L'inquietudine dell'Altro. Ebraismo e cristianesimo


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L'inquietudine dell'Altro. Ebraismo e cristianesimo

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Guido Bianchini

L'iriquiet·udine dell> Altro Elirai1mo I' c1isfilmesi1110

Il llglio viene generato perché renda test!monlan7.a del padre defunto del suo genitore. Il nipote rinnova ù nome dell'avo.

(F. Rosenzweig, La stella della redenzione)

A mio nonno Guido,

nell'inquieta speranza di inverare le parole di Rosenzweig.

Questo testo oltre ad essere un tentativo di riHessione sul tema dell'alterità è stato anche un esercizio pratico della stessa, poiché è stato possibile anche grazie ad altri che mi sono venuti incontro donandomi tempo, ascolto e competenze. A loro va il mio "grazie". Alla mia famiglia per l'affetto e l'incoraggiamento di sempre. A Vincenzo Vitiello per avermi trasmesso la passione e il rigore del pensiero e per essere interlocutore prezioso per lo sviluppo delle mie ricerche. A Gaetano Panella e Mennato Tedino per il supporto nella revisione formale del testo.

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Prefazione

di Vincenzo Vitiello

L'essentlel pour nous aura été, au paroxysme de la elise, de préserver la question. (Edmond Jabès, da: Le liore des questions)

Una metafora per iniziare: L'inquietumne dell'Altro. Ebraismo e cristianesimo è il Bildungsroman di Guido Bianchini, la narrazione della sua 'formazione 6losofìca'. Ciò che lo distingue dalle opere letterarie dello stesso genere, è, certo, anche il 'contenuto', rigorosamente fìlosofìco e non biografìco, ma sooratt-utto la 'forma', che non differisce da quella dei Bildungsromane di argomento letterario per la coincidenza del protagonista della narrazione con r 'io narrante" - coincidenza, peraltro, non rara nei romanzi di formazione 1etterari' - , ma ben più signifìcativamente perii fatto che il protagonista del libro dice di sé, senza mai parlare di sé. L'inquietumne dell'Altro non è un'autobiografìa fìlosofìca, ancorché non d'altro parli che dell'inquietudine - per restare fedeli alla metafora - dell'"io narrante", che però è solo nelle domande che

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pone ai suoi interlocutori, e nelle loro risposte, che analizza, discute, accoglie o respinge in funzione non tanto delle soluzioni che offrono, quanto delle domande che aprono. Questo 'processo di formazione', di cui sono testimone diretto, per aver discusso con l'autore ogni capitolo del libro durante la sua composizione, ben si riflette nella struttura del testo, che segue non l'andamento rettilineo della cronologia, ma l'ordine 'logico' dettato dai problemi.

Bianchini muove dalla domanda che la Zambrano formulò nei tristi anni Quaranta del secolo scorso, davanti allo ~ttacolo della devastazione materiale e morale dell'Europa: «E stato il cristianesimo europeo vero cristianesimo? Ed è pensabile un cristianesimo europeo che sia vero cristianesimo?», e cioè un cristianesimo che non subordini il Dio pietoso e misericordioso, il Dio d'amore, al Dio pantocrator? La domanda investe tutta la storia del cristianesimo, e non a caso Bianchini, dopo essersi soffermato sulla dura polemica di Nietzsche contro il cristianesimo (contro Paolo, è bene precisare, e non Gesù, da lui definito un «Buddha sorto in un terreno molto poco indiano [ ... ] una mescolanza di sublimità, malattia, infantilismo») -vera conclusione dell'unilateralità del 'cristianesimo storico' -, concentra la sua attenzione sul rapporto ebraismo/cristianesimo, interrogando due voci eminenti dell'una e dell'altra religione, Buber e Bultmann. Perché queste due voci? Per la diversa, anzi opposta interpretazione eh'essi hanno dato di Paolo, l'uno insistendo sulla estraneità sua - ma non di Gesù alla religione ebraica, l'altro sulla continuità del cristianesimo paolino con l'esperienza ebraica, senza ovviamente negare la differenza, che è alla base del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento. Lontano sia dalla lettura buberiana - che disconosce la profonda radice ebraica di Paolo, al punto da farne un marcionita avant la lettre -, che da quella di Bultmann, che

13 riduce l'ebraismo a mera "funzione profetica" della religione di Cristo, Bianchini enuncia chiaramente l'intento della sua ricerca: «indagare il rapporto tra ebraismo e cristianesimo, attraverso Paolo ed oltre, per riscoprire proprio la componente "altra" che innerva le due fedi e non le rende riducibili a nessuna visione storica circolare o teleologicamente orientata». E questo spiega il primo 'incontro' dell'autore con Heidegger: il giovane Heidegger delle lezioni friburghesi su Paolo. Geniale interpretazione, quella del filosofo di Me6làrch, che si distacca radicalmente dalla lettura tradizionale del "cristianesimo storico" col mettere in rilievo, anche contro Nietzsche, il carattere fondamentale del cristianesimo paolino: l'insecuritas della vita cristiana, mai 'in pace' col mondo, e l'effettivo valore della 'profezia' paolina, vera se ed in quanto accolta dai suoi destinatari, i pisteuontes, i 'credenti' che si raccoglievano nelle comunità (ek/des{ai) da lui 'visitate'. Autentico ribaltamento, questo operato da Heidegger interprete di Paolo, della concezione tradizionale del tempo, che anticipa le celebri analisi di

Essere e tempo. Ma il punto di svolta del libro è segnato dal capitolo centrale, il terzo, dedicato a "Hegel: trionfo e crisi della ragione". Il confronto col filosofo tedesco è 'polemico', non privo di toni aspri. Bianchini sa che con Hegel non lui, bensl la tradizione filosofica e religiosa dell'Occidente, giuoca la partita decisiva; ed in prima linea è proprio il "cristianesimo storico". Perché di questo cristianesimo - che, è bene dir subito, non è tutto il cristianesimo - Hegel si pone come il più alto erede: l'erede filosofico, che 'supera', aujhebt, e cioè porta a più alto livello l'insegnamento di Cristo, ben oltre la dottrina della Chiesa: il perdono 'filosofico' non si ferma al peccatore, si estende al peccato. Hegel non redime il mondo dal male, fa di più: redime il male stesso. Quale obiezione può mai opporsi a questo così alto disegno, che riprende la conclusione del discorso della Montagna?

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Degli scritti giovanili di Hegel Bianchini critica la sostanziale incomprensione dell'esperieJ17.3. religiosa ebraica; ma l'obiezione maggiore che muove a Hegel non riguarda l'ebraismo, né il cristianesimo, ma la concezione stessa del religioso e della fìloso6a, ed è rivolta contro le opere maggiori: dalla Fenomenologia dello spirito sino alle Lezioni sulla filosofia della religione. La riassumo indicandone la pointe logique: il sistema del sapere hegeljano è chiuso in se stesso, e per quanto l'idea assoluta venga presentata come un circolo di circoli che continuamente si espande, il suo espandersi non porta mai l'Assoluto oltre sé. Possiamo dire questa critica col linguaggio stesso di Hegel: der baccantische Taumel, il frenetico agitarsi degli enti, che raffigura il divenire del mondo, precipita 'alla 6ne' in una cfurchsichtige und einfache Ruhe, in una quiete semplice e trasparente. Un'unica aggiunta, fatta nello spirito stesso del pensiero hegeliano, a questa colorita immagine: la 'fine' è già nell'inizio. Né potrebbe essere altrimenti: posta alla 6ne di un processo, la Totalità non sarebbe Totalità. La conclusione hegeliana non è dunque diversa da quella di Aristotele: tautà sophie- «Hier geschieht keine Er-losung>> -, Bianchini oppone «l'inquietante rischio del "non ancora", insito nella promessa di redenzione», contenuta nel gran libro di Rosenzweig. E più in genera1e oppone «agli esiti nefasti e annichilenti della ragione filosofica moderna» la promessa di redenzione «del tempo e non dal tempo» che «appartiene sempre a1l'a1trimenti che essere». Chiaro il rinvio a1 protagonista dell'ultimo capitolo, Emmanuel Levinas, il pensatore a1 qua1e Bianchini si sente più vicino filosoficamente e religiosamente, nonostante la differenza di fede. La traccia è quella segnata da Rosenzweig, ma Levinas fa un passo oltre, distinguendo Infinito da Totalità: quello, che più penetra il finito, maggiormente se ne a1lontana, 'liberandolo'; questa, che accoglie il finito in sé, negandolo, necandow. Di qui l'impegno etico della fìlosofia levinasiana, che Bianchini coglie perfettamente, e lucidamente fa suo: «Soltanto un pensiero aperto

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all'Altro e non piegato al trionfo del Medesimo può introdurre un nuovo ordine nelle relazioni umane e mettere in questione l'idea di libertà come potere da esercitare arbitrariamente per l'affermazione e la giustificazione di sé». Nobile idea, ma coerente con l'assunto originario dell'alterità dell'Altro? L'inquietudine si fa più acuta, quanto più vicina appare la mèta. L'Infinito di Levinas, particolarmente là dove si dispiega assumendo la 'figura' del Volto, mi sembra preda pur esso della tela di ragno intessuta dal Medesimo: è un "altro" opposto all"'io", un "altro" che ha potere sull"'io", che lo chiama, lo interroga, lo rende giusto o ingiusto, a seconda che risponda alla sua chiamata, e alle sue pretese. Non è cosl altro, da essere anche altro da sé, altro di sé. In quanto altro dall'"io", altro dell'"io", Esso è a se stesso identico. È, e resta il Medesimo rispetto a sé. Sorge allora il dubbio che anche in questo Altro si nasconda la pretesa identitaria dell'"ego", che si reduplica nell'opposto. In un finto opposto. Bianchini,se ho ben compreso il 'senso' della sua ricostruzione dell'ultimo sviluppo del pensiero levinasiano - le "aperture al cristianesimo" (si noti il plurale) del filosofo lituano -, replica indirettamente all'obiezione or esposta, richiamandosi al «valoredella debolezza umana>,. Mi sembra questa la risposta più congrua all'itinerario di pensiero sin qui descritto, non foss'altro perché accentua, non spegne l'originaria inquietudine. In ogni caso segna - ed è questo l'essenziale - il punto di massima vicinan2:a tra ebraismo e cristianesimo. "E": la paroletta breve che Rosenzweig impiega nella Stella della redenzione per indicare il libero rapporto tra le due religioni. Un racconto chassidico narra di un mendfco, vestito di stracci, che elemosina in una strada della grande Città. Nessuno lo riconosce, quand'uno gli si avvicina: "Messia, quando ritomeraJ·?'• ••

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Introduzione

La celebre immagine riportata da Platone nel Teetew (174 a e ss.) di Talete che immerso nella contempla:zjone del cielo cade in un pozzo, suscitando il riso della servetta tracia, ha contribuito a fissare nell'immaginario collettivo l'idea caricaturale del filosofo come uomo dedito alle pure astra:zjoni e avulso dalla concretezza della vita reale. Giocando con tale suggestione, si potrebbe leggere l'intera storia della filosofia, almeno dallo stesso Platone fino a Hegel, seppur con accenti differenti, come una "risposta seriosa", come un tentativo di rivalsa e di riscatto rispetto a questa risata inaugurale. A partire dalla pretesa platonica di porre il filosofo alla guida della città ideale in virtù della superiorità del suo sapere, fino a quella hegeliana di comprendere il tempo in concetti, la tradizione filosofica occidentale ha infatti costruito un paradigma auto-fondativo ed auto-referenziale il cui unico fine sembra il bisogno di auto-legittima:zjone e il cui anelito ultimo appare nient'altro che la ricerca di se stessa, attraverso una ragione che fa circolo, che, ritornando continuamente su se stessa, è incapace di ammettere qualcosa che sia "altro" da sé.

Tale imposta:zjone ha dato alla lìlosofìa una forza e un rigore, sia logico che metodologico, sen7.a pari, ma ne ha snaturato il

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senso euristico, ha ridotto la ricerca ad auto-compiacimento, che se da una parte ha conferito all'uomo una presunta stabilità, lo ha condannato, allo stesso tempo, alla solitudine, sottesa ad ogni tipo di pratica autoreferenziale. Il problema di fondo che anima questo testo è dunque la necessità di trovare una via d'uscita a tale chiusura paradigmatica, che permetta di riscoprire il senso dialogico e relazionale della lìlosolìa come incontro non polemico e non fagocitante con la verità dell'altro. Questa necessità è resa ancora più urgente dalla problematicità della questione nel nostro tempo, segnato da un conffitto permanente tra le istanze veritative, di fede e di ragione, in cui sempre più spesso si rinuncia alla via del dialogo per imboccare quella del dogmatismo, dell'integralismo e del fanatismo, la quale, purtroppo, sfocia non di rado in atti di violenza. Inquietante è lo scenario in cui la filosofia, pur non avendo pretese risolutive, non può non interrogarsi sulla possibilità di ricercare un paradigma veritativo "altro", consapevole dei limiti della ragione e della necessità di riscoprire l'interesse etico per l'altro come cifra dell'umano. L'accostamento ad alcuni pensatori della "modernità ebraica" è pertanto un tentativo di aprire una breccia nella chiusura del logos occidentale e di saggiare le possibilità di un contromovimento che ponga al centro l'altro, sia in chiave teoretica che etica, senza pensarlo sempre in funzione del ritorno al Sé, della riaffermazione del primato del Medesimo. Il pensiero ebraico, infatti, sin dalla chiamata di Abramo, si confronta con la radicale alterità dell'Altro, con un Dio che ama il suo popolo, ma sfugge ad ogni tentativo di appropriazione, instaurando un rapporto che vive di prossimità e distanza, o meglio di "prossimità nella distanza". Proprio la componente altra, attinta dalla spiritualità semita, costituisce lo snodo cruciale del nostro percorso, perché invita a sviluppare un nuovo rapporto con la verità, non caratterizzato da pretese onnicomprensive, ma

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segnato dal senso del limite e del mistero, che non rinuncia al sapere, ma ne scopre la costitutiva panialità rispetto al]'ecceden7.a dell'Altro, alla sua oltran7.a, elaborando un pensiero che fa di tale limite intrinseco, della consapevole= della propria finite= il suo paradossale punto di for7.a. È da tale consapevolezza che scaturisce la necessità dell'incontro con l'altro, in un dialogo non astratto, retorico o ideali=to, ma che aspira ad essere esperien7.a viva e concreta di com-partecipazione delle rispettive "porzioni" di verità. Il senso del limite ravvisabile nei pensatori presi in esame invita a riconsiderare anche il rapporto tra fede e ragione, tra filosofia e teologia, abbandonando il pregiudizio moderno e contemporaneo in base al quale esse seguono due strade destinate a non incontrarsi. Il pensiero ebraico, proprio a partire dal suo confronto con la complessità della modernità, non segue tale via: alla logica dell'aut-aut preferisce l'et-et, instilla la necessità del dialogo e dell'ascolto reciproco anche tra questi due ambiti del sapere, rispettandoli nella propria autonomia, ma facendo della comune ricerca di una verità "altra" il terreno di un possibile confronto. In tal senso i riferimenti all'esperien7.a religiosa, al dettato biblico e talmudico, alla preghiera e alla liturgia, non hanno una valew;i dogmatica, non esprimono la chiusura entro rigidi confini confessionali, ma intendono porre in risalto la componente altra del religioso, come punto di contatto e ponte verso il nuovo ed analogo cammino che la riflessione filosofica vuole intraprendere. Il nesso tra alterità filosofica e religiosa appare ancor più evidente se, tenendo presenti tali presupposti teoretici, si affronta, in tutta la sua problematicità, il versante etico della questione. La riflessione ebraica, proprio perché incalzata dall'attenzione per l'altro uomo che innerva la spiritualità semita, ha sempre presente il pericolo che il pensiero possa ridursi a mera astrazione e indifferen7..a, possa disincarnarsi e

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perdere il legame con l'umano, con il dovere di preoccuparsi per le sorti dei propri simili. L'interesse etico per l'altro, la chiamata alla responsabilità che mette fuori gioco ogni egoismo o chiusura identitaria è dunque l'obiettivo ultimo di ogni autentico pensiero dell'alterità, il suo banco di prova, perché soltanto nel rapporto orizzontale con l'altro uomo si può rendere testimoniar\7.a del rapporto verticale con l'Altro. Nel dire ciò non intendiamo far assurgere il pensiero e la religiosità ebraica a unico modello per lo sviluppo di un'etica dell'alterità, il che sarebbe non solo presuntuoso ma anche in profonda contraddizione con la legittima diffiden7.a dell' ebraismo stesso verso ogni forma di sapere assoluto, ma evidenziare come la possibile traccia, certamente non l'unica, offerta dal mondo ebraico per un pensiero dell'alterità sia stata da sempre interna all'Occidente, anche e soprattutto nei luoghi in cui il paradigma tradizionale per affermarsi e stabiliZ7.arsi ha misconosciuto, occultato, se non espressamente awersato tale errante radice, pur di non riconoscerla come "propria". Piuttosto che seguire la tradizionale contrapposizione AteneGerusalemme, Occidente-mondo ebraico, secondo un cliché ormai da superare, ci sembra decisamente più proficuo far emergere la ricchezza per il pensiero occidentale della componente altra dell'ebraismo, sia nell'incontro con il nascente cristianesimo attraverso la fìgura di Paolo, aprendo la strada al dialogo tra le due fedi, sia attraverso il riemergere di tale elemento nella modernità, come alternativa alla chiusura e alla solitudine etica e teoretica di una ragione che si pretende assoluta. Questa ricchezza non si esaurisce nella critica delle moderne e contemporanee fìlosolìe dell'Assoluto, ma si estende lìno al nostro tempo nel suo poter essere pungolo e monito contro il dilagare delle chiusure, degli egoismi e delle indifferenu, poiché, insistendo sulla centralità dell'impegno etico, sulla responsabilità per l'altro, antecedente ogni libertà e oltre ogni reciprocità, può rappresentare uno sprone verso

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la costruzione di rapporti autentici che ci facciano sentire non "monadi" isolate in balia degli eventi, ma individui che, proprio nella consapevolev.a di vivere tempi incerti e inquietanti, provino a Ti-scoprirsi se non "fratelli", almeno com-partecipi di un comune destino d'erranza.

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I Il tempo dell'inquietudine

1.1 Considerazioni preliminari Definire il nostro tempo come un'epoca di crisi e di profonda inquietudine appare quasi scontato, al limite del banale, ma troppo spesso se ne sottovaluta la portata, relegando tale consapevolezza soltanto ai destini economici nazionali e globali. L'innegabile deriva attuale coinvolge, tuttavia, anche altri aspetti dell'esistem:a umana che, solo in apparem:a, hanno un significato e un ruolo marginale rispetto al vacillare delle strutture economiche e delle visioni del mondo ad esse connesse. Venuta meno la speranza comunista, rivelatasi il pretesto per la costruzione di un sistema totalitario oppressivo, non sembra che il contraltare capitalista sia immune da crepe e cedimenti, accentuatisi e palesatisi proprio nei primi lustri del nuovo millennio. Ciò ci consegna uno scenario segnato inevitabilmente dall'incertezza per le sorti collettive e individuali ed espone al rischio di perdersi nel non senso dilagante, o di prestare ascolto alla nociva seduzione di verità distorte, infettate dal virus del fanatismo e dell'integralismo, da cui si alimenta quel conRitto generalizzato e permanente di valori che, purtroppo, caratterizza il nostro presente.

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Un oriz:1.onte a dir poco inquietante in cui, se da una parte sembra esserci poco spazio per le facili consolazioni; dall'altra sarebbe altrettanto deleterio e insensato cedere alla rassegnazione. Se è vero che, come recita un famoso distico di HHlderlin: «Dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva,,1, allora l'evidente inquietudine del nostro tempo potrebbe essere la paradossale molla per spingerci alla ricerca di nuovi paradigmi di verità e, soprattutto, di un nuovo modo di abitare la terra. Un nuovo ethos che accetti le derive, le viva fino in fondo, insistendo, individualmente e collettivamente, nel domandare, nel tenere aperta una domanda di senso, pur essendo consapevoli della difficoltà della risposta o delle risposte, su cui aleggia sempre il pericolo del non senso. Un esercizio esistenziale che, partendo dalla consapevole7.7..a della propria finitezza, faccia venir meno ad ogni legittimo abito veritativo la pretesa egemonica e la tendenza alla prevaricazione, per aprirsi ad altri modi possibili di essere nel mondo. Un atteggiamento di co-esisten7.a in cui si colga l'intima estraneità di chi è accanto a noi e la si accetti come segno riflesso di quell'altro che noi stessi siamo. Individui sempre in bilico, aperti ad ogni evento, al possibile, per la costituzione di nuovi orizzonti di senso. Tale paradossale inquietudine non può non caratterizzare anche la relazione religiosa, il rapporto con il divino soprattutto se, come cercheremo di evidenziare nel prosieguo del nostro percorso, lo si intende come segnato dall'oltranza dell'Altro, non può essere mai possesso sicuro, ma domanda che chiede ascolto, inquieta, perché mette in forse ogni certez:1..a ed ogni dubbio, collocandosi al di là della certezza e del dubbio. Da questa prospettiva abitare la terra vuol dire semplicemente stare accanto all'altro, senza annullare, con voracità inclusiva, differenze e alterità. Se si è consapevoli della non assolutezza

1. F. Holderlin, Patma, tr. it. di E. Mandrux.,ato in Le liriche, Adelphi, Milano 1993, p. 667.

25 della verità religiosa, perché si vive sempre la sua costitutiva alterità, il suo carattere di mistero, allora non c'è più spazio per qualsiasi forma di integralismo e fanatismo, poiché si avverte l'intima necessità dell'incontro e del dialogo con la verità dell'altro. Il reale interesse dell'incontro effettivo tra fedi risiede, dunque, nella possibilità di attraversare la parola propria ed altrui, per puntare a ciò che è Altro e in quanto tale è trasversale a tutte le verità di fede. L'obiettivo di questo nuovo ethos sarà, dunque, tratteggiare un paradigma veritativo in cui si possa non semplicemente tollerare l'altro da sé, ma lo si accolga come testimonianza viva dell'alterità del divino, della sua spiazzante oltran2:a. Da tale prospettiva, l'inquietudine e l'incertezza del nostro tempo non rappresentano soltanto un limite per le esistenze, ma potrebbero fungere da ponte verso l'altro, verso la necessità di accogliere la verità dell'altro, per essere accolti a propria volta, dismettendo ogni abito conflittuale, in quanto chi vive l'esperienza inquietante ed estraniante dell'Altro non potrà mai avan1.are la pretesa di avere una verità assoluta da opporre polemicamente alle altre, ma, sentendosi estraneo a se stesso, chiederà ospitalità all'altro nell'atto stesso di offrirla. Se si vuole ancora parlare, in modo non retorico, di una "civiltà del dialogo" ed iniziare ad operare seriamente per costruirla, occorre innanzitutto lasciare spazio alla parola e al pensiero dell'altro, non riducendolo ad un'eco del proprio, ma cercando di rendersi reciprocamente partecipi delle proprie esperienze di fìnite723, da cui nasce l'esigenza stessa dell'incontro. Ognuno avrà le proprie idee e le proprie verità, ma se esse scaturiscono dalla consapevolezza del limite, in quanto segnate intrinsecamente dall'alterità, cambieranno il senso stesso del dialogo. Nessun interlocutore sarà tentato di affermare la superiorità della propria verità, o, addirittura, del proprio Dio, ciascuno porterà nel rapporto orizzontale con l'altro la stessa inquietudine e incertezza esperita nel rapporto verticale con l'Altro.

26 Ciò, beninteso, non implica né una visione banalmente relativistica della verità, che annulli ogni differen7.a, scivolando nell'indifTeren7.a, né tantomeno l'abbandono ad un silenzio misticheggiante ed inconcludente, ma un profondo rispetto per il mistero racchiuso in ogni autentica esperienza di fede. Chi vive la propria religiosità come esercizio costante di finitezza ed incertezza rispetto ali'oltranza della Verità, non potrà sentirsi offeso e/o minacciato da quella altrui, ma le accoglierà come ulteriore testimonianza dell'intrinseca alterità del divino. Dunque se si riesce a ri-scoprire tale tratto essenziale dell'esperienza religiosa si può dare un senso diverso, propositivo all'inquietudine del nostro tempo, reinterpretandola come possibilità di costruire nuovi legami tra gli uomini che ci facciano sentire non più distanti, ma prossimi, se non addirittura "fratelli", perché accumunati da un medesimo destino in cui, pur non essendovi alcuna certezza, permane un universale desiderio di salvezza2.

1.2 L'analisi della 'Zambrano I tratti essenziali della crisi di valori che inquietano l'animo dell'uomo contemporaneo sembrano emergere, già alla fine della seconda guerra mondiale, nella lucida analisi della crisi

2. ln merito si rinvia alle lmplica:àoni etiche del ripensamento del cristianesimo nel pensiero di Vincenzo Vitiello (Cfr. V. Vitiello, Rlpensars il cristianesimo. De Europa , Ananke, Torino 2008, pp. 242-244, Id., Il Dic ,=sibìle. &sperienze di cristianesimo, Città Nuova, Roma 2002, pp. 27-29, ed anche Id., E pose la tenda in mezzo a noi... , AlboVersorio, Milano 2007, pp. 84-86) da cui prende le mosse anche il presente lavoro, confrontandosi spesso con le sue fruttuose intuizioni. Nel farlo, però, si è cercato, come sarà più chiaro nei prossimi capitoli, di approfondire maggiormente la radice ebraica del cristianesimo, come possibile via per riscoprire l'alterità del divino, andando anche oltre il dettato paolino, pur riconoscendone la centralità, per mostrarne la fecondità in alcuni luoghi decisivi del pensiero moderno.

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europea condotta da Maria Zambrano in L'agonia dell'Europa. Ciò che colpisce maggiormente di questo breve, ma denso testo è la capacità della fìlosofa spagnola di capire come la fase di ricostruzione post-bellica dovesse passare necessariamente e contestualmente attraverso un ripensamento dei valori e delle radici fondanti l'Europa. Necessità non molto distante, pur nell'inevitabile mutamento di contesto storico, dalle esigenze attuali. Ciò che ci interessa far emergere è dunque quanto le sue osservazioni sulla decadenza europea restinovalide e degne d'ascolto ancora oggi. La Zambrano mette innanzitutto in guardia contro l'abuso dello stesso termine decadell7,a, il quale rischia di cadere nel retorico, se non si arriva al nocciolo della questione, dando il giusto risalto ai "sintomi" della crisi europea. Il giudizio della 6losofa spagnola è netto ed inequivocabile: «l'Europa ha smesso di avere una sua faccia; indubbiamente si è guastata e la sua precedente fermezza ha ceduto il posto a un rammollimento. Senza dubbio, alcuni germi occulti nella radice stessa dei principi che la tenevano in vita hanno lentamente corroso questi ultimi»3 • Il volto dell'Europa, secondo la Zambrano, è stato deturpato dal trionfo del sordo rancore e dell'arrivismo, rivelando la duplice natura dell'uomo europeo decadente: da una parte un'aggressività tremenda e crescente; dall'altra un passivo e fatalistico abbandonarsi agli eventi che toglie tante energie, come in una lotta materiale e barbara•. Tutto ciò non può che generare una paura diffusa, la quale paralizza il meglio dell'uomo europeo, per cui: «smascherare i mostri che ci assalgono è l'unico modo di rendere il mondo nobile e abitabile»5 •

3. M. Zambrano, L'agonia dell'Europa, tr. it. di C. Razza, Marsilio, Yene-.àa 1999, p. 12. 4. lvi, pp. 14-15.

5. Ivi, p. 19.

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La franchezza analitica della Zambrano è mossa dunque dalla volontà di riscoprire l'essen7..a dello spirito europeo, quel quid irrinunciabile che ha dato vigore ed unità al vecchio continente. A patto che si comprenda come tale unità non sia sinonimo di univocità, poiché si è costituita a partire da: «quella ricca diversità, cosi ampia e tollerante da comprendere la contraddi:zione»6 • Proprio nell'emergere delle contraddi:zioni risiede, per la Zambrano, la paradossale fecondità del suo tempo (e, di riflesso, anche del nostro), in cui l'essere rimasti senza appigli dà il vantaggio di awertire in profondità le diversità, ricercando, anche inconsapevolmente, una possibile concordanza con dolorosa lucidità7. Tale consapevolezza spinge la Zambrano a decretare non la morte dell'Europa, bensì la sua agonia, poiché nei sintomi inequivocabili della sua decaden7..a si cela ancora la possibilità della "resurre:zione,,s. La filosofa spagnola, guidata da questo sottile fìlamento di speranza, continua dunque lo scavo nell'inquietudine dell'uomo europeo, facendola risalire all'origine semita della sua spiritualità, leggendo nella fìgura di Giobbe il lamento dell'uomo che, una volta cacciato dal Paradiso, non accetta la propria natura fìnita e sofferente e ne chiede addirittura ragione a Dio0 • Giobbe diviene per la Zambrano il simbolo di quell'angoscia che caratteri7.7..a la storia dell'uomo, non solo europeo, il quale non si rassegna dinnan.7..i alle iniquità della vita, nonostante proprio nel suo farsi storia l'esisten7..a stessa diventi motivo di angoscia, generando frustra:zioni e dispera:zione nell'uomo, se intende farsi un mondo del suo nulla.

6. lvi, p. 22. 7. Ivi, p. 23.

8. lvi, p. 30. 9 . lvi, p. 45. Cooì la Zambranointerpreta alcuni passi decisivi di Giobbe (cfr. Gb,13,3; 9,32; 14,3 e 7,7).

29 In tale scenario l'aiuto decisivo giunge all'uomo europeo (ma è ormai evidente che il discorso può essere esteso all'uomo in generale) dal suo cristianesimo: «poiché per il cristiano il mondo non sarà mai una decorazione, il velo di Maja, ma il luogo dove si decide la sua perdizione o la sua salvezza. La sua vita è vicissitudine, rischio, ventura, peripezia. Essere cristiano significa anche non rassegnarsi, afferrarsi alla speranza nell'impossibile» 10• Già da tale caratterizzazione del cristianesimo è palese come la Zambrano veda in esso la radice storica da riscoprire, in quanto risposta conciliante a due tipi di inquietudine: da una parte il crollo della ragione greca e delle speranze di salvezza affidate alla filosofia; dall'altra la disperazione ebraica di Giobbe che, come detto in precedell7.a, chiede ragione delle proprie sofferenze e della propria finitezza 11 • Il nesso storico-concettuale messo in luce dalla Zambrano è senza dubbio interessante, poiché fa emergere la novità rappresentata dal cristianesimo sia rispetto al mondo greco che a quello ebraico, ma i due versanti della questione meritano di essere sviscerati meglio, anche per far notare quanto quest'idea conciliante del cristianesimo rischi di semplificare troppo, se non addirittura di annullare, quella componente di alterità insita nella sua verità su cui stiamo insistendo sin dall'inizio del nostro percorso. La testimonianza più celebre dell'innesto tra la cultura greca e il nascente cristianesimo è indubbiamente il discorso di Paolo nell'Areopago di Atene, riportato dagli Atti degù Apostoli12 • Ai fini del nostro discorso, più dell'innegabile forza carismatica delle sue parole, è utile far emergere il contesto in cui furono pronunciate. La città piena di idoli che faceva fremere l'animo

10. M,p. 46. 11. lvi,pp. 60-61. 12. Cfr. At. 17,22-32.

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dell'Apostolo (At. 17,16) non era più il centro spirituale del mondo, spostatosi ormai verso Roma, e ciò si ri1letteva inevitabilmente anche sulla marginalità assunta in quel determinato momento storico dalla ragione 61osolìca, non più capace di pensieri vigorosi ed originali, ma ridotta a interpretazione ed erudizione. Tuttavia, in ossequio all'idea della Zambrano secondo cui è nei tempi di agonia che si può e si deve risalire alle radici, ci sembra opportuno ripercorrere, seppur brevemente, le tappe fondamentali della nascita e dello sviluppo della ragione greca per comprendere meglio come essa si presenti a1 confronto con il cristianesimo13• La cultura da cui ha avuto origine la 61osolìa aveva due principali luoghi di incontro e riconoscimento collettivo: l'agorà, come spazio di confronto dialettico e ri1lessione lìnaliz:1.ata a darsi leggi, e il teatro, come momento di catarsi spirituale. Platone lo comprende fino in fondo e cerca di fondere le due anime dello spirito greco, teatraliz:1.ando la 61osolìa attraverso il dialogo, ma tenendo ben ferma l'idea che essa debba interrogarsi seriamente sulle condizioni di possibilità della vita buona (eu-zen), dal punto di vista sia etico che politico. Nell'avanzare tale pretesa Platone deve fare i conti con i sofisti, i quali insegnano a rendere forte il discorso debole sulla base delle sole abilità retoriche e quindi rischiano di confondersi con la superiore istan7.a veritativa espressa da] "suo» Socrate. Egli mette in scena aspri confronti dialettici tra il suo maestro e i sofisti, proprio per marcare la di!Teren,:a tra sé e questi ul-

13. Nel farlo seguiremo in maniera sintetica il percorso concettuale traociato da Vitiello in Paolo e l'Europa: Incontro tra messaggio evangelico e filosofia in G. R05Sè, V. Vitiello, Paolo e l'Europa. Cristianesimo e filosofia, Città Nuova, Roma 2014, pp. 156-176, che funge da necessaria premessa introduttiva alla sua reintetpreta:àone di Paolo ed è utile al nostro discorso per affrontare il problema della crisi della ragione filosofica greca al momento del suo confronto con li cristianesimo, in modo piò esplicito e puntuale di quanto faccia la Zambrano nel testo seguito.

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timi, insistendo sul fatto che il filosofo non fondi il suo sapere né sulla for.za della retorica, né tantomeno sull'ascolto e sulla ripetizione di un'istan7,a superiore di origine divina, come nel caso degli antichi soplwi. Il filosofo fonda il suo sapere sulla ragione comune a tutti gli uomini e sulla sua capacità di rendere ragione di sé, orientando le azioni e, allo stesso tempo, la conoscenza a principi immutabili ed intersoggettivi al di sopra degli interessi individuali. Insistendo sulla natura meta-soggettiva ed auto-fondativa della ragione, Platone avan7.a la pretesa di una istituzione fìlosolìca della polis che è il tema centrale della Repubblica. Se l'obiettivo è garantire la vita buona a tutti i cittadini, chi governa dovrà saper tenere a freno il lato prevaricante della natura umana (Repubblica 349b e ss.), ancorando le legittime istanze di giustizia ed equità sociale alla conoscenza razionale dell'idea del bene (505a e ss.). Per descrivere l'universalità auto-fondante dell'agathòn e della stessa ragione, Platone ricorre ad una similitudine molto efficace: come il sole illumina e dà vita, permettendo attraverso la luce di distinguere i colori e quindi rendendo possibile la visione, cosi l'idea del bene fa essere tutte le cose, è viva in esse, ma è anche oltre esse (508b e ss.). Ed è proprio in virtù della sua capacità di attingere alla luce solare attraverso le sue conoscenze che il lìlosofo deve essere guida della città. Al di là dei risvolti di tali idee nel pensiero politico di Platone, ci interessa rilevare come la città ideale si regga su una ragione che fa circolo con se stessa•◄• La circolarità auto-fondativa della ragione espone, tuttavia, la lìlosolìa ad un rischio: se essa tende a tornare sempre a se stessa, che ne è della sua natura plurale e costitutivamente dialogica? Lo stesso Platone, che si è affidato magistralmente alla forma letteraria del dialogo lìlosolìco, sembra ridurla ad 14. G. Rossè, V. Vitiello, Paolo e l'Europa. Cristianesimo ejilosofia,cit., pp. 163-171.

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una funzione fittizia, ad un mero rivestimento stilistico. Negli stessi dialoghi "socratici" la superiorità del maestro è talmente marcata da ridurre il celebre "so di non sapere" ad artifìcio retorico. Ciò è ancora più evidente nei dialoghi della maturità platonica, in cui Socrate perde la predominanza avuta in precedenza, non per puro estro letterario, ma quasi a voler suggerire, anche nelle scelte dei personaggi, il fatto che la vera protagonista è ormai la ragione universale nella sua circolarità, per cui gli interpreti possono variare liberamente15• Non è un caso che Aristotele abbandoni del tutto la forma dialogica e proweda a radicaliz7.are, ancor di più del suo maestro, la chiusura della ragione in se stessa. Se in Platone rimane ancora una differenza tra verità e ragione, esplicata al meglio dalla distinzione tra il sole e la luce richiamata in precedenza, in Aristotele esse finiscono per immedesimarsi. La ragione aristotelica snatura dunque il senso stessa della ricerca filosofica, poiché essa anela ad un sapere auto-fondativo edauto-referenziale che non ha bisogno d'altro se non di se medesimo. Ciò risulta ancora più evidente, secondo Vitiello, dal modo in cui lo Stagirita caratteri:z7.a Dio nel Libro XII della Metafisica (1074b 34), definendolo "pensiero di pensiero". Il Dio di Aristotele appare dunque come la sublimazione delle facoltà razionali dell'uomo e del suo desiderio di perfezione spinto all'estremo. In esso si nasconde un atto di profonda superbia, in cui, scal7.ando proprio la componente "altra" del divino su cui insisteremo, si pretende di pareggiare l'uomo a Dio 16• Tale

15. Ivi, pp. 171-174. 16. lvi, pp. 174-175. Per esigenze di sintesi espositiva abbiamo evitato di affrontare i problemi della chiusura in sé della ragione aristotelica e le conseguenti implicazioni logico-linguistiche, legate alla posizione del principio di non contraddl:àone. Lo stesso Vìtiello, nel testo che stiamo seguendo, accenna soltanto la questione (cfr. lvi, pp. 175-177), ma va detto che la critica a tale principio e alla logica aristotelica in generale, per cercare una logica del possibile che si sfor.d di pensare la potenza non necessitandola all'atto,

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tracotanza, nata dalla fiducia assoluta e incondizionata nella ragione umana, deve fare tuttavia i conti con il fatto che sotto il suo dominio e i suoi rigidi principi ricade e può ricadere soltanto tutto ciò che è definito, determinato, invece le sfugge e continuerà sempre a sfuggirle l'infinito, l'indeterminato, il quale rappresenta il limite della stessa ragione, in quanto è oltre ogni determinatezza e finitudine; è al di là dell'essere e di ogni tentativo di appropriazione compiuto dagli slanci prometeici del pensiero umano. È l'Altro, annunciato da Paolo nell'Areopago come Dio ignoto, che è, paradossalmente, allo stesso tempo: «il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell'uomo né dalle mani dell'uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualcosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa,,17• Proprio la consapevolezza della radice altra del divino, che mette fuori gioco la ragione fìlosofica, ci spinge a ritornare sull'altro versante dell'innesto del cristianesimo in Europa presentato dalla Zambrano, ovvero il suo porsi come conciliazione e superamento della disperazione ebraica esemplificata da Giobbe. Su questo punto l'analisi della fìlosofa spagnola ci appare troppo semplificativa. Ella, nel tentativo di porre in risalto la forza conciliante e consolante del cristianesimo, non riconosce in Giobbe una figura paradigmatica dell'inquietudine, ben lontana dall'essere radicale disperazione, insita nella fede ebraica, in virtù della quale egli osa lamentarsi con Dio,

anche attraverso il serrato confronto con Heidegger su questi temi, investe una parte consistente del suo pensiero onta-teologico. Si veda Id. Topok>gia del moderno, Marietti, Genova 1992, pp. 112-122. Id., La voce riflessa. Logica ede&a della contraddidone, Lanfranchi, Milano 1994, pp. 131-146 ed anche Id., Non dividere il sì dal no. Tro filosofia e letteratura, Latera, Roma-Bari 1996, pp. 38-43. 17. At. 17,24-25.

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se= tuttavia desistere dal confidare in lui. Martin Buber, voce cui presteremo ascolto in modo piil approfondito nel prossimo capitolo, nel mettere in risalto la radice altra della religiosità ebraica, fa notare che: «Giobbe lotta contro la lontananza di Dio, contro quel Dio che infuria e tace, infuria e si nasconde, cioè contro quel Dio che è mutato per lui in una pote= inquietante»18• Egli vive dunque fino in fondo la paradossalità del suo Dio presente, ma nascosto e inquietante, anzi potremmo dire, presente proprio nella sua assenza e nell'inquietudine che genera. Il rapporto di prossimità ebraica con il divino vive, dunque, anche di possibili lontananze. È una fede segnata dall' oltranza del Mistero. La lotta di Giobbe con Dio non è dunque animata dalla disperazione, ma dalla tenacia della fede che sa resistere alle prove, tenere duro nella fiduciosa attesa che l'Eterno si manifesti, fosse anche come assenza o come radicalmente Altro. Ciò rappresenta un tratto caratteristico della fede ebraica in cui la fiducia in Dio è sempre segnata dall'inquietudine e da un senso di intima estraneità. È palese sin dalle origini nella stessa chiamata di Abramo, quando il Signore gli dice: «vattene dal tuo paese dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione» 10• In queste parole è già racchiuso il destino del popolo ebraico e la paradossalità del suo rapporto con Dio. La natura migratoria e nomade dell'ebreo inaugurata dal suo primo Patriarca va letta, infatti, come aspetto essenziale della sua spiritualità, sempre in bilico tra la profonda intimità con il divino, che a tratti rasenta la gelosia, e la possibilità di avvertire la nostalgia per la sua asseni.a, se non, addirittura, la possibilità dell'abbandono. Un Dio "possessivo"

18. M. Buber, LA fede dei

p.189. 19. Gen. 12,1-2.

profeti, tr. it. di A. l'orna, Marietti, Genova 2000,

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nel suo non essere mai possesso sicuro e, allo stesso tempo, fedele nel suo non rompere mai l'allean:za e la predilezione per il popolo d'Israele. A tale paradosso non può che conispondere una fede che è innanzitutto fiducia incondizionata nel divino e nella sua volontà, la stessa che non vacilla in Abramo, neanche quando Dio gli chiede di sacrificare il figlio che lui stesso gli aveva donato00 • L'autenticità della fede di Abramo, pur nell'assurdità imponderabile del comando divino, è il contraltare e il retroterra della lotta di Giobbe, di entrambi si può cogliere la valen:za paradigmatica solo se si comprende il fatto che i loro atteggiamenti si inseriscono in un dialogo continuo con Dio, come avviene tra due partner, basato su una fiducia tale che l'uomo, pur mantenendo la propria libertà, riconosce la sovranità di Dio sulla propria vita e gli mostra fedeltà anche e soprattutto nelle prove e nelle tribolazioni. È chiaro dunque quale sia il limite della Zarnbrano: l'interpretare come disperazione la costitutiva inquietudine della religiosità ebraica, filo conduttore del nostro percorso. Qui è utile tuttavia far notare altresì che, in questo paradossale gioco di ribaltamenti ed accostamenti prospettici, la stessa incertezza ebraica sembra riaffiorare in alcuni luoghi decisivi de L'agonia d'Europa, laddove la Zarnbrano sembra presentare la conciliazione operata dalla speran:za cristiana non come un dato di fatto storicamente acquisito, ma come un qualcosa ancora a venire, qualcosa da ricercare chiedendosi: «Ciò che ha realizzato l'Europa nella sua religione, è stato il Cristianesimo? La verità è che basta sentirsi cristiano in un grado minimo per presen-

20. V. Vitiello in Ripensare il cristianesimo. De Europa, cit., pp. 20-21, fa emergere la paradossalità della fede di Abramo, confrontandosi con l'interpretazione kierkegaardiana del sacrificio di lsaooo e fa notare opportunamente che il filosofo danese coglie l'inquietudine insita nella fe,42 , per cui è dovere degli spiriti liberi ripristinare la contrapposizione più grande che esista: tra valori nobili e valori cristiani43 • Egli chiosa il tutto con toni ancora più sprezzanti nella condanna senza appelli con cui si chiude L'Anticristo: «definisco il cristianesimo l'unica grande maledizione, l'unica grande e più intima depravazione, l'unico grande istinto della vendetta per il quale nessun mezzo è abbastan7.a velenoso, furtivo sotterraneo, meschino, lo definisco l'unica immortale macchia di infamia dell'umanità»44 •

39.lvi, §6-7,pp. 7-9. 40. lvi, §8-9, pp. 9-11. Nietzsche approfondisce questo tema nella I Dissertazione della Genealogia (cfr. Id., Genealogia della morale, tr. it. di F. Masini, Adclphi, Milano 1968, pp. 13-44). 41. lvi, §13, p.15. 42. Ivi, §37, p. 48. 43. Ibidem.

44. lvi, §62, pp. 96-97.

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Il breve excursus sui luoghi di maggior attrito della lotta niettschiana contro il cristianesimo (utile a tenere vivo il "pathos della distan7.a" tra i due sistemi di valori, evitando in tal modo di assottigliare, se non annullare le differenze), ci può consentire ora di occuparci, con l'opportuno retroterra concettuale, di come il fìlosofo tedesco colga lo sviluppo del nesso tra ebraismo e cristianesimo, asse portante del nostro discorso. Occorre, tuttavia, far subito notare come il rapporto tra il cristianesimo e la sua radice ebraica abbia in Niet7.Sche un senso eminentemente negativo, perché inserito nel più ampio contesto di critica dei valori della décadence cui abbiamo accennato. Egli si interessa infatti del rapporto tra i due monoteismi con l'intento di problematiz7.are criticamente l'origine del cristianesimo e lo fa seguendo due direttrici che poi finiscono per intrecciarsi proprio nella figura di Paolo: da una parte insiste sul fatto che la comprensione del cristianesimo passa necessariamente per il suo retroterra ebraico, di cui è il corollario in un rapporto di sostanziale continuità; dall'altra ne fa emergere l'originalità, sempre secondo un'accezione negativa, come degenerazione del "tipo galileo". Nel perseguire questa seconda tesi Niet7.Sche sottolinea, in maniera sorprendente, la specificità d'Israele definendolo il popolo più notevole della storia, in quanto ha scelto l'essere, l'autoconservazione ad ogni costo, avviando con inquietante consapevolezza un processo di falsificazione della propria natura, pur di far resistere storicamente i propri valori. La tenacissima forza vitale che anima il popolo ebraico è, per Niet7.Sche, un valore positivo che, almeno originariamente, non lo fa essere dominato dagli istinti della décadence. Gli ebrei, pur essendo l'opposto dei decadenti, hanno accettato e accentuato, con mirabile genio d'attore, la decadenza come mezzo per avere la meglio sul mondo, per auto-conservarsi-15. Di tale astuzia ne fece le spese 45. lvi, §24, pp. 28-30.

44 lo stesso Dio, il quale smise di rappresentare: «la fona di un popolo, tutta l'aggressività e la sete di potell7.a dell'anima di un popolo» 46 , per divenire uno strumento di potere nelle mani della casta sacerdotale, la quale ben presto fu in grado di manipolare a suo piacimento il "popolo eletto", in virtù del loro rapporto privilegiato con Dio, del quale potevano interpretare la volontà, manifesta attraverso premi, castighi, benevolenza o ira47 • Tuttavia, secondo NietT~che, proprio la costituzione di un forte potere sacerdotale risultò fatale al popolo ebraico, poiché nella figura di Gesù egli legge l'ulteriore ed ultimo contraccolpo storico dell'istinto di conservazione ebraico, capace di incarnarsi in un piccolo moto di ribellione contro Io strapotere della "chiesa ebraica", la quale reagì con la condanna alla crocefissione411•

La morte in croce di Gesù segna, per Nietzsche, la fine della sua dottrina morale e l'inizio di un altro Vangelo. Una volta compiuto l'atroce delitto, arrivò infatti il momento della vendetta perpetrata dai seguaci di Gesù ai danni dell'ebraismo dominante: «la loro vendetta fu di innal1.are Gesù in una maniera aberrante, di distaccarlo da loro: proprio allo stesso modo con cui gli Ebrei per vendicarsi dei loro nemici, avevano separato da sé il loro Dio e Io avevano portato in alto»49• Nel processo dell'innalzamento di Gesù a Dio, Paolo svolge un ruolo fondamentale. Egli, insistendo sulla resurrezione, fa della morte di Gesù e della vita di tutti coloro che credono in lui un passaggio verso uno stato successivo e ulteriore di beatitudine e premio, trasforma dunque le sofferenze di Gesù in una dottrina di

46. lvi, §16, p. 19. 47. lvi, §25-26, pp. 30-35. 48. lvi, §27, pp. 35-36. 49. lvi, §4-0, pp.53-54.

45 redenzione per l'uomo50• Niet7.Sche mostra qui di non essere interessato tanto alla critica dei dogmi cristiani, quanto a evidenziare il"genio teologico" di Paolo, l'acutezza del suo istinto sacerdotale, ultimo riflesso e metamorfosi di quello ebraico. Tale continuità ha, per Niet7.Sche, un senso perverso e ingannevole, in quanto non nasce dal riconoscimento del debito nei confronti dell'ebraismo, ma dalla volontà del nascente cristianesimo di farsi una storia propria, anzi storia in senso eminente, riducendo tutto ciò che l'aveva preceduto a sua preistoria. L'origine del mutamento di senso è, ancora una volta, Paolo il quale: «cancellò, né più né meno, lo ieri, l'avanti ieri del cristianesimo, inventò per sé una storia del primo cristianesimo. E più ancora falsificò di nuovo la storia di Israele, affinché apparisse come la preistoria della sua azione: tutti i profeti hanno parlato del suo redentore»~• e dopo di lui: «la Chiesa falsificò persino la storia dell'umanità facendone la preistoria del cristianesimo»52• In tal modo i cristiani: «riooltarono i ool,e.. ri in direzione di se stessi, come se soltanto il cristiano fosse il senso, il sale e anche il giudizio finale di tutto il resto»53• Niet7.Sche dunque, pur nella forte contrapposizione a Paolo, sembra riconoscergli, come si è detto all'inizio, una certa grandez:1.a proprio nel suo essere, in qualità di primo pretecristiano, un criterio di vaJon-S. e, sebbene sottolinei più volte quanto sia animato da uno spirito di vendetta e di risentimento antitetico al suo, legge dietro la dottrina, i concetti e i simboli creati dall'Apostolo, un bisogno di potenza, un desiderio

50. Ibidem. 51. lvi, §42, p. 55. Corsivo mio 52. Ibidem. Corsivo mio. 53. lvi, §44, p. 60. Corsivo mio.

54. lvi, §66, p. 65.

46 sacerdotale di pervenire alla pote117.a:sis, che non sembra molto distante dalla volontà di potel17.a sottesa a tutto il pensiero del filosofo tedesco. Il passaggio attraverso la lotta di Nietzsche contro Paolo, nella paradossale commistione di affinità e divergenze, potrebbe essere utile al nostro percorso per comprendere meglio le lotte esteriori ed interiori che agitano l'animo dell'Apostolo nella posizione dei "nuovi" valori cristiani, anche e soprattutto in virtù del retroterra culturale ebraico in cui si vanno a situare e radicare. Nell'occuparsi del nesso storico-concettuale tra ebraismo e cristianesimo, infatti, ci si trova di fronte, come aveva capito Nietzsche, a due possibili strade interpretative, di continuità o di rottura, che non si escludono a vicenda, anzi, come avremo modo di capire meglio più avanti, si intrecciano proprio nella figura di Paolo e nel suo compito di fondazione delle prime comunità cristiane, a prescindere dal fatto che si interpreti la sua opera e la sua predicazione in continuità o meno col messaggio di Cristo. La novità e l'universalità stessa di tale messaggio portarono Paolo a doversi confrontare inevitabilmente con la propria radice ebraica, instillando in lui la consapevolezza di dover affrontare il problema della fondazione di un nuovo popolo di Dio, differenziandosi allo stesso tempo dal "vecchio" popolo, cioè quello a cui lui stesso apparteneva per nascita, cultura e tradizione56• Seda un lato sembra troppo az:;,.ardato affermare che «Paolo si propone come candidato al superamento di Mosè»57, il che potrebbe far pensare ad un rinnegamento totale della matrice ebraica, dall'altro non si può negare che la novità stessa del cristianesimo, per emergere nella propria specificità, deve necessariamente marcare

55. lvi, i42. p. 56. 56. J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., p. 21. 57. I vi, p. 80.

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una distanza dal contesto ebraico in cui è sorta. Essa sembra accentuata dallo stesso Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi, quando differenzia l'atteggiamento di fede ebraico da quello cristiano dicendo: «non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto [ ... ]; quel medesimo velo rimane, non rimosso, alla lettura dell'Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino a oggi, quando si legge Mosè, un velo è esteso sul loro cuore: ma quando ci sarà l.a conversione al, Signore quel velo sarà tolto»58• La consapevole12a dell'unicità del compito paolino, segnato sempre dal "pathos della distanza", non implica, tuttavia, necessariamente, come vuole Taubes, fortemente influenzato dalla lettura storica niettschiana, una trasfigurazione e un superamento in toto del popolo ebraico e dei suoi valori, per farli ricadere in un passato dai contorni indelìniti5l>, ma, come ogni superamento, conserva, anche inconsapevolmente, elementi sostanziali della propria originaria matrice ebraica. Ecco perché nell'accostarci alla visione storico-escatologica di Paolo cercheremo di fare emergere come la posizione di valori da lui operata sia, allo stesso tempo, carica di quella tipica inquietudine ebraica, notata dallo stesso Niettsche, la quale, dalla nostra prospettiva, può essere non solo il fulcro per la scoperta di un "altro" Paolo, letto non solo in chiave storica o teologico-politica, ma oltre Paolo stesso, per aprirci ad una religiosità "altra", non chiusa in se stessa e prevaricante, sondata attraversoil riemergere dell'alterità ebraica in alcuni luoghi paradigmatici del pensiero moderno.

58. 2 Cor. 3,13-16. Corsivo mio. 59.

J. Taubes, La teologia politica cli San Paolo, cit., p. 83.

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II Paolo tra vecchie e nuove Tavole

2.1 Il Poow storico-escatowgico di Bultmann Nell'occuparsi di Paolo ci si trova di fronte ad una serie sterminata di possibili interpretazioni, a conferma della sua centralità nella storia del cristianesimo e della produttività del suo pensiero, miniera inesauribile di suggestioni e inevitabile punto di confronto per chiunque voglia comprendere le radici dell'Europa e dell'Occidente. Nel nostro caso ci interessa indagare come il cristianesimo, già agli albori, proprio attraverso la predicazione paolina, si sia fatto storia, innestandosi con la cultura greca e il contesto ebraico d'origine, mantenendo, allo stesso tempo, tutta la sua portata escatologica, essendo altresì una dottrina oltremondana inerente le cose ultime e il destino dell'uomo, il quale subisce inevitabilmente un mutamento di senso con l'awento, che è anche evento, del Cristo e con il valore universale del suo annuncio salvifico. È proprio con l'intenzione di fare emergere il nesso paradossale tra il farsi storia del nascente cristianesimo e il suo insistere sulla novità del messaggio escatologico che ci rivolgiamo all'interpretazione del teologo luterano Rudolf Bultmann, per verificare quanto possa esserci d'aiuto non solo per comprendere il nesso storico-escatologico nel pensiero paolino, ma anche il suo poter es-

50 sere pungolo verso la ricerca di un "altro" Paolo, anche oltre le interpretazioni storiche ed escatologiche rivelandone, proprio nella acutezza ermeneutica, al contempo, i limiti e gli ostacoli da superare per riscoprire l'alterità insita sia nella fede ebraica che in quella cristiana.

La necessità di tenere insieme l'aspetto storico e quello escatologico del pensiero di Paolo, secondo Bultmann, è giustifìcata dal fatto che il compito preminente della sua predicazione è fondare comunità, dare forma a una nuova Chiesa. È interessante rilevare come il teologo luterano trovi l'origine di tale esigen7.a nell'appartenen7.a di Paolo alla tradizione ebraica, sottolineando come è dal concetto di qiihlil, e non da quello greco di ekkksìa, che Paolo tragga la sua idea di comunità cultuale storicamente ed escatologicamente determinata. I due aspetti trovano la loro sintesi migliore nella metafora del corpo (1 Cor. 12,12-30), utilizzata per esemplifìcare il senso della nuova Chiesa cristiana. Essa va intesa non solo nel semplice signifìcato di organismo composto dalla diversità delle parti, ma anche e soprattutto come unità, pur nelle differenze, garantita dall'appartenen7.a a Cristo. Ciò signifìca che a costituire la comunità è l'evento rappresentato da Cristo stesso, situato prima della comunità medesima e reso visibile dal sacramento del battesimo'. L'ecclesiologia paolina affonda dunque le sue radici in una netta visione antropologica: la Chiesa può essere comunità empirica visibile di coloro che credono nel messaggio di Cristo, perché costituita da singoli uomini non isolati, ma posti sempre, a priori, in un contesto storico dal quale giunge "l'adesso" e da cui sono inevitabilmente determinati. La preminen7.a del compito fondativo in Paolo è confermato, per Bultmann, dal modo in cui egli qualifica il

e comprendere. Raccolta ds artlcoll, tr. it. di L. Tosti, A. Ri:cà, C. Benincasa, Queriniana, Brescia 1917, pp. 117-180. 1. R. Bultmann, Credere

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kerygma cristiano: «è una parola che ha potere, che è efficace. L'esser pronunciata è essenziale per questa parola: viene annunciata e deve essere ascoltata. È direttiva, che va seguita; ordine, che va osservato»2, a patto che si tenga sempre presente la distinzione tra profezia e glossolalia, nonché la preminenza data dall'Apostolo alla prima sulla seconda3• Nella parola predicata, infatti, continua a compiersi l'evento di Cristo, si attualizzano la sua morte e resurrezione, a cui il credente può prendere parte mediante la fede e vedere in esse un nuovo inizio. Nell'annuncio cristiano la parola si fa possibilità di vita, introdotta, legittimata e autori=ta dall'evento Gesù, come possibile apertura ed interpellazione ad una nuova esistenza storica nella fede, sia sul piano individuale che collettivo, rappresentando lafine del vecchio eone e l'inizio del nuovo•. Il carattere stesso di novità insito nel kerygma pone Paolo di fronte al problema di doversi confrontare con la propria tradizione di appartenenza e con la promessa salvifica in essa racchiusa. Tale confronto, non privo di inquietudine, passa innanzitutto per il ripensamento del concetto di alleanza. Esso è centrale in tutta la storia di Israele e capitale nell'Antico Testamento: indica il rapporto privilegiato tra Dio e il suo popolo fondato sulla fedeltà reciproca. La validità dell'alleanza dipende infatti dall'obbedienza del popolo, non da intendersi, tuttavia, come fedele adorazione cultuale, ma come osservanza morale delle sue leggi. Paolo, secondo Bultmann, è mosso dall' esigen7..a di dare al messaggio cristiano una portata universale e di accentuare la valenza escatologica del concetto di alleanza, non volendolo relegare soltanto a determinate esigen7,e e contingen7.e storiche, poiché: «come evento fondatore, la

2. lvi, p. 299. 3. lvi, pp. 300-301. Cfr. 1 Cor. 14,2-5. 4. Ivi, pp. 311-312.

52 morte di Cristo non appartiene alla storia del popolo, come è invece per l'evento del Sinai»5 • La contrapposizione paolina tra vecchia e nuova allean:za è dunque opposizione tra lettera e spirito (2 Cor. 6,7-18) e il suo carattere duraturo è garantito dall'azione dello Spirito che la rende, a differen:za dell'antica, non visibile nel mondo e non partecipata ad un solo popolo in quanto tale. Essa è una figura radicalmente escalowgica e l'appartenen:za ad essa demondanizza a tal punto i membri dell'allean:za da rendere superflua la circoncisione come suo segno visibile6. Nel dire ciò bisogna tuttavia tener presente, andando anche oltre la linearità del dettato di Bultmann, l'inquietudine sottesa a tale compito, un aspetto che Taubes, da ebreo, coglie perfettamente, sottolineando come la posizione della contrapposizione è un atto carico di dolore, perché la fondazione di un nuovo popolo di Dio implica, inevitabilmente, non solo uno "strappo" con Israele, ma anche la consapevoleZ7..a drammatica che la nuova allean:za annulla la vecchia, rimettendo in discussione l'idea di popolo eletto e il rapporto di fedeltà con Dio che ad essa erano sottesi7. Paolo è dunque inquietato dalla vecchia allean:za, dall'interrogativo di come sia possibile sciogliere Dio da un giuramento, anche se è in vista di un nuovo patto. Il problema non è di poco conto: implica l'ammissione che la parola di Dio possa fallire, che le sue promesse cadano nel vuoto, vengano meno; il che è inconcepibile per un ebreo, la cui esistenza quotidiana è fondata sulla fedeltà di Dio e della sua parola8. Per Bultmann il problema della legge rinvia altresl alle affinità tra le parole di Gesù e la predicazione di Paolo, fondata

5. lvi, p. 531. 6. lvi, p. 532. 7. J. Taubes, La teologia politica dJ San Paolo, cit. pp. ~ l . C&. Rm. 9,1--4. 8. Ivi, pp. 92-93.

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sull'appartenew.a di entrambi alla tradizione ebraica, anche laddove se ne distanziano. Per entrambi infatti la fedeltà alla legge mosaica apre a dei problemi: ciò non significa una condanna in toto della legge, ma un insistere sulla necessità di interpretarla. La polemica di Gesù contro i farisei (Mt. 5,2148) è la riprova che egli contesti la riduzione della legge a diritto, ad insieme di prescrizioni da adempiere, connotandola soprattutto in senso prestazionale e obliando il suo carattere di espressione della volontà di Dio che esige, invece, un'obbedienza radicale, priva di alcuna pretesa9• La libertà dalla legge annunciata da Gesù non è dunque una pretesa di abolizione, anzi la sua validità risiede nel fatto che essa è espressione dell'unico comandamento dell'amore per Dio e per il prossimo (Mc. 12,29-31). Il passo compiuto da Paolo oltre Gesù riguarda il nesso tra la legge e il peccato, a patto che non lo si intenda semplicemente come un necessitare la prima in funzione del secondo, dietro cui si nasconderebbe, secondo Bultmann, un peccato ancora maggiore: la pretesa di piegare le intenzioni divine alla logica umana. Il teologo è dunque perentorio nell'affermare che non è la legge o la sua osservanza ali'origine del peccato, bensì la tenden7.a umana a gloriarsi davanti a Dio per la fedeltà alla legge stessa, confidando sulla propria volontà sem.a rimetterla a quella divina 10• Tutto ciò affonda le sue radici nella polemica di Gesù richiamata pocanzi e basata sulla contrapposizione tra autentica volontà di Dio e diritto, per cui, attraverso un ribaltamento di prospettiva, Bultmann può chiosare dicendo: «esattamente come Paolo, anche se non con la stessa temati7.7.azione teologica, Gesù afferma che la legge non è affatto volontà di Dio in quel modo in cui l'uomo vuole incontrarla, in cui, secondo l'interpretazione

9. R. Bultmann, Creden, e comprendere. Racccùa di articoli, cit. pp. 206209. Cfr. Le. 17,7-10; Mt. 20,1-15. 10. lvi,pp. 210-211.

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degli scribi, viene concepita come un codice che esige l'attuazione di determinate opere» 11• Paolo dunque tematiz:,,a teologicamente le intenzioni di fondo di Gesù e ne radicalizza la portata escatologica, perché per lui la giustifìcazione è già awenuta, si è resa accessibile in virtù della fede in Cristo e della sua opera salvifìca. Se anche in Paolo c'è un senso di attesa del compimento, esso ha una connotazione diversa rispetto a quella data da Gesù. Questi guarda al futuro, al regno di Dio, come qualcosa che è appena cominciato, Paolo invece può guardare avanti avendo anche la possibilità di volgersi indietro, perché per lui la svolta verso il nuovo eone è giàawenuta. L'attesa insita nella predicazione di Gesù, per Paolo si è compiuta, ed è in virtù di tale compimento che va intesa la libertà dalla legge, come libertà generale dal vecchio eone e apertura verso il nuovo inaugurato da Cristo (Gal. 1,4; 3,13). Una di1Teren7..ache, pur essendosi palesata sul piano storico, lo trascende, in virtù dell'evento rappresentato da Cristo, in cui l'uomo attende il compimento futuro, avendo però già ricevuto nel presente la salvezza mediante la fede12• Bultmann può dunque affermare, mantenendo vivo il gioco prospettico di affinità e divergenre: «Gesù predica la Legge e la promessa, Paolo predica l'evangelo nel suo rapporto con la Legge, quasi a dire che Legge ed evangelo formano un tutt'uno e che la legge può essere intesa solo insieme alla promessa, cosi come l'evangelo solo insieme alla Legge»13• Fatte salve queste differenze, è opportuno ritornare sulla polemica di Paolo nei confronti della legge mosaica che costituisce il fulcro del suo rapporto tensivo e problematico con l'ebraismo. Come si è detto, ma è utile ribadirlo, non è in ll. Ivi, pp. 213. 12. lvi, pp. 214-216. 13. lvi, p. 217.

55 questione la validità della legge, il suo contenuto, espressione della volontà divina, ma il bisogno umano, troppo umano, di affermazione di sé, che si può nascondere dietro l'osservanu, se la si intende in senso prestazionale. L'errore madornale, su cui Paolo ritornerà più volte nel corso della sua predicazione (cfr. Rm. 2,17-23; Rm. 3,27), è che l'uomo possa acquisire prestigio davanti a Dio attraverso le sue opere, misconoscendo in tal modo il carattere di dono della legge stessa, il cui adempimento non passa per la fiducia dell'uomo nei propri mezzi, ma per l'abbandono alla volontà divina, per cui la vera radice del peccato non risiede nella trasgressione di singoli aspetti della vita regolamentati dalla legge, ma nella tracotam.a di fondo dell'uomo, qualora creda di poter innal7.are la propria giustizia a motivo di gloria ed autoesaltazione 14• Inteso in questa prospettiva, il senso di Cristo come fine della legge non è svuotamento o annullamento della legge mosaica, ma: «è la fine di una vita che, sottesa al bisogno d'affermazione (e quindi da una occulta paura per Dio), vuole innal7.are la giustizia propria. Cristo è la fine della Legge in quanto è la fine del peccato, dell'autoesaltazione e della fiducia nella carne,, 15• L'eccessiva fiducia in se stessi, sintomo di superbia, è ciò che impedisce alla fede di manifestarsi attraverso la grazia di Dio (cfr. Rm. 3,24-28; Ef 2,8). Essa va però intesa non come condizione cui l'uomo deve soddisfare affinché Dio possa operare in lui, ma come un lasciar spazio alla grazia, resa possibile dalla forza stessa dall'annuncio cristiano. Un aspetto essenziale della fede è proprio la rinuncia ad ogni autoesaltazione di fronte a Dio, la disponibilità ad accogliere il dono della sua giustizia, la fiducia incondizionata nella sua grazia. Essa è lo strumento attraverso il quale Dio debella ogni superbia umana, libera

14. lvi, pp, 398-400.

15. lvi, p. 406.

56 dall'impulso di autoaffermazione. Se dunque il peccato consiste essenzialmente nella glorificazione di sé, nel!'esaltazione dell'uomo naturale e della carne (Fil. 3,2-11), misconoscendo la giustizia di Dio, la grazia opera in senso inverso, ristabilendo il rapporto di dipenden:za della creatura dal Creatore ed in virtù di ciò l'uomo può comprendere la vera natura del suo essere16• La fede mediante la grazia è dunque per l'uomo la possibilità storica di una nuova vita, originata dall'evento dell'azione salvifica di Dio, avvenuta in Cristo, attualiz:zata dalla predicazione che si fa realtà nella decisione. Ciò vuol dire altresl accoglien1.a del giudizio divino su di sé e soprattutto apertura al prossimo, all'altro da sé (Gal. 2,19 e ss.; 2 Cor. 5,18 e ss.). Tuttavia, il senso autentico della nuova possibilità di esisten?.a offerta dalla fede si coglie soltanto comprendendo a pieno la duplice valen?.a storica ed escatologica del!'evento di Cristo come compimento del vecchio eone (Gal. 4,4-10) ed inizio del nuovo. Al centro della predicazione di Paolo non può dunque non esserci la paradossalità della natura umana e divina di Gesù, non concepita però come semplice esposizione speculativa e dottrinale, ma come annuncio, interpellazione che chiama i destinatari alla decisione, per cui Bultmann afferma: «la cristologia paolina non è altro che l'annuncio dell'azione salvifica di Dio aooenuta in Cristo. Alla parola corrisponde la fede, all'annuncio la nuova auto-comprensione del credente,,17• Il fulcro della cristologia di Paolo è sen:za dubbio il riconoscimento di Gesù come il Messia. Tale concetto mantiene tutta lacaratteriZ7.a7.ione della tradizione ebraica, come segno di un tempo di salvez-7.a e apertura di un nuovo eone, ma la novità è che egli non è più speranza futura, perché presente nella

16. lvi, pp. 6~1. 17. lvi, p. 279.

57 figura del Cristo. Il sostrato concettuale è dunque lo stesso, ma non lo si può considerare in una semplice prospettiva di evoluzione storica, poiché Paolo annuncia un fatto decisivo: Gesù come adempimento della promessa ( Gal. 1,12-16). Per Paolo, dunque, Gesù non è un semplice maestro che abbia insegnato un nuovo concetto di Dio, una nuova dottrina morale o una nuova visione nel mondo: riconoscendo in lui il Messia, radicalizza il messianesimo ebraico, fa di Gesù il Re della fine dei tempi e il portatore della salvezza donata da Dio. La cristologia paolina non è evoluzione della fede ebraica nel Messia, bensì suo compimento, per questo chi crede in lui appartiene già al nuovo eone18• Il riconoscimento cambia dunque il senso del tempo: se il Messia è Cristo ha raggiunto tutti non solo il popolo di Israele e lo ha fatto nell'adesso, nel presente. L'avvento che è, allo stesso tempo, evento di Gesù come Messia fa del vecchio eone l'età del peccato e della morte, del nuovo l'età della resurrezione e di una nuova vita nell'attesa e nella speran:za. A tal proposito Vitiello osserva che con Cristo muore sia la visione circolare, sia quella lineare del tempo, per inaugurare il tempocontinuo della presen:za, in cui non vi è solo uno scorrere dei momenti, ma è presente anche l'hòra, cioè l'orizzonte di ogni accadere. Il tempo cristiano, ovvero quello proprio della cristologia paolina, è caratterizzato dal nesso dell'adesso con l'orizzonte totale dell'accadere: «orizzonte del tempo che in quanto tale, "viene adesso". Adesso: nel nyn kairòs dell'avvento di Cristo, il Messia figlio di Dio e dell'uomo. Kairòs propizio è questo nyn perché in esso si apre l'hòra. Cristo rivela l'hòra» 10, cioè il presente eterno del Messia che parla del presente del tempo,

18. Ivi,pp. 219-226. 19. G. Rossè, V. Vitiello, Paolo e l'Europa. Cristianesimo e filosofia, cit., p. 203.

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del passato prima del tempo e anche del futuro del tempo e oltre esso. Tale mutamento ontologico ed escatologico del tempo non può non coinvolgere anche il senso della storia. Bultmann, nel suo confronto serrato con Paolo, lo indaga da due punti di vista: quello individuale, soffermandosi sulla storicità dell'uomo e ancor di più sotto il profìlo collettivo, facendo emergere il nesso tra il nascente cristianesimo e la sua matrice ebraica,fil rouge del nostro percorso. Il teologo fa notare come l'identificazione dell'eone della salve7.7a con Cristo cambia il senso della storia del mondo e dei singoli che in esso sono collocati, perché li apre alla possibilità della fede e li proietta verso il nuovo eone. In tal senso la storicità dell'uomo non diviene mera dipendenza dalla storia, ma realizzazione storica del suo essere autentico, non solo nell'attesa della fine dei tempi, ma anche nel vivere il proprio presente aprendosi alla grazia di Dio manifestatasi in Cristo. Questo senso della storicità, avverte Bultmann, non può mostrarsi ad una semplice analisi speculativa di fìlosofia della storia, se essa pretende di porsi al di fuori della storia e giudicarla dall'esterno, ma può essere colto solo nelle puntuali decisioni storiche, perché il senso della storia è visibile nelle decisioni e si trasmette negli istanti in cui il singolo individuo decide. L'istante della decisione, cui è sottesa l'unione dell'adesso e dell'hòra richiamata precedentemente, è anche ciò che pone l'uomo davanti alle responsabilità nel presente e del presente in cui vi è tutta l'eredità del passato e la possibilità di apertura al futuroro. Il mutamento del tempo conseguente al riconoscimento di Gesù come Messia coinvolge il destino storico dell'uomo, portando allo sviluppo, gravido di conseguew.e soprattutto per la modernità, come vedremo nei capitoli successivi, dell'idea

20. R. Bultmann, Credere e comprendere. Raccolta di articoli, cit., pp. 976978.

59 di una storia universale al cui centro è collocato l'avvento del Cristo. Ciò dà al corso della storia un nuovo senso teleologico orientandolo ad una meta e ad un fine. Nella teologia di Paolo teleologia ed escatologia si fondono per comprendere il tempo come unità piena di senso. Ed è in funzione di tale unità che va letto il nesso tra il nascente cristianesimo e la storia di Israele. La comunità cristiana nell'accogliere l'Antico Testamento si considera il vero Israele (Gal. 6,16) ed eleggendo Abramo a padre di tutti i credenti (Rm. 4,1-12) si pone in continuità con l'ebraismo, solo perché vede se stessa come il compimento della storia della salvezza e da tale prospettiva guarda alla storia di Israele come cammino di fede che in Cristo ha raggiunto il suo fine. Le figure simbolo della fede ebraica diventano dunque modelli ante litteram della fede cristiana, come si legge nel capitolo 11 della Lettera agli ebrei (cfr. Eb. 11,8 e ss.). Lo stesso tema della nuova allean7.a presuppone un riclùamo implicito alla vecchia. Tuttavia, Bultmann sottolinea come la continuità posta dal cristianesimo primitivo con Israele non è storica, ma escatologica, garantita dall'azione di Dio che ha scelto un nuovo popolo, non circoscrivendo solo ad uno la rt>.aliZ'lazione della sua promessa. L'Antico Testamento dunque non è un semplice documento storico, ma un libro di rivelazione o, per meglio dire, di profezia, compiutosi con Cristo, in cui è stato reso manifesto il disegno divino di salvezza21• Al centro di tale storia non vi è più un popolo guidato da Dio, ma l'evento escatologico iniziato con l'incarnazione del Cristo e da compiersi nell'attesa della parusia. Ecco perché il nuovo popolo di Dio, la sua Chiesa, malgrado si percepisca nella storia come fenomeno escatologico, finisce con l'inglobare )a sto-

21. R. Bultmann, Storia ed e.scatologia, tr. it. di A. Rizzi, Queriniana, Brescia 1989, pp. 49-50.

60 ria nell'escatologia22.. Tuttavia, tale pretesa non si arresta alla sola storia del popolo di Israele, ma, in virtù dell'aspirazione ad una storia universale, coinvolge l'intera umanità. Infatti la preminen7.a stessa dell'escatologia sulla storia porta Paolo a considerare la storia di Israele e di tutta l'umanità antecedente la venuta di Cristo come contrassegnata dal peccato. Esso è entrato nel mondo con Adamo (Rm. 5,12 e ss.), non essendo stato scalfito, per le ragioni già analizz.ate precedentemente, neanche dalla legge mosaica (Gal. 3,19; Rm. 5,20), per cui, se il vecchio eone è dominato dal peccato, non è possibile pensare alcuna continuità storica o evolutiva, ma soltanto una frattura, una fine, voluta da Dio stesso ed operante, mediante la sua grazia, laddove sembra prevalere il peccato513 (Rm 5,15 e ss.).

È evidente che tale prospettiva escatologica ha forti accenti apocalittici, anche se, va detto che in Paolo il peccato non ha una valell7.a totalmente negativa nella misura in cui può aprire al futuro della salvezza e dare un senso alla storia. L'apocalittica paolina, secondo Bultmann, va letta in chiave antropologica: l'uomo condizionato dal peccato può ancora accogliere la grazia di Dio e cambiare il senso della sua esistell7.a. L'interpretazione antropologica del nesso tra storia ed escatologia permette di comprendere come dietro la prospettiva universale, in cui sono inquadrate sia la storia di Israele che quella dell'intera umanità, vi sia anche la storicità dell'uomo, cioè la storia che ciascuno vive o può vivere, nella quale realiZ'VI o può realizz.are il proprio essere24•

22. lvi, pp. 51-53. 23. lvi, pp. 54-56. Si veda anche Id., Credere e comprendere. Raccolta di articoli, cit., pp. 52-76, soprattutto in merito al nesso escatologico tra Adamo e Gesil, "Nuovo Adamo". 24. lvi, pp. 56-59.

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Quanto detto finora rappresenta l'humus concettuale entro cui è possibile affrontare il nesso tra il nascente cristianesimo e l'ebraismo delineato da Bultmann. Il teologo luterano nell'affrontare la questione è consapevole del fatto che non si possa semplificare troppo il discorso, intendendo il cristianesimo come superamento in toto dell'ebraismo, perché privarlo della matrice originaria significherebbe altres'I ridurre la portata escatologica di tale nesso e, allo stesso tempo, non fame emergere la specificità. Egli parte dal presupposto che interpretare il rapporto tra le due fedi come contrapposizione tra legge e vangelo risulterebbe semplicistico e forviante. Essi sono in continuità se si intende l'essere sotto la legge come il presupposto dell'essere sotto la grazia, per cui l'Antico Testamento viene ad essere il presupposto del Nuovo, ma non in base ad una considerazione storico-evolutiva di un fenomeno religioso, ma nel senso di un nesso reale esistente tra legge e vangelo, in base al quale la predicazione presuppone la conoscenu della legge e il sottostare ad essa In altri termini: se Cristo è fine della legge il suo messaggio presuppone la comprensione della leggè"-5. Ciò espone il cristianesimo primitivo ad un problema non da poco: se il vangelo presuppone la legge, il cristianesimo per essere veramente tale deve passare necessariamente attraverso l'ebraismo? È ancora una volta Paolo a dare una risposta non storica, ma escatologica che non lascia spazio a dubbi: «Non c'è più giudeo né greco; non c'è più sclùavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal. 3,28), perché l'eschaton da lui annunciato non è circoscrivibile entro i confini di nessun popolo; il regno di Dio non ha e non può avere confini geografici e temporali, perché anche quando si realiz.za nelle comunità dei credenti in Cristo resta una figura extra-mondana. Ciò

25. R. Bulhnann, Credere e comprendere. Raccolta dl articoU, cit., pp. 338-

339.

62 muta profondamente anche il concetto di "popolo di Dio", smarcandolo nettamente dalla sua origine ebraica. La speran7.a escatologica paolina, il Regno di cui si è detto, non ha infatti nessuna coloritura nazionalistica e perde ogni possibile rimando alla costituzione di uno stato confessionale, ad un'idea di popolo storico collocato in una nazione, per assumere un significato esclusivamente escatologico, sviluppato alla luce dell'eone futuro inaugurato dall'evento di Cristd6 (Gal. 6,16; Fil. 3,3; Rm. 9,6-8). Il passo ulteriore compiuto da Paolo oltre l'ebraismo non prevede, tuttavia il rigetto dell'idea di legge, ma un'interpretazione in chiave universalistica. Se non si identifica la legge tout court con le Tavole ricevute da Mosè sul Sinai, ma con la coscien7.a morale insita per natura in ogni uomo, allora anche i pagani, che non hanno conosciuto la legge, potranno avere accesso alla novità del Cristo, confidando sulla legge inscritta nei loro cuori (Rm 2,14 e ss.). Per questa ragione Vitiello, commentando lo stesso passo, può osservare che la teologia della storia di Paolo può essere anche definita "cristologia politica", in quanto la centralità dell'avvento del Cristo ha come tema e compito la salvezza dei Gentili, pertanto l'attesa messianica, tipica della fede ebraica, è dunque estesa a tutti gli uomini. Ciò comporta una relativizzazione della legge scritta, in favore della legge del cuore, di cui si sottolinea la preminenza (2 Cor: 3,2-3), come legge interna all'operare dell'uomo. In tal modo viene meno il privilegio di Israele sugli altri popoli e il concetto di elezione divina è piegato, attraverso la fede in Cristo, alla storia e al destino dell'intera umanità27• Sullo smarcamento dall'idea del privilegio elettivo, insita nella legge

26. Ivi, pp. 535-540. 27. G. Rossè, V. Vitiello, Paolo e l'E1Jropa. Cristianesimo efilosofia, cit., pp. 206-207.

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mosaica, insiste anche Bultmann dicendo: «la precomprensione dell'evangelo che germina sotto l'AT, può farlo benissimo anche sotto altre incarnazioni storiche della Legge divina; può farlo dunque un uomo che sappia d'essere, vincolato e limitato dai concreti o generali imperativi morali che nascono dalla reciprocità dei rapporti che ha con gli altri e che egli deve riconoscere in coscien1.a» 28 • Ciò che conta è dunque la possibilità offerta all'uomo di accorgersi del suo essere nulla, del suo dover accettare con umiltà il non poter sussistere in sé, il suo costitutivo dipendere da altro; il che lo salva dal pericolo, centrale in tutta la predicazione paolina, di trasformare il giusto 1.elo per Dio in tentazione di auto-glorifìcazione e compiacimento. In quest'ottica l'Antico Testamento è connotato dal nascente cristianesimo di un'importante full7.ione pedagogica: rendere l'uomo consapevole di essere soggetto alle giuste pretese di Dio e, in virtù di tale dipendeni.a, di avere un senso di responsabilità all'interno della comunità ecclesiale e, più in generale, in tutti i rapporti reciproci di ordine mondano. L'espressione più viva e concreta della dipenden7.a insita nella natura umana è resa esplicita dall'intelligen7.a veterotestamentaria nella fede nella creazione, in virtù della quale l'uomo sa di non poter disporre del mondo in quanto creatura, ma di essere in totale balia del Signore. Ciò condiziona inevitabilmente il destino storico dell'uomo, cui Dio assegna compiti, aprendolo alla possibilità mondana ed extra-mondana del dono del futuro, cui è portato a rispondere nel tempo, nell'istante concreto della sua esisten7.a autentica. L'uomo è dunque visto nella sua temporalità e storicità, ma è posto, allo stesso tempo, di fronte a Dio e al prossimo. In tal senso il confronto critico del nascente cristianesimo con l'ebraismo va letto anche come un fare i conti con la propria origine storica, per raggiungere un'intelligeni.a e una consapevolezza dell'esistere che guidi il credente nel 28. R. Bulhnann, Credere e comprendere. Raccolta diarticcli, cit., p. 341.

64 suo volere ed agi.re20. Lo stesso Bultmann si rende, tuttavia, conto che la lettura storico-esistenziale del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento affronta la questione solo parzialmente: resta infatti da capire se possa esserci anche un nesso più profondo, che sposti il tutto sul piano escatologico. Bisogna dunque ripartire dalla presunta antitesi tra evangelo e legge, per trovare un possibile ponte concettuale. Bultmann lo individua nella grazia e afferma: «come l'essere soggetto alla grazia è continuamente riferito in retrospettiva ali'essere soggetto alla Legge, cosi è anche vero che l'AT non conosce un essere soggetto alla Legge che non sia nel contempo un essere soggetto alla grazia»30• Se tale nesso appare evidente nel Nuovo Testamento, soprattutto per l'insistere di Paolo sul tema, potrebbe sembrare una fonatura la connessione di legge e grazia nell'Antico. Il teologo luterano vi si sofferma opportunamente dicendo: «la grazia di Dio è efficace in primo luogo, nel fatto che Dio ha scelto quel popolo e stretto quel patto con esso, ha chiamato i suoi padri e continua a chiamare guide del popolo e profeti, in una parola: nell'aver dato a quel popolo una storia che è storia di salvez,;a [ .. . ] sicché l'obbedienza deve attuarsi sempre nella fede alla grazia di Dio che previene ed elegge» 31 e chiosa: «quindi l'esser soggetto alle esigenze di Dio è sempre inteso nel contempo, come un essere soggetto alla grazia di Dio»32 • Tale concezione della grazia di Dio nell'Antico Testamento, secondo Bultmann, emerge ancora più chiaramente se la si collega all'idea di peccato, intendendolo non come una trasgressione morale, ma come un'offesa inferta all'amore di Dio,

29. Ivi, pp. 341-344. 30. lvi, p. 345. 31. lvi, p. 346. 32. Ibidem.

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mostrando sfiducia verso la sua grazia, mettendola in dubbio. La speranza escatologica tipica del profetismo ebraico parte dal radicale riconoscimento dei peccati del popolo, il quale ha dubitato della grazia e viene richiamato al pentimento per aprirsi, attraverso il perdono, nuovamente all'azione salvifica di Dio (cfr. Is. 48,11; Es. 36,22; Ger. 31,33 e ss.). La radicalità della fede ebraica poggia dunque sulla speranza di salvezza che trova, dal punto di vista cristiano, nel Nuovo Testamento il suo compimento, in quanto in Cristo si realizza l'azione escatologica di Dio, per cui la fede cristiana professa che in Cristo Dio ha riconciliato a sé il mondo (2 Cor. 5,19). Con l'avvento di Cristo, però, il concetto di grazia assume un significato differente, non è più legato al destino del singolo, come parte integrante di un popolo, ma si fa incontro a lui nella parola predicata, nell'annuncio che interpella hic et nunc33• Agli occhi della fede cristiana l'Antico Testamento e la storia di Israele è storia che interpella solo se si comprende come Cristo ne sia il centro e il fine, per cui Bultmann può dire: «la fede cristiana usurpa, per cos'I dire, l'AT e pretende che quanto vi è detto, un tempo poté essere detto in un senso provvisorio e limitato, e che ora invece può essere detto e udito nel senso giusto. Ma con ciò si dice, appunto, che in senso vero e proprio l'AT non è parola di Dio per la fede cristiana. La chiesa l'annuncia come parola di Dio, ma 'lo fa so'lo per ritrooon.n quel che già sa dalla rivelazione compiuta in Gesù Cristo»34 • Tale interpretazione escatologica fa dell'Antico Testamento e di tutta la tradi:iione ebraica qualcosa di provvisorio che solo in Cristo riceve il suo significato autentico, riducendolo a profezia di ciò che solo nel Nuovo Testamento giungerà a compimento.

33. lvi, pp. 348-352. 34. lvi, p. 354. Corsivo mio.

66 È evidente dunque che l'interpretazione bultmanniana del paolinismo, se ha l'indubbio merito di far emergere la centralità dell'eschaton nella sua cristologia, mettendolo in relazione anche con la storicità e con il carattere di evento del suo annuncio, trova il suo limite nell'idea del compimento operato da Cristo. È come se il teologo luterano, pur insistendo più volte sul concetto di grazia nell'Antico Testamento, non ne colga fino in fondo il senso di accadere e lo pieghi ad una visione ancora troppo teleologica della storia. La centralità di Gesù per la fede cristiana rischia, in base alla sua lettura storico-escatologica, di far venir meno la specificità del contesto ebraico di origine. La validità di tale tradizione è riconosciuta più in maniera formale che sostanziale. La riduzione ad una mera funzione profetica è infatti propedeutica a fare emergere soltanto la specificità e la novità del messaggio cristiano, misconoscendo quanto la matrice ebraica lo abbia influen7.ato e ne rappresenti la base necessaria, anche per i molti smarcamenti concettuali operati da Paolo e ben evidenziati dallo stesso Bultmann. In particolare ciò che sembra venir meno nella sua interpretazione è la componente di alterità della religiosità ebraica, annullata dal "trionfo" del cristianesimo storico e dall'unità teleologicamente orientata dell'escatologia paolina. Il nostro intento, come dovrebbe essere ormai chiaro, è seguire una direzione diametralmente opposta: indagare il rapporto tra ebraismo e cristianesimo, attraverso Paolo ed oltre, per riscoprire proprio la componente "altra" che innerva le due fedi e non le rende riducibili a nessuna visione storica circolare o teleologicamente orientata. Nell'idea di compimento su cui Bultmann insiste per qualificare i rapporti tra Antico e Nuovo Testamento si nasconde infatti il pericolo di snaturare, se non di annullare, l'oltran7.a della fede, di non riconoscere il suo essere oltre le logiche, umane, troppo umane di possesso della verità. Un aspetto che lo stesso Bultmann ha ben presente nel descrivere il "paradosson della fede cristiana, il suo essere legata all'accadere della grazia, ma che, altrettanto parados-

67 salmente, sembra ignorare nel suo confronto con l'ebraismo, non riuscendo a capire fino in fondo quanto al1e spal1e del proprio concetto di fede, di cui è esplicitamente debitore al1a teologia paolina, vi sia anche un debito implicito nei confronti del concetto ebraico di fedeltà e fiducia in Dio, ereditato dal1o stesso Paolo e degno di essere riscoperto nella sua specificità.

2.2 I ''paradossi» ebraici del Paolo di Buber Se il limite dell'interpretazione di Bultmann è, come detto, il leggere la storia e la tradizione religiosa ebraica in virtù del suo compiersi con il cristianesimo, occorre rivolgersi ad un'altra prospettiva, interna al mondo ebraico, per verificare quanto tale radice mantenga la sua specifica alterità, anche con la nascita del cristianesimo storico e soprattutto quanto essa ci possa essere utile al ripensamento di un paradigma veritativo fondato sull'alterità, anche al di là delle mere esigenze confessionali. È con questa intenzione di fondo che ci accostiamo al celebre testo di Martin Buber Due tipi di fede, per indagare, tramite le sue intuizioni, il nesso tra ebraismo e cristianesimo, dal punto di vista di un ebreo che intende far risaltare la specificità della propria fede, affinché non sia ridotta a semplice preistoria cristiana. Nel dire ciò siamo tuttavia consapevoli che il dettato buberiano non potrà essere seguito fedelmente, soprattutto a causa delle eccessive semplificazioni del pensiero di Paolo, da cui il precedente passaggio attraverso l'interpretazione di Bultmann ci mette in guardia e al riparo. Ciò non toglie che il testo di Buber abbia un notevole interesse, soprattutto in merito al1e intenzioni di fondo che animano il confronto tra le due fedi, cioè la ricerca di un terreno comune su cui sia possibile avviare un dialogo. Tale presupposto comune, che non fa cadere le differenze, è l'idea di una fede che non posa soltanto su un fondamento razionale, poiché il credere coinvolge l'essere nella sua totalità e immette nella sfera dell'Incondizionato, ovvero: «il rapporto di fede non è un

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rapporto verso un "qualcuno" o un "qualcosa" condizionato in sé ma incondizionato per me, bensl verso un Qualcuno o un qualcosa incondizionato anche in sé»35 • L'essere oltre ogni fondazione razionale e il coinvolgimento del credente nella sua totalità sono, tuttavia, gli unici elementi comuni. Per il resto il discorso buberiano mantiene vive le differenze, sostenendo che il rapporto di fiducia ebraico nasce da un contatto immediato con Colui di cui si ha fiducia, mentre nella fede cristiana tale rapporto passa per un riconoscimento, un'accettazione da parte della totalità del credente di ciò che si riconosce per vero ed è per questo che l'ebreo si trova da sempre come singolo e come parte di un popolo nell'emunah, il cristiano, invece, vede nella conversione un atto fondamentale per accedere alla pistis36• L'argomentare di Buber procede dunque attraverso contrasti e opposizioni, per non far perdere a ciascuna delle due fedi le proprie peculiarità; il contrasto non è tolto nella convinzione che un dialogo possa nascere solo se non è animato da una volontà di assimilazione che faccia venir meno le differenze. Buber, vede nel confronto la possibilità di comunicarsi reciprocamente un possibile modo di vivere nel tempo, di vivere l'attesa del Messia ebraico da una parte e il ritorno di Cristo dall'altra. Nel dire ciò bisogna evidenziare, tuttavia, due grandi limiti delle nobili intenzioni dialogiche sottese al testo di Buber. In primis il confronto appare decisamente impari, in quanto il teologo ebreo, nel tentativo di smarcare la propria fede dalle inteipretazioni a posteriori del cristianesimo, priva quest'ultimo della centralità della figura del Cristo, il quale è presentato come sviluppo della spiritualità ebraica, misconoscendo la no-

35. M. Buber,Due tipidifede. Fede ebraica e fede cristiana, tr. it.di S. Sorrentino, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995, p. 59.

36. lvi, p. 60.

69 vità del suo messaggio di cui è innervata, come abbiamo visto attraverso Bultmann, la cristologia paolina. Buber fa di Gesù un uomo la cui fede è ancora pienamente inserita nell'enwnah ebraica, sottovalutando in tal modo un elemento decisivo della fede cristiana: il riconoscimento di Cristo non solo come Messia, ma anche e soprattutto come Dio e Redentore. Lo stesso altissimo sentimento di vicinan1.a e fratellanza che il teologo dice di avere nei confronti di Gesù è indice del desiderio di credere con lui, seni.a, tuttavia, credere in lui37• In secondo luogo, come non manca di notare Taubes, l'intenzione di trattenere Gesù nell'alveo della fede ebraica porta Buber a sottovalutare l'importanza della predicazione di Paolo nel suo insistere sul valore messianico del messaggio di Cristo. Esso assume ancora più importan7.a proprio se lo si considera a partire al contesto ebraico di appartenem.a e se ne legge la paradossalità con categorie concettuali interne alla logica del messianesimo ebraico. Il riconoscimento di Gesù come Messia passa infatti per un evento paradossale: la morte in croce come proscritto, malfattore, escluso dalla comunità. Lo scandalo della croce diviene dunque in Paolo un evento decisivo che, stravolgendo completamente i canoni del pensiero ebraico e romano, funge da presupposto per credere in lui al punto tale da dare alla nascente fede un valore superiore a quello di tutte le opere38• Poste tali premesse, utili a chiarire le linee guida del nostro accostamento al testo di Buber, ci sembra opportuno partire dal luogo in cui le differenze tra i due tipi di fede a confronto emergono con più eviden:za. Il luogo scelto da Buber è la Lettera agli ebrei, in cui secondo il teologo si condensano la 37. In merito si vedano le acute osservazioni di N. Bombaci, Ebraismo e cnstianeslmo a ccnfronto nel pensiero ds Martin Buber, Dante & Des.::artes, Napoli 2001, spec. pp. 77-84. 38. J. Taubes, lA teo/ogta politica ds San Paolo, cit., pp. 33-34.

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maggior parte dei fraintendimenti della genuinità della fede ebraica da parte del cristianesimo primitivo. L'accusa di incredulità rivolta a Israele (Eb. 3,19 e ss.) si fonda infatti sul misconoscimento del carattere immediato della fiducia ebraica in Dio che il credente eredita da sempre, con l'appartenenza stessa al "popolo eletto" e coinvolge la totalità del suo essere a tal punto che la sua stessa vita è testimonianza continua di fede, anche e soprattutto nelle difficoltà e nelle sofferenre. Ciò rende superflua ogni dimostrazione noetica di fede, per cui il carattere elenctico presente nella fede cristiana e attinto dal mondo greco è estraneo alla spiritualità ebraica, che non ha neanche bisogno della decisione in favore della fede, idea implicitamente sottesa al concetto cristiano di conversione, perché è da sempre collocata nell' emunah39• Ciò non deve far pensare alla fede ebraica come un atteggiamento di passività nei confronti di Dio. La fedeltà implica "un tener duro" (stanàhalten) nei rapporti vitali essenziali, un avere consistenza (Bestand), nato dalla consapevolezza che la propria esistenza deriva dalla solidità del rapporto basilare con la potenza divina. Tale consistenza va però considerata da due prospettive speculari e complementari: un lato "attivo", cioè la fedeltà a Dio, ed uno "ricettivo", cioè la fiducia in lui. In entrambi i casi non si tratta di un semplice atteggiamento psichico, ma di un qualcosa che, come detto sin dall'inizio, coinvolge la vita del credente nella sua totalità. La fedeltà e la fiducia esistono nello spazio reale del rapporto tra due esseri, qualificato come dialogo tra due partner, in cui, pur mantenendo la differenza e la distanza tra l'uomo e Dio, non è esclusa la possibilità della reciprocità«>. Ancora una volta, Buber ritrova nella Lettera agli ebrei il maggior fraintendimento di questa duplice natura della fede 39. M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, eit., pp. 85-90.

40. I vi, pp. 76-78.

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ebraica quando si legge: «sem.a la fede però è impossibile essergli graditi; chi infatti si accosta a Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo credono» (Eb. 11,6). Nell'idea di fede espressa in questo passo, secondo il teologo ebreo, l'atteggiamento di fiducia veterotestamentario è fuso e confuso con il "credere che" (Dass-Glooben), cui spetterebbe una remunerazione. Buber insiste sul fatto che alla spiritualità ebraica è estraneo il senso del credere come atto, interiore o esteriore, come professione di fede, per cui gli appare ancor più viziato dal pregiudizio e dall'errore interpretativo il riclùamo alla fede di Abramo nei versetti successivi (Eb. 11,810). Il senso autentico della fede del Patriarca si comprende solo se si interpreta il suo credere in Dio, che è il presupposto dell'allean7.a con il popolo ( Gen. 15,6), "come un avere fiducia in". Buber nota come questo fraintendimento terminologico e concettuale resista anche in Paolo, in Rm. 4,18-21, laddove intende presentare Abramo come modello di fede cristiana.

La perseveranza nella fede, incarnata dal Patriarca, non è da intendersi come un atto particolare, tutt'al più va inteso come un supplemento di energia in un rapporto essenziale già esistente, alla cui base ci sono fedeltà e fiducia. È solo in virtù di ciò che Abramo può intensificare il suo rapporto, mostrando maggiore abbandono. Inoltre la giustizia che da tale relazione deriva non è da intendere nel senso di ricompensa, o anche, mutuandolo dal linguaggio forense, di convalida, poiché ciò già è insito nel rapporto incondizionato di fiducia nella divinità, in cui, il credente ebreo realizza in toto il suo essere. Se si interpreta infatti il rapporto di Abramo con Dio come un far passare per valido, un imputare, si imbriglia la vivacità dialogica del rapporto di fede in una logica giuridico-prestazionale che depaupera e snatura l'autenticità del giudaismo••.

41 . lvi,pp. 91-94.

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Queste precisazioni concettuali servono a Buber come premessa per affrontare il grande tema del fraintendimento della legge mosaica, alla base della contrapposizione paolina di legge e fede. I toni della polemica sono molto duri, in quanto il teologo ebreo vede nella preminenza data dall'Apostolo alla fede in Cristo un subdolo tentativo di svuotare la legge mosaica del suo valore salvifico. Se Cristo è infatti fine della legge e la giustificazione di ogni credente (Rm. 10,4), gli ebrei, che rifiutano di riconoscersi in Cristo sono fuori dalla giustizia di Dio. Paolo lo dice con profondo dolore e ammette di pregare per la loro redenzione, affinché il loro eccesso di zelo non si trasformi in mancanz.adi conoscenza (Rm. 10,1-3). Per conferire un valore solenne e salvifico alle sue parole, egli prosegue dicendo: «vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo. Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha resuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm. 10,8-9). È esplicito qui il richiamo al Deteuronomio42, che però, secondo Buber, è ripreso da Paolo in maniera alquanto singolare. L'Apostolo, per dare forza al suo annuncio, si appoggia a questo versetto veterotestamentario, privandolo, tuttavia, del suo contesto, dal quale sarebbe risultato evidente che l'iscrizione del cuore è riferita non alle parole di fede, ad un eventuale kerygma, ma alla legge stessa: «la quale, ci viene qui spiegato, non giunge all'uomo da una lontananza celeste, ma piuttosto egli la sente erompere nel proprio cuore e, di n, premere sulle proprie labbra» "3. Nel dire ciò non va altresì trascurato il valore del mettere in pratica con cui termina il versetto veterotestamentario, poiché: «la parola di Dio che da un comandamento all'uomo gli parla in modo

42. «Questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica,, Dt. 30,44. 43. M. Buber, Due tipi cU fede. Fede ebraica efede cristiana, cit., p. 100.

73 tale che egli la sente erompere nel proprio cuore e premere sulle proprie labbra come una parola che vuole essere messa in pratica,,44• Il fatto che Paolo sottovaluti e trascuri proprio la ricaduta pratica presente nel versetto, ha per Buber un significato paradossale, sottolineato anche con una certa ironia, se si pensa all'importanw. che assume nella predicazione paolina il tema della "legge del cuore" (Rm. 2,4 e ss.). È come se Paolo riprendesse questo tema, caro al profetismo ebraico, (cfr. Ger 31,33 e ss.), quando gli è funzionale ad estendere la portata universalistica del suo messaggio, ma lo snaturasse quando parla di coloro da cui lo ha attinto, per marcare la distan7_.a tra il nascente cristianesimo e la matrice ebraica. La cristologia politica paolina opera dunque su due fronti: l'estensione della salve723 ai pagani, non facendoli passare per il giudaismo, e, allo stesso tempo, la riduzione, se non il totale annullamento, del valore salvifico della legge mosaica, affinché gli ebrei non trovino rifugio in essa e si aprano alla fede in Cristo45 • Per evitare confusioni concettuali, secondo Buber, occorre ritornare alla dimensione autentica della spiritualità ebraica cosi sintetiZ1.ata: «l'adempimento del comandamento divino è valido se la persona vi si impegna con tutte le proprie capacità e con tutta la propria intenzione di credente»46, per interpretare correttamente il rapporto tra il credente ebreo e la Torah. Il problema nasce, per il teologo, fin dalla traduzione in categorie concettuali greche del termine ebraico. Torah, infatti, non è semplicemente '1egge", cioè un qualcosa di rigidamente oggettivo, al di fuori del rapporto di fede. Essa comprende certamente delle leggi, delle prescrizioni oggettive, ma ogni imperativo trae la propria forza dal richiamo costante a chi

44. Ibidem.

45. lvi, p. 101. 46. lvi,p. 103.

74 ha donato quelle determinate direttive; traducendola come "legge" la si priva del suo carattere dinamico e vitale, utile a mantenere la polarità paolina tra legge e fede, ma lontana dal senso autentico conferitole dalla spiritualità ebraica. Buber avverte come un pericolo interno alla stessa fede ebraica, quindi non solo inerente ai fraintendimenti del paolinismo, il possibile irrigidimento del concetto di Torah in senso giuridico-prescrittivo e sottolinea più volte la necessità di comprenderne il senso vivo di parola che richiama ad una fedeltà nata dall'ascolto, in un'intima dimensione dialettica di essere e avere di cui si nutre la spiritualità ebraica. In essa non va dimenticato il carattere pratico, poiché il prestare ascolto alla volontà divina, espressa nella Torah , implica sempre la necessità di adempierla, applicandola all'intera dimensione dell'esistenza umana. Dunque è all'interno dello stesso giudaismo che nasce I'esigem:a di preservare la fede dal pericolo di un'applicazione esteriore del comando divino, che non implichi l'abbandono alla sua volontà e non trovi in essa il senso e la giustilìcazione del comportamento prescritto47• In tal senso Paolo, oltre a semplificare il concetto di Torah con l'idea greca di legge, non fa altro che estendere a tutte le correnti del giudaismo del suo tempo la polemica interna contro l'interpretazione esteriore e legalistica della Torah. In questa polemica si inserisce, per Buber, anche Gesù nella sua critica ai farisei (Mt. 23,13 e ss.; Le. 11,39 e ss.). La polemica non è intrisa di moralismo, volto a stigmatizzare il lassismo religioso di una parte del popolo, ma punta ad evidenziare quanto i farisei concepiscano i comandamenti divini come una pratica esteriore. Gesù non vuole abolire la Torah, bensì intende recuperarne il senso originario, non contrapponendosi all'ebraismo tout ccurt, ma all'uso erroneo e forviante delle sue

47. lvi, pp. 104-10.5.

75 prescrizioni48• Il senso autentico della polemica poggia sull'idea ebraica dell"'orientamento del cuore". Esso è concepito come il centro pulsionale della vita umana, per cui, per evitare che i suoi impulsi trascinino l'uomo vorticosamente alla rovina, è necessario orientarlo verso la volontà di Dio attraverso la Torah. L'adempimento dipende, dunque, non dalla qualità delle azioni compiute o dei comandamenti osservati, bensl dall'orientamento impresso al cuore nel compimento. Ciò che nella polemica non viene mai messo in dubbio è la possibilità di adempimento della Torah, cosa che, al contrario, secondo Buber, fa Paolo, marcando su questo punto non solo la sua distan7.a dalla tradizione ebraica, ma anche dalle intenzioni dell'insegnamento di Gesù. Egli fa infatti venire meno l'aspetto qualitativo dell'adempimento, cioè l'importanza dell'orientamento del cuore, per insistere, invece, sull'interpretazione prestazionale e quantitativa: «dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la kgge»49 • Buber commenta questo versetto facendo notare come Paolo proponga una visione "monolitica" e indivisibile della Torah, che non permette alcuna selezione, fondando su tale interpretazione erronea l'impossibilità dell' adempimento. Egli dunque non riesce a distinguere proprio quegli elementi che animano la polemica, genuinamente giudaica, tra Gesù e i farisei, cioè l'adempimento interiore sorretto dal cuore e dalla fede da, quello meramente esteriore, legato ad una visione prescrittiva-prestazionale della Torah 50• L'elemento decisivo, per Buber, non è tanto il fatto che Paolo ritenga inadempibile la Torah, ma che veda in questa peculiarità un fattore essenziale per far emergere il peccato. Anche se

48. lvi,pp. 107-108. 49. Gal. 5,3. Corsivo mio. 50. M. Buber, Due tipi di.fede. Fede ebraica e fede cristiana, cit, p. 102.

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l'Apostolo, come abbiamo evidenziato attraverso Bultmann, identifica la radice del peocato nella volontà dell'uomo di farsi vanto della propria osservanza della legge (sottolineatura molto vicina all'idea ebraica di orientamento del cuore più di quanto lo stesso Buber riesca ad ammettere e cogliere), non risolve, per il teologo, il punto cruciale della questione: una legge che, in termini paolini, sembra donata dal legislatore divino al solo scopo di essere inefficace. Tale visione può essere compresa solo tenendo sullo sfondo una concezione teocentrica della storia in base alla quale tale mistero, predeterminato da Dio stesso, sarebbe rimasto nascosto per generazioni fino alla rivelazione totale fatta coincidere con Gesù51 (Rm. 16,25). Anche Buber dunque, al pari di Bultmann, collega la visione storica di Paolo con quella escatologica, ma in maniera differente. Il mistero del peocato derivante dall'osservan:za della legge, che spiega altresì il mancato riconoscimento di Gesù come Messia e la sua condanna a morte, è funzionale alla fine del vecchio eone e ali'apertura del nuovo operata da Cristo. La Torah, interpretata in quest'ottica, non è più la testimonianza viva del rapporto di fedeltà tra Israele e il suo Dio, ma un qualcosa che, in conformità al disegno divino, offre al peocato l'occasione di suscitare nell'uomo il desiderio di auto-glorificazione. Essa diviene strumento per la moltiplicazione della trasgressione, affinché possa sovrabbondare la grazia (Rm. 5,20). Paolo legge tutto in funzione della venuta di Cristo e del piano di redenzione universale realizzato da Dio attraverso di lui. In questa prospettiva gli ebrei svolgono un ruolo fondamentale, in quanto con il mancato riconoscimento di Cristo e con l'indurimento dei loro cuori (Rm. 11,7), hanno inconsapevolmente permesso a Dio di estendere la propria benedizione sull'intera umanità52 (Rm. 11,24). Buber nota come Paolo, per dare p. 124. 52. Ivi, pp. 125-126. 51. lvi,

77 linearità alla propria concezione della storia della salveZ7.a, si serva di concetti attinti dalla tradizione veterotestamentaria, piegandoli a suo favore e, paradossalmente, contro il contesto in cui si svilupparono. In particolare l'idea dell'indurimento del cuore ritorna spesso nell'Antico Testamento, soprattutto durante l'esodo dall'Egitto, come strumento usato da Dio per riportare alla ragione coloro che gli si oppongono. Quando egli si rende conto che il cuore della sua creatura è sordo ai suoi richiami, la fa persistere nel peccato, donandogli una forza maggiore che rinvigorisce la volontà di opposizione, affinché essa giunga al limite, si autodistrugga, scoprendo tutta la sua miseria e il bisogno del perdono di Dio. Nell'Antico Testamento dunque, come è testimoniato dal Libro di Ezechiele (Ez. 2,4; 3,7), l'indurimento del cuore interviene nel rapporto Dio-uomo o Dio-popolo come extrema ratio, quando esso è giunto al limite del pervertimento e si è trasformato in un destino ineluttabile. In Paolo invece la volontà divina di rendere ostinato Israele cominciasul Sinai, nell'atto stesso di consegna della legge, per finire sul Golgota con la crocifissione di Cristo. In questa logica, secondo Buber, non c'è più spazio per il ruolo di guida paterna che caratterizzava il rapporto del Dio veterotestamentario con il suo popolo, perché l'azione divina non si cura più degli uomini e delle generazioni che investe, ma si serve di essi per fini superiori53• Nella contrapposizione paolina tra legge del peccato e legge dello spirito in Rm. 8,2 si evince, per Buber, la stessa forzatura concettuale: per sottolineare il primato della fede in Cristo sull'osservan7.a della legge, l'Apostolo la svuota della sua componente di fedeltà per amore presente nella dottrina farisaica del Lishmah, da cui '1'orientamento del cuore", di cui si è detto, trae il suo significato pregnante. Essa può essere tradotta con "per amore delle cose stesse". Con questo termine si esprime l'idea che 53. lvi,pp. 128-129.

78 l'osservanza di una dottrina vale per se stessa e non per ciò che se ne può ricavare, suggerendo, allo stesso tempo, che il vero interesse alla base dell'adempimento è l'amore per colui che lo comanda. Tale amore per la cosa stessa giunge al cuore del rapporto tra l'ebreo e la Torah, come manifestazione di una relazione diretta con il singolo uomo, non piegata, come in Paolo, a fini superiori, ma vivificata proprio nel dono della legge, affinché produca i suoi effetti attraverso l'adempimento. Per questo Buber afferma: «la Torà non è un qualcosa di oggettivo, di indipendente dalla relazione attuale dell'uomo con Dio, che donerebbe automaticamente la vita a colui che la riceve: la Torà dona laoitasolo a colui chericeoe la Torà per

amore della Torà nella sua realtà oiva e dnnque nel suo legame con c.olui che la dona e per amore di Costui»54 • Solo se si fa emergere la componente di amore insito nella fedeltà ebraica alla legge si comprende anche, secondo Buber, la preminenz.a data da Gesù al comandamento dell'amore verso Dio e verso il prossimo sulle altre prescrizioni (Mt. 22,39; Mc. 12,31; Le. 10,27). La figura del "prossimo" è già presente nell'Antico Testamento come espressione di un rapporto con l'altro da sé, che parte dalla comunione sottesa ali'amicizia, fino a giungere ali'altro in generale. L'amore prescritto da Dio non è, tuttavia, un semplice comandamento morale, ma la manifestazione di un atto di fede, in quanto dalla gratuità di tale amore è riconoscibile l'appartenenza a Dio. In tal senso non vi è alcuna distanz.a tra amore e dimostrazione d'amore, poiché l'amore per il prossimo è il riff esso dell'amore per Dio che spinge ad amare tutto ciò che è amato da luiss.

54. lvi, p. 13.5. Corsivo mio. 55. lvi, pp. 113-116. Buber lo fa emergere commentando il cap. 19 del Leoitico, in merito alle prescrizioni che regolano il rapporto con il prossimo (cfr. Lo, 19,13e ss.).

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La questione si complica non poco quando Buber cerca di ricostruire le radici ebraiche del detto di Gesù sull'amore per i nemici (Mt. 5,44), perché se è vero che il richiamo al prestare aiuto al nemico di guerra o a quello personale è presente nell'Antico Testamento (Es. 23,4-5), non si può negare che in alcuni passi della Scrittura ai nemici di Dio è riservato soltanto odio, sen:za alcuna possibilità di conciliazione:f6. Buber è consapevole del pericolo di un travisamento in chiave violenta del comandamento dell'amore, ma liquida in poche battute la questione, dicendo che nell'agire degli esaltati e dei fanatici c'è uno snaturare il messaggio di Dio, uno svuotare il legittimo zelo per lui dalla sua essenziale componente di amore. Egli in queste pagine è più interessato a far emergere la continuità concettuale tra l'amore predicato da Gesù e il contesto ebraico di appartenen:za, per cui, pur ammettendo che l'insegnamento di Gesù, almeno su questo punto, supera in luminosità la tradizione ebraica, insiste nel sottolineare che esso non sarebbe stato possibile sen:za la luce, meno appariscente, attinta dal mondo ebraico. Il teologo lo ribadisce attraverso una chiara metafora "geometrica", dicendo che su questo tema le parole di Gesù sono un ardito arco attraverso il quale si è chiuso un cerchio interno all'ebraismo, invece, dal punto di vista della fede cristiana, si è tracciata un'altra figura: un'iperbole57 •

56. La drammaticità e l'attualità della questione, considerato il dilagare del fanatismo religioso nel mondo contemporaneo, è presentata efficacemente, all'interno della più ampia analisi del rapporto tTa monoteismo e linguaggio della violenza, da J. Assmann, Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il /in~ della otolenza, tr. it. di F. Rigetti, Il Mulino, Bologna 2007, spec.

PP· 53-86. 57. M. Buber, Due tipi dJfede. Fede ebraica e fede cristiana, cit., pp. 118120.

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È evidente come, anche su questo tema, Buber, come abbiamo già evidenziato tenendo presente le critiche di Taubes, intenda tracciare una linea di continuità tra l'autentica spiritualità ebraica e l'insegnamento di Gesù, vedendo, invece, in Paolo l'origine storica delle trasformazioni, spesso presentate come veri e propri travisamenti o strumentalizzazioni, che hanno segnato la distanza tra le due fedi messe a confronto. Il tema dell'amore è, per Buber, uno dei luoghi concettuali in cui tale distani.a si palesa maggiormente, in quanto l'Apostolo si concentra molto sull'amore tra gli appartenenti alla comunità di Cristo e poco su quello degli uomini verso Dio, coltivato nella spontaneità della fede. Buber mira a sottolineare come nel giudaismo l'uomo, come fonte d'amore per Dio, svolge un ruolo fondamentale. L'Antico Testamento è radicale su questo punto, richiama ad un amore totalizzante nella genuinità della relazione di fede: «tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima e con tutte e le forze» (Dt. 6,5). Il Dio veterotestamentario dunque non rende testimoniani.a da sé, ma vuole l'uomo come suo testimone (Is. 43,10; 44,8). Lo stesso timor di Dio è intriso d'amore (Dt. 10,12), perché se mancasse questa componente il timore diventerebbe idolatria. Tutti i richiami all'amore si riferiscono dunque, come si è evidenziato sin dall'inizio del nostro accostamento al testo buberiano, ad una relazione dialogica tra partner in cui l'uomo, entro i suoi limiti, corrisponde alla poten7.a dell'amore di Dio58• In Paolo, invece, anche l'amore è letto in chiave escatologica: la manifestazione dell'amore è unidirezionale, in quanto è Dio ad amare l'uomo attraverso la riconciliazione operata da Cristo (Rm. 5,8 e ss.). Ciò emerge ancora con più chiare7:7.a, secondo Buber, se si considera il sentimento opposto: l'ira di Dio perde in Paolo ogni carattere veterotestamentario di corruccio paterno verso il figlio insubordinato (Rm. 9,22),

58. lvi, pp. 173-174.

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per cui egli afferma: «in tutto questo modo di pensare non c'è spazio per la relazione immediata tra Dio e la sua creatura, quale si poteva ancora vedere nell'Antico Testamento, pur nei momenti di collera estrema: qui Dio non si adira, abbandona l'uomo in preda a quell'entità violenta che è l'ira e lascia che essa la tormenti, fino a che Cristo non comparisca come salvatore»50 • Nel dire ciò Buber non intende negare il carattere misericordioso presente nel Dio paolino, ma sottolinea che tale idea non rimanda ad un rapporto immediato tra il creatore e la creatura, bensì ad un disegno superiore di salvezza, in base al quale Dio ha incluso tutti nella collera per avere di tutti misericordia. Da questo punto di vista, osserva il teologo ebreo, l'anima del credente cristiano sembra correre il rischio di essere in balia di un Dio iracondo e distruttore, per poi volgersi al Cristo amorevole e misericordioso; il che espone, qualora tale polarità fosse elevata a dogma, il paolinismo alla possibilità di degenerare in marcionismo60• Buber nota dunque, con accenti più critici rispetto a Bultmann, come l'insistere paolino sulla redenzione rischia di piegare al piano escatologico di salvezza universale anche il senso della creazione e della rivelazione. In ciò il peccato svolge una funzione fondamentale, in quanto, affinché l'uomo sia redento, esso deve giungere a pienezza perché venga espiato. Tuttavia, tale colpa è tanto grande e infinita che l'espiazione può essere operata soltanto da Dio, attraverso il Figlio che assume su di sé i peccati dell'umanità e redime con le sue sofferenze chi crede in lui. La dottrina paolina della redenzione si svi-

59. lvi,p. 177. 60. lvi, p. 178. È interessante rilevare come Taubes, pur essendo, come ricordato piÌI volte, molto critico nei confronti dei nessi concettuali sottesi a Due tipi di fede, avverta, seppur non in chiave polemica, lo stesso pericolo di Buber neUe sue ultime le-.àoni su Paolo (cfr. J. Taubes, IA teolcf!a politica di SanPaolo,cit, spec. pp. 107-117).

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luppa mantenendo viva la polarità tra Dio Padre, creatore di un mondo bisognoso di salve7.7.a e il Figlio che lo riconcilia a lui mediante la sofferen7.a. In ciò l'idea veterotestamentaria dell'uomo che soffre per amore di Dio è stata ribaltata in un Dio che soffre per amore dell'uomo. Buber, pur non nascondendo una certa ammira7.ione per la gigantesca costella7.ione di idee religiose tracciata da Paolo, nota come essa sia nata dall'oblio dell'immediateZ7.a del rapporto Dio-uomo, Dio-popolo conservata dal giudaismo. Nella spiritualità ebraica c'è infatti un modo dialogico, più che dialettico, di concepire il nesso tra trascenden7.a ed attualità, in base al quale l'uomo e Dio non si fondono in un'unione mistica, restano ognuno nella propria alterità; il che non esclude, anzi radicaliZ7.a, il mistero irriducibile dell'incontro tra i due. Una rela7.ione in cui Dio non abbandona mai la creatura al suo destino, pur lasciandola libera di esporsi al mondo, non le fa mancare il proprio sostegno&•. La componente di fiducia insita nella fede ebraica emerge in modo lampante se si considera come il credente affronta le sofferenze e le prove della vita Per l'ebreo infatti l'esperien7..a della sofferen7.a scombussola inevitabilmente il legame con Dio, facendo nascere legittimamente l'inquietante interrogativo sulla giustizia divina, sul senso ultimo della sofferen7.a stessa e sul valore della propria fedeltà. La risposta più efficace viene, secondo Buber, dal giudaismo farisaico e non è, a differen7.a del paolinismo, di natura escatologica. La severità di Dio e la sua grazia, il giudizio e la misericordia, sono sempre insite nel rapporto di fede, attraverso il nesso tra attualità e trascenden7.a di cui si è già detto. I due aspetti vengono intesi come middot di Dio, cioè non attributi o forze divine, ma modi, modalità di comportamento, atteggiamenti di fondo,

61. lvi, pp. 184-186.

sempre all'interno della dinamicità del rapporto uomo-Dio. Il Dio vivente ebraico abbraccia sempre l'intera popolarità di ciò che capita al mondo nel bene e nel male. Per cui dove si manifesta la grazia opera anche la severità e, di conseguenza, ogni atto che, dal punto di vista umano, può sembrare di castigo ha in sé la presen:7.a della misericordia divina e la possibilità della riconciliazione. L'uomo consapevole di tale specificità dell'azione di Dio nel mondo, sperimentata nel rapporto di fede, può persistere con atteggiamento di fiducia, pur nella sofferenza e nell'ingiustizia, perché consapevole del fatto che in essa si manifesta, al contempo e in modo paradossale, la fedeltà di Dio e il suo amore.

È chiaro dunque che Buber intende contrapporre alla partizione escatologica paolina tra peccato, in questo eone, e salvezza, inaugurata dalla redenzione di Cristo, da compiersi alla fine dei tempi, nel nuovo, l'unità dinamica di giustizia e grazia insita nell'immediatezza del rapporto con il divino. Nel dire ciò il teologo ebreo sottolinea, tuttavia, che non ci si può rivolgere ad una sola delle '111UÙÙ>t ignorando le altre; esse implicano un abbandono fiducioso a Dio indipendentemente dal fatto che in un determinato momento prevalga l'una o l'altra, poiché Dio, in virtù di questa unità, come può essere terribile nel giudizio, può essere altrettanto generoso e rioco d'amore nella grazia. Il merito della dottrina farisaica delle middot, per Buber, è quello di aver rinnovato l'emunah, facendole riscoprire la grande fiducia in Dio, alimentata dall'immediatezza del rapporto di fede e obliata, invece, da Paolo con la contrapposizione escatologica tra l'eone presente e quello futuro~. Essa rappresenta, per il teologo ebreo, il punto di maggior distanza tra l'Apostolo e la tradizione in cui si è formato. Egli, partendo dal peccato di Adamo, lo estende a tutta l'umanità,

62. lvi,pp. 186-188.

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per rendere necessaria la salv= di Cristo, attraverso la quale si ottiene la remissione e si restaura il rapporto con Dio. Ciò avviene, tuttavia, a scapito dell'immediatezza della relazione di fede, annu1Iata dalla concezione escatologica della storia, in cui i momenti decisivi sono soltanto l'inizio e la fine, mentre il "tempo intermedio" è dominato da un destino ineluttabile, spezzato soltanto da Cristo. Il piano escatologico della salvez7.a abolisce dunque ogni immediatezza tra uomo-Dio e viene introdotta la funzione mediatrice dello Spirito che intercede per l'uomo presso Dio (Rm. 8,26). La connotazione "pneumatica" data da Paolo al nascente cristianesimo è dunque il modo attraverso cui, pur negando l'immediatezza di matrice ebraica, l'Apostolo ammette una possibilità di dialogo mediato tra l'uomo e Dio63 • Buber porta il suo discorso alle estreme conseguenze e con una feconda intuizione coglie il pericolo, gravido di conseguenze per il pensiero moderno, sotteso ad una fede ed ad una religiosità priva della sua costitutiva componente di alterità, quando avverte che dietro l'immagine del Dio di Paolo, o meglio del Paolo interpretato secondo tali categorie storicoescatologiche, si celano già i presupposti della filosofia di Hegel. Infatti se si strappa la concezione storico-escatologica del paolinismo dal contesto di fede in cui è pensata, la si potrebbe trapiantare in un sistema in cui Dio è identificato con la ragione filosofica e, grazie alla propria astuzia, riesce a costringere le poten7.e storiche entro un piano logico e teleologico predeterminato da perseguire e realix,.are64 • Tale sottolineatura è utilizzata da Buberin chiave anti-paolina per ribadire la distan7.a tra il pensiero dell'Apostolo e la tradizione ebraica, ma potrebbe fungere, ai fini del nostro percor-

63. lvi, pp. 193-194. 64. lvi, p. 132.

85 so, come sprone alla ricerca di un strada "altra" e poco battuta, che non conduca necessariamente alla vizi.osa circolarità della ragione storica hegeliana Una via non contra Paolo, ma con Paolo, attraverso la quale si comprenda come l'Apostolo, nell'innestare una nuova fede, non recida, ma coltivi, in modo originale, la radice "altra" della propria matrice ebraica.

2.3 La radice "occultata" del Paol.o di Heidegger Se per un verso il passaggio attraverso il confronto tra ebraismo e cristianesimo operato da Buber ci ha permesso di comprendere meglio e dall'interno la specificità della fede ebraica, che non veniva fuori dalle categorie di profezia e compimento con le quali Bultmann interpreta, e in un certo senso semplifica, il rapporto tra le due fedi; dall'altro è apparso evidente come il teologo ebreo insista sulla frattura tra Paolo e Gesù, per far del primo il fondatore della pistis e del secondo un "maestro" ancora interno all'emunah. Il nostro intento è, invece, quello di verificare se sia possibile un "ponte" tra le due esperienze religiose, pur preservando le rispettive differenze. Tale punto d'incontro potrebbe essere proprio la paradossalità della fede ebraica, il suo vivere di prossimità e lontananze, intimità ed estraneità, sofferenze e grazia, attualità e trascendenza, elementi che potrebbero fungere da raccordo proprio perché, come attesta lo stesso Bultmann, sono decisivi e caratteri7.7.anti anche per il cristianesimo, il quale, pur nella novità del suo messaggio, non può non riconoscere che tale dimensione si sia sviluppata nel solco della sua innegabile radice ebraica. Bultmann sostiene infatti che il dono dello Spirito in Paolo (cfr. Gal. 5,16; Rm. 9,12) non indichi alcun possesso sicuro: il cristiano "ha" lo spirito non come un dato di cui disporre, ma come richiamo costante ad un'esistenza autentica Ciò non implica alcuna pretesa moralistica, ma il semplice richiamo all'appartenenza a Cristo, all'essere in que-

86 sto mondo sem;a piegarsi alle sue logiche, perché chiamati e sempre protesi, dal punto di vista escatologico, verso il futuro della parusia6S. Essa non implica un senso di inoperosità o di totale estraneità al mondo nell'attesa del compimento futuro. Paolo lo fa capire chiaramente attraverso la caratterizzazione del "tempo intermedio", cioè quello che va dalla morte e resurrezione di Cristo, inizio del nuovo eone, al suo "ritorno". Se la resurrezione di Cristo significa liberazione dal peccato, il cristiano deve mantenersi il più possibile in tale condizione, impegnandosi non tanto nel raggiungimento di un perfezionismo morale, ma evitando il peccato di confidare troppo su di sé, di voler vivere da sé, contando solo sulle proprie forze, senza abbandonarsi radicalmente a Dio. La fede, da questo punto di vista, non è altro che la consapevolezza di non appartenere più a se stessi, maa Dio (1 Cor. 6,19), per cui l'uomo può tralasciare con fiducia le logiche umane, troppo umane, per aprirsi alla grazia e divenire nuova creatura in Cristo (2 Cor. 5,17). La libertà umana che si apre alla grazia divina sa che essa stessa è dono, non inteso come bene, come possesso stabile, ma come necessità di apertura costante affinché esso si rinnovi costantemente. Il credente dunque non acquista una misteriosa potenza di immortalità, ma la libertà di vivere al servizio di Dio e dell'altro. L'esistem;a escatologica, nata dal dono dello Spirito, implica un vivere nel presente anche se si è già proiettati verso il futuro, un essere nel mondo pur essendo escatologicarnente demondanizzati (Fil. 3,20). Bultmann lo definisce il paradosso del tempo intermedio perché Paolo non invita mai i cristiani a cercare la fuga mundi, anzi ribadisce che la dimensione propria della fede, nell'attesa del ritorno del Signore, è I'esisten1.a concreta. I cristiani devono prendere parte alla vita mondana, ma, allo stesso tempo, essere in grado di mantenere la distan1..a del "come se non" (1 Cor. 17,29-31), owero, pur essendo

65. R. Bultmann, Credere e comprendere. Raccolta di articoli, cil, pp. 54 e ss.

87 radicati nel presente, la loro esistell7.a non può arrestarsi a tale dimensione, perché è sempre protesa al futuro della parusia, la quale rappresenta la speran7.a ultima della vita cristiana66 (R1n. 5,2-5). Il carattere inquietante e paradossale della fede per l'esistenza umana dipende, secondo Bultmann, dall'atto stesso della rivelazione cristiana, dalle peculiarità del suo messaggio. La rivelazione infatti non è una semplice comunicazione noetica, come può essere, ad esempio, la trasmissione di un sapere. Essa è un evento, un puro accadere che situa chi ne è coinvolto in una nuova dimensione esistenziale, per questo essa non informa, ma interpella, mette di fronte ad un'inquietante verità che apre ad una nuova prospettiva di vita, la quale mostra che già dal momento dell'incontro con l'Altro si è all'interno del paradosso escatologico descritto in precedenza. L'esistem.a credente non trae dunque forza dall'illusione del possesso di una verità granitica, ma dalla feconda inquietudine derivante dal]'esperire la misteriosità del divino, il suo eccedere le logiche del mondo, aprendo ad una dimensione altra che sarà eventuale certezza solo nel compimento futuro, ma che ora va vissuta nella dimensione del non sapere, del non ancora, nell'insecuritas costitutiva della fede67 • Tale concetto di rivelazione mantiene un profondo nesso con la predicazione, poiché il kerygma cristiano, una volta ricevuto in dono ali'atto della rivelazione, va diffuso e testimoniato. La predicazione implica dunque una comunicazione che non va ridotta ad una semplice spiegazione deduttiva, poiché la forza di ciò che è annunciato è tale da coinvolgere e in un certo senso sconvolgere, l'intera esistell7.a di chi la riceve. Essa non implica una ricezione passiva, una mera comprensione dei contenuti comunicati, ma un aprirsi nella decisione alla fede in Cristo, uno scegliere di accogliere la sua salvezza; il che comporta, allo 66. lvi,pp. 697-707. 67. lvi,p p . ~ .

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stesso tempo la possibilità di una nuova auto-comprensione della propria esisten7..a. Dunque lo stesso carattere di accadere, che rappresenta la dimensione propria della rivelazione, caratterizza anche la predicazione in quanto suo compimento. Nella predicazione infatti il kerygma cristiano da semplice "insegnamento" diventa appello diretto, invito ali'ascolto e all'apertura all'evento salvifico. Essa è parola posta al servizio dell'altro perché ci si apra alla fede nell'assolutamente Altro e si edifichi la comunità dei credentr. Il problema che Bultmann individua, senza tuttavia affrontarlo in tutta la sua problematicità, è come poter conciliare il carattere di accadere della rivelazione e della predicazione, la loro costitutiva alterità, con il compito di edificare comunità, che è essenziale per Paolo ed il nascente cristianesimo. Bisogna chiedersi dunque se sia possibile conferire ali'edificare un significato "altro" che dia un nuovo senso alla predicazione paolina, non riducendola a pura enunciazione dogmatica finali7.7..ata al proselitismo e, allo stesso tempo, riesca anche ad andare oltre lo schema conflittuale della posizione e dell'affermazione di sistemi di valori che, come si è visto in preceden1.a, condiziona la lettura "nietzschiana" della teologia politica paolina fatta da Taubes. Ed in ultimo, elemento ancor più decisivo ai fini del nostro percorso, bisogna chiedersi se è possibile accostare tale radice altra della predicazione paolina all'inquietudine del pensiero e della fede ebraica. Questi interrogativi ci spingono ad abbandonare il dettato bultmanniano per rivolgerci al celebre corso di Heidegger, pubblicato con il titolo di Fenomenologia della vita religiosa, perché in queste pagine il filosofo tedesco, confrontandosi con l'Apostolo, finisce col portare allo scoperto la dimensione inquieta della vita cristiana, rintracciandone la radice proprio nella dimensione altra della predicazione paolina. 68. Ivi, pp. 191-194.

89 La scelta di inserire Heidegger in un testo che intende interrogarsi sulla fecondità dell'alterità ebraica di primo acchito può apparire azzardata, se non addirittura provocatoria, poiché, anche se il nostro accostamento si limita alle sole pagine in cui il filosofo tedesco si confronta con Paolo, non può non chiamare in causa la spinosa questione dei rapporti di Heidegger con l'ebraismo, divenuta di scottante attualità dopo la recente pubblicazione dei Quaderni neri. Tali scritti hanno portato alla luce il fatto che l'eredità heideggeriana, soprattutto su questi temi, è più scomoda di quanto si sia creduto finora. Rispetto a tale lascito non si può certo restare indifferenti, ma non è altrettanto fruttuoso assumere posizioni estreme di giustificazione in nome di una presunta "nostalgia del padre" o, ali'opposto, di totale rifiuto, di recisione decisa e netta di ogni inevitabile legame con il pensiero del filosofo tedesco. Proscrivere o assolvere Heidegger significherebbe infatti coinvolgere, indipendentemente da quale delle due vie si scelga, tutta la storia della filosofia continentale di cui egli stesso è in un certo qual modo un erede scomodo. L'atteggiamento più adeguato e conforme allo spirito interrogante della filosolìa ci appare quello di un ritorno problematico ad Heidegger che tenti di riconsiderare l'intero arco del suo pensiero, sen7.a trincerarsi dietro schieramenti conffittuali di assolutori e detrattoniiO. Tale compito, sen7.a dubbio gravoso, sta impegnando e continuerà ad impegnare gli studiosi per molti anni necessitando di spazi e tempi di approfondimento che vanno ben al di là degli inevitabili confini del nostro testo. Tuttavia un accostamento consapevole ed accorto alle pagine heideggeriane su Paolo non può non tener conto, in tutta la sua problematicità, del dato incontrovertibile che emerge dai Quaderni neri: l'antisemitismo di Heidegger. Tali scritti hanno messo in luce

69. D. Di Cesare, Heidegger & sons. Eredità e futuro di un filosofo, Bollati

Boringhleri, Torino 2015, pp. 38-47.

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il fatto che l'adesione del filosofo tedesco al nazismo non può esserecircoscritta alla sola parentesi del Rettorato, quasi fosse una scelta opportunistica dettata dalle circostan7.e, ma va letta come la conseguem.a di una precisa scelta ideologica e filosofica che ha nell'antisemitismo il suo punto nodale, in quanto il rapporto con l'ebraismo, la celebre "questione ebraica", è per Heidegger, come rileva Donatella Di Cesare, una questione filosofica e metafisica che si inserisce entro i confini della storia dell'Essere e del suo oblio70.

La sorte dell'ebraismo è dunque legata al destino dell'Essere, poiché il pensiero calcolatore giudaico è legato al predominio dell'ente. L'ebreo diviene dunque il nemico metafisico pereccellen7.a, perché favorisce l'occultamento dell'essere, si frappone come ostacolo alla ricerca "aurorale" di un nuovo inizio della storia della metafisica e al tentativo del suo superarnento71. Heidegger riconduce dunque laJudenfrage entro la Seinfrage. Nei Quaderni neri il filosofo tedesco sviluppa, secondo Di Cesare, una metafisica dell'ebreo in base alla quale egli avan7.a la pretesa fondamentalista di definirlo. Il risultato è un ebreo metafisico, simbolico e figurale, cui sono astrattamente ed astrusamente applicate delle qualità che lo rendono il polo negativo della storia dell'Essere, l'estremo da scartare, l'estraneo da respingere72• È evidente, dunque, che l'antisemitismo di Heidegger è distante dal biologismo darwinista diffuso dalla vulgata ideologica nazista, perché egli pone la questione sul piano strettamente ontologico, ma tale passaggio non mitiga la posizione del filosofo tedesco e la sua responsabilità, chiamando in causa l'intera storia della filosofia, rispetto alla quale

70. O. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. t •quademi neri", Bollati Boringhieri, Torino 2014, pp. 3-12. 71. lvi, pp. 98-106. 72. lvi, pp. 207-211 .

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il pensiero ebraico rappresenterebbe la pietra di inciampo e non, come abbiamo già sostenuto e approfondiremo ulteriormente nei prossimi capitoli, un possibile punto di svolta73. Un problema tanto grande e spinoso non può essere esposto in cosi poche battute, neoessitando giocoforza di ben più ampi spazi di approfondimento, però è sembrato opportuno accennarlo, seppur brevemente perché esso rappresenta il presupposto imprescindibile per ripensare a come il rapporto problematico ed inquietante di Heidegger con gli ebrei emerga nella Fenomenowgia della vita religiosa, proprio attraverso l'accostamento alla figura "mediatrice" di Paolo. La lettura heideggeriana si muove, infatti, all'interno del paradosso di continuità e rottura tra ebraismo e cristianesimo, approfondendo e complicando quanto abbiamo già cercato di far emergere accostandoci a Bultmann e Buber. Soprattutto la Lettera ai Galati è presentata da Heidegger come una via d'accesso privilegiata alla vita del primo cristianesimo. È significativo il fatto che il filosofo tedesco individui nel testo greco l'originale che può essere assunto come base per una reale comprensione del fenomeno e sottolinei il fatto che i veri destinatari della lettera sono gli ebrei, poiché Paolo è in lotta per affermare l'indipenden7.a del nascente cristianesimo dal contesto ebraico. In questa prima parte della sua interpretazione Heidegger segue la via, già emersa attraverso Bultmann, della frattura tra le due fedi. Egli la colloca in una precisa visione del tempo in base alla quale, nel voler affermare la fine del vecchio eone come la morte e resurrezione di Cristo, e, contestualmente, l'inizio del nuovo, Paolo non può non marcare le distanze da tutto ciò che lo aveva preceduto. Il cristianesimo

73. D. Di Cesare, Heidegger & sons, cit., pp. 83-87. Sul passaggio, all'interno dei Quademl neri, dal ra:c.dsmo biologico a quello metafisico, dal concetto di razza a quello di rango, si veda Id., Heidegger e gU ebrei. I •quaderni neri, cit., pp. 131-139.

92 paolino, nella Lettera ai Calati, rivela dunque, per il filosofo tedesco, tutta la sua fo17,a auto-fondativa, la volontà di costruirsi una posizione storica autonoma, setl7.a alcun riguardo per le forme di religione precedenti in particolare la tradi.zione giudaica. In Paolo il cristianesimo si caratterizrerebbe come esperien7,a originaria di frattura e non di continuità con qualsiasi altra tradizione storica. Paolo è in lotta con il mondo circostante e anche quando si serve di elementi attinti alla tradizione rabbinica lo fa sempre per distanziarsene, per esplicare l'originarietà della propria esperien1,a religiosa. L'elemento decisivo è il nuovo concetto di legge da liberare da tutte le sovrastrutture cerimoniali rituali e morali per aprirsi al primato della fede. L'obiettivo polemico è ancora una volta l'ebraismo ed anche la nascente comunità ebraico-cristiana. L'Apostolo intende spe7.7.are l'identificazione ritualistica tra l'ebreo e la legge, per fare della fede l'elemento decisivo, in quanto tutto dipende dal come, dall'atteggiamento con cui si compie la legge e non dall'osservanza pedissequa dei precetti (Fil. 3,13). L'argomentazione teologica di Paolo, secondo Heidegger, intende dunque marcare la distanz.a dal contesto ebraico e lo fa applicando anche a quest'ultimo la propria impostazione concettuale, poiché anche Abramo è considerato come esempio di giustificazione per fede e non di fedeltà alla legge (Gal. 3,6-8). Tale adempimento è presentato come impossibile e destinato inesorabilmente al fallimento, per cui la fede viene ad essere l'unica via per la giustificazione. La figura di Paolo è, da tale punto di vista, paradigmatica poiché egli palesa l'autocertezza della nuova fede nella propria vita che rappresenta, allo stesso tempo, una frattura nell' esisten7.a singola, poiché apre ad una nuova comprensione storica e originaria del proprio sé e del proprio esserci74 •

74. M. Heidegger, Fencmenclogia della oita religiosa, tr. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2003, pp. 100-112.

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Sulla scorta di queste pagine Di Cesare si chiede se Heidegger non caratterizzi in tal modo la lìgura di Paolo al solo scopo di liquidare l'ebraismo e fare del cristianesimo la religione originaria. Un taglio netto, una cesura che può avvenire solo se si tenta di coprire, occultare e rimuovere l'origine semita della religione cristiana. Significativo è infatti il richiamo al greco come Ur-text, non menzionando il fatto che esso rappresenti, a sua volta, la traduzione dell'originale ebraico. Proprio Heidegger, che nell'intero arco della sua opera ha mostrato un interesse quasi ossessivo per la ricerca della vera origine dei fenomeni, qui si arresta ad un "derivato" e non scava oltre. Il lìlosofo che più di tutti ha insegnato al pensiero contemporaneo a rintracciare l'Ab-grond celato dietro ogni Grond, si arresta in superficie, piuttosto che andare a fondo, al fondo originario del dettato paolino, si affretta a ricoprirne l'origine, non la sonda ulteriormente. La mossa di Heidegger ha dunque un singolare valore teologico: separare il greco dall'ebraico vuol dire dividere il Nuovo dall'Antico Testamento, escludere la Torah dalla Bibbia, limitando la rivelazione e l'ambito della fede al solo cristianesimo, non riconoscendo il valore originario della fede e del pensiero ebraico75. Se da una parte Heidegger sembra inserirsi nella tradizione teologica che insiste sulla frattura tra le due fedi accentuandone la distanza, dall'altra sembra riavvicinarle inconsapevolmente nella sua interpretazione delle due Lettere ai Tessalonicesi. Già la sola caratterizzazione generale della fede cristiana non sembra molto lontana dalla dimensione "altra" della fede ebraica su cui stiamo insistendo sin dall'inizio del nostro percorso. Il cristianesimo, per Heidegger, non offre una beatitudine delìnitiva, bensl trasmette l'inquietudine per l'attuazione

75. D. Di Cesare, Heideggere gli ebrei. l -quaderni neri", cit., pp. 263-266. Cfr. Id., Heidegger & son.s, cit., pp. 90-92.

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del suo messaggio nel presente e per il suo compimento nel futuro. Il cristianesimo fa della redenzione un principio esistenziale che abitua alla lotta, al morire costantemente con Cristo, poiché chi riconosce in lui il Messia, procede verso una nuova meta escatologica, ma nel farlo non è esente dal vivere l'inquietudine sottesa alla speran7.a di tale compimento76. Questa componente emerge con chiarezza, secondo il filosofo tedesco, dalla predicazione paolina. Tuttavia bisogna comprendere, sin dalle battute iniziali, che essa va intesa non come semplice enunciazione dogmatica o prescrittiva, ma come richiamo ali'effettività della vita cristiana, al suo realiz7.aJSÌ in un dato tempo, in un determinato momento storico e nel suo incarnarsi in scelte e decisioni. La predicazione di Paolo è pertanto una comunicazione esistenziale alla comunità. Egli intende mostrare ai chiamati il Vangelo come fo17.a che spinge ali'attuazione della fede, per cui chi vive secondo il messaggio di Cristo è chiamato alla cura perdurante, a mostrare nella vita effettiva l'autenticità della fede che non poggia sulla sapien7.a umana (1 Cor. 2,4-5), ma solo sulla speran7.a che viene da Cristo 77• Bisogna cogliere dunque le coordinate esistenziali entro cui Paolo si muove nel suo rivolgersi ai Tessalonicesi. Egli non è un comune predicatore errante, perché già nell'atto di stiJare o dettare le lettere deve tener presente il mondo degli altri, il contesto di vita effettiva, l'ambiente circostante (Umgembung), in cui le sue parole andranno ad inserirsi. La datità del mondo, l'inevitabile incontro e confronto tra il proprio sé e il mondo degli altri è un fattore decisivo anche per il suo messaggio. Egli non persegue l'ideale di una costruzione e di una comunicazione teoretica calata dall'alto, ma affronta tutta la

76. M. Hcidegger, Fenomenologia della oita religi.:=,cit., p.172. 77. lvi, pp. 181-182.

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problematicità legata all'originarietà dell'assolutamente storico, nella sua irripetibilità, per cui il come, la domanda metodologica sulla comunicazione implicata nella predicazione assume una grande rilevan1.a. La necessità di confrontarsi con l'altro e con il suo mondo comporta infatti l'accettazione di una costitutiva molteplicità e pluralità dell'esposizione e della comunicazione che non lascia spazio ad una direzionalità e ad un ordine univoco e uniforme. Non c'è e non vi può essere alcuna unità logico-formale, nessun ordinamento precostituito a cui conformarsi. La stessa natura "altra" del linguaggio si ribella a ciò, non ammette la chiusura di tale esposizione entro i rigidi confini dell'egoicità, perché è pensata, sin dal)' origine, come un andare incontro all'altro. Il linguaggio, in virtù della situazione altra in cui si inserisce, perde il suo senso di staticità, per aprirsi ad una concezione dinamica che è anche al di là della semplice alternativa statico-dinamica. Esso dipende dal tempo della vita effettiva e dal contesto della sua attuazione, che implica un paradossale connubio di molteplicità ed unità, irriducibile al solo predominio di uno dei due termini. In altre parole, è la relazionalità stessa della situazione concreta in cui Paolo si inserisce a condizionare le modalità della sua predicazione, il suo stesso linguaggio78• È in quest'ottica non univoca, ma di reciproca alterità che bisogna comprendere il rapporto di Paolo con i Tessalonicesi. Non è solo attraverso la predicazione dell'apostolo che essi sono divenuti comuni-

78. lvi, pp. 126-133. È evidente dunque che Heidegger veda nel linguaggio un via vern> la dimensione "altra" della fede, ma è altrettanto singolare che egli non colga la sua prossimità alla dimensione profetica del linguaggio, essenziale per il pensiero ebraico (Sul tema cfr. M. Zarader, Il debito impensato. Heideggere l'eredità ebroù:a, tr. it di M. Marassi, Vìta e Pensiero, Milano 1995, pp. 43-68). Ritorneremo su questo punto fondamentale per lo sviluppo del nostro percorn> attravern> Lèvinas, il quale invece fa della dimensione profetica del linguaggio, attinta dalla tradizione ebraica, la via d'uscita dall'egoicità (Cfr. §5.2e §5.3).

96 tà, ma il loro stesso essere stati chiamati da Cristo influisce e rinsalda l'essere divenuto, la chiamata dello stesso Paolo (1 Ts. 1,5-7 e ss.; 2,13-15). L'Apostolo comunica un sapere del tutto diverso da quelli mondani, un sapere non dogmatico, non chiuso in se stesso, che per attuarsi ha bisogno della costante presen7.a dell'altro. Egli annuncia che la fede non si esaurisce nel semplice volgersi verso Dio, ma necessita dell'andare incontro ali'altro da sé per sperare insieme a lui. Heidegger può cosl affermare: «il sapere circa il proprio essere divenuti è l'inizio e l'origine della teologia»70• Da ciò può derivare una gioia che non è mai sinonimo di totale e appagante appartenenza a Dio, ma implica un'accettazione dell'inquietudine della vita cristiana, dipendente, a sua volta, da un radicale cambiamento di vita e dall'accoglien7..a del divenire proprio ed altrui. Se nella Prima Letret-a ai Tessalonicesi non mancano i riferimenti al volgersi verso Dio (cfr. 1 Ts. 1,9-10), essi vanno intesi non come se si trattasse di un oggetto di speculazione, perché in tal caso verrebbe meno lo scopo principale del dettato paolino, owero l'esortazione ad una vita cristiana autentica. Egli sembra rivolgere tale invito innanzitutto a se stesso, dicendo che il suo stesso essere apostolo dipende dalla salde:7.7..a della fede dei Tessalonicesi, rimettendosi al loro destino comunitario (1 Ts. 3,8-10). Questi ultimi costituiscono per lui una speranza, non nel senso umano di chi confida nella for7.a dell'altro, ma in quello escatologico ed extra mondano dell'attesa del ritorno del Signore alla fine dei tempi, che spinge a persistere persino nelle angustie della vitaro. Heidegger dunque interpreta anche la Prima Lettera ai Tessalonicesi come una lotta per l'affermazione della nuova fede, ma vi aggiunge un elemento decisivo, assente in precedenza, owero la cura per l'altro. Una dimensione inquie tante, ma necessaria per un autentico cammino

79. Ivi, p. 13.5. 80. lvi, pp. 137-138.

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nella notte verso il tempo della lìne (1 Ts. 2,17-19). L'insicurezza è perciò decisiva nella vita cristiana e muta radicalmente il senso della predicazione, che non può essere ridotta a mera assimilazione di contenuti dogmatici, perché l'annuncio cristiano non lascia riposare, invita alla responsabilità verso l'altro, ad andare incontro all'altro per comunicarsi reciprocamente la centralità del Vangelo nella vita, seguendo l'esempio di Paolo nel rapporto con le sue comunità. La verità della predicazione paolina è dunque nell'accoglien7,.a che i credenti fanno del suo messaggio; è la loro apertura e non un principio di autorità a renderlo "vero" ed è in quest'ottica che va letto il suo apostolato, il suo costruire comunità. Il linguaggio di Paolo edilìca solo in virtù dell'accoglienza offerta da altri. È l'apertura alla dimensione "altra", all'ascolto accogliente che invera la predicazione. È una parola sempre incerta, perché segnata inevitabilmente dalle tribolazioni della vita, una parola che non consola, che non toglie la sofferew.a, ma che, al contrario, agita ed inquieta, perché la fede autentica è tutto tranne che assicurazione e certezza81 • L'altro grande tema delle pagine heideggeriane su Paolo è la parusia. Egli ritiene opportuno distinguere il significato veterotestamentario da quello cristiano precisando che non si tratta dell'awento del Signore nel giudizio finale, ma del ritorno di Cristo già manifestatosi come Messia e specifica, sen7.a approfondire ulteriormente le differenze, che con il cristianesimo la struttura di tale concetto muta La parusia cristiana, secondo il filosofo tedesco, indica una speran7.a radicalmente diversa da ogni attesa, sottintendendo con ciò quella ebraica, poiché apre ad una visione del tempo come attimo82, alla para81. G. Rossè, V. Vitiello, Paolo e l'Europa. Cristianesimo efilosofia,cit., pp.

236-237. 82. Torneremo sulla centralità dell'attimo nel messianesimo ebraico attraverso Rosenzweig, il quale mostra, proprio su tale concetto, la paradossale

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dossale congiunzione di chronose kairos. Unaconcezione del tempo in cui si può sperare nel ritorno del Signore, ma non si può mai sapere quando ciò accadrà. La speran7,a messianica dunque non placa, semmai accentua, il carattere inquieto della vita cristiana e coloro che traggono pace e sicurezza da essa mostrano soltanto il loro essere attaccati alle logiche del mondo. La parusia sarà per questi ultimi un evento rovinoso e doloroso come le doglie del parto (1 Ts. 5,3). Coloro che invece vivono alla luce della speranza cristiana si fanno carico dell'inquietudine sottesa ad essa, cercando di viverla fino in fondo, non dormono come gli altri ma restano svegli e sobri (1 Ts. 5,6). In questi versetti Heidegger ritrova il senso del "quando" della visione escatologica cristiana e in particolare di ciò che, attraverso Bultmann, avevamo definito il tempo intermedio, per cui commenta: «si tratta di un tempo senza un proprio ordine e senza punti fissi. È impossibile cogliere questa temporalità in base a un qualsiasi concetto obiettivo di tempo. Il"quando" (Das Wann) ncn è in nessuno 1rwdc concepibile in termini obiettivi»83• È uno dei punti in cui l'interpretazione heideggeriana di Paolo mostra la paradossale vicinanza tra il tempo cristiano e quello ebraico, al punto tale che, come sarà evidente accostandoci al pensiero di Rosenzweig, tale definizione potrebbe essere utili7.7.ata anche per caratteri7.7.are il tempo dell'attesa veterotestamentaria sen7.a mutarne il significato sostanziale. Heidegger però sembra avvertire tale prossimità concettuale come un pericolo, provvedendo subito allo smarcamento, citando rapidamente e senza ulteriori approfondimenti, il N libro di Esdra, ma sottolineando che: «l'indirizzo escatologico fondamentale è già tardo-ebraico e la co-

affinità, non colta da Heidegger, tra il messianesimo ebraico e quello cristiano, facendone uno dei punti di contatto tra le due fedi (Cfr. ~4.3 e ~4.4). 83. M. Heidegger, Fenomenologia della oita religiosa, cit., p. 145. Corsivo mio.

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scien1.a cristiana ne costituisce una trasformazione peculiare»84• Per il filosofo tedesco è più importante ribadire la costante insicurezza della vita cristiana, come riflesso dell'incertezza della vita effettiva Tale elemento non è casuale, bensì necessario perché da esso dipende l'autenticità della speran1.a cristiana, il senso profondo del "quando" della parusia. Paolo esorta dunque i Tessalonicesi ad evitare anche il pericolo dell'entusiasmo sacro, della smania per la salvezza, per cui il richiamo alla veglia e alla sobrietà intende evidenziare come il cristiano debba vivere nel mondo sen1.a attaccarsi alle sue logiche per non rimanerne fatalmente impantanato. Il tema ritorna nella Secornla Lettera ai Tessalonicesi poiché Paolo teme che il suo messaggio possa essere stato frainteso e che possano sorgere degli atteggiamenti scorretti all'interno della comunità. L'attesa da lui esposta sembra infatti troppo gravosa per essere sopportata dai credenti e il modo in cui essi la vivono, seppur saldi nella fede e nell'amore, non sembra attenuare la loro angustia, 6no a spingerli ad un passo dalla disperazione. L'Apostolo, coerentemente con quanto detto nella lettera precedente, non cerca di offrire ai Tessalonicesi facili consolazioni, anzi ribadisce che tale stato d'animo attesta il senso genuino e autentico della fede (2 Ts. 1,5). È proprio nel momento dell'angustia che bisogna darsi da fare, persistere nella fede per dimostrare di essere degni della chiamata del Signore. Tale atteggiamento è contrapposto a quello di chi, con il pretesto della parusia, si crogiola nell'inattività e smette persino di lavorare (2 Ts. 3,11). Questi ultimi non hanno compreso bene il senso dell'attesa cristiana, lo hanno confuso con l'auto84. Ibidem. In questo paradossale gioco di prossimità e distanza tra ebraismo e cristianesimo, che ruota intorno alla figura di Paolo, anche Buber su questo tema cita proprio il IV libro dJ Esdra per sottolineare invece la continuità tra l'escatologia e l'apocalittica giudaica e il messaggio di Gesù, rispetto alla quale Paolo costituirebbe l'elemento di rottura. Cfr. M. Buber, Due tipi dJ fede. Fede ebroi,ca e fede cristiana, cit., pp. 179-182.

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rizzazione all'ozio. In essa non c'è mai un invito a trascurare totalmente le cose del mondo, a vivere separati dal mondo e dalle incombenze della vita effettiva. Paolo tenta semmai di palesare il paradosso della vita cristiana: essere nel mondo pur essendo proiettati verso il futuro della speran1.a escatologica, senza accentuare la dimensione extra-mondana a scapito di quella mondana o viceversa. Si potrebbe pensare che Paolo mitighi la radicalità della sua dottrina, sia divenuto più prudente e tenda a tranqnillixzare i membri della comunità. Heidegger fa notare invece che se c'è un cambio di stile e di tenore tra la prima e la seconda lettera è solo per accentuare il carattere inquietante della fede cristiana, per esortare i Tessalonicesi a perseverare nella genuinità della coscienza religios:fiS. È evidente dunque che l'interesse di Paolo non è rivolto alla trasmissione di contenuti teoretico-dogmatici, c'è poco spazio per questo tipo di dimostrazioni. L'elemento predominante e decisivo è costituito dal confronto dai comportamenti fondamentali della vita pratica, per cui l'Apostolo intende sempre la sua funzione di predicatore non tanto come espositore di dogmi, ma come interprete onesto delle difficoltà e dei paradossi che investono l'uomo nel suo cammino di fede, i quali non sono mai edulcorati, né sottaciuti, ma mostrati come via verso l'autenticità. In tal senso Heidegger sottolinea che la separazione, se non addirittura la contrapposizione, tra dogmatica e morale è sbagliata, poiché l'escatologia cristiana, sebbene sia, in senso letterale, dottrina delle "cose ultime", non deve essere limitata al solo ambito teoretico-disciplinare, in quanto riguarda, allo stesso tempo, le situazioni concrete della vita effettiva in cui il credente si trova a vivere. La speran7.a cristiana non poggia semplicemente sulla fede nell'immortalità, bensì è fiduciosa resisten1.a nelle circostanze della vita effettiva. È un attendere umile sia nella gioia che nell'affiizione. 85. M. Hcidegger, Fenomenologia della oita religiosa, cit., pp. 146-149.

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Il fatto che Paolo insista sulla resurrezione dei morti non fa venir meno la priorità accordata ai viventi e la sua costante esortazione all'accoglimento della salvezza. Se dalla fede dipende infatti la speranza nella resurrezione dei morti, da essa dipende anche e soprattutto la fo17..a di tenere salda nel mondo dei viventi tale speran1..a genuina. Per quanto in Paolo la parusia, il tempo del Messia, sia presentato senza dubbio come migliore del presente, il tempo intermedio del!'attesa, pur essendo terreno è caratterizzato dal "non ancora", ha già in sé l'apertura al futuro, è"già" comunque futuro. Tuttavia proprio quando Heidegger sembra aver esposto in maniera efficace il rapporto paradossale tra la dimensione mondana ed extra mondana del tempo messianico, si affretta, come già fatto ampiamente in altri punti delle sue lezioni su Paolo, a marcare la distanza rispetto al contesto ebraico in cui è sorto il cristianesimo e di cui l'apostolo inevitabilmente risente. Egli, senza neanche citare fonti a suffragio della sua tesi, sostiene che nell'ebraismo il tempo del Messia è legato alla sola dimensione terrena, de6nendolo una "teocrazia veterotestamentaria", misconoscendo in tal modo il senso extra mondano dell'escatologia ebraica86 • Pur liquidando in poche righe il problema del legame con la tradizione ebraica, Heidegger riesce a far emergere dal dettato paolino la stessa cifra di paradossale inquietudine che, attraverso Buber, abbiamo riconosciuto nell'ebraismo e che sarà ilfil rouge del nostro percorso anche negli

86. lvi, pp. 198-200. Cercheremo di "colmare" l'omissione di Hcidegger nei capitoli successivi rivolgendoci alle riOessioni di Rosenzweig sulla "coscienza messianica", in cui sarà evidente come una delle peculiarità del messianesimo ebraico sia proprio la paradossale congiunzione di mondano ed extra mondano, legato all'esperire nella preghiera e nella liturgia il "non ancora" del tempo (cfr. §4.3 e §4.4), che Heidegger ha, paradossalmente, ben individuato, relegandolo però ai soli confini del cristianesimo paolino, misconoscendo in tal modo la dipendenza dell'Apostolo dal contesto ebraico d'origine.

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snodi successivi. Il filosofo tedesco li definisce "gli ingegnosi paradossi di Paolo" che garantiscono al nascente cristianesimo di darsi una struttura dottrinale sen7-a mai trascurare i problemi legati ali'attuazione del messaggio evangelico nel mondoambiente. È la fatticità stessa della vita effettiva a chiamare in causa il rapporto con la temporalità. Il cristiano vive costantemente nell'ancora soltanto (Das Nur-Noch) che accresce la sua angustia, perché lo abitua a non attaccarsi alle cose del mondo, neanche agli affetti, perché tutto è sempre vissuto nell'inquietante attesa della salvezza futura. La vita cristiana non può dunque procedere in modo lineare, è sempre infranta Tutti i riferimenti al mondo-ambiente sono necessari, ma provvisori se vissuti alla luce dell'inquietudine della fede. Ciò implica un certo distacco, da non intendersi come totale separazione, poiché se compresa e interpretata in modo autentico la vita cristiana non perde mai la sua vitalità, sebbene il sorgere della vita spirituale non sia mai sinonimo di perfetta armonia. Le necessità e le afflizioni della vita non vengono mai meno, semmai si acuiscono, poiché si stabilizzano ancor più profondamente nell'intimo del credente, il quale trova, tuttavia, nella fede in Cristo il motivo per vegliare e stare sobrio, resistendo alle difficoltà87• Vitiello commenta rilevando come in Paolo avere fede significhi avere speran:za, anche e soprattutto nelle tribolazioni. Una speran7-a sempre inquieta, che non vede (Rm. 8,24). L'annuncio del mistero non lo toglie, non lo porta a completo disvelamento, ma invita a fare dell'esisten7-a una custodia del mistero stesso. Ciò è possibile solo attingendo a quella dimensione "altra" cui la rivelazione apre, a quel sentire di non essere per sé, ma per altro. Una dimensione esperibile, come aveva capito Heidegger, solo nell'incontro con l'altro e con il suo mondo,

87. lvi, pp. 163-167.

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poiché: ,,edifica solo quella parola che, custodendo il mistero della sua provenienza, è aperta al, dono dell'acccglienza che potrà avere nelle parole che potranno venirle incontro. Edifica la parola che è speran2:a di verità, attesa del dono di futuro che altre parole potranno darle accogliendola» 88• Un'esperien7.a dunque sempre ancora da fare, una verità sempre ancora da venire, sen2:a neanche la certezza che venga. Quest'idea di verità toglie all'invito paolino a farsi suoi imitatori, spesso rivolto alle sue comunità, ogni hybris, ogni egocentrismo, poiché la verità predicata è propria solo nella misura in cui è accolta dagli altri. La verità è il dono che gli altri fanno alla parola di Paolo. Vitiello intende racDcalizvirP. l'intenzione heideggeriana, sostenendo che non è l'andare di Paolo incontro agli altri, in cui potrebbe leggersi ancora un residuo di volontarismo e di hybris, l'elemento essenziale, ma, all'opposto, il venire degli altri incontro a Paolo nel ricevere la sua parola. La verità rivelata è dunque dono che nel momento, nell'attimo, sempre solo possibile, è dato dall'incontro dell'altro nel suo venir incontro. Tale radicale alterità è il velo che permette di preservare la misteriosità di Dio, ma anche dell'uomo, il suo non essere per sé ma per altro (1 Cor. 6,19). Distanziarsi da Heidegger è necessario perché in lui domina ancora il paradigma tradizionale della verità occidentale, la subordinazione del mistero alla rivelatività del vero, mentre Paolo invita a seguire la strada opposta: piega la verità al mistero, lo rispetta e lo custodisce nella sua oltrani.a, nella sua radicale alterità811• C'è da chiedersi, tuttavia, se tale inversione sia possibile e necessaria non solo in virtù della novitas del cristianesimo, evidenziata bene da Bultmann, ma anche dal suo essere in-

88. G. Rossè, V. Vitiello, Paolo e l'Europa. Cristianesimo e filosofia, cit., pp. 241-242. Corsivo mio.

89. lvi, pp. 251-9.53.

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fluenzato dalla visione altra del tempo e dall'esisten2:a tipica del messianesimo ebraico. Heidegger proprio attraverso l'accostamento a Paolo e alla sua radice "altra" avrebbe potuto far emergere la continuità tra le due fedi e il debito dell'Apostolo, e con lui di tutto l'Occidente cristiano, nei confronti dell'ebraismo, ma non lo ha fatto. Il filosofo tedesco, al contrario, come abbiamo evidenziato più volte, quando tale debito sembra emergere inevitabilmente, proprio attraverso la sua finezza ermeneutica, fa di tutto per occultarlo, per marcare una distan2:a incolmabile. Se a tal proposito Zarader prima della pubblicazione dei Quaderni neri, aveva parlato semplicemente di "debito impensatonoo, Donatella Di Cesare, alla luce dell'antisemitismo metalìsico di cui si è detto, lo definisce più opportunamente un debito occuùatc. È come se Heidegger nella sua forsennata ricerca di un altro inizio per la storia dell'Essere s'imbatta improvvisamente nell'ebraismo, ma veda in questa radice uno spettro da cui fuggire, una pietra di inciampo da evitare, se non addirittura rimuovere. Tuttavia, proprio la radicalità del cammino di pensiero tracciato da Heidegger avrebbe dovuto fargli capire che l'ebreo non è un resto, un residuo isolato di cui sbarazzarsi in fretta, ma quell'altro che poteva dischiudergli quell'abissalità estrema, cui lui stesso tendeva01• Gli occultamenti e gli smarcamenti evidenziati, seppur limitandoci alle sole pagine della Fenomenologia della vita religiosa, costituiscono il non detto del pensiero di Heidegger, un lìlamento nascosto nel suo ripensamento della storia dell'Essere che emerge con maggiore eviden2:a proprio attraverso la lìgura di Paolo in cui tale filamento si intreccia con la nascita e la prima diffusione del cristianesimo. Un cammino che conduce, secondo Derrida, ad una spiritualità fon-

90. M. 2.arader, Il debito impensato. Heidegger e l'eredità ebraica, cit., pp. 8-21. 91. D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I -quaderni nen•, cit. , pp. 214-217 .

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data su una promessa estranea al cristianesimo stesso, pur non essendogli contraria. Un'estraneità che è all'origine del cristianesimo, lo permea e che marca, ab origine, una differen7.a rispetto alla metafisica platonica e a tutto ciò che da essa è derivato. Una promessache fa cenno ad un'altra nascita, ad un origine altra, perché eterogenea rispetto all'idea tradizionale ed arcontica dell'origine, essendo irriducibile ad essa. Eterogeneità ali'origine, sebbene sia l'origine, che fa vibrare, tiene in tensione e inquieta le forme logiche chiuse ed autoreferenziali del pensiero occidentale. Un sentiero non imboccato da Heidegger che avrebbe potuto portarlo verso ciò che è radicalmente Altro, proprio attraverso il suo accostamento alle origini del cristianesimo92• Oltre agli accostamenti e ai debiti non riconosciuti, che meritano di essere accolti in tutta la loro problematicità e non certo ignorati o taciuti, restano gli interrogativi che l'interpretazione di Heideggerinevitabilmente solleva e fanno parte del suo lascito lìlosolìco. In particolare resta lo sprone a ripensare quell'apertura originaria a partire dalla quale tutto il pensiero occidentale è stato possibile. Quel "a partire da" che essendo velato non è pensabile pienamente, ma rende tutto possibile. Il pensiero sempre a venire di una possibilità originaria, che, pur inserendosi e muovendosi all'interno della tradizione lìlosolìca occidentale, va verso ciò che è totalmente Altro. Non si tratta di accantonare completamente i contributi di tale tradizione, ma di capirne i limiti, gli empasse e di cercare un'altra via d'accesso al pensiero che coinvolga inevitabilmente la possibilità delle metafisiche e delle religioni ed apra a quella possibilità che le rende possibili, conservando sempre l'eterogeneità dell'origine00•

92.

J. Derrida, Dello splriU>. Heidegger e la qtustwne, tr. it. di G. Zaccaria,

SE, Milano 2010, pp. 101-102. 93. lvi,pp. 104-lo.5.

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Una strada alternativa che tende di preservare, serbare e custodire la dimensione altra del pensiero e dell'esistenza, il suo essere segnata dal]'oltran'.lll del mistero, rispetto al quale ogni verità rivela il proprio limite, mettendo fuori gioco ogni certez:;,.a. Un pensiero costantemente insicuro, mai tracotante e prevaricante che potrebbe rivelare tutta la sua paradossale fecondità nell'abituarci a vivere fino in fondo tale incertezza, a resistere e persistere, sen7.a facili consolazioni, né drastiche rassegnazioni, nell'inquietudine del nostro tempo.

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III

Hegel: trionfo e crisi della ragione

3.1 L'antisemitisnw teoretico del giovane Hegel e la figµra di Gesù Il pericolo evidenziato da Buber nelle pagine conclusive di Due tipi di fede, owero il rischio che un'interpretazione del paolinismo, privata della sua componente "altra" di matrice ebraica, possa aprire la strada al trionfo di una ragione chiusa in se stessa, merita ora un ulteriore e specilìco approfondimento. Il teologo ebreo individua infatti un topos cruciale per la storia del pensiero moderno, poiché proprio la filosolìa hegeliana, bersaglio del suo breve inciso polemico, rappresenta l'acme dello sviluppo autoreferenziale del lcgos occidentale e, allo stesso tempo, ne scopre i limiti e la necessità di trovare altre strade per uscire dal vicolo cieco della ragione che fa circolo con se stessa ed è incapace di rapportarsi a ciò che è altro da sé, senza cedere alla tentazione di fagocitarlo entro le rigide maglie logico-dialettiche. Un problema che diventa ancor più incalzante per i pensatori di origine ebraica, in virtù del fatto che il rapporto con l'Altro, vissuto come radicale inquietudine, rappresenta, come si è sottolineato più volte, la cifra imprescindibile della loro spiritualità e della loro tradizione religiosa. Proprio il modo in cui Hegel affronta, lìn dagli

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scritti giovanili, la questione dell'alterità ebraica, può fungere da utile pungolo interpretativo per indagare i presupposti e, al contempo, i limiti della sua visione onnicomprensiva della filosofia. L'antisemitismo di cui sono pregne le pagine degli scritti teologici giovanili non va, dunque, semplicemente rigettato come una posizione moralmente deprecabile, ma va affrontato e compreso, come sintomo del fatto che il pensiero di Hegel, fin dalla sua fase embrionale, sviluppi un'avversione radicale verso ogni tipo di alterità che non si lasci ricondurre, attraverso la guida tirannica della ragione, alla quiete pacifìcata dell'unità che supera e annulla le differenze. È la componente altra della spiritualità ebraica ad infastidire e indispettire il giovane Hegel, il quale fa di tale peculiarità un sinonimo di totale estraneità al mondo e alla civiltà in genere. La chiamata stessa di Abramo (Gen. 12,1-2) è letta come un invito alla separazione, ali'estraneazione, alla rottura di tutti i legami di conviven1.a con gli uomini. Ogni relazione è rigettata e le uniche possibili sono quelle di dominio. Abramo, per il lìlosofo tedesco, infatti: «fu estraneo alla terra, tanto nei confronti del territorio che degli uomini, tra i quali fu e rimase sempre uno straniero, se pur non tanto indipendente e lontano da loro da non aver bisogno di conoscere qualcosa di loro e aver con loro a che fare»1• Egli è presentato come un estraneo al mondo, il quale aveva come unico appiglio un Dio anch'esso in opposizione alla natura e desideroso di dominarla. Una relazione in cui non era ammessa alcuna componente d'amore, anzi in virtù della sua gelosia, Dio chiese ad Abramo di sacrifìcargli l'unico fìglio per essere certo che nessun altro legame affettivo si potesse frapporre tra loro. Il Dio di Israele avanza dunque un'orribile pretesa di unicità confìgurandosi come l'unico Dio

1. C. W. F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Id., Scritti teologici giooanili, tr. it. di N. Vaccaro e E. Mini, Guida, Napoli 1972, p.

378.

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di una nazione eletta2• Se ad Abramo risale la natura estranea degli ebrei, da Mosè dipende invece l'accentuazione del loro carattere servile e incline alla sottomissione. Hegel, infatti, legge nelle pagine veterotestamentarie dedicate alla fuga dall'Egitto l'assenza di una coscienza di popolo, desiderosa di liberarsi dal giogo del Faraone, una totale indolem.a priva di eroismo, tipica di un popolo di schiavi che si limita a seguire in modo pedissequo Mosè e le sue disposizioni, per cui non può destare meraviglia il fatto che molti ebrei, provati dalle fatiche del deserto, iniziarono a rimpiangere la condizione servile in Egitto, piuttosto che apprezzare la nuova libertà pagata a caro prezzo. È alla luce della natura indolente e sottomessa degli ebrei che, secondo Hegel, bisogna leggere anche la duplice funzione di Mosè nella storia del suo popolo. Se in un primo momento egli si presentò come liberatore, successivamente, resosi conto di avere a che fare con una nazione passiva, capì che l'unico modo per preservarne lo spirito era diventare legislatore, dando agli ebrei dei precetti cui sottostare senza remore per assecondare la propria indole di schiavi3• Da questo punto di vista Hegel non può non definire triste la condizione ebraica, perché il suo spirito è provato dal peso di precetti e statuti che prescrivono con pedanteria regole cavillose per ogni aspetto della vita L'intenzione virtuosa che pur sembra riconoscere alla legislazione mosaica è irrigidita in formule morte, per cui la fedeltà alle stesse non può essere motivo di orgoglio perché esse richiedono soltanto un'obbedienza cieca•. La natura estranea e servile degli ebrei trova il suo rifles-

2. lvi, p. 379. 3. lvi, pp. 380-381. Cfr. Es. 5,21; 6,9; 12,33-34. 4. G. W. F. Hegel, La positioità della religione cristiana, in Scritti teologici giooonill, cit., p. 258. Hegel riduce dunque il rapporto degli ebrei con la legge mosaica ad una funzione meramente prestazionale, ignorando l'importama dell"orientamento del cuore, su cui ci siamo soffennati nel capitolo

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so nella devozione ad un Dio estraneo e sfuggente che non accetta immagini di sé, perché non vuole essere incluso in nessun ambito. Un Dio invisibile e vuoto, come deve essere apparso agli occhi di Pompeo quando, incuriosito dalJa religiosità ebraica, volle conoscerne le radici e, una volta entrato nel sancta sanctorum del Tempio, si trovò di fronte uno spazio vuoto. Tale episodio è interpretato da Hegel come la testimonianza che l'esperien7.a del Sacro è estranea alJa spiritualità ebraica5 • È interessante rilevare come tutti i travisamenti e i giudizi sprezzanti del giovane Hegel sull'ebraismo vertano sull'interpretazione negativa dell'alterità, come mancanza e separazione e non, ali'opposto, come tentativo di preservare il carattere misterioso del divino. Ciò è evidente anche da come Hegel interpreta il rapporto degli ebrei con il riposo e la festa (aspetto che avrà un'importanza capitale nella riffessione di Rosenzweig sul tempo e l'eternità proprio in funzione antihegeliana), poiché vi legge la reticenza ad abbandonare l'originaria mentalità da schiavi, segnata dal]'oppressione del lavoro, per cui il riposo non può che essere alJ'insegna dell'ozio completo, del vuoto da consacrare ad un Dio vuoto. La contrapposizione tra giorno festivo e giorno feriale è mantenuta non per ringraziare Dio del lavoro e della vita che in essa si esplica, ma per avere nostalgia e malinconia per il giorno di riposo in cui tutto cessa. In tale concezione si manifesta, per Hegel, ancora una volta, la passività dello spirito ebraico, la natura servile che non awerte altro bisogno se non quello dell' autoconservazione, rendendo la propria vita sicura e priva di affanni6 •

precedente, attraverso l"atten:,:ione di Buberper la dottrina del Usham. C&. M. Buber, Due tipi difede. Fede ebraica e fede cristiana, cit., pp. 133-141.

5. G. W. F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, cit., pp. 282284. 6. lvi, p. 384.

lll

L'istinto di autoconservazione ebraico è il riffesso dell'abissalità di uno spirito in cui tutte le qualità positive e vitali - l'amore, l'armonia, la bellezza - sono state attribuite ad un oggetto estraneo, da venerare attraverso l'obbediem:a alle sue leggi. In tal modo gli ebrei hanno rinunciato ad ogni nobiltà per divenire servi di un Signore ricco e potente. L'amore cosi inteso non è libero, non può andare oltre l'obbedienza, non conosce il senso della fedeltà reciproca7• Portando alle estreme conseguenze la sua idea negativa di estraneità, Hegel arriva a sostenere che le verità di fede dell'ebraismo non possono considerarsi propriamente tali, in quanto la verità e la fede esigono la libertà e non la sottomissione a comandi e precetti autoritari. La condanna, piuttosto sommaria, della spiritualità ebraica assume toni ancora più aspri quando Hegel liquida in poche battute la condizione degli ebrei del suo tempo dicendo: «tutte le situazioni in cui via via il popolo ebraico si trovò, fino a quella misera, bassa, abietta in cui è ancora oggi, non sono altro che conseguenze e sviluppi del suo destino originario, fo17.a infinita che in modo invincibile si oppose loro, da cui furono e saranno sempre maltrattati finché non la riappacificheranno con lo spirito della bellezza e non la supereranno con la riconciliazione»8• E aggiunge, poco più avanti, con un giudizio severo e inquietante, visti i drammatici sviluppi della storia ebraica nel secolo successivo: «la grande tragedia del popolo ebraico non è una tragedia greca, non può suscitare né terrore né compassione, poiché questi sentimenti nascono solo dal destino del necessario venir meno di una bella essenza,, 9 • In tale contesto, caratterizzato dal servilismo e dall'estraneità, privo di legami d'amore, Hegel colloca la figura di Gesù, la

7. lvi, PP· 424-425. 8. lvi, p. 389. 9. lvi, p. 393.

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cui novità e superiorità morale emerge proprio in controluce rispetto alla povertà di valori tipica dello spirito ebraico. Egli è la risposta, la possibile via di fuga alla tragicità del destino ebraico di cui si è detto precedentemente. Se lo si inquadra in un paradigma storico fatto di colpi e contraccolpi, come farà anche Niet7.sche 10, Gesù appare non solo come colui il quale si oppose alla degenerazione morale del suo popolo, ma anche come colui che tentò di risollevarlo cercando di immettere nell'ebraismo proprio quella fona unificante dell'amore che gli era estranea, volendolo trasformare in una religione dell'accoglien7.a11• Da questo punto di vista l'obiettivo pole-miconon poteva non essere il precettismo ebraico: «ai precetti che richiedevano semplicemente di servire il signore, una servitù immediata, un'obbedien7.a sen7.a gioia, letizia ed amore, cioè precetti del culto, Gesù contrappose il loro opposto, un impulso o addirittura un bisogno dell'uomo. Le pratiche religiose sono la cosa più bella, più spirituale; sono lo sforzo di unificare le separazioni che si sono necessariamente sviluppate, di presentare l'unificazione dell'ideale come pienamente esistente, non più in contrapposizione alla realtà; sono quindi il tentativo di esprimere questa unificazione e di confermarla in un agire» 12• Ciò che i suoi contemporanei interpretarono come motivo di scandalo rivelava in realtà un profondo amore per la vita, manifestato nel non rinunciare ad alcun bisogno ordinario, sfuggendo alla cavillosità della legge mosaica, cui non volle asservirsi. Tuttavia, Hegel sottolinea che tale caratterizzazione non fa di Gesù una sorta di anarchico ante litteram, che si pro10. Si rilegga il §1.3 per notare la sorprendente prossimità al giovane Hegel nell'impostazione concettuale di fondo, riguardo ai rapporti tra Gesti e il contesto ebraico d 'origine. 11. G. W. F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, cit., p. 395. 12. lvi, p. 396.

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nunciò contro la religione e l'ordine stabilito, ma piuttosto un "riformatore" che lottò contro la superstizione e la riduzione delle esigen:re morali a mera osservanza di precetti esteriori. In tal modo, chiosa Hegel: «egli attaccò alle radici il male del suo popolo, l'attaccò cioè nel suo presuntuoso e ostile isolarsi da ogni nazione. Egli dunque voleva guidarlo al Dio di tutti gli uomini, ali'amore per tutti gli uomini, al rifiuto della meccanicità priva di amore del suo culto,>'3. Dunque la contrapposizione di Gesù alla legge mosaica è in realtà un porre l'accento sulla soggettività universale umana, elevandola al di sopra dell'asservimento puntuale e irriflesso a precetti oggettivi. Egli intendeva insegnare la moralità andando oltre la semplice prescrizione e osservanza della legge, per soffermarsi invece sull'intenzione con cui la si porta a compimento••. All'insieme cavilloso di precetti della legge ebraica Gesù contrappose l'unicità del comandamento dell'amore che Hegel inteipreta, alla maniera kantiana, come dovere formale, in cui non è espresso un comando universale in opposizione ad uno particolare, ma la libera unicità dello spirito divino. Amare Dio vuol dire, dunque, sentirsi tutt'uno con la vita, sentirsi sen:za limiti nell'infinito, essere in armonia con l'universale oltre ogni particolare, per cui si può amare se stessi e il prossimo di un amore sen:za limiti, perché nulla è all'infuori di quest'amore stesso15•

13. G. W. F. Hegel, LA p~itività della re/igiene cristiana, cit., p. 253. 14. G. W. F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo eil .suo destino, cit., pp. 399400. Occone ribadire, tuttavia, che tale elemento non è, contrariamente a quanto pensa il giovane Hegel, prerogativa esclusiva della religiosità cristiana, ma è presente in maniera analoga nell'ebraismo, attraverso la dottrina del Ushom, cui abbiamo fatto riferimento nel i2.2 accostandoci al confronto buberiano tra e braismo e cristianesimo. 15. lvi, p. 430. È utile notare come, già negli scritti teologici giovanili, emerga l'idea dell'amore cristiano come for.ai unificante e onnicomprensiva che

La morale di Gesù non è meramente teorica, ma è incarnata nella sua stessa vita che Hegel illustra sempre tenendo sullo sfondo il contesto ebraico di cui rappresenta, come si è già messo in luce, il tentativo di miglioramento e superamento, attraverso azioni e scelte in aperta antitesi rispetto alla visione dominante. Il suo esempio e la sua vita in generale sono volti ad evidenziare la limitateZ7.a dello spirito ebraico, ingabbiato dai pregiudizi e dalla chiusura nazionalistica, che egli tentò di unificare con il proprio spirito attraverso il quale diffondeva un ideale universale di virtù, oltre ogni particolarismo. Alla luce del superamento e dell'apertura all'universalità bisogna leggere, secondo Hegel, il celebre episodio dell'incontro con la Samaritana (Gt>. 4,5-42). La meraviglia della donna dinanzi alla richiesta di Gesù testimonia come quest'ultimo vivesse senza badare ai pregiudizi e alle inimicizie giudaiche, poiché la bontà o meno di un'azione non può fondarsi su una prescrizione valida in un determinato luogo, ma solo sull'amore universale, quale segno distintivo degli adoratori di un Dio Padre universale, la cui venerazione più autentica risiede nel seguire una legge morale secondo ragione 16• Dovunque andasse Gesù predicava la necessità del miglioramento morale, il quale non prevedeva l'abolizione della legge mosaica, bensì il rinnovamento dello spirito in essa racchiuso, per far riscoprire il senso del dovere che la anima e che è oltre l'obbedienza pedante ai precetti. La morale insegnata da Gesù, dunque, non può che essere autonoma, la bontà dell'agire deve essere indipendente da castighi o premi, deve valere per se stessa ed avere come unico principio universale l'amore per Dio e per il prossimo,

sarà sviluppata e radicali=ita da Hegel, come si vedrà più avanti, nelle pagine delle Lezu,ni di filosofia della religione e della Fenomenologia dedicate alla religione rivelata. 16. G. W. F. Hegel, La olta di Gesù, in Scritti teologici gwoanili, cit., pp. 144-147.

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la cui massima aspirazione è la realizzazione terrena del Regno, attraverso l'armonia tra la volontà individuale e quella universale 17• La palese vicinan1.a alla morale kantiana trova la più chiara esplicazione nell'imperativo che, per Hegel, muove l'agire di Gesù ed è alla base del suo insegnamento: «agite secondo una massima tale che ciò che voi volete che valga come legge universale tra gli uomini, valga anche per voi: questa è la legge fondamentale della moralità, il contenuto di tutte le legislazioni e dei libri sacri di tutti i popoli» 18• È evidente, dunque, che la dottrina di Gesù, agli occhi del giovane Hegel, non appare niente altro che un'etica razionale universale, la quale COZ:7.a necessariamente con il particolarismo del contesto ebraico, poiché insegna il primato della legge morale su ogni principio d'autorità e non ha nulla in comune con il perfezionismo farisaico, dietro il quale si nasconde una visione prestazionale della legge e una profonda ipocrisia10• In tale ottica Gesù cercò di svincolare anche l'idea del regno di Dio dalle interpretazioni in chiave politica che circolavano nel mondo ebraico, insistendo sul fatto che il suo Regno non fosse identificabile con una nazione specifica, ma si trattasse di un'istanza spirituale, owero dell'aspirazione ad un luogo dello spirito in cui la signoria della legge morale fosse riconosciuta tra tutti gli uomini. Per questo Enrico De Negri, acuto interprete di Hegel, può affermare con pungente ironia: «il Gesù di Hegel somiglia a un pastore protestante seguace di Kant>,20 Oltre alla chiara influenza di Kant, bisogna evidenziare la centralità del concetto di positività della religione cristiana, che negli scritti giovanili serve ad Hegel per far risaltare ancora

17. lvi,pp. 151-153. 18. lvi, pp. 153-154. 19. lvi, pp. 156-157 ed anche lvi, pp. 172-173. 20. E. De Negri, Interpretazione di Hegel, Sansoni, Firenze, 1943, p. 19.

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di più la superiorità della dottrina morale di Gesù rispetto al contesto d'origine e anche il senso del successivo snaturarsi con la sua morte e la nascita del cristianesimo primitivo. Il giovane Hegel ammette infatti che le sue ricerche teologiche non sono mosse dal tentativo di tracciare una sorta di storia del cristianesimo o della Chiesa, ma di capire come alcuni elementi fondanti la dottrina di Gesù abbiano potuto perdere nel corso dei secoli la loro originaria coloritura morale di insegnamento e sprone alla virtù, per divenire verità dogmatiche di una fede positiva 21 • La figura stessa di Gesù apre all'interrogativo su come un uomo, la cui esisten7.a è stata segnata inevitabilmente dall'accidentalità, possa aver insegnato e testimoniato con la propria vita verità che successivamente furono considerate eterne, assumendo altresl i connotati dell'autorità. La fede positiva è infatti: «quel sistema di principi religiosi, che per noi deve avere verità perché ci è imposta da un'autorità e cui non possiamo ricusare di sottoporre la nostra fede»22 • Le verità che da tale impostazione scaturiscono devono essere considerate oggettive indipendentemente da ogni giudizio possibile. Esse richiedono un abbandono fiducioso ad un oggetto di fede, una sottomissione che è estranea alla ragione e al suo intrinseco bisogno di "chiedere ragione" di ogni dovere. Il tipo di fede derivante da tali presupposti è dunque, secondo Hegel, manchevole, in quanto è priva della coscien:za che la ragione è assoluta, in sé perfetta, e nessuna cosa può sussistere al di fuori di essa o imporsi dall'esterno attraverso il principio d'autorità23 •

21. G. W. F. Hegel, La positività della religione cristiana, cit., p. 262. 22. lvi, p. 346. 23. lvi, pp. 351-352. Queste pagine sono altamente significative per l'interpretazione hegeliana del cristianesimo negli scritti successivi, poiché evidenziano come la fede è subordinata da Hegel alle istanze onnicomprensive della ragione. Elemento che diverrà ancora più chiaro nelle conclusioni del-

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Come si è già detto, ma è utile ribadirlo, Gesù è in origine, per il giovane Hegel, un esempio di morale, il suo insegnamento si fonda sulla legge razionale come strumento per vivere in armonia con la volontà divina. Egli lottò contro la corruzione della sua epoca sen7.a ritenere neanche necessario elevarsi al rango di maestro per conferire validità alla sua verità Ai fini della trasformazione degli insegnamenti di Gesù in verità dogmatiche, cui si crede per autorità, giocò un ruolo fondamentale il suo contesto di appartenew.a: il suo essere ebreo lo portò a doversi confrontare con le speranze e le aspettative messianiche dei suoi contemporanei. Per non contraddirli e guadagnarsi la loro fiducia e attenzione, accettò la funzione di Messia collocando dopo la morte il tempo della manifestazione della sua grandezza24• Ne lA Vita di Gesù Hegel è ancora più radicale su questo punto: rigetta in toto ogni "elevazione" messianica, dicendo che l'unico desiderio di Gesù era insegnare l'obbedien7.a alle leggi della ragione, allontanando da sé ogni ambizione di potew.a e gloria, legata alla figura del Messia. Egli si spinge ad affermare che Gesù non esigeva neanche rispetto per la sua persona o fede in lui, purché i suoi seguaci dessero ascolto alla ragione e alla propria coscienza, come unico criterio di accordo con la divinitàl!lS. L'antisemitismo del giovane Hegel ritorna in queste pagine, manifestandosi come anti-messianesimo radicale. Egli interpreta infatti la speranza messianica del mondo ebraico come un pregiudizio, figlio dell'ostinazione, come una chimera da sognatori sew.a cervello, che affonda le sue radici non nell'esperienza religiosa, bensì nel nazionalismo ebraico e nel dele Lezlcni difi/c.sofia della religione e in quelle della Fenomenologia, laddove Hegel sottolineerà l'incompiutezza della religione cristiana e il necessario passaggio al Sapere Assoluto. 24. lvi, pp. 264-266. 25. G. W. F. Hegel, La oitadl Gesù, cit, p.189.

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siderio di riscatto dalla condizione servile. Un'idea, dunque, fortemente condizionata dal particolarismo cui Gesù contrappose una fede universale, non limitata ad un solo popolo, che abbracciava l'intera umanità, abolendo ogni spirito settario26. Dal contrasto tra l'universalismo di Gesù e il particolarismo ebraico nacquero, secondo Hegel, dei fraintendimenti tra lui e i suoi stessi discepoli, in quanto essi erano ancora troppo legati all'attesa giudaica di un Regno mondano, non riuscendo a comprendere la purezza della nuova idea di Regno fondato sul bene, sulla ragione e sul!'attuazione della legge morale, per cui il compito originario assegnato loro dal maestro era quello di diffondere la sua idea di regno, adoperandosi con semplicità di cuore, per migliorare la condizione umana, guidando chiunque sulla strada della virtù. Le intenzioni del maestro non furono rispettate dopo la sua morte, poiché i suoi discepoli elevarono la sua dottrina a religione positiva, facendo della sua persona un'autorità e delle sue verità dei principi. In tal modo i discepoli: «poterono far si che coloro i quali abbracciarono e propagarono la sua religione fondassero la conoscenza della volontà divina e l'obbligo di obbedire a essa soltanto sul!'autorità di Gesù, in modo da presentare il riconoscimento di questa autorità come parte della volontà divina e quindi come un dovere»27 • Ciò comportò una diminuzione dell'importanza della ragione nell'ambito della fede, poiché essa divenne da legislatrice della legge morale, una facoltà semplicemente ricettiva, in quanto le verità di Gesù iniziarono ad essere credute soltanto in virtù della fede nella sua autorità. La contraddizione interna al cristianesimo primitivo è l'aver trasformato una dottrina morale fondata sull'universalità della ragione in una fede positiva, alla cui base vi è invece il sot-

26. lvi, pp. 192-193. 27. G. W. F. Hegel, La positività della religione cristiana, cit.,

p. 273.

ll~

tostare inillesso alla verità di un'autorità precostituita. Tale trasformazione rappresenta un passo indietro rispetto alla volontà riformatrice di Gesù, poiché: «la chiesa non si è limitata a prescrivere un insieme di azioni esterne con cui da un lato dobbiamo immediatamente onorare la divinità e acquistarne il favore, dall'altro dobbiamo creare quella predisposizione e direzione del nostro spirito che essa richiede da noi; ma essa ci ha anche prescritto in maniera diretta leggi per il nostro modo di pensare, sentire e volere»28 • I cristiani in tal modo sono ritornati a quella condizione servile nei confronti della legge, da cui Gesù ha inteso liberare il suo popolo e l'intera umanità Sebbene Hegel sottolinei che la sostanziale differenza del rapporto con la legge tra ebrei e cristiani consista nella maggiore coercizione dei primi e nell'importanza che ha invece presso i secondi l'intenzione e la disposizione d'animo con cui si compie un'azione, aggiunge: «questa differen7.a non è tale da realizzare lo scopo della morale e della religione: la moralità; per questa via la chiesa non ha potuto e non può ottenere nient'altro che legalità e una virtù e una pietà meccaniche»20• Per questo Hegel, con evidente rammarico, può chiarire: «la dottrina di Cristo divenne la fede positiva di una setta, e da ciò si svilupparono le conseguenze più importanti tanto per la forma esteriore che perii suo contenuto, che l'hanno allontanata sempre più da ciò che incominciammo ora a ritenere come essenza di ogni vera religione e quindi anche di quella cristiana, ossia dal compito di stabilire nella loro purezza i doveri dell'uomo e gli impulsi morali e di servirsi dell'idea di Dio per mostrare la possibilità del sommo bene» 30•

28. lvi, p. 320. 29. lvi,p. 321. 30. lvi, p. 273.

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Il giovane Hegel ha evidenziato, dunque, le contraddizioni interne al cristianesimo primitivo, la sua incapacità di tenere fede a ciò che promette, o meglio di restare fedele alle intenzioni originarie di Gesù. Il radicamento della Chiesa attorno all'autorità sembra snaturare la moralità fondata sull'agire secondo ragione e non sull'obbedienza. I suoi giudizi acuti e aspri contro la positività del cristianesimo, ancora influenzati dallo spirito illuminista, rivelano altresl un'attenzione critica verso il problema, centrale negli scritti successivi, di conciliare universale e particolare, non facendo affidamento su alcuna autorità esterna, se non sui principi interni alla ragione stessa e sulla sua forza unificante. Ciò rappresenterà per Hegel lo sprone del ripensamento "filosofico" del cristianesimo di cui ci occuperemo nel paragrafo successivo. È utile, tuttavia, notare come, fin da ora, l'idea della necessità di un'interpretazione secondo ragione della religione vada lentamente maturando. Il primo elemento significativo è, come si è detto, la caratterizzazione particolaristica della fede ebraica, da cui si comprende anche la preoccupazione hegeliana riguardo ad un cristianesimo fondato sull'autorità e non sulla ragione, che rischia di essere giudaizzato se ricade nell'osservanza pedante e servile dei precetti della legge31 • Il secondo elemento decisivo è l'interpretazione universalistica e unificante del comandamento dell'amore, centrale non solo per capire la specificità conferita da Hegel al messaggio di Gesù rispetto al contesto in cui sorge, ma anche per evidenziare quanto l'intenzione di preservare il carattere unitario del cristianesimo, centrale nelle Lezioni di .filosofia dell,a religione e nella Fenomenologia, irùzia a delinearsi, anche se in modo embrionale, già negli scritti giovarùli. Le ricerche teologiche del giovane Hegel hanno infatti come principio unificante proprio l'amore, inteso come fo17.a vitale totalizzante, un principio presente nella singolarità 31. E. De Negri, Interpretazione di Hegel, cit., pp. 38-39.

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umana da cui dipende la capacità di rapportarsi all'universale. Esso non costituisce un fattore psicologistico, ma rappresenta la possibilità di istituire legami di perfetta reciprocità tra i viventi (elemento che, come si è visto fin dall'inizio, secondo Hegel, manca allo spirito ebraico), senza lasciare gli uni per gli altri alcun residuo al di fuori di tale relazionalità. Tale amore, insegnato originariamente da Gesù, è un tutt'uno con la vita, è una forza universale capace di affratellare gli uomini e di conciliarli con la natura e con Dio. In esso il giovane Hegel ravvisa un principio cosmico, fonte di ogni singolarità, lasciando trasparire la vocazione sistemica e sistematica della propria fìlosofia, la cui trama non è, tuttavia, ancora ben strutturata32•

3.2 Cristianesimo fikJsofico e secolarizzazione La tenden7.a unificante che Hegel attribuisce al cristianesimo è cruciale nelle Lezioni di filosofia della religione. Ciò emerge in controluce già nelle poche pagine dedicate all'ebraismo. Hegel presenta la figura di Giobbe come esempio dell'incredulità del Popolo ebraico, della scissione interna alla sua fede, incapace di farsi un tutt'uno con Dio e di instaurare con lui un rapporto di armonia La riprova lampante di tale attitudine alla separazione e alla scissione è per Hegel l'idea di elezione, attraverso cui la religione ebraica e il suo Dio si configurano come votati al particolarismo, al nazionalismo e ali'esclusione, a dilTeren7.a del Dio cristiano che è invece: «il creatore universale e signore del mondo; ma egli deve anche essere universalmente venerato; tutti i Popoli debbono conoscerlo e non conservare questo sapere di Dio come loro particolare. La natura di quest'unità vuole che il fine sia di espandere a tutti i PoPoli la conoscenza del vero Dio sulla terra e che tutti

32. lvi,pp. 151-158.

122 giungano a conosoerlo»33• Il Dio degli ebrei è dunque prigioniero della sua stessa particolarità, incapace di farsi universale e di dare al suo popolo leggi razionali, al cui posto vigono una serie di precetti cavillosi da seguire in maniera pedissequa, nel rispetto di un'autorità e con atteggiamento di sottomissione. Hegel aniva addirittura a dire che nell'osservaw,a della legge mosaica non vi è alcun atto di libertà o fedeltà, ma l'obbedienza è legata soltanto allo spirito di autoconservazione del popolo ebraico34• Nelle Lezioni di filosofia della religione emerge, con ancor più chiarezza che negli scritti giovanili, la natura 6losofìca dell'avversione di Hegel per gli ebrei. Essi rappresentano una figura di rottura, di scissione, un elemento differenziale inisolto e inisolvibile che ostacola la riconduzione ad unità di ogni differenza, la riconquista dell'intero, cui tende tutta l'interpretazione dialettica della religione e che troverà poi nella FenotnenoÙ>gia l'ulteriore radicaliZV'.lzione e sviluppo sistematico35 • La volontà di ricondurre il dispiegarsi dialettico della religione ad unità, obliando ogni alterità, è palese già dalle precisazioni metodologiche che precedono la trattazione puntuale del cristianesimo. La religione rivelata è infatti presentata come quella in cui Dio si manifesta in pienezi.a, come riflesso del movimento dialettico dello Spirito, diviene oggetto a se stesso in tutta la sua universalità. Anticipando sinteticamente il nesso logico tra i tre momenti dello sviluppo della religione cristiana (il Regno del Padre, del Figlio e dello Spirito), Hegel illustra tale movimento caratteriZ7--andolo sempre attraverso il ritorno di ogni divisione, di ogni alterità entro sé, un prooe-

33. G. W. F. Hegel, Lez.onisullafilosofia della religione, voi. li, tr. it. di E. Oberti e G. Borruso, Zanichelli, Bologna 1973, p. 76. 34. I vi, pp. 77-86. 35. E. De Negri, Interpretazione dl Hegel, cit., p. 133.

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dere graduale della verità religiosa che trova la sua quiete e il suo compimento nella circolarità dello spirito. Dunque la sua vitalità si manifesta nel suo porsi come finito, superandosi e inverandosi nell'infinito, attraverso la mediazione operata da Cristo, fino a raggiungere il suo massimo sviluppo e compimento nello spirito incarnatosi nella comunità dei credentr6. L'insistere sulla funzione centrale dello spirito nella dialettica interna alla religione rivelata, non porta Hegel a misconoscere l'importan1.a dell'elemento sensibile (ribadita dal cristianesimo con il dogma dell'incarnazione), ma il credente non può arrestarsi ad essa, perché rappresenta solo il lato esteriore di un più profondo processo interiore, che ha come scopo la comprensione e il ritorno all'unità dello spirito, cosi come i miracoli rappresentano soltanto la conferma esteriore di una fede che deve essere già salda di per sé;n. Dalla preminenza dell'elemento spirituale sul sensibile dipende anche la necessità di interpretare la religione rivelata con categorie filosofiche, in quanto: «la testimonian1.a dello spirito nel suo più alto modo è il modo della filosofia, cioè che il puro concetto come tale sviluppa da sé, sen1.a presupposizioni, la verità e sviluppandola la riconosce e si rende conto per mezzo di questo sviluppo della necessità della verità»38 • La filosofia, infatti, nel suo tentativo di comprendere logicamente e dialetticamente il contenuto della religione, non fa altro che inverare il dettato paolino, secondo cui la lettera uccide e lo spirito vivifica (2 Cor. 3,6), poiché porta a conoscew,a, rende manifesta l'azione dello spirito. Tali presupposti sono esplicitati fin da subito nelle tre definizioni della religione cristiana che Hegel pone significativamente all'inizio della sua trattazione puntuale. La prima riguarda il suo essere piena manifestazione: «la religio36. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofa, della religione, cit., pp. 229-235. 37. lvi, pp. 236-238. 38. lvi, p. 239.

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ne cristiana è la religione della rivelazione. In essa si manifesta ciò che Dio è affinché egli venga conosciuto come è»:11>, la seconda riguarda invece il suo statuto veritativo che la fa essere perfetto contenuto di coscienza in sé e per sé ed in terzo luogo viene evidenziato il fondamentale carattere unificante in base al quale è: «la religione della riconciliazione del mondo con Dio»"°. Dalla prima definizione deriva una conseguenza molto importante per il nostro discorso sull'alterità del divino: la libertà della posizione e della creazione in Dio sono lette come un abbandono ali'arbitrio e ali'occasione, per cui il problema, già in questa fase preliminare, è eluso, o meglio escluso come estraneo al concetto di Dio. Egli è presentato come Colui che: «non crea una volta per tutte il mondo, ma è l'eterno creatore, questo rivelarsi eternamente; questo è. Egli, questo Actus, questo è il suo concetto, la sua determinazione»". A un primo esame potrebbe sembrare che sia proprio l'idea di alterità di Dio e in Dio a determinarne il concetto, ma bisogna capirne bene il senso per evidenziarne la chiusura attraverso la necessità dialettica. Seguendo fedelmente il dettato hegeliano si legge: «dunque questa religione si manifesta: poiché essa è lo spirito per lo spirito, è la religione dello spirito e non del mistero, non del chiuso, ma del manifesto, determinato, dell'essere per un altro che solo momentaneamente è un altro. Dio pone l'altro e lo toglie nel suo eterno 1TIOQimento»42 • È utile, fin da ora, far notare la netta distanza tra Hegel e la trattazione bultmanniana del tema dell'alterità, analizzata nel precedente capitolo. L'essere per l'altro che era, nelle intenzioni del teologo luterano, un tentativo di preservare il carat-

39. Ivi, p. 247. 40. lvi, p. 249. 41. lvi, p. 250. 42. Ibidem. Corsivo mio.

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tere misterioso e inquietante della fede cristiana, diventa in Hegel qualcosa da pensare solo in funzione del suo togliersi, da superare attraverso la circolarità necessaria dello spirito, cui anche la religione rivelata deve sottostare. L'ulteriore conseguenza è una chiusura identitaria teologicamente orientata per la quale: «Egli è identicc con sé, è eterna apparizione di se stesso, ed è ccsi, nelle stesso tempo, concepito solo come risultato, comefine. Egli è già il presupporsi eppure è il risultato»43• Per questo Massimo Cacciari, che sul tema dell'inizio in Hegel ha scritto pagine dense e acute, può dire: «si tratta del più radicale programma mai concepito di risoluzione del problema dell'Inizio nel senso della piena manifestazione, della rivelazione dell'Assoluto come vita compiuta, che più nulla ha di mira, che più nulla ha fuori di sé, "infelice" o bisognosa di nulla e che, dunque, ha in se stessa, come suoi costitutivi momenti, ogni astrazione e negazione, che "trapassa", nel suo procedere, ogni errore e ogni infelicità».. ed aggiunge poco più avanti: «l'Inizio si dice nel suo processo: ogni nome del suo processo è un suo nome [... ] l'Inizio è un vuoto che in quanto tale reclama di essere colmato. Ciò che manca preme verso ciò di cui manca, è necessariamente impulso alla soddisfazione» 45• A questo punto verrebbe da chiedersi: che ne è della libertà di Dio e in Dio? Tale questione che costituirà il pungolo costante del nostro percorso, anche nei passaggi successivi, è, tuttavia, risolta da Hegel, già in queste pagine, in maniera tanto perentoria quanto sbrigativa, facendo coincidere la libertà con la negazione della differenza e dell'alterità, in virtù della preminenza attribuita alla funzione riconciliante della religione cri43. lvi, p. 251. Corsivo mio.

44. M. Cacciari, Dell'lnl1iio, Adclphi, Milano 1990, p. 104. 45. lvi,pp. 107-109. Corsivo mio.

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stiana. Difatti, per Hegel: «la riconciliazione è la negazione di questa separazione, di questa scissione, è questo riconoscersi l'un l'altro, ritrovare sé e la propria essenza LA conciliazione è cosi la libertà e non è une star tranquillo, ma è l'attività che fa

scomparire il momento dell'estraneazione»46 • La manifestazione più evidente del movimento dialettico della religione rivelata è, per Hegel, il dogma trinitario, secondo cui lo spirito assume tre forme differenti, pur nella sostaJlziale identità ed unità delle tre Persone. Esse riguardano dapprima l'essere eterno in sé e per sé, la forma dell'universale, poi l'apparizione fenomenica nella particolariZ7.azione dell'essere per l'altro ed infine la forma del ritorno in sé. La Trinità è, dunque, nient'altro che il movimento dialettico di Dio che si differenzia in sé, restaJldo identico a sé; è il più alto contenuto speculativo della religione cristiana, che Hegel cosi descrive: «il Dio astratto, il Padre è l'universale, l'eterna, totale comprensiva universalità. Noi siamo nel grado dello spirito; qui l'universale comprende in sé tutto. L'altro, il Figlio, è la particolarità infinita, l'apparizione. Il terzo, lo Spirito è l'individualità come tale, ma tutti e tre sono lo spirito. Del terzo noi diciamo: Dio è spirito; tuttavia ciò presuppone che anche il terzo sia il primo»41 • Il legame trinitario è saldato dall'amore e dal fatto che l'unità ultima, manifesta nella figura dello Spirito, è in realtà già presupposta dall'ini:,jo e dunque lo spirito viene ad essere non solo la figura che porta a compimento e chiude il movimento trinitario, ma anche quello che di fatto lo inaugura, necessitandolo48 • 46. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, cit., p. 251. Corsivo mio. 47. lvi, p. 282. Corsivo mio. 48. Su questo punto, essenziale per la critica all'interpreta:àone hegeliana del dogma trinitario, si veda M. Cacciali, DeU'iniZlo, cit., pp. 186 e ss. e V. Vitiello, Dire Dio in segreto, Città Nuova, Roma 2005, pp. 21-25.

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L'unità originaria espressa dalla compiutezza del legame trinitario non può restare chiusa in se stessa. Dio deve scindersi, assecondando la sua componente altra, deve farsi mondo e natura. È dall'accoglimento in sé di tale alterità che Dio diventa forza creatrice, ma, sottolinea Hegel, tale esteriorizzazione ed estrinsecazione va letta sempre in funzione del ritorno in sé dello spirito, proprio mediante il superamento dell'alterità della natura e del mondo. Dall'uscire fuori di sé dallo spirito dipende, dunque, la creazione e la differenziazione dei diversi gradi della natura, al cui vertice c'è l'uomo•0• Nelle pagine successive la teologia hegeliana sfocia nell'antropologia (semmai fosse possibile separare i due piani, considerato il marcato antropocentrismo del filosofo tedesco), occupandosi della natura originaria dell'uomo. Lo stato di innocenza che spesso gli si attribuisce, anche facendo leva sull'idilliaca descrizione biblica della condizione paradisiaca, rivela, secondo Hegel, una duplicità di fondo: da una parte l'uomo "adamitico" è in perfetto accordo con la natura e con Dio, riconoscendosi pienamente in entrambi; dall'altra tale relazione, proprio perché irriflessa, cioè priva di quella consapevolezza che può nascere solo da una mediazione razionale, nasconde una coscienza ancora allo stato grezz.cf/J. Per Hegel, il tentare di capire se l'uomo sia per natura buono o cattivo è un falso problema, è più utile, anche ai fini dei risvolti teologici della questione, tentare di comprendere come bene e male convivano, anche in modo conflittuale, nella natura umana. Se infatti si riconosce all'uomo la naturale inclinazione all'appetito, all'impulso e alla soddisfazione di sé, che lo porta all'egoismo, alla separazione e , in ultima istanza, al male; bisogna, tuttavia, riconoscere che queste stesse componenti istintuali possono orientarsi al bene, ad una separazione positiva, cioè alla mediazione razionale che 49. G. W. F. Hegel, Lezioni rulla fi/0$0fia della religione, cit., pp. 295-298. 50. lvi, pp. 306-309.

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serve ad appagare l'altrettanto originaria e naturale sete di conoscen7.a. Per cui, paradossalmente, ciò che è ali'origine della separazione può essere anche strumento di riconciliazione e di riconduzione ad unità. Tuttavia, Hegel non misconosce la drammaticità di tale condizione, in quanto avverte che il conflitto interno alla coscien:za tra inclinazione al male e desiderio del bene è fonte per l'uomo di un grande dolore e di una profonda scissione che potrà risolversi soltanto con l'intervento di Dio, attraverso la forza unificante superiore e universale rappresentata dalla figura del Figlio 51 (Gal. 4,4). L'ossatura concettuale retrostante tale interpretazione necessitata dell'incarnazione è molto chiara nel dettato stringato ed essenziale delle pagine della Fenomenologia dedicate alla religione. Quando l'opposizione tra bene e male è tale da farli sembrare due concetti autonomi, sorge la necessità della riconciliazione. Lo spirito da infinito si fa finito, nella duplice figura dell'Uomo-Dio, si fa carne, va incontro alla morte, assumendo su di sé tutti i limiti della natura umana, affinché lo Spirito possa ritornare in sé, possa riconciliarsi, farsi nuovamente uno con tutto ciò che gli è estraneo, essendosi da lui separate?-. Hegel definisce l'incarnazione come il più bel punto della religione cristiana, in quanto rappresenta la trasfigurazione assoluta della finitezza, la perfetta unione, che scioglie ogni contraddizione, tra la natura umana e quella divina. È la verità di cui l'uomo aveva bisogno per superare l'infinito dolore derivante dalla lotta tra bene e male nella sua coscien:za, che non era in grado di risolvere con le sue sole for.ze. Hegel chiosa il tutto con toni enfatici ed entusiastici dicendo che attraverso l'incarnazione: «Dio si manifesta nel presente sensibile, egli 51. lvi, pp.311-327. Per l'esegesi più puntuale del raoconto biblico del peccato originale si legga anche lvi, pp. 328-335. 52. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano 2000, pp. 1015-1019.

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non ha nessun'altra forma che il mondo sensibile dello spirito dell'uomo individuale; è questa la sola forma sensibile dello spirito; è l'immenso di cui noi abbiamo oisto la necessità»53• E aggiunge, poco più avanti, confermando ancora una volta l'antropocentrismo della propria visione teologica: ,,nel sensibile, nel mondano, l'uomo solamente è lo spirituale; se dunque lo spirituale deve essere in una forma sensibile, deve essere nella forma umana»54• In tale interpretazione dialettica si palesano due limiti essenziali. In primo luogo il male, la separazione, appare come momento necessario, per cui il peccato perde la suacaratteri27.azione di "caduta", diventa paradossalmente motivo di elevazione della conoscem.a e apertura al destino umano di salvezza. Il peccato, dunque, non isola l'individuo, la separazione è solo apparente, è momentanea, poiché attraverso di essa si rivela il senso stesso della creazione, ovvero la libera affermazione unificante dello spiritollS. In secondo luogo il pericolo sotteso ali'argomentare hegeliano è di ridurre l'intera dottrina cristiana a opera di pura parenesi morale, a scopo di consolazione, piegando in tal modo il rapporto DioUomo a fini meramente umani. In tale prospettiva il male si rivela solo un momento del processo teandrico, un passaggio necessario. Se il peccato è iscritto ab origine nella logica necessaria del processo dialettico, allora non è più tale e il male non è davvero male e si finisce per negare sia la novità dell' Avvento sia, come vedremo più avanti soffermandoci sulle pagine hegeliane dedicate alla redenzione, la "follia" della Croce56•

53. G. W. F. Hegel, Lezloni sulla filcsofia della religione, cit., p. 343. 54. lvi,p. 348. 55. M. Cacciari, Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004, pp. 180-183. 56. C&. V. Vitiello, 11 Dio possibile. Esperienze cli cristianesimo, cit., pp. 99-101.

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Dopo essersi occupato dell'incarnazione, Hegel fa un breve excursus sulla vicenda terrena di Gesù, di cui è opportuno far notare le affinità e le divergenze con gli scritti teologici giovanili, come testimonianza dell'evoluzione interna al suo pensiero. Nelle Lezioni di fiwsofia della religione i primi tratti di Gesù ricalcano quelli già delineati in gioventù, soffermandosi nuovamente sul tentativo di elevare moralmente la spiritualità ebraica, liberandola dalla schiavitù della legge mosaica, ma va anche detto che la funzione di maestro di morale è notevolmente ridotta, solo accennata, per lasciar spazio al ruolo di redentore, di colui che annuncia un regno in cui ogni scissione, ogni differenza, ogni particolarismo saranno superati e vinti in virtù della forza universale dell'amore, il quale, per non restare impotente, dovrà incarnarsi nella comunità dei credenti e riflettersi nei legami di concordia e armonia tra i suoi membrr7. L'evento cruciale della vita di Gesù diventa, dunque, non tanto il suo insegnamento, ma l'andare incontro alla morte, l'accettare fino in fondo i limiti della natura umana, assumendo su di sé il gravoso carico della finitezza. Il sacrificio di Cristo rappresenta la più alta e nobile forma di amore in cui si manifesta l'unità intrinseca di umano e divino. È il superamento del limite della vita, della sua alterità, per affermare l'identità universale dello spirito. Hegel dice infatti: «la morte è in generale tanto la più alta finalizzazione, quanto questo superamento della finitezza naturale dell'esistenza immediata, il superamento dell'alienazione, la dissoluzione della barriera, il momento dello spirito che si raccoglie in sé per morire per le cose naturali»58 e aggiunge: «il fondamento della redenzione è dunque questa storia, il morire alla natura, poiché essa è la cosa in sé e per sé. Non è un caso arbitrario, un particolare fare 57. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofa,. della religione, cit., pp. 348-359. 58. lvi, p. 362.

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e accadere, ma è il oeridico che si c,ro. La redenzione è interpretata come la morte della morte, il trionfo sul negativo che salva la natura umana e le conferma il suo essere spirito, il suo permanere in un unità con lo spirito. Essa costituisce il momento dell'assoluta riconciliazione, il superamento dell'opposizione dell'uomo con Dio che si risolve in una totale accoglienza della natura umana in quella divina, in suprema unificazione di finito e infinito, giunti al proprio compimento nella verità del processo teo-logico. Hegel spiega il tutto dicendo: «nella morte di Cristo è stata uccisa per la vera coscien1.a dello spirito la finitezza dell'uomo. Questa morte dell'elemento naturale ha in tal modo un significato universale; il finito, il male in genere, è annullato. Il mondo è cosi riconciliato con il mondo con questa 1iwrte è tolto il mole in sé»ro. A ragion veduta Cacciari nota come queste pagine hegeliane siano attraversate dalla febbre del negativo che brucia irreversibilmente ogni valore del finito, perché tutto è trasfigurato in funzione della conciliazione, la quale non mantiene ma sopprime ogni opposizione e, allo stesso tempo, fa venir meno la tragicità della morte. Tutto è già inscritto a priori nella logica necessitata della manifestazione del divino. Se la Croce rappresenta il perno del cristianesimo filosofico di Hegel, lo è nella misura in cui viene ad essere il momento necessario alla chiusura del movimento divino in quella circolarità inaugurata dai momenti, altrettanto necessari, della creazione e dell'incarnazione. Ciò, secondo Cacciari, conduce il cristianesimo hegeliano a degli esiti tragicamente paradossali, in quanto, venendo meno ogni possibilità di libertà, il processo teologico è ingabbiato nella necessità logica e schiacciato, da principio, dal peso dell'Ananke6 1• Il senso radicale della riconciliazione, 59. Ivi, p. 364. 60. Ivi, p. 375. Corsivo mio. 61. M. Caociari, Dell'inizio, cit., pp. 191-196.

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che anima l'interpretazione hegeliana del cristianesimo, trova la sua riprova più evidente nella preminero:.a del concetto di secclarizzazione. Se la redenzione è infatti concepita come superamento di ogni opposizione e differen:za, essa non può esaurirsi nella riconduzione ad unità dell'uomo con Dio, ma deve spingersi oltre, risolvendo il rapporto tra lo spirito e il mondo, possibile soltanto attraverso il farsi mondo e storia dello spirito nella comunità. La secolarizzazione realizza il ritorno del Tutto entro sé; è il compimento di tutti i momenti precedenti in cui lo spirito rivela la coappartenero:.a tra la sua essen:za e la realtà62 • L'esplicazione più ampia e articolata di questo fondamentale tema hegeliano si trova nelle pagine conclusive delle Lezioni di filcsofia della religione dedicate al Regno dello Spirito. Il presupposto da cui parte Hegel è il fatto che il cristianesimo, qualificandosi come religione dello spirito ed avendo come fine la sua piena manifestazione, non può non rendersi "visibile", non può non incarnarsi nella coscien:za credente, sia dal punto di vista individuale che collettivo. La comunità rappresenta, dunque, l'immagine visibile dell'amore infinito di Cristo, attraverso la mediazione dello Spirito. La cifra distintiva della religione rivelata è la fede in Cristo, la quale non può fondarsi sull'aver visto o conosciuto la sua persona, altrimenti se ne farebbe qualcosa di grossolano, legato ancora alla sfera sensibile, ma, ali'opposto, essa trova la certezza della sua verità nel dono dello Spirito ai primi discepoli (Go. 16,7-13), che si rinnova costantemente nella comunità dei credenti63• Hegel, tuttavia, ci tiene a precisare il senso autentico della fede su cui si fonda la comunità, dicendo: «qui si tratta della fede nella verità, cioè la certez:za nella verità assoluta; ciò significa la certez:za di quello che è Dio, Dio come spirito e con ciò la 62. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spinto, cit., pp. 10'21-1027. 63. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla fi/o.sojia della religione, cit., pp. 386-397.

133 sua rP.alizzazione. La fede mm riposa sull'autorità, su ciò che è

state visto, bensì sulla natura dello spinte eterno e sostanziale, la quale è giunta olla coscienza, e per questa stessa cosicché la coscienza è ciò che è la verità in sé e per sé, e è per me certo» 64 e aggiunge che una tale fede: «riposa solamente sulla ragione stessa, sullo spirito, cioè su una mediazione che supera tutte . ·65. l e m edi azioni»

È evidente dunque che il tipo di comunità pensata da Hegel è quella in cui la fede nella verità rivelata ha perso ogni carattere di inquietudine e mistero, per divenire certe12a confermata e conferita dalla ragione. Da ciò si comprende anche perché il 6losofo tedesco rimarchi il fatto che lo scopo principale delle sue lezioni è di mostrare la for.za riconciliante della filosofia e la sua affinità con la teologia, in quanto permette la maturazione della fede, consentendole di ripercorrere e comprendere il senso autentico della presen2:a dello spirito divino nel mondo, nonché di giungere a quella pace derivante da ogni conciliazione tra umano e divino attraverso i concetti 66• L'intera trattazione hegeliana della religione, sia nelle Lezioni che nella Fenomenologia è mossa dalla convinzione che: «Dio è raggiungibile unicamente nel puro sapere speculativo; egli è soltanto in questo sapere, in quanto egli è lo Spirito; e questo sapere speculativo è il sapere della religione manifesta, rivelata»67, la cui meta finale è: «il movimento e la vita che lo spirito conduce e porta a compimento nella sua comunità»68• Il fondamento della religione è, dunque, il sapere in sé dello spirito, un sapere nel quale è oltrepassata ogni differen2:a tra sé e il mondo, poiché è stata instaurata una 64. lvi,p. 398. Corsivo mio. 65. lvi, p. 399. 66. lvi, p. 424.

67. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 997. 68. lvi,p. 1()01.

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riconciliazione completa. La dialettica generale della religione costituisce una rivelazione progressiva dello spirito a se stesso, un divenire che si innah:a a sé, attraverso il movimento della propria auto-mediazione e si manifesta nella sua profondità60. Il cristianesimo hegeliano non si esaurisce, dunque, nell'unità dell'Uomo- Dio, in cui c'è ancora traccia di sensibilità, bensì nel sapere speculativo, incarnatosi nella comunità religiosa, in una chiesa in cui lo spirito si attui come autocosciell7.3 universale. La religione cristiana è religione rivelata in un duplice senso: è il manifestarsi della profondità dello spirito, ma anche e soprattutto una fede spirituale che deve incorporarsi nella vita della comunità la quale, da questo punto di vista, svolge un ruolo essenziale7°. Tuttavia, Hyppolite opportunamente nota anche il fatto che, se ci si attiene alle sole pagine della Fenomenologia dedicate alla religione, non si può non rilevare una certa insoddisfazione di Hegel per il modo in cui lo spirito si secolari12a nella comunità. Essa appare ancora una forma imperfetta, non avendo in sé l'auto-certe12a del sapere assoluto, non essendo pienamente verità a sé medesima, perché non sa ancora di produrre essa stessa tale verità. C'è ancora in tale forma incompiuta di secolariz:zazione una nostalgia del passato e una fervida attesa del futuro, indice del fatto che essa proietta ancora fuori di sé una chiesa trionfante e attende la propria salve12a in un al di là oltre la temporalità. Essa dovrà giungere al grado massimo di consapevole12a del sapere assoluto per pacificarsi ed amare veramente la verità effettuale, il mondo, il quale deve essere ancora trasfigurato nell'ultima tappa dell'itinerario fenomenologico71• 69. J. Hyppolite, Genesi e strutturo della Fenomenclogia dello spirito di Hegel, tr. it. di G. A. De Toni, Bompiani, Milano 2005, pp. 664-667. 70. Ivi, pp. 691-693. 71. lvi, pp. 701-702. Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenclogia dello spirito, cit., pp.1029-1033.

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L'interpretazione hegeliana del cristianesimo nell'intento di radicaliZ7.are l'idea di secolari=zione lo priva della costitutiva dimensione escatologica, emersa nel capitolo precedente grazie al proficuo confronto con Bultmann. Hegel, infatti, pur sentendosi erede del cristianesimo paolino lo tradisce in un punto decisivo: piega l'ulteriorità dell'èschaton (l'a-topon indivisibile e attimale, su cui Paolo insiste, ad esempio, in 1 Car. 15,52) alla storia profana, lo riduce a mera necessità logica, facendo venir meno la differen7.a tra il tempo cronologico e quello aionico, tra il tempo e l'Eterno. Tale elemento differenziale è invece essenziale per garantire la serietà del cristianesimo, il suo essere attesa del ritorno del Signore (2 Cor. 6,2), il suo essere legato ad un evento, ad un attimo eterno, che sfugge ad ogni cronologia umana, ad ogni possibile teodicea, essendo legata ali'oltran7.a del sen7.a tempo vissuta kairologicamente ed escatologicamentenel tempo(Rm.13,11). Un'attesa all'insegna dell'agape, che non è, tuttavia, come vuole Hegel, una for7,a unificante e consolatoria, ma dono sospeso al]'alterità e all'ulteriorità del Figlio (Rm. 13,9-10), il cui esempio più fulgido è proprio il sacrificio estremo della Croce. In esso l'agape si svuota di ogni determinatezza, di ogni certezza, di ogni pretesa umana, troppo umana, per oltrepassare, mettere in forse, anche ogni speran7.a riposta nella giustizia del Nomos, per aprire a quell'inquietante possibilità di salvezza che si può ritrovare solo in Lui (Fil. 3,9). Tutto ciò sfugge all'interpretazione hegeliana del cristianesimo, poiché nella pretesa di ingabbiarlo in una forma dialetticamente compiuta, riduce l'ulteriorità e l'alterità del Rivelato a momento da superare per essere inserito nella prepotente circolarità del pensiero72•

72. Cfr. M. Cacciari, Dell'inizio, cit., pp. 32.5-- 332. Va, tuttavia, rilevato che, in tale acuta critica ad Hegel, Cacciari rimarca giustamente la componente "altra" e "oltre" del divino, insita nel dettato paolino, ma non evidenzia op-

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Ciò ci pennette di comprendere meglio anche il senso della chiusa delle Lezioni di filosofia della religione, in cui Hegel, soffermandosi sullo stato della religione nella sua epoca, fa risalire la causa del suo essere divenuta sciapa alla mancanza di quel "sale" che solo la sostan:za speculativa della filosofia può aggiungerle, per cui, piuttosto che perdersi in inutili dispute sulla superiorità della fede o della ragione, esorta i suoi contemporanei a comprendere la necessità di un'interpretazione dialettica e speculativa, per il progresso della religiosità, secondo le modalità esplicate nelle sue Leziont-73. Al di là dell'innegabile autoreferenzialità del discorso hegeliano, va compreso quale sia il rapporto che egli instaura tra religione e ragione, rilevando come le istanze della prima siano piegate sulla seconda. Il contenuto divino, che la fede sente e trova in sé (Emp-:findung), è mostrato e dimostrato concretamente dalla filosofia, la quale, attraverso il proprio dispiegamento dialettico, la può riconoscere come verità assoluta74 • Inoltre, se si considera la funzione di compimento che Hegel conferisce al Sapere Assoluto, collocato non a caso alla fine dell'itinerario fenomenologico, di cui la religione costituisce soltanto la necessaria premessa, si potrebbe pensare che la volontà di riconciliazione, sottesa all'intera trattazione hegeliana della religione, trovi la sua vera attuazione e realiz7..azione solo nella filosofia, attraverso la quale la verità dello spirito diventa in sé e per sé. Il Sapere Assoluto sembra, dunque, destinato a sostituirsi alla religione, privandola di quella funzione redentrice che tradizionalmente le appartiene-r.s. Il rapporto tra filo-

portunamente la radice ebraica della questione, su cui ci soffermeremo nel capitolo successivodedicato a Rosenzweig. 73. G. W. F. H egel, Lezioni sulla filosofia della religione, cit., pp. 424-427. 74. M. Cacciari, Dell'inizio, cit., p. 189.

75. J. Hyppolite, Genesi e strutturo della Fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 735-736.

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so6a e religione non è, dunque, all'insegna della reciprocità e della co-appartenenza, ma di concorrenza diretta, in quanto entrambe sono concepite da Hegel come strumenti di risoluzione, appagamento e consolazione delle scissioni e delle infelicità caratterizzanti il mondo e la sua realtà effettuale76, per cui, per dirla con De Negri, il cristianesimo filosofico di Hegel e il suo pensiero tout court, appare come una dottrina razionale di redenzione del reale77, in cui, è opportuno aggiungere, non sembra esserci spazio alcuno per quell'alterità e quell'inquietudine che, come stiamo evidenziando fin dall'inizio del nostro percorso, rappresentano la cifra essenziale ed autentica dell'esperienza religiosa

3.3 La circolarità della ragione hegeliana Se il compimento della religione rivelata è l'incarnarsi dello spirito nella comunità, il suo farsi uno con il mondo e con la storia, resta da capire come Hegel la caratterizzi, su quali presupposti logico-dialettici si fondi la sua visione del tempo, per saggiarne anche eventuali limiti. Egli infatti, in ossequio alla sua radicale idea di secolariZ7.azione, sviluppa il nesso tra la vita e la coscienza nel corso dell'intero itinerario fenomenologico, come un farsi storia dello spirito, il quale diventa reale e consapevole di sé soltanto nella storicità. La stessa mobilità dello spirito, che non lo fa essere un principio astratto, avulso dal reale, poggia sulla possibilità concreta di farsi mondo nel divenire storico, attraverso i diversi momenti e le varie figure esplicitate dalla FenomenoÙJgia18• La centralità di tale idea 76. R. Bodei, La cioetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel (nuova ed. ampliata), Il Mulino, Bologna 2014, p. 96.

77. E. De Negri, Interpretazione dl Hegel, cit., p. 248. 78. H. Marcuse, L'onrologia dl Hegel e la fondazione dl una teoria della stbricità, tr. it. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1969, pp. 346-347.

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nel pensiero di Hegel si comprende soltanto abbandonando il pregiudizio secondo cui lo spirito sarebbe qualcosa di immateriale ed evanescente, che avan7-a una pretesa di "nobiltà" nei confronti della materia. Hegel lo intende invece come totalità vivente, unità indissolubile con le parti. Lo spirito, infatti, rappresenta la rinnovata vittoria dell'unità sulla dispersione, della continuità sulla discontinuità. Una pretesa prometeica, piena di coraggio, ma allo stesso tempo, di hybris, da cui si evince l'intenzione di voler umanizzare il mondo conciliando ogni aspetto del reale, portando a compimento la stessa idea di redenzione sottesa alle Lezioni di fiwsofia della religione. Il tacito presupposto da cui muove il pensiero hegeliano è, dunque, la possibilità di tradurre la realtà in ragione storica, di non lasciare nulla di inaccessibile alla fo17.a dello spirito, la cui funzione principale è assimilare il mondo nel farsi storia79. Per questo Bodei sostiene che con Hegel si compie una vera e propria "rivoluzione teoretica": dopo l'epoca di assimilazione della natura, si avvia quella della assimilazione della storia. L'istinto della ragione si rivolge alla ricerca di un senso della storia, spinto dalla volontà, carica di presunzione, di appropriarsi e di guidare il movimento cieco dell'accadere storico. Esso è dunque inteso come processo teleologico, il cui nomos intrinseco è rappresentato dal progresso inarrestabile della coscien7-a che porta con sé la contestuale distruzione di tutti i condizionamenti esterni. La storia, da questa prospettiva, non appare più come un semplice scorrere amorfo del tempo, un processo sen7-a meta, ma è fornita di una struttura in divenire8". Inoltre nella mobilità storica dello spirito sembra riecheggiare il senso greco del poiein, inteso come fare, come

79. R. Bodei, La civetta e la talpa. Si$tema ed e,,oca in Hegel, cit., pp. 244248. 80. l vi, pp. 174-175

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attività che, a partire da Aristotele, diviene fondamentale categoria ontologica, in cui si esprime l'esser-prodotto dell'ente, il suo tendere a compimento che lo chiude in se stesso. L'ontologia hegeliana rappresenta dunque la radicalizzazione della determinazione aristotelica dell'essere come energhia, in cui il movimento reale è garantito dal primato di quest'ultima sulla dynami,s81 • Ciò significa altresl che tanto in Hegel quanto in Aristotele, l'atto determina in toto la potenza. Essa è concepita sempre in funzione del primato dell'ergon, in cui tutto risulta compiuto e perfetto, in quanto ha raggiunto il proprio tews. Ogni cosa può dirsi in potenza solo perché ha in sé il potere di attuarsi, di giungere a compimento. In Hegel, dunque, il rapporto tra potenza e atto, fedelmente al dettato aristotelico, si risolve nell'assoluta necessità dell'attuazione che determina il dispiegarsi dell'intero movimento dello spirito. L'unità che governa la visione storica di Hegel si fonda sulla sostanziale necessità che ogni potenza sia ricondotta all'atto, in quanto la sua funzione primaria è l'assoluto manifestarsi, il puro rivelarsi dello spirito nel tempo82• Nella pretesa di realizzare il compimento filosofico della storia, Hegel fa emergere la hybris umana di volersi equiparare, se non addirittura sostituire, al divino, in quanto nulla è più nascosto ed estraneo allo sguardo storico del filosofo, che sa scrutare, in virtù del suo sapere, tra le pieghe della storia stessa per scoprire i nessi logico-dialettici che la caratterizz.ano83• In tal senso il filosofo può e deve essere legato al suo tempo, alla vita del presente, come tutti gli altri uomini, ma, al contempo, deve anche elevarsi al di sopra di

81. H. Marcuse, l.,'ontologia tU Hegel e la fondazione tU una teoria della stcricità, cit.• pp. 110-116. 82. M. Cacciari, Dell'inizio, cit., pp. 158-161. Cfr. anche H. Marcuse, l.,'on,. towgia tU HegelelafondazionetUuna teoria della storicità, cit.,pp. 125-128. 83. V. Vitiello, Topologia del moderno, cit., p. 41. Cfr. anche E. De Negri, Interpretazione tU Hegel, cit., pp. 161 e ss.

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essi, poiché ha il compito di rischiarare, attraverso la luce del pensiero, l'oscurità del tempo, scoprendo il senso progressivo della storia. Tuttavia, bisogna capire se tale compito euristico della filosofia nei confronti della storia sia propriamente tale, oppure, al contrario, il pensiero non finisca per imporre alla storia i suoi presupposti logico-dialettici, scoprendo in realtà ciò che esso stesso vi immette. Se il corso della storia, al pari del movimento della religione rivelata, è retto dalla necessità dialettica, nulla può mutare e ogni discontinuità o errore, al pari di quanto accadeva per il male e il peccato in ambito teologico, è compreso, giustificato e superato in funzione di un grado più alto dello sviluppo della ragione storica. Hegel, infatti, dichiara, sin dall'esordio delle Lezioni difi'losofia della stcria: «bisogna portare nella storia la fede e il pensiero che il mondo del volere non è rimesso al caso. Che nelle contingenze dei popoli elemento dominante sia un fine ultimo, che nella storia universale vi è una ragione, e non la ragione di un soggetto particolare, ma la ragione divina, è una verità che presupponiamo; la sua prova è la trattazione stessa della storia: essa è l'immagine e atto della ragione»84 • Da questo punto di vista il Sapere Assoluto, come ultima tappa dell'itinerario fenomenologico, viene ad essere il principio e il fine di tutta la storia dello spirito, in quanto le diverse forme o figure della sua storicità giungono a compimento soltanto in esso. In Hegel lo spirito vuole farsi tempo nella sua interezza, superando i singoli momenti del divenire storico in vista della totalità. Se il movimento dello spirito nella storia è una continua auto-mediazione, in cui ogni alterità è superata per raggiungere una superiore identità, viene meno ogni differenza e tutto si risolve in unità. Il tempo hegeliano nella sua forma "pura" attua la realtà riducendola però 84. G. W. F. Hegel, Le.dcni sulla fil=fia . A partire da tale sfondo entrambi maturano I'esigen7.a di una rottura che ad Heidegger viene dalla portata innovativa della fenomenologia di Husserl21 ed anche oltre, mentre a Rosenzweig dall'esige117.a di conciliare l'alteri19. lvi, pp. 149-152. 20. Un aspetto che abbiamo già evidenziato accostandoci ad Hegel, il quale rappresenta l'apice della chiusura della ragione nel suo rapporto con l'essere. Cfr. ~ 3.3. 21. Sul tema cfr. V. Vitello, Alle radice deU'intenzumalità: Husserl ed Heidegger, in AA. W. Heideggera Marburgo(1923-1928), a cura di E . Mazzarella, Il Melangolo, Genova 2006, pp. 127-154.

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tà dell'esperienza religiosa ebraica con il pensiero moderno, proprio andando oltre l'ideale dell'essere come presenza. Due punti di partenza che, come sarà ancor più evidente proseguendo nel confronto, appaiono molto lontani tra loro, ma che trovano il punto d'incontro nella necessità di ripensare l'essere a partire dall'orizzonte originario dell'accadere del tempo, a partire dal paradossale incrociarsi di tempo ed esserezi. A tal proposito Karl Uwith sostiene che Rosenzweig fu il vero contemporaneo di Heidegger, in quanto il suo pensiero è mosso dagli stessi interrogativi di fondo. La fo17.a critica di entrambi gli itinerari speculativi consiste infatti nel medesimo tentativo di voltare le spalle alla metafisica della coscienza tipica dell'idealismo tedesco, senza però ricadere nel positivismo ed assumendo come punto d'avvio l'effettività dell'esserci umano e il suo problematico rapporto con la temporalità e l'eternità23• Una strada che percorrono entrambi, anche se con esiti differenti, per cercare un nuovo inizio alla storia del pensiero che in Rosenzweig, come si è visto, è spinto dalla necessità di andare oltre la chiusura della ragione hegeliana e in Heidegger dallo sforzo di ricercare un approccio originario alla questione dell'essere. Un pensiero dell'"altro" inizio che in Heidegger è divenuto compiutamente noto a partire dalla pubblicazione dei Beitrage zur Philcsophie. Tale scritto postumo evidenzia come la ricerca heideggeriana di un nuovo inizio abbia una vistosa impronta anti-hegeliana, accostabile, se non addirittura sovrapponibile, a quella che segna il pensiero di Rosenzweig. Heidegger sostiene, infatti, che il suo tentativo si regge su1la domanda circa la verità dell'essere, suscitata dalla necessità di riscoprire la meraviglia da cui nasce l'impulso stesso del filoso-

22. B. Casper, Rosenzweiged Heidegger. Essereedeoento, tr. it. di A. Fabris, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 26-30. 23. K. Lowith, M. Heldegger e F. Rosenzweig. Proscrittb a "Essere e tempo", tr. it. di E. Crebloe M. Felloni in "Aut-aut" n. 222, 1987, pp. 76-iT.

164 fare. Questa ricerca potrebbe sembrare, di primo acchito, un andare indietro nel cammino del pensiero, un far retrocedere il sapere verso una meditazione che ristagna, è per contro il tentativo di recuperare la feconda e originaria inquietudine da cui trae fona la radicalità della domanda sul!'essere. La storia del pensiero ha invece caratteriZ7.ato tale domandare come brama di possesso, come appropriazione continua, come desiderio di oertezre in nome del quale, per soddisfare la necessità di stabilità, si è dimenticato tutto il resto, anzi si è escluso ogni "resto" dalla storia stessa del pensiero24 • Nel seguire il paradigma tradizionale la ragione ottiene una parvenza di dominio e il compito del pensiero è spez7Me tale illusione. Occorre minare le oertezre dell'Io, la perfetta auto-sussistenza dell'uomo come animal rationale, il quale si costituisce come trionfo dell'egoità che va smascherata e superata per aprire la strada verso un altro inizio. Il nuovo inizio è segnato profondamente dall'incerteZ7.a, poiché: «il passaggio ali'altro inizio è deciso, e tuttavia non sappiamo dove andiamo, né quando la verità dell'Essere diventi il vero, né dove la storia in quanto storia dell'essere imbocchi la sua strada più rapida e più breve. In quanto transeunti in questo passaggio dobbiamo passare attraverso una meditazione essenziale sulla filosofia stessa, affinché essa guadagni l'inizio da cui, sen7.a bisogno di alcun sostegno, possa tornare ad essere interamente se stessa» 25 • In base a tali presupposti è evidente che l'impostazione del pensiero non può più essere sistematica, alla maniera di Hegel. Nel pensiero del nuovo inizio non è più possibile pensare l'essere né come dottrina né come sistema, poiché il compito della ragione non è più quello di portarlo a piena manifesta-

24. M. Heidegger, Contributi alla filosofia. (Dall'Evento), tr.it. di F. Volpi e A. ladicicco, Adelphi, Milano 2007, pp. 39-40. 25. lvi, p. 189.

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zione, ma di rispettarlo nel suo essere velato26• Al nuovo inizio è estraneo il problema di avere un sistema, poiché dietro l'impostazione sistematica si nascondono ancora il desiderio di certeZ7..a e la volontà di dominio. Contestando tali presupposti, il pensiero del nuovo inizio non può che essere a-sistematico. Ciò non lo fa ricadere nell'arbitrio o nella confusione, quasi che solo un sistema possa garantire l'ordine e il rigore del pensiero, bensl si tratta di un rigore diverso da come lo ha concepito la tradizione, un atteggiamento che coniuga alla libertà del domandare il rispetto per il carattere sfuggente dell'essere e della sua chiamata. Il pensiero, infatti, quando tenta di accostarsi ali'essere non lo raggiunge, non se ne appropria, non riesce a pareggiarsi e sovrapporsi hegelianamente ad esso, ma fa esperienz.a di sospensione. L'interrogazione autentica sull'essere è oscillazione e tensione continua, che non cessa pur nei suoi tentativi di accostamento, poiché scopre il carattere di apertura insito nel domandare stesso, il suo stare sospeso ali'estremo accadere dell'essere che non garantisce alcuna via d'accesso privilegiata27• Entrambi i pensatori sono dunque mossi dalla volontà di ritornare al carattere originario ed essenziale del domandare filosofico che si interroghi sulla verità, tenendo tuttavia presenti i limiti costitutivi dell'esisten7.a umana. Il presupposto comune non può che essere il superamento di un pensiero unico, puro, sistematico ed aut~sufficiente, culminato nell'idea hegeliana di totalità. Un pensiero onnicomprensivo ed esuberante perché pretende di superare ogni limite, cui contrapporre una speculazione radicata nella fattualità, nella realtà effettiva. !Awith le definisce due filosofie del punto di vista, non perché tendano al relativismo, ma per il loro prendere sul

26. lvi,p. 107. 27. lvi,p. 81.

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serio il limite dell'esistenra umana, la finitez:1.a storica come unica condizione di approccio alla verità. La soggettività diventa dunque, nella prospettiva di entrambi, non il pretesto per fagocitare e dominare il reale, nella pretesa che il proprio sguardo possa estendersi faraonicamente su tutto, ma nella consapevole= che proprio il limite soggettivo possa essere prolifico in un duplice senso: sia perché pone al riparo da pretese titaniche e tiranniche, sia perché con la sua costitutiva apertura pone di fronte a nuove modalità d'accesso alla verità dell'essere. La dilferenra sostanziale tra i due pensatori consiste invece nel fatto che Rosenzweig vi giungerà, come vedremo meglio nel paragrafo seguente, attraverso l'alterità della rivelazione ebraica e il suo paradossale rapporto con la verità, mentre in Heidegger il rivelarsi della verità è svuotato di ogni senso teologico, richiamandosi al significato greco della verità come a-lethèia, ovvero come scoprimento di ciò che resta coperto, come rivelazione di ciò che si ri-vela, ovvero, in senso letterale, si vela ancor più finementePB. Pur non facendo leva sul!'esperienra religiosa, anche Heidegger si domanda cosa sia la verità e se il modo tradizionale di concepirla in rapporto all'uomo possa ritenersi ancora valido. Nel celebre saggio Dell'essenza della verità egli si chiede se l'idea di fondo che regola il concetto della verità non sia ancora quella medievale dell'adeaequatio rei et intellectus. In essa la conoscenra umana ha il suo fondamento nella convinzione che l'oggetto e la proposizione ad esso riferita siano uguali all'idea che l'intelletto ne ha. La veritas viene dunque a configurarsi come la convenienra, la concordanra degli enti tra loro, garantita dal fatto che, essendo enti creati basano tale accordo sull'ordine determinato dal Creatore. Pur tralasciando la fede in

28. K. Lowith, M. Heideggere F. Rosen:&welg. Proscritto a "&sere e tempo", cit., pp. 78-83. Cfr. M. Heidegger, &sere e Tempo, tr. it. di P. Chiodi, riv. da F. Volpi, Longaresi, Milano 2005, pp. 265-277.

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una creazione, di fatto anche in epoca moderna non è venuta meno l'idea della concordanza, poiché l'affermarsi del soggettivismo, anche quando non pretendeva di utilizzare concetti teologici, non ha messo in discussione la ricerca di un ordine predeterminato che garantisse all'uomo il suo dominio sul mondo. Eppure, nota Heidegger, la condizione stessa affinché l'uomo possa conoscere è il fatto che di fronte a lui vi sia un ente che si possa incontrare con un soggetto. Tale ente deve essere dunque aperto all'incontro conoscitivo con l'uomo e, a sua volta, l'ente uomo deve aprirsi agli oggetti della conoscenza. La conformità è possibile in virtù di tale apertura originaria che costituisce l'essenza della verità Ciò signifìca altresl che l'uomo non può più concepire il suo conoscere come un appropriarsi dell'ente, ma come un lasciarlo essere e un lasciarsi coinvolgere da esso. Conoscere è fare esperienza dell'apertura originaria, è un esporsi alla svelate27,a dell'ente, alla possibilità della a-lethèia. Nel fare tale esperienza l'uomo scopre anche qualcosa su di sé: l'apertura costitutiva del suo stesso esserci. L'ek-sistentia non indica solo una sussistenza, un mero essere presente, ma anche e soprattutto la libertà di esporsi alla sveltezza dell'ente, cui può accostarsi ed aprirsi, sen7.a la pretesa di esserne misura. Anche la libertà dell'uomo intesa innanzitutto come libertà di conoscere, in tale prospettiva, perde il carattere di possesso e dominio, viene ad essere possibilità di aprirsi ed esporsi, di e-sistere. Ciò mette fuori gioco il pensiero calcolatore, quello che pretende di conoscere la totalità degli enti e dominare il reale, poiché l'esposizione è tale solo in virtù della sfuggevolezza della totalità. Il paradigma della verità come apertura costante si fonda sulla consapevoleZ7,a che ogni conoscenza umana è segnata dal limite, il quale rende autentico lo stesso farsi domande sul reale. La capacità di aprirsi allo svelarsi degli enti va di pari passo con la consapevolezza che la totalità nel suo insieme è inconoscibile e indeterminabile. Lo svelarsi dell'ente comporta, allo stesso tempo, il velarsi della totalità, cui l'uomo non può sottrarsi, anzi è suo

168 compito preservare e custodire la paradossalità del rapporto conoscitivo. Heidegger dice infatti: ,qiel lasciar essere che sve-

la e contemporaneamente vela l'ente nella sua totalità, accade che il velamento appaia come ciò che è in primo luogo velato. L'esseroi, in quanto esiste, custodisce la prima e più ampia non-svelatezza, la non-verità autentica. L'autentica non essenza della verità è il mistero»m. Insistere sulla centralità ineludibile del mistero nell'esperienza conoscitiva non implica, tuttavia, la rinuncia ad ogni pretesa veritativa, ma l'accettazione dei limiti dell'umano, i quali non rappresentano un ostacolo per l'esistenza, ma la condizione di possibilità dell'essere nel mondo e del potere progettare e pianificare. Esistere vuol dire insistere, fare i conti con tali limiti ed accettarlo in quanto tale. L'uomo, pur provando irrequietezza per questo stato di cose, non può eludere il mistero, volgendo il suo sguardo solo al rapporto pratico con la realtà. In tal caso cadrebbe in errore e non capirebbe che la dimensione autentica dell'esserci umano implica il non sottrarsi al mistero della verità, alla paradossale contemporaneità di velamento e svelamento. È solo attraverso il ripensamento dell'idea di verità che si può operare una svolta all'interno della storia dell'essere, poiché ad esso appartiene un velarsi diradante, un sottrarsi che vela, che apre alla radura della verità30 • Heidegger riprende e approfondisce il tema nei Contributi, laddove sta maturando l'esigenza della Kehre. Egli rimarca che l'essere è dismisura, non solo nel senso quantitativo, ma come essenziale sottrazione ad ogni valutazione e misurazione, in cui risiede, allo stesso tempo, la possibilità di avvicinarsi ali'esserci, pur nella sua velatezza. Da tale paradosso, irrisolto e irrisolvibile, scaturisce e si tiene aperta la contesa dell'essere 29. M. Heidegger, Dell'essenza della oerltà in Segnaofa, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 149. Corsivo mio. 30. I vi, pp. 150-156.

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con l'ente, il suo vivere di prossimità e distanza31 • L'esperienza della verità come a-lethèia è dunque solo parzialmente rivelazione, superamento e rimozione del velo, il quale permane più sottilmente quando fa cenno al mistero. Un'esperienza per la quale risulta inadeguata l'idea del conoscere come portare alla luce, poiché l'a-lethèia vive di ombre, di chiaroscuri, non fa della totale chiareZ:?.a il suo baluardo, ma insegna a custodire l'ineludibile velatezza della verità, mai totalmente aperta alla luce, ali'orizzonte delJa presenza. L'esperienza delJ'essere cosl intesa non fa delJa verità un mezzo per l'autoaffermazione dell'uomo, ma insegna a sopportare il limite intrinseco della natura umana, la sua finiteZ7.ll di ente che lo priva dell'apparente unicità e del suo illusorio primato, sul quale la tradizione filosofica aveva fondato il suo presunto dominio sul reale32• La nuova idea di verità proposta da Heidegger è invece evento del vero, cenno al fendersi abissale che apre alla contesa tra essere ed ente. Non può essere ciò che è stabilito una volta per tutte, che ha validità in sé e per sé, ma non è neppure il suo contrario: il fluire indistinto di tutte le opinioni. La verità è il centro abissale che vibra al possibile incontro con l'esserci, è lo sprigionarsi della semplicità e dell'unicità dell'essere nella sua paradossale compresenza di prossimità e distanza. Se dunque il primo inizio, quello delJa tradizione filosofica occidentale, ha pensato sempre l'essere come presenza e la verità come il rilucere di un'essenza permanente, il nuovo inizio, l'altro inizio deve far leva sul concetto di evento come carattere essenziale dell'essere e come concetto che apre alla nuova idea di verità delineata finora33•

È proprio tale caratterizzazione come evento a far assumere al tema della temporalità un ruolo centrale nei Contributi. 31. M. Heidegger, Contributi alla filosofia. (Dall'Eoento), cit.,p. 253.

32. lvi, pp. 2.58-259. 33. lvi,pp. 57-58.

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Casper nota infatti che, sebbene l'intenzione di comprendere l'essere nell'orizzonte del tempo sia già esplicita in Essere e tempo come via d'accesso privilegiata alla comprensione dell'esserci, con la svolta il pensiero heideggeriano pone al centro il concetto di accadere. La temporalità non è intesa come auto-progetto, ma come dono dell'essere stesso, rispetto al quale l'esserci dell'uomo non può far nient'altro che percepire e accogliere tale accadimento. Il senso, già rimarcato in precedenza, della verità come sopportazione del limite si comprende solo se si coglie il carattere di ossimoro e di continuo contrasto dell'essere come evento, il suo vivere di slanci e ritrazioni che non gli fa perdere mai la dimensione di oscillazione e di svolta. L'evento avviene nel tempo, ma conserva il suo carattere di cenno. Il darsi dell'essere nel tempo rinvia sempre al "tra", a quel framezzo che rende possibile l'apertura dell'essere e del mondo. Una filosofia dell'evento dovrà dunque accennare alla fenditura originaria dell'essere che non lo rende rappresentabile, né assimilabile all'idea dell'Uno della tradizione lìlosofica. È un pensiero e un discorso sulla conflittualità costitutiva dell'essere, su quel "fra" tra essere ed ente che coinvolge anche chi vi si accosta e, cosl facendo, rende anche testimonian7,a della necessità della svolta. Inteso in tal modo il concetto heideggeriano di evento presenta molte affinità con il percorso di Rosenzweig. Come sarà evidente, il pensatore ebreo utilizzerà proprio il concetto di evento per far emergere l'alterità della rivelazione ebraica e la necessità della sopportazione del limite, evidenziato anche dal lìlosofo tedesco, diverrà, per quello ebreo, sinonimo di caparbietà e testimonian7.a di fedeltà a Dio. Un Dio che proprio in quanto evento, in quanto puro accadere, è absconditus sed tamen non igootus, ovvero si rivela pur restando, allo stesso tempo, nascosto-14. 34. B. Caspcr, Rosenzweig ed Heidef!,f,er. Essere ed evento, cit., pp. 54-59.

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Heidegger specifica inoltre che il suo interesse per la temporalità è radicato sulla convinzione che la domanda sull'essere, la Grundfrage, conduce ad interrogarsi anche sull'essen7.a della storia concepita in base alla permanenza dell'essere stesso, compito fondamentale di un'ontologia che comprenda come la storicità sia fondata sulla temporalità. Tale domanda guida il percorso tracciato in Essere e tempo e viene ripresa nei Beitrlige per verificare se lo spazio-tempo non riveli soltanto l'essenza della storia, ma faccia cenno soprattutto ali'abisso del fondamento, rinviando ali'essenza dell'essere stesso che non può essere colta in una semplice prospettiva di nlosona della storia35• L'interrogazione heideggeriana, pur essendo radicata nella storia va anche oltre essa: si spinge verso il rapporto con lo spazio-tempo in quanto questione che scaturisce dall'essen7.3. della verità e le appartiene, poiché apre al rapporto con l'esserci fatto di estasi e attrazione. L'evento della verità immette nell'attimo della contesa del mondo e la svolta, nei limiti delle possibilità umane, intende cogliere, entro lo spazio della storicità, il senso del qui ed ora, da cui dipende l'unicità dell'esserci e la sua possibilità di ri>.a)izzare il proprio compito storico, aprendosi a ciò che gli è dato in dote. Heidegger accenna qui al possibile rapporto con l'eterno, presentato non come ciò che perdura, bensl come ciò che proprio nell'attimo si sottrae e potrebbe un giorno ritornare. Non certo come un ritorno dell'uguale, ma come ciò che di nuovo si trasforma, rinviando ali'essere nella sua unicità e nella sua piena manifestatività. Nell'attesa che ciò avvenga, all'uomo non resta che il sostare e il permanere nella domanda sull'essere, cercando di capire come lo spazio-tempo appartenga ali'essenza della verità. Lo spazio-tempo rinvia infatti a quella fenditura originaria, a quel "tra" in cui si situa l'esserci e il suo possibile rapporto con l'essere, sempre in bilico tra appartenenza e 35. M. Heidegger, Contributi allafilcsof,a. (Dall'Evento), cit.,p. 60.

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chiamata, tra abbandono e accenno alla conquista, in cui consiste il vibrare e l'oscillare dell'essere, di cui si è detto in precedenza. Un rapporto segnato dalla paradossale compresenza di vicinanza e lontananza, di vuoto e donazione, di slancio e indugio. Lo "stare" nell'attimo è la consapevoleZ7.a di essere attratti estaticamente da ciò che indugia e si nega, da ciò che si vela e si dirada, sostituendo all'idea tradizionale della verità come appropriazione lo stato d'animo fondamentale del ritegno. Ciò mette fuori gioco ogni pretesa di soggettivizzazione e assoggettamento del reale per aprire all'unicità dell'essere in quanto evento36• L'essere è dunque vibrazione, puro accadere che rende possibile il libero gioco dello spazio tempo. La filosofia dell'evento deve spingersi fino a tale limite estremo del pensiero, in cui l'essere in quanto accadere si rivela nella sua ricchezza e, allo stesso tempo, nella sua abissalità. L'essere non può caratterizzarsi, alla maniera di Hegel, come Assoluto, il suo sottrarsi non esclude la possibile intimità con l'esserci, il fatto che l'uomo sia proteso verso di esso, senza però avan1.are la pretesa di volersene appropriare. Il carattere estatico dello spazio-tempo apre alla radura dell'essere, in cui però non c'è spazio per alcun volontarismo, per alcuna hybris, perché il presentarsi dell'esserci al possibile incontro con l'essere è innanzitutto attesa che qualcosa si manifesti, fosse anche soltanto attraverso dei cenni. Un pensiero cosl strutturato non ha più bisogno di alcun sistema, esso è propriamente storico, in quanto è consapevole del fatto che l'essere come evento sostiene ed eccede l'articolarsi della storia, mettendo da parte ogni tentativo di calcolo o di deduzione logica e invitando l'esserci soltanto ad essere disponibile ad accogliere la verità L'itinerario di pensiero avviato con Essere e tempo ha dunque lo scopo di preparare l'esserci al presentarsi dell'essere, sell7.a avan7.are la pretesa che il pensiero possa condurre alla

36. I vi,

pp. 363-367.

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sua conquista, bensì abituandolo a tale rapporto paradossale radicato nello spazio-tempo, che l'uomo ha il compito di salvaguardare e custodire in tutta la sua misteriosità37• Quanto detto fìnora potrebbe far pensare che Heidegger, pur partendo dall'effettività storica dell'uomo, dal senso del limite insito nella sua natura, trattando il carattere estatico del tempo nel suo rapporto con l'essere, lo travalichi; invece la peculiarità del pensiero del filosofo tedesco, che rende ragione anche del possibile accostamento a Rosenzweig su questi temi, è proprio il considerare il rapporto con l'essere tenendo però sempre ferma e presente la fìnite7.7.a umana. Ecco perché la morte, come esperienza limite dell'esserci umano, assume un'importanza capitale anche nei Contributi. Heidegger dice infatti: «l'unicità della morte nel!'esserci dell'uomo appartiene alla più originaria determinazione del!'esserci, e cioè al suo essere fatto avvenire e fatto proprio dell'Essere stesso per fondare la sua verità (apertura del velarsi). Nel carattere insolito e unico della morte si apre nell'intero ente ciò che più di tutto è inusuale, l'Essere stesso che si presenta essenzialmente nella sua potenza straniante,,38 • Dunque il rapporto dell'esserci con la morte, se da una parte chiama in causa l'ineludibile 6niteZ7.a umana, la sua chiusura; dal]'altra rinvia anche, allo stesso tempo, alla possibilità dell'apertura, del precorrere e progettare. Essa non va intesa come la tendenza al raggiungimento del mero nulla, ma come una possibilità di estrema apertura. La morte, in quanto situa l'esserci nel tempo, non è soltanto il suo limite che lo conduce alla fine, ma è anche e soprattutto ciò che lo incalza, lo sprona a proiettarsi verso il futuro. Se l'esserci assume su di sé la possibilità della morte, non lo fa con l'intento di negare l'essere, o peggio ancora di negare se

37. lvi, pp. 244-247. 38. lvi, p. 284.

174 stesso, ma di affermare la possibilità stessa di tale rapporto proprio perché segnato dalla consapevole7.7.a del limite di cui si rende testimonianza. Lo stesso intento anima la trattazione dell'essere per la morte in Essere e tempo, per cui il suo pensiero, precisa il fUosofo tedesco, non può essere in alcun modo ridotto, in base ad una comprensione superficiale, ad una "filosofia della morte", perché il tema è sempre collocato in un orizzonte più ampio, oltre ogni possibile deriva nichilista, ovvero la domanda sul!'essere e sul suo fondamento che spinge l'esserci a fare i conti con il lato abissale del fondamento stesso111. Il domandare originario e autentico ha sempre, per Heidegger, una fona affermativa, è un costante dir di sl, in cui però non c'è alcun segno di volontarismo, nessuna ostentazione ottimistica di poten7.a, nessun eroismo pragmatico, perché si fa esperienza del fatto che l'incontro con l'essere è dono che annichilisce, momento che spiazza e stranisce, che sgomenta nell'atto stesso di mostrare la sua sfuggente verità. Un esporsi ali'essere che non liquida mai la possibilità del nulla, pur non anelandovi, non concependoli in contrapposizione, ma sforzandosi di situarsi nel "tra", nel framezzo tra essere e nulla"°. Da questo punto di vista la strategia speculativa di Heidegger può essere accostata a quella di Rosenzweig, perché entrambi cercano di sviluppare un pensiero della contraddizione, nel quale sono tenuti insieme il sl e il no, l'elemento positivo e quello negativo, poiché intendono mantenere viva l'inquietudine del pensare, in base alla quale ogni chiusura è anche, allo stesso tempo, la paradossale via d'accesso ad una possibile esteriori7.7.azione e apertura••. L'avversione rosenzweigiana, per l'assolutizzazione nichilistica del nulla si palesa nella

39. lvi, pp. 284-286. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 303-319. 40. Ivi, pp. 268-269. 41. A. Fabris, Unguaggio della riveuwone. Filosofia e teologia in Franz Rosenzwelg. cit., p. 152.

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sua diffidenza verso la mistica, poiché in essa il filosofo ebreo vede un misconoscimento dell'implicarsi di mondano e storico e anche quando ciò apre al]'extra-mondano lo si fa in modo carente, perché si persegue l'ideale del rapporto con Dio attraverso la negazione del mondo. Egli è infatti convinto che l'autentica esperienza religiosa debba far necessariamente i conti con l'alterità del mondo, non può chiudersi ad esso, anzi deve rP.alizzare e testimoniare l'alterità di Dio nella storia◄2. Rosenzweig, al pari di Heidegger, cerca di andare oltre un'ontologia atemporale, radica l'uomo e il pensiero nella sua appartenenza al tempo e alla storia, per cui un autentico pensiero filosofico implica altresl un partire dalla realtà per aprirsi all'accadere. Proseguendo nell'analogia, anche in Rosenzweig è il carattere dell'essere come accadere che porta a fare i conti con il nulla, ma senza imboccare la strada, già ampiamente battuta, della teologia negativa, poiché la sua riflessione porta, alla maniera di Heidegger, ad un'interrogazione sul rapporto dell'essere con il nulla, nelle forme già descritte, per affermare l'assoluta positività dell'essere come negazione del negativo. La ricerca dell'originalità dei fenomeni conduce anche Rosenzweig a fare i conti con la paradossalità dell'essere, ovvero con il fatto che quest'ultimo si presenta all'uomo in tutta la sua contraddittorietà, sottraendosi costitutivamente alla sua presa, palesando non solo i limiti intrinseci del pensiero, ma anche l'inesauribilità della stessa ricerca fìlosofica, poiché è dal rapporto di dis-misura con l'abisso dell'essere che scaturisce ogni domandare autentico◄3. Un senso del limite del conoscere che anche in Rosenzweig, alla stregua di Heidegger, si radica nella consapevolezza della mortalità dell'uomo. Essa fa venire meno ogni pretesa egemonica del pensiero, il suo

42. B. Casper, Rosenzweig ed Heidegger. &sere ed evento, cit., pp. 69-71.

Cfr. F. Rosenzweig. LA stella della redenzione, cit., pp. 215 e ss. 43. lvi,pp. 73-81.

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configurarsi come possesso del reale culminata nella modernità nella tenden:za onnicomprensiva della ragione hegeliana. L'esisten:za umana, partendo dalla propria fatticità storica, fa dunque esperienza del proprio costitutivo limite, del suo stato di povertà che è dato al pensiero sin dall'inizio. Un limite che condiziona e ridimensiona l'illusione, anch'essa tipicamente hegeliana, di poter esercitare un controllo sul tempo, inteso come continuum, come grande:a.a assoluta, perché abitua l'uomo ad accettare ed accogliere il libero darsi del tempo, il suo accadere imprevedibile, entro i limiti del finito 44• Se fino a questo punto i percorsi dei due pensatori sembravano poter procedere di pari passo, al punto tale che l'impostazione concettuale di fondo dell'uno si sarebbe potuta sovrapporre a quella dell'altro, nella caratterizzazione nel tempo come accadere si apre tra i due una profonda distan:za difficilmente colmabile. In Rosenzweig, come sarà evidente nella trattazione del tema della redenzione nella seconda e nella ten.a parte della Stella, il tempo trae la sua caratterizzazione specifica dal messianismo che in Heidegger è invece assente, perché il filosofo ebreo crede nella fecondità dell'incontro concettuale tra filosofia e teologia, mentre quello tedesco crede nell'incompatibilità tra i due ambiti fino a definire le due discipline nemiche mortali45. Mosès fa notare come sia proprio il costante riferimento al senso messianico del tempo a costituire la cifra distintiva della "modernità ebraica" che le consente di cercare una via altra rispetto al trionfalismo della ragione storica hegeliana. Il messianesimo oppone, infatti, alla visione ottimistica di una storia intesa come marcia inarrestabile verso il compimento finale dell'umanità, l'idea di una storia e di un tempo discontinuo,

44. lvi, pp. 95-98. 45. Cfr. M. Heidegger, Fenomenologia e teologia in Segnavia, cit., pp. 5-22.

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i cui differenti momenti non si lasciano totali:z:zarP. e in cui le lacerazioni, le crisi e le rotture sono più feconde e significative dell'apparente omogeneità. L'esperien1.a ebraica del tempo, come emergerà chiaramente più avanti, accostandoci alle pagine della Stella dedicate al tempo sacro della preghiera e della liturgia, si fonda sulla differen1.a qualitativa degli istanti, ciascuno carico di una specincità unica capace di aprirsi alla molteplicità possibile del tempo a venire. L'esperien1.a originaria del tempo ebraico, che non può considerare l'instante come mera transizione dal precedente al seguente, come nel caso del tempo fisico, fa venire meno, insieme all'idea di omogeneità, anche quella di continuità e con ciò la possibilità stessa di una causalità che ne regoli il corso. Nel tempo messianico l'istante presente apre a quella molteplicità infinita del futuro, per cui sostituisce all'idea di un tempo dominato dalla necessità, il tempo del possibile. Ciò si radica, a sua volta, nell'idea ebraica di redenzione, come avvento possibile ad ogni istante, come improvvisa e imprevedibile irruzione del sen1.a-tempo nel tempo. La speran1.a messianica ebraica non aderisce alle tappe di una finalità storica, abita piuttosto gli strappi della storia, esperisce il carattere abissale dell'essere nel tempo46• Bisogna dunque tenere sempre presente il fatto che la tematiz:zazione nell'accadere in Rosenzweig è orientata dalla speran1.a nella redenzione, dal riferimento costante ali'avvento del Regno, anche se precario e non ancora deciso. L'accadere ha dunque come duplice ori1.ZOnte di riferimento l'alterità di Dio e quella dell'altro uomo, la dimensione escatologica e quella etica della speran1.a messianica, nel tentativo, costante in tutto l'itinerario speculativo rosenzweigiano, di tenere uniti il lato ontologico e quello più strettamente teologico di ogni questio-

46. S. Mosès, La storia e il suo angelo. Rosenzweig. BenjamJn, Scholem, tr. it. di M. Bertaggia, Anabasi, Milano 1993, pp. 16--30.

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ne47• In Heidegger, invece, la questione resta ferma al piano ontologico, inerendo soltanto la domanda sull'essenza dell'essere. Su tale sostanziale differenza insiste molto Karl Lowith, il quale, pur essendo stato uno dei primi filosofi a sottolineare il possibile accostamento tra Rosenzweig e Heidegger, non ne dissimula mai le profonde divergen7.e. Egli sottolinea che l'analisi di Heidegger, pur assumendo l'effettività come punto di parten7.a, si muove ancora all'interno della tradizione filosofica che intende superare, secolariZ7.ando il concetto teologico di creazione ne fa venir meno l'alterità e dunque la riduce a semplice produzione, per cui per l'esserci ne va sempre e solo di se stesso, resta disperatamente chiuso entro la decisione che pone a se stesso, mostrandosi incapace di aprirsi all'alterità di Dio e del prossimo48 • Ciò è evidente, secondo Lowith, nella trattazione heideggeriana della morte, perché, pur tenendo presenti le precisazioni sul tema che si trovano nei Beitrage, non cambia sostanzialmente l'impostazione del problema: la morte appare, a suo avviso, una possibilità estrema, ma insuperabile, che non apre all'Altro e all'altro, ma allontana dalla cura, perché finisce con l'isolare ogni uomo entro se stesso e il proprio essere nel mondo. Heidegger ricade dunque in quella volontà di auto-redenzione che egli stesso aveva rimproverato a Nietzsche, perché in lui l'elemento negativo del rapporto con l'essere finisce per avere il soprawento sul!'elemento positivo che in Rosenzweig invece viene dall'inquieta speranza nel Dio di Israele. È come se l'esserci nella decisione assumesse, insieme alla libertà del progettare, la coscienza della propria nullità, owero la "colpa". L'esserci la assume su di sé e la rimette a se stesso, rivelando l'orizzonte ateistico entro cui Heideggerpensa alla questione, non ammettendocreazio-

47. B. Casper, &senzweig ed Heidegger. Es.sere edeoento, cit., pp. 133-137. 48. K. Lowith, M. Heideggere F. Rosenzwetg. Pr=ritto a •essere e tempo•,

cit.,p. 86.

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ne, né rivelazione, né tantomeno redenzione•\ elementi che, ali'opposto, saranno essenziali nel proseguimento dell'itinerario speculativo di Rosenzweig. Eppure in questo continuo gioco di paradossi e di rimandi impliciti tra i due autori, che sta animando il nostro tentativo di confronto, appare evidente che proprio la caratterizzazione heideggeriana dell'essere come evento presenti, sia dal punto di vista contenutistico che concettuale, una forte coloritura teologica. Heidegger dice, infatti, che l'essema dell'essere come evento non è semplicemente ousia, ma parousia, in quanto temporalità, poiché: «l'accadere dell'estasi che essendo stata custodisce e di quella che essendo ventura anticipa, è cioè apertura e fondazione del Ci e dunque dell'essen7.a della verità»50 • Ciò implica il ritegno, ovvero il saper restare nella rammemorante attesa dell'evento, del farsi incontro dell'essere della vibrazione di questo accadere divino in cui esso si fa avvenire e fa propria la sua radura, come luogo non-luogo dell'intimità con l'essere che resta tuttavia abissale e non si può conquistare con il pensiero, se non presagendolo nella sua inesauribilità. L'essere come evento è dono abissale, che sfugge ad ogni pensiero rappresentativo che intende oggettivarlo e assoggettarlo riducendolo alla stregua di un qualsiasi ente. Se il primo irùzio della storia dell'essere è incentrato sul primato dell'ente e sull'idea della verità come svelamento, che ingloba e inghiotte ogni di1Teren7.a, il nuovo irùzio dovrà essere necessariamente anche altro irùzio, interrogazione sull'accadere

49. lvi, pp. 89-91. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 323-359. 50. M. Heidegger, Contributi alla filosofia. (Dall'Evento), cit.,p. 96. Per comprendere a pieno l'orizzonte teologico che sembra influenzare, anche piùdl quanto riconosca lo stesso Heidegger, il tema dell'evento, si rileggano le sue acute osservazioni sulla parusia cristiana nel serrato confronto con Paolo nella Fenomenologia della vita religiosa, di cui ci siamo occupati nel §2.3.

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stesso della verità che è altro rispetto al paradigma auto-fondativo della tradizione filosofica occidentale51• È evidente che Heidegger, pur non occupandosi esplicitamente del messianesimo e della visione altra del tempo, della storia del pensiero ad esso connessa, vi si è approssimato inconsapevolmente e avrebbe potuto imboccare una strada ancora più decisa e netta verso un pensiero "altro», se avesse osato immettere le suggestioni provenienti, ad esempio, dalla trattazione paolina del tempo messianico, all'interno del proprio itinerario speculativo, senza ostinarsi sulla necessità di tenere separate filosofia e teologia52 • Tale dimensione altra del tempo in fondo, come nota Uwith, si sarebbe potuta integrare senza difficoltà nella struttura della temporalità, come anticipazione finalizzata alla decisione, e nella visione "attimale" del tempo delineata in Essere e tempo. A ciò va aggiunto il fatto che proprio Rosenzweig, sin dalle prime battute della Stella, ha insistito sulla necessità di togliere alla teologia il marchio del dogmatismo, scongiurando il pericolo di fame una disciplina autoreferenziale e chiusa in se stessa che spingeva Heidegger a tenerla separata dalla filosofia, per cui si potrebbe affermare che la teoria della conoscenza messianica di Rosenzweignon è molto lontana dalle intenzioni filosofiche di Heidegger, nella misura in cui il filosofo tedesco si sforza di portare avanti un pensiero al limite e del limite, in cui l'idea della finitezza della verità, del suo costitutivo dover fare i conti con il mistero, evita ad entrambi il pericolo di cedere alle tentazioni titaniche e tiranniche della ragione abituandoci, al contrario, alla fecondità

51. lvi, pp. 190-191.

52. B. Casper, Rosenzweig ed Heulegger. Essere ed eoento, cit., pp. 110-113. Abbiamo già affrontato la questione del mancato incontro tra Heideggere il messìanesimo ebraico, attraverso i contributi sul tema della Zarader e della Di Cesare, accostandoci all'interpretazìone heideggeriana di Paolo nella Fenomenologia della oita religiosa (Cfr. §2.3).

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dell'inquietudine, al saper sostare nella radicalità della domanda, ancor prima di ogni eventuale risposta. L'inquietudine in Heidegger è primariamente lìlosofìca, mentre in Rosenzweig è al contempo anche teologica, mettendo a riparo la fede da ogni deriva dogmatica. Un connubio a cui sarebbe potuto arrivare anche il lìlosofo tedesco se il suo rapporto con la teologia cristiana non fosse segnato, come nota Ujwith, da una sostanziale ambiguità di fondo. Se si pensa, ad esempio, al fatto che l'analisi esistenziale del concetto di colpa in Essere e tempo, cui si è accennato in precedenza, sarebbe potuta essere arricchita da eventuali suggestioni provenienti dal concetto teologico di status conuptionis come viatico verso la grazia divina, come dimostra l'attenzione che Bultmann, da teologo, rivolge al tema, servendosi ampiamente della pre-comprensione lìlosofica offertagli dalle coordinate heideggerianes:i. Heidegger dunque, secondo il suo allievo, per scelte terminologiche e affinità concettuali, sembra andare incontro alla teologia, ma si ferma a metà strada e anche quando usa concetti di chiara matrice teologica li sradica dall'originale contesto cristiano al quale però, proprio operando in tal modo, dimostra di essere ancora paradossalmente vincolato, apparendo, dice Ujwith, con sottile ironia, un "teologo cristiano senza Dio'-s4. Tale ambiguità emerge con chiarezza nella caratterizzazione heideggeriana dell'ultimo Dio. Il rapporto con quest'ultimo è presentato all'insegna della vicinanza e, allo stesso tempo della reticen7..a. Un paradosso non imputabile alla fortuna o alla sfortuna, ma al fatto che l'essere è dismisura e mette fuori

53. Abbiamo già affrontato la questione occupandoci dell'interpretazione bulbnanniana di Paolo nel §2.1 e successivamente esplicitando il debito del teologo luterano nei confronti dell'interpretazione heideggeriana della vita religiosa nel §2.3. 54. K. Lowith, M. Heldegger e F. Roseru:weig. Proscritto a •&sere e tempo•, cit., p. 92.

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gioco chiunque intenda commisurarsi. Il rapporto con l'ultimo Dio è dunque amore per l'abisso (Ab-grnnd) quale essen1.a di ogni fondamento (Grond), il che costituisce un'esperien1.ache non può non generare sgomento, perché il protendersi verso la sua ultimità è in realtà un retrocedere, un indietreggiare, un deporre ogni volontà, per aprirsi al ritegno, ad un inevitabile pudore come unico modo per avvicinarsi a ciò che resta pur sempre lontano. All'ultimo Dio appartiene soltanto l'accennarsi e, al contempo, il sottrarsi, il lasciare spazio al silenzio nel quale si decidono il suo avvento e la sua fuga, rispetto ai quali l'uomo non è in grado di compiere nulla55• Questo Dio è talmente lontano da far vacillare l'idea del primato creaturale dell'uomo, il quale sperimenta nel paradossale rapporto con lui l'incapacità di inffuen1.arlo, di poterlo condizionare con i propri bisogni, di decidere se si muova verso di noi o vada via. Abituare il pensiero a tale lontanan1.a significa deporre ogni velleità di conquista, per sostare nell'abissalità della domanda, attendendo un futuro e una storia, ammesso che vi sia ancora un futuro e una storia:!6. La caratterizzazione sembra avere molte affinità con l'alterità che contraddistingue il rapporto del mondo ebraico con il divino, evidenziato già attraverso Buber e che sarà oggetto del nostro percorso sia nel proseguo dell'ac-costamento a Rosenzweig, sia nell'approfondire tale tema nel pensiero di Lèvinas e che, paradossalmente, è sembrato anche molto vicino ali'esperien1.a, testimoniata, sin dal]'origine, dal cristianesimo paolino, come emerso dall'interpretazione di Bultmann e dalle feconde suggestioni dello stesso Heidegger sulla vita religiosa. Il gioco di affinità e convergenze proprio con Heidegger avrebbe potuto chiudersi, se non fosse che egli tende ad allontanare nettamente l'ultimo Dio non solo dall'universo concettuale ebraico, ma anche da quello cristia55. M. Heidegger, Contributi allafilowjia. (Dall'Evento) , cit., pp. 41-49. 56. lvi, pp. 51-52.

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no, come si legge nell'exergo della VII sezione dei Beitrlige, in cui è presentato come: «del tutto diverso rispetto agli dèi già stati, specie rispetto al Dio cristiano»51• L'unicità e la singolarità dell'ultimo Dio consiste, per Heidegger, nello spiazzare tutte le determinazioni del concetto di Dio formulate dai monoteismi, dal panteismo e persino dall'ateismo. Ogni specie di "teismo", compreso quello giudaico-cristiano, ha come presupposto speculativo la metafisica che egli intende superare. La presa d'atto della morte di Dio deve far cadere tutti i teismi e la pluralità degli dèi deve essere sostituita dal rilucere velato dell'ultimo Dio, dal suo abissale accennarsi. L'ultimo Dio non è, dunque, la fine, ma la possibilità del nuovo inizio, perché in vista di lui la storia non deve terminare, ma essere portata a compimento, per cui all'uomo spetta il compito di produrre con prontezz.a le condizioni per la sua trasfigurazione e per il passaggio dal vecchio al nuovo inizio. L'estremo rischio del rapporto paradossale con la verità dell'essere è dunque sempre in vista della preparazione del manifestarsi dell'ultimo Dio. Un rischio che avviene nell'evento, in quanto indugiante negarsi, ed intensifica la possibilità del rifiuto che non può essere sfigurata o rimossa da alcuna concezione dialettica58• Heidegger chiosa dicendo: ,,qui mm accade alcuna redenzione (Erlosung), cioè in fondo nessun prosternarsi dell'uomo, bensl l'insediamento dell'essen:,.a originaria (fondazione dell'esserci) nell'Essere stesso: il riconoscimento dell'appartenen:,.a dell'uomo nell'Essere tramite il Dio, l'ammissione da parte del Dio, che con ciò nulla toglie a sé e alla propria grandeZ?.a, di aver bisogno dell'Essere»5ll.

57. lvi, p. 395. Corsivo mio. 58. lvi, pp. 402-403. 59. lvi, p. 400. Corsivo mio.

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È il punto di maggiore distan7.a tra Rosenzweig ed Heidegger, vista l'importani.a capitale del concetto di redenzione per l'intero arco di pensiero del lìlosofo ebreo, come si vedrà accostandoci alla seconda e alla tena parte della Stella, anche in merito al fatto che Rosenzweig lotta serratamente contro la tentazione di voler "anticiparen o "prepararen il Regno, proprio per tener lontana la volontà di redenzione della ragione che sembra ancora emergere, seppur in maniera residuale, in queste pagine di Heidegger. Egli, inoltre, non avrebbe potuto accettare con tanta disinvoltura l'insistere del lìlosofo tedesco sul sottrarsi di Dio, sulla possibilità del rifiuto, perché se è vero, come si capirà meglio negli snodi successivi, che la fede ebraica fa seriamente i conti con il lato straniante del rapporto con il divino, è altrettanto vero che ciò non fa venire mai meno la speran7.a, sempre inquieta, nella possibilità della redenzione, che da tale elemento paradossale trae la propria for7.a. Restare saldi nella fede tralascia il compito, assegnato ancora da Heidegger, di adoperarsi per la fondazione della verità dell'essere, preoccupandosi invece soltanto di persistere nell'attesa di Dio. Questo atteggiamento per Rosenzweig, come per tutto il pensiero ebraico in genere, è sinonimo dell'autenticità della fede e per Heidegger, invece, è una forma insidiosa di esisten7.a segnata dalla più profonda mancan7.a di Dioro. L'ultimo Dio non è dunque un Dio Altro, e l'interrogarsi sulla temporalità come accadere non conduce il lìlosofo tedesco, a differen7.a di Rosenzweig, ad aprirsi ali'esperien7.a messianica del tempo, ali'attesa dell'Altro dettata dal bisogno e dalla dipendeni.a dal Creatore, che spinge contestualmente a vivere tale alterità nella dimensione etica del rapporto con l'altro uomo6 1• A tal proposito Lowith, nel suo acuto tentativo di accostare i due autori seni.a attenuarne le profonde differeni.e, 60. Cfr. lvi, p. 407. 61.B. Casper, Rosenzweiged Heùlegger. Essere edeoento, cit.,pp. 98-99.

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fa notare che, sebbene il punto di avvio per entrambi sia la critica del primato auto-referenziale dell'Io, affermatosi nella filosofia moderna a partire da Cartesio, i due percorsi divergono nettamente riguardo al rapporto dell'Io con l'altro, poiché l'essere con l'altro non è un essere per l'altro, non c'è alcuna forma di reciprocità. Se c'è una forma di riconoscimento nel "con" è solo nella forma unilaterale che dal mio comportamento, dall'orizzonte dell'esserci, conduce allo stare insieme ali'altro, in cui, pur andandogli incontro, si riconosce sempre e solo se stessi62• L'esperiem.a religiosa ebraica, invece, proprio perché fondata sull'alterità, abitua l'Io a confrontarsi col Tu, che resta essenzialmente altro e non una semplice proiezione di se stessi, un altro differente ed esigente che invita ad essere per lui, invita a porsi nella sua prospettiva venendo incontro alle sue esigenze in una dimensione di reciprocità etica che lo fa percepire innanzitutto come prossimo. È una chiamata all'aver cura, alla responsabilità reciproca, riJlesso e testimonian7.a autentica della chiamata di Dio come Altro. L'analisi di Heidegger, invece, misconoscendo l'importanza per un pensiero dell'alterità sia del concetto teologico di creazione, sia di quello di redenzione, sostituito, nelle modalità già descritte, da quello "secolarizzato" di produzione, finisce per chiudere l'esserci in un orizzonte in cui ne va solo di se stesso e non c'è spazio né per Dio né per il prossimo63• Su questo punto il giudizio di Donatella Di Cesare è ancora più severo nel rimarcare la distaro:a tra il nuovo inizio e l'altro inizio nel solco della tradizione ebraico-cristiana. Se l'essere ha un suo oltre, tende 62. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 148-157. 63. K. Lowith, M. Heidegger e F. Rosenzweig. Proscritte a -Essere e tempo•, cit., pp. 84-86. È un punto essenziale al fini del nostro percorso, su cui torneremo nel capitoloseguente, laddove accostandoci al concetto lèvinassiano di essere per l'altro, cercheremo di marcarne la distanza dal concetto di essere con l'altro di Heidegger, facendo leva sugli stessi limiti cui accenna Lowith (Cfr. ~5.2).

186 cioè ad oltrepassare e varcare, tale oltrepassamento, tale slancio verso possibilità ulteriori genera un movimento che non è mai pienamente un andare al di là verso l'altro, poiché resta sempre in qua verso se stesso. Il movimento dell'esserci si delinea sempre nel finito: non va verso l'altro, ma torna a se stesso, si volge ali'appropriazione autentica di sé. Il limite è sempre ineludibile ed abissale, dà sull'abisso, ma non si apre all'alterità dell'infinito, e anche quando l'altro compare nell'orizzonte heideggeriano, la finitezza dell'esserci lo confina, gli impedisce lo sconfinamento tipico di ogni alterità radicale. La ricerca heideggeriana del nuovo inizio non giunge all'inizio dell'altro, poiché è sempre segnata dal lutto per l'essere. Pensare l'essere nel segno del lutto vuol dire rammemorarlo nella sua 6nite7.7.a, nel suo rapporto con la morte come fine ultima, come limite estremo in cui si dilegua anche l'evento. L'escatologia heideggeriana, tracciata nella notte del mondo e nel tempo dell'indigen1.a, ha l'indubbio merito di spingersi ali'estremo, di tentare di scrutare il baratro, il fondo sen1.a fondo dell'essere, ma su tale punto il suo pensiero naufraga in quel passaggio stretto tra due negazioni: il "non più" degli dèi fuggiti e il "non ancora'' del Dio a venire64• Il mondo descritto da Heidegger è paradossalmente pieno di dèi assenti, non conosce la verticalità ed esclude la sua irruzione. In questo paesaggio il nuovo è atteso nell'aperto, in uno spazio sacro, in cui manca, tuttavia, il messianico, il "pur sempre", fondamentale invece in Rosenzweig. In Heidegger non c'è scampo, non accade alcuna redenzione. Nella storia dell'essere non irrompe il "pur sempre" che la interrompe, l'oggi in cui si incontrano il passato più remoto ed il futuro più lontano, l'adesso che inver-

64. D. Di Cesare, Heldegger e gli ebrei. 1 -quaderni nen·, cit., pp. 273-275. Sul tema cfr. V. Vitiello, Cristianesfmo senza redenzione, Later.t.a, Roma-

Bari 1995, pp. 67-71.

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te il tempo e converte l'istante presente nell'istante ultimo65• Pur nella consapevolezza di tale limite, Casper sostiene che il pensiero heideggeriano dell'evento, quale pura descrizione strutturale, apre al divino e al sacro nella misura in cui, proprio attraverso l'evento invita a pensare all'accadere di una correlazione tra umano e divino. È una teologia fìlosofica in senso lato, se la si intende come analisi strutturale di ciò che massimamente dà a pensare per mezzo di un pensiero consapevole della propria temporalità e della propria finitezza, un'analisi strutturale delle condizioni di possibilità del sacro che, in quanto tali, non vengono negate, ma restano solo possibili, pur ponendosi come limite il sostare nella Grundfrage soltanto dal punto di vista filosofico, tenendo separati fede e pensiero, e non cercando, come farà invece Rosenzweig, di estendere i problemi umani e anche quelli propriamente filosofici, all'ambito teologico66• Tale singolare rinvio alla possibilità del sacro fa seriamente i conti col nichilismo del nostro tempo, non vedendo in esso una "malattia" da cui cercare di guarire, ma un possibile ponte verso un'esistenza sciolta dalla salvezza (Heil-lose) che rinvia alla salvezza stessa67• La ricchezza dell'interrogazione heideggeriana su questi temi risiede nella coerenza nichilistica di un pensiero che accetta fino in fondo la negatività dell'essere, non dissimulandola. Piuttosto che espugnare il "non", Heidegger lo affronta in tutta la sua problematicità, togliendo al concetto di salvezza ogni riferimento tracotante alla ricerca di una stabilità. Così come il pensiero non si pone nei confronti del nichilismo in termini di guarigione o non guarigione, nella consapevolezza che non

6.5. lvi,pp. 278-279. 66. B. Casper, Rosenzweig ed Heidegger. &sere ed evento, cit., pp. 161-166. 67. Cfr. M. Heidegger, E. Jiinger, O~ la linea, tr. it. di F. Volpi e A. La Rocca, Adelphi, Milano 1989, pp. 113 e ss.

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occorre superare la linea, ma imparare a sostarvi68, allo stesso modo l'esserci dell'uomo deve imparare a sostare nel framezzo tra l'essere e il suo non, anche nel possibile rapporto con il divino00• In tale prospettiva, pur nella consapevolezza dei limiti evidenziati in precedell7.a, potrebbe leggersi nell'ultimo Dio un affiato paradossale alla salveZ7.a, un'espressione di alta religiosità nichilistica, poiché: «l'ultimo Dio porta alla parola il sentimento dell'ultimità di tutti gli dei, il sentire oltre-tragico che il divino può scomparire dal mondo. Che il sacro può ritirarsi nell'abisso della sua essenza occulta. E questo non dipende dall'uomo. Forse neppure da Dio» 70 • Una rillessione sull'alterità dell'esperiell7.a religiosa, soprattutto se incastonata e sviluppata a partire dell'inquietudine del nostro tempo, non può non fare seriamente i conti con il non costitutivo dell'essere e con il limite dell'esistell7.a, se vuole essere pungolo per la ricerca di un autentico dialogo e incontro tra istanze religiose e non. In tal senso Vitiello afferma: ,,al nichilismo non si risponde reattivamente, negativamente.

Si ccnisponde accettandolo, col portarne fin.o in fondo la sua

"logica". E non per controllarlo, ''govemarw», neutralizzandone gli effetti negativi: bensì, per fame emergere la Ùùente religiosità,,1•; ciò rappresenta uno sprone per spingersi, con la necessaria prudenza, ma con altrettanta decisione, laddove Heidegger non aveva osato awenturarsi: verso la scoperta, che è, allo stesso tempo, riscoperta dell'alterità radicale, sem.a necessitarla o tentare di definirla e delimitarla, ma rispettandola in quanto tale, nella consapevolezza che l'Altro è

68. Cfr. lvi, pp. 147 e ss. 69. V. Vitiello, Oblio e memoria del sacro, cit, pp. 96-98. 70. lvi, p. 112.

71. V. Vitiello, Ripensare Il cristianesimo. De Europa, clt., p. 235. Corsivo mio.

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talmente altro da sfuggire alla presa totalizzante del pensiero, ma che proprio in virtù della sua stessa alterità non permette di escludere la possibilità di un incontro tra umano e divino. Un rapporto segnato dall'apertura alla sfuggente prossimità dell'Altro che chiama alla responsabilità per l'altro. Una dimensione essenziale per il pensiero ebraico, cui cercheremo di accostarci dapprima attraverso il legame evidenziato da Rosenzweig tra creazione, rivelazione e redenzione, per poi rimarcarne il possibile risvolto etico, nel capitolo successivo attraverso il pensiero di Lèvinas.

4.3 Creazione, rivelazione e redenzione: l'alterità dell'esperienza religiosa Se dal confronto con Heidegger è emerso chiaramente che uno dei maggiori punti di distanza dal filosofo tedesco è il modo di concepire il rapporto tra filosofia e teologia, è proprio da qui che ci sembra opportuno ripartire per comprendere l'originalità del pensiero di Rosenzweig e il suo sapiente intreccio di interrogativi filosofici e istanze religiose. Sebbene il filosofo ebreo abbia già anticipato nella seconda parte della Stella il nesso tra la verità cercata dalla filosofia e quella offerta dalla teologia, ritiene necessario precisarlo affinché il passaggio dall'una all'altra non appaia troppo brusco. Il rapporto tra i due ambiti è di reciproca comprensione, poiché da una parte la filosofia può aiutare la teologia a gettare dei ponti concettuali tra creazione, rivelazione e redenzione; dall'altra la teologia può venire incontro alla filosofia aiutandola ad abbandonare l'idea di verità come contenuto stabile, per aprirsi all'accadere, ali'evento. Rosenzweig si sforza di pensare ad una reciprocità tra filosofia e teologia che vada al di là del tradizionale rapporto ancillare, presentandole come due vie paritetiche di ricerca della verità.

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Rosenzweig procede in medias res affermando che l'inizio è creazione (Gen. 1,1-3). Tuttavia precisa che l'essere della creazione, la "è" non va intesa in senso statico, ma come riferita ad un sopraggiungere; il che serve a preservare il carattere dinamico, di accadere e di evento dell'atto creatore. Egli è consapevole, anche sulla scorta di un serrato confronto con la trattazione hegeliana del tema, da cui intende liberarsi, del fatto che la questione apre ad una serie di difficoltà alle quali non intende sottrarsi. Bisogna innanzitutto chiarire se l'atto creatore è frutto di arbitrio o di necessità. La soluzione più semplice, quella più risolutiva sarebbe, alla stregua di Hegel, far ricorso alla necessità logica ed applicarla alla creazione. Tuttavia, nota Rosenzweig, cosl facendo si limita l'onnipoten7.a divina dal punto di vista teologico, e, allo stesso tempo, dal punto di vista filosofico, si finisce sempre con il pensare la potenza in funzione del primato dell'atto. L'impostazione del problema non cambia se si fa della creazione un bisogno divino, quasi un'esigen7.a "personale", per fuggire la solitudine del suo essere; il che, oltre ad essere un ragionamento umano, di fatto finisce con il negare l'assolutezz.a divina, il suo non essere dipendente da nulla, tranne che da se stesso. All'opposto, se si insiste su Dio come Assoluto, facendone un'entità separata, lontana dal mondo, quasi indifferente, si rischia di ricadere nel paganesimo, poiché si nega ogni possibilità di relazione e con essa la natura stessa dell'esperienza religiosa. Il punto fermo è per Rosenzweig proprio la relazionalità dei tre elementi: creazione, rivelazione e redenzione, la loro dinamicità, la loro costitutiva apertura ali'altro da sé. Se tale prerogativa è dunque presente nei concetti cardine della teologia, deve essere preservata anche nel Dio Creatore. Egli è dunque assoluta libertà, arbitrio, nel senso di pura possibilità. In perfetta coerenza con le premesse meta-logiche che abbiamo evidenziato in preceden7.a, Rosenzweig sostiene che occorre accennare alla segreta auto-manifestazione della libertà divina antecedente la creazione, perché prima di ogni necessità destinale.

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Essa è l'oscura potenza, si potrebbe dire, in termini hegeliani, la lichtscheue Macht che precede ogni compimento e manifestazione. In tal modo si riesce a preservare il fiammeggiante arbitrio da cui dipende la mirabile potenza del Creatore, si serba il Mistero del Dio nascosto, il suo agire secondo un'infinita possibilità e non per ferrea necessità. Un Dio dawero libero e onnipotente che può e non deve manifestarsi necessariamente nella creazione 72. Soltanto un'idea di creazione intesa in questi termini strappa il mondo dalla chiusura del cosmo hegeliano, lo apre alla dinamicità, all'alterità e, allo stesso tempo urende manifesto» il suo mistero. Rosenzweig presta molta attenzione ai risvolti esistenziali del suo discorso, poiché la potenza del Creatore non può non coinvolgere l'esserci della creatura, evocando e rinviando alla sua costitutiva dipendenza dall'Altro, in un rapporto che, secondo Rosenzweig, non si esaurisce una volta per tutte nell'atto della creazione, ma si rinnova giorno dopo giorno nella quotidiana e provvidenziale presen1.a di Dio nel mondo, per cui l'individualità, come cifra dell'esserci dell'uomo, diventa, nella nuova prospettiva aperta dal]'esperienza religiosa, innanzitutto consapevolezza della propria creaturalità73• Nel trattare il tema Rosenzweig, come farà in tutto l'arco della Stella, tende a marcare la propria distan1.a dall'idealismo. Quest'ultimo, a suo avviso, rimpiazza la creazione con l'idea di produzione. Il mutamento concettuale è significativo, poiché con ciò si ottiene come risultato un mondo plasticamente oggettivo che funge da punto stabile a partire dal quale la

72. F. Rosenzweig, w stella della rede~ne. cit., pp. 119-123. Il senso radicalmente anti-hegeliano della temati:tza.àone rosenzweigiana emergerà facilmente rileggendo il §3.2, in particolar modo le osservazioni di Cacciari sul senso dell'ini:,io in Hegel. Cfr. M. Cacciari, DeU'iniZio, cit., pp. 104 e ss. e pp. 186 ess.

73. lvi,pp. 19-130.

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molteplicità si compone e si ordina in unità. Un mondo sottratto all'inquietudine dell'ipotetico, (la cui importanza all'interno dello sviluppo del "nuovo pensiero" si è già sottolineata, ma risulterà ancora più decisiva nel confronto tra ebraismo e cristianesimo che caratterizza la ter7..a parte della Stella), all'incertezza del "forse" e inglobato nei nessi logici e causali imposti dall'uomo per esercitare la propria tirannia. Ciò che, tuttavia, viene meno in questo mondo, cosl apparentemente ordinato, è proprio la consapevolezza creaturale dell'esserci umano, la sua possibile apertura all'altro, nonché la dipenden7.a dall'Altro, dimensione viva nell'esperien7.a religiosa e obliata dal mondo della produzione in cui la singolarità e le peculiarità dell'individuo sono sacrificate in nome del progresso della specie74• Da tali precisazioni e distinzioni emerge chiaramente, secondo Rosenzweig, il senso ultimo dell'idealismo: una ragione vittoriosa che domina tutto il reale dall'inizi.o alla fine, avendo come oggetto del sapere nient'altro che se stesso, poiché non vi è più nulla di inaccessibile ad essa; è venuto meno ogni limite. Un sapere che mai vacilla, avendo rigettato ogni "se", ma che, nell'accostarsi ali'altro da sé, nel renderlo suo oggetto, non fa altro che fagocitarlo, assimilarlo, ridurlo a sé, annullando ogni differen7.a e specificità, per cui il filosofo ebreo può chiosare, con un'immagine fortemente evocativa, facendo notare che gli slanci della ragione idealista si risolvono in un vortice universale di annichilimento~. Nel passaggio dal concetto di creazione a quello di rivelazione il ponte gettato da Rosenzweig è sorprendente: sarebbe stato

74. lvi, pp. 143-144. li fatto che tale idea di produzione, concetto cardine del mondo contemporaneo, tragga la propria origine dalla hybris della ragione hegeliana è ben messo in evidenza da M. Cacciari, DeU'inl:tio, cit., pp.158 ess.

75. lvi, pp. 153-154.

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logico attendersi che il nesso fosse la verità manifesta nel Creato e poi rivelatasi nelle Scritture, invece egli parte dall'amore e, con profondo senso di appartenenza alla tradizione ebraica, si richiama al Cantico (Ct. 8,6), per sottolineare come esso sia una forza uguale e contraria alla morte. È qui evidente il palese riferimento intra-testuale all'incipit della Stella, rappresentandone, allo stesso tempo, un'inversione significativa. I!: come se Rosen:zweig intendesse chiarire al lettore accorto che il suo riferimento iniziale all'ineluttabilità della morte e alla finite:z7.a della condizione umana non avesse il senso funesto e funereo di un memento mori, ma fosse un rimando alle possibilità di apertura insite nell'esistenza, di cui l'amore è segno evidente. Se tale fo17.a è essenziale per la vita dell'uomo nei rapporti con i propri simili, lo è ancor di più in un'ottica di fede: il Creatore non pennette soltanto all'uomo di scoprire la propria creaturalità, ma altresì di vedere in essa il marchio dell'amore divino, il cui statuto veritativo è ancorato alla rivelazione, essendone pietra angolare e chiave di volta76 • L'amore rivelato, tuttavia, non va confuso con le logiche di quello umano, non va piegato ad alcuna esigenza. Esso ha il carattere del dono che avviene nell'istante e non ha una valenza consolatoria o un valore di certezza e garanzia di beatitudine; la sua essenza è l'attimo, in una fedeltà che si rinnova ad ogni istante e può essere paragonata per approssimazione al primo sguardo d 'amore. Esso mantiene il carattere dell'evento e quello della prossimità nella distanza, per cui: «ricusa di farsi un'effige dell'amante[ ...]; l'effige farebbe sì che il volto vivo si irrigidisse in un viso morto. Dio ama, è il più puro presente: l'amore stesso non sa se mai amerà, anzi neppure sa se ha mai amato. Gli è sufficiente sapere una cosa sola: che ama,,77• Non è "onni-amore", ovvero amore unificante, totalizzante e onnicomprensivo (opposto, 76. lvi, pp. 167-168. 77. lvi,p. 175.

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dunque, a come Hegel lo aveva descritto nelle Lezioni sulla filosofia della religione), vive e si sviluppa nell'ulteriorità del tempo, passo per passo, attimo per attimo, senza mai essere sicureZ7.a di un possesso, sia dell'amante per l'amato che viceversa. È un amore cui l'uomo può corrispondere soltanto con il perseverare in fiduciosa attesa, un rapporto che non può essere monologo dell'Io, ma dialogo con un Tu, fatto di domande prima ancora che di risposte, interrogativi che spiazzano ogni certeZ7.a, perché sempre al di là della certezza e del dubbio. Rosenzweig afferma infatti: «L1o scopre sé nell'attimo in cui afferma l'esisten:za del tu attraverso la domanda circa il "doven del tu»78• Nel dire ciò occorre precisare che nello scoprire se stesso l'Io non è mai sicuro di arrivare al Tu. La domanda che può far scaturire l'incontro con l'Altro è destinata a rimanere tale, a mantenere il suo carattere inquietante, se fosse risposta piena ci ritroveremmo di fronte un uomo che, alla maniera dell'idealismo, oggettiva se stesso e tenta di oggettivare Dio. Il dialogo vive di un ascolto ubbidiente, di apertura al comandamento dell'amore (Dt. 6,5). Anche in questo caso Rosenzweig ritiene necessario precisare il concetto per evitare che lo si faccia ricadere in una logica di possesso. Il comandamento va inteso infatti non nel senso prestazionale di un dovere da compiere, altrimenti verrebbe meno la componente di libertà ad esso sottesa, ma sempre nella prospettiva dell'amore, in cui si ama Dio perché si sa, pur nell'inquietudine di tale esperien:za, di essere amati da lui. In tale amore non c'è, tuttavia, alcun appagamento, soltanto tensione continua verso l'Altro: «larivelazione culmina in un desiderio inappagato, nel grido di una domanda che attende risposta» 79• Dunque come si legge poco più avanti: «il dialogo d'amore è qui giunto alla fine. Infatti in grido che lo anima si lascia sfuggire nell'istante del supremo, 78. lvi, p. 187. 79. lvi, pp. 197-198.

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immediato compimento, oltrepassa i limiti di questo discorso a due; esso non proviene più dalla quiete beata e silenziosa dell'essere amato ma sale con ntt000 inquietudine dauna profondità ntt000 e, fin qui, ancora a noi sconosciuta dell'anima e al di l.à della prossimità non vista ma sentita dall'amante, prorompe in singhiozzi fin entro il crepuscclo dell'infinito»80• Tale costante tensione attesta la priorità assunta dal concetto di evento, il quale pennette di comprendere il valore attimale e di apertura proprio della rivelazione. Qui è in opera quella "logica della contraddizione", di cui si è detto in preceden:za, per me7.Zo della quale il sì e il no coabitano e il Dio nascosto può preservare il suo mistero. Ciò è palese nella "fenomenologia dell'amore" presentata in queste pagine, a patto che non si intenda il termine platonicamente, ovvero come segno di indigenza, di mancan7_.a da colmare, bensì va compreso come accadimento che è sempre tutto nell'istante e che, in quanto tale, si esplica in una relazione sempre irrisolta e inquieta, la cui "grammatica" non segue una ferrea logica proposizionale, ma la forma aperta del dialogo io-tu81 • Sebbene sia sondata da Rosenzweig sotto il profilo etico-esistenziale, partendo dall'amore in essa racchiusa, la rivelazione rappresenta, al contempo, una sfida ontologica alla totalità hegeliana. Essa mostra quanto siano vani i tentativi della ragione di inglobare e ingabbiare il Tutto, pretendendo di portarlo a piena manifestazione, poiché, per quanto essa si sforzi. dovrà sempre fare i conti con un'alterità non riconducibile e riducibile ad unità. Un "resto" che non sarà mai raggiunto e raggiun-

80. Ibidem. Corsivo mio. 81. A. Fabris, Linguaggio della rioelazicne. Fi/c.sofia e teologia in Franz Rosenzweig, cit., pp. lOS.106. È evidente, dunque, oome l'impostazione onto-teologica dl Rosenzweig poosa rappresentare un ponte tra l'importanza assunta dalla n31 • Lèvinas, secondo Blanchot, ha rinnovato il concetto di responsabilità, lo ha salvato dalle banalizzazioni, ha fatto in modo che esso abbia ancora un significato nell'ottica di una 6losofia "altra". Una 6losofia del pensiero a-venire e dell'impegno che ribalta il rapporto tra l'Io

29. lvi,p. 336. 30. M. Blanchot, La scrittura del di.sa.stro, cit., p. 128. In merito si rilegga

il §5.2. 31. lvi,p. 140. Corsivo mio.

324

e l'altro, che toglie al soggetto la sua pre-poten7.a, la sua indole assoggettante per aprirlo alla chiamata dell'altro, all'ingiunzione della responsabilità per lui. Senza questa inversione logica ed etica non sarebbe pensabile alcun discorso sull'amicizia, perché essa invita a rispondere alla prossimità del più lontano, alla pressione del leggero, al contatto di chi non ci tocca, è esposizione, radicale passività alla non presenza dell'ignoto32• Lo stesso Derrida ne è consapevole quando sostiene che il legame con l'amico non è solo il nodo di un attaccamento tra due, tra soggetti o volontà simmetriche, ma è sottomissione alla legge del!'altro, un collocarsi entro una disgiunzione e una sproporzione radicata in una fede, in una fiducia più grande nell'altro che in se stessi. L'amico dispone di una fiducia che non ha misura, che non può regolarsi sulla coscien7.a, che è continua tensione che dipende dall'altro più che da se stessi; è un affidarsi all'altro dimenticando se stessi. Una fiducia eteronomica che eccede i saperi, le coscienze riflessive e le certezze di un ego cogito 33• L'altro, in quanto amico, è innanzitutto chiamata alla responsabilità, ingiunzione a rispondere, "autorità asimmetrican che scuote l'apparente autonomia intima e solitaria del "quanto a sén. Derrida usa a tal proposito un'immagine evocativa: lo descrive come un foro interiore praticato nell'intimo della coscien7.a morale, gelosa della propria indipenden7.a34• La responsabilità implicata nell'amicizia assegna anche un nuovo senso alla libertà, ne evidenzia il fatto che essa ci è assegnata da altro, prima ancora che ogni speran7..a di appropriazione ci permetta di assumerla come nostra. L'irruzione dell'altro ci immette in un nuovo ordine, fa cenno 32. I vi, pp. 38-40.

33. J. Denida, Politiche dell'amicizia, c\t., pp. 225-227. È qui evidente l'implicita ripresa della «struttura d'ostaggio", punto cardine del pensiero etico di Lèvinas (Cfr. 45.2).

34.1 vi, p. 296.

325 a ciò che viene prima di ogni autonomia, la eccede e la deborda infinitamente. L'amicizia, dunque, in quanto chiamata dell'altro, fa segno al futuro, si declina al futuro, non è mai un dato presente, appartiene all'esperien7.a dell'attesa, della promessa e dell'impegno. Il suo discorso è simile a quello della preghiera che non constata niente, che non si accontenta di ciò che è, ma si porta nel luogo non-luogo in cui si apre una responsabilità per l'awenire35 •

La sfida "aperta" del nostro tempo è dunque sviluppare un pensiero dell'evento come capacità di sostare nella domanda sen7.a anelare immediatamente alla ricerca di un fondamento o di un soggetto assoluto cui appigliarsi. Andrebbe diffusa una pratica di pensiero che sappia approssimarsi alla verità se117.a pretendere di possederla e dominarla, che veda nell'evento, nel puro accadere, un esercizio di dislocazione continua e, allo stesso tempo, un aprirsi ad un orizzonte infinito di possibilità36. Questa pratica è propriamente etica, perché esorta al coraggio, ad insistere nel tenere aperta una domanda di senso, pur nel non senso dilagante e apparentemente inesauribile, invita a diffidare da tutti i sensi, anche quelli più "alti" che pretendono di accaparrarsi la verità sulla terra, invita a diffidare di questo stesso diffidare, in quanto pensiero radicato sull'evento, sulla fecondità del forse. L'insistere sulla domanda di senso è in realtà un essere domandati, owero chiamati e pro-vocati alla risposta, all'esposizione "etica" all'altro da sé. In sostan7.a è una provocazione a tener luogo nel non-luogo della tecnica, ad abitare il nostro tempo, pur nella consapevolezza della sua possibile deriva37• Il nostro tempo è infatti, non solo, come s'è

35. lvi, p. 276. 36. C. Sini, L'etica della scrittura, Mimesis, Milano-Udine 2009, pp. 167169. 37. lvi,pp. 172-173.

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detto sin dall'inizio del nostro percorso, il tempo dell'inquietudine, ma anche quello del rischio e dell'attesa di senso che non annulla, semmai radicali=, l'esigen7.a della domanda, il tempo di ripensare nuovi possibili legami tra gli uomini, per non abbandonarsi al non-senso nichilista, ma per aprirsi ad un senso iruwdito, cioè ad un senso che precede tutti i sensi, li previene e, al contempo, li sospende, proprio in quanto radicale attesa. Pensiero e pratica d'esistenza risulterebbero così. improntati alla chance, al possibile, che vede nell'apertura all'altro l'unica via per cercare ancora una struttura di senso, in quanto senso del mondo38. Bisogna sviluppare dunque un pensiero accorto, prudente, definito da Nancy del passo sospeso, perché consapevole dell'eccedenza della verità che fugge costitutivamente ogni tentativo di appropriazione. La verità è sempre awoltada un irriducibile mistero, sempre "altra", perché segnata intimamente dalla differenza, per cui chi intende ricercarla con autenticità non può non fare tale esperienza del differire, che non è solo teoretico, ma primariamente etico, poiché instilla la necessità di comunicarsi l'un l'altro le rispettive esperienze, sempre parziali, di verità, dismettendo ogni abito egemonico e prevaricante39• Se dunque, come ammette lo stesso Nancy, nei nostri tempi il "deserto cresce", ponendoci di fronte ad un'aridità di senso sconosciuta~, proprio il pensiero di quel popolo abituato alla fatica del deserto potrebbe suggerire, come si è tentato di evidenziare lungo tutto il nostro percorso, una via paradossale, ma feconda per attraversarlo. L'ebraismo non è un residuo arcaico non assimilato dalla modernità, bens'i un resto inassi-

38. J. L. Nancy, Il senso del mondo, tr. it. di F. Fenari, Lanfranchi, Milano

1997, pp. 11-12. 39. lvi, pp. 22-25. 40. lvi, pp. 35e ss.

327

milabile che rinvia l'Occidente alla possibilità di un oltre. La peculiarità dell'ebraismo, come si è già visto ampiamente accostandoci a Rosenzweig e Lèvinas, è l'invito constante all'uscita da un'esistenza chiusa, ali'apertura ali'altro che evita alla civiltà occidentale la deriva in un universalismo totalizzante di stampo hegeliano. L'ebraismo, interrogandosi innanzitutto su se stesso, testimonia la possibilità di un nuovo modo di essere al mondo, non violento, non radicato nel proprio sé e sciolto da ogni vincolo, né pieno di sé e vittorioso su ogni differenza in nome di una libertà assoluta che non si assume alcuna responsabilità. L'ebreo è, al contrario, consapevole del fatto che il mondo non è cominciato da lui e con lui, ma prima di lui, in un passato immemorabile, c'è sempre l'Altro che lo convoca, che lo chiama a rispondere, senza possibilità di scelta, perché la responsabilità precede la libertà. Non c'è bisogno di alcun comando perché l'ebreo possa rispondere "eccomi"41 alla chiamata dell'altro, poiché tale "obbligo" è già inscritto nel suo stesso esserci, nella consapevolezza della dipendenza da Altro. Il pensiero ebraico fa esodo, inverte il cammino, segna la rottura dell'asse tradizionale, palesa che l'altro, sradicando il sé, lo solleva dal peso dell'essere e dalla suachiusura. Nel dire ciò non si intende, tuttavia, "ebraizzare" l'altro, fare dell'ebreo il simbolo essenziale ed esemplare di ogni alterità. Piuttosto si intende indicare una via "possibile", non certo l'unica, per sradicarsi dalla chiusura del sé ed aprirsi ali'altro da sé e alla responsabilità per lui, perché solo a partire da tale sradicamento etico è possibile pensare il radicamento nel mondo, sia dal punto di vista individuale che comunitario42•

41. Abbiamo già sottolineato la centralità dell'ecoomi nell'esperienm religiosa ebraica attraverso le acute riffessioni di Lèvinas sul tema (Cfr. §5.3).

42. D. Di Cesare, Heidegger& sons, cit., pp. 116-119.

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Se si vuole pensare, o meglio ripensare al "politico" come luogo dell'in cmrwne e dell'essere insieme Io si può fare solo nel!'ottica della non auto-sufficien7.a, della dipenden7.a, dell'interdipenden7.a, dell'eteronomia e dell'eterologia. Si tratta di andare verso un pensiero e una pratica del legame con l'altro in quanto tale, realizzando un'annodatura che non annulli le differenze ma le preservi, come antidoto agli eccessi della soggettività, un legame che non presupponga la preminenza di uno o più dei poli coinvolti, in base a logiche di bisogno, desiderio, potere o sottomissione, poiché: «I'annodatura non è niente, nessuna res, nient'altro che la messa

in ra'PPorto che su-ppone tanto la prossimità quanto la lontananza, l'attaccamento come il distacco, l'intrigazione, l'intrigo, l'ambioolenza»43• Nancy per far comprendere meglio il senso "altro" della sua prospettiva aggiunge che tale legame: «è questa realitas eterogenea, questa congiunzione disgiuntiva che

autentica e dissimula nello stesso tempo»..... Lo spazio etico si apre a partire dalle interconnessioni tra le differenti alterità, senza che un solo legame, una sola annodatura possa dirsi autosufficiente e avanzare pretese totalizzanti. Un'etica in cui ogni soggetto abbandoni la sua presunta autosufficien7.a ed auto-referenzialità, per aprirsi alla necessità intrinseca del legame con l'altro che chiama alla responsabilità per lui in un "processo" di annodatura infinita, pur nella consapevolez:,.a della 6nitev.a umana. Un'etica che si potrebbe definire, alla stregua di Lèvinas45, della fraternità umana, poiché aspira alla realiZ7.azione della giustizia e dell'uguaglianza sociale, non in base a legami di natura biologica, confessionale o territoriale, ma in virtù della consapevolev.a che il legame

43. J. L Nancy, 1l senso del mondo, cit., p. 139. Corsivo mio. 44. Ibidem. Corsivo mio. 45. In merito si rilegga il §5.3 e il §5.4.

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con l'altro, l'apertura a lui, come ingiunzione etica, è antecedente ad ogni legge codificata, ad ogni sentire comune.«i. Un'etica adatta ai nostri tempi inquieti, a tratti inquietanti, poiché non ha la pretesa di avere verità onnicomprensive o risposte definitivamente risolutive, ma invita a coltivare legami, apraticare la condivisione, nella consapevolezza che ogni atto non porterà mai ad un compimento, semmai aprirà all'accoglienza dell'altro, alla sua amicizia, al suo essere dono ed evento in un comune destino d'erranza.

46. J. L. Nancy, Il senso del monde, cit., pp. 140-143.

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Indice Prefazione

p. 11

Introdnzione

p. 17

I Il tempo dell'inquietudine

p.23

1.1 Considerazioni preliminari 1.2 L'analisi della Zarnbrano 1.3 La lotta di Nietzsche

II Paolo tra vecchie e nuove Tavole

p.23 p.26 p.36 p.49

2.1 Il Paolo storic-escatologico di Bultmann 2.2 I "paradossi" ebraici del Paolo di Buber

p.49 p.67

2.31.A radice "occultata" del Paolo di Heidegger

p.85

III Hegel: trionfo e crisi della ragione 3.1 L'antisemitismo teoretico del giovane Hegel e la figura di Gesù 3.2 Cristianesimo filosofico e secolarizzione 3.3 La circolarità della ragione hegeliana

N Rosenzweig: oltre il "circolo" la Stella 4.1 La sfida dalla Ionia a Jena 4.2 Verità ed Evento: Rosenzweig'Heidegger 4.3 Creazione, rivelazione e redenzione: l'alterità dell'esperien7.a religiosa 4.4 Stella e Croce: la vita e la vita eterna

p.107

p.107 p. 121 p.137 p.153 p.153 p.162

p. 189 p.205

V Lèoinas: l'Altro nella responsabilità per l'al.tro 5.1 Dall'uscita dell'essere... 5.2 All'altrimenti che essere 5.3 Al di là del versetto: l'essen7..aetica dell'ebraismo 5.4 Aperture al cristianesimo

p.241 p. 241 p.254

p.279 p.297

Conclusìone Perun ethos dell'alterità...

p. 311

Bibliografia

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