L' inquietudine dell'altro. Ebraismo e cristianesimo 9788898694365, 9788898694853

È possibile trovare una via d'uscita alla chiusura paradigmatica del logos occidentale, andare oltre l'idea au

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Italian Pages 344 [342] Year 2017

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Table of contents :
Prefazione
Introduzione
I Il tempo dell’inquietudine
II Paolo tra vecchie e nuove Tavole
III Hegel: trionfo e crisi della ragione
IV Rosenzweig: oltre il “circolo” la Stella
V Lèvinas: l’Altro nella responsabilità per l’altro
Conclusione Per un
dell’alterità...
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Indice
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L' inquietudine dell'altro. Ebraismo e cristianesimo
 9788898694365, 9788898694853

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Guido Bianchini

L’inquietudine dell’Altro Ebraismo e cristianesimo

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Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

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Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 7 - Proposte

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Guido Bianchini

L’inquietudine dell’Altro Ebraismo e cristianesimo

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Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2016, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 7 - dicembre 2016 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694365 ISBN – E-book: 9788898694853 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: golden angel in the sunlight (antique statue) © zwiecackesser - Fotolia.com

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Il figlio viene generato perché renda testimonianza del padre defunto del suo genitore. Il nipote rinnova il nome dell’avo. (F. Rosenzweig, La stella della redenzione)

A mio nonno Guido, nell’inquieta speranza di inverare le parole di Rosenzweig.

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Questo testo oltre ad essere un tentativo di riflessione sul tema dell’alterità è stato anche un esercizio pratico della stessa, poiché è stato possibile anche grazie ad altri che mi sono venuti incontro donandomi tempo, ascolto e competenze. A loro va il mio “grazie”. Alla mia famiglia per l’affetto e l’incoraggiamento di sempre. A Vincenzo Vitiello per avermi trasmesso la passione e il rigore del pensiero e per essere interlocutore prezioso per lo sviluppo delle mie ricerche. A Gaetano Panella e Mennato Tedino per il supporto nella revisione formale del testo.

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Prefazione di Vincenzo Vitiello

L’essentiel pour nous aura été, au paroxysme de la crise, de préserver la question. (Edmond Jabès, da: Le livre des questions)

Una metafora per iniziare: L’inquietudine dell’Altro. Ebraismo e cristianesimo è il Bildungsroman di Guido Bianchini, la narrazione della sua ‘formazione filosofica’. Ciò che lo distingue dalle opere letterarie dello stesso genere, è, certo, anche il ‘contenuto’, rigorosamente filosofico e non biografico, ma sovrattutto la ‘forma’, che non differisce da quella dei Bildungsromane di argomento letterario per la coincidenza del protagonista della narrazione con l’“io narrante” – coincidenza, peraltro, non rara nei romanzi di formazione ‘letterari’ –, ma ben più significativamente per il fatto che il protagonista del libro dice di sé, senza mai parlare di sé. L’inquietudine dell’Altro non è un’autobiografia filosofica, ancorché non d’altro parli che dell’inquietudine – per restare fedeli alla metafora – dell’“io narrante”, che però è solo nelle domande che

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pone ai suoi interlocutori, e nelle loro risposte, che analizza, discute, accoglie o respinge in funzione non tanto delle soluzioni che offrono, quanto delle domande che aprono. Questo ‘processo di formazione’, di cui sono testimone diretto, per aver discusso con l’autore ogni capitolo del libro durante la sua composizione, ben si riflette nella struttura del testo, che segue non l’andamento rettilineo della cronologia, ma l’ordine ‘logico’ dettato dai problemi. Bianchini muove dalla domanda che la Zambrano formulò nei tristi anni Quaranta del secolo scorso, davanti allo spettacolo della devastazione materiale e morale dell’Europa: «È stato il cristianesimo europeo vero cristianesimo? Ed è pensabile un cristianesimo europeo che sia vero cristianesimo?», e cioè un cristianesimo che non subordini il Dio pietoso e misericordioso, il Dio d’amore, al Dio pantocrator? La domanda investe tutta la storia del cristianesimo, e non a caso Bianchini, dopo essersi soffermato sulla dura polemica di Nietzsche contro il cristianesimo (contro Paolo, è bene precisare, e non Gesù, da lui definito un «Buddha sorto in un terreno molto poco indiano […] una mescolanza di sublimità, malattia, infantilismo») – vera conclusione dell’unilateralità del ‘cristianesimo storico’ –, concentra la sua attenzione sul rapporto ebraismo/cristianesimo, interrogando due voci eminenti dell’una e dell’altra religione, Buber e Bultmann. Perché queste due voci? Per la diversa, anzi opposta interpretazione ch’essi hanno dato di Paolo, l’uno insistendo sulla estraneità sua – ma non di Gesù – alla religione ebraica, l’altro sulla continuità del cristianesimo paolino con l’esperienza ebraica, senza ovviamente negare la differenza, che è alla base del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento. Lontano sia dalla lettura buberiana – che disconosce la profonda radice ebraica di Paolo, al punto da farne un marcionita avant la lettre –, che da quella di Bultmann, che

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riduce l’ebraismo a mera “funzione profetica” della religione di Cristo, Bianchini enuncia chiaramente l’intento della sua ricerca: «indagare il rapporto tra ebraismo e cristianesimo, attraverso Paolo ed oltre, per riscoprire proprio la componente “altra” che innerva le due fedi e non le rende riducibili a nessuna visione storica circolare o teleologicamente orientata». E questo spiega il primo ‘incontro’ dell’autore con Heidegger: il giovane Heidegger delle lezioni friburghesi su Paolo. Geniale interpretazione, quella del filosofo di Meßkirch, che si distacca radicalmente dalla lettura tradizionale del “cristianesimo storico” col mettere in rilievo, anche contro Nietzsche, il carattere fondamentale del cristianesimo paolino: l’insecuritas della vita cristiana, mai ‘in pace’ col mondo, e l’effettivo valore della ‘profezia’ paolina, vera se ed in quanto accolta dai suoi destinatari, i pisteuontes, i ‘credenti’ che si raccoglievano nelle comunità (ekklesíai) da lui ‘visitate’. Autentico ribaltamento, questo operato da Heidegger interprete di Paolo, della concezione tradizionale del tempo, che anticipa le celebri analisi di Essere e tempo. Ma il punto di svolta del libro è segnato dal capitolo centrale, il terzo, dedicato a “Hegel: trionfo e crisi della ragione”. Il confronto col filosofo tedesco è ‘polemico’, non privo di toni aspri. Bianchini sa che con Hegel non lui, bensì la tradizione filosofica e religiosa dell’Occidente, giuoca la partita decisiva; ed in prima linea è proprio il “cristianesimo storico”. Perché di questo cristianesimo – che, è bene dir subito, non è tutto il cristianesimo – Hegel si pone come il più alto erede: l’erede filosofico, che ‘supera’, aufhebt, e cioè porta a più alto livello l’insegnamento di Cristo, ben oltre la dottrina della Chiesa: il perdono ‘filosofico’ non si ferma al peccatore, si estende al peccato. Hegel non redime il mondo dal male, fa di più: redime il male stesso. Quale obiezione può mai opporsi a questo così alto disegno, che riprende la conclusione del discorso della Montagna?

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Degli scritti giovanili di Hegel Bianchini critica la sostanziale incomprensione dell’esperienza religiosa ebraica; ma l’obiezione maggiore che muove a Hegel non riguarda l’ebraismo, né il cristianesimo, ma la concezione stessa del religioso e della filosofia, ed è rivolta contro le opere maggiori: dalla Fenomenologia dello spirito sino alle Lezioni sulla filosofia della religione. La riassumo indicandone la pointe logique: il sistema del sapere hegeliano è chiuso in se stesso, e per quanto l’idea assoluta venga presentata come un circolo di circoli che continuamente si espande, il suo espandersi non porta mai l’Assoluto oltre sé. Possiamo dire questa critica col linguaggio stesso di Hegel: der baccantische Taumel, il frenetico agitarsi degli enti, che raffigura il divenire del mondo, precipita ‘alla fine’ in una durchsichtige und einfache Ruhe, in una quiete semplice e trasparente. Un’unica aggiunta, fatta nello spirito stesso del pensiero hegeliano, a questa colorita immagine: la ‘fine’ è già nell’inizio. Né potrebbe essere altrimenti: posta alla fine di un processo, la Totalità non sarebbe Totalità. La conclusione hegeliana non è dunque diversa da quella di Aristotele: tautà aeí, sempre le stesse cose. L’“altro” – questa l’ineludibile conclusione – è in Hegel solo un’apparenza che la Totalità proietta dietro di sé, adombrando un movimento e un contrasto che non “sono”, in quanto già da sempre ‘tolti’. Va anche detto, però, che dietro l’aspetto sereno della dialettica hegeliana della Totalità si cela la dura lotta, ingaggiata dal filosofo in tutto l’arco del suo pensiero, con quella “potenza che ha in orrore la luce” (die lichtscheue Macht) da lui stesso individuata nella tragedia di Edipo come il risvolto negativo dell’autocoscienza. La Notte che costantemente minaccia il Giorno, rispunta sempre nei luoghi decisivi del “sistema” hegeliano. Bianchini riconosce che la presenza di questa potenza tenebrosa mina dall’interno l’ordine perfetto del sistema hegeliano, rivelando la doppiezza della coscienza, la sua “costitutiva alterità”; ma al riconoscimento segue più dura critica.

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Scrive: «Hegel stesso, con profondo zelo, si affretta a rattoppare la falla», ponendo la “rimozione della scissione” come ciò che unicamente vale. Dopo Hegel Franz Rosenzweig – il primo dei due ‘auttori’ di Bianchini. Del filosofo-teologo tedesco l’attira la radicalità del pensiero: «il guanto di sfida gettato all’intera venerabilecomunità dei filosofi da Ionia a Jena». Insigne studioso di Hegel, Rosenzweig muove al Sistema hegeliano la critica più dura e decisiva: la Totalità non comprende se stessa, l’essere della Totalità resta fuori della Totalità, irredimibile resto d’immediatezza che s’accompagna ad ogni mediazione. Essere e pensiero restano ‘differenti’ nel punto più alto della loro congiunzione. Questa differenza motiva il secondo ‘incontro’ di Bianchini con Heidegger, ora con lo Heidegger della Seinsgeschichte, dell’essere che si cela nelle sue stesse manifestazioni. Il confronto Rosenzweig/Heidegger non può non investire il problema religioso. Al deciso rifiuto della “redenzione”, espresso da Heidegger nei Beiträge zur Philosophie – «Hier geschieht keine Er-lösung» –, Bianchini oppone «l’inquietante rischio del “non ancora”, insito nella promessa di redenzione», contenuta nel gran libro di Rosenzweig. E più in generale oppone «agli esiti nefasti e annichilenti della ragione filosofica moderna» la promessa di redenzione «del tempo e non dal tempo» che «appartiene sempre all’altrimenti che essere». Chiaro il rinvio al protagonista dell’ultimo capitolo, Emmanuel Levinas, il pensatore al quale Bianchini si sente più vicino filosoficamente e religiosamente, nonostante la differenza di fede. La traccia è quella segnata da Rosenzweig, ma Levinas fa un passo oltre, distinguendo Infinito da Totalità: quello, che più penetra il finito, maggiormente se ne allontana, ‘liberandolo’; questa, che accoglie il finito in sé, negandolo, necandolo. Di qui l’impegno etico della filosofia levinasiana, che Bianchini coglie perfettamente, e lucidamente fa suo: «Soltanto un pensiero aperto

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all’Altro e non piegato al trionfo del Medesimo può introdurre un nuovo ordine nelle relazioni umane e mettere in questione l’idea di libertà come potere da esercitare arbitrariamente per l’affermazione e la giustificazione di sé». Nobile idea, ma coerente con l’assunto originario dell’alterità dell’Altro? L’inquietudine si fa più acuta, quanto più vicina appare la mèta. L’Infinito di Levinas, particolarmente là dove si dispiega assumendo la ‘figura’ del Volto, mi sembra preda pur esso della tela di ragno intessuta dal Medesimo: è un “altro” opposto all’“io”, un “altro” che ha potere sull’“io”, che lo chiama, lo interroga, lo rende giusto o ingiusto, a seconda che risponda alla sua chiamata, e alle sue pretese. Non è così altro, da essere anche altro da sé, altro di sé. In quanto altro dall’“io”, altro dell’“io”, Esso è a se stesso identico. È, e resta il Medesimo rispetto a sé. Sorge allora il dubbio che anche in questo Altro si nasconda la pretesa identitaria dell’“ego”, che si reduplica nell’opposto. In un finto opposto. Bianchini, se ho ben compreso il ‘senso’ della sua ricostruzione dell’ultimo sviluppo del pensiero levinasiano – le “aperture al cristianesimo” (si noti il plurale) del filosofo lituano –, replica indirettamente all’obiezione or esposta, richiamandosi al «valore della debolezza umana». Mi sembra questa la risposta più congrua all’itinerario di pensiero sin qui descritto, non foss’altro perché accentua, non spegne l’originaria inquietudine. In ogni caso segna – ed è questo l’essenziale – il punto di massima vicinanza tra ebraismo e cristianesimo. “E”: la paroletta breve che Rosenzweig impiega nella Stella della redenzione per indicare il libero rapporto tra le due religioni. Un racconto chassidico narra di un mendíco, vestito di stracci, che elemosina in una strada della grande Città. Nessuno lo riconosce, quand’uno gli si avvicina: “Messia, quando ritornerai?”.

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Introduzione

La celebre immagine riportata da Platone nel Teeteto (174 a e ss.) di Talete che immerso nella contemplazione del cielo cade in un pozzo, suscitando il riso della servetta tracia, ha contribuito a fissare nell’immaginario collettivo l’idea caricaturale del filosofo come uomo dedito alle pure astrazioni e avulso dalla concretezza della vita reale. Giocando con tale suggestione, si potrebbe leggere l’intera storia della filosofia, almeno dallo stesso Platone fino a Hegel, seppur con accenti differenti, come una “risposta seriosa”, come un tentativo di rivalsa e di riscatto rispetto a questa risata inaugurale. A partire dalla pretesa platonica di porre il filosofo alla guida della città ideale in virtù della superiorità del suo sapere, fino a quella hegeliana di comprendere il tempo in concetti, la tradizione filosofica occidentale ha infatti costruito un paradigma auto-fondativo ed auto-referenziale il cui unico fine sembra il bisogno di auto-legittimazione e il cui anelito ultimo appare nient’altro che la ricerca di se stessa, attraverso una ragione che fa circolo, che, ritornando continuamente su se stessa, è incapace di ammettere qualcosa che sia “altro” da sé. Tale impostazione ha dato alla filosofia una forza e un rigore, sia logico che metodologico, senza pari, ma ne ha snaturato il

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senso euristico, ha ridotto la ricerca ad auto-compiacimento, che se da una parte ha conferito all’uomo una presunta stabilità, lo ha condannato, allo stesso tempo, alla solitudine, sottesa ad ogni tipo di pratica autoreferenziale. Il problema di fondo che anima questo testo è dunque la necessità di trovare una via d’uscita a tale chiusura paradigmatica, che permetta di riscoprire il senso dialogico e relazionale della filosofia come incontro non polemico e non fagocitante con la verità dell’altro. Questa necessità è resa ancora più urgente dalla problematicità della questione nel nostro tempo, segnato da un conflitto permanente tra le istanze veritative, di fede e di ragione, in cui sempre più spesso si rinuncia alla via del dialogo per imboccare quella del dogmatismo, dell’integralismo e del fanatismo, la quale, purtroppo, sfocia non di rado in atti di violenza. Inquietante è lo scenario in cui la filosofia, pur non avendo pretese risolutive, non può non interrogarsi sulla possibilità di ricercare un paradigma veritativo “altro”, consapevole dei limiti della ragione e della necessità di riscoprire l’interesse etico per l’altro come cifra dell’umano. L’accostamento ad alcuni pensatori della “modernità ebraica” è pertanto un tentativo di aprire una breccia nella chiusura del logos occidentale e di saggiare le possibilità di un contromovimento che ponga al centro l’altro, sia in chiave teoretica che etica, senza pensarlo sempre in funzione del ritorno al Sé, della riaffermazione del primato del Medesimo. Il pensiero ebraico, infatti, sin dalla chiamata di Abramo, si confronta con la radicale alterità dell’Altro, con un Dio che ama il suo popolo, ma sfugge ad ogni tentativo di appropriazione, instaurando un rapporto che vive di prossimità e distanza, o meglio di “prossimità nella distanza”. Proprio la componente altra, attinta dalla spiritualità semita, costituisce lo snodo cruciale del nostro percorso, perché invita a sviluppare un nuovo rapporto con la verità, non caratterizzato da pretese onnicomprensive, ma

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segnato dal senso del limite e del mistero, che non rinuncia al sapere, ma ne scopre la costitutiva parzialità rispetto all’eccedenza dell’Altro, alla sua oltranza, elaborando un pensiero che fa di tale limite intrinseco, della consapevolezza della propria finitezza il suo paradossale punto di forza. È da tale consapevolezza che scaturisce la necessità dell’incontro con l’altro, in un dialogo non astratto, retorico o idealizzato, ma che aspira ad essere esperienza viva e concreta di com-partecipazione delle rispettive “porzioni” di verità. Il senso del limite ravvisabile nei pensatori presi in esame invita a riconsiderare anche il rapporto tra fede e ragione, tra filosofia e teologia, abbandonando il pregiudizio moderno e contemporaneo in base al quale esse seguono due strade destinate a non incontrarsi. Il pensiero ebraico, proprio a partire dal suo confronto con la complessità della modernità, non segue tale via: alla logica dell’aut-aut preferisce l’et-et, instilla la necessità del dialogo e dell’ascolto reciproco anche tra questi due ambiti del sapere, rispettandoli nella propria autonomia, ma facendo della comune ricerca di una verità “altra” il terreno di un possibile confronto. In tal senso i riferimenti all’esperienza religiosa, al dettato biblico e talmudico, alla preghiera e alla liturgia, non hanno una valenza dogmatica, non esprimono la chiusura entro rigidi confini confessionali, ma intendono porre in risalto la componente altra del religioso, come punto di contatto e ponte verso il nuovo ed analogo cammino che la riflessione filosofica vuole intraprendere. Il nesso tra alterità filosofica e religiosa appare ancor più evidente se, tenendo presenti tali presupposti teoretici, si affronta, in tutta la sua problematicità, il versante etico della questione. La riflessione ebraica, proprio perché incalzata dall’attenzione per l’altro uomo che innerva la spiritualità semita, ha sempre presente il pericolo che il pensiero possa ridursi a mera astrazione e indifferenza, possa disincarnarsi e

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perdere il legame con l’umano, con il dovere di preoccuparsi per le sorti dei propri simili. L’interesse etico per l’altro, la chiamata alla responsabilità che mette fuori gioco ogni egoismo o chiusura identitaria è dunque l’obiettivo ultimo di ogni autentico pensiero dell’alterità, il suo banco di prova, perché soltanto nel rapporto orizzontale con l’altro uomo si può rendere testimonianza del rapporto verticale con l’Altro. Nel dire ciò non intendiamo far assurgere il pensiero e la religiosità ebraica a unico modello per lo sviluppo di un’etica dell’alterità, il che sarebbe non solo presuntuoso ma anche in profonda contraddizione con la legittima diffidenza dell’ebraismo stesso verso ogni forma di sapere assoluto, ma evidenziare come la possibile traccia, certamente non l’unica, offerta dal mondo ebraico per un pensiero dell’alterità sia stata da sempre interna all’Occidente, anche e soprattutto nei luoghi in cui il paradigma tradizionale per affermarsi e stabilizzarsi ha misconosciuto, occultato, se non espressamente avversato tale errante radice, pur di non riconoscerla come “propria”. Piuttosto che seguire la tradizionale contrapposizione AteneGerusalemme, Occidente-mondo ebraico, secondo un cliché ormai da superare, ci sembra decisamente più proficuo far emergere la ricchezza per il pensiero occidentale della componente altra dell’ebraismo, sia nell’incontro con il nascente cristianesimo attraverso la figura di Paolo, aprendo la strada al dialogo tra le due fedi, sia attraverso il riemergere di tale elemento nella modernità, come alternativa alla chiusura e alla solitudine etica e teoretica di una ragione che si pretende assoluta. Questa ricchezza non si esaurisce nella critica delle moderne e contemporanee filosofie dell’Assoluto, ma si estende fino al nostro tempo nel suo poter essere pungolo e monito contro il dilagare delle chiusure, degli egoismi e delle indifferenze, poiché, insistendo sulla centralità dell’impegno etico, sulla responsabilità per l’altro, antecedente ogni libertà e oltre ogni reciprocità, può rappresentare uno sprone verso

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la costruzione di rapporti autentici che ci facciano sentire non “monadi” isolate in balia degli eventi, ma individui che, proprio nella consapevolezza di vivere tempi incerti e inquietanti, provino a ri-scoprirsi se non “fratelli”, almeno com-partecipi di un comune destino d’erranza.

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I Il tempo dell’inquietudine

1.1 Considerazioni preliminari Definire il nostro tempo come un’epoca di crisi e di profonda inquietudine appare quasi scontato, al limite del banale, ma troppo spesso se ne sottovaluta la portata, relegando tale consapevolezza soltanto ai destini economici nazionali e globali. L’innegabile deriva attuale coinvolge, tuttavia, anche altri aspetti dell’esistenza umana che, solo in apparenza, hanno un significato e un ruolo marginale rispetto al vacillare delle strutture economiche e delle visioni del mondo ad esse connesse. Venuta meno la speranza comunista, rivelatasi il pretesto per la costruzione di un sistema totalitario oppressivo, non sembra che il contraltare capitalista sia immune da crepe e cedimenti, accentuatisi e palesatisi proprio nei primi lustri del nuovo millennio. Ciò ci consegna uno scenario segnato inevitabilmente dall’incertezza per le sorti collettive e individuali ed espone al rischio di perdersi nel non senso dilagante, o di prestare ascolto alla nociva seduzione di verità distorte, infettate dal virus del fanatismo e dell’integralismo, da cui si alimenta quel conflitto generalizzato e permanente di valori che, purtroppo, caratterizza il nostro presente.

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Un orizzonte a dir poco inquietante in cui, se da una parte sembra esserci poco spazio per le facili consolazioni; dall’altra sarebbe altrettanto deleterio e insensato cedere alla rassegnazione. Se è vero che, come recita un famoso distico di Hölderlin: «Dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva»1, allora l’evidente inquietudine del nostro tempo potrebbe essere la paradossale molla per spingerci alla ricerca di nuovi paradigmi di verità e, soprattutto, di un nuovo modo di abitare la terra. Un nuovo ethos che accetti le derive, le viva fino in fondo, insistendo, individualmente e collettivamente, nel domandare, nel tenere aperta una domanda di senso, pur essendo consapevoli della difficoltà della risposta o delle risposte, su cui aleggia sempre il pericolo del non senso. Un esercizio esistenziale che, partendo dalla consapevolezza della propria finitezza, faccia venir meno ad ogni legittimo abito veritativo la pretesa egemonica e la tendenza alla prevaricazione, per aprirsi ad altri modi possibili di essere nel mondo. Un atteggiamento di co-esistenza in cui si colga l’intima estraneità di chi è accanto a noi e la si accetti come segno riflesso di quell’altro che noi stessi siamo. Individui sempre in bilico, aperti ad ogni evento, al possibile, per la costituzione di nuovi orizzonti di senso. Tale paradossale inquietudine non può non caratterizzare anche la relazione religiosa, il rapporto con il divino soprattutto se, come cercheremo di evidenziare nel prosieguo del nostro percorso, lo si intende come segnato dall’oltranza dell’Altro, non può essere mai possesso sicuro, ma domanda che chiede ascolto, inquieta, perché mette in forse ogni certezza ed ogni dubbio, collocandosi al di là della certezza e del dubbio. Da questa prospettiva abitare la terra vuol dire semplicemente stare accanto all’altro, senza annullare, con voracità inclusiva, differenze e alterità. Se si è consapevoli della non assolutezza 1. F. Hölderlin, Patmo, tr. it. di E. Mandruzzato in Le liriche, Adelphi, Milano 1993, p. 667.

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della verità religiosa, perché si vive sempre la sua costitutiva alterità, il suo carattere di mistero, allora non c’è più spazio per qualsiasi forma di integralismo e fanatismo, poiché si avverte l’intima necessità dell’incontro e del dialogo con la verità dell’altro. Il reale interesse dell’incontro effettivo tra fedi risiede, dunque, nella possibilità di attraversare la parola propria ed altrui, per puntare a ciò che è Altro e in quanto tale è trasversale a tutte le verità di fede. L’obiettivo di questo nuovo ethos sarà, dunque, tratteggiare un paradigma veritativo in cui si possa non semplicemente tollerare l’altro da sé, ma lo si accolga come testimonianza viva dell’alterità del divino, della sua spiazzante oltranza. Da tale prospettiva, l’inquietudine e l’incertezza del nostro tempo non rappresentano soltanto un limite per le esistenze, ma potrebbero fungere da ponte verso l’altro, verso la necessità di accogliere la verità dell’altro, per essere accolti a propria volta, dismettendo ogni abito conflittuale, in quanto chi vive l’esperienza inquietante ed estraniante dell’Altro non potrà mai avanzare la pretesa di avere una verità assoluta da opporre polemicamente alle altre, ma, sentendosi estraneo a se stesso, chiederà ospitalità all’altro nell’atto stesso di offrirla. Se si vuole ancora parlare, in modo non retorico, di una “civiltà del dialogo” ed iniziare ad operare seriamente per costruirla, occorre innanzitutto lasciare spazio alla parola e al pensiero dell’altro, non riducendolo ad un’eco del proprio, ma cercando di rendersi reciprocamente partecipi delle proprie esperienze di finitezza, da cui nasce l’esigenza stessa dell’incontro. Ognuno avrà le proprie idee e le proprie verità, ma se esse scaturiscono dalla consapevolezza del limite, in quanto segnate intrinsecamente dall’alterità, cambieranno il senso stesso del dialogo. Nessun interlocutore sarà tentato di affermare la superiorità della propria verità, o, addirittura, del proprio Dio, ciascuno porterà nel rapporto orizzontale con l’altro la stessa inquietudine e incertezza esperita nel rapporto verticale con l’Altro.

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Ciò, beninteso, non implica né una visione banalmente relativistica della verità, che annulli ogni differenza, scivolando nell’indifferenza, né tantomeno l’abbandono ad un silenzio misticheggiante ed inconcludente, ma un profondo rispetto per il mistero racchiuso in ogni autentica esperienza di fede. Chi vive la propria religiosità come esercizio costante di finitezza ed incertezza rispetto all’oltranza della Verità, non potrà sentirsi offeso e/o minacciato da quella altrui, ma le accoglierà come ulteriore testimonianza dell’intrinseca alterità del divino. Dunque se si riesce a ri-scoprire tale tratto essenziale dell’esperienza religiosa si può dare un senso diverso, propositivo all’inquietudine del nostro tempo, reinterpretandola come possibilità di costruire nuovi legami tra gli uomini che ci facciano sentire non più distanti, ma prossimi, se non addirittura “fratelli”, perché accumunati da un medesimo destino in cui, pur non essendovi alcuna certezza, permane un universale desiderio di salvezza2.

1.2 L’analisi della Zambrano I tratti essenziali della crisi di valori che inquietano l’animo dell’uomo contemporaneo sembrano emergere, già alla fine della seconda guerra mondiale, nella lucida analisi della crisi

2. In merito si rinvia alle implicazioni etiche del ripensamento del cristianesimo nel pensiero di Vincenzo Vitiello (Cfr. V. Vitiello, Ripensare il cristianesimo. De Europa, Ananke, Torino 2008, pp. 242-244, Id., Il Dio possibile. Eesperienze di cristianesimo, Città Nuova, Roma 2002, pp. 27-29, ed anche Id., E pose la tenda in mezzo a noi..., AlboVersorio, Milano 2007, pp. 84-86) da cui prende le mosse anche il presente lavoro, confrontandosi spesso con le sue fruttuose intuizioni. Nel farlo, però, si è cercato, come sarà più chiaro nei prossimi capitoli, di approfondire maggiormente la radice ebraica del cristianesimo, come possibile via per riscoprire l’alterità del divino, andando anche oltre il dettato paolino, pur riconoscendone la centralità, per mostrarne la fecondità in alcuni luoghi decisivi del pensiero moderno.

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europea condotta da Maria Zambrano in L’agonia dell’Europa. Ciò che colpisce maggiormente di questo breve, ma denso testo è la capacità della filosofa spagnola di capire come la fase di ricostruzione post-bellica dovesse passare necessariamente e contestualmente attraverso un ripensamento dei valori e delle radici fondanti l’Europa. Necessità non molto distante, pur nell’inevitabile mutamento di contesto storico, dalle esigenze attuali. Ciò che ci interessa far emergere è dunque quanto le sue osservazioni sulla decadenza europea restino valide e degne d’ascolto ancora oggi. La Zambrano mette innanzitutto in guardia contro l’abuso dello stesso termine decadenza, il quale rischia di cadere nel retorico, se non si arriva al nocciolo della questione, dando il giusto risalto ai “sintomi” della crisi europea. Il giudizio della filosofa spagnola è netto ed inequivocabile: «l’Europa ha smesso di avere una sua faccia; indubbiamente si è guastata e la sua precedente fermezza ha ceduto il posto a un rammollimento. Senza dubbio, alcuni germi occulti nella radice stessa dei principi che la tenevano in vita hanno lentamente corroso questi ultimi»3. Il volto dell’Europa, secondo la Zambrano, è stato deturpato dal trionfo del sordo rancore e dell’arrivismo, rivelando la duplice natura dell’uomo europeo decadente: da una parte un’aggressività tremenda e crescente; dall’altra un passivo e fatalistico abbandonarsi agli eventi che toglie tante energie, come in una lotta materiale e barbara4. Tutto ciò non può che generare una paura diffusa, la quale paralizza il meglio dell’uomo europeo, per cui: «smascherare i mostri che ci assalgono è l’unico modo di rendere il mondo nobile e abitabile»5. 3. M. Zambrano, L’agonia dell’Europa, tr. it. di C. Razza, Marsilio, Venezia 1999, p. 12. 4. Ivi, pp. 14-15. 5. Ivi, p. 19.

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La franchezza analitica della Zambrano è mossa dunque dalla volontà di riscoprire l’essenza dello spirito europeo, quel quid irrinunciabile che ha dato vigore ed unità al vecchio continente. A patto che si comprenda come tale unità non sia sinonimo di univocità, poiché si è costituita a partire da: «quella ricca diversità, cosi ampia e tollerante da comprendere la contraddizione»6. Proprio nell’emergere delle contraddizioni risiede, per la Zambrano, la paradossale fecondità del suo tempo (e, di riflesso, anche del nostro), in cui l’essere rimasti senza appigli dà il vantaggio di avvertire in profondità le diversità, ricercando, anche inconsapevolmente, una possibile concordanza con dolorosa lucidità7. Tale consapevolezza spinge la Zambrano a decretare non la morte dell’Europa, bensì la sua agonia, poiché nei sintomi inequivocabili della sua decadenza si cela ancora la possibilità della “resurrezione”8. La filosofa spagnola, guidata da questo sottile filamento di speranza, continua dunque lo scavo nell’inquietudine dell’uomo europeo, facendola risalire all’origine semita della sua spiritualità, leggendo nella figura di Giobbe il lamento dell’uomo che, una volta cacciato dal Paradiso, non accetta la propria natura finita e sofferente e ne chiede addirittura ragione a Dio9. Giobbe diviene per la Zambrano il simbolo di quell’angoscia che caratterizza la storia dell’uomo, non solo europeo, il quale non si rassegna dinnanzi alle iniquità della vita, nonostante proprio nel suo farsi storia l’esistenza stessa diventi motivo di angoscia, generando frustrazioni e disperazione nell’uomo, se intende farsi un mondo del suo nulla.

6. Ivi, p. 22. 7. Ivi, p. 23. 8. Ivi, p. 30. 9. Ivi, p. 45. Così la Zambrano interpreta alcuni passi decisivi di Giobbe (cfr. Gb,13,3; 9,32; 14,3 e 7,7).

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In tale scenario l’aiuto decisivo giunge all’uomo europeo (ma è ormai evidente che il discorso può essere esteso all’uomo in generale) dal suo cristianesimo: «poiché per il cristiano il mondo non sarà mai una decorazione, il velo di Maja, ma il luogo dove si decide la sua perdizione o la sua salvezza. La sua vita è vicissitudine, rischio, ventura, peripezia. Essere cristiano significa anche non rassegnarsi, afferrarsi alla speranza nell’impossibile»10. Già da tale caratterizzazione del cristianesimo è palese come la Zambrano veda in esso la radice storica da riscoprire, in quanto risposta conciliante a due tipi di inquietudine: da una parte il crollo della ragione greca e delle speranze di salvezza affidate alla filosofia; dall’altra la disperazione ebraica di Giobbe che, come detto in precedenza, chiede ragione delle proprie sofferenze e della propria finitezza11. Il nesso storico-concettuale messo in luce dalla Zambrano è senza dubbio interessante, poiché fa emergere la novità rappresentata dal cristianesimo sia rispetto al mondo greco che a quello ebraico, ma i due versanti della questione meritano di essere sviscerati meglio, anche per far notare quanto quest’idea conciliante del cristianesimo rischi di semplificare troppo, se non addirittura di annullare, quella componente di alterità insita nella sua verità su cui stiamo insistendo sin dall’inizio del nostro percorso. La testimonianza più celebre dell’innesto tra la cultura greca e il nascente cristianesimo è indubbiamente il discorso di Paolo nell’Areopago di Atene, riportato dagli Atti degli Apostoli12. Ai fini del nostro discorso, più dell’innegabile forza carismatica delle sue parole, è utile far emergere il contesto in cui furono pronunciate. La città piena di idoli che faceva fremere l’animo 10. Ivi, p. 46. 11. Ivi, pp. 60-61. 12. Cfr. At. 17,22-32.

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dell’Apostolo (At. 17,16) non era più il centro spirituale del mondo, spostatosi ormai verso Roma, e ciò si rifletteva inevitabilmente anche sulla marginalità assunta in quel determinato momento storico dalla ragione filosofica, non più capace di pensieri vigorosi ed originali, ma ridotta a interpretazione ed erudizione. Tuttavia, in ossequio all’idea della Zambrano secondo cui è nei tempi di agonia che si può e si deve risalire alle radici, ci sembra opportuno ripercorrere, seppur brevemente, le tappe fondamentali della nascita e dello sviluppo della ragione greca per comprendere meglio come essa si presenti al confronto con il cristianesimo13. La cultura da cui ha avuto origine la filosofia aveva due principali luoghi di incontro e riconoscimento collettivo: l’agorà, come spazio di confronto dialettico e riflessione finalizzata a darsi leggi, e il teatro, come momento di catarsi spirituale. Platone lo comprende fino in fondo e cerca di fondere le due anime dello spirito greco, teatralizzando la filosofia attraverso il dialogo, ma tenendo ben ferma l’idea che essa debba interrogarsi seriamente sulle condizioni di possibilità della vita buona (eu-zen), dal punto di vista sia etico che politico. Nell’avanzare tale pretesa Platone deve fare i conti con i sofisti, i quali insegnano a rendere forte il discorso debole sulla base delle sole abilità retoriche e quindi rischiano di confondersi con la superiore istanza veritativa espressa dal “suo” Socrate. Egli mette in scena aspri confronti dialettici tra il suo maestro e i sofisti, proprio per marcare la differenza tra sé e questi ul13. Nel farlo seguiremo in maniera sintetica il percorso concettuale tracciato da Vitiello in Paolo e l’Europa: incontro tra messaggio evangelico e filosofia in G. Rossè, V. Vitiello, Paolo e l’Europa. Cristianesimo e filosofia, Città Nuova, Roma 2014, pp. 156-176, che funge da necessaria premessa introduttiva alla sua reinterpretazione di Paolo ed è utile al nostro discorso per affrontare il problema della crisi della ragione filosofica greca al momento del suo confronto con il cristianesimo, in modo più esplicito e puntuale di quanto faccia la Zambrano nel testo seguito.

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timi, insistendo sul fatto che il filosofo non fondi il suo sapere né sulla forza della retorica, né tantomeno sull’ascolto e sulla ripetizione di un’istanza superiore di origine divina, come nel caso degli antichi sophoi. Il filosofo fonda il suo sapere sulla ragione comune a tutti gli uomini e sulla sua capacità di rendere ragione di sé, orientando le azioni e, allo stesso tempo, la conoscenza a principi immutabili ed intersoggettivi al di sopra degli interessi individuali. Insistendo sulla natura meta-soggettiva ed auto-fondativa della ragione, Platone avanza la pretesa di una istituzione filosofica della polis che è il tema centrale della Repubblica. Se l’obiettivo è garantire la vita buona a tutti i cittadini, chi governa dovrà saper tenere a freno il lato prevaricante della natura umana (Repubblica 349b e ss.), ancorando le legittime istanze di giustizia ed equità sociale alla conoscenza razionale dell’idea del bene (505a e ss.). Per descrivere l’universalità auto-fondante dell’agathòn e della stessa ragione, Platone ricorre ad una similitudine molto efficace: come il sole illumina e dà vita, permettendo attraverso la luce di distinguere i colori e quindi rendendo possibile la visione, cosi l’idea del bene fa essere tutte le cose, è viva in esse, ma è anche oltre esse (508b e ss.). Ed è proprio in virtù della sua capacità di attingere alla luce solare attraverso le sue conoscenze che il filosofo deve essere guida della città. Al di là dei risvolti di tali idee nel pensiero politico di Platone, ci interessa rilevare come la città ideale si regga su una ragione che fa circolo con se stessa14. La circolarità auto-fondativa della ragione espone, tuttavia, la filosofia ad un rischio: se essa tende a tornare sempre a se stessa, che ne è della sua natura plurale e costitutivamente dialogica? Lo stesso Platone, che si è affidato magistralmente alla forma letteraria del dialogo filosofico, sembra ridurla ad 14. G. Rossè, V. Vitiello, Paolo e l’Europa. Cristianesimo e filosofia, cit., pp. 163-171.

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una funzione fittizia, ad un mero rivestimento stilistico. Negli stessi dialoghi “socratici” la superiorità del maestro è talmente marcata da ridurre il celebre “so di non sapere” ad artificio retorico. Ciò è ancora più evidente nei dialoghi della maturità platonica, in cui Socrate perde la predominanza avuta in precedenza, non per puro estro letterario, ma quasi a voler suggerire, anche nelle scelte dei personaggi, il fatto che la vera protagonista è ormai la ragione universale nella sua circolarità, per cui gli interpreti possono variare liberamente15. Non è un caso che Aristotele abbandoni del tutto la forma dialogica e provveda a radicalizzare, ancor di più del suo maestro, la chiusura della ragione in se stessa. Se in Platone rimane ancora una differenza tra verità e ragione, esplicata al meglio dalla distinzione tra il sole e la luce richiamata in precedenza, in Aristotele esse finiscono per immedesimarsi. La ragione aristotelica snatura dunque il senso stessa della ricerca filosofica, poiché essa anela ad un sapere auto-fondativo ed auto-referenziale che non ha bisogno d’altro se non di se medesimo. Ciò risulta ancora più evidente, secondo Vitiello, dal modo in cui lo Stagirita caratterizza Dio nel Libro XII della Metafisica (1074b 34), definendolo “pensiero di pensiero”. Il Dio di Aristotele appare dunque come la sublimazione delle facoltà razionali dell’uomo e del suo desiderio di perfezione spinto all’estremo. In esso si nasconde un atto di profonda superbia, in cui, scalzando proprio la componente “altra” del divino su cui insisteremo, si pretende di pareggiare l’uomo a Dio16. Tale 15. Ivi, pp. 171-174. 16. Ivi, pp. 174-175. Per esigenze di sintesi espositiva abbiamo evitato di affrontare i problemi della chiusura in sé della ragione aristotelica e le conseguenti implicazioni logico-linguistiche, legate alla posizione del principio di non contraddizione. Lo stesso Vitiello, nel testo che stiamo seguendo, accenna soltanto la questione (cfr. Ivi, pp. 175-177), ma va detto che la critica a tale principio e alla logica aristotelica in generale, per cercare una logica del possibile che si sforzi di pensare la potenza non necessitandola all’atto,

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tracotanza, nata dalla fiducia assoluta e incondizionata nella ragione umana, deve fare tuttavia i conti con il fatto che sotto il suo dominio e i suoi rigidi principi ricade e può ricadere soltanto tutto ciò che è definito, determinato, invece le sfugge e continuerà sempre a sfuggirle l’infinito, l’indeterminato, il quale rappresenta il limite della stessa ragione, in quanto è oltre ogni determinatezza e finitudine; è al di là dell’essere e di ogni tentativo di appropriazione compiuto dagli slanci prometeici del pensiero umano. È l’Altro, annunciato da Paolo nell’Areopago come Dio ignoto, che è, paradossalmente, allo stesso tempo: «il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualcosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa»17. Proprio la consapevolezza della radice altra del divino, che mette fuori gioco la ragione filosofica, ci spinge a ritornare sull’altro versante dell’innesto del cristianesimo in Europa presentato dalla Zambrano, ovvero il suo porsi come conciliazione e superamento della disperazione ebraica esemplificata da Giobbe. Su questo punto l’analisi della filosofa spagnola ci appare troppo semplificativa. Ella, nel tentativo di porre in risalto la forza conciliante e consolante del cristianesimo, non riconosce in Giobbe una figura paradigmatica dell’inquietudine, ben lontana dall’essere radicale disperazione, insita nella fede ebraica, in virtù della quale egli osa lamentarsi con Dio,

anche attraverso il serrato confronto con Heidegger su questi temi, investe una parte consistente del suo pensiero onto-teologico. Si veda Id. Topologia del moderno, Marietti, Genova 1992, pp. 112-122. Id., La voce riflessa. Logica ed etica della contraddizione, Lanfranchi, Milano 1994, pp. 131-146 ed anche Id., Non dividere il sì dal no. Tra filosofia e letteratura, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 38-43. 17. At. 17,24-25.

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senza tuttavia desistere dal confidare in lui. Martin Buber, voce cui presteremo ascolto in modo più approfondito nel prossimo capitolo, nel mettere in risalto la radice altra della religiosità ebraica, fa notare che: «Giobbe lotta contro la lontananza di Dio, contro quel Dio che infuria e tace, infuria e si nasconde, cioè contro quel Dio che è mutato per lui in una potenza inquietante»18. Egli vive dunque fino in fondo la paradossalità del suo Dio presente, ma nascosto e inquietante, anzi potremmo dire, presente proprio nella sua assenza e nell’inquietudine che genera. Il rapporto di prossimità ebraica con il divino vive, dunque, anche di possibili lontananze. È una fede segnata dall’oltranza del Mistero. La lotta di Giobbe con Dio non è dunque animata dalla disperazione, ma dalla tenacia della fede che sa resistere alle prove, tenere duro nella fiduciosa attesa che l’Eterno si manifesti, fosse anche come assenza o come radicalmente Altro. Ciò rappresenta un tratto caratteristico della fede ebraica in cui la fiducia in Dio è sempre segnata dall’inquietudine e da un senso di intima estraneità. È palese sin dalle origini nella stessa chiamata di Abramo, quando il Signore gli dice: «vattene dal tuo paese dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione»19. In queste parole è già racchiuso il destino del popolo ebraico e la paradossalità del suo rapporto con Dio. La natura migratoria e nomade dell’ebreo inaugurata dal suo primo Patriarca va letta, infatti, come aspetto essenziale della sua spiritualità, sempre in bilico tra la profonda intimità con il divino, che a tratti rasenta la gelosia, e la possibilità di avvertire la nostalgia per la sua assenza, se non, addirittura, la possibilità dell’abbandono. Un Dio “possessivo”

18. M. Buber, La fede dei profeti, tr. it. di A. Poma, Marietti, Genova 2000, p. 189. 19. Gen. 12,1-2.

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nel suo non essere mai possesso sicuro e, allo stesso tempo, fedele nel suo non rompere mai l’alleanza e la predilezione per il popolo d’Israele. A tale paradosso non può che corrispondere una fede che è innanzitutto fiducia incondizionata nel divino e nella sua volontà, la stessa che non vacilla in Abramo, neanche quando Dio gli chiede di sacrificare il figlio che lui stesso gli aveva donato20. L’autenticità della fede di Abramo, pur nell’assurdità imponderabile del comando divino, è il contraltare e il retroterra della lotta di Giobbe, di entrambi si può cogliere la valenza paradigmatica solo se si comprende il fatto che i loro atteggiamenti si inseriscono in un dialogo continuo con Dio, come avviene tra due partner, basato su una fiducia tale che l’uomo, pur mantenendo la propria libertà, riconosce la sovranità di Dio sulla propria vita e gli mostra fedeltà anche e soprattutto nelle prove e nelle tribolazioni. È chiaro dunque quale sia il limite della Zambrano: l’interpretare come disperazione la costitutiva inquietudine della religiosità ebraica, filo conduttore del nostro percorso. Qui è utile tuttavia far notare altresì che, in questo paradossale gioco di ribaltamenti ed accostamenti prospettici, la stessa incertezza ebraica sembra riaffiorare in alcuni luoghi decisivi de L’agonia d’Europa, laddove la Zambrano sembra presentare la conciliazione operata dalla speranza cristiana non come un dato di fatto storicamente acquisito, ma come un qualcosa ancora a venire, qualcosa da ricercare chiedendosi: «Ciò che ha realizzato l’Europa nella sua religione, è stato il Cristianesimo? La verità è che basta sentirsi cristiano in un grado minimo per presen20. V. Vitiello in Ripensare il cristianesimo. De Europa, cit., pp. 20-21, fa emergere la paradossalità della fede di Abramo, confrontandosi con l’interpretazione kierkegaardiana del sacrificio di Isacco e fa notare opportunamente che il filosofo danese coglie l’inquietudine insita nella fede del Patriarca, ma non la comprende fino in fondo, sottovalutando l’oltranza della religiosità ebraica, il suo essere fiducia inquietante, perché sempre legata ad un’istanza futura, alla promessa di una Terra non ancora presente.

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tire e intravedere che non fu così, che ciò che l’Europa ha realizzato non è stato il Cristianesimo, bensì, tutt’al più, una sua versione del Cristianesimo. È dunque possibile un’altra, che sia anch’essa europea e soprattutto, che sia Cristianesimo?»21 Proprio il tono inquietante ed ancora attuale della domanda della Zambrano ci spinge ad interrogarci su Paolo, come figura emblematica dell’innesto del nascente cristianesimo con le preesistenti radici ebraiche e greche. Egli è innanzitutto un ebreo cresciuto con la Torah, impregnatosi di cultura greca. La sua originalità, che lo rende ancora oggi oggetto di interesse, non solo per i cristiani e i credenti in genere, è la commistione di motivi greci ed ebraici che non si sono persi, anzi semmai sono stati accentuati con la conversione al cristianesimo e la conseguente predicazione. Paolo è, a sua volta, per riprendere la celebre immagine di Isaia (Is. 11,1-2), un tronco dalle molteplici radici, prime fra tutte quelle ebraiche, che meritano di essere indagate con la dovuta attenzione per verificare se, attraverso di lui e anche oltre, sia possibile pensare un cristianesimo “altro”, come auspicato dalla Zambrano, o ancor più radicalmente, un paradigma veritativo religioso altro e oltre, perché vive fino in fondo l’inquietudine del Mistero, al punto tale da non saperlo, e soprattutto non volerlo, restringere neanche ai confini dell’ebraismo e del cristianesimo22.

1.3 La lotta di Nietzsche Prima di soffermarci su Paolo, per avere un’ulteriore prospettiva su come far emergere il nesso storico-concettuale tra ebraismo e cristianesimo, attraverso la singolare figura dell’A-

21. M. Zambrano, L’agonia dell’Europa, cit., p. 51. 22. G. Rossè, V. Vitiello, Paolo e l’Europa. Cristianesimo e filosofia, cit., pp. 253-254.

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postolo, ci sembra opportuno gettare un breve sguardo su come Nietzsche ha affrontato la questione. La scelta può sembrare azzardata perché il filosofo tedesco mostra, durante tutto l’arco del suo pensiero, una forte avversione nei confronti di Paolo, in quanto vede in lui il simbolo di tutti quei valori da trasvalutare, per aprire la strada all’umanità futura. Tuttavia è la tensione stessa della battaglia di valori avviata da Nietzsche ad offrirci, paradossalmente, una prospettiva acuta sulla complessità della questione. Egli stesso, eleggendo ad avversario Paolo, è animato dalla stessa volontà di porre nuovi valori che è alla base della predicazione paolina. Dunque se Nietzsche aspira ad operare una trasvalutazione di valori non può non riconoscere, seppur inconsapevolmente, il valore di chi l’ha fatta prima di lui con risultati invidiabili23. Tuttavia, prima di analizzare i luoghi-chiave di tale serrato ed aspro confronto, occorre capire quanto Nietzsche abbia ancora da dire al nostro tempo, in particolar modo alla sua inquietudine, sondata in precedenza grazie alle suggestioni della Zambrano. Quasi un secolo prima della filosofa spagnola, Nietzsche avverte che la malattia del suo tempo potrebbe considerarsi come il presentimento dell’agonia europea. Zarathustra, il senza dio, percepisce i rantoli, l’agitarsi dell’uomo e, seppur provi disgusto per l’intera esistenza, poiché la terra degli uomini si è trasformata in una caverna ed ogni cosa viva è divenuta muffa umana, sostiene, tuttavia, che laddove tutto crolla è ancora possibile costruire un’abitazione dell’essere24. Nella debilitazione della convalescenza si rivela la possibilità della guarigione. L’uomo può tornare a cantare, a patto che

23. J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, tr. it. di P. Dal Santo, Adelphi, Milano 1997, pp. 148-149. 24. F. Nietzsche, Cosi parlò Zarathustra, tr. it. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1968, pp. 253-257.

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sappia rovesciare se stesso e il suo stato attuale: «come una clessidra che deve sempre di nuovo rovesciarsi, per poter sempre di nuovo scorrere e finire di scorrere»25. È evidente come in Nietzsche, ancor più che nella Zambrano, la consapevolezza della decadenza è corroborata dall’anelito ad un sistema valoriale differente, che, scavando in quelli preesistenti, li rovesci nel loro opposto, per cui la convalescenza è non solo la prova della malattia, ma anche il viatico verso una nuova salute. Nietzsche lo tematizza chiaramente alla fine de La gaia scienza, con una lungimiranza molto vicina a quella della Zambrano sentenzia: «ci si deve essere staccati da molte cose che appunto opprimono, inibiscono, avviliscono, appesantiscono noi Europei di oggi. L’uomo di un tale al di là che vuole osservare con i propri occhi le supreme misure di valore del suo tempo, deve in primo luogo, a questo scopo, superare questo tempo in se stesso; è il cimento della sua forza, e quindi non soltanto il suo tempo, ma anche la ripugnanza e la contraddizione in cui si è sentito fino ad oggi»26. Ciò è, tuttavia, accompagnato dalla consapevolezza che vivere fino in fondo le contraddizioni e le inquietudini del proprio tempo possa portare alla grande salute: «una salute che non soltanto si possiede ma che di continuo si conquista e si deve conquistare, poiché sempre di nuovo si sacrifica e si deve sacrificare!»27. Nello stesso aforisma Nietzsche avverte che il contraltare della grande salute è la grande serietà di fronte alle condizioni dell’uomo attuale, definito nello Zarathustra, non a caso, l’uomo più brutto. Il profeta nietzschiano, pur ammettendo una certa vergogna di fronte alle brutture e alle miserie dell’uomo a lui contempo-

25. Ivi, p. 259. 26. F. Nietzsche, La gaia scienza e idilli di Messina, n. 380, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1965, p. 317. 27. Ivi, n. 382, p. 320.

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raneo, tanto da considerarlo un “morto deserto”28, comprende come dalla sua inquietudine e dal disprezzo sincero di sé, si riveli un’altezza d’animo tale da farlo essere, al contempo, uomo del grande amore, perché consapevole della necessità di essere superato29. Se interpretata in questo duplice senso, ovvero come consapevolezza della decadenza e apertura a nuovi orizzonti, la convalescenza potrebbe essere: «l’inizio di qualcosa di interamente nuovo e sconosciuto nella storia: si dia a questo seme qualche secolo in più e potrebbe venir fuori alla fine, un frutto mirabile, con un profumo parimenti mirabile per il quale la nostra vecchia terra diventerebbe più gradevole ad abitarsi di quanto non lo sia stata fino ad oggi»30. Per cui il compito che Nietzsche assegna agli uomini avveduti del suo presente è di cominciare a forgiare, anello per anello, la catena di un sentimento molto possente in avvenire, che dovrà passare attraverso il decadimento dei sentimenti e dei valori antichi31. Poche pagine più avanti, egli è molto chiaro su quale sia l’insieme dei valori da superare, identificandoli con la fede nel Dio cristiano, descrivendola come un sole prossimo al tramonto, in cui la fiducia che ne è alla base si è ormai capovolta in dubbio, rendendo il mondo più crepuscolare, estraneo e sfiduciato32. Inoltre aggiunge, con tono perentorio, che tale fede deve crollare e con essa tutto ciò che in essa aveva trovato appiglio ed era cresciuto, per cui si dovrà dare inizio ad una copiosa serie di demolizioni, tramonti e capovolgimenti33. È evidente come Nietzsche abbia ben chiaro, prima ancora della svolta zarathustriana, che inaugura il pensiero della sua 28. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., pp. 305-306. 29. Ivi, p. 310. 30. F. Nietzsche, La gaia scienza e idilli di Messina, n. 337, cit., p. 242. 31. Ibidem. 32. Ivi, n. 343, cit., p. 251. 33. Ibidem.

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maturità, quale sia la posta in gioco, l’obiettivo e il campo di battaglia per la posizione di nuovi valori. Il carattere di rottura di tale compito trova nello Zarathustra l’immagine più evocativa, prendendola in prestito proprio dalla spiritualità ebraica in cui era cresciuto Paolo. Zarathustra, infatti, attende l’ora del suo tramonto tra: «vecchie tavole spezzate […] ed anche tavole nuove scritte a metà»34. L’aspetto paradossale, e, allo stesso tempo, interessante della questione è come Nietzsche, nel marcare la distanza dai vecchi valori ebraico-cristiani, si serva della forza semantica di tale tradizione, facendo proprie anche la tensione e l’inquietudine sottesa ad essa. Nell’aforisma citato precedentemente, in cui dichiara guerra aperta alla fede nel Dio cristiano, il filosofo tedesco descrive, ad esempio, il suo compito come: «essere il profeta di un ottenebramento e di un’eclissi di sole, di cui probabilmente non si è mai visto sulla terra l’uguale»35. È proprio l’inquietudine e l’abissalità del suo stesso pensiero, sempre votato profeticamente all’avvenire e ad orizzonti ignoti, che permette a Nietzsche di comprendere in profondità l’inquietudine dello stesso Paolo nel porre i valori del nascente cristianesimo. Nell’aforisma 68 di Aurora, intitolato significativamente Il primo cristiano, egli presenta così il suo avversario: «una delle anime più ambiziose e più moleste e di un cervello tanto superstizioso quanto accorto […] senza questa storia singolare, senza i perturbamenti e le burrasche di un tale cervello, di una tale anima, non esisterebbe una 34. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 231. È qui palese il richiamo all’episodio della rottura delle Tavole di Mosè (cfr. Es. 32,19 e ss.). È interessante rilevare il fatto che Nietzsche anche nel già citato aforisma n. 382 della Gaia scienza, per descrivere gli uomini dell’avvenire si serva sia di immagini attinte al mondo greco, richiamandosi agli argonauti, ma anche al mondo ebraico, parlando dei profeti dallo stile antico (Id., La gaia scienza e Idilli di Messina, n. 382, cit., p. 320). 35. F. Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, n. 343, cit., p. 252.

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cristianità»36. E aggiunge: «quest’unico uomo, un uomo molto tormentato, degno di molta commiserazione, molto importuno e importuno a se medesimo»37. La lotta di Nietzsche contro Paolo si presenta dunque segnata da una paradossale lealtà, quasi da duello cavalleresco, perché parte dal riconoscimento, che non implica necessariamente un riconoscersi, del valore e dei valori dell’altro. Ciò, beninteso, non attenua la ferocia dei colpi inferti all’Apostolo dal filosofo tedesco, anzi ne accentua la durezza del confronto. Lo stesso Nietzsche rimarca sempre la netta e difficilmente colmabile distanza tra i propri valori “aristocratici” e quelli della décadence in cui rientra anche il cristianesimo paolino, qualificando lo scontro come radicale antitesi che non ammette conciliazioni. Nel dire ciò non va trascurato il fatto che Nietzsche intende la sua battaglia non come un offendere, ma come un difendersi e un successivo tentativo di contrattaccare. Egli parte infatti dal constatare che: «il cristianesimo ha condotto una guerra mortale contro questo superiore tipo umano, ha messo al bando tutti i fondamentali istinti […] ha preso le parti di tutto quanto è debole, abietto, mal riuscito; della contraddizione contro gli istinti di conservazione della vita forte ha fatto un ideale»38. A fronteggiarsi sono dunque due visioni opposte della vita: l’ideale aristocratico, in cui Nietzsche si identifica, è fondato sull’istinto, la crescita, l’accumulazione e la potenza, il cristianesimo, invece, elevando la compassione a virtù, punta a conservare ed esaltare tutto ciò che è debole e miserabile, bloccando lo sviluppo degli ideali aristocratici attraverso

36. F. Nietzsche, Aurora, n. 68, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1964, p. 59. 37. Ivi, p. 60. 38. F. Nietzsche, L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, §5, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1970, p. 6.

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l’incremento della décadence39. Ecco perché Nietzsche dice di provare profonda avversione per l’istinto teologico del cristianesimo, in quanto fondato su un rovesciamento di valori menzognero, poiché connota come falsi e cattivi tutti i valori tesi al potenziamento della vita e, all’opposto, considera vero e buono tutto ciò che è dannoso per la vita stessa40. Per questa ragione egli presenta la sua trasvalutazione di valori come: «una viva e vera dichiarazione di guerra e di vittoria a tutti gli antichi concetti di vero e non vero»41. I toni nei confronti del cristianesimo si fanno decisamente più aspri nelle pagine successive, quando Nietzsche afferma che: «il destino del cristianesimo sta nella necessità che la stessa fede dovesse diventare tanto malata, tanto abietta e volgare, quanto malati, abietti e volgari erano i bisogni che con essa dovevano essere appagati»42, per cui è dovere degli spiriti liberi ripristinare la contrapposizione più grande che esista: tra valori nobili e valori cristiani43. Egli chiosa il tutto con toni ancora più sprezzanti nella condanna senza appelli con cui si chiude L’Anticristo: «definisco il cristianesimo l’unica grande maledizione, l’unica grande e più intima depravazione, l’unico grande istinto della vendetta per il quale nessun mezzo è abbastanza velenoso, furtivo sotterraneo, meschino, lo definisco l’unica immortale macchia di infamia dell’umanità»44.

39. Ivi, §6-7, pp. 7-9. 40. Ivi, §8-9, pp. 9-11. Nietzsche approfondisce questo tema nella I Dissertazione della Genealogia (cfr. Id., Genealogia della morale, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1968, pp. 13-44). 41. Ivi, §13, p. 15. 42. Ivi, §37, p. 48. 43. Ibidem. 44. Ivi, §62, pp. 96-97.

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Il breve excursus sui luoghi di maggior attrito della lotta nietzschiana contro il cristianesimo (utile a tenere vivo il “pathos della distanza” tra i due sistemi di valori, evitando in tal modo di assottigliare, se non annullare le differenze), ci può consentire ora di occuparci, con l’opportuno retroterra concettuale, di come il filosofo tedesco colga lo sviluppo del nesso tra ebraismo e cristianesimo, asse portante del nostro discorso. Occorre, tuttavia, far subito notare come il rapporto tra il cristianesimo e la sua radice ebraica abbia in Nietzsche un senso eminentemente negativo, perché inserito nel più ampio contesto di critica dei valori della décadence cui abbiamo accennato. Egli si interessa infatti del rapporto tra i due monoteismi con l’intento di problematizzare criticamente l’origine del cristianesimo e lo fa seguendo due direttrici che poi finiscono per intrecciarsi proprio nella figura di Paolo: da una parte insiste sul fatto che la comprensione del cristianesimo passa necessariamente per il suo retroterra ebraico, di cui è il corollario in un rapporto di sostanziale continuità; dall’altra ne fa emergere l’originalità, sempre secondo un’accezione negativa, come degenerazione del “tipo galileo”. Nel perseguire questa seconda tesi Nietzsche sottolinea, in maniera sorprendente, la specificità d’Israele definendolo il popolo più notevole della storia, in quanto ha scelto l’essere, l’autoconservazione ad ogni costo, avviando con inquietante consapevolezza un processo di falsificazione della propria natura, pur di far resistere storicamente i propri valori. La tenacissima forza vitale che anima il popolo ebraico è, per Nietzsche, un valore positivo che, almeno originariamente, non lo fa essere dominato dagli istinti della décadence. Gli ebrei, pur essendo l’opposto dei decadenti, hanno accettato e accentuato, con mirabile genio d’attore, la decadenza come mezzo per avere la meglio sul mondo, per auto-conservarsi45. Di tale astuzia ne fece le spese 45. Ivi, §24, pp. 28-30.

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lo stesso Dio, il quale smise di rappresentare: «la forza di un popolo, tutta l’aggressività e la sete di potenza dell’anima di un popolo»46, per divenire uno strumento di potere nelle mani della casta sacerdotale, la quale ben presto fu in grado di manipolare a suo piacimento il “popolo eletto”, in virtù del loro rapporto privilegiato con Dio, del quale potevano interpretare la volontà, manifesta attraverso premi, castighi, benevolenza o ira47. Tuttavia, secondo Nietzsche, proprio la costituzione di un forte potere sacerdotale risultò fatale al popolo ebraico, poiché nella figura di Gesù egli legge l’ulteriore ed ultimo contraccolpo storico dell’istinto di conservazione ebraico, capace di incarnarsi in un piccolo moto di ribellione contro lo strapotere della “chiesa ebraica”, la quale reagì con la condanna alla crocefissione48. La morte in croce di Gesù segna, per Nietzsche, la fine della sua dottrina morale e l’inizio di un altro Vangelo. Una volta compiuto l’atroce delitto, arrivò infatti il momento della vendetta perpetrata dai seguaci di Gesù ai danni dell’ebraismo dominante: «la loro vendetta fu di innalzare Gesù in una maniera aberrante, di distaccarlo da loro: proprio allo stesso modo con cui gli Ebrei per vendicarsi dei loro nemici, avevano separato da sé il loro Dio e lo avevano portato in alto»49. Nel processo dell’innalzamento di Gesù a Dio, Paolo svolge un ruolo fondamentale. Egli, insistendo sulla resurrezione, fa della morte di Gesù e della vita di tutti coloro che credono in lui un passaggio verso uno stato successivo e ulteriore di beatitudine e premio, trasforma dunque le sofferenze di Gesù in una dottrina di

46. Ivi, §16, p. 19. 47. Ivi, §25-26, pp. 30-35. 48. Ivi, §27, pp. 35-36. 49. Ivi, §40, pp. 53-54.

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redenzione per l’uomo50. Nietzsche mostra qui di non essere interessato tanto alla critica dei dogmi cristiani, quanto a evidenziare il “genio teologico” di Paolo, l’acutezza del suo istinto sacerdotale, ultimo riflesso e metamorfosi di quello ebraico. Tale continuità ha, per Nietzsche, un senso perverso e ingannevole, in quanto non nasce dal riconoscimento del debito nei confronti dell’ebraismo, ma dalla volontà del nascente cristianesimo di farsi una storia propria, anzi storia in senso eminente, riducendo tutto ciò che l’aveva preceduto a sua preistoria. L’origine del mutamento di senso è, ancora una volta, Paolo il quale: «cancellò, né più né meno, lo ieri, l’avanti ieri del cristianesimo, inventò per sé una storia del primo cristianesimo. E più ancora falsificò di nuovo la storia di Israele, affinché apparisse come la preistoria della sua azione: tutti i profeti hanno parlato del suo redentore»51 e dopo di lui: «la Chiesa falsificò persino la storia dell’umanità facendone la preistoria del cristianesimo»52. In tal modo i cristiani: «rivoltarono i valori in direzione di se stessi, come se soltanto il cristiano fosse il senso, il sale e anche il giudizio finale di tutto il resto»53. Nietzsche dunque, pur nella forte contrapposizione a Paolo, sembra riconoscergli, come si è detto all’inizio, una certa grandezza proprio nel suo essere, in qualità di primo pretecristiano, un criterio di valori54 e, sebbene sottolinei più volte quanto sia animato da uno spirito di vendetta e di risentimento antitetico al suo, legge dietro la dottrina, i concetti e i simboli creati dall’Apostolo, un bisogno di potenza, un desiderio

50. Ibidem. 51. Ivi, §42, p. 55. Corsivo mio 52. Ibidem. Corsivo mio. 53. Ivi, §44, p. 60. Corsivo mio. 54. Ivi, §66, p. 65.

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sacerdotale di pervenire alla potenza55, che non sembra molto distante dalla volontà di potenza sottesa a tutto il pensiero del filosofo tedesco. Il passaggio attraverso la lotta di Nietzsche contro Paolo, nella paradossale commistione di affinità e divergenze, potrebbe essere utile al nostro percorso per comprendere meglio le lotte esteriori ed interiori che agitano l’animo dell’Apostolo nella posizione dei “nuovi” valori cristiani, anche e soprattutto in virtù del retroterra culturale ebraico in cui si vanno a situare e radicare. Nell’occuparsi del nesso storico-concettuale tra ebraismo e cristianesimo, infatti, ci si trova di fronte, come aveva capito Nietzsche, a due possibili strade interpretative, di continuità o di rottura, che non si escludono a vicenda, anzi, come avremo modo di capire meglio più avanti, si intrecciano proprio nella figura di Paolo e nel suo compito di fondazione delle prime comunità cristiane, a prescindere dal fatto che si interpreti la sua opera e la sua predicazione in continuità o meno col messaggio di Cristo. La novità e l’universalità stessa di tale messaggio portarono Paolo a doversi confrontare inevitabilmente con la propria radice ebraica, instillando in lui la consapevolezza di dover affrontare il problema della fondazione di un nuovo popolo di Dio, differenziandosi allo stesso tempo dal “vecchio” popolo, cioè quello a cui lui stesso apparteneva per nascita, cultura e tradizione56. Se da un lato sembra troppo azzardato affermare che «Paolo si propone come candidato al superamento di Mosè»57, il che potrebbe far pensare ad un rinnegamento totale della matrice ebraica, dall’altro non si può negare che la novità stessa del cristianesimo, per emergere nella propria specificità, deve necessariamente marcare

55. Ivi, §42, p. 56. 56. J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., p. 21. 57. Ivi, p. 80.

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una distanza dal contesto ebraico in cui è sorta. Essa sembra accentuata dallo stesso Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi, quando differenzia l’atteggiamento di fede ebraico da quello cristiano dicendo: «non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto […]; quel medesimo velo rimane, non rimosso, alla lettura dell’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino a oggi, quando si legge Mosè, un velo è esteso sul loro cuore: ma quando ci sarà la conversione al Signore quel velo sarà tolto»58. La consapevolezza dell’unicità del compito paolino, segnato sempre dal “pathos della distanza”, non implica, tuttavia, necessariamente, come vuole Taubes, fortemente influenzato dalla lettura storica nietzschiana, una trasfigurazione e un superamento in toto del popolo ebraico e dei suoi valori, per farli ricadere in un passato dai contorni indefiniti59, ma, come ogni superamento, conserva, anche inconsapevolmente, elementi sostanziali della propria originaria matrice ebraica. Ecco perché nell’accostarci alla visione storico-escatologica di Paolo cercheremo di fare emergere come la posizione di valori da lui operata sia, allo stesso tempo, carica di quella tipica inquietudine ebraica, notata dallo stesso Nietzsche, la quale, dalla nostra prospettiva, può essere non solo il fulcro per la scoperta di un “altro” Paolo, letto non solo in chiave storica o teologico-politica, ma oltre Paolo stesso, per aprirci ad una religiosità “altra”, non chiusa in se stessa e prevaricante, sondata attraverso il riemergere dell’alterità ebraica in alcuni luoghi paradigmatici del pensiero moderno.

58. 2 Cor. 3,13-16. Corsivo mio. 59. J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., p. 83.

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II Paolo tra vecchie e nuove Tavole

2.1 Il Paolo storico-escatologico di Bultmann Nell’occuparsi di Paolo ci si trova di fronte ad una serie sterminata di possibili interpretazioni, a conferma della sua centralità nella storia del cristianesimo e della produttività del suo pensiero, miniera inesauribile di suggestioni e inevitabile punto di confronto per chiunque voglia comprendere le radici dell’Europa e dell’Occidente. Nel nostro caso ci interessa indagare come il cristianesimo, già agli albori, proprio attraverso la predicazione paolina, si sia fatto storia, innestandosi con la cultura greca e il contesto ebraico d’origine, mantenendo, allo stesso tempo, tutta la sua portata escatologica, essendo altresì una dottrina oltremondana inerente le cose ultime e il destino dell’uomo, il quale subisce inevitabilmente un mutamento di senso con l’avvento, che è anche evento, del Cristo e con il valore universale del suo annuncio salvifico. È proprio con l’intenzione di fare emergere il nesso paradossale tra il farsi storia del nascente cristianesimo e il suo insistere sulla novità del messaggio escatologico che ci rivolgiamo all’interpretazione del teologo luterano Rudolf Bultmann, per verificare quanto possa esserci d’aiuto non solo per comprendere il nesso storico-escatologico nel pensiero paolino, ma anche il suo poter es-

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sere pungolo verso la ricerca di un “altro” Paolo, anche oltre le interpretazioni storiche ed escatologiche rivelandone, proprio nella acutezza ermeneutica, al contempo, i limiti e gli ostacoli da superare per riscoprire l’alterità insita sia nella fede ebraica che in quella cristiana. La necessità di tenere insieme l’aspetto storico e quello escatologico del pensiero di Paolo, secondo Bultmann, è giustificata dal fatto che il compito preminente della sua predicazione è fondare comunità, dare forma a una nuova Chiesa. È interessante rilevare come il teologo luterano trovi l’origine di tale esigenza nell’appartenenza di Paolo alla tradizione ebraica, sottolineando come è dal concetto di qãhãl, e non da quello greco di ekklesìa, che Paolo tragga la sua idea di comunità cultuale storicamente ed escatologicamente determinata. I due aspetti trovano la loro sintesi migliore nella metafora del corpo (1 Cor. 12,12-30), utilizzata per esemplificare il senso della nuova Chiesa cristiana. Essa va intesa non solo nel semplice significato di organismo composto dalla diversità delle parti, ma anche e soprattutto come unità, pur nelle differenze, garantita dall’appartenenza a Cristo. Ciò significa che a costituire la comunità è l’evento rappresentato da Cristo stesso, situato prima della comunità medesima e reso visibile dal sacramento del battesimo1. L’ecclesiologia paolina affonda dunque le sue radici in una netta visione antropologica: la Chiesa può essere comunità empirica visibile di coloro che credono nel messaggio di Cristo, perché costituita da singoli uomini non isolati, ma posti sempre, a priori, in un contesto storico dal quale giunge “l’adesso” e da cui sono inevitabilmente determinati. La preminenza del compito fondativo in Paolo è confermato, per Bultmann, dal modo in cui egli qualifica il

1. R. Bultmann, Credere e comprendere. Raccolta di articoli, tr. it. di L. Tosti, A. Rizzi, C. Benincasa, Queriniana, Brescia 1977, pp. 177-180.

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kerygma cristiano: «è una parola che ha potere, che è efficace. L’esser pronunciata è essenziale per questa parola: viene annunciata e deve essere ascoltata. È direttiva, che va seguita; ordine, che va osservato»2, a patto che si tenga sempre presente la distinzione tra profezia e glossolalia, nonché la preminenza data dall’Apostolo alla prima sulla seconda3. Nella parola predicata, infatti, continua a compiersi l’evento di Cristo, si attualizzano la sua morte e resurrezione, a cui il credente può prendere parte mediante la fede e vedere in esse un nuovo inizio. Nell’annuncio cristiano la parola si fa possibilità di vita, introdotta, legittimata e autorizzata dall’evento Gesù, come possibile apertura ed interpellazione ad una nuova esistenza storica nella fede, sia sul piano individuale che collettivo, rappresentando la fine del vecchio eone e l’inizio del nuovo4. Il carattere stesso di novità insito nel kerygma pone Paolo di fronte al problema di doversi confrontare con la propria tradizione di appartenenza e con la promessa salvifica in essa racchiusa. Tale confronto, non privo di inquietudine, passa innanzitutto per il ripensamento del concetto di alleanza. Esso è centrale in tutta la storia di Israele e capitale nell’Antico Testamento: indica il rapporto privilegiato tra Dio e il suo popolo fondato sulla fedeltà reciproca. La validità dell’alleanza dipende infatti dall’obbedienza del popolo, non da intendersi, tuttavia, come fedele adorazione cultuale, ma come osservanza morale delle sue leggi. Paolo, secondo Bultmann, è mosso dall’esigenza di dare al messaggio cristiano una portata universale e di accentuare la valenza escatologica del concetto di alleanza, non volendolo relegare soltanto a determinate esigenze e contingenze storiche, poiché: «come evento fondatore, la

2. Ivi, p. 299. 3. Ivi, pp. 300-301. Cfr. 1 Cor. 14,2-5. 4. Ivi, pp. 311-312.

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morte di Cristo non appartiene alla storia del popolo, come è invece per l’evento del Sinai»5. La contrapposizione paolina tra vecchia e nuova alleanza è dunque opposizione tra lettera e spirito (2 Cor. 6,7-18) e il suo carattere duraturo è garantito dall’azione dello Spirito che la rende, a differenza dell’antica, non visibile nel mondo e non partecipata ad un solo popolo in quanto tale. Essa è una figura radicalmente escatologica e l’appartenenza ad essa demondanizza a tal punto i membri dell’alleanza da rendere superflua la circoncisione come suo segno visibile6. Nel dire ciò bisogna tuttavia tener presente, andando anche oltre la linearità del dettato di Bultmann, l’inquietudine sottesa a tale compito, un aspetto che Taubes, da ebreo, coglie perfettamente, sottolineando come la posizione della contrapposizione è un atto carico di dolore, perché la fondazione di un nuovo popolo di Dio implica, inevitabilmente, non solo uno “strappo” con Israele, ma anche la consapevolezza drammatica che la nuova alleanza annulla la vecchia, rimettendo in discussione l’idea di popolo eletto e il rapporto di fedeltà con Dio che ad essa erano sottesi7. Paolo è dunque inquietato dalla vecchia alleanza, dall’interrogativo di come sia possibile sciogliere Dio da un giuramento, anche se è in vista di un nuovo patto. Il problema non è di poco conto: implica l’ammissione che la parola di Dio possa fallire, che le sue promesse cadano nel vuoto, vengano meno; il che è inconcepibile per un ebreo, la cui esistenza quotidiana è fondata sulla fedeltà di Dio e della sua parola8. Per Bultmann il problema della legge rinvia altresì alle affinità tra le parole di Gesù e la predicazione di Paolo, fondata

5. Ivi, p. 531. 6. Ivi, p. 532. 7. J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit. pp. 60-61. Cfr. Rm. 9,1-4. 8. Ivi, pp. 92-93.

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sull’appartenenza di entrambi alla tradizione ebraica, anche laddove se ne distanziano. Per entrambi infatti la fedeltà alla legge mosaica apre a dei problemi: ciò non significa una condanna in toto della legge, ma un insistere sulla necessità di interpretarla. La polemica di Gesù contro i farisei (Mt. 5,2148) è la riprova che egli contesti la riduzione della legge a diritto, ad insieme di prescrizioni da adempiere, connotandola soprattutto in senso prestazionale e obliando il suo carattere di espressione della volontà di Dio che esige, invece, un’obbedienza radicale, priva di alcuna pretesa9. La libertà dalla legge annunciata da Gesù non è dunque una pretesa di abolizione, anzi la sua validità risiede nel fatto che essa è espressione dell’unico comandamento dell’amore per Dio e per il prossimo (Mc. 12,29-31). Il passo compiuto da Paolo oltre Gesù riguarda il nesso tra la legge e il peccato, a patto che non lo si intenda semplicemente come un necessitare la prima in funzione del secondo, dietro cui si nasconderebbe, secondo Bultmann, un peccato ancora maggiore: la pretesa di piegare le intenzioni divine alla logica umana. Il teologo è dunque perentorio nell’affermare che non è la legge o la sua osservanza all’origine del peccato, bensì la tendenza umana a gloriarsi davanti a Dio per la fedeltà alla legge stessa, confidando sulla propria volontà senza rimetterla a quella divina10. Tutto ciò affonda le sue radici nella polemica di Gesù richiamata pocanzi e basata sulla contrapposizione tra autentica volontà di Dio e diritto, per cui, attraverso un ribaltamento di prospettiva, Bultmann può chiosare dicendo: «esattamente come Paolo, anche se non con la stessa tematizzazione teologica, Gesù afferma che la legge non è affatto volontà di Dio in quel modo in cui l’uomo vuole incontrarla, in cui, secondo l’interpretazione 9. R. Bultmann, Credere e comprendere. Raccolta di articoli, cit. pp. 206209. Cfr. Lc. 17,7-10; Mt. 20,1-15. 10. Ivi, pp. 210-211.

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degli scribi, viene concepita come un codice che esige l’attuazione di determinate opere»11. Paolo dunque tematizza teologicamente le intenzioni di fondo di Gesù e ne radicalizza la portata escatologica, perché per lui la giustificazione è già avvenuta, si è resa accessibile in virtù della fede in Cristo e della sua opera salvifica. Se anche in Paolo c’è un senso di attesa del compimento, esso ha una connotazione diversa rispetto a quella data da Gesù. Questi guarda al futuro, al regno di Dio, come qualcosa che è appena cominciato, Paolo invece può guardare avanti avendo anche la possibilità di volgersi indietro, perché per lui la svolta verso il nuovo eone è già avvenuta. L’attesa insita nella predicazione di Gesù, per Paolo si è compiuta, ed è in virtù di tale compimento che va intesa la libertà dalla legge, come libertà generale dal vecchio eone e apertura verso il nuovo inaugurato da Cristo (Gal. 1,4; 3,13). Una differenza che, pur essendosi palesata sul piano storico, lo trascende, in virtù dell’evento rappresentato da Cristo, in cui l’uomo attende il compimento futuro, avendo però già ricevuto nel presente la salvezza mediante la fede12. Bultmann può dunque affermare, mantenendo vivo il gioco prospettico di affinità e divergenze: «Gesù predica la Legge e la promessa, Paolo predica l’evangelo nel suo rapporto con la Legge, quasi a dire che Legge ed evangelo formano un tutt’uno e che la legge può essere intesa solo insieme alla promessa, cosi come l’evangelo solo insieme alla Legge»13. Fatte salve queste differenze, è opportuno ritornare sulla polemica di Paolo nei confronti della legge mosaica che costituisce il fulcro del suo rapporto tensivo e problematico con l’ebraismo. Come si è detto, ma è utile ribadirlo, non è in 11. Ivi, pp. 213. 12. Ivi, pp. 214-216. 13. Ivi, p. 217.

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questione la validità della legge, il suo contenuto, espressione della volontà divina, ma il bisogno umano, troppo umano, di affermazione di sé, che si può nascondere dietro l’osservanza, se la si intende in senso prestazionale. L’errore madornale, su cui Paolo ritornerà più volte nel corso della sua predicazione (cfr. Rm. 2,17-23; Rm. 3,27), è che l’uomo possa acquisire prestigio davanti a Dio attraverso le sue opere, misconoscendo in tal modo il carattere di dono della legge stessa, il cui adempimento non passa per la fiducia dell’uomo nei propri mezzi, ma per l’abbandono alla volontà divina, per cui la vera radice del peccato non risiede nella trasgressione di singoli aspetti della vita regolamentati dalla legge, ma nella tracotanza di fondo dell’uomo, qualora creda di poter innalzare la propria giustizia a motivo di gloria ed autoesaltazione14. Inteso in questa prospettiva, il senso di Cristo come fine della legge non è svuotamento o annullamento della legge mosaica, ma: «è la fine di una vita che, sottesa al bisogno d’affermazione (e quindi da una occulta paura per Dio), vuole innalzare la giustizia propria. Cristo è la fine della Legge in quanto è la fine del peccato, dell’autoesaltazione e della fiducia nella carne»15. L’eccessiva fiducia in se stessi, sintomo di superbia, è ciò che impedisce alla fede di manifestarsi attraverso la grazia di Dio (cfr. Rm. 3,24-28; Ef. 2,8). Essa va però intesa non come condizione cui l’uomo deve soddisfare affinché Dio possa operare in lui, ma come un lasciar spazio alla grazia, resa possibile dalla forza stessa dall’annuncio cristiano. Un aspetto essenziale della fede è proprio la rinuncia ad ogni autoesaltazione di fronte a Dio, la disponibilità ad accogliere il dono della sua giustizia, la fiducia incondizionata nella sua grazia. Essa è lo strumento attraverso il quale Dio debella ogni superbia umana, libera

14. Ivi, pp. 398-400. 15. Ivi, p. 406.

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dall’impulso di autoaffermazione. Se dunque il peccato consiste essenzialmente nella glorificazione di sé, nell’esaltazione dell’uomo naturale e della carne (Fil. 3,2-11), misconoscendo la giustizia di Dio, la grazia opera in senso inverso, ristabilendo il rapporto di dipendenza della creatura dal Creatore ed in virtù di ciò l’uomo può comprendere la vera natura del suo essere16. La fede mediante la grazia è dunque per l’uomo la possibilità storica di una nuova vita, originata dall’evento dell’azione salvifica di Dio, avvenuta in Cristo, attualizzata dalla predicazione che si fa realtà nella decisione. Ciò vuol dire altresì accoglienza del giudizio divino su di sé e soprattutto apertura al prossimo, all’altro da sé (Gal. 2,19 e ss.; 2 Cor. 5,18 e ss.). Tuttavia, il senso autentico della nuova possibilità di esistenza offerta dalla fede si coglie soltanto comprendendo a pieno la duplice valenza storica ed escatologica dell’evento di Cristo come compimento del vecchio eone (Gal. 4,4-10) ed inizio del nuovo. Al centro della predicazione di Paolo non può dunque non esserci la paradossalità della natura umana e divina di Gesù, non concepita però come semplice esposizione speculativa e dottrinale, ma come annuncio, interpellazione che chiama i destinatari alla decisione, per cui Bultmann afferma: «la cristologia paolina non è altro che l’annuncio dell’azione salvifica di Dio avvenuta in Cristo. Alla parola corrisponde la fede, all’annuncio la nuova auto-comprensione del credente»17. Il fulcro della cristologia di Paolo è senza dubbio il riconoscimento di Gesù come il Messia. Tale concetto mantiene tutta la caratterizzazione della tradizione ebraica, come segno di un tempo di salvezza e apertura di un nuovo eone, ma la novità è che egli non è più speranza futura, perché presente nella

16. Ivi, pp. 680-681. 17. Ivi, p. 279.

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figura del Cristo. Il sostrato concettuale è dunque lo stesso, ma non lo si può considerare in una semplice prospettiva di evoluzione storica, poiché Paolo annuncia un fatto decisivo: Gesù come adempimento della promessa (Gal. 1,12-16). Per Paolo, dunque, Gesù non è un semplice maestro che abbia insegnato un nuovo concetto di Dio, una nuova dottrina morale o una nuova visione nel mondo: riconoscendo in lui il Messia, radicalizza il messianesimo ebraico, fa di Gesù il Re della fine dei tempi e il portatore della salvezza donata da Dio. La cristologia paolina non è evoluzione della fede ebraica nel Messia, bensì suo compimento, per questo chi crede in lui appartiene già al nuovo eone18. Il riconoscimento cambia dunque il senso del tempo: se il Messia è Cristo ha raggiunto tutti non solo il popolo di Israele e lo ha fatto nell’adesso, nel presente. L’avvento che è, allo stesso tempo, evento di Gesù come Messia fa del vecchio eone l’età del peccato e della morte, del nuovo l’età della resurrezione e di una nuova vita nell’attesa e nella speranza. A tal proposito Vitiello osserva che con Cristo muore sia la visione circolare, sia quella lineare del tempo, per inaugurare il tempo continuo della presenza, in cui non vi è solo uno scorrere dei momenti, ma è presente anche l’hòra, cioè l’orizzonte di ogni accadere. Il tempo cristiano, ovvero quello proprio della cristologia paolina, è caratterizzato dal nesso dell’adesso con l’orizzonte totale dell’accadere: «orizzonte del tempo che in quanto tale, “viene adesso”. Adesso: nel nyn kairòs dell’avvento di Cristo, il Messia figlio di Dio e dell’uomo. Kairòs propizio è questo nyn perché in esso si apre l’hòra. Cristo rivela l’hòra»19, cioè il presente eterno del Messia che parla del presente del tempo,

18. Ivi, pp. 219-226. 19. G. Rossè, V. Vitiello, Paolo e l’Europa. Cristianesimo e filosofia, cit., p. 203.

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del passato prima del tempo e anche del futuro del tempo e oltre esso. Tale mutamento ontologico ed escatologico del tempo non può non coinvolgere anche il senso della storia. Bultmann, nel suo confronto serrato con Paolo, lo indaga da due punti di vista: quello individuale, soffermandosi sulla storicità dell’uomo e ancor di più sotto il profilo collettivo, facendo emergere il nesso tra il nascente cristianesimo e la sua matrice ebraica, fil rouge del nostro percorso. Il teologo fa notare come l’identificazione dell’eone della salvezza con Cristo cambia il senso della storia del mondo e dei singoli che in esso sono collocati, perché li apre alla possibilità della fede e li proietta verso il nuovo eone. In tal senso la storicità dell’uomo non diviene mera dipendenza dalla storia, ma realizzazione storica del suo essere autentico, non solo nell’attesa della fine dei tempi, ma anche nel vivere il proprio presente aprendosi alla grazia di Dio manifestatasi in Cristo. Questo senso della storicità, avverte Bultmann, non può mostrarsi ad una semplice analisi speculativa di filosofia della storia, se essa pretende di porsi al di fuori della storia e giudicarla dall’esterno, ma può essere colto solo nelle puntuali decisioni storiche, perché il senso della storia è visibile nelle decisioni e si trasmette negli istanti in cui il singolo individuo decide. L’istante della decisione, cui è sottesa l’unione dell’adesso e dell’hòra richiamata precedentemente, è anche ciò che pone l’uomo davanti alle responsabilità nel presente e del presente in cui vi è tutta l’eredità del passato e la possibilità di apertura al futuro20. Il mutamento del tempo conseguente al riconoscimento di Gesù come Messia coinvolge il destino storico dell’uomo, portando allo sviluppo, gravido di conseguenze soprattutto per la modernità, come vedremo nei capitoli successivi, dell’idea

20. R. Bultmann, Credere e comprendere. Raccolta di articoli, cit., pp. 976978.

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di una storia universale al cui centro è collocato l’avvento del Cristo. Ciò dà al corso della storia un nuovo senso teleologico orientandolo ad una meta e ad un fine. Nella teologia di Paolo teleologia ed escatologia si fondono per comprendere il tempo come unità piena di senso. Ed è in funzione di tale unità che va letto il nesso tra il nascente cristianesimo e la storia di Israele. La comunità cristiana nell’accogliere l’Antico Testamento si considera il vero Israele (Gal. 6,16) ed eleggendo Abramo a padre di tutti i credenti (Rm. 4,1-12) si pone in continuità con l’ebraismo, solo perché vede se stessa come il compimento della storia della salvezza e da tale prospettiva guarda alla storia di Israele come cammino di fede che in Cristo ha raggiunto il suo fine. Le figure simbolo della fede ebraica diventano dunque modelli ante litteram della fede cristiana, come si legge nel capitolo 11 della Lettera agli ebrei (cfr. Eb. 11,8 e ss.). Lo stesso tema della nuova alleanza presuppone un richiamo implicito alla vecchia. Tuttavia, Bultmann sottolinea come la continuità posta dal cristianesimo primitivo con Israele non è storica, ma escatologica, garantita dall’azione di Dio che ha scelto un nuovo popolo, non circoscrivendo solo ad uno la realizzazione della sua promessa. L’Antico Testamento dunque non è un semplice documento storico, ma un libro di rivelazione o, per meglio dire, di profezia, compiutosi con Cristo, in cui è stato reso manifesto il disegno divino di salvezza21. Al centro di tale storia non vi è più un popolo guidato da Dio, ma l’evento escatologico iniziato con l’incarnazione del Cristo e da compiersi nell’attesa della parusia. Ecco perché il nuovo popolo di Dio, la sua Chiesa, malgrado si percepisca nella storia come fenomeno escatologico, finisce con l’inglobare la sto-

21. R. Bultmann, Storia ed escatologia, tr. it. di A. Rizzi, Queriniana, Brescia 1989, pp. 49-50.

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ria nell’escatologia22. Tuttavia, tale pretesa non si arresta alla sola storia del popolo di Israele, ma, in virtù dell’aspirazione ad una storia universale, coinvolge l’intera umanità. Infatti la preminenza stessa dell’escatologia sulla storia porta Paolo a considerare la storia di Israele e di tutta l’umanità antecedente la venuta di Cristo come contrassegnata dal peccato. Esso è entrato nel mondo con Adamo (Rm. 5,12 e ss.), non essendo stato scalfito, per le ragioni già analizzate precedentemente, neanche dalla legge mosaica (Gal. 3,19; Rm. 5,20), per cui, se il vecchio eone è dominato dal peccato, non è possibile pensare alcuna continuità storica o evolutiva, ma soltanto una frattura, una fine, voluta da Dio stesso ed operante, mediante la sua grazia, laddove sembra prevalere il peccato23 (Rm. 5,15 e ss.). È evidente che tale prospettiva escatologica ha forti accenti apocalittici, anche se, va detto che in Paolo il peccato non ha una valenza totalmente negativa nella misura in cui può aprire al futuro della salvezza e dare un senso alla storia. L’apocalittica paolina, secondo Bultmann, va letta in chiave antropologica: l’uomo condizionato dal peccato può ancora accogliere la grazia di Dio e cambiare il senso della sua esistenza. L’interpretazione antropologica del nesso tra storia ed escatologia permette di comprendere come dietro la prospettiva universale, in cui sono inquadrate sia la storia di Israele che quella dell’intera umanità, vi sia anche la storicità dell’uomo, cioè la storia che ciascuno vive o può vivere, nella quale realizza o può realizzare il proprio essere24.

22. Ivi, pp. 51-53. 23. Ivi, pp. 54-56. Si veda anche Id., Credere e comprendere. Raccolta di articoli, cit., pp. 52-76, soprattutto in merito al nesso escatologico tra Adamo e Gesù, “Nuovo Adamo”. 24. Ivi, pp. 56-59.

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Quanto detto finora rappresenta l’humus concettuale entro cui è possibile affrontare il nesso tra il nascente cristianesimo e l’ebraismo delineato da Bultmann. Il teologo luterano nell’affrontare la questione è consapevole del fatto che non si possa semplificare troppo il discorso, intendendo il cristianesimo come superamento in toto dell’ebraismo, perché privarlo della matrice originaria significherebbe altresì ridurre la portata escatologica di tale nesso e, allo stesso tempo, non farne emergere la specificità. Egli parte dal presupposto che interpretare il rapporto tra le due fedi come contrapposizione tra legge e vangelo risulterebbe semplicistico e forviante. Essi sono in continuità se si intende l’essere sotto la legge come il presupposto dell’essere sotto la grazia, per cui l’Antico Testamento viene ad essere il presupposto del Nuovo, ma non in base ad una considerazione storico-evolutiva di un fenomeno religioso, ma nel senso di un nesso reale esistente tra legge e vangelo, in base al quale la predicazione presuppone la conoscenza della legge e il sottostare ad essa. In altri termini: se Cristo è fine della legge il suo messaggio presuppone la comprensione della legge25. Ciò espone il cristianesimo primitivo ad un problema non da poco: se il vangelo presuppone la legge, il cristianesimo per essere veramente tale deve passare necessariamente attraverso l’ebraismo? È ancora una volta Paolo a dare una risposta non storica, ma escatologica che non lascia spazio a dubbi: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal. 3,28), perché l’eschaton da lui annunciato non è circoscrivibile entro i confini di nessun popolo; il regno di Dio non ha e non può avere confini geografici e temporali, perché anche quando si realizza nelle comunità dei credenti in Cristo resta una figura extra-mondana. Ciò 25. R. Bultmann, Credere e comprendere. Raccolta di articoli, cit., pp. 338339.

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muta profondamente anche il concetto di “popolo di Dio”, smarcandolo nettamente dalla sua origine ebraica. La speranza escatologica paolina, il Regno di cui si è detto, non ha infatti nessuna coloritura nazionalistica e perde ogni possibile rimando alla costituzione di uno stato confessionale, ad un’idea di popolo storico collocato in una nazione, per assumere un significato esclusivamente escatologico, sviluppato alla luce dell’eone futuro inaugurato dall’evento di Cristo26 (Gal. 6,16; Fil. 3,3; Rm. 9,6-8). Il passo ulteriore compiuto da Paolo oltre l’ebraismo non prevede, tuttavia il rigetto dell’idea di legge, ma un’interpretazione in chiave universalistica. Se non si identifica la legge tout court con le Tavole ricevute da Mosè sul Sinai, ma con la coscienza morale insita per natura in ogni uomo, allora anche i pagani, che non hanno conosciuto la legge, potranno avere accesso alla novità del Cristo, confidando sulla legge inscritta nei loro cuori (Rm. 2,14 e ss.). Per questa ragione Vitiello, commentando lo stesso passo, può osservare che la teologia della storia di Paolo può essere anche definita “cristologia politica”, in quanto la centralità dell’avvento del Cristo ha come tema e compito la salvezza dei Gentili, pertanto l’attesa messianica, tipica della fede ebraica, è dunque estesa a tutti gli uomini. Ciò comporta una relativizzazione della legge scritta, in favore della legge del cuore, di cui si sottolinea la preminenza (2 Cor. 3,2-3), come legge interna all’operare dell’uomo. In tal modo viene meno il privilegio di Israele sugli altri popoli e il concetto di elezione divina è piegato, attraverso la fede in Cristo, alla storia e al destino dell’intera umanità27. Sullo smarcamento dall’idea del privilegio elettivo, insita nella legge

26. Ivi, pp. 535-540. 27. G. Rossè, V. Vitiello, Paolo e l’Europa. Cristianesimo e filosofia, cit., pp. 206-207.

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mosaica, insiste anche Bultmann dicendo: «la precomprensione dell’evangelo che germina sotto l’AT, può farlo benissimo anche sotto altre incarnazioni storiche della Legge divina; può farlo dunque un uomo che sappia d’essere, vincolato e limitato dai concreti o generali imperativi morali che nascono dalla reciprocità dei rapporti che ha con gli altri e che egli deve riconoscere in coscienza»28. Ciò che conta è dunque la possibilità offerta all’uomo di accorgersi del suo essere nulla, del suo dover accettare con umiltà il non poter sussistere in sé, il suo costitutivo dipendere da altro; il che lo salva dal pericolo, centrale in tutta la predicazione paolina, di trasformare il giusto zelo per Dio in tentazione di auto-glorificazione e compiacimento. In quest’ottica l’Antico Testamento è connotato dal nascente cristianesimo di un’importante funzione pedagogica: rendere l’uomo consapevole di essere soggetto alle giuste pretese di Dio e, in virtù di tale dipendenza, di avere un senso di responsabilità all’interno della comunità ecclesiale e, più in generale, in tutti i rapporti reciproci di ordine mondano. L’espressione più viva e concreta della dipendenza insita nella natura umana è resa esplicita dall’intelligenza veterotestamentaria nella fede nella creazione, in virtù della quale l’uomo sa di non poter disporre del mondo in quanto creatura, ma di essere in totale balia del Signore. Ciò condiziona inevitabilmente il destino storico dell’uomo, cui Dio assegna compiti, aprendolo alla possibilità mondana ed extra-mondana del dono del futuro, cui è portato a rispondere nel tempo, nell’istante concreto della sua esistenza autentica. L’uomo è dunque visto nella sua temporalità e storicità, ma è posto, allo stesso tempo, di fronte a Dio e al prossimo. In tal senso il confronto critico del nascente cristianesimo con l’ebraismo va letto anche come un fare i conti con la propria origine storica, per raggiungere un’intelligenza e una consapevolezza dell’esistere che guidi il credente nel 28. R. Bultmann, Credere e comprendere. Raccolta di articoli, cit., p. 341.

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suo volere ed agire29. Lo stesso Bultmann si rende, tuttavia, conto che la lettura storico-esistenziale del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento affronta la questione solo parzialmente: resta infatti da capire se possa esserci anche un nesso più profondo, che sposti il tutto sul piano escatologico. Bisogna dunque ripartire dalla presunta antitesi tra evangelo e legge, per trovare un possibile ponte concettuale. Bultmann lo individua nella grazia e afferma: «come l’essere soggetto alla grazia è continuamente riferito in retrospettiva all’essere soggetto alla Legge, cosi è anche vero che l’AT non conosce un essere soggetto alla Legge che non sia nel contempo un essere soggetto alla grazia»30. Se tale nesso appare evidente nel Nuovo Testamento, soprattutto per l’insistere di Paolo sul tema, potrebbe sembrare una forzatura la connessione di legge e grazia nell’Antico. Il teologo luterano vi si sofferma opportunamente dicendo: «la grazia di Dio è efficace in primo luogo, nel fatto che Dio ha scelto quel popolo e stretto quel patto con esso, ha chiamato i suoi padri e continua a chiamare guide del popolo e profeti, in una parola: nell’aver dato a quel popolo una storia che è storia di salvezza […] sicché l’obbedienza deve attuarsi sempre nella fede alla grazia di Dio che previene ed elegge»31 e chiosa: «quindi l’esser soggetto alle esigenze di Dio è sempre inteso nel contempo, come un essere soggetto alla grazia di Dio»32. Tale concezione della grazia di Dio nell’Antico Testamento, secondo Bultmann, emerge ancora più chiaramente se la si collega all’idea di peccato, intendendolo non come una trasgressione morale, ma come un’offesa inferta all’amore di Dio,

29. Ivi, pp. 341-344. 30. Ivi, p. 345. 31. Ivi, p. 346. 32. Ibidem.

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mostrando sfiducia verso la sua grazia, mettendola in dubbio. La speranza escatologica tipica del profetismo ebraico parte dal radicale riconoscimento dei peccati del popolo, il quale ha dubitato della grazia e viene richiamato al pentimento per aprirsi, attraverso il perdono, nuovamente all’azione salvifica di Dio (cfr. Is. 48,11; Es. 36,22; Ger. 31,33 e ss.). La radicalità della fede ebraica poggia dunque sulla speranza di salvezza che trova, dal punto di vista cristiano, nel Nuovo Testamento il suo compimento, in quanto in Cristo si realizza l’azione escatologica di Dio, per cui la fede cristiana professa che in Cristo Dio ha riconciliato a sé il mondo (2 Cor. 5,19). Con l’avvento di Cristo, però, il concetto di grazia assume un significato differente, non è più legato al destino del singolo, come parte integrante di un popolo, ma si fa incontro a lui nella parola predicata, nell’annuncio che interpella hic et nunc33. Agli occhi della fede cristiana l’Antico Testamento e la storia di Israele è storia che interpella solo se si comprende come Cristo ne sia il centro e il fine, per cui Bultmann può dire: «la fede cristiana usurpa, per così dire, l’AT e pretende che quanto vi è detto, un tempo poté essere detto in un senso provvisorio e limitato, e che ora invece può essere detto e udito nel senso giusto. Ma con ciò si dice, appunto, che in senso vero e proprio l’AT non è parola di Dio per la fede cristiana. La chiesa l’annuncia come parola di Dio, ma lo fa solo per ritrovarvi quel che già sa dalla rivelazione compiuta in Gesù Cristo»34. Tale interpretazione escatologica fa dell’Antico Testamento e di tutta la tradizione ebraica qualcosa di provvisorio che solo in Cristo riceve il suo significato autentico, riducendolo a profezia di ciò che solo nel Nuovo Testamento giungerà a compimento.

33. Ivi, pp. 348-352. 34. Ivi, p. 354. Corsivo mio.

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È evidente dunque che l’interpretazione bultmanniana del paolinismo, se ha l’indubbio merito di far emergere la centralità dell’eschaton nella sua cristologia, mettendolo in relazione anche con la storicità e con il carattere di evento del suo annuncio, trova il suo limite nell’idea del compimento operato da Cristo. È come se il teologo luterano, pur insistendo più volte sul concetto di grazia nell’Antico Testamento, non ne colga fino in fondo il senso di accadere e lo pieghi ad una visione ancora troppo teleologica della storia. La centralità di Gesù per la fede cristiana rischia, in base alla sua lettura storico-escatologica, di far venir meno la specificità del contesto ebraico di origine. La validità di tale tradizione è riconosciuta più in maniera formale che sostanziale. La riduzione ad una mera funzione profetica è infatti propedeutica a fare emergere soltanto la specificità e la novità del messaggio cristiano, misconoscendo quanto la matrice ebraica lo abbia influenzato e ne rappresenti la base necessaria, anche per i molti smarcamenti concettuali operati da Paolo e ben evidenziati dallo stesso Bultmann. In particolare ciò che sembra venir meno nella sua interpretazione è la componente di alterità della religiosità ebraica, annullata dal “trionfo” del cristianesimo storico e dall’unità teleologicamente orientata dell’escatologia paolina. Il nostro intento, come dovrebbe essere ormai chiaro, è seguire una direzione diametralmente opposta: indagare il rapporto tra ebraismo e cristianesimo, attraverso Paolo ed oltre, per riscoprire proprio la componente “altra” che innerva le due fedi e non le rende riducibili a nessuna visione storica circolare o teleologicamente orientata. Nell’idea di compimento su cui Bultmann insiste per qualificare i rapporti tra Antico e Nuovo Testamento si nasconde infatti il pericolo di snaturare, se non di annullare, l’oltranza della fede, di non riconoscere il suo essere oltre le logiche, umane, troppo umane di possesso della verità. Un aspetto che lo stesso Bultmann ha ben presente nel descrivere il “paradosso” della fede cristiana, il suo essere legata all’accadere della grazia, ma che, altrettanto parados-

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salmente, sembra ignorare nel suo confronto con l’ebraismo, non riuscendo a capire fino in fondo quanto alle spalle del proprio concetto di fede, di cui è esplicitamente debitore alla teologia paolina, vi sia anche un debito implicito nei confronti del concetto ebraico di fedeltà e fiducia in Dio, ereditato dallo stesso Paolo e degno di essere riscoperto nella sua specificità.

2.2 I “paradossi” ebraici del Paolo di Buber Se il limite dell’interpretazione di Bultmann è, come detto, il leggere la storia e la tradizione religiosa ebraica in virtù del suo compiersi con il cristianesimo, occorre rivolgersi ad un’altra prospettiva, interna al mondo ebraico, per verificare quanto tale radice mantenga la sua specifica alterità, anche con la nascita del cristianesimo storico e soprattutto quanto essa ci possa essere utile al ripensamento di un paradigma veritativo fondato sull’alterità, anche al di là delle mere esigenze confessionali. È con questa intenzione di fondo che ci accostiamo al celebre testo di Martin Buber Due tipi di fede, per indagare, tramite le sue intuizioni, il nesso tra ebraismo e cristianesimo, dal punto di vista di un ebreo che intende far risaltare la specificità della propria fede, affinché non sia ridotta a semplice preistoria cristiana. Nel dire ciò siamo tuttavia consapevoli che il dettato buberiano non potrà essere seguito fedelmente, soprattutto a causa delle eccessive semplificazioni del pensiero di Paolo, da cui il precedente passaggio attraverso l’interpretazione di Bultmann ci mette in guardia e al riparo. Ciò non toglie che il testo di Buber abbia un notevole interesse, soprattutto in merito alle intenzioni di fondo che animano il confronto tra le due fedi, cioè la ricerca di un terreno comune su cui sia possibile avviare un dialogo. Tale presupposto comune, che non fa cadere le differenze, è l’idea di una fede che non posa soltanto su un fondamento razionale, poiché il credere coinvolge l’essere nella sua totalità e immette nella sfera dell’Incondizionato, ovvero: «il rapporto di fede non è un

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rapporto verso un “qualcuno” o un “qualcosa” condizionato in sé ma incondizionato per me, bensì verso un Qualcuno o un qualcosa incondizionato anche in sé»35. L’essere oltre ogni fondazione razionale e il coinvolgimento del credente nella sua totalità sono, tuttavia, gli unici elementi comuni. Per il resto il discorso buberiano mantiene vive le differenze, sostenendo che il rapporto di fiducia ebraico nasce da un contatto immediato con Colui di cui si ha fiducia, mentre nella fede cristiana tale rapporto passa per un riconoscimento, un’accettazione da parte della totalità del credente di ciò che si riconosce per vero ed è per questo che l’ebreo si trova da sempre come singolo e come parte di un popolo nell’emunah, il cristiano, invece, vede nella conversione un atto fondamentale per accedere alla pistis36. L’argomentare di Buber procede dunque attraverso contrasti e opposizioni, per non far perdere a ciascuna delle due fedi le proprie peculiarità; il contrasto non è tolto nella convinzione che un dialogo possa nascere solo se non è animato da una volontà di assimilazione che faccia venir meno le differenze. Buber, vede nel confronto la possibilità di comunicarsi reciprocamente un possibile modo di vivere nel tempo, di vivere l’attesa del Messia ebraico da una parte e il ritorno di Cristo dall’altra. Nel dire ciò bisogna evidenziare, tuttavia, due grandi limiti delle nobili intenzioni dialogiche sottese al testo di Buber. In primis il confronto appare decisamente impari, in quanto il teologo ebreo, nel tentativo di smarcare la propria fede dalle interpretazioni a posteriori del cristianesimo, priva quest’ultimo della centralità della figura del Cristo, il quale è presentato come sviluppo della spiritualità ebraica, misconoscendo la no-

35. M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, tr. it. di S. Sorrentino, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995, p. 59. 36. Ivi, p. 60.

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vità del suo messaggio di cui è innervata, come abbiamo visto attraverso Bultmann, la cristologia paolina. Buber fa di Gesù un uomo la cui fede è ancora pienamente inserita nell’emunah ebraica, sottovalutando in tal modo un elemento decisivo della fede cristiana: il riconoscimento di Cristo non solo come Messia, ma anche e soprattutto come Dio e Redentore. Lo stesso altissimo sentimento di vicinanza e fratellanza che il teologo dice di avere nei confronti di Gesù è indice del desiderio di credere con lui, senza, tuttavia, credere in lui37. In secondo luogo, come non manca di notare Taubes, l’intenzione di trattenere Gesù nell’alveo della fede ebraica porta Buber a sottovalutare l’importanza della predicazione di Paolo nel suo insistere sul valore messianico del messaggio di Cristo. Esso assume ancora più importanza proprio se lo si considera a partire al contesto ebraico di appartenenza e se ne legge la paradossalità con categorie concettuali interne alla logica del messianesimo ebraico. Il riconoscimento di Gesù come Messia passa infatti per un evento paradossale: la morte in croce come proscritto, malfattore, escluso dalla comunità. Lo scandalo della croce diviene dunque in Paolo un evento decisivo che, stravolgendo completamente i canoni del pensiero ebraico e romano, funge da presupposto per credere in lui al punto tale da dare alla nascente fede un valore superiore a quello di tutte le opere38. Poste tali premesse, utili a chiarire le linee guida del nostro accostamento al testo di Buber, ci sembra opportuno partire dal luogo in cui le differenze tra i due tipi di fede a confronto emergono con più evidenza. Il luogo scelto da Buber è la Lettera agli ebrei, in cui secondo il teologo si condensano la 37. In merito si vedano le acute osservazioni di N. Bombaci, Ebraismo e cristianesimo a confronto nel pensiero di Martin Buber, Dante & Descartes, Napoli 2001, spec. pp. 77-84. 38. J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., pp. 33-34.

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maggior parte dei fraintendimenti della genuinità della fede ebraica da parte del cristianesimo primitivo. L’accusa di incredulità rivolta a Israele (Eb. 3,19 e ss.) si fonda infatti sul misconoscimento del carattere immediato della fiducia ebraica in Dio che il credente eredita da sempre, con l’appartenenza stessa al “popolo eletto” e coinvolge la totalità del suo essere a tal punto che la sua stessa vita è testimonianza continua di fede, anche e soprattutto nelle difficoltà e nelle sofferenze. Ciò rende superflua ogni dimostrazione noetica di fede, per cui il carattere elenctico presente nella fede cristiana e attinto dal mondo greco è estraneo alla spiritualità ebraica, che non ha neanche bisogno della decisione in favore della fede, idea implicitamente sottesa al concetto cristiano di conversione, perché è da sempre collocata nell’emunah39. Ciò non deve far pensare alla fede ebraica come un atteggiamento di passività nei confronti di Dio. La fedeltà implica “un tener duro” (standhalten) nei rapporti vitali essenziali, un avere consistenza (Bestand), nato dalla consapevolezza che la propria esistenza deriva dalla solidità del rapporto basilare con la potenza divina. Tale consistenza va però considerata da due prospettive speculari e complementari: un lato “attivo”, cioè la fedeltà a Dio, ed uno “ricettivo”, cioè la fiducia in lui. In entrambi i casi non si tratta di un semplice atteggiamento psichico, ma di un qualcosa che, come detto sin dall’inizio, coinvolge la vita del credente nella sua totalità. La fedeltà e la fiducia esistono nello spazio reale del rapporto tra due esseri, qualificato come dialogo tra due partner, in cui, pur mantenendo la differenza e la distanza tra l’uomo e Dio, non è esclusa la possibilità della reciprocità40. Ancora una volta, Buber ritrova nella Lettera agli ebrei il maggior fraintendimento di questa duplice natura della fede 39. M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, cit., pp. 85-90. 40. Ivi, pp. 76-78.

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ebraica quando si legge: «senza la fede però è impossibile essergli graditi; chi infatti si accosta a Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo credono» (Eb. 11,6). Nell’idea di fede espressa in questo passo, secondo il teologo ebreo, l’atteggiamento di fiducia veterotestamentario è fuso e confuso con il “credere che” (Dass-Glauben), cui spetterebbe una remunerazione. Buber insiste sul fatto che alla spiritualità ebraica è estraneo il senso del credere come atto, interiore o esteriore, come professione di fede, per cui gli appare ancor più viziato dal pregiudizio e dall’errore interpretativo il richiamo alla fede di Abramo nei versetti successivi (Eb. 11,810). Il senso autentico della fede del Patriarca si comprende solo se si interpreta il suo credere in Dio, che è il presupposto dell’alleanza con il popolo (Gen. 15,6), “come un avere fiducia in”. Buber nota come questo fraintendimento terminologico e concettuale resista anche in Paolo, in Rm. 4,18-21, laddove intende presentare Abramo come modello di fede cristiana. La perseveranza nella fede, incarnata dal Patriarca, non è da intendersi come un atto particolare, tutt’al più va inteso come un supplemento di energia in un rapporto essenziale già esistente, alla cui base ci sono fedeltà e fiducia. È solo in virtù di ciò che Abramo può intensificare il suo rapporto, mostrando maggiore abbandono. Inoltre la giustizia che da tale relazione deriva non è da intendere nel senso di ricompensa, o anche, mutuandolo dal linguaggio forense, di convalida, poiché ciò già è insito nel rapporto incondizionato di fiducia nella divinità, in cui, il credente ebreo realizza in toto il suo essere. Se si interpreta infatti il rapporto di Abramo con Dio come un far passare per valido, un imputare, si imbriglia la vivacità dialogica del rapporto di fede in una logica giuridico-prestazionale che depaupera e snatura l’autenticità del giudaismo41. 41. Ivi, pp. 91-94.

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Queste precisazioni concettuali servono a Buber come premessa per affrontare il grande tema del fraintendimento della legge mosaica, alla base della contrapposizione paolina di legge e fede. I toni della polemica sono molto duri, in quanto il teologo ebreo vede nella preminenza data dall’Apostolo alla fede in Cristo un subdolo tentativo di svuotare la legge mosaica del suo valore salvifico. Se Cristo è infatti fine della legge e la giustificazione di ogni credente (Rm. 10,4), gli ebrei, che rifiutano di riconoscersi in Cristo sono fuori dalla giustizia di Dio. Paolo lo dice con profondo dolore e ammette di pregare per la loro redenzione, affinché il loro eccesso di zelo non si trasformi in mancanza di conoscenza (Rm. 10,1-3). Per conferire un valore solenne e salvifico alle sue parole, egli prosegue dicendo: «vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo. Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha resuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm. 10,8-9). È esplicito qui il richiamo al Deteuronomio42, che però, secondo Buber, è ripreso da Paolo in maniera alquanto singolare. L’Apostolo, per dare forza al suo annuncio, si appoggia a questo versetto veterotestamentario, privandolo, tuttavia, del suo contesto, dal quale sarebbe risultato evidente che l’iscrizione del cuore è riferita non alle parole di fede, ad un eventuale kerygma, ma alla legge stessa: «la quale, ci viene qui spiegato, non giunge all’uomo da una lontananza celeste, ma piuttosto egli la sente erompere nel proprio cuore e, di lì, premere sulle proprie labbra»43. Nel dire ciò non va altresì trascurato il valore del mettere in pratica con cui termina il versetto veterotestamentario, poiché: «la parola di Dio che da un comandamento all’uomo gli parla in modo 42. «Questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» Dt. 30,44. 43. M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, cit., p. 100.

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tale che egli la sente erompere nel proprio cuore e premere sulle proprie labbra come una parola che vuole essere messa in pratica»44. Il fatto che Paolo sottovaluti e trascuri proprio la ricaduta pratica presente nel versetto, ha per Buber un significato paradossale, sottolineato anche con una certa ironia, se si pensa all’importanza che assume nella predicazione paolina il tema della “legge del cuore” (Rm. 2,4 e ss.). È come se Paolo riprendesse questo tema, caro al profetismo ebraico, (cfr. Ger 31,33 e ss.), quando gli è funzionale ad estendere la portata universalistica del suo messaggio, ma lo snaturasse quando parla di coloro da cui lo ha attinto, per marcare la distanza tra il nascente cristianesimo e la matrice ebraica. La cristologia politica paolina opera dunque su due fronti: l’estensione della salvezza ai pagani, non facendoli passare per il giudaismo, e, allo stesso tempo, la riduzione, se non il totale annullamento, del valore salvifico della legge mosaica, affinché gli ebrei non trovino rifugio in essa e si aprano alla fede in Cristo45. Per evitare confusioni concettuali, secondo Buber, occorre ritornare alla dimensione autentica della spiritualità ebraica cosi sintetizzata: «l’adempimento del comandamento divino è valido se la persona vi si impegna con tutte le proprie capacità e con tutta la propria intenzione di credente»46, per interpretare correttamente il rapporto tra il credente ebreo e la Torah. Il problema nasce, per il teologo, fin dalla traduzione in categorie concettuali greche del termine ebraico. Torah, infatti, non è semplicemente “legge”, cioè un qualcosa di rigidamente oggettivo, al di fuori del rapporto di fede. Essa comprende certamente delle leggi, delle prescrizioni oggettive, ma ogni imperativo trae la propria forza dal richiamo costante a chi

44. Ibidem. 45. Ivi, p. 101. 46. Ivi, p. 103.

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ha donato quelle determinate direttive; traducendola come “legge” la si priva del suo carattere dinamico e vitale, utile a mantenere la polarità paolina tra legge e fede, ma lontana dal senso autentico conferitole dalla spiritualità ebraica. Buber avverte come un pericolo interno alla stessa fede ebraica, quindi non solo inerente ai fraintendimenti del paolinismo, il possibile irrigidimento del concetto di Torah in senso giuridico-prescrittivo e sottolinea più volte la necessità di comprenderne il senso vivo di parola che richiama ad una fedeltà nata dall’ascolto, in un’intima dimensione dialettica di essere e avere di cui si nutre la spiritualità ebraica. In essa non va dimenticato il carattere pratico, poiché il prestare ascolto alla volontà divina, espressa nella Torah, implica sempre la necessità di adempierla, applicandola all’intera dimensione dell’esistenza umana. Dunque è all’interno dello stesso giudaismo che nasce l’esigenza di preservare la fede dal pericolo di un’applicazione esteriore del comando divino, che non implichi l’abbandono alla sua volontà e non trovi in essa il senso e la giustificazione del comportamento prescritto47. In tal senso Paolo, oltre a semplificare il concetto di Torah con l’idea greca di legge, non fa altro che estendere a tutte le correnti del giudaismo del suo tempo la polemica interna contro l’interpretazione esteriore e legalistica della Torah. In questa polemica si inserisce, per Buber, anche Gesù nella sua critica ai farisei (Mt. 23,13 e ss.; Lc. 11,39 e ss.). La polemica non è intrisa di moralismo, volto a stigmatizzare il lassismo religioso di una parte del popolo, ma punta ad evidenziare quanto i farisei concepiscano i comandamenti divini come una pratica esteriore. Gesù non vuole abolire la Torah, bensì intende recuperarne il senso originario, non contrapponendosi all’ebraismo tout court, ma all’uso erroneo e forviante delle sue

47. Ivi, pp. 104-105.

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prescrizioni48. Il senso autentico della polemica poggia sull’idea ebraica dell’“orientamento del cuore”. Esso è concepito come il centro pulsionale della vita umana, per cui, per evitare che i suoi impulsi trascinino l’uomo vorticosamente alla rovina, è necessario orientarlo verso la volontà di Dio attraverso la Torah. L’adempimento dipende, dunque, non dalla qualità delle azioni compiute o dei comandamenti osservati, bensì dall’orientamento impresso al cuore nel compimento. Ciò che nella polemica non viene mai messo in dubbio è la possibilità di adempimento della Torah, cosa che, al contrario, secondo Buber, fa Paolo, marcando su questo punto non solo la sua distanza dalla tradizione ebraica, ma anche dalle intenzioni dell’insegnamento di Gesù. Egli fa infatti venire meno l’aspetto qualitativo dell’adempimento, cioè l’importanza dell’orientamento del cuore, per insistere, invece, sull’interpretazione prestazionale e quantitativa: «dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge»49. Buber commenta questo versetto facendo notare come Paolo proponga una visione “monolitica” e indivisibile della Torah, che non permette alcuna selezione, fondando su tale interpretazione erronea l’impossibilità dell’adempimento. Egli dunque non riesce a distinguere proprio quegli elementi che animano la polemica, genuinamente giudaica, tra Gesù e i farisei, cioè l’adempimento interiore sorretto dal cuore e dalla fede da, quello meramente esteriore, legato ad una visione prescrittiva-prestazionale della Torah50. L’elemento decisivo, per Buber, non è tanto il fatto che Paolo ritenga inadempibile la Torah, ma che veda in questa peculiarità un fattore essenziale per far emergere il peccato. Anche se

48. Ivi, pp. 107-108. 49. Gal. 5,3. Corsivo mio. 50. M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, cit., p. 102.

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l’Apostolo, come abbiamo evidenziato attraverso Bultmann, identifica la radice del peccato nella volontà dell’uomo di farsi vanto della propria osservanza della legge (sottolineatura molto vicina all’idea ebraica di orientamento del cuore più di quanto lo stesso Buber riesca ad ammettere e cogliere), non risolve, per il teologo, il punto cruciale della questione: una legge che, in termini paolini, sembra donata dal legislatore divino al solo scopo di essere inefficace. Tale visione può essere compresa solo tenendo sullo sfondo una concezione teocentrica della storia in base alla quale tale mistero, predeterminato da Dio stesso, sarebbe rimasto nascosto per generazioni fino alla rivelazione totale fatta coincidere con Gesù51 (Rm. 16,25). Anche Buber dunque, al pari di Bultmann, collega la visione storica di Paolo con quella escatologica, ma in maniera differente. Il mistero del peccato derivante dall’osservanza della legge, che spiega altresì il mancato riconoscimento di Gesù come Messia e la sua condanna a morte, è funzionale alla fine del vecchio eone e all’apertura del nuovo operata da Cristo. La Torah, interpretata in quest’ottica, non è più la testimonianza viva del rapporto di fedeltà tra Israele e il suo Dio, ma un qualcosa che, in conformità al disegno divino, offre al peccato l’occasione di suscitare nell’uomo il desiderio di auto-glorificazione. Essa diviene strumento per la moltiplicazione della trasgressione, affinché possa sovrabbondare la grazia (Rm. 5,20). Paolo legge tutto in funzione della venuta di Cristo e del piano di redenzione universale realizzato da Dio attraverso di lui. In questa prospettiva gli ebrei svolgono un ruolo fondamentale, in quanto con il mancato riconoscimento di Cristo e con l’indurimento dei loro cuori (Rm. 11,7), hanno inconsapevolmente permesso a Dio di estendere la propria benedizione sull’intera umanità52 (Rm. 11,24). Buber nota come Paolo, per dare 51. Ivi, p. 124. 52. Ivi, pp. 125-126.

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linearità alla propria concezione della storia della salvezza, si serva di concetti attinti dalla tradizione veterotestamentaria, piegandoli a suo favore e, paradossalmente, contro il contesto in cui si svilupparono. In particolare l’idea dell’indurimento del cuore ritorna spesso nell’Antico Testamento, soprattutto durante l’esodo dall’Egitto, come strumento usato da Dio per riportare alla ragione coloro che gli si oppongono. Quando egli si rende conto che il cuore della sua creatura è sordo ai suoi richiami, la fa persistere nel peccato, donandogli una forza maggiore che rinvigorisce la volontà di opposizione, affinché essa giunga al limite, si autodistrugga, scoprendo tutta la sua miseria e il bisogno del perdono di Dio. Nell’Antico Testamento dunque, come è testimoniato dal Libro di Ezechiele (Ez. 2,4; 3,7), l’indurimento del cuore interviene nel rapporto Dio-uomo o Dio-popolo come extrema ratio, quando esso è giunto al limite del pervertimento e si è trasformato in un destino ineluttabile. In Paolo invece la volontà divina di rendere ostinato Israele comincia sul Sinai, nell’atto stesso di consegna della legge, per finire sul Golgota con la crocifissione di Cristo. In questa logica, secondo Buber, non c’è più spazio per il ruolo di guida paterna che caratterizzava il rapporto del Dio veterotestamentario con il suo popolo, perché l’azione divina non si cura più degli uomini e delle generazioni che investe, ma si serve di essi per fini superiori53. Nella contrapposizione paolina tra legge del peccato e legge dello spirito in Rm. 8,2 si evince, per Buber, la stessa forzatura concettuale: per sottolineare il primato della fede in Cristo sull’osservanza della legge, l’Apostolo la svuota della sua componente di fedeltà per amore presente nella dottrina farisaica del Lishmah, da cui “l’orientamento del cuore”, di cui si è detto, trae il suo significato pregnante. Essa può essere tradotta con “per amore delle cose stesse”. Con questo termine si esprime l’idea che 53. Ivi, pp. 128-129.

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l’osservanza di una dottrina vale per se stessa e non per ciò che se ne può ricavare, suggerendo, allo stesso tempo, che il vero interesse alla base dell’adempimento è l’amore per colui che lo comanda. Tale amore per la cosa stessa giunge al cuore del rapporto tra l’ebreo e la Torah, come manifestazione di una relazione diretta con il singolo uomo, non piegata, come in Paolo, a fini superiori, ma vivificata proprio nel dono della legge, affinché produca i suoi effetti attraverso l’adempimento. Per questo Buber afferma: «la Torà non è un qualcosa di oggettivo, di indipendente dalla relazione attuale dell’uomo con Dio, che donerebbe automaticamente la vita a colui che la riceve: la Torà dona la vita solo a colui che riceve la Torà per amore della Torà nella sua realtà viva e dunque nel suo legame con colui che la dona e per amore di Costui»54. Solo se si fa emergere la componente di amore insito nella fedeltà ebraica alla legge si comprende anche, secondo Buber, la preminenza data da Gesù al comandamento dell’amore verso Dio e verso il prossimo sulle altre prescrizioni (Mt. 22,39; Mc. 12,31; Lc. 10,27). La figura del “prossimo” è già presente nell’Antico Testamento come espressione di un rapporto con l’altro da sé, che parte dalla comunione sottesa all’amicizia, fino a giungere all’altro in generale. L’amore prescritto da Dio non è, tuttavia, un semplice comandamento morale, ma la manifestazione di un atto di fede, in quanto dalla gratuità di tale amore è riconoscibile l’appartenenza a Dio. In tal senso non vi è alcuna distanza tra amore e dimostrazione d’amore, poiché l’amore per il prossimo è il riflesso dell’amore per Dio che spinge ad amare tutto ciò che è amato da lui55.

54. Ivi, p. 135. Corsivo mio. 55. Ivi, pp. 113-116. Buber lo fa emergere commentando il cap. 19 del Levitico, in merito alle prescrizioni che regolano il rapporto con il prossimo (cfr. Lv, 19,13 e ss.).

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La questione si complica non poco quando Buber cerca di ricostruire le radici ebraiche del detto di Gesù sull’amore per i nemici (Mt. 5,44), perché se è vero che il richiamo al prestare aiuto al nemico di guerra o a quello personale è presente nell’Antico Testamento (Es. 23,4-5), non si può negare che in alcuni passi della Scrittura ai nemici di Dio è riservato soltanto odio, senza alcuna possibilità di conciliazione56. Buber è consapevole del pericolo di un travisamento in chiave violenta del comandamento dell’amore, ma liquida in poche battute la questione, dicendo che nell’agire degli esaltati e dei fanatici c’è uno snaturare il messaggio di Dio, uno svuotare il legittimo zelo per lui dalla sua essenziale componente di amore. Egli in queste pagine è più interessato a far emergere la continuità concettuale tra l’amore predicato da Gesù e il contesto ebraico di appartenenza, per cui, pur ammettendo che l’insegnamento di Gesù, almeno su questo punto, supera in luminosità la tradizione ebraica, insiste nel sottolineare che esso non sarebbe stato possibile senza la luce, meno appariscente, attinta dal mondo ebraico. Il teologo lo ribadisce attraverso una chiara metafora “geometrica”, dicendo che su questo tema le parole di Gesù sono un ardito arco attraverso il quale si è chiuso un cerchio interno all’ebraismo, invece, dal punto di vista della fede cristiana, si è tracciata un’altra figura: un’iperbole57.

56. La drammaticità e l’attualità della questione, considerato il dilagare del fanatismo religioso nel mondo contemporaneo, è presentata efficacemente, all’interno della più ampia analisi del rapporto tra monoteismo e linguaggio della violenza, da J. Assmann, Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, tr. it. di F. Rigotti, Il Mulino, Bologna 2007, spec. pp. 53-86. 57. M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, cit., pp. 118120.

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È evidente come, anche su questo tema, Buber, come abbiamo già evidenziato tenendo presente le critiche di Taubes, intenda tracciare una linea di continuità tra l’autentica spiritualità ebraica e l’insegnamento di Gesù, vedendo, invece, in Paolo l’origine storica delle trasformazioni, spesso presentate come veri e propri travisamenti o strumentalizzazioni, che hanno segnato la distanza tra le due fedi messe a confronto. Il tema dell’amore è, per Buber, uno dei luoghi concettuali in cui tale distanza si palesa maggiormente, in quanto l’Apostolo si concentra molto sull’amore tra gli appartenenti alla comunità di Cristo e poco su quello degli uomini verso Dio, coltivato nella spontaneità della fede. Buber mira a sottolineare come nel giudaismo l’uomo, come fonte d’amore per Dio, svolge un ruolo fondamentale. L’Antico Testamento è radicale su questo punto, richiama ad un amore totalizzante nella genuinità della relazione di fede: «tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima e con tutte e le forze» (Dt. 6,5). Il Dio veterotestamentario dunque non rende testimonianza da sé, ma vuole l’uomo come suo testimone (Is. 43,10; 44,8). Lo stesso timor di Dio è intriso d’amore (Dt. 10,12), perché se mancasse questa componente il timore diventerebbe idolatria. Tutti i richiami all’amore si riferiscono dunque, come si è evidenziato sin dall’inizio del nostro accostamento al testo buberiano, ad una relazione dialogica tra partner in cui l’uomo, entro i suoi limiti, corrisponde alla potenza dell’amore di Dio58. In Paolo, invece, anche l’amore è letto in chiave escatologica: la manifestazione dell’amore è unidirezionale, in quanto è Dio ad amare l’uomo attraverso la riconciliazione operata da Cristo (Rm. 5,8 e ss.). Ciò emerge ancora con più chiarezza, secondo Buber, se si considera il sentimento opposto: l’ira di Dio perde in Paolo ogni carattere veterotestamentario di corruccio paterno verso il figlio insubordinato (Rm. 9,22), 58. Ivi, pp. 173-174.

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per cui egli afferma: «in tutto questo modo di pensare non c’è spazio per la relazione immediata tra Dio e la sua creatura, quale si poteva ancora vedere nell’Antico Testamento, pur nei momenti di collera estrema: qui Dio non si adira, abbandona l’uomo in preda a quell’entità violenta che è l’ira e lascia che essa la tormenti, fino a che Cristo non comparisca come salvatore»59. Nel dire ciò Buber non intende negare il carattere misericordioso presente nel Dio paolino, ma sottolinea che tale idea non rimanda ad un rapporto immediato tra il creatore e la creatura, bensì ad un disegno superiore di salvezza, in base al quale Dio ha incluso tutti nella collera per avere di tutti misericordia. Da questo punto di vista, osserva il teologo ebreo, l’anima del credente cristiano sembra correre il rischio di essere in balia di un Dio iracondo e distruttore, per poi volgersi al Cristo amorevole e misericordioso; il che espone, qualora tale polarità fosse elevata a dogma, il paolinismo alla possibilità di degenerare in marcionismo60. Buber nota dunque, con accenti più critici rispetto a Bultmann, come l’insistere paolino sulla redenzione rischia di piegare al piano escatologico di salvezza universale anche il senso della creazione e della rivelazione. In ciò il peccato svolge una funzione fondamentale, in quanto, affinché l’uomo sia redento, esso deve giungere a pienezza perché venga espiato. Tuttavia, tale colpa è tanto grande e infinita che l’espiazione può essere operata soltanto da Dio, attraverso il Figlio che assume su di sé i peccati dell’umanità e redime con le sue sofferenze chi crede in lui. La dottrina paolina della redenzione si svi-

59. Ivi, p. 177. 60. Ivi, p. 178. È interessante rilevare come Taubes, pur essendo, come ricordato più volte, molto critico nei confronti dei nessi concettuali sottesi a Due tipi di fede, avverta, seppur non in chiave polemica, lo stesso pericolo di Buber nelle sue ultime lezioni su Paolo (cfr. J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., spec. pp. 107-117).

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luppa mantenendo viva la polarità tra Dio Padre, creatore di un mondo bisognoso di salvezza e il Figlio che lo riconcilia a lui mediante la sofferenza. In ciò l’idea veterotestamentaria dell’uomo che soffre per amore di Dio è stata ribaltata in un Dio che soffre per amore dell’uomo. Buber, pur non nascondendo una certa ammirazione per la gigantesca costellazione di idee religiose tracciata da Paolo, nota come essa sia nata dall’oblio dell’immediatezza del rapporto Dio-uomo, Dio-popolo conservata dal giudaismo. Nella spiritualità ebraica c’è infatti un modo dialogico, più che dialettico, di concepire il nesso tra trascendenza ed attualità, in base al quale l’uomo e Dio non si fondono in un’unione mistica, restano ognuno nella propria alterità; il che non esclude, anzi radicalizza, il mistero irriducibile dell’incontro tra i due. Una relazione in cui Dio non abbandona mai la creatura al suo destino, pur lasciandola libera di esporsi al mondo, non le fa mancare il proprio sostegno61. La componente di fiducia insita nella fede ebraica emerge in modo lampante se si considera come il credente affronta le sofferenze e le prove della vita. Per l’ebreo infatti l’esperienza della sofferenza scombussola inevitabilmente il legame con Dio, facendo nascere legittimamente l’inquietante interrogativo sulla giustizia divina, sul senso ultimo della sofferenza stessa e sul valore della propria fedeltà. La risposta più efficace viene, secondo Buber, dal giudaismo farisaico e non è, a differenza del paolinismo, di natura escatologica. La severità di Dio e la sua grazia, il giudizio e la misericordia, sono sempre insite nel rapporto di fede, attraverso il nesso tra attualità e trascendenza di cui si è già detto. I due aspetti vengono intesi come middot di Dio, cioè non attributi o forze divine, ma modi, modalità di comportamento, atteggiamenti di fondo,

61. Ivi, pp. 184-186.

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sempre all’interno della dinamicità del rapporto uomo-Dio. Il Dio vivente ebraico abbraccia sempre l’intera popolarità di ciò che capita al mondo nel bene e nel male. Per cui dove si manifesta la grazia opera anche la severità e, di conseguenza, ogni atto che, dal punto di vista umano, può sembrare di castigo ha in sé la presenza della misericordia divina e la possibilità della riconciliazione. L’uomo consapevole di tale specificità dell’azione di Dio nel mondo, sperimentata nel rapporto di fede, può persistere con atteggiamento di fiducia, pur nella sofferenza e nell’ingiustizia, perché consapevole del fatto che in essa si manifesta, al contempo e in modo paradossale, la fedeltà di Dio e il suo amore. È chiaro dunque che Buber intende contrapporre alla partizione escatologica paolina tra peccato, in questo eone, e salvezza, inaugurata dalla redenzione di Cristo, da compiersi alla fine dei tempi, nel nuovo, l’unità dinamica di giustizia e grazia insita nell’immediatezza del rapporto con il divino. Nel dire ciò il teologo ebreo sottolinea, tuttavia, che non ci si può rivolgere ad una sola delle middot ignorando le altre; esse implicano un abbandono fiducioso a Dio indipendentemente dal fatto che in un determinato momento prevalga l’una o l’altra, poiché Dio, in virtù di questa unità, come può essere terribile nel giudizio, può essere altrettanto generoso e ricco d’amore nella grazia. Il merito della dottrina farisaica delle middot, per Buber, è quello di aver rinnovato l’emunah, facendole riscoprire la grande fiducia in Dio, alimentata dall’immediatezza del rapporto di fede e obliata, invece, da Paolo con la contrapposizione escatologica tra l’eone presente e quello futuro62. Essa rappresenta, per il teologo ebreo, il punto di maggior distanza tra l’Apostolo e la tradizione in cui si è formato. Egli, partendo dal peccato di Adamo, lo estende a tutta l’umanità,

62. Ivi, pp. 186-188.

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per rendere necessaria la salvezza di Cristo, attraverso la quale si ottiene la remissione e si restaura il rapporto con Dio. Ciò avviene, tuttavia, a scapito dell’immediatezza della relazione di fede, annullata dalla concezione escatologica della storia, in cui i momenti decisivi sono soltanto l’inizio e la fine, mentre il “tempo intermedio” è dominato da un destino ineluttabile, spezzato soltanto da Cristo. Il piano escatologico della salvezza abolisce dunque ogni immediatezza tra uomo-Dio e viene introdotta la funzione mediatrice dello Spirito che intercede per l’uomo presso Dio (Rm. 8,26). La connotazione “pneumatica” data da Paolo al nascente cristianesimo è dunque il modo attraverso cui, pur negando l’immediatezza di matrice ebraica, l’Apostolo ammette una possibilità di dialogo mediato tra l’uomo e Dio63. Buber porta il suo discorso alle estreme conseguenze e con una feconda intuizione coglie il pericolo, gravido di conseguenze per il pensiero moderno, sotteso ad una fede ed ad una religiosità priva della sua costitutiva componente di alterità, quando avverte che dietro l’immagine del Dio di Paolo, o meglio del Paolo interpretato secondo tali categorie storicoescatologiche, si celano già i presupposti della filosofia di Hegel. Infatti se si strappa la concezione storico-escatologica del paolinismo dal contesto di fede in cui è pensata, la si potrebbe trapiantare in un sistema in cui Dio è identificato con la ragione filosofica e, grazie alla propria astuzia, riesce a costringere le potenze storiche entro un piano logico e teleologico predeterminato da perseguire e realizzare64. Tale sottolineatura è utilizzata da Buber in chiave anti-paolina per ribadire la distanza tra il pensiero dell’Apostolo e la tradizione ebraica, ma potrebbe fungere, ai fini del nostro percor-

63. Ivi, pp. 193-194. 64. Ivi, p. 132.

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so, come sprone alla ricerca di un strada “altra” e poco battuta, che non conduca necessariamente alla viziosa circolarità della ragione storica hegeliana. Una via non contra Paolo, ma con Paolo, attraverso la quale si comprenda come l’Apostolo, nell’innestare una nuova fede, non recida, ma coltivi, in modo originale, la radice “altra” della propria matrice ebraica.

2.3 La radice “occultata” del Paolo di Heidegger Se per un verso il passaggio attraverso il confronto tra ebraismo e cristianesimo operato da Buber ci ha permesso di comprendere meglio e dall’interno la specificità della fede ebraica, che non veniva fuori dalle categorie di profezia e compimento con le quali Bultmann interpreta, e in un certo senso semplifica, il rapporto tra le due fedi; dall’altro è apparso evidente come il teologo ebreo insista sulla frattura tra Paolo e Gesù, per far del primo il fondatore della pistis e del secondo un “maestro” ancora interno all’emunah. Il nostro intento è, invece, quello di verificare se sia possibile un “ponte” tra le due esperienze religiose, pur preservando le rispettive differenze. Tale punto d’incontro potrebbe essere proprio la paradossalità della fede ebraica, il suo vivere di prossimità e lontananze, intimità ed estraneità, sofferenze e grazia, attualità e trascendenza, elementi che potrebbero fungere da raccordo proprio perché, come attesta lo stesso Bultmann, sono decisivi e caratterizzanti anche per il cristianesimo, il quale, pur nella novità del suo messaggio, non può non riconoscere che tale dimensione si sia sviluppata nel solco della sua innegabile radice ebraica. Bultmann sostiene infatti che il dono dello Spirito in Paolo (cfr. Gal. 5,16; Rm. 9,12) non indichi alcun possesso sicuro: il cristiano “ha” lo spirito non come un dato di cui disporre, ma come richiamo costante ad un’esistenza autentica. Ciò non implica alcuna pretesa moralistica, ma il semplice richiamo all’appartenenza a Cristo, all’essere in que-

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sto mondo senza piegarsi alle sue logiche, perché chiamati e sempre protesi, dal punto di vista escatologico, verso il futuro della parusia65. Essa non implica un senso di inoperosità o di totale estraneità al mondo nell’attesa del compimento futuro. Paolo lo fa capire chiaramente attraverso la caratterizzazione del “tempo intermedio”, cioè quello che va dalla morte e resurrezione di Cristo, inizio del nuovo eone, al suo “ritorno”. Se la resurrezione di Cristo significa liberazione dal peccato, il cristiano deve mantenersi il più possibile in tale condizione, impegnandosi non tanto nel raggiungimento di un perfezionismo morale, ma evitando il peccato di confidare troppo su di sé, di voler vivere da sé, contando solo sulle proprie forze, senza abbandonarsi radicalmente a Dio. La fede, da questo punto di vista, non è altro che la consapevolezza di non appartenere più a se stessi, ma a Dio (1 Cor. 6,19), per cui l’uomo può tralasciare con fiducia le logiche umane, troppo umane, per aprirsi alla grazia e divenire nuova creatura in Cristo (2 Cor. 5,17). La libertà umana che si apre alla grazia divina sa che essa stessa è dono, non inteso come bene, come possesso stabile, ma come necessità di apertura costante affinché esso si rinnovi costantemente. Il credente dunque non acquista una misteriosa potenza di immortalità, ma la libertà di vivere al servizio di Dio e dell’altro. L’esistenza escatologica, nata dal dono dello Spirito, implica un vivere nel presente anche se si è già proiettati verso il futuro, un essere nel mondo pur essendo escatologicamente demondanizzati (Fil. 3,20). Bultmann lo definisce il paradosso del tempo intermedio perché Paolo non invita mai i cristiani a cercare la fuga mundi, anzi ribadisce che la dimensione propria della fede, nell’attesa del ritorno del Signore, è l’esistenza concreta. I cristiani devono prendere parte alla vita mondana, ma, allo stesso tempo, essere in grado di mantenere la distanza del “come se non” (1 Cor. 17,29-31), ovvero, pur essendo 65. R. Bultmann, Credere e comprendere. Raccolta di articoli, cit., pp. 54 e ss.

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radicati nel presente, la loro esistenza non può arrestarsi a tale dimensione, perché è sempre protesa al futuro della parusia, la quale rappresenta la speranza ultima della vita cristiana66 (Rm. 5,2-5). Il carattere inquietante e paradossale della fede per l’esistenza umana dipende, secondo Bultmann, dall’atto stesso della rivelazione cristiana, dalle peculiarità del suo messaggio. La rivelazione infatti non è una semplice comunicazione noetica, come può essere, ad esempio, la trasmissione di un sapere. Essa è un evento, un puro accadere che situa chi ne è coinvolto in una nuova dimensione esistenziale, per questo essa non informa, ma interpella, mette di fronte ad un’inquietante verità che apre ad una nuova prospettiva di vita, la quale mostra che già dal momento dell’incontro con l’Altro si è all’interno del paradosso escatologico descritto in precedenza. L’esistenza credente non trae dunque forza dall’illusione del possesso di una verità granitica, ma dalla feconda inquietudine derivante dall’esperire la misteriosità del divino, il suo eccedere le logiche del mondo, aprendo ad una dimensione altra che sarà eventuale certezza solo nel compimento futuro, ma che ora va vissuta nella dimensione del non sapere, del non ancora, nell’insecuritas costitutiva della fede67. Tale concetto di rivelazione mantiene un profondo nesso con la predicazione, poiché il kerygma cristiano, una volta ricevuto in dono all’atto della rivelazione, va diffuso e testimoniato. La predicazione implica dunque una comunicazione che non va ridotta ad una semplice spiegazione deduttiva, poiché la forza di ciò che è annunciato è tale da coinvolgere e in un certo senso sconvolgere, l’intera esistenza di chi la riceve. Essa non implica una ricezione passiva, una mera comprensione dei contenuti comunicati, ma un aprirsi nella decisione alla fede in Cristo, uno scegliere di accogliere la sua salvezza; il che comporta, allo 66. Ivi, pp. 697-707. 67. Ivi, pp. 665-668.

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stesso tempo la possibilità di una nuova auto-comprensione della propria esistenza. Dunque lo stesso carattere di accadere, che rappresenta la dimensione propria della rivelazione, caratterizza anche la predicazione in quanto suo compimento. Nella predicazione infatti il kerygma cristiano da semplice “insegnamento” diventa appello diretto, invito all’ascolto e all’apertura all’evento salvifico. Essa è parola posta al servizio dell’altro perché ci si apra alla fede nell’assolutamente Altro e si edifichi la comunità dei credenti68. Il problema che Bultmann individua, senza tuttavia affrontarlo in tutta la sua problematicità, è come poter conciliare il carattere di accadere della rivelazione e della predicazione, la loro costitutiva alterità, con il compito di edificare comunità, che è essenziale per Paolo ed il nascente cristianesimo. Bisogna chiedersi dunque se sia possibile conferire all’edificare un significato “altro” che dia un nuovo senso alla predicazione paolina, non riducendola a pura enunciazione dogmatica finalizzata al proselitismo e, allo stesso tempo, riesca anche ad andare oltre lo schema conflittuale della posizione e dell’affermazione di sistemi di valori che, come si è visto in precedenza, condiziona la lettura “nietzschiana” della teologia politica paolina fatta da Taubes. Ed in ultimo, elemento ancor più decisivo ai fini del nostro percorso, bisogna chiedersi se è possibile accostare tale radice altra della predicazione paolina all’inquietudine del pensiero e della fede ebraica. Questi interrogativi ci spingono ad abbandonare il dettato bultmanniano per rivolgerci al celebre corso di Heidegger, pubblicato con il titolo di Fenomenologia della vita religiosa, perché in queste pagine il filosofo tedesco, confrontandosi con l’Apostolo, finisce col portare allo scoperto la dimensione inquieta della vita cristiana, rintracciandone la radice proprio nella dimensione altra della predicazione paolina. 68. Ivi, pp. 191-194.

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La scelta di inserire Heidegger in un testo che intende interrogarsi sulla fecondità dell’alterità ebraica di primo acchito può apparire azzardata, se non addirittura provocatoria, poiché, anche se il nostro accostamento si limita alle sole pagine in cui il filosofo tedesco si confronta con Paolo, non può non chiamare in causa la spinosa questione dei rapporti di Heidegger con l’ebraismo, divenuta di scottante attualità dopo la recente pubblicazione dei Quaderni neri. Tali scritti hanno portato alla luce il fatto che l’eredità heideggeriana, soprattutto su questi temi, è più scomoda di quanto si sia creduto finora. Rispetto a tale lascito non si può certo restare indifferenti, ma non è altrettanto fruttuoso assumere posizioni estreme di giustificazione in nome di una presunta “nostalgia del padre” o, all’opposto, di totale rifiuto, di recisione decisa e netta di ogni inevitabile legame con il pensiero del filosofo tedesco. Proscrivere o assolvere Heidegger significherebbe infatti coinvolgere, indipendentemente da quale delle due vie si scelga, tutta la storia della filosofia continentale di cui egli stesso è in un certo qual modo un erede scomodo. L’atteggiamento più adeguato e conforme allo spirito interrogante della filosofia ci appare quello di un ritorno problematico ad Heidegger che tenti di riconsiderare l’intero arco del suo pensiero, senza trincerarsi dietro schieramenti conflittuali di assolutori e detrattori69. Tale compito, senza dubbio gravoso, sta impegnando e continuerà ad impegnare gli studiosi per molti anni necessitando di spazi e tempi di approfondimento che vanno ben al di là degli inevitabili confini del nostro testo. Tuttavia un accostamento consapevole ed accorto alle pagine heideggeriane su Paolo non può non tener conto, in tutta la sua problematicità, del dato incontrovertibile che emerge dai Quaderni neri: l’antisemitismo di Heidegger. Tali scritti hanno messo in luce 69. D. Di Cesare, Heidegger & sons. Eredità e futuro di un filosofo, Bollati Boringhieri, Torino 2015, pp. 38-47.

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il fatto che l’adesione del filosofo tedesco al nazismo non può essere circoscritta alla sola parentesi del Rettorato, quasi fosse una scelta opportunistica dettata dalle circostanze, ma va letta come la conseguenza di una precisa scelta ideologica e filosofica che ha nell’antisemitismo il suo punto nodale, in quanto il rapporto con l’ebraismo, la celebre “questione ebraica”, è per Heidegger, come rileva Donatella Di Cesare, una questione filosofica e metafisica che si inserisce entro i confini della storia dell’Essere e del suo oblio70. La sorte dell’ebraismo è dunque legata al destino dell’Essere, poiché il pensiero calcolatore giudaico è legato al predominio dell’ente. L’ebreo diviene dunque il nemico metafisico per eccellenza, perché favorisce l’occultamento dell’essere, si frappone come ostacolo alla ricerca “aurorale” di un nuovo inizio della storia della metafisica e al tentativo del suo superamento71. Heidegger riconduce dunque la Judenfrage entro la Seinfrage. Nei Quaderni neri il filosofo tedesco sviluppa, secondo Di Cesare, una metafisica dell’ebreo in base alla quale egli avanza la pretesa fondamentalista di definirlo. Il risultato è un ebreo metafisico, simbolico e figurale, cui sono astrattamente ed astrusamente applicate delle qualità che lo rendono il polo negativo della storia dell’Essere, l’estremo da scartare, l’estraneo da respingere72. È evidente, dunque, che l’antisemitismo di Heidegger è distante dal biologismo darwinista diffuso dalla vulgata ideologica nazista, perché egli pone la questione sul piano strettamente ontologico, ma tale passaggio non mitiga la posizione del filosofo tedesco e la sua responsabilità, chiamando in causa l’intera storia della filosofia, rispetto alla quale

70. D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I “quaderni neri”, Bollati Boringhieri, Torino 2014, pp. 3-12. 71. Ivi, pp. 98-106. 72. Ivi, pp. 207-211.

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il pensiero ebraico rappresenterebbe la pietra di inciampo e non, come abbiamo già sostenuto e approfondiremo ulteriormente nei prossimi capitoli, un possibile punto di svolta73. Un problema tanto grande e spinoso non può essere esposto in cosi poche battute, necessitando giocoforza di ben più ampi spazi di approfondimento, però è sembrato opportuno accennarlo, seppur brevemente perché esso rappresenta il presupposto imprescindibile per ripensare a come il rapporto problematico ed inquietante di Heidegger con gli ebrei emerga nella Fenomenologia della vita religiosa, proprio attraverso l’accostamento alla figura “mediatrice” di Paolo. La lettura heideggeriana si muove, infatti, all’interno del paradosso di continuità e rottura tra ebraismo e cristianesimo, approfondendo e complicando quanto abbiamo già cercato di far emergere accostandoci a Bultmann e Buber. Soprattutto la Lettera ai Galati è presentata da Heidegger come una via d’accesso privilegiata alla vita del primo cristianesimo. È significativo il fatto che il filosofo tedesco individui nel testo greco l’originale che può essere assunto come base per una reale comprensione del fenomeno e sottolinei il fatto che i veri destinatari della lettera sono gli ebrei, poiché Paolo è in lotta per affermare l’indipendenza del nascente cristianesimo dal contesto ebraico. In questa prima parte della sua interpretazione Heidegger segue la via, già emersa attraverso Bultmann, della frattura tra le due fedi. Egli la colloca in una precisa visione del tempo in base alla quale, nel voler affermare la fine del vecchio eone come la morte e resurrezione di Cristo, e, contestualmente, l’inizio del nuovo, Paolo non può non marcare le distanze da tutto ciò che lo aveva preceduto. Il cristianesimo 73. D. Di Cesare, Heidegger & sons, cit., pp. 83-87. Sul passaggio, all’interno dei Quaderni neri, dal razzismo biologico a quello metafisico, dal concetto di razza a quello di rango, si veda Id., Heidegger e gli ebrei. I “quaderni neri, cit., pp. 131-139.

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paolino, nella Lettera ai Galati, rivela dunque, per il filosofo tedesco, tutta la sua forza auto-fondativa, la volontà di costruirsi una posizione storica autonoma, senza alcun riguardo per le forme di religione precedenti in particolare la tradizione giudaica. In Paolo il cristianesimo si caratterizzerebbe come esperienza originaria di frattura e non di continuità con qualsiasi altra tradizione storica. Paolo è in lotta con il mondo circostante e anche quando si serve di elementi attinti alla tradizione rabbinica lo fa sempre per distanziarsene, per esplicare l’originarietà della propria esperienza religiosa. L’elemento decisivo è il nuovo concetto di legge da liberare da tutte le sovrastrutture cerimoniali rituali e morali per aprirsi al primato della fede. L’obiettivo polemico è ancora una volta l’ebraismo ed anche la nascente comunità ebraico-cristiana. L’Apostolo intende spezzare l’identificazione ritualistica tra l’ebreo e la legge, per fare della fede l’elemento decisivo, in quanto tutto dipende dal come, dall’atteggiamento con cui si compie la legge e non dall’osservanza pedissequa dei precetti (Fil. 3,13). L’argomentazione teologica di Paolo, secondo Heidegger, intende dunque marcare la distanza dal contesto ebraico e lo fa applicando anche a quest’ultimo la propria impostazione concettuale, poiché anche Abramo è considerato come esempio di giustificazione per fede e non di fedeltà alla legge (Gal. 3,6-8). Tale adempimento è presentato come impossibile e destinato inesorabilmente al fallimento, per cui la fede viene ad essere l’unica via per la giustificazione. La figura di Paolo è, da tale punto di vista, paradigmatica poiché egli palesa l’autocertezza della nuova fede nella propria vita che rappresenta, allo stesso tempo, una frattura nell’esistenza singola, poiché apre ad una nuova comprensione storica e originaria del proprio sé e del proprio esserci74. 74. M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, tr. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2003, pp. 105-112.

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Sulla scorta di queste pagine Di Cesare si chiede se Heidegger non caratterizzi in tal modo la figura di Paolo al solo scopo di liquidare l’ebraismo e fare del cristianesimo la religione originaria. Un taglio netto, una cesura che può avvenire solo se si tenta di coprire, occultare e rimuovere l’origine semita della religione cristiana. Significativo è infatti il richiamo al greco come Ur-text, non menzionando il fatto che esso rappresenti, a sua volta, la traduzione dell’originale ebraico. Proprio Heidegger, che nell’intero arco della sua opera ha mostrato un interesse quasi ossessivo per la ricerca della vera origine dei fenomeni, qui si arresta ad un “derivato” e non scava oltre. Il filosofo che più di tutti ha insegnato al pensiero contemporaneo a rintracciare l’Ab-grund celato dietro ogni Grund, si arresta in superficie, piuttosto che andare a fondo, al fondo originario del dettato paolino, si affretta a ricoprirne l’origine, non la sonda ulteriormente. La mossa di Heidegger ha dunque un singolare valore teologico: separare il greco dall’ebraico vuol dire dividere il Nuovo dall’Antico Testamento, escludere la Torah dalla Bibbia, limitando la rivelazione e l’ambito della fede al solo cristianesimo, non riconoscendo il valore originario della fede e del pensiero ebraico75. Se da una parte Heidegger sembra inserirsi nella tradizione teologica che insiste sulla frattura tra le due fedi accentuandone la distanza, dall’altra sembra riavvicinarle inconsapevolmente nella sua interpretazione delle due Lettere ai Tessalonicesi. Già la sola caratterizzazione generale della fede cristiana non sembra molto lontana dalla dimensione “altra” della fede ebraica su cui stiamo insistendo sin dall’inizio del nostro percorso. Il cristianesimo, per Heidegger, non offre una beatitudine definitiva, bensì trasmette l’inquietudine per l’attuazione

75. D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I “quaderni neri”, cit., pp. 263-266. Cfr. Id., Heidegger & sons, cit., pp. 90-92.

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del suo messaggio nel presente e per il suo compimento nel futuro. Il cristianesimo fa della redenzione un principio esistenziale che abitua alla lotta, al morire costantemente con Cristo, poiché chi riconosce in lui il Messia, procede verso una nuova meta escatologica, ma nel farlo non è esente dal vivere l’inquietudine sottesa alla speranza di tale compimento76. Questa componente emerge con chiarezza, secondo il filosofo tedesco, dalla predicazione paolina. Tuttavia bisogna comprendere, sin dalle battute iniziali, che essa va intesa non come semplice enunciazione dogmatica o prescrittiva, ma come richiamo all’effettività della vita cristiana, al suo realizzarsi in un dato tempo, in un determinato momento storico e nel suo incarnarsi in scelte e decisioni. La predicazione di Paolo è pertanto una comunicazione esistenziale alla comunità. Egli intende mostrare ai chiamati il Vangelo come forza che spinge all’attuazione della fede, per cui chi vive secondo il messaggio di Cristo è chiamato alla cura perdurante, a mostrare nella vita effettiva l’autenticità della fede che non poggia sulla sapienza umana (1 Cor. 2,4-5), ma solo sulla speranza che viene da Cristo77. Bisogna cogliere dunque le coordinate esistenziali entro cui Paolo si muove nel suo rivolgersi ai Tessalonicesi. Egli non è un comune predicatore errante, perché già nell’atto di stilare o dettare le lettere deve tener presente il mondo degli altri, il contesto di vita effettiva, l’ambiente circostante (Umgembung), in cui le sue parole andranno ad inserirsi. La datità del mondo, l’inevitabile incontro e confronto tra il proprio sé e il mondo degli altri è un fattore decisivo anche per il suo messaggio. Egli non persegue l’ideale di una costruzione e di una comunicazione teoretica calata dall’alto, ma affronta tutta la

76. M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit., p. 172. 77. Ivi, pp. 181-182.

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problematicità legata all’originarietà dell’assolutamente storico, nella sua irripetibilità, per cui il come, la domanda metodologica sulla comunicazione implicata nella predicazione assume una grande rilevanza. La necessità di confrontarsi con l’altro e con il suo mondo comporta infatti l’accettazione di una costitutiva molteplicità e pluralità dell’esposizione e della comunicazione che non lascia spazio ad una direzionalità e ad un ordine univoco e uniforme. Non c’è e non vi può essere alcuna unità logico-formale, nessun ordinamento precostituito a cui conformarsi. La stessa natura “altra” del linguaggio si ribella a ciò, non ammette la chiusura di tale esposizione entro i rigidi confini dell’egoicità, perché è pensata, sin dall’origine, come un andare incontro all’altro. Il linguaggio, in virtù della situazione altra in cui si inserisce, perde il suo senso di staticità, per aprirsi ad una concezione dinamica che è anche al di là della semplice alternativa statico-dinamica. Esso dipende dal tempo della vita effettiva e dal contesto della sua attuazione, che implica un paradossale connubio di molteplicità ed unità, irriducibile al solo predominio di uno dei due termini. In altre parole, è la relazionalità stessa della situazione concreta in cui Paolo si inserisce a condizionare le modalità della sua predicazione, il suo stesso linguaggio78. È in quest’ottica non univoca, ma di reciproca alterità che bisogna comprendere il rapporto di Paolo con i Tessalonicesi. Non è solo attraverso la predicazione dell’apostolo che essi sono divenuti comuni-

78. Ivi, pp. 126-133. È evidente dunque che Heidegger veda nel linguaggio un via verso la dimensione “altra” della fede, ma è altrettanto singolare che egli non colga la sua prossimità alla dimensione profetica del linguaggio, essenziale per il pensiero ebraico (Sul tema cfr. M. Zarader, Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, tr. it di M. Marassi, Vita e Pensiero, Milano 1995, pp. 43-68). Ritorneremo su questo punto fondamentale per lo sviluppo del nostro percorso attraverso Lèvinas, il quale invece fa della dimensione profetica del linguaggio, attinta dalla tradizione ebraica, la via d’uscita dall’egoicità (Cfr. §5.2 e §5.3).

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tà, ma il loro stesso essere stati chiamati da Cristo influisce e rinsalda l’essere divenuto, la chiamata dello stesso Paolo (1 Ts. 1,5-7 e ss.; 2,13-15). L’Apostolo comunica un sapere del tutto diverso da quelli mondani, un sapere non dogmatico, non chiuso in se stesso, che per attuarsi ha bisogno della costante presenza dell’altro. Egli annuncia che la fede non si esaurisce nel semplice volgersi verso Dio, ma necessita dell’andare incontro all’altro da sé per sperare insieme a lui. Heidegger può così affermare: «il sapere circa il proprio essere divenuti è l’inizio e l’origine della teologia»79. Da ciò può derivare una gioia che non è mai sinonimo di totale e appagante appartenenza a Dio, ma implica un’accettazione dell’inquietudine della vita cristiana, dipendente, a sua volta, da un radicale cambiamento di vita e dall’accoglienza del divenire proprio ed altrui. Se nella Prima Lettera ai Tessalonicesi non mancano i riferimenti al volgersi verso Dio (cfr. 1 Ts. 1,9-10), essi vanno intesi non come se si trattasse di un oggetto di speculazione, perché in tal caso verrebbe meno lo scopo principale del dettato paolino, ovvero l’esortazione ad una vita cristiana autentica. Egli sembra rivolgere tale invito innanzitutto a se stesso, dicendo che il suo stesso essere apostolo dipende dalla saldezza della fede dei Tessalonicesi, rimettendosi al loro destino comunitario (1 Ts. 3,8-10). Questi ultimi costituiscono per lui una speranza, non nel senso umano di chi confida nella forza dell’altro, ma in quello escatologico ed extra mondano dell’attesa del ritorno del Signore alla fine dei tempi, che spinge a persistere persino nelle angustie della vita80. Heidegger dunque interpreta anche la Prima Lettera ai Tessalonicesi come una lotta per l’affermazione della nuova fede, ma vi aggiunge un elemento decisivo, assente in precedenza, ovvero la cura per l’altro. Una dimensione inquietante, ma necessaria per un autentico cammino

79. Ivi, p. 135. 80. Ivi, pp. 137-138.

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nella notte verso il tempo della fine (1 Ts. 2,17-19). L’insicurezza è perciò decisiva nella vita cristiana e muta radicalmente il senso della predicazione, che non può essere ridotta a mera assimilazione di contenuti dogmatici, perché l’annuncio cristiano non lascia riposare, invita alla responsabilità verso l’altro, ad andare incontro all’altro per comunicarsi reciprocamente la centralità del Vangelo nella vita, seguendo l’esempio di Paolo nel rapporto con le sue comunità. La verità della predicazione paolina è dunque nell’accoglienza che i credenti fanno del suo messaggio; è la loro apertura e non un principio di autorità a renderlo “vero” ed è in quest’ottica che va letto il suo apostolato, il suo costruire comunità. Il linguaggio di Paolo edifica solo in virtù dell’accoglienza offerta da altri. È l’apertura alla dimensione “altra”, all’ascolto accogliente che invera la predicazione. È una parola sempre incerta, perché segnata inevitabilmente dalle tribolazioni della vita, una parola che non consola, che non toglie la sofferenza, ma che, al contrario, agita ed inquieta, perché la fede autentica è tutto tranne che assicurazione e certezza81. L’altro grande tema delle pagine heideggeriane su Paolo è la parusia. Egli ritiene opportuno distinguere il significato veterotestamentario da quello cristiano precisando che non si tratta dell’avvento del Signore nel giudizio finale, ma del ritorno di Cristo già manifestatosi come Messia e specifica, senza approfondire ulteriormente le differenze, che con il cristianesimo la struttura di tale concetto muta La parusia cristiana, secondo il filosofo tedesco, indica una speranza radicalmente diversa da ogni attesa, sottintendendo con ciò quella ebraica, poiché apre ad una visione del tempo come attimo82, alla para81. G. Rossè, V. Vitiello, Paolo e l’Europa. Cristianesimo e filosofia, cit., pp. 236-237. 82. Torneremo sulla centralità dell’attimo nel messianesimo ebraico attraverso Rosenzweig, il quale mostra, proprio su tale concetto, la paradossale

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dossale congiunzione di chronos e kairos. Una concezione del tempo in cui si può sperare nel ritorno del Signore, ma non si può mai sapere quando ciò accadrà. La speranza messianica dunque non placa, semmai accentua, il carattere inquieto della vita cristiana e coloro che traggono pace e sicurezza da essa mostrano soltanto il loro essere attaccati alle logiche del mondo. La parusia sarà per questi ultimi un evento rovinoso e doloroso come le doglie del parto (1 Ts. 5,3). Coloro che invece vivono alla luce della speranza cristiana si fanno carico dell’inquietudine sottesa ad essa, cercando di viverla fino in fondo, non dormono come gli altri ma restano svegli e sobri (1 Ts. 5,6). In questi versetti Heidegger ritrova il senso del “quando” della visione escatologica cristiana e in particolare di ciò che, attraverso Bultmann, avevamo definito il tempo intermedio, per cui commenta: «si tratta di un tempo senza un proprio ordine e senza punti fissi. È impossibile cogliere questa temporalità in base a un qualsiasi concetto obiettivo di tempo. Il “quando” (Das Wann) non è in nessuno modo concepibile in termini obiettivi»83. È uno dei punti in cui l’interpretazione heideggeriana di Paolo mostra la paradossale vicinanza tra il tempo cristiano e quello ebraico, al punto tale che, come sarà evidente accostandoci al pensiero di Rosenzweig, tale definizione potrebbe essere utilizzata anche per caratterizzare il tempo dell’attesa veterotestamentaria senza mutarne il significato sostanziale. Heidegger però sembra avvertire tale prossimità concettuale come un pericolo, provvedendo subito allo smarcamento, citando rapidamente e senza ulteriori approfondimenti, il IV libro di Esdra, ma sottolineando che: «l’indirizzo escatologico fondamentale è già tardo-ebraico e la co-

affinità, non colta da Heidegger, tra il messianesimo ebraico e quello cristiano, facendone uno dei punti di contatto tra le due fedi (Cfr. §4.3 e §4.4). 83. M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit., p. 145. Corsivo mio.

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scienza cristiana ne costituisce una trasformazione peculiare»84. Per il filosofo tedesco è più importante ribadire la costante insicurezza della vita cristiana, come riflesso dell’incertezza della vita effettiva. Tale elemento non è casuale, bensì necessario perché da esso dipende l’autenticità della speranza cristiana, il senso profondo del “quando” della parusia. Paolo esorta dunque i Tessalonicesi ad evitare anche il pericolo dell’entusiasmo sacro, della smania per la salvezza, per cui il richiamo alla veglia e alla sobrietà intende evidenziare come il cristiano debba vivere nel mondo senza attaccarsi alle sue logiche per non rimanerne fatalmente impantanato. Il tema ritorna nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi poiché Paolo teme che il suo messaggio possa essere stato frainteso e che possano sorgere degli atteggiamenti scorretti all’interno della comunità. L’attesa da lui esposta sembra infatti troppo gravosa per essere sopportata dai credenti e il modo in cui essi la vivono, seppur saldi nella fede e nell’amore, non sembra attenuare la loro angustia, fino a spingerli ad un passo dalla disperazione. L’Apostolo, coerentemente con quanto detto nella lettera precedente, non cerca di offrire ai Tessalonicesi facili consolazioni, anzi ribadisce che tale stato d’animo attesta il senso genuino e autentico della fede (2 Ts. 1,5). È proprio nel momento dell’angustia che bisogna darsi da fare, persistere nella fede per dimostrare di essere degni della chiamata del Signore. Tale atteggiamento è contrapposto a quello di chi, con il pretesto della parusia, si crogiola nell’inattività e smette persino di lavorare (2 Ts. 3,11). Questi ultimi non hanno compreso bene il senso dell’attesa cristiana, lo hanno confuso con l’auto84. Ibidem. In questo paradossale gioco di prossimità e distanza tra ebraismo e cristianesimo, che ruota intorno alla figura di Paolo, anche Buber su questo tema cita proprio il IV libro di Esdra per sottolineare invece la continuità tra l’escatologia e l’apocalittica giudaica e il messaggio di Gesù, rispetto alla quale Paolo costituirebbe l’elemento di rottura. Cfr. M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, cit., pp. 179-182.

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rizzazione all’ozio. In essa non c’è mai un invito a trascurare totalmente le cose del mondo, a vivere separati dal mondo e dalle incombenze della vita effettiva. Paolo tenta semmai di palesare il paradosso della vita cristiana: essere nel mondo pur essendo proiettati verso il futuro della speranza escatologica, senza accentuare la dimensione extra-mondana a scapito di quella mondana o viceversa. Si potrebbe pensare che Paolo mitighi la radicalità della sua dottrina, sia divenuto più prudente e tenda a tranquillizzare i membri della comunità. Heidegger fa notare invece che se c’è un cambio di stile e di tenore tra la prima e la seconda lettera è solo per accentuare il carattere inquietante della fede cristiana, per esortare i Tessalonicesi a perseverare nella genuinità della coscienza religiosa85. È evidente dunque che l’interesse di Paolo non è rivolto alla trasmissione di contenuti teoretico-dogmatici, c’è poco spazio per questo tipo di dimostrazioni. L’elemento predominante e decisivo è costituito dal confronto dai comportamenti fondamentali della vita pratica, per cui l’Apostolo intende sempre la sua funzione di predicatore non tanto come espositore di dogmi, ma come interprete onesto delle difficoltà e dei paradossi che investono l’uomo nel suo cammino di fede, i quali non sono mai edulcorati, né sottaciuti, ma mostrati come via verso l’autenticità. In tal senso Heidegger sottolinea che la separazione, se non addirittura la contrapposizione, tra dogmatica e morale è sbagliata, poiché l’escatologia cristiana, sebbene sia, in senso letterale, dottrina delle “cose ultime”, non deve essere limitata al solo ambito teoretico-disciplinare, in quanto riguarda, allo stesso tempo, le situazioni concrete della vita effettiva in cui il credente si trova a vivere. La speranza cristiana non poggia semplicemente sulla fede nell’immortalità, bensì è fiduciosa resistenza nelle circostanze della vita effettiva. È un attendere umile sia nella gioia che nell’afflizione. 85. M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit., pp. 146-149.

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Il fatto che Paolo insista sulla resurrezione dei morti non fa venir meno la priorità accordata ai viventi e la sua costante esortazione all’accoglimento della salvezza. Se dalla fede dipende infatti la speranza nella resurrezione dei morti, da essa dipende anche e soprattutto la forza di tenere salda nel mondo dei viventi tale speranza genuina. Per quanto in Paolo la parusia, il tempo del Messia, sia presentato senza dubbio come migliore del presente, il tempo intermedio dell’attesa, pur essendo terreno è caratterizzato dal “non ancora”, ha già in sé l’apertura al futuro, è “già” comunque futuro. Tuttavia proprio quando Heidegger sembra aver esposto in maniera efficace il rapporto paradossale tra la dimensione mondana ed extra mondana del tempo messianico, si affretta, come già fatto ampiamente in altri punti delle sue lezioni su Paolo, a marcare la distanza rispetto al contesto ebraico in cui è sorto il cristianesimo e di cui l’apostolo inevitabilmente risente. Egli, senza neanche citare fonti a suffragio della sua tesi, sostiene che nell’ebraismo il tempo del Messia è legato alla sola dimensione terrena, definendolo una “teocrazia veterotestamentaria”, misconoscendo in tal modo il senso extra mondano dell’escatologia ebraica86. Pur liquidando in poche righe il problema del legame con la tradizione ebraica, Heidegger riesce a far emergere dal dettato paolino la stessa cifra di paradossale inquietudine che, attraverso Buber, abbiamo riconosciuto nell’ebraismo e che sarà il fil rouge del nostro percorso anche negli

86. Ivi, pp. 198-200. Cercheremo di “colmare” l’omissione di Heidegger nei capitoli successivi rivolgendoci alle riflessioni di Rosenzweig sulla “coscienza messianica”, in cui sarà evidente come una delle peculiarità del messianesimo ebraico sia proprio la paradossale congiunzione di mondano ed extra mondano, legato all’esperire nella preghiera e nella liturgia il “non ancora” del tempo (cfr. §4.3 e §4.4), che Heidegger ha, paradossalmente, ben individuato, relegandolo però ai soli confini del cristianesimo paolino, misconoscendo in tal modo la dipendenza dell’Apostolo dal contesto ebraico d’origine.

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snodi successivi. Il filosofo tedesco li definisce “gli ingegnosi paradossi di Paolo” che garantiscono al nascente cristianesimo di darsi una struttura dottrinale senza mai trascurare i problemi legati all’attuazione del messaggio evangelico nel mondoambiente. È la fatticità stessa della vita effettiva a chiamare in causa il rapporto con la temporalità. Il cristiano vive costantemente nell’ancora soltanto (Das Nur-Noch) che accresce la sua angustia, perché lo abitua a non attaccarsi alle cose del mondo, neanche agli affetti, perché tutto è sempre vissuto nell’inquietante attesa della salvezza futura. La vita cristiana non può dunque procedere in modo lineare, è sempre infranta. Tutti i riferimenti al mondo-ambiente sono necessari, ma provvisori se vissuti alla luce dell’inquietudine della fede. Ciò implica un certo distacco, da non intendersi come totale separazione, poiché se compresa e interpretata in modo autentico la vita cristiana non perde mai la sua vitalità, sebbene il sorgere della vita spirituale non sia mai sinonimo di perfetta armonia. Le necessità e le afflizioni della vita non vengono mai meno, semmai si acuiscono, poiché si stabilizzano ancor più profondamente nell’intimo del credente, il quale trova, tuttavia, nella fede in Cristo il motivo per vegliare e stare sobrio, resistendo alle difficoltà87. Vitiello commenta rilevando come in Paolo avere fede significhi avere speranza, anche e soprattutto nelle tribolazioni. Una speranza sempre inquieta, che non vede (Rm. 8,24). L’annuncio del mistero non lo toglie, non lo porta a completo disvelamento, ma invita a fare dell’esistenza una custodia del mistero stesso. Ciò è possibile solo attingendo a quella dimensione “altra” cui la rivelazione apre, a quel sentire di non essere per sé, ma per altro. Una dimensione esperibile, come aveva capito Heidegger, solo nell’incontro con l’altro e con il suo mondo,

87. Ivi, pp. 163-167.

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poiché: «edifica solo quella parola che, custodendo il mistero della sua provenienza, è aperta al dono dell’accoglienza che potrà avere nelle parole che potranno venirle incontro. Edifica la parola che è speranza di verità, attesa del dono di futuro che altre parole potranno darle accogliendola»88. Un’esperienza dunque sempre ancora da fare, una verità sempre ancora da venire, senza neanche la certezza che venga. Quest’idea di verità toglie all’invito paolino a farsi suoi imitatori, spesso rivolto alle sue comunità, ogni hybris, ogni egocentrismo, poiché la verità predicata è propria solo nella misura in cui è accolta dagli altri. La verità è il dono che gli altri fanno alla parola di Paolo. Vitiello intende radicalizzare l’intenzione heideggeriana, sostenendo che non è l’andare di Paolo incontro agli altri, in cui potrebbe leggersi ancora un residuo di volontarismo e di hybris, l’elemento essenziale, ma, all’opposto, il venire degli altri incontro a Paolo nel ricevere la sua parola. La verità rivelata è dunque dono che nel momento, nell’attimo, sempre solo possibile, è dato dall’incontro dell’altro nel suo venir incontro. Tale radicale alterità è il velo che permette di preservare la misteriosità di Dio, ma anche dell’uomo, il suo non essere per sé ma per altro (1 Cor. 6,19). Distanziarsi da Heidegger è necessario perché in lui domina ancora il paradigma tradizionale della verità occidentale, la subordinazione del mistero alla rivelatività del vero, mentre Paolo invita a seguire la strada opposta: piega la verità al mistero, lo rispetta e lo custodisce nella sua oltranza, nella sua radicale alterità89. C’è da chiedersi, tuttavia, se tale inversione sia possibile e necessaria non solo in virtù della novitas del cristianesimo, evidenziata bene da Bultmann, ma anche dal suo essere in-

88. G. Rossè, V. Vitiello, Paolo e l’Europa. Cristianesimo e filosofia, cit., pp. 241-242. Corsivo mio. 89. Ivi, pp. 251-253.

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fluenzato dalla visione altra del tempo e dall’esistenza tipica del messianesimo ebraico. Heidegger proprio attraverso l’accostamento a Paolo e alla sua radice “altra” avrebbe potuto far emergere la continuità tra le due fedi e il debito dell’Apostolo, e con lui di tutto l’Occidente cristiano, nei confronti dell’ebraismo, ma non lo ha fatto. Il filosofo tedesco, al contrario, come abbiamo evidenziato più volte, quando tale debito sembra emergere inevitabilmente, proprio attraverso la sua finezza ermeneutica, fa di tutto per occultarlo, per marcare una distanza incolmabile. Se a tal proposito Zarader prima della pubblicazione dei Quaderni neri, aveva parlato semplicemente di “debito impensato”90, Donatella Di Cesare, alla luce dell’antisemitismo metafisico di cui si è detto, lo definisce più opportunamente un debito occultato. È come se Heidegger nella sua forsennata ricerca di un altro inizio per la storia dell’Essere s’imbatta improvvisamente nell’ebraismo, ma veda in questa radice uno spettro da cui fuggire, una pietra di inciampo da evitare, se non addirittura rimuovere. Tuttavia, proprio la radicalità del cammino di pensiero tracciato da Heidegger avrebbe dovuto fargli capire che l’ebreo non è un resto, un residuo isolato di cui sbarazzarsi in fretta, ma quell’altro che poteva dischiudergli quell’abissalità estrema, cui lui stesso tendeva91. Gli occultamenti e gli smarcamenti evidenziati, seppur limitandoci alle sole pagine della Fenomenologia della vita religiosa, costituiscono il non detto del pensiero di Heidegger, un filamento nascosto nel suo ripensamento della storia dell’Essere che emerge con maggiore evidenza proprio attraverso la figura di Paolo in cui tale filamento si intreccia con la nascita e la prima diffusione del cristianesimo. Un cammino che conduce, secondo Derrida, ad una spiritualità fon90. M. Zarader, Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, cit., pp. 8-21. 91. D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I “quaderni neri”, cit., pp. 214-217.

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data su una promessa estranea al cristianesimo stesso, pur non essendogli contraria. Un’estraneità che è all’origine del cristianesimo, lo permea e che marca, ab origine, una differenza rispetto alla metafisica platonica e a tutto ciò che da essa è derivato. Una promessa che fa cenno ad un’altra nascita, ad un origine altra, perché eterogenea rispetto all’idea tradizionale ed arcontica dell’origine, essendo irriducibile ad essa. Eterogeneità all’origine, sebbene sia l’origine, che fa vibrare, tiene in tensione e inquieta le forme logiche chiuse ed autoreferenziali del pensiero occidentale. Un sentiero non imboccato da Heidegger che avrebbe potuto portarlo verso ciò che è radicalmente Altro, proprio attraverso il suo accostamento alle origini del cristianesimo92. Oltre agli accostamenti e ai debiti non riconosciuti, che meritano di essere accolti in tutta la loro problematicità e non certo ignorati o taciuti, restano gli interrogativi che l’interpretazione di Heidegger inevitabilmente solleva e fanno parte del suo lascito filosofico. In particolare resta lo sprone a ripensare quell’apertura originaria a partire dalla quale tutto il pensiero occidentale è stato possibile. Quel “a partire da” che essendo velato non è pensabile pienamente, ma rende tutto possibile. Il pensiero sempre a venire di una possibilità originaria, che, pur inserendosi e muovendosi all’interno della tradizione filosofica occidentale, va verso ciò che è totalmente Altro. Non si tratta di accantonare completamente i contributi di tale tradizione, ma di capirne i limiti, gli empasse e di cercare un’altra via d’accesso al pensiero che coinvolga inevitabilmente la possibilità delle metafisiche e delle religioni ed apra a quella possibilità che le rende possibili, conservando sempre l’eterogeneità dell’origine93.

92. J. Derrida, Dello spirito. Heidegger e la questione, tr. it. di G. Zaccaria, SE, Milano 2010, pp. 101-102. 93. Ivi, pp. 104-105.

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Una strada alternativa che tende di preservare, serbare e custodire la dimensione altra del pensiero e dell’esistenza, il suo essere segnata dall’oltranza del mistero, rispetto al quale ogni verità rivela il proprio limite, mettendo fuori gioco ogni certezza. Un pensiero costantemente insicuro, mai tracotante e prevaricante che potrebbe rivelare tutta la sua paradossale fecondità nell’abituarci a vivere fino in fondo tale incertezza, a resistere e persistere, senza facili consolazioni, né drastiche rassegnazioni, nell’inquietudine del nostro tempo.

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III Hegel: trionfo e crisi della ragione

3.1 L’antisemitismo teoretico del giovane Hegel e la figura di Gesù Il pericolo evidenziato da Buber nelle pagine conclusive di Due tipi di fede, ovvero il rischio che un’interpretazione del paolinismo, privata della sua componente “altra” di matrice ebraica, possa aprire la strada al trionfo di una ragione chiusa in se stessa, merita ora un ulteriore e specifico approfondimento. Il teologo ebreo individua infatti un topos cruciale per la storia del pensiero moderno, poiché proprio la filosofia hegeliana, bersaglio del suo breve inciso polemico, rappresenta l’acme dello sviluppo autoreferenziale del logos occidentale e, allo stesso tempo, ne scopre i limiti e la necessità di trovare altre strade per uscire dal vicolo cieco della ragione che fa circolo con se stessa ed è incapace di rapportarsi a ciò che è altro da sé, senza cedere alla tentazione di fagocitarlo entro le rigide maglie logico-dialettiche. Un problema che diventa ancor più incalzante per i pensatori di origine ebraica, in virtù del fatto che il rapporto con l’Altro, vissuto come radicale inquietudine, rappresenta, come si è sottolineato più volte, la cifra imprescindibile della loro spiritualità e della loro tradizione religiosa. Proprio il modo in cui Hegel affronta, fin dagli

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scritti giovanili, la questione dell’alterità ebraica, può fungere da utile pungolo interpretativo per indagare i presupposti e, al contempo, i limiti della sua visione onnicomprensiva della filosofia. L’antisemitismo di cui sono pregne le pagine degli scritti teologici giovanili non va, dunque, semplicemente rigettato come una posizione moralmente deprecabile, ma va affrontato e compreso, come sintomo del fatto che il pensiero di Hegel, fin dalla sua fase embrionale, sviluppi un’avversione radicale verso ogni tipo di alterità che non si lasci ricondurre, attraverso la guida tirannica della ragione, alla quiete pacificata dell’unità che supera e annulla le differenze. È la componente altra della spiritualità ebraica ad infastidire e indispettire il giovane Hegel, il quale fa di tale peculiarità un sinonimo di totale estraneità al mondo e alla civiltà in genere. La chiamata stessa di Abramo (Gen. 12,1-2) è letta come un invito alla separazione, all’estraneazione, alla rottura di tutti i legami di convivenza con gli uomini. Ogni relazione è rigettata e le uniche possibili sono quelle di dominio. Abramo, per il filosofo tedesco, infatti: «fu estraneo alla terra, tanto nei confronti del territorio che degli uomini, tra i quali fu e rimase sempre uno straniero, se pur non tanto indipendente e lontano da loro da non aver bisogno di conoscere qualcosa di loro e aver con loro a che fare»1. Egli è presentato come un estraneo al mondo, il quale aveva come unico appiglio un Dio anch’esso in opposizione alla natura e desideroso di dominarla. Una relazione in cui non era ammessa alcuna componente d’amore, anzi in virtù della sua gelosia, Dio chiese ad Abramo di sacrificargli l’unico figlio per essere certo che nessun altro legame affettivo si potesse frapporre tra loro. Il Dio di Israele avanza dunque un’orribile pretesa di unicità configurandosi come l’unico Dio

1. G. W. F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Id., Scritti teologici giovanili, tr. it. di N. Vaccaro e E. Mirri, Guida, Napoli 1972, p. 378.

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di una nazione eletta2. Se ad Abramo risale la natura estranea degli ebrei, da Mosè dipende invece l’accentuazione del loro carattere servile e incline alla sottomissione. Hegel, infatti, legge nelle pagine veterotestamentarie dedicate alla fuga dall’Egitto l’assenza di una coscienza di popolo, desiderosa di liberarsi dal giogo del Faraone, una totale indolenza priva di eroismo, tipica di un popolo di schiavi che si limita a seguire in modo pedissequo Mosè e le sue disposizioni, per cui non può destare meraviglia il fatto che molti ebrei, provati dalle fatiche del deserto, iniziarono a rimpiangere la condizione servile in Egitto, piuttosto che apprezzare la nuova libertà pagata a caro prezzo. È alla luce della natura indolente e sottomessa degli ebrei che, secondo Hegel, bisogna leggere anche la duplice funzione di Mosè nella storia del suo popolo. Se in un primo momento egli si presentò come liberatore, successivamente, resosi conto di avere a che fare con una nazione passiva, capì che l’unico modo per preservarne lo spirito era diventare legislatore, dando agli ebrei dei precetti cui sottostare senza remore per assecondare la propria indole di schiavi3. Da questo punto di vista Hegel non può non definire triste la condizione ebraica, perché il suo spirito è provato dal peso di precetti e statuti che prescrivono con pedanteria regole cavillose per ogni aspetto della vita. L’intenzione virtuosa che pur sembra riconoscere alla legislazione mosaica è irrigidita in formule morte, per cui la fedeltà alle stesse non può essere motivo di orgoglio perché esse richiedono soltanto un’obbedienza cieca4. La natura estranea e servile degli ebrei trova il suo rifles-

2. Ivi, p. 379. 3. Ivi, pp. 380-381. Cfr. Es. 5,21; 6,9; 12,33-34. 4. G. W. F. Hegel, La positività della religione cristiana, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 258. Hegel riduce dunque il rapporto degli ebrei con la legge mosaica ad una funzione meramente prestazionale, ignorando l’importanza dell’orientamento del cuore, su cui ci siamo soffermati nel capitolo

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so nella devozione ad un Dio estraneo e sfuggente che non accetta immagini di sé, perché non vuole essere incluso in nessun ambito. Un Dio invisibile e vuoto, come deve essere apparso agli occhi di Pompeo quando, incuriosito dalla religiosità ebraica, volle conoscerne le radici e, una volta entrato nel sancta sanctorum del Tempio, si trovò di fronte uno spazio vuoto. Tale episodio è interpretato da Hegel come la testimonianza che l’esperienza del Sacro è estranea alla spiritualità ebraica5. È interessante rilevare come tutti i travisamenti e i giudizi sprezzanti del giovane Hegel sull’ebraismo vertano sull’interpretazione negativa dell’alterità, come mancanza e separazione e non, all’opposto, come tentativo di preservare il carattere misterioso del divino. Ciò è evidente anche da come Hegel interpreta il rapporto degli ebrei con il riposo e la festa (aspetto che avrà un’importanza capitale nella riflessione di Rosenzweig sul tempo e l’eternità proprio in funzione antihegeliana), poiché vi legge la reticenza ad abbandonare l’originaria mentalità da schiavi, segnata dall’oppressione del lavoro, per cui il riposo non può che essere all’insegna dell’ozio completo, del vuoto da consacrare ad un Dio vuoto. La contrapposizione tra giorno festivo e giorno feriale è mantenuta non per ringraziare Dio del lavoro e della vita che in essa si esplica, ma per avere nostalgia e malinconia per il giorno di riposo in cui tutto cessa. In tale concezione si manifesta, per Hegel, ancora una volta, la passività dello spirito ebraico, la natura servile che non avverte altro bisogno se non quello dell’autoconservazione, rendendo la propria vita sicura e priva di affanni6.

precedente, attraverso l’attenzione di Buber per la dottrina del Lisham. Cfr. M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, cit., pp. 133-141. 5. G. W. F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, cit., pp. 282284. 6. Ivi, p. 384.

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L’istinto di autoconservazione ebraico è il riflesso dell’abissalità di uno spirito in cui tutte le qualità positive e vitali – l’amore, l’armonia, la bellezza – sono state attribuite ad un oggetto estraneo, da venerare attraverso l’obbedienza alle sue leggi. In tal modo gli ebrei hanno rinunciato ad ogni nobiltà per divenire servi di un Signore ricco e potente. L’amore così inteso non è libero, non può andare oltre l’obbedienza, non conosce il senso della fedeltà reciproca7. Portando alle estreme conseguenze la sua idea negativa di estraneità, Hegel arriva a sostenere che le verità di fede dell’ebraismo non possono considerarsi propriamente tali, in quanto la verità e la fede esigono la libertà e non la sottomissione a comandi e precetti autoritari. La condanna, piuttosto sommaria, della spiritualità ebraica assume toni ancora più aspri quando Hegel liquida in poche battute la condizione degli ebrei del suo tempo dicendo: «tutte le situazioni in cui via via il popolo ebraico si trovò, fino a quella misera, bassa, abietta in cui è ancora oggi, non sono altro che conseguenze e sviluppi del suo destino originario, forza infinita che in modo invincibile si oppose loro, da cui furono e saranno sempre maltrattati finché non la riappacificheranno con lo spirito della bellezza e non la supereranno con la riconciliazione»8. E aggiunge, poco più avanti, con un giudizio severo e inquietante, visti i drammatici sviluppi della storia ebraica nel secolo successivo: «la grande tragedia del popolo ebraico non è una tragedia greca, non può suscitare né terrore né compassione, poiché questi sentimenti nascono solo dal destino del necessario venir meno di una bella essenza»9. In tale contesto, caratterizzato dal servilismo e dall’estraneità, privo di legami d’amore, Hegel colloca la figura di Gesù, la

7. Ivi, pp. 424-425. 8. Ivi, p. 389. 9. Ivi, p. 393.

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cui novità e superiorità morale emerge proprio in controluce rispetto alla povertà di valori tipica dello spirito ebraico. Egli è la risposta, la possibile via di fuga alla tragicità del destino ebraico di cui si è detto precedentemente. Se lo si inquadra in un paradigma storico fatto di colpi e contraccolpi, come farà anche Nietzsche10, Gesù appare non solo come colui il quale si oppose alla degenerazione morale del suo popolo, ma anche come colui che tentò di risollevarlo cercando di immettere nell’ebraismo proprio quella forza unificante dell’amore che gli era estranea, volendolo trasformare in una religione dell’accoglienza11. Da questo punto di vista l’obiettivo polemico non poteva non essere il precettismo ebraico: «ai precetti che richiedevano semplicemente di servire il signore, una servitù immediata, un’obbedienza senza gioia, letizia ed amore, cioè precetti del culto, Gesù contrappose il loro opposto, un impulso o addirittura un bisogno dell’uomo. Le pratiche religiose sono la cosa più bella, più spirituale; sono lo sforzo di unificare le separazioni che si sono necessariamente sviluppate, di presentare l’unificazione dell’ideale come pienamente esistente, non più in contrapposizione alla realtà; sono quindi il tentativo di esprimere questa unificazione e di confermarla in un agire»12. Ciò che i suoi contemporanei interpretarono come motivo di scandalo rivelava in realtà un profondo amore per la vita, manifestato nel non rinunciare ad alcun bisogno ordinario, sfuggendo alla cavillosità della legge mosaica, cui non volle asservirsi. Tuttavia, Hegel sottolinea che tale caratterizzazione non fa di Gesù una sorta di anarchico ante litteram, che si pro10. Si rilegga il §1.3 per notare la sorprendente prossimità al giovane Hegel nell’impostazione concettuale di fondo, riguardo ai rapporti tra Gesù e il contesto ebraico d’origine. 11. G. W. F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, cit., p. 395. 12. Ivi, p. 396.

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nunciò contro la religione e l’ordine stabilito, ma piuttosto un “riformatore” che lottò contro la superstizione e la riduzione delle esigenze morali a mera osservanza di precetti esteriori. In tal modo, chiosa Hegel: «egli attaccò alle radici il male del suo popolo, l’attaccò cioè nel suo presuntuoso e ostile isolarsi da ogni nazione. Egli dunque voleva guidarlo al Dio di tutti gli uomini, all’amore per tutti gli uomini, al rifiuto della meccanicità priva di amore del suo culto»13. Dunque la contrapposizione di Gesù alla legge mosaica è in realtà un porre l’accento sulla soggettività universale umana, elevandola al di sopra dell’asservimento puntuale e irriflesso a precetti oggettivi. Egli intendeva insegnare la moralità andando oltre la semplice prescrizione e osservanza della legge, per soffermarsi invece sull’intenzione con cui la si porta a compimento14. All’insieme cavilloso di precetti della legge ebraica Gesù contrappose l’unicità del comandamento dell’amore che Hegel interpreta, alla maniera kantiana, come dovere formale, in cui non è espresso un comando universale in opposizione ad uno particolare, ma la libera unicità dello spirito divino. Amare Dio vuol dire, dunque, sentirsi tutt’uno con la vita, sentirsi senza limiti nell’infinito, essere in armonia con l’universale oltre ogni particolare, per cui si può amare se stessi e il prossimo di un amore senza limiti, perché nulla è all’infuori di quest’amore stesso15.

13. G. W. F. Hegel, La positività della religione cristiana, cit., p. 253. 14. G. W. F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, cit., pp. 399400. Occorre ribadire, tuttavia, che tale elemento non è, contrariamente a quanto pensa il giovane Hegel, prerogativa esclusiva della religiosità cristiana, ma è presente in maniera analoga nell’ebraismo, attraverso la dottrina del Lisham, cui abbiamo fatto riferimento nel §2.2 accostandoci al confronto buberiano tra ebraismo e cristianesimo. 15. Ivi, p. 430. È utile notare come, già negli scritti teologici giovanili, emerga l’idea dell’amore cristiano come forza unificante e onnicomprensiva che

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La morale di Gesù non è meramente teorica, ma è incarnata nella sua stessa vita che Hegel illustra sempre tenendo sullo sfondo il contesto ebraico di cui rappresenta, come si è già messo in luce, il tentativo di miglioramento e superamento, attraverso azioni e scelte in aperta antitesi rispetto alla visione dominante. Il suo esempio e la sua vita in generale sono volti ad evidenziare la limitatezza dello spirito ebraico, ingabbiato dai pregiudizi e dalla chiusura nazionalistica, che egli tentò di unificare con il proprio spirito attraverso il quale diffondeva un ideale universale di virtù, oltre ogni particolarismo. Alla luce del superamento e dell’apertura all’universalità bisogna leggere, secondo Hegel, il celebre episodio dell’incontro con la Samaritana (Gv. 4,5-42). La meraviglia della donna dinanzi alla richiesta di Gesù testimonia come quest’ultimo vivesse senza badare ai pregiudizi e alle inimicizie giudaiche, poiché la bontà o meno di un’azione non può fondarsi su una prescrizione valida in un determinato luogo, ma solo sull’amore universale, quale segno distintivo degli adoratori di un Dio Padre universale, la cui venerazione più autentica risiede nel seguire una legge morale secondo ragione16. Dovunque andasse Gesù predicava la necessità del miglioramento morale, il quale non prevedeva l’abolizione della legge mosaica, bensì il rinnovamento dello spirito in essa racchiuso, per far riscoprire il senso del dovere che la anima e che è oltre l’obbedienza pedante ai precetti. La morale insegnata da Gesù, dunque, non può che essere autonoma, la bontà dell’agire deve essere indipendente da castighi o premi, deve valere per se stessa ed avere come unico principio universale l’amore per Dio e per il prossimo,

sarà sviluppata e radicalizzata da Hegel, come si vedrà più avanti, nelle pagine delle Lezioni di filosofia della religione e della Fenomenologia dedicate alla religione rivelata. 16. G. W. F. Hegel, La vita di Gesù, in Scritti teologici giovanili, cit., pp. 144-147.

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la cui massima aspirazione è la realizzazione terrena del Regno, attraverso l’armonia tra la volontà individuale e quella universale17. La palese vicinanza alla morale kantiana trova la più chiara esplicazione nell’imperativo che, per Hegel, muove l’agire di Gesù ed è alla base del suo insegnamento: «agite secondo una massima tale che ciò che voi volete che valga come legge universale tra gli uomini, valga anche per voi: questa è la legge fondamentale della moralità, il contenuto di tutte le legislazioni e dei libri sacri di tutti i popoli»18. È evidente, dunque, che la dottrina di Gesù, agli occhi del giovane Hegel, non appare niente altro che un’etica razionale universale, la quale cozza necessariamente con il particolarismo del contesto ebraico, poiché insegna il primato della legge morale su ogni principio d’autorità e non ha nulla in comune con il perfezionismo farisaico, dietro il quale si nasconde una visione prestazionale della legge e una profonda ipocrisia19. In tale ottica Gesù cercò di svincolare anche l’idea del regno di Dio dalle interpretazioni in chiave politica che circolavano nel mondo ebraico, insistendo sul fatto che il suo Regno non fosse identificabile con una nazione specifica, ma si trattasse di un’istanza spirituale, ovvero dell’aspirazione ad un luogo dello spirito in cui la signoria della legge morale fosse riconosciuta tra tutti gli uomini. Per questo Enrico De Negri, acuto interprete di Hegel, può affermare con pungente ironia: «il Gesù di Hegel somiglia a un pastore protestante seguace di Kant»20 Oltre alla chiara influenza di Kant, bisogna evidenziare la centralità del concetto di positività della religione cristiana, che negli scritti giovanili serve ad Hegel per far risaltare ancora 17. Ivi, pp. 151-153. 18. Ivi, pp. 153-154. 19. Ivi, pp. 156-157 ed anche Ivi, pp. 172-173. 20. E. De Negri, Interpretazione di Hegel, Sansoni, Firenze, 1943, p. 19.

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di più la superiorità della dottrina morale di Gesù rispetto al contesto d’origine e anche il senso del successivo snaturarsi con la sua morte e la nascita del cristianesimo primitivo. Il giovane Hegel ammette infatti che le sue ricerche teologiche non sono mosse dal tentativo di tracciare una sorta di storia del cristianesimo o della Chiesa, ma di capire come alcuni elementi fondanti la dottrina di Gesù abbiano potuto perdere nel corso dei secoli la loro originaria coloritura morale di insegnamento e sprone alla virtù, per divenire verità dogmatiche di una fede positiva21. La figura stessa di Gesù apre all’interrogativo su come un uomo, la cui esistenza è stata segnata inevitabilmente dall’accidentalità, possa aver insegnato e testimoniato con la propria vita verità che successivamente furono considerate eterne, assumendo altresì i connotati dell’autorità. La fede positiva è infatti: «quel sistema di principi religiosi, che per noi deve avere verità perché ci è imposta da un’autorità e cui non possiamo ricusare di sottoporre la nostra fede»22. Le verità che da tale impostazione scaturiscono devono essere considerate oggettive indipendentemente da ogni giudizio possibile. Esse richiedono un abbandono fiducioso ad un oggetto di fede, una sottomissione che è estranea alla ragione e al suo intrinseco bisogno di “chiedere ragione” di ogni dovere. Il tipo di fede derivante da tali presupposti è dunque, secondo Hegel, manchevole, in quanto è priva della coscienza che la ragione è assoluta, in sé perfetta, e nessuna cosa può sussistere al di fuori di essa o imporsi dall’esterno attraverso il principio d’autorità23.

21. G. W. F. Hegel, La positività della religione cristiana, cit., p. 262. 22. Ivi, p. 346. 23. Ivi, pp. 351-352. Queste pagine sono altamente significative per l’interpretazione hegeliana del cristianesimo negli scritti successivi, poiché evidenziano come la fede è subordinata da Hegel alle istanze onnicomprensive della ragione. Elemento che diverrà ancora più chiaro nelle conclusioni del-

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Come si è già detto, ma è utile ribadirlo, Gesù è in origine, per il giovane Hegel, un esempio di morale, il suo insegnamento si fonda sulla legge razionale come strumento per vivere in armonia con la volontà divina. Egli lottò contro la corruzione della sua epoca senza ritenere neanche necessario elevarsi al rango di maestro per conferire validità alla sua verità. Ai fini della trasformazione degli insegnamenti di Gesù in verità dogmatiche, cui si crede per autorità, giocò un ruolo fondamentale il suo contesto di appartenenza: il suo essere ebreo lo portò a doversi confrontare con le speranze e le aspettative messianiche dei suoi contemporanei. Per non contraddirli e guadagnarsi la loro fiducia e attenzione, accettò la funzione di Messia collocando dopo la morte il tempo della manifestazione della sua grandezza24. Ne La Vita di Gesù Hegel è ancora più radicale su questo punto: rigetta in toto ogni “elevazione” messianica, dicendo che l’unico desiderio di Gesù era insegnare l’obbedienza alle leggi della ragione, allontanando da sé ogni ambizione di potenza e gloria, legata alla figura del Messia. Egli si spinge ad affermare che Gesù non esigeva neanche rispetto per la sua persona o fede in lui, purché i suoi seguaci dessero ascolto alla ragione e alla propria coscienza, come unico criterio di accordo con la divinità25. L’antisemitismo del giovane Hegel ritorna in queste pagine, manifestandosi come anti-messianesimo radicale. Egli interpreta infatti la speranza messianica del mondo ebraico come un pregiudizio, figlio dell’ostinazione, come una chimera da sognatori senza cervello, che affonda le sue radici non nell’esperienza religiosa, bensì nel nazionalismo ebraico e nel dele Lezioni di filosofia della religione e in quelle della Fenomenologia, laddove Hegel sottolineerà l’incompiutezza della religione cristiana e il necessario passaggio al Sapere Assoluto. 24. Ivi, pp. 264-266. 25. G. W. F. Hegel, La vita di Gesù, cit., p. 189.

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siderio di riscatto dalla condizione servile. Un’idea, dunque, fortemente condizionata dal particolarismo cui Gesù contrappose una fede universale, non limitata ad un solo popolo, che abbracciava l’intera umanità, abolendo ogni spirito settario26. Dal contrasto tra l’universalismo di Gesù e il particolarismo ebraico nacquero, secondo Hegel, dei fraintendimenti tra lui e i suoi stessi discepoli, in quanto essi erano ancora troppo legati all’attesa giudaica di un Regno mondano, non riuscendo a comprendere la purezza della nuova idea di Regno fondato sul bene, sulla ragione e sull’attuazione della legge morale, per cui il compito originario assegnato loro dal maestro era quello di diffondere la sua idea di regno, adoperandosi con semplicità di cuore, per migliorare la condizione umana, guidando chiunque sulla strada della virtù. Le intenzioni del maestro non furono rispettate dopo la sua morte, poiché i suoi discepoli elevarono la sua dottrina a religione positiva, facendo della sua persona un’autorità e delle sue verità dei principi. In tal modo i discepoli: «poterono far sì che coloro i quali abbracciarono e propagarono la sua religione fondassero la conoscenza della volontà divina e l’obbligo di obbedire a essa soltanto sull’autorità di Gesù, in modo da presentare il riconoscimento di questa autorità come parte della volontà divina e quindi come un dovere»27. Ciò comportò una diminuzione dell’importanza della ragione nell’ambito della fede, poiché essa divenne da legislatrice della legge morale, una facoltà semplicemente ricettiva, in quanto le verità di Gesù iniziarono ad essere credute soltanto in virtù della fede nella sua autorità. La contraddizione interna al cristianesimo primitivo è l’aver trasformato una dottrina morale fondata sull’universalità della ragione in una fede positiva, alla cui base vi è invece il sot-

26. Ivi, pp. 192-193. 27. G. W. F. Hegel, La positività della religione cristiana, cit., p. 273.

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tostare irriflesso alla verità di un’autorità precostituita. Tale trasformazione rappresenta un passo indietro rispetto alla volontà riformatrice di Gesù, poiché: «la chiesa non si è limitata a prescrivere un insieme di azioni esterne con cui da un lato dobbiamo immediatamente onorare la divinità e acquistarne il favore, dall’altro dobbiamo creare quella predisposizione e direzione del nostro spirito che essa richiede da noi; ma essa ci ha anche prescritto in maniera diretta leggi per il nostro modo di pensare, sentire e volere»28. I cristiani in tal modo sono ritornati a quella condizione servile nei confronti della legge, da cui Gesù ha inteso liberare il suo popolo e l’intera umanità. Sebbene Hegel sottolinei che la sostanziale differenza del rapporto con la legge tra ebrei e cristiani consista nella maggiore coercizione dei primi e nell’importanza che ha invece presso i secondi l’intenzione e la disposizione d’animo con cui si compie un’azione, aggiunge: «questa differenza non è tale da realizzare lo scopo della morale e della religione: la moralità; per questa via la chiesa non ha potuto e non può ottenere nient’altro che legalità e una virtù e una pietà meccaniche»29. Per questo Hegel, con evidente rammarico, può chiarire: «la dottrina di Cristo divenne la fede positiva di una setta, e da ciò si svilupparono le conseguenze più importanti tanto per la forma esteriore che per il suo contenuto, che l’hanno allontanata sempre più da ciò che incominciammo ora a ritenere come essenza di ogni vera religione e quindi anche di quella cristiana, ossia dal compito di stabilire nella loro purezza i doveri dell’uomo e gli impulsi morali e di servirsi dell’idea di Dio per mostrare la possibilità del sommo bene»30.

28. Ivi, p. 320. 29. Ivi, p. 321. 30. Ivi, p. 273.

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Il giovane Hegel ha evidenziato, dunque, le contraddizioni interne al cristianesimo primitivo, la sua incapacità di tenere fede a ciò che promette, o meglio di restare fedele alle intenzioni originarie di Gesù. Il radicamento della Chiesa attorno­ all’autorità sembra snaturare la moralità fondata sull’agire secondo ragione e non sull’obbedienza. I suoi giudizi acuti e aspri contro la positività del cristianesimo, ancora influenzati dallo spirito illuminista, rivelano altresì un’attenzione critica verso il problema, centrale negli scritti successivi, di conciliare universale e particolare, non facendo affidamento su alcuna autorità esterna, se non sui principi interni alla ragione stessa e sulla sua forza unificante. Ciò rappresenterà per Hegel lo sprone del ripensamento “filosofico” del cristianesimo di cui ci occuperemo nel paragrafo successivo. È utile, tuttavia, notare come, fin da ora, l’idea della necessità di un’interpretazione secondo ragione della religione vada lentamente maturando. Il primo elemento significativo è, come si è detto, la caratterizzazione particolaristica della fede ebraica, da cui si comprende anche la preoccupazione hegeliana riguardo ad un cristianesimo fondato sull’autorità e non sulla ragione, che rischia di essere giudaizzato se ricade nell’osservanza pedante e servile dei precetti della legge31. Il secondo elemento decisivo è l’interpretazione universalistica e unificante del comandamento dell’amore, centrale non solo per capire la specificità conferita da Hegel al messaggio di Gesù rispetto al contesto in cui sorge, ma anche per evidenziare quanto l’intenzione di preservare il carattere unitario del cristianesimo, centrale nelle Lezioni di filosofia della religione e nella Fenomenologia, inizia a delinearsi, anche se in modo embrionale, già negli scritti giovanili. Le ricerche teologiche del giovane Hegel hanno infatti come principio unificante proprio l’amore, inteso come forza vitale totalizzante, un principio presente nella singolarità 31. E. De Negri, Interpretazione di Hegel, cit., pp. 38-39.

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umana da cui dipende la capacità di rapportarsi all’universale. Esso non costituisce un fattore psicologistico, ma rappresenta la possibilità di istituire legami di perfetta reciprocità tra i viventi (elemento che, come si è visto fin dall’inizio, secondo Hegel, manca allo spirito ebraico), senza lasciare gli uni per gli altri alcun residuo al di fuori di tale relazionalità. Tale amore, insegnato originariamente da Gesù, è un tutt’uno con la vita, è una forza universale capace di affratellare gli uomini e di conciliarli con la natura e con Dio. In esso il giovane Hegel ravvisa un principio cosmico, fonte di ogni singolarità, lasciando trasparire la vocazione sistemica e sistematica della propria filosofia, la cui trama non è, tuttavia, ancora ben strutturata32.

3.2 Cristianesimo filosofico e secolarizzazione La tendenza unificante che Hegel attribuisce al cristianesimo è cruciale nelle Lezioni di filosofia della religione. Ciò emerge in controluce già nelle poche pagine dedicate all’ebraismo. Hegel presenta la figura di Giobbe come esempio dell’incredulità del popolo ebraico, della scissione interna alla sua fede, incapace di farsi un tutt’uno con Dio e di instaurare con lui un rapporto di armonia. La riprova lampante di tale attitudine alla separazione e alla scissione è per Hegel l’idea di elezione, attraverso cui la religione ebraica e il suo Dio si configurano come votati al particolarismo, al nazionalismo e all’esclusione, a differenza del Dio cristiano che è invece: «il creatore universale e signore del mondo; ma egli deve anche essere universalmente venerato; tutti i popoli debbono conoscerlo e non conservare questo sapere di Dio come loro particolare. La natura di quest’unità vuole che il fine sia di espandere a tutti i popoli la conoscenza del vero Dio sulla terra e che tutti

32. Ivi, pp. 151-158.

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giungano a conoscerlo»33. Il Dio degli ebrei è dunque prigioniero della sua stessa particolarità, incapace di farsi universale e di dare al suo popolo leggi razionali, al cui posto vigono una serie di precetti cavillosi da seguire in maniera pedissequa, nel rispetto di un’autorità e con atteggiamento di sottomissione. Hegel arriva addirittura a dire che nell’osservanza della legge mosaica non vi è alcun atto di libertà o fedeltà, ma l’obbedienza è legata soltanto allo spirito di autoconservazione del popolo ebraico34. Nelle Lezioni di filosofia della religione emerge, con ancor più chiarezza che negli scritti giovanili, la natura filosofica dell’avversione di Hegel per gli ebrei. Essi rappresentano una figura di rottura, di scissione, un elemento differenziale irrisolto e irrisolvibile che ostacola la riconduzione ad unità di ogni differenza, la riconquista dell’intero, cui tende tutta l’interpretazione dialettica della religione e che troverà poi nella Fenomenologia l’ulteriore radicalizzazione e sviluppo sistematico35. La volontà di ricondurre il dispiegarsi dialettico della religione ad unità, obliando ogni alterità, è palese già dalle precisazioni metodologiche che precedono la trattazione puntuale del cristianesimo. La religione rivelata è infatti presentata come quella in cui Dio si manifesta in pienezza, come riflesso del movimento dialettico dello Spirito, diviene oggetto a se stesso in tutta la sua universalità. Anticipando sinteticamente il nesso logico tra i tre momenti dello sviluppo della religione cristiana (il Regno del Padre, del Figlio e dello Spirito), Hegel illustra tale movimento caratterizzandolo sempre attraverso il ritorno di ogni divisione, di ogni alterità entro sé, un proce-

33. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, vol. II, tr. it. di E. Oberti e G. Borruso, Zanichelli, Bologna 1973, p. 76. 34. Ivi, pp. 77-86. 35. E. De Negri, Interpretazione di Hegel, cit., p. 133.

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dere graduale della verità religiosa che trova la sua quiete e il suo compimento nella circolarità dello spirito. Dunque la sua vitalità si manifesta nel suo porsi come finito, superandosi e inverandosi nell’infinito, attraverso la mediazione operata da Cristo, fino a raggiungere il suo massimo sviluppo e compimento nello spirito incarnatosi nella comunità dei credenti36. L’insistere sulla funzione centrale dello spirito nella dialettica interna alla religione rivelata, non porta Hegel a misconoscere l’importanza dell’elemento sensibile (ribadita dal cristianesimo con il dogma dell’incarnazione), ma il credente non può arrestarsi ad essa, perché rappresenta solo il lato esteriore di un più profondo processo interiore, che ha come scopo la comprensione e il ritorno all’unità dello spirito, cosi come i miracoli rappresentano soltanto la conferma esteriore di una fede che deve essere già salda di per sé37. Dalla preminenza dell’elemento spirituale sul sensibile dipende anche la necessità di interpretare la religione rivelata con categorie filosofiche, in quanto: «la testimonianza dello spirito nel suo più alto modo è il modo della filosofia, cioè che il puro concetto come tale sviluppa da sé, senza presupposizioni, la verità e sviluppandola la riconosce e si rende conto per mezzo di questo sviluppo della necessità della verità»38. La filosofia, infatti, nel suo tentativo di comprendere logicamente e dialetticamente il contenuto della religione, non fa altro che inverare il dettato paolino, secondo cui la lettera uccide e lo spirito vivifica (2 Cor. 3,6), poiché porta a conoscenza, rende manifesta l’azione dello spirito. Tali presupposti sono esplicitati fin da subito nelle tre definizioni della religione cristiana che Hegel pone significativamente all’inizio della sua trattazione puntuale. La prima riguarda il suo essere piena manifestazione: «la religio36. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, cit., pp. 229-235. 37. Ivi, pp. 236-238. 38. Ivi, p. 239.

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ne cristiana è la religione della rivelazione. In essa si manifesta ciò che Dio è affinché egli venga conosciuto come è»39, la seconda riguarda invece il suo statuto veritativo che la fa essere perfetto contenuto di coscienza in sé e per sé ed in terzo luogo viene evidenziato il fondamentale carattere unificante in base al quale è: «la religione della riconciliazione del mondo con Dio»40. Dalla prima definizione deriva una conseguenza molto importante per il nostro discorso sull’alterità del divino: la libertà della posizione e della creazione in Dio sono lette come un abbandono all’arbitrio e all’occasione, per cui il problema, già in questa fase preliminare, è eluso, o meglio escluso come estraneo al concetto di Dio. Egli è presentato come Colui che: «non crea una volta per tutte il mondo, ma è l’eterno creatore, questo rivelarsi eternamente; questo è. Egli, questo Actus, questo è il suo concetto, la sua determinazione»41. A un primo esame potrebbe sembrare che sia proprio l’idea di alterità di Dio e in Dio a determinarne il concetto, ma bisogna capirne bene il senso per evidenziarne la chiusura attraverso la necessità dialettica. Seguendo fedelmente il dettato hegeliano si legge: «dunque questa religione si manifesta: poiché essa è lo spirito per lo spirito, è la religione dello spirito e non del mistero, non del chiuso, ma del manifesto, determinato, dell’essere per un altro che solo momentaneamente è un altro. Dio pone l’altro e lo toglie nel suo eterno movimento»42. È utile, fin da ora, far notare la netta distanza tra Hegel e la trattazione bultmanniana del tema dell’alterità, analizzata nel precedente capitolo. L’essere per l’altro che era, nelle intenzioni del teologo luterano, un tentativo di preservare il carat-

39. Ivi, p. 247. 40. Ivi, p. 249. 41. Ivi, p. 250. 42. Ibidem. Corsivo mio.

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tere misterioso e inquietante della fede cristiana, diventa in Hegel qualcosa da pensare solo in funzione del suo togliersi, da superare attraverso la circolarità necessaria dello spirito, cui anche la religione rivelata deve sottostare. L’ulteriore conseguenza è una chiusura identitaria teologicamente orientata per la quale: «Egli è identico con sé, è eterna apparizione di se stesso, ed è cosi, nello stesso tempo, concepito solo come risultato, come fine. Egli è già il presupporsi eppure è il risultato»43. Per questo Massimo Cacciari, che sul tema dell’inizio in Hegel ha scritto pagine dense e acute, può dire: «si tratta del più radicale programma mai concepito di risoluzione del problema dell’Inizio nel senso della piena manifestazione, della rivelazione dell’Assoluto come vita compiuta, che più nulla ha di mira, che più nulla ha fuori di sé, “infelice” o bisognosa di nulla e che, dunque, ha in se stessa, come suoi costitutivi momenti, ogni astrazione e negazione, che “trapassa”, nel suo procedere, ogni errore e ogni infelicità»44 ed aggiunge poco più avanti: «l’Inizio si dice nel suo processo: ogni nome del suo processo è un suo nome […] l’Inizio è un vuoto che in quanto tale reclama di essere colmato. Ciò che manca preme verso ciò di cui manca, è necessariamente impulso alla soddisfazione»45. A questo punto verrebbe da chiedersi: che ne è della libertà di Dio e in Dio? Tale questione che costituirà il pungolo costante del nostro percorso, anche nei passaggi successivi, è, tuttavia, risolta da Hegel, già in queste pagine, in maniera tanto perentoria quanto sbrigativa, facendo coincidere la libertà con la negazione della differenza e dell’alterità, in virtù della preminenza attribuita alla funzione riconciliante della religione cri43. Ivi, p. 251. Corsivo mio. 44. M. Cacciari, Dell’inizio, Adelphi, Milano 1990, p. 104. 45. Ivi, pp. 107-109. Corsivo mio.

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stiana. Difatti, per Hegel: «la riconciliazione è la negazione di questa separazione, di questa scissione, è questo riconoscersi l’un l’altro, ritrovare sé e la propria essenza. La conciliazione è cosi la libertà e non è uno star tranquillo, ma è l’attività che fa scomparire il momento dell’estraneazione»46. La manifestazione più evidente del movimento dialettico della religione rivelata è, per Hegel, il dogma trinitario, secondo cui lo spirito assume tre forme differenti, pur nella sostanziale identità ed unità delle tre Persone. Esse riguardano dapprima l’essere eterno in sé e per sé, la forma dell’universale, poi l’apparizione fenomenica nella particolarizzazione dell’essere per l’altro ed infine la forma del ritorno in sé. La Trinità è, dunque, nient’altro che il movimento dialettico di Dio che si differenzia in sé, restando identico a sé; è il più alto contenuto speculativo della religione cristiana, che Hegel cosi descrive: «il Dio astratto, il Padre è l’universale, l’eterna, totale comprensiva universalità. Noi siamo nel grado dello spirito; qui l’universale comprende in sé tutto. L’altro, il Figlio, è la particolarità infinita, l’apparizione. Il terzo, lo Spirito è l’individualità come tale, ma tutti e tre sono lo spirito. Del terzo noi diciamo: Dio è spirito; tuttavia ciò presuppone che anche il terzo sia il primo»47. Il legame trinitario è saldato dall’amore e dal fatto che l’unità ultima, manifesta nella figura dello Spirito, è in realtà già presupposta dall’inizio e dunque lo spirito viene ad essere non solo la figura che porta a compimento e chiude il movimento trinitario, ma anche quello che di fatto lo inaugura, necessitandolo48. 46. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, cit., p. 251. Corsivo mio. 47. Ivi, p. 282. Corsivo mio. 48. Su questo punto, essenziale per la critica all’interpretazione hegeliana del dogma trinitario, si veda M. Cacciari, Dell’inizio, cit., pp. 186 e ss. e V. Vitiello, Dire Dio in segreto, Città Nuova, Roma 2005, pp. 21-25.

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L’unità originaria espressa dalla compiutezza del legame trinitario non può restare chiusa in se stessa. Dio deve scindersi, assecondando la sua componente altra, deve farsi mondo e natura. È dall’accoglimento in sé di tale alterità che Dio diventa forza creatrice, ma, sottolinea Hegel, tale esteriorizzazione ed estrinsecazione va letta sempre in funzione del ritorno in sé dello spirito, proprio mediante il superamento dell’alterità della natura e del mondo. Dall’uscire fuori di sé dallo spirito dipende, dunque, la creazione e la differenziazione dei diversi gradi della natura, al cui vertice c’è l’uomo49. Nelle pagine successive la teologia hegeliana sfocia nell’antropologia (semmai fosse possibile separare i due piani, considerato il marcato antropocentrismo del filosofo tedesco), occupandosi della natura originaria dell’uomo. Lo stato di innocenza che spesso gli si attribuisce, anche facendo leva sull’idilliaca descrizione biblica della condizione paradisiaca, rivela, secondo Hegel, una duplicità di fondo: da una parte l’uomo “adamitico” è in perfetto accordo con la natura e con Dio, riconoscendosi pienamente in entrambi; dall’altra tale relazione, proprio perché irriflessa, cioè priva di quella consapevolezza che può nascere solo da una mediazione razionale, nasconde una coscienza ancora allo stato grezzo50. Per Hegel, il tentare di capire se l’uomo sia per natura buono o cattivo è un falso problema, è più utile, anche ai fini dei risvolti teologici della questione, tentare di comprendere come bene e male convivano, anche in modo conflittuale, nella natura umana. Se infatti si riconosce all’uomo la naturale inclinazione all’appetito, all’impulso e alla soddisfazione di sé, che lo porta all’egoismo, alla separazione e, in ultima istanza, al male; bisogna, tuttavia, riconoscere che queste stesse componenti istintuali possono orientarsi al bene, ad una separazione positiva, cioè alla mediazione razionale che 49. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, cit., pp. 295-298. 50. Ivi, pp. 306-309.

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serve ad appagare l’altrettanto originaria e naturale sete di conoscenza. Per cui, paradossalmente, ciò che è all’origine della separazione può essere anche strumento di riconciliazione e di riconduzione ad unità. Tuttavia, Hegel non misconosce la drammaticità di tale condizione, in quanto avverte che il conflitto interno alla coscienza tra inclinazione al male e desiderio del bene è fonte per l’uomo di un grande dolore e di una profonda scissione che potrà risolversi soltanto con l’intervento di Dio, attraverso la forza unificante superiore e universale rappresentata dalla figura del Figlio51 (Gal. 4,4). L’ossatura concettuale retrostante tale interpretazione necessitata dell’incarnazione è molto chiara nel dettato stringato ed essenziale delle pagine della Fenomenologia dedicate alla religione. Quando l’opposizione tra bene e male è tale da farli sembrare due concetti autonomi, sorge la necessità della riconciliazione. Lo spirito da infinito si fa finito, nella duplice figura dell’Uomo-Dio, si fa carne, va incontro alla morte, assumendo su di sé tutti i limiti della natura umana, affinché lo Spirito possa ritornare in sé, possa riconciliarsi, farsi nuovamente uno con tutto ciò che gli è estraneo, essendosi da lui separato52. Hegel definisce l’incarnazione come il più bel punto della religione cristiana, in quanto rappresenta la trasfigurazione assoluta della finitezza, la perfetta unione, che scioglie ogni contraddizione, tra la natura umana e quella divina. È la verità di cui l’uomo aveva bisogno per superare l’infinito dolore derivante dalla lotta tra bene e male nella sua coscienza, che non era in grado di risolvere con le sue sole forze. Hegel chiosa il tutto con toni enfatici ed entusiastici dicendo che attraverso l’incarnazione: «Dio si manifesta nel presente sensibile, egli 51. Ivi, pp. 311-327. Per l’esegesi più puntuale del racconto biblico del peccato originale si legga anche Ivi, pp. 328-335. 52. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano 2000, pp. 1015-1019.

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non ha nessun’altra forma che il mondo sensibile dello spirito dell’uomo individuale; è questa la sola forma sensibile dello spirito; è l’immenso di cui noi abbiamo visto la necessità»53. E aggiunge, poco più avanti, confermando ancora una volta l’antropocentrismo della propria visione teologica: «nel sensibile, nel mondano, l’uomo solamente è lo spirituale; se dunque lo spirituale deve essere in una forma sensibile, deve essere nella forma umana»54. In tale interpretazione dialettica si palesano due limiti essenziali. In primo luogo il male, la separazione, appare come momento necessario, per cui il peccato perde la sua caratterizzazione di “caduta”, diventa paradossalmente motivo di elevazione della conoscenza e apertura al destino umano di salvezza. Il peccato, dunque, non isola l’individuo, la separazione è solo apparente, è momentanea, poiché attraverso di essa si rivela il senso stesso della creazione, ovvero la libera affermazione unificante dello spirito55. In secondo luogo il pericolo sotteso all’argomentare hegeliano è di ridurre l’intera dottrina cristiana a opera di pura parenesi morale, a scopo di consolazione, piegando in tal modo il rapporto DioUomo a fini meramente umani. In tale prospettiva il male si rivela solo un momento del processo teandrico, un passaggio necessario. Se il peccato è iscritto ab origine nella logica necessaria del processo dialettico, allora non è più tale e il male non è davvero male e si finisce per negare sia la novità dell’Avvento sia, come vedremo più avanti soffermandoci sulle pagine hegeliane dedicate alla redenzione, la “follia” della Croce56.

53. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, cit., p. 343. 54. Ivi, p. 348. 55. M. Cacciari, Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004, pp. 180-183. 56. Cfr. V. Vitiello, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, cit., pp. 99-101.

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Dopo essersi occupato dell’incarnazione, Hegel fa un breve excursus sulla vicenda terrena di Gesù, di cui è opportuno far notare le affinità e le divergenze con gli scritti teologici giovanili, come testimonianza dell’evoluzione interna al suo pensiero. Nelle Lezioni di filosofia della religione i primi tratti di Gesù ricalcano quelli già delineati in gioventù, soffermandosi nuovamente sul tentativo di elevare moralmente la spiritualità ebraica, liberandola dalla schiavitù della legge mosaica, ma va anche detto che la funzione di maestro di morale è notevolmente ridotta, solo accennata, per lasciar spazio al ruolo di redentore, di colui che annuncia un regno in cui ogni scissione, ogni differenza, ogni particolarismo saranno superati e vinti in virtù della forza universale dell’amore, il quale, per non restare impotente, dovrà incarnarsi nella comunità dei credenti e riflettersi nei legami di concordia e armonia tra i suoi membri57. L’evento cruciale della vita di Gesù diventa, dunque, non tanto il suo insegnamento, ma l’andare incontro alla morte, l’accettare fino in fondo i limiti della natura umana, assumendo su di sé il gravoso carico della finitezza. Il sacrificio di Cristo rappresenta la più alta e nobile forma di amore in cui si manifesta l’unità intrinseca di umano e divino. È il superamento del limite della vita, della sua alterità, per affermare l’identità universale dello spirito. Hegel dice infatti: «la morte è in generale tanto la più alta finalizzazione, quanto questo superamento della finitezza naturale dell’esistenza immediata, il superamento dell’alienazione, la dissoluzione della barriera, il momento dello spirito che si raccoglie in sé per morire per le cose naturali»58 e aggiunge: «il fondamento della redenzione è dunque questa storia, il morire alla natura, poiché essa è la cosa in sé e per sé. Non è un caso arbitrario, un particolare fare 57. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, cit., pp. 348-359. 58. Ivi, p. 362.

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e accadere, ma è il veridico che si compie»59. La redenzione è interpretata come la morte della morte, il trionfo sul negativo che salva la natura umana e le conferma il suo essere spirito, il suo permanere in un unità con lo spirito. Essa costituisce il momento dell’assoluta riconciliazione, il superamento dell’opposizione dell’uomo con Dio che si risolve in una totale accoglienza della natura umana in quella divina, in suprema unificazione di finito e infinito, giunti al proprio compimento nella verità del processo teo-logico. Hegel spiega il tutto dicendo: «nella morte di Cristo è stata uccisa per la vera coscienza dello spirito la finitezza dell’uomo. Questa morte dell’elemento naturale ha in tal modo un significato universale; il finito, il male in genere, è annullato. Il mondo è cosi riconciliato con il mondo con questa morte è tolto il male in sé»60. A ragion veduta Cacciari nota come queste pagine hegeliane siano attraversate dalla febbre del negativo che brucia irreversibilmente ogni valore del finito, perché tutto è trasfigurato in funzione della conciliazione, la quale non mantiene ma sopprime ogni opposizione e, allo stesso tempo, fa venir meno la tragicità della morte. Tutto è già inscritto a priori nella logica necessitata della manifestazione del divino. Se la Croce rappresenta il perno del cristianesimo filosofico di Hegel, lo è nella misura in cui viene ad essere il momento necessario alla chiusura del movimento divino in quella circolarità inaugurata dai momenti, altrettanto necessari, della creazione e dell’incarnazione. Ciò, secondo Cacciari, conduce il cristianesimo hegeliano a degli esiti tragicamente paradossali, in quanto, venendo meno ogni possibilità di libertà, il processo teologico è ingabbiato nella necessità logica e schiacciato, da principio, dal peso dell’Ananke61. Il senso radicale della riconciliazione, 59. Ivi, p. 364. 60. Ivi, p. 375. Corsivo mio. 61. M. Cacciari, Dell’inizio, cit., pp. 191-196.

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che anima l’interpretazione hegeliana del cristianesimo, trova la sua riprova più evidente nella preminenza del concetto di secolarizzazione. Se la redenzione è infatti concepita come superamento di ogni opposizione e differenza, essa non può esaurirsi nella riconduzione ad unità dell’uomo con Dio, ma deve spingersi oltre, risolvendo il rapporto tra lo spirito e il mondo, possibile soltanto attraverso il farsi mondo e storia dello spirito nella comunità. La secolarizzazione realizza il ritorno del Tutto entro sé; è il compimento di tutti i momenti precedenti in cui lo spirito rivela la coappartenenza tra la sua essenza e la realtà62. L’esplicazione più ampia e articolata di questo fondamentale tema hegeliano si trova nelle pagine conclusive delle Lezioni di filosofia della religione dedicate al Regno dello Spirito. Il presupposto da cui parte Hegel è il fatto che il cristianesimo, qualificandosi come religione dello spirito ed avendo come fine la sua piena manifestazione, non può non rendersi “visibile”, non può non incarnarsi nella coscienza credente, sia dal punto di vista individuale che collettivo. La comunità rappresenta, dunque, l’immagine visibile dell’amore infinito di Cristo, attraverso la mediazione dello Spirito. La cifra distintiva della religione rivelata è la fede in Cristo, la quale non può fondarsi sull’aver visto o conosciuto la sua persona, altrimenti se ne farebbe qualcosa di grossolano, legato ancora alla sfera sensibile, ma, all’opposto, essa trova la certezza della sua verità nel dono dello Spirito ai primi discepoli (Gv. 16,7-13), che si rinnova costantemente nella comunità dei credenti63. Hegel, tuttavia, ci tiene a precisare il senso autentico della fede su cui si fonda la comunità, dicendo: «qui si tratta della fede nella verità, cioè la certezza nella verità assoluta; ciò significa la certezza di quello che è Dio, Dio come spirito e con ciò la 62. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., pp. 1021-1027. 63. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, cit., pp. 386-397.

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sua realizzazione. La fede non riposa sull’autorità, su ciò che è stato visto, bensì sulla natura dello spirito eterno e sostanziale, la quale è giunta alla coscienza, e per questa stessa cosicché la coscienza è ciò che è la verità in sé e per sé, e è per me certo»64 e aggiunge che una tale fede: «riposa solamente sulla ragione stessa, sullo spirito, cioè su una mediazione che supera tutte le mediazioni»65. È evidente dunque che il tipo di comunità pensata da Hegel è quella in cui la fede nella verità rivelata ha perso ogni carattere di inquietudine e mistero, per divenire certezza confermata e conferita dalla ragione. Da ciò si comprende anche perché il filosofo tedesco rimarchi il fatto che lo scopo principale delle sue lezioni è di mostrare la forza riconciliante della filosofia e la sua affinità con la teologia, in quanto permette la maturazione della fede, consentendole di ripercorrere e comprendere il senso autentico della presenza dello spirito divino nel mondo, nonché di giungere a quella pace derivante da ogni conciliazione tra umano e divino attraverso i concetti66. L’intera trattazione hegeliana della religione, sia nelle Lezioni che nella Fenomenologia è mossa dalla convinzione che: «Dio è raggiungibile unicamente nel puro sapere speculativo; egli è soltanto in questo sapere, in quanto egli è lo Spirito; e questo sapere speculativo è il sapere della religione manifesta, rivelata»67, la cui meta finale è: «il movimento e la vita che lo spirito conduce e porta a compimento nella sua comunità»68. Il fondamento della religione è, dunque, il sapere in sé dello spirito, un sapere nel quale è oltrepassata ogni differenza tra sé e il mondo, poiché è stata instaurata una 64. Ivi, p. 398. Corsivo mio. 65. Ivi, p. 399. 66. Ivi, p. 424. 67. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 997. 68. Ivi, p. 1001.

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riconciliazione completa. La dialettica generale della religione costituisce una rivelazione progressiva dello spirito a se stesso, un divenire che si innalza a sé, attraverso il movimento della propria auto-mediazione e si manifesta nella sua profondità69. Il cristianesimo hegeliano non si esaurisce, dunque, nell’unità dell’Uomo-Dio, in cui c’è ancora traccia di sensibilità, bensì nel sapere speculativo, incarnatosi nella comunità religiosa, in una chiesa in cui lo spirito si attui come autocoscienza universale. La religione cristiana è religione rivelata in un duplice senso: è il manifestarsi della profondità dello spirito, ma anche e soprattutto una fede spirituale che deve incorporarsi nella vita della comunità la quale, da questo punto di vista, svolge un ruolo essenziale70. Tuttavia, Hyppolite opportunamente nota anche il fatto che, se ci si attiene alle sole pagine della Fenomenologia dedicate alla religione, non si può non rilevare una certa insoddisfazione di Hegel per il modo in cui lo spirito si secolarizza nella comunità. Essa appare ancora una forma imperfetta, non avendo in sé l’auto-certezza del sapere assoluto, non essendo pienamente verità a sé medesima, perché non sa ancora di produrre essa stessa tale verità. C’è ancora in tale forma incompiuta di secolarizzazione una nostalgia del passato e una fervida attesa del futuro, indice del fatto che essa proietta ancora fuori di sé una chiesa trionfante e attende la propria salvezza in un al di là oltre la temporalità. Essa dovrà giungere al grado massimo di consapevolezza del sapere assoluto per pacificarsi ed amare veramente la verità effettuale, il mondo, il quale deve essere ancora trasfigurato nell’ultima tappa dell’itinerario fenomenologico71.

69. J. Hyppolite, Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito di Hegel, tr. it. di G. A. De Toni, Bompiani, Milano 2005, pp. 664-667. 70. Ivi, pp. 691-693. 71. Ivi, pp. 701-702. Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., pp. 1029-1033.

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L’interpretazione hegeliana del cristianesimo nell’intento di radicalizzare l’idea di secolarizzazione lo priva della costitutiva dimensione escatologica, emersa nel capitolo precedente grazie al proficuo confronto con Bultmann. Hegel, infatti, pur sentendosi erede del cristianesimo paolino lo tradisce in un punto decisivo: piega l’ulteriorità dell’èschaton (l’a-topon indivisibile e attimale, su cui Paolo insiste, ad esempio, in 1 Cor. 15,52) alla storia profana, lo riduce a mera necessità logica, facendo venir meno la differenza tra il tempo cronologico e quello aionico, tra il tempo e l’Eterno. Tale elemento differenziale è invece essenziale per garantire la serietà del cristianesimo, il suo essere attesa del ritorno del Signore (2 Cor. 6,2), il suo essere legato ad un evento, ad un attimo eterno, che sfugge ad ogni cronologia umana, ad ogni possibile teodicea, essendo legata all’oltranza del senza tempo vissuta kairologicamente ed escatologicamente nel tempo (Rm. 13,11). Un’attesa all’insegna dell’agape, che non è, tuttavia, come vuole Hegel, una forza unificante e consolatoria, ma dono sospeso all’alterità e all’ulteriorità del Figlio (Rm. 13,9-10), il cui esempio più fulgido è proprio il sacrificio estremo della Croce. In esso l’agape si svuota di ogni determinatezza, di ogni certezza, di ogni pretesa umana, troppo umana, per oltrepassare, mettere in forse, anche ogni speranza riposta nella giustizia del Nomos, per aprire a quell’inquietante possibilità di salvezza che si può ritrovare solo in Lui (Fil. 3,9). Tutto ciò sfugge all’interpretazione hegeliana del cristianesimo, poiché nella pretesa di ingabbiarlo in una forma dialetticamente compiuta, riduce l’ulteriorità e l’alterità del Rivelato a momento da superare per essere inserito nella prepotente circolarità del pensiero72.

72. Cfr. M. Cacciari, Dell’inizio, cit., pp. 325- 332. Va, tuttavia, rilevato che, in tale acuta critica ad Hegel, Cacciari rimarca giustamente la componente “altra” e “oltre” del divino, insita nel dettato paolino, ma non evidenzia op-

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Ciò ci permette di comprendere meglio anche il senso della chiusa delle Lezioni di filosofia della religione, in cui Hegel, soffermandosi sullo stato della religione nella sua epoca, fa risalire la causa del suo essere divenuta sciapa alla mancanza di quel “sale” che solo la sostanza speculativa della filosofia può aggiungerle, per cui, piuttosto che perdersi in inutili dispute sulla superiorità della fede o della ragione, esorta i suoi contemporanei a comprendere la necessità di un’interpretazione dialettica e speculativa, per il progresso della religiosità, secondo le modalità esplicate nelle sue Lezioni73. Al di là dell’innegabile autoreferenzialità del discorso hegeliano, va compreso quale sia il rapporto che egli instaura tra religione e ragione, rilevando come le istanze della prima siano piegate sulla seconda. Il contenuto divino, che la fede sente e trova in sé (Emp-findung), è mostrato e dimostrato concretamente dalla filosofia, la quale, attraverso il proprio dispiegamento dialettico, la può riconoscere come verità assoluta74. Inoltre, se si considera la funzione di compimento che Hegel conferisce al Sapere Assoluto, collocato non a caso alla fine dell’itinerario fenomenologico, di cui la religione costituisce soltanto la necessaria premessa, si potrebbe pensare che la volontà di riconciliazione, sottesa all’intera trattazione hegeliana della religione, trovi la sua vera attuazione e realizzazione solo nella filosofia, attraverso la quale la verità dello spirito diventa in sé e per sé. Il Sapere Assoluto sembra, dunque, destinato a sostituirsi alla religione, privandola di quella funzione redentrice che tradizionalmente le appartiene75. Il rapporto tra filo-

portunamente la radice ebraica della questione, su cui ci soffermeremo nel capitolo successivo dedicato a Rosenzweig. 73. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, cit., pp. 424-427. 74. M. Cacciari, Dell’inizio, cit., p. 189. 75. J. Hyppolite, Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 735-736.

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sofia e religione non è, dunque, all’insegna della reciprocità e della co-appartenenza, ma di concorrenza diretta, in quanto entrambe sono concepite da Hegel come strumenti di risoluzione, appagamento e consolazione delle scissioni e delle infelicità caratterizzanti il mondo e la sua realtà effettuale76, per cui, per dirla con De Negri, il cristianesimo filosofico di Hegel e il suo pensiero tout court, appare come una dottrina razionale di redenzione del reale77, in cui, è opportuno aggiungere, non sembra esserci spazio alcuno per quell’alterità e quell’inquietudine che, come stiamo evidenziando fin dall’inizio del nostro percorso, rappresentano la cifra essenziale ed autentica dell’esperienza religiosa.

3.3 La circolarità della ragione hegeliana Se il compimento della religione rivelata è l’incarnarsi dello spirito nella comunità, il suo farsi uno con il mondo e con la storia, resta da capire come Hegel la caratterizzi, su quali presupposti logico-dialettici si fondi la sua visione del tempo, per saggiarne anche eventuali limiti. Egli infatti, in ossequio alla sua radicale idea di secolarizzazione, sviluppa il nesso tra la vita e la coscienza nel corso dell’intero itinerario fenomenologico, come un farsi storia dello spirito, il quale diventa reale e consapevole di sé soltanto nella storicità. La stessa mobilità dello spirito, che non lo fa essere un principio astratto, avulso dal reale, poggia sulla possibilità concreta di farsi mondo nel divenire storico, attraverso i diversi momenti e le varie figure esplicitate dalla Fenomenologia78. La centralità di tale idea 76. R. Bodei, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel (nuova ed. ampliata), Il Mulino, Bologna 2014, p. 96. 77. E. De Negri, Interpretazione di Hegel, cit., p. 248. 78. H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, tr. it. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1969, pp. 346-347.

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nel pensiero di Hegel si comprende soltanto abbandonando il pregiudizio secondo cui lo spirito sarebbe qualcosa di immateriale ed evanescente, che avanza una pretesa di “nobiltà” nei confronti della materia. Hegel lo intende invece come totalità vivente, unità indissolubile con le parti. Lo spirito, infatti, rappresenta la rinnovata vittoria dell’unità sulla dispersione, della continuità sulla discontinuità. Una pretesa prometeica, piena di coraggio, ma allo stesso tempo, di hybris, da cui si evince l’intenzione di voler umanizzare il mondo conciliando ogni aspetto del reale, portando a compimento la stessa idea di redenzione sottesa alle Lezioni di filosofia della religione. Il tacito presupposto da cui muove il pensiero hegeliano è, dunque, la possibilità di tradurre la realtà in ragione storica, di non lasciare nulla di inaccessibile alla forza dello spirito, la cui funzione principale è assimilare il mondo nel farsi storia79. Per questo Bodei sostiene che con Hegel si compie una vera e propria “rivoluzione teoretica”: dopo l’epoca di assimilazione della natura, si avvia quella della assimilazione della storia. L’istinto della ragione si rivolge alla ricerca di un senso della storia, spinto dalla volontà, carica di presunzione, di appropriarsi e di guidare il movimento cieco dell’accadere storico. Esso è dunque inteso come processo teleologico, il cui nomos intrinseco è rappresentato dal progresso inarrestabile della coscienza che porta con sé la contestuale distruzione di tutti i condizionamenti esterni. La storia, da questa prospettiva, non appare più come un semplice scorrere amorfo del tempo, un processo senza meta, ma è fornita di una struttura in divenire80. Inoltre nella mobilità storica dello spirito sembra riecheggiare il senso greco del poiein, inteso come fare, come

79. R. Bodei, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, cit., pp. 244248. 80. Ivi, pp. 174-175

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attività che, a partire da Aristotele, diviene fondamentale categoria ontologica, in cui si esprime l’esser-prodotto dell’ente, il suo tendere a compimento che lo chiude in se stesso. L’ontologia hegeliana rappresenta dunque la radicalizzazione della determinazione aristotelica dell’essere come energhia, in cui il movimento reale è garantito dal primato di quest’ultima sulla dynamis81. Ciò significa altresì che tanto in Hegel quanto in Aristotele, l’atto determina in toto la potenza. Essa è concepita sempre in funzione del primato dell’ergon, in cui tutto risulta compiuto e perfetto, in quanto ha raggiunto il proprio telos. Ogni cosa può dirsi in potenza solo perché ha in sé il potere di attuarsi, di giungere a compimento. In Hegel, dunque, il rapporto tra potenza e atto, fedelmente al dettato aristotelico, si risolve nell’assoluta necessità dell’attuazione che determina il dispiegarsi dell’intero movimento dello spirito. L’unità che governa la visione storica di Hegel si fonda sulla sostanziale necessità che ogni potenza sia ricondotta all’atto, in quanto la sua funzione primaria è l’assoluto manifestarsi, il puro rivelarsi dello spirito nel tempo82. Nella pretesa di realizzare il compimento filosofico della storia, Hegel fa emergere la hybris umana di volersi equiparare, se non addirittura sostituire, al divino, in quanto nulla è più nascosto ed estraneo allo sguardo storico del filosofo, che sa scrutare, in virtù del suo sapere, tra le pieghe della storia stessa per scoprire i nessi logico-dialettici che la caratterizzano83. In tal senso il filosofo può e deve essere legato al suo tempo, alla vita del presente, come tutti gli altri uomini, ma, al contempo, deve anche elevarsi al di sopra di

81. H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, cit., pp. 110-116. 82. M. Cacciari, Dell’inizio, cit., pp. 158-161. Cfr. anche H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, cit., pp. 125-128. 83. V. Vitiello, Topologia del moderno, cit., p. 41. Cfr. anche E. De Negri, Interpretazione di Hegel, cit., pp. 167 e ss.

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essi, poiché ha il compito di rischiarare, attraverso la luce del pensiero, l’oscurità del tempo, scoprendo il senso progressivo della storia. Tuttavia, bisogna capire se tale compito euristico della filosofia nei confronti della storia sia propriamente tale, oppure, al contrario, il pensiero non finisca per imporre alla storia i suoi presupposti logico-dialettici, scoprendo in realtà ciò che esso stesso vi immette. Se il corso della storia, al pari del movimento della religione rivelata, è retto dalla necessità dialettica, nulla può mutare e ogni discontinuità o errore, al pari di quanto accadeva per il male e il peccato in ambito teologico, è compreso, giustificato e superato in funzione di un grado più alto dello sviluppo della ragione storica. Hegel, infatti, dichiara, sin dall’esordio delle Lezioni di filosofia della storia: «bisogna portare nella storia la fede e il pensiero che il mondo del volere non è rimesso al caso. Che nelle contingenze dei popoli elemento dominante sia un fine ultimo, che nella storia universale vi è una ragione, e non la ragione di un soggetto particolare, ma la ragione divina, è una verità che presupponiamo; la sua prova è la trattazione stessa della storia: essa è l’immagine e atto della ragione»84. Da questo punto di vista il Sapere Assoluto, come ultima tappa dell’itinerario fenomenologico, viene ad essere il principio e il fine di tutta la storia dello spirito, in quanto le diverse forme o figure della sua storicità giungono a compimento soltanto in esso. In Hegel lo spirito vuole farsi tempo nella sua interezza, superando i singoli momenti del divenire storico in vista della totalità. Se il movimento dello spirito nella storia è una continua auto-mediazione, in cui ogni alterità è superata per raggiungere una superiore identità, viene meno ogni differenza e tutto si risolve in unità. Il tempo hegeliano nella sua forma “pura” attua la realtà riducendola però 84. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I, tr. it. di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 9.

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ad una completa identità chiusa in se stessa85. Tutto ciò trova la sua conferma nell’impianto generale della Fenomenologia, a patto che si riesca a comprendere come in essa la filosofia della storia si integri con l’ontologia. Nell’intero arco tracciato dall’opera la vita umana può essere considerata oggetto storico solo in quanto la storia stessa è già presentata, sin da principio, come caratterizzata da nessi logici dialetticamente esplicabili, per cui la Fenomenologia non fa altro che mostrare il dispiegarsi dei modi dell’essere nel movimento intrinseco al sapere e alla ragione. L’innegabile effetto di chiusura della storia e della temporalità nasce dunque dalla fiducia hegeliana nell’opera dello spirito, nella sua capacità di sanare le sue stesse “ferite” e di sorgere più forte dalle contraddizioni di volta in volta superate86. Il rifugiarsi di Hegel entro le rigide maglie della logica non significa, dunque, tagliare i ponti con la realtà, semmai rinsaldarli per oltrepassare eventuali punti morti e tentare di comprendere il tempo in concetti, per dominarlo, renderlo prevedibile ed inseribile entro lo spazio omogeneo del pensiero. Tuttavia, bisogna sempre tenere presente che una razionalità cosi configurata tende a travolgere ogni ostacolo per fare in modo che tutto le sia commisurato87. Per questo Kojève nota che l’apparente quiete del paradigma storico-dialettico di Hegel nasconde in realtà la tirannide della ragione sull’accadere storico e sul tempo in generale, per cui lo sguardo limpido e lungimirante del filosofo si rivela essere, per usare una felice metafora di Ortega y Gasset, uno sguardo da faraone che contempla impassibile il lavoro dei suoi schiavi88. 85. H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, cit., pp. 350-355. 86. R. Bodei, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, cit., p. 122. 87. Ivi, pp. 33-34. 88. Sull’interpretazione “tirannica” della ragione in Kojève si veda, oltre al classico, A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, tr. it. di G. F. Frigo, Adelphi, Milano 1996, soprattutto A. Kojève, L. Strauss, Sulla tirannide, tr.

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Una ragione cosi intesa presuppone, a sua volta, un’idea di verità come totale dispiegamento, che, nel suo slancio assimilatore, travolge ogni momento nel tentativo di realizzare, attraverso l’intelletto e la logica, la completa comprensione del mondo nel suo farsi storia, inglobando tutti i fenomeni nel suo sistema, inserendoli nella “rete adamantina” dei propri nessi concettuali89. Essi, come si è detto anche a proposito della dialettica interna alla religione rivelata, palesano la volontà di ricondurre ad unità ogni molteplicità, differenza o separazione; il che si riflette ora, dal punto di vista logico e fenomenologico, nella preminenza del momento sintetico nella dialettica interna allo spirito, come “luogo” di manifestazione del suo potere unificante, capace di trasformare in assoluta positività la negatività dell’essere per l’altro, che giunge a piena maturazione nell’essere in sé e per sé, caratteristico di ogni momento sintetico, il quale viene ad essere il cardine sia della logica dell’essere sia della sua mobilità storica, in base al presupposto, sotteso a tutto il pensiero di Hegel, della perfetta corrispondenza e co-appartenenza tra logico e reale. A ben guardare, si potrebbe dire che l’andare innanzi del cammino del pensiero è sempre, allo stesso tempo, un retrocedere al suo fondamento. Tutte le opposizioni che animano il sistema hegeliano sono pensate, sin dall’inizio, come superate, perché contenute nell’unità del movimento che si riflette in se stesso. La dialettica hegeliana ha come fondamento una visione omogenea del pensiero che costituisce l’anima immanente al sistema su cui poggia la possibilità di ricondurre ogni

it. di D. De Pretto, Adelphi, Milano 2010, spec. pp. 186 e ss. Sulle metafore anti-hegeliane di Ortega y Gasset si veda C. Cantillo, La ragione e la vita. Ortega y Gasset interprete di Hegel, Rubettino, Soveria Mannelli (CZ) 2012. 89. R. Bodei, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, cit. pp. 195198. Cfr. anche E. De Negri, Interpretazione di Hegel, cit., pp. 250-260.

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opposizione ad unità. I diversi momenti che caratterizzano lo sviluppo dello spirito sussistono solo in quanto il vortice del pensiero tende ad abolire ogni contraddizione, affinché tutto si risolva nel trionfo finale della totalità, rivelando come le varie determinazioni fenomenologiche siano sorrette da una superiore identità che ne è il tacito presupposto90. Lo stesso Hegel lo ammette proprio nelle pagine della Fenomenologia dedicate alla religione, dicendo che i momenti descritti: «vengono colti nella loro purezza, essi sono concetti inquieti che consistono unicamente nell’essere in se stessi il loro contrario e nell’avere la loro quiete nel Tutto»91. Proprio la struttura interna alla Fenomenologia aiuta a mostrare come il tipo di sistema logico-dialettico cui Hegel aspira sia chiuso in se stesso. Se infatti, per evidenziare il fine pacificatore dell’intero itinerario, ci siamo rivolti alle ultime pagine, si può benissimo tornare all’inizio, alla Prefazione, per vedere come l’idea inglobante e onnicomprensiva del pensiero domini tutto l’arco dell’opera. Hegel infatti si dice convinto che il sistema sia l’unica forma capace di dare scientificità alla verità della filosofia: «la figura autentica in cui la verità può esistere è soltanto il sistema scientifico della verità stessa. Ora, collaborare affinché la filosofia si avvicini alla forma della scienza, affinché giunga alla meta in cui possa deporre il proprio nome di amore per il sapere, per essere sapere reale è ciò che mi sono appunto proposto»92. Ciò significa, nota Hyppolite, che l’Assoluto, il quale formalmente dovrebbe considerarsi la figura finale del percorso fenomenologico, ne è in realtà l’implicito presupposto, senza il quale non si capirebbero né la necessità dialettica intrinseca all’evoluzione della coscienza, né la necessità, altrettanto essenziale, 90. E. De Negri, Interpretazione di Hegel, cit., pp. 139-145. 91. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., pp. 1005-1007. Corsivo mio. 92. Ivi, p. 53.

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che tale processo sia esplicato logicamente, rappresentando il compito ultimo della filosofia su cui Hegel insiste sin dall’introduzione93. Il Sapere Assoluto è quella totalità che risolve ogni negatività, non è semplicemente un modo di essere del mondo o al di là del mondo, bensì l’essere stesso del mondo manifestatosi e attuatosi nella sua completa verità. Da questo punto di vista, la filosofia è garante, attraverso la logica, dell’unità e della co-appartenenza tra vero e reale e in esso soltanto la totalità dell’ente diventa manifesta. Essa mostra, più che scopre, la nascosta necessità dello spirito, la sua trasparente verità, l’esigenza di farsi storia, rimanendo sempre in se stessa nell’intero arco del processo. La storia infatti è contemporaneamente estrinsecazione e interiorizzazione dello spirito, un rincorrere se stesso in cui si esprime la sua peculiare potenza e libertà. La storia è nient’altro che un divenire riflesso in se stesso dell’Assoluto. La perfezione e la piena realizzazione dello spirito consistono nel sapere ciò che da sempre esso è, l’approfondirsi in se stesso, quasi un abbandonarsi in se stesso, procedendo in maniera anamnestica, riducendo la storia concettualmente compresa ad un ricordo del già ricordato, a una conoscenza del già conosciuto94. Tuttavia, oltre ai risvolti storici di tale impostazione di fondo, non vanno dimenticate le conseguenze teologiche, essenziali ai fini del nostro percorso. L’auto-movimento tendente alla quiete e al possesso di sé caratterizza infatti, come abbiamo già visto accostandoci alle Lezioni di filosofia della religione, anche la dialettica presupposta alla religione rivelata. Essa è dominata da un’idea preponderante di conciliazione, la quale 93. J. Hyppolite, Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 147-167. 94. H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, cit., pp. 359-371.

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connette il passato, attraverso l’opera redentrice del Cristo, con il futuro, attraverso il dono dello Spirito e il suo incarnarsi nella comunità, le cui contraddizioni saranno risolte e vinte dal Sapere Assoluto. Quindi, al di là delle formule logiche, l’intento del filosofo, nella sua ricerca di una Weltgeschichte, è di tentare di redimere il mondo, portando a piena trasparenza il Weltgeist. In ciò si evidenziano due pretese titaniche: da una parte il voler togliere ogni velo al mondo, obliando il carattere misterioso della realtà e dell’esistenza umana, che, al contrario, l’esperienza religiosa tenta di preservare; dall’altra quella, ancor più carica di hybris, che tale redenzione del reale possa essere compiuta non dal Mediatore, ma dalla ragione, attraverso le sue troppo umane mediazioni logico-dialettiche95. Che lo si consideri dal punto di vista storico, logico o teologico, il pensiero di Hegel si risolve in un circolo chiuso che riposa in se stesso, facendo perdere alla filosofia anche la sua natura di thauma, di meraviglia o scoperta di fronte al mondo, per trasformarsi in costante esercizio di auto-comprensione. Tutto è compreso nei nessi logico-dialettici dello spirito, la cui libertà si esprime nell’accertare la propria intrinseca necessità, capace di com-prendere la realtà, poiché nulla gli è più estraneo. Ogni alterità, ogni differenza, sussiste solo come negatività da superare e da ricondurre alla trasparenza del sé, al circolo perfetto dello spirito, che è, per usare una felice espressione di De Negri, un panlogismo trionfante96. Occorre, tuttavia, comprendere a quale prezzo si è ottenuto tale trionfo, quali perdite il pensiero ha subito nella sua battaglia per il possesso del reale. Innanzitutto, se tutte le figure del percorso fenomenologico trovano la loro realizzazione soltan-

95. E. De Negri, Interpretazione di Hegel, cit., pp. 345-348. 96. Ivi, pp. 371-372. Cfr. anche J. Hyppolite, Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 720-729.

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to nel Sapere Assoluto, non si riducono esse a mere astrazioni giustapposte per essere superate in vista della manifestazione finale del profondo? Il trionfo del Sapere Assoluto avviene togliendo il tempo, cancellando il precedente in virtù dell’affermazione attuale del nuovo, si toglie alla verità il suo carattere retrospettivo, si imprigiona tutto in una perenne attualità fuori dal tempo. Il Sapere Assoluto tanto può essere, come si è detto, la verità dell’inizio così come della fine, in quanto la storia concettualmente compresa è affetta, come nota Vitiello, da uno “strabismo filosofico”, ovvero dalla capacità di vedere il movimento del tempo nel senza tempo. Dunque il Sapere assoluto è trionfo della verità, certezza del suo trono tirannico, ma anche, allo stesso tempo, autentico calvario, faticosa ascesa per acquisire la purezza dello sguardo onnicomprensivo sul reale che rappresenta, al contempo, un’auto-condanna alla solitudine. Tale sguardo puro non ha, infatti, alcuna prospettiva particolare, perché è l’insieme di tutte le prospettive. L’immediatezza e l’auto-certezza raggiunta nel sapere assoluto non hanno più bisogno di alcun essere-altro al di fuori di sé, non necessitano di alcuna relazione né interna né esterna a sé. Ciò ha come conseguenza paradossale che l’istanza comunitaria, sottesa al pensiero di Hegel, la radicalità della secolarizzazione, espressa sin dalle pagine conclusive delle Lezioni di filosofia della religione, cosi come nell’aspirazione della religione ad essere superata e compiuta nel fare di tutti e di ciascuno, nella comunità della ragione, naufraga per i suoi stessi presupposti logici e metodologici. Il Noi comunitario si configura, dunque, solo come una proiezione dell’Io. La ragione hegeliana non esce mai da sé, è prigioniera della sua stessa circolarità, all’interno della quale l’incontro con l’altro da sé si risolve in assorbimento, in assimilazione che nega ogni alterità97. 97. V. Vitiello, Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’Io alla logica della seconda persona, ETS, Pisa 2009, pp. 21-25. Cfr. J. Hyppolite, Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 745-746.

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Se il compito della filosofia, per Hegel, è comprendere il presente e apprenderlo in concetti, rimane il dubbio, emerso più volte, ma meritevole di essere affrontato ora in tutta la sua enigmaticità, che tale appropriazione sia in realtà un’espropriazione, un’usurpazione tirannica compiuta dalla ragione nei confronti del tempo a cui tenta d’imporsi. Se infatti si considera dal punto di vista del tempo l’identità posta e presupposta da Hegel tra tempo e concetto, quest’ultimo appare come qualcosa di esteriore, un momento colto al di fuori e ad esso estraneo. Questo tempo è segnato dall’accadere, accade perché accade, ohne warum. È un tempo avulso dal concetto, perché in esso la ragione concettuale non è ancora sorta, non è ancora emersa dal profondo. Questo tempo non concettuale è quello che il sapere, nel suo dispiegamento fenomenologico, non semplicemente toglie, ma più radicalmente cancella. Il concetto, infatti, come si è sottolineato più volte, fa di tale cancellazione un tentativo di redenzione del reale, in cui tutto è salvato, senza lasciare residui. Esso è strumento del libero sviluppo della necessità che governa il pensiero di Hegel, obliando proprio quell’esteriorità originaria, quel puro accadere, sempre superato e vinto, in quanto è tolta ogni alterità. La ragione deve eliminare ogni ostacolo che le impedisce di riconoscersi, ritrovarsi e compiacersi. Essa può dar ragione di ogni momento, di ogni fatto, anche di quello apparentemente più insignificante, solo se con ciò riesce a inglobarlo, a dar ragione di se medesima. Il connettere i diversi eventi, i vari frammenti di tempo è in realtà un com-prendere, nel senso letterale di prendere con sé e in sé, un assimilare che aspira all’appropriazione della realtà nella sua totalità. In fondo la filosofia della storia di Hegel, ma si potrebbe estendere senza forzature tale considerazione anche alla trattazione dialettica della religione rivelata nelle Lezioni di filosofia della religione, nella sua pretesa di elevare la storia a scienza, ad episteme, a sapere stabile che mai vacilla, fa coincidere lo spazio storico e

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il suo movimento intrinseco con quello del pensiero, risolvendo tutto in un eterno presente che non passa. Si potrebbe, tuttavia, pensare che la storia concettuale hegeliana sia il frutto di un rapporto paritetico tra tempo e concetto, in virtù della presupposta co-appartenenza e co-attualità tra i due elementi, invece, proprio la pretesa redentrice del concetto, la sua tensione teleologica, lo spingono ad occupare l’intero spazio della storia, ad assorbire in sé il piano del tempo. Dunque il finalismo sotteso alla storia hegeliana, la realizzazione della manifestazione del profondo, si attua nella restrizione del tempo, privandolo del suo carattere di accadere e giungendo al paradosso che la storia, nel suo procedere, finisce con il contrarre lo spazio del suo stesso movimento, apparendo, per usare una calzante immagine di Vitiello, una sorta di scala retrattile98. Se dunque quello descritto pocanzi è l’esito paradossale della lotta tra tempo e concetto che innerva il pensiero di Hegel, resta ancora da capire se sul campo di battaglia ci sia ancora qualche residuo, sfuggito alla contesa, che possa permetterci di guardare sotto una nuova luce il conflitto stesso e magari fare emergere, oltre la tracotanza trionfante dei vincitori, anche le ragioni, spesso nascoste, dei vinti. Un luogo interessante, da questo punto di vista, potrebbero essere, come nota Vitiello, le pagine della Fenomenologia che Hegel dedica al sorgere del “mondo etico”. Soffermandosi sul significato originario, squisitamente greco, dell’ethos inteso come dimora o abitazione, è possibile scorgere, già solo terminologicamente, un senso diverso, ben presto obliato dallo stesso Hegel, del rapporto con la verità. Se si fa riferimento ad essa come a-letheia, come dis-velamento, il velo ci dice del fatto che essa non può essere ridotta a opera umana, di cui appropriarsi con facilità, in quanto in essa c’è sia una tendenza al manifesto, in termini hegeliani alla rivelazione del profondo, sia una tendenza 98. V. Vitiello, Elogio dello spazio, Bompiani, Milano 1994, pp. 67-71.

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opposta al nascondimento, al ri-velarsi, nel senso di velarsi ancor più finemente. La scelta di rivolgersi al mondo greco non è dunque mossa da necessità linguistiche, ma anche, come si è già visto a proposito del breve excursus su Platone, dal fatto che lo spirito greco vive “eticamente” la conflittualità tra il diritto della polis e i culti privati come quello dei Penati, spesso affidato alle donne e relegato al chiuso dell’ambito domestico. Tale conflittualità trova, secondo Hegel, la sua massima espressione nella tragedia attica e in particolare nell’Antigone di Sofocle. Il filosofo tedesco la legge come sublime rappresentazione della tensione interna alla coscienza tra le istanze etiche universali, esemplificate da Creonte, e quelle particolari fatte valere da Antigone. I due personaggi non sono altro che paradigmi di una dialettica tragica, in cui ciascuno ha in sé il suo opposto, è, allo stesso tempo, se stesso e il suo altro. Da una parte Creonte si convince che è inutile opporsi al Destino solo dopo la morte del figlio, dall’altra solo la condanna a morte convince Antigone del fatto che la giustizia delle leggi è stabilita dal diritto degli uomini e non dalle leggi “non scritte” degli dei. Ciò significa che entrambi fanno esperienza della propria coscienza quando quest’ultima non c’è più, o per meglio dire, al momento di sperimentare, ciascuno per conto proprio, la loro costitutiva alterità nel caso limite della morte. A ciò si aggiunge il ruolo peculiare del Destino, rispetto al quale cadono sia le leggi pubbliche di Creonte, sia quelle private di Antigone, perché esso si erge al di sopra di entrambi come forza cieca e imponderabile che minaccia dall’interno la coscienza etica e più in generale la quiete del mondo degli uomini. Hegel è ben consapevole del pericolo laddove afferma: «In tal modo, l’autocoscienza etica è perseguitata da una potenza tenebrosa che, posta in agguato e irrompendo solo quando l’atto è compiuto, la coglie sempre in flagrante»99. Tale lichtscheue 99. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 631. Corsivo mio.

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Macht, la potenza tenebrosa potrebbe rappresentare una “rottura” e, insieme, una via di fuga dalla rigida necessità e dalla chiusura in sé del sistema, ma Hegel stesso, con profondo zelo, si affretta a rattoppare la falla, dicendo poco più avanti: «la rimozione della scissione tra il fine etico e la realtà, esprime il ritorno alla disposizione etica, la quale sa che ciò che vale è unicamente il Giusto»100. Tuttavia, al di là della rapida soluzione trovata da Hegel per preservare l’omogeneità dello spazio del pensiero, resta il fatto che la lichtscheue Macht appartiene da sempre all’essenza della coscienza e allude, fa segno alla sua costitutiva alterità, da cui, come cercheremo di chiarire successivamente, dipende anche la possibilità del sussistere delle molteplicità e delle differenze che Hegel intende superare, in virtù del primato della manifestazione del profondo. Essa rappresenta il lato oscuro e misterioso, potremmo dire inconscio, senza il quale non sussisterebbe neanche la stessa coscienza. Essa è quella potenza libera, quel possibile, che Hegel, in conformità al dettato aristotelico, si ostina a voler ricondurre sempre alla luminosa e trasparente necessità dell’atto101. Rivelatisi i limiti della pretesa onnicomprensiva della ragione hegeliana, c’è da chiedersi, sapendo bene che da tale interrogativo dipende la possibilità stessa di far filosofia, di preservare il suo carattere di scoperta, carica di meraviglia, non riducendola ad auto-comprensione, se sia possibile fuggire dal circolo, andare oltre, magari invertendo i presupposti che lo hanno configurato: sforzandosi di pensare ad un tempo diverso, possibile, ancora sospeso all’accadere, al “non ancora”. Un tempo aperto all’oltranza del Sacro, alla sua potenza misteriosa, ma non necessariamente tenebrosa e bisognosa della

100. Ivi, p. 633. Corsivo mio. 101. V. Vitiello, Oblio e memoria del Sacro, Moretti & Vitali, Bergamo 2008, pp. 22-32.

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luce della ragione. Un tempo altro, perché consapevole del dono dell’Altro, dell’attesa dell’Altro, dell’inquietante possibilità dell’irruzione del senza-tempo nel tempo, che sfugge alle determinazioni umane, troppo umane. Un tempo che l’esperienza religiosa ebraica, carica di quell’alterità che Hegel tanto odiava, leggendola come totale estraneità, definirebbe semplicemente messianico e a cui è giunto il momento di prestare ascolto, attraverso le acute riflessioni di Franz Rosenzweig, il quale rappresenta la “perfetta sintesi”, sempre irrisolta perché sempre inquieta, tra la crisi filosofica della modernità, dopo gli esiti paradossali dell’hegelismo e quella altrettanto paradossale e inquietante, perché costitutiva, della fede ebraica, la quale, tuttavia, potrebbe essere un appiglio per non cedere, alla maniera hegeliana, agli slanci titanici, a tratti tirannici, della ragione.

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IV Rosenzweig: oltre il “circolo” la Stella

4.1 La sfida dalla Ionia a Jena Il costante gioco di paradossi, di cui è piena la storia della filosofia, caratterizza anche il rapporto di Rosenzweig con Hegel. Ciò è messo bene in evidenza da Scholem nell’allocuzione pronunciata all’Università di Gerusalemme ad un mese dalla morte del pensatore di Kassel. Egli fa notare come il palese anti-hegelismo di Rosenzweig, che gioverà non poco al nostro discorso, è maturato dopo un lungo periodo di meditazione profonda della filosofia idealistica, la quale poteva sembrare la chiave di volta del pensiero moderno. Proprio il serrato confronto con Hegel, l’immergersi nelle maglie del suo sistema, mostrarono a Rosenzweig come esso fosse in realtà “la pietra d’inciampo” della modernità e come, all’opposto, l’ebraismo potesse essere una via “altra”, una strada alternativa alla chiusura della ragione su se stessa1. Occorre tuttavia sottolineare, sin dalle prime battute, come fa lo stesso Scholem, che l’anti-hegelismo di Rosenzweig va ben oltre Hegel. Il filosofo 1. G. Scholem, Franz Rosenzweig e il suo libro “La stella della redenzione” in F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, tr. it. di G. Bonola, Arsenale, Venezia 1983, p. 76.

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tedesco è visto infatti come l’acme di quell’ambizione totalizzante della filosofia nata in occidente con Parmenide. In Hegel la hybris del pensiero giunge al suo massimo sviluppo, avanzando la pretesa di inglobare in sé la storia e l’infinito, configurandosi come un vortice capace di ingoiare tutto. La parabola vertiginosa e vorticosa della filosofia hegeliana, nel decretare il proprio trionfo sul reale, annuncia, al contempo, la sua fine. Essa infatti, come già si è sottolineato in precedenza, cade nella pura autoreferenzialità, producendo essa stessa il suo contenuto, facendo venir meno il carattere di scoperta insito nella stessa ricerca filosofica. Dunque la presunta unità di pensiero ed essere, di reale e razionale, posta e presupposta dall’idealismo è espressione del titanismo della ragione e contestualmente della sua crisi, di ciò che Scholem, con un’immagine pregnante, definisce “la rottura dei vasi nella filosofia”, ascrivendo a Rosenzweig non solo il merito di aver compreso con lungimiranza l’entità del “danno”, ma anche e soprattutto di aver tentato di ripararlo2. La “riparazione” rosenzweigiana passa attraverso il ripensamento dell’idea di totalità, non mettendo in questione la necessità del pensiero di ricondurre il molteplice ad unità, bensì la possibilità che esso, in quanto finito, possa includere l’infinito ed essere, allo stesso tempo, auto-inclusivo. La totalità “altra”, ricercata da Rosenzweig, non è inclusiva e soprattutto non è mai conclusa, ovvero è non determinata, innanzitutto rispetto a se stessa. In altre parole, il gesto decisamente antihegeliano di Rosenzweig, ripreso e radicalizzato da Lèvinas, come vedremo meglio in seguito, consiste nel marcare e mantenere viva in tutta la sua paradossalità la distanza tra totalità e infinito. Spezzare la pretesa auto-inclusiva ed auto-fondativa della ragione vuol dire far cenno a quel “presupposto irriduci-

2. Ivi, pp. 79-81.

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bile”, oltre ogni mediazione, perché ad esse si sottrae costitutivamente, a quell’altro che la circolarità della ragione tenta di sopprimere, ma che gli si ripropone come potenza nascosta e inquietante, come possibilità pura che è prima di ogni atto3. Se Hegel, come si è visto, tenta di colmare ogni distanza, di ricondurre ogni alterità a identità, Rosenzweig procede in senso opposto: la novità del suo pensiero consiste proprio nel mantenere le distanze tra i termini di volta in volta coinvolti nella sua riflessione. Una differenza che, tuttavia, non esclude la possibilità della congiunzione, anzi quest’ultima assume un’importanza capitale nel “nuovo pensiero”, come tentativo di conservare la tensione tra i termini e l’inquietudine del pensiero, per sfuggire alla quiete sintetica del sistema hegeliano. L’inquietudine in Rosenzweig non è soltanto filosofica, ma primariamente ebraica, poiché, l’esperienza religiosa ebraica si nutre di tale alterità, di tale costitutiva erranza della propria radice, vedendo in essa non un vuoto da riempire, ma una traccia da preservare, la presenza di un’assenza da custodire nella sua misteriosità. Per smarcarsi dalla pretesa onnicomprensiva dalla ragione filosofica occorre capire innanzitutto su cosa essa poggia, o meglio fa leva. Rosenzweig individua subito la radice del problema nelle prime pagine della Stella: «dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto»4. Il sistema di Hegel rappresenta, da questo punto di vista, la risposta, forse la più poderosa dell’intera storia della filosofia, al grido di terrore dell’uomo di fronte alla propria mortalità, dunque la pretesa onnicomprensiva e onninclusi-

3. G. Petrarca, Nel vuoto del tempo. Rosenzweig, Hegel e lo Shabbàt, Jaca Book, Milano 2015, pp. 25-27. 4. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, tr. it. di G. Bonola, Marietti, Genova 1985, p. 3.

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va del pensiero hegeliano non si limita, per Rosenzweig, alla circolarità autoreferenziale, ma si estende oltre l’ambito della filosofia stessa, aspirando a sostituirsi alla rivelazione, rendendo manifesti i misteri del mondo e assolvendo a quella funzione redentrice della condizione umana che da sempre è stata ascritta alla fede5. Rosenzweig rimarcando ciò non sta cercando di sostituire alla pretesa veritativa della ragione quella della religione, ma di attingere da quest’ultima, con un gesto che è ancora propriamente ed eminentemente filosofico, l’attenzione per la finitezza della condizione umana che trova proprio nell’accadere della morte la sua esperienza limite. Un pensiero altro che riconosca nuovamente il valore individuale dell’uomo e la sua specificità esistenziale, obliata dalle pretese titaniche della ragione universale; un pensiero che riscopre il carattere di evento e di accadere connaturato alla vita ed escluso da un’interpretazione del reale affidata soltanto all’emergere e al compiersi della rigida necessità logica. Un pensiero finito, consapevole dei propri limiti, in cui l’inevitabile desiderio di infinito, l’insorgere di una domanda che trascende la finitezza umana, non nasca dalla volontà di pareggiare finito e infinito, di piegare, a fini puramente consolatori, il secondo alle esigenze umane del primo. In ciò risiede la portata innovativa, e per certi versi epocale, del pensiero di Rosenzweig, che vuole essere: «un guanto di sfida all’intera venerabile comunità dei filosofi dalla Ionia fino a Jena»6. Se il nuovo pensiero si configura come un pensare il limite e al limite della ragione filosofica, non può non partire dal concetto di Dio, che è stato da sempre considerato un concetto-limite. Rosenzweig avverte che proprio il tentativo di preservare 5. Ivi, pp. 4-7. 6. Ivi, p. 12. Corsivo mio.

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l’ulteriorità e l’ineffabilità del divino, insito anche nel suo approccio alla questione, potrebbe far pensare che la strada più sicura sia quella, già ampiamente battuta, della “teologia negativa”. Tuttavia, egli evidenzia con acutezza il fatto che persino nella via negationis c’è il pericolo di assolutizzare il divino come Nulla. All’opposto, Rosenzweig, con accortezza logica parlando di “non-nulla”, non solo ne afferma la positività, ma, mantenendo viva la contraddizione da cui si origina, tenta di alludere a quella possibilità pura che è prima di ogni affermazione o negazione, del sì e del no, perché cerca di tenerli insieme in tutta la loro problematicità7. In tal modo si preserva anche l’intrinseca libertà del divino, non la si necessita neanche all’atto della creazione, perché il “posto” non è un “pre-supposto”, è assoluta libertà, infinito arbitrio, potenza non necessitata all’atto8. L’obiettivo, ancora una volta, è l’uscita dal cosmo chiuso e saturo dell’idealismo hegeliano in cui tutto si riempie, è interamente colmato, in cui tutto è reso manifesto ed ogni alterità è ricondotta dialetticamente ad unità. In esso scompare la fecondità del punto di vista, la ricchezza dell’individualità, della differenza specifica, il miracolo dell’esistenza singola, sopraffatta dalla voracità del Tutto9. All’opposto, Rosenzweig ritiene che l’individuo, colto nella sua ineffabilità, sia la via d’uscita dalla chiusura della ragione hegeliana e dalla sua pretesa di dominare il reale. L’uomo, prima ancora che Dio, deve 7. La necessità, anche per il pensiero contemporaneo, di ripensare il limite della ragione, andando oltre la tradizionale contrapposizione tra teologia apofatica e catafatica è stata messa in evidenza da V. Vitiello, Il Dio possibile, cit., pp. 13-30, si veda anche Id., Dire Dio in segreto, cit., pp. 7-17. 8. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit. pp. 25-33. Sull’estrema distanza da Hegel si rileggano le osservazioni di Cacciari e Vitiello sul tema dell’inizio, mentre sulla paradossale vicinanza a Schelling si veda M. Cacciari, Sul presupposto. Rosenzweig e Schelling, in “Aut-Aut” n. 211-212, gennaioaprile 1986, pp. 43-65. 9. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pp. 54-55.

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essere riscoperto nella sua alterità, nella sua capacità di creare relazioni che vadano oltre la rigidità e l’astrazione del pensiero logico, le trascendano, radicandosi nella fattualità dell’esistenza umana e nella sua costante apertura, mai prevaricante, all’altro da sé. Il meta-logico, cioè il tentativo di pensare alla possibilità che tiene insieme affermazione e negazione, di cui si è detto, può essere compreso a pieno solo attraverso il suo nesso inscindibile con il meta-etico. La scoperta di tale dimensione incrina le pretese della totalità hegeliana, coglie l’uomo nella sua singolarità irriducibile al primato del tutto e alla sua unità presupposta10. Il punto da cui parte Rosenzweig è proprio quello che Hegel, e con lui tutto il logos occidentale, ha tentato di obliare, ovvero la transitorietà dell’essere umano, sottolineata citando il Qoèlet (Quo. 1,4). La sapienza ebraica ricorda all’uomo il suo essere perituro, gli rammenta che ogni suo slancio prometeico è destinato al fallimento, perché la sua natura è finita e mortale, mentre l’infinito e l’immortalità appartengono solo a Dio. L’esperienza religiosa rappresenta, da questo punto di vista, un monito per le pretese titaniche del sapere. Essa richiama al senso del limite e al fatto che ogni conoscenza umana, anche quella apparentemente più salda, essendo mondana, è destinata a perire con il mondo. Inoltre ad essa, nonostante gli innumerevoli sforzi di inglobarlo e ingabbiarlo, continua e continuerà a sfuggire Dio, perché è al di sopra del mondo, oltre le sue logiche. All’uomo, dunque, non resta che accettare tale limite come testimonianza della propria particolarità e specificità, coltivando nel silenzio e nell’attesa il desiderio che, senza confidare negli slanci della ragione, la propria finitudine

10. S. Mosès, Figure della modernità ebraica, tr. it. di O. Di Grazia, Luciano, Napoli 2012, pp. 54 e ss. Cfr. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pp. 63 e ss.

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possa aprirsi a qualcosa di sconfinato11. La scoperta di tale dimensione altra ed oltre l’uomo potrà avvenire a patto che egli sappia uscire dalla solitudine del proprio sé, (chiusura che in Hegel si è vista essere sia concettuale che esistenziale, semmai fosse possibile separare i due piani), sappia forzare la gabbia del proprio Io granitico ed ermetico, per aprirsi all’altro, all’incertezza e alla precarietà dell’essere nel mondo, che se da un lato limita le sue pretese totalizzanti, dall’altro può essere il ponte verso un nuovo ethos, verso quella dimensione che Rosenzweig chiama il meta-etico12. La radicalità anti-hegeliana della strada tracciata dal filosofo ebreo, già nella prima parte della Stella, è bene evidenziata da Cacciari, facendo notare come l’individualità esistenziale, la specificità creaturale, che Hegel intendeva annullare con il trionfo del panlogismo del suo sistema, diventa il perno per il ripensamento di un nuovo modo di abitare la terra e di rapportarsi alla verità. Per questo, anche quando Rosenzweig attinge a piene mani alla tradizione ebraica, bisogna sempre tener presente che il suo interesse non è semplicemente teologico, ma esistenziale. Come sarà più evidente nel dipanarsi dei raggi della Stella nelle pagine successive, egli tenta di tracciare un originale Dasein, uno Judasein, ovvero un Dasein specificatamente ebraico, che rende palese come la verità racchiusa in tale tradizione non si identifichi con la staticità della legge, con il suo possesso sicuro e appagante, ma viva di un’erranza costante, di una dinamicità continua, in cui ogni abito veritativo è esposto al rischio, pari a quello del singolo nella sua esperienza esistenziale, di una sfuggente alterità13. Rosenzweig è ben consapevole dei pericoli a cui espone il nuovo pensiero qualora si prenda atto della frantumazione della totalità hegeliana, della rottura dei 11. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pp. 66-67. 12. Ivi, pp. 86-87. 13. M. Cacciari, Icone della legge, Adelphi, Milano 1985, pp. 13-17.

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vasi evocata da Scholem. Esso fa vacillare l’idea di verità come fondamento stabile, come Grund e fa emergere, all’opposto, la forza dell’ipotetico, del “forse” e del “se”. Parole terribili, perché fanno cenno a quell’estraneità, foriera di inquietudine, da cui l’uomo credeva di essersi messo a riparo attraverso l’ala protettiva della filosofia idealista. All’improvviso tutto diventa uno “sciame di se” e il mondo sembra governato da relazioni sospese all’alterità, alla mancanza sconcertante di un presupposto unificante. Dio, uomo e mondo sono pensati in relazione, ma: «solo il “forse” può stabilire relazioni, anzi non può neppure stabilirle, può al massimo sospettarle e può sospettare tanto una relazione, un ordine, come un altro. Forse non c’è alcuna certezza, c’è solo una ruota di possibilità che gira. Un “se” si accavalla ad un altro, un “forse” ne cancella un altro»14. Ciò non significa, come lo stesso Rosenzweig sottolinea nella chiusa della prima parte, un abbandonarsi all’arbitrio o all’illogico, ma è un tentativo di preservare e custodire il mistero insito nella verità che non sarà mai portato a piena manifestazione dalla ragione e a cui l’esperienza religiosa allude attraverso la creazione, la rivelazione e la redenzione, che costituiranno i concetti cardine della seconda parte della Stella. L’approccio cui Rosenzweig aspira è, dunque, di natura dialogica, in cui l’Io non è chiuso in se stesso, ma aperto al possibile risuonare di un tu che lo libera dai limiti dell’egoità (Ichheit). Un rapporto fatto di attese, in cui ciascun termine coinvolto nella relazione può diventarne il punto nodale, senza che ciò implichi la necessità di essere tale. Un modo di essere nel mondo che non anteponga la rigidità del sé, della propria essenza, ma si renda disponibile a scoprire l’altro, si apra all’accadere dell’altro, poiché: «il concetto ordinatore di tale mondo non è l’universale, né l’archè, né il telos, non l’unità naturale né

14. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 91. Corsivo mio.

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quella storica, bensì il singolo, l’evento»15, il cui inevitabile riflesso è il rapporto con l’Altro, che «invece di esigere la nostra donazione totale, si dà egli stesso a noi: invece di innalzarsi alla sua altezza discende fino a noi, e ancora, invece di prometterci come ricompensa il nostro sé ci promette profeticamente l’esodo dal sé»16. È evidente il netto cambio di prospettiva rispetto ad Hegel: il soffermarsi sulle differenze e sull’alterità in seno ad ogni relazione non è volto al recupero dialettico di un identità speculativa, bensì a mostrare che il tacito presupposto dell’identità è l’immediata molteplicità di ogni contenuto e che, al di là della presupposta e presunta uguaglianza tra pensiero ed essere, c’è un oltre, un alterità non obliabile e meritevole di essere indagata in tutta la sua enigmaticità. Ciò implica altresì che le esperienze esistenziali nei confronti di Dio e del mondo in cui l’uomo è coinvolto non possono essere fissate hegelianamente in base ad un presupposto, ma devono essere colte nel loro accadere, nel loro carattere di evento17. Sullo sfondo di tale concezione c’è un idea di verità opposta a quella della tradizione filosofica occidentale: non più oggettivante, da intendersi come possesso stabile chiuso in sé, ma un concetto di verità nato dall’alterità e per l’alterità che attende il dono dell’Altro per essere inverato18. Nella Stella si delinea la necessità di mettere in questione l’essere come fondamento (Grund), per aprirsi ad un’ontologia dell’evento, del senzafondo (Ab-Grund) che istauri un nuovo rapporto con la verità, 15. F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p. 29. 16. Ivi, pp. 30-31. Corsivo mio. 17. A. Fabris, Linguaggio della rivelazione. Filosofia e teologia in Franz Rosenzweig, Marietti, Genova 1990, pp. 51-53. 18. Ivi, pp. 139-140. Il senso autentico di tale prospettiva sarà più chiaro alla fine del presente capitolo, quando ci occuperemo della teoria rosenzweigiana della “conoscenza messianica”. Per ora ci è sembrato opportuno accennare alle osservazioni sul tema di Fabris, per evidenziare la portata innovativa del “nuovo pensiero” rispetto alla tradizione filosofica occidentale.

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di rivelazione e nascondimento, di manifestazione e mistero, e che, allo stesso tempo, si sforzi di pensare quella possibilità pura, prima di ogni affermazione o negazione del reale. Un pensiero della contraddizione attraverso il quale vengano tenuti insieme il sì e il no all’interno di ciascun elemento, in cui si mantenga la fattualità incerta del loro porsi e l’inquietudine di ogni contenuto, oltre ogni chiusura identitaria, senza cedere alla tentazione dialettica della sintesi che annulla ogni differenza19.

4.2 Verità ed Evento: Rosenzweig/Heidegger Il carattere di sfida alla tradizione filosofico occidentale che permea il pensiero di Rosenzweig lo rende accostabile, facendo leva sulle affinità, ma tenendo presenti anche le profonde divergenze, al ripensamento della storia della filosofia da cui prende le mosse la speculazione di Heidegger. L’orizzonte problematico entro cui i due autori si muovono è infatti pressoché lo stesso. Entrambi comprendono che l’idea di essere consacratasi nella filosofia moderna da Cartesio fino all’idealismo tedesco ha in sé il senso del fissare e dell’autoproduzione, venendo ad essere qualcosa di conchiuso ed auto-sussistente20. A partire da tale sfondo entrambi maturano l’esigenza di una rottura che ad Heidegger viene dalla portata innovativa della fenomenologia di Husserl21 ed anche oltre, mentre a Rosenzweig dall’esigenza di conciliare l’alteri19. Ivi, pp. 149-152. 20. Un aspetto che abbiamo già evidenziato accostandoci ad Hegel, il quale rappresenta l’apice della chiusura della ragione nel suo rapporto con l’essere. Cfr. § 3.3. 21. Sul tema cfr. V. Vitello, Alle radice dell’intenzionalità: Husserl ed Heidegger, in AA. VV. Heidegger a Marburgo (1923-1928), a cura di E. Mazzarella, Il Melangolo, Genova 2006, pp. 127-154.

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tà dell’esperienza religiosa ebraica con il pensiero moderno, proprio andando oltre l’ideale dell’essere come presenza. Due punti di partenza che, come sarà ancor più evidente proseguendo nel confronto, appaiono molto lontani tra loro, ma che trovano il punto d’incontro nella necessità di ripensare l’essere a partire dall’orizzonte originario dell’accadere del tempo, a partire dal paradossale incrociarsi di tempo ed essere22. A tal proposito Karl Löwith sostiene che Rosenzweig fu il vero contemporaneo di Heidegger, in quanto il suo pensiero è mosso dagli stessi interrogativi di fondo. La forza critica di entrambi gli itinerari speculativi consiste infatti nel medesimo tentativo di voltare le spalle alla metafisica della coscienza tipica dell’idealismo tedesco, senza però ricadere nel positivismo ed assumendo come punto d’avvio l’effettività dell’esserci umano e il suo problematico rapporto con la temporalità e l’eternità23. Una strada che percorrono entrambi, anche se con esiti differenti, per cercare un nuovo inizio alla storia del pensiero che in Rosenzweig, come si è visto, è spinto dalla necessità di andare oltre la chiusura della ragione hegeliana e in Heidegger dallo sforzo di ricercare un approccio originario alla questione dell’essere. Un pensiero dell’“altro” inizio che in Heidegger è divenuto compiutamente noto a partire dalla pubblicazione dei Beiträge zur Philosophie. Tale scritto postumo evidenzia come la ricerca heideggeriana di un nuovo inizio abbia una vistosa impronta anti-hegeliana, accostabile, se non addirittura sovrapponibile, a quella che segna il pensiero di Rosenzweig. Heidegger sostiene, infatti, che il suo tentativo si regge sulla domanda circa la verità dell’essere, suscitata dalla necessità di riscoprire la meraviglia da cui nasce l’impulso stesso del filoso-

22. B. Casper, Rosenzweig ed Heidegger. Essere ed evento, tr. it. di A. Fabris, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 26-30. 23. K. Löwith, M. Heidegger e F. Rosenzweig. Proscritto a “Essere e tempo”, tr. it. di E. Greblo e M. Pelloni in “Aut-aut” n. 222, 1987, pp. 76-77.

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fare. Questa ricerca potrebbe sembrare, di primo acchito, un andare indietro nel cammino del pensiero, un far retrocedere il sapere verso una meditazione che ristagna, è per contro il tentativo di recuperare la feconda e originaria inquietudine da cui trae forza la radicalità della domanda sull’essere. La storia del pensiero ha invece caratterizzato tale domandare come brama di possesso, come appropriazione continua, come desiderio di certezze in nome del quale, per soddisfare la necessità di stabilità, si è dimenticato tutto il resto, anzi si è escluso ogni “resto” dalla storia stessa del pensiero24. Nel seguire il paradigma tradizionale la ragione ottiene una parvenza di dominio e il compito del pensiero è spezzare tale illusione. Occorre minare le certezze dell’Io, la perfetta auto-sussistenza dell’uomo come animal rationale, il quale si costituisce come trionfo dell’egoità che va smascherata e superata per aprire la strada verso un altro inizio. Il nuovo inizio è segnato profondamente dall’incertezza, poiché: «il passaggio all’altro inizio è deciso, e tuttavia non sappiamo dove andiamo, né quando la verità dell’Essere diventi il vero, né dove la storia in quanto storia dell’essere imbocchi la sua strada più rapida e più breve. In quanto transeunti in questo passaggio dobbiamo passare attraverso una meditazione essenziale sulla filosofia stessa, affinché essa guadagni l’inizio da cui, senza bisogno di alcun sostegno, possa tornare ad essere interamente se stessa»25. In base a tali presupposti è evidente che l’impostazione del pensiero non può più essere sistematica, alla maniera di Hegel. Nel pensiero del nuovo inizio non è più possibile pensare l’essere né come dottrina né come sistema, poiché il compito della ragione non è più quello di portarlo a piena manifesta-

24. M. Heidegger, Contributi alla filosofia. (Dall’Evento), tr. it. di F. Volpi e A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007, pp. 39-40. 25. Ivi, p. 189.

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zione, ma di rispettarlo nel suo essere velato26. Al nuovo inizio è estraneo il problema di avere un sistema, poiché dietro l’impostazione sistematica si nascondono ancora il desiderio di certezza e la volontà di dominio. Contestando tali presupposti, il pensiero del nuovo inizio non può che essere a-sistematico. Ciò non lo fa ricadere nell’arbitrio o nella confusione, quasi che solo un sistema possa garantire l’ordine e il rigore del pensiero, bensì si tratta di un rigore diverso da come lo ha concepito la tradizione, un atteggiamento che coniuga alla libertà del domandare il rispetto per il carattere sfuggente dell’essere e della sua chiamata. Il pensiero, infatti, quando tenta di accostarsi all’essere non lo raggiunge, non se ne appropria, non riesce a pareggiarsi e sovrapporsi hegelianamente ad esso, ma fa esperienza di sospensione. L’interrogazione autentica sull’essere è oscillazione e tensione continua, che non cessa pur nei suoi tentativi di accostamento, poiché scopre il carattere di apertura insito nel domandare stesso, il suo stare sospeso all’estremo accadere dell’essere che non garantisce alcuna via d’accesso privilegiata27. Entrambi i pensatori sono dunque mossi dalla volontà di ritornare al carattere originario ed essenziale del domandare filosofico che si interroghi sulla verità, tenendo tuttavia presenti i limiti costitutivi dell’esistenza umana. Il presupposto comune non può che essere il superamento di un pensiero unico, puro, sistematico ed auto-sufficiente, culminato nell’idea hegeliana di totalità. Un pensiero onnicomprensivo ed esuberante perché pretende di superare ogni limite, cui contrapporre una speculazione radicata nella fattualità, nella realtà effettiva. Löwith le definisce due filosofie del punto di vista, non perché tendano al relativismo, ma per il loro prendere sul

26. Ivi, p. 107. 27. Ivi, p. 81.

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serio il limite dell’esistenza umana, la finitezza storica come unica condizione di approccio alla verità. La soggettività diventa dunque, nella prospettiva di entrambi, non il pretesto per fagocitare e dominare il reale, nella pretesa che il proprio sguardo possa estendersi faraonicamente su tutto, ma nella consapevolezza che proprio il limite soggettivo possa essere prolifico in un duplice senso: sia perché pone al riparo da pretese titaniche e tiranniche, sia perché con la sua costitutiva apertura pone di fronte a nuove modalità d’accesso alla verità dell’essere. La differenza sostanziale tra i due pensatori consiste invece nel fatto che Rosenzweig vi giungerà, come vedremo meglio nel paragrafo seguente, attraverso l’alterità della rivelazione ebraica e il suo paradossale rapporto con la verità, mentre in Heidegger il rivelarsi della verità è svuotato di ogni senso teologico, richiamandosi al significato greco della verità come a-lethèia, ovvero come scoprimento di ciò che resta coperto, come rivelazione di ciò che si ri-vela, ovvero, in senso letterale, si vela ancor più finemente28. Pur non facendo leva sull’esperienza religiosa, anche Heidegger si domanda cosa sia la verità e se il modo tradizionale di concepirla in rapporto all’uomo possa ritenersi ancora valido. Nel celebre saggio Dell’essenza della verità egli si chiede se l’idea di fondo che regola il concetto della verità non sia ancora quella medievale dell’adeaequatio rei et intellectus. In essa la conoscenza umana ha il suo fondamento nella convinzione che l’oggetto e la proposizione ad esso riferita siano uguali all’idea che l’intelletto ne ha. La veritas viene dunque a configurarsi come la convenienza, la concordanza degli enti tra loro, garantita dal fatto che, essendo enti creati basano tale accordo sull’ordine determinato dal Creatore. Pur tralasciando la fede in

28. K. Löwith, M. Heidegger e F. Rosenzweig. Proscritto a “Essere e tempo”, cit., pp. 78-83. Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, tr. it. di P. Chiodi, riv. da F. Volpi, Longaresi, Milano 2005, pp. 265-277.

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una creazione, di fatto anche in epoca moderna non è venuta meno l’idea della concordanza, poiché l’affermarsi del soggettivismo, anche quando non pretendeva di utilizzare concetti teologici, non ha messo in discussione la ricerca di un ordine predeterminato che garantisse all’uomo il suo dominio sul mondo. Eppure, nota Heidegger, la condizione stessa affinché l’uomo possa conoscere è il fatto che di fronte a lui vi sia un ente che si possa incontrare con un soggetto. Tale ente deve essere dunque aperto all’incontro conoscitivo con l’uomo e, a sua volta, l’ente uomo deve aprirsi agli oggetti della conoscenza. La conformità è possibile in virtù di tale apertura originaria che costituisce l’essenza della verità. Ciò significa altresì che l’uomo non può più concepire il suo conoscere come un appropriarsi dell’ente, ma come un lasciarlo essere e un lasciarsi coinvolgere da esso. Conoscere è fare esperienza dell’apertura originaria, è un esporsi alla svelatezza dell’ente, alla possibilità della a-lethèia. Nel fare tale esperienza l’uomo scopre anche qualcosa su di sé: l’apertura costitutiva del suo stesso esserci. L’ek-sistentia non indica solo una sussistenza, un mero essere presente, ma anche e soprattutto la libertà di esporsi alla sveltezza dell’ente, cui può accostarsi ed aprirsi, senza la pretesa di esserne misura. Anche la libertà dell’uomo intesa innanzitutto come libertà di conoscere, in tale prospettiva, perde il carattere di possesso e dominio, viene ad essere possibilità di aprirsi ed esporsi, di e-sistere. Ciò mette fuori gioco il pensiero calcolatore, quello che pretende di conoscere la totalità degli enti e dominare il reale, poiché l’esposizione è tale solo in virtù della sfuggevolezza della totalità. Il paradigma della verità come apertura costante si fonda sulla consapevolezza che ogni conoscenza umana è segnata dal limite, il quale rende autentico lo stesso farsi domande sul reale. La capacità di aprirsi allo svelarsi degli enti va di pari passo con la consapevolezza che la totalità nel suo insieme è inconoscibile e indeterminabile. Lo svelarsi dell’ente comporta, allo stesso tempo, il velarsi della totalità, cui l’uomo non può sottrarsi, anzi è suo

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compito preservare e custodire la paradossalità del rapporto conoscitivo. Heidegger dice infatti: «nel lasciar essere che svela e contemporaneamente vela l’ente nella sua totalità, accade che il velamento appaia come ciò che è in primo luogo velato. L’esserci, in quanto esiste, custodisce la prima e più ampia non-svelatezza, la non-verità autentica. L’autentica non essenza della verità è il mistero»29. Insistere sulla centralità ineludibile del mistero nell’esperienza conoscitiva non implica, tuttavia, la rinuncia ad ogni pretesa veritativa, ma l’accettazione dei limiti dell’umano, i quali non rappresentano un ostacolo per l’esistenza, ma la condizione di possibilità dell’essere nel mondo e del potere progettare e pianificare. Esistere vuol dire insistere, fare i conti con tali limiti ed accettarlo in quanto tale. L’uomo, pur provando irrequietezza per questo stato di cose, non può eludere il mistero, volgendo il suo sguardo solo al rapporto pratico con la realtà. In tal caso cadrebbe in errore e non capirebbe che la dimensione autentica dell’esserci umano implica il non sottrarsi al mistero della verità, alla paradossale contemporaneità di velamento e svelamento. È solo attraverso il ripensamento dell’idea di verità che si può operare una svolta all’interno della storia dell’essere, poiché ad esso appartiene un velarsi diradante, un sottrarsi che vela, che apre alla radura della verità30. Heidegger riprende e approfondisce il tema nei Contributi, laddove sta maturando l’esigenza della Kehre. Egli rimarca che l’essere è dismisura, non solo nel senso quantitativo, ma come essenziale sottrazione ad ogni valutazione e misurazione, in cui risiede, allo stesso tempo, la possibilità di avvicinarsi all’esserci, pur nella sua velatezza. Da tale paradosso, irrisolto e irrisolvibile, scaturisce e si tiene aperta la contesa dell’essere 29. M. Heidegger, Dell’essenza della verità in Segnavia, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 149. Corsivo mio. 30. Ivi, pp. 150-156.

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con l’ente, il suo vivere di prossimità e distanza31. L’esperienza della verità come a-lethèia è dunque solo parzialmente rivelazione, superamento e rimozione del velo, il quale permane più sottilmente quando fa cenno al mistero. Un’esperienza per la quale risulta inadeguata l’idea del conoscere come portare alla luce, poiché l’a-lethèia vive di ombre, di chiaroscuri, non fa della totale chiarezza il suo baluardo, ma insegna a custodire l’ineludibile velatezza della verità, mai totalmente aperta alla luce, all’orizzonte della presenza. L’esperienza dell’essere così intesa non fa della verità un mezzo per l’autoaffermazione dell’uomo, ma insegna a sopportare il limite intrinseco della natura umana, la sua finitezza di ente che lo priva dell’apparente unicità e del suo illusorio primato, sul quale la tradizione filosofica aveva fondato il suo presunto dominio sul reale32. La nuova idea di verità proposta da Heidegger è invece evento del vero, cenno al fendersi abissale che apre alla contesa tra essere ed ente. Non può essere ciò che è stabilito una volta per tutte, che ha validità in sé e per sé, ma non è neppure il suo contrario: il fluire indistinto di tutte le opinioni. La verità è il centro abissale che vibra al possibile incontro con l’esserci, è lo sprigionarsi della semplicità e dell’unicità dell’essere nella sua paradossale compresenza di prossimità e distanza. Se dunque il primo inizio, quello della tradizione filosofica occidentale, ha pensato sempre l’essere come presenza e la verità come il rilucere di un’essenza permanente, il nuovo inizio, l’altro inizio deve far leva sul concetto di evento come carattere essenziale dell’essere e come concetto che apre alla nuova idea di verità delineata finora33. È proprio tale caratterizzazione come evento a far assumere al tema della temporalità un ruolo centrale nei Contributi. 31. M. Heidegger, Contributi alla filosofia. (Dall’Evento), cit., p. 253. 32. Ivi, pp. 258-259. 33. Ivi, pp. 57-58.

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Casper nota infatti che, sebbene l’intenzione di comprendere l’essere nell’orizzonte del tempo sia già esplicita in Essere e tempo come via d’accesso privilegiata alla comprensione dell’esserci, con la svolta il pensiero heideggeriano pone al centro il concetto di accadere. La temporalità non è intesa come auto-progetto, ma come dono dell’essere stesso, rispetto al quale l’esserci dell’uomo non può far nient’altro che percepire e accogliere tale accadimento. Il senso, già rimarcato in precedenza, della verità come sopportazione del limite si comprende solo se si coglie il carattere di ossimoro e di continuo contrasto dell’essere come evento, il suo vivere di slanci e ritrazioni che non gli fa perdere mai la dimensione di oscillazione e di svolta. L’evento avviene nel tempo, ma conserva il suo carattere di cenno. Il darsi dell’essere nel tempo rinvia sempre al “tra”, a quel framezzo che rende possibile l’apertura dell’essere e del mondo. Una filosofia dell’evento dovrà dunque accennare alla fenditura originaria dell’essere che non lo rende rappresentabile, né assimilabile all’idea dell’Uno della tradizione filosofica. È un pensiero e un discorso sulla conflittualità costitutiva dell’essere, su quel “fra” tra essere ed ente che coinvolge anche chi vi si accosta e, così facendo, rende anche testimonianza della necessità della svolta. Inteso in tal modo il concetto heideggeriano di evento presenta molte affinità con il percorso di Rosenzweig. Come sarà evidente, il pensatore ebreo utilizzerà proprio il concetto di evento per far emergere l’alterità della rivelazione ebraica e la necessità della sopportazione del limite, evidenziato anche dal filosofo tedesco, diverrà, per quello ebreo, sinonimo di caparbietà e testimonianza di fedeltà a Dio. Un Dio che proprio in quanto evento, in quanto puro accadere, è absconditus sed tamen non ignotus, ovvero si rivela pur restando, allo stesso tempo, nascosto34. 34. B. Casper, Rosenzweig ed Heidegger. Essere ed evento, cit., pp. 54-59.

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Heidegger specifica inoltre che il suo interesse per la temporalità è radicato sulla convinzione che la domanda sull’essere, la Grundfrage, conduce ad interrogarsi anche sull’essenza della storia concepita in base alla permanenza dell’essere stesso, compito fondamentale di un’ontologia che comprenda come la storicità sia fondata sulla temporalità. Tale domanda guida il percorso tracciato in Essere e tempo e viene ripresa nei Beiträge per verificare se lo spazio-tempo non riveli soltanto l’essenza della storia, ma faccia cenno soprattutto all’abisso del fondamento, rinviando all’essenza dell’essere stesso che non può essere colta in una semplice prospettiva di filosofia della storia35. L’interrogazione heideggeriana, pur essendo radicata nella storia va anche oltre essa: si spinge verso il rapporto con lo spazio-tempo in quanto questione che scaturisce dall’essenza della verità e le appartiene, poiché apre al rapporto con l’esserci fatto di estasi e attrazione. L’evento della verità immette nell’attimo della contesa del mondo e la svolta, nei limiti delle possibilità umane, intende cogliere, entro lo spazio della storicità, il senso del qui ed ora, da cui dipende l’unicità dell’esserci e la sua possibilità di realizzare il proprio compito storico, aprendosi a ciò che gli è dato in dote. Heidegger accenna qui al possibile rapporto con l’eterno, presentato non come ciò che perdura, bensì come ciò che proprio nell’attimo si sottrae e potrebbe un giorno ritornare. Non certo come un ritorno dell’uguale, ma come ciò che di nuovo si trasforma, rinviando all’essere nella sua unicità e nella sua piena manifestatività. Nell’attesa che ciò avvenga, all’uomo non resta che il sostare e il permanere nella domanda sull’essere, cercando di capire come lo spazio-tempo appartenga all’essenza della verità. Lo spazio-tempo rinvia infatti a quella fenditura originaria, a quel “tra” in cui si situa l’esserci e il suo possibile rapporto con l’essere, sempre in bilico tra appartenenza e 35. M. Heidegger, Contributi alla filosofia. (Dall’Evento), cit., p. 60.

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chiamata, tra abbandono e accenno alla conquista, in cui consiste il vibrare e l’oscillare dell’essere, di cui si è detto in precedenza. Un rapporto segnato dalla paradossale compresenza di vicinanza e lontananza, di vuoto e donazione, di slancio e indugio. Lo “stare” nell’attimo è la consapevolezza di essere attratti estaticamente da ciò che indugia e si nega, da ciò che si vela e si dirada, sostituendo all’idea tradizionale della verità come appropriazione lo stato d’animo fondamentale del ritegno. Ciò mette fuori gioco ogni pretesa di soggettivizzazione e assoggettamento del reale per aprire all’unicità dell’essere in quanto evento36. L’essere è dunque vibrazione, puro accadere che rende possibile il libero gioco dello spazio tempo. La filosofia dell’evento deve spingersi fino a tale limite estremo del pensiero, in cui l’essere in quanto accadere si rivela nella sua ricchezza e, allo stesso tempo, nella sua abissalità. L’essere non può caratterizzarsi, alla maniera di Hegel, come Assoluto, il suo sottrarsi non esclude la possibile intimità con l’esserci, il fatto che l’uomo sia proteso verso di esso, senza però avanzare la pretesa di volersene appropriare. Il carattere estatico dello spazio-tempo apre alla radura dell’essere, in cui però non c’è spazio per alcun volontarismo, per alcuna hybris, perché il presentarsi dell’esserci al possibile incontro con l’essere è innanzitutto attesa che qualcosa si manifesti, fosse anche soltanto attraverso dei cenni. Un pensiero così strutturato non ha più bisogno di alcun sistema, esso è propriamente storico, in quanto è consapevole del fatto che l’essere come evento sostiene ed eccede l’articolarsi della storia, mettendo da parte ogni tentativo di calcolo o di deduzione logica e invitando l’esserci soltanto ad essere disponibile ad accogliere la verità. L’itinerario di pensiero avviato con Essere e tempo ha dunque lo scopo di preparare l’esserci al presentarsi dell’essere, senza avanzare la pretesa che il pensiero possa condurre alla 36. Ivi, pp. 363-367.

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sua conquista, bensì abituandolo a tale rapporto paradossale radicato nello spazio-tempo, che l’uomo ha il compito di salvaguardare e custodire in tutta la sua misteriosità37. Quanto detto finora potrebbe far pensare che Heidegger, pur partendo dall’effettività storica dell’uomo, dal senso del limite insito nella sua natura, trattando il carattere estatico del tempo nel suo rapporto con l’essere, lo travalichi; invece la peculiarità del pensiero del filosofo tedesco, che rende ragione anche del possibile accostamento a Rosenzweig su questi temi, è proprio il considerare il rapporto con l’essere tenendo però sempre ferma e presente la finitezza umana. Ecco perché la morte, come esperienza limite dell’esserci umano, assume un’importanza capitale anche nei Contributi. Heidegger dice infatti: «l’unicità della morte nell’esserci dell’uomo appartiene alla più originaria determinazione dell’esserci, e cioè al suo essere fatto avvenire e fatto proprio dell’Essere stesso per fondare la sua verità (apertura del velarsi). Nel carattere insolito e unico della morte si apre nell’intero ente ciò che più di tutto è inusuale, l’Essere stesso che si presenta essenzialmente nella sua potenza straniante»38. Dunque il rapporto dell’esserci con la morte, se da una parte chiama in causa l’ineludibile finitezza umana, la sua chiusura; dall’altra rinvia anche, allo stesso tempo, alla possibilità dell’apertura, del precorrere e progettare. Essa non va intesa come la tendenza al raggiungimento del mero nulla, ma come una possibilità di estrema apertura. La morte, in quanto situa l’esserci nel tempo, non è soltanto il suo limite che lo conduce alla fine, ma è anche e soprattutto ciò che lo incalza, lo sprona a proiettarsi verso il futuro. Se l’esserci assume su di sé la possibilità della morte, non lo fa con l’intento di negare l’essere, o peggio ancora di negare se

37. Ivi, pp. 244-247. 38. Ivi, p. 284.

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stesso, ma di affermare la possibilità stessa di tale rapporto proprio perché segnato dalla consapevolezza del limite di cui si rende testimonianza. Lo stesso intento anima la trattazione dell’essere per la morte in Essere e tempo, per cui il suo pensiero, precisa il filosofo tedesco, non può essere in alcun modo ridotto, in base ad una comprensione superficiale, ad una “filosofia della morte”, perché il tema è sempre collocato in un orizzonte più ampio, oltre ogni possibile deriva nichilista, ovvero la domanda sull’essere e sul suo fondamento che spinge l’esserci a fare i conti con il lato abissale del fondamento stesso39. Il domandare originario e autentico ha sempre, per Heidegger, una forza affermativa, è un costante dir di sì, in cui però non c’è alcun segno di volontarismo, nessuna ostentazione ottimistica di potenza, nessun eroismo pragmatico, perché si fa esperienza del fatto che l’incontro con l’essere è dono che annichilisce, momento che spiazza e stranisce, che sgomenta nell’atto stesso di mostrare la sua sfuggente verità. Un esporsi all’essere che non liquida mai la possibilità del nulla, pur non anelandovi, non concependoli in contrapposizione, ma sforzandosi di situarsi nel “tra”, nel framezzo tra essere e nulla40. Da questo punto di vista la strategia speculativa di Heidegger può essere accostata a quella di Rosenzweig, perché entrambi cercano di sviluppare un pensiero della contraddizione, nel quale sono tenuti insieme il sì e il no, l’elemento positivo e quello negativo, poiché intendono mantenere viva l’inquietudine del pensare, in base alla quale ogni chiusura è anche, allo stesso tempo, la paradossale via d’accesso ad una possibile esteriorizzazione e apertura41. L’avversione rosenzweigiana, per l’assolutizzazione nichilistica del nulla si palesa nella 39. Ivi, pp. 284-286. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 303-319. 40. Ivi, pp. 268-269. 41. A. Fabris, Linguaggio della rivelazione. Filosofia e teologia in Franz Rosenzweig, cit., p. 152.

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sua diffidenza verso la mistica, poiché in essa il filosofo ebreo vede un misconoscimento dell’implicarsi di mondano e storico e anche quando ciò apre all’extra-mondano lo si fa in modo carente, perché si persegue l’ideale del rapporto con Dio attraverso la negazione del mondo. Egli è infatti convinto che l’autentica esperienza religiosa debba far necessariamente i conti con l’alterità del mondo, non può chiudersi ad esso, anzi deve realizzare e testimoniare l’alterità di Dio nella storia42. Rosenzweig, al pari di Heidegger, cerca di andare oltre un’ontologia atemporale, radica l’uomo e il pensiero nella sua appartenenza al tempo e alla storia, per cui un autentico pensiero filosofico implica altresì un partire dalla realtà per aprirsi all’accadere. Proseguendo nell’analogia, anche in Rosenzweig è il carattere dell’essere come accadere che porta a fare i conti con il nulla, ma senza imboccare la strada, già ampiamente battuta, della teologia negativa, poiché la sua riflessione porta, alla maniera di Heidegger, ad un’interrogazione sul rapporto dell’essere con il nulla, nelle forme già descritte, per affermare l’assoluta positività dell’essere come negazione del negativo. La ricerca dell’originalità dei fenomeni conduce anche Rosenzweig a fare i conti con la paradossalità dell’essere, ovvero con il fatto che quest’ultimo si presenta all’uomo in tutta la sua contraddittorietà, sottraendosi costitutivamente alla sua presa, palesando non solo i limiti intrinseci del pensiero, ma anche l’inesauribilità della stessa ricerca filosofica, poiché è dal rapporto di dis-misura con l’abisso dell’essere che scaturisce ogni domandare autentico43. Un senso del limite del conoscere che anche in Rosenzweig, alla stregua di Heidegger, si radica nella consapevolezza della mortalità dell’uomo. Essa fa venire meno ogni pretesa egemonica del pensiero, il suo 42. B. Casper, Rosenzweig ed Heidegger. Essere ed evento, cit., pp. 69-71. Cfr. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pp. 215 e ss. 43. Ivi, pp. 73-81.

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configurarsi come possesso del reale culminata nella modernità nella tendenza onnicomprensiva della ragione hegeliana. L’esistenza umana, partendo dalla propria fatticità storica, fa dunque esperienza del proprio costitutivo limite, del suo stato di povertà che è dato al pensiero sin dall’inizio. Un limite che condiziona e ridimensiona l’illusione, anch’essa tipicamente hegeliana, di poter esercitare un controllo sul tempo, inteso come continuum, come grandezza assoluta, perché abitua l’uomo ad accettare ed accogliere il libero darsi del tempo, il suo accadere imprevedibile, entro i limiti del finito44. Se fino a questo punto i percorsi dei due pensatori sembravano poter procedere di pari passo, al punto tale che l’impostazione concettuale di fondo dell’uno si sarebbe potuta sovrapporre a quella dell’altro, nella caratterizzazione nel tempo come accadere si apre tra i due una profonda distanza difficilmente colmabile. In Rosenzweig, come sarà evidente nella trattazione del tema della redenzione nella seconda e nella terza parte della Stella, il tempo trae la sua caratterizzazione specifica dal messianismo che in Heidegger è invece assente, perché il filosofo ebreo crede nella fecondità dell’incontro concettuale tra filosofia e teologia, mentre quello tedesco crede nell’incompatibilità tra i due ambiti fino a definire le due discipline nemiche mortali45. Mosès fa notare come sia proprio il costante riferimento al senso messianico del tempo a costituire la cifra distintiva della “modernità ebraica” che le consente di cercare una via altra rispetto al trionfalismo della ragione storica hegeliana. Il messianesimo oppone, infatti, alla visione ottimistica di una storia intesa come marcia inarrestabile verso il compimento finale dell’umanità, l’idea di una storia e di un tempo discontinuo, 44. Ivi, pp. 95-98. 45. Cfr. M. Heidegger, Fenomenologia e teologia in Segnavia, cit., pp. 5-22.

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i cui differenti momenti non si lasciano totalizzare e in cui le lacerazioni, le crisi e le rotture sono più feconde e significative dell’apparente omogeneità. L’esperienza ebraica del tempo, come emergerà chiaramente più avanti, accostandoci alle pagine della Stella dedicate al tempo sacro della preghiera e della liturgia, si fonda sulla differenza qualitativa degli istanti, ciascuno carico di una specificità unica capace di aprirsi alla molteplicità possibile del tempo a venire. L’esperienza originaria del tempo ebraico, che non può considerare l’instante come mera transizione dal precedente al seguente, come nel caso del tempo fisico, fa venire meno, insieme all’idea di omogeneità, anche quella di continuità e con ciò la possibilità stessa di una causalità che ne regoli il corso. Nel tempo messianico l’istante presente apre a quella molteplicità infinita del futuro, per cui sostituisce all’idea di un tempo dominato dalla necessità, il tempo del possibile. Ciò si radica, a sua volta, nell’idea ebraica di redenzione, come avvento possibile ad ogni istante, come improvvisa e imprevedibile irruzione del senza-tempo nel tempo. La speranza messianica ebraica non aderisce alle tappe di una finalità storica, abita piuttosto gli strappi della storia, esperisce il carattere abissale dell’essere nel tempo46. Bisogna dunque tenere sempre presente il fatto che la tematizzazione nell’accadere in Rosenzweig è orientata dalla speranza nella redenzione, dal riferimento costante all’avvento del Regno, anche se precario e non ancora deciso. L’accadere ha dunque come duplice orizzonte di riferimento l’alterità di Dio e quella dell’altro uomo, la dimensione escatologica e quella etica della speranza messianica, nel tentativo, costante in tutto l’itinerario speculativo rosenzweigiano, di tenere uniti il lato ontologico e quello più strettamente teologico di ogni questio-

46. S. Mosès, La storia e il suo angelo. Rosenzweig, Benjamin, Scholem, tr. it. di M. Bertaggia, Anabasi, Milano 1993, pp. 16-30.

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ne47. In Heidegger, invece, la questione resta ferma al piano ontologico, inerendo soltanto la domanda sull’essenza dell’essere. Su tale sostanziale differenza insiste molto Karl Löwith, il quale, pur essendo stato uno dei primi filosofi a sottolineare il possibile accostamento tra Rosenzweig e Heidegger, non ne dissimula mai le profonde divergenze. Egli sottolinea che l’analisi di Heidegger, pur assumendo l’effettività come punto di partenza, si muove ancora all’interno della tradizione filosofica che intende superare, secolarizzando il concetto teologico di creazione ne fa venir meno l’alterità e dunque la riduce a semplice produzione, per cui per l’esserci ne va sempre e solo di se stesso, resta disperatamente chiuso entro la decisione che pone a se stesso, mostrandosi incapace di aprirsi all’alterità di Dio e del prossimo48. Ciò è evidente, secondo Löwith, nella trattazione heideggeriana della morte, perché, pur tenendo presenti le precisazioni sul tema che si trovano nei Beiträge, non cambia sostanzialmente l’impostazione del problema: la morte appare, a suo avviso, una possibilità estrema, ma insuperabile, che non apre all’Altro e all’altro, ma allontana dalla cura, perché finisce con l’isolare ogni uomo entro se stesso e il proprio essere nel mondo. Heidegger ricade dunque in quella volontà di auto-redenzione che egli stesso aveva rimproverato a Nietzsche, perché in lui l’elemento negativo del rapporto con l’essere finisce per avere il sopravvento sull’elemento positivo che in Rosenzweig invece viene dall’inquieta speranza nel Dio di Israele. È come se l’esserci nella decisione assumesse, insieme alla libertà del progettare, la coscienza della propria nullità, ovvero la “colpa”. L’esserci la assume su di sé e la rimette a se stesso, rivelando l’orizzonte ateistico entro cui Heidegger pensa alla questione, non ammettendo creazio47. B. Casper, Rosenzweig ed Heidegger. Essere ed evento, cit., pp. 133-137. 48. K. Löwith, M. Heidegger e F. Rosenzweig. Proscritto a “Essere e tempo”, cit., p. 86.

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ne, né rivelazione, né tantomeno redenzione49, elementi che, all’opposto, saranno essenziali nel proseguimento dell’itinerario speculativo di Rosenzweig. Eppure in questo continuo gioco di paradossi e di rimandi impliciti tra i due autori, che sta animando il nostro tentativo di confronto, appare evidente che proprio la caratterizzazione heideggeriana dell’essere come evento presenti, sia dal punto di vista contenutistico che concettuale, una forte coloritura teologica. Heidegger dice, infatti, che l’essenza dell’essere come evento non è semplicemente ousia, ma parousia, in quanto temporalità, poiché: «l’accadere dell’estasi che essendo stata custodisce e di quella che essendo ventura anticipa, è cioè apertura e fondazione del Ci e dunque dell’essenza della verità»50. Ciò implica il ritegno, ovvero il saper restare nella rammemorante attesa dell’evento, del farsi incontro dell’essere della vibrazione di questo accadere divino in cui esso si fa avvenire e fa propria la sua radura, come luogo non-luogo dell’intimità con l’essere che resta tuttavia abissale e non si può conquistare con il pensiero, se non presagendolo nella sua inesauribilità. L’essere come evento è dono abissale, che sfugge ad ogni pensiero rappresentativo che intende oggettivarlo e assoggettarlo riducendolo alla stregua di un qualsiasi ente. Se il primo inizio della storia dell’essere è incentrato sul primato dell’ente e sull’idea della verità come svelamento, che ingloba e inghiotte ogni differenza, il nuovo inizio dovrà essere necessariamente anche altro inizio, interrogazione sull’accadere

49. Ivi, pp. 89-91. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 323-359. 50. M. Heidegger, Contributi alla filosofia. (Dall’Evento), cit., p. 96. Per comprendere a pieno l’orizzonte teologico che sembra influenzare, anche più di quanto riconosca lo stesso Heidegger, il tema dell’evento, si rileggano le sue acute osservazioni sulla parusia cristiana nel serrato confronto con Paolo nella Fenomenologia della vita religiosa, di cui ci siamo occupati nel §2.3.

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stesso della verità che è altro rispetto al paradigma auto-fondativo della tradizione filosofica occidentale51. È evidente che Heidegger, pur non occupandosi esplicitamente del messianesimo e della visione altra del tempo, della storia del pensiero ad esso connessa, vi si è approssimato inconsapevolmente e avrebbe potuto imboccare una strada ancora più decisa e netta verso un pensiero “altro”, se avesse osato immettere le suggestioni provenienti, ad esempio, dalla trattazione paolina del tempo messianico, all’interno del proprio itinerario speculativo, senza ostinarsi sulla necessità di tenere separate filosofia e teologia52. Tale dimensione altra del tempo in fondo, come nota Löwith, si sarebbe potuta integrare senza difficoltà nella struttura della temporalità, come anticipazione finalizzata alla decisione, e nella visione “attimale” del tempo delineata in Essere e tempo. A ciò va aggiunto il fatto che proprio Rosenzweig, sin dalle prime battute della Stella, ha insistito sulla necessità di togliere alla teologia il marchio del dogmatismo, scongiurando il pericolo di farne una disciplina autoreferenziale e chiusa in se stessa che spingeva Heidegger a tenerla separata dalla filosofia, per cui si potrebbe affermare che la teoria della conoscenza messianica di Rosenzweig non è molto lontana dalle intenzioni filosofiche di Heidegger, nella misura in cui il filosofo tedesco si sforza di portare avanti un pensiero al limite e del limite, in cui l’idea della finitezza della verità, del suo costitutivo dover fare i conti con il mistero, evita ad entrambi il pericolo di cedere alle tentazioni titaniche e tiranniche della ragione abituandoci, al contrario, alla fecondità

51. Ivi, pp. 190-191. 52. B. Casper, Rosenzweig ed Heidegger. Essere ed evento, cit., pp. 110-113. Abbiamo già affrontato la questione del mancato incontro tra Heidegger e il messianesimo ebraico, attraverso i contributi sul tema della Zarader e della Di Cesare, accostandoci all’interpretazione heideggeriana di Paolo nella Fenomenologia della vita religiosa (Cfr. §2.3).

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dell’inquietudine, al saper sostare nella radicalità della domanda, ancor prima di ogni eventuale risposta. L’inquietudine in Heidegger è primariamente filosofica, mentre in Rosenzweig è al contempo anche teologica, mettendo a riparo la fede da ogni deriva dogmatica. Un connubio a cui sarebbe potuto arrivare anche il filosofo tedesco se il suo rapporto con la teologia cristiana non fosse segnato, come nota Löwith, da una sostanziale ambiguità di fondo. Se si pensa, ad esempio, al fatto che l’analisi esistenziale del concetto di colpa in Essere e tempo, cui si è accennato in precedenza, sarebbe potuta essere arricchita da eventuali suggestioni provenienti dal concetto teologico di status corruptionis come viatico verso la grazia divina, come dimostra l’attenzione che Bultmann, da teologo, rivolge al tema, servendosi ampiamente della pre-comprensione filosofica offertagli dalle coordinate heideggeriane53. Heidegger dunque, secondo il suo allievo, per scelte terminologiche e affinità concettuali, sembra andare incontro alla teologia, ma si ferma a metà strada e anche quando usa concetti di chiara matrice teologica li sradica dall’originale contesto cristiano al quale però, proprio operando in tal modo, dimostra di essere ancora paradossalmente vincolato, apparendo, dice Löwith, con sottile ironia, un “teologo cristiano senza Dio”54. Tale ambiguità emerge con chiarezza nella caratterizzazione heideggeriana dell’ultimo Dio. Il rapporto con quest’ultimo è presentato all’insegna della vicinanza e, allo stesso tempo della reticenza. Un paradosso non imputabile alla fortuna o alla sfortuna, ma al fatto che l’essere è dismisura e mette fuori

53. Abbiamo già affrontato la questione occupandoci dell’interpretazione bultmanniana di Paolo nel §2.1 e successivamente esplicitando il debito del teologo luterano nei confronti dell’interpretazione heideggeriana della vita religiosa nel §2.3. 54. K. Löwith, M. Heidegger e F. Rosenzweig. Proscritto a “Essere e tempo”, cit., p. 92.

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gioco chiunque intenda commisurarsi. Il rapporto con l’ultimo Dio è dunque amore per l’abisso (Ab-grund) quale essenza di ogni fondamento (Grund), il che costituisce un’esperienza che non può non generare sgomento, perché il protendersi verso la sua ultimità è in realtà un retrocedere, un indietreggiare, un deporre ogni volontà, per aprirsi al ritegno, ad un inevitabile pudore come unico modo per avvicinarsi a ciò che resta pur sempre lontano. All’ultimo Dio appartiene soltanto l’accennarsi e, al contempo, il sottrarsi, il lasciare spazio al silenzio nel quale si decidono il suo avvento e la sua fuga, rispetto ai quali l’uomo non è in grado di compiere nulla55. Questo Dio è talmente lontano da far vacillare l’idea del primato creaturale dell’uomo, il quale sperimenta nel paradossale rapporto con lui l’incapacità di influenzarlo, di poterlo condizionare con i propri bisogni, di decidere se si muova verso di noi o vada via. Abituare il pensiero a tale lontananza significa deporre ogni velleità di conquista, per sostare nell’abissalità della domanda, attendendo un futuro e una storia, ammesso che vi sia ancora un futuro e una storia56. La caratterizzazione sembra avere molte affinità con l’alterità che contraddistingue il rapporto del mondo ebraico con il divino, evidenziato già attraverso Buber e che sarà oggetto del nostro percorso sia nel proseguo dell’accostamento a Rosenzweig, sia nell’approfondire tale tema nel pensiero di Lèvinas e che, paradossalmente, è sembrato anche molto vicino all’esperienza, testimoniata, sin dall’origine, dal cristianesimo paolino, come emerso dall’interpretazione di Bultmann e dalle feconde suggestioni dello stesso Heidegger sulla vita religiosa. Il gioco di affinità e convergenze proprio con Heidegger avrebbe potuto chiudersi, se non fosse che egli tende ad allontanare nettamente l’ultimo Dio non solo dall’universo concettuale ebraico, ma anche da quello cristia55. M. Heidegger, Contributi alla filosofia. (Dall’Evento), cit., pp. 41-49. 56. Ivi, pp. 51-52.

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no, come si legge nell’exergo della VII sezione dei Beiträge, in cui è presentato come: «del tutto diverso rispetto agli dèi già stati, specie rispetto al Dio cristiano»57. L’unicità e la singolarità dell’ultimo Dio consiste, per Heidegger, nello spiazzare tutte le determinazioni del concetto di Dio formulate dai monoteismi, dal panteismo e persino dall’ateismo. Ogni specie di “teismo”, compreso quello giudaico-cristiano, ha come presupposto speculativo la metafisica che egli intende superare. La presa d’atto della morte di Dio deve far cadere tutti i teismi e la pluralità degli dèi deve essere sostituita dal rilucere velato dell’ultimo Dio, dal suo abissale accennarsi. L’ultimo Dio non è, dunque, la fine, ma la possibilità del nuovo inizio, perché in vista di lui la storia non deve terminare, ma essere portata a compimento, per cui all’uomo spetta il compito di produrre con prontezza le condizioni per la sua trasfigurazione e per il passaggio dal vecchio al nuovo inizio. L’estremo rischio del rapporto paradossale con la verità dell’essere è dunque sempre in vista della preparazione del manifestarsi dell’ultimo Dio. Un rischio che avviene nell’evento, in quanto indugiante negarsi, ed intensifica la possibilità del rifiuto che non può essere sfigurata o rimossa da alcuna concezione dialettica58. Heidegger chiosa dicendo: «qui non accade alcuna redenzione (Erlösung), cioè in fondo nessun prosternarsi dell’uomo, bensì l’insediamento dell’essenza originaria (fondazione dell’esserci) nell’Essere stesso: il riconoscimento dell’appartenenza dell’uomo nell’Essere tramite il Dio, l’ammissione da parte del Dio, che con ciò nulla toglie a sé e alla propria grandezza, di aver bisogno dell’Essere»59.

57. Ivi, p. 395. Corsivo mio. 58. Ivi, pp. 402-403. 59. Ivi, p. 405. Corsivo mio.

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È il punto di maggiore distanza tra Rosenzweig ed Heidegger, vista l’importanza capitale del concetto di redenzione per l’intero arco di pensiero del filosofo ebreo, come si vedrà accostandoci alla seconda e alla terza parte della Stella, anche in merito al fatto che Rosenzweig lotta serratamente contro la tentazione di voler “anticipare” o “preparare” il Regno, proprio per tener lontana la volontà di redenzione della ragione che sembra ancora emergere, seppur in maniera residuale, in queste pagine di Heidegger. Egli, inoltre, non avrebbe potuto accettare con tanta disinvoltura l’insistere del filosofo tedesco sul sottrarsi di Dio, sulla possibilità del rifiuto, perché se è vero, come si capirà meglio negli snodi successivi, che la fede ebraica fa seriamente i conti con il lato straniante del rapporto con il divino, è altrettanto vero che ciò non fa venire mai meno la speranza, sempre inquieta, nella possibilità della redenzione, che da tale elemento paradossale trae la propria forza. Restare saldi nella fede tralascia il compito, assegnato ancora da Heidegger, di adoperarsi per la fondazione della verità dell’essere, preoccupandosi invece soltanto di persistere nell’attesa di Dio. Questo atteggiamento per Rosenzweig, come per tutto il pensiero ebraico in genere, è sinonimo dell’autenticità della fede e per Heidegger, invece, è una forma insidiosa di esistenza segnata dalla più profonda mancanza di Dio60. L’ultimo Dio non è dunque un Dio Altro, e l’interrogarsi sulla temporalità come accadere non conduce il filosofo tedesco, a differenza di Rosenzweig, ad aprirsi all’esperienza messianica del tempo, all’attesa dell’Altro dettata dal bisogno e dalla dipendenza dal Creatore, che spinge contestualmente a vivere tale alterità nella dimensione etica del rapporto con l’altro uomo61. A tal proposito Löwith, nel suo acuto tentativo di accostare i due autori senza attenuarne le profonde differenze, 60. Cfr. Ivi, p. 407. 61. B. Casper, Rosenzweig ed Heidegger. Essere ed evento, cit., pp. 98-99.

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fa notare che, sebbene il punto di avvio per entrambi sia la critica del primato auto-referenziale dell’Io, affermatosi nella filosofia moderna a partire da Cartesio, i due percorsi divergono nettamente riguardo al rapporto dell’Io con l’altro, poiché l’essere con l’altro non è un essere per l’altro, non c’è alcuna forma di reciprocità. Se c’è una forma di riconoscimento nel “con” è solo nella forma unilaterale che dal mio comportamento, dall’orizzonte dell’esserci, conduce allo stare insieme all’altro, in cui, pur andandogli incontro, si riconosce sempre e solo se stessi62. L’esperienza religiosa ebraica, invece, proprio perché fondata sull’alterità, abitua l’Io a confrontarsi col Tu, che resta essenzialmente altro e non una semplice proiezione di se stessi, un altro differente ed esigente che invita ad essere per lui, invita a porsi nella sua prospettiva venendo incontro alle sue esigenze in una dimensione di reciprocità etica che lo fa percepire innanzitutto come prossimo. È una chiamata all’aver cura, alla responsabilità reciproca, riflesso e testimonianza autentica della chiamata di Dio come Altro. L’analisi di Heidegger, invece, misconoscendo l’importanza per un pensiero dell’alterità sia del concetto teologico di creazione, sia di quello di redenzione, sostituito, nelle modalità già descritte, da quello “secolarizzato” di produzione, finisce per chiudere l’esserci in un orizzonte in cui ne va solo di se stesso e non c’è spazio né per Dio né per il prossimo63. Su questo punto il giudizio di Donatella Di Cesare è ancora più severo nel rimarcare la distanza tra il nuovo inizio e l’altro inizio nel solco della tradizione ebraico-cristiana. Se l’essere ha un suo oltre, tende 62. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 148-157. 63. K. Löwith, M. Heidegger e F. Rosenzweig. Proscritto a “Essere e tempo”, cit., pp. 84-86. È un punto essenziale ai fini del nostro percorso, su cui torneremo nel capitolo seguente, laddove accostandoci al concetto lèvinassiano di essere per l’altro, cercheremo di marcarne la distanza dal concetto di essere con l’altro di Heidegger, facendo leva sugli stessi limiti cui accenna Löwith (Cfr. §5.2).

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cioè ad oltrepassare e varcare, tale oltrepassamento, tale slancio verso possibilità ulteriori genera un movimento che non è mai pienamente un andare al di là verso l’altro, poiché resta sempre in qua verso se stesso. Il movimento dell’esserci si delinea sempre nel finito: non va verso l’altro, ma torna a se stesso, si volge all’appropriazione autentica di sé. Il limite è sempre ineludibile ed abissale, dà sull’abisso, ma non si apre all’alterità dell’infinito, e anche quando l’altro compare nell’orizzonte heideggeriano, la finitezza dell’esserci lo confina, gli impedisce lo sconfinamento tipico di ogni alterità radicale. La ricerca heideggeriana del nuovo inizio non giunge all’inizio dell’altro, poiché è sempre segnata dal lutto per l’essere. Pensare l’essere nel segno del lutto vuol dire rammemorarlo nella sua finitezza, nel suo rapporto con la morte come fine ultima, come limite estremo in cui si dilegua anche l’evento. L’escatologia heideggeriana, tracciata nella notte del mondo e nel tempo dell’indigenza, ha l’indubbio merito di spingersi all’estremo, di tentare di scrutare il baratro, il fondo senza fondo dell’essere, ma su tale punto il suo pensiero naufraga in quel passaggio stretto tra due negazioni: il “non più” degli dèi fuggiti e il “non ancora” del Dio a venire64. Il mondo descritto da Heidegger è paradossalmente pieno di dèi assenti, non conosce la verticalità ed esclude la sua irruzione. In questo paesaggio il nuovo è atteso nell’aperto, in uno spazio sacro, in cui manca, tuttavia, il messianico, il “pur sempre”, fondamentale invece in Rosenzweig. In Heidegger non c’è scampo, non accade alcuna redenzione. Nella storia dell’essere non irrompe il “pur sempre” che la interrompe, l’oggi in cui si incontrano il passato più remoto ed il futuro più lontano, l’adesso che inver-

64. D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I “quaderni neri”, cit., pp. 273-275. Sul tema cfr. V. Vitiello, Cristianesimo senza redenzione, Laterza, RomaBari 1995, pp. 67-71.

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te il tempo e converte l’istante presente nell’istante ultimo65. Pur nella consapevolezza di tale limite, Casper sostiene che il pensiero heideggeriano dell’evento, quale pura descrizione strutturale, apre al divino e al sacro nella misura in cui, proprio attraverso l’evento invita a pensare all’accadere di una correlazione tra umano e divino. È una teologia filosofica in senso lato, se la si intende come analisi strutturale di ciò che massimamente dà a pensare per mezzo di un pensiero consapevole della propria temporalità e della propria finitezza, un’analisi strutturale delle condizioni di possibilità del sacro che, in quanto tali, non vengono negate, ma restano solo possibili, pur ponendosi come limite il sostare nella Grundfrage soltanto dal punto di vista filosofico, tenendo separati fede e pensiero, e non cercando, come farà invece Rosenzweig, di estendere i problemi umani e anche quelli propriamente filosofici, all’ambito teologico66. Tale singolare rinvio alla possibilità del sacro fa seriamente i conti col nichilismo del nostro tempo, non vedendo in esso una “malattia” da cui cercare di guarire, ma un possibile ponte verso un’esistenza sciolta dalla salvezza (Heil-lose) che rinvia alla salvezza stessa67. La ricchezza dell’interrogazione heideggeriana su questi temi risiede nella coerenza nichilistica di un pensiero che accetta fino in fondo la negatività dell’essere, non dissimulandola. Piuttosto che espugnare il “non”, Heidegger lo affronta in tutta la sua problematicità, togliendo al concetto di salvezza ogni riferimento tracotante alla ricerca di una stabilità. Così come il pensiero non si pone nei confronti del nichilismo in termini di guarigione o non guarigione, nella consapevolezza che non

65. Ivi, pp. 278-279. 66. B. Casper, Rosenzweig ed Heidegger. Essere ed evento, cit., pp. 161-166. 67. Cfr. M. Heidegger, E. Jünger, Oltre la linea, tr. it. di F. Volpi e A. La Rocca, Adelphi, Milano 1989, pp. 113 e ss.

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occorre superare la linea, ma imparare a sostarvi68, allo stesso modo l’esserci dell’uomo deve imparare a sostare nel framezzo tra l’essere e il suo non, anche nel possibile rapporto con il divino69. In tale prospettiva, pur nella consapevolezza dei limiti evidenziati in precedenza, potrebbe leggersi nell’ultimo Dio un afflato paradossale alla salvezza, un’espressione di alta religiosità nichilistica, poiché: «l’ultimo Dio porta alla parola il sentimento dell’ultimità di tutti gli dei, il sentire oltre-tragico che il divino può scomparire dal mondo. Che il sacro può ritirarsi nell’abisso della sua essenza occulta. E questo non dipende dall’uomo. Forse neppure da Dio»70. Una riflessione sull’alterità dell’esperienza religiosa, soprattutto se incastonata e sviluppata a partire dell’inquietudine del nostro tempo, non può non fare seriamente i conti con il non costitutivo dell’essere e con il limite dell’esistenza, se vuole essere pungolo per la ricerca di un autentico dialogo e incontro tra istanze religiose e non. In tal senso Vitiello afferma: «al nichilismo non si risponde reattivamente, negativamente. Si corrisponde accettandolo, col portarne fino in fondo la sua “logica”. E non per controllarlo, “governarlo”, neutralizzandone gli effetti negativi: bensì, per farne emergere la latente religiosità»71; ciò rappresenta uno sprone per spingersi, con la necessaria prudenza, ma con altrettanta decisione, laddove Heidegger non aveva osato avventurarsi: verso la scoperta, che è, allo stesso tempo, riscoperta dell’alterità radicale, senza necessitarla o tentare di definirla e delimitarla, ma rispettandola in quanto tale, nella consapevolezza che l’Altro è

68. Cfr. Ivi, pp. 147 e ss. 69. V. Vitiello, Oblio e memoria del sacro, cit., pp. 96-98. 70. Ivi, p. 112. 71. V. Vitiello, Ripensare il cristianesimo. De Europa, cit., p. 235. Corsivo mio.

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talmente altro da sfuggire alla presa totalizzante del pensiero, ma che proprio in virtù della sua stessa alterità non permette di escludere la possibilità di un incontro tra umano e divino. Un rapporto segnato dall’apertura alla sfuggente prossimità dell’Altro che chiama alla responsabilità per l’altro. Una dimensione essenziale per il pensiero ebraico, cui cercheremo di accostarci dapprima attraverso il legame evidenziato da Rosenzweig tra creazione, rivelazione e redenzione, per poi rimarcarne il possibile risvolto etico, nel capitolo successivo attraverso il pensiero di Lèvinas.

4.3 Creazione, rivelazione e redenzione: l’alterità dell’esperienza religiosa Se dal confronto con Heidegger è emerso chiaramente che uno dei maggiori punti di distanza dal filosofo tedesco è il modo di concepire il rapporto tra filosofia e teologia, è proprio da qui che ci sembra opportuno ripartire per comprendere l’originalità del pensiero di Rosenzweig e il suo sapiente intreccio di interrogativi filosofici e istanze religiose. Sebbene il filosofo ebreo abbia già anticipato nella seconda parte della Stella il nesso tra la verità cercata dalla filosofia e quella offerta dalla teologia, ritiene necessario precisarlo affinché il passaggio dall’una all’altra non appaia troppo brusco. Il rapporto tra i due ambiti è di reciproca comprensione, poiché da una parte la filosofia può aiutare la teologia a gettare dei ponti concettuali tra creazione, rivelazione e redenzione; dall’altra la teologia può venire incontro alla filosofia aiutandola ad abbandonare l’idea di verità come contenuto stabile, per aprirsi all’accadere, all’evento. Rosenzweig si sforza di pensare ad una reciprocità tra filosofia e teologia che vada al di là del tradizionale rapporto ancillare, presentandole come due vie paritetiche di ricerca della verità.

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Rosenzweig procede in medias res affermando che l’inizio è creazione (Gen. 1,1-3). Tuttavia precisa che l’essere della creazione, la “è” non va intesa in senso statico, ma come riferita ad un sopraggiungere; il che serve a preservare il carattere dinamico, di accadere e di evento dell’atto creatore. Egli è consapevole, anche sulla scorta di un serrato confronto con la trattazione hegeliana del tema, da cui intende liberarsi, del fatto che la questione apre ad una serie di difficoltà alle quali non intende sottrarsi. Bisogna innanzitutto chiarire se l’atto creatore è frutto di arbitrio o di necessità. La soluzione più semplice, quella più risolutiva sarebbe, alla stregua di Hegel, far ricorso alla necessità logica ed applicarla alla creazione. Tuttavia, nota Rosenzweig, così facendo si limita l’onnipotenza divina dal punto di vista teologico, e, allo stesso tempo, dal punto di vista filosofico, si finisce sempre con il pensare la potenza in funzione del primato dell’atto. L’impostazione del problema non cambia se si fa della creazione un bisogno divino, quasi un’esigenza “personale”, per fuggire la solitudine del suo essere; il che, oltre ad essere un ragionamento umano, di fatto finisce con il negare l’assolutezza divina, il suo non essere dipendente da nulla, tranne che da se stesso. All’opposto, se si insiste su Dio come Assoluto, facendone un’entità separata, lontana dal mondo, quasi indifferente, si rischia di ricadere nel paganesimo, poiché si nega ogni possibilità di relazione e con essa la natura stessa dell’esperienza religiosa. Il punto fermo è per Rosenzweig proprio la relazionalità dei tre elementi: creazione, rivelazione e redenzione, la loro dinamicità, la loro costitutiva apertura all’altro da sé. Se tale prerogativa è dunque presente nei concetti cardine della teologia, deve essere preservata anche nel Dio Creatore. Egli è dunque assoluta libertà, arbitrio, nel senso di pura possibilità. In perfetta coerenza con le premesse meta-logiche che abbiamo evidenziato in precedenza, Rosenzweig sostiene che occorre accennare alla segreta auto-manifestazione della libertà divina antecedente la creazione, perché prima di ogni necessità destinale.

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Essa è l’oscura potenza, si potrebbe dire, in termini hegeliani, la lichtscheue Macht che precede ogni compimento e manifestazione. In tal modo si riesce a preservare il fiammeggiante arbitrio da cui dipende la mirabile potenza del Creatore, si serba il Mistero del Dio nascosto, il suo agire secondo un’infinita possibilità e non per ferrea necessità. Un Dio davvero libero e onnipotente che può e non deve manifestarsi necessariamente nella creazione72. Soltanto un’idea di creazione intesa in questi termini strappa il mondo dalla chiusura del cosmo hegeliano, lo apre alla dinamicità, all’alterità e, allo stesso tempo “rende manifesto” il suo mistero. Rosenzweig presta molta attenzione ai risvolti esistenziali del suo discorso, poiché la potenza del Creatore non può non coinvolgere l’esserci della creatura, evocando e rinviando alla sua costitutiva dipendenza dall’Altro, in un rapporto che, secondo Rosenzweig, non si esaurisce una volta per tutte nell’atto della creazione, ma si rinnova giorno dopo giorno nella quotidiana e provvidenziale presenza di Dio nel mondo, per cui l’individualità, come cifra dell’esserci dell’uomo, diventa, nella nuova prospettiva aperta dall’esperienza religiosa, innanzitutto consapevolezza della propria creaturalità73. Nel trattare il tema Rosenzweig, come farà in tutto l’arco della Stella, tende a marcare la propria distanza dall’idealismo. Quest’ultimo, a suo avviso, rimpiazza la creazione con l’idea di produzione. Il mutamento concettuale è significativo, poiché con ciò si ottiene come risultato un mondo plasticamente oggettivo che funge da punto stabile a partire dal quale la

72. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pp. 119-123. Il senso radicalmente anti-hegeliano della tematizzazione rosenzweigiana emergerà facilmente rileggendo il §3.2, in particolar modo le osservazioni di Cacciari sul senso dell’inizio in Hegel. Cfr. M. Cacciari, Dell’inizio, cit., pp. 104 e ss. e pp. 186 e ss. 73. Ivi, pp. 19-130.

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molteplicità si compone e si ordina in unità. Un mondo sottratto all’inquietudine dell’ipotetico, (la cui importanza all’interno dello sviluppo del “nuovo pensiero” si è già sottolineata, ma risulterà ancora più decisiva nel confronto tra ebraismo e cristianesimo che caratterizza la terza parte della Stella), all’incertezza del “forse” e inglobato nei nessi logici e causali imposti dall’uomo per esercitare la propria tirannia. Ciò che, tuttavia, viene meno in questo mondo, così apparentemente ordinato, è proprio la consapevolezza creaturale dell’esserci umano, la sua possibile apertura all’altro, nonché la dipendenza dall’Altro, dimensione viva nell’esperienza religiosa e obliata dal mondo della produzione in cui la singolarità e le peculiarità dell’individuo sono sacrificate in nome del progresso della specie74. Da tali precisazioni e distinzioni emerge chiaramente, secondo Rosenzweig, il senso ultimo dell’idealismo: una ragione vittoriosa che domina tutto il reale dall’inizio alla fine, avendo come oggetto del sapere nient’altro che se stesso, poiché non vi è più nulla di inaccessibile ad essa; è venuto meno ogni limite. Un sapere che mai vacilla, avendo rigettato ogni “se”, ma che, nell’accostarsi all’altro da sé, nel renderlo suo oggetto, non fa altro che fagocitarlo, assimilarlo, ridurlo a sé, annullando ogni differenza e specificità, per cui il filosofo ebreo può chiosare, con un’immagine fortemente evocativa, facendo notare che gli slanci della ragione idealista si risolvono in un vortice universale di annichilimento75. Nel passaggio dal concetto di creazione a quello di rivelazione il ponte gettato da Rosenzweig è sorprendente: sarebbe stato 74. Ivi, pp. 143-144. Il fatto che tale idea di produzione, concetto cardine del mondo contemporaneo, tragga la propria origine dalla hybris della ragione hegeliana è ben messo in evidenza da M. Cacciari, Dell’inizio, cit., pp. 158 e ss. 75. Ivi, pp. 153-154.

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logico attendersi che il nesso fosse la verità manifesta nel Creato e poi rivelatasi nelle Scritture, invece egli parte dall’amore e, con profondo senso di appartenenza alla tradizione ebraica, si richiama al Cantico (Ct. 8,6), per sottolineare come esso sia una forza uguale e contraria alla morte. È qui evidente il palese riferimento intra-testuale all’incipit della Stella, rappresentandone, allo stesso tempo, un’inversione significativa. È come se Rosenzweig intendesse chiarire al lettore accorto che il suo riferimento iniziale all’ineluttabilità della morte e alla finitezza della condizione umana non avesse il senso funesto e funereo di un memento mori, ma fosse un rimando alle possibilità di apertura insite nell’esistenza, di cui l’amore è segno evidente. Se tale forza è essenziale per la vita dell’uomo nei rapporti con i propri simili, lo è ancor di più in un’ottica di fede: il Creatore non permette soltanto all’uomo di scoprire la propria creaturalità, ma altresì di vedere in essa il marchio dell’amore divino, il cui statuto veritativo è ancorato alla rivelazione, essendone pietra angolare e chiave di volta76. L’amore rivelato, tuttavia, non va confuso con le logiche di quello umano, non va piegato ad alcuna esigenza. Esso ha il carattere del dono che avviene nell’istante e non ha una valenza consolatoria o un valore di certezza e garanzia di beatitudine; la sua essenza è l’attimo, in una fedeltà che si rinnova ad ogni istante e può essere paragonata per approssimazione al primo sguardo d’amore. Esso mantiene il carattere dell’evento e quello della prossimità nella distanza, per cui: «ricusa di farsi un’effige dell’amante […]; l’effige farebbe sì che il volto vivo si irrigidisse in un viso morto. Dio ama, è il più puro presente: l’amore stesso non sa se mai amerà, anzi neppure sa se ha mai amato. Gli è sufficiente sapere una cosa sola: che ama»77. Non è “onni-amore”, ovvero amore unificante, totalizzante e onnicomprensivo (opposto, 76. Ivi, pp. 167-168. 77. Ivi, p. 175.

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dunque, a come Hegel lo aveva descritto nelle Lezioni sulla filosofia della religione), vive e si sviluppa nell’ulteriorità del tempo, passo per passo, attimo per attimo, senza mai essere sicurezza di un possesso, sia dell’amante per l’amato che viceversa. È un amore cui l’uomo può corrispondere soltanto con il perseverare in fiduciosa attesa, un rapporto che non può essere monologo dell’Io, ma dialogo con un Tu, fatto di domande prima ancora che di risposte, interrogativi che spiazzano ogni certezza, perché sempre al di là della certezza e del dubbio. Rosenzweig afferma infatti: «L’Io scopre sé nell’attimo in cui afferma l’esistenza del tu attraverso la domanda circa il “dove” del tu»78. Nel dire ciò occorre precisare che nello scoprire se stesso l’Io non è mai sicuro di arrivare al Tu. La domanda che può far scaturire l’incontro con l’Altro è destinata a rimanere tale, a mantenere il suo carattere inquietante, se fosse risposta piena ci ritroveremmo di fronte un uomo che, alla maniera dell’idealismo, oggettiva se stesso e tenta di oggettivare Dio. Il dialogo vive di un ascolto ubbidiente, di apertura al comandamento dell’amore (Dt. 6,5). Anche in questo caso Rosenzweig ritiene necessario precisare il concetto per evitare che lo si faccia ricadere in una logica di possesso. Il comandamento va inteso infatti non nel senso prestazionale di un dovere da compiere, altrimenti verrebbe meno la componente di libertà ad esso sottesa, ma sempre nella prospettiva dell’amore, in cui si ama Dio perché si sa, pur nell’inquietudine di tale esperienza, di essere amati da lui. In tale amore non c’è, tuttavia, alcun appagamento, soltanto tensione continua verso l’Altro: «la rivelazione culmina in un desiderio inappagato, nel grido di una domanda che attende risposta»79. Dunque come si legge poco più avanti: «il dialogo d’amore è qui giunto alla fine. Infatti in grido che lo anima si lascia sfuggire nell’istante del supremo, 78. Ivi, p. 187. 79. Ivi, pp. 197-198.

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immediato compimento, oltrepassa i limiti di questo discorso a due; esso non proviene più dalla quiete beata e silenziosa dell’essere amato ma sale con nuova inquietudine da una profondità nuova e, fin qui, ancora a noi sconosciuta dell’anima e al di là della prossimità non vista ma sentita dall’amante, prorompe in singhiozzi fin entro il crepuscolo dell’infinito»80. Tale costante tensione attesta la priorità assunta dal concetto di evento, il quale permette di comprendere il valore attimale e di apertura proprio della rivelazione. Qui è in opera quella “logica della contraddizione”, di cui si è detto in precedenza, per mezzo della quale il sì e il no coabitano e il Dio nascosto può preservare il suo mistero. Ciò è palese nella “fenomenologia dell’amore” presentata in queste pagine, a patto che non si intenda il termine platonicamente, ovvero come segno di indigenza, di mancanza da colmare, bensì va compreso come accadimento che è sempre tutto nell’istante e che, in quanto tale, si esplica in una relazione sempre irrisolta e inquieta, la cui “grammatica” non segue una ferrea logica proposizionale, ma la forma aperta del dialogo io-tu81. Sebbene sia sondata da Rosenzweig sotto il profilo etico-esistenziale, partendo dall’amore in essa racchiusa, la rivelazione rappresenta, al contempo, una sfida ontologica alla totalità hegeliana. Essa mostra quanto siano vani i tentativi della ragione di inglobare e ingabbiare il Tutto, pretendendo di portarlo a piena manifestazione, poiché, per quanto essa si sforzi, dovrà sempre fare i conti con un’alterità non riconducibile e riducibile ad unità. Un “resto” che non sarà mai raggiunto e raggiun-

80. Ibidem. Corsivo mio. 81. A. Fabris, Linguaggio della rivelazione. Filosofia e teologia in Franz Rosenzweig, cit., pp. 105-106. È evidente, dunque, come l’impostazione onto-teologica di Rosenzweig possa rappresentare un ponte tra l’importanza assunta dalla nozione di evento nella teologia di Bultmann e l’impronta dialogica della teologia di Buber, confrontate nel secondo capitolo.

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gibile logicamente, perché legato al futuro di una promessa escatologica, che sarà adempiuta e inverata soltanto alla fine dei tempi82. Scholem, nell’allocuzione citata all’inizio, sottolinea l’importanza di tale cambio di prospettiva, facendo notare che il concetto di rivelazione infrange gli ultimi residui della totalità hegeliana. Rosenzweig non sostituisce alle certezze incrollabili della ragione quelle della fede, ma intende attingere dall’esperienza religiosa la necessità di tener conto della limitatezza della condizione umana, per cui è opportuno sviluppare un pensiero creaturale, privo degli slanci titanici dell’hegelismo, che viva teoreticamente ed esistenzialmente la sacralità del tempo e del mondo. La centralità del capitolo dedicato alla rivelazione per l’intero arco descritto dalla Stella consiste, secondo Scholem, nel fatto che essa insegna all’uomo: «a non confidare presuntuosamente sulle sole capacità della ragione, ma ad affidarsi, a riconoscere e a lasciar spazio alla volontà di Dio, che è l’unico a poterlo riconciliare con il Tutto. Da ciò deriva un profondo mutamento dell’atteggiamento umano, del suo modo di essere al mondo: un vivere nel tempo nell’attesa dell’inveramento futuro affidato all’irruzione del senzatempo»83 (dimensione a cui, come si vedrà nello specifico nella terza parte della Stella, ebraismo e cristianesimo rimandano con la loro liturgia). Per il momento ci interessa sottolineare come al concetto hegeliano di verità, ampiamente radicato nella tradizione filosofica, come fondamento e possesso stabile si sostituisca, attraverso il proficuo confronto con la religione, un’idea di verità come evento, la quale salda, pensandola sempre in funzione di un possibile inveramento futuro, la trattazione della rivelazione con quella successiva della redenzione, la quale resta, a nostro avviso, contrariamente a quanto soste82. F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., pp. 32-34. 83. G. Scholem, Franz Rosenzweig e il suo libro “La stella della redenzione” in F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., pp. 90-95.

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nuto da Scholem, la chiave di volta della Stella. È innegabile che questa idea “altra” di verità, come sarà ancora più evidente nel capitolo dedicato al fuoco eterno della Stella, venga a Rosenzweig dalla sua appartenenza alla tradizione ebraica, ma si farebbe un torto, come da lui stesso sottolineato84, alla portata innovativa del suo pensiero relegandolo ai soli confini teologici e confessionali dell’ebraismo. La Stella è infatti primariamente ed eminentemente un testo di filosofia che si interroga, sondandola in tutta la sua problematicità, sulla fine della filosofia, sulla crisi della ragione filosofica. Rosenzweig non intende evadere dalla filosofia aggrappandosi alla religione, ma liberare sia l’una che l’altra da una visione conchiusa, irrigidita dalle forme logiche e discorsive del pensiero, da cui si generano soltanto verità assolute, assiomatiche, in cui la forma ipotetica è obliata e si pensa al proprio esserci determinato sub specie aeternitatis. Il pensiero creaturale abitua invece al confronto con la finitezza. Le sue parole sono Zeitwort, parole e pensieri temporali commisurati alla finitudine dell’esistenza umana. Pensieri e parole che non intendono oltrepassare o, peggio ancora, dominare la realtà, ma semplicemente narrarla, rispettandola nel suo dispiegarsi, nel suo mostrarsi e, allo stesso tempo, celarsi, custodendo l’ulteriorità e l’alterità insita nelle relazioni tra Dio, uomo e mondo. In tal modo il pensiero creaturale tenta di liberare la ragione filosofica dalla tentazione di essere legislatrice e redentrice del reale, sintomo di una mai sopita volontà di potenza, propria non solo dell’idealismo, ma di tutta la modernità, di cui proprio Rosenzweig ha mostrato, come si è detto in precedenza, l’esito annichilente, non solo per il pensiero, ma per l’umano in genere85.

84. Cfr. F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., pp. 41-42 ed anche 62-63. 85. M. Cacciari, Icone della legge, cit., pp. 21-22. La pericolosità di tale esito del pensiero moderno e la necessità di trovare una via “altra” che non nasconda una volontà di redenzione dal tempo è stata evidenziata da V. Vitiello,

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In maniera analoga a quanto avvenuto per il concetto di rivelazione, nell’introdurre la redenzione Rosenzweig parte dall’amore per il prossimo, punto cardine dell’esperienza religiosa (Cfr. Lv. 19,18 e Mt. 22,36-40). Il sì che l’anima pronuncia per Dio avrebbe infatti un senso di incompiutezza se non fosse rivolto anche all’altro da sé. Il pericolo, costantemente in agguato, è la chiusura dell’uomo in sé, la ricaduta nella solitudine dell’Io. L’amore ebraico, al pari di quello cristiano, contrariamente a quanto riteneva il giovane Hegel, non implica esclusione o gelosia, ma richiede un atteggiamento di totale apertura, uno schiudersi nell’attesa dell’evento del divino che implica, allo stesso tempo, un andare verso il prossimo86. L’anima amata da Dio, secondo Rosenzweig, non può conservare tale amore per sé, è spinta a donarlo all’altro. Tale propensione è descritta con l’immagine di un daimon che mantiene l’anima in tensione direzionandola verso l’altro. Fuor di metafora: la volontà umana toccata dal divino rinnova nell’amore verso il prossimo, verso l’altro l’istante dell’incontro con l’Altro. Tale amore è anche il segno che l’esperienza religiosa non è puramente contemplativa, non implica un distacco dal mondo, ma è invito costante ad essere nel mondo, perché solo in questa dimensione temporale ci si può imbattere nella prossimità dell’altro87. Tuttavia, anche in questo caso, come è avvenuto per la trattazione del tema nell’ambito della rivelazione, occorre precisare che l’amore cui si riferisce Rosenzweig non ha alcun carattere possessivo, non mira al ricondurre l’altro entro la sfera del sé, ad annullare l’alterità in nome di una superiore identità. Il prossimo è accolto nella sua estraneità, nel suo essere altro, ovvero non identico e non totalmente assimilabile a Non dividere il sì dal no. Tra filosofia e letteratura, cit., pp. 11-18, confrontandosi con la volontà di potenza nietzschiana. 86. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pp. 221-225. 87. Ivi, pp. 228-231.

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sé, all’identità costitutivamente “altra” di chi lo accoglie. L’incontro con il prossimo non è dunque, perfetta unione perché sarà segnato sempre da un “resto”, da un “non ancora” la cui natura, esperita ora nella dimensione intra-mondana, sarà più chiara se affrontata nella dimensione extra-mondana del rapporto con l’Altro. Il nuovo pensiero, al pari del senso comune, apprende che il tempo porta consiglio, ovvero che la temporalità è la dimensione propria dell’esistenza e del pensiero, l’istante in cui può accadere sia l’incontro con l’altro che quello con l’Altissimo. Entrambi, essendo legati a quel “non ancora” di cui si è detto, rinviano alla paradossalità del rapporto con il tempo, in cui da una parte l’uomo è legato al presente, facendo tesoro anche del passato; dall’altra tende teoreticamente ed esistenzialmente al “non ancora”, alle ignote possibilità del futuro88. L’orizzonte problematico in cui Rosenzweig si muove e da cui tenta di fuggire è la tirannia del tempo e sul tempo di Hegel. Egli attinge all’esperienza religiosa proprio l’esigenza di mettere in questione quell’orizzonte chiuso e onnicomprensivo tracciato dal filosofo tedesco, i cui limiti sono già emersi nel capitolo precedente. C’è da chiedersi, dunque, se sia possibile pensare ad un tempo “altro” che non pieghi l’eterno alle esigenze di dominio sul reale della ragione titanica, se sia possibile pensare ad un rapporto tra tempo ed eterno che rispetti l’ulteriorità di quest’ultimo senza tentare di ingabbiarlo in necessità logiche. Un pensiero altro che restituisca al tempo il suo carattere di accadere, ohne warum, che Hegel ha tentato a tutti i costi di obliare. Un’altra esperienza del tempo, vissuta nell’attesa, senza la pretesa, come avveniva dell’idea di secolarizzazione hegeliana, che la ragione possa sostituirsi all’eterno e portare a compimento il “non ancora”, possa sciogliere la

88. F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., pp. 54-56.

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tensione dell’attendere in certezza di controllo, o peggio ancora, di dominio sul tempo89. Il senso dell’attesa cozza contro l’idea di un tempo progressivo. Quest’ultimo fa venire meno proprio il carattere di evento, la dimensione istantanea della temporalità, perché ogni momento è già foriero di certezza. Il futuro prospettato in tale orizzonte non è affatto tale; è solo un passato trascinato e proiettato in avanti; non c’è alcuna traccia dell’eterno; è solo qualcosa di profondamente umano. Una logica umana e mondana di cui l’idea dell’attesa intende liberarsi: «l’attendere svincola il regno dal mondo; infatti se il mondo non attendesse procederebbe avanti all’infinito ed il regno non verrebbe mai»90. Chi permane entro la logica autoredentiva rivela solo la sua profonda e illusoria hybris, perché uomo e mondo: «da soli essi non possono sciogliersi l’uno dall’altro; essi, insieme, possono essere soltanto sciolti/redenti (egli scioglie) da un terzo che le redime l’uno nell’altro, l’uno mediante l’altro. Per mondo e uomo c’è solo un terzo. Uno soltanto può divenire il loro redentore»91. L’Erlösung è, dunque la via d’uscita dalla chiusura dell’Aufhebung, un tentativo di mantenere le distanze e le contraddizioni senza oltrepassarle e contestualmente annullarle. La filosofia palesa i suoi limiti e la sua venatura tirannica allorquando pretende d’indicare la strada che conduce alla sfera della redenzione, se non addirittura di anticiparla, realizzando la venuta del Regno, la quale, all’opposto, è possibile soltanto nella prospettiva di una fede che sa vivere l’inquietudine dell’attesa92. Se si tengono presenti i punti acquisiti con la trattazione 89. Cfr. G. Petrarca, Nel vuoto del tempo. Rosenzweig, Hegel e lo Shabbàt, cit., pp. 83-91. 90. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pp. 245-246. 91. Ibidem. 92. A. Fabris, Linguaggio della rivelazione. Filosofia e teologia in Franz Rosenzweig, cit., pp. 72-73.

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dei due concetti precedenti, ovvero creazione e rivelazione, si comprende come la seconda parte della Stella tracci un arco, o meglio, getti un ponte tibetano, perché sempre in bilico tra la misteriosità dell’inizio e l’alterità della fine. Da tale prospettiva emerge tutta la tragicità, mai dissimulata da Rosenzweig, della condizione in cui viene a trovarsi la ragione filosofica, combattuta tra l’insicuritas dell’Erlösung e la tendenza mai sopita a ricercare un telos certo cui aggrapparsi e su cui fare leva. Un continuo dimenarsi tra l’oscurità e l’ascosità dell’origine e l’inquietudine della fine93. La possibilità dell’irruzione del senza-tempo nel tempo, cui è legata la venuta del Regno va concepita come salto, va rispettata nel suo carattere di puro accadere. Tale impostazione spezza la necessità del tempo hegeliano, tenta di pensare e di preservare la novitas della promessa escatologica della fede, di approssimarsi al “non ancora”, alla pura possibilità non solo del futuro, ma del tempo in quanto tale, senza concepire necessariamente una conclusione o una chiusura della struttura della temporalità94. La redenzione è dunque, per Rosenzweig, una categoria dell’attesa in un mondo fondamentalmente incompiuto, in cui la realtà definitivamente attuata non può che prospettarsi soltanto al futuro, come rappresentazione di ciò che ancora non è, poiché ha bisogno dell’azione salvifica dell’Altro 93. Cfr. G. Petrarca, Nel vuoto del tempo. Rosenzweig, Hegel e lo Shabbàt, cit., pp. 44-48, in cui è ben messo in evidenza il fatto che il pensiero di Rosenzweig sembra oscillare tra la consapevolezza dell’incertezza e il desiderio di compimento, segno palese della difficoltà della filosofia, acuitasi con la modernità, di liberarsi della volontà di redenzione connaturata alla ragione. 94. Ivi, pp. 52-55. Nel dire ciò Petrarca, come ammette egli stesso in nota, è debitore nei confronti di Vitiello, il quale ha posto il tema della temporalità e dei suoi rapporti con l’eterno al centro della propria riflessione a partire da Topologia del moderno, cit., spec. pp. 29-132, fino al recente ripensamento di tale tema in chiave etica in Id., L’ethos della topologia. Un itinerario di pensiero, Le Lettere, Firenze 2013, pp. 47-74.

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per inverarsi. Ciò implica una violenta lacerazione del tessuto storico, l’irruzione nel cuore del tempo di un’assoluta alterità, una forma di esperienza radicalmente diversa da tutto quanto è stato tradizionalmente concepito dal pensiero filosofico. La redenzione ha infatti in sé la prerogativa dell’imprevedibilità, dell’assolutamente nuovo. In questa ottica va compresa la già analizzata critica all’idea di progresso, inteso come processo storico che possa condurre l’umanità ad un suo sviluppo ideale. Da ciò dipende anche il rifiuto rosenzweigiano della filosofia hegeliana della storia e del trionfo dell’Assoluto, poiché in tale paradigma nulla di radicalmente nuovo può avvenire lungo l’asse orizzontale del tempo e precisamente è escluso quel salto qualitativo verso l’Altro implicato nell’idea di redenzione. La prospettiva hegeliana del tempo storico è infatti riconducibile ad un infinito quantitativo, cioè un asse continuamente estensibile, mentre il tempo qualitativo, cui pensa Rosenzweig, non può essere concepito se non come rottura della continuità del tempo storico, come forma di radicale alterità95. Hegel, dunque, come acme della modernità, pensa ad un tempo passerella, ad un asse lineare che collega l’istante passato con quello a venire, momento transitorio di una continuità omogenea, ovvero un’unità quantitativa in un processo puramente addizionale, un punto ideale che collega altri punti su di una linea prolungabile all’infinito. L’idea di casualità storico-temporale è, infatti, modellata sul concetto di causalità proprio della fisica meccanicistica: entrambe possono operare soltanto su di un asse temporale omogeneo e continuo, in cui il prima determina direttamente il dopo; al contrario, il tempo trampolino di Rosenzweig pensa il tempo nella sua singolarità di attimo, in tutta la sua ricchezza e diversità. Nell’esperienza del tempo qualitativo ogni istante è unico, il momento presente è incomparabile sia con quello che lo precede sia con quello 95. S. Mosès, La storia e il suo angelo. Rosenzweig, Benjamin, Scholem, cit., pp. 83-88.

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che lo segue. Gli istanti non sono totalizzabili e il tempo appare non come un fiume che scorre inesorabilmente, ma come una sequenza di attimi qualitativi e intensivi sempre unici, un tempo aperto all’accadere all’imprevedibilità dell’evento, che proietta verso l’attesa dell’eterno, insegnando a vivere nel chiaroscuro della storia, laddove non vi è alcuna certezza, ma non è detto che non possa inverarsi la possibilità della redenzione96. È evidente che tale impostazione del problema è ben radicata nella tradizione ebraica. L’ebraismo guarda alla redenzione come ad un al di là incommensurabile con l’ordine visibile del tempo storico. La redenzione è concepita come sospensione del tempo, come passaggio dall’ordine storico a quello simbolico, poiché è nella dimensione del simbolo, cioè nella in-temporalità del rito, come avremo modo di vedere nell’ultimo paragrafo, che il passato e il futuro si toccano nel presente, attraverso l’esperienza d’attesa e di anticipazione vissuta nella preghiera liturgica. Proprio perché pensato sempre a partire dalle suggestioni provenienti dalla tradizione ebraica, il problema di Rosenzweig è anche quello di custodire e salvaguardare la sacralità del tempo, la possibilità che in esso faccia irruzione l’eterno, oltrepassando le scansioni temporali, non più abbandonate al loro rovinoso scorrere, ma proiettate nella dimensione della redenzione. Ciò apre all’irrisolvibile paradosso di come pensare all’alterità dell’eterno, irriducibile al solo piano storico e, allo stesso tempo, alla possibilità della sua irruzione nel tempo. Tale dimensione coinvolge la natura storica e al contempo meta-storica del popolo d’Israele, che vive esistenzialmente, sia come singolo che come comunità, un rapporto di tensione mai risolvibile tra il suo appartenere alla storia e il suo essere proiettato verso l’evento extra-mondano della redenzione che avverrà, tuttavia, entro l’orizzonte dello scorrere del tempo. Pensare tale paradosso tra il tempo e

96. Ivi, pp. 99-100.

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l’eterno significa altresì individuare un nesso, sempre problematico, tra l’universalità dell’orizzonte temporale e il particolarismo della comunità ebraica, senza annullarlo, alla maniera di Hegel97, ma cercando di comprendere quale sia la posizione e il ruolo di Israele nella storia. La questione sarà preminente nella parte conclusiva della Stella, palesando come uno dei temi portanti dell’opera sia una ridefinizione dell’identità ebraica, la cui necessità di essere continuamente ridesignata, non solo dal punto di vista religioso, ma anche e soprattutto dal punto di visto ontologico-esistenziale, risiede nella sua natura costitutivamente esiliaca ed esodale. La stessa presenza storica dell’ebraismo spinge ad arrischiarsi verso un diverso ordine di senso che sfugge all’hegeliana filosofia della storia e con essa alle pretese onnicomprensive del sapere occidentale. La sua stessa alterità trans-storica, che tanto spaventava il giovane Hegel, potrebbe essere lo sprone verso il rifiuto di un pensiero inteso come unico produttore di senso e di verità, per affidarsi all’inquietante rischio del “non ancora”, insito nella promessa di redenzione. Pensare l’Erlösung vuol dire, dunque, in ultima istanza, vivere nel mondo proiettati verso un avvenire inteso sia come categoria permanente che impegna l’ebreo e il credente in genere nell’ordine della dimensione del sacro, sia come compito teoretico ed etico da spendersi entro la realtà mondana98. Riproponendo la questione sul piano strettamente filosofico, semmai in Rosenzweig fosse possibile separare tale ambito da quello teologico e religioso, il rapporto tra tempo ed eter97. Cfr. G. Petrarca, Nel vuoto del tempo. Rosenzweig, Hegel e lo Shabbàt, cit., pp. 161-174. 98. P. Ricci, Sindoni, Franz Rosenzweig. L’altro il tempo e l’eterno, Studium, Roma 2012, pp. 114-116, 123-124. Sul tema si veda anche E. D’Antuono, Ebraismo e filosofia. Saggio su Franz Rosenzweig, Guida, Napoli 1999, pp. 121-166.

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no non può concepirsi in chiave oppositiva: il primo non può essere la negazione del secondo, ma, all’opposto, va compreso come la sua reintegrazione, mantenendone i caratteri del Possibile e non dell’Assoluto, perché legato sempre all’attimo e all’istante. La redenzione promessa dal rivelato appartiene sempre all’altrimenti che essere, rinvia all’alterità del “non ancora”. Su tale premessa generale nella terza parte della Stella saranno confrontati ebraismo e cristianesimo come i due “eterni quadranti” in cui lo scorrere del tempo mondano si trasfigura nelle forme simboliche delle rispettive liturgie, le quali rimandano alla possibile redenzione del tempo e non dal tempo, in una dimensione radicalmente opposta agli esiti nefasti e annichilenti della ragione filosofica moderna. La Stella inaugura, dunque, una via differente: pensando il tempo come salto e frattura scopre e non pacifica il dramma delle contraddizioni non riconducibili ad una astratta unità. Per questo, con la solita acutezza, Cacciari può affermare: «la Stella non promette armonia e sintesi ai perplessi, né attraverso definitive sistemazioni di ambiti, dominii, competenze, né attraverso una dialettica del superamento degli uni negli altri»99. Rosenzweig, dunque, da filosofo e da ebreo, non tenta di nascondere e conciliare le antinomie del pensiero, le conserva e vi rimane fedele, pur nella consapevolezza della drammaticità di tale compito, perché vede in esso i segni di una visione “altra” del tempo. Un tempo che non è affatto possesso sicuro, alla stregua di un bene ereditato, ma segno, costante rinvio, ad un’alterità irriducibile, a ciò che vive nel tempo pur essendo altro dal tempo.

4.4 Stella e Croce: la vita e la via eterna La terza parte della Stella è interamente dedicata al confronto tra ebraismo e cristianesimo: ciascuna delle due fedi è descrit-

99. M. Cacciari, Icone della legge, cit., p. 31.

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ta nella propria specificità, ancorando la possibilità di un dialogo e del parallelismo stesso alla trascendenza della verità rispetto ad entrambe. Va, dunque, messo subito in evidenza, già nell’introduzione alla questione, come alla base del confronto non vi sia un’idea di complementarietà che faccia venire meno le differenze, piuttosto un’idea di simmetria che tiene vive affinità e divergenze tra i due paradigmi di redenzione. Il punto fondamentale su cui si articola tale confronto resta però, come avremo modo di capire meglio affrontando l’ultimo capitolo della Stella, la trascendenza della verità, o meglio, la consapevolezza dei limiti della ragione umana rispetto all’ulteriorità e alterità del divino, che le due esperienze religiose non superano, ma attestano. Proprio questa visione “limitata” o, potremmo dire, semplicemente finita della verità costituisce il terreno comune del possibile confronto in nome di un pluralismo che non è indice di relativismo, ma che potrebbe estendersi, secondo Mosès, anche oltre la dualità ebraico-cristiana, prestando ascolto all’ateismo e alle “morali senza Dio”100. Tuttavia, prima di seguire il dipanarsi di tale tema nella Stella ci sembra opportuno confrontarci con alcuni luoghi decisivi dell’ampio epistolario rosenzweigiano, laddove nasce, dapprima esistenzialmente e poi filosoficamente, l’esigenza di pensare ad un possibile confronto ebraico-cristiano, che troverà poi la definitiva sistematizzazione e l’ulteriore approfondimento nella sua opera maggiore. Occorre far subito notare che Rosenzweig nel confrontare le due fedi non nasconde mai la problematicità delle questioni in gioco, non procede per smussamenti o accomodamenti, anzi va subito alla radice del problema, da noi mostrata in precedenza, attraverso il confronto di Bultmann e Buber intorno alla figura di Paolo. 100. S. Mosès, Un ritorno all’ebraismo. Colloquio con Viktor Malka, tr. it. di O. Di Grazia, Claudiana, Torino 2009, pp. 78-79. Cfr. anche Id., Figure filosofiche della modernità ebraica, cit., pp. 65-67.

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Tutto dipende dalla necessità di distinguere la specificità della religione ebraica dai tentativi cristiani di appropriarsi di tale tradizione per farne, come notava Nietzsche, sua preistoria, leggendo l’Antico Testamento e la promessa escatologica in esso racchiusa, soltanto alla luce del successivo cristianesimo, il quale ne rappresenterebbe l’evoluzione e finanche l’adempimento. Tale impostazione, come nota Rosenzweig, è tutta interna alla visione storica cristiana e non appartiene agli ebrei. L’ebraismo vive ancora nell’attesa del Messia, per cui non può essere inglobato in un orizzonte storico che ha come presupposto il fatto che l’adempimento sia già avvenuto con Cristo. Lo scalzare il particolarismo ebraico, il valore di attesa della sua speranza messianica, con l’imporre il riconoscimento di Cristo come Messia, per Rosenzweig, è un vero e proprio atto di violenza che defrauda l’ebraismo della propria istanza veritativa. La natura universalistica e missionaria, che il filosofo ebreo riconoscerà sempre al cristianesimo, (anche secondo un’accezione positiva come si vedrà nella Stella), non deve implicare necessariamente un “oltrepassamento” della verità delle altre fedi, dell’ebraismo nello specifico, per l’affermazione della validità della propria101. I cristiani devono abbandonare il pregiudizio secondo cui il popolo d’Israele si trova accanto a Cristo, ma non presso Dio. Rosenzweig afferma infatti: «il nostro riconoscimento del cristianesimo si basa in effetti sul cristianesimo, cioè sul fatto che il cristianesimo riconosca noi»102. Tale riconoscimento passa, secondo il filosofo ebreo, per l’accettazione di due punti decisivi: innanzitutto il fatto che l’Antico Testamento abbia uno statuto teologico proprio, racchiuda una promessa, un messaggio escatologico a sé stante, la cui validità non dipende dall’inveramento confe101. F. Rosenzweig, Lettere sul cristianesimo, la missione agli ebrei e il sionismo in La scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, tr. it. di G. Bonola e G. Benvenuti, Città nuova, Roma 1991, pp. 284-286. 102. Ivi, p. 292.

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ritogli dal Nuovo Testamento. In secondo luogo l’alterità della visione del tempo e della storia ebraica deve essere accettata e rispettata in quanto tale, senza alcun tentativo di forzarla per assimilarla all’universalismo cristiano. Per Rosenzweig, almeno sulla carta, la soluzione è semplice: proprio perché la Chiesa sa che la visione ebraica del tempo, cosi come la propria, è legata ad una promessa escatologica, ad una visione messianica, deve accettare che mentre lei si considera già alla meta, la Sinagoga è ancora per strada, ovvero attende ancora l’inveramento della sua promessa. Ciò potrà avvenire soltanto se i cristiani non continueranno ad interpretare l’attesa ebraica del Messia, come un’ostinazione nata dal mancato riconoscimento di Cristo, ma come fedeltà al proprio Dio e alla sua promessa. Rosenzweig è consapevole che la problematicità della questione va ben oltre l’esistenza e la coesistenza storica di ebraismo e cristianesimo. Essa coinvolge un tema che risulterà poi decisivo nell’economia della terza parte della Stella, ovvero le due differenti visioni del tempo, qui solo accennato per evidenziarlo come punto problematico. Il riconoscimento cristiano di Gesù come Messia implica, infatti, che la promessa veterotestamentaria si è compiuta ed è stata inaugurata una nuova visione del tempo: quello che va dalla resurrezione di Cristo al suo ritorno alla fine dei tempi, definito “tempo intermedio”. Gli ebrei, invece, attendono ancora il Messia, per cui il loro essere nel mondo è ancora proiettato in un futuro da compiersi, necessariamente estraneo ad ogni tempo intermedio103.

103. Ivi, pp. 296-297. È utile far notare come Rosenzweig già in queste pagine “preparatorie” alla trattazione più puntuale del tema nella Stella, pur rimarcando la specificità del messianesimo ebraico, mantenga un atteggiamento neutrale nei confronti di quello cristiano. Un approccio ben diverso da quello di Buber, il quale, come si è visto nel §2.2, misconosce, in funzione anti-paolina, la centralità del riconoscimento messianico di Gesù per “ripor-

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La serie di difficoltà si fa ancor più pressante nel serrato carteggio tra Rosenzweig e Eugen Rosenstock, al cui centro vi è appunto la possibilità di pensare un terreno d’incontro tra ebraismo e cristianesimo sviluppata in maniera ancor più puntuale di quanto avviene nel resto dell’epistolario. Rosenstock parte dal riconoscimento dell’elezione ebraica e della valenza veritativa dell’Antico Testamento, ma la legge sempre in un’ottica di continuità evolutiva in base alla quale la Chiesa cristiana ha bisogno degli ebrei come i figli hanno bisogno dei padri. L’ostinazione ebraica consisterebbe nel non voler riconoscere tale rapporto di figliolanza e non sarebbe un pregiudizio cristiano. Rosenzweig respinge fermamente l’assunto del suo interlocutore, sostenendo che la presunta ostinazione ebraica è un dogma soltanto cristiano, di cui la Chiesa si è servito per mantenere l’Antico Testamento entro il suo nuovo canone. Inoltre la teoria della religione “figlia” occorre solo al cristianesimo per ribadire la sua tendenza universalizzante e missionaria, proponendosi come potenza che riempie di sé il mondo. Ai due punti che garantiscono l’autonomia dell’ebraismo rispetto a ogni tentativo di inclusione da parte cristiana, ricordati in precedenza, Rosenzweig in tale contesto ne aggiunge un altro: pretende il rispetto del rapporto dell’ebraismo con Dio, l’accettazione del fatto che vi sia un relazione di intimità paterna in base alla quale l’ebreo è già presso il Padre senza dover necessariamente passare per un terzo, ovvero la figura mediatrice del Figlio. La prossimità al divino, che nel cristianesimo è garantita da un Dio fattosi uomo, non serve all’ebreo, il cui rapporto di vicinanza è stabilito per nascita dall’elezione divina104. In tale ottica va letta anche la celebre

tare” quest’ultimo entro l’alveo della religiosità ebraica. Cfr. M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, cit., pp. 153-163. 104. F. Rosenzweig, E. Rosenstock, La radice che porta. Lettere su ebraismo e cristianesimo, tr. it. di G. Bonola, Marietti, Genova 1992, pp. 82-93.

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lettera inviata a Rudolf Ehrenberg in cui egli comunica all’amico la sua scelta di rimanere ebreo, dopo aver meditato a lungo sull’opportunità o meno di convertirsi al cristianesimo. L’invito giovanneo a venire al Padre per mezzo di Cristo (Gv. 14,6) è, dunque, respinto in nome dell’appartenenza ebraica al divino e della fedeltà alla sua promessa, il cui segno tangibile è il dono della Torah. L’ebreo, pur non avversandola, non ha bisogno della speranza cristiana perché ha già la propria. La presenza stessa dell’ebreo nel mondano ne è la testimonianza, essa ricorda al cristiano la natura extramondana anche della sua speranza, il suo essere scandalo per il mondo (tema che sarà ripreso in maniera più ampia e puntuale nella Stella), soprattutto quando i cristiani sembrano dimenticarsene compromettendosi eccessivamente con il mondo. Per queste ragioni l’innegabile forza inclusiva e missionaria, l’essere espressione della potenza di Dio nel mondo, propugnata dalla Chiesa cristiana può affascinare e far presa sui greci e sui pagani in genere, ma non sugli ebrei, la cui esistenza mondana è sempre proiettata verso il futuro extra mondano dell’evento messianico105. All’orgogliosa appartenenza ebraica di Rosenzweig, Rosenstock non può non rispondere riaffermando la centralità della figura di Cristo, non solo per i cristiani ma per il mondo intero. La distanza tra le due fedi è rimarcata confrontando il sacrificio di Abramo con quello di Cristo: «Abramo sacrifica ciò che ha, Cristo ciò che è»106. Secondo Rosenstock esiste una differenza abissale tra il ritualismo ebraico, esemplificato dal suo primo Patriarca, e la scelta di Cristo di sacrificare se stesso per la salvezza dell’umanità. Il popolo ebraico è troppo chiuso nel suo particolarismo, nel modo escludente ed esclusivo di

105. F. Rosenzweig, Lettere sul cristianesimo, la missione agli ebrei e il sionismo, cit., pp. 286-291. 106. F. Rosenzweig, E. Rosenstock, La radice che porta. Lettere su ebraismo e cristianesimo, cit., p. 103.

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intendere il rapporto con il divino per aprirsi all’universalità del messaggio di Cristo. Rosenstock si spinge a dire che ogni volta che gli ebrei non riconoscono il valore salvifico di Cristo è come se lo crocifiggessero nuovamente. I toni del filosofo protestante si fanno ancora più aspri nell’ultima parte della sua missiva in cui, contrariamente agli auspici dialogici iniziali, egli arriva a non riconoscere alcuna valenza veritativa all’ebraismo, poiché dal divieto di farsi immagine di Dio (Es. 20,4) fa derivare l’impossibilità di una proficua ricerca teologica e l’estraneità ad ogni forma di positività e bellezza, per cui la speranza ebraica è in realtà illusoria e vana107. Rosenzweig non può non rispondere a tono ribadendo la specificità irriducibile dell’identità ebraica: egli sostiene con orgoglio che l’ebreo sia il pidocchio sulla pelliccia cristiana, il suo nemico interno, non facilmente soggiogabile come il pagano, poiché si muove entro gli stessi confini teologici, entro lo stesso regno. I cristiani si ostinano a non capire il senso autentico dell’elezione ebraica, la quale non è sinonimo di un particolarismo escludente, ma esprime la consapevolezza di un’appartenenza, la legittima rivendicazione di un’origine che ha come polo futuro una destinazione universale, garantita dall’universalità stessa di Dio, dalla sua fedeltà alla promessa messianica, il cui segno vivo è la legge del Sinai. L’ebreo, al pari del cristiano, con la sua stessa vita testimonia la dipendenza da un inizio e l’attesa della fine. Essi sono i confini analoghi entro cui si sviluppano i due paradigmi di redenzione. In tale prospettiva si assottiglia anche la distanza, posta da Rosenstock, tra Abramo e Cristo. Il sacrificio del Patriarca è infatti la riprova della disponibilità ebraica a sacrificare se stessi e tutto quanto si ha di più caro per corrispondere, senza chiederne ragione, alla volontà di Dio.

107. Ivi, pp. 103-105. È utile far notare come i pregiudizi e le accuse di Rosenstock, almeno in questa fase del carteggio, ricalchino quelle del giovane Hegel (Cfr. §3.1).

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Abramo, dunque, risponde alla prova cui Dio sottopone la sua fede con una fedeltà “cieca” e totale. Il punto cruciale è, per Rosenzweig, capire le profonde analogie, senza disconoscere le differenze tra le due idee di redenzione. Entrambe implicano un volgersi al futuro nell’attesa di un compimento, di una riconciliazione definitiva alla fine dei tempi; soltanto che la speranza cristiana è maggiormente mondana, più radicata nella storia, al punto tale che si crede di dover e poter operare affinché essa si diffonda, mentre l’ebreo vive la sua speranza in inquietante attesa e con maggiore distacco dal mondo; il che non vuol dire completo rifiuto dell’ordine mondano, in cui anch’egli è giocoforza immerso, ma un vivere in bilico tra le due dimensioni. L’idea ebraica di redenzione è radicata, o meglio sradicata nell’orizzonte incerto del “non ancora”, vive ancora più profondamente l’incompiutezza del rapporto con il tempo e con il mondo, evitando ogni pretesa trionfalistica su di esso. Dunque l’estraneità più volte rimproverata agli ebrei non è da intendersi come volontà di auto-esclusione, ma come segno di un esistenza proiettata verso il futuro della redenzione, come un farsi carico del “giogo del regno” vissuto nella radicale attesa dell’inveramento della propria inquieta speranza108. Accolte le precisazioni del suo interlocutore, Rosenstock intende compiere la stessa mossa: ridurre alcune distanze poste dal pensatore ebreo. Egli invita Rosenzweig ad accettare il fatto che il cristianesimo non può non farsi storia. La Chiesa nasce come segno visibile di Dio nel mondo e la sua vocazione missionaria è connaturata all’universalità del messaggio di Cristo; ne va della validità e della credibilità della sua verità; è la sua “differenza specifica” rispetto all’ebraismo. La Chiesa è macrocosmo del microcosmo incarnato dai credenti, ma il vero problema è come concepire il rapporto tra i due sen108. Ivi, pp. 106-115.

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za cadere nella visione “soporifera” di Hegel, il quale, a detta del filosofo protestante, annulla dialetticamente la dinamicità del rapporto chiesa-fedele, facendo perdere al cristianesimo la propria vitalità. Tale rapporto va pensato cercando un giusto compromesso tra la necessità del credente di vivere un’esistenza storica come membro di una comunità e la propria individualità rafforzata anche dal rapporto personale con il divino. Dunque, il punto fondamentale, come non manca di notare Rosenzweig, è comprendere il fatto che il confronto tra cristianesimo ed ebraismo debba passare necessariamente per un tipo di approccio capace di conservare già all’interno di ogni singolo paradigma religioso le contraddizioni e le opposizioni che li animano, senza cedere alla tentazione di annullarle in nome della ricerca di una comunanza con la fede dell’altro109. Il problema essenziale, da affrontare per saggiare le possibilità effettive di un confronto ebraico-cristiano è quello di salvare l’alterità ebraica dalla chiusura identitaria della secolarizzazione hegeliana, il carattere storico e al contempo meta-storico del popolo di Israele senza lasciarlo travolgere dal senso del compimento logico, operato dalla ragione e non dalla fede, che permea la visione di Hegel. A ciò si aggiunge la necessità che la visione cristocentrica del filosofo tedesco, convinto in ciò di essere l’autentico erede e continuatore del cristianesimo, non implichi in un’ottica concorrenziale, l’elisione o peggio il totale annullamento della prospettiva ebraica del tempo, da cui dipende l’esistenza stessa di Israele. Ciò chiama in causa un’altra questione: verificare quanto la convinzione di Hegel fosse fondata, ossia quanto la sua prospettiva, con tutti gli esiti nefasti già evidenziati, sia effettivamente la naturale evoluzione dell’orizzonte del tempo paolino, o se, al contrario, permanga una distanza tra i due dovuta al fatto che Paolo, il Paolo 109. Ivi, pp. 116-119.

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altro e oltre le interpretazioni teologico-politiche, conservi, in tutta la sua problematicità, il senso di incompiutezza e di attesa del tempo ebraico, traghettando l’inquietudine messianica del “non ancora” anche nella novitas del cristianesimo110. Il confronto tra i due arricchisce l’orizzonte problematico appena accennato, laddove Rosenzweig, da ebreo, fa notare che l’eccessivo compromettersi con la storia e con il mondo, tipico del cristianesimo, ha finito con il contagiare e con il deteriorare anche la tradizione ebraica. Ciò che gli ebrei stessi considerano un fenomeno positivo, un sintomo di integrazione, che va sotto il nome di “emancipazione” è, per Rosenzweig, un danno all’identità ebraica. È come se gli ebrei moderni, spinti dalla volontà di assimilarsi, abbiano rinunciato essi stessi alla loro specificità, diventando quell’ebreo cristianizzato e secolarizzato di cui la cultura dominante aveva bisogno. Esso appare, agli occhi di Rosenzweig, un ebreo nudo perché privato dell’habitus della tradizione. Il segno più evidente della secolarizzazione ebraica, fatta passare per illusoria emancipazione, è, per il filosofo ebreo, il sionismo. Esso si fonda sulla pretesa, altrettanto illusoria, di poter far violenza al Regno e di poterlo attuare, rendere visibile già in questo mondo. Esso trasforma e snatura una speranza extra mondana in principio operante nella storia e nel mondo, cogliendo del messianesi110. Il primo versante della questione è ben esposto, con dovizia di particolari e opportuni riferimenti critici in G. Petrarca, Nel vuoto del tempo. Rosenzweig, Hegel e lo Shabbàt, cit., pp. 139-144, il secondo non è problematizzato perché è accolta la tesi della continuità, pur nella sostanziale radicalizzazione, tra il tempo paolino e quello hegeliano (Cfr. Ivi, pp. 144147 ed anche pp. 80 e ss.). Il nostro percorso, invece, con l’intento di salvare Paolo dai fraintendimenti tirannici di Hegel, di cui potrebbe essere, al pari dell’ebraismo, “vittima” e non “ispiratore”, è passato dapprima attraverso l’interpretazione heideggeriana di Paolo, poi attraverso le recenti riflessioni di Vitiello sul tema, scaturite dal confronto con Heidegger (Cfr. §2.3), per verificare quanto sia possibile avvicinare, senza obliarne le differenze, l’Apostolo, e con lui l’intero cristianesimo, alla sua errante radice ebraica.

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mo ebraico soltanto gli aspetti meno essenziali. La situazione è, per Rosenzweig, altamente drammatica, perché nel momento storico in cui egli inizia a maturare la necessità di un confronto ebraico-cristiano si trova di fronte un ebraismo e un cristianesimo che rischiano di identificarsi con gli imperi del mondo. Proprio tale consapevolezza rappresenta un punto di svolta nel dialogo, mostrandone ancor di più l’urgenza. Le due fedi, infatti, piuttosto che perdersi in inutili dispute teologiche, devono riattivare le rispettive riserve veritative, incentrate sull’idea extra mondana di redenzione, per far comprendere al mondo secolarizzato la necessità di riscoprire e di riportare un ordine simbolico nella storia111. Il dialogo muove non soltanto da ragioni di carattere teologico, ma anche da cogenze storiche: l’ebraismo e il cristianesimo devono fare i conti con l’emergere dei nuovi imperialismi di stampo romano. La risposta, anche per Rosenstock, non può essere un cedere alle seduzioni della storia secolarizzando il religioso e subordinandolo al politico, opponendo agli imperi una Chiesa e una Sinagoga militans, poiché tale passaggio, tale trasformazione, dal punto di vista cristiano, snatura il messaggio di Cristo, lo crocifigge dall’interno. Il trionfalismo della ragione hegeliana, le sue pretese onnicomprensive e titaniche, secondo Rosenstock, si sono incarnate nel nazionalismo, inteso come imperialismo elettivo, fondato sull’idea perniciosa di razza, per cui il vero nemico di Cristo è divenuto l’Impero. In tale contesto l’ebraismo può essere un prezioso alleato, preservando la sua essenza metafisica e ultramondana, mentre il cristianesimo, proprio in virtù della sua vocazione universale, deve opporsi ad ogni forma di separazione e violenza112. La

111. F. Rosenzweig, E. Rosenstock, La radice che porta. Lettere su ebraismo e cristianesimo, cit., pp. 131-134. 112. Ivi, pp. 124-129. Si noti che Rosenstock fa tali osservazioni in piena Prima guerra mondiale, ma il suo sguardo appare lungimirante e profetico,

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necessità dell’avvicinamento tra le due fedi è, dunque, giustificata anche dall’emergere di un nemico comune: tutti gli “ismi”, ovvero gli estremismi e i fanatismi del primo ‘900 (i quali, in fondo, purtroppo, come si è cercato di far emergere nella parte iniziale del nostro discorso, non appaiono tanto diversi e distanti da quelli che imperversano nel nostro tempo). In uno scenario in cui non sembra più esserci alcun appiglio l’ultima riserva di speranza è rappresentata dalla religiosità di cui sono depositari e custodi, ciascuno nelle forme proprie, ebraismo e cristianesimo. La sfida posta al pensiero è di trovare quel punto in cui possano intersecarsi questi due piani dell’esperienza religiosa. Le due fedi devono non solo coesistere, ma cooperare affinché riemerga, dalle ceneri dell’uomo totalmente immerso nella storia, l’uomo eterno, ovvero quella dimensione dell’umano che non è radicata soltanto nel tempo, ma sa del suo legame con la trascendenza, con ciò che è oltre il tempo, eppure non è escluso che possa irrompere nel tempo, per redimerlo, per portare a compimento le diverse epoche. Il punto di contatto tra le due fedi va, dunque, ricercato nel loro elemento differenziale, nella loro costitutiva alterità, facendo esperienza dell’intima estraneità propria ed altrui, liberando il sé da ogni chiusura identitaria ed autoreferenziale113. Gli auspici del carteggio con Rosenstock trovano il loro prosieguo e sviluppo sistematico nella terza parte della Stella in cui, tuttavia, il filosofo ebreo, prima di ripensare alla possibilità dell’incontro tra le due fedi, ritiene opportuno analizzarle separatamente per farle emergere nella loro specificità. I tre elementi scelti da Rosenzweig per presentare l’identità ebraica sono: la lingua, la legge e la terra, che solitamente, dal pun-

considerando gli sviluppi storici successivi che porteranno all’esplodere della violenza totalitaria. 113. Ivi, pp. 144-145.

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to di vista storico-politico, costituiscono i cardini di un’identità nazionale. Tuttavia, lo sforzo concettuale di Rosenzweig consisterà nel far comprendere come tali concetti, se applicati all’alterità degli ebrei, devono mutare di senso, non possono indicare un possesso, l’affermazione di un sé collettivo, come avviene in tutti i nazionalismi, ma devono evocare la ossimorica compresenza di presenza e assenza, di radicamento e sradicamento, di prossimità e distanza, devono far cenno a quell’esistenza esiliaca ed esodale che, come si è già detto più volte, non è un mero dato storico, ma una condizione d’essere connaturata al popolo di Israele. A ciò va aggiunta l’importanza della trasmissione di tale identità, da Rosenzweig richiamata attraverso il riferimento al riprodursi e al generare, che rende la tradizione ebraica e l’appartenenza ad essa non un semplice fatto culturale, ma un dato biologico che si conserva nel naturale passaggio da padre in figlio. Il comunitarismo ebraico mantiene saldi i propri legami solo attraverso il perpetuarsi delle generazioni in cui i nomi dei padri sono consegnati al futuro tramite quelli dei figli e il legame nominale ed esistenziale tra nonno e nipote garantisce alla comunità il suo carattere di eternità, ovvero fa in modo che una parte del proprio passato riviva nel presente e sia, allo stesso tempo, proiettata al futuro attraverso le nuove generazioni. Solo la procreazione, il legame biologico, rispetta il tempo nella sua alterità, non vede in esso un nemico da sottomettere, su cui riportare vittoria, ma un limite da preservare, accogliendolo non nell’aspirare all’eternità, ma permettendo che qualcosa del passato, destinato necessariamente alla morte e all’oblio, sopravviva nel legame nonno-nipote. Esso non implica una sfida alla vita e ai limiti dell’umano, ma è un tentativo di preservare qualcosa nell’inevitabile succedersi delle generazioni114. 114. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pp. 319-320.

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La stessa esperienza di alterità caratterizza il rapporto con la terra mettendo l’ebreo al riparo da ogni trionfalismo nazionalista. Sin dalla più volte menzionata chiamata di Abramo (Gen. 12,1-3), l’ebreo sa di essere separato dalla terra, destinato alla peregrinazione, poiché il suo unico legame saldo deve essere quello con il divino. Il popolo non può affidare la propria durata alla terra che, come tutte le cose umane, è destinata a perire, ma deve confidare unicamente nell’eternità di Dio. Rosenzweig afferma: «il popolo diviene popolo attraverso un esilio […] la terra è sua, nel senso più profondo, proprio soltanto come terra della sua nostalgia, come terra santa»115, per cui l’ebreo: «è soltanto uno straniero ed un meteco sulla sua terra»116. All’ebreo non è estranea l’idea della terra, poiché la sua esistenza storica implica la necessità dell’abitare, ma il senso di possesso stabile e duraturo che ad essa è solitamente associato. La storia stessa dell’Esodo dimostra infatti che la terra rappresenta per l’ebreo sempre un altrove da raggiungere, una dimensione da vivere nell’inquieta e fiduciosa attesa dell’adempimento della promessa divina. Lo stesso discorso vale anche per il rapporto ebraico con la lingua. La natura nomade ed errante dell’ebreo lo porta a contatto con gli altri popoli, lo spinge ad assimilare la lingua altrui per i propri bisogni quotidiani ed ordinari, ma essa non potrà mai essere la stessa con cui ci si rivolge a Dio, cui è riservata la lingua santa. Ciò non implica alcuna gelosia o possessività, ma soltanto il ricordo e il riconoscimento del fatto che i momenti dedicati al rapporto con Dio vanno distinti da quelli ordinari. La quotidianità va spezzata, interrotta, per lasciar spazio a Dio, al dialogo personale con lui. Nell’idea della lingua santa non c’è, tuttavia, alcuna pretesa di poter esprimere nel linguaggio 115. Ivi, p. 321. Corsivo mio. 116. Ibidem.

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umano l’alterità divina, per cui il dialogo, seppur intimo e filiale, non è mai un essere a tu per tu con Dio, un articolarsi in una successione certa di domande e risposte; c’è sempre uno scarto, una distanza, mantenuta anche dalla lingua santa ogni volta che essa tenta di approssimarsi al divino. Rosenzweig è molto chiaro su questo punto: «non c’è nulla che, in senso più profondo, sia più ebraico di una estrema sfiducia nei confronti del potere della parola e di un’intima fiducia nella potenza del silenzio»117. La lingua santa, dunque, conserva in sé l’inquietudine e l’incertezza del rapporto con il divino, la consapevolezza che ogni parola umana, quando tenta di dirsi e darsi al divino, deve fare i conti con il silenzio che mette fuori gioco le pretese umane, interrompendo e irrompendo nel discorso. La lingua santa contiene in sé il senso dell’incompiutezza del “non ancora” e di un’inesauribile nostalgia, non è mai materna, ma sempre estranea anche quando sembra propria, perché mostra la radice sradicante che fonda l’errare ebraico. Essa spalanca l’abisso dell’atia e dell’archè, rispetto al quale ogni parola sembra perdere la sua capacità significante e poter rimandare soltanto all’impronunciabilità, al silenzio dell’origine. Essa non è lingua morta, ma che inquieta, ha una forza spiazzante che impedisce di confidare in essa. È lingua viva che allontana da ogni fede idolatrica nel potere della parola; è voce del deserto e dell’esilio118. Dalla natura essenzialmente altra del popolo ebraico deriva anche il suo non potersi radicare in leggi e costumi mondani come gli altri popoli. Ciò non significa che il popolo ebraico abbia una natura rivoluzionaria o tendenzialmente “anarchica”, ma che per lui la Legge ha la preminenza su ogni legge e costume umano. La Torah, essendo legge e insegnamento ine-

117. Ivi, p. 323. Corsivo mio. 118. M. Cacciari, Icone della legge, cit., pp. 44-46.

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sauribile, mai compiuto, sempre legato ad un’ulteriorità e ad un’alterità che va oltre la forma chiusa del libro119, mantiene il popolo oltre ogni storicità e temporalità della vita, gli toglie il potere sul tempo. Per tale ragione Rosenzweig afferma: «il popolo eterno è senza tempo, non ha alcun tempo […]; al popolo è interdetta la vita nel tempo in nome della vita eterna; di nuovo esso non può vivere pienamente e creativamente la vita storica dei popoli del mondo; esso sta sempre in qualche misura tra il mondano e il sacro»120. Tale modo di essere al mondo appare diametralmente opposto alla vita nazionale degli altri popoli, i quali riaffermano continuamente la loro identità attraverso una lingua ufficiale e l’occupazione di un territorio delimitato. Il popolo ebraico, invece, ripone la sua fiducia unicamente ed esclusivamente in ciò che gli può assicurare un perdurare oltre il tempo, perché eterno, non transitorio e può essere garante della loro stessa eternità. L’insistere sull’alterità costitutiva di questi elementi essenziali dell’identità ebraica non implica che essi debbano essere considerati come estranei, separati e refrattari ad ogni confronto con gli altri popoli. Se Rosenzweig, infatti, ha voluto tracciare in queste pagine i confini dell’identità ebraica, intende allo stesso tempo chiarire il fatto che essi non sono escludenti. Ogni confine non serve soltanto a delimitare uno spazio, a segnare una chiusura, ma nell’atto stesso della delimitazione traccia contemporaneamente lo spazio per il prossimo, il confine limitrofo entro cui l’altro può sistemarsi e cercare dei punti di contatto, se non addirittura un’unione con il suo confinante121. Fuor di metafora: l’alterità ebraica, cui pensa Rosenzweig, non è esclusiva né auto-esclusiva, poiché il popolo eletto non potrà 119. Il tema è ben messo in risalto in G. Petrarca, Nel vuoto del tempo. Rosenzweig, Hegel e lo Shabbàt, cit., pp. 151-155. 120. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 325. Corsivo mio. 121. Ivi, pp. 326-327.

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mai sentirsi l’unico popolo al mondo. L’incontro con l’Altro di cui fa esperienza nella preghiera personale e liturgica, come vedremo meglio proseguendo l’analisi della Stella, abitua l’ebreo all’incontro non prevaricante con l’altro da sé. Il Dasein ebraico è, dunque, caratterizzato da un radicale sradicamento, da una paradossale permanenza che non indica mai stasi, ma un’uscita costante da sé, dalla schiavitù del passato per evitare di essere vincolati ad un ricordo immobile, cristallizzato. È un continuo far esodo, un preservare il carattere estatico di un’esperienza di sottrazione al tempo, di inquietudine legata all’assenza di fondamenti e certezze. Il popolo ebraico diventa tale solo attraverso l’esodo e l’esilio, in una tensione mai risolta e irrisolvibile attraverso la quale si configura la sua essenza meta-storica e meta-politica. Un vivere tra sacro e profano, in un luogo non-luogo, mantenendo una radicale tensione tra i due poli122. Il momento privilegiato in cui l’ebreo sperimenta la natura tensiva della sua stessa esistenza è la preghiera. Essa ha un ruolo cruciale nello sviluppo dell’ultima parte della Stella. Rosenzweig arriva addirittura a dire che la forza della preghiera è tale da correre il rischio di tentare Dio. Essa, infatti, quando scaturisce dall’amore e dalla fedeltà autentica, non può non porsi come obiettivo non il soddisfacimento di sé, di bisogni egoistici, ma il dirigersi verso il prossimo, intendendo non colui che mi è più vicino, ma il più lontano. In altre parole, la preghiera autentica cerca di abbracciare con lo sguardo l’universalità dell’umano, non confidando certo nella propria limitatezza, ma nella forza dell’amore divino. La preghiera autentica non ha la pretesa di sostituire la volontà umana a quella divina, ma si adegua al suo ritmo, al suo procedere, per

122. G. Petrarca, Nel vuoto del tempo. Rosenzweig, Hegel e lo Shabbàt, cit., pp. 156-157.

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questo può essere paragonata ad un andare avanti per balzi, nell’incertezza che sempre caratterizza e deve caratterizzare ogni accostamento. Se invece si ritiene che con la tracotanza delle proprie parole o dei propri atti, con richieste pressanti, si possa piegare Dio alle esigenze umane si otterrà l’effetto contrario, anziché accelerare la venuta del Regno lo si ritarda. Tutto dipende dal giusto momento in cui si può cogliere l’attimo del tempo di grazia123. Tuttavia occorre precisare che il cogliere l’attimo evocato da Rosenzweig non ha alcunché di volontaristico, non cela alcuna hybris, è vissuto sempre nell’abbandono fiducioso alla volontà divina, alla possibilità che essa irrompa nel tempo, nell’attimo che, per definizione, è ciò che svanisce nel momento stesso in cui si presenta, per cui l’incontro con l’Altro non potrà mai essere un’unione totalizzante, ma un evento che costantemente ha bisogno di rinnovarsi. Rosenzweig lo lascia intendere proprio specificando il senso dell’attimo “colto” nella preghiera: «l’attimo/colpo d’occhio mostra all’occhio, ogni volta che si apre, sempre cose nuove. Il nuovo che noi cerchiamo deve essere un nunc stans non un attimo che svanisce, ma un attimo che sta, un adesso che in questo modo a differenza dell’attimo sta, si chiama ora. L’ora, proprio perché ‘sta’, può avere in se stessa la molteplicità del vecchio e del nuovo, la ricchezza degli istanti; la sua fine può sfociare di nuovo nel suo inizio, perché essa ha un centro, no, ha molti istanti centrali tra il suo inizio e la sua fine»124, per cui la fugacità implicita nell’idea stessa dell’attimo indica che l’esperienza ebraica del tempo è sempre segnata da una separazione del tempo e dal tempo, dal senso del limite che pone al riparo dalla tentazione di voler ricondurre tutto ad unità, come accadeva al dispiegarsi dialettico della ragione hegeliana. La preghiera abitua ad un rapporto con il tempo 123. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pp. 290-293. 124. Ivi, p. 311. Corsivo mio.

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all’insegna della partizione e dell’interruzione, istituisce dei momenti, conferendo però a tale “porre” sempre il carattere fugace della transitorietà. L’istante che dischiude l’esperienza ebraica del tempo serba costantemente il senso del tramontare, fa cenno al fatto che la prassi stessa della preghiera non è all’origine di sé, ma rinvia alla dipendenza da Altro. La preghiera apre ad un orizzonte diametralmente opposto all’impostazione hegeliana del problema della temporalità: abitua l’uomo a non voler esercitare la propria potenza, o meglio, prepotenza sul tempo, ma a dover avere un atteggiamento di passività, che non è da intendersi come inerzia, ma come fare i conti con la distanza insita nell’Altro da cui si dipende. Ciò non significa apertura ad un altro orizzonte del tempo, ma radicale messa in questione del tempo-orizzonte. Vuol dire apertura all’istante, alla possibilità stessa del darsi del tempo. Luogo non luogo dell’accoglienza del tempo, del suo possibile evento, oltre ogni orizzonte. La preghiera è la possibilità di fare esperienza della radicale alterità dell’Altro che lo fa essere altro dal tempo e del tempo125. Tale esperienza è, tuttavia, innanzitutto comunitaria, oltre che personale. È nella preghiera liturgica, nella sua ciclicità che l’ebreo sperimenta il senso di attimo della propria fede, può accogliere l’eternità nel tempo. Il tempo sacro non è mai vissuto singolarmente, ma nel lodare dell’assemblea (Sal. 26), in seno alla comunità dei credenti. La prospettiva aperta dalla preghiera comunitaria oltrepassa quella dei singoli membri, punta un unico faro verso il futuro del Regno. La luminosità della Stella consiste nella possibilità di far luce nella notte del futuro, di anticiparlo nell’oggi della comunità in preghiera. La limitatezza della preghiera del singolo non viene annullata,

125. G. Petrarca, Nel vuoto del tempo. Rosenzweig, Hegel e lo Shabbàt, cit., pp. 59-62.

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ma convogliata in un’unica invocazione, poiché la preghiera comunitaria è oltre le preoccupazioni, anche legittime, inerenti il destino individuale, punta direttamente all’eterno, ne attende fiduciosa la venuta e si prepara ad accogliere il suo donarsi. Nel soffermarsi sulla possibilità di anticipazione del Regno nella preghiera comunitaria, Rosenzweig precisa che essa va di pari passo al senso di attesa e inquietudine tipica della spiritualità ebraica, per cui sarebbe fuorviante credere che il limite nel rapporto con il divino, il costante paradosso della compresenza di prossimità e distanza, venga mantenuto individualmente per poi essere annullato collettivamente. L’anticipazione del possibile nel gesto liturgico resta comunque legata al futuro della promessa, all’irriducibilità del “non ancora”, la cui distanza sarà colmata solo alla fine dei tempi. Nella preghiera comunitaria non c’è spazio né per la hybris della ragione, né per quella che Rosenzweig chiama “l’esuberanza del cuore credente”, ovvero la superbia di credere che la parola della preghiera possa prendere possesso del divino, possa approssimarsi a lui evitando la spiazzante esperienza del silenzio, dello scarto e della distanza. Rosenzweig sostiene infatti che sia nella preghiera individuale che in quella comunitaria fede e incredulità convivono. L’autentica preghiera è fatta a due mani: una protesa e fiduciosa verso il divino, l’altra, più tremolante perché pervasa dal dubbio, dall’incertezza e dall’inquietudine126. Da tali premesse è chiaro quanta importanza rivesta l’analisi della liturgia e delle festività ebraiche nello sviluppo di questa

126. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pp. 313-318. È un aspetto essenziale dell’analisi di Rosenzweig, del tutto frainteso da Taubes, il quale lo accusa di occuparsi della preghiera accentuandone il lato individuale, sotto l’influenza del protestantesimo, tradendo in tal modo la dimensione originariamente comunitaria dell’ebraismo. Cfr. J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., pp. 75 e ss.

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parte della Stella. Molta attenzione è riservata allo Shabbàt, all’osservanza del sabato, che è ad un tempo testimonianza di fedeltà umana e momento di memoria e custodia della promessa divina. Lo Shabbàt è innanzitutto ricordo della cessazione dell’atto creatore, della sospensione e dell’arresto del settimo giorno (Gen. 2,1-3). È un riposo, dunque, che chiama in causa il fare, ma secondo due accezioni differenti: da una parte il “lavoro” della creazione, dall’altra il lavoro umano che rammenta, al contempo, l’originaria condizione servile del popolo eterno in Egitto. Bisogna dunque capire bene il senso di tale sospensione del fare, per poi reinserire tali considerazioni nel più ampio contesto del rapporto tra tempo sacro e tempo profano nell’ebraismo. Il tempo profano viene arrestato per lasciar spazio al riposo che va inteso però non in vista di un nuovo lavoro, cioè come semplice momento di ristoro dalle fatiche, un riprender fiato per poi ricominciare ad operare. Il senso ebraico del riposo è più radicale: è un ridursi, un ritirarsi dal creato per il Creatore, dal mondo per l’uomo, per lasciar spazio alla creatura nel primo caso e al mondo nel secondo. È come se, osserva acutamente Petrarca, Dio stesso insegnasse all’uomo a non sentirsi padrone del mondo, a rispettare la creaturalità delle altre creature come il Signore rispetta la sua127. Lo Shabbàt, dunque, richiamando alla sospensione del fare, redime quello umano, cioè toglie all’operare dell’uomo il carattere dell’assoggettamento e dell’oppressione. Ciò apre ad un paradosso, l’ennesimo di cui è innervata la spiritualità ebraica: come può la consapevolezza del limite creaturale convivere con la speranza dell’eternità, con la tensione verso il Regno? Proprio la puntuale analisi di Rosenzweig sull’articolarsi della liturgia dello Shabbàt, seguita attraverso l’interpretazione di Petrarca, ci permetterà di capire come tale tensione 127. G. Petrarca, Nel vuoto del tempo. Rosenzweig, Hegel e lo Shabbàt, cit., pp. 103-113.

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tra la consapevolezza del limite, della finitudine del finito e la costante aspirazione all’infinito, che non è mai certezza di raggiungimento, sia la componente essenziale della religiosità ebraica da preservare in tutta la sua fecondità. Lo Shabbàt unisce alla consapevolezza del limite creaturale il ricordo riattualizzato dell’idea di elezione legata al patto del popolo con Dio e al dono della Torah. Elezione dice qui non solo la celebrazione dell’identità di un popolo, ma anche e soprattutto della sua alterità, del suo dipendere da Altro, dall’ascolto della Parola dell’Altro, esemplificata dall’apertura dei rotoli per la lettura sinagogale. Lo Shabbàt è celebrazione dell’eternità nel tempo, giorno di sospensione e arresto del tempo profano per lasciar spazio al tempo sacro e santificarlo; è preparazione all’accoglienza dell’eterno anticipando e contraendo nell’oggi il giorno della redenzione attraverso il ricordo della creazione e della liberazione dalla schiavitù d’Egitto. Tale santificazione però non cancella la distanza tra l’anticipazione e il compimento, anzi permette di esperire l’inquietudine dell’attesa. Anticipare non significa affatto compiere, ma essere consapevoli dell’incompiutezza. La preghiera comunitaria nell’illuminare l’occhio verso la meta gli mostra, al contempo, anche la distanza da essa, non pretende di svelare il mistero dell’Altro, ma di custodirlo in quanto tale128. L’interesse filosofico dell’analisi della liturgia ebraica condotta da Rosenzweig in queste pagine risiede nel suo far risaltare i paradossi di cui si nutre l’esperienza religiosa, senza per questo, coerentemente con i presupposti speculativi del nuovo pensiero, risolverli o annullarli. L’analisi dello Yom Kippur, ad esempio, può illuminare sul paradossale rapporto tensivo tra individuo e collettività nel comunitarismo ebraico. Nello

128. Ivi, pp. 126-129. Cfr. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pp. 332-336.

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Yom Kippur o giorno dell’espiazione il nesso comunitario è spezzato all’interno della comunità stessa, il singolo si presenta per essere giudicato solo e nudo dinanzi a Dio, in tutta la sua fragilità creaturale. Esso rappresenta il rovesciamento del vincolo comunitario più volte sottolineato, la sua sospensione, per cui l’Io, che traeva la sua forza dal Noi, sperimenta in toto la sua unicità e la necessità di aprirsi all’altro da sé, a dei legami che non coinvolgono soltanto gli ebrei, ma l’intera umanità. Così l’ebreo non ha nella sua comunità una sorta di recinto protettivo che lo esime dalle responsabilità individuali, anzi proprio in queste pagine Rosenzweig mostra la portata universalistica del particolarismo ebraico, i tratti esistenziali, per non dire esistenzialistici, dell’esperienza religiosa, che non evita, semmai accentua nell’individuo la lacerazione tra essere e dover essere, tra finito e infinito. Bisogna, tuttavia, rimarcare come la consapevolezza della solitudine dell’uomo sia ancora tutta comunitaria. La separazione che apre il singolo ebreo all’intera umanità è inclusione e non esclusione del popolo eterno entro legami di prossimità, nati dalla consapevolezza di condividere la stessa creaturalità dinanzi al Creatore. È come se la comunità stessa, nel fare i conti con la singolarità dei membri che la costituiscono, tenti di preservare se stessa dal pericolo di considerarsi immagine perfetta di Dio, unica depositaria della sua verità, dimenticando la distanza intrinseca al rapporto con lui, l’essenzialità del “non ancora”, rispetto al quale ogni immagine è destinata ad infrangersi129. La puntuale analisi liturgica di queste pagine non deve far passare in secondo piano il radicale anti-hegelismo che ani-

129. Ivi, pp. 180-181. Cfr. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pp. 347-350. È il punto decisivo, sfuggito alla critica di Taubes, che risulta essenziale, ai fini del nostro percorso, per evidenziare, contrariamente a quanto sostiene Petrarca (Cfr. Ivi, pp. 123-124), che anche il comunitarismo paolino, al pari di quello ebraico, può essere interpretato secondo una logica

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ma la Stella nell’intero arco del suo dispiegarsi argomentativo. Esso è palese, ad esempio, nell’attenzione con cui Rosenzweig precisa che il suo soffermarsi sul comunitarismo ebraico non è volto a proporre alcuna teologia-politica, anzi procede in senso opposto rimarcando la necessità di tenere distinti i due ambiti, proprio per custodire ed essere fedeli all’alterità del Dasein ebraico. Infatti, come ben dimostrano gli esiti della secolarizzazione hegeliana, accennati dal pensatore ebreo già all’epoca del carteggio con Rosenstock, un’eccessiva compromissione del teologico e più in generale del religioso con il mondo comporta giocoforza l’emergere di un pragmatismo politico, in base al quale le contraddizioni vanno risolte rapidamente in vista di soluzioni e decisioni immediate, per cui non possono essere tenute aperte e mantenute in tensione, come insegna, invece, l’autentica esperienza religiosa. Israele, dunque, per restare fedele all’immagine incompiuta della propria comunità, non può cercare di realizzarsi collettivamente in uno stato, (ciò chiarisce anche la posizione fortemente critica di Rosenzweig nei confronti del sionismo emersa già nelle ultime lettere a Rosenstock), non può, al pari degli altri popoli, ritenere che il politico riesca a conferirgli eternità nel tempo, perché ciò rappresenterebbe un contravvenire all’esperienza altra del tempo e dal tempo, di cui si è appena detto attraverso il confronto con la liturgia. Per queste ragioni Rosenzweig ribadisce: «la vera eternità del popolo eterno deve rimanere sempre estranea ed irritante per lo stato e per la storia universale»130. La vita silenziosa e naturalmente “altra” del popolo eterno infrange ogni presunta potenza della storia

dell’alterità (si rilegga il §2.3 sul senso dell’imitazione in Paolo, sondata attraverso Heidegger e Vitiello), preservando la paradossale inquietudine del rapporto individuo-comunità dalla chiusura della secolarizzazione hegeliana (Cfr. § 3.2). 130. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 357. Corsivo mio.

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universale, rivelando come dietro di essa si nasconda l’illusione titanica di poter realizzare, di poter portare a compimento l’eternità nel tempo. L’esistenza stessa di Israele testimonia, invece, che l’eternità può essere solo attesa e non compresa in un orizzonte storico chiuso e predeterminato da una ragione fagocitante, che, da questo punto di vista, propone soltanto una pseudo-eternità. La preminenza della vocazione religiosa nel popolo ebraico non indica un rifiuto della storia, ma una presa di distanza da essa; non è una negazione del politico, ma un tentativo di mantenerlo distinto dal religioso. Il ruolo del popolo eterno non consisterà, quindi, nel mettersi al servizio della storia universale, ma, al contrario, nel sottoporla ad una critica costante. Ciò si evince soprattutto dalla distanza tra il concetto rosenzweigiano di elezione e la sua forma secolarizzata incarnatasi nel nazionalismo moderno. L’elezione cui pensa Rosenzweig designa la singolarità e la specificità del popolo ebraico, il suo statuto meta-storico contrapposto all’esistenza essenzialmente storica delle nazioni. Il nazionalismo non fa altro che togliere all’idea di elezione quella connotazione meta-storica che invece, come si è già detto, si mantiene sin dall’origine nell’ebraismo131. Proprio il tentativo, costante nella Stella, di liberarsi dall’orizzonte storico-temporale di Hegel fa emergere il possibile punto di contatto tra ebraismo e cristianesimo e rende ragione del passaggio dall’analisi del primo al secondo, anch’essa, per il momento, a sé stante, seppur condotta formalmente in parallelo, a partire dal modo di vivere l’esperienza del tempo. Il cristianesimo, infatti, non può negare il tempo, anzi deve condurre la sua speranza attraverso il tempo, senza che quest’ultimo abbia potere su di essa. Il paradosso dell’esperienza cri-

131. S. Mosès, La storia e il suo angelo. Rosenzweig, Benjamin, Scholem, cit., pp. 77-80.

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stiana del tempo consiste nel fatto di essere nel tempo, ma di sapersi indipendenti dal tempo, perché il proprio passato e il proprio futuro dipendono dal senza-tempo. L’esperienza cristiana è dunque caratterizzata dal vivere la paradossalità del “tra” che unisce e, al contempo, divide passato e futuro. Tale rapporto tensivo con il tempo deve convivere, tuttavia, con la tendenza cristiana a compromettersi a tal punto col tempo mondano, con il presente, da far prevalere una visione cristocentrica del tempo, in base alla quale Cristo diviene il fulcro di ogni epoca, lo spartiacque tra il passato e il futuro, dimenticando però l’importanza di quel “tra” non radicato nel presente e nel tempo che costituisce, secondo Rosenzweig, la vera riserva veritativa della religiosità cristiana da confrontare con l’ebraismo132. In tal senso Rosenzweig può dire: «il cristiano accetta la lotta contro la corrente del tempo. Egli traccia accanto ad essa il solco della propria via eterna»133 l’inizio e la fine appaiono vicini ad ogni istante, perché entrambi sono nell’eterno e soltanto per questo il cristiano sa di essere in ogni istante nel punto centrale, non da intendersi però come un orizzonte onnicomprensivo da abbracciare con lo sguardo, ma come una via aperta fatta unicamente di punti mediani onnicentrici. Ogni evento, dunque, sta al centro tra inizio e fine e grazie a questa sua posizione centrale nell’inter-regno temporale dell’eternità è eterno a sua volta134. In tal modo il cristianesimo, secondo Rosenzweig, ha reso la propria visione dell’attimo un qualcosa che fa epoca e ha assunto il dominio sul tempo, testimoniato dal fatto che la nascita di Cristo è divenuta il discrimine tra le epoche. Per i cristiani, a differenza degli ebrei, il tempo mondano non è destinato ad infrangersi, 132. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pp. 360-361. 133. Ivi, p. 362. 134. Ivi, pp. 362-363. Sulla problematicità e la paradossalità della visione cristiana del tempo si veda V. Vitiello, Topologia del moderno, cit., pp. 11 e ss.

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deve servire, come uno schiavo o un prigioniero, all’affermazione della propria verità. Passato diviene tutto ciò che c’era stato prima della nascita di Cristo e futuro tutto ciò che è pensato sempre in vista del giudizio finale. Nel mezzo c’è un unico lasso di tempo, il tempo onnicentrico del mondo cristiano, in cui tutto è chiaro e manifesto per la sua verità e non c’è alcuno spazio per la misteriosità del tempo e del mondo135. Tale caratterizzazione ha la sua ragion d’essere nella vocazione missionaria della cristianità, nella sua necessità di essere una via in costante espansione. La missio è infatti il modo in cui il cristianesimo provvede alla propria autoconservazione, non potendo, a differenza degli ebrei, far affidamento sul perpetuarsi della propria tradizione attraverso il legame biologico tra le generazioni136. Il modo cristiano di vivere e concepire il rapporto con il tempo è fatto emergere da Rosenzweig, analogamente a quanto detto a proposito dell’ebraismo, dall’analisi liturgica. La domenica cristiana, al pari dello Shabbàt, è festa della creazione, vissuta collettivamente nell’ascolto della Parola. La differenza essenziale rispetto all’ebraismo risiede nel modo di concepire il riposo, la cessazione delle fatiche. Esso non è improntato, alla maniera ebraica, alla sospensione, alla santificazione di quanto fatto nell’arco della settimana conclusa, ma al recuperare le forze, ad attingere un nuovo slancio per la settimana successiva. La coscienza cristiana vive anche dal punto di vista liturgico il proprio rapporto con il tempo all’insegna della centralità dell’inizio che conferisce la direzione decisiva alla via eterna, poiché: «la croce è sempre inizio, è sempre punto d’origine delle coordinate del mondo»137, tenendo fede alla sua

135. Ivi, p. 363. 136. Ivi, pp. 364-365. 137. Ivi, p. 383. Corsivo mio.

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vocazione espansionistica e missionaria. Quanto detto a proposito della domenica può essere esteso, secondo Rosenzweig, a tutto l’anno liturgico cristiano se ci si sofferma sul legame e sul significato delle sue tre feste principali: Natale, Pasqua e Pentecoste. Il Natale è infatti la celebrazione della centralità dell’inizio, dell’importanza della nascita di Gesù, non solo come fulcro della rivelazione cristiana, ma anche come evento che, nel senso spiegato in precedenza, modifica la visione del tempo mondano, pone un prima e un dopo di lui. È, dunque, quel punto centrale da cui si dipana l’onnicentrismo della via eterna che trova nella Pasqua l’evento decisivo poiché apre, attraverso la morte e resurrezione di Cristo, alla dimensione extra-mondana dell’esperienza religiosa cristiana, a quel fecondo “tra” di passato e futuro richiamato da Rosenzweig all’inizio del capitolo dedicato al cristianesimo. Infine assume un’importanza decisiva, ai fini dell’interpretazione rosenzweigiana, la Pentecoste come festa che celebra la vocazione missionaria della Chiesa, il ricevere direttamente da Cristo l’incarico di essere vessillo universale del suo messaggio. Il fatto che i cristiani la festeggino dopo la Pasqua e le diano uguale importanza, anche al di là delle motivazioni puramente cronologiche, testimonia, a suo avviso, quanto il cristianesimo debba tenere insieme problematicamente la propria riserva veritativa extra-mondana con l’altrettanto pressante necessità di espandersi nel mondo, in virtù del suo universalismo missionario138. Questo secondo aspetto della fede cristiana segna per Rosenzweig la netta distanza dall’ebraismo: il cristianesimo è sempre votato alla testimonianza di un contenuto; è fede in qualcosa. Gli ebrei nascono invece già all’interno di una comunità, non hanno bisogno di testimoniare la loro fede perché

138.Ivi, pp. 388-391.

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la loro stessa esistenza, perpetrata attraverso la generazione, ne è la riprova. La necessità della testimonianza, della fissazione dogmatica della verità religiosa si pone soltanto ad una fede che vuole e deve conquistare il mondo. La cristianità è dogmatica, non nel senso chiuso e ottuso del termine, ma nell’accezione più alta e nobile, perché deve necessariamente affidarsi alla forza persuasiva della parola per diffondere il suo messaggio139. Da tale differenza ne deriva un’altra altrettanto essenziale tra il comunitarismo ebraico e quello cristiano. L’ebreo, in virtù dell’importanza della generazione, è già da sempre parte integrante della comunità, la sua appartenenza al popolo eterno è già inscritta nei suoi legami biologici. Il cristiano, invece, che fonda il suo rapporto con la verità sull’annuncio e sull’accoglienza del messaggio di Cristo, si converte, ovvero decide di aderire come singolo ad una comunità. La Chiesa cristiana è un’unione di singoli in quanto tali, in vista di un operare comune; solo la decisione presa singolarmente fa essere membri dell’assemblea. La celebre metafora paolina della Chiesa come corpo di Cristo (Ef. 1,22 e ss.) non va dunque intesa, al pari dell’apologo di Menenio Agrippa, come l’allusione ad un’unione cooperativa fondata sulla divisione del lavoro, ma come un sottolineare la libertà del singolo nella comunità. La stessa visione onnicentrica della via eterna spinge il cristiano a vivere, in quanto punto e centro della via, l’esperienza dell’essere nel tempo, l’esserci del “tra” di passato e futuro, dapprima individualmente per poi condividerla collettivamente nella comunità140. 139. Ivi, pp. 365-366. Rosenzweig ripropone la stessa distinzione buberiana tra emunah e pistis (Cfr. M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, cit., pp. 57-62). Per superarla occorre tenere presente quanto è già emerso nel §2.3, ovvero il senso “altro” della predicazione paolina, da intendersi non come imposizione della propria verità, ma come un andare incontro all’altro da sé, come segno riflesso della propria costitutiva alterità. 140. Ivi, pp. 366-367 ed anche Ivi, p. 377.

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Le precisazioni e le distinzioni fatte da Rosenzweig, utili a preservare soprattutto la specificità ebraica rispetto alla presunta continuità con il cristianesimo, non mirano a screditare la valenza veritativa di quest’ultimo, anzi il pensatore ebreo riconosce nella Croce un simbolo di fraternità, una feconda radice etica improntata alla reciprocità (Mt. 25,40). Tale legame si fonda sulla fede nella via comune: Cristo come meta ultima, puro centro e modello (2 Tes. 2,13; Mt. 18,20). Lo stesso rapporto onnicentrico con il tempo, più volte rimarcato, spiega la propensione cristiana alla fratellanza, poiché, vedendosi al centro del tempo, i cristiani si sentono tutti contemporanei. Una riserva etica, un’inclinazione a creare legami con l’altro da sé che accomuna le due fedi: nell’ebraismo è radicata nell’esperienza interiore dell’Altro, nel cristianesimo, invece, nella sua vocazione missionaria, nel suo andare incontro all’altro da sé per espandersi all’esterno141. Rosenzweig, da ebreo, è preoccupato dal fatto che il cristianesimo, eccessivamente invischiato con il mondo, perda, per troppo zelo missionario, l’alterità della propria esperienza religiosa, la capacità di tenere vive quelle contraddizioni interne di cui pur si alimenta, al pari dell’ebraismo, per cui precisa: «la cristianità se davvero vuole essere onninclusiva deve allo stesso modo custodire in sé quelle opposizioni attraverso le quali altre forme di associazione, già nel loro nome e nel loro scopo, si delimitano ciascuna nei confronti di tutte le altre; soltanto così facendo essa si caratterizza come la forma di associazione che abbraccia tutto e tuttavia rimane unica nel suo genere»142. Entrambe le esperienze religiose, dunque, hanno il compito di custodire

141. Ivi, pp. 367-371. Va, tuttavia, precisato che Rosenzweig, pur avendone posto le basi teoretiche, non approfondisce adeguatamente l’alterità ebraica sul piano etico. Da qui nasce la necessità di rivolgerci, nei passaggio successivo, a Lèvinas, che ne ha fatto invece un cardine del proprio pensiero. 142. Ivi, p. 372. Corsivo mio.

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al proprio interno le contraddizioni in cui la fede, e la vita in genere, si muove, senza annullarle e attenuarle, ma avendo il coraggio di accettarle fino in fondo. L’esperienza di una verità “altra”, che si rivela parzialmente, perché avvolta sempre dal mistero dell’inizio e della fine, da cui dipende l’attesa del futuro, l’inquietudine del “non ancora”, rappresenta il terreno di confronto tra le due fedi, perché nessuna delle due può avanzare la pretesa di possedere la verità nella sua totalità. Essa non può essere prodotto o conquista dell’uomo, ma dono di Dio, concesso alla fine dei tempi, quando egli stesso si rivelerà completamente come Uno e come Tutto143. Nel dire ciò Rosenzweig ha raggiunto l’obiettivo polemico che ha animato l’intera opera: è riuscito a capovolgere il punto cardine dell’idealismo, cioè il presupposto che la verità della ragione si certifichi da sé, che la sua tirannia sia possibile in virtù del suo fare circolo con se stessa. La verità rivelata ha mostrato infatti la sua alterità e ulteriorità rispetto alla ragione, palesandone i limiti intrinseci e non legittimandone la pretesa di dominio sul mondo, sul tempo e sulla storia144. Se, dunque, la verità intera appartiene solo a Dio, l’uomo immerso nel tempo, consapevole della propria creaturalità, può soltanto partecipare e parteciparsi la verità nella sua limitatezza, può farsi carico della parzialità della sua verità che si esaurisce nel qui ed ora, può al massimo “anticiparla” nella preghiera, non nel senso di accoglierla in pienezza, ma, come si è già precisato, nell’attenderla con fiducia nella fugacità 143. Ivi, pp. 409-412. 144. Per tali ragioni Mosès definisce il percorso tracciato nella Stella come un tentativo di “decostruzione ebraica dell’ontologia occidentale” a partire dall’esperienza religiosa e dal rapporto con la temporalità, le quali rappresentano non solo il terreno di confronto tra ebraismo e cristianesimo, ma anche una via “altra” per la comprensione del moderno e della nostra epoca (Cfr. S. Mosès, Figure filosofiche della modernità ebraica, cit., pp. 49-52).

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dell’istante. La verità è dono del divino, dell’Altro, che attende di essere mostrato completamente soltanto alla fine dei tempi. Nel mondo che vive nel tempo, che aspetta l’irruzione del senza-tempo, il compito affidato ad ebraismo e cristianesimo è quello di esistere e persistere come vie paritetiche verso questa verità “ultima”145. Tale compito, potremmo dire la missione ebraico-cristiana, conferisce anche un valore specifico all’esserci ebraico, al suo “restare” (testimoniato da Rosenzweig in prima persona con la scelta di non convertirsi al cristianesimo): la sua stessa presenza ricorda al cristiano che la sua ricerca della verità non è ancora giunta a compimento, è ancora altra, poiché sarà inverata solo alla fine della via eterna146. La concezione della limitatezza della verità umana, che necessita di essere inverata dalla Verità ultima, ci consente di tornare alla parte finale del carteggio Rosenzweig-Rosenstock, da cui siamo partiti, per dipanare la questione con una profondità maggiore. Le due religioni sono descritte come due conii forgiati dallo stesso metallo; la loro materia comune che li differenzia dal paganesimo è il vivere nel tempo, secondo le diverse modalità analizzate precedentemente, ma nell’attesa del senza-tempo, il loro essere bussole del tempo mondano il cui ago è, tuttavia, sempre rivolto all’extra-mondano. Tale consapevolezza ha importanti conseguenze filosofiche ed esistenziali, poiché gli “uomini religiosi”, siano essi ebrei o cristiani, non si fanno prendere dalla smania onnicomprensiva della

145. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit. pp. 419-426. 146. Ivi, pp. 441-444. Bisogna tuttavia tenere sempre presente un elemento che in queste pagine sembra sfuggire all’attenzione di Rosenzweig: la consapevolezza dell’incompiutezza e dell’inquietudine della propria verità viene al cristianesimo non solo dal confronto con l’ebraismo, ma è anche e soprattutto già interna al messaggio di Cristo diffuso da Paolo, come abbiamo già cercato di far emergere accostandoci alle feconde osservazioni di Heidegger e Vitiello sulla vita cristiana nel §2.3.

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ragione, accettano, rispettano e preservano il limite inscritto nella loro stessa finitezza, il loro essere uomini e creature di Dio. Un’umanità siffatta non cerca la propria sicurezza e il proprio inveramento nel tempo e nella storia, ma attende che esso avvenga nel nunc stans, nell’attimo donato dall’Altro. Ciò, infine, rende ragione della necessità, singola e comunitaria, di oltrepassare l’aidos, l’orgoglio, la chiusura entro il proprio sé, per andare incontro all’altro e parteciparsi la reciproca attesa, vissuta nella finitezza147. La via, impervia e ancora tutta da tracciare, è così descritta da Rosenzweig nell’ultima pagina della Stella: «camminare in semplicità con il tuo Dio; qui non si richiede nulla di più della completa presenza della fiducia. Ma fiducia è una parola grande. È il seme da cui crescono fede, speranza e amore ed è il frutto da cui essi matura. È la cosa più semplice di tutte e proprio per questo la più difficile»148. Le basi filosofiche di tale percorso comune, dalle quali dipende il senso del nostro accostamento a Rosenzweig, sono ribadite dallo stesso pensatore ebreo nel Nuovo pensiero. Ebraismo e cristianesimo sono presentati, in sostanziale continuità con le conclusioni del carteggio con Rosenstock, come due eterni quadranti soggiacenti al modo convenzionale in cui gli uomini scandiscono il tempo mondano. Entrambi danno forma ad un’altra visione del tempo, non in concorrenza con il mondano, ma che convive tensivamente e problematicamente con esso. È il tempo sacro di Dio, dell’uomo e del mondo, scandito dalla liturgia e fondato sui concetti di creazione, rivelazione e redenzione, secondo le modalità già analizzate. È il tempo dell’esperienza dell’Altro, difficilmente esprimibile se non per approssimazioni. È il tempo che fa i conti con il

147. F. Rosenzweig, E. Rosenstock, La radice che porta. Lettere su ebraismo e cristianesimo, cit., pp. 146-151. 148. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 454. Corsivo mio.

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mistero di Dio, dell’uomo e del mondo, senza, tuttavia, sopprimerlo, in virtù della smania umana, troppo umana di esercitare il proprio dominio tirannico sulla realtà. Le due fedi sono quindi pensate non nell’ambito di una scienza o di una filosofia delle religioni, bensì in base ad un interesse sistematico più generale nei confronti del problema del rapporto tra il tempo e l’eternità. Da qui l’esigenza di non fondare il confronto sull’assolutizzazione di una delle due verità, da cui far dipendere l’altra e di non seguire la tradizionale contrapposizione tra legge e fede, anche per sfuggire alle inutili polemiche in cui è invischiata l’apologetica149. I presupposti del nuovo pensiero sono infatti differenti: è un pensiero radicato nella “e”, nella problematicità delle congiunzioni che non annullano la tensione tra i termini congiunti. Esso si approccia in modo diverso alla verità, non cerca, a differenza dei filosofi dalla Jonia a Iena, un’auto-fondazione, una certezza assoluta, un sapere granitico, chiuso in se stesso. La verità cui il nuovo pensiero anela non è una e sola, ma molteplice e parziale; è sempre inquieta perché attende di essere confermata e inverata dall’altro. La gnoseologia messianica proposta da Rosenzweig introduce un concetto dinamico di verità, in luogo di quello tradizionalmente statico, valuta le verità sulla base del prezzo del loro inveramento e dei legami che sono in grado di instaurare tra gli uomini. Ebraismo e cristianesimo, dunque, rappresentano due specifiche attese messianiche, accostabili ma non conciliabili: quella del Messia che viene e quella del Messia che ritorna. Solo a partire dall’accettazione non inclusiva di tali premesse è possibile pensare la problematicità della congiunzione che unisce e, al contempo, separa le due fedi150.

149. F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., pp. 63-64. 150. Sul tema si veda V. Vitiello, Ebraismo “e” cristianesimo: una problematica congiunzione, Prefazione a G. Petrarca, Nel vuoto del tempo. Rosenzweig, Hegel e lo Shabbàt, cit., pp. 9-14.

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Rispetto all’ulteriorità della verità messianica, che attende il suo inveramento alla fine dei tempi quando tutto sarà presso Dio, la verità terrena resta spaccata, divisa, limitata, per cui ebraismo e cristianesimo, consapevoli di tale sostanziale ed essenziale differenza, devono preservarla e custodirla, devono insegnare a vivere e a convivere con il senso del limite senza cedere alla tentazione di superarlo o annullarlo in nome della presunta potenza, o per meglio dire, prepotenza, perché carica di hybris, della ragione umana.

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V Lèvinas: l’Altro nella responsabilità per l’altro

5.1 Dall’uscita dall’essere… La ricerca di un paradigma “altro” per il pensiero filosofico moderno che è al centro delle riflessioni di Rosenzweig trova in Emmanuel Lèvinas la sua prosecuzione ideale, in quanto gli interrogativi che lo muovono sono essenzialmente gli stessi, anche se, come si avrà modo di vedere, conducono ad approdi differenti, dovuti all’inevitabile mutamento di contesto storico in cui sono posti. Lo stesso Lèvinas ammette tale debito, anzi è utile notare il fatto che egli torni più volte a confrontarsi con il pensatore di Kassel nel corso del suo lungo itinerario speculativo, proprio in prossimità di snodi crociali, quasi che Rosenzweig costituisca per il filosofo lituano il pungolo costante per lo sviluppo di un pensiero che aspiri ad essere originale e innovativo, pur ponendosi in continuità con la tradizione ebraica. Tale duplice istanza che innerva la riflessione rosenzweigiana attira l’attenzione di Lèvinas, ne costituisce la cifra di “pensatore moderno” e ne invita a raccogliere l’eredità intellettuale e le sfide di fondo. In particolare, secondo Lèvinas, occorre proseguire la “rivolta” contro Hegel e farlo lungo una via che sia in grado di coniu-

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gare la speculazione filosofica con la fecondità dell’esperienza religiosa. Nel dire ciò, per il filosofo lituano, bisogna, tuttavia, comprendere bene il senso di quest’ultima per non ridurre la portata del gesto filosofico di Rosenzweig ad un mero attingere alla pietas religiosa. Il ricorso a motivi teologici infatti non si identifica affatto con l’unione mistica, né tantomeno poggia sulla fede astratta in una rivelazione, ma si radica nell’esistenza concreta di comunità religiose, le quali con la loro stessa presenza richiamano ad un’esistenza meta-storica. Peculiarità che non possono emergere nella rigidità di un sistema come quello hegeliano in cui tutto, anche il rapporto con l’eternità, è pensato in funzione del trionfo della totalità. La rivolta di Rosenzweig, precisa Lèvinas, non è quella di un pio ebreo che cerca nella religione una via di fuga consolatoria rispetto allo scacco del reale, ma un tentativo di mettere in discussione le coordinate tradizionali dell’essere, tracciando con la Stella una parabola originale all’interno della storia della filosofia occidentale1. Lèvinas evidenzia come Rosenzweig comprenda il fatto che alla pretesa totalizzante del pensiero sfugga la particolare commistione di identità e differenza che caratterizza la vita, la quale è, invece, ben presente all’esperienza religiosa che ne fa il ponte tra Dio, uomo e mondo attraverso i concetti di creazione, rivelazione e redenzione. Essi sono tenuti insieme non dalle astrazioni del pensiero dogmatico, ma dalla presenza concreta dell’amore di Dio per l’uomo e soprattutto dell’uomo per il prossimo, rendendo testimonianza della propensione etica della religione, la quale non insegnerebbe l’osservanza dei comandamenti, se alla base di essi non vi fosse la necessità di amare in questa duplice direzione2.

1. E. Lèvinas, Fuori dal soggetto. Buber, De Waelhens, Jankèlèvitch, Leiris, Marcel, Merleau-Ponty, Rosenzweig, Wahl, tr. it. di F. P. Ciglia, Marietti, Genova 1992, pp. 56-58. 2. Ivi, pp. 59-62.

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Il fatto che Lèvinas sottolinei questi e non altri aspetti del pensiero di Rosenzweig mostra su quali punti sia possibile rintracciare la continuità tra i due autori. Non si capirebbe la critica lèvinasiana alla totalità e la sua impostazione metodologica di fondo, di cui ci occuperemo nei prossimi paragrafi, senza il cammino tracciato dalla Stella, seguito e radicalizzato dal filosofo lituano. In entrambi c’è una rivendicazione del valore della soggettività che non si riduce a pretesto egoistico e narcisistico contro la totalità, ma, partendo dalla problematica congiunzione di identità e differenza, di Medesimo e Altro condurrà Lèvinas a problematizzare la chiusura dell’essere fino ad aprirsi all’esteriorità e alla trascendenza etica. Un’uscita dall’orizzonte della metafisica della presenza non in nome della dignità dell’Io, ma della necessaria apertura all’altro, per la riscoperta del valore dell’umano, già messo in crisi dalla guerra del 1914-1918, vissuta in prima persona da Rosenzweig sul fronte balcanico, ma resa ancora più impellente dopo gli orrori della seconda guerra mondiale di cui Lèvinas è stato testimone3. La necessità della critica alla soggettività non nasce in Lèvinas soltanto dall’influenza di Rosenzweig, ma anche dal serrato e mai concluso confronto con la fenomenologia di Husserl. Lo sforzo di “uscire dall’essere” compiuto dal filosofo lituano risulta, da questo punto di vista, ancora più interessante e originale per il costante intreccio della radice ebraica con quella fenomenologica. L’insistere husserliano sul concetto di intenzionalità è letto infatti da Lèvinas come il tentativo di aprirsi una strada al di là dei tradizionali principi di continuità, rassomiglianza, causalità, o relazione della parte con il tutto. Egli ha individuato il senso del pensiero come apertura, non come

3. S. Mosès, Al di là della guerra. Tre saggi su Lèvinas, tr. it. di D. Di Cesare, Il nuovo melangolo, Genova 2007, pp. 38-40.

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fremito cieco della mente, ma come intenzione e progetto. Egli ha riproblematizzato il rapporto soggetto-oggetto, evitando sia l’errore di pensarlo in funzione del primato del primo sul secondo, liberandosi da quelli che Lèvinas definisce gli “impacci soggettivistici”, né tantomeno è ricaduto nell’eccesso opposto, ovvero il primato del oggetto sul soggetto, in base al quale la fenomenologia sarebbe ridotta ad un realismo ingenuo. L’apertura della fenomenologia consiste, per Lèvinas, nell’interrogarsi sulla costituzione originaria e pre-originaria degli orizzonti di senso a partire dall’esperienza della sensibilità come modalità originaria del nostro contatto con il mondo. A partire dal riconoscimento della nuova atmosfera che la fenomenologia di Husserl ha immesso nella filosofia europea sul problema del rapporto tra pensiero ed essere, Lèvinas pone degli interrogativi che testimoniano, già in questa fase, la direzione di continuità nella rottura e la declinazione prevalentemente etica della matrice fenomenologica del suo pensiero. Egli si chiede, infatti, se la costitutiva apertura dell’atteggiamento fenomenologico non respinga l’indifferenza teoretica ed autorizzi invece a pensare ad un’etica anteriore ad ogni conoscenza, ad un’interrogazione serrata sull’altro, sulla sua inquietante presenza, che con il suo volto chiama alla responsabilità come cifra e privilegio dell’umano4. Una volta individuate le direttrici entro le quali si muoverà il pensiero di Lèvinas, ovvero quella fenomenologica e quella più strettamente ebraica, occorre comprendere da dove nasce l’esigenza del filosofo lituano di cercare un’altra via all’essere, o meglio al di là dell’essere. In tal senso, secondo Jacques Rolland, un luogo essenziale è Dell’evasione, che, pur conservando il carattere incerto e provvisorio di uno scritto giovanile, introduce in maniera chiara nello spazio di interro-

4. E. Lèvinas, Fuori dal soggetto, cit., pp. 163-168.

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gazione entro cui si articolerà il pensiero di Lèvinas, malgrado gli inevitabili mutamenti di prospettiva. Il testo rappresenta una sorta di “manifesto programmatico”, in cui va maturando la necessità di pensare al di là dell’essere senza il quale non si capirebbe l’approdo all’altrimenti che essere5. Il concetto di evasione rivela infatti l’inquietudine filosofica di Lèvinas e della sua generazione che non può rassegnarsi all’identificazione dell’essere con l’Assoluto. Tale impostazione svuota di senso l’esistenza, perché la condanna all’immobilità dell’orizzonte della presenza. C’è dunque bisogno di un movimento opposto, di un contro-movimento che non va confuso con il semplice slancio vitale, poiché intende mettere in questione la possibilità di una ridefinizione dell’essere in quanto tale e del suo rapporto con l’esistenza umana. Se gli si conferisce il solo carattere dell’identità che, dal punto di vista logico, lo trasforma in tautologia, si finisce con il renderlo una prigione che non fa che aumentare il desiderio di fuga, il bisogno di eccedenza, per uscire dalla chiusura dell’Io in se stesso e liberarsi dalle catene impostegli dallo sviluppo della filosofia da Aristotele fino alla modernità6. Per esplicare il senso del malessere ontologico della propria generazione Lèvinas ricorre all’analisi della nausea, la quale non rappresenta il sintomo di una mancanza, di un vuoto, ma, all’opposto, uno star male per l’eccesso di pienezza da cui la fisiologia medica fa derivare il vomito. L’analogia è possibile perché la nausea rivela il disagio esistenziale rispetto al trionfo della presenza dell’essere rispetto al quale l’individuo fagocitato si sente impotente. Bisogna rassegnarsi ad un essere autoreferenziale che basta a se stesso o bisogna rivoltare questo presupposto? Lèvinas si chiede se il progresso

5. J. Rolland, Uscire dall’essere per una nuova via, tr. it. di P. Turina in E. Lèvinas, Dell’evasione, tr. it. di D. Ceccon, Cronoscopio, Napoli 2008, pp. 71-73. 6. E. Lèvinas, Dell’evasione, cit., pp. 13-19.

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della filosofia occidentale possa considerarsi propriamente tale se ha portato all’ontologismo, cioè all’affermazione dell’essere chiuso in se stesso che sembra ignorare del tutto le contraddizioni e le separazioni su cui si fonda l’esistenza. Inoltre c’è da chiedersi: che tipo di conoscenza potrà essere quella basata su un tutto già compiuto, in cui l’essere si scopre sempre uguale a se stesso? In questo testo Lèvinas solleva interrogativi decisivi per lo sviluppo del suo pensiero, ma non si arrischia in risposte troppo affrettate, si limita a suggerire l’idea della necessità di uscire dal paradigma tradizionale dell’essere attraverso una nuova via che faccia riscoprire il carattere di evento dell’esistenza7. Le conclusioni del breve saggio attestano, come non manca di notare Rolland, un’impostazione heideggeriana di fondo, senza la quale non sarebbe maturata l’idea di uscire dall’orizzonte della presenza e di improntare il discorso sulla rivendicazione della specificità dell’esistenza umana, il cui carattere di evento spingerà Lèvinas, nei testi successivi, ad affrontare il problema della temporalità8. L’ulteriore passo di Lèvinas nella messa in questione del concetto tradizionale di essere è compiuto in Dall’esistenza all’esistente, avvicinandosi all’essere in generale nella sua impersonalità per capire meglio la posizione in cui sorge la questione ontologica, affrontando la relazione con l’essere nella sua nudità, senza misconoscere il suo carattere di chiusura che lo configura, com’era già in luce in Dell’evasione, come un mal

7. Ivi, pp. 39-46. 8. J. Rolland, Uscire dall’essere per una nuova via, cit., pp. 74-81 ed anche 102-105. In merito all’accostamento problematico di Lèvinas a questi temi heideggeriani si veda E. Lèvinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, tr. it. di F. Sossi, Cortina, Milano 1998, pp. 61-69, 87-102. Sul distacco da Heidegger, palese nella differente caratterizzazione della nausea rispetto all’angoscia, si veda invece G. Sansonetti, Lèvinas e Heidegger, Morcelliana, Brescia 1998, pp. 37-45.

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d’essere. Lèvinas, tuttavia, precisa: «se per ciò che concerne la nozione di ontologia e la relazione che l’uomo intrattiene con l’essere, le nostre riflessioni si ispirano, all’inizio, in larga misura alla filosofia di Martin Heidegger, esse sono spinte dal bisogno profondo di abbandonare il clima di tale filosofia»9. Il filosofo lituano contesta in particolare l’interpretazione heideggeriana della vita come estasi, orientata verso la fine, in base alla quale la componente tragica dell’esistenza umana risiederebbe nella finitezza e nel nulla in cui l’uomo si getta. L’angoscia può essere infatti una via d’accesso all’essere solo nella misura in cui quest’ultima si determina attraverso il nulla. In base a tali presupposti, per Lèvinas, l’ontologia heideggeriana resta sostanzialmente negativa, ovvero l’essere è sempre delineato come difetto, come deficienza, o mancanza, cioè nulla. Il filosofo lituano non vuole invece rinunciare alla positività dell’essere, all’investimento esistenziale nell’essere che non dipende soltanto dalla finitezza e dalla paura del nulla, ma dal carattere trascendente dell’esistenza che la morte non può risolvere10. Tale posizione critica emerge ancor più chiaramente nella prefazione alla seconda edizione scritta nel 1978, quando l’itinerario filosofico di Lèvinas è ormai ben delineato. Egli sostiene che l’accostamento all’impersonalità dell’essere è già animato dalla volontà di de-neutralizzarlo, ovvero di uscire da quell’indifferenza consolidatasi con la tradizione e che si traduce, dal punto di vista etico, in un egoismo esasperato e in una mancanza di cura per gli altri. Senza la deneutralizzazione dell’essere non ci può essere alcuna apertura alla relazione con l’altro, alcun rovesciamento dell’“egoità” dell’Io, che permette la dissimmetria del rapporto etico. Egli stesso sottolinea come questo scritto, apparentemente meno 9. E. Lèvinas, Dall’esistenza all’esistente, tr. it. di F. Sossi, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 13. 10. Ivi, pp. 13-14.

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significativo rispetto alle sue opere maggiori, rappresenti la necessaria premessa all’itinerario filosofico tracciato con Totalità e Infinito e Altrimenti che essere, di cui ci occuperemo più avanti. Lèvinas, riprendendo idealmente il discorso da quanto già affermato in Dell’evasione, avvia la sua analisi fenomenologica dalla constatazione del carattere inquieto e inquietante del nostro rapporto con il mondo, il quale, tuttavia, non va inteso secondo un’accezione negativa, in quanto rivela e attesta il nostro stesso essere nel mondo, nonché il privilegio umano di poterci interrogare su di esso, da cui è sorta l’esigenza di far filosofia11. Attraverso un modo di procedere molto vicino a quello di Rosenzweig, Lèvinas nell’esporre il problema cerca di tenere insieme il lato positivo appena ricordato con quello negativo che già aveva definito in Dell’evasione come mal d’essere. In queste pagine, però, l’analisi esistenziale si fa più fine e alla pienezza d’essere della nausea si sostituiscono la lassitudine, che caratterizza la pigrizia e rende refrattari al cominciamento e al compimento in generale, e la fatica, che testimonia nel quotidiano come la vita non possa ridursi a mero divertimento e godimento, ma sia anche e soprattutto un susseguirsi di sforzi che ne rivelano l’intrinseca pesantezza12. Poste tali premesse generali sul carattere inquieto e ambiguo dell’esistenza, Lèvinas passa a descrivere l’articolarsi del nostro rapporto con il mondo. Da allievo di Husserl non può non ribadire la centralità dell’intenzionalità nel rapporto conoscitivo13, ma evidenzia come esso celi un desiderio di stabilità in base al 11. Ivi, pp. 15-17. 12. Ivi, pp. 18-19. 13. È interessante notare come, già in questa fase del suo pensiero Lèvinas voglia distaccarsi progressivamente non solo da Heidegger, ma anche da Husserl (cfr. E. Lèvinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., pp. 20-35, 132-135, 165-186), avanzando l’ipotesi che la sensibilità rappresenti la modalità originaria di apertura all’alterità dell’essere rispetto alla quale l’intenzionalità sarebbe successiva, concetto cardine del pensiero di

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quale il mondo perde ogni carattere misterioso ed ogni forma si presta alla soddisfazione del bisogno umano di fare presa sul reale. Ciò che muove la relazione conoscitiva è dunque il presupposto della completa corrispondenza tra il desiderio e la sua soddisfazione, l’intenzione non viene ad essere nient’altro che una forza che consuma il reale come il desiderio voluttuoso consuma l’oggetto desiderato. In tal modo: «la coscienza descrive un cerchio chiuso in cui permane cancellando ogni finalità, un cerchio in cui può esserci soddisfazione e confessione. Questo cerchio è il mondo»14. Tuttavia, Lèvinas precisa che il parallelismo tra il desiderio e la conoscenza intenzionale sussiste soltanto tenendo presente che il desiderio presuppone il contatto, la prossimità, mentre il possesso conoscitivo è più simile ad un’illuminazione, perché mantiene la distanza tra sé e l’oggetto illuminato, ed è proprio tale distanza che da una parte ha permesso il trionfo del soggettivismo criticato dalla fenomenologia, dall’altra garantisce la possibilità di staccarsi dall’essere e di cercare vie d’accesso non intenzionali. Un esempio di rapporto non intenzionale con il mondo e con le cose è l’esperienza estetica. L’arte è infatti uscita dal mondo che strappa dalla rigidità del rapporto conoscitivo soggettooggetto. Essa, con il suo fondamentale disinteresse, mostra la possibilità di instaurare legami con le cose non fondati su una logica di possesso. L’esperienza estetica offre le cose nella loro nudità, senza estrometterle dal nostro mondo, esprime il loro carattere di alterità. L’opera d’arte si integra con il nostro mondo perché funge da ponte tra l’alter ego dell’artista e quello del fruitore attraverso l’alterità dell’oggetto rappresentato con il quale è possibile essere in simpatia. L’oggetto in

Lèvinas che segnerà, come avremo modo di vedere, il distacco definitivo dalla fenomenologia husserliana nelle sue opere maggiori. 14. E. Lèvinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., p. 38.

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questione perde la sua destinazione d’uso per essere esposto in una forma che dissimula la sua nudità15. La simpatia che si sperimenta con l’alterità esibita dall’arte è possibile perché essa è connaturata all’essere stesso. È ciò che sfugge alle pretese illuminanti del pensiero, ma che, allo stesso tempo, le rende possibili. Lèvinas allude ad una componente indeterminata ed indeterminabile dell’essere che sfugge alla rigidità del rapporto soggetto-oggetto che egli chiama il y a, identificandolo con il fondo oscuro dell’esistenza rispetto al quale è legittimo provare orrore, in quanto mette fuori gioco ogni volontà di possesso, perché rivela l’inquietudine posta dietro ogni forma apparentemente salda e sicura di soggettività. Riprendendo e ribaltando la metafora della luce con cui aveva esplicato l’affermazione dell’essere come presenza nella tradizione filosofica occidentale, Lèvinas vi contrappone l’orrore della notte, la tenebra che è prima di ogni luce, il silenzio che è prima di ogni parola. Nel dire ciò il filosofo lituano sgombra subito il campo da possibili fraintendimenti, distinguendo il concetto di il y a da un approccio negativo alla questione dell’essere di stampo heideggeriano. Egli precisa che il y a non è puro nulla, ma esprime la densità del vuoto in cui è possibile il gioco dell’essere e del nulla, in cui si radica l’esistenza. Esso indica un’atmosfera, un campo in cui non c’è spazio per il possesso, un vuoto che è, allo stesso tempo, anche pieno, inteso come vuoto di un vuoto, una negazione dell’essere che è, allo stesso tempo, affermazione, in quanto negazione della negazione, contraddizione della contraddizione16. In quest’ottica di coesistenza di luci ed ombre, di presenza e assenza va letta l’analisi dell’insonnia intesa come fatica a

15. Ivi, pp. 38-50. 16. Ivi, pp. 51-57. Lèvinas ripropone lo stesso gesto speculativo di Rosenzweig per affermare l’assoluta positività dell’essere (cfr. §4. 1).

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mantenere lo stato di presenza che palesa l’alterità dell’essere. Essa rende manifesta la rottura insita nella soggettività, anche al di là dei rapporti tra la coscienza e l’inconscio di cui si occupa la psicoanalisi; resta il fatto che lo slancio del soggetto come presenza si stanca, può fiaccarsi, interrompersi e far ricorso contro se stesso. Nella stessa attività del pensiero ronza il brusio recondito dell’il y a che Lèvinas paragona alla strizzata d’occhio, ovvero, per riprendere la metafora della luce, al fatto che l’occhio umano non può restare fisso in un flusso di visione ininterrotta, ma ogni tanto ha bisogno di chiudersi per poter focalizzare meglio gli oggetti del campo visivo. Per questo, Vitiello può affermare che il pensiero di Lèvinas è costitutivamente insonne, è genealogia di una coscienza che veglia ed è in lotta col sonno e con l’assenza del sonno. È un pensiero esodale che narra il tempo in cui la coscienza, appena sorta, avverte ancora il brusio dell’il y a, dell’indistinto, della notte che è prima di qualsiasi luce e così facendo ricorda al pensiero il mistero e il paradosso della sua origine17. Tutte le analisi della fatica, della pigrizia e dell’insonnia seguite finora hanno l’unico scopo di far emergere la dimensione altra insita nella soggettività, di andare oltre la chiusura dell’Io in se stesso. Lèvinas si rende conto che tale compito non può non passare per un ripensamento del rapporto con il tempo perché, nonostante cerchi di smarcarsi dall’ingombrante presenza di Heidegger, ha ereditato dal filosofo tedesco il presupposto di non poter mai separare l’analisi esistenziale dalla dimensione temporale. Egli infatti ammette che una messa in questione del soggetto così come lo ha delineato la tradizione filosofica passa per una riflessione sul suo rapporto con il tempo, per verificare se ciò permetta all’Io di uscire dalla sua

17. V. Vitiello, Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’Io alla logica della seconda persona, cit., pp. 120-121.

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solitudine, di aprirsi all’altro da sé. Un percorso radicalmente anti-hegeliano, perché volto ad un pluralismo che non si risolve in unità. Tale presupposto su cui il soggetto fonda la propria stabilità e la pretesa di dominare sul reale è un’illusione, perché la sua libertà lo conduce a chiudersi in se stesso, ad autocondannarsi alla solitudine, per cui Lèvinas si pone l’obiettivo di risalire alla radice ontologica di tale solitudine per capire come possa essere superata18. La pretesa umana di dominare il reale si traduce, dal punto di vista temporale, nell’affermarsi nel corso della modernità di una visione del tempo come durata. Essa è il fulcro del tempo scientifico con cui, in nome dell’omogeneità e della calcolabilità, si è spogliato il tempo del dinamismo tipico del divenire. Ciò è avvenuto a scapito dell’istante, il quale ha perso la propria specificità riducendosi al massimo ad una mera astrazione interna all’interpretazione dialettica del tempo. Lèvinas intende procedere in senso diametralmente opposto, dicendo: «il punto di partenza per comprende la funzione dell’istante risiede proprio nella sua relazione del tutto particolare con l’esistenza, la quale ci legittima a credere che l’istante sia per eccellenza la realizzazione dell’esistenza»19. Se si interpreta l’istante come cominciamento, come nascita, gli si dà il giusto senso di relazione sui generis con l’essere, di iniziazione all’essere. Esso immette nel paradosso dell’origine, è contraccolpo. Nell’istante, a prescindere dal fatto che si chiami in causa un creatore, vi è tutto il mistero del tempo della creatura che sfugge ad ogni visione causale, pur rendendola possibile. L’istante mostra la

18. E. Lèvinas, Il tempo e l’Altro, tr. it. di F. P. Ciglia, Il melangolo, Genova 1993, pp. 17-18. Abbiamo già evidenziato la problematicità della questione confrontandoci con Hegel, il quale rappresenta, a nostro avviso, l’acme della chiusura dell’essere e del tentavo di dominio sul tempo che si risolve in profonda solitudine (cfr. §3.3). 19. E. Lèvinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., p. 69.

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compresenza di presenza e assenza che caratterizza l’esistenza rispetto alla quale non c’è spazio per alcuna consolazione derivante dall’illusione di perdurare. L’essenziale dell’istante è il suo stare, il suo carattere di evento. Esso ci dice che il nostro stesso essere non dipende da noi, ma da Altro, per cui la nostra stessa libertà non può configurarsi come possesso, perché in fin dei conti non ci appartiene, ci è data, è evento essa stessa per cui, accennando un tema che sarà poi essenziale nelle sue opere della maturità, Lèvinas sottolinea che il paradosso del rapporto con il tempo apre al paradosso della libertà, che non può realizzarsi nell’affermazione di sé, ma nella responsabilità per l’altro20. Il tempo nella prospettiva dell’istante è la riscoperta dell’impegno dell’esistenza, dell’apertura che fa risorgere l’Io dalla propria solitudine, che trasforma il “tutto è perduto” in “tutto è possibile”. È l’insorgenza del non definitivo che fa vivere l’istante come momento di speranza e fecondità. La dialettica dell’istante non sfocia mai nell’autoreferenzialità, è condizione della relazione con altri in cui il soggetto sa di non essere solo. Il soggetto che vive nel tempo come istante ha imboccato la strada verso un’intersoggettività asimmetrica; pur conservando l’identità, non può più far fatalmente ritorno a se stesso, perché sa di aver bisogno dell’altro, di dipendere dall’altro, di non poter essere più indifferente21. Lèvinas chiosa dicendo: «questa situazione in cui l’evento accade ad un soggetto che non lo assume, che non può potere nulla nei suoi confronti ma in cui tuttavia esso gli è in un certo modo di fronte, è la relazione con altri»22 e aggiunge poco più avanti: «lo sconfinamento del presente nell’avvenire non fa parte del modo d’essere di un soggetto solo, ma è la relazione intersoggettiva. La condizione del tempo sta nel rapporto tra esseri 20. Ivi, pp. 70-72. 21. Ivi, pp. 84-88. 22. E. Lèvinas, Il tempo e l’Altro, cit., p. 48.

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umani o nella storia»23. È evidente che il filosofo lituano non alluda ad alcun movimento teleologicamente orientato, ma piuttosto ad una rottura nello svolgersi della storia, all’irruzione nel cuore stesso del divenire della dimensione dell’assolutamente Altro. Nel tempo istante la storia può ricominciare ad ogni nuova nascita, può prendere una nuova direzione, nulla di ciò che è stato è irrevocabile e irrimediabile. La continuità e l’omogeneità del tempo hegeliano scompaiono a vantaggio di un tempo costantemente aperto all’irruzione del nuovo. Si impone un movimento paradossale, attraverso cui la soggettività si sradica dalla propria immanenza, senza cessare mai di rapportarsi ad essa in una costitutiva insicurezza, attraverso cui è tuttavia possibile intravedere ogni rapporto con l’avvenire. È possibile aprirsi all’imprevedibilità del nuovo, all’esteriorità assoluta, e ripensare l’interiorità come qualcosa che è già da sempre disponibile ad accogliere l’alterità, al di là di ogni pretesa autarchica dell’Io24.

5.2 All’altrimenti che essere Molti dei temi enucleati finora trovano il loro sviluppo sistematico solo in Totalità e infinito e Altrimenti che essere, considerati, a giusta ragione, gli scritti più rilevanti del filosofo lituano. Già dalla prefazione di Totalità e infinito è possibile constatare come il tono argomentativo appaia più risoluto e vi sia una consapevolezza della grande portata del lavoro critico da intraprendere. Lèvinas sembra voler indossare lo stesso guanto di sfida lanciato alla nobile comunità dei filosofi dalla Ionia a Jena da Rosenzweig, ricalcandone le intenzioni di fondo. 23. Ivi, p. 49. 24. S. Mosès, Al di là della guerra. Tre saggi su Lèvinas, cit., pp. 13-14, 46-47.

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Nel sottolineare l’importanza del recupero della dimensione escatologica del pensiero, Lèvinas si chiede se quest’ultima non possa rappresentare una via altra per poter scoprire una relazione con l’essere al di là della totalità e della storia. Una relazione con un sovrappiù esterno alla totalità, poiché quest’ultima non è più in grado di soddisfare la vera misura dell’essere, avendo bisogno di un altro concetto, per ora solo accennato, ovvero dell’infinito, per esprimere una trascendenza non inglobata e non inglobabile. Solo l’escatologia come pensiero dell’al di là, di ciò che eccede il pensiero stesso può cogliere il rapporto con l’infinito come relazione con l’assolutamente Altro. Un pensiero dunque che, pur nella consapevolezza dei propri limiti, non rinunci ad un rapporto con l’infinito, lo lasci essere, lo accetti nella sua eccedenza, nella sua alterità senza tentare di fargli violenza, di abbracciarlo con inutili pretese onnicomprensive e totalizzanti. È qui visibile il debito nei confronti di Rosenzweig, ammesso dallo stesso Lèvinas, il quale riconosce nella critica alla totalità hegeliana l’aspetto più interessante della Stella della redenzione, ma intende, sin dalle battute iniziali, radicalizzarne il gesto filosofico, sostenendo che l’aspirazione ad un’esteriorità metafisica non può arrestarsi al solo mutamento dell’atteggiamento teoretico nei confronti dell’idea di verità. Occorre affrontare la questione primariamente dal punto di vista etico, delineato già nella parte introduttiva, come la via regale per una relazione autentica con l’assolutamente Altro25. Dunque, come nota Derrida, il pensiero di Lèvinas si configura, sin dall’esordio, come un itinerario consapevole della crisi della filosofia a lui contemporanea che non rinuncia, tuttavia, ad attraversarne il

25. E. Lèvinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1980, pp. 21-27. Sul rapporto di continuità e radicalizzazione tra il gesto speculativo di Lèvinas e quello di Rosenzweig si veda S. Mosès, Al di là della guerra. Tre saggi su Lèvinas, cit., pp. 21-23.

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deserto problematizzando la stabilità fondativa della tradizione ontologica e avviandosi verso un pensiero dell’espropriazione inaudita che, mettendo in questione l’idea del logos come identità chiusa in sé e come totalità inglobante, non rinuncia alla metafisica, ma pone al centro la relazione etica come apertura privilegiata alla trascendenza26. Non a caso Lèvinas fa del desiderio metafisico, del tendere verso un Altrove, verso l’assolutamente Altro il punto di fuga dalla totalità. Il desiderio metafisico si distingue dagli altri desideri umani perché non è di natura intenzionale, sfugge ad ogni logica di appagamento e completamento, è per sua stessa natura eccedente, non ha nessuna pretesa di inglobare conoscitivamente il desiderato, sa che la sua naturale tensione è sospesa all’esteriorità dell’Altro. Il suo movimento è irriducibile al gioco della presenza di sé a sé. La radicalità della sua alterità fa in modo che la sua costitutiva trascendenza non possa essere riassorbita dall’unità di un sistema. La relazione con l’Altro vive di una distanza che non può essere colmata, per cui ogni tentativo, di stampo hegeliano, di ricondurre l’alterità al primato del Medesimo è destinato a fallire. L’Altro cui il desiderio metafisico si volge non è pensato, come in Hegel, sempre in funzione del terzo momento, della sintesi che attesta la supremazia del Medesimo. Lèvinas lo rimarca dicendo: «l’Altro metafisico è altro secondo un’alterità che non è formale, secondo un’alterità che non è semplice rovescio dell’identità, né secondo un’alterità fatta di resistenza al Medesimo, ma secondo un’alterità anteriore ad ogni iniziativa, ad ogni imperialismo del Medesimo»27. Poco più avanti il filosofo lituano chiarisce quale sia il suo bersaglio critico: ribaltare il presupposto in base al quale nella tradizione ontologica occidentale l’Altro è sempre ridotto al 26. J. Derrida, La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1971, pp. 103-104. 27. E. Lèvinas, Totalità e infinito, cit., pp. 36-37.

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Medesimo, per fare emergere come la presenza dell’altro sia spontanea e originaria, configurando la relazione con l’essere come trascendenza e accoglienza dell’altro, antecedente ogni dogmatismo. Bisogna scalzare l’idea che conoscere equivalga ad impossessarsi dell’essere fino a ridurlo a niente, neutralizzando in tal modo la sua costitutiva alterità. La mediazione dialettica della tradizione filosofica appare, in base a tale prospettiva, soltanto un tentativo di ridurre la distanza tra sé e l’altro per garantire l’autosufficienza del Medesimo; la sua identificazione, il suo egoismo trasforma la filosofia, a partire dall’affermazione della ragione socratica, in egologia. L’ontologia rivela la sua natura di filosofia della potenza, che riduce la conoscenza a semplice volontà di possesso sugli enti e la libertà a pura indifferenza, se non a completa soppressione di ogni relazione con l’altro per l’affermazione della propria autarchia. Lo sforzo di Lèvinas procede in direzione opposta: per affermare il valore irriducibile dell’altro, contro ogni potenza e prepotenza ontologica, pone al centro della propria riflessione il rapporto etico che lascia essere l’altro nella sua esteriorità assoluta, considerando indispensabile tale relazione per un cammino autentico verso la verità28. Il desiderio metafisico è essenziale per tale mutamento di prospettiva, poiché svela la nostra relazione altra con l’infinito. Esso è, per Lèvinas, alla stregua di Cartesio, qualcosa che è in noi, ma non viene da noi; è la trascendenza stessa che supera ogni idea adeguata. La totalità non può inglobare l’infinito, perché quest’ultimo non si lascia integrare. Non indica una mancanza dell’Io, una sua incapacità, ma la natura altra dell’infinito che impedisce ogni totalizzazione. Quest’ultimo instaura un paradossale rapporto di separazione nell’unione e di unione nella separazione con il finito, con ciò che non lo po-

28. Ivi, pp. 41-45.

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trà mai totalmente comprendere, né assorbire. Ciò dimostra che l’idea di totalità come abbraccio onnicomprensivo non detiene il segreto ultimo dell’essere e che, invece, la struttura da indagare è il paradossale rapporto tra l’Altro e il Medesimo, nonostante l’impossibilità di una totalizzazione, sottesa all’idea di infinito29. L’evidente, anche se implicito, riferimento a Cartesio nella definizione del concetto lèvinassiano di infinito ad un primo impatto potrebbe apparire problematico, se non addirittura contraddittorio, poiché il tentativo di uscita dalla metafisica della presenza e dall’autoreferenzialità del soggettivismo sembra avvenire ricorrendo a quel pensatore che con la sua idea di cogito ha posto le basi di quella chiusura dell’Io che si intende contestare. L’accostamento tra i due filosofi va affrontato con le dovute cautele interpretative, sottolineando che Lèvinas, in quanto critico dell’ontologismo, non può condividere la forma logica delle argomentazioni cartesiane, ma ne ripropone soltanto il gesto speculativo: l’uscita del pensiero fuori di sé perché attraversato dall’idea di infinito. Il procedere causalistico e finalistico del discorso cartesiano è subordinato alla ricerca di un sapere assoluto e mostra tutto il suo appartenere all’orizzonte dell’ontologia tradizionale. Lèvinas, invece, conferisce all’intuizione cartesiana un senso differente: pensa all’infinito come irruzione della trascendenza debordante in seno alla soggettività che mette fuorigioco l’idea di assimilazione, tipica del modo in cui l’ontologia classica concepisce il rapporto soggetto-oggetto. Egli contrappone allo sguardo panoramico e totalizzante, tipico di un sapere conquistatore, l’umiltà del rapporto con l’altro. La distanza tra i due è ancora più evidente se si tiene presente, come emergerà nei prossimi paragrafi dedicati agli scritti religiosi, il paradosso ebraico che caratterizza il rapporto con il divino, fatto di presenza e assen-

29. Ivi, pp. 77-78.

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za, di prossimità e fedeltà pur nella sua irrappresentabilità30 (cfr. Es. 33,12-38). L’infinito per Lèvinas presuppone la separazione del Medesimo dall’Altro, ma tale rapporto non va inteso come antitetico, altrimenti si rischierebbe di ricadere in una visione dialettica di stampo hegeliano, in cui tesi e antitesi finiscono con il richiamarsi nell’unità sintetica di uno sguardo sinottico totalizzante che le abbraccia entrambe. Occorre che la separazione dell’Io nei confronti dell’Altro derivi da un movimento positivo che instauri una correlazione con la trascendenza. Tale separazione non va concepita come decadenza, privazione, o rottura provvisoria della totalità in attesa della sua ricostruzione. Il bisogno metafisico non attesta un vuoto, una mancanza, un’insufficienza, perché svincola l’essere da ogni logica di possesso. Esso richiama soltanto: «il paradosso di un Infinito che ammette un essere al di fuori di sé e che non lo ingloba e che attua grazie a questa vicinanza di un essere separato proprio la sua infinitudine, in una sola parola, il paradosso della creazione»31. L’infinito si produce dunque rinunciando all’invasione di una totalità, ma per contrazione, lasciando spazio all’essere separato. Si delineano così relazioni che si aprono una via al di fuori dell’essere, arrivando a concepire: «un infinito che non si chiude circolarmente su se stesso, ma che si ritira dalla dimensione ontologica per lasciare spazio ad un essere separato ed esistere divinamente»32. In tal modo svanisce la visione dell’essere bisognoso e avido di completamen-

30. S. Mosès, Al di là della guerra. Tre saggi su Lèvinas, cit., pp. 73-77. Cfr. R. Descartes, Meditazioni metafisiche, tr. it. di L. Urbani Ulivi, Bompiani, Milano 2001, spec. pp. 181-217. 31. E. Lèvinas, Totalità e infinito, cit., p. 104. Corsivo mio. 32. Ivi, p. 105. Corsivo mio. In tal modo Lèvinas riprende, in termini filosofici, l’idea rosenzweigiana dell’alterità della Creazione (cfr. §4.3), integrandola con la dottrina ebraica della “contrazione” dell’Infinito. Cfr. G. Scho-

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to e si inaugura la via verso un’esistenza sabatica, ovvero non chiusa nella ferrea necessità e aperta ad infinite possibilità. Un’esistenza creaturale in cui persino la libertà è inscritta in tale possibilità e sa che la propria indipendenza dipende, paradossalmente, da Altro, attraverso una relazione estranea ad ogni sistema. La radicalità della separazione, del libero gioco tra il Medesimo e l’Altro, muta anche il senso della verità, la fa ritornare ad essere qualcosa di meraviglioso e, allo stesso tempo, inquietante, perché è per sua stessa natura ricerca incerta, anelito e non conferma della sicurezza del soggetto che non ritrova se stesso nell’oggetto. Cercare la verità vuol dire, dunque, essere in rapporto con l’Altro, senza che ciò escluda mai la separazione, o tenti di eliminarla in virtù di un bisogno di stabilità e completezza, per cui Lèvinas dice: «la verità è cercata nell’altro ma da parte di chi non manca di niente. La distanza è, ad un tempo, incolmabile e colmata»33. Il filosofo lituano non intende negare la propensione umana alla ricerca della verità, da cui dipende l’esistenza stessa della filosofia, ma far presente che la conoscenza e il pensiero in generale devono essere consapevoli dei propri limiti, dello scacco subito inevitabilmente rapportandosi all’infinito. Ciò non riduce la portata veritativa della conoscenza, ma tenta soltanto di annullare l’idea prepotente e violenta del pensiero così come si è andato sviluppando nella tradizione filosofica occidentale. L’obiettivo è spezzare il legame tra l’immediatezza del conoscere e la libertà arbitraria del soggetto, incapace di rapportarsi teoreticamente all’altro senza fagocitarlo e, cosa ancor più problematica, di rispettare e accogliere l’altro da sé. Soltanto un pensiero aperto all’Altro e non piegato sul trionfo del Medesimo può introdurre un nuovo ordine nelle relazioni umane lem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, tr. it. di M. Bertaggia, Marietti, Genova 1986, pp. 43-73. 33. E. Lèvinas, Totalità e infinito, cit., p. 60.

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e mettere in questione l’idea di libertà come potere da esercitare arbitrariamente per l’affermazione e la giustificazione di sé. Il sapere che mette in discussione la propria condizione e la propria auto-posizione conduce ad un pensiero creaturale che riconosce nella propria libertà un principio di incertezza, un segno della propria apertura all’altro, perché dipendenti dall’Altro. La filosofia, secondo Lèvinas, assolve al suo compito critico soltanto cercando un fondamento altro alla sua stessa libertà di ricerca, ponendo al centro delle proprie riflessioni la relazione con l’Altro, da accettare e preservare come assolutamente Altro, come ciò che eccede ogni tematizzazione e ribalta l’idea di verità come possesso34. Il rovesciamento auspicato da Lèvinas è possibile perché la filosofia e il pensiero in generale sono mossi non dalla certezza di trovare risposte, ma dall’inquietudine del domandare. L’interrogarsi attesta infatti la torsione e la tensione del rapporto tra il Medesimo e l’Altro all’interno della soggettività, il fatto che il Medesimo ha a che fare con l’Altro prima ancora che esso appaia come contenuto di coscienza. La dipendenza da Altro, che abbiamo visto essere l’attestazione della dimensione creaturale dell’esistenza, implica la fedeltà del Medesimo all’Altro antecedente ogni esibizione, apertura all’altro o ascolto, senza la quale non si capirebbe l’esigenza del dialogo inaugurata dall’interrogazione. La verità che in tale prospettiva si ricerca è eventuale, cioè legata all’evento, all’inquietudine che l’interrogare stesso solleva e attesta. La verità non si mostra o semplicemente si dà, ma avviene, si rivela in quanto eccezione, cioè nel suo eccedere ogni tentativo di appropriazione da parte del soggetto. Il Medesimo non ritrova idealisticamente se stesso, né tantomeno si mostra nella sua totalità. Esso vive nello sfasamento dell’istante, nel sorprendente scarto dell’identico a se stesso. La temporalità è dunque quella 34. Ivi, pp. 82-86.

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dimensione dell’essere in cui nulla è acquisito definitivamente e al contempo nulla è perduto, in cui tutto è possibile. L’essere si libera così dal peso della sua stessa identità. La dimensione del tempo ci dice della tensione interna all’essere, della sua alterità in base alla quale ogni tentativo di possesso spossa, perché implica una distensione e una contrazione, continuità e rottura. In quest’ottica la verità più che essere certezza è solo promessa, sempre futura, il cui disvelamento è legato all’ulteriorità del tempo, al suo “non ancora”, che chiama in causa il limite della filosofia e del pensiero tout court. Tale messa in questione dell’essere dovrà, come si capirà meglio più avanti accostandoci alla parte conclusiva di Altrimenti che essere, fare necessariamente i conti con la notte da cui l’essere sorge e abituarsi all’inestinguibile insonnia della coscienza35. Elementi che la metafisica della luce, affermatasi in occidente a partire da Platone, ha cercato in ogni modo di obliare, ma che ritornano inevitabilmente ogni qualvolta si problematizza l’essere a partire dal suo rapporto con la temporalità e il suo scarto rispetto ad una logica fondata sul primato dell’identico. Questioni essenziali nello sviluppo del pensiero di Lèvinas che, almeno in questa parte introduttiva delle sue opere maggiori, conservano ancora il carattere dell’interrogazione incerta, poiché al filosofo lituano interessa maggiormente far emergere il contesto problematico generale in cui sorge il suo itinerario filosofico. Una volta delineate le coordinate generali entro cui Lèvinas si muoverà per aprire il passaggio, che per certi versi è un vero e proprio rovesciamento prospettico, dalla metafisica della presenza al paradigma dell’alterità, è utile seguire il filosofo lituano nella sua analisi fenomenologica e genealogica, la quale conferisce una concretezza esistenziale ai principi fi35. E. Lèvinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, tr. it. di S. Petrosino e M. T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983, pp. 30-38.

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nora enunciati. Il punto di partenza, in ossequio al metodo fenomenologico, è il rapporto con le cose. In tali relazioni si intende cogliere la pienezza sostanziale dell’essere attraverso la materialità e la possibilità di trarne un godimento. Per Lèvinas, che su questo punto vuole palesemente distanziarsi da Heidegger, il primo accesso dell’umano al mondo è un godere senza utilità, una pura perdita sempre in passivo. La vita appare nient’altro che un gioco votato al puro egoismo, senza alcun riferimento ad altri. Nella ricerca costante del godimento è in opera la sensibilità priva di ogni riferimento alla rappresentazione. Tuttavia è la fugacità stessa del volere, il suo aver bisogno costantemente di nuovi piaceri in cui immergersi, a fare emergere la sua natura inquieta e il bisogno umano di porvi un freno, cercando una forma di stabilità nel raccoglimento della dimora. Nel passaggio dall’inquietudine del godere alla sicurezza del dimorare il lavoro ha un ruolo fondamentale, in quanto trasforma le cose da puri strumenti di piacere in oggetti. Solo il lavoro, con la fatica che esso implica, trasforma la tendenza umana al godimento in brama di possesso. Il godimento dunque non garantisce la completezza e la compiutezza che sembra promettere, cui è legata anche una visione ingenua della felicità come susseguirsi di piaceri. Esso manifesta soltanto l’indigenza tipica del vivere edonistico, in cui è la stessa natura momentanea e fugace del piacere a far sorgere l’esigenza del perdurare, in base al quale al piacere vissuto nell’oggi subentra la preoccupazione per il domani e si crede di poterla ridurre con la stabilità del lavoro e della dimora36. Soltanto a partire dalla dimora le cose diventano utilizzabili, poiché: «concretamente la dimora non si situa nel mondo oggettivo, ma il mondo oggettivo si situa rispetto alla mia dimora»37. Il soggetto che contempla il mondo presuppo36. E. Lèvinas, Totalità e infinito, cit., pp. 134-147. 37. Ivi, p. 156.

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ne una dimora, un luogo dove gli elementi si possono ritirare e raccogliere, secondo l’idea di intimità collegata al senso della casa. Tuttavia, avverte Lèvinas, il raccoglimento non implica alcun ritorno alla dimensione egoistica, l’intimità presuppone la familiarità con qualcuno, la presenza-assenza di un’alterità, esemplificata dal femminile, come possibilità d’accoglienza, di ospitalità d’altri in casa propria. Se si concepisce il dimorare come possesso, come manifestazione di un diritto di proprietà fine a se stesso, se ne snatura il senso, ma allo stesso tempo si palesa il fatto che tale chiusura egoistica della dimora, tale possessività è possibile solo perché essa è originariamente accoglienza, apertura garantita dall’alterità femminile. Il tradimento del senso “altro” del dimorare è però indicativo del fatto che ogni attività umana radicata nel lavoro miri al possesso e alla conquista. È in questo cambio di prospettiva che entra in gioco l’ontologia tradizionale: il possesso e il controllo sugli enti, che dal punto di vista pratico è esemplificato dal lavoro manuale, diventa, dal punto di vista intellettuale, attività concettuale intesa come com-prendere gli enti, afferrarli e ricondurli a sé nella loro intelligibilità, secondo i presupposti già ampiamente criticati. Gli enti così considerati perdono la loro caratura d’essere trasformandosi in averi, in beni, in oggetti di scambio attraverso il denaro, generando una logica di possesso-accumulo dietro la quale si cela soltanto indifferenza per l’altro e violenza. Tale logica del possesso, come l’idealismo dimostra ampiamente, tenta di estendere il proprio dominio persino all’ulteriorità del tempo. Il lavoro concettuale, così come quello manuale, cerca di prevenire e controllare il carattere minaccioso e inquietante del tempo, la sua costitutiva alterità, definita precedentemente eventualità. Sull’illusione di poter ingabbiare il tempo, di poterlo ridurre a leggi fisse che prevedano l’avvenire si fonda anche l’idea di una libertà come affermazione illimitata, come ciò che può disporre pienamente del tempo, imponendo la propria volontà. Tuttavia, come emergerà dal confronto con le conclusioni etiche del discorso

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di Lèvinas che investiranno anche il tema della temporalità, il lavoro come possessività è lo sviluppo negativo, quasi il pervertimento dell’originale apertura all’altro, della trascendenza che caratterizza l’esistenza umana, per ora messa in luce dal filosofo lituano soltanto accennando alla paradossale ambiguità del dimorare38. Essa è mantenuta e non annullata se si concepisce il rapporto con l’essere come esposizione, come singolare inadeguatezza che è anche, allo stesso tempo, uguaglianza. Il sapere così configurato è tortuoso poiché si costituisce a partire dal limbo della sensibilità. Lèvinas vuole illustrare il movimento originario del rapporto con l’essere che è antecedente ogni intenzione o intuizione intellettuale, vuole staccare la sensibilità dal primato della tematizzazione. Tale approccio implica ancora la centralità del soggetto come attività, mentre il filosofo lituano intende mostrare che la sensibilità, antecedente ogni intenzionalità, implica una passività del soggetto, la pura sincerità, ovvero la completa apertura all’altro. Egli sostiene che la prossimità, cioè la significazione del sensibile, non appartiene originariamente al movimento della conoscenza, all’orizzonte eidetico. La chiarezza dell’idea che subentra attraverso l’intenzione all’esperienza sensibile è successiva. Il processo conoscitivo, di cui Lèvinas non contesta la validità, è possibile perché c’è un’apertura originaria, una vulnerabilità che l’ontologia tradizionale non coglie, o meglio anestetizza e oblia presa dalla smania di affermare il ruolo attivo di una soggettività che si compiace delle sue conquiste39. Con tale mutamento di prospettiva, infatti, il Medesimo non può far più affidamento sulla perfetta coincidenza con se stesso; è spaesa-

38. Ivi, pp. 159-169. 39. E. Lèvinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., pp. 77-81. Per una trattazione più ampia di questi temi, attraverso un confronto serrato con la fenomenologia husserliana, si veda E. Lèvinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., pp. 253-276.

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to, strappato alla sua quiete, combattuto tra sonno e insonnia, non nel senso che esso abdica alla propria medesimezza, alla sua identità, ma nella consapevolezza che essa deriva da un rapporto originario e inalienabile con l’Altro. Esso si sa Medesimo per l’Altro, Medesimo attraverso l’Altro. Una modalità di relazione in cui c’è un rapporto, ma non di perfetta coincidenza e il cui carattere “sovversivo”, secondo Lèvinas, risiede nel fatto che si palesa una differenza assoluta non riducibile ad alcuna sincronia o reciprocità, come esigerebbe, invece, un pensiero sistematico e totalizzante, preoccupato di ricondurre tutto ad unità. Il filosofo lituano intende aprire la via verso un pensiero “altro” che sappia accettare la propria passività, vulnerabilità e dolenza: «che si esaurisce come emorragia, che denuda fino all’aspetto che assume la propria nudità, che espone la propria esposizione stessa che si esprime, parlando, scoprendo fino alla protezione che la forma stessa dell’identità gli conferisce, passività dell’essere per l’altro che è possibile soltanto nella forma della donazione»40. E più avanti, per ribadire la distanza della sua impostazione dall’ontologia tradizionale, sottolinea: «la significanza della sensibilità, l’un per l’altro è significanza pre-originale donatrice di ogni senso perché donatrice; non perché pre-originale essa sarebbe più originale dell’origine ma perché la diacronia della sensibilità, che non si raccoglie in presente della rappresentazione, si riferisce ad un passato irrecusabile, pre-ontologico della maternità ed è intrigo che non si subordina alle peripezie della rappresentazione e del sapere all’apertura sulle immagini o a uno scambio di informazioni»41. È evidente che Lèvinas vuole abituare il pensiero a confrontarsi con il paradossale rapporto tra l’Io e l’altro rispettando

40. Ivi, p. 90. Corsivo mio. 41. Ivi, p. 98.

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l’ineguaglianza dei termini, la loro originaria trascendenza, perché l’alterità non è pensata, come in Hegel, in funzione del primato dell’identità, ma è quest’ultima a dipendere dall’Altro che la costituisce, secondo le modalità già illustrate. Tuttavia, affinché tale acquisizione non sembri una pura inversione astratta, utile soltanto ad uscire dalle rigide maglie del pensiero dialettico, Lèvinas intende mostrare come l’originarietà dell’apertura all’altro sia un elemento essenziale dell’esistenza umana, palese nella dimensione erotica che conduce poi alla fecondità. L’amore è, infatti, la relazione con l’altro per eccellenza, a patto che non lo si intenda, alla maniera del mito platonico dell’androgino, come ricerca della propria metà perduta di ciò che, nel linguaggio comune, si è soliti definire “l’anima gemella”. Tale visione presuppone ancora quella logica del possesso da cui Lèvinas intende liberare il pensiero, implica una riduzione del rapporto erotico a mero godimento del sé. L’erotico, per il filosofo lituano, può aprire, al contrario, ad un altro modo di concepire il godere stesso, non guidato dal bisogno, ma dal desiderio, da un amore al di là dell’idea dell’amato come oggetto di possesso. Non un godere dell’altro come mero strumento di piacere, ma un godere per l’altro, in una dimensione che proprio nella concupiscenza scopre la propria naturale apertura alla trascendenza, esperita nella dimensione del desiderio come ciò che raggiunge l’Io e contestualmente lo supera e lo fa essere equivoco per eccellenza42. L’amore è una forza che tende all’altro, ma non per sopraffarlo, lo accoglie e vuole essere accolto nella debolezza. Ciò trova la sua esemplificazione immediata nel gesto della carezza, in cui non c’è alcuna volontà di impadronirsi dell’altro, ma solo di sollecitare ciò che costitutivamente si sottrae. La carezza non cerca di dominare una libertà ostile, di fare dell’altro un oggetto cui strappare un consenso. Essa rispetta la sfuggevolez42. E. Lèvinas, Totalità e infinito, cit., pp. 261-262.

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za dell’altro, la sua resistenza, il “non ancora” insito nella sua stessa apertura senza annullarlo o anticiparlo. È un fare i conti con la nudità offerta alla sensibilità ed esperita nella tenerezza carnale, in cui il corpo non ha ancora lo statuto dell’ente. La volontà così intesa non profana, ma preserva il mistero dell’alterità. La scoperta, il contatto con l’altro non crea luce, ma resta nella penombra, nel gioco chiaroscurale di presenza e assenza43. Il limite del rapporto erotico consiste, tuttavia, nel fatto che il legame tra gli amanti è refrattario all’universalizzazione, si situa agli antipodi del rapporto sociale. Esso, fintanto che resta legato soltanto alla dimensione carnale, esclude il terzo; è intimità pura, solitudine a due, un legame chiuso, il non pubblico per eccellenza. Per superare tale limite è necessario che il rapporto erotico sfoci nell’esperienza della fecondità, che l’incontro con l’altro di maschile e femminile sia orientato ad un futuro attraverso la generazione. La fecondità, ancor più dell’eros, evidenzia il rapporto tra identico e diverso, tra Medesimo e Altro che caratterizza l’esistenza. Essa apre il Medesimo all’avvenire, al possibile, ma con la consapevolezza che ciò dipende innanzitutto dall’incontro con l’Altro e soprattutto che tale dimensione futura, aperta dalla fecondità, sfugge ad ogni logica di potere. Se è vero, infatti, che il maschile e il femminile generando un’altra esistenza le danno letteralmente un futuro, è altrettanto vero che entrambi i genitori non hanno potere sul futuro del nascituro, in quanto è pur sempre il futuro di un altro che sfugge ad ogni loro tentativo di anticipazione o progetto. Il figlio sarà per certi versi simile ai genitori, il che dimostrerà il senso di continuità implicito nel generare, ma, allo stesso tempo, diverso in quanto altro da chi lo ha generato. È dunque evidente il senso propriamente filosofico di tale riferimento al biologico: Lèvinas vuole da una parte mostrare che l’identità nasce dal contatto non inten43. Ivi, pp. 263-267.

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zionale e non tematizzabile, sotteso alla dimensione erotica, dall’altra vuole ribadire il fatto che, come mostra la fecondità, la dimensione originaria della soggettività è costitutivamente altra, perché nasce dal rapporto altro tra maschile e femminile e porta alla generazione di un altro che, pur nella continuità del legame biologico, resta sempre tale. In tale rapporto c’è un rovesciamento della soggettività, un’uscita dalla posizione dominante dell’Io virile ed eroico, che nell’autoaffermazione dava alla luce. Il possesso di sé si trasforma in legame con l’altro, in essere impegnato per altro, poiché la trascendenza della fecondità non ha la struttura dell’intenzionalità e non implica alcun potere, non è pensata per confermare la sicurezza dell’Io. La struttura della soggettività che si produce a partire dall’eros e dal suo sviluppo nella fecondità porta al di fuori delle categorie della logica classica, poiché attesta un’unità non opposta alla molteplicità, in quanto quest’ultima letteralmente la genera44. Il paradosso di molteplicità e unità, di rottura nella continuità che caratterizza il rapporto con l’altro si manifesta anche nella filialità, cioè nella relazione padrefiglio. Ogni figlio è, infatti, in quanto creatura, unico per il padre, ma, allo stesso tempo, estraneo a lui. Il figlio riprenderà dal padre l’identità, i tratti salienti, ma ciò non gli impedirà di esistere per conto suo, in una indipendenza che non significa mai rescissione del legame originario con il padre, fosse anche soltanto nella dimensione del ricordo. In ciò risiede l’unicità dell’amore paterno, nel suo attestare una dipendenza indipendente e una indipendenza dipendente, nel suo tenere uniti, senza annullarli, entrambi i movimenti contraddittori, caratteristici di un’identità costitutivamente altra. Un legame evidentemente non fondato sul godimento, ma sull’elezione, cioè sull’essere unico per il proprio padre, da cui dipende la possibilità per il figlio di essere educato e comandato e, più 44. Ivi, pp. 275-282.

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in generale, l’esistenza stessa di una famiglia. La generazione dunque, così come la creazione, sembra in contraddizione con la libertà individuale o creaturale, solo se la si confonde con la rigidità causale. La creazione come relazione di trascendenza, di unione nell’alterità implica invece la posizione di un essere che pur essendo altro è, al contempo, unico e libero45. Tale unicità non va intesa come privilegio, come presunzione di superiorità, ma come apertura agli altri. Ogni figlio è infatti anche fratello, la sua elezione paterna comporta la responsabilità per l’altro. Da questo punto di vista l’elezione diventa motivo di subordinazione, di disinteressamento di sé e di preoccupazione per le sorti dell’altro in quanto fratello. Una modalità d’esistere che dovrebbe fungere da paradigma per l’instaurazione di legami fraterni da estendere a tutta l’umanità. L’ideale di fraternità universale cui Lèvinas aspira richiede, dunque, l’uscita dai legami familiari per aprirsi ad una dimensione intersoggettiva più estesa e complessa. Il mezzo fondamentale che permette all’uomo di creare legami con gli altri è il linguaggio. Comunicare significa aprirsi, ma l’apertura non è totale se ha di mira il riconoscimento, il ritorno entro la chiusura del sé. Essa deve riconoscere invece l’altro come ciò che chiama alla responsabilità. La comunicazione è dunque esperienza di trascendenza, è esposizione all’altro, sempre attraversata dal rischio del fraintendimento, che implica, tuttavia, un costante impegno, un adoperarsi per l’altro, un mettersi a sua disposizione. La comunicazione, come ogni esperienza di prossimità, è passività assoluta, al di là dell’alternativa attivitàpassività, in cui l’Io si spoglia del suo imperialismo46. Il proble45. Ivi, pp. 287-289. È interessante notare come in queste pagine Lèvinas, con un gesto molto vicino a Rosenzweig, fondi sul biologico un concetto teologico che, come si vedrà, avrà molta importanza nei suoi saggi sull’ebraismo. 46. Cfr. E. Lèvinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., pp. 149-153.

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ma è interrogarsi sulla possibilità che nella significazione vi sia una chiamata all’impegno anteriore alla congiunzione di segni verbali in sistemi linguistici. Si tratta di un gioco di interessamento dell’altro che ribalta, anche da questo versante, la logica del disinteressamento e della neutralità dell’ontologia tradizionale; non è che un’insubordinazione alla subordinazione del dire al detto, al primato indiscusso della tematizzazione, che si configura come tradimento costante, il quale potrebbe essere, tuttavia, il paradossale inveramento della funzione originaria del linguaggio. Tale rivolgimento è possibile solo se si comprende che la significazione non dipende dall’identità del Medesimo chiuso in sé, ma dall’Altro che gli si appella. Essa non nasce per colmare i bisogni e le mancanze del Medesimo, ma dalla sporgenza assoluta dell’Altro. Il linguaggio rende nota una relazione tra termini che resistono alla totalizzazione. In tal senso la significazione non può essere ridotta a mera apparizione, poiché essa rivela e al contempo nasconde, nella sua stessa apparizione c’è sempre una rinnovata dissimulazione47. Lo svelamento offerto dal linguaggio è privo della certezza solitaria in cui si articola ogni sapere autoreferenziale. Esso non è affermazione del Medesimo e della sua libertà assoluta, ma assunzione della responsabilità del vero. Ciò comporta la necessità di una ridefinizione dei rapporti tra l’etico e il teoretico, poiché sottolinea l’antecedenza della coscienza morale su quella cognitiva, in base alla quale la libertà è messa in discussione dall’originarietà dell’esperienza etica come associazione e accoglienza d’altri. La libertà come dominio sull’altro non ha l’ultima parola e non rischia di relegare la soggettività nella sua solitudine. Nella coscienza morale si fa, infatti, esperienza di una apertura all’altro, di un’accoglienza data e ricevuta ab origine, la quale non necessita di concetti, né di strutture a priori per instaurarsi, anzi costituisce la condizione di possi47. Cfr. E. Lèvinas, Totalità e infinito, cit., pp. 96-97.

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bilità dell’esperienza cognitiva48. Nel dire ciò Lèvinas non intende ridurre il valore concettuale del linguaggio, ma soltanto evitare che sia annullata la sua componente altra in nome del primato del Medesimo. Egli vuole farne risaltare la cifra etica, la capacità di mettere in rapporto con la nudità dell’altro, la quale, una volta conosciuta, prima ancora di essere riconosciuta, implica il donarsi, la generosità assoluta e incondizionata attraverso la quale è messa in questione e superata la logica di possesso della tradizione ontologica occidentale. Il linguaggio è dunque relazione paradossale tra termini separati. La parola porta ad altro senza inglobarlo, rispetta l’alterità e per questo sottintende sempre un rapporto etico, una messa in questione dell’Io da parte dell’altro, che si configura sempre come chiamata in causa morale. Tuttavia, la resistenza dell’altro al Medesimo non è un atto di violenza; è costante sottrazione, è fuga dal possesso e dalla presa totale. È l’esposizione della debolezza d’altri della nudità del volto, degli occhi senza difesa. È un movimento così descritto dal filosofo lituano: «si tratta qui di una relazione non con una resistenza grandissima ma con qualcosa di assolutamente Altro: la resistenza di ciò che non ha resistenza, la resistenza etica»49. Tale resistenza rende eticamente inconcepibile l’omicidio, poiché paralizza il potere dell’uomo sull’altro, pone dinnanzi alla sua nudità e alla sua miseria, per cui sarebbe abominevole fargli violenza. L’epifania del volto apre alla dimensione etica dell’umano, al fatto originario della fraternità, fondata sulla responsabilità suscitata da un volto estraneo, quindi ben al di là dei legami familiari coinvolti in precedenza nell’analisi fenomenologica dell’eros. Lèvinas si spinge a dire: «lo statuto dell’umano

48. Ivi, pp. 99-100. 49. Ivi, p. 204. Corsivo mio.

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implica la fraternità e l’idea del genere umano»50. In tal modo è ormai ben delineata la meta cui il filosofo lituano anelava fin dai primi sviluppi del suo pensiero: la scoperta di una alterità radicata nell’essere che sfugge alla totalizzazione ed apre uno spazio essenzialmente asimmetrico per la riscoperta della fraternità umana. Lèvinas invita dunque a mettere in questione ogni tentativo di affermazione di sé, ogni egoismo. La responsabilità per altro abitua all’esposizione totale, al porgere la guancia nonostante il rischio di essere percossi. Una responsabilità anteriore ad ogni dialogo, al libero scambio di domande e risposte, alla tematizzazione. In tale contesto, precisa il filosofo lituano, non è in atto nessuna decisione benevola di un soggetto contemplante, nessuna volontà altruistica. Il soggetto, secondo tale prospettiva, è ossessionato dall’altro, si fa carico del rapporto con l’altro fino a sentirsi suo ostaggio, in una situazione di pura passività in cui l’Io declina se stesso all’accusativo, senza alcun riferimento all’identità di un nominativo. La responsabilità per altro indica l’anacronismo di un debito contratto prima di ogni eventuale prestito51. L’anteriorità della responsabilità rispetto alla libertà è ciò che Lèvinas definisce bontà: è l’apertura originaria all’alterità, alla trascendenza anteriore ad ogni rappresentazione. È ciò che permette il fatto che la prossimità dell’altro non urti solamente la soggettività in una sorta di traumatismo fine a se stesso, ma la elevi nel momento stesso di prenderla in ostaggio, la collochi nella prospettiva della responsabilità. Il concetto di soggettività come ostaggio sovverte completamente l’idea dell’Io come auto-posizione e compiacimento ereditato dalla tradizione filosofica, depone il conatus essendi, in favore dell’esposizione all’altro, in cui è inclusa la

50. Ivi, p. 219. Corsivo mio. 51. E. Lèvinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., pp. 139-141.

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possibilità della persecuzione, dell’espiazione della violenza. Ciò porta all’estremo la desostanzializzazione del soggetto, il suo disinteressamento, la trasformazione della soggettività da forza assoggettante ad elemento assoggettato52. L’inquietudine del soggetto responsabile fa segno all’alterità originaria da cui dipende ogni sostanzialità. Donazione sincera ad altri perché si è consapevoli della propria dipendenza da Altro. È questo il punto in cui le riflessioni metafisiche di Lèvinas si saldano con la costante tensione etica del suo pensiero: la responsabilità per altri rende gloria all’infinito, testimonia la sua ulteriorità e alterità; è risposta immediata alla chiamata alla responsabilità etica attraverso la semplicità di un “eccomi”53. Tuttavia, Lèvinas precisa: «eccomi come testimonianza dell’infinito ma come testimonianza che non tematizza ciò che testimonia e la cui verità non è verità di rappresentazione, non è evidenza»54. L’infinito non è mai un possesso di colui che gli rende testimonianza, né un oggetto di rivelazione, intesa come apparizione, al contrario, il finito può glorificare l’infinito proprio perché testimonia l’alterità di tale relazione originaria, lo scarto tra i due termini. Un intrigo che il filosofo lituano è tentato di chiamare “religioso” a patto che si tenga presente come i due termini si situino al di là della certezza e dell’incertezza in una costante inquietudine che mette fuori gioco ogni approccio dogmatico, tipico di una teologia positiva. L’eccomi pronunciato in nome dell’infinito, o, in termini teologici, in nome di 52. Ivi, pp. 154-160. 53. Ivi, pp. 176-183. È qui evidente il richiamo all’esperienza religiosa ebraica, palese dal riferimento in nota alla Scrittura (cfr. Is. 6,8; 1 Sam. 17,45), Ciò ci spinge a ritenere che, per quanto Lèvinas tenti di tenere separati il versante filosofico della sua speculazione da quello religioso, i due piani finiscono inevitabilmente per intrecciarsi già negli scritti filosofici, poiché il tentativo stesso di pensare un’etica dell’alterità è radicata nell’appartenenza del filosofo lituano alla tradizione ebraica. 54. Ibidem. Corsivo mio.

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Dio non implica nessuna affermazione della sua presenza, nessuna professione di fede di stampo kerygmatico, ma solo la testimonianza intesa come umile confessione della propria dipendenza da Altro che è prima di ogni teologia, kerygma o preghiera. Tale profetismo etico nel donarsi all’altro, nella responsabilità per altro rende gloria e grazie per il dono dell’Altro, per l’accadere dell’infinito55. La relazione presuppone un legame di paradossale dipendenza e di parziale indipendenza la quale, mettendo in questione la nozione di libertà finita, nonché il rapporto con l’infinito, presuppone un ennesimo confronto con il concetto di tempo, il quale, come si è cercato di far emergere fin dall’iniziale accostamento a Dall’esistenza all’esistente, rappresenta, a nostro avviso, uno dei pilastri portanti della riflessione di Lèvinas, nonché il possibile punto di incontro tra l’impostazione fenomenologico-esistenziale della sua speculazione filosofica e l’inquieta radice ebraica, che emergerà ancor più nitidamente confrontandosi con gli scritti religiosi e le letture talmudiche. Se, infatti, si intende ripensare adeguatamente l’idea di libertà svincolandola dalla presunzione di essere totale indipendenza, causa sui, smentita tra l’altro dalla constatazione fattuale che la nascita non è scelta, ma indica un origine “altra”, letteralmente anarchica, occorre porla in relazione con l’esperienza del tempo, in quanto: «non è la libertà finita a rendere intelligibile la nozione del tempo, è, anzi, il tempo a dare un senso alla nozione di libertà finita»56. La morte come consapevolezza dell’evento della cessazione del proprio tempo, è qualcosa su cui l’Io non può esercitare alcun potere; è una minaccia che si avvicina misteriosamente senza poter essere assunta. Essa rappresenta il concetto limite di ogni pensiero

55. Ivi, pp. 184-189. 56. E. Lèvinas, Totalità e infinito, cit., p. 229.

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volontaristico, ma anche, allo stesso tempo, la sua possibile apertura ad un tempo altro e oltre, ad un “salto” che resta inquietante minaccia, rischio, ma anche possibile esperienza di assoluta alterità. Il tempo descritto da Lèvinas è, dunque, paradossale connubio di immanenza e trascendenza, di minaccia e aggiornamento, qualcosa che incalza e pur lascia tempo, per cui: «essere temporale significa essere nello stesso tempo, per la morte e avere ancora del tempo, essere contro la morte»57. Ciò che entra nuovamente in gioco in tale contesto è la visione del tempo come instante, come paradossale compresenza di rottura e continuità, il cui carattere eccezionale dipende non dal situarsi a cavallo tra l’essere e il nulla, ma nell’esemplificare l’impossibile possibilità che caratterizza l’esistenza umana e la scuote nel profondo, ponendola di fronte alla propria costitutiva e assoluta passività. Essa da una parte costituisce la cifra tragica dell’esistenza, mai dissimulata dal filosofo lituano, dall’altra rappresenta il luogo non luogo dove sorge il desiderio d’Altri che trasforma la volontà da gravitazione egoistica attorno al proprio sé, in totale esposizione all’altro e la libertà da volontà auto-affermativa in pazienza, in accettazione della passività, della condizione d’ostaggio, fino alla possibilità di soffrire per l’altro58. Lèvinas stesso insiste sulla centralità del tema del tempo nell’economia di Totalità e infinito, evidenziando che la scoperta della struttura altra del tempo è ciò che permette l’uscita dalla pretesa inglobante della totalità e anche il concetto di paternità, fondamentale nello sviluppo della fenomenologia dell’eros, è da interpretarsi, alla stregua del concetto di generazione in Rosenzweig, come un rispettare la finitudine del tempo, la mortalità, dando tuttavia un avvenire ad un altro

57. Ivi, p. 241. Corsivo mio. 58. Cfr. Ivi, pp. 242-245.

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da sé, attraverso il quale qualcosa di sé sopravvive alla morte e al destino. Il tempo ci permette di considerare il rapporto con l’essere da una prospettiva differente: ci mostra il paradossale legame tra immanenza e trascendenza, il carattere non definitivo del definitivo, il fatto che l’alterità radicale va sempre concepita come nuovo inizio, secondo quella relazione, su cui più volte ci siamo soffermati, di continuità nella rottura e di rottura nella continuità. Si tratta di un elemento che, per Lèvinas, sfugge alle riflessioni di Heidegger sul tempo, le quali restano sempre legate alla finitudine dell’essere, all’incombere della morte, perché escludono la paradossale positività dell’istante, la possibilità del salto. Heidegger non coglie la fecondità dell’istante, ossimorica congiunzione di continuità e discontinuità del tempo nel tempo. Esso è fatto di morte e resurrezione, ma per comprenderne il senso bisogna ribaltare, secondo le modalità già ampiamente descritte, il rapporto tra l’Io e l’Altro, l’identico e il diverso, per mostrare l’originaria trascendenza dell’altro da cui l’esistenza dipende e che si riflette inevitabilmente nell’esperienza del tempo. È una modalità di esistenza caratterizzata dall’essere nel tempo sapendosi anche oltre il tempo, un tempo infinito che attende di compiersi, un tempo messianico, nel quale la prospettiva finita ha lo sguardo rivolto all’Eterno, una struttura oltre il tempo in cui è sorta una coscienza messianica, la quale però, tronca bruscamente Lèvinas, apre a dei problemi che vanno oltre l’impostazione propriamente filosofica del suo testo59. Il freno che egli impone al suo argomentare può essere letto non solo come un tentativo, in fin dei conti poco riuscito, di tenere 59. Cfr. Ivi, pp. 293-295. L’impostazione concettuale di Lèvinas è chiara: intende smarcarsi da Heidegger, riproponendo obiezioni già messe in luce in saggi precedenti (cfr. E. Lèvinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., pp. 59-86 e 87-102), accostandosi in tal modo alle riflessioni di Rosenzweig sul tempo messianico, nonostante cerchi di tenere ancora distinto l’ambito filosofico da quello religioso.

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separato l’ambito filosofico da quello religioso, ma anche in base all’intenzione di far risaltare maggiormente la tensione etica del suo percorso speculativo, come sembra suggerire la parte conclusiva di Altrimenti che essere. In queste pagine Lèvinas tira le fila del suo discorso, offrendo, allo stesso tempo, al lettore uno sguardo complessivo sul suo pensiero. La sua ricerca di una via d’uscita dall’ontologia tradizionale è animata dal bisogno di scalzare l’idea del pensiero come lotta di opposti che, in un certo qual modo, ammette la possibilità di far violenza all’altro. Occorre riscoprire il valore della debolezza umana, della vulnerabilità, da non intendersi come mancanza di una pienezza ontologica. Bisogna trovare all’uomo una parentela con l’essere e con i suoi simili non necessariamente fondata sull’autoaffermazione, sull’oppressione e sul dispotismo. Il desiderio di infinito, che sin dalle prime battute di Totalità infinito è stato contrapposto alle pretese totalizzanti del pensiero, ha la funzione essenziale di abituare il soggetto all’apertura originaria all’altro da sé, a fuggire la logica dell’autocompiacimento; il che implica, dal punto di vista strettamente etico, la non indifferenza per l’altro, il passaggio dalla neutralità del disinteresse della pura teoresi fine a se stessa ad un approccio in cui l’interessamento è spinto fino alla responsabilità per altri. Il primato dell’etico sul teoretico comporta anche un ripensamento del rapporto con la verità non riducibile a totale svelamento. Il senso filosofico della rivelazione veritativa, radicata nell’esperienza religiosa ebraica, comporta un fare i conti con la sua natura altra, con il carattere di mistero, di paradosso costante, di presenza e assenza che fa di ogni esperienza conoscitiva un’esperienza di prossimità e distanza, in una sola parola, di radicale trascendenza. L’apertura etica e teoretica, semmai fosse possibile separare i due piani, è dunque esperienza di profonda inquietudine di chi vive fino in fondo l’incertezza senza ancorarsi a qualcosa di stabile. Il vivere senza domicilio ha la sua altrettanto parados-

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sale positività e fecondità nella possibilità di esporsi all’altro, di accoglierlo rispondendo alla sua irrecusabile chiamata alla responsabilità, la quale non ammette chiusura e ritorni entro il guscio del sé. Il tentativo messo in atto è di pensare l’umano come trascendenza e iperbole, come capacità di non convivere semplicemente con l’altro, ma di aprirsi totalmente, di sentirsi nella sua pelle, sostituendo, nelle modalità già descritte ampiamente, alla rigidità del soggetto chiuso in se stesso la completa esposizione e vulnerabilità dell’ostaggio. E se tale prospettiva, commenta Lèvinas, rischia l’accusa di utopismo, non sarà presa come un rimprovero, poiché il luogo non-luogo dell’utopia è proprio l’orizzonte entro cui si muove la proposta etica del filosofo lituano, lo spazio sempre aperto all’esperienza della trascendenza, nel quale giunge l’appello d’altri, cui è possibile rispondere con la semplicità di un “eccomi”60.

5.3 Al di là del versetto: l’essenza etica dell’ebraismo Sebbene Lèvinas, come evidenziano le chiuse di Totalità e infinito e Altrimenti che essere, si sforzi di tenere distinto il versante filosofico della sua speculazione da quello propriamente religioso, essi sembrano avere come punto di contatto l’affermazione del primato dell’etico sul teoretico, poiché i numerosi scritti del filosofo lituano sull’ebraismo hanno come obiettivo essenziale non tanto il dedicarsi a questioni dogmatiche, ma il fare emergere l’essenziale riserva etica di fondo del giudaismo. In tal senso gli scritti religiosi e le letture talmudiche si pongono in totale continuità con il gesto filosofico evidenziato finora: proprio perché Lèvinas si interroga sulla possibilità di un’etica universale e di una riscoperta del valore dell’umano cerca di far emergere come i monoteismi, a partire dalla tradi60. Cfr. E. Lèvinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., pp. 219-228.

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zione religiosa a cui appartiene, possano contribuire a tenere viva l’istanza di una fratellanza universale. Derrida coglie perfettamente questo tratto originale dell’itinerario speculativo lèvinassiano sostenendo che: da una parte Lèvinas si rivolge alla fenomenologia di Husserl, per uscire dalla chiusura del logos greco, dal presupposto dell’evidenza che regge la metafisica della luce e della presenza, dall’altra il ripensamento della tradizione ebraica non serve a “completare” tale gesto, ma a cercare una strada non greca per far esperienza dell’altro, per comprendere, senza far ricorso alla mistica, alla dogmatica o all’autorità dei testi tradizionali, l’irriducibilità del rapporto con l’altro e la sua chiamata alla responsabilità61. Ancora una volta, però, come all’inizio del nostro accostamento alle opere filosofiche, va fatto subito notare il debito sempre riconosciuto nei confronti di Rosenzweig, poiché sui temi di carattere strettamente religioso la continuità tra i due pensatori è ancora più evidente. Lèvinas attribuisce a Rosenzweig il merito di aver tentato di emancipare l’ebraismo dal predominio culturale del cristianesimo, senza opporsi pregiudizialmente ad esso, ma con il solo intento di far emergere il carattere universale del messaggio di salvezza dell’ebraismo, oltre il marchio riduttivo del particolarismo. Lo sforzo ammirevole di Rosenzweig, condensato nella terza parte della Stella, consisterebbe, secondo Lèvinas, nel rivendicare un ruolo particolare e fondamentale all’ebraismo nell’economia dell’essere, nel farne emergere la produttività per il pensiero in generale62. Il giudaismo descritto da Rosenzweig non è fossilizzato in un legalismo astratto, ma entra a far parte a pieno titolo del dramma dell’esistenza umana all’interno dell’essere. Egli coglie come l’ebraismo rappresenti una forma particolare di

61. Cfr. J. Derrida, La scrittura e la differenza, cit., pp. 104-105. 62. Cfr. E. Lèvinas, Fuori dal soggetto, cit., pp. 53-54.

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coscienza storica che rifiuta di lasciarsi in balia degli eventi e del loro dispiegarsi logicamente determinato, come avviene nel modello storico hegeliano cui, non a caso, Rosenzweig si oppone. La cifra della coscienza ebraica è individuata nel suo rapporto con l’eternità che la fa essere radicata nella storia come popolo ma anche, allo stesso tempo, al di là di essa, aperta al metastorico63. Per restare fedele all’impostazione rosenzweigiana del suo discorso, Lèvinas si chiede su quale terreno sia possibile accostare filosofia e religione. Entrambe possono contribuire ad ampliare l’orizzonte di senso dell’uomo moderno e contemporaneo, aprendo alla dimensione etica della trascendenza, alla responsabilità per l’altro, come prossimo e fratello. Entrambe, dunque, dovrebbero tendere ad una riscoperta del senso ultimo dell’umano attraverso l’apertura totale all’alterità, attraverso l’esposizione senza difesa al volto dell’altro. In tal senso la religione va riscoperta come esperienza di trascendenza, di rapporto con l’Altro che non può ridursi a mera ricerca delle prove dell’esistenza di Dio, né tantomeno alla sola pietas della preghiera e della liturgia. Ogni autentica esperienza religiosa rinvia infatti a delle circostanze etiche e non può essere ridotta a pretesto né di una chiusura al mondo, in nome di un presunto misticismo, né a strumento di prevaricazione e violenza, come nel caso delle guerre di religione64. Lèvinas invita, alla stregua di Rosenzweig, a pensare il rapporto tra filosofia e religione come di completa autonomia, privo di subordinazione, senza escludere, tuttavia, un possibile terreno d’incontro che superi l’alternativa tra il Dio biblico e il Dio dei filosofi. Se infatti si stacca la filosofia dal suo ridursi al solo orizzonte 63. Ivi, pp. 66-68. 64. Ivi, pp. 95-99. Le preoccupazioni di Lèvinas sono ancora di scottante attualità, poiché la distorsione della verità religiosa in pretesto di violenza è uno dei drammi del nostro tempo.

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dell’immanenza e la si abitua a pensare la trascendenza, essa potrà accogliere le istanze analoghe della religione, senza entrarvi necessariamente in conflitto. Se si entra nell’ottica che il pensiero non debba ridurre tutto a sé, alla sua circolarità autoreferenziale, allora c’è ancora spazio per la ricerca di un Altrove cui, attraverso presupposti differenti, tendono anche le religioni. Ciò vuol dire altresì abituarsi a non concepire la rivelazione religiosa, al pari dello svelamento filosofico, come un totale annullamento del mistero della verità, della sua costitutiva alterità, che eccede ogni tentativo, anche teologico e non solo filosofico, di imbrigliarlo entro le rigide maglie della dialettica65. Con un gesto di raccordo tra le acquisizioni fondamentali del proprio percorso filosofico e i problemi aperti dal confronto con la religione, Lèvinas osserva che se si attribuisce a Dio il carattere di infinito non lo si può inglobare in una prospettiva totalizzante e possessiva: si deve rispettare sia il limite creaturale dell’essere finito, sia la costitutiva eccedenza dell’infinito stesso che non esclude la possibilità positiva della relazione, secondo le modalità non del bisogno, ma del desiderio metafisico, già ampiamente descritte. Ciò che ci interessa far emergere ora è come tale paradigma “altro” della filosofia possa venire incontro alla teologia. Essa deve aiutarla ad uscire dalla logica dell’essere come identità, per evitare che si chiuda, al pari dell’ontologia tradizionale, in un sapere solitario, incapace di uscire da se stesso. Anche la teologia deve aprirsi alla paradossale relazione con l’Altro che sfugge ad ogni tentativo di tematizzazione e assimilazione. Deve fare i conti con il fatto che l’esperienza religiosa, così come l’interrogazione filosofica, è innanzitutto domanda prima ancora di essere risposta; è esperienza costante di inquietudine che va al di là del pur legittimo desiderio di certezze, perché vive 65. E. Lèvinas, Di Dio che viene all’idea, tr. it. di G. Zennaro, Jaca Book, Milano 1986, pp. 78-85.

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nel paradosso costante di presenza e assenza, di prossimità e distanza che caratterizza la trascendenza. Se anche la teologia arriva a concepire Dio come l’Altro per eccellenza, l’uomo autenticamente religioso non può non avvertire, in nome della sua originaria dipendenza da Altro, il dovere morale di aprirsi al prossimo e di essere responsabile per lui. La responsabilità per altri è infatti, come si è già accennato riferendoci alle conclusioni delle opere filosofiche, testimonianza dell’Altro, senza neanche la necessità di una professione di fede; è la semplicità di un “eccomi”, un rispondere alla chiamata dell’altro prima ancora che si instauri ogni discorso o dialogo religioso66. Il valore autentico di un’esperienza religiosa non risiede nelle posizioni metafisiche che ne costituiscono la pur necessaria componente dogmatica, ma nell’essenziale riserva etica di fondo. Non si deve erroneamente ritenere che le religioni costituiscano soltanto una riserva di senso per l’uomo, utile a rendergli sopportabili le difficoltà e le sofferenze dell’esistenza e a prospettargli un destino oltre la morte, ma esse insistono soprattutto sul richiamo all’attenzione alla presenza dell’altro uomo, al suo valore inalienabile che richiede responsabilità, equità sociale. Senza tale componente etica la religione potrebbe ridursi a pura commedia e i dogmi e precetti sarebbero pure astrazioni67. Su tali premesse generali Lèvinas fonda la possibilità di un proficuo accostamento tra ebraismo e riflessione filosofica. Sebbene abbiano ciascuno il proprio ambito e rivendichino legittimamente la propria autonomia, bisogna comprenderne le esigenze comuni. Entrambi si interrogano sull’umano e hanno come obiettivo ultimo quello di verificare se e a quali

66. Ivi, pp. 93-98. 67. E. Lèvinas, L’aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, tr. it. di G. Lissa, Guida, Napoli, 1986, pp. 71-77.

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condizioni è possibile realizzare un’armonia, se non addirittura una fratellanza, tra gli uomini. Tale nobile scopo si può raggiungere solo se si fa emergere il carattere di apertura della trascendenza nell’esperienza religiosa, il suo dover fare i conti con l’eccedenza dell’Altro, che non può ridurre né il sapere né la fede ad un possesso stabile. Inoltre occorre comprendere come l’ebraismo non abitui il credente ad una chiusura intimista nel rapporto con Dio, ma insegni che la Torah va compiuta, non nell’osservanza pedante di precetti cavillosi, ma nel più ampio interesse per l’altro, da intendersi come prossimo e fratello. Per questo, cercando di spiegare come i presupposti filosofici del suo pensiero si intreccino con le istanze veritative della religione, il filosofo lituano afferma: «il ricorso della religione alla filosofia non deve significare servilità della filosofia né non intelligenza della religione. Si tratta piuttosto di due momenti distinti ma solidali del processo spirituale unico che è l’approccio alla trascendenza»68. L’ebraismo può suggerire alla ragione filosofica un’idea di ricerca della verità che non si faccia ossessionare dalla preoccupazione del possesso, poiché consapevole che la vera urgenza è il rapporto con il prossimo, la responsabilità per l’altro. Questa saggezza etica si fonda sull’ascolto dell’Altro, che è antecedente a ogni affermazione della logica della ragione universale. Israele infatti, come sarà più chiaro più avanti, proprio perché consapevole dell’incommensurabilità del dono della Torah, non aspira a possederla tutta, si accontenta di quella parte concessa alla limitatezza creaturale e soprattutto sa che tale parte gli è stata donata affinché sia adempiuta nell’apertura all’altro, nella disponibilità verso il prossimo69. Lèvinas è, tuttavia, consapevole che occorre trovare, sula scia di Rosenzweig, un altro modo, o forse 68. E. Lèvinas, Nell’ora delle nazioni. Letture talmudiche e scritti filosoficopolitici, tr. it. di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2000, p. 204. Corsivo mio. 69. Ivi, pp. 207-209.

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sarebbe meglio dire un modo “altro” di presentare l’ebraismo. Innanzitutto, se si vuole che esso si accosti in maniera paritetica alla ragione filosofica, bisogna svincolarlo dal marchio pregiudiziale del particolarismo, per fare emergere l’universalismo, soprattutto etico, che lo anima da sempre. Il giudaismo non va ridotto a nazionalismo, poiché invita l’uomo a prendere coscienza del suo far parte di una storia millenaria, che, pur avendo le sue caratteristiche peculiari, non può rinunciare alla sua universalità per il suo costante legame con l’eternità meta-storica. Poiché votata al superamento del dogmatismo e della barbarie, si pone un’idea antica e al contempo moderna del divino, un rapporto con l’Altissimo da manifestare nella vicinanza al prossimo, al povero, all’orfano e alla vedova, una spiritualità che non è mai “a mani vuote”, perché si radica nelle esigenze reali e terrene di chi ci è vicino, prima ancora di preoccuparsi della dimensione extra-mondana. In tal senso anche l’elezione ebraica, che solitamente è interpretata erroneamente come motivo d’orgoglio e presunzione di superiorità, è in realtà assegnazione irrecusabile di una responsabilità etica, di un totale interesse per le sorti dell’umanità in generale. L’identità ebraica non è dunque presenza di sé a sé, ma pazienza, accettazione della responsabilità derivante dal sapersi dipendenti da Altro, creature di Dio. L’identità ebraica è qualcosa di anteriore e di radicalmente agli antipodi rispetto all’orgoglio soggettivistico, all’autocompiacimento narcisistico; è intima estraneità a se stessi, costitutiva apertura, in cui non c’è spazio per alcun atteggiamento esclusivista ma, all’opposto, è abitudine all’ascolto, all’attenzione per l’altro spinta fino all’obbedienza. Nell’ebraismo non c’è spazio nemmeno per il “furore sacro”, per nessun entusiasmo derivante da un presunto possesso del divino. Il Dio di Israele è innanzitutto Dio di giustizia e di perdono, ma ciò non avviene mai a scapito della deresponsabilizzazione dell’uomo. Se Dio nella sua misericordia può farsi carico dei peccati dell’uomo, ciò non

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toglie che quest’ultimo deve riparare da sé ai torti arrecati, anzi deve aspirare a sviluppare una responsabilità tale per il suo prossimo da limitare il più possibile l’eventualità di essere motivo di danno o di offesa, per essere, invece, segno e testimonianza dell’accoglienza divina; nella consapevolezza che, comportandosi in tal modo, egli non glorifica se stesso, ma soltanto il nome di Dio70. Il giudaismo rompe con ogni forma di entusiasmo sacro, non vede nella spiritualità una forma di elevazione dell’umano che pone in una condizione di superiorità e privilegio, anzi considera idolatrico tale atteggiamento. La libertà del credente non può essere intesa come autoaffermazione, come un surplus di volere e potere, poiché tale errata considerazione del divino è infatti la radice della violenza. Il giudaismo non fa di Dio un possesso stabile, una certezza assoluta; la fede ebraica è sempre attraversata dal dubbio, da ciò che Lèvinas chiama il rischio dell’ateismo, da cui nasce la natura costantemente inquieta di tale esperienza religiosa. Inoltre la libertà dell’ebreo è anch’essa paradossale: è un’indipendenza desiderosa di trascendenza, assetata di Dio. Tale trascendenza è rapporto con Colui che l’anima non può contenere; è una relazione con l’Eccedenza dell’altro che si concretizza nel legame etico con l’altro, che compromette la sovranità dell’Io. È dunque attraverso la relazione con altri che si è in rapporto con Dio, per cui Lèvinas afferma: «la relazione morale riunisce dunque nello stesso tempo la coscienza di sé e la coscienza di Dio. L’etica non è il corollario della visione di Dio: è questa stessa visione»71. Il rapporto etico con l’altro non nega, né distrugge la libertà individuale, la colloca in una dimensione anteriore e ulteriore, abitua a rendere giustizia al prossimo, a donarsi a lui, poiché senza quest’apertura 70. E. Lèvinas, Difficile libertà, tr. it. di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2004, pp. 43-46, 75-80. 71. Ivi, p. 34. Corsivo mio.

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originaria avrebbe poco senso anche il rapporto con il divino. Con evidente tono polemico, che, come si vedrà più avanti, sparirà negli ultimi saggi della raccolta, maggiormente aperti al dialogo con il cristianesimo, Lèvinas sottolinea che l’ebraismo non aveva bisogno dell’orizzonte morale aperto dai Vangeli per ribadire il legame tra il legalismo e la bontà, poiché costituisce una nota originale e originaria del giudaismo. La fedeltà dell’ebreo al suo Dio passa infatti primariamente per la responsabilità verso l’altro uomo in un orizzonte che supera i confini nazionalistici o confessionali, per abbracciare idealmente l’intera società umana72. Per far comprendere l’istanza etica universale dell’ebraismo, Lèvinas punta a fare emergere la componente altra che innerva la spiritualità giudaica sia nei concetti teologici chiave, sia nel rapporto diretto dell’ebreo con Dio nella preghiera e nell’interpretazione delle Scritture. La creazione dell’uomo in due esseri distinti, pur derivanti da un’unica idea dell’umano, indica che Dio stesso opera secondo una logica di alterità, crea due esseri differenti, ma comunque destinati ad unirsi nella dimensione erotica e generativa. Essa rappresenta uno smacco all’idea di una soggettività chiusa; dimostra la dipendenza dell’Io dall’altro su due livelli. Il primo, abbastanza intuitivo, è insito nell’atto creativo stesso, in cui l’uomo sapendosi creatura scopre la dipendenza da Altro, sperimenta la paradossalità della sua libertà donata che implica dipendenza e indipendenza allo stesso tempo. In più c’è un secondo livello, anch’esso fondamentale, in cui l’uomo, inteso come essere maschile, sperimenta la sua necessaria apertura all’alterità femminile. È un’interdipendenza tra sessi, pur nelle inevitabili differenze tra i due, un bisogno reciproco che non conduce all’idea di completamento e che solo in un primo momento sembra

72. Cfr. Ivi, pp. 35-40.

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potersi arrestare alla dimensione del godimento, ma si trasforma ben presto in preoccupazione per le sorti reciproche e di conseguenza in responsabilità per l’altro. Dunque, secondo Lèvinas, il giudaismo non può essere accusato di maschilismo preconcetto, poiché dal modo di concepire la creazione non emerge un’idea del femminile come possesso del maschile, ma di una responsabilità reciproca che regola il rapporto tra sessi. La sostanziale uguaglianza viene vissuta nel rispetto delle diseguaglianze, di quella costitutiva differenza tra maschile e femminile, in base alla quale è esclusa ogni predominanza. La differenza va ben oltre il biologico e la differenza sessuale, perché chiama in causa l’alterità essenziale ad ogni essere come segno riflesso della comune origine da Altro73. Un’altra dimensione in cui l’ebreo fa esperienza dell’alterità nel rapporto con il suo Dio è la preghiera. Per capirne bene il significato occorre, secondo Lèvinas, preservare l’ebraismo, così come tutti i monoteismi, dalla tentazione di ridurre la preghiera a ringraziamento per il bene ricevuto, quasi che il rapporto con il divino si fondi su una sorta di do ut des, in base al quale il fedele ringrazia Dio soltanto quando ha soddisfatto le sue richieste. La prescrizione biblica di amare Dio con tutto il cuore (Dt. 6,4-9) indica ben altro: allude ad un ringraziare Dio per il fatto stesso di essere sua creatura, indipendentemente dalla misura che applica. La preghiera di Giobbe nell’ora delle sue sventure (Gb. 1,2) è l’esempio perfetto della paradossalità della spiritualità ebraica; non per insensibilità alle tribolazioni, ma nella convinzione che la fede dia la capacità di resistere, sia più forte del dolore. La cifra etica della preghiera consiste nel

73. E. Lèvinas, Dal sacro al santo. Cinque nuove letture talmudiche, tr. it. di O. M. Nobile Ventura, Città Nuova, Roma 1985, pp. 113-132. È utile far notare come in queste pagine l’esegesi talmudica è integrata da Lèvinas con le proprie riflessioni filosofiche sull’alterità dell’eros nel rapporto tra sessi, esposte in Totalità e infinito (cfr. §5.2).

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suo abituare l’uomo ad un amore disinteressato che accetta persino le contraddizioni dell’esistenza, conferendo un modo di essere fedeli senza che ciò implichi alcun attaccamento, alcuna smania di possesso, perché la prossimità vive nel paradosso dell’assenza, nell’assoluta alterità della trascendenza e insegna ad essere grati a Dio per tutto ciò che accade, al di là dell’umana distinzione tra bene e male. Il rapporto con il divino nella preghiera abitua l’uomo all’apertura, all’esteriorità di fronte all’alterità assoluta, alla libertà di un amore disinteressato che non vede nell’obbedienza ai precetti una limitazione della propria indipendenza, ma, al contrario, l’inveramento e la testimonianza della propria fedeltà all’Altro. Il credente si accosta al divino senza la pretesa di volersene impossessare, senza cercare in tale relazione una certezza incrollabile, ma preservandone il mistero, senza scalfirlo neanche con la tendenza prevaricante del linguaggio umano, poiché il timore di Dio implica il rispetto per la sua assoluta alterità, da non tradire con pretese umane e, allo stesso tempo da manifestare con l’attenzione per l’altro uomo, con l’assunzione di responsabilità74. Un esempio della dimensione etica della preghiera ebraica è rappresentato da quella di Abramo in favore di Sodoma, nonostante il castigo divino (Gen. 18, 28-32). Lèvinas la definisce “un sublime mercanteggiare con Dio” portato avanti non da chi, in virtù del suo essere Padre delle Nazioni (Gen. 17,4) avanza delle pretese nei confronti del divino, quasi volesse ergere la sua elezione a privilegio, ma da chi sa di essere polvere e cenere (Gen. 18,27). Egli palesa la sua miseria, la sua dipendenza da Altro come motivo di gloria per l’umano, non per ottenere un tornaconto personale, ma per la salvezza d’altri. La preghiera del Patriarca è autentica perché è totalmente disinteressata, è votata al prossimo, non alla cura di sé, ma dell’altro; è testimonianza delle più alte vette raggiungi74. E. Lèvinas, L’aldilà del versetto, cit., pp. 165-174.

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bili dall’umano. Abramo non si gloria, non persevera nel suo essere, ma è consapevole che la più alta forma di dignità per l’uomo, il modo più autentico di esercitare la compassione, intesa come un preoccuparsi realmente per l’altro, consiste nel sentire la responsabilità per lui75. La dimensione entro cui l’ebreo sperimenta la matrice “altra” della propria spiritualità è soprattutto il rapporto quotidiano con la Scrittura. Essa attesta il fatto che la rivelazione ebraica non è un dato veritativo acquisito una volta per tutte, al momento del dono della Torah sul Sinai. L’interpretazione è possibile e necessaria perché rappresenta una riserva di senso inesauribile. L’esegesi punta, nei limiti delle possibilità umane, a confrontarsi con il senso infinito della Parola di Dio, pur nella finitudine del linguaggio umano. Lèvinas lo spiega con un parallelismo calzante: come l’uomo ha in sé il desiderio di infinito nonostante la sua finitezza, allo stesso modo la Scrittura racchiude un significato infinito, pur nella limitatezza del linguaggio dell’uomo, per cui lo scopo dell’esegesi non è altro che tentare di accostarsi, con le dovute cautele, a tale surplus per coglierne la ricchezza. L’essenza profetica del linguaggio religioso, l’enigmaticità del versetto consiste, per il filosofo lituano, nel suo custodire un senso inesauribile, nel suo alludere all’assolutamente Altro che eccede, per definizione, la capacità umana di comprensione, eppure si rende accessibile, si lascia tradurre in linguaggio umano nell’atto stesso della rivelazione. Tuttavia, precisa Lèvinas, la rivelazione non è riducibile a mera comunicazione, a puro far sapere; essa implica sempre un’attenzione all’altro uomo, una responsabilità irrecusabile76. La lettura quotidiana delle Scritture, che per

75. E. Lèvinas, Nuove letture talmudiche, tr. it. di B. Caimi, SE, Milano 2004, pp. 83-94. 76. Cfr. E. Lèvinas, L’aldilà del versetto, cit., pp. 59-62.

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l’ebreo si accompagna sempre alla preghiera, non va intesa come accettazione del “giogo celeste”, come atto di sottomissione alla Legge, ma come rapporto continuato con la verità, utile a tener sempre desta la coscienza religiosa, anche nello scorrere tumultuoso della vita. Ogni versetto, anche quando esprime un imperativo, implica un ottativo, ovvero un tono di invocazione, di benedizione per tutto ciò che viene da Altrove. La fecondità della Torah risiede nel suo alludere sempre ad un al di là, ad un senso altro, non confinabile nella linearità della lettera. L’al di là del versetto implica un al di là della ragione, un andare oltre le pretese della tematizzazione, un prestare ascolto, nei limiti del possibile, all’eccedenza dell’Altro, al debordare dell’infinito, che, prima di essere indice di un atteggiamento teoretico ed ermeneutico, è categoria etica, è relazione imprescindibile con l’altro uomo, perché il sapere della Torah si configura come relazione con l’Altro che chiama alla responsabilità per altri77. Se è vero che sul dono della Torah Israele fonda la propria identità di popolo essa va intesa non come chiusura particolaristica, ma come richiamo costante ad un universalismo etico. Al compito di imparare, insegnare e conservare la Torah (Dt. 5,1; 11,19) si affianca quello, altrettanto fondamentale, di adempierla. Tale adempimento non vuol dire obbedienza cieca ai precetti, ma una più generale esigenza di apertura all’altro, l’insorgere della necessità di donarsi all’altro per riconoscere la verità del dono divino della Legge. L’Alleanza, lungi dall’essere l’attestazione di un privilegio, è invito alla realizzazione di un ideale etico: «è un ideale, ma un ideale che suppone l’umanità dell’umano. Nell’Alleanza pensata fino in fondo in una società che dispiega tutte le dimensioni della Legge, la società è anche comunità»78. Nel dire ciò Lèvinas non intende, tuttavia, rimarcare solo l’aspetto 77. Ivi, pp. 95-102. 78. Ivi, p. 159.

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etico della rivelazione ebraica riducendone l’impronta teoretica, cioè il suo abituare l’ebreo ad un rapporto altro con la verità. Egli presenta la rivelazione ebraica come qualcosa che inquieta in maniera primordiale il pensiero, poiché il suo carattere altro che, come si è già detto, rende possibile la libertà dell’esegesi, chiama l’uomo all’apertura e all’ascolto alimentato nel rapporto personale con le Scritture. Ciò non implica una svalutazione del valore universale della verità rilevata, quasi fosse abbandonata all’arbitrio soggettivo, ma implica la necessità che ogni interpretazione, per essere considerata valida e degna d’ascolto, deve essere in accordo generale con la tradizione. Dunque il paradossale rapporto tra la libertà ermeneutica e il confronto con la tradizione permette il costante rinnovamento, pur nella continuità sostanziale, scongiurando il pericolo di chiudere l’alterità e l’ulteriorità della rivelazione entro il circolo vizioso del dogmatismo. La Torah, come dimostrano le dispute rabbiniche contenute nel Talmud, vive della fecondità del disaccordo, ma ciò non mina il carattere unitario della rivelazione, perché è opportuno distinguere la parte precettistica da quella più strettamente teologica-filosofica. Se il precetto resta invariato, il pensiero e l’interpretazione si soffermano invece su ciò che da esso può scaturire, sul suo autentico significato, che va ben oltre il gesto materiale da compiere. Se la verità ebraica non ammettesse questa libertà di interpretazione, la Legge risulterebbe arida, infruttuosa, ridotta ad una serie di pratiche astratte. Al contrario l’ebreo, proprio perché custode della verità rivelata, è obbligato ad adempierla, a metterla in pratica, perché l’avventura dello spirito giudaico si svolge tra gli uomini nell’avvicinarsi al prossimo, nella preoccupazione concreta per il povero, l’orfano e la vedova. La rivelazione deve dunque mantenere il suo carattere di rottura in un duplice senso: teoretico ed etico. Nel primo caso essa consiste, come aveva ben evidenziato Rosenzweig, in uno sfondare l’ordine chiuso della totalità e le sue pretese onnicomprensive, per mettere in crisi la presunta au-

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tosufficienza dell’Io, abituando ad una forma di pensiero che non sia espressione di prepotenza, ma atto di umiltà, continua “decrescenza”, un lasciar spazio all’Altro, un porsi in ascolto perché consapevoli dei propri limiti. Nel secondo caso, invece, essa implica un superamento dell’egoismo, un limitare la tendenza auto-affermativa della propria libertà, per aprirsi alla trascendenza dell’altro, per testimoniare con la propria vita il fatto che: «l’etica è il modello a misura della trascendenza e la Bibbia è Rivelazione in quanto kerygma etico»79. Dopo esserci accostati alla rilettura “altra”, in chiave etica, dei concetti di creazione e rivelazione, tenendo fede all’articolazione rosenzweigiana, cui Lèvinas palesemente si ispira, non resta che affrontare il concetto di redenzione, il quale, come si vedrà, aggiungerà un tassello importante alla trattazione del tema del tempo, che è stato al centro dell’itinerario filosofico lèvinassiano fin da Dall’esistenza all’esistente, per poi trovare nelle sue opere maggiori uno sviluppo più ampio. Tuttavia, come si è già evidenziato proprio riferendosi a questi testi, la problematizzazione della temporalità subisce un arresto, poiché il filosofo lituano ritiene che le sue riflessioni sull’alterità del tempo chiamino in causa l’insorgere della coscienza messianica, la quale giocoforza esula dal contesto di una rigida argomentazione filosofica, per sfociare nel religioso, di cui ora è opportuno occuparsi più da vicino, avendo delineato ampiamente le coordinate verso cui convergono i due versanti del pensiero di Lèvinas. Innanzitutto egli vuole mettersi al riparo dai fraintendimenti più grossolani cui è esposto il messianesimo; precisando che esso va svincolato dalle pretese umane di consolazione, in base alle quali la sua funzione primaria sarebbe quella di liberare dalle sofferenze, riducendolo in tal modo ad un fatto puramente emotivo. Allo stesso modo, bisogna svincolarsi da una lettura eminentemente politica del 79. Ivi, p. 233. Corsivo mio.

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messianico: la sua propensione al futuro non va confusa con istanze rivoluzionarie, con repentini capovolgimenti dell’ordine costituito. Il futuro cui allude l’idea messianica è innanzitutto escatologico, riguarda la salvezza personale degli uomini, il loro rapporto intimo con Dio e se si allarga alla dimensione intersoggettiva e comunitaria lo fa primariamente per via etica e non politica. Se la coscienza messianica è consapevolezza del dono del tempo che viene dall’Altro, allora essa non può indurre alla chiusura nell’intimità del rapporto con Dio, ma è invito costante all’altro, come movimento originario della vita spirituale che non può non accostarsi al prossimo, non presentandosi mai a “mani vuote”, poiché la vita spirituale è essenzialmente vita morale. Ciò non significa, avverte Lèvinas, che con la propria condotta morale l’uomo possa ingraziarsi il Messia, sollecitare la sua venuta, poiché ciò implicherebbe due errori: si ridurrebbe il carattere disinteressato della morale e soprattutto, con un atto di profonda hybris, si snaturerebbe il carattere di evento del messianico, il quale è, per definizione l’irruzione dell’Altro nel tempo, rottura imprevedibile e incondizionabile della continuità storica. Quest’ultima non va però intesa con disprezzo, come forma corrotta rispetto all’immobile integrità dell’eternità, ma secondo un’accezione positiva, poiché il tempo umano, la storia è necessaria affinché sorga la fecondità dell’istante futuro, nel senso già messo in luce da Lèvinas negli scritti filosofici. Senza il paradosso di un’esistenza storica e meta-storica, il giudaismo sarebbe ridotto a folklore e la storia di Israele a mera aneddotica. La fede giudaica vive infatti nel radicamento storico e, allo stesso tempo, nell’attesa messianica, testimoniandola con il suo stesso essere, più di quanto possa fare una professione di fede in una pubblica piazza. La tradizione ebraica caratterizza l’immagine del Messia in due modi: quello trionfante e quello sofferente. Nel primo caso il Messia è colui che ascolta il dolore di Israele ponendo

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fine ad esso con la sua irruzione, con la sua vittoria sul tempo e sulla storia. Nel secondo caso è colui che soffre con Israele, patisce insieme a lui, si fa carico delle sue sofferenze ed è questo anche il motivo per cui, nota Lèvinas, tale caratterizzazione del messianico affascina tanto il cristianesimo, poiché sembra cucita addosso alla figura di Cristo. Secondo il filosofo lituano non occorre prendere partito, scegliere tra una delle due immagini, poiché il paradosso messianico, l’ennesimo della spiritualità ebraica, ammette proprio il trionfo nella sofferenza e la sofferenza pur nel trionfo. Tale paradosso investe la libertà del Messia su cui l’uomo non può sindacare e che si riflette inevitabilmente sulla paradossalità della libertà umana, desiderosa di affermarsi, di volere, in un certo senso di trionfare, ma allo stesso tempo necessitata a fare i conti con la sofferenza propria ed altrui. In entrambi i casi però, ed è questo l’aspetto più rimarcato da Lèvinas, l’attesa messianica non implica deresponsabilizzazione. L’attesa non è inoperosità, poiché se al Messia spetta il compimento del tempo, della storia, all’uomo spetta il compito, altrettanto importante, di instaurare una moralità tra i viventi che renda gloria all’Altissimo. La redenzione è infatti, come aveva messo ben in evidenza Rosenzweig, primariamente un atto d’amore; è la speranza ideale di realizzare la pace e la giustizia tra gli uomini. Questa speranza diverrà certezza ed esperienza concreta da vivere in pienezza soltanto con l’avvento del Messia, ma ciò non toglie che l’uomo, nel limite delle sue possibilità, non debba adoperarsi per realizzare una minima parte, un segno lontano e infinitesimale di tale speranza ideale. Se infatti l’ebraismo non ha escluso il peso della sofferenza dell’altro neanche dall’idea messianica, allora l’uomo, per fedeltà al Messia, non può sottrarsi alla responsabilità per altri80. Lèvinas può, dunque, 80. E. Lèvinas, Difficile libertà, cit., pp. 83-116. Le precisazioni e le distinzioni fatte da Lèvinas su questo tema risentono chiaramente dell’influenza

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chiosare dicendo: «concretamente questo vuol dire che ognuno deve agire come fosse il Messia»81. E aggiunge: «il messianesimo non è la certezza della venuta di un uomo che arresta la storia: è il mio potere di sopportare la sofferenza di ognuno. È l’istante in cui riconosco questo potere e la mia responsabilità universale»82. Il giudaismo unisce gli uomini in un ideale di giustizia terrena di cui il Messia è promessa e compimento futuro. Da questo punto di vista l’eternità di Israele non rappresenta il privilegio di una nazione orgogliosa, votata alle illusioni, ma svolge una funzione essenziale nell’economia dell’essere, insegna a radicarsi nella storia con lo sguardo rivolto all’Eterno. L’ebraismo ha qualcosa da dire al nostro tempo di profonde inquietudini, perché vive nel tempo senza la preoccupazione di uniformarsi ad esso, è anacronismo nel senso più radicale del termine: attende l’Altro oltre il tempo e nel frattempo si impegna a preservare l’essenza morale dell’uomo al di là di ogni mitologia buonista. L’ebraismo vive di una speranza né aleatoria, né entusiastica e idolatrica, perché alle false profezie contrappone il perseverare nell’attesa, l’abitudine ad una singolare pazienza, che si manifesta nella totale apertura all’altro. L’essenza etica del giudaismo, messa in luce da Lèvinas, è in un certo senso paradossalmente laica, poiché si situa all’incrocio tra fede e ragione, con l’intento di fare evitare a quest’ultima il pericolo di degenerare o nella pura astrazione teoretica, sinonimo di

di Scholem (cfr. G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, cit., pp. 107-145). Va tuttavia precisato che la rilettura in chiave esistenziale del messianico è estranea al modo in cui la presenta il grande ebraista, poiché egli non la interpreta come un essere per l’altro, ma come un vivere in una condizione di costante rinvio, come: «l’idea anti-esistenzialistica per eccellenza» (Ivi, p. 147. Corsivo mio). 81. Ivi, p. 117. Corsivo mio. 82. Ibidem. Corsivo mio.

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indifferenza, o nella logica di appropriazione ed autoaffermazione, foriera di violenza. La spiritualità ebraica è infatti attenzione alla pratica, concretezza di gesti e azioni rivolte all’altro che non fanno del monoteismo un incontro privato con il divino, ma un richiamo costante a realizzare la giustizia e l’equità tra gli uomini. Il rapporto con Dio è essenzialmente un atto morale, è l’apertura di un’ottica etica sul mondo, attraverso la quale si tenta di realizzare la fraternità universale tra gli uomini83.

5.4 Aperture al cristianesimo Lèvinas è consapevole del fatto che l’aspirazione ad un’etica universale non potrà realizzarsi chiudendo il discorso entro i confini dell’ebraismo. L’originaria apertura all’altro della sua tradizione religiosa gli impone di pensare ad un possibile dialogo con il cristianesimo. Ciò comporta innanzitutto una riflessione preliminare sullo sviluppo di un pensiero autenticamente dialogico. Per quanto la filosofia occidentale, a partire da Platone, si sia caratterizzata, se non identificata, con il dialogo, il suo tacito presupposto è sempre stato un accordo preliminare garantito dall’unità e dall’univocità del sapere e dell’idea di verità, per cui il dialogo, così strutturato, assomiglia più ad un soliloquio, cioè ad un discorso dell’anima con se stessa, il quale, pur procedendo attraverso domande e risposte, annulla ogni possibilità di accoglienza delle istanze dell’altro, poiché lo spirito che lo anima è sempre il trionfo dell’unità e del Medesimo, per cui ogni opposizione è puramente fittizia84. Lo scambio di idee si riduce, in fin dei conti, all’autoaffermazione 83. Ivi, pp. 341-344. 84. Abbiamo già evidenziato tale paradosso del logos greco e occidentale, nel presentare il contesto dell’incontro con il nascente cristianesimo paolino (cfr. §1.2).

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di una sola anima, di una sola coscienza, di un solo cogito, in altre parole, di una sola ragione chiusa in se stessa e la socialità che essa sottende nasce dalla soppressione di ogni alterità e possibilità di reciprocità. Il dialogo, così strutturato, anche quando pretende di condurre all’unanimità, all’accordo tra gli interlocutori per scongiurare conflitti, esercita una violenza ideologica e retorica sull’altro, per cui ci si deve interrogare seriamente sulle possibilità effettive di un incontro, a prescindere dalla frenesia di trovare una verità comune. Una filosofia autenticamente dialogica pone al centro delle proprie riflessioni la trascendenza esperita nella dimensione sociale come relazione immediata e imprescindibile con l’altro. Un pensiero che non faccia del trionfo dell’identità, del primato del Medesimo, la misura di ogni sapere e di ogni rapporto. La fraternità da costruirsi nel dialogo è possibile solo se si fa dell’altro non il termine della propria soddisfazione, ma il destinatario del proprio donarsi. Il dialogo autentico è infatti la non indifferenza dell’Io al tu e del tu all’Io, che fa nascere un sentimento disinteressato, capace di degenerare anche in odio, ma unica via possibile verso l’accoglienza e, in senso lato, verso l’amore. La relazione con l’altro, concepita in questi termini, è il luogo e la circostanza originaria dell’avvenimento etico, in cui si riconosce il valore inalienabile dell’altro uomo. Lèvinas sostiene, a giusta ragione, di aver già affrontato questi temi dal punto di vista filosofico e che è opportuno estendere ora il discorso al versante teologico, per verificare la possibilità di un dialogo tra religioni. Il Dio della fede non è astratto, il risultato di una deduzione logica o un enunciato a priori, è il Dio cui ci si approssima nella preghiera, nell’invocazione, nel rapporto io-tu, secondo le stesse modalità che nella vita sociale conducono all’altro ed implicano fedeltà e responsabilità. Lèvinas precisa, tuttavia, che tale rapporto non sottende alcuna certezza di reciprocità. L’Altro, in quanto tale, conserva sempre una disparità e una dissimmetria nei confronti dell’Io,

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per cui è quest’ultimo a porsi a servizio del Tu e non viceversa. Questa disparità può apparire arbitraria solo se non si comprende come l’accoglienza etica offerta dalla preghiera sia il riflesso dell’apertura all’altro uomo, che viene ad essere il primo servizio religioso, la prima preghiera, la prima testimonianza di fede. Ciò non vuol dire che l’altro uomo debba essere preso per Dio, come se costituisse una sorta di suo prolungamento. L’aspetto da far emergere è che sia nel rapporto con il divino, sia in quello con l’altro uomo è all’opera la stessa “logica” spiazzante. Entrambe le dimensioni sono dialogiche, perché abituano il pensiero all’ineguale, all’al di là del dato, alla diacronia, al fatto che ci sia qualcosa e qualcuno che lo eccede, che mette fuorigioco ogni logica di possesso. Ciò non rappresenta affatto uno scherno, un insuccesso del sapere, ma è il segno paradossale di un possibile rapporto con l’alterità dell’infinito85. Prima di pensare ad un dialogo con il cristianesimo, Lèvinas ritiene opportuno affrontare un problema tutto interno al mondo ebraico: l’assimilazione considerata in modo tale che l’andare incontro all’altro non si confonda con l’annullamento delle proprie istanze veritative e delle differenze, con un lasciarsi completamente assorbire dall’altro, perché essere per l’altro non significa essere come l’altro. Il giudaismo riconosce l’importanza della civiltà occidentale per la costituzione della vita pubblica e intellettuale, ma, allo stesso tempo, rivendica con orgoglio, non per presunzione di superiorità, la specificità della sua identità che non può essere declassata a folklore. La vita pubblica in cui l’ebreo, in quanto cittadino del mondo, è chiamato ad esprimere i propri giudizi deve poter procedere di pari passo con la sfera privata, con l’intimità della coscienza ebraica, anzi i due ambiti devono sempre essere in

85. Cfr. E. Lèvinas, Di Dio che viene all’idea, cit., pp. 168-178.

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comunicazione tra loro, senza che l’insistere su uno implichi necessariamente uno screditare l’altro. Il fecondo contatto con l’Occidente obbliga, infatti, a far emergere la cifra eminentemente universale della specificità ebraica. L’obiettivo da perseguire sarebbe quello di far in modo che tutti gli uomini e tutte le comunità si impegnassero a realizzare la loro vocazione etica, favorendo la nascita di una civiltà del dialogo. Ciò significherebbe innanzitutto mettere da parte la logica ristretta ed egoistica dei nazionalismi, per rivendicare un’originaria appartenenza all’umanità, al di là di ogni particolarismo. In quest’ottica il contributo del mondo ebraico è fondamentale, poiché dovrebbe puntare, in base ai presupposti filosofici e teologici già ampiamente descritti, ad instillare nella coscienza collettiva occidentale il richiamo ad una responsabilità constante e crescente nei confronti dell’umano. Essere ebrei e, allo stesso tempo, occidentali, significa dunque adoperarsi concretamente per la realizzazione della fraternità umana, poiché da ciò dipende l’eternità e la validità della spiritualità giudaica, la quale, in caso contrario, è ridotta ad un mero provincialismo superato o ancora da superare86. Inoltre bisogna distinguere la necessità di un dialogo tra religioni dalla semplice tolleranza. L’ideale, cui il filosofo lituano aspira, non è la mera convivenza pacifica tra fedi, ma la costruzione di una civiltà fondata sui valori etici del monoteismo, su un’idea di comunità che oltrepassa i confini confessionali e fa leva sulla generosità dei cuori, per cercare un terreno comune di co-esistenza e collaborazione. Tale ideale non presuppone un accordo preliminare tra verità, magari costrette a ridursi al loro “minimum spirituale” per lasciare spazio all’altro, né tantomeno prevede la giustapposizione delle fedi alla ricerca di un sincretismo religioso, di cui Lèvinas ammette, in manie-

86. Cfr. E. Lèvinas, L’aldilà del versetto, cit., pp. 286-289.

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ra risoluta, di avere orrore. Egli crede nella possibilità di un approccio non dogmatico alle verità di fede che anteponga la pratica morale, essenziale per ogni religiosità, alla rivendicazione della legittimità, o, peggio ancora, della superiorità delle proprie istanze veritative. Dal punto di vista ebraico ciò significa che Israele è davvero popolo eletto solo nella misura in cui sa di avere una responsabilità morale nei confronti dell’intera umanità. Il giudaismo si presenta al dialogo con le altre fedi facendo leva su tale universalismo etico che non aspira ad una società omogenea, in cui siano abolite tutte le differenze, ma ad un dialogo costante in cui ogni interlocutore, individuo o comunità che sia, porti con sé i propri valori, la propria identità religiosa e culturale, ma sia disposto ad aprirsi ad ogni istante al confronto con l’altro87. Lèvinas, però, a tali riflessioni prevalentemente etiche sulla necessità di instaurare un dialogo ebraico-cristiano affianca considerazioni di carattere storico per verificare in quali condizioni l’ebraismo si presenta al confronto. Egli ritiene infatti che con la cosiddetta “emancipazione”, cioè con l’integrazione degli ebrei nella vita pubblica intellettuale nell’Europa a partire dal XVII secolo, il giudaismo ha ottenuto il riconoscimento della propria tradizione accanto al cristianesimo, ma soltanto in nome di una sterile e formale tolleranza che l’ha privato della costitutiva inquietudine della fede, per relegare l’istanza veritativa della religione nella sfera privata, quasi fosse un insieme di ricordi di famiglia. La fratellanza che l’Europa prometteva agli ebrei emancipati nasceva da un misconoscimento del valore della religione, di cui risentì anche il cristianesimo, fino a far credere illusoriamente che un accordo giudaicocristiano potesse fondarsi non sulle rispettive esperienze religiose, ma solo sull’adeguarsi ai valori razionali estetico-politici

87. E. Lèvinas, Difficile libertà, cit., pp. 219-221.

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dell’umanesimo greco-latino. Il passaggio dalla sfera pubblica a quella privata, definita dal filosofo lituano come un vero e proprio addomesticamento della fede, ha condotto il cristianesimo ad un sostanziale riadattamento storico, in base al quale la metafisica cristiana si è incentrata sul primato della salvezza extra-mondana, disinteressandosi progressivamente del compito di realizzare la giustizia terrena. Lèvinas si chiede dunque se da tale cruciale ridimensionamento del carattere etico dello spirituale, a favore di un approccio più contemplativo, non sia dipeso l’emergere di un caos nella storia europea, tale da condurre all’estremo limite della derelizione dell’umano, di cui i crimini dell’hitlerismo sono l’esempio più sconvolgente. In tale contesto l’ebraismo autentico, che non ha voluto rinunciare alla preminenza della proprio istanza etica, ha dovuto subire l’accusa di carnalità, quasi che l’insistere sulla centralità dell’umano fosse qualcosa di peccaminoso e non, per le ragioni già illustrate, un segno della semplice fedeltà al kerygma etico delle Scritture. La fecondità dell’insegnamento ebraico risiede dunque nella possibilità di suggerire al cristianesimo la necessità di non chiudersi nel dogmatismo, ma di riscoprire la sua attenzione all’altro, esplicata nell’esercizio etico della carità. Se Rosenzweig ha posto ebraismo e cristianesimo come vie paritetiche verso la verità eterna è perché credeva nella necessità dell’apertura e del dialogo proficuo tra le due fedi, come risposta alla crisi del suo e del nostro tempo. Occorre, secondo Lèvinas, recuperare le intenzioni del pensatore di Kassel, sforzandosi di ripensare alla possibilità di un dialogo fraterno per riscoprire una parentela dimenticata. Un nuovo sentimento di fraternità scaturita dal presentimento dei sacrifici e delle sfide che attendono l’umanità futura88.

88. Ivi, pp. 200-206.

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Sebbene Lèvinas comprenda l’urgenza di un dialogo ebraicocristiano, mostra ancora una sorta di pregiudiziale vis polemica nei confronti del cristianesimo, descritto in questi saggi come una religione lanciata alla conquista del mondo che il giudaismo, con la sua stessa presenza, rifiuta di riconoscere, attirando su di sé l’accusa di essere espressione di un popolo dalla dura cervice, la cui libertà di essere fedeli alla propria tradizione viene spesso confusa con un atto di orgoglio. L’aspetto paradossale della questione è che tale accusa provenga da un cristianesimo che, secondo il filosofo lituano, non è riuscito a far attecchire i suoi valori sul piano politico e sociale, condannandosi, di fronte al visibile insuccesso, ad una fuga verso l’utopico. Il cristianesimo, secondo Lèvinas, non svaluta la realtà terrena, ma ha una visione distorta del reale, credendo che esso opponga una resistenza tale all’azione umana da rendere statici e inconcludenti i rapporti dell’uomo con il suo prossimo, per cui al cristiano non resta che sperare in un miracoloso intervento divino, utile a trasfigurare la brutale pesantezza del reale. Tale attitudine spiega, per Lèvinas, come il cristianesimo sia potuto diventare una religione utopica, capace di strappare gli individui dai loro legami più solidi per delle superiori istanze metafisiche e, allo stesso tempo, abbia potuto sviluppare la sua natura conservatrice, facendosi garante dell’ordine stabilito, smarrendo in tal modo la sua vocazione ad essere scandalo per il mondo. Al contrario, il giudaismo si è sempre più radicato nella dimensione terrena, non perché gli manchi il riferimento ad un ordine soprannaturale, né tantomeno per l’insorgere di un materialismo assoluto, ma perché l’ambito principale in cui si misura il valore della coscienza religiosa è la via terrena che conduce ogni uomo verso il prossimo. L’attenzione all’altro vieta di fuggire dalle responsabilità in nome del primato dello spirito, di un ascetismo fine a se stesso. La spiritualità trova infatti solo nell’agire etico il suo senso autentico. Le Scritture, in quanto fonte

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primaria del monoteismo, insegnano la necessità per l’uomo di radicarsi nella sua situazione reale e di testimoniare, con il suo adattamento alle mutevoli condizione dell’esistenza, l’appartenenza al divino. La Bibbia non si situa nel vuoto, non tende alla costruzione di una città ideale, ma invita il credente ad assumersi la responsabilità del reale, ad agire su di esso per trasformarlo ed opporsi alla schiavitù, cioè ad ogni forma di asservimento dell’uomo da parte dei suoi simili. L’umanità dunque non può salvarsi ed assolversi attraverso la deresponsabilizzazione, non può negare le sfide cui è chiamata dalla sua stessa condizione. Se si trasforma la fede in utopia si separa il regno di Dio da quello di Cesare e si finisce per rassicurare quest’ultimo, perché gli si lascia campo libero sul reale. L’utopia, intesa secondo quest’accezione negativa, è vana e pericolosa, perché abitua il credente ad accettare un mondo ingiusto e a fuggire da esso alla ricerca di una salvezza solitaria. Il concetto autenticamente religioso di redenzione non va confuso con un’esigenza di immortalità da perseguire anche in un mondo senza giustizia; è soprattutto un richiamo alla salvaguardia delle condizioni di vita dell’altro uomo; è la tensione e l’attenzione verso una società giusta. Il Dio della tradizione monoteista invita al risveglio delle coscienze, al dispendio di energie per l’affermazione del primato dell’azione morale, da non confondersi con le belle parole dei sermoni. Egli richiama alla costruzione di un ordine etico, spinge a fare i conti con la difficile, ma reale complessità dei rapporti umani, con le drammatiche implicazioni dell’esistenza per dare un significato concreto ed efficace anche ai presupposti metafisici di ogni esperienza religiosa, perché è a partire dall’ordine etico che si può conferire un senso all’amore di Dio, senza ridurlo a pura chimera89.

89. Ivi, pp. 127-130.

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Il tono polemico di Lèvinas nei confronti del cristianesimo, finora sottolineato, si placa e cambia radicalmente trasformandosi in vera e propria apertura alla verità dell’altro negli ultimi saggi religiosi. Lo stesso filosofo lituano riconosce che il merito di tale mutamento prospettico è da attribuire in gran parte alla riscoperta delle intenzioni profonde del pensiero di Rosenzweig. Egli ha insegnato a sviluppare un “nuovo pensiero”, capace di tenere insieme gli opposti senza annullare le differenze, attraverso la fecondità della congiunzione, per cui Lèvinas si chiede se quest’ultima possa essere applicata anche al rapporto tra ebraismo e cristianesimo. Rosenzweig ha infatti mostrato sapientemente che le due esperienze religiose hanno una comune riserva di eternità, una paradossale essenza storica e metastorica, un singolare rapporto con il tempo, esperito nella liturgia, che salva l’uomo e la filosofia dalla tirannia del tempo hegeliano. Egli ha evidenziato come il punto tradizionalmente considerato di maggiore distanza tra ebrei e cristiani, cioè l’attesa del tempo messianico (che da parte cristiana significa attesa del ritorno del Salvatore), sia in realtà la comune radice di una speranza sempre inquieta, in cui nulla è ancora compiuto e tutto è aperto all’evento e all’avvento dell’Altro. Il vivere nel mondo con lo sguardo rivolto all’Eterno testimonia lo scacco delle pretese onnicomprensive della ragione. È una possibile amicizia fondata non semplicemente sulla comune appartenenza all’umanità, al mondo moderno o all’Occidente, ma su una comune esistenza profetica che resiste ad ogni tentazione umana di realizzazione e compimento, in quanto testimonianza incarnata di tale scacco90. Lèvinas, tuttavia, pur restando molto fedele allo spirito dialogico rosenzweigiano, vuole spingersi oltre, per verificare se tale concordanza ebraico-cristiana possa essere non solo teo-

90. Ivi, pp. 247-251.

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retico-profetica, ma anche e soprattutto etica, in quanto, come si è già sottolineato, è tale ambito a qualificare e a rendere feconda l’esperienza religiosa. Egli ammette di essere stato sempre condizionato nell’accostarsi alla lettura dei Vangeli dal duro giudizio storico già ricordato precedentemente, dalla difficoltà di comprendere perché pagine estremamente violente della storia come le Crociate o l’Inquisizione siano state possibili, per di più in nome della Croce di Cristo; egli dichiara di non riuscire a capire come fosse stato possibile che il simbolo della kenosi cristiana, la quale è non violenza per eccellenza, sacrificio estremo, sia stato trasformato in pretesto di violenza inaudita. A ciò, da ebreo, Lèvinas non può non aggiungere il profondo dolore per il colpevole silenzio dell’Europa, che, pur continuando a definirsi cristiana, ha permesso il perpetrarsi della follia nazista, culminata nell’orrore della Shoah. Nel dire ciò Lèvinas è molto attento ad evitare semplificazioni: distingue, con cenni autobiografici all’esperienza della sua famiglia durante le persecuzioni, l’aiuto concreto, prezioso e rischioso di singoli esponenti del clero e di cristiani comuni dal silenzio assordante delle gerarchie e delle istituzioni ecclesiastiche europee durante questa pagina vergognosa della storia. È un comportamento che non tollera giustificazioni, perché il messaggio di Cristo contiene la stessa riserva etica del giudaismo e non invita chi crede in lui all’indifferenza verso il prossimo. Dunque, al di là dell’inevitabile e legittima severità del giudizio storico, Lèvinas ammette, con spirito profondamente rosenzweigiano, che proprio gli orrori della storia dimostrano la necessità di riavviare un dialogo ebraico-cristiano che ponga l’accento non solo sulla comune impostazione metafisica ed escatologica, ma soprattutto faccia emergere il fondamento etico, spesso dimenticato, di entrambe le fedi. A titolo d’esempio Lèvinas cita il capitolo 25 del Vangelo di Matteo (Mt. 25,31-46) per far emergere come la religiosità cristiana, contrariamente a quanto sostenuto nei suoi primi saggi polemici

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sull’argomento, non trascuri il versante etico della vita spirituale, anzi la centralità dell’eucarestia, come gesto di condivisione del pane e del vino, assume una forte valenza etica se raffrontato ai continui richiami di Gesù al dovere di sfamare l’affamato, di vestire il nudo, di curare l’ammalato, non semplicemente in nome suo, ma come se il prossimo di cui avere cura fosse lui stesso. In ciò Lèvinas sente risuonare l’eco del capitolo 58 di Isaia (Is. 58,6-12), in cui il Signore invita ad opporsi alle iniquità, a condividere il pane con l’affamato, come testimonianza concreta di fedeltà, come gesto di fratellanza, che si accompagna all’eccomi in risposta alla sua chiamata. Ciò rappresenta soltanto un significativo esempio di quanto, pur nelle inevitabili differenze, la misericordia cristiana sia molto vicina alla sapienza etica della Torah, per cui su tale terreno comune è possibile costruire un dialogo positivo e propositivo, una simbiosi feconda per l’intera umanità91. Una concordanza che Lèvinas salda inoltre, in modo singolare ed originale, sulla possibile rilettura in chiave etica del concetto teologico di kenosi: se lo si interpreta in maniera rigorosa e dogmatica come incarnazione divina esso è del tutto estraneo alla spiritualità giudaica, se, invece, lo si interpreta in senso più ampio, ma non estraneo allo spirito del cristianesimo paolino (cfr. Fil. 2,6-8) come umiltà di un Dio che non disprezza la condizione servile dell’uomo, allora può essere confrontato con la sensibilità giudaica. I testi biblici veterotestamentari sono pieni di termini che, pur evocando l’altezza e la maestà del divino, sono spesso accompagnati da quelli che descrivono un Dio che si piega sulla miseria umana e la abita (cfr. Sal. 113; Sal. 147; Dt. 10,17-18; Is. 57,15; Sal. 68). Dunque è evidente che anche la teologia giudaica, al pari di quella cristia-

91. E. Lèvinas, Nell’ora delle nazioni. Letture talmudiche e scritti filosoficopolitici, cit., pp. 189-192.

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na, pensa al paradossale congiungimento di discesa e innalzamento come segno di umiltà e di prossimità. Il fatto che Dio possa rivolgere il suo sguardo misericordioso all’uomo non lo deresponsabilizza affatto, anzi il pensiero kenotico lo abitua a non disprezzare l’umano, a salvaguardarlo e difenderlo ad ogni costo, pur nella sua costitutiva miseria, chiamando all’investimento nell’ordine etico, all’assunzione di responsabilità per altri, poiché: «più importante dell’onnipotenza di Dio è la subordinazione di tale potenza al consenso etico dell’uomo. Ed è qui uno dei significati primari della Kenosi»92. La pietas giudaica, al pari di quella cristiana, manifesta nella preghiera, non ha di mira il domandare per sé, in una sorta di dialogo interiore tra l’uomo e Dio, ma uno svuotarsi, un lasciare spazio all’Altro, per potersi offrire all’altro. Ciò non comporta, tuttavia, un totale oblio di sé, quasi che votarsi all’altro sia un modo edificante per dimenticare le miserie e le sofferenze della propria condizione. Alla base di tale completa apertura c’è proprio la fiducia nella kenosi divina, cioè nel fatto che le sofferenze umane siano “com-prese”, nel senso letterale di “assunte su di sé”, da un Dio che soffre per le sofferenze dell’umanità; il suo infinito dolore supera di gran lunga quello del singolo uomo e in un certo qual modo lo lenisce, insegnando a sopportarlo e a cercare di venire incontro, nella dimensione etica, alle miserie dei nostri simili. Così, la preghiera non è elevazione del proprio sé a Dio, ma offerta della propria miseria al Dio che soffre93. L’insistere sulla paradossale fecondità della miseria della condizione umana non va letto, tuttavia, come sfiducia e abbandono dell’ideale umano, ma, al contrario, come volontà

92. Ivi, p. 143. Corsivo mio. 93. Ivi, pp. 144-149. Sull’importanza del recupero, in chiave etica, della dimensione kenotica del pensiero e dell’esistenza, per la costruzione di una civiltà del dialogo si veda V. Vitiello, Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’Io alla logica della seconda persona, cit., pp. 9-12, 143-144.

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di riscoprire un valore “altro” dell’umano, nel solco della tradizione ebraico-cristiana, al di là delle categorie dell’umanesimo greco-latino. Un umanesimo biblico che faccia dell’attenzione dell’uomo per l’altro uomo una testimonianza vivente e profetica dell’Altissimo (Ez. 33,30-33). Il possibile dialogo ebraico cristiano dovrebbe essere dunque animato da una franchezza di spirito e di verità utile a mettere a nudo le crepe della nostra civiltà, per proporre un’idea “altra”, perché fondata sull’eccedenza dell’Altro che chiama all’ineludibile responsabilità per l’altro. Per fare ciò bisogna andare oltre il tradizionale antagonismo tra Legge e libertà, tra Antico e Nuovo Testamento, interpretando la fedeltà alla legge, lo spirito delle lettere, come impegno concreto per la costruzione di una civiltà autenticamente umana, fondata sulla responsabilità reciproca, sul primato di un ordine etico universale in cui non ci sia spazio per l’autoaffermazione e l’indifferenza, foriere di violenza verso i propri simili, ma si propenda per un’idea di civiltà fondata sulla fraternità.

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Conclusione Per un ethos dell’alterità...

La fecondità dell’incontro tra la riflessione ebraica e la modernità, seguita attraverso Rosenzweig e Lèvinas, risiede nel suo essere sprone per il nostro tempo, stimolo verso un’etica dell’alterità che vede nell’altro da sé un valore da preservare e accogliere e non da sopraffare ed annullare con il trionfo di un pensiero e di un’identità chiusa in se stessa. Ciò rappresenta, secondo Derrida, la grande forza e l’importante lascito del pensiero di Lèvinas, il quale, a suo dire, ha cambiato il corso della riflessione filosofica del nostro tempo, invitandoci ad un altro pensiero dell’etica, della responsabilità e della giustizia, un pensiero dell’anteriorità assoluta dell’altro rispetto al medesimo, un’etica prima di ogni ontologia1. Il pensiero di Lèvinas pone infatti al centro della sua riflessione il tema dell’accoglienza e dell’ospitalità, nata dall’apertura ineludibile e incondizionata all’altro. La responsabilità per l’altro non implica un’iniziativa, una decisione “volontaristica” dell’Io, ma è l’ingiunzione dell’altro, il suo “sì” che è prima del mio e che rende ragione del fatto che l’accoglienza sia qualcosa di irre-

1. J. Derrida, Addio a Lèvinas, tr. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Jaca Book, Milano 1998, p. 59.

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cusabile. La relazione etica dunque, deve essere improntata al ricevere, all’accogliere in una misura smisurata in cui l’incontro con l’altro eccede le capacità dell’Io, vive di una costante dissimmetria. Tale rapporto però, avverte Derrida, non va inteso come mera passività, poiché la possibilità dell’accoglienza non esclude il dimorare, ma evidenzia come essa sia possibile solo a partire dall’apertura originaria, dall’antecedenza dell’altro sul medesimo2. Derrida dice infatti: «colui che accoglie è innanzitutto accolto a casa propria. L’invitante è invitato dal suo invitato colui che riceve è ricevuto, egli riceve l’ospitalità nel luogo che ritiene essere la propria casa»3. Si tratta dell’accoglienza prima di ogni possibile accogliente, un’accoglienza assoluta, originaria, o meglio pre-originaria, che ha luogo in un luogo non appropriabile, un luogo aperto in cui l’ospitante riceve l’ospitalità che vorrebbe dare. Tale istanza etica non può essere ridotta ad un umanitarismo generico e astratto, perché affonda le sue radici in una specifica esperienza del divino. Il Dio ebraico che non ammette immagini di sé, non consente una venerazione iconica e pur si rivela al suo popolo, abitua all’incontro incerto con l’Altro. Se l’assolutamente Altro si fa incontro, chiede fiducia e ospitalità nel paradossale “gioco” di prossimità e distanza, chi crede in lui non può non aprirsi all’alterità dell’altro uomo, come inevitabile riflesso di quell’alterità che lo costituisce. Per questo Derrida sottolinea che il concetto lèvinassiano di fraternità, che intendiamo seguire e arricchire con le suggestioni di altri pensatori del nostro tempo, non può essere mai privato della sua originaria impronta messianica. L’accogliere implica in2. Ivi, pp. 78-91. Abbiamo già evidenziato l’importanza di tale “inversione” concettuale nel §5.2, ma ci è sembrato opportuno riprenderla, nell’ottica di Derrida, per comprendere come essa funga da presupposto necessario ad un possibile discorso etico sull’amicizia e l’alterità in genere. 3. Ivi, pp. 103-104.

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fatti un attendere che l’altro irrompa nel nostro tempo e nel nostro spazio, che ecceda i nostri appigli e si riveli come prossimo, fratello e amico, pur nella sua irriducibile estraneità4. L’umanesimo biblico abitua a vivere fino in fondo il paradosso della dimensione creaturale, in cui ogni promessa di identità non concede chiusure. Ogni nome resta a venire e ogni abitare implica un sopraggiungere, un peregrinare, uno stabilirsi che è, allo stesso tempo, un prendere congedo. La philoxenia è connaturata all’uomo “biblico”, perché consapevole dell’intima estraneità della sua stessa esistenza. È un aver luogo presso se stessi, senza possedersi, un’inversione radicale del “conosci te stesso” socratico, per virare verso un ethos dell’accoglienza, in cui si ha bisogno dell’altro, della sua parola incerta, inquieta e inquietante, del dialogo effettivo e non idealizzato, per capire meglio se stessi: una modalità d’esistenza in cui non c’è spazio per l’amor di sé, per la philautia, ma si accetta il rischio dell’incontro con il prossimo. Egli è colui in cui ci si imbatte, senza prestabilirlo, lungo il cammino verso una terra che non ci appartiene, che non ci è destinata, essendo un rischio essa stessa. Il prossimo è la novitas per eccellenza, l’evento assolutamente unico che mette fuorigioco le certezze dell’Io. Il suo muoversi è imprevedibile, erratico, fa esodo, non concede appigli sicuri, per questo rappresenta un balzo oltre l’idea stessa di prossimità, come appartenenza, eccede ogni logica di reciprocità5. Il prossimo ci può essere amico proprio perché altro, perché segno riflesso della nostra intima ed estraniante alterità. Il legame esistenziale va oltre quelli biologici, religiosi o politici: «in amicizia significa perciò stare con l’altro – amare il tremendo che appare nel volto del prossimo, affrontarne

4. Ivi, pp. 128-135. 5. M. Cacciari, Della cosa ultima, cit., pp. 135-141.

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la notte»6. Lèvinas e Rosenzweig radicano questa dimensione nel sostrato etico dell’AT, ma, come fa notare opportunamente Cacciari, essa non è estranea allo spirito neotestamentario. La fede in Cristo è infatti dono assolutamente libero, al di là di ogni calcolo e “progetto”, in una sola parola è grazia offerta a tutti. Il cristiano che conosce, o meglio sperimenta il dono che è il Cristo (Ef. 4,7; Rm. 5,15) non potrà non assumerlo, seppur entro i limiti della finitezza umana, come metron del dono di sé ad altri. Il cristiano, consapevole del grande dono del Padre attraverso la kenosi del Figlio, non può non aspirare ad un’esistenza kenotica, improntata cioè alla donazione di sé, all’apertura incondizionata all’altro, spogliandosi del proprio se stesso per lasciare spazio all’altro (Fil. 2,6 e ss.). La libertà del cristiano è infatti un lasciar essere, un ritirarsi da ogni volontà affermativa, acquisitiva e possessiva. Il cristiano vive la gratuità del Dono, un radicale rilasciarsi all’Altro, in cui non c’è spazio per alcuna intenzione, per alcun volontarismo, neppure per la volontà di salvezza, che in quanto tale è sempre e solo libero e incondizionabile dono dell’infinito. Un pensiero ed una pratica d’esistenza che vogliano definirsi, in conformità con il messaggio cristiano, kenotica devono intendere il proprio essere non come una ricerca dell’umiliazione, ma come una costante apertura alla possibilità dell’altro. Ciò implica il deporre, l’abbandonare ogni philo-psichia per rivolgersi alla sfuggente imprevedibilità dell’altro. Nel donare e nel donarsi non ci si preoccupa della salvezza del proprio sé, ma si palesa la gratuità dell’apertura, del volgersi a, e così facendo si manifesta la presenza dell’Altro, che resta, tuttavia, problema, enigma, pura domanda e appare però, – allo stesso tempo, l’intrascendibile del proprio sé7. Cacciari commenta: «in questo senso non esiste libertà se non nel liberare – ma non è 6. Ivi, p. 150. Corsivo mio. 7. Ivi, pp. 314-321.

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possibile liberare se non lasciando essere, vuotandosi per dar luogo, e cioè vuotandosi di ogni intenzione remunerativa, di ogni logica dello scambio. La gratuità di questo movimento è perciò “destinata”: l’anima non viene dissolta, de-creata, ma ritrovata, salvata nella libertà dell’altro: della sua presenza la kenosis è espressione»8. Tale modo di essere nel mondo è anche intrinsecamente paolino, poiché fa dell’esistenza un esercizio costante di custodia del mistero del divino, che insegna a non essere per sé, ma per altro. La ragione kenotica è non chiusa nell’indifferenza teoretica, ma è primariamente etica, sa dare ascolto alla parola dell’altro, sa donare tempo all’altro, perché, in quanto creatura, è dipendente da altro e ne ha bisogno a sua volta. Il messaggio cristiano edifica solo nella misura in cui, custodendo il mistero della sua provenienza, è aperto al dono dell’altro, all’accoglienza delle parole altrui che potranno venirle incontro9. La religione, al di là dei confini confessionali, come suggerisce la radice latina ligere che caratterizza la religio, implica sempre un legame di assoluta dipendenza, una relazione libera e allo stesso tempo vincolante con l’Altro, la paradossale compresenza di attività e passività. Bisogna capire come tenere insieme la dimensione verticale di tale rapporto, quella più strettamente escatologica, con quella orizzontale, rivolta all’altro uomo, cioè propriamente etica, sapendo bene che se il primo versante, già ampiamente discusso in precedenza, si presta ad una riflessione maggiormente distaccata, il secondo risente inevitabilmente dell’urgenza del nostro tempo inquieto che è sempre alla ricerca di un senso etico condiviso. Se la relazione 8. Ivi, p. 322. Corsivo mio. 9. G. Rossè, V.Vitiello, Paolo e l’Europa. Cristianesimo e filosofia, cit., pp. 239-242. In proposito si rilegga l’interpretazione “altra” di Paolo, condotta da Vitiello attraverso Heidegger e oltre, con cui ci siamo confrontati nel §2.3.

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religiosa non è, alla maniera di Hegel10, incontro assimilante e fagocitante tra identità, ma relazione “altra” non identitaria, sospesa alla radicale alterità dell’Altro, alla sua possibilità che non esclude, anche se non assicura, la prossimità, allora non si potrà non avvertire l’esigenza dell’altro di stargli accanto, senza prevaricarlo o ridurlo a sé, rivolgendosi al proprio Dio con accanto la parola “altra” rivolta ad altri dei. È una religione che riconosce la religiosità, la valenza etica ed escatologica di tutte le religioni. Questo atteggiamento “religioso” non conosce servi, ma amici, conosce un’unica forma di ospitalità: «quella di chi ospitando si sente ospite, di chi dando ospitalità, ringrazia per essere ospitato dal suo ospite»11. Lo stare accanto va oltre la semplice comunione o il comunitarismo “irenico”, perché fa leva sul sentirsi responsabili non solo dell’altro nel presente, ma anche e soprattutto di ciò che appartiene al futuro e alle generazioni a venire. La responsabilità è vissuta nell’attimo, nel battito d’occhio, nell’istante in cui è in gioco l’intero tempo, inteso non come eredità passata o aspettativa futura, ma come tempo “presente” che, potendo essere il primo come l’ultimo giorno concesso all’umanità, lo si vive senza la frenesia del tempo “produttivo”, del tempo lineare vincolato ad un risultato12. Così, l’esistenza si definirebbe “messianica”, perché consapevole del proprio limite intrinseco, del fatto che ogni opera umana è anche attesa e non smania tracotante di compimento13, e costituirebbe un modo 10. È un limite del cristianesimo filosofico di Hegel, già messo in luce nel §3.2. 11. V. Vitiello, Ripensare il cristianesimo. De Europa, cit., p. 244. Corsivo mio. 12. V. Vitiello, L’ethos della topologia, cit., pp. 73-74. 13. Aspetto che abbiamo cercato di mettere in luce attraverso la peculiare esperienza ebraica del tempo, essenziale sia nell’itinerario speculativo di Rosenzweig (Cfr. §4.3) che in quello di Lèvinas (Cfr. §5.3).

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di essere al mondo che non avanza pretese di verità assoluta, ma aspira a farsi testimonianza di quella “realtà” che altri riterranno di riconoscerle, o meglio di donarle14. Il nuovo ethos si radica in una filosofia che diffida del “potere” della ragione al punto da affermarne non la debolezza, ma l’impotenza, il senso del limite che la costituisce. Ciò non implica il distacco dal mondo o la fuga verso l’irrazionale, ma un tentativo diverso, potremmo dire “altro”, di comprendere il proprio tempo, di abitarlo, sviluppando un pensiero il cui compito è testimoniare una modalità d’esistenza diversa che non pone al centro la funzione prevaricante della parola, non esalta la pre-potenza dell’uomo come centro dell’universo e signore della terra, ma testimonia la necessità di situarsi, seppur sempre in bilico, nel “tra”, nel framezzo che caratterizza ogni rapporto con l’alterità. Una filosofia così strutturata antepone alla capacità di interrogare il dono di lasciarsi interrogare da tutto e tutti, da ogni cosa e da ogni uomo e al merito del donare fa precedere la gratitudine del ricevere15. Tale atteggiamento pone l’uomo al riparo dalla hybris dell’antropocentrismo, allarga l’orizzonte del suo “sentire” oltre la ristrettezza dell’umano, ponendo di fronte al mistero e allo stupore della vita cosmica che non può essere ridotta al semplice essere-con (Mitsein) che ancora caratterizza lo stare insieme dell’uomo16. L’ethos è allo stesso tempo un esercizio di libertà, poiché, vincolandosi ad un destino, accetta la propria finitezza, il proprio limite. È la pietà di un pensiero che si “sottomette” al Sacro, alla sua oltranza e, al contempo, ha il coraggio della propria costitutiva passività

14. Ivi, p. 94. Una logica ed un’etica “altra” che in Vitiello è però profondamente paolina, ricalcando l’alterità ineludibile che egli riconosce nella predicazione dell’Apostolo, (Cfr. Id., Paolo e l’Europa. Cristianesimo e filosofia, cit., spec. pp. 215-254 e la nostra riproposizione della questione nel §2.3). 15. Ivi, pp. 109-112. 16. Ivi, p. 126.

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che segna, sin dall’origine, l’agire umano. È esperienza della difficile felicità di essere nel mondo senza essere del mondo17. Il passaggio attraverso le riflessioni etiche di Vitiello ci ha permesso di delineare le coordinate generali entro cui è possibile ripensare un nuovo ethos consapevole dei limiti dell’umano e capace di rendere paradossalmente feconda l’inquietudine del nostro tempo. Su tale sfondo bisogna interrogarsi sulla possibilità che l’amicizia, come sembrano suggerire anche le precedenti suggestioni di Cacciari, rappresenti una via privilegiata per il ripensamento dei rapporti etici, per tracciare un nuovo modo di abitare la terra. Tali intenzioni di fondo animano Politiche dell’amicizia di Derrida, il quale, proprio attraverso l’amicizia, tenta di andare oltre la chiusura della ragione filosofica occidentale, per aprirsi la strada verso un nuovo ethos. L’amicizia eccede infatti ogni circolarità e ogni chiusura, poiché palesa una relazione asimmetrica. L’amico è colui che ama prima di essere amato. Nell’amicizia c’è un’incommensurabilità tra l’amante e l’amato che continuerà sempre ad eccedere ogni misura, ogni moderazione, ogni principio di calcolo. Essa rende manifesta la possibilità di installare una gerarchia asimmetrizzante nella struttura rigida e chiusa del pensiero tradizionale18. Essa fa vacillare l’autoreferenzialità del pensiero occidentale, cristallizzata a partire da Aristotele fino allo Spirito Assoluto di Hegel. L’amicizia non ammette auto-archìa: se è autentica, spontanea e disinteressata, è sempre pensiero dell’altro e della sua finitezza. La possibilità dell’amicizia insidia un contro-movimento nel pensiero tradi-

17. Ivi, pp. 138-139. La difficile felicità delineata da Vitiello, non ci sembra molto distante, per presupposti e intenzioni, dalla difficile libertà di cui parla Lèvinas nei suoi scritti sulla religione (Cfr. §5.3 e §5.4), rappresentando in tal senso un importante punto di raccordo per il nostro percorso. 18. J. Derrida, Politiche dell’amicizia, tr. it. di G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1995, pp. 19-20.

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zionale, in quanto richiede, desidera l’altro, instilla la necessità dell’altro, la cui causa si insedia nel cuore apparentemente impermeabile e chiuso del cogito19. L’amicizia abitua ad un pensiero del forse, di ciò che è in procinto di venire, ad un pensiero mai certo dell’arrivo dell’arrivante, che fa esperienza dell’inquietudine della venuta (arrivance), esperienza inaudita del forse che mette in forse ogni certezza metafisica. Il pensiero del forse, del possibile o dell’evento dice che l’amicizia è sempre a-venire; è per l’avvenire. Essa si costituisce in base all’apertura originaria all’altro, ma non fa venire meno l’incertezza e l’instabilità, è incontro che vive di disgiunzione, di prossimità e distanza. In tal senso l’amicizia non assicura nessuna appartenenza, né somiglianza, né prossimità. Essere amici significa conoscersi senza necessariamente riconoscersi. L’amicizia spinge all’uscita fuori di sé, invita a lasciar venire l’altro che mi precede e mi previene, in quanto condizione della mia stessa immanenza. Gli amici, vivendo l’esperienza estraniante del forse, sono anche amici della verità in un modo nuovo del tutto diverso rispetto alla tradizione filosofica occidentale. Essi sono nella verità, “hanno” la loro verità, ma non la concepiscono come possesso stabile, come dogma chiuso in sé. Gli amici della verità la amano come si ama un amico, senza la pretesa di volersene appropriare, senza la presunzione di poterla racchiudere in una forma unica e indubitabile, e in tal modo si mettono al riparo da ogni dogmatismo e fanatismo20. La verità dell’amicizia rappresenta il colpo d’apertura rispetto alla chiusura della verità radicata nella tradizione: è il suo contraccolpo, quasi un’inversione catastrofica, perché si protegge da ogni tentazione di fondazione per aprirsi, invece, al senza-fondo, al lato abissale della verità. L’amicizia si tiene in bilico sull’abisso, sul terreno incerto delle nostre relazioni, 19. Ivi, pp. 262-263. 20. Ivi, pp. 54-62.

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senza cercare di eliminare i paradossi dell’umano, ma abituandoci ad accettarli come tali21. L’amicizia, inoltre, apre ad un’esperienza “altra” del tempo, non può esserci senza il tempo, non è mai fuori dal tempo. L’amicizia, come atto di fiducia, ha una sua cronologia, richiede il perdurare nel tempo, esige una fedeltà, un credito che non può essere a-cronico. L’impegno dell’amicizia prende tempo e dà tempo, perché porta al di là dell’istante presente e insieme lo conserva e lo anticipa, deve resistere alla prova del tempo. È un fare esperienza del tempo nel vano tentativo di dominarlo, esponendosi in tal modo al suo sottrarsi. È un prendere e concedere tempo, pur nell’incertezza costante da cui dipende l’esser salda della fede che è alla base di ogni rapporto d’amicizia. Tale legame rappresenta, paradossalmente, una stabilità che non si stabilizza, una certezza mai data, sospesa al tempo e al suo divenire. L’amicizia è prova perché esperienza di una traversata che ritira il tempo, lo affronta nel suo sottrarsi, ma rinuncia a dominarlo, pur credendo in una durata che non implica però alcuna vittoria. In altre parole l’amicizia: «determina una modalità temporale ma anche intemporale, un divenir-intemporale e onnitemporale del tempo, qualsiasi cosa riguardi. […] ma contrassegna anche o piuttosto dissimula contrassegnandolo, il passaggio tra due ordini assolutamente eterogenei, il passaggio dalla certezza assicurata, dall’affidabilità calcolabile all’affidabilità del giuramento e dell’atto di fede»22. Essa presenta un carattere di rottura con l’affidabile, il calcolabile, con l’assicurazione e la certezza per le quali la fiducia che ad essa è sottesa è accostabile alla credenza religiosa, alla fede autentica23. L’amicizia, dislocando la logica dell’i-

21. Ivi, pp. 64-68. 22. Ivi, p. 28. Corsivo mio. 23. Abbiamo già cercato di far emergere, più volte, questo elemento essenziale dell’esperienza autentica di fede sia nell’ebraismo attraverso Bu-

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dentità in favore del primato dell’alterità, designa un principio d’erranza, non concede riposo, inquieta anche quando si è “a casa propria”. L’amicizia è straniante (unheimilich), rinvia sempre ad un à-topos, ad un luogo non-luogo. L’a-topia dell’amicizia spiega il suo carattere costitutivamente tensivo, ma anche il fatto che tale legame, in quanto dono, non ha e non può avere misura, né reciprocità. È avulso da ogni sincronia o simmetria. L’amicizia richiede pazienza, è esperienza diacronica del tempo perché abitua all’attesa, a sostare nel “non ancora”, nel “finora” che trattiene sulla soglia di questo dono senza simmetria. Essa porta con sé il futuro di una domanda, di un appello, di una promessa o di una preghiera, fosse anche sotto forma di lamento24. L’appello all’altro, implicito in questo modo di intendere l’amicizia, presenta dunque un’evidente coloritura messianica. Se l’appellarsi all’altro è legato alla sua possibile venuta, ad un’attesa irriducibile, anche l’amicizia viene ad essere evento “messianico” in senso lato. E come tale presenta anche tutti i pericoli del messianico, ovvero, secondo Derrida, il fatto che l’attesa possa diventare spasmodica e si ceda alla tentazione di accelerare la venuta, ignorando il grande insegnamento del messianesimo, ovvero che l’evento del Messia, la sua venuta, è l’atto libero per eccellenza, è l’irruzione improvvisa e imprevedibile, fuori dalla portata di ogni volontà, desiderio o intenzione dell’uomo25. Va, tuttavia, fatto notare che Derrida accenna soltanto a questo tema, centrale invece nello sviluppo del nostro percorso26, ber (Cfr. §2.2), Rosenzweig (Cfr. §4.3 e §4.4) e Lèvinas (Cfr. §5.3), sia nel cristianesimo paolino attraverso Bultmann (Cfr. §2.1), Heidegger e Vitiello (Cfr. §2.3). 24. Ivi, p. 333. 25. Ivi, p. 204. 26. Soprattutto per far emergere la componente “altra” del rapporto ebraico col tempo sia attraverso Rosenzweig (Cfr. §4.3) che Lèvinas (Cfr. §5.3).

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non dedicandogli il giusto spazio di approfondimento, mostrandosi più interessato ad analizzare i risvolti etico-politici di un discorso sull’amicizia e sull’alterità in genere che non a quelli più strettamente religiosi. Questi aspetti, essenziali per dipanare la questione, non sfuggono invece a Maurice Blanchot, il quale riconosce nel messianesimo ebraico una fonte ineludibile per un pensiero dell’amicizia e dell’alterità come evento. L’attesa ebraica del Messia non implica infatti alcuna garanzia passata o futura, non è mai totale presenza e nel suo eccedere le logiche umane destabilizza, mette fuori gioco ogni sforzo umano di condizionarlo. Il pensiero messianico insegna ad accettare le contraddizioni laceranti del tempo presente in attesa del futuro. Per queste ragioni la speranza messianica non è politica in senso stretto, ma è escatologica, non può essere ridotta e piegata alle esigenze umane del presente, ma la sua forza risiede nell’insegnare a resistere nel tempo senza farsi irretire da esso. Ciò, precisa Blanchot, non implica affatto un distacco dal mondo in attesa del giudizio finale, ma, proprio perché si tende all’ideale della giustizia divina, il credente dovrà impegnarsi a realizzare la giustizia terrena nei suoi rapporti interpersonali quotidiani, perché è nell’ordinario che si realizza lo straordinario27. L’esperienza messianica del tempo come dono dell’Altro e, al contempo, all’altro, è il presupposto implicito anche del discorso di Derrida sull’amicizia, laddove la presenta come: «donare in nome dell’altro: è quel che libera la responsabilità dal sapere; ecco dunque quel che fa ad-venire la responsabilità a se stessa»28. La logica del dono sottrae l’amicizia ad ogni interpretazione utilitaristica, le imprime una torsione verso ciò 27. M. Blanchot, La scrittura del disastro, tr. it. di F. Sossi, SE, Milano 1990, pp. 161-163. Blanchot è qui molto vicino agli ideali di giustizia ed equità sociale propugnati da Lèvinas nei suoi scritti sulla religione (Cfr. §5.3 e §5.4). 28. J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., p. 87.

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che è e sempre sarà, la richiama alla non reciprocità, alla asimmetria, alla sproporzione, all’ospitalità incondizionata, ovvero all’irriducibile precedenza dell’altro, alla sua pre-venienza. È una logica che pone al riparo da ogni cameratismo, perché invita a pensare l’asimmetria di un dono senza scambio, quindi infinito, sproporzionato in ogni caso, per quanto modesta possa essere la condizione umana segnata sempre dalla finitezza29. Nota giustamente Blanchot che tale struttura sarebbe inconcepibile senza le riflessioni sull’alterità di Lèvinas, al quale va riconosciuto il merito di aver dato un nuovo senso filosofico alla parola “altro”, di averla concepita come trascendenza che obbliga alla responsabilità al di là di ogni obbligazione. Solo in base a tale presupposto si può pensare l’idea del dono non semplicemente come l’atto gratuito di un soggetto libero, ma come qualcosa che si subisce al di là di ogni attività o passività. Una responsabilità paziente giunge fino ad essere l’uno per l’altro, fino alla struttura di “sostituzione”, laddove l’infinito si dà senza potersi scambiare30. L’Io responsabile di altri è un Io senza Io, è la fragilità stessa, è la messa in questione dell’Io come chiusura identitaria poiché: «con la passività della pazienza l’Io non subisce niente avendo perduto, sino alla sua effettiva scomparsa, il potere di un Io privilegiato senza tuttavia smettere di essere responsabile»31. Lèvinas, secondo Blanchot, ha rinnovato il concetto di responsabilità, lo ha salvato dalle banalizzazioni, ha fatto in modo che esso abbia ancora un significato nell’ottica di una filosofia “altra”. Una filosofia del pensiero a-venire e dell’impegno che ribalta il rapporto tra l’Io

29. Ivi, p. 336. 30. M. Blanchot, La scrittura del disastro, cit., p. 128. In merito si rilegga il §5.2. 31. Ivi, p. 140. Corsivo mio.

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e l’altro, che toglie al soggetto la sua pre-potenza, la sua indole assoggettante per aprirlo alla chiamata dell’altro, all’ingiunzione della responsabilità per lui. Senza questa inversione logica ed etica non sarebbe pensabile alcun discorso sull’amicizia, perché essa invita a rispondere alla prossimità del più lontano, alla pressione del leggero, al contatto di chi non ci tocca, è esposizione, radicale passività alla non presenza dell’ignoto32. Lo stesso Derrida ne è consapevole quando sostiene che il legame con l’amico non è solo il nodo di un attaccamento tra due, tra soggetti o volontà simmetriche, ma è sottomissione alla legge dell’altro, un collocarsi entro una disgiunzione e una sproporzione radicata in una fede, in una fiducia più grande nell’altro che in se stessi. L’amico dispone di una fiducia che non ha misura, che non può regolarsi sulla coscienza, che è continua tensione che dipende dall’altro più che da se stessi; è un affidarsi all’altro dimenticando se stessi. Una fiducia eteronomica che eccede i saperi, le coscienze riflessive e le certezze di un ego cogito33. L’altro, in quanto amico, è innanzitutto chiamata alla responsabilità, ingiunzione a rispondere, “autorità asimmetrica” che scuote l’apparente autonomia intima e solitaria del “quanto a sé”. Derrida usa a tal proposito un’immagine evocativa: lo descrive come un foro interiore praticato nell’intimo della coscienza morale, gelosa della propria indipendenza34. La responsabilità implicata nell’amicizia assegna anche un nuovo senso alla libertà, ne evidenzia il fatto che essa ci è assegnata da altro, prima ancora che ogni speranza di appropriazione ci permetta di assumerla come nostra. L’irruzione dell’altro ci immette in un nuovo ordine, fa cenno 32. Ivi, pp. 38-40. 33. J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., pp. 225-227. È qui evidente l’implicita ripresa della “struttura d’ostaggio”, punto cardine del pensiero etico di Lèvinas (Cfr. §5.2). 34. Ivi, p. 296.

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a ciò che viene prima di ogni autonomia, la eccede e la deborda infinitamente. L’amicizia, dunque, in quanto chiamata dell’altro, fa segno al futuro, si declina al futuro, non è mai un dato presente, appartiene all’esperienza dell’attesa, della promessa e dell’impegno. Il suo discorso è simile a quello della preghiera che non constata niente, che non si accontenta di ciò che è, ma si porta nel luogo non-luogo in cui si apre una responsabilità per l’avvenire35. La sfida “aperta” del nostro tempo è dunque sviluppare un pensiero dell’evento come capacità di sostare nella domanda senza anelare immediatamente alla ricerca di un fondamento o di un soggetto assoluto cui appigliarsi. Andrebbe diffusa una pratica di pensiero che sappia approssimarsi alla verità senza pretendere di possederla e dominarla, che veda nell’evento, nel puro accadere, un esercizio di dislocazione continua e, allo stesso tempo, un aprirsi ad un orizzonte infinito di possibilità36. Questa pratica è propriamente etica, perché esorta al coraggio, ad insistere nel tenere aperta una domanda di senso, pur nel non senso dilagante e apparentemente inesauribile, invita a diffidare da tutti i sensi, anche quelli più “alti” che pretendono di accaparrarsi la verità sulla terra, invita a diffidare di questo stesso diffidare, in quanto pensiero radicato sull’evento, sulla fecondità del forse. L’insistere sulla domanda di senso è in realtà un essere domandati, ovvero chiamati e pro-vocati alla risposta, all’esposizione “etica” all’altro da sé. In sostanza è una provocazione a tener luogo nel non-luogo della tecnica, ad abitare il nostro tempo, pur nella consapevolezza della sua possibile deriva37. Il nostro tempo è infatti, non solo, come s’è

35. Ivi, p. 276. 36. C. Sini, L’etica della scrittura, Mimesis, Milano-Udine 2009, pp. 167169. 37. Ivi, pp. 172-173.

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detto sin dall’inizio del nostro percorso, il tempo dell’inquietudine, ma anche quello del rischio e dell’attesa di senso che non annulla, semmai radicalizza, l’esigenza della domanda, il tempo di ripensare nuovi possibili legami tra gli uomini, per non abbandonarsi al non-senso nichilista, ma per aprirsi ad un senso inaudito, cioè ad un senso che precede tutti i sensi, li previene e, al contempo, li sospende, proprio in quanto radicale attesa. Pensiero e pratica d’esistenza risulterebbero così improntati alla chance, al possibile, che vede nell’apertura all’altro l’unica via per cercare ancora una struttura di senso, in quanto senso del mondo38. Bisogna sviluppare dunque un pensiero accorto, prudente, definito da Nancy del passo sospeso, perché consapevole dell’eccedenza della verità che fugge costitutivamente ogni tentativo di appropriazione. La verità è sempre avvolta da un irriducibile mistero, sempre “altra”, perché segnata intimamente dalla differenza, per cui chi intende ricercarla con autenticità non può non fare tale esperienza del differire, che non è solo teoretico, ma primariamente etico, poiché instilla la necessità di comunicarsi l’un l’altro le rispettive esperienze, sempre parziali, di verità, dismettendo ogni abito egemonico e prevaricante39. Se dunque, come ammette lo stesso Nancy, nei nostri tempi il “deserto cresce”, ponendoci di fronte ad un’aridità di senso sconosciuta40, proprio il pensiero di quel popolo abituato alla fatica del deserto potrebbe suggerire, come si è tentato di evidenziare lungo tutto il nostro percorso, una via paradossale, ma feconda per attraversarlo. L’ebraismo non è un residuo arcaico non assimilato dalla modernità, bensì un resto inassi-

38. J. L. Nancy, Il senso del mondo, tr. it. di F. Ferrari, Lanfranchi, Milano 1997, pp. 11-12. 39. Ivi, pp. 22-25. 40. Ivi, pp. 35 e ss.

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milabile che rinvia l’Occidente alla possibilità di un oltre. La peculiarità dell’ebraismo, come si è già visto ampiamente accostandoci a Rosenzweig e Lèvinas, è l’invito constante all’uscita da un’esistenza chiusa, all’apertura all’altro che evita alla civiltà occidentale la deriva in un universalismo totalizzante di stampo hegeliano. L’ebraismo, interrogandosi innanzitutto su se stesso, testimonia la possibilità di un nuovo modo di essere al mondo, non violento, non radicato nel proprio sé e sciolto da ogni vincolo, né pieno di sé e vittorioso su ogni differenza in nome di una libertà assoluta che non si assume alcuna responsabilità. L’ebreo è, al contrario, consapevole del fatto che il mondo non è cominciato da lui e con lui, ma prima di lui, in un passato immemorabile, c’è sempre l’Altro che lo convoca, che lo chiama a rispondere, senza possibilità di scelta, perché la responsabilità precede la libertà. Non c’è bisogno di alcun comando perché l’ebreo possa rispondere “eccomi”41 alla chiamata dell’altro, poiché tale “obbligo” è già inscritto nel suo stesso esserci, nella consapevolezza della dipendenza da Altro. Il pensiero ebraico fa esodo, inverte il cammino, segna la rottura dell’asse tradizionale, palesa che l’altro, sradicando il sé, lo solleva dal peso dell’essere e dalla sua chiusura. Nel dire ciò non si intende, tuttavia, “ebraizzare” l’altro, fare dell’ebreo il simbolo essenziale ed esemplare di ogni alterità. Piuttosto si intende indicare una via “possibile”, non certo l’unica, per sradicarsi dalla chiusura del sé ed aprirsi all’altro da sé e alla responsabilità per lui, perché solo a partire da tale sradicamento etico è possibile pensare il radicamento nel mondo, sia dal punto di vista individuale che comunitario42.

41. Abbiamo già sottolineato la centralità dell’eccomi nell’esperienza religiosa ebraica attraverso le acute riflessioni di Lèvinas sul tema (Cfr. §5.3). 42. D. Di Cesare, Heidegger & sons, cit., pp. 116-119.

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Se si vuole pensare, o meglio ripensare al “politico” come luogo dell’in comune e dell’essere insieme lo si può fare solo nell’ottica della non auto-sufficienza, della dipendenza, dell’interdipendenza, dell’eteronomia e dell’eterologia. Si tratta di andare verso un pensiero e una pratica del legame con l’altro in quanto tale, realizzando un’annodatura che non annulli le differenze ma le preservi, come antidoto agli eccessi della soggettività, un legame che non presupponga la preminenza di uno o più dei poli coinvolti, in base a logiche di bisogno, desiderio, potere o sottomissione, poiché: «l’annodatura non è niente, nessuna res, nient’altro che la messa in rapporto che suppone tanto la prossimità quanto la lontananza, l’attaccamento come il distacco, l’intrigazione, l’intrigo, l’ambivalenza»43. Nancy per far comprendere meglio il senso “altro” della sua prospettiva aggiunge che tale legame: «è questa realitas eterogenea, questa congiunzione disgiuntiva che autentica e dissimula nello stesso tempo»44. Lo spazio etico si apre a partire dalle interconnessioni tra le differenti alterità, senza che un solo legame, una sola annodatura possa dirsi autosufficiente e avanzare pretese totalizzanti. Un’etica in cui ogni soggetto abbandoni la sua presunta autosufficienza ed auto-referenzialità, per aprirsi alla necessità intrinseca del legame con l’altro che chiama alla responsabilità per lui in un “processo” di annodatura infinita, pur nella consapevolezza della finitezza umana. Un’etica che si potrebbe definire, alla stregua di Lèvinas45, della fraternità umana, poiché aspira alla realizzazione della giustizia e dell’uguaglianza sociale, non in base a legami di natura biologica, confessionale o territoriale, ma in virtù della consapevolezza che il legame

43. J. L. Nancy, Il senso del mondo, cit., p. 139. Corsivo mio. 44. Ibidem. Corsivo mio. 45. In merito si rilegga il §5.3 e il §5.4.

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con l’altro, l’apertura a lui, come ingiunzione etica, è antecedente ad ogni legge codificata, ad ogni sentire comune46. Un’etica adatta ai nostri tempi inquieti, a tratti inquietanti, poiché non ha la pretesa di avere verità onnicomprensive o risposte definitivamente risolutive, ma invita a coltivare legami, a praticare la condivisione, nella consapevolezza che ogni atto non porterà mai ad un compimento, semmai aprirà all’accoglienza dell’altro, alla sua amicizia, al suo essere dono ed evento in un comune destino d’erranza.

46. J. L. Nancy, Il senso del mondo, cit., pp. 140-143.

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Indice Prefazione

p. 11

Introduzione

p. 17

I Il tempo dell’inquietudine

p. 23

1.1 Considerazioni preliminari 1.2 L’analisi della Zambrano 1.3 La lotta di Nietzsche II Paolo tra vecchie e nuove Tavole 2.1 Il Paolo storico-escatologico di Bultmann 2.2 I “paradossi” ebraici del Paolo di Buber 2.3 La radice “occultata” del Paolo di Heidegger III Hegel: trionfo e crisi della ragione 3.1 L’antisemitismo teoretico del giovane Hegel e la figura di Gesù 3.2 Cristianesimo filosofico e secolarizzione 3.3 La circolarità della ragione hegeliana IV Rosenzweig: oltre il “circolo” la Stella 4.1 La sfida dalla Ionia a Jena 4.2 Verità ed Evento: Rosenzweig/Heidegger 4.3 Creazione, rivelazione e redenzione: l’alterità dell’esperienza religiosa 4.4 Stella e Croce: la vita e la vita eterna

p. 23 p. 26 p. 36 p. 49 p. 49 p. 67 p. 85 p. 107 p. 107 p. 121 p. 137 p. 153 p. 153 p. 162 p. 189 p. 205

340

V Lèvinas: l’Altro nella responsabilità per l’altro 5.1 Dall’uscita dell’essere... 5.2 All’altrimenti che essere 5.3 Al di là del versetto: l’essenza etica dell’ebraismo 5.4 Aperture al cristianesimo

p. 241 p. 241 p. 254 p. 279 p. 297

Conclusione Per un ethos dell’alterità...

p. 311

Bibliografia

p. 331

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Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 7 - Proposte

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN E-book 9788898694860

È possibile trovare una via d'uscita alla chiusura paradigmatica del logos occidentale, andare oltre l'idea auto-fondativa ed auto-referenziale della ragione che permetta di riscoprire il senso dialogico e relazionale della filosofia come incontro non polemico e non fagocitante con la verità dell’altro, che aspira ad essere esperienza viva e concreta di com-partecipazione delle rispettive “porzioni” di verità? È possibile riscoprire tale alterità come cifra essenziale della spiritualità ebraica e cristiana, come loro punto di incontro e svolta verso un pensiero della responsabilità per l’altro, antecedente ogni libertà e oltre ogni reciprocità,che funga da sprone per la ri-affermazione del valore etico dell'umano e la costruzione di rapporti autentici che ci facciano sentire non “monadi” isolate in balia degli eventi, ma individui che, proprio non nella consapevolezza di vivere tempi incerti e inquietanti, provino a ri-scoprirsi se non “fratelli”, almeno com-partecipi di un comune destino d’erranza?

Guido Bianchini laureato all’Università di Salerno. Da allievo di Vincenzo Vitiello ha approfondito il pensiero paolino e la questione del cristianesimo storico nella modernità e nel dibattito contemporaneo tra filosofia e teologia. Le sue recenti ricerche vertono sul problema teoretico ed etico dell'alterità nei pensatori della “modernità ebraica” come possibile punto di incontro con il cristianesimo. Tiene seminari di pensiero ebraico moderno presso lo Studio Teologico “Madonna delle Grazie” di Benevento.

€ 13,00