretta del Patto del popolo, fu una manovra chiaramente sleale, sleale in quanto Cromwell aveva personal­ mente annientato il Patto in Inghilterra, chiaramente perché il suo scopo evidente era unicamente quello di sovvertire lo Stato francese. La lingua condizionò la possibilità di esportare la rivoluzione. Questa, dopo tutto, era stata una delle fatali ragioni per cui la rivoluzione di Lutero, allignata nella lingua tedesca, rimase limitata alle terre in cui si parlava lo stesso idioma; al contrario, la rivoluzione di Calvino, allignata nella lingua francese, trovò pronta accoglienza in Svizzera, in Francia e nei Paesi Bassi . Dove la censura ottenne probabilmente il successo più com­ pleto fu in Spagna. Il paradosso della situazione culturale della Spagna consisteva nel fatto che, sebbene possedesse il più vasto Impero del mondo, quella monarchia universale fece ben poco per universalizzare, per dare via libera alla ideologia ricono­ sciuta del paese. Lo sviluppo dell'informazione umana attra­ verso la stampa e la parola scritta - su determinate questioni fondamentali - fu soffocato con maggiore efficacia in Spagna che in qualsiasi altro paese che avesse avuto esperienza del­ l'umanesimo del Rinascimento. La monarchia permise la libertà di parola a proposito di due grandi problemi : le condizioni eco­ nomiche ( di qui i numerosi trattatelli degli arbitristas) e le con­ dizioni delle colonie. Ma sugli argomenti di cultura e intellet­ tuali venne imposta una censura estremamente vigilante, con l'ausilio sia dello Stato che dell'inquisizione. Nel 1 558 venne approvato un decreto di severa censura, nel 1 559 si limitò la possibilità di recarsi a studiare presso università all'estero e, contemporaneamente, venne pubblicato il primo Index nazio­ nale dell'inquisizione spagnola. Nel complesso, non esiste una prova sicura dell'impatto che, durante il Cinquecento e il Seicento, la parola stampata causò sulla gente del popolo, le cui abitudini in fatto di lettura riman­ gono per noi quasi totalmente sconosciute. Come si è verificato

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Parte III. Fede e ragione

in ogni epoca a partire da Gutenberg, sembra probabile che la gente si interessasse non tanto alle letture di propaganda e cul­ turali, quanto alla letteratura più scadente e di evasione, alle « ballate licenziose », ai « libri ameni d'Italia », e ai « racconti depravati scritti in nero su bianco », per dirla con i critici inglesi di questo genere di letteratura. In Francia, nel tardo Seicento, racconti di questa specie venivano messi in circolazione per tutto il paese da venditori ambulanti e venduti al pubblico a basso prezzo, sicché si può dire che fin dai primissimi tempi della diffusione della parola stampata quella che dominò vera­ mente il mercato popolare fu la narrativa romanzesca . Natural­ mente gli amanti della buona letteratura erano atterriti da questo ribasso qualitativo del buon gusto. Jer6nimo de Zurita, cronista della storia d'Aragona e segretario dell'inquisizione spagnola nel Seicento, si risentl con tanta veemenza di questo fatto che, secondo lui, la soppressione della letteratura leggera era una delle principali ragioni dell'esistenza della censura. Ri­ guardo ai libri di racconti fantastici e cavallereschi, egli riteneva che « poiché sono privi di fantasia o di erudizione, e a leggerli significa perdere tempo, è meglio proibirli ». Fortunatamente per il pubblico, il quale in caso diverso avrebbe dovuto accon­ tentarsi di un cibo molto insipido, in pratica i censori presta­ vano molto meno attenzione alla letteratura leggera che a quella ideologicamente pericolosa.

Le università europee. All'epoca della Controriforma le università fondate ex novo furono talmente numerose, che sembrò che fosse venuta alla luce una nuova era della cultura . In Germania vi erano quelle di Dillingen ( 1 554 ), di Jena ( 1 558 ), di Helmstedt ( 1569), di Wiirzburg ( 1 582), di Herborn ( 1 584), di Graz ( 1 586 ) e molte altre ; nelle Province Unite vi erano quelle di Leida ( 1 57 5), di Franeker ( 1 585 ), di Groningen ( 1 6 1 4 ), di Harderwijk ( 1 600 ) e di Utrecht ( 1 636 ) ; in Inghilterra v i erano il Trinity College di Dublino ( 1 59 1 ), nonché quella di Edimburgo ( 1 583 ) e la nuova università protestante di Aberdeen ( 1 593 ) . L'espansione delle università ebbe luogo in tutta l'Europa. Presso le vecchie università vennero fondati nuovi istituti superiori e, nel com-

VIII. Informazione e fantasia

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plesso, il corpo studentesco aumentò : dai registri di Cambridge risulta che nel 1 564 vi erano 1 .267 studenti, che nel 1 622 erano saliti a 3 .050. La notevole espansione delle università ha tutta l'apparenza di un rapido sviluppo dell'istruzione superiore . Questo sviluppo presentava qualche caratteristica significativa? La verità è che in una certa misura le statistiche dell'espansione sono fuorvianti. Una grande quantità delle nuove università erano delle istitu­ zioni create per motivi fittizi, allo scopo di soddisfare un'incli­ nazione immediata di carattere religioso o politico e senza nes­ suna concreta speranza di attirare studenti . Su 22 nuove uni­ versità tedesche create tra il 1 540 e il 1 700, nell'Ottocento ne rimanevano soltanto sette . Alcune di esse non richiamarono mai più di un centinaio di studenti e soddisfecero un'esigenza pura­ mente locale. La ragione principale, in base alla quale nacquero cosi numerose nuove istituzioni, in primo luogo non fu dovuta a una accresciuta domanda di istruzione : fu dovuta al fatto che cattolici e protestanti si rifiutarono di curare gli uni le università degli altri, istituendo invece propri istituti supe­ riori in concorrenza fra loro . Per esempio, il nuovo istituto di Leida fu creato perché quelli di Lovanio e di Douai ( quest'ul­ timo fondato nel 1 562 ) si trovavano entrambi nella zona catto­ lica dei Paesi Bassi meridionali . Ovviamente i luterani avevano avuto cura di rendersi forti presso le istituzioni che erano pas­ sate dalla loro parte a seguito della Riforma, come pure si veri­ ficò per gli anglicani . Dove ancora si sentiva il bisogno di una istruzione confessionale, la lacuna veniva colmata con istituti come quello di Strasburgo ( fondato nel 1 5 3 8 e innalzato a uni­ versità nel 1 62 1 ). A loro volta i cattolici dovettero creare degli istituti superiori per i loro profughi. La prima grande univer­ sità creata dalla Controriforma fu quella di Wiirzburg ( 1 582), che era strettamente controllata dai gesuiti e con uno staff di docenti formato soprattutto da ex professori di Lovanio . In Germania le due più famose università di orientamento gesuita furono quelle di Ingolstadt ( risalente a epoca anteriore alla Riforma) e di Dillingen, fondata più recentemente. La coincidenza dell'aumento quantitativo dell'istruzione su­ periore con i cambiamenti rivoluzionari del periodo posteriore alla Riforma potrebbe far pensare che l'impulso educativo stesse avviandosi su di una nuova base . Una volta ancora, nel com-

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Parte III. Fede e ragione

plesso, non fu così . Il grado d'istruzione offerto da molti nuovi centri di cultura era l 'esatta ripetizione dei vecchi metodi e programmi, anche se con un tratto accentuato per la teologia. Che ci fosse un notevole aumento nel numero delle scuole, delle università e della quantità di studenti che le frequenta­ vano, è cosa indiscutibile. Ma quale era il contenuto di questa istruzione? Parallelamente non ci fu nessun cambiamento nei metodi di insegnamento, né per gli argomenti insegnati . A metà del Seicento Hartlib e Comenio stavano ancora lottando per apportare quella « rivoluzione » dell'istruzione che fino a quel momento si era verificata soltanto sul piano quantitativo . La situazione delle università era dappertutto deplorevole. In parte il motivo del declino della cultura accademica nelle università fu, come vedremo, l'enorme aumento della domanda da parte del servizio per lo Stato . Lo studio delle arti liberali fu tra­ scurato a favore delle due discipline - diritto civile e diritto canonico - che offrivano una promettente carriera . Presso le uni­ versità tedesche furono trascurate la filosofia e le scienze natu­ rali, la matematica come pure la biologia. Una fugace perma­ nenza in un istituto superiore divenne il passaporto per una carriera . Inoltre con il denaro si potevano comprare le lauree. Frederick Taubmann, professore di Wittenberg e poeta ( 1 5651 6 1 3 ), scrisse nel 1 604 che « se si ha denaro, nulla è più facile oggi che comprare un dottorato. Chiunque può diventare un doctor, senza essere doctus ». Vi furono numerose lamentele sul tipo d'istruzione offerto da Oxford e da Cambridge. Nel 1 583 Giordano Bruno descrisse Oxford come « la vedova della buona cultura in filosofia e in matematica pura » . In apparenza erano tralasciate la chimica e la scienza sperimentale : « L'arit­ metica, la geometria e l'astronomia - riferl nel 1587 William Harrison - [ . . . ] ora vengono poco considerate ». « I segreti della creazione - affermò Gerrard Winstanley - sono stati serrati a chiave nei discorsi tradizionali e pappagalleschi delle università » . Gli aspetti della decadenza in Spagna si possono scorgere nel caso dell'università di Salamanca che sospese l 'inse­ gnamento della lingua ebraica nel 1 555, l'anno in cui si iscrisse a questo corso un solo studente. Nel 1 5 7 8 la cattedra di mate­ matica risultava vacante da oltre tre anni . Già nel 1 648 la fa­ coltà di lettere veniva indicata come « totalmente perduta » . Tale prova è negativa e insufficiente, ma sicuramente i l risul-

VIII. Informazione e fantasia

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tato non è migliore. Se in questo periodo il metodo scientifico fece dei progressi ciò non accadde, nella maggior parte dei casi, presso le università. I grandi pionieri - Copernico, Brahe, Keplero, Peiresc - spesso studiarono presso istituti universitari, ma non ebbero una cattedra e proseguirono le loro ricerche in un ambiente più indipendente. Forse l 'unica eccezione impor­ tante fu l 'Italia. Qui la ricerca della conoscenza avveniva ancora nelle università. Nella metà del Seicento Torricelli era profes­ sore di matematica a Firenze. Grazie soprattutto a Vesalio, Padova rimase la principale scuola di medicina in Europa e fu a Padova che Harvey andò da giovane . La discussione dotta e la ricerca scientifica fiorirono meno nelle università che negli istituti superiori indipendenti e nelle accademie private . Nel tardo Cinquecento in Francia e in Italia i salotti letterari e i circoli filosofici erano un luogo comune. Già ai primi del Seicento le accademie scientifiche erano molto importanti . Le due principali accademie italiane erano quella dei Lincei a Roma ( fondata nel 1 603 ) , che fra i suoi membri annoverava Galileo, e quella del Cimento a Firenze ( fondata nel 1 6 5 7 ) , della quale facevano parte Barelli e altri scienziati. Nel 1 660 si assisté in Inghilterra alla formale costituzione della Royal Society, le cui origini possono essere fatte risalire a più di un decennio prima. Molti dei primi membri della società erano stati professori del Gresham College, un'istituzione indi­ pendente fondata nel 1 596 allo scopo di fornire un'alternative all'insegnamento impartito dalle maggiori università inglesi. Sul piano universitario ciò che accadde in Europa durante questo periodo non fu una « rivoluzione nel campo dell'istru­ zione » ( per usare una frase spesso applicata a proposito del­ l'Inghilterra ), bensl qualcosa di molto meno ambizioso . Po­ tremmo chiamarla una « rivoluzione burocratica » . Verso la fine del Seicento, in ogni nazione dell 'Europa occidentale e centrale vi fu un aumento della frequenza complessiva nelle università. Centinaia di giovani si affollavano nelle aule universitarie da lungo tempo abbandonate. Quale era il motivo principale? « L'amore per le lettere - osservò nel 1 6 3 8 il presidente della cancelleria di Valladolid - attrae soltanto pochissimi stu­ denti negli istituti superiori ». Non era il desiderio di impa­ rare o di istruirsi che li spingeva a compiere la trafì.la per con­ seguire una laurea . Genitori come Sir Thomas Fairfax debbono

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Parte III. Fede e ragione

avere costitUito una minoranza. Nel 1 6 1 4 egli chiese al diret­ tore del St John's College di Cambridge di assegnare un buon tutore a suo figlio poiché « la mia più grande preoccupazione finora è stata, ed è tuttora, di fare di mio figlio un letterato » . L a maggior parte dei genitori non era di questo parere : essi erano inclini a considerare le università come un mezzo con il quale i figli avrebbero potuto ottenere i titoli necessari per intraprendere una carriera. In Inghilterra, in Spagna, in Francia, in Germania e in altri paesi possedere una laurea significava aumentare le possibilità esistenti per chi aspirava alla carriera pubblica. Improvvisamente l'« istruzione » diventò alla moda e am­ bita, un simbolo della condizione sociale senza il quale non era possibile progredire . Una cospicua parte della letteratura del Rinascimento aveva messo in rilievo l 'opportunità di un'istru­ zione adeguata nell'ammaestramento di coloro che dovevano servire lo Stato. La nobiltà e l'alta borghesia presero molto a cuore questo consiglio, tanto che presto divenne impossibile entrare nella vita pubblica senza un'istruzione superiore simbo­ lica . In Inghilterra la Camera dei Comuni , che nel 1 563 aveva soltanto 67 membri muniti di una certa istruzione universitaria, già nel 1583 ne aveva 1 4 5 . Naturalmente lo Stato valorizzò gli amministratori colti . Ma dappertutto gli statisti furono ostili a una situazione nella quale perfino un'infarinatura di istruzione induceva gli uomini a ritenersi persone distinte, non più idonee a svolgere un lavoro manuale, bensl più degne di una posizione pubblica. Il cardinale Richelieu , in particolare, fu fortemente contrario alla estensione dell'istruzione. « Il traffico della let­ teratura scaccerebbe del tutto quello della mercanzia », dichiarò nel suo testamento politico . Disse anche che « lo Stato ha più bisogno di uomini esperti nelle arti meccaniche che in quell� liberali » . Agli Stati Generali del 1 6 1 4 alcuni deputati del clero fran­ cese protestarono che l'estensione dell'istruzione, in gran parte scarsa, « presto grava sullo Stato con troppa gente colta, inde­ bolisce le forze armate, distrugge il commercio e le arti, spopola l'agricoltura, riempie i tribunali di gente ignorante, riduce la taille, infligge la simonia alla Chiesa, funzionari in soprannù­ mero allo Stato , stipendi e pensioni all'erario e, in breve, mette tutto in disordine ». Il fatto che l'aumento dell'istruzione non

VIII. Informazione e fantasia

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fosse tutto della più alta qualità viene confermato da un autore francese, il quale nel 1 627 riferl che le scuole « hanno prodotto una grande quantità di gente capace di leggere e di scrivere, ma poche persone colte [ . . ] . Qualcuno, appena ha imparato tre parole di latino, smette di botto di pagare la taille ». Si aveva l 'impressione che l 'istruzione facesse di una persona un privilegiato. Non c'è da stupirsi che molti commentatori poli­ tici abbiano addossato la colpa del disagio politico alle pretese del grande numero di persone istruite incapaci. Nel 1 655 lo statista svedese Magnus de la Gardie protestò che « vi sono più literati e persone colte, specialmente in politicis, che mezzi o impieghi disponibili per loro, mentre essi si disperano e diven­ tano impazienti » . « È duro - doveva sottolineare Hobbes per uomini i quali hanno tutti un'alta stima delle proprie fa­ coltà mentali, quando hanno acquisito anche l'istruzione univer­ sitaria, persuadersi che sono privi di qualsiasi capacità necessaria al governo di una repubblica » . Riguardo al 1 640, la sua con­ clusione fu semplice : « Come avete constatato da ciò e letto a proposito di altre ribellioni, il nucleo della ribellione sono le .

Diriri tto canonico · · -· · Lettere Teologia ········ Diritto civile ····-···· Medicina

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o '> e, in particolare, delle contee settentrionali, nel 1 5 3 6 Robert Aske, capo del Pilgrimage of Grace dichiarò che « nelle zone settentrionali la maggior parte dell'assistenza al popolo veniva elargita dalle abbazie », assistenza che sparì in seguito allo scio­ glimento dei monasteri. È quasi fuori di dubbio che i molti e profondi mutamenti del periodo della Riforma, tanto in Inghil­ terra che nel continente, raramente recarono vantaggio alla

XI. La voce dei diseredati

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gente del popolo . Il peggioramento della situazione può essere calcolato in base all'ampliarsi della spaccatura tra salari e prezzi, ma questa specie di prova ha un valore limitato . Un indice più sicuro è il deprezzamento del valore della moneta, periodica­ mente svalutata in molti paesi durante il Cinquecento e ai primi del Seicento, che fece automaticamente diminuire il potere d'ac­ quisto dei ceti inferiori. Tuttavia a questo punto dobbiamo essere di nuovo cauti, in quanto non si era ancora pervenuti a una prevalenza dell'economia monetaria tale da influire sulle condizioni della gente comune. La seconda delle nostre due cause, la più rilevante, fu l'aumento quantitativo . Sotto un certo aspetto l'incremento fu illusorio, in quanto Io si può spiegare semplicemente in base al sovrappopolamento delle zone urbane da parte dei poveri della campagna, o altrimenti in base alla loro maggiore mobilità, do­ vuta alla loro ricerca di mezzi di sussistenza che faceva regi­ strare ovunque la loro presenza. La mobilità della popolazione contribuì ad affollare i centri urbani e a comprimere i salari di una forza di lavoro sempre più in espansione. Ma vi fu anche un effettivo incremento quantitativo delle nascite, che le cifre mettono nettamente in rilievo. Perciò la combinazione delle difficoltà economiche con l'aumento quantitativo finì per inten­ sificare lo stato di miseria.

Il vagabondaggio. Presupposto dell'espandersi del vagabondaggio fino a farlo diventare un problema sociale fu un'emigrazione dei poveri su larga scala, cosa che per l'appunto le autorità si preoccuparono di arginare dal momento che, trovandosi addosso il peso oppri­ mente dei propri poveri, non occorreva che dovessero sobbar­ carsi anche quello degli estranei. Chi leggesse per caso il mate­ riale pubblicato al riguardo potrebbe trarne l'impressione che intorno ai vagabondi si stesse facendo un rumore eccessivo, ma tutto sta a indicare che si trattava di un problema estremamente grave. Quanto al numero, la massa dei poveri vagabondi for­ mava un piccolo esercito. La distribuzione dell'assistenza ai poveri aggravava in un certo senso il problema, poiché era natu­ rale che i mendicanti si dirigessero verso le fonti di riforni-

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Parte N. Crisi generale?

mento . In un rapporto relativo al 1 569 si trova asserito che i provvedimenti assistenziali a Londra avevano « richiamato in questa città un gran numero di vagabondi, di furfanti, di sban­ dati e di oziosi, come pure di poveri, di persone storpie e ma­ late che abitano in molte parti del regno » . Di conseguenza du­ rante questo periodo l'assistenza pubblica si screditò rapida­ mente nei paesi sia cattolici che protestanti, man mano che appa­ riva chiaro il fatto che essa incoraggiava ( o almeno sembrava incoraggiare ) il vagabondaggio. Ma l'ostilità verso i vagabondi era più profonda del semplice risentimento per la loro inutilità. L'accattonaggio minacciava ogni aspetto dell'ordine sociale. Esso indicava rapporti sociali incerti, famiglie rovinate, disoccupa­ zione, precarietà ; introduceva lo straniero instabile in comunità presumibilmente stabili ; portava usanze nuove ed estranee in ambienti tradizionali. In tal modo le città, o per ragioni di sicu­ rezza o a causa dell'aumento delle loro spese per la beneficenza pubblica, tendevano a trattare spietatamente i vagabondi arre­ stati. Come vedremo quando arriveremo a trattare l'assistenza ai poveri, talvolta gli statuti governativi disponevano perfino che i vagabondi venissero ridotti in schiavitù . Non possediamo assolutamente alcuna prova in merito alla origine sociale dei vagabondi, di modo che è quasi impossibile dire se si trattasse di gente che lo era divenuta deliberatamente per non fare niente, oppure di disoccupati in cerca di un lavoro. L'unica categoria individuabile era quella degli ex militari, reduci dalle guerre e molto restii a sistemarsi in un'occupazione stabile. Portavano con sé le loro abitudini violente e contribui­ rono molto a creare il timore generale che la popolazione nutriva nei riguardi dei mendicanti . È tipico il reclamo francese del 1 5 3 7 relativo agli ex militari i quali, « insieme ad altri vagabondi, a gente malvagia e indolente, si trovano a gruppi o in compagnie in diversi luoghi e parti del regno ». L'insolita evidenza del flagello dei mendicanti emerge da un decreto ema­ nato nel 1 5 3 1 da Carlo V, in cui si dichiara che « attualmente il numero dei poveri in questo paese è molto più abbondante di quanto lo fosse prima » . Per proteggersi dai vagabondi, nel 155 9 le città della Franconia si riunirono in una lega contro « le loro offese, i loro assassinii e le loro rapine » . Si trattava di un flagello universale . Tutti i forestieri appartenenti ai ceti bassi, senza fissa dimora e senza occupazione, venivano di solito

XI. La voce dei diseredati

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trattati da « vagabondi oziosi ». Inevitabilmente ciò equivaleva a un ampio colpo di ramazza, come possiamo constatare da alcune disposizioni emanate nel 1 569 a Londra contro i vaga­ bondi ; disposizioni che, a quanto ci risulta, avevano lo scopo « di fare arrestare tutti i vagabondi, coloro che mendicano pur di non lavorare, comunemente chiamati bricconi o egiziani, e inoltre tutte le persone disoccupate, nomadi, prive di padrone e di qualsiasi sicurezza di come e di che vivere ». Si riteneva che la gente era sfaccendata perché lo voleva. Tutta la legisla­ zione dell'epoca discendeva da questa presunzione. Un decreto emanato nel 1554 dalla regina Maria d'Ungheria, governatrice dei Paesi Bassi, ordinava che fossero inviati alle galee tutti i briganti e i vagabondi che non hanno nulla da fare, ma angustiano la povera gente andando di villaggio in villaggio e da una casa colo­ nica all'altra, chiedendo l'elemosina e spesso usando minacce, nascon­ dendosi di notte nelle taverne, nei granai e in altri posti del genere, mentre la loro miseria non deriva dalla sfortuna della guerra o da altre cause oneste, ma unicamente da carattere ribelle e da pura infingardaggine, poiché non vogliono assolutamente lavorare o fati­ care per guadagnarsi il pane e da vivere .

Quali che fossero le ragioni che gettavano i vagabondi sulla strada, la loro mobilità era addirittura sbalorditiva. È vero che la grande maggioranza non si allontanava molto dal suo paese o dalla sua provincia . Però una percentuale rilevante si spingeva oltre quei confini ordinari in un tentativo di trovare aiuto . Nel Cinquecento, nei momenti critici, Valladolid accolse i po­ veri provenienti da regioni tanto lontane quanto la Galizia e le Asturie. Di un gruppo di vagabondi, bloccato a Exeter nel marzo del 1 565, facevano parte elementi della Cornovaglia, del Somerset, del Worcestershire, del Berkshire e di Londra. Su 302 mendicanti giunti da fuori ad Amsterdam durante un dato periodo di 1 1 anni ai primi del Seicento, il 1 9 ,5 per cento pro­ veniva dalla Normandia, il 1 5 ,2 per cento dalla Piccardia, 1'8,6 per cento dalla Bretagna e il 4 per cento dalla Franca Contea. Tutti questi intrusi, non avendo alcun diritto di soggiorno né alla carità, furono invariabilmente puniti e cacciati senza indugio. Tuttavia il traffico era anche internazionale. In Inghilterra, il gruppo più turbolento fu quello degli irlandesi i quali, fug-

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gendo da una terra che gli inglesi avevano rovinato, trovavano asilo provvisorio presso i loro oppressori. A proposito dei poveri di Dublino, uno storico dell'epoca osservò nel 1 575 che « la nostra età, in cui si guadagna in misura spropositata e si pia­ gnucola su ogni centesimo da spendere per i poveri, è ancora tormentata dalla carestia e dalla miseria ». Trovando poca assi­ stenza in patria, essi attraversavano il mare, per incappare nelle draconiane leggi per i poveri che li minacciavano di espulsione. Un documento del Kent riporta che « 1'8 marzo 1 602 Philip Maicroft e sua moglie sono stati frustati e sono stati loro con­ cessi sei giorni per essere trasferiti da un funzionario all'altro fuori della contea del Kent, quindi di n a Bristol, luogo dove ( come affermano ) sono sbarcati, e di n a Dungarvan nella regione di Munster in Irlanda, loro luogo ( come affermano ) di nascita » . Nei momenti in cui in Irlanda l a carestia s i aggravava, l'emi­ grazione aumentava. Nel 1 628-29 le contee occidentali d'Inghil­ terra subirono una grande affiuenza di irlandesi poveri. Nel­ l'ottobre del 1 628 si protestò « a causa del grande affiusso di irlandesi trasportati in questo paese. I proprietari di navigli guadagnano enormemente trasportandoli al prezzo di tre scellini a testa, sia per i giovani che per i vecchi ». Nel gennaio del 1 629 il sindaco di Bristol riferl che « in Irlanda la penuria di grano è tale che i poveri di quel regno sono costretti [ . . ] a venire in questo regno » . Di nuovo nel 1 6 3 3 i giudici del Somerset si lamentarono a proposito di una « banda di irlan­ desi che ricominciava a riversarsi in massa dal predetto paese ». Nell'Europa occidentale sembra che il movimento fosse orien­ tato da nord verso sud, cioè verso il Mediterraneo . Anche in questo caso non mancarono gli sfortunati irlandesi . Tra la Fran­ cia e la Spagna il movimento si diresse quasi esclusivamente a sud, dominato dalla moltitudine di operai stagionali, i quali in pratica erano considerati dei vagabondi . I commentatori spa­ gnoli deplorarono la calata di questo torrente in Spagna. Ai primi del Seicento Navarrete protestò che « tutta la feccia d'Europa è venuta in Spagna, a tal punto che in Francia, in Germania, in Italia o nelle Fiandre difficilmente si trovano sordi, muti, storpi o ciechi che non siano stati in Castiglia » . Quando non potevano trovare lavoro, gli emigranti diventa­ vano un peso per i servizi assistenziali. L'ospizio di Burgos , è stato scritto, « ogni anno, conformemente alle sue norme isti.

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tuzionali, accoglie, cura e sfama per due o tre giorni dalle 8 alle 1 0 .000 persone provenienti dalla Francia, dalla Guascogna e da altri posti ». Quando a Madrid, al tempo di Filippo IV, si distribuivano ai poveri le razioni di minestra, si soleva dire andar a la sopa francesa, in quanto tra i mendicanti predomi­ navano quelli di nazionalità francese. Su scala più europea, il problema del vagabondaggio era quello degli zingari. In linea di massima si è d'accordo sul fatto che gli zingari avessero origine nel sub-continente indiano. Ap­ parvero nell'Europa orientale nel Trecento, in quella centrale e occidentale ai primi del Quattrocento. La loro venuta coin­ cise con l'aumento dell'accattonaggio organizzato e con l 'inten­ sificazione della persecuzione delle streghe. Esiste un buon mo­ tivo per ritenere che essi fossero in un certo modo collegati a questi due fenomeni. L'organizzazione che riuniva i mendicanti in Europa rassomigliava strettamente a quella degli zingari ; inoltre il gergo dei mendicanti spesso era parente prossimo della parlata zingaresca. Sebbene questa identificazione con i mendicanti non giovasse alla causa degli zingari, danni anche maggiori furono provocati da una eventuale connessione con le arti magiche. Più volte gli zingari vennero arrestati e accu­ sati di stregoneria , dato il modo in cui si dilettavano di guari­ gioni prodigiose, di giochi di prestigio e di predizione dell'av­ venire. « È stato utile dare la caccia ai nostri attori e ai nostri menestrelli - osservò Henri Boguet - considerando che per la maggior parte si tratta di maghi e di stregoni , i quali non hanno nessun altro scopo che di vuotare le nostre borse e di corromperci » . Gli assembramenti di zingari nei loro accampa­ menti in mezzo ai boschi potevano essere presi per sabba, le loro bestie ammaestrate per demoni familiari, le loro danze per orge sataniche. In qualunque parte andassero, gli zingari erano presi di mira. In Ungheria e in Transilvania, dal Quattrocento in avanti, furono praticamente ridotti in stato di schiavitù. Nella Mol­ davia venivano venduti al mercato degli schiavi. Nel 1 540, in Germania, Agrippa li denunziò perché « ovunque nel mondo conducono un'esistenza instabile, si accampano fuori delle città, nei campi e nei crocicchi, vi erigono le loro capanne e le loro tende, procurandosi da vivere con le rapine, con il furto, con il raggiro e con lo scambio, divertendo la gente con il predire

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il futuro e con altri inganni ». Sembra che la quasi totalità degli Stati e paesi europei abbiano preso provvedimenti per espel­ lerli. Per esempio, nel 1 560, gli Stati Generali di Orléans inti­ marono « a tutti gli impostori noti come Boemi o Egiziani di lasciare il regno, pena la condanna alle galee ». In Spagna i gitanos ( la maggior parte dei quali sembra che provenisse dal Nord Africa anziché attraverso l'Europa orientale ) si scontra­ rono in Castiglia con un sistema sociale che per secoli era riuscito a sopprimere l'identità culturale delle sue minoranze. Nel 1 6 3 3 Filippo IV ordinò loro « di non vestirsi più come fanno e di abbandonare il loro modo di parlare ; vengano inoltre portati via dai loro luoghi di residenza, separati gli uni dagli altri, con il divieto esplicito di riunirsi in pubblico o di nascosto, gli venga proibito di ricordare i loro nomi, o il loro modo di vestire, o i loro usi nelle danze o in altre cose, sotto pena di tre anni di reclusione ». Queste dure imposizioni furono soste­ nute dalla spiegazione ufficiale, in base alla quale gli zingari non erano « gitanos d'origine o per natura, ma spagnoli » .

Le classi pericolose. Durante questo periodo i cnstlani avevano, a proposito dei poveri, due punti di vista molto differenti . L'uno, basato su di un'antica tradizione umanistica e cristiana, sosteneva che i poveri erano degni della società, in quanto la società non aveva agito bene nei loro confronti: considereremo particolarmente questo punto di vista quando tratteremo l'assistenza ai poveri. L'altro, condiviso da alcuni cattolici ma soprattutto dai protestanti, sosteneva che i poveri meritavano soltanto il castigo, in quanto si trovavano in quelle condizioni soltanto per colpa della loro incapacità. Questo secondo punto di vista venne divulgato dagli asser­ tori della Riforma, diede spunto agli scritti più sinceri dei pen­ satori inglesi e scozzesi e in linea generale condusse a un atteg­ giamento rigorosamente disciplinare, in base al quale i poveri erano continuamente considerati come criminali potenziali. Se­ condo Martin Bucer, « tutti quelli che si dedicano deliberata­ mente all'attività dell'accattonaggio sono dediti e inclini a tutte le cattiverie ». Ne conseguiva che soccorrere i mendicanti favo-

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riva « le più grandi pestilenze e distruzioni in una repubblica » . Questo argomento contro la carità, che s i basava sulla preoccu­ pazione per l'ordine sociale, altrove si rispecchiava in una pro­ fonda convinzione (beninteso comune alla maggior parte dei cattolici ) che le distinzioni di classe erano state create da Dio, e che i poveri dovevano rimanere al loro posto perché non meritavano di meglio . « Dio ha creato i poveri - fece osser­ vare Sir John Cheke ai ribelli capeggiati dai fratelli Kett - e li ha fatti poveri per poter mostrare la sua potenza e li innalza quando vuole per il motivo che gli sembra opportuno, e fa precipitare il ricco nella condizione di miseria per mostrare il suo potere ». Al pari di Sir John Cheke, i ceti superiori avevano paura dei poveri a causa della loro partecipazione alle insurre­ zioni. Alcuni ritenevano che il loro carattere ribelle fosse una prova ulteriore della loro avversione a usare le mani in una qualsiasi attività utile . In Inghilterra alcuni puritani, special­ mente William Perkins, credevano fortemente che essere poveri volesse dire essere perversi, secondo la convinzione generale che l'ozio era peccato e generava altri peccati . Secondo Perkins i vagabondi erano « una generazione maledetta », mentre l'accat­ tonaggio era « un autentico vivaio di vagabondi, di furfanti e di persone sbandate che non hanno nessuna occupazione, né appartengono a nessuna Corporazione, a nessuna Chiesa né a nessuna Repubblica » . Lungo questa tradizione, altri si espres­ sero in maniera anche più dura, specie Cotton Mather del New England, il quale alla fine del Seicento affermò che « per coloro che si abbandonano all'ozio, Dio ci ordina espressamente che dobbiamo !asciarli morire di fame » . Tale ostilità per l'ozio s i espresse a livello politico a seguito di una preoccupazione per la minaccia alla tranquillità pubblica rappresentata dai vagabondi . Naturalmente la preoccupazione era comune ai paesi sia cattolici che protestanti, il che spiega le frequenti leggi emanate contro di loro. L'annalista Strype dell'epoca di Elisabetta li condannò come « soggetti immondi e sfaccendati [ . . . i quali ] corrono da un Posto all'altro, da una Contea all'altra, da una Città all'altra, per fomentare Dicerie, per suscitare Maldicenze, per inventare Notizie, per mezzo delle quali incitare e radunare insieme i Sudditi del Re, tratti in inganno per la loro semplicità e ignoranza; [ . . . ] escogitando Chiacchiere diffamatorie e diffondendo tra il Popolo certe No-

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tizie che essi ritenevano che potessero più rapidamente spronarli a fare Trambusti e Tumulti ». La paura per le chiacchiere, tanto comune nell'Inghilterra elisabettiana e altrettanto manifesta nelle commedie di Shakespeare, venne esagerata anche di più dalla consapevolezza che in tutto il regno esistevano moltissime per­ sone in grado di spargere false notizie. Però non fu semplice­ mente il potere della parola sediziosa che accese un terrore simile : più direttamente si trattava della onnipresente possibi­ lità di rivolta . Nel 1 657 il vescovo di Vance in Francia, nel proporre che i mendicanti fossero allontanati dalle strade, disse : « Durante le recenti agitazioni a Parigi essi erano quelli più propensi alla sedizione e al saccheggio delle case dei ricchi » . Qualsiasi scompiglio e r a sufficiente a richiamare i l popolino nelle strade, in ciò che ai ceti supenon appariva come una sem­ plice guerra di classe. L'arcivescovo Whitgift, del periodo di Elisabetta, osservò che « la gente di solito preferisce le novità e le fazioni, è prontissima ad accogliere quella dottrina che sembra essere contraria allo Stato attuale e che propende per la libertà » . Che cosa prova tutto questo? Abbiamo già consta­ tato la continua rinascita del sentimento popolare di classe durante le rivoluzioni europee . Sembra che anche durante la guerra civile inglese, per citare la testimonianza del diarista D'Ewes, « la moltitudine violenta nelle varie contee approfittò di quei tumulti civili e intestini per saccheggiare e devastare le case degli aristocratici, della piccola nobiltà e di altri » . Nonostante questo quadro d i una plebaglia i n continua ribel­ lione, sembra che vi siano poche prove a proposito di uno stato endemico insurrezionale. Una minaccia grave esisteva soltanto nei maggiori centri industriali, dove la disoccupazione tra il proletariato forniva un buon motivo per la rivolta. Nel 1 578 si affermò che ad Amiens, una città di circa 3 0 .000 abitanti, vi fossero stati non meno di 6 .000 operai « mantenuti con le ele­ mosine dei benestanti ». In circostanze simili la carità non era altro che un tentativo di differire il fermento sociale . Nel 1 574, a Troyes, i poveri che venivano da fuori erano autorizzati, se­ condo una prassi comune, a rimanere per non più di 24 ore. La giustificazione di ciò è illuminante. Si disse che « i cittadini più ricchi incominciano a vivere con la paura del disordine e di una sommossa popolare provocata dai predetti poveri contro di loro ». La disoccupazione e la miseria spiegano ciò che accadde

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nella città di Tours il giorno di Pentecoste nel maggio del 1 640 . Circa 8-900 setaioli, i quali erano insoddisfatti dei loro salari, inscenarono un'insurrezione . Furono chiamati dei soldati e quando si vide che non erano sufficienti si chiamarono le truppe del re. La gente fu penalizzata con un'imposta . Ciò provocò un'altra insurrezione nel mese di settembre, quando fu tagliata la gola a molti esattori e i rivoltosi minacciarono di dare fuoco alla città, una minaccia che alla fine portò a una soluzione prov­ visoria di compromesso . La situazione a Lione, probabilmente la più grande città industriale d'Europa, deve essere stata estre­ mamente preoccupante. Su di una popolazione di 1 00 .000 abi­ tanti, addirittura i due terzi erano costituiti da operai, una vasta percentuale dei quali viveva in condizioni di estrema miseria e molti erano regolarmente disoccupati . Nel 1 6 1 9 circa 6 .000 operai ricevevano in qualche modo l'assistenza per i poveri ; nel 1 642 erano saliti a 1 0 .000 . In Spagna, la lezione secondo la quale la disoccupazione generava l'insurrezione non era stata di­ menticata. Nel 1 679 le autorità di Granata, il più grande centro industriale della Spagna, con una popolazione di oltre 1 00 .000 abitanti, calcolarono che il numero dei poveri che dipendevano dal lavoro nell'industria della seta per la loro paga giornaliera superava le 20 .000 unità. Ricordando l'insurrezione del 1 648, furono presi dei provvedimenti per alleggerire le difficoltà pro­ vocate questa volta dalla peste. Più tardi , nel 1 69 9 , a Toledo, quando la disoccupazione mise in pericolo la loro esistenza, i setaioli di quella città protestarono che, quantunque più di 3 .000 persone fossero senza lavoro, non era stato preso nessun prov­ vedimento per venire in loro aiuto . Minacciarono che, se tale situazione avesse dovuto continuare, non dovrebbe sorprendere se, allo scopo di procurarsi il pane, sareb­ bero ricorsi a tutti i mezzi consentiti dalla legge naturale e anche a quelli non consentiti. La gente non ha nessun desiderio di adirarsi né di provocare tumulti o scandali; tutto quello che vuole è che, siccome Dio ha portato il bel tempo, anche loro hanno diritto a un miglioramento.

La tensione sociale provocata dalla disoccupazione fu ben descritta nel 1 6 1 9 da un autore inglese : « I poveri odiano i ricchi perché non vogliono farli lavorare ; i ricchi odiano i poveri

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perché sembrano opprimenti ». Dall'altra parte del canale, anche l'Olanda era alle prese con il medesimo problema . Nel 1 623 un libellista scrisse : « La nostra terra brulica di gente e gli abitanti cercano di sopraffarsi reciprocamente a caccia di un lavoro . Dovunque vi sia da guadagnare un soldo, dieci mani sono pronte a stendersi per afferrarlo » . È possibile che ambedue queste citazioni si riferiscano alla depressione del 1 620 e al tipo di condizioni che forse ebbero la tendenza a prevalere nei due più promettenti sistemi economici d'Europa . Però si può appena dubitare che in qualunque parte d'Europa per gli operai fosse estremamente difficile guadagnare un salario sufficiente per vivere . Nel 1 620 a Milano quasi la metà dei 20 .000 operai tes­ sili era disoccupata, nonché un terzo dei setaioli . Non soltanto gli operai urbani rischiavano di essere licenziati. Gli operai agri­ coli facevano parte di un sistema che per quasi mezzo anno non richiedeva mano d'opera : venivano chiamati soltanto al tempo dell'aratura, della semina e del raccolto, mentre rima­ nevano disoccupati negli altri periodi. L'economia moderna ai suoi primordi favorì di regola la sottoccupazione : di conse­ guenza fu quella entro la quale la massa più grande di popola­ zione operaia trovò difficile sopravvivere con il solo salario, dato che troppo spesso le paghe guadagnate in mezzo anno sarebbero dovute bastare per un anno intero . La gente del popolo veniva considerata causa sia di insoffe­ renza che di atti delittuosi. I documenti rimasti danno l'impres­ sione che la violenza, il disordine morale e civile e le violazioni della proprietà nascessero soprattutto tra i ceti inferiori . Ma basta riflettere soltanto un momento per rendersi conto che i docu­ menti sono oltremodo ingannevoli . Come abbiamo già visto, l'aristocrazia era responsabile di una parte molto rilevante della criminalità sia urbana che rurale. La sua istigazione delle riva­ lità faziose nelle capitali e la sua oppressione dei sudditi nelle campagne, implicando la violazione sia della proprietà che della vita umana, erano normalmente motivo di lamentele. Ma rara­ mente i suoi appartenti venivano processati . Il sistema giudi­ ziario era appesantito in modo tale da proteggere loro e la repu­ tazione della loro classe. Le sue azioni repressive erano siste­ maticamente dirette soltanto contro i non t>rivilegiati. Questo aspetto emerge in modo assai evidente dal Simplicissimus di Grimmelshausen ( 1 668 ), quando il bandito Oliver difende la

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sua attività dichiarando che tutti i grandi regni sono diventati tali con la rapina ( riecheggiando senza dubbio la famosa frase di s. Agostino ) e che la rapina è fondamentalmente la profes­ sione dei nobili, mentre i poveracci vengono semplicemente truffati entrando a far parte del gruppo. « Non vedrete impic­ cato nessuno, tranne che poveri ladruncoli - dice Oliver Dove mai avete visto una persona d'alto rango punita dai tribunali ? ». Non c'è dubbio che la gente ordinaria si rendesse conto di questo pregiudizio contenuto nella legge e ne soffrisse. Nel sistema giudiziario inglese, nel quale i tribunali locali, i giudici di pace locali e le giurie locali dispensavano le condanne, il sentimento popolare poteva farsi sentire in modo più forte e, di conseguenza, la legge veniva mitigata. Sembra che per la mag­ gior parte del tardo Cinquecento e dei primi del Seicento la legge non sia stata applicata in tutto il suo rigore. Su quasi un migliaio di cause documentate, discusse innanzi al tribunale 1 di Maidstone durante il predetto periodo, neppure in un caso di cui si conosce l'esito i criminali furono puniti con la pena di morte, alla quale erano esposti se riconosciuti colpevoli . Le giurie e i giudici si adoperavano per rendere inefficaci le norme severe. La conseguenza era che molti prigionieri accusati di furto ( il reato più comune che compariva davanti ai tribunali ) o venivano riconosciuti innocenti, o invocavano con successo il privilegio ecclesiastico o quello dei figli . Quale fosse la si­ tuazione nel Somerset è rivelato da una lettera scritta nel 1 596 da Edward Hext, giudice di pace di quella contea : Per lo più l'umile contadino e l'umile contadina, non guardando allora più in là della perdita dei loro averi, sono del parere di non voler causare la morte di un uomo per tutti i beni del mondo, altri dietro promessa di rientrare in possesso dei loro beni daranno una testimonianza vaga se il giudice non li esaminasse severamente e a fondo. In altri paesi, dove la probabilità che l'atteggiamento popo­ lare influenzasse i tribunali era poca, l'odio contro la severità 1 Specificato dall'Autore come Quarter Sessions, cioè un tribunale di giurisdizione civile e penale limitata, che si riunisce trimestralmente.

[N.d.T. ]

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delle leggi era destinato a intensificare l'antagonismo di classe. Solamente questo spiega le azioni del popolo di Siviglia nel 1 648, come ci informa un testimonio : Andarono negli uffici di segreteria dei tribunali penali, li scassi­ narono, si impadronirono di tutti gli incartamenti e li bruciarono nel mezzo della piazza al cospetto di tutti i giudici. La stessa fine fecero fare alla forca e alla scala a pioli nella medesima piazza, nonché alla ruota e a tutti gli strumenti del carnefice. Nello stesso tempo bru­ ciarono anche i documenti di detenzione contenenti i nomi di tutti coloro che erano imprigionati in tutte le galere. Stettero però molto attenti a non bruciare i documenti relativi alle cause civili.

Si dovrebbe fare una netta distinzione tra il reato com­ messo nelle campagne e quello commesso nelle zone urbane. La violenza non era cosa consueta nella campagna. In quella del Kent, sembra che la maggior parte dei reati ( soprat­ tutto il furto ) siano stati compiuti non da elementi locali bensi da forestieri e viaggiatori, da soldati in transito da o per Dover, nonché da persone provenienti da Londra. I reati più gravi, come la rapina organizzata, venivano perpetrati da bande che agivano da Londra . Raramente i misfatti compiuti nella zona rurale erano di maggiore entità. Da una indagine condotta su 400 cause penali sottoposte nel 1 643-44 all'esame dei tribunali della zona rurale di Angouleme, risulta che la categoria più vasta delle querele ( quasi il 23 per cento ) riguardava solamente la violazione di proprietà e trasgressioni analoghe. Un altro 22 per cento comprendeva torti personali, cioè infedeltà coniugale, ubria­ chezza e stregoneria. I furti toccavano il 16 per cento, probabil­ mente a causa della penuria di grano dovuta ai cattivi raccolti del 1 642 e del 1 64 3 . Sembra che la violenza sia apparsa in modo rilevante nel 1 8 per cento delle cause intentate per la riscossione dei debiti . L'esigua testimonianza in nostro possesso, riguardo alle zone rurali di altri paesi , tende a confermare la re­ lativa rarità di quello che oggi chiameremmo « reato », cioè gli assalti alla proprietà e alla società, fra la massa della popolazione contadina. Nelle città e nei grandi centri il quadro era completamente diverso . In un ambiente urbano i problemi relativi all'alloggio, alla sanità, all'impiego e alle vettovaglie erano aggravati . Man

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mano che i poveri si moltiplicavano, crescevano i loro mot1v1 di rancore. Di fronte a leggi prevenute e oppressive, la loro pro­ testa assumeva la forma del reato. Il loro occasionale ricorso alla violenza trovava abbondanti precedenti nelle attività illegali delle classi privilegiate : le famiglie nobili, i cui dipendenti liti­ gavano di giorno e uccidevano di notte, il clero che approfittav'l della sua esenzione fiscale allo scopo di truffare gli esattori go­ vernativi, esercitando un mercato aperto entro le mura dei mo­ nasteri. Sebbene sia accertato che l'incidenza del reato fosse più alta nelle città, è difficile offrire un'analisi dell'elemento crimi­ nale, semplicemente perché a questo punto la legge, ancora una volta, non era imparziale. Per esempio, quasi il 52 per cento di coloro che furono condannati a una punizione corporale dal tribunale municipale di Bordeaux, nel periodo che va dal 1 600 al 1 650, era costituito da vagabondi, da viaggiatori e da persone estranee alla città. Questa cifra non significa necessariamente che i vagabondi rappresentassero l'elemento principale della cri­ minalità, bensl soltanto che il tribunale decideva di trattarli come tali . Tutti i tribunali europei si comportavano in questo modo. Verso la fine del Cinquecento a Exeter, come risulta dalle sen­ tenze del tribunale, il semplice fatto di condurre « un'esistenza da vagabondo e da nomade » era sufficiente per giustificare la condanna . La violenza era soltanto u n aspetto dei più comuni del reato urbano . Nel 1 578 la municipalità di Valladolid emise una querela in merito ai furti e agli assassinii, che proliferavano nella città in misura tale che si dovettero nominare altri due sorveglianti in aggiunta ai tre già in carica . Molti cittadini facoltosi andavano in giro armati, non per ostentazione ma semplicemente per difendersi dalle rapine e dalla violenza . Nel secolo seguente la situazione di Madrid era perfino peggiorata. Un osservatore con­ temporaneo cosl scriveva nel 1 6 3 9 : « Non passa giorno che non si trovi gente uccisa o ferita dai briganti o dai soldati ; case svaligiate ; giovanette e vedove piangenti per essere state aggre­ dite e rapinate » . « Da Natale fino a questo momento - scrisse Jeronimo de Barrionuevo nel giugno del 1 658 ci sono stati più di 1 50 morti e nessuno è stato punito » . La situazione avrebbe potuto essere paragonata a quella di Milano, di Roma, di Parigi e di Londra. Anche se il clero e la nobiltà erano coinvolti in una parte di questi reati ( su 1 50 criminali arrestati a V alladolid -

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tra il 1570 e il 1572, due erano preti e dieci erano hidalgos ), non c'è dubbio che la maggior parte di essi fu commessa dalle « classi criminali », cioè dai non privilegiati e dai nullatenenti. Di qui la grande preponderanza del furto da poco e della ra­ pina con violenza fra i reati urbani . I possidenti temevano al massimo la classe criminale e non c'è dubbio che una « classe » del genere esistesse. Essa si divi­ deva in due gruppi principali : da un lato, un vasto settore di vagabondi e di picaros, di uomini che vivevano al di fuori delle limitazioni dell'ordine sociale, la cui libertà e attività venivano considerate sempre una minaccia dal predetto ordine ; dall'altro - ne parleremo fra poco - i mendicanti . Il picaro fu più un personaggio letterario che una figura sto­ rica. Egli rappresenta uno dei temi predominanti dell'età aurea della letteratura spagnola. Il Guzman de Alfarache di Mateo Aleman ( 1 599 ) viene di solito considerato il primo romanzo che descrive la vita errabonda e amorale del picaro, ma già nel La­ zarillo de Tormes, che apparve mezzo secolo prima nel 1 554, furono descritti gli aspetti peculiari dell'esistenza picaresca, anche se veramente non vi si fa uso della parola picaro. Forse l'opera successiva più famosa di questo genere, dopo i due predetti romanzi, fu il Busc6n di Quevedo ( 1 626 ) . Il mondo picaresco dei ladri, dei vagabondi, delle prostitute e degli imbroglioni non era limitato esclusivamente alla società spagnola, anche se fu il genio spagnolo che per primo ne fece oggetto di pubblicazione . L'Italia, la Germania e la Francia non furono meno colpite dallo stesso tipo sociale, tanto che le traduzioni straniere dei romanzi spagnoli trovarono immediatamente un mercato in questi paesi. Per esempio, il Lazarillo fu tradotto in tedesco nel 1 6 1 7 , il Guzmém due anni prima, nel 1 6 1 5 . Dire che il picaro era essen­ zialmente un tipo letterario non significa negare che i pfcaros, delinquenti sociali, esistessero realmente. Però in letteratura le caratteristiche del delinquente venivano romanzate e la sua cri­ minalità fondamentale resa plausibile. « Non esiste nessuna pro­ fessione più diffusa, o più glorificata da cosl tanta gente », com­ mentò Guzman de Alfarache. Tra coloro che la glorificarono vi fu Cervantes, che nella Illustre sguattera tracciò la carriera di Diego de Carriazo, il quale giunse alla fine nella Mecca dei pfcaros, il porticciolo andaluso di Zahara:

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. . . Ne' tre anni che stette prima di tornare a farsi vedere a casa sua, [ Carriazo ] imparò a giocare a la toba in Madrid e al rentoy nelle bettolucce di Toledo, e a presa y pinta en pie sui muriccioli di Si­ viglia [ . . ] . Passò per tutti i gradi del birbo, finché non si addottorò nelle tonnare di Zahara, dov'è appunto il covo dei birbi. O birbi di cucina, sudici, grassi e lustri, finti poveri, falsi storpi, borsaioli di piazza Zocodover e della piazza di Madrid, finti ciechi preganti, portaceste di Siviglia o malandrinelli della malavita, con tutta la caterva che si comprende sotto il nome di picaro, abbassate il gallo, ammainate l'allegria, non chiamatevi plcaros, se non avete frequentato due corsi nell'accademia della pesca de' tonni ! 1. .

Spesso in Spagna i pzcaros venivano identificati con gli hi­ dalgos caduti in miseria, i quali si erano dati al vagabondaggio, mantenendo però un'apparenza di signorilità. Altri paesi fecero l 'esperienza di questo fenomeno di nobile mendicante, ma con minore evidenza. Per essi il problema principale era semplice­ mente l 'accattonaggio . Verso la fine del Quattrocento nacque una strana e misteriosa confraternita, chiamata la Confraternita dei Mendicanti, che esercitava il suo potere sia sui vabagondi che sui delinquenti professionali, dando loro un livello di orga­ nizzazione difficilmente subodorabile al di fuori dei loro ranghi. La Confraternita derivava da un archetipo antisociale, modellato molto probabilmente sull'organizzazione degli zingari . Ne cono­ sciamo la struttura attraverso vari resoconti dell'epoca, che vanno dall'anonimo Liber Vagatorum in Germania ( 1455 ) alla Vie gé­ néreuse des Mercelots, Gueuz et Boesmiens ( 1596 ) di Pechon de Ruby in Francia e al Vabagondo ( 1 627 ) del domenicano ita­ liano Giacinto Nobili . Numerosi altri scritti, relativi ai suoi costumi e al suo linguaggio, compresi molti in inglese e in spa­ gnolo, furono pubblicati tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento . La principale funzione di ordine pratico della Confraternita era di organizzare l'accattonaggio . I mendicanti girovaghi si spe­ cializzavano in una gamma infinita di tipi di frode, ognuno dei quali era predisposto per carpire simpatia o una elargizione. I travestimenti, che talvolta si traducevano, se necessario, in una vera e propria mutilazione fisica, di solito tendevano a metl Michele Cervantes de Saavedra, Racconti morali, tradotti e annotati da Luigi Bacci, Milano-Roma-Napoli 1916, pp . 68-9.

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tere in rilievo le sventure personali ( fingendo di essere storpi, o ciechi o di avere un bambino paralizzato ), o le malattie ( si poteva così simulare l'epilessia ), oppure attirando la simpatia delle persone devote. In realtà la grande maggioranza di questi mendicanti travestiti era di costituzione robusta ; alcuni erano così forti da poter adottare parecchi travestimenti uno dopo l'altro. L'arte del raggiro si specializzò a tal punto che i mendicanti di solito protestavano quando altri assumevano i loro particolari camuffamenti. Compito della Confraternita fu quello di dirimere queste vertenze di demarcazione. La conseguenza fu l'evoluzione in ogni paese di un numero determinato di travestimenti presta­ biliti. Nel 1 595 a Roma un giovane, arrestato per accattonaggio, informò la polizia pontificia che « fra noi poveri mendicanti esistono molte società segrete, una diversa dall'altra perché cia­ scuna svolge un'attività distinta ». Proseguiva nella sua dichia­ razione, menzionando 1 9 differenti società, ciascuna con propri membri, abiti e funzioni : per esempio , i famigotti 1 si facevano passare per soldati invalidi, i bistolfi 1 indossavano le tuniche del clero anglicano, i gonsi 1 si atteggiavano a stupidi zoticoni . Nel 1 627, quando Nobili stava scrivendo il suo libro, gli ita­ liani avevano già 23 categorie di mendicanti. Nel Cinquecento i francesi ne avevano 1 4 , i tedeschi 2 8 . Fu in questo mondo di falsi pezzenti che furono ambientati i grandi romanzi picareschi come il Guzm!m de Alfarache. Dato che i mendicanti traevano di che vivere soprattutto da due fonti, la frode e il furto, la Confraternita può essere consi­ derata fino a un certo punto una forma di crimine organizzato, un sottomondo del XVI secolo. In realtà, però, soltanto l'accat­ tonaggio era in qualche modo regolato . Il tagliare borse, il furto con destrezza , la grassazione venivano lasciati interamente al­ l'iniziativa di ciascun vagabondo , in quanto l'essenza della vita del girovago era la libertà e l'assenza di ogni controllo . La loro società aveva il suo sovrano, il re dei mendicanti, il grand Coesre z come era noto in Francia, pur non essendo un re come gli altri . Essa aveva le sue norme e il suo codice d'onore, ma si trattava dell'onore dei ladri e la regola era di sfruttare gli altri esattal In italiano nel testo. Cfr. J. Delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVI• siècle, Paris 1957-59, tome pre­ mier, p. 406. 2 Si pronuncia Couère.

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mente come ess1, 1 poveri, venivano sfruttati dai ceti supenon. La loro morale non era quella sociale. Lo storico del Seicento Henri Sauval, come abbiamo visto, attestò che essi non celebra­ vano nozze né frequentavano i sacramenti, limitandosi a entrare in chiesa soltanto per eseguire borseggi . Allo stesso modo nel 1 595 quel giovane di Roma, che abbiamo già incontrato, dichiarò che « pochi di noi praticano la fede » . Pertanto né le norme né la condotta della società dovevano essere la loro guida. Essi formavano un gruppo contrario alla società, organizzato contro di essa, che si rifiutava di credere nella sua etica, che si dedicava a ingannarla e a derubarla. Ne erano separati per via del loro gergo, definito cant in inglese, Rotwalsch in tedesco, argo! in francese, jerga de germania in spagnolo. Il gergo possedeva in pratica un vocabolario internazionale, poiché le parole essenziali erano comuni a tutte le confraternite. Non è una coincidenza che un'alta percentuale del gergo derivasse direttamente da quello degli zingari. Il primo resoconto in inglese di vasta portata al riguardo fu il Cavea! far Common Cursetors di Harman ( 1 567 ). Un libro apparso in Francia nel 1 628, Le ]argon de l Argo! reformé, compendiò sia l'idioma che le usanze della confraternita francese. Tuttavia, nonostante questa cosciente separazione dalla società, i mendicanti non costituivano una propria società orga­ nizzata, in quanto erano essenzialmente dei vagabondi, senza nes­ sun legame, con la loro residenza in qualsiasi nazione volessero scegliere, autentici cittadini del mondo . In ciascuna grande città, soprattutto in quelle internazionali - Roma, Parigi, Londra, Siviglia , Medina del Campo nel suo pieno rigoglio - essi possedevano il loro regolare luogo di ra­ duno, la Corte dei Miracoli che, nella maggior parte dei casi, si trovava nel cuore dei bassifondi . Sauval ci dice che a Parigi essa era « in una piazza molto grande in fondo a un vicolo cieco vasto, puzzolente, rumoroso, non lastricato. Un tempo si trovava vicino all'estremità più esterna di Parigi, ma ora essa è situata in uno dei quartieri peggio costruiti, più sordidi e più tenebrosi della città ». Secondo una leggenda, dalla quale sembra che sia derivato il nome della Corte, tutti i poveri e tutti gli s torpi che vi entravano ne sarebbero usciti sani e diritti. Ma secondo un'altra, relativa alla Corte di Rouen, il vero miracolo consisteva nel fatto che là « il più povero di tutti viene consi­ derato il più ricco », un rovesciamento completo dei valori del '

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mondo esterno. Beninteso la verità era che anche la ricchezza rappresentava fra di loro un certo grado sociale . « I mendicanti hanno le loro sontuosità e la loro vita lussuosa, come i ricchi » , osservò Montaigne. Si diceva che in Germania esistesse tra i mendicanti una categoria di aristocratici, i quali sembra che non siano mai dovuti andare per la strada a chiedere l'elemosina. Ma perfino questa, suprema ironia dei mendicanti ricchi, con i propri appositi monarchi e con le loro corti della malavita, non era altro che una forma di vendetta nei confronti di una società spietata. Ecco come lo spiegò Robert Greene, quando si accinse a scrivere la sua Defence o/ Conny Catching ( 1 592 ) per giustificare i poveri che diventano criminali : « Questa è l 'Età del Ferro, nella quale trionfa l'ingiustizia, mentre gli uo­ mini di tutte le condizioni e di tutte le categorie cercano di vi­ vere di espedienti ed è considerato più saggio colui che ha l'in­ tuito più profondo per cogliere le occasioni di guadagno » . Non c ' è dubbio che i mendicanti fossero temuti. L a ferocia delle leggi contro di loro rispecchiava non tanto una premura paternalistica per la punizione correttiva, quanto un sincero al­ larme per la minaccia alla sicurezza della società . Non fu senza motivo che nel 1 566 gli aristocratici dissidenti dei Paesi Bassi assunsero con entusiasmo un titolo - mendicanti, gueux - che doveva gettare nel terrore i loro oppositori . Tranne che nelle città industriali come Lione e Granata, gli accattoni girovaghi sembrarono più pericolosi dei ceti operai e furono realmente il proletariato della loro epoca .

L'assistenza ai poveri. I poveri, nonostante fossero temuti e disprezzati dai ricchi , erano ancora un elemento essenziale per il loro benessere spi­ rituale in quanto, secondo la tradizione cattolica, aiutarli rap­ presentava un grande atto di carità . Fu questo che indusse Guzman de Alfarache a difendere con cinismo gli imbrogli dei falsi mendicanti. Poiché la carità veniva elargita, affermava, meno per il benessere materiale del destinatario che per quello spirituale del donatore, la si poteva fare tanto ai finti poveri che a quelli veri . Questo punto di vista pervertito ben riflette la debolezza dell'antico atteggiamento medievale verso la po-

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vertà. Dato che la miseria non poté mai essere estirpata ( « i poveri saranno sempre con te », aveva detto Cristo ), raramente veniva affrontata sul serio, mentre la si sfruttava semplicemente come un mezzo per procurarsi grazie spirituali . In tal modo il soccorso a domicilio, che gli autori posteriori dovevano criticare come un'istigazione concreta alla mendicità, divenne un'opera di carità corporale . I ricchi, i quali durante la loro vita non avevano dimostrato alcuna sollecitudine per i bisognosi, si pre­ paravano la strada per il paradiso lasciando nei loro testamenti somme destinate ai poveri . A Valladolid le coscienze dei mo­ renti venivano ancora di più agevolate dall'insolita abitudine dei ricchi di provvedere ad avere un corteo di mendicanti che portava le candele al funerale ; e qualcuno si faceva perfino sep­ pellire alla maniera dei poveri. Soltanto nel Cinquecento, a seguito dello straordinario aumento nel livello di miseria e di vagabondaggio, gli autori sia cattolici che protestanti adottarono di fronte al problema un atteggiamento più costruttivo . Luis Vives ha pieno diritto all'onore di essere stato il primo, con la sua De subventione pauperum del 1 526, a delineare un sistema metodico di assi­ stenza ai poveri. Il concetto di carità di Vives era quello clas­ sico del cristianesimo : i poveri hanno diritto a essere soccorsi , i possidenti hanno l 'assoluto dovere morale di aiutarli . Il prin­ cipio dal quale mosse Vives per scavalcare la compiacente forma di assistenza di epoca medievale fu la sua ferma opposiziom. all'accattonaggio e il suo rifiuto dell'idea secondo la quale la carità era un semplice sollievo materiale. Si dovevano costruire ospizi per togliere i poveri dalle strade, mentre l'assistenza doveva consistere « non solamente nel fare l'elemosina, ma in tutte le maniere in cui un povero può essere risollevato ». In questa presa di posizione era implicita la convinzione che lo Stato cristiano avesse il dovere di mantenere i suoi cittadini meno fortunati e che il compito non dovesse essere lasciato alla carità privata . Tra i più eminenti studiosi delle finalità dell'assistenza ai poveri vi furono, oltre Vives, altri autori spa­ gnoli . Nel suo De la orden que en algunos pueblos de Espaiia

se ha puesto en la limosna para remedio de los verdaderos pobres del 1 545, Juan de Medina tracciò rtno schema per abo­ lire l'accattonaggio e per ricoverare i malati e i bisognosi . Sem­ bra che i suoi progetti venissero già messi in pratica a Valla-

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dolid, con un certo successo, perché « la polizia dichiara che, contrariamente all'epoca passata, a stento ora scopre qualcuno da impiccare o da fustigare per rapina » . Nello stesso anno Domingo de Soto scrisse la sua Deliberaci6n en la causa de los pobres e nel 1 598 uscì il Discurso del amparo de los legitimos pobres di Crist6bal Pérez de Herrera. Fu Juan de Mariana il quale, nella sua De rege et regis institutione del 1599, confermò la nuova esaltazione dell'intervento dello Stato, esortando affinché « la pietà e la giustizia rendano necessario alleviare le miserie degli invalidi e dei bisognosi, prendendosi cura degli orfani e aiu­ tando quelli che ne hanno bisogno. Fra tutti i doveri del So­ vrano questo è il principale e il più sublime . Anche questo è il · vero scopo dei ricchi, che non deve essere diretto per la gioia di una sola persona, ma di molte ; non per la soddisfa­ zione dei nostri interessi personali e transeunti, bensì per il conseguimento della giustizia che è eterna » . Mariana prosegue dicendo : « Lo Stato è tenuto a costringerci a fare questo, orga­ nizzando l'assistenza ai poveri in ogni località come se si trat­ tasse di un servizio pubblico » . Questa evoluzione del pensiero spagnolo verso l'assistenza secolare è interessante perché contraddice una comune presun­ zione, in base alla quale la Riforma fu responsabile della laiciz­ zazione della carità, nonché della sostituzione dell'assistenza municipale a quella clericale . In realtà la secolarizzazione fu un fatto comune tanto presso i cattolici che presso i protestanti, e fu una reazione logica alla necessità di controllo . Negli anni 1 520-30 molte città tedesche se ne erano già rese conto . Nel 1 522 ad Augusta si incominciò con una interdizione dell'accat­ tonaggio per le strade e con la nomina di sei sorveglianti dei poveri, incaricati di sovrintendere all'assistenza. L'esempio fu seguito da Norimberga, quindi da Strasburgo e da Breslavia nel 1 52 3 , da Regensburg e da Magdeburgo nel 1 524. Vives fu il diretto ispiratore di un progetto attuato a Ypres nel 1 525. Da questo periodo in poi fu lo Stato, il solo ad avere i poteri di polizia occorrenti per controllare il vagabondaggio, a pren­ dere cura dei poveri. Il controllo della carità in questa maniera significò la fine dell'elemosina fatta indiscriminatamente nei tempi passati. Non senza ragione, quindi, molti cattolici e protestanti dell'epoca affermarono che le radici della carità si erano inaridite e che

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i cuori degli uomini si erano induriti. L'annalista elisabettiano John Stow, riferendosi agli inizi del Cinquecento, ricordava : Io stesso in quell'epoca, in cui la carità era in decadenza, ho visto sovente alla porta di Lord Cromwell a Londra più di 200 persone che ricevevano due volte al giorno pane, carne e da bere a sufficienza; in quanto egli praticava quell'usanza antica e caritatevole, come prima di lui avevano fatto tutti i prelati, i nobili o gli uomini d'onore e di culto.

È appena da avvertire che le autorità si preoccupavano pm dei poveri che della miseria, più del mantenimento dell'ordine sociale che della carità. Alla base della nuova preoccupazione dell'assistenza ai poveri esisteva una profonda paura del prole­ tariato . Pertanto, in ogni caso senza eccezione, i provvedimenti inizialmente adottati dalle autorità furono più disciplinari che migliorativi . Per esempio, secondo il parere espresso nel Sei­ cento, in Francia, dalla Società del Santissimo Sacramento , la povertà era un disordine sociale che recava con sé l'indisciplina e l'eventuale violenza dei ceti bassi . I vari provvedimenti che durante il Cinquecento e il Seicento vennero man mano presi per risolvere il problema - divieto dell'accattonaggio, ricovero e cosl via - erano sostanzialmente repressivi. Nessuno giunse in ogni modo al punto da eliminare la miseria alle radici . In breve, i sistemi di assistenza ai poveri del predetto periodo furono punitivi . I controlli più antichi consistevano nel concedere ai mendi­ canti una licenza di accattonaggio solamente entro una zona determinata, di solito il loro luogo di nascita. A Londra, negli anni 1 520-30 , ai poveri che vi erano effettivamente nati furono date licenze e piastrini di riconoscimento che li autorizzavano a chiedere l 'elemosina : tutti gli altri dovevano essere buttati fuori della città. Scopo di ciò era quello di tenere separato l 'accattonaggio dal vagabondaggio. Appena i poveri si rende­ vano conto di poter mendicare soltanto nelle proprie località, di solito smettevano di andare alla deriva e il vagabondaggio ben presto cessava . In Spagna Carlo V restrinse i mendicanti in un'area compresa nel raggio di sei leghe dalle loro città natie. Sotto Filippo II questo sistema di controllo ebbe il suo punto centrale nella parrocchia : era soltanto il parroco che

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rilasciava le licenze di mendicità, ciascuna parrocchia nominava dei funzionari incaricati di sovrintendere ai poveri e si tentò di registrare tutti i vagabondi. Il sistema delle licenze fallì completamente, in parte perché era assai facile falsificarle. In Scozia le leggi che relegavano i mendicanti nelle loro parrocchie di nascita furono approvate nel 1 535, nel 1 5 5 1 e nel 1 5 55 , ma non più rinnovate da quel momento i n poi . Nel 1 556 le autorità di Cambridgeshire bandirono ogni tipo di accattonaggio e sospesero il sistema della licenza . Norwich segui questo esem­ pio. Alla metà del secolo, quindi, il sistema della licenza veniva già abbandonato . Pressappoco nello stesso periodo le autorità locali fecero ricorso al doppio sistema della vigilanza istituzionale e dell'assi­ stenza a domicilio . Alla vigilanza istituzionale si provvide per mezzo degli ospedali : nel 1 544 fu ricostruito a Londra il grande ospedale di Saint Bartholomew di epoca anteriore alla Riforma, mentre nel 1 557 esistevano già nella città quattro « regi » ospe­ dali : quello di Saint Bartholomew, di Cristo, il Bridewell e quello di Saint Thomas. Allo scopo di contribuire al manteni­ mento di queste istituzioni, a Londra venne ordinata un'imposta obbligatoria per l'assistenza ai poveri . L'esempio fu seguito da altre autorità locali. Per il mantenimento dei suoi ospizi di mendicità o « case di correzione » , nel 1 557 Norwich emanò delle norme relative all'imposta obbligatoria. In Francia fu seguita una procedura analoga. Nel 1 554 le autorità di Parigi eressero il loro primo ospedale per i poveri, a Saint-Germain, che in seguito fu chiamato Hopital cles Petites Maisons e durò fino alla fine dell'ancien régime. Gli ospedali erano riservati quasi esclusivamente agli indigenti invalidi ; per quelli sani ven­ nero eretti gli ospizi di mendicità. Questi ultimi esistevano in tutte le maggiori città d'Inghilterra e di Francia . A coloro i quali non avevano altro modo di guadagnarsi da vivere offri­ vano asilo e lavoro, nessuno dei due in una forma molto allet­ tante . In Francia, come in Inghilterra, il controllo dell'assistenza ai poveri veniva affidato agli enti locali . Le ordinanze di Mou­ lins ( 1 566 ) e di Blois ( 1 579 ) stabilivano che le autorità locali si procurassero il denaro per mezzo delle riscossioni parrocchiali e delle imposte . Forse Lione fu una delle prime fra tutte le città francesi a preoccuparsi dei disoccupati e sembra che sia stata la prima a istituire gli ospizi di mendicità . Il suo ospe-

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dale, l'Aumone Générale, esisteva fin dal 1 533 e fu sostituito soltanto nel 1 6 1 4 dall'Hopital Général de la Charité, molto più grande . Lo scopo del ricovero in ospedale e degli ospizi di mendi­ cità fu esclusivamente quello di togliere la miseria dalle strade, scopo che nei decenni successivi doveva essere perseguito per­ fino con maggiore impegno . Questa tendenza fa pensare che l'elemosina generosa e diretta era diventata cosa sorpassata e che il problema predominante era ormai la paura del disordine sociale. Il sistema inglese di assistenza ai poveri, il solo fra i sistemi europei che sia stato adeguatamente studiato, merita in questa sede un esame un po' particolareggiato, specialmente perché il suo sviluppo rispecchia il poco che conosciamo in merito agli altri . Sembra che il giudizio delle autorità sia stato dominato dalla convinzione che i vagabondi e i mendicanti fossero oziosi più per volontà loro che per colpa delle circostanze. Nel 1 580 un libellista definl la massa dei disoccupati « quel detestabile enorme mucchio di indolenti ». Di conseguenza, nei confronti dei vagabondi si usò la maniera forte . Uno statuto del 1 547 stabili che il vagabondaggio fosse punito con la schiavitù, di regola per due anni, ma eventualmente a vita se lo schiavo tentava di fuggire. Trascorsi due anni queste clausole furono revocate . Tuttavia nel 1 572 si ritornò alla severità e fu appro­ vata una legge, in base alla quale un vagabondo poteva essere frustato e subire la perforazione dell'orecchio alla prima infra­ zione, giudicato criminale alla seconda e punibile con la morte alla terza . Tutte queste punizioni furono abrogate nel 1 59 3 . Il fare ricorso alla legislazione mette in rilievo un aspetto impor­ tante del sistema inglese : jl persistente allontanamento dai me­ todi di carattere locale e spontaneo a favore di provvedimenti accentrati e fatti osservare da tutti . Si era constatato che le soluzioni frammentarie e mutevoli adottate dagli organi muni­ cipali erano insufficienti . Il fatto che l'importanza si sia spostata dall'elemosina di carattere privato, come azione spiritualmente utile, alla benefi­ cenza istituzionalizzata nell'interesse dell'ordine sociale è rispec­ chiato nella nuova esigenza che i poveri fossero obbligati a lavorare. « La migliore beneficenza - scrisse un puritano in ­ glese nel Seicento - consiste sia nel soccorrere i poveri, sia

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nel tenerli occupati . Giova al donatore farli lavorare ; giova al pubblico benessere di non dover sopportare dei fannulloni o nutrire gente oziosa ; giova agli stessi poveri » . Una legge gene­ rale riguardo all'assistenza ai poveri fu approvata alla fine del regno di Elisabetta . Questa legge, del 1 597-98, fu emendata ed emanata di nuovo nel 1 60 1 . Nel complesso, la legislazione di questi anni formò in Inghilterra la base dell'assistenza ai poveri per i due secoli successivi . L'assistenza ai poveri era cir­ coscritta : era affidata al controllo dei fabbricieri della parroc­ chia e di quattro ispettori dei poveri, nominati a Pasqua dai giudici di pace . I poveri venivano divisi in categorie, ciascuna delle quali doveva ricevere un trattamento particolare . Quelli di robusta costituzione dovevano essere inviati al lavoro o rele­ gati nelle case di correzione ; anche i fanciulli dovevano essere messi a lavorare o a fare tirocinio ; gli indigenti malati o storpi dovevano essere ricoverati e curati « a totale carico della par­ rocchia, o altrimenti del distretto o della contea ». L'accatto­ naggio e il vagabondaggio erano proibiti . Allo scopo di finan­ ziare l'applicazione della legge, in ciascuna località si dovette istituire un'imposta obbligatoria per i poveri . Questa legisla­ zione era predisposta per fronteggiare un grave stato di emer­ genza, in quanto quelli furono gli anni di grandi strettezze eco­ nomiche per tutta l'Europa. Com'era prevedibile, il successo fu soltanto parziale. Il duro regime degli ospizi di mendicità o delle case di correzione rassomigliava alla vita di reclusione, tanto che erano odiati più di una prigione : evidentemente il loro scopo era di rendere l'esistenza talmente insopportabile che gli ospiti preferivano cercarsi lavoro fuori. Nel 1 596 un giudice di pace del Somerset, Edward Hext, citò alcuni vaga­ bondi i quali « si confessarono rei davanti a me ; con ciò essi rischiavano la vita ; alla fine non vollero essere inviati alla Casa di Correzione, dove sarebbero stati costretti a lavorare ». Il meccanismo per fare funzionare la Poor Law non era adeguato nella maggior parte del paese e presto in alcune zone non vi fu nessun miglioramento, ma si ebbe perfino un regresso . Di conseguenza Thomas Dekker, osservando nel 1 622 la situazione nell'Inghilterra sud-orientale, riferl che « mentre il numero dei poveri cresce ogni giorno, tutto funziona peggio a danno loro . Infatti non vi è stata alcuna riscossione per loro, neanche una

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durante questi sette anni in molte parrocchie di questo terri­ torio, soprattutto nei centri rurali » . Dobbiamo fare una netta distinzione tra l'esistenza della legge e la sua applicazione. Se la legge si era proposta di siste­ mare il problema della massa dei disoccupati, essa fallì, mentre dovettero essere adottati altri provvedimenti per mantenere la tranquillità sociale. È in questo contesto che dobbiamo conside­ rare il tentativo dei governi di controllare i salari e i prezzi . Quando tutto il resto veniva a mancare, e quando le crisi come la carestia si facevano minacciose, si ricorreva a una distribu­ zione gratuita di viveri ai poveri. Nel 1 623 i balivi di Derby dichiararono : « Abbiamo fornito a spese degli abitanti più im­ portanti e più competenti di questo Borgo 140 quarters 1 di grano, che settimanalmente mettiamo a disposizione dei poveri, quanto occorre per le loro necessità, al di sotto del prezzo cor­ rente del mercato ». Qualche volta fu adottata la soluzione assai drastica dell'emigrazione forzata . Nel 1 6 1 7 una parrocchia di Londra contribuì « alle spese di trasporto di un centinaio di bambini nella Virginia per ordine del Lord Mayor » . Anche i girovaghi venivano deportati e una volta, durante il periodo del Protettorato, fu proposto di inviare tutte le prostitute del­ l'Inghilterra nel Nuovo Mondo . A quest'epoca il problema era già aumentato di intensità, a causa della guerra civile. In Francia il tentativo di togliere i vagabondi dalle strade e di ricoverarli seguì grosso modo lo stesso andamento, tranne che per un dettaglio importante . In Inghilterra la continua atti­ vità del Consiglio Privato e del parlamento conferivano alla condotta politica un certo orientamento nazionale. In Francia ( come in molti altri paesi ) l'iniziativa restò strettamente legata alle autorità locali, le quali si trovarono nell'impossibilità di stare al passo con la rovina provocata tra il popolo dalle guerre civili del tardo Cinquecento . I provvedimenti presi in questo periodo, come l'istituzione di ospizi di mendicità e di ritiri per i poveri, ebbero carattere provvisorio . Soltanto dopo le guerre furono seguite linee di condotta più consistenti, su sollecita­ zione di ministri come Barthélemy Laffemas. Un decreto del 1 6 1 1 ordinò il ricovero obbligatorio dei poveri . A Parigi furono l Misura di capacità per cereali, equivalente a

hl 2,908. [N.d.T. ]

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riservati tre appositi edifici per questi « pauvres enfermez ». Il provvedimento riusd odioso ai poveri, i quali apprezzavano la loro libertà, e quindi fallì . ( Vi furono i rari casi in cui i poveri vagabondi, una volta messisi al sicuro in un ospedale, si rifiu­ tavano di andarsene. Ciò accadde nel 1 65 3 a Troyes dove, secondo un impiegato della prigione, « vi è una grande quan­ tità di vagabondi, di oziosi e di inetti i quali, con la scusa di essere di passaggio, si sistemano e spesso rimangono a lungo, senza che vi sia modo di farli andar via » . ) Dopo il 1 6 1 6 il ricovero obbligatorio fu interrotto . Tuttavia i grandi ospedali generali, eretti durante questo periodo, continuarono a funzio­ nare. Il più importante ospedale di Parigi, la Pitié, fu costruito nel 1 6 1 2 ; l'ospedale di Lione, la Charité, nel 1 6 1 4 . Furono particolarmente attivi durante le Fronde, che in Francia costi­ tuirono un altro periodo culminante di miseria e di vagabon­ daggio . Nel 1 657 si calcolò che la sola Parigi dava ricetta a 40 .000 mendicanti . L'opera di assistenza ai poveri compiuta negli anni 1 650-60 è collegata per sempre al nome di s. Vincenzo de' Paoli, le cui fatiche debbono essere identificate con i più alti ideali cristiani di dedizione ai poveri. « Dio ama i poveri - sottolineava s. Vincenzo - ed egli ama coloro che li amano [ . . ] . Andiamo a cercare i più poveri, i più indifesi, e riconosciamo dinanzi a Dio che essi sono i nostri signori e padroni ». Per quanto .le concezioni fossero medievali, Vincenzo operò nell'ambito del nuovo atteggiamento verso l'assistenza ai poveri . Per ironia della sorte, quest'ambito fu profondamente ostile ai poveri . La Società del Santissimo Sacramento, che dedicò molto del suo tempo a opere di misericordia, si impegnò in una politica di ricoveri, quanto dire che i poveri dovevano essere rinchiusi. Il soccorso a domicilio doveva essere evitato . Di conseguenza la Società eresse ospedali a Marsiglia nel 1 63 9 , a Orléans nel 1 642, a Grenoble nel 1 66 1 , nonché in molte altre città impor­ tanti . Il progetto per l'Aumone della Società a Tolosa rivelò la sua ostilità nei riguardi della tradizionale elargizione di ele­ mosine, considerata inutile per difendere « i poveri, i quali deb­ bono per ragione di nascita servire i ricchi » . Nel 1 656 la So­ cietà fondò a Parigi l'Hopital Général des Pauvres. L'istituzione fu resa deliberatamente sgrad€lvole . I ricoverati potevano essere puniti dai dirigenti dell'ospedale, tutte le loro attività erano .

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regolate a orario e dovevano « indossare vesti e berretti gng1 e avere ciascuno sulle vesti un contrassegno generale e un numero particolare » . S . Vincenzo sostenne l'idea d i u n ospedale, ma avversò l'introduzione intenzionale di un regime rigoroso ; egli favorì anche il soccorso a domicilio per i mendicanti. Il suo ospedale personale per i mendicanti, il Nom-de-Jésus ( 1 653 ), forniva ai ricoverati asilo e lavoro obbligatorio . Grazie alla sua opera assi­ stenziale di vario genere egli conquistò l 'affetto e il rispetto universali . In tutta la Francia settentrionale, durante gli anni peggiori della guerra dei Trent'anni e della Fronda, nell'Ile-de­ France, in Piccardia, nella Champagne e nella Lorena, egli e i suoi aiutanti furono ovunque presenti per salvare sia vite umane che anime . « Durante l'ultima distribuzione di pane che facemmo - è detto in un tipico rapporto di un aiutante in una delle città della Lorena nel 1 6 4 1 - vi erano 1 . 1 3 2 poveri, senza contare i malati, che sono numerosi e che stiamo aiutando con viveri e in altri modi ». « Negli ultimi due anni - si afferma in una lettera del 1 65 3 , diretta da una città della Francia set­ tentrionale a Vincenzo - l'intera Champagne e questa città in particolare sono vissute soltanto grazie alla vostra opera di carità . Tutta la campagna sarebbe stata abbandonata e tutti gli abitanti sarebbero morti di fame se tu non avessi mandato qual­ cuno ad alleviare la loro miseria e a dare loro la vita ». L'opera di s. Vincenzo, che fu il più grande esercizio pratico di carità cristiana dell'epoca moderna, non sopravvisse a lungo alla Fronda. Nel 1 656, migliorata la situazione, il governo vietò qualsiasi soccorso a domicilio o distribuzione di elemosine, rinnovando l'ordine che i poveri venissero ricoverati negli ospedali . Il ricovero significò la fine della carità cristiana di carattere personale e l'inizio di una elargizione anonima, in cui i veri bene­ fattori erano separati dai beneficati da una terza persona : l'ospedale attraverso il quale la carità veniva incanalata. In questo modo anche la carità entrò nell'Età del Ferro . Il soc­ corso a domicilio veniva ancora ampiamente praticato, soprat­ tutto nei paesi cattolici . Dalle valutazioni effettuate a Milano nel 1 603 risulta che la quantità complessiva di viveri distri­ buiti annualmente ai poveri nel predetto periodo fu di 2 . 1 92 moggia di grano, 4 . 3 44 di granaglie miste, 890 di riso, vari quantitativi di carne, di verdure e di sale, 1 .370 barilotti di

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vino e 4 .822 pagnotte ; inoltre furono distribuite 1 8 .690 lire in contanti . Ma in Italia, come in Inghilterra e in Francia, le donazioni caritatevoli personali tendevano sempre più ad affluire nella forma di elargizione controllata e istituzionale. La situa­ zione della Francia serve a spiegare la caratteristica della nuova forma di distribuzione . L'ospedale di Parigi istituito nel 1 6 1 2 , l a Pitié, destinato a diventare il più importante ospedale di Parigi, nel 1 66 1 riusd ad accogliere 1 .090 poveri, di cui 897 ragazze e 99 vecchie . Nel 1 666 un altro ospedale di Parigi, la Salpétrière, accolse 1 .900 ospiti, di cui 1 1 0 erano ciechi o para­ lizzati, 85 erano idioti, 90 erano vecchi ammalati, 60 erano epilettici e 380 erano sessagenari o più anziani. Gli ospedali preferivano ricoverare soltanto donne o bambini . Gli uomini venivano messi a lavorare negli ospizi di mendicità . Né gli ospedali né gli ospizi di mendicità estirparono l'accattonaggio . I primi , essendo una forma di assistenza, i ncoraggiavano l'accat­ tonaggio, mentre i secondi erano talmente ripugnanti da costrin­ gere i poveri a fare di tutto per tenersene alla larga. Il nuovo sistema di beneficenza era sostenuto soprattutto dalla borghesia. Nei paesi sia cattolici che protestanti il ceto mercantile era quello che donava con generosità. Durante il Seicento in Olanda, dove il problema dei poveri era considere­ vole, un viaggiatore inglese poté osservare ( nel 1 6 8 5 ) che « non c'è nulla che dimostri la propensione caritatevole degli olandesi meglio della loro grande premura nel soccorrere, mantenere e istruire i loro poveri , poiché non si vedono mendicanti in giro per le strade ». Che fino a un certo punto gli olandesi fossero riusciti a imbrigliare la miseria lo fa pensare la notizia, eviden­ temente esagerata, secondo cui ad Amsterdam venivano « distri­ buite ogni anno ai poveri oltre 18 tonnellate d'oro, a dimo­ strare sia che la città è molto ricca, sia la buona e caritatevole disposizione dei suoi abitanti » . Quanto all 'Inghilterra, W . K. Jordan h a avanzato l'ipotesi che l'etica puritana fosse quella che determinò la nuova pro­ pensione a fare cospicui legati a favore dei poveri . Forse è più esatto mettere l'accento sul ceto sociale anziché sulla religione del donatore. Nei paesi cattolici fu senz'altro la borghesia a mettersi alla testa delle donazioni di beneficenza . Nel Seicento a Milano, come in Inghilterra, le donazioni private costitui­ vano di gran lunga la fonte più importante d'entrata per i po-

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veri. I mercanti milanesi elargivano grosse somme agli ospedali . Fra loro vi fu Giulio Cesare Lampugnani il quale, oltre a dare 90 .000 lire in legati a due istituti di carità, lasciò nel 1 630 per testamento 1 9 6 .000 lire in beni e 63 .500 in capitale per provvedere i poveri di pane, di riso, di carbone e di vestiario . Nel 1 623 G. P. Carcano lasciò la somma favolosa di 500 .000 scudi al figlio minorenne, affinché ne entrasse in possesso al compimento della maggiore età ; nel frattempo il denaro doveva essere adoper11to a vantaggio dell'Ospedale Maggiore di Milano e di altre istituzioni . In Inghilterra furono soprattutto i mer­ canti di Londra che si distinsero nel fare la beneficenza . Sia prima che dopo la Riforma i mercanti più ricchi diedero in elemosina una sostanziosa porzione dei loro patrimoni perso­ nali : nel secolo anteriore alla Riforma la proporzione fu del 29 per cento delle loro proprietà, di circa un quarto nel periodo elisabettiano. Uno degli aspetti più significativi dei doni fatti dai cittadini di Londra fu la ' secolarizzazione ' delle loro dona­ zioni, tendenza che forse ha agito a favore dei poveri . Per esempio, durante il periodo 1 480- 1 540 i mercanti minori di Londra diedero il 6 1 per cento delle loro donazioni a scopo di culto e soltanto il 1 8 per cento direttamente ai poveri. In­ vece dal 1 6 0 1 al 1 640 la religione ricevette soltanto il 9 ,8 per cento, mentre i poveri ricevettero il 52,4 per cento . Le cifre in un certo senso possono trarre in inganno ( all'inizio il denaro donato alla religione spesso andava a finire ai poveri, ma in seguito era alquanto raro che toccasse direttamente ai poveri, poiché di solito lo si offriva loro sotto l'aspetto sgradevole degli ospizi di carità ), ma in termini assoluti esse rispecchiano una preoccupazione crescente nei confronti di un grave problema sociale . Per il tipo di soccorso praticato ai poveri in dieci contee dell'Inghilterra meridionale, dal 1480 al 1 660, si veda la fi. gura 2 1 , dalla quale risulta in modo chiaro fino a qual punto i poveri costituissero una preoccupazione per i loro contempo­ ranei . Inoltre, tutte quelle donazioni ai poveri venivano disposte non tanto per motivi di devozione, quanto per il desiderio decisamente secolare di difendere l'ordine sociale sradicando il vizio della miseria.

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E 440.000'-r----400.000,+----

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Fig. 2 1 Donazioni di beneficenza a favore dei poveri in Inghilterra, dal 1 480 al 1660. ( Il brusco allungamento della curva è dovuto all'inflazione. )

La schiavitù. I più diseredati degli esseri umam m senso assoluto, gli schiavi, occupano un posto molto modesto nelle descrizioni standardizzate dell'Europa cristiana del Cinquecento, ma è certo che essi esistevano in quantità molto elevata. Poiché la schia­ vitù era soprattutto un'istituzione economica, essa forniva mano

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d 'opera là dove non la si poteva ottenere in nessun altro modo, ragione per cui ne dobbiamo collegare l'esistenza a un partico­ lare tipo di società. Durante il periodo in esame possiamo tro­ varla, in linea di massima, in due ambienti principali : nella società « coloniale » e nella società « feudale ». Adottando que­ ste categorie, escludiamo necessariamente dalla trattazione qual­ siasi altro genere di schiavitù classico o medievale, eventual­ mente sopravvissuto in Europa . I l tipo « coloniale » d i schiavitù f u quello che predominò nell'Europa occidentale e dovette la sua vitalità in massima parte a quanto si praticava nella penisola iberica. Dal tardo Medioevo la Reconquista - cioè la riconquista del territorio musulmano permise alle razze cristiane di dominare e di sfruttare i mori sconfitti. In epoca medievale i cosiddetti schiavi « saraceni » furono di ordinaria amministrazione in Portogallo e in Spagna, tanto al Centro che nel Meridione . Naturalmente la lotta fra cristiani e musulmani si estese oltre la penisola : fu attraverso le innumerevoli battaglie e gli atti di pirateria in mare che l'istituzione della schiavitù seguitò a perpetuarsi . Nel Cinque­ cento i corsari musulmani furono attivi in tutto il Mediterraneo e catturarono schiavi cristiani, provenienti da paesi tanto lon­ tani come la Russia e l'Inghilterra . Le potenze cristiane, a loro volta, non si fecero scrupolo di fare schiavi tutti i mori di cui riuscivano a impadronirsi . Con un'esperienza del genere alle loro spalle, le potenze iberiche accettarono la schiavitù come una caratteristica normale della loro vita pubblica . Le leggi medievali sia della Spagna che del Portogallo sanzionavano il possesso di schiavi. La schiavitù spagnola aveva avuto un carattere decisamente moresco, che continuò a mantenere anche dopo l'espulsione dei moriscos nel 1 60 9 . Quando quest'ultima ebbe luogo, gli unici moriscos non espulsi dalla Spagna furono quelli che si trova­ vano in stato di schiavitù e che dovevano ammontare a parec­ chie migliaia . Nel Cinquecento, dopo ciascuna ribellione dei moriscos, specie dopo l'insurrezione sulle montagne di Alpujarra nel 1 569, moltissimi ribelli - si dice che fossero migliaia furono venduti come schiavi. Questa fonte nativa di mano d'opera ( impiegata principalmente nel lavoro domestico, ma anche sulle galee e per i lavori forzati nelle miniere di mercurio di Almadén ) veniva integrata dall'estero . La battaglia di Lepanto

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fece affluire molti turchi nelle famiglie spagnole ; anche le razzie di schiavi erano redditizie, come nel caso della spedizione com­ piuta nel 1 6 1 1 dal marchese di Santa Cruz nell'isola di Ker­ kenna, nel corso della quale egli catturò 400 schiavi . Nel com­ plesso gli schiavi musulmani della Spagna meridionale tende­ vano a essere di estrazione turca o barbaresca, anziché moresca di carattere nativo, semplicemente a causa dell'estendersi della pirateria nel Mediterraneo occidentale. Quando incominciò l'epoca della scoperta, la schiavitù ibe­ rica assunse una nuova struttura . L'istituzione da mediterranea si trasformò in atlantica. Il cambiamento geografico ne com­ portò anche uno razziale : al posto dei mori, si trafficò con i neri africani . Era incominciata una nuova era, sul piano sia quantitativo che qualitativo, poiché non solo il numero dei negri ridotti in schiavitù superava ogni esperienza precedente, ma essi venivano innanzi tutto impiegati per soddisfare le neces­ sità dell'economia coloniale in America e altrove . Logicamente ne conseguì che quei paesi che ricorrevano alla schiavitù nelle loro colonie - Portogallo, Spagna e, più tardi la Francia e l'Inghilterra - erano tendenzialmente consenzienti a estendere la schiavitù nei loro territori metropolitani, introducendo così in Europa il modello coloniale dei rapporti razziali . Il Portogallo, il primo fra i paesi europei a promuovere il nuovo tipo di schiavitù all'estero, fu anche il primo a subirne l'invasione in patria. Nel 1 553 un umanista belga, scrivendo da Evora, poteva già affermare : « Ovunque qui vi sono schiavi, costituiti da negri e da mori prigionieri . Il Portogallo è talmente pieno di schiavi che sarei quasi indotto a credere che Lisbona abbia più schiavi di ambo i sessi che liberi portoghesi [ . ] . Quando venni per la prima volta a Evora pensai di essere entrato in una città di diavoli, tanti furono i negri che incontrai dap­ pertutto ». Si calcolò che nel 1 55 1 a Lisbona vi fosse uno schiavo ogni dieci portoghesi liberi, mentre nel 1573 si stabilì che il numero complessivo degli schiavi in Portogallo era di 40 .000 unità, fra negri e mori . Sembra che la punta massima sia stata toccata nel 1 620, quando a Lisbona vi erano 1 0 .470 schiavi . Alcuni di essi provenivano da paesi tanto lontani come l 'India, grazie alle incursioni portoghesi nell'Oriente. Dopo il primo Seicento, sembra che la quantità degli schiavi sia andata scemando, senza dubbio a causa soprattutto della decadenza ..

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dell'impero, ma anche di determinati fattori come la manomis­ sione, la paura delle rivolte degli schiavi e del lavoro a basso costo dei braccianti salariati . Lo sviluppo della schiavitù dei negri in America ebbe un effetto diretto sulla Spagna. Nel 1 655 un osservatore fiammingo riferl : « Il traffico americano ha infuso nuova vita all'istituzione della schiavitù in questo paese, sicché in Andalusia si vedono pochi servi che non siano schiavi, per lo più mori e negri » . Come i n altre parti del Mediterraneo, la massa degli schiavi tendeva a concentrarsi nei porti marittimi . Si calcola che a Sivi­ glia, nel 1 565, vi siano stati 6.327 schiavi su 85.538 abitanti . Per la maggior parte erano negri . Nel 1 6 1 6 Cadice ne aveva molti di meno, soltanto 300 schiavi mori ( li chiamavano « schiavi bianchi » ) e 500 negri . Nella Spagna settentrionale esistevano pochissimi schiavi, mentre a Madrid una legge del 1 6 0 1 ne proibì l'impiego. Gli schiavi spagnoli erano soprattutto impie­ gati presso famiglie private in qualità di domestici . Esistevano alcuni schiavi appartenenti allo stato, i quali venivano impie­ gati nelle opere pubbliche . Un aspetto importante della schia­ vitù spagnola, che doveva assumere un certo significato nel Nuovo Mondo, fu l'assoluta mancanza di un atteggiamento raz­ zista nei riguardi dei negri . I negri non solo avevano « un carat­ tere migliore ed erano più leali » [ degli altri schiavi ] , per citare un autore del 1 6 1 5 , ma erano anche sensibili alla reli­ gione e alla civiltà cristiana. In alcuni casi molto rari riuscirono a elevarsi sulla scala sociale. Un caso del genere fu quello di Juan Latino, i genitori del quale erano entrambi schiavi . Egli incominciò la sua carriera come paggio del duca di Sessa, riusd a entrare nell'università di Granata, vi si laureò nel 1 557, ot­ tenne poi una cattedra di latino e sposò la figlia di una nobile famiglia . I due frutti più amari della scoperta dell'America furono l'asservimento degli indiani americani e l 'espansione del traffico dei negri dall'Africa . Sebbene nessuno di questi argomenti ci interessi direttamente in questa sede, essi sono importanti per via della luce che gettano sugli atteggiamenti europei nei riguardi della schiavitù. I missionari europei, profondi conoscitori della cultura degli indiani e inorriditi dai metodi barbari di colonizza­ zione dei loro compatrioti, difesero i nativi del Nuovo Mondo dalle accuse secondo cui essi erano talmente incivili da essere

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schiavi per natura . « Non esiste oggi nessuna nazione - pro­ testò nel 1 547 il missionario domenicano Bartolomé de Las Casas - né potrebbe esistere, a prescindere da quanto i suoi costumi siano barbari, crudeli o corrotti, che non possa essere attratta e convertita verso tutte le virtù politiche e verso tutta l'umanità degli uomini civili, politici e razionali ». Alcuni anni più tardi, tornando sullo stesso argomento, questo grande difen­ sore degli indiani dichiarò che la loro innocenza naturale era tale che « essi sarebbero il popolo più felice della terra, solo che conoscessero Dio » . Un secolo dopo, nel 1 654, il domeni­ cano francese Jean-Baptiste du Tertre poté ancora proiettare l'immagine degli indiani caraibici come « i più soddisfatti, i più felici, i meno corrotti, i più socievoli, i meno falsi, i più robusti di tutti i popoli del mondo ». Purtroppo, allo scopo di proteg­ gere gli indiani, la maggior parte dei missionari approvò l'im­ piego della schiavitù dei negri . La grande colonia dei gesuiti nel Paraguay, dove gli indiani guaranl vivevano in libertà, adi­ biva centinaia di negri all'esecuzione dei lavori servili . Alcune persone eminenti ( come Las Casas ) obbiettarono che l'asservi­ mento dei negri era immorale quanto quello degli indiani ; ma le esigenze di mano d'opera del regime coloniale erano tali che la schiavitù dei negri si rese indispensabile. Cosl la schiavitù e il commercio atlantico degli schiavi continuarono indisturbati fino al XIX secolo . Tra coloro che agirono per mitigarne gli effetti vi furono due gesuiti . Il gesuita catalano San Pedro Claver, « l'apostolo dei negri », dedicò la sua vita al loro ser­ vizio man mano che sbarcavano a Cartagena dopo la lunga traversata atlantica. Per quarant'anni, dal 1 6 1 4 fino alla sua morte nel 1 654, egli lavorò fra loro nelle condizioni più orribili e quando morl essi lo piansero per le strade . La voce più auto­ revole del Portogallo fu quella di padre Antonio Vieira, il quale nel 1 653 denunciò l'esercizio della schiavitù dei negri in Bra­ sile. « Ogni uomo che ne tiene un altro in schiavitù ingiusta­ mente - predicava - nonostante abbia la possibilità di libe­ rarlo, sicuramente è in peccato mortale » . Le loro voci non riuscirono neppure a sfiorare la spaventosa attività che inviava milioni di negri africani a morire in un continente sconosciuto. « Tutte le avversità e tutte le tribolazioni cominciano nella schiavitù - commentò nel 1 627 un oppositore spagnolo, Padre

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Alonso de Sandoval - essa è tutt'uno con la morte continua [ . . . ] è una combinazione di tutti i mali » . Fuori della penisola iberica, la schiavitù mediterranea non poté fare assegnamento sul sistema coloniale e dovette la con­ tinuazione della sua esistenza quasi esclusivamente alla pirater'a. Ciò si verificò certamente per la Francia, dove i porti marittimi di Marsiglia e di Tolone dovevano inevitabilmente dare ricetta alla preda dei cacciatori di schiavi . Tranne che in questi porti mediterranei, in Francia la schiavitù fu molto rara. Vi furono molti casi documentati di schiavi nel Rossiglione ( divenuto fran­ cese nel 1 65 9 ) , ma si trattava nella quasi totalità di mori, una eccedenza proveniente dalla Spagna. L'atteggiamento che preva­ leva in Francia può essere dedotto dall'ordine emanato nel 1 5 7 1 dal Parlamento della Guienna contro un trafficante d i schiavi di Bordeaux : « La Francia, madre della libertà, non permette la schiavitù ». « Tutte le persone di questo regno sono libere - scrisse nel 1 608 il giurista Loisel - e se uno schiavo approda su queste sponde e si battezza, diventa libero » . Tut­ tavia, Io sviluppo dell'impero francese d'oltremare si oppose a sentimenti come questo e, contemporaneamente alla schiavitù coloniale, crebbe anche la sua approvazione da parte della Francia metropolitana, che importava mano d'opera di colore soprattutto attraverso La Rochelle e Nantes . La pirateria fece di Venezia, di Genova e di altri porti ita­ liani i centri più importanti della schiavitù. Il volume dei loro traffici era la prova di un sistema ancora fiorente. Si ritiene che nel 1 565 la città di Palermo abbia avuto 1 .500 schiavi, mentre altri porti del Mediterraneo debbono averne avuti altrettanti . In origine erano quasi tutti musulmani. Il documento in nostro possesso, relativo a un carico di schiavi portato dal Levante da quattro galee fiorentine nel mese di giugno del 1 574, parla di un totale di 300 esseri umani, rappresentati da 2 3 8 turchi, 32 mori, 7 negri, 2 greci, 5 arabi, 5 ebrei, 5 russi e 6 cristiani . Il mercato al quale furono avviati era quello di Messina, dov � ne furono venduti 1 1 6, mentre la maggior parte dei cristiani fu liberata. Chi erano i compratori ? Esistevano soprattutto due specie di domanda. I clienti più assidui erano i capitani i quali chiedevano schiavi per le galee, dato che questa forma di lavoro fu d'uso comune per tutto il Cinquecento e il Seicento. Le ma-

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rine da guerra degli Stati italiani e della Spagna ( molte navi della quale erano comandate da italiani ) dipendevano molto dagli schiavi al remo . Per esempio, nel 1 573 un agente delle regie galee spagnole che cercava schiavi a Genova, ne comprò 1 00 dalle autorità nel mese di febbraio e altri 32 ( questi ultimi provenienti dall'Ungheria ) nel mese di aprile . In questo periodo il costo di uno schiavo del genere si aggirava sui 100 ducati. I porti di origine degli schiavi - Aleppo, Salonicco, lstambul, Tunisi, Algeri - stanno a indicare il carattere prevalentemente musulmano della schiavitù nel Mediterraneo cristiano . ( Natural­ mente nel Mediterraneo arabo toccava ai cristiani essere schiavi. Nel 1 588 si era calcolato che oltre 2 .500 sudditi veneziani fos­ sero sparpagliati per tutto il Mediterraneo « in misera capti­ vità » 1 . ) La proporzione degli schiavi al remo su di una nave era varia. Nel 1 574 la nave comando di una squadra spagnola a Genova aveva 209 rematori, 79 dei quali erano schiavi . Nel 1 684 gli effettivi addetti ai remi di quattro galee fiorentine raggiungevano un totale di 1 .202 uomini, 586 dei quali, pari a quasi il 50 per cento, erano schiavi . Gli schiavi che non venivano impiegati nelle galee di solito venivano destinati a famiglie private, dato che in Italia come in Spagna prevaleva la schiavitù domestica . Talvolta venivano adibiti alle normali mansioni domestiche, ma più spesso erano semplicemente usati a scopo decorativo, specialmente presso l e famiglie nobili. A Roma la stessa famiglia pontificia metteva in mostra i suoi schiavi, tanto che nel 1 584 si riteneva che un principe della Chiesa come il cardinale d'Este avesse nella c;ua villa di Tivoli 50 schiavi turchi. Dopo la vittoria di Lepanto Marcantonio Colonna fece in modo da inserire 200 schiavi nel suo corteo trionfale. Perciò la schiavitù domestica era appro­ vata e diffusamente messa in pratica. Però in nessuna parte d'Italia la schiavitù era formalmente accettata come una pub­ blica istituzione, tanto che a uno schiavo fuggitivo (e ancora più indiscutibilmente a uno schiavo battezzato ) veniva riconosciuto un diritto assoluto alla libertà. In tutto ciò il fattore attenuante consisteva nel fatto che il diritto dell'Europa cristiana non condannava automaticamente alla schiavitù nessuna classe o razza di uomini . La schiavitù era I

In italiano nel testo. [N.d.T. ]

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considerata come una condizione provvisoria, il risultato del­ l'avversa fortuna di essere catturati in guerra. Essendo provvi­ soria, non poteva essere ereditata . Inoltre fu esattamente in quei paesi mediterranei in cui la schiavitù era più in voga - in Spagna, in Francia e in Italia - che la teologia cattolica e il diritto pubblico si accordarono per garantire ai diseredati il loro diritto, sia come uomini che come cristiani, all'affrancamento e all'uguaglianza sociale. In circostanze normali ciò avrebbe por­ tato alla graduale estinzione della schiavitù in Europa. Però lo sviluppo dell'economia coloniale, che dipendeva dalla mano d'opera a basso costo, diede nuova vita all'istituzione. Prima di passare a trattare la schiavitù « feudale » , dob­ biamo prendere nota che in molte parti d'Europa era comune un grado di asservimento equivalente alla schiavitù. Ciò soleva accadere soprattutto quando i braccianti erano costretti a lavo­ rare a condizioni intollerabili . Ma talvolta le leggi tollerarono espressamente la schiavitù, come nel caso della legge inglese sui poveri del 1 547 che la comminava ai vagabondi. In Scozia la

Fig. 22

I profughi in Europa, dal 1 550 al 1660.

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legge sui poveri e le condizioni di lavoro potevano essere altret­ tanto crudeli. Una legge scozzese del 1 605 stabill che « chiun­ que può prendere tutti i mendicanti abili e forti e, portatili davanti a uno sceriffo [ o ] a un assessore comunale e fattili dichiarare mendicanti abili, può marchiarli con il suo ferro rovente e tenerli come schiavi » . La schiavitù di questa specie fu ripetutamente sanzionata da leggi del parlamento scozzese per tutto il Seicento . Anche gli scozzesi furono fatti schiavi in conseguenza della guerra, come avvenne nel 1 650 quando alcuni soldati sconfitti di Montrose furono destinati come schiavi per il marchese di Argyll e per i suoi amici . Più o meno in questo periodo la più importante industria scozzese, quella mineraria, conobbe i vantaggi della schiavitù. I minatori avevano goduto della libertà personale fino al 1 60 5 . Poi, nel luglio del 1 606 una legge del parlamento vietò loro di trasferirsi altrove, con l 'effetto anche di bloccare i loro salari . La legge del 1 606 si riferiva alle miniere di carbone, un'altra del 1 607 riguardava le miniere metallifere, mentre uno statuto del 1 6 4 1 estese queste condizioni agli operai delle fabbriche. Il proletariato scozzese fu effettivamente ridotto alla servitù della gleba. Nell'Europa orientale, dove la servitù della gleba su vasta scala era ormai un aspetto fondamentale dell'economia, i settori della forza del lavoro in realtà erano costituiti da schiavi. In Russia la schiavitù era una caratteristica normale dello scenario rurale . Gli schiavi (kholopi) svolgevano essenzialmente la stessa funzione dei servi della gleba, con la differenza che perdevano la libertà personale . Tale libertà poteva essere perduta in molti modi e per periodi variabili di tempo . Per esempio, si poteva diventare schiavi per contratto, per un periodo di tempo limi­ tato o illimitato ; oppure a causa della guerra, o per debiti. Su questa frontiera orientale la schiavitù per causa di guerra era molto comune, tanto che gli schiavi polacchi giunsero a posi­ zioni di responsabilità presso molte famiglie nobili . In partico­ lare vi era un traffico intenso di tartari, catturati alle frontiere sud-orientali della Moscovia . La differenza tra la schiavitù russa e quella dell'Europa occidentale è molto importante, soprattutto per il fatto che la prima aveva carattere più rurale che dome­ stico o industriale . Nella steppa, dove molti possedimenti erano privi di contadini, si impiegava la mano d'opera degli schiavi e in alcuni distretti la proporzione tra schiavi e contadini liberi

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arrivava fino al 50 per cento. Perfino nel distretto di Mosca oltre il 14 per cento delle fattorie era costituito da questa cate­ goria. Erano noti come zadvornie ljudi, ossia « gente che viveva lontano dalla casa del padrone », tenuta a eseguire tutte le nor­ mali obbligazioni feudali . L'importanza della schiavitù nello stato russo è dimostrata dal fatto che essa formava oggetto in modo specifico di 200 articoli sui 900 di cui era composta la Ulozenie del 1 649 . È abbastanza paradossale che la schiavitù tendesse a scomparire man mano che si intensificava. La diffe­ renza tra uno schiavo e un servo della gleba era stata sempre tenue e le due categorie, entrambe depresse, ebbero nel corso del Seicento la tendenza a fondersi sul piano giuridico in una sola . L'ultima differenza importante tra di loro fu l'esenzione fiscale degli schiavi . Le leggi del 1 680 e del 1 724 assoggetta­ rono all'imposizione lo schiavo senza terra al pari del servo della gleba appartenente al fondo : con questi provvedimenti la schiavitù fu assorbita nella più vasta istituzione della servitù della gleba.

I profughi. Narrando a don Chisciotte le sventure del suo popolo, il moro Ricote cosi si lamenta : « Dovunque ci troviamo, ver­ siamo lacrime per la Spagna, poiché là siamo nati ed essa è la nostra terra natia, mentre in nessun luogo troviamo riparo dalle nostre disgrazie ; ed è in Barberia e in tutte le parti dell'Africa , dove speravamo di essere accolti, curati e festeggiati, che siamo stati più insultati e maltrattati » . Fra l e vittime dell'azione d i Stato i moriscos occupano un posto particolarmente sfortunato, ma se consideriamo il periodo nel complesso non si trattò affatto di un caso isolato, poiché l 'epoca della Controriforma fu, più di ogni altra, l'epoca clas­ sica delle minoranze perseguitate. I movimenti di popolazione, sia per la quantità degli emigranti che per le distanze percorse, furono talmente estesi che il carattere economico e politico dell'Europa subl gravi mutamenti. Basta uno sguardo alla fig. 22 per rendersi conto dell'importanza del problema. I movimenti di popolazione di cui alla predetta fig. 22 fu­ rono per lo più collegati a determinati avvenimenti storici, che

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esamineremo tra poco . Oltre e al di là di questi movimenti ve ne furono altri di carattere provvisorio, che ci danno l'impres­ sione di un'Europa periodicamente in agitazione. Nonostante la Riforma, si trattava ancora di un'Europa dei pellegrinaggi, come risulta dal quadro di Roma durante l'Anno Santo del 1 600. Nel mese di maggio di quell'anno i notiziari della città ponti­ ficia dicevano : « Mai a memoria d'uomo è venuta tanta gente a Roma » . Evidentemente l 'affermazione era precisa, in quanto il precedente Anno Santo del 1 575 aveva richiamato a Roma, secondo i calcoli, 400.000 visitatori contro i 536 .000 del 1 600, anno in cui la città aveva una popolazione residente di 100 .000 abitanti. La maggior parte dei visitatori era costituita da italiani, ma vi fu una grande percentuale di stranieri, provenienti in particolare dalla Francia. Alcune fra le altre città cosmopolite d'Europa potevano prevedere un'alta percentuale di stranieri anche in tempi normali . In quelle più importanti la colonia straniera rappresentava una media dal 4 all'8 per cento della popolazione . Nel 1 568 oltre il 1 6 per cento degli abitanti di Anversa, uno dei centri più internazionali, era classificato « stra­ niero ». In genere questo termine veniva applicato a tutti coloro che non erano nati nella città, cosa che spiegherebbe perché nel 1 6 3 7 il 1 4 ,7 per cento degli abitanti di Zurigo era consi­ derato composto di stranieri . Una percentuale più realistica è offerta dai dati relativi a Londra nel 1 58 7 , dai quali risulta che il 4,5 per cento dei « capifamiglia abili » era costituita da stranieri, ossia da non inglesi. Pertanto, un numero rilevante di europei era in movimento per cause di religione o per qualche altro motivo . Tuttavia, pre­ disporre un lungo viaggio con la certezza di poter tornare in patria, era una cosa; completamente diversa sapere che il ritorno era impossibile. Per centinaia di migliaia di persone la terra natia divenne soltanto un ricordo . Tanto la Riforma che la Controriforma crearono i profughi, ma è molto difficile giungere a una netta indicazione del loro numero . I profughi provenienti dagli stati cattolici divennero numerosi in un primo momento negli anni 1 540-50, a seguito della creazione nel 1 547 della Chambre Ardente in Francia e dell'istituzione dell'Inquisizione romana nel 1 542 in Italia. I protestanti italiani si rifugiarono soprattutto, come si è visto, in Svizzera . Alcuni si spinsero più lontano, molti in Inghilterra.

XI. La voce dei diseredati

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Nel 1 555 incominciò l'emigrazione dall'Inghilterra, come conse­ guenza della restaurazione cattolica. Degli 800 profughi inglesi all'incirca, che ripararono nel continente, molti andarono nella Renania . L'emigrazione dalla Francia f u numericamente molto più importante. Originata dalla repressione degli anni 1 540-50, toccò il culmine dopo il massacro di San Bartolomeo . Moltissimi ugo­ notti andarono in Germania, specie nel Palatinato, che per la maggior parte del tardo Cinquecento fu sotto il governo calvi­ nista. Ma il centro più cospicuo furono la Svizzera e Ginevra . « La quantità di denaro che viene rimesso di nascosto dalla Francia per aiutare i francesi a Ginevra è incalcolabile - af­ fermò nel 1 5 6 1 il ministro plenipotenziario veneziano in Fran­ cia -. La città è piena di profughi e mi è stato detto che sono addirittura diecimila ». La cifra non era esagerata. Probabil­ mente dal 1 549 al 1 587 Ginevra accolse almeno 1 2 .000 pro­ fughi francesi, sebbene il flusso effettivo si concentrasse nel 1 57 2 . In questo periodo si fecero anche dei progetti per l'emi­ grazione dei protestanti in America. L'ammiraglio Coligny tentò in ogni modo di fondare una colonia di ugonotti in Brasile, mentre alcuni gruppi di emigranti partirono effettivamente dalla Francia per andare nel Nuovo Mondo . Questi tentativi furono proseguiti nel Seicento : nel 1 627 600 ugonotti andarono a colo­ nizzare l'isola di Saint-Christophe . Abbiamo già considerato la prevalenza dell'elemento artigiano nell'emigrazione francese a Ginevra . Un quadro analogo si presenta nel Palatinato , dove gli insediamenti degli ugonotti e i centri industriali si stabili­ rono a Frankenthal ( 1 562 ), a Schonau, a Saint-Lambert ( 1 57 7 ) e a Otterberg. È strano che pochi ugonotti andassero in Inghilterra . Forse i più importanti emigrati di questo periodo furono gli abitanti dei Paesi Bassi meridionali, al cui contributo all'im­ presa capitalistica abbiamo accennato nel capitolo I I I . Il loro numero fu talmente grande che praticamente si trattò del movi­ mento di una nazione. I Paesi Bassi settentrionali furono colti di sorpresa da una enorme corrente migratoria. Nel 1 584-85 nella sola città di Middelburg giunsero dal Meridione più di 1 .900 famiglie . L'emigrazione meridionale verso Leida fu cosl densa che essa finl per essere considerata una città fiamminga, anche se in realtà i fiamminghi ( molti provenivano da Bruges )

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Parte N. Crisi generale?

costttmvano soltanto il 1 0 per cento della popolazione. Qualche indicazione in merito all'importanza dell'emigrazione la si può ottenere dalle cifre relative alle concessioni di cittadinanza ( anche se dobbiamo ricordare che soltanto una percentuale esigua di emigranti la chiese o ne aveva i requisiti) . A Leida, dal 1 500 al 1 574, soltanto il 7 ,2 per cento di nuovi cittadini ( bourgeois) era venuto dal sud; dal 1 575 al 1 6 1 9 la cifra salì al 3 8 ,4 per cento . Ad Amsterdam, nel periodo che va dal 1 575 al 1 606, i meridionali rappresentavano il 3 1 per cento di tutti i nuovi cittadini . A Middelburg, dal 1 580 al 1 59 1 , i meridio­ nali costituirono i tre quarti dei nuovi cittadini. Gli abitanti dei Paesi Bassi andarono in molte città estere ( a Londra, fino alla fine del Cinquecento, assommarono sempre a circa i cinque sesti della popolazione straniera complessiva ), ma il loro principale punto di concentrazione fu la Germania occidentale e, in modo speciale, Francoforte sul Meno. Qui i valloni predominarono sui fiamminghi . A Francoforte, dal 1 554 al 1 5 6 1 il 3 8 ,4 per cento di coloro i quali ottennero la citta­ dinanza (Burgerrecht) era dei Paesi Bassi . La grande quantità di emigranti era preoccupante : nel 1 5 6 1 i profughi assomma­ vano a 2 .036 persone, in un momento in cui la popolazione di Francoforte era di quasi 1 5 .000 abitanti . Dal 1 585 al 1 590 il numero dei profughi segnò un totale di 5 .300 unità. Il movimento di un cosl gran numero di persone non poteva non avere ripercussioni gravi sulla vita della città che le ospi­ tava. Per esempio, a Francoforte i nuovi arrivati furono osteg­ giati sia dagli artigiani che dall'alta borghesia. Si posero restri­ zioni alle concessioni di cittadinanza. Nel 1 583 ai profughi fu proibito di acquistare case senza il permesso delle autorità . Nel 1 586 fu decretato che nessuno straniero potesse diventare citta­ dino, se non sposandosi nell'ambito della famiglia di un citta­ dino . Fu la tensione interna di Francoforte che indusse gli abi­ tanti dei Paesi Bassi a sparpagliarsi nei nuovi centri come Hanau, che nel 1 606 aveva già 2 .000 emigranti. Alcune città, specie quelle oligarchiche della Svizzera, incominciarono a escludere quasi del tutto i nuovi arrivati dalla concessione della cittadi­ nanza . A Basilea il numero degli ammessi a questa dignità accusò, durante i predetti anni, un calo effettivo da una media annua di 45 individui nel decennio 1550-60 a non più di 1 0 nel decennio 1 650-60 .

XI. La voce dei diseredati

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Il declino delle nazioni celtiche della Britannia fu messo in risalto dal gran numero di coloro che emigrarono nelle terre d'oltremare in cerca di un'occupazione. L'inquietudine politica e la depressione economica in Scozia spinse i suoi abitanti ad andare all'estero, soprattutto verso i paesi baltici. Secondo una valutazione del 1 620, nella sola Polonia vi erano circa 3 0 .000 scozzesi. Fu il popolo irlandese il quale, più di ogni altra nazione europea del periodo in esame, sopportò dolore e morti ficazione . Una serie di assalti da parte delle truppe inglesi, prima sotto Elisabetta, poi con Cromwell, spogliò la maggior parte del ceto dirigente irlandese, spinse migliaia di abitanti a trasferirsi dalle regioni fertili a quelle meno ospitali dell'isola, costrinse all'esilio l'élite politica e culturale dell'Irlanda e con­ dannò gli irlandesi superstiti a una condizione sociale di secondo piano nella propria terra. Scrivendo nel 1 596, alla fine del pe­ riodo elisabettiano, il poeta Edmund Spenser descrisse la pro­ vincia di Munster come « un paese molto popoloso e ricco, svuotato d'un tratto di uomini e di animali », una descrizione che poteva adattarsi ad altre zone dell'isola. I tentativi succes­ sivi di ribellione fallirono ; dopo ciascuno di essi gli inglesi offrivano ampia facoltà agli irlandesi dissidenti di arruolarsi negli eserciti stranieri . Per esempio, nel mese di settembre del 1 6 1 0 , due navi cariche di 600 irlandesi furono inviate al Nord per servire la monarchia svedese. Tuttavia, essendo cattolici, gli esuli preferivano mettersi al servizio della Spagna e di altri nemici dell'Inghilterra. Nobili irlandesi, soldati, preti e studiosi furono tutti co­ stretti a emigrare . Ogni università cattolica nel continente aveva il suo contingente di irlandesi, ai quali in patria non veniva offerto nessun tipo di istruzione. Fra questi studiosi erranti fu tipico il caso del giovane Christopher Roche di Wexford il quale, nel 1 5 8 3 , all'età di 22 anni, emigrò a Bordeaux, lavorò e insegnò per guadagnarsi da vivere per 18 mesi, indi andò 'l studiare a Tolosa, a Parigi, nella Lorena ( per 3 anni ), ad An­ versa, a Bruxelles, a Douai e a Saint-Ouen, un lungo tour di otto anni, durante il quale lavorò per mantenersi e studiò quando le circostanze glielo consentivano. L'angoscia e lo struggimento di uno studioso esule si trova rispecchiato in un passaggio degli scritti di Fergal O'Gara, il quale lavorava in Belgio dove fece una raccolta di poesie storiche irlandesi : « Il dì 1 2 febbraio

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Parte IV. Crisi generale?

del 1 565, a Lisle nei Paesi Bassi ; interrompo qui fino al mat­ tino, perché mi sento triste e angosciato ; e lo sarò per tutta la mia vita, se non potrò vedere ancora una volta l 'Irlanda. Fergal O'Gara dell'Ordine agostiniano » . Durante l a grande repressione d i Cromwell, Sir William Petty fu segretario presso l'amministrazione inglese ed ebbe pieno accesso ai documenti di Stato . Le sue statistiche relative alla desolazione abbattutasi sull'Irlanda appaiono se mai infe­ riori alla realtà. Egli calcolò che a metà secolo la popolazione complessiva dell'Irlanda ( compresi gli inglesi ) fosse di 1 . 1 00 .000 unità circa. Queste formavano circa 200.000 famiglie, 1 60 .000 delle quali « non avevano la stabilità del Focolare ». « I bam­ bini piccoli al di sotto dei 7 anni rappresentano un quarto del totale, ammontano cioè a 275 .000 ». Tali cifre rappresentano in sostanza la situazione della popolazione dopo il periodo delle guerre. Proprio durante quel periodo « perirono circa 504.000 irlandesi, sterminati in battaglia, dalla peste, dalla carestia, dalle privazioni e dall'esilio , fra il 23 ottobre del 1 6 4 1 e lo stesso giorno del 1 652 ». Il predetto totale comprendeva i deportati, fra i quali « vi erano 34 .000 soldati trasferiti in Spagna, nelle Fiandre e in Francia; e non meno di altri 6 .000 tra ragazzi, donne, sacerdoti ecc. , mentre non ne sono stati dichiarati nean­ che la metà »; nonché quelli trasferiti alle Barbados e altrove come schiavi (valutati a circa 1 0 .000 persone) . Analoga i n u n certo senso alla sorte degli irlandesi, per il fatto che anch'essi erano una nazione, fu quella dei moriscos. Nel periodo in esame costoro furono l'unica minoranza che venne espulsa in massa dal suo paese natio soltanto con il pre­ testo razziale . Gli inglesi erano stati accorti nel liberare il suolo irlandese non dei contadini che lo lavoravano, bensi soltanto del ceto che lo possedeva : « Le loro mani incominciano a indu­ rirsi dalla fatica », scrisse il lord sostituto d'Irlanda nel decen­ nio 1 580-90 . Al contrario , le autorità castigliane furono irremo­ vibili sul fatto che tutti gli agricoltori moriscos dovessero andar­ sene dalla penisola. Ciò incontrò una forte opposizione da parte dei proprietari terrieri, in modo speciale a Valencia dove gli aristocratici dipendevano completamente dai moriscos per lo svi­ luppo agricolo delle loro tenute . Questa doveva essere l'ultima delle molte deportazioni subite dai moriscos. Nel 1 569, a seguito di una ribellione, erano stati cacciati da Granata e sparpagliati

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XI. La voce dei diseredati

per tutta la penisola . Nel mezzo secolo che seguì si assistette a numerosi e infruttuosi tentativi di pacificarli e di convertirli al cristianesimo . Tutti questi tentativi furono destinati a far fiasco, in quanto erano accompagnati da una rigida legislazione che vietava loro di mantenere i loro caratteri razziali o culturali : il loro idioma, il loro modo di vestire, le loro usanze, tutto fu messo sotto accusa. Quando alla fine venne deciso di espellerli, ciò avvenne con la ferma convinzione che si trattasse di una minoranza straniera, uno strano modo di considerare gente che non conosceva altra patria tranne che la Spagna. Cervantes, il quale visse all'epoca di questi avvenimenti, fece approvare da uno dei suoi personaggi moriscos del Don Chisciotte l'eroico gesto con il quale Filippo III « allontanò il frutto velenoso dalla Spagna, ora purificata e libera dalle paure in cui il nostro popolo la teneva ». Tale fu il punto di vista ufficiale, ma pro­ ferito da uno dei moriscos esso appare completamente inammis· sibile, tenuto conto delle parole di Ricote, gia citate : « Ovun­ que andiamo, versiamo lacrime per la Spagna, perché vi siamo nati ed essa è la nostra terra natia » . L'espulsione f u ordinata nell'aprile del 1 609 e s i protrasse, a vari intervalli, fino al 1 6 1 6 . Da una recentissima indagine sulla quantità di coloro che furono effettivamente espulsi, risulta un totale di 272 . 140 persone, arrotondato a 275 .000 per tenere conto delle omissioni. La ripartizione per regione è la seguente : Valencia Catalogna Aragona Castiglia

1 1 7 .464 3 .7 1 6 60.8 1 8 9 0 . 1 42

Partirono dalla penisola in direzione di vari punti cardinali. La grande maggioranza andò nell'Africa del nord, a Tetuàn e in altre zone del Marocco, dove potevano rimanere in prossimità della loro Spagna. In alcune città, come ad Algeri, furono bene accolti ; in altre, furono odiati come stranieri . Forse 50 .000 circa furono accolti in Francia, ma molti decisero di proseguire il viaggio verso il Levante, perché il governo francese preten­ deva che si facessero cattolici . Avvenne così che i moriscos del­ l 'Aragona e dell'Andalusia si insediassero a Salonicco e a Istam­ bul . Si trattò della più grande estirpazione razziale nell'Europa della Controriforma.

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Parte IV. Crisi generale?

La più importante fra tutte le emigrazioni di quest'epoca l'emigrazione in America - in realtà non può essere consi­ derata un movimento di profughi . Gli spagnoli i quali andarono nella Nuova Spagna e nel Perù, e la cui entità elude ogni tenta­ tivo di calcolo, spesso provenivano dagli strati più bassi della popolazione, ma non venivano privati della loro patria. E, nono­ stante i numerosi disgraziati che furono deportati nelle colonie del Nord America, neanche quello dei coloni puritani inglesi fu un movimento di profughi . Gli inglesi attraversarono l'Atlan­ tico per ragioni di coscienza ( tra le altre ), ma mai fu loro pre­ cluso il ritorno in Inghilterra, tanto che un gran numero vi si recava regolarmente. L'ultimo gruppo di profughi che ci interessa in questa sede è costituito da coloro che soffrirono a causa della guerra dei Trent'anni e del suo preludio, la ribellione del popolo ceco del 1 6 1 8 . La battaglia della Montagna Bianca nel novembre del 1 620 segnò la vittoria degli Asburgo e la fine dell'indipendenza cèca. La sorte dei cèchi, di per sé abbastanza avversa, fu alquanto esagerata dalla propaganda protestante. I primi profughi appar­ tenevano alla élite che aveva servito il « re d'inverno » Fede­ rico del Palatinato . Essi, per lo più nobili e borghesi, traversa­ rono la frontiera della Sassonia con tutte le ricchezze che riu­ scirono a raccogliere. Ai primi del 1 6 2 1 cominciarono gli arresti e le espulsioni. Furono arrestati 50 capi dei cèchi e i loro pos­ sedimenti confiscati : nel mese di giugno ne furono giustiziati 25, ivi compresi cattolici e protestanti . Il nuovo governatore di Praga, Liechtenstein, offrì il perdono a coloro che si fossero presentati a discolparsi per la loro partecipazione alla ribellione . Si fecero avanti quasi 7 3 0 nobili : furono debitamente perdo­ nati, ma poi le loro proprietà furono confiscate in tutto o in parte. La persecuzione religiosa non fu messa immediatamente in atto . A Praga si continuò a somministrare la comunione nelle due specie fino alla Pasqua del 1 622 ; fu soltanto nel 1 6 2 3 e nel 1 624 che agli ultimi sacerdoti protestanti fu intimato di andarsene dal paese. L'imposizione dell'ortodossia cattolica fu un processo lungo che richiese almeno altri cinque anni . I pro­ fughi religiosi del 1 62 3 ( dobbiamo distinguerli dai profughi ribelli del periodo precedente ) andarono dapprima nella Lusazia e nella Slesia, due degli stati confederati della corona di Boemi a . dai quali furono costretti a d andarsene nell'agosto del 1 628

XI. La �·oce dei diseredati

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per ordine del re Ferdinando. Appena un anno prima, il 3 1 luglio 1 62 7 , Ferdinando aveva ordinato l'espulsione di tutti i nobili i quali non si erano fatti cattolici. La persecuzione religiosa provocò disordine all'interno e altre emigrazioni . Per esempio, le terre confiscate all'aristo­ crazia protestante furono consegnate agli stranieri che erano entrati in Boemia al servizio degli Asburgo, tedeschi, italiani, spagnoli e altri. I nuovi proprietari terrieri introdussero un sistema più duro di prestazioni feudali, tanto da provocare insur­ rezioni tra i contadini . Quasi senza eccezione le insurrezioni si ispiravano alla passata tradizione ussita e invocavano il nome di Jan Zizka. In Moravia si verificò una rivolta dei Vlachs capeggiata da Ladislao Velen di Zerotfn, che non fu domata per tutta la durata della guerra dei Trent'anni . Nel 1 625 i contadini boemi si sollevarono sotto Adam di Hodejov, mentre nel 1 627 il predicatore luterano Matthias Ulicki, sostenuto dalla piccola nobiltà cèca, guidò un 'insurrezione contadina a Caslav. Sia le città che le campagne soffrirono enormemente a causa della repressione asburgica e della disorganizzazione interna . Nel 1 627, secondo una valutazione dell'epoca, circa 3 6 .000 famiglie (pari a 1 50 .000 persone ) avevano già lasciato la Boemia. Molti profughi appartenenti ai ceti alti si fermarono al di là del con­ fine nella Sassonia luterana, dove furono messe a loro disposi­ zione delle chiese speciali . Nel 1 629 nella città di Freiberg vi erano notoriamente 528 cèchi, mentre a Pirna ( un centro più popolare ) ve ne erano ben più di 2 .000. Pochi profughi si rassegnarono all'esilio . Nel 1 6 3 7 , morto Ferdinando, 1 2 9 nobili e 269 eminenti borghesi cèchi in esilio inoltrarono una supplica al suo successore, chiedendo di essere autorizzati a tornare. La richiesta però fu respinta . Lo spopolamento della Boemia fu aggravato dalla peste e dalla carestia. Interi settori delle città furono privati dei loro abitanti. Durante il decennio 1 620-30 nella sola Praga fu ordinato a quasi 1 .200 capifamiglia di lasciare le loro dimore. Lo sfollamento volontario e involontario ridusse pressappoco di un terzo la popolazione di molte città. Alla fine della guerra dei Trent'anni la popolazione della provincia della Boemia era già scesa da 1 .700 .000 a 930 .000 abitanti, quella della Moravia da 800 .000 a meno di 600.000. Gli anni di guerra dal 1 6 1 8 al 1 648 furono quelli che più di tutti contribuirono a creare, forse per la prima volta nella

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Parte IV. Crisi generale?

storia moderna, un problema dei profughi di dimensioni rile­ vanti . Molta parte delle perdite registrate nella popolazione tedesca in questo periodo possono essere imputate, come ab­ biamo notato, più allo spostamento degli abitanti che alla loro effettiva distruzione . Analogamente possiamo ascrivere molta parte della situazione dei profughi non tanto alla guerra di per sé quanto alle circostanze emerse in seguito alla guerra. Un caso tipico è quello della Boemia. Nello stesso modo il flusso di profughi provenienti dall'Austria può essere spiegato più con il progresso della Controriforma in quel paese che per la pre­ senza delle truppe imperialiste . Tra il 1 598 e il 1 605 quasi 1 1 .000 protestanti austriaci avevano già lasciato la loro patria. Durante la guerra dei Trent'anni il crollo della rivolta contadina del 1 626 causò un'altra grande emigrazione : tra quella data e il 1 660 fuggirono dall'Austria all'incirca 3 0 .000 protestanti . Poiché molti fattori contribuirono a creare il problema dei profughi durante la guerra, e dato che il movimento dei pro­ fughi prese direzioni diverse, è difficile tracciare un quadro semplice della situazione . Uno degli effetti più importanti dei movimenti della popolazione tedesca fu il modo in cui riusci­ rono ad allargare il confine linguistico, che nell'Alsazia-Lorena avanzò di parecchie miglia a seguito dell'emigrazione posteriore alla guerra dei Trent'anni . I tedeschi oltrepassarono le frontiere della Svizzera e della Boemia, estendendo la loro cultura anche in quelle regioni . Ma per la maggior parte i profughi si sposta­ rono entro il territorio tedesco, lasciando le loro case a causa della persecuzione religiosa o della rovina economica e cercando di sistemarsi in un altro punto dei territori di lingua tedesca . Pertanto alcune zone si ripopolarono con un'alta percentuale di forestieri . In alcune parti della regione attorno a Magdeburgo, almeno il 40 per cento di coloro che vi si installarono dopo la fine della guerra era costituito da gente estranea. La cittadina di Frohse, a nord di Magdeburgo, può servire da esempio in merito al capovolgimento del livello della popolazione. Prima della guerra vi erano 1 1 0 famiglie, nel 1 649 ne erano rimaste soltanto otto . Nel 1 6 5 1 le famiglie residenti erano già 32, venti delle quali però estranee ( comprese 4 provenienti dalla Slesia, 3 dall'Holstein, due dalla Svizzera, due dall'Italia e una per ciascun paese dalla Boemia, dall 'Inghilterra e dalla Scozia).

XI. La voce dei diseredati

Non si dovrebbe dimenticare che agli inizi dell'epoca mo­ derna un'altissima percentuale di emigrati era costituita da pos­ sidenti appartenenti ai ceti alti. Per esempio, ciò si riscontra nel caso dell'Irlanda e della Boemia, dove i nuovi governanti procedettero a un'espropriazione sistematica dei vecchi gruppi dirigenti . Durante il procedimento, tutto il livello di civiltà del paese venne gravemente danneggiato . Dai dati disponibili rela­ tivi a circa 1 0 .000 boemi esuli nella Sassonia risulta che in questo numero erano compresi 422 aristocratici, 1 .788 intellet­ tuali e sacerdoti, nonché 8 .486 contadini e artigiani, cifre che mettono in rilievo il danno sofferto al livello dell'alta cultura. La persecuzione politica preferì colpire per primi i ceti supe­ riori. Nei casi in cui la guerra fu l 'unica causa dell'emigrazione, i profughi di solito provenivano dai settori inferiori della popo­ lazione, prova ne sia che in Germania durante la guerra dei Trent'anni, come spiega Simplicissimus, le vittime furono soprat­ tutto i contadini . Vi furono anche vittime indirette della guerra, come i fabbricanti e i commercianti, i cui profitti di solito rima­ nevano colpiti, e fu proprio questa gente che abbandonò An­ versa, nonché le città dei Paesi Bassi meridionali e della Ger­ mania del Sud. Grazie a loro, il capitale si trasferì nel Nord­ ovest, ad Amsterdam e ad Amburgo . I profughi ricchi e quelli poveri hanno lo stesso diritto a essere considerati dei diseredati . Come accadde ai moriscos, pochi rividero la loro patria. « Se io ti dimentico, Gerusalemme, fa che la mia lingua si attacchi al mio palato [ . . ] . Come canterò il cantico del Signore in terra straniera? » . .

XII LA MAREA CAMBIA

Tutto il potere ci appartiene. Soltanto Dio ce lo ha dato. Dichiarazione di Luigi XIV (luglio 1652) In ogni Stato il sovrano è il rappresentante assoluto di tutti i sudditi; pertanto nessun altro può rappresentare nessuna parte di loro. Hobbes, Leviathan ( 165 1 )

L'Europa del 1 660 fu sostanzialmente diversa rispetto a quella del 1550. Forse in precedenza nessun secolo ha assistito a un ritmo di mutamento altrettanto rapido nella vita politica e sociale del continente . Il mondo esterno era stato aperto alla esplorazione e alla colonizzazione, gli imperi un tempo all'apice della loro potenza erano sul punto di dissolversi, l'aspetto reli­ gioso di nazioni intere era stato modificato . Fra tutti i modi che consentono di valutare il cambiamento, il progresso scien­ tifico offre uno dei campi di indagine più sicuri . Durante il de­ cennio 1 540-50 viviamo nel mondo di Copernico e di Paracelso ; l'uno, un ecclesiastico esitante, tradizionalista, riservato, la cui « rivoluzionaria » teoria eliocentrica era poco più che un rima­ neggiamento di quelle antiche ; l'altro, un bizzarro professio­ nista della medicina, il quale applicava metodi di cura non orto­ dossi e nutriva una profonda fiducia nella « filosofia naturale » e nella magia. Nel 1 660, a seguito della fondazione della Royal Society a Londra, ci troviamo già nel mondo empirico, speri­ mentale di Boyle e di Newton, un mondo in cui Dio era più un tecnico esterno addetto alla manutenzione che uno spirito immanente.

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Parte IV. Crisi generale?

Nondimeno sarebbe sbagliato considerarlo un periodo di sicuro progresso. In tutti i secoli l'avanzamento visibile si verifica soltanto a costo di un certo peggioramento della con­ dizione umana. Gli sforzi compiuti per superare le condizioni critiche dei primi del Seicento furono contrastati, a partire pressappoco dalla metà del secolo, da una crescente corrente reazionaria.

Riflusso e indietreggiamento. Come abbiamo visto, la crisi commerciale del 1 620 mise l'Europa settentrionale e quella meridionale di fronte a un bivio . Per l'Inghilterra e per l'Olanda la crisi economica fu soltanto temporanea. Invece per la zona commerciale del Mediterraneo non vi fu possibilità di tornare sui propri passi . Spesso gli storici hanno avuto l'abitudine di parlare vagamente del « de­ clino della Spagna » o del « declino dell'Italia ». In realtà questi paesi non potevano regredire come se si trovassero in un vuoto pneumatico. La vita economica non era frammentaria fino a quel punto. Allo stesso modo in cui una dichiarazione di fallimento da parte di Filippo II poteva provocare una reazione a catena di fallimenti presso i finanzieri di tutta Europa, così i muta­ menti economici di qualsiasi paese colpivano le nazioni con le quali esso trafficava. La situazione del mercato internazionale interessava l 'industria nazionale : di conseguenza sembra che dopo il 1 620 alcuni fabbricanti italiani, constatando la contra­ zione delle vendite all'estero, tornassero a produrre per i co�­ sumatori interni. Inoltre, se ci basiamo sui dati relativi ai prezzi, non c'è dubbio che i mercati esterni si stessero contraendo, sicché è possibile comporre un quadro generale della lenta deca­ denza commerciale su di una zona ampia, comprendente in que­ sto caso l'Europa meridionale e il Mediterraneo. Il fattore più evidente di tale decadenza fu l'arresto dello sbocco delle merci italiane e della Germania meridionale verso l 'Europa del nord per il tramite di Anversa. Lo strangolamento di questo grande porto fu una sciagura anche maggiore per l'impero spagnolo, che vide la ricchezza del traffico del centro commerciale trasfe­ nrst inesorabilmente ad Amsterdam, ad Amburgo e ad altre città del nord.

XII. La marea cambia

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Date le sfavorevoli condizioni economiche allora prevalenti, possiamo dire che il « declino » si verificò in Spagna, in Italia e in parte in Germania, grosso modo nello stesso periodo . Quando la recessione investì le città dell'Italia settentrionale, anche quelle transalpine con le quali esse erano in rapporti d'affari ( soprattutto Augusta ) andarono in rovina . Quando la Spagna si trovò in difficoltà, ne soffrirono di riflesso i suoi territori italiani. Però, oltre questi fattori che esercitavano un'azione reciproca, vi erano importanti problemi di carattere interno. Nei territori tedeschi il declino fu irregolare . Ai primi del Seicento le città anseatiche sulla linea costiera baltica erano già in decadenza, mentre alla metà del secolo le partecipazioni non tedesche ( i commercianti olandesi nell'ovest, gli esportatori po­ lacchi e prussiano-orientali nell'est) avevano già assunto il co­ mando nei mari settentrionali . Nella seconda metà del Seicento il collasso di Anversa creò una maggiore disorganizzazione nei centri commerciali della Renania e della Germania meridionale. Ai primi del Seicento erano già emerse tre crisi: la depressione commerciale del 1 620, il crollo agricolo di quel decennio, l'in­ flazione monetaria del Kipperzeit. Quando la Germania aveva già cominciato a riprendersi, la guerra dei Trent'anni e la grande peste epidemica del 1 635-36, insieme ai loro orrori, infersero duri colpi alla sua solidità interna. L'aspetto politico dell'impero subl molte modificazioni per via di questa situa­ zione. L'Europa nord-occidentale divenne la regione più fiorente, avendo in Amburgo il suo centro di sviluppo . Nell'Europa orien­ tale le difficoltà economiche rafforzarono il potere delle classi fondiarie. L'Italia era stata una delle zone più industrializzate d'Eu­ ropa, con le sue grandi fabbriche di prodotti tessili e con un mercato sicuro nel Levante e nell'Europa settentrionale. Baste­ ranno poche cifre per dimostrare il mutamento verificatosi già alla metà del Seicento . Tra il 1 565 e il 1 697 le esportazioni di seta genovese diminuirono di circa 1'80 per cento. Verso la fine del Cinquecento nella città e nella repubblica esistevano circa 1 8 .000 telai per la seta ; nel 1 608 ne erano rimasti sol­ tanto 3 .000. Nel 1 628 Milano aveva 5 .000 telai per la seta, contro 200 nel 1 662. All'inizio del secolo vi funzionavano quasi 70 fabbriche di tessuti di lana, con una produzione annua com-

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plessiva di 1 5 .000 pezze ; nel 1 640 esistevano soltanto 15 ditte, con una produzione di circa 3 .000 pezze . Per spiegare ciò sono stati addotti molti motivi : la concorrenza del tessuto inglese e olandese a basso costo, il conservatorismo dei regolamenti delle gilde, la crescente concorrenza della marina mercantile anglo-olandese, la fiscalità paralizzante, gli alti livelli salariali, il conservatorismo del mondo affaristico che preferiva investire i profitti nelle cariche pubbliche e nella terra, anziché nell'in­ dustria. Importanti furono i fattori naturali : ai primi del Sei­ cento carestie in quantità colpirono la popolazione, ma la scossa più sconvolgente di tutte derivò dalle grandi pestilenze del 1630 e del 1647. La guerra dei Trent'anni non migliorò le cose : nel 1 64 1 un autore italiano attribui la contrazione dei mercati esteri « all'effetto disastroso delle guerre in Francia, nelle Fiandre e in Germania » . I l declino della Spagna fu entro certi limiti l a conseguenza inevitabile dell'impero . Gli impegni in Europa erano enorme­ mente dispendiosi . Nel 1 687 un arbitrista spagnolo osservò : « La corte di Roma, le sovvenzioni alla Germania, il manteni­ mento delle Fiandre, le guerre a Milano e in Catalogna suc­ chiano il sangue di questo corpo da tutte le sue vene ». Il fluido vitale era l'oro, che per troppo tempo era stato una fonte di facile ricchezza per il paese. Facendo affidamento sulle ricchezze americane, la penisola trascurò le proprie risorse. I proventi a lungo termine derivanti dall'investimento nell'industria nazio­ nale furono tralasciati a favore del profitto più sicuro prove­ niente dall'esportazione di materie grezze . Le promettenti indu­ strie di prodotti tessili della Spagna furono create per fare con­ correnza alle merci importate dall'estero . La Spagna, alla testa del più grande impero fino allora conosciuto, non diventò mai di pieno diritto una forte potenza economica . In ogni caso l'in­ vestimento imprenditoriale fu reso meno consigliabile dalla vio­ lenta inflazione monetaria, che spazzò via i guadagni quasi con la stessa rapidità con cui erano stati fatti . A questa debolezza economica si aggiungano fattori quali la diminuzione della po­ polazione ( specialmente dopo la peste del 1599), l'oppressione delle minoranze razziali, l'eccessivo peso fiscale imposto soltanto alla Castiglia, nonché l 'impoverimento dell'agricoltura. Adesso si ammette che il concetto di « declino » va modi­ ficato . Non si può parlare semplicemente del « declino della

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Spagna », in quanto lo sviluppo economico delle varie regioni della penisola non fu parallelo . Nel Seicento è più giusto par­ lare del declino della Castiglia. Lo stesso criterio vale per l'Italia e per la Germania . In Italia molte industrie, allo scopo di sot­ trarsi ai controlli esercitati con tanta prontezza nelle città, si trasferirono nelle campagne . Lo stesso accadde per la produ­ zione della seta. Il commercio esterno declinò, ma talvolta ciò avvenne perché si prestò una maggiore attenzione al mercato nazionale. Inoltre, dobbiamo ricordare che l'industria a sé stante non significa benessere . Anche quegli investitori che ritiravano i loro profitti dall'industria per destinarli alla terra stavano aiu­ tando l'economia . Quando consideriamo il declino industriale, può darsi che stiamo semplicemente assistendo a una ristruttu­ razione dell'economia a favore dell'agricoltura. Due furono le conseguenze generali di questa situazione. Innanzi tutto, le difficoltà economiche verificatesi come risul­ tato della crisi del Seicento spinsero lo Stato a intervenire più attivamente allo scopo di proteggere l'interesse nazionale. Secon­ dariamente, in vaste zone dell'Europa l'incertezza economica favori un maggiore investimento nella terra . In ambedue i casi il potere dello Stato e delle classi dirigenti ne uscl rafforzato .

La reazione conservatrice. Il secondo di questi due fattori, vale a dire la terra, costitul la base del regime sociale che dominò l'Europa per oltre un secolo . Questa dichiarazione può sembrare ugualmente applica­ bile ai periodi prima e dopo quello che stiamo esaminando, ma vi furono degli aspetti particolari che caratterizzarono il secolo a partire dal 1 650 circa. Questi furono il crescente impegno della nobiltà minore e della borghesia verso i patrimoni fon­ diari, come complemento necessario per conseguire il grado sociale e l 'incarico politico ; il ruolo importante, in una con­ giuntura economica sfavorevole a un grosso investimento, attri­ buito agli introiti derivanti da affitti ( anziché dallo sfruttamento diretto ) ; e, soprattutto, la posizione privilegiata accordata dallo Stato ai proprietari terrieri. Dopo le magnifiche occasioni offerte nel Cinquecento dal commercio e dalla finanza e bene attuato nel Seicento da uomini come Louis de Geer, la corsa alla terra

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può essere considerata sul piano sociale reazionaria. Le condi­ zioni economiche ne furono in parte responsabili, ma la spiega­ zione deve essere principalmente politica : le rivoluzioni del 1 648 resero necessario stabilizzare i rapporti sociali, cosa che fu realizzata proprio attraverso il sistema del possesso della terra. I cento anni che approssimativamente intercorsero tra l'assun­ zione del potere da parte di Luigi XIV e la rivoluzione francese furono il periodo dell'aristocrazia terriera . Abbiamo qualificato l'importanza data alla terra come « so­ cialmente reazionaria >.> , ma è possibile esporre bene il caso in termini economici per vedere quali siano i suoi elementi di pro­ gresso. Quest'ultimo poteva assumere la forma del maggiore investimento nel suolo oppure, come in Inghilterra, di una libe­ razione del mercato fondiario dalle restrizioni feudali . « Non è vero che tutti si danno da fare per possedere la terra? - si chiedeva con ironia Gerrard Winstanley nel 1 650 - . La pic­ cola nobiltà lotta per la terra, i preti lottano per la terra, la gente del popolo lotta per la terra; comprare e vendere è diven­ tata un'arte, per mezzo della quale la gente si sforza di sottrarsi reciprocamente la terra con l'inganno ». I mutamenti importanti nel possesso della terra, avvenuti intorno alla metà del secolo, rafforzarono la posizione delle classi terriere . Nel 1 646 il parla­ mento abolì i diritti di possesso feudali e la Court of Wards 1 • Ciò significava che l a monarchia cessava di essere i l proprie­ tario terriero per eccellenza del regno . In tal modo i proprie­ tari terrieri ottennero il pieno possesso delle loro tenute. Nel 1 647 fu introdotta per prima una legge di assegnazione. I pro­ prietari potevano ormai legare la loro terra al figlio maggiore e impedire l'alienazione della tenuta famigliare . Ciò preparò la strada ai grandi consolidamenti di proprietà nel XVIII secolo . Quando nel 1 660 fu approvata una legge per confermare il provvedimento del 1 646, nessun privilegio supplementare fu esteso ai proprietari terrieri minori, sia che si trattasse di pro­ prietari di terre soggette a speciali diritti, sia che si trattasse di liberi agricoltori fittavoli . Le persone meno importanti non riuscirono a conquistare quella sicurezza del diritto di possesso che avevano ottenuto i grandi proprietari terrieri . L'insicurezza generale fu aggravata dalle vendite di terra durante l'interregno . l Si veda nota a

p. 425.

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I soli simpatizzanti per la monarchia ( ciò non comprende le terre demaniali o ecclesiastiche ) subirono la confisca delle tenute sino a un valore di 1 .250 .000 sterline, mentre un altro milione e mezzo fu perduto per le ammende. Una quantità di gente per­ dette in questo modo per sempre la sua terra, ma nel diritto di proprietà non si verificò alcuna rivoluzione. Molti ricomprarono le loro proprietà e spesso ciò che non fu riscattato finì nelle mani degli appartenenti alla stessa classe sociale . Pochissimi furono gli uomini nuovi che emersero . Forse la conseguenza più importante delle vendite fu la facilitazione della maggiore mobilità di rapporti nel settore agricolo . Il risultato complessivo di ciò fu una situazione favorevole agli interessi del grande proprietario terriero in espansione, rap­ presentato in Inghilterra dai gentiluomini di campagna e dal­ l 'aristocrazia . Un privilegio del diritto di proprietà assicurava che soltanto coloro che avevano un interesse materiale potevano votare per il governo inglese. Le leggi sulla caccia apparvero soprattutto con la Restaurazione . Agli agricoltori coltivatori diretti era proibito sparare agli uccelli perfino nella propria terra ; al contrario, ai gentiluomini di campagna fu dato il diritto di cacciare la volpe sulla terra di chiunque. Quello posteriore alla Restaurazione non fu un periodo di grande espansione : i prezzi agricoli furono in Hnea di massima insufficienti e i pro­ fitti soltanto moderati . Ma il rafforzamento politico ed econo­ mico gettò la base per il governo conservatore. Ecco come lo ha esposto R. H. Tawney: La rivoluzione [ del 1 640 ] , che produsse la libertà costituzionale, non creò nessun potere per controllare l'aristocrazia la quale, per un secolo e mezzo, fu la sola a conoscere come una libertà del genere poteva essere impiegata [ . . ] . Per l'avvenire non dovevano esserci ostacoli per la recinzione, per gli sfratti, per gli affitti esorbitanti, tranne che l'illusoria protezione del Diritto Comune ; e per gli uo­ mini che erano molto poveri o facili a intimorirsi, il Diritto Comune, con le sue spese, con le sue giurie corrotte, con le sue rigorose norme procedurali, era di poco aiuto . .

In uno dei precedenti capitoli abbiamo già trattato il regime fondiario conservatore nei territori tedeschi dopo la guerra dei Trent'anni. Come in altre zone dell'Europa orientale, il controllo

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aristocratico sfociava in ciò che possiamo chiamare, per esigenza di un termine migliore, il feudalesimo del suolo . Il predominio della classe aristocratica non era assolutamente una novità, dal momento che i suoi appartenenti erano stati per lungo tempo i governanti naturali dei territori dell'Europa orientale. Ciò che costituiva una novità era il fatto che questo predominio fu riaffermato dallo Stato a condizioni nelle quali si poteva ravvi­ sare una estensione del potere dello Stato a spese dei r10bili. Ma le tenute di costoro erano la spina dorsale dell 'economia, tanto che governanti come Federico Guglielmo ( il Grande Elet­ tore ) di Brandeburgo decisero di allearsi con loro contro le città. Dopo il 1 660 nel Brandeburgo le imposte sulle entrate dirette colpivano i prodotti delle città, ma alla nobiltà fu consentito di sottrarvisi, con evidente vantaggio per l'economia dei suoi possedimenti . Nel 1 662 gli « stati » prussiani accordarono una imposta diretta, ma anch'essa fu usata a favore degli aristocra­ tici e a danno delle città . In Russia e in altri territori dell'Eu­ ropa orientale la storia si ripetette : servitù della gleba e pre­ dominio aristocratico marciavano di pari passo, mentre le città erano esposte all'influenza dei nobili . In Piemonte la fine del Seicento dimostrò di essere un periodo di rafforzamento aristocratico sulla terra. Il ceto nobile - formato sia dalle antiche famiglie, sia dai borghesi arric­ chiti - continuò ad accumulare possedimenti, mentre nello stesso tempo fornì la maggior parte del capitale per i titoli emessi dallo Stato dal 1 653 in poi . Il clero e l'aristocrazia in­ sieme sottoscrissero i due terzi di questi prestiti allo Stato . Pro­ prio allo scopo di difendere il potere economico di questa cate­ goria, i sovrani del Piemonte introdussero delle leggi a prote­ zione dei patrimoni dei nobili. Il provvedimento più importante in questo senso fu l'editto emanato nel 1 648 da Carlo Ema­ nuele I I , che appoggiava la pratica della primogenitura. Nello stesso tempo fu alleggerito il peso fiscale gravante sulle terre dei nobili, finché già nel XVIII secolo costoro non pagavano praticamente nessuna imposta. Il potere dell'aristocrazia venne rafforzato a tutti i livelli . Soltanto con Vittorio Amedeo II, ai primi del Settecento, si fece qualche tentativo per ridurre il suo ascendente nel settore politico, ma il suo predominio economico e fondiario non fu intaccato. La Svezia non divenne mai un paese di grandi tenute, ma

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la crisi politica del 1 650 mise in chiaro l'esistenza di un grave pericolo, sia per la monarchia che per i contadini, di essere eclissati dalla ricca aristocrazia. Le grandi contese del Seicento si scatenarono intorno alla questione se la nobiltà dovesse resti­ tuire le terre demaniali alienate. Tanto Carlo X che Carlo XI adottarono la politica di riprendersi le proprietà, come mezzo per rafforzare la monarchia . In linea di massima, la necessità di un recupero non venne messa in discussione, neanche da parte di molti fra gli stessi nobili . Molti di coloro da poco nobilitati erano particolarmente pieni di risentimento per il fatto che la proprietà era concentrata nelle mani dell'aristocrazia più antica. Il conflitto all'interno dello « Stato » della nobiltà fu la chiara indicazione di una classe dirigente giunta al massimo della ten­ sione. Mentre nel 1 660 gli aristocratici di altri paesi stavano già cominciando ad accettare la necessità di aspirare a profes­ sioni remunerative, nella Svezia imperialista un settore della loro categoria aveva gravitato intorno al vecchio concetto di nobiltà. Le loro opinioni furono rispecchiate nel discorso tenuto da Gustav Bonde, un intelligente e sensibile ministro della monarchia, nel giugno del 1 6 6 1 : L'interesse principale della Nobiltà consiste nel fatto che essa è impegnata al servizio dello stato, possiede terre e fattorie che le for­ niscono mezzi di sussistenza, unitamente alle sue retribuzioni ; e que­ ste terre sono la conditio sine qua non, senza la quale cioè un nobile non può esistere . Infatti non gli si addice, come agli altri tre Stati, o di imparare un mestiere, o di camminare dietro un aratro, e piut­ tosto che mettersi a far questo, egli compirà azioni illecite.

Questi esempi bastano per illustrare la tendenza generale in tutta Europa. La terra, che fosse libera dal feudalesimo ( come in Inghilterra ), oppure assoggettata di nuovo a esso ( come in Europa orientale ), divenne il fondamento di un regime aristo­ cratico . Nel tardo Seicento, perfino la florida borghesia di Am­ sterdam si era già collegata allo stesso processo evolutivo. Benin­ teso, il conservatorismo del periodo in esame non deve essere considerato esclusivamente sotto il profilo dell'etica aristocra­ tica. Per esempio, i proprietari terrieri inglesi avevano la co­ scienza ed erano orgogliosi di non fare parte dell'antica aristo­ crazia. La reazione consistette non tanto nei titoli nobiliari,

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quanto in un certo tenore di vita. Ma, si trattasse o meno dei titoli nobiliari, la tendenza era inequivocabile . Abbiamo già citato le opinioni espresse ai primi del Settecento da un visita­ tore inglese sugli olandesi : « Il loro governo è aristocratico : di modo che la tanto decantata libertà degli olandesi non va intesa nel senso generale e assoluto del termine, ma cum grano

salis

».

Il rafforzamento dell'assolutismo. Come già accennato, nel Seicento lo Stato incominciò a in­ tervenire direttamente nel controllo dell'economia . Il tardo Sei­ cento è stato accettato come il periodo in cui il mercantilismo ebbe la sua massima applicazione pratica, mentre agli statisti della maggior parte delle nazioni europee dell'epoca, con Colbert alla loro testa, è stata attribuita una condotta politica mercan­ tilistica. Per il momento il mercantilismo può essere considerato semplicemente come il tipo di politica economica messa in atto da un regime assolutistico. Se con ciò intendiamo una politica basata sul potere, nella quale il commercio era considerato come un aspetto del potere e nella quale si accettava il protezionismo, appare verosimile che soltanto l'autorità di uno Stato forte avrebbe potuto attuare il programma con successo . Sarebbe logico considerare ministri mercantilisti Colbert per la Francia e Truchi per il Piemonte . Ma se si fa più attenzione, l'identifi­ cazione dell'assolutismo con il mercantilismo non è del tutto convincente, in quanto anche gli Stati in cui vigeva un sistema deliberativo più libero, come l'Inghilterra e l'Olanda, furono capaci di perseguire delle politiche commerciali di tipo prote­ zionistico e con mire egemoniche. Inoltre la tendenza della Francia assolutista fu di impiegare il suo enorme potere a scopi più territoriali che mercantilistici, cosa che da ultima fece nau­ fragare il programma personale di espansione di Colbert . Il mercantilismo, nel senso più lato della parola, f u attuato dalla maggior parte degli Stati europei, perfino da quelli di scarse pretese assolutistiche . Si trattò di una condotta politica com­ prensibile in un secolo di mercati fiacchi, di depressione agri­ cola e di limitato sviluppo industriale . Il fatto che gli Stati assolutisti adottassero politiche mercantilistiche ci rivela poco

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sul mercantilismo, ma molto sull'assolutismo . A partire dalla metà del Seicento la monarchia incominciò ad arrogarsi un potere maggiore, sia nel commercio che nelle altre attività . Dobbiamo considerare quattro aspetti dell'assolutismo : il nuovo concetto dell'autorità monarchica, la fine del governo costituzionale, l'appoggio indispensabile di una classe dirigente e la nascita di una teoria sul potere dello Stato . In Europa, nel complesso, il Terzo Stato aveva reagito con la rivoluzione ; i suoi governanti reagirono con l'assolutismo. Quest 'ultimo nacque per via delle difficoltà incontrate dai so­ vrani con i loro bilanci, con il loro meccanismo amministrativo e con le loro classi dirigenti . Il fallimento delle rivoluzioni del Seicento, nonché il riassestamento reso necessario in seguito alla guerra, imposero l'esigenza di una mano forte. La conseguenza fu un tentativo di assolutismo in Olanda nel 1 650, la sua im­ posizione nel Brandeburgo-Prussia e in Russia negli anni 1 650-60 , la sua introduzione in Danimarca nel 1 660 e in Francia nel 1 66 1 , in Svezia nel 1 680 e in Piemonte all'incirca alla stessa epoca, nonché il fallito tentativo di introdurlo in Inghilterra dopo il 1 68 5 . La base di gran parte di questo sviluppo era stata get­ tata assai prima della metà del secolo, in modo particolare in Francia, dove lo scopo deliberato dei Borboni e dei loro consi­ glieri era stato quello di rafforzare il governo . Durante la Fronda Claude Joly, l'avversario costituzionalista di Mazzarino, scrisse: « La Francia non ha mai avuto un governo dispotico, tranne che negli ultimi trent'anni, durante i quali siamo stati alla mercè dei ministri » . Fu durante quegli anni che Le Bret, nel suo De la souveraineté du Roy del 1 63 2 , aveva affermato : « Il re è l'unico sovrano nel suo regno e la sovranità non è divisibile più del punto geometrico ». « L'autorità del sovrano risiede in una sola persona, l'obbedienza in tutti gli altri » . L'assolutismo, pertanto, equivaleva all 'incontrastato potere monarchico. Non significava potere arbitrario . Questa distin­ zione è di vitale importanza, radicata negli avvenimenti della metà del secolo . In altre parole, il re poteva agire senza bisogno di consultare un parlamento, ma egli non doveva minacciare la proprietà e la sicurezza dei suoi sudditi. Questo era tutto ciò che significava ' assolutismo ', tanto che il termine non può in nessun modo essere paragonato al dispotismo o alla tirannia. Quando Le Bret dichiarò che la sovranità era illimitata, nondi-

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meno egli proseguì specificando che la monarchia doveva rispet­ tare la proprietà privata, non poteva modificare la successione al trono e non poteva emanare ordini contrari alla legge divina. Bossuet, il ben noto esponente dell'assolutismo di Luigi XIV, riuscì ancora a precisare che il sovrano assoluto deve confor­ marsi alle leggi del regno . Le differenze fatte da Le Bret e da altri ebbero sul piano pratico un 'importanza estrema. L'assolutismo poteva sign ificare il governo di una singola persona, ma tale persona avrebbe potuto mantenersi soltanto grazie all'appoggio di determinate forze sociali . Queste forze, nell'Europa del tardo Seicento, furono le classi dei possidenti . L 'epoca dell'alta aristocrazia era finita e ogni Stato europeo ( tranne forse la Spagna) se ne era reso conto . Può darsi che Luigi XIV vi si sia opposto esplicitamente, tuttavia non fece nulla di originale. Il re danese, lo zar mosca­ vita, lo avevano fatto prima di lui . Essi, come il re di Svezia, preferirono fare assegnamento sulla nobiltà minore, sui proprie­ tari terrieri e sulla borghesia titolata . Una certa intuizione sulla politica svedese la si coglie nell'opinione del diplomatico fio­ rentino conte Magalotti, durante una visita compiuta nel paese nel 1 67 4 : E a dire i l vero, i n questi due Regni è reciproca l a differenza da uomo a uomo e da paese a paese . Questa differenza da uomini a uomini, oltre quel che porta il naturale de' loro temperamenti , viene anche a farsi maggiore per essere in Danimarca la nobiltà pochissima, nella quale in 400 anni vogliono non esservisi aggregate nemmen due famiglie ; è numerosissima in Svezia, dove per la con­ tinua aggregazione corre risico che succeda al re di Svezia, coll'aiuto de' borgesi, i quali odiando la nobiltà gli servirono di strumento per farsi independente dagli stati e veramente sovrano : e 'l mede­ simo può succedere in Svezia, poiché la nobiltà nuova odiando l'antica, dalla quale sola per ordinario il numero de' senatori si costituisce, può facilmente accadere che i nobili nuovi uniti col re, dal quale più dependono, distruggano ed aboliscano l'autorità del senato liberando il re da quel giogo. Ed è al presente tanto cresciuta la nobiltà nuova, che non pur bilancia l'autorità della vecchia ma quasi la soprafà [ . ] l . .

.

1 Lorenzo Magalotti, Relazioni di viaggio in Inghilterra, Francia Svezia, a cura di Walter Moretti, Bari 1968, p. 297. [N.d.T. ]

e

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Dovunque fu instaurato, l'assolutismo contò sul sostegno della classe dirigente, senza l'aiuto della quale non avrebbe potuto governare. L'Inghilterra non fece eccezione rispetto alla prassi continentale. La nobiltà minore appartenente al partito Tory, che coesistette con il regime di Carlo II, sarebbe stata perfino più compiacente sotto Giacomo I I , se costui non avesse dato a vedere di voler minacciare i suoi diritti di proprietà. Da ultimo , l'assolutismo comportò la fine delle assemblee rappresentative, o almeno la fine della loro iniziativa nell'atti­ vità governativa . Il Parlamento di Parigi ( un'assemblea non rappresentativa ) fu messo a tacere negli anni 1 660-70 come con­ seguenza diretta della Fronda. La Dieta del Brandeburgo perse il suo potere effettivo dopo il 1 65 3 , gli « stati » della Prussia dopo il 1 663 . L'ultimo Zemskij Sobor si riunì in Russia nel 1 65 3 . Nella Castiglia asburgica non si ebbero più Cortes dopo il 1 66 5 . Lungi dall'essere un secolo d i rivoluzione, quello d i cui trat­ tiamo è stato un secolo di reazione. Il filosofo più grande del periodo posteriore al 1 650 non fu Hobbes , il quale vi fa spicco con la sua inflessibile teoria del Leviatano, una teoria talmente realistica che pochi sono disposti ad accettarne la validità. Fu Locke, il filosofo dell'origine delle idee e della reazione sociale, il cui concetto del governo quale difensore della proprietà diede l'intonazione a un periodo di predominio della nobiltà minore . Era logico che il Secolo di Ferro dovesse chiudersi con la vittoria del potere e della proprietà. Essi si ergevano come una coppia di colonne, come il vero sostegno della civiltà e del progresso, all'estremità dello stretto che da un mare interno di esordi pre-industriali si apriva sull'oceano sconfinato del miglio­ ramento materiale. « L'Inghilterra - scrisse un libellista ano­ nimo in merito agli avvenimenti del 1 648-49 (e per Inghilterra si potrebbe ugualmente intendere Europa) - ha subìto molti cambiamenti bruschi, ma mai un cambiamento come adesso . Prima la povera gente si affaticava per buttare giù di sella un tiranno e per mettercene un altro ; ora, invece, non solo hanno cacciato via il tiranno, ma la stessa tirannia ». « La struttura inconsistente di questa visione » ( per citare le parole del più grande poeta inglese di questa Età del Ferro ) svanì davanti agli occhi di coloro che l'avevano tenuta in gran conto.

BIBLIOGRAFIA

La seguente selezione bibliografica è suddivisa in base a ciascun capitolo, limitatamente a quelle opere secondarie che ho giudicato particolarmente utili . Poiché nel nostro caso si tratta di fare storia sociale, sono stati omessi molti libri correnti d'argomento politico e diverso.

Opere generali. I migliori saggi di carattere generale riguardo all'Europa sono stati scritti da storici che lavorano presso università inglesi e ame­ ricane. Forse gli studi essenziali più interessanti sono quelli prodotti dai sommi storici francesi, nei quali al posto d'onore sono collocati i problemi di interpretazione. Nel presente paragrafo ho elencato alcuni di quelli di contenuto sia generale che relativo alle città . Aston T . , Crisis in Europe 1 560-1 660, London 1 965 ; trad. it., Crisi in Europa, 1 560-1 660. Saggi da « Past and Present », a cura di Trevor Aston, Napoli 1 968. Bennassar B . , Valladolid au siècle d'or, Paris 1 967 . Boxer C. R . , The Dutch Seaborne Empire 1 600-1800, London 1965. Braudel F., La Méditerranée et le monde méditerranéen à l'époque de Philippe II, 2 voli. , Paris 19662; trad. it., Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell'età di Filippo II , Torino 1 953. Id., Civilisation matérielle e t capitalisme XV•-XVIII• siècle, Paris 1967. The Cambridge Economie History of Europe, vol. IV: The Economy of Expanding Europe, a cura di E. E. Rich e C. H. Wilson, Cambridge 1 96 7 . Chalklin C . W . , Seventeenth-century Kent, London 1 965. Chaunu P., La civilisation de l'Europe classique, Paris 1 966. Clark G. N., The Seventeenth Century, Oxford 1 9472•

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VIII. Informazione

e

fantasia.

In merito all'alfabetismo, altro materiale consultabile è men­ zionato nelle seguenti pubblicazioni. Cipolla C., Literacy and Development in the West, London 1 969. Stone L., Literacy and Education in England, 1 640-1 900, « Past and Present » , vol . XLII, 1969. Riguardo alla propaganda e al giornalismo, esiste una bibliografia vasta ma eteroclita. Ho constatato che quella più attinente alle mie tesi è la seguente. Beller E. A., Propaganda in Germany During the Thirty Years War, Princeton 1 940. Davies D. W., The World of the Elseviers 1 580-1 712, The Hague 1 954. Frank J., The Beginnings of the English Newspaper 1 620-60, Har­ vard 1 96 1 . Grand-Mesnil M. N., Mazarin, la Fronde e t la Presse 1 647-1649, Paris 1 967 . Hatin E., Histoire politique et littéraire de la Presse en France, 8 voli ., Paris 1 859-6 1 . Martin H.-J., L'Apparition du Livre, Paris 1 958 .

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Stone L., The educational Revolution in England 1 560- 1 640, « Past and Present », vol . XXVIII, 1 964 . Non si è mai indagato in modo adeguato sul contesto storico dei progetti utopistici agli inizi dell'era moderna. Gli storici cercano di limitarsi a uno studio dei testi. Nei suoi diversi saggi su Vasco de Quiroga, lo studioso messicano Silvio Zavala è praticamente l'unico che ha esaminato l'ambiente sociale di Utopia . Berneri M. L., Journey Through Utopia, London 1 950. Firpo L., Lo stato ideale della controriforma, Bari 1 957 . Held F. E . , Christianapolis, an Ideal State of the Seventeenth Century, New York 1 9 1 6 . Morner M . , The Politica! and Economie Activities o f the Jesuits in the La Plata Region, Stockholm 1 953 . Ruyer R., L'Utopie et les Utopistes, Paris 1 950.

IX. Le rivoluzioni di Stato. In qualunque testo normale di storia politica si troverà un lungo elenco di pubblicazioni sull'argomento. Mi limiterò a citarne una per ciascuna regione. Allcn W. E. D . , The Ukraine: A History, Cambridge 1940. Elliott J. H., The Revolt of the Catalans, Cambridge 1963. Geyl P., The Netherlands in the Seventeenth Century, London 1 964. Kossmann E. H., La Fronde, Leiden 1 954. Merriman R. B . , Six Contemporaneous Revolutions, New York 1 963 ( ristampa ) . Roberts M., Queen Christina and the Genera! Crisis o f the Seventeenth Century, « Past and Present » , vol . XXII, 1962. Rootos I., The Great Rebellion 1 642-1 660 , London 1 966.

X. Le ribellioni popolari ( 1 550- 1 660) . Allan D. G. C., The Rising in the West, 1 628-3 1 , « Economie History Review », vol. V, n. 2, 1952. Arkhangelsky S. I . , Krestyanskie dvizheniya v Anglii v 40-50kh go­

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[ Il governo di B. Morozov e l'insurrezione di Mosca nel 1 648 ] , Taskent 1929. Id., Posadskie lyudi i ikh klassovaya barba do seredini XVII veka

[ I commercianti e la loro lotta di classe fino alla metà del Sei­ cento ] , 2 voli., Moskva 1 947-48. Smith D. Mack, A History of Sicily, 2 voli., London 1 968 ; trad. it., Storia della Sicilia medievale e moderna, Bari 1970. Steinitz W., Deutsche Volkslieder demokratischen Charakters aus sechs ]ahrhunderten, 2 voli. , Berlin 1954, 1 9622 • Steinmetz M., Deutschland von 1 476 bis 1 648, Berlin 1965. Stieve F., Der oberosterreichische Bauernaufstand des ]ahres 1 626, 2 voli ., Miinchen 1 89 1 . Villari R . , L a rivolta antispagnola a Napoli. L e origini ( 1 585- 1 647) , Bari 1967.

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XI. L a voce dei diseredati. Abel W., Der Pauperismus in Deutschland am Vorabend der in­ dustriellen Revolution, Dortmund 1 966 ( tratta soltanto alcuni episodi ). Ashley Sir W., An Introduction to English Economie History and Theory, London 1 925. Aydelotte F. ,Elizabethan Rogues and Vagabonds, Oxford 1 9 1 3 . Bennassar B . , Economie e t société à Ségovie a u milieu d u XVI• siècle, « Anuario de Historia Economica y Social », vol. I, n. l , 1968. Bercé Y.-M . , Aspects de la criminalité au XVII• siècle, « Revue Historique », 1968 . Boissonnade P., Le socialisme d'Etat. L'industrie et les classes in­ dustrielles en France (1 453-1 661 ) , Paris 1 927 . Bonenfant P., Le problème du pauperisme en Belgique à la fin de l'ancien régime, Bruxelles 1934. Chill E., Religion and Mendicity in Seventeenth-Century France, « International Review of Social History », vol. VI I, 1 962 . Clébert }.-P., The Gypsies, London 1963 . Cormack A. , Poor Relief in Scotland, Aberdeen 1923 . Cuvelier J., Documents concernant la réforme de la bienfaisance à Louvain au XVI• siècle, « Bulletin de la Commission Royale d'Histoire », vol. CV, Bruxelles 1 940. Davis D. B . , The Problem of Slavery in Western Culture, Cornell 1 966. Deleito y Pifiuela ]., La mala vida en la Espaiia de Felipe IV, Madrid 1 95 1 . Deyon P., A propos du paupérisme a u milieu du XVII• siècle, « An­ nales », 1967 . Domfnguez Ortiz A., La esclavitud en Castilla durante la edad moderna, « Estudios de Historia Social de Espafia », vol. II, Madrid 1 952 . Geremek B . , La popolazione marginale tra il Medioevo e l'era moderna, « Studi Storici », vol . IX, 1968.

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XII. La marea cambia. Poiché nel presente capitolo il tema dell'assolutismo è antlctpato ma non viene sviluppato completamente, mi sono limitato a segna­ lare al riguardo alcune trattazioni di carattere generale. Carsten F. , Princes and Parliaments in Germany, Oxford 1959. Hartung F. - Mousnier R., Quelques problèmes concernant la mo­ narchie absolue, « Relazioni del X Congresso Internazionale di Scienze Storiche : Storia Moderna », vol . IV, Firenze 1 955, pp. 1-55. Hatton R . , Europe in the Age of Louis XIV, London 1969. Roberts M . , Sweden as a Great Power, London 1 968. Stoye J . , Europe unfolding 1 648-1 668, London 1 969.

INDICI

INDICE DEI NOMI

Acarie, Madame, 305-6. Acaya, marchese di, 195 . Aconcio, Giacomo, 337, 33940, 368. Acosta, José de, 9. Aerssen, Frans van, 123 . Agostini, Ludovico, 387. Agostino, s., 342, 345-6, 349, 521 . Agrippa, 515. Aguilar, Gaspar Honorat, marche­ se di, 194. Alba, Fernando Alvarez di Toledo, duca di, 309. Albuquerque, Mattia, duca di, 194. Aleman, Mateo, 524. Alessandro il Leone (Alessandro Napierski, o Kostka), 484, 493 . Alessi, Giuseppe d', 472. Alvarado, Pedro de, 7 1 . Ambite, visconte di , 221 . Amerbach, Basilius, 336. Amerbach, Bonifacius, 335-6. Amfreville, Jacques d', 229 . Amyraut, Moise, 344. Ancre, maresciallo di (Concino Con­ cini), 178-9, 206. Andrea, Johann Valentin, 333, 390 394. Andreu, Pedro, 450, 500. Andrews, Charles Mclean, 70. Angiò, Ercole Francesco, duca d', 49. Aniello, Tommaso, vedi Masaniello. Anna d'Austria, regina di Francia, 169. Annese, Gennaro, 475. Antonelli, Gianbattista, 74. Antonino da Firenze, s., 1 12. Arcos, Rodrigo Ponce de Leon, duca di, 4734. -

Argyll, Archibald Campbell, marchese di, 548 . Ariosto, Ludovico, 383. Arminius, Jacobus, 341 . Arnauld, famiglia, 346, 348. Arnauld, Angélique, 51, 306-7, 34 6-7 . Arnauld, Antoine, 346. Amolfini, Paolo, 1 15 . Arundel, Thomas Howard, conte di, 195. Arundel, famiglia, 173 . Asburgo, dinastia, 209, 483 , 556-7. Aske, Robert, 510. Augusto I, elettore di Sassonia, 1 19 . Azpilcueta, Mardn de, 8 1 . Bacone, Francesco, 1 8 1 , 1 8 3 , 186, 352, 390, 3924. Balbani, Cesare, 1 16. Bali, John, 503 . Banér, Johann Gustafsson, 483 . Barrionuevo, Jer6nimo de, 523 . Bathory, Stefano, 420 . Baviera, Massimiliano I, duca di,

284.

Bay, Miche! de, 345 . Bayle, Pierre, 329, 341, 344-5. Baxter, Richard, 1 10, 252, 404. Beauchamp, famiglia, 381 . Behaut, Louis de, 1 1 8 . Béjar, duca d i , 179-80. Bellarmino, Roberto, s., 303 . Bellius, Martin, 334. Belon, Pierre, 260. Bembo, Pietro, 336. Benavente, conte di, 194, 223 . Bennassar, B., 95. Berkley, lord Henry, 197.

602 Bernard, Noel, 125. Bernard, Samuel, 125. Bernoully, Jacob, 1 1 8 . Bérulle, Pierre de, 305-6, 345-6. Bethlen, Miklos, 175. Beza, Teodoro di, 336. Binsfeld, Peter, 3 1 0 . Bisignano, pr�ncipe di, 194, 502. Blommaert, Abraham, 1 2 1 . Boccaccio, Giovanni, 336. Bocskay, Istvan, 454 . Bodin, Jean, 61 , 74, 78-82, 239, 310, 320, 387. Bodley, sir Thomas, 382. Boguet, Henri, 3 10-1 , 3 17, 320, 515. Bolotnikov, Ivan Isaevic, 452, 454457, 493 , 503 . Bonde, Gustav ; 569 . Bonvisi, famiglia, 1 17. Borboni, dinastia, 416, 571 . Borelli, Giovanni Alfonso, 373 . Borro, Hieronymus, 33 1 . Borromeo, famiglia, 244. Bosch, Hieronymus, 324. Bossuet, Jacques-Bénigne, 572. Bothwell, James Hepburm, conte di, 321 . Bourdaloue, Louis, 358. Bourdeille, Pierre de, 24. Boyle, Richard, 69. Boyle, Robert, 16, 561 . Bradley, Humphrey, 124, 259. Brahe, Tycho, 373 . Braudel, Fernand, 74, 252 . Braw, Johan de, 123 . Bremond, Henri, 306. Brentano, Clemens, 1 14. Breun, Dominicus, 1 19. Brichanteau, Antonio de, 193 . Brichanteau, Nicolas de, 193 . Briers, Daniel de, 118, 121 . Brouette, 322 . Broussel, Pierre, 408, 478. Browne, sir Richard, 478. Brueghel, Pieter, il Vecchio, 324. Brunei, Olivier, 123 . Bruni, Leonardo, 336. Brunner, George, 444. Bruno, Giordano, 330-2, 372. Bucer, Martin, 516. Bullinger, Heinrich, 334. Burghley, William Ceci!, 205.

Indice dei nomi Caietano (De Via Tommaso), cardinale, 1 1 3 . Caillot, Nicolas, 229 . Callot, Jacqu�s, 48. Calvino, Giovanni, 1 1 1-2, 3 1 1 , 324, 334-5, 337, 339, 342-3 , 369, 3 8 1 , 383 . Cameron, John, 344. Campanella, Tommaso, 33 1-2, 390391, 393-4. Camus, Jean, 232 . Cano, Sebasthin del, 1 3 . Capdebosc, famiglia, 19. Carafa, famiglia, 195 . Carcano, G. P., 539. Cardoso, Ruy Fernandez, 128. Carlier, Marie, 3 16. Carlo I Stuart, re d'Inghilterra, 206, 208, 258, 260, 327, 400, 403 , 409, 415-6, 424-5, 467n, 478. Carlo I I, re di Spagna, 209 . Carlo II Stuart, re d'Inghilterra, 573 . Carlo V, imperatore, 14, 79, 8 1 , 202, 240, 5 1 2 , 53 1 . Carlo X Gustavo, r e d i Svezia, 420, 422, 569. Carlo XI, re di Svezia, 569 . Carlo Emanuele II, duca di Savoia, 210, 568 . Carolus, Johann, 365. Carré, John, 122. Carriazo, Diego de, 524. Casparus lo Studente, 459. Cassinis, Samuele de, 312, 325. Castellion, Sébastien, 334-6, 338341 . Castillo de Bobadilla, 170. Caulet, famiglia, 348. Cavendish, famiglia, 381 . Ceci!, famiglia, 381 . Ceci!, Robert, 256. Cécile, Pierre, 225 . Cell6rigo, Mardn Gonzalez de, 56, 83 , 241-3, 249. Celsi, Mino, 337. Centurioni, famiglia, 129. Cerkasskij, famiglia, 481 . Cervantes Saavedra, Michele de, 447, 524, 525n, 555. Chalais, Henri de Talleyrand, con­ te di, 206.

603

Indice dei nomi Cheke, John, 517. Chevreuse, Marie de Rohan-Montbezon, duchessa di, 491 . Child, Josiah, 144 . Chillingworth, William, 404. Chmel'nickij, Bogdan, 421-2, 483484, 494. Chouet, 344. Choyselat, 260. Cicerone, 235, 383. Cigales, Antonio de, 221-2 . Cinq-Mars, Henri Coi.ffi.er d e Ruzé, marchese di, 206. Cipolla, C. M., 56 e n. Cisneros, cardinale, 61, 303 . Cisti, Nazarei, 481-2. Clarendon, Edward Hyde, 233, 404, 425 . Clemente VIII, papa, 33 1 . Clemente IX, papa, 347. Clèves, Guglielmo, duca di, 325. Clifford, famiglia, 192. Coen, Jan Pieterz, 8 . Coke, Roger, 144. Colbert, Jean-Baptiste, 42, 144, 157, 172, 570. Coler, Jacob, 261 . Coligny, Gaspard I I de, 551 . Colombo, Cristoforo, 13, 386. Colonna, famiglia, 179. Colonna, Marcantonio, 546. Comenio, 353 , 372. Condé, famiglia, 348 . Condé, Luigi I, principe di, 179, 203 , 292, 407, 410-1, 479 . Condé, principessa di, 479. Contarini, Gaspare, 134, 300. Conti, Armand de Bourbon, principe de, 183, 348. Conversano, conte di, 473 . Copernico, Nicola, 355, 373, 394, 561 . Coornhert, Dirck, 340. Cork, Richard Boyle, conte di, 425. Corneille, Pierre, 186. Cortés, Hernan, 7, 14, 71, 81 . Cotton Mather, 517. Coymans, Balthasar, 123 . Cramer von Claussbruch, Heinrich, 1 1 9 . Cranfield, Edward, 99. Cremonini, Cesare, 33 1 . Cristiano IV, re di Danimarca, 190.

Cristina di Svezia, 208, 416, 420, 422, 425, 427. Crompe, Marie de la, 19. Cromwell, Oliver, 129, 160, 173, 357, 369, 393, 401 , 406, 467, 469-70, 479, 53 1 , 554 . Crowley, Robert, 92, 95-6 . Crucius, 158. Crucius, famiglia, 124. Curione, Celio Secondo, 337, Curtius, Jean, 148, 216. Cusani, famiglia, 244 . Cuvelier, Hans, 1 19 . Cuvelier, Jeanne, 3 1 6 .

418167, 403, 553-

339.

Dante, 336. Dare, Claude, 236. Dare, Guillaume, 236. Dare, Simon, 236. Davenant, Charles, 159. De Besche, 123 . Decker, Simon de, 1 19 . Dekker, Thomas, 539. De la Gardie, famiglia, 292 . De la Gardie, Magnus, 375 . Delancre, Pierre, 3 1 1 , 3 1 3 , 3 17, 320 . Delcambre, 3260 Della Faille, 123 o Della Faille, ditta, 140, 142. Delumeau, ]o, 526n. Denck, Hans, 337 0 Descartes, René (Cartesio), 332-3, 344. de Thou, Jacques-Auguste, 230, 330, 436-7, 441 , 444, 452, 494. D'Ewes, Sismonds, 518. Diaceto, Lodovico, 1 17 . Dlaz, Berna!, 8, 72. Digges, Dudley, 172. Dimitrij, zarevic di Moscovia, 455. Dimitrij, zar di Moscovia (detto il Falso), 455 Dinis, Felipe, 127. Diodati, Pompeo, 1 16. Dolgoruki, famiglia, 481 . Douglas, famiglia, 381 . Drake, Francis, 1 3 . Drummond, famiglia, 3 8 1 . Dupuy, fratelli, 330. Dureteste, 479-80 . o

Ecolampadio, Giovanni, 335.

604 Ehrenberg, 136. Eliot, sir John, 400. Elisabetta, Tudor, regina d'Inghil­ terra, 36, 79, 99, 101, 1 16, 158, 160, 167, 183, 205, 256, 308, 321, 400, 509, 517-8, 534, 553 . Elliot, ]. H., 415. Elsevier, Louis, 123 . Elzevier, famiglia, 359. Emmel, Egenolf, 365 . Emmenegger, Johannes, 486. Engels, Friedrich, 285. Enrico IV, re di Francia, 101, 1 17, 185, 189, 202, 206, 259, 305, 329, 439 . Enrico VIII, re d'Inghilterra, 7879, 167, 356, 425n. Enriquez, famiglia, 192. Epernon, Bernardo, duca d', 178, 479. Episkopius, Nikolaus, 335-6, 349. Erasmo da Rotterdam, 303, 335-7, 341 , 349, 355, 386. Essex, Robert Devereux, conte di, 195, 203 . Este, lppolito, cardinale d', 546. Estienne, Charles, 447 . Estienne, Henri, 24, 261 . Estoile, Pierre de l', 507. Evelyn, John, 382. Fadinger, Stefan, 458 . Fagel, François, 123. Fail, Noel du, 184, 229. Fairfax, sir Thomas, 373, 467. Fajardo, Pedro, 472. Falkland, lord Lucius Cary, 358. Fanfani, Amintore, 1 14 . Farei, Guillaume, 336, 339. Febvre, Lucien, 251 . Federico del Palatinato, 556. Federico Guglielmo di Brandeburgo, 568 . Ferdinando Il, imperatore, 6 1 , 458, 557 . Ferrers, conte, 23 . Ferrier, Jérémie, 329. Ficino, Marsilio, 336. Filippo Il, re di Spagna, 1 4-5, 74, 79, 98-9, 101, 136, 170, 204, 216, 223 , 240, 356, 53 1 , 562 . Filippo III, re di Spagna, 79, 98, 180, 412, 447, 555 .

Indice dei nomi Filippo IV, re di Spagna, 168, 187, 194, 204, 208, 412, 515-6. Filippo il Magnanimo, 379. Filippo Neri, s ., 304-6 . Fisher, Irving, 83, 85. Fitzherbert, sir Anthony, 260. Fludd, Robert, 333. Foucault, Gabriel, 168. Francesco di Sales, s ., 30 1-2, 347. Francesco Saverio, s., 8, 10, 308 . Franck, Sebastian, 20, 6 1 , 74, 337. Franklin, Beniamino, 1 1 3 . Frémiot, Jeanne François, 306. Frey-Aldenhoven, Anton, 1 2 1 . Froben, Johann, 335-6. Frontera, visconte de la, 221 . Fugger, famiglia, 43, 136, 199, 247, 364, 441-3 , 500 . Galateo (De Ferrariis Antonio ), 312, 323 . Gaissrucker, Siegmund, 440, 494. Galilei, Galileo, 373 . Gamaches, marchese de, 189. Gassendi, Pierre, 330. Geer, Louis de, 123, 125, 1 30, 148, 158-9, 565 . Genoino, Giulio, 415, 474-5. Giacomo l, re d'Inghilterra, 179, 183, 208, 320, 400. Giacomo II, re d'Inghilterra, 573 . Giansenio, Cornelio, 345-6. Ginzburg, C., 3 14n. Giovanna Chantal, s., 307 . Giovanni Adolfo, duca di HolsteinGottorf, 174. Giovanni Eudes, s., 306 . Giovanni Giorgio, elettore di Sassonia, 284. Giraflì, Alessandro, 497-8 . Glanvil, Joseph, 325. Gobelin, stabilimenti, 146. Godart, Jean, 229 . Godenov, Boris, 455. Goldmann, Lucien, 348. Golitsyn, 483 . G6mara, Francisco L6pez de, 9, 81, 351 . Gomarus, 123 , 342. Gondi, Paul de, 408 . Gostomski, Anselm, 261 . Gott, Samuel, 390 . Goubert, 46, 267 . Gouberville, 184.

605

Indice dei nomi Goufiìer, famiglia, 225. Gramont, Antonio III, duca di, 169. Graunt, John, 54. Grene, Robert, 528. Gregorio XIII, papa, 17. Greimbl, Jacob, 460-1 . Grellety, Pierre, 449 . Grimaldi, famiglia, 129, 136. Grimaldi, Niccolò, 136. Grimaudet, 232. Grimmelshausen, Hans Jakob Christoffel von, 48, 389, 490, 520. Grozio, Ugo, 348. Guazzo, Stefano, 165. Gubec, Matthew, 435. Guglielmo II d'Orange, 238, 415418, 428 . Guglielmo I I I d'Orange, 417-8. Guglielmo I Federico d'Orange, 417. Guglielmo il Taciturno, 128. Guicciardini, Francesco, 146, 328, 336, 355 . Guisa, Enrico I, duca di, 437 . Guisa, Luigi II, cardinale, 437 . Guise, 206. Gustavo II Adolfo, re di Svezia, 125, 167, 418, 461 . Gutenberg, Johann, 352, 370. Haim, Cristoph von, 440. Hakluyt, Richard, 7, 68. Hales, John, 510. Hamel, famiglia de, 1 1 8 . Hamilton, Earl } . , 80, 82-4, 132. Hansen, 3 1 1 . Harman, 527. Haro, Luis de, 475 . Harrington, James, 197, 426. Harrison, William, 59-60, 93, 372, 510. Hartlib, Samuel, 372, 390, 392-3 . Harvey, Willi am, 373, 385. Haselrig, sir Arthur, 157. Haton, Claude, 168 . Hauser, Henri, 1 1 3 . Hawkins, sir John, 61 . Hay, lord, 182. Hédervary, Gy., 294. Hédervary, I., 295. Heinsius, Daniel, 123 .

Heldewier, 123. Heldewiers, famiglia, 1 19 . Hensberg, 1 1 8 . Herbert, famiglia, 93 . Heresbach, Conrad, 261 . Herrera, Alonso, 74. Herrera, Antonio de, 7 . Hertoge, Walter de, 1 2 1 . Herwarth, famiglia, 1 36. Heuss, Johann, 1 1 8 . Hext, Edward, 52 1 , 534. Hijar, duca di, 414. Hobbes, Thomas, 375, 378, 573 . Hodejov, Adam di, 557 . Hoenegg, Hoe von, 3 6 1 . Hoeufft, Jan, 124. Hoeufft, Mattheus, 124. Hooft, Cornelis, 237, 348 . Hopkins, Matthew, 320- 1 , 323 . Hopkins, Sheila V., 76, 84, 87. Hotham, John, 401 . Houtappels, Godfried, 1 19 . Howell, James, 497 . Huggens, 16. Huntingdom, duca di, 195 . Hurault, Jacques, 192. Hutten, Ulrich von, 61 . Hyde, sir Edward, 405 . Ibill, Roger, 438 . Ignazio di Loyola, s., 301, 304 . Impyn, Jan, 135. Infantado, duca di, 205 . Innocenza X, papa, 346. Isabella la Cattolica, regina di Ca­ stiglia, 1 3 . Ivan I I I , 322 . Ivan IV, il Terribile, 166, 198-9, 202, 322. Jeannin, Jules, 230 . Joly, Claude, 57 1 . Jordan, W . K., 538. Jorisz, David, 339. Karacsonyi, George, 434. Keplero, Johannes, 16, 373 . Kerridge, Eric, 262. Kett, fratelli, 517. Khlesl, cardinale, 441 . Khlopko, 455. King, Gregory, 20, 509 . Kipper, 102.

606 Knox, John, 1 12 . Kosinski, Christopher, 421 , 444. Kossman, E. H., 407. Kurbsky, Andrei Michailovic, 198199, 322. Laffemas, Barthélemy, 535. La Fontaine, Jean de, 1 7 . L a Fontenelle, 168. Laimbauer, Martin, 461 . La Mothe, Jean de, 64. La Mothe la Foret, Antoine du Puy, 449, 463 , 466, 502. Lampugnani, Giulio Cesare, 539. La Noue, François de, 167, 1 8 1 , 183, 185, 187, 329. La Pilosa, pseud. , 471 . La Rochefoucauld, François, duca di, 168. Las Casas, Bartolomeo de, 7 1-3, 386-8, 544. Latimer, vescovo, 93 . Latinq, Juan, 543 . Laud, William, arcivescovo, 78, 358, 401 , 425. La Valette, duca di, 463 . Lea, Henry Charles, 3 1 9-20. Le Bret, 571-2. Lecky, William Edward Hartpole, 341 . Leibniz, Gottfried Wilhelm, 333 . Lemaire, Isaac, 123. Lemos, conte di, 194. Lemos, Gil de, 356. Le6n, Cieza de, 14. Lerma, Francisco Gomes, duca di, 178. Lescailles, Antoine, 126. Leszczynski, famiglia, 199. Leuenberger, Niklaus, 486, 488, 500. L'Hospital, Miche! de, 217. Lilburne, John, 363, 367, 469-70. Lipsius, Justus, 123, 382. Locke, John, 573 . Lockyer, Robert, 470. Loisel, Antoine, 545. Longueville, Anne Geneviève, du­ chessa di, 348, 407 . Lope de Deza, 270. Loyseau, Charles, 171, 2 1 1 , 213, 228, 230, 252. Loytze, famiglia, 175.

Indice dei nomi Luigi XIII, re d� Francia, 167-9, 177, 182, 193, 229, 461 . Luigi XIV, il Grande, re di Fran­ cia, 42, 125, 179, 407, 410, 425, 566, 572 . Lutero, Martino, 324, 356, 369, 494. Luynes, Charles, duca di, 322. Lynge, Rolv de, 434. Macheret, 446. Machiavelli, Niccolò, 336. Maddaloni, duca di, 473 . Magalotti, Lorenzo, 572 e n . Magellano, Ferdinando, 7, 1 3 . Maicroft, Philip, 514. Maier, Michael, 333 . Malatesta, Ramberto, 168, 446 . Malynes, Gerard, 8 1 . Manchester, conte di, 403 . Mansfeld, Peter Ernst II, conte di, 125. Marcelis, famiglia, 125. Marcelis, Gabriel, 125, 158. Maria Tudor, regina d'Inghilterra, 368 . Maria Stuarda, regina di Scozia, 32 1 . Maria d'Ungheria, 513. Mariana, Juan de, 530. Marillac, Miche!, 1 7 1 . Marillac, famiglia, 305. Marler, Richard, 214. Marprelate, Martin, 364. Marx, Karl, 109, 132, 25 1 , 333 . Masaniello, 474, 495, 497, 503 . Massimiliano, 435. Mathorez, ]., 124. Matieu, Jean, 121 . Maurizio, elettore di Sassonia, 284. Maurizio d'Orange-Nassau, 167, 342. Mayerne, Louis Turquet de, 253-4. Mazzarino, cardinale, 362-3, 407, 409, 4 1 1 , 415, 424-7, 57 1 . Medici, Caterina de', 206, 500. Medina, Juan de, 529. Medina de las Torres, Ramiro de Guzman, conte di, 473 . Meerman, famiglia, 124. Meerman, Anton, 1 1 8 . Meerman, Daniel, 1 18. Mendes, ditta, 129.

607

Indice dei nomi Merriman, R. R., 398. Mertens, famiglia, 1 1 8 . Mertens, Marcus, 1 1 9 . Michailovic, Aleksej, 422. Michau, codice, 171, 250. Michelet, Jules, 322-3 . Milton, John, 368. Missaglia, famiglia, 244. Modrzewski, Andrea Frycz, 338-9. Molé, Mathieu, 230 478. Molfetta, principe di, 194. Moncada, Sancho de, 8 1 . Monluc, Marshal, 498 . Montaigne, Michel Eyquem, si­ gnore di, 528. Montaud, Nicolas de, 232. Monterey, Manuel de Guzman, conte di, 473 . Montmorency, Henri II, duca di, 206. Montmorency-Bouteville, François de, 169. Montrose, James Graham, marchese di, 548. Moors, 1 1 8 . Moreau, catalogo, 362. Morel, Jean (Jean Nu-pieds), 464, 499. Mornay du Plessis, Filippo di, 340, 344. Moro, Tommaso, 73, 355-6, 386-7 . Moroni, famiglia, 244. Morozov, Boris Ivanovic, 245, 480483, 492, 496. Moschetola, 497 . Motolinia, Toribio de, 8 . Motte, Lucien, 218. Motteville, François Bertaud Langlois de, 408. Moucheron, Balthasar de, 123 . Mouille, Margaride de, 19. Mousnier, R., 227 Mun, Thomas, 1 1 1 , 154, 235-7. Miinchhausen, Staats von, 175, 184. Muzio, Girolamo, 165 . .

Nalivaiko, Severin, 421 , 444. Napier, John, 324. Napierski, vedi Alessandro il Leone. Naudé, Gabriel, 330- 1 . Navarrete, Pedro, 4 1 3 , 514. Nef, John U., 145, 156-8.

Nelli, Fabio, 38. Nevers, duca di, 186. Newton, Isaac, 561 . Nobili, Giacinto, 525. Norfolk, famiglia, 173 . Norfolk, duca di, 189. Ocampo, Florian de, 84. Ochino, Bernardino, 303 , 337-8 . O' Gara, Fergal, 553-4. Oglander, sir John, 196. Oldenbarnevelt, Jan van, 342, 416. Oldenburg, duca Antonio I von, 175. Olier, Jean-Jacques, 306. Olivares, Gaspar de Guzman, con­ te duca di, 101, 194, 204, 249, 271, 412-4, 416, 424-6. Oliver, 520-1. Oporinus, Johann, 339. Orange, Casa d', 237, 342, 416-7. Ordofiez, Pedro, 328. Orléans, Philippe, duca d', 407 . Oropesa, conte di, 1 8 1 . Orsini, famiglia, 179, 195. Ortenburg, Gioacchino, conte di, 457. Ortiz, Luis, 83. Os, Dirck van, 123. Ostorogs, famiglia, 199. Osuna, duca di, 194. Osuna, famiglia, 192 . Otalora, Arce, 177. Ovando, Juan de, 99. Overton, Richard, 469-70 . Oviedo, Fernandez de, 72. Oxenstierna, Axel, 159. Oxford, Edward de Vere, conte di, 182. Pallavicino, famiglia, 129. Pallavicina, Orazio, 1 1 6 . Palmer, Thomas, 382 . Paolo III, papa, 335 . Paracelso, 561 . Pasanec, Andrew, 435 . Pascal, famiglia, 348 . Paskov, 456. Passauski, vescovo, 441 . Patin, Guy, 330. Patrizi, Francesco, 387. Paulmier ( o Jean Serve), 435·6, 495, 500 . Pavillon, famiglia, 348 .

608 Pechon de Ruby, 525. Pedro Claver, s ., 544. Peiresc, Nicolas Claude Fabri de, 373 . Pellicer, José, 450 . Pellizzari, famiglia, 1 15. Pembroke, Henry, conte di, 180. Percy, famiglia, 189. Pérez, Antonio, 204 . Pérez, Marcus, 127, 130. Pérez de Herrera, Crist6bal, 530. Perkins, William, 517. Perrière, Guillaume de la, 165. Pestalozzi, Giulio Cesare, 121. Peter, Hugh, 7 1 . Petrarca, Francesco, 336, 383 . Petre, famiglia, 93. Petry, sir William, 47, 262, 554. Phelps Brown, E. H., 76, 84, 87. Piccolomini, Alfonso, 168, 445-6. Piccolomini, Enea Silvio (Pio II), 336-7. Pico della Mirandola, 336. Pietro Canisio, s ., 304, 358 . Pietro, « lo zarevic », 456. Pigafetta, Antonio, 7 . Pignatelli, famiglia, 195. Pio IV, papa, 185. Pizarro, Francesco, 10, 7 1 . Plantin, Christophe, 149-50. Platone, 387. Pldceev, Aleksej Nikolaevic, 482. Polus, Catherine, 316. Pont-Courbay, 182. Portillo, Juan, 477. Pouch, 499 . Poupinel, 463, 495. Prutze, Balthasar, 283 . Prynne, William, 364. Pugacev, Emel'jan lvanovic, 454. Quevedo y Villegas, Francisco de, 524 . Quiroga, Vasco de, 73, 386-8. Radziwill, famiglia, 199, 381 . Radziwill, principe Albrecht, 483 . Rak6czi, famiglia, 288 . Rak6czi, Giorgio Il, 484. Raleigh, sir Walter, 140, 186, 203 . Rambouillet, marchese di, 179. Ramée, Pierre de la, 337. Ramillon, famiglia, 2 1 3 .

Indice dei nomi Ramillon, Etienne, 2 1 3 . Ramusi o, Gian Battista, 7 . Rancé, Armand-Jean Bauthillier, abate di, 299. Rantzau, famiglia, 275. Rantzau, Heinrich, 173-4. Razin, Sten'ka, 454, 493, 499 . Réaux, Tallemant des, 168. Rémy, Nicolas, 310, 3 1 6, 320. Renaudot, Théophraste, 365-6. Requesens, Luis de, 14. Resteau, Jean, 1 1 9 . Retz, Jean-François-Paul d e Gondi, cardinale de, 362. Reynolds, John, 453 . Richelieu, Armand-Jean du Plessis de, 100, 124, 169, 1 7 1 , 179, 185, 193, 206, 218, 271 , 292, 322, 365, 374, 409, 4 1 1 , 424-5, 449, 46 1-3 . Rio, Martin del, 3 1 0 . Robais, Van, 146. Robertson, H. M., 1 1 3 . Rocaguinarda, Perot, 447 . Rocchi, Pompeo, 253 . Roche, Christopher, 553 . Rochemont, de, 329. Romani, M., 446n. Romanov, dinastia, 199. Romanov, Alessio Michajlovic, 480, 482. Romanov, Nikita, 481-2. Rosenkreuz, Christian, 333. Roupnel, Gaston, 227 . Rouvroy de Saint-Simon, famiglia, 225. Rozmberk, Guglielmo di, 43, 182. Rozmberk, Peter di, 1 82 . Roy, Jacques le, 2 1 6 . Ruiz, Simon, 1 3 9 , 2 1 6 , 240 . Rutland, conte di, 178, 180, 189. Ruyter, Michiel Adriaanszoon de, 238. Ryff , Andrea, 139. Ryssel, Heinrich von, 1 19. Sadoleto, Jacopo, 335-6. Saint-Cyran, Jean du Vergier de Hauranne, abate di, 345-7 . Salazar de Frias, Alonso, 3 16, 3 19. Salgado, 450 . Salomone, 392. Sandoval, Alonso de, 545.

Indice dei nomi Sandys, sir Edwin, 69. Santa Cruz, marchese di, 194. Sardo, Alessandro, 165, 170. Sassonia, duca di, 50. Saumaise, Claude, 1 12 . Sauval, Henri , 328, 527 . Sauvegrain, 49 1 . Savary, Jacques, 1 14, 216, 217 e n, 226, 252 . Saviles, famiglia, 93 . Schaumburg, duca Ernesto von, 184. Scheplitz, 279 . Schibi, Christian, 486-8, 500. Schlafheuser, 442. Schoppe, Kaspar, 361 . Sciarra, Marco, 448, 499 . Scot, Reginald, 3 14-5 . Sebastiano, re del Portogallo, 68. Segar, sir William, 164. Séguier, Pierre, 230, 464. Sepulveda, Juan Ginés de, 8 . Seremetev, famiglia, 481 , 483 . Serres, Olivier de, 189, 26 1 . Serve, Jean, vedi Paulmier. Serveto, Miguel, 334, 336, 339, 341 . Sessa, duca di, 180, 543 . Sévigné, Marie de Rabutin-Chantal, marchesa di, 25. Seymour, famiglia, 93, 96. Sexby, 479 . Shakespeare, William, 201 , 518. Shrewsbury, Charles Talbot, conte di, 170, 189, 453 . Sidney, sir Philip, 381-2 . Simon, Peter, 46 1 . Sisto V , papa, 168-9, 185, 364, 449, 506 . Skarga, Piotr, 484 . Skimmington, Lady (pseud. ), 460, 500 . Smirnov, 456. Smith, capitano John, 70 . Smith, sir Thomas, 74, 9 1-2, 233 . Socini, Fausto, 337-9 . Soissons, 206 . Sombart, Werner, 1 12, 127, 159. Somerset, famiglia, 190. Sondes, sir George, 266 . Soranzo, 184. Soto, Domingo de, 530. Southampton, conte di, 1 9 1 .

609 Spee, Friedrich von, 325. Spenser, Edmund, 553 . Spini, G., 331n. Spinola, famiglia, 129. Spooner, Frank, 74. Sprenger, Jacob, 323 . Stanley, famiglia, 192. Starace, 436, 489, 496. Starhemberg, conte Heinrich von, 442 . Steere, Bartholomew, 438, 504. Stone, L., 170, 173, 190. Stow, John, 36, 235, 453 , 53 1 . Stracca, Benvenuto, 171 . Strafford, sir Thomas Wentworth, conte di, 401 , 425. Stroganov, famiglia, 176. Strype, John, 517. Stuart, famiglia, 42, 69, 99-100, 104, 308, 368, 416. Stubbs, Philip, 239. Stukely, William, 332. Suiskij , Basil I vanovic, 322, 455-6. Sully, Maximilien de Béthune, duca di, 99, 137, 169, 179, 185, 202, 387, 463 . Talbot, George, 173. Talon, Omer, 230, 409, 477, 508. Tanner, Adam, 325 . Taubmann, Frederick, 372. Tawney, R. H., 89, 108-9, 1 10 e n, 1 1 1 , 132, 135-6, 235, 567 . Tell, Ciispi den, 486, 498. Tempie, sir William, 137, 155, 192, 215, 228, 238, 382, 418. Teresa d'Avila, s . , 301, 303, 306. Tertre, Jean-Baptiste du, 544 . Thomason, raccolta, 366. Tiepolo, 328 . Tilly, Jean Tserclaes, conte di, 309, 457, 494. Tiraqueu, André, 171 . Tolstoj, Lev, 397. Tommaso d'Aquino, s., 332. Toreno, conte di, 22 1 . Torricelli, Evangelista, 373 . Torstensson, Lennart, 483 . Touissaint Foy, 218, 224. Trakhaniotov, 482 . Trevor-Roper, Hugh, 196, 397-8. Trip, Louis, 123, 220. Tristan, famiglia, 226 .

Indice dei nomi

610 Tristan, Mattre, 225-6 . Tronchin, Louis, 344. Trubetskoy, famiglia, 481 . Truchi, Giovanni Battista, 570. Tudor, dinastia, 205, 368. Turenne, Henri de La Tour d'Auvergne, visconte di, 407. Turler, Jerome, 382. Turrettini, Francesco, 115-6, 126, 130. Uffeln, 1 18 . Ulicki, Matthias, 557. Unterniiher, Caspar, vedi Tell. Urbino, duca di, 364. Usselincx, 123 . Valdivia, Pedro, 7 1 . Vanini, Giulio Cesare, 33 1 . Vaughan, sir William, 61 . Vedel, Anders S0rensen, 193 . Veken, Johan van der, 123. Velde, Sebastian van der, 1 19. Velen, Ladislao, 557 . Vendome, César de Bourbon, duca di, 206 . Vergerio, Pietro Paolo, 334, 337. Vermigli, Pietro Martire, 337. Vermuyden, Cornelis, 260. Vasalio, Andrea, 373 . Viau, Théophile de, 329. Vieira, Antonio, 544. Villars, Louis-Hector, duca di, 479. Vincenzo de' Paoli, s., 24, 48, 305-7, 347, 355, 407-8, 536-7. Vittorio Amedeo II, duca di Savoia, 568. Vives, Juan Luis, 507, 529-30. Von Armin, famiglia, 277 . Walker, Clement, 362. Walker, sir Edward, 209. Wallenstein, Albrecht von, 174.

119,

Walsingham, Francis, 204. Walwyn, William, 368, 469, 504 . Warboys, caso, 3 16. Weber, Max, 107, 108 e n, 109-10, 1 12-3, 251 . Wee, H . van der, 144. Weinbuch, Caspar, 460- 1 . Welsers, famiglia, 136. Wemyss, conte di, 173. Wenger, 483 . Wentworth, sir Thomas, 400, 425. Werth, generale Johann von, 5 1 . Weyer, Johann, 325 . Whitelocke, Bulstrode, 467 . Whitgift, John, arcivescovo, 518. Whittington, Dick, 67 . Wiebe, 83. Williams, John, 460. Willinger, Achaz, 458. Willoughby, lord, 424. Wilson, Thomas, 60, 189. Winthrop, John, 68. Wisnowiecki, Jeromi, 422 . Winstanley, Gerrard, 333, 372, 390, 393-4, 488, 566. Witt, famiglia de, 237, 417. Witt, Cornelius de, 237. Witt, Jacob de, 237. Witt, Johan de, 141, 238. Witte, Arnold de, 1 2 1 . Witte, Hans de, 1 19, 121, 130. Wittenberg, generale, 483 . Yates, Frances A., 331n, 391. Yermak, 68, 451 . Zametti, 1 17 . Zanino, Evangelista, 1 15 . Zeller, Christoph, 458. Zevallos, Giovanni, 474 . Zinzendorf, Freiherr von, 457 Zizka, Jan, 557. Zumarraga, Juan de, 386. Zurita, Jer6nimo, 370.

_

INDICE DELLE FIGURE

l.

2.

3. 4. 5.

6.

7.

8.

9. 10.

Velocità delle notizie nell'Europa del Cinquecento ( a inter­ valli isometrici di una settimana ) . ( In base a F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen, 2 voli., Paris 1 966, vol. I, pp. 3 3 3 , 336)

11

L a densità d i popolazione nell'Europa del Seicento ( tratto da P. Chaunu, La civilisation de l'Europe classique, Paris 1966)

26

Aumento della popolazione in alcune città europee ( in base a dati provenienti da fonti diverse)

28

Movimenti della popolazione in Italia ( fonte : J. Beloch,

Bevolkerungs-geschichte Italiens, 3 voli. , Berlin 1 937-6 1 )

31

Decessi a Londra dal 1629 al 1 666 ( scala logaritmica ) . ( Fonte : C. Creighton, A History of Epidemics in Britain, 2 voli. , Cambridge 1 8 9 1 -94)

35

L'espansione d i un'epidemia d i peste ( tratto d a E. Woehl­ kens, Pest und Ruhr im 1 6. und 1 7. Jahrhundert, Hannover 1954)

37

L a guerra e i l tasso d i natalità durante l a Fronda ( Saint­ Lambert-des-Levées, Angiò) . ( Fonte : P. Goubert, Beau­ vais et le Beauvaisis, 2 voli., Paris 1 960, vol. I, p. 58, nota 95 )

52

Gli effetti della guerra dei Trent'anni sulla popolazione tedesca ( tratto da G. Franz, Der Dreissigjahrige Krieg und das deutsche Volk, Stuttgart 1 96 1 )

53

L'inflazione dei prezzi del grano in Europa ( tratto da New Cambridge Modern History, vol. III, Cambridge 1 968 )

75

Il costo della vita i n Inghilterra, dal 1 450 a l 1 7 0 0 ( tratto

Indice delle figure

612

da Essays in Economie History, a cura di E. M. CarusWilson, vol. I I , London 1 962 , pp . 1 94-5 ) 11.

12.

Importazioni d'oro e d'argento e inflazione dei prezzi in Spagna ( tratto da Earl ] . Hamilton, American Treasure and the Price Revolution in Spain, Cambridge [ Mass . ] 1934) Il costo della vita in tre città europee ( in base a E . Phelps Brown - S. Hopkins , Builders Wage-Rates, Prices and Population: Some Further Evidence, « Economica », vol. XXVI, 1959)

88

Il ribasso dei livelli di vita nel Seicento ( tratto da W. Abel, Agrarkrisen und Agrarkonjuntur, Hamburg 1966)

90

Aumento degli introiti dell'aristocrazia derivanti da affitti : un esempio dall 'Inghilterra ( fonte : Essays in Economie History, vol. I I , cit . , pp . 2 1 7 , 22 1 )

94

Mercanti stranieri in rapporto d'affari con Lipsia , dal 1 5 5 1 a l 1 6 5 0 ( fonte : G. Fischer, Aus zwei Jahrhunderten Leipziger Handelgeschichte 1470-1 650, Leipzig 1 929 )

120

Inflazione dei prezzi delle derrate in Polonia ( fonte : S. Hoszowski, The Revolution of Prices in Poland, « Acta Poloniae Historica » , I I , 1 9 5 9 )

274

Proprietà terriere con servitù della gleba : introiti deri­ vanti dai cereali nel distretto di Tapiau , dal 1 550 al 1 696, in periodi quinquennali ( tratto da H. H. Waechter, Ostpreussische Domiinenvorwerke, Wiirzburg 1958)

286

Andamento dei processi di stregoneria nelle regioni della Lorena e di Namur ( fonte : E. Brouette, La sorcellerie dans le comté de Namur, « Annales de la Société archéologique de Namur », 47, 1 954 ; e L. Duparchy, La justice crimi­ nelle, « Mémoires de la Société d'Emulation du Jura » , 1 89 1 )

318

Iscrizioni d i facoltà presso l'università d i Salamanca ( tratto da R. L. Kagan, Education and the State in Habsburg Spain, Cambridge 1 968, tesi di laurea )

375

'

13. 14.

15.

16.

17.

18.

19.

20.

77

80

'

Immatricolazioni presso università europee : a ) Salamanca ; b ) Oxford e Cambridge ; c) Lipsia, Jena, Francoforte e Heidelberg ( fonti : L. Stone, The Educational Revolution in England, « Past and Present », 28, 1 964; F. Eulenberg,

I n dice delle figure

613 « Jahr­ 68, 1 897 ;

Ueber die Frequenz der deutschen Universitiiten, bucher fi.ir Nationalokonomie und Statistic R. L. Kagan, tesi di laurea già citata) 21.

22.

»,

376

Donazioni di beneficenza a favore dei poveri in Inghil­ terra, dal 1480 al 1 660 ( tratto da W. K. Jordan, Philanthropy in England 1 480-1 660, London 1 959 )

540

I profughi in Europa, dal 1 550 al 1 660

547

INDICE DEL VOLUME

v

Premessa

VII

Premessa all'edizione italiana

Parte prima. Le strutture I.

5

Le dimensioni della vita Lo spazio, p. 6 Le distanze, p. 10 - Il tempo, p. 15 Le strutture demografiche, p. 17 - Tendenze dello svi­ luppo demografico, p. 25 - Ostacoli allo sviluppo demo­ grafico, p. 32 - Epidemie, p. 33 Carestie, p. 40 - Guerre, p. 47 La popolazione e la crisi generale, p. 55 -

-

-

-

II.

59

Mu t amento e decade n z a Movimenti di popolazione, p. 61 - L'emigrazione verso occi­ dente, p. 67 - L'impero spagnolo, p. 71 - Il costo della vita, p. 73 - Le cause dell'aumento dei prezzi, p. 78 - Red­ diti e rivoluzione dei prezzi , p. 86 La terra e la rivoluzione dei prezzi, p. 91 - I governi e la rivoluzione dei prezzi, p. 97 - Verso la crisi del diciassettesimo secolo, p. 100 -

III.

Lo sviluppo del capitalismo

1 07

Religione e capitalismo : la fine di una controversia, p. 107 Profughi e capitalismo, p. 1 1 4 - Moneta e capitalismo, p. 130 - Commercio e capitalismo, p. 138 - L'organizzazione industriale, p. 145 Sviluppo economico e capitalismo, p. 151 Capitalismo, guerra e progresso, p. 156 -

-

Parte seconda. La società IV.

Nobili e gentiluomini Una nuova « etica della nobiltà », p. 164 - Abitudini di violenza, p. 166 - Nobiltà e affari, p. 170 - Ricchezza nobi-

163

Indice del volume

616

liare e spreco, p. 177 Mutamenti di fortuna e uomini nuovi, p. 186 La crisi politica dell'aristocrazia, p. 201 -

-

v.

211

La borghesia europea La vita economica della borghesia, p. 213 Una tier e una classe terriera, p. 219 La funzione economica della carica pubblica, p. 227 Rango della borghesia, p. 231 Ascesa e caduta della p. 239 La borghesia e la crisi europea, p. 248 ghesia ha tradito? , p. 251 -

-

-

-

-

VI.

classe ren­ sociale ed e mobilità borghesia, La bor­ -

L'economia rurale

255

L'economia agraria, p. 257 Di chi era la terra ? , p. 262 I contadini inglesi, p. 264 I contadini dell'Europa occi­ dentale, p. 266 Il feudatario e la terra nell'Europa orien­ tale, p. 272 L'avvento della servitù della gleba, p. 276 La crisi del Seicento e l'affermazione della servitù della gleba, p. 289 -

-

-

-

-

-

Parte terza. Fede e ragione VII.

299

Le nuove dimensioni spirituali Il rinnovamento spirituale, p. 300 La riforma istituzio­ nale, p. 303 Missione e conversione, p. 307 Il regno delle tenebre : la stregoneria in Europa, p. 309 La pra­ tica della religione e il progresso dello scetticismo, p. 326 La tolleranza : la cartella clinica di Basilea, p. 334 La crisi dell'agostinismo, p. 341 -

-

-

-

-

-

VIII .

351

Informazione e fantasia L'alfabetismo e il popolo, p. 352 Lo sviluppo della pro­ paganda, p. 357 Le università europee, p. 370 La sco­ perta e la perdita di Utopia, p. 386 -

-

-

Parte quarta. Crisi generale? IX.

Le rivoluzioni di Stato

397

Vi fu una crisi e fino a che punto fu generale? , p. 398 La rivoluzione inglese del 1640, p. 400 La Fronda, p. 407 Il labirinto : la Spagna e Napoli, p. 412 Conflitto nel­ l'Europa settentrionale, p. 416 La rivoluzione nell'Europa orientale, p. 420 La reazione alla crisi politica, p. 423

-

-

-

-

-

-

Indice del volume X.

Le ribellioni popolari ( 1 550- 1 660)

617 43 1

Le rivolte alla fine del Cinquecento, p . 433 - Il brigan­ taggio e la rivolta sociale, p. 445 - Le rivolte all'inizio del Seicento, p. 452 - 1648 : l'anno delle rivoluzioni, p. 468 La struttura della rivolta popolare, p. 488

XI.

La voce dei diseredati

505

La miseria e i poveri, p . 506 - Il vagabondaggio, p. 5 1 1 Le classi pericolose, p. 516 - L'assistenza ai poveri, p. 528 La schiavitù, p. 540 - I profughi, p. 549

XII .

La marea cambia

561

Riflusso e indietreggiamento, p. 562 - La reazione conser­ vatrice, p. 565 - Il rafforzamento dell'assolutismo, p. 570

Bibliografia

575

Indice dei nomi

60 1

Indice delle figure

611

Finito di stampare nell'ottobre 1 975 nello stabilimento d'arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari

STORIA E SOCIET A

Guido Gigli La seconda guerra mondiale, 1 964 Giampiero Carocci (a cura di ) Il Parlamento net:a storia d'Italia, 1 964

Brunello Vigezzi (a cura di)

1 9 1 9-1 925. Dopoguerra e fascismo Politica e stampa in Italia, 1 965 Enzo Piscitelli Storia delta Resistenza rumana, 1 965 Franco Fortini (a cura di ) Profezie e realtà del nostro secolo, 1 965 Elio Apih Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia ( 1 9 1 8-1943) , 1 966 Giorgio Bocca Storia dell'Italia partigiana, 1 966, 1 967' Michael Edwardes Storia dell'India dalle origini ai giorni nostri , 1 966

F. Margiotta Broglio

Italia e Santa Sede dalla grande guerra alla Conciliazione, 1 966 Gastone Manacorda (a cura di ) I l socialismo nella storia d'Italia, 1 966

Aldo Romano Storia del movzmento socialista in Italia : vol. I . L'Unità italiana e la Prima Internazionale. 1 861 -1 871 , 1 966

vol. Il. L'egemonia borghese e la rivolta libertaria. 1 8 7 1 - 1 882 ,

1966 vol. I I I . Testi e documenti. 1 861 -1882, 1 967 Pietro Scoppola (a cura di ) Chiesa e Stato nella storia d'Italia.

Storia documentaria dall'Vnità alla Repubblica, 1 9 6 7 Guerra partigiana tra Genova e il Po. La Resi­ stenza in provincia di Alessandria, 1 967 Giorgio Rochat L'esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini 1 9 1 9-1 925, 1 967 Chr. Seton-Watson Storia d'Italia dal 1 870 al 1 925, 1 967 Giampaolo Pansa

Mano foscano

Storia di plomat i ca della questzone dell'Alto A dige ,

1 9 6 7 , 1 9682

Stuart J . Woolf ( a cura di ) Il fascismo in Euro pa, 1968 A. Montirone Plotone di esecuziont 1 processi della

E . Forcella

-

prima guerra mondiale, 1 968, 19682 D. Mack Smith Il Risorgimento italiano. Storia e testi, 1 96 8 , 1 96 8 ' Michael M. Postan Storia economica d'Europa ( 1 945- 1 964 ) , 1 968 Giorgio Rumi Alle origini della politica estera fasctsta. 1 9 1 8-1 923 , 1 968

A . J. P. Taylor Storia dell'Inghilterra cont e mpo ranea , 1 961) Giorgio Bocca Storia d'Italia nella guerra fascista. 1 940- 1 943, 1 969 Giampiero Carocci La politica estera dell' Italia fascista ( 1 925-

1 928 ) ,

1 969

Luigi Cortesi

Il socialismo italiano tra rtform e e ri vo l uzi o ne. Dibattiti congressuali del PSI. 1 892- 1 921 , 1 969 Piero Melograni Storia politica della grande guerra. 1 9 1 5-1 9 1 8 , 1 969, 1 972'

Ernesto Ragionieri

Italia giudicata. 1861-1 945. Ovvero la storta degli italiani scritta dagli altri, 1 969 Michal Reiman La Rivoluzione russa dal 23 febbraio al 25 otto­ bre, 1 969 Sergej A. Tokarev URSS: popolt e costumi. La costruzione del socialismo in uno Stato plurinazionale, 1 969 Piero Malvezzi Le voci del ghetto. Antologia della stampa clan­ destina ebraica a Varsavia (1941-1942) , 1 970 Patrick Renshaw Il sindacalismo rivoluzionario negli Stati Unitz . 1 970

D. Mack Smith

Storia della Sicilia medievale e moderna,

1 97 0 ,

1973"

Edgar Quinet Le rivoluzioni d'Italia, 1 9702 Moses l . Finley Storia della Sicilia antica 1 970, 1 9722 Valeria Castronovo La stampa italiana dall'Unità al fascismo, 1 970 George W. Baer La guerra itala-etiopica e la crisi dell'equilibrio ,

europeo,

1 970

Il fascismo Le interpretazioni dei contempo ranei e degli storici, 1 970 L. Colletti - C. Napoleoni Il futuro del capitalismo. Crollo o svt luppo?, 1 970 Rosario Villari Storia dell' Europa contemporanea , 1 97 1 , 1 972' Jack Belden La Cina scuote il mondo, 1 9 7 1 Renzo De Felice

.

lucio Villari Il capztalzsmo italiano del Novecento, 1 97 2 Sidney Sonnino Diario 1 866-1912, vol. l, 1 972 Diario 1914-1916, vol. I I , 1 972 Diario 1 9 1 6-1 922, vol . III, 1 972 Sidney Sonnino Scritti e discorsi extraparlamentari 1 870 - 1 902, vol. I, 1 972

Scritti e discorsi extraparlamentari 1 903 - 1 920, vol. II, 1 972 D . Mack Smith

Vittorio Emanuele II,

1 97 2 , 1 972'

Max Gallo Storia della Spagna franchista, 1 972 John P. Diggins L 'America Mussolini e il fascismo , 1972 Bernardino Farolfi Capitalismo europeo e ri v ol uz ione borghese.

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